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Il trattamento e il ruolo dei centri storici in Italia, tra ricerca, pianificazione e legislazione
almeno tre motivi: (i) la continuità che essi hanno garantito all’insediamento italiano, (ii) il loro essere dei dispositivi prodotti culturalmente che introiettano, formalizzano ed elaborano spazialmente tradizioni, introducendo continue innovazioni, (iii) il loro progressivo emergere nella modernità e nella contemporaneità come riferimenti rispetto ai quali misurare la qualità di altri tipi di urbanizzazione insorgenti. Il problema dei centri storici emerge così da una tradizione di studi già citata e di piani redatti da figure disciplinari anche molto varie: architetti e urbanisti in primis, ma anche ingegneri, sociologi, figure di amministratori e politici. Studi e piani, opera delle figure citate, interessano a differenti scale anche le porzioni più stratificate e antiche della città italiana2, e questa mole composita di riflessioni si è naturalmente interessata al ruolo che il confronto con i centri storici ha avuto nella nascita ed evoluzione della disciplina urbanistica in Italia (Benevolo 1957; INU 1958; ANCSA 1960; Astengo 1965; Cervellati, Miliari 1977; Videtta 2012 Albrecht, Magrin 2015). Questa ricchezza di temi e di ricerche è determinata da alcune caratteristiche nazionali: • delle politiche di governo del territorio caratterizzate da una produzione documentale e normativa settorialmente avanzata ma anche priva di una direzione chiara, a volte fumose e poco incisive; • l’appetibilità delle rendite posizionali in un sistema insediativo gerarchicamente bloccato; • la varietà ed eterogeneità dei centri storici che ne ha reso difficile un trattamento comune; • le caratteristiche della proprietà degli alloggi, che hanno determinato una certa inerzia nella trasformazione dei centri storici.
Il trattamento e il ruolo dei centri storici in Italia, tra ricerca, pianificazione e legislazione
Dall’Unità d’Italia
L’attività legislativa in materia di urbanistica dell’Italia unita e i primi piani redatti sono concepiti a partire dalla città consolidata, così come del resto in gran parte d’Europa. Il percorso che portò alla legge fondamentale del 1942 fa riferimento principalmente a due leggi: la legge 1865 “Sulla espropriazione per pubblica utilità” e la legge 1885 “Pel risanamento della città di Napoli” (Stella Richter 2020). Queste due leggi hanno da-
2 Per l’accesso a raccolte specializzate di materiali sui centri storici e sulla pianificazione in generale, cfr.: Planum, The journal of Urbanism (www.planum.net), il già citato Istituto Nazionale di Urbanistica (www.inu.it), l’Associazione Nazionale Centri Storici Artistici (www.ancsa.org).
to forma al piano come “collezione di testi” (Gabellini 2001), anticipando quella del 1942. La legge del 1865 prevede un piano regolatore edilizio per l’esistente e un piano d’ampliamento per dare forma alla città nuova in espansione. Emerge già la volontà di discontinuità con la città esistente, che si pensava dovesse essere risanata (e della quale non si era ancora generalmente scoperta la bellezza). Le prime città a dotarsi di piano regolatore, anche utilizzando la nuova norma sull’esproprio, furono le città che succedettero a Torino come capitali del Regno d’Italia: Firenze (nel 1865), Roma (nel 1873 e nel 1883). Napoli e Palermo se ne dotarono entrambe nel 1885. Successivamente furono diverse le città italiane di media-grande dimensione che decisero di adottare il Piano. Questi dispositivi normativi avevano con il centro storico una attitudine modernizzatrice: a Firenze e a Napoli, ad esempio, con le debite differenze (per Napoli fu necessaria una legge speciale, la legge del 1885 già citata), si sostituirono in gran numero le preesistenze, anche di alto valore storico o artistico, con nuovi edifici, nuove piazze, nuove strade. Nel centro antico di alcune città, “da secolare squallore a vita nuova restituito” (come recita l’iscrizione sull’arco di Piazza Repubblica a Firenze, frutto di uno sventramento ottocentesco), potevano consentirsi demolizioni e modifiche anche radicali, mentre la città nuova assumeva le direttrici storiche e si irradiava dal centro. Dagli inizi del ‘900 cambiano le sensibilità e si evolvono gli approcci. Nel ventennio della dittatura fascista (Cutolo, Pace 2016) la contrapposizione tra due importanti figure come Gustavo Giovannoni e Marcello Piacentini assume infatti significati nuovi: nel 1916 Piacentini afferma che occorre lasciare la città vecchia così come si trova e sviluppare altrove la nuova, come egli fece ad esempio a Bergamo (Ciucci 1989). Lo stato fascista da un lato piccona, sventra, demolisce, dall’altro esalta strumentalmente ambienti e tradizioni antiche. Le culture urbane tardo-ottocentesche e quelle del secondo dopoguerra si succedono nel panorama italiano con una singolare interrelazione, come è ben espresso nel testo fondamentale di Gustavo Giovannoni, Vecchie città ed edilizia nuova (1931), una sorta di piattaforma delle riflessioni future sui centri storici. La stessa legge 1089/1939, strumento fondamentale per la tutela delle cose di interesse artistico e storico, avanza una interpretazione del centro storico come entità a sé, isolato dal contesto territoriale e sociale in cui è inserito, rischiando di provocarne un processo di fossilizzazione (Alibrandi 2001). Nella visione veicolata dalla legge urbanistica fondamentale del 1942, che regge ancora oggi le attività di pianificazione in Italia3 ,il centro storico inizia così a definirsi nei piani come un retino di una zonizzazione che lo ha reso equiparabile a una zona omogenea funzionale.
3 La legge del 1942 introduce il concetto di “zona” ma è solo più tardi, come vedremo oltre, che la legge 765 del 6 agosto 1967 istituisce le “zone territoriali omogenee” (art. 17), tra le quali il centro storico.
Il secondo dopoguerra
Le distruzioni belliche furono un fattore potente di avanzamento del dibattito disciplinare. I “piani di ricostruzione degli abitati danneggiati dalla guerra” (DL 145/1945, poi legge 1402/1951), si occuparono quasi esclusivamente di città medio-grandi, lasciando i paesi e i borghi italiani in una sorta di limbo normativo. L’equiparazione del nucleo della città consolidata con il concetto di bene paesaggistico sancito dalle leggi del 1939 provoca in maniera crescente un conflitto permanente sul quale divergono le posizioni culturali e disciplinari (Bianchi 1999). I centri storici, in quanto beni culturali o paesaggistici (Sanapo 2001), stanno al crocevia di diverse discipline e anche da questo deriva il loro estremo interesse già sottolineato (Videtta 2012). I più accorti intuiscono però anche il rischio di una tale posizione, come Muratori che in un testo profetico del 1950 afferma: “prima di ogni altra cosa il centro storico e morale di una città deve essere assicurato alla vita, col mantenimento del suo carattere, che è continuità di funzioni e di ambiente” (Cutolo, Pace 2016, p. 20). La città antica e storica, il centro più datato rispetto alla crescita successiva iniziano ad essere oggetto di specifica attenzione, anche da parte della cultura funzionalista: nel 1951 il Congresso Internazionale per l’Architettura Moderna (CIAM, tenuto a Hoddesdon) è sul tema Il cuore della città. Se fu difficile durante quel congresso trovare un termine che accomunasse le differenti culture europee nella definizione del centro, è in Italia che “la nozione pare assumere un rilievo altrove sconosciuto, costruendo un orizzonte di senso allargato, fino ai limiti dell’ambiguità” (Cutolo, Pace 2016, p. 19). Il convegno di Lucca dell’INU (1957), la scrittura della Carta di Gubbio (1960) e la creazione dell’ANCSA (1960) evidenziano l’insufficienza della strumentazione legislativa. L’evoluzione culturale e la sua declinazione entro la disciplina urbanistica hanno evidenziato come il centro storico sia stato campo di battaglia tra le dinamiche di mercato (Ceccarelli, Indovina 1977) che tendevano ad evidenziarne il pregio posizionale, e concezioni del centro storico come patrimonio da tutelare. Se la percezione che si dovessero preservare le strutture urbane consolidate ha permeato infine pressoché ogni atto di governo del territorio (Astengo 1965; Cervellati, Miliari 1977) l’attività legislativa arranca, tentenna, è contradditoria: intanto il paese cresce, si sviluppa, si urbanizza. Nel 1967 la Commissione Franceschini4 vara una definizione tutt’altro che precisa dei centri storici che non aiuta l’azione normativa: “sono da considerare centri storici urba-
4 La legge 310 del 26 aprile 1964 istituì, su proposta del Ministro della Pubblica Istruzione, una Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, che concluderà i suoi lavori nel 1966. Conosciuta anche come “Commissione Franceschini” dal nome del suo presidente, Francesco Franceschini, la commissione formula proposte suddivise in 84 Dichiarazioni.
ni quelle strutture insediative urbane che costituiscono unità culturale o la parte originaria e autentica di insediamenti, e testimonino i caratteri di una viva cultura urbana”5. Questa definizione accorpa una serie di aspetti differenti e “la strada verso l’incertezza normativa (…) è aperta” (Videtta 2012, p. 22). Dal territorio intanto arrivano segnali preoccupanti: la frana di Agrigento e le alluvioni di Firenze e Venezia nel 1966 (Salzano 2007). Lo stato tenta di legiferare: nel 1967 appare la locuzione “centri storici” all’interno di uno specifico articolato normativo, la legge “ponte” 765/1967, seguita l’anno seguente (1968) dal DL 1444 sugli standard che istituisce la ZTO (Zone territoriali Omogenee). Tra le zone omogenee, il centro storico è ben saldo al primo posto (Zona A): da allora i piani individuano queste zone, sovente con criteri poco chiari o comunque legati a delle considerazioni spesso contingenti e discutibili, in ragione della vaghezza definitoria. Nel contesto della legge 865/1971 che regola l’esproprio per IEEP (Istituti di Edilizia Economica e Popolare) anche all’interno dei centri storici (Acocella 1980) e della creazione di GESCAL (GEStione CAse per i Lavoratori) del 1972, nel 1973 il Piano per l’Edilizia Economica e Popolare di Bologna apre un interessante dibattito, sulla scia di posizioni già difese ad esempio da G.C. Argan, il quale affermava negli anni ’50 (insieme ad altre figure della levatura di Antonio Cederna) che i centri andavano conservati nella loro natura di luoghi di residenza “popolare”. A livello internazionale l’UNESCO (fondata nel 1945), il Consiglio d’Europa (1949) e l’ICOMOS (1965) dirigono la loro azione su temi simili, ponendo attenzione a non scindere la conservazione della città intesa come urbs (la parte fisica della città) dall’esistenza della civitas (la componente sociale della città). Proprio dall’attività del Consiglio d’Europa nasce la Carta di Amsterdam, sigillo alle iniziative legate all’Anno del Patrimonio Architettonico Europeo nel 1975 (Schmid 1982): “L’anno del patrimonio farà entrare con forza nella coscienza collettiva il valore dei contesti antichi e confermerà con il linguaggio e gli strumenti dell’analisi storica e urbanistica, quello che la crisi petrolifera del 1973 e il surplus di vani realizzati nei decenni precedenti hanno già sancito, vale a dire la ‘fine della crescita’ in favore di un nuovo imperativo: il riuso e la cura dell’esistente” (Cutolo, Pace 2016, p. 48). Questo recupero è formalizzato in Italia nel 1978 con la legge 457 (“Norme per l’edilizia residenziale”): i piani di recupero divengono lo strumento per l’intervento nei centri storici, per la conservazione, il risanamento, la ricostruzione, sempre a fini residenziali, sebbene con forti limiti di linguaggio e di efficacia. Dagli anni ‘80 del XX secolo i centri storici sono oggetto di crescente attenzione: dopo il 2004, con il Codice Urbani – decreto legislativo
5 Atti della Commissione Franceschini (1967) (www.icar.beniculturali.it/biblio/pdf/Studi/franceschini.pdf), consultato nel giugno 2022.