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La costruzione della città pubblica

fessionali di architetti e ingegneri in via di formazione e dell’imprenditoria privata, che ebbero modo di contribuire mutuamente alla qualità delle proposte. Per ciò, il Piano Fanfani “è forse e per ora l’ultimo momento nel quale un progetto politico, una specifica politica economica e un insieme di progetti urbanistici e architettonici riescono almeno alla superficie e nonostante una serie di contraddizioni minori, ad essere tra loro solidali e coerenti” (Secchi 2001, p. 152). Con l’esaurirsi del Piano INA-Casa fu varata la legge 167 del 1962 che consentiva ai Comuni di acquisire suoli da destinare alla realizzazione dell’edilizia residenziale pubblica secondo la tripartizione: sovvenzionata (le case popolari); agevolata (essenzialmente le cooperative di abitazione) e convenzionata (quella realizzata dalle imprese e soggetta ai limiti – di prezzo o di canone – imposti dal Comune attraverso la convenzione). I caratteri fortemente connotanti i prodotti INA-Casa in parte si perdettero: “Lo Stato, con la costituzione della GESCAL (Gestione Case dei Lavoratori), finanziava programmi di costruzione che non ebbero più la capacità trainante del Piano Fanfani, tuttavia ebbero ancora un ruolo importante anche per il volume di abitazioni realizzato, e comunque lo si guardi questo periodo compreso tra la fine degli anni Sessanta e la seconda metà degli anni Ottanta, quando giunge a scadenza il piano decennale per la casa contenuto nella legge 457 del 1978, rappresenta la punta più alta dell’impegno dello Stato per la realizzazione di alloggi da destinare ai ceti popolari” (Caudo, Sebastianelli 2008, p. 34).

La costruzione della città pubblica Questo excursus storico è fondamentale per la comprensione del ruolo e del significato che riveste l’edilizia pubblica in Italia, ovvero le aree urbane e gli spazi costruiti e aperti per diretto intervento pubblico che hanno costituito durante il Novecento il tentativo di realizzare “al suolo idee di città maturate lungo i percorsi di ricerca che l’urbanistica ha intrapreso nel suo avviarsi verso la modernità” (Di Biagi 2001, p. 3): non dunque campo di ragionamento sull’architettura ma sugli spazi pubblici urbani, sugli spazi aperti e non costruiti, sull’idea stessa di socialità e urbanità, sul tentativo di occuparsi di fasce di popolazione svantaggiate, in parte lasciate indietro dallo sbilanciato individualismo della società dello Stato liberale italiano, anche per come trasformato dalla allora recentissima costituzione repubblicana. Gli insediamenti di edilizia popolare sono, nella grande maggioranza dei casi, evidenti a occhio nudo: negli scostamenti dal resto dei tessuti urbani per le caratteristiche fisiche e formali che li connotano, per un chiaro ruolo di promozione sociale e di innovazione urbana di cui si fecero carico, a partire dalla stagione di INA-Casa.

Gli esiti principali

L’esito dell’azione pubblica nella realizzazione di edilizia sociale è stato molto eterogeneo e sono differenti le caratteristiche urbanistiche e architettoniche. Sono certamente distinguibili gli esiti del Piano Fanfani, nelle realizzazione iniziali che espressero quello che è stato definito come “neorealismo architettonico” (Portoghesi 1958), prodotto in alcuni esempi specifici1: l’uso di manodopera non specializzata, l’utilizzo di materiali reperibili in loco e utilizzati secondo tecniche costruttive tradizionali locali, derivarono tuttavia in architetture colte, esito di programmi di ricerca che si discostavano dalle elaborazioni monumentali del passato recente e dall’influenza di un certo razionalismo anche brutalista che diede in seguito esiti interessanti e controversi (Henley 2017). Già i prodotti della successiva legge 167/1962 (Salzano 2007) furono molti differenti da quelli del Piano Fanfani: molti si realizzarono con un approccio “razionalista” al problema dell’alloggio e si avvalsero di criteri costruttivi differenti da quelli introdotti durante i settenni INA-Casa. Un ruolo ebbe anche la nascente industrializzazione dell’edilizia e uno sperimentalismo urbanistico e architettonico a volte radicale (Secchi 2005). In molti casi la realizzazione di edilizia sociale in questo periodo è stata occasione di importanti sperimentazioni architettoniche, urbanistiche, financo sociali, specie nelle grandi aree metropolitane del Paese. Solo a Roma per fare un esempio, sono stati predisposti due PEEP (Piano di Edilizia Economica e Popolare), previsti dalla legge per programmare, gestire e pianificare tutti gli interventi riguardanti l’edilizia economica popolare. Il primo fu messo a punto nel corso della redazione del PRG del 1962-65 e fu approvato nel 1964, e nel solo suo ambito furono realizzati i nuovi quartieri di Spinaceto, Laurentino, Casilino, Vigne Nuove e Corviale2 . Alcune realizzazioni, intrecciate con particolari condizioni politiche locali, hanno costituito la scrittura di veri e propri manifesti di alcune posizioni progressiste e radicali. Si debbono citare esempi che hanno in parte condizionato tra gli anni ’60 e ’90 del XX secolo il dibattito disciplinare e la percezione collettiva dell’edilizia pubblica, e anche della capacità dello Stato di garantire insediamenti pubblici di qualità. Ad esempio, Le Vele di Scampia, nate a se-

1 Come M. Ridolfi a Roma e a Terni; il quartiere Tiburtino a Roma progettato da L. Quaroni, C. Aymonino, C. Chiarini, M. Fiorentino, C. Melograni, S. Lenci, F. Gorio, P. Lugli, G. Menichetti, M. Valori, M. Ridolfi, M. Lanza, considerato come l’esempio più cospicuo dell’architettura neorealista; o il Borgo La Martella presso Matera, di L. Quaroni, F. Gorio, P. Lugli, M. Agati, M. Valori (Di Giorgio 2011). 2 “Complessivamente all’interno delle aree del I PEEP sono stati attuati 48 Piani di Zona, a fronte di 73 Piani inizialmente previsti, che hanno consentito di realizzare 379.547 nuove stanze a fronte di 474.184 stanze programmate. Esaurita la spinta propositiva del I PEEP, senza peraltro aver integralmente soddisfatto la domanda di nuovi alloggi da porre a disposizione dei cittadini meno abbienti, l’Amministrazione Comunale ha predisposto il II PEEP, approvato nel 1987, che comprendeva inizialmente 41 nuovi Piani di Zona per una previsione originaria di 186.486 nuove stanze” (fonte http://www.urbanistica.comune.roma.it/pdz.html, Comune di Roma, consultato nell’agosto 2022).

guito della legge 167 del 1962, progettate dall’architetto Francesco Di Salvo (Di Salvo, Fusco 2003), facevano parte di un progetto abitativo che prevedeva anche uno sviluppo della città di Napoli nella zona di Ponticelli: occupate in parte abusivamente, mai completate nel sistema di servizi, isolate dal resto dei tessuti urbani da fasci infrastrutturali, sono da subito divenute un simbolo negativo di segregazione sociale, di scarsa qualità architettonica, di scarsa capacità da parte dello Stato di intercettare i bisogni delle popolazioni svantaggiate, di poca tempestività, di lentezza e farraginosità amministrativa. Il progressivo abbattimento è la soluzione maturata per questo grand ensemble. Storia simile, ma a “lieto fine”, è quella altrettanto paradigmatica dell’infinito volume edilizio del Nuovo Corviale a Roma (Gennari, Santori, Pietromarchi 2006): è un edificio-quartiere formato da due volumi posti uno di fronte all’altro che si snodano per circa un chilometro (novecento e ottanta metri per l’esattezza) e nove piani d’altezza, e da un altro edificio più piccolo, posto orizzontalmente al primo, cui si unisce tramite un ponte. Nel 1972, il disegno viene affidato dallo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), proprietario dell’immobile, ad una vasta e composita équipe di ventitré progettisti diretta dall’architetto Mario Fiorentino; è nel 1975, però, che ha effettivamente inizio la costruzione dell’immobile, i cui primi appartamenti vengono consegnati con sensibile ritardo nell’ottobre 1982. Il comprensorio, costruito in acciaio, pannelli di cemento armato prefabbricati e pareti vetrate, è composto da sei lotti abitati complessivamente da circa seimila persone: un alveare umano formato da mille e duecento nuclei familiari. Con problemi di occupazione abusiva simili a quelli delle Vele, la configurazione fisica del progetto, la vivacità della comunità abitante, una maggiore cura degli spazi di pertinenza e verdi, una maggiore facilità di connessione con altre zone urbane e il robusto investimento periodico di denaro pubblico hanno reso questa enorme unitè d’habitation un esempio controverso di sperimentazione. La sua fortuna è cresciuta nel tempo e grazie a recenti progetti (Modigliani, Bruca 2015) potrebbe divenire un’area dove la sperimentazione urbanistica e abitativa ha infine esito positivo. Tuttavia, accanto a questi casi eclatanti che hanno spesso condizionato il dibattito nazionale, le aree costruite attraverso piani di zona PEEP sono molto numerose e diffuse in tutta Italia, seppure non si sia saputo replicare attraverso esse quel carattere pionieristico esercitato precedentemente dalle realizzazioni del Piano Fanfani.

I caratteri comuni della città pubblica

I principali programmi nazionali di costruzione della città pubblica introdotti sopra (programma INA-Casa, legge 167/1962, legge 865 del 1971 che di quella costituiva un so-

stanziale miglioramento, passando per il decreto sugli standard del 1968, cfr. Falco 1978) depositarono pressoché in tutti i comuni italiani episodi di edilizia sociale che hanno affiancato, qualche volta orientato, le iniziative private, seppure fossero numericamente inferiori: si è trattato di circa il 10% di edilizia pubblica a fronte di un 90% di realizzazioni di edilizia privata (Pittini 2012). Nella grande differenza che corre ad esempio tra il quartiere La Martella a Matera e lo ZEN di Palermo o tra Unità di Abitazione Orizzontale a Roma (Monica 2008) e il quartiere di Sorgane a Firenze (AA.VV. 1968), si possono rintracciare dei caratteri comuni che risiedono sia nel fatto di dover rispondere alla richiesta pressante di alloggi economici nel tempo breve richiesto dall’evoluzione della società di allora, sia anche in alcune caratteristiche progettuali che, nella varietà delle forme e soluzioni assunte, connotano l’insieme della città pubblica. Tali esperienze, con i loro caratteri comuni, hanno contribuito a mutare il territorio italiano e a introdurre soluzioni abitative, consuetudini di convivenza e socialità, livello di servizi, che hanno fatto indubbiamente progredire il livello civile del Paese. Tali caratteri comuni possono essere riassunti, a nostro parere, come segue. Una prima caratteristica riguarda i criteri della localizzazione degli episodi di edilizia sociale, la loro posizione esterna e spesso distante rispetto ai nuclei urbani consolidati dell’armatura insediativa del secondo dopoguerra, il loro insistere su aree non pregiate o marginali e mal collegate. La causa di ciò è da ricercarsi nelle dinamiche fondiarie, per la difficoltà di disporre gli espropri necessari a porre i terreni nella disponibilità pubblica, in un quadro di forte protezione della rendita fondiaria privata. Questa localizzazione periferica si può notare osservando la successione delle cartografie a partire dal secondo dopoguerra: l’urbanizzazione successiva ha raggiunto queste aree, inglobandole e in qualche modo anche pesando su esse, assumendo verso di esse un atteggiamento parassitario, rendendo ad alcuni l’impressione che i quartieri di edilizia popolare pubblica abbiano spesso tracciato la direzione della crescita delle città (De Seta 2017), ma più realisticamente ne hanno subito la violenza3 . Gli interventi si caratterizzarono anche per la loro dimensione rilevante (generalmente più estesi di quelli di iniziativa privata), per la realizzazione di importanti opere di urbanizzazione primaria che ampliarono le reti urbane, consentendo anche la valorizzazione di terreni privati prossimi alle aree di edilizia pubblica, e per le urbanizzazioni secondarie, da subito parte della dotazione molto alta (prevista sempre, anche se spesso non realizzata) dell’edilizia sociale. Sono caratterizzanti anche la scala, le tecniche e le forme dei manufatti, omogenei per linguaggio architettonico nelle diverse aree di edilizia sociale pubblica. Questo rese

3 Questa è una posizione controversa: alcuni autorevoli autori, come Federico Oliva, assegnano questa responsabilità della “dispersione” alla legge del 1942. Cfr. l’utilissima sintesi, che riguarda anche altri punti che qui tocchiamo, “Città e urbanistica tra storia e futuro”, commento a due libri di Cesare de Seta da parte di Federico Oliva, apparso su: http://www.casadellacultura.it/745/citt-agrave-e-urbanistica-tra-storia-e-futuro, consultato nel marzo del 2022.

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