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Trasformazioni circoscritte e modificazioni diffuse

ne per fasi”, sperimentata nelle sue esperienze progettuali alle Barene di San Giuliano a Venezia3 che ci appare straordinariamente interessante anche rapportata alle elaborazioni successive di Christopher Alexander (Alexander 1997), che operavano anch’esse tramite una sorta di patterns che si riconfiguravano, simulando un processo incrementale e “adattivo” rispetto al contesto e alle trasformazioni per fasi. L’esperienza muratoriana è interessante, così come la disseminazione delle sue riflessioni: “Non c’è dubbio che Saverio Muratori abbia ricavato dall’esperienza della ricostruzione in Italia nel secondo dopoguerra, non certo fallimentare ma senz’altro frammentaria e incerta nelle sue finalità, e nelle sue priorità, l’esigenza di ricostruire l’idea di città. […] Le certezze muratoriane sono tutte all’interno di un triangolo teorico […] costituito, rispettivamente, da una critica del problema del linguaggio così com’era stato posto, in successione storica, dall’estetismo, dall’espressionismo e dal funzionalismo; dalla riconduzione della questione del linguaggio sull’alveo naturale della città, entità capace non solo di legittimare l’architettura ma soprattutto di garantirle la continuità; dalla riproposizione, in termini teoricamente ineccepibili, dell’idea di tipo architettonico come anima di qualsiasi manufatto, come intenzionalità, come a priori del progetto, paradigma di tutto ciò che c’è di valutativo nell’architettura opposta ad una sua riduzione a dispositivo combinatorio, ad involucro distributivo. L’idea di tipo, allora, in quanto sedimento collettivo di conoscenze quasi inavvertite ma profonde, ‘inconscio’ della città, memoria genetica del tessuto ma anche codice dei manufatti eccezionali, entità superiore alle variazioni ma anche produttrice di queste, cioè riproposta come luogo centrale della questione del progetto, asse portante dell’architettura” (Purini, 1990, p. 28). Le posizioni riportate sono fondamentali anche per decifrare alcune particolarità delle elaborazioni maturate in seno alla Facoltà di Architettura di Firenze, come quelle della “scuola territorialista” (cfr. il capitolo Il progetto patrimoniale, in questo volume).

Trasformazioni circoscritte e modificazioni diffuse Alla luce di quanto illustrato anche in altre sezioni di questo libro (cfr. il capitolo Il progetto dei centri storici), sono almeno tre i grandi movimenti che trasformano negli ultimi

3 Anche esperienze alla scala territoriale sono preziose per ricostruire questo nesso: “The first opportunity to put the typological method into practice arose for an extended group of assistants in Ethiopia in 1964 where some 22 towns had to be planned. In this case, interpreting Ethiopian territorial formation processes provided the conceptual key to formulating individual town plans. These were encapsulated in a single synoptic chart: a classic Muratorian procedure. Alessandro Giannini, in a series of articles, has left us a written record of these experiences, which is important scientifically and as a hystorical record of a vanishing post colonial world” (Muratori G. 2002, p. 7).

decenni del XX secolo il territorio italiano (Lanzani, 2003) e che hanno determinato l’emergere di posizioni articolate sul progetto contestuale. Un primo movimento converge sul tema del progetto urbano di sostituzione: un filone maturato tra gli anni ‘80 e 2000 del ventesimo secolo (Selicato, Rotondo 2010) che ha assunto un ruolo centrale nella trasformazione della città italiana ed europea. Un grande numero di progetti di riqualificazione urbana (poi di rigenerazione urbana) hanno costellato le grandi e medie città, interessando quelle aree industriali anche prossime ai centri storici che hanno cessato la loro funzione produttiva in virtù di necessari e pressoché impossibili adeguamenti funzionali e ambientali, o di delocalizzazioni delle produzioni dovute a dinamiche opportunistiche di globalizzazione economica. Un venir meno di funzionalità che ha interessato anche aree militari, oltre che della produzione bellica, e ferroviarie (per il ridimensionamento e riconfigurazione dello spostamento delle merci e delle persone su ferro) (Mussinelli, Marchegiani 2012), che ha comunque determinato la necessità di ripensare (spesso da parte degli attori privati che le possedevano) intere porzioni di aree urbanizzate con la prevalente preoccupazione di esaltarne la rendita del valore posizionale. L’elenco delle aree così trasformate è lungo4: ad esempio nel vecchio triangolo industriale di Milano, Genova e Torino con gli esempi maggiori di Bicocca a Milano, Lingotto a Torino e dell’industria siderurgica e cantieristica di Genova. Ma anche nel resto di Italia, nelle grandi aree metropolitane centro-meridionali come Roma, Napoli e Bari, e nelle tante città medie italiane, il progetto urbano di sostituzione è molto diffuso. L’ondata di riqualificazione urbana è stata massiccia, con esiti controversi, con una progettazione dalle frequenti connotazioni post-moderne che hanno sovente visto attecchire interventi di dubbio valore urbano e architettonico (Franz 2001). Un secondo movimento in parte sovrapposto a quello “di sostituzione”, ma di dimensioni incomparabilmente maggiori, è quello che ha visto il fiorire di varie forme di diffusione (Indovina 1990; Boeri, Lanzani, Marini 1993), un fenomeno pulviscolare che deve essere considerato anche nelle sue forme minute e singole, che qui accenniamo solamente per alcuni aspetti: • il proliferare di nuove aree industriali appena fuori dalle aree urbane di tantissimi comuni (Neri Serneri, Adorno 2009), realizzate velocemente, spesso con insufficienti collegamenti infrastrutturali e scarse attrezzature ambientali (discariche, collettori di acque, depuratori, inceneritori). Queste aree sono ora un’eredità pesante da elaborare (Borsari et al. 2007),

4 Cfr. il ricco sito web dell’Associazione Italiana Aree Dismesse : http://audis.it/home/home/, consultato il 20 luglio 2021.

anche per l’apporto non omogeneo che danno alla produzione manifatturiera, per forme di riutilizzo che fanno concorrenza impropria alle aree commerciali, per il difficile contributo alla logistica che in poco tempo ha richiesto superfici ben più ampie e specializzate degli aggregati di capannoncini prefabbricati costruiti nelle zone produttive comunali mal collegate; • la diffusione della seconda e terza casa (al mare, in collina, in montagna, in campagna), in una nazione che ha programmaticamente incoraggiato la creazione di un ceto medio-basso di proprietari immobiliari, a costo di procedere progressivamente a svariati condoni per recuperare gettito fiscale da attività edilizie consentite in deroga agli strumenti urbanistici, e per poter legalizzare, ovvero rendere possibile, la commercializzazione di edifici e stanze costruite fuori dalle regole (Berdini 2010); • le trasformazioni diffuse delle attrezzature specializzate: shopping mall, cinema multisala, outlet, stazioni di alta velocità, stadi, centri di logistica per la grande distribuzione e il commercio etc., hanno continuato certamente a modernizzare alcune funzioni, ma anche ad espandere il livello di diffusione dell’urbanizzazione. Un terzo movimento, forse più limitato, ma molto importante rispetto alle conseguenze (difficili da valutare) sulla città italiana consolidata, riguarda la trasformazione dei centri storici (cfr., il capitolo Il progetto dei centri storici, in questo volume). I due movimenti precedenti (sostituzione delle funzioni nelle aree dismesse ed estensione dell’urbanizzazione) hanno avuto anche un impatto importante, imprevisto e ancora poco studiato sui centri storici, una delle componenti principali della armatura territoriale in Italia. Le principali conseguenze sono state le seguenti: • gentrificazione (Lees 2006) in centri urbani di diverso rango particolarmente pregiati dal punto di vista storico architettonico; • specializzazione turistica (D’Eramo 2017) con conseguente espulsione di attività diverse da quelle del loisir di consumo, in città anch’esse di differenti dimensioni (Venezia e Firenze, ad esempio, ma anche centri come San Gimignano, Alberobello,

Alghero); • abbandono di vaste porzioni di tessuti storici nelle città meridionali (come Palermo,

Taranto, Sassari) ; • occupazione dei vecchi tessuti da parte di nuove popolazioni precarie e di recente immigrazione attratte dai prezzi bassi dell’alloggio e dalla prossimità al lavoro poco qualificato; • infine, una importante perdita di residenti, trasferiti verso le cinture urbane meno dense, ma anche un diffuso abbandono dei centri medio piccoli (borghi) nelle realtà

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