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Pentimenti, giustizia e veritĂ di Salvo Ognibene
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COLLABORATORI DI GIUSTIZIA - EVOLUZIONE NORMATIVA di Irene Astorri
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Iovine: la collaborazione di un vero pentito? di Emanuele Vicinelli e Giulia Silvestri
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Buscetta: pentito di mafia, pentito di Stato. di Valeria Grimaldi
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Mafia: i 'miei' pentiti di Cosa nostra di Pippo Giordano
La redazione: redazione@diecieventicinque.it http://www.diecieventicinque.it/
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Pentimenti, giustizia e verità di Salvo Ognibene Partiamo da un dato: senza i collaboratori a mo’ di amuleto e di riconoscimento. La come insegna il catechismo della Chiesa di giustizia non sapremmo tutto quello mafia aveva ritrovato l’unità per punire il Cattolica. I collaboratori da ricordare, per che oggi sappiamo sulle mafie. Non traditore, anche se le due cosche importanza e verità, non sarebbero pochi. sapremmo i rapporti al loro interno, i riti, i continuarono per altri anni a distruggersi a Ci sarebbe da raccontare anche di quei misteri e le verità. Probabilmente vicenda”». Melchiorre Allegra, medico “falsi pentiti”, orchestrati a dovere per dubiteremmo ancora dell’esistenza della trapanese “pentito” nel 1937, era confondere le carte in gioco e creare mafia. Eppure, questi, nascono col «affiliato alla famiglia mafiosa sfiducia in questo strumento. nascere delle mafie nonostante solo con palermitana di Pagliarelli, aveva Collaboratore però, non è sinonimo di Falcone diventino uno “strumento” raccontato, agli ufficiali di polizia che lo “pentito”. Ognuno di loro è mosso da un fondamentale nelle mani della giustizia. avevano arrestato, la struttura di Cosa motivo diverso che li porta a collaborare Sicuramente hanno avuto un ruolo di Nostra, il rito della “punciuta”, i nomi con la giustizia. I soldi, la protezione, o primaria importanza nella lotta al delle famiglie più importanti e i legami forse un riscatto per il male fatto. Spesso terrorismo, ma quella, come ben con la politica, la sanità e gli affari». considerati dei delatori, che poi è il sappiamo, è un'altra storia. Erano gli anni ’30. Altri tempi. Tra peccato di Giuda (e il paragone, non mio, Il primo pentito di mafia nella storia D’Amico e Allegra intercorrono storie di è tristemente infelice), sono da sempre d’Italia «si chiamava Salvatore D’Amico. pentitismi, collaborazioni e confidenze. osteggiati e criticati dalla pubblica A metà dell’Ottocento faceva parte della Nei verbali venivano chiamati opinione e da molti addetti ai lavori. fratellanza degli stuppagghieri di “dichiaranti” ma le scarse norme Eppure costituiscono un pilastro Monreale. Si trasferì a Bagheria, la cui legislative sul tema e le diverse condizioni fondamentale della lotta alla mafia. In cosca, detta dei fratuzzi, era in guerra con storiche del tempo hanno lasciato poche questo paese, e non solo. Forse basterebbe quella monrealese. Iniziò a temere per la tracce delle testimonianze di questi proteggerli maggiormente, seriamente, in sua vita e decise di dire quello che sapeva personaggi. Difatti le notizie sono scarse base alla storia e alle verità riscontrate e sulla mafia ai giudici: “undici giorni dopo sulla storia del pentitismo prima di non trattarli tutti allo stesso modo. Del il D’Amico veniva trovato crivellato da Leonardo Vitale. Un “pentito” vero, resto, da D’Amico, a Buscetta, fino ad lupara, con un tappo di sughero in bocca quest’ultimo. Rese dichiarazioni arrivare a Iovine, è cambiata la mafia, non (u stuppagghiu) e con sugli occhi il spontanee dopo una lunga e travagliata il modo di trattare e “usare” i santino di stoffa della Madonna del riflessione, cercava un ravvedimento, collaboratori di giustizia. Almeno fin Carmine che i fratuzzi portavano al collo voleva rimediare per il male fatto così quando questi, si limitano a portare verità .................................................................. che non fanno male a molti. M. Pantaleone, Mafia e politica, Einaudi, Torino cit., p. 22 G. Bongiovanni e A. Petrozzi, Leonardo Vitale, la prigione della follia, l’Unità, 23 dicembre 2009, p. 36
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COLLABORATORI DI GIUSTIZIA EVOLUZIONE NORMATIVA di Irene Astorri L’istituto della collaborazione con la giustizia, degli appartenenti ad associazioni mafiose, costituisce uno dei principali strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. Per collaboratore di giustizia si intende chi, dopo aver fatto parte di un’organizzazione criminale, decide di dissociarsene e di collaborare con l’autorità giudiziaria. In Italia la creazione della normativa è stata determinata dalla situazione politico-giudiziaria della fine degli anni sessanta, quando ripetuti atti di violenza crearono grande allarme sociale. Ma soltanto negli anni novanta è stata introdotta una disciplina specifica in materia, grazie al decreto legge 15 gennaio 1991 n. 8, convertito nella legge 15 marzo 1991 n. 82, i cui punti più importanti erano: - poter fornire uno speciale programma di protezione ai collaboratori di giustizia e ai parenti più prossimi e permettere al collaboratore di accedere a vari benefici penitenziari (tra cui misure alternative alla detenzione) - il programma di protezione doveva essere deciso da un’apposita Commissione (istituita dal Ministero dell’Interno) e doveva essere richiesta dal pm, dal prefetto o dall’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa; - l’ammissione dipendeva dalla gravità e attualità del pericolo, dall’importanza delle informazioni fornite e dall’adempimento degli obblighi previsti dal programma di protezione stesso; - la gestione e l’attuazione dei programmi di protezione era affidata a un servizio istituito presso il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno (Servizio centrale di protezione); - il Ministro dell’Interno, in casi eccezionali, poteva autorizzare il cambiamento delle generalità dei soggetti sottoposti al programma di protezione. Questa legge è stata poi modificata con la successiva del 13 febbraio 2001 n. 45, con la quale si è cercato di eliminare le disfunzioni e incongruenze della
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precedente. È stata fortemente limitato il numero dei soggetti sottoposti al programma di protezione: ne possono usufruire solo coloro che forniscono un contributo di notevole importanza, mentre la collaborazione può essere portata avanti soltanto nell’ambito di alcune gravi fattispecie di reato attinenti alla criminalità organizzata (come ad es. terrorismo o eversione). Il soggetto viene ammesso al programma di protezione solo se le notizie sono nuove, complete, attendibili e rese al pm entro 180 giorni dalla dichiarazione di volontà di collaborazione, oltre al fatto che all’autorità giudiziaria devono essere consegnati beni e denaro di provenienza illecita. Infine viene introdotta una netta distinzione tra collaboratori e testimoni di giustizia (soggetti vittima di reato o persone informate sui fatti destinate ad una diversa protezione). Nel 2013 l’allora Presidente del Consiglio Enrico Letta aveva istituito, tramite decreto, una Commissione col compito di elaborare proposte di modifica al sistema per la lotta alla criminalità organizzata. La Commissione, composta dal Presidente Roberto Garofoli e dai membri Magda Bianco, Raffaele Cantone, Nicola Gratteri, Elisabetta Rosi e Giorgio Spangher, dopo aver ascoltato anche il parere di diversi soggetti coinvolti, è approdata alla stesura del “Rapporto della Commissione per l’elaborazione di proposte in tema di lotta, anche patrimoniale, alla criminalità” nel quale vengono sollevate criticità sul sistema normativo vigente. Un primo profilo riguarda il rigido termine previsto (180 giorni) entro il quale bisogna concludere l’assunzione delle dichiarazioni da parte del pentito: quelle successive sono inutilizzabili (salvi alcuni correttivi) e non è prevista alcuna proroga. Secondo la Commissione questo termine è eccessivamente rigido, considerata anche la mole di lavoro esistente nelle Procure. La proposta consiste nell’introdurre una proroga per il pm che dimostri di aver svolto la sua
attività lavorativa ma di non essere riuscito ad assumere tutte le dichiarazioni del collaboratore, oltre a quella di creare una sanzione di inutilizzabilità per le dichiarazioni tardive, a meno che non si dimostri che il ritardo sia tale per un giustificato motivo. Un secondo profilo riguarda il numero di componenti della Commissione centrale per la definizione e l’applicazione delle speciali misure di protezione: la legge del 1991 prevede due magistrati e cinque funzionari e ufficiali, presieduti da un Sottosegretario di Stato. La Commissione propone di aumentare il numero dei magistrati da due a quattro. Il terzo profilo di criticità riguarda infine il sistema della partecipazione a distanza al dibattimento dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Questi ultimi riferiscono diverse informazioni relative ad episodi delittuosi e queste instaurano diversi procedimenti penali: il soggetto deve perciò rendere le sue dichiarazioni in più giudizi, ma ciò genera ingenti spese allo Stato, che si deve occupare dei singoli trasferimenti. Questa situazione ha portato all’uso nei processi della videoconferenza. Si deve inoltre distinguere se all’interno dei processi il soggetto partecipi come imputato o testimone: a seconda della posizione ricoperta nel processo infatti, il soggetto può o non può rendere la propria testimonianza a distanza, situazione dipendente anche da ragioni di sicurezza ed ordine pubblico. Per questo motivo il giudice deve disporre le cautele necessarie affinché il soggetto non sia riconoscibile ed evitare possibili ripercussioni da parte degli imputati. La Commissione ha perciò proposto di rendere obbligatoria la videoconferenza, anche se il collaboratore o il testimone sia esso stesso un imputato: questo servirebbe per ridurre notevolmente l’onere economico per lo Stato e per l’incolumità sia dei soggetti protetti sia per gli operatori di polizia addetti alla scorta.
IOVINE: LA COLLABORAZIONE DI UN VERO PENTITO? di Emanuele Vicinelli e Giulia Silvestri A distanza di quasi quattro anni dal suo arresto, Antonio Iovine ha deciso di collaborare con la giustizia. C'è chi ha utilizzato il termine "pentito", ma è quantomeno dubitabile che nel caso di 'O Ninno questo termine sia completamente corretto. Ciò che risalta dalle sue dichiarazioni è il crudo ritratto dei meccanismi che fanno funzionare l’azienda camorra. Il soprannome deriva, secondo alcuni, dalla sua partecipazione quando non era ancora ventenne, all’assalto della residenza dei Nuvoletta. Nonostante l’età, sin da subito ricoprì un ruolo di spicco all’interno del clan: era considerato il ministro dell’economia dei Casalesi. Diventò sempre più importante, contribuendo all’infiltrazione prima e al radicamento poi del clan di Casal di Principe, che si è scrollato di dosso la sua dimensione regionale per arrivare prima nel Lazio, poi in Toscana e in tutta Italia. Latitante dal 1996, riuscì a non farsi trovare per circa 14 anni, fino al 17 novembre 2010, giorno in cui venne arrestato mentre cercava di fuggire, disarmato, dal terrazzo della casa di Mario Borrata. Il 21 maggio 2014 ha deciso di diventare collaboratore di giustizia, trasformandosi in un fiume di informazioni per i magistrati. Dal giorno in cui comunicano la loro decisione ai magistrati, i collaboratori hanno 180 giorni per raccontare tutto ciò di cui sono a conoscenza riguardo determinati delitti. Una volta trascorso questo periodo si potrà tornare sulle dichiarazioni fatte e definire i dettagli. Questo per impedire ai pentiti di centellinare le informazioni e avere così “il coltello dalla parte del manico”, come accadeva prima del 2001. Iovine, giorno dopo giorno, sta fornendo elementi importanti. Elementi che dovranno essere provati, e a questo proposito ci sono numerose indagini. Come in ogni azienda, anche nelle organizzazioni criminali tutto parte dai soldi. Soldi provenienti dal narcotraffico,
dalle truffe, dagli appalti statali e dalle estorsioni, reinvestiti in varie attività commerciali: dai ristoranti alle imprese nel settore edilizio, fino ad arrivare al gioco d’azzardo. Il boss dei Casalesi ha parlato delle interazioni tra la sua organizzazione criminale e diversi apparati dello Stato e delle istituzioni. Iovine ha raccontato che per aggiustare un processo servivano 250.000 euro. Lui stesso pagò in alcune occasioni per ottenere assoluzioni. Questa “struttura organizzata” coinvolge giudici e avvocati. I nomi fatti dal collaboratore sono quelli di Michele Santonastaso, un tempo avvocato di Iovine, Sergio Cola, un altro avvocato assunto dal boss per difenderlo in appello nel processo Griffo, e Pietro Lignola, l’ex presidente della corte d’Assise d’Appello di Napoli avente rapporti stretti con Cola . Le dichiarazioni in questione sono state depositate in un verbale attinente al processo per le minacce a Saviano e alla Capacchione. Le stesse sono state anche trasmesse a Roma, dove è stata aperta un’inchiesta. Lignola ha, in seguito, denunciato Iovine per calunnia e l’avvocato Cola ha smentito le affermazioni del boss. Un altro punto fondamentale delle esternazioni del collaboratore riguarda i comuni. A Casapesenna, l’ex sindaco Fortunato Zagaria “era espressione” secondo Iovine, “del gruppo capeggiato dal boss omonimo Michele Zagaria”. È stato anche accusato di tentata violenza privata aggravata dal metodo mafioso insieme al boss stesso, in relazione alle minacce e alle circostanze che hanno portato alla dimissione del predecessore, Giovanni Zara. ‘O ninno parla di un generale sistema in cui i sindaci, per accaparrarsi voti e finanziamenti ai fini della campagna elettorale, favorivano gli imprenditori in rapporto con i clan camorristici. Rispetto a questi ultimi i Casalesi aspettavano che fossero gli imprenditori stessi a rivolgersi a loro, creando così un
rapporto che doveva essere lungo, duraturo e stabile nel tempo. Esempio di tutto questo era il sistema di gestione dei rifiuti: tutti gli imprenditori che volevano entrare a far parte di questo business dovevano fare i conti con Michele Zagaria, l’altra faccia dei Casalesi insieme a Iovine. Gli imprenditori vicini al clan, per essere sicuri di vincere le gare nei comuni, le truccavano riaprendo le buste in anticipo e modificando le offerte con il ribasso giusto. Infine, per il momento, Iovine ha sottolineato che le casse del clan, nei primi anni duemila, sono state riempite con la sottrazioni di finanziamenti del Ministero dell’Agricoltura per il rimboschimento nell’alto casertano. Il Ministero, nel periodo in cui secondo Iovine era ministro Gianni Alemanno, aveva appaltato i suddetti lavori e colui che si aggiudicò gli appalti, gestiti poi per conto del clan, fu Vincenzo della Volpe. “So benissimo di quali delitti mi sono macchiato. Sto spiegando un sistema di cui la camorra non è l’unica responsabile”. Sono queste le parole del boss, condannato in contumacia all’ergastolo nel processo Spartacus, nel processo Iovine ad un ulteriore anno di isolamento in aggiunta all’ergastolo precedentemente comminato e infine a 21 anni e sei mesi nel processo Normandia. Quello che sta svelando uno dei criminali più pericolosi della nazione, è un “sistema completamente corrotto” del quale la camorra ha approfittato anche e soprattuto per l’assenza dello Stato a partire da quei luoghi dove, parafrasando il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, la mafia dava ai cittadini come favori ciò che lo Stato avrebbe dovuto garantire loro come diritti.
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BUSCETTA: PENTITO DI MAFIA, PENTITO DI STATO. di Valeria Grimaldi E' il 15 luglio 1984. Dalla scaletta di un DC-10 dell'Alitalia, proveniente dal Brasile, scende un uomo con occhiali da sole e un poncho colorato sui polsi; due uomini, poliziotti in borghese, lo tengono per le braccia. E' Tommaso Buscetta, detto Don Masino, il primo "superpentito" di Cosa Nostra. Arrestato nell'ottobre del 1983 nella sua villa di San Paolo su mandato internazionale emesso dalla magistratura italiana, nell'estate dell'84 viene estradato in Italia. E comincia a collaborare. Il boss dei due mondi, così veniva chiamato: la sua vita da esponente di spicco di Cosa Nostra si è diramata tra l'Italia e il Brasile, ma anche Messico, Svizzera, Stati Uniti, Canada; profondo conoscitore della mafia anche sulle sponde del Pacifico dunque, oltre che del Mediterraneo. Protagonista della prima guerra di mafia dei primi anni '60, e accusato della strage di Ciaculli nella quale, il 2 luglio 1963, morirono 7 uomini delle forze dell'ordine, è proprio grazie alle sue fughe all'estero che riesce a sottrarsi a vari processi e indagini a suo carico. Questo almeno fino al 1972, quando viene arrestato sempre in Brasile ed estradato, e poi in Italia condannato a 10 anni di reclusione per traffico di stupefacenti; fuggirà nuovamente in Brasile in stato di semi-libertà, allo scoppio della seconda guerra di mafia. Don Masino in quegli anni, fine '70 inizi degli '80, faceva ormai parte dei c.d. clan perdenti insieme agli Inzerillo, Bontate, Badalamenti: insomma, le vecchie famiglie palermitane che si vedevano, morto dopo morto, strappare dalle mani l'egemonia di Cosa Nostra da parte degli efferati corleonesi Riina e Provenzano. Durante la seconda guerra di mafia, non essendo raggiungibile perché nascosto in America Latina, gli verranno uccisi 14 fra parenti stretti e affini, fra cui due figli e quattro nipoti, il fratello, il genero e il cognato. "Io mi definisco un uomo deluso dalla
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mafia, che ha prestato tanto contributo alla mafia e che vede ammazzare i proprio figli nel nulla", afferma con fermezza Buscetta in un'intervista ad Enzo Biagi del 1992. E' la vendetta quindi ciò che spinge Buscetta a collaborare: un codice di uomini d'onore violato dai suoi stessi alleati, primo fra tutti Pippo Calò, della stessa famiglia mafiosa di Buscetta, quella di Porta Nuova. Celebre rimarrà il confronto tra i due, durante la celebrazione del maxiprocesso nel 1986. "Prima di lui, non avevo - non avevamo che un'idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. E' stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare con i gesti." Così scrive Giovanni Falcone nel suo libro "Cose di Cosa Nostra": è grazie a Buscetta che si riesce a puntare sull'elemento dell'unità di Cosa Nosta; quell'unità che sarà poi riconosciuta in primo, secondo grado e definitivamente in Cassazione con il Maxiprocesso, e che squarcerà il velo al mito dell'assoluta impunità della mafia siciliana. Durante i lunghi interrogatori con Falcone, Don Masino racconta tutto quello che sa dei meccanismi della mafia, dalle famiglie, alle commissioni, alla cupola: ma non si pronuncerà mai sui presunti rapporti tra Cosa Nostra e la politica. Solo dopo le stragi del '92, e in particolar modo con la morte di Falcone, Buscetta comincia a parlarne. E infatti diviene uno dei maggiori collaboratori nel processo contro Giulio Andreotti accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. In una lettera alla sorella del giudice, Maria Falcone, del 1995, scrive:
"Io lo stimavo immensamente, e lui ha dimostrato di stimarmi. Ho un solo rimpianto: non ho avuto la forza di raccontare a lui, che vedevo solo, quelle tragiche cose che ho poi raccontato e che nessuno, guardandomi negli occhi, potrà smentire. Quando nel ' 93 ho deciso di dire tutto non mi sentivo più forte, ma avevo nella mente e nel cuore Giovanni. Ed è stato come se non riuscissi più a sfuggire al suo sguardo". Una collaborazione iniziata con la vendetta, che sembra invece trasformarsi in una vera e propria scelta di stare dalla parte avversa alla sua perché, scrive sempre Buscetta nella lettera, "tre anni fa cadeva la persona che per me rappresentava qualcosa che non avevo mai visto: lo Stato". Una figura emblematica quella di Don Masino, che all'epoca destò numerosi bibattiti nell'opinione pubblica, nelle istituzioni e nella schiera degli intellettuali (e alcuni di questi ce li portiamo dietro ancora oggi). Il suo rapporto con Falcone, che non lo nascose mai, il rapporto con l'informazione, alcune reazioni alla sua morte (Gian Carlo Caselli lo definì "uomo leale e coraggioso" mentre Enzo Biagi disse "sembra strano, ma ho perso un amico"). Molti in prima linea sul fronte dell'antimafia gli riconobbero un'intelligenza e un spirito diverso e più profondo rispetto a quello degli altri boss storici di Cosa Nostra. Sicuramente a trent'anni esatti di distanza da quell'arrivo sulla pista di atterraggio di Fiumicino, i passi in avanti sulla collaborazione di appartenenti alla criminalità organizzata sono stati tanti; ma tanti altri ne sono stati fatti indietro, e dunque contro il lavoro scrupoloso di Falcone e dei tanti che raccolsero la sua testimonianza, grazie ai quali è stato possibile arrivare ad un certo livello nello sventramento della mafia dal suo interno. Perché è sempre questo il punto a cui si arriva: nella storia del nostro Paese le più importanti azioni contro la mafia sono state compiute da coloro che sono riusciti ad immergersi nel suo tessuto e a disgregarne, filo dopo filo, tutti gli intrecci secolari. E la maggior parte, forse per questo, sono stati uccisi, e con numerose complicità, espliciti o latenti che fossero...le stesse di cui spesso ha parlato Tommaso Buscetta. E allora viene da chiedersi, come succede a molti: non sarà mica necessario che, dopo il superpentito di mafia, si faccia avanti il superpentito di Stato?
Mafia: i 'miei' pentiti di Cosa nostra di Pippo Giordano Non smetterò mai di ringraziare gli uomini d'onore che hanno avuto il coraggio di cambiare e che hanno avuto il coraggio, seppure con mille sofferenze, di ritornare ad essere Uomini, mettendosi a disposizione della Giustizia. Non parlo de relato, ma di vita professionale vissuta accanto ad uomini che hanno offerto un notevole contributo alla lotta a Cosa nostra, con risultati eccellenti altrimenti non raggiungibili. Alcuni di loro hanno dissipato i tanti miei dubbi su alcuni omicidi rimasti insoluti, facendoci scoprire gli autori. Hanno raccontato un attentato a mio danno, a cui sfuggii per una circostanza favorevole. Mi hanno fatto scoprire i colleghi al libro paga di Cosa nostra e che tra loro si nascondeva il “giuda” di Cassarà il quale contribuì a far assassinare un mio confidente: diede anche la “dritta” per far uccidere un mio collega della omicidi. Evento che per fortuna non si verificò (tutto questo fu verbalizzato in un interrogatorio che feci insieme al magistrato Giovanni Falcone). In sostanza, Giovanni Falcone aveva visto giusto sulla necessità dei collaboratori di Giustizia. Ed ecco come iniziai i rapporti col pentitismo degli uomini di Cosa nostra e che amo definire "i miei pentiti". Agli inizi degli anni 80, Ninni Cassarà mi “consegnò” Totuccio Contorno (nella foto, ndr), uomo d'onore che conoscevo bene e che i "corleonesi" cercavano di uccidere. Non potendolo rintracciare e quindi stanarlo, gli uccisero decine e decine di parenti e amici. Io stesso salvai un suo parente facendolo fuggire nel Nord Europa. Contorno, dopo aver subito un attentato a colpi di mitra, riuscì a rispondere al fuoco e si salvò. Poi si convinse e si consegnò alla Squadra mobile di Palermo. Lo nascondemmo nel Commissariato di Mondello, dove veniva interrogato quasi ogni giorno da Giovanni Falcone. Gli uomini d'onore scoprirono il luogo e decisero di compiere un attacco in forze. Avevano progettato d'impiegare una cinquantina di uomini d'onore, capitanati da Giuseppe Giacomo Gambino “U tignusu”, ma rinunciarono al loro intento per paura d'essere sopraffatti dalla nostra reazione. Fuggimmo da Mondello e ci nascondemmo in una struttura della
Questura, allestita per la bisogna e solo pochissimi fidati potevano accedervi. Nel 1983, una sera un tale Stefano Calzetta si presentò alla Mobile e nonostante non fosse un uomo d'onore, ci raccontò alcuni misteri di Cosa nostra. Per convincerci della sua attendibilità, la notte stessa ci accompagnò in un appartamento dove rintracciamo Pietro Senape, killer ricercato. Io, Ninni Cassarà e Giovanni Falcone raccogliemmo le sue dichiarazioni che ci permisero di arrestare due mafiosi latitanti proprio nei pressi della pescheria di Ciccio Tagliavia,condannato all'ergastolo per la strage di via Dei Georgofili a Firenze. Senape ci fece anche recuperare alcune armi e munizioni. Nel 1989 Giovanni Falcone doveva interrogare Francesco Marino Mannoia, che si era appena pentito ed io fui incaricato di assisterlo negli interrogatori, che avvennero a Roma. Durante l'assenza di Falcone, avevo anche l'incarico di “tradurre” le conversazione telefoniche di numerose utenze di Palermo in quel momento intercettate. Nel mese di giugno del 1992 ero già operativo alla Dia, mi venne letteralmente “consegnato” Gaspare Mutolo e lo nascosi in un appartamento della Capitale. Uscì da quella casa soltanto il primo luglio, quando Mutolo doveva essere interrogato da Paolo Borsellino. Interrogatori che continuarono anche il 16 e 17 luglio (quindi qualcuno se ne faccia una ragione, io c'ero, punto). Mentre proseguivano gli interrogatori di Mutolo, segnatamente da parte dei magistrati Lo Forte e Natoli, si pentì Pino Marchese, uomo d'onore che personalmente conoscevo per averlo visto a Palermo nel giorno del suo arresto per la strage di Natale avvenuta a Bagheria. Marchese era il cognato di Leoluca Bagarella e figlioccio di Totò Riina ed era destinato a divenire uno dei capi di Cosa nostra. Dopo un breve lasso tempo, anche il cugino di Pino Marchese, Drago Giovanni, si pentì venendo ad infoltire la schiera di pentiti della Dia, che aveva anche un pentito della 'ndrangheta che non ebbi modo d'incontrare. Nel frattempo Tommaso Buscetta rientrò in Italia dagli Stati Uniti e De Gennaro mi affidò l'incarico di assisterlo anche negli
interrogatori condotti dai vari magistrati. Anche Buscetta venne nascosto in un'anonima villetta, dove in pochi potevamo recarci. Ma non è finita qui. Dopo alcuni mesi ecco che due autori della strage di Capaci decisero di pentirsi e quindi li prendemmo in consegna noi della DIA: furono Gino La Barbera e Santino Di Matteo, arrestati nel noto covo di via “Ughetti” a Palermo, insieme a Antonino Gioè morto suicida (o “suicidato?”). Ecco tutti questi uomini di Cosa nostra m'aiutarono nel mio lavoro d'investigatore. Però ho un rammarico, ossia quello che non riuscii, per mancanza di tempo, a far pentire un uomo d'onore che avevamo appena arrestato (si pentì dopo). L'uomo, Giovan Battista Ferrante, era un importante uomo d'onore che ebbe un ruolo determinante nelle stragi del 92/93. Avevo capito sin dal momento del suo arresto che potevo farlo “pentire”. Purtroppo, nonostante parecchie ore trascorse insieme, non ebbi il coraggio di fargli la proposta: proposta peraltro comunicata alla Direzione a Roma e che mi avevano autorizzato. Ahimè, si fece tardi e fui costretto a spedirlo all'Ucciardone. Il Ferrante sarebbe stato il decimo dei “miei pentiti”. Ci fu un momento che fu chiesto il mio parere sul probabile pentimento di un uomo d'onore, rinchiuso a Pianosa. Mi battei con tutte le forze, riuscendo a non far accogliere il novello pentito alla DIA: motivai il dissenso, con particolare motivazione. Era uno dei più spietati killer di Cosa nostra e ancora oggi è al 41/bis. Nel concludere, è mia intenzione ringraziare questi Uomini, perchè grazie a loro ebbi modo di “visitare” la sede della Cupola e l'intera Cosa nostra: grazie a loro scoprimmo gli “Infedeli” e “traditori”, grazie ad uno di loro venni a conoscenza del mancato attentato nei miei confronti del 1982 e di cui solo nel 1994 fui informato. Fatti, non chiacchere e distintivo caratterizzarono la mia vita professionale. Avrei potuto fare di più? Certamente si! Tratto da 19luglio1992.it
http://www.19luglio1992.com/index.php?option=co m_content&view=article&id=8059:mafia-i-miei-pen titi-di-cosa-nostra&catid=2:editoriali&Itemid=4
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