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Limiti della società, limiti del piano, limiti del progetto

vati; dall’articolazione della rete spaziale, più che dal suo tracciato, maglie, gerarchie e regole; dai modi secondo i quali i diversi tipi stradali ricorrono, si giustappongono, si innestano l’uno nell’altro ripetitivamente o secondo sequenze che non necessariamente si rifanno a disposizioni gerarchiche; dai modi secondo i quali i diversi tipi stradali si articolano ai differenti tipi edilizi o comunque all’edificato, senza che questo necessariamente sia tipizzato; agli spazi di sosta, ai giardini, ai parchi, alle piazze, ai parcheggi” (ibidem, p. 134).

Limiti della società, limiti del piano, limiti del progetto Nonostante le lucide riflessioni di tanti geografi, architetti, urbanisti, si è determinata nei primi due decenni del XXI secolo una grande difficoltà della disciplina (come “vasto insieme di pratiche” che di tutti questi campi è chiamata ad occuparsi, Secchi 2000) a dare risposte ai problemi e ad incidere fattivamente sulle dinamiche di trasformazione, difficoltà espressa apertamente nel dibattito estremamente franco e riflessivo svolto ad esempio in seno all’INU e più tardi alla SIU5 (Munarin, Velo 2016). La risposta pianificatoria e progettuale ai problemi via via emersi e circoscritti è stata debole, spesso in ritardo sulle trasformazioni. Si è assistito così (per quello che qui interessa) a un indebolimento diffuso del controllo della generale qualità urbana non solo delle nuove realizzazioni (in termini di precisione del disegno e di efficacia funzionale) ma anche un mancato adeguamento e cura delle parti consolidate della città, e delle porzioni più antiche di queste, nonostante fossero interessate da alcuni regolamenti specifici (ad esempio decreti di vincolo ministeriale, regolamenti UNESCO). Anche queste parti hanno vissuto (e stanno vivendo tutt’ora) uno sfasamento tra le molteplici pressioni di trasformazione e le risposte consentite dalle pratiche disciplinari, spesso in ritardo e poco adeguate (cfr. il capitolo Il progetto dei centri storici, in questo volume). Se appare poco utile ricorrere alla tesi che le colpe siano da addossare genericamente ad una “cattiva urbanistica” (Agostini 2018), è certo che rimane una certa farraginosità degli strumenti urbanistici e che ci siano stati forti limiti delle rappresentazioni disciplinari a cogliere la gravità di alcuni mutamenti. Ma soprattutto è mancata, in generale, la capacità di programmazione a medio-lungo termine e un progetto condiviso di società, mancanza che ha toccato tutti i campi della vita sociale, compresa l’urbanistica. Sono così state deboli le politiche fiscali e il controllo ambientale, sono stati sopraffatti uffici, enti,

5 Per una panoramica dell’attività di queste due importanti realtà associative, cfr. i rispettivi siti web: www.inu.it e https://siu.bedita.net/.

professionalità che si sono dovuti occupare della più disordinata, imponente, inarrestabile crescita insediativa della storia della città. A dinamiche simili, forse speculari, è stato sottoposto d’altronde anche il mondo rurale, certo sopraffatto dall’urbanizzazione ma prima ancora da una incapacità di prevedere o orientare il proprio futuro nel seno della mutazione radicale della società (Bevilacqua 1990; Pazzagli 2013). Tuttavia, (i) la necessità di tenere insieme tempo (accumulazione) e progetto (modificazione) in un assetto generato da programmi funzionali di breve respiro e a volte addirittura vaghi, (ii) la creazione di brani urbani dilaniati dalla velocità e dalla approssimazione della crescita, (iii) la tendenza inesorabile alla specializzazione e separazione anche in seno ai tessuti storicamente formati, (iv) la difficoltà ormai manifesta di gestire l’insieme delle trasformazioni dei comuni italiani o di loro aggregazioni tramite il PRG nelle sue declinazioni regionali, (v) la mancanza di risorse e di visioni condivise, tutto ciò ha prefigurato la necessaria mutazione dell’urbanistica contemporanea (Gabellini 2018), in virtù dell’indebolirsi dei rapporti tra decisioni pianificatorie generali e soluzioni puntuali di progetto. L’efficacia di alcune forme dell’azione disciplinare appare così molto debole: il piano come tradizionalmente inteso e articolato secondo la legge fondamentale del 1942, con la sua forte matrice razional-comprensiva, il suo operare gerarchico “a cascata”, le persistenti differenziazioni per campi disciplinari, la sua ambigua delimitazione tecnico-politica, il suo farraginoso carattere a-temporale, non sembra più in grado di governare (e tanto meno orientare) le trasformazioni (Baldeschi 2002). Si è cercato di trovare altri strumenti e metodi capaci di supplire alle insufficienze del piano tradizionale: incorrendo nell’inconsistenza dei piani strategici, fortemente suggestivi e a forte componente retorica, ma deboli nell’incidere sulle politiche reali (Curti, Gibelli 1996); confidando che una solida definizione di quadri strutturali spesso selezionati semplicemente in base alla loro durata (Cinà 2000; Magnaghi 2001) di per sé riuscisse a rafforzare la dimensione più propriamente operativa (Lingua 2014). Ciò non ha fatto che aumentare lo scarto tra i prodotti di pratiche disciplinari lente a reagire con il loro armamentario non aggiornato (i piani), un accademismo che si è sovente disperso ai limiti dei propri recinti disciplinari perdendo la presa sulle pratiche, e le subitanee trasformazioni delle città. Sempre più frequentemente queste trasformazioni sono proposte e portate avanti tramite la realizzazione di singoli episodi di trasformazione urbana a complessità ridotta, fortemente spinti dalla rendita fondiaria, impossibilitati (o incapaci) di farsi carico di una visione di insieme per altro assente, che sola avrebbe consentito di distribuire vantaggi, sia dal punto di vista sociale che anche di semplice elevazione della qualità degli spazi pubblici.

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