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Introduzione

Genova (fotografia di Massimo Carta).

Introduzione L’accelerazione delle trasformazioni urbane in Italia nel XX secolo ha comportato l’assunzione di responsabilità delle discipline del progetto e la loro ambizione a determinare la qualità del cambiamento1: così il termine “progetto”, nel campo urbanistico, è usato per definire di volta in volta o la dimensione operativa del piano urbanistico (attraverso piani attuativi, di comparto o progetti urbani) o più spesso la realizzazione di architetture più o meno complesse e articolate, che giustapposte tra loro a partire da strutture insediative pre-esistenti, hanno determinato interi brani di città, diversamente connotati. Anche a partire dalle ambiguità della legge urbanistica del 1942, le cui intenzioni iniziali erano orientate a dare maggiore peso ai progetti attuativi entro il quadro del piano regolatore generale (Colarossi, Latini 2007), è rintracciabile nel dibattito nazionale una strumentale (e a volte disorientante) distinzione tra piano e progetto, che assegna al primo (che opera in una complessità maggiore) il compito di delineare un nuovo assetto del territorio senza esplicitarne le qualità spaziali e morfologiche alle differenti scale, al secondo (il cui contorno è più preciso) la realizzazione di alcune trasformazioni con l’assunzione di scelte formali, morfologiche e tipologiche. Questa distinzione ha dato al termine progetto un significato che pare legarlo alla maggiore precisione nella formalizzazione (e rappresentazione) della trasformazione. Ma il termine (specie nell’accezione di progettazione urbana) assume nuovi significati e un nuovo peso nei primi decenni del XXI secolo, per una strutturale modificazione delle condizioni della disciplina urbanistica verso il “governo del territorio” (Gaeta, Janin Rivolin, Mazza 2013). In Italia, anche forse per alcune ambiguità insite nella legislazione nazionale (Colarossi, Latini 2007) e per il peso che la cultura architettonica ha sempre avuto nel campo dell’urbanistica (Sica 1985), si è svolta una battaglia disciplinare molto fertile, tra cosa fosse e come

1 Qui, come ben sottolinea Purini, appare centrale il termine città nel ragionamento sul rapporto tra dimensione urbana e architettura: “dalla riconduzione della questione del linguaggio sull’alveo naturale della città, entità capace non solo di legittimare l’architettura ma soprattutto di garantirle la continuità” (Purini 1989, pp. 5-7). La continuità nella città, può essere il punto di svolta e rottura, sul quale Secchi molto rifletterà nei suoi scritti, ad esempio, in Secchi 2005. Cfr. inoltre, più recentemente, Wolfrum, Janson 2019.

dovesse essere concepito il piano (o l’attività di urban planning) con i suoi spesso sovradimensionati quadri analitici, con i suoi frequentemente debordanti documenti politico-programmatici, e cosa fosse e come dovesse essere concepito il progetto (o l’attività di urban design), con il suo portato troppo sovente autoreferenziale. Questa querelle tra piano e progetto ha reso per alcuni decenni – tra il 1948 e il 1977 almeno – la riflessione disciplinare italiana estremamente interessante per gli studiosi stranieri, specie in tre campi ove si è tentata la sintesi delle rispettive posizioni: nel campo della uniformazione, ovvero la volontà di affermare un livello di pianificazione omogeneo e un livello accettabile di formazione degli addetti ai lavori, che potesse garantire un mosaico nazionale di strumenti regolativi con una minima coerenza e comparabilità, per non dire efficacia; nel campo della storia, o meglio nel tentativo di dedurre da essa delle regole capaci di orientare le trasformazioni del territorio senza tuttavia determinarle sic et simpliciter; nel campo del tipo inteso come deposito della storia nel presente, sedimento collettivo di codici, saperi, consuetudini, memorie da riattualizzare nel progetto (Dematteis 2002). Per una urbanistica codificata e per quanto possibile omogenea (che ambiva ad essere giusta, democratica, egualitaria), per una azione disciplinare che si voleva connotata e riconoscibile, negli anni dal secondo dopoguerra si erano spese figure di altissima levatura come Giovanni Astengo (Di Biagi, Gabellini 1992). Egli, anche operando delle riduzioni omogeneizzanti degli elaborati di piano prodotti in Italia per diffonderli sulla rivista dell’INU Urbanistica, che per tanto tempo diresse, contribuì ad una codificazione della disciplina che travalicò la semplice formalizzazione grafica degli elaborati, divenendo simbolo della volontà di trovare dei linguaggi e delle modalità universali e uniformi per tentare di affrontare l’estrema diversità dei territori. Allora per Astengo, il problema era infatti concentrarsi non sulle situazioni locali, ma tentare di condurre quei contesti locali a un livello accettabile di codificazione per fare intervenire efficacemente le regole del piano razional-comprensivo (Baldeschi 2002). A questo modus operandi – che ha informato la legislazione e la pratica in Italia a partire dal secondo dopoguerra, che ha restituito spesso l’immagine di un territorio isotropo, che non ha posto particolare enfasi sulle dinamiche storiche e che non si preoccupava di rappresentare le peculiarità locali – si è opposta una tensione specifica della disciplina italiana, spesso di matrice architettonica, ovvero la considerazione dell’importanza degli aspetti morfologici e delle qualità spaziali delle singole città nel discorso urbanistico (Caniggia 1976; Caniggia, Maffei 2008; Magnaghi 2010). Un approccio seminale a questi aspetti lo ebbe la “scuola muratoriana” (Cataldi 1998; Muratori G. 2002) che ha fortemente contribuito a fare avanzare la riflessione sui fronti

per noi particolarmente interessanti del tempo e del tipo2. Tentativi di includere nel progetto urbano la considerazione di specifici “fatti urbani” a forte connotazione morfologica furono compiuti successivamente da Aldo Rossi (Aymonino 1965; Rossi 1966), insieme alla definizione dei “territori dell’architettura”, ovvero la presa in conto entro il progetto architettonico di dimensioni più ampie del manufatto (Gregotti 2008). Questi sono alcuni fattori (forse i più importanti) di una riflessione nazionale sul progetto urbano che ha avuto altre espressioni altissime al confine tra “architettura e urbanistica” come Giancarlo De Carlo (De Carlo 1964). Il problema posto da Muratori è il seguente: nella prima metà del XX secolo, in Italia ma non solo, “urban planning and urban design theory systematically ceased to be cultural devices deeply rooted in history” (Muratori G. 2002, p. 3). Questa rottura, se aveva a che fare con l’introduzione di quella cultura positivista nella pianificazione che si è vista sopra – aggravata dalle urgenze della ricostruzione e, forse, dalla costruzione di un nuovo Paese – per Muratori ne impoveriva il portato e l’efficacia. Solo una sistematica e diremmo codificata conoscenza della storia poteva restituire un ruolo centrale al progetto urbano (ciò che più chiaramente fuori dell’Italia era indicato con urban design). Muratori, negli anni tra il 1944 e il 1946, elabora il pensiero complesso di una città concepita come organismo vivente e insieme opera artistica frutto di lavoro collettivo. L’idea che pianificare e progettare nuovi edifici debba essere fatto in continuità con la cultura costruttiva del luogo è resa con la locuzione di storia operante che riprenderà nel suo famoso libro su Venezia (Muratori 1960). Nelle sue esperienze di progettazione provava profonda insoddisfazione per “the evident conceptual gap between the plans of the entire quarters and those of works of architecture” (Muratori G. 2002, p. 4): l’alta qualità insita in alcune architetture non corrispondeva a un’idea di urbano introiettata in quelle stesse opere che fosse altrettanto integrata ed efficace per l’ambiente della città. Nella sua elaborazione, e in quella molto estesa di alcuni dei suoi discepoli (Muratori G. 2002), appaiono ricorrenti e ben esplicitati alcuni temi: l’insufficienza in termini di armonia, di qualità, di senso e integrazione tra l’opera architettonica in sé e la qualità del disegno urbano conseguente; l’elaborazione fondamentale sui concetti di tipo, tessuto, organismo e storia operante; l’importanza della “pianificazio-

2 “Il rapporto tra storia e progetto; il tipo edilizio come sintesi a priori e la sua origine concettuale come problema proprio della filosofia dell’arte e non come decantazione degli studi sul tessuto urbano di Venezia e Roma; la visione ciclica della storia con il totalizzante affresco delle crisi civili ricorrenti; l’articolazione crociana dei gradi dello spirito calata in una fenomenologia di stampo hegeliano; la ‘lettura’ del reale come privilegiata dimensione progettuale: tutte peculiarità del pensiero muratoriano che non possono ( …) essere considerate quali semplici argomenti tematici. Esse debbono essere viste come elementi di una costruzione metodologica e concettuale, innervata con la vita e la dimensione esistenziale stesse di Muratori; ciò perché nutrite dal prolettico sogno di una totalità etica dell’architettura come inverazione dei valori permanenti della civiltà” (Pigafetta 1990, p. 23).

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