N°10 novembre 2012

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La peste silenziosa di Beniamino Piscopo

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Inceneritore di Parma: ma qualcuno andra' in galera? di Federico Ticchi

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Pane e ammoniaca di Novella Rosania

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Petrolchimico di Gela: una delle zone piĂš inquinate al mondo di Sara SpartĂ

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Vita? No grazie. Basta il lavoro. di Giovanni Frascella

La redazione: redazione@diecieventicinque.it http://www.diecieventicinque.it/

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La peste silenziosa di Beniamino Piscopo Esiste un ciclo di smaltimento dei rifiuti, esiste ed è efficiente. Una conversione che non è figlia della chimica, ma che porta i veleni fetidi di mezza Europa a trasformarsi in azioni. Ricicla le tonnellate di immondizia che ingozzano ratti e vermi in investimenti, denaro, voti. La plastica diventa capitale sociale, il vetro diventa cemento e palazzi, gli scarichi cancerogeni e mortiferi delle fabbriche diventano più preziosi dell’oro. È il business del veleno. Esiste, e ha il suo baricentro in Italia, dove la morte diventa profitto e la vita, le nostre vite, hanno il prezzo di dieci centesimi al chilo per rifiuti tossici. Negli ultimi quindici anni, le imprese di smaltimento dei clan, hanno intombato a prezzi fuori mercato, una quantità di rifiuti nocivi nelle campagne casertane che, disposta per esteso, coprirebbe un territorio vaso come il Piemonte. Sta avvenendo tutto sotto i nostri occhi e sotto i nostri piedi, mentre i nostri corpi lentamente marciscono. Il tratto di terra tra Nola, Acerra e Marigliano, un tempo zona cruciale per l’agricoltura e l’allevamento campano, era noto per essere uno dei più fertili d’Italia, con caseifici e consorzi di allevamento

che esportavano in tutto il mondo. Nel 2004 la prestigiosa rivista scientifica “ The lancet” ha definito quel tratto di terra il triangolo della morte, dimostrando come lo sversamento di rifiuti tossici fosse stata la causa del deperimento ambientale di quel territorio. Una delle prove, ha scritto la rivista, è stato il ritrovamento nel sangue di bambini malati di leucemia, di concentrazioni di PCB, sostanza prodotta da industrie chimiche non presenti nella zona. Altri studi hanno dimostrato come i roghi illegali appiccati dalla camorra per bruciare i rifiuti non intombati, abbiano rilasciato una quantità così elevata di diossina da provocare malformazioni genetiche in grado di causare invecchiamento precoce delle cellule e quindi morte prematura. E sempre più spesso, uno dei tanti danni della diossina, è la malformazione o il mancato sviluppo dei feti. Un processo silenzioso, che non fa rumore e che non finisce in televisione e sui giornali. Nei talk show si parla di primarie e di alleanze, di rottamare, si inscenano i soliti bisticci vuoti e fasulli. In tv non ti dicono che la Campania è la regione più inquinata dell’Europa occidentale, che il tasso di cancro da Caserta a Salerno è salito negli ultimi

dieci anni del 35%. In tv non mostrano i reparti di oncologia di tutta Italia pieni di giovanissimi, sempre più spesso bambini e soprattutto del sud, imbruttiti e sfigurati dalle chemio. File interminabili di persone che partono ogni notte dalle zone più disparate dell’Irpinia o della Lucania, per sottoporsi a terapie che logorano le ossa e spezzano i muscoli, queste sono le nuove file di appestati. Perché è proprio così che ci si è abituati a vivere, a convivere, nelle terre del Sud, a Nola, Acerra, Marigliano, come in un nuovo medioevo. Convivere con la consapevolezza che prima o poi arriverà il tuo turno o quello di un tuo caro. Sai che morirai di una peste silenziosa che ti nasce dentro e ti divora. Sai che quando te ne accorgerai, quando inizierai a pisciare sangue e vomitare pezzi dei tuoi polmoni, sarà già tardi. Esiste un ciclo di smaltimento dei rifiuti, si concretizza nell’avvelenare la propria terra, nell’avvelenare i propri figli. Nel dare un prezzo a qualsiasi cosa, nell’ottica che tutto può essere venduto e comprato perché nulla ha valore. Ma quello che è stato tolto per sempre non ha prezzo, perché la bellezza non ha un prezzo. Quella di una terra tradita, di una terra avvelenata e stuprata, una terra che non tornerà mai più come prima.

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INCENERITORE DI PARMA: MA QUALCUNO ANDRA' IN GALERA? di Federico Ticchi

La situazione è un po' confusa. Ci può chiarire quali sono gli elementi a Ne è abbastanza sicuro Andrea Marsiletti, giudizio e a che punto si trovano le direttore della testata online Parmadaily e diverse controversie? Alicenonlosa, che ha avuto il merito di Gli aspetti legali evidenziati già dal 2010 aver scoperchiato il vaso di Pandora dagli avvocati Allegri e De Angelis sull'inceneritore. Gli chiediamo di riguardano vari aspetti: la mancanza del chiarirci le idee attraverso una serie di permesso a costruire (ovvero l’abuso domande. edilizio del cantiere), l’affidamento senza

Procura ha fatto appello in Cassazione. Non rimane che attendere . E’ evidente che un eventuale sequestro sarebbe letale per il forno e qualcuno dice anche per Iren, una società con il titolo in Borsa in caduta libera indebitata per circa 3 miliardi di euro. La campagna elettorale di Pizzarotti si è fondata molto sull'opposizione

L'inceneritore di Parma è stato la star di queste ultime amministrative parmensi. L’attuale sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, ha manifestato espressamente la sua contrarietà all'opera facendone la propria bandiera programmatica e cavallo di battaglia per la buona amministrazione. C’è chi dice che lo stesso Bernazzoli, candidato sindaco per il Partito democratico e sconfitto poi al secondo turno dall'esponente del Movimento Cinque Stelle, abbia perso una buona fetta di elettorato del centro sinistra proprio a causa della sua posizione favorevole a quell'intervento. L'inceneritore di Parma ha idealmente contrapposto i poteri forti, gli industriali e molti partiti, ovviamente favorevoli alla costruzione del sito, ai semplici cittadini, che hanno a cuore il buon vivere della propria comunità, che privilegiano il rispetto dell'ambiente e della propria salute rispetto ai profitti. Chi è coinvolto? Da una parte abbiamo IREN, la multiutility dell’energia nata dalla fusione tra Enia e Iride che opera nel nord Italia, appaltatrice dell’inceneritore; dall’altra parte si trova l’amministrazione comunale di Parma e comitati di cittadini che si oppongono alla costruzione dello stesso inceneritore. Indipendentemente da quello che si prova per il cosiddetto “grillismo”, è evidente che la vittoria di Pizzarotti abbia portato scompiglio nei piani programmatici industriali della comunità parmigiana. Iren, che è una s.p.a sostanzialmente pubblica, in quanto l'assetto azionario vede una maggioritaria partecipazione degli enti locali (Parma, Reggio Emilia, Piacenza, Torino, Genova), giustificò la costruzione dell'opera mostrando ai cittadini parmensi la spesa pro capite per i rifiuti, e assicurando che con la costruzione dell'inceneritore vi sarebbe stato un evidente risparmio. Però, il sito parmadaily.it, ha mostrato alla cittadinanza documenti che provano come, anche a seguito del funzionamento dell'inceneritore, per i cittadini non vi sarebbe alcun risparmio. Inoltre occorre approfondire l'aspetto relativo a quella che ,almeno in prima istanza, può apparire come una contraddizione: infatti mentre tutti, compresa l'Unione Europea, individuano nella raccolta differenziata il sistema più corretto per affrontare il problema rifiuti, qui ci troviamo di fronte alla realizzazione di un impianto di potenzialità notevolmente superiore rispetto alla produzione provinciale di rifiuti. Recentemente poi anche l'assessore regionale all'ambiente Sabrina Freda ha indicato nel superamento degli inceneritori la strada che vuole seguire la regione (anche se è stata immediatamente frenata dallo stesso Errani).

La questione dell'inceneritore ha ottenuto la ribalta a livello nazionale. Ma qual è la vera disputa? Le ragioni ineriscono la salvaguardia della salute, oppure si limitano a contrastare il cattivo esercizio dell'amministrazione pubblica? La disputa è solo economica, di come non rimetterci o fare dei soldi, di cattiva amministrazione. I magistrati hanno già ravvisato responsabilità per abuso d'ufficio, confermate tra l’altro dal Gip. Adesso dovrà essere un Tribunale a sancirle definitivamente.

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gara d’appalto della costruzione e gestione dell’inceneritore, l’assegnazione della progettazione dell’impianto per 5 milioni di euro affidato senza gara d’appalto alla multiutility Hera, gli affidamenti negli ultimi 8 anni dello smaltimento dei rifiuti ad Iren da parte di quasi tutti i comuni della Provincia senza gara per un importo complessivo di circa 160 milioni di euro.Il punto della vicenda giudiziaria ad oggi: la Procura della Repubblica ha chiesto il sequestro dell’impianto, il GIP lo ha negato e la

all'inceneritore. Qualora il sindaco non dovesse riuscire a bloccare la realizzazione dell'inceneritore, comporterebbe una bocciatura da parte del suo elettorato? Sicuramente l’inceneritore è stato il cavallo di battaglia di Pizzarotti. Qualora dovesse entrare in funzione per lui sarebbe un bello smacco. Detto questo, va detto che il M5S ce la sta mettendo tutta per bloccare il forno. Dall’insediamento in Municipio non è passato giorno nel quale il M5S non abbia parlato


dell’inceneritore, ha nominato un esponente del GCR assessore all’ambiente, sta scandagliando tutta la normativa per far saltare l’impianto, chiede di fare subito un bando di gara sullo smaltimento per sottrarre i rifiuti ad Iren, contesta le tariffe del Piano economico e finanziario, chiede le fatture di tutte le spese dell’inceneritore minacciando di adire per vie legali in caso di diniego, esulta alla richiesta di sequestro del cantiere da parte della Procura, promuove un manifestazione di interesse di privati per gestire i rifiuti in modo alternativo, chiede in Consiglio comunale le dimissioni del direttore generale di Iren Viero e del vice presidente Villani, annuncia una class action di cittadini contro Iren, ha aperto un conflitto contro la multiutility a livello locale e nazionale attraverso il blog di Grillo che ha pochi precedenti, a cui si aggiunge il deposito di una causa di risarcimento danni pendente di 28 milioni di euro. E se fosse stato eletto sindaco Bernazzoli, come crede che si sarebbe mossa l'amministrazione? Se avesse vinto Bernazzoli l’entrata in funzione dell’inceneritore non avrebbe trovato alcun ostacolo da parte del Comune. Iren, comprando una pagina sulla Gazzetta di Parma, quotidiano degli industriali parmensi e testata onnipresente nelle case dei parmigiani, ha giustificato la costruzione dell'inceneritore dichiarando una diminuzione di spesa per i cittadini sulla tassa sui rifiuti. Lei invece mostra documenti che provano una non variazione dei costi. Come mai i costi restano gli stessi? Se non c'è risparmio per i cittadini, chi ci guadagna dalla

costruzione dell'inceneritore? Chi ci guadagna è Iren, che applicherà una tariffa da 168 euro alla tonnellata, una tra le più alte d’Italia. Le tariffe di riferimento del mercato certificate dall’organo istituzionalmente preposto a farlo, ovvero “l’Autorità per la vigilanza dei servizi idrici e di gestione dei rifiuti urbani – Regione Emilia Romagna”, il Vangelo in materia, prevedono in Regione un costo medio di smaltimento in discarica pari a 77 euro/ton con un valore massimo di 94,2 euro/ton e un costo medio di incenerimento pari a 100 euro/ton con un massimo di 120 euro/ton. Pertanto la tariffa di Iren quando smaltisce in discarica applica un incremento percentuale del +101% rispetto al prezzo medio stabilito e del +67,7% rispetto a quello massimo; quando incenerisce (forno di Ugozzolo) e fa incenerire da altri c'è un incremento percentuale del +55% rispetto al valore medio e del +29,2% rispetto a quello massimo. Impietoso il raffronto con le tariffe minime riscontrabili nelle altre province della Regione: +151,6% per la discarica e +96,7% per l’inceneritore. Che cos'è Iren? È un soggetto pubblico o privato? E come ha ottenuto l'appalto? Mi pare Iren faccia il soggetto pubblico o quello privato a seconda delle occasioni che si presentano. Si è aggiudicata la costruzione e gestione dell’inceneritore senza alcuna gara d’appalto. Su PiazzaPulita, il programma di La7, è stato affermato che Iren, per ripagare i debiti contratti per la costruzione dell'inceneritore, deve farlo funzionare a pieno regime. Se le amministrazioni comunali rafforzassero la raccolta differenziata l'inceneritore si troverebbe inguaiato. Ma le stesse amministrazioni comunali hanno partecipazioni azionarie

in Iren. Di conseguenza, è stato sollevato il dubbio che questi comuni, per non subire guai economici, non dovrebbero puntare sulla raccolta differenziata ma sull'inceneritore, facendo soccombere tematiche ambientali e di salute di fronte a meri interessi economici. È giusta questa analisi? Cosa pensa che dovrebbero fare la amministrazioni comunali? Nel Piano Economico e Finanziario Iren ha messo nero su bianco che dal 2013 al 2032 (cioè per 20 anni) smaltirà un quantitativo di rifiuti urbani fisso di 108.800 tonnellate all’anno. Tale valore è inquietante perché è di fatto pari al fabbisogno attuale di smaltimento della provincia di Parma con una percentuale di raccolta differenziata pari al 55%. Delle due l’una: 1) Iren prevede di non incrementare la raccolta differenziata né la riduzione dei rifiuti per i prossimi 20 anni; 2) Iren confida che la Regione o la Provincia di Parma gli concederanno la deroga all’autorizzazione provinciale che oggi consente all’azienda di bruciare solo i rifiuti prodotti in provincia. Iren potrebbe così importare rifiuti da fuori, sebbene la Provincia in questi anni abbia sempre negato questa possibilità. Le amministrazioni comunali socie di Iren, con l’eccezione ovviamente del Comune di Parma, fanno il tifo perché l’impianto entri in funzione. Quali sono le alternative per lo smaltimento dei rifiuti parmigiani? Raggiungere il 70-80% di raccolta differenziata con il sistema porta a porta oggi è possibile, così come recuperare ulteriore materiale dal rimanente 20-30%. Ricordo che i dati di progetto dell'inceneritore attestano una produzione di ceneri dell'inceneritore da smaltire come rifiuti tossici pari al 30%. Non è pertanto vero che, anche con l'impianto in funzione, la provincia di Parma sarebbe autosufficiente nella gestione dei rifiuti. A Parma il porta a porta partirà in novembre. Oggi la percentuale della raccolta differenziata del Comune è circa del 50%. Incrementare di un ulteriore 20% è realistico, se lo si vuole. Come pensa che andrà a finire? Un suo pronostico sulla conclusione della vicenda. Il cantiere ha già avuto un costo di 200 milioni di euro, è ormai in fase di ultimazione. Secondo me alla fine non lo sequestreranno. Però qualcuno finisce in galera.

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Da «L’Espresso» del 3 dicembre del 1967 “ENI A MANFREDONIA: UNA GHIGLIOTTINA PER IL GARGANO” di Bruno Zevi Se l'on. Aldo Moro non interviene immediatamente per bloccare l'iniziativa efferata, sono facilmente prevedibili queste conseguenze: 1. Sarà distrutta ogni possibilità di valorizzare in senso turistico il comprensorio garganico, l'unico in Italia miracolosamente integro nello splendore dei paesaggi rocciosi e delle fasce costiere. 2. Manfredonia col suo abitato compatto, cinto dalle mura aragonesi, Siponto con la cattedrale romanica, e i sui siti archeologici, il convento di San Leonardo, Monte Sant'Angelo con il suo santuario, il castello federiciano, il borgo medievale e le catene dei preziosi insediamenti che sorgono lungo la Via Sacra Longobardorum animando le pendici del Gargano, non avranno più alcuna prospettiva di sviluppo 3. Quanto al decantato "coordinamento degli intervento pubblici" nel Mezzogiorno, assisteremo ad un clamoroso paradosso: piani contro piani, la Cassa riconosce la vocazione turistica del territorio e lo vincola, L'Eni subito l'oltraggia con un enorme impianto industriale. 4. Infine, la gente sussurrerà che, per caso, i trenta miliardi sono stati spesi in una zona compresa nel collegio elettorale dell'on. Moro, e in quello dell'o. Vincenzo Russo, esponente dc ed insieme alto funzionario dell'Eni. Malignità, naturalmente; ma la coincidenza è singolare e tale da poter generare sospetti.

L'Enichem di Manfredonia, storia poco conosciuta. Una ferita ancora aperta e ingiustizia da anni vissuta. Cosa accadde quel 26 Settembre 1976? Dopo 36 anni cosa è cambiato?

PANE E AMMONIACA

di Novella Rosania Questa storia inizia con un uomo e, come in ogni storia, c'è un cattivo, un buono e una morale. Il protagonista, o meglio uno dei, è Nicola Lovecchio. Egli morì il 9 aprile del 1997, all’età di 49 anni. Ventinove anni prima, l'azienda petrolchimica ENI colloca un impianto di produzione di urea, da cui far derivare ammoniaca da vendere sul mercato, in una piccola e, ritenuta tale, accondiscendente cittadina garganica: Manfredonia. La zona di Manfredonia, Mattinata e Monte S. Angelo (n.b. ora Città patrimonio dell'Unesco) era stata segnalata come area a rilevante sviluppo turistico. Nonostante l'approvazione ottenuta dal Comitato interministeriale per la programmazione economica, molti membri esprimono le loro perplessità quali: la considerevole offerta di urea già presente sul mercato, il costo più basso al quale si poteva produrre il fertilizzante in uno degli stabilimenti già attivi dell'ENI, la scelta della zona, destinata allo sviluppo turistico, in contraddizione con il programma economico del governo, gli

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alti costi che lo Stato e la Cassa per il Mezzogiorno avrebbero dovuto sostenere per costruire le infrastrutture necessarie alla realizzazione del progetto. Gli organi pubblici e la stessa popolazione locale, ammaliata dalla possibilità di nuovi posti di lavoro in una terra di per sé molto povera, soprassiedono sulle titubanze mostrate. Il 26 Settembre del 1976, nell'impianto di produzione di ammoniaca, la colonna di lavaggio dell’anidride carbonica scoppia. L'esplosione sprigiona nell’atmosfera 32 tonnellate di arsenico. Una fanghiglia giallastra cosparge, nel raggio di 30 Km, l'intera città, i campi coltivati, gli animali, i bambini e i loro genitori. “Gli ortaggi sono simili a foglie di tabacco secco; tutti gli oggetti esistenti sono punteggiati di una sostanza di colore bronzeo.” Mentre i piccoli giocano con la “sabbia speciale”, i loro padri la raccolgono con le mani in tutto l'impianto, senza alcun tipo di protezione o accortezza. “A terra in fabbrica c’era un tappeto di un centimetro di polvere gialla e nessuno ci pensava più di tanto. Ricordo che mangiavamo il panino tra la polvere

senza alcuna misura di sicurezza”, afferma un operaio. Quando si iniziano a scoprire i primi animali morti, i contaminati sono centinaia. Il sindaco Magno divide le zone pericolose in due aree, disponendo l’abbattimento di tutti gli animali da cortile presenti nella zona B (circa 1000) e il loro trasporto all’interno dello stabilimento, dove vengono interrati e sigillati in una vasca di cemento armato. Viene ordinato anche il divieto di pesca entro un miglio dalla costa. I giorni seguenti le strade, le case, i balconi della città vengono lavati con ipoclorito di calce e solfato di ferro, per ottenere l’ossidazione e l’insolubilizzazione dell’arsenico, unico modo per evitare l'ulteriore contaminazione delle falde acquifere. Il panico dilaga, gli abitanti in allarme richiedono immediatamente le analisi delle urine: si raccolgono centinaia di campioni “che verranno nella maggior parte versati nei gabinetti”, come affermerà Magno in un convegno tenutosi l’anno seguente all’università di Bari, “per mancanza di idonee attrezzature.” Gli esami avrebbero segnalato concentrazioni di arsenico comprese tra


2000 e 5000 gamma/litro, contro un limite di tollerabilità fissato in 100 gamma/litro. Il 60 % della produzione agricola e il 30 % di quella zootecnica viene distrutta. I braccianti perdono dalle 10.000 alle 12.000 giornate lavorative, mentre il pesce del golfo per intere settimane è respinto dai mercati. Nicola Lovecchio, capoturno del Magazzino Insacco dello stabilimento Enichem, ha 44 anni quando scopre una neoplasia polmonare. La giovane età, la vita regolare senza eccessi, l'essere non fumatore insospettisce il medico, Lorenzo Portaluri. Da quel momento in poi una questione di salute diventa una battaglia politica e ideologica: i due iniziano insieme ad analizzare i cicli di produzione dell’Enichem; stilano un elenco delle sostanze tossiche con cui i lavoratori entravano in contatto: ad ogni mansione corrisponde una diversa intensità di esposizione. Coinvolgono i compagni di lavoro: numerose sono le cartelle cliniche di operai malati o già deceduti. In seguito si interessano delle vicende aziendali: incidenti, controlli medici periodici, misure di protezione personali.

Pretendono dall’azienda le vecchie radiografie di Nicola. Essa cerca di negarle, ma sotto minaccia di un'ingiunzione legale, le ottengono. Si scopre così che la lesione polmonare era già presente nel 1991 e i medici dell’istituto di medicina del lavoro l’avevano diagnosticata. “Quel maledetto giorno facevo il turno 14-22. Entrammo nello stabilimento senza che nessuno ci avesse avvisato del pericolo.” Nicola muore 6 anni dopo la diagnosi. Nel 1998 la Corte Europea si pronuncia sull'accaduto: 10 anni prima, 40 donne dell'associazione “Bianca lancia”avevano proposto un esposto per i danni subiti. Riescono ad ottenere 10 milioni di lire per danni morali. Sconcertante è la diversità di visioni con la Corte di Cassazione italiana: il 17 Marzo del 2012 assolve i dieci ex dirigenti dello stabilimento e due esperti di medicina del lavoro accusati, a vario titolo, di disastro colposo, 17 omicidi colposi, 5 casi di lesioni colpose e omissioni di controllo. La società succeduta all’Enichem, la Syndial, alla fine del 2005 ha avviato una transazione con le parti civili, per ottenere l’uscita dal

processo in cambio di denaro. E' stato fissato un tariffario: 70.000 euro alle mogli, 35.000 euro ai genitori e 20.000 euro ai fratelli e ai figli delle vittime. Un atto “solidaristico che la società sente di attivare non per avere riconosciuto la responsabilità penale di alcuno degli imputati, ma per venire incontro alle esigenze famigliari delle parti coinvolte a vario titolo, come persone offese.” Ciò che rimane a queste famiglie, come possiamo vedere, sono solo numeri: numeri di tonnellate di arsenico sprigionate nell'aria, numeri di neoplasie polmonari, numeri di morti di cancro, numeri per il risarcimento dei danni, numeri di legali. Ma nessun numero potrà mai rappresentare l'ingiustizia subita, la perdita dell'uomo che si è amato, della famiglia che si è faticosamente costruito, del diritto di NON SCEGLIERE MAI FRA SALUTE O LAVORO. Le informazioni sono tratte da “1976-2006: trent’anni di arsenico all’Enichem di Manfredonia” di Francesco Tomaiulo. Si ringrazia per il contributo.

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Petrolchimico di Gela: una delle zone più inquinate al mondo. Il bel Paese aspetta dai reparti di oncologia mentre l’oro nero in Sicilia vanta i suoi primati. di Sara Spartà I tentacoli del greggio in Sicilia da sempre portano il nome di Priolo, Augusta, Melilli, il c.d. “triangolo della morte” e da lì si diramano fino al Petrolchimico di Gela, in provincia di Caltanissetta. Sinonimo di occupazione e di reddito per migliaia di famiglie è solo oggi che se ne soffrono consapevolmente gli effetti devastanti e se ne contano le morti. Inaugurato nel 1965, periodo in cui queste coste furono messe a disposizione dei colossi energetici del tempo, l’Esso e l’Eni, il Petrolchimico di Gela riceve ogni anno oltre 5 milioni di tonnellate di materia prima che viene poi trasformato in prodotti finiti da vendere sul mercato. Lavora prevalentemente grezzi provenienti dai 7 pozzi EniMed situati a Gela, da Ragusa, dalla piattaforma Vega, dall'Egitto, dall'Iran, dalla Libia, dalla Russia e dalla Siria. È uno degli impianti più grandi e importanti presenti in Europa. Di qualche anno fa è lo studio allarmante del Cnr promosso dall’Oms e dalla Regione Sicilia, dal quale emergono valutazioni preoccupanti sia sull’inquinamento ambientale che sui danni che questo produce alla salute umana. Il biomonitoraggio comprende i comuni di Niscemi, Butera e Gela. Sebiomag,questo il nome del rapporto, è

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stato coordinato da Fabrizio Bianchi, epidemiologo del Cnr di Pisa, dal quale affiora non soltanto che il comune di Gela è una tra le aree più inquinate al mondo ma anche che, nel sangue dei campioni oggetto della ricerca, ci sono tracce di metalli pesanti che superano di parecchie unità il tasso limite. Importanti quanto impressionanti i dati che spiegherebbero in maniera chiara le cause di una percentuale così elevata di tumori e malformazioni, nonché l’alto tasso di mortalità. Dall’arsenico al piombo, dal rame al mercurio: questi i metalli pesanti rilevati dal biomonitoraggio e trovati nel sangue del 20% del campione, composto da 262 persone dai 20 ai 44 anni. “La stima prudenziale è quella di alcune migliaia, 10-13 mila persone” deduce Bianchi. “ Ciò che conta non è il numero alto o basso, ma è necessario prendersi carico di questo fenomeno”. Per la prima volta i ricercatori hanno in mano un indiscutibile nesso tra inquinamento del territorio e mortalità in eccesso. La gravità della situazione sta nel fatto che sono stati superati di diversi ordini di grandezza i limiti previsti nelle specifiche normative ambientali: si pensi che nelle urine il livello di arsenico supera del 1.600 per cento il tasso limite. Il d.lgs.152/2006 rappresenta attualmente il più importante testo normativo in materia di danno ambientale. Gli inquinanti migrano da un comparto ambientale all’altro (dall’aria, al suolo,

alle acque) e la popolazione può essere esposta a una combinazione di inquinanti che interagiscono nell’ambiente e nel corpo umano. Di indiscutibile interesse il fatto che i territori formalmente perimetrati dal Ministero dell’ambiente nel SIN, Sito di Interesse Nazionale per le bonifiche, riguardano non soltanto il sito industriale che comprende produzioni chimiche, la centrale termoelettrica e la raffineria ma anche aree pubbliche come il Biviere di Gela, l’area marina, i tratti terminali dei torrenti Gattano, Acate e del fiume di Gela e la discarica Cipolla. La percentuale maggiore di tumori e di malformazioni dell’intera regione proviene dalle aree contaminate dai veleni del petrolchimico e ancora si indugia a riconoscere il nesso di causalità tra questo e la presenza degli impianti. Le bonifiche già partite sono poche e la stragrande maggioranza dei veleni resta a terra, questo vuol dire che molte Direttive comunitarie vengono disattese o tardano ad essere applicate, ma questa è una situazione che va avanti da decenni e questo dato di fatto non può giustificare l’assenteismo del governo locale e nazionale di fronte situazioni simili. Mezza Italia aspetta risposte ferma al reparto di oncologia. (Nello specifico i dati riportati nella pagina seguente riguardano l’inquinamento dei suoli e delle acque sotterranee).


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Il ricatto occupazionale conteso al diritto alla salute

VITA? NO GRAZIE. BASTA IL LAVORO. di Giovanni Frascella La salute a Taranto è stata barattata con il lavoro. Sembra questo il patto che i tarantini involontariamente hanno scelto il 10 aprile del 1965, quando l’allora Presidente della Repubblica italiana Giuseppe Saragat inaugurava l’attuale impianto ILVA di Taranto. Sono passati 47 anni da quel giorno in cui anche Taranto ha avuto il suo miracolo economico, potendo così abbandonare arcaici lavori e spettacolari paesaggi. Oggi l’Ilva è l'elemento predominante del tessuto economico della provincia di Taranto che, come non mai, sta vivendo la crisi di questi anni. In questi mesi la procura della Repubblica locale è intervenuta pesantemente, come un fulmine a ciel sereno, sulla questione Ilva, agendo in maniera radicale e a detta di molti irresponsabile. Per gli ambientalisti, come ormai vengono chiamati tutti quelli che non vogliono più morire di tumore ed essere sottoposti al ricatto occupazionale, i responsabili sono le classi politiche e i sindacati che si sono passati il testimone in questi anni e che non sono riusciti a risolvere una situazione che è precaria da fin troppo tempo. Infatti è ridicolo pensare che solo il 26 luglio, giorno in cui sono stati posti sotto sequestro giudiziario gli impianti, ci si è accorti che l’Ilva inquina: l'Ilva che vediamo oggi è esattamente quella di 47 anni fa.

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Che a Taranto si muore per l’Ilva i tarantini lo hanno sempre saputo, ma, contemporaneamente, hanno sempre saputo che l’Ilva è sinonimo di lavoro: è di oltre 400 milioni di euro la ricchezza generata dall'indotto Ilva che conta più di 1300 piccole-medie imprese, con al seguito oltre 2000 lavoratori. Ed i numeri dell’Ilva sono molto più grandi: 11.967 dipendenti solo a Taranto per produrre 11,3 milioni di tonnellate di acciaio (il 40% di tutto l'acciaio italiano), 200 km di rete ferroviaria, 50 km di rete stradale, 190 km di nastri trasportatori e 6 moli portuali su di una superficie di ben 15 milioni di mq. Sono numeri che fanno impressione e che fanno riflettere, però non sono i soli. Infatti ci sono altri numeri, i numeri dell’indignazione, numeri di cui non ci si può vantare, numeri che raccontano ciò che l’Ilva ha provocato in quasi un cinquantennio di attività: 1.300 sono i capi di bestiame abbattuti per l'elevata quantità di diossina nella loro carne; 20 i km di distanza cui devono essere allevati caprini e ovini per poter consumare le loro carni; inoltre, dal 2011 l’ASL ha vietato la raccolta di “cozze” nel primo seno di mar piccolo colpendo un prodotto tipico del territorio, 637 sono i morti che la perizia della procura ha attribuito al superamento delle soglie massime di Pm10 nei soli quartieri Tamburi e Borgo di Taranto, circa 91 all’anno per i sette anni presi in esame.

Sia i primi che gli ultimi numeri ci devono far riflettere, e la domanda sorge spontanea: è giusto lavorare per morire, o meglio “vivere” senza lavoro? Oggi, ciò che lo stato ha costruito 47 anni fa non è più un miracolo economico, ma solo un male che non ci si può permettere di estirpare, un eco-mostro che negli anni ha divorato un’intera economia fino ad avere il monopolio del lavoro. Una riflessione importante, però, riguarda le responsabilità: se si è arrivati a questo punto non è colpa dei lavoratori e dei cittadini, loro hanno avuto un'opportunità, e poiché alla fine del mese devono sfamare la propria famiglia, l'hanno sfruttata, la responsabilità è dei politici che hanno sempre considerato l'Ilva un centro di potere, che gli avrebbe permesso di vincere le elezioni, e quindi non hanno fatto altro che “ingrassarla” ogni anno di più, fin quando non se n'è potuto più farne a meno, ed ora risulta difficile proporre una diversificazione del mondo del lavoro. Una cosa è certa, a Taranto e provincia questa situazione non può più andare bene; la voglia di cambiamento non manca.


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Copertina: Flavio Romualdo Garofano Sito web: Carlo Tamburelli Impaginazione e grafica: Ida Maria Mancini

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