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ERAVAMO IN 200 MILA di Emanuele Vicinelli
Editoriale: “ERAVAMO IN 200 MILA” Di Emanuele Vicinelli
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“La chiesa faccia di più per i suoi preti dimenticati” Di Salvo Ognibene
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Un reddito per la dignità, contro la povertà e le mafie! Di Giovanni Modica Scala
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“Quale giustizia per il carcere?” Di Giulia Silvestri
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“Tratta di esseri umani: dalla parte delle vittime” Di Antonella Frasca Caccia
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“Mafie in emilia-romagna: l’impegno della conoscenza” Di Irene Astorri
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“La responsabilità di fare la storia” Di Valeria Grimaldi
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“Beni confiscati, un’opportunità di crescita umana ed economica” Di Antonio Cormaci
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“Ecoreati. Per un paese attento all’ambiente” Di Giuseppe Mugnano
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Eravamo in 200mila, scesi in piazza per combattere la mafia. Per dire che la mafia deve andare via dal nostro paese, per dire che questo cancro va scalzato. Per ricordare i nomi di quelle mille e più persone che sono morte ammazzate, e per resistere, e per non tacere. Un corteo lungo tre chilometri, stando a quanto dice il Corriere. C’erano i parenti delle vittime, politici, studenti, cittadini, famiglie, scolaresche, comitati di rappresentanza, scout, curiosi, bambini – alcuni anche in passeggino. Sindaci, giornalisti, scrittori, le telecamere. C’era anche qualche politico. Eravamo davvero in tanti, tutti davvero carichi. C’erano cori, canti, striscioni, bandiere, chitarre. C’era un bel sole ed un sacco di colori, negli striscioni. C’erano le facce dipinte di rosa, giallo e arancione. C’erano sindacati, c’era impegno, c’era coraggio. Ci sono state davvero tante belle cose, questo primo giorno di primavera, nella grassa Bologna. In questo grande corteo c’era la voglia di verità, quella che illumina la giustizia. C’erano i nomi, quei mille nomi delle vittime di mafia, letti con ferma dignità. Quest’anno sono stati letti anche i nomi delle vittime dell’Uno bianca, della strage alla stazione di
Bologna e della strage di Ustica, così come quelli della strage del Rapido 904. Mancavano solo le vittime dell’Italicus, che non sono state lette. C’era, tra gli altri, Margherita Asta, che ha perso madre e fratelli nella strage di Pizzolungo, che alla fine del corteo ha parlato, dicendo che ogni giorno deve essere il 21 marzo. Non si può permettere altrimenti, perché diversamente né avrebbe senso ricordare, né avrebbe senso essere cittadini. C’era anche don Ciotti, nel corteo, in testa, insieme ai familiari delle vittime. Ha detto molte cose, nel suo discorso dopo la manifestazione. Ha invitato tutti, nessuno escluso, a essere militanti, a essere partigiani contro la mafia, intraprendendo un percorso di verità e giustizia, ricordando che essere dalla giusta parte è una scelta che non si prende una volta sola, e poi via: è una scelta che va rinnovata ogni minuto di ogni ora, con coraggio e passione. Ha ricordato le vittime di mafia, ha ricordato Roberto Mancini e ha mandato un pensiero alle vittime dell’amianto e del lavoro, così come ai familiari delle vittime dell’attentato di Tunisi. Ha ricordato anche gli studenti uccisi in Messico, e ha espresso solidarietà alle famiglie, alcune delle quali presenti alla manifestazione. Ha detto che la loro stessa presenza, lì, in quella piazza,
serve a ricordarci di avere coraggio. Ha parlato di politica, don Ciotti. È stato molto chiaro e diretto: la politica deve combattere la mafia, e aiutare con ogni mezzo i cittadini che militano contro la montagna di merda che ammorba il nostro paese, cominciando con leggi serie, severe, puntuali e complete, capaci di fornire una risposta ferma, decisa, rapida e giusta a tutti i fenomeni che si accompagnano alla mafia, primo su tutti la corruzione. Una politica che non fa questo è una politica che fa favori alla mafia. Ora, i casi sono due: o la politica è talmente miope da non capire che così facendo aiuta la mafia, oppure la vuole aiutare davvero. Don Ciotti ha espresso in modo chiaro i suoi timori di una nuova trattativa in corso. “Non si può e non si deve tacere!” ha detto. Poi, per concludere, si è rivolto ai giovani – noi giovani. Ci ha detto di resistere, resistere, resistere. Di non rassegnarci, di continuare a lottare contro la mafia, di continuare a militare, perché in questo modo lottiamo per i nostri diritti. Ci ha detto che è tempo che l’impegno straordinario di molti diventi l’impegno quotidiano di tutti. E allora andiamo, andiamo a buttare via questa montagna di merda dalla nostra Italia. Non siamo soli: il primo giorno di primavera ce lo ha dimostrato. 3
PER UNA PAROLA DI LIBERTÀ E DIGNITÀ
Memoria e impegno, la Chiesa faccia di più per i suoi preti dimenticati
che il 42% della popolazione italiana potesse giungere al di sotto della soglia di povertà, previsione che secondo Gobetti potrebbe presto concretizzarsi. La proposta avanzata da BIN è quella di garantire un reddito minimo individuale, individuando una soglia al di sotto della quale nessuno deve ritrovarsi, per garantire un’autonomia nella scelta del proprio percorso di vita anche in base alle competenze acquisite, di concerto con misure di inserimento sociale. Viene citato un rapporto del Parlamento Europeo del 2010 in cui si sottolinea che le forme di reddito minimo non sono un fattore di crisi bensì uno strumento di lotta alla crisi, in quanto comportano l’aumento dei consumi. L’auspicio con il quale si conclude il primo intervento è che la prima tranche di finanziamento derivi dai soldi tolti alle mafie.
di Salvo Ognibene www.eucaristiamafiosa.it Non sono solo don Pino Puglisi e don Giuseppe Diana i preti uccisi dalle mafie. L’elenco, purtroppo, é molto più lungo: da Costantino Stella e don Filippo Di Forti alle straordinarie figure di don Antonio Polimeni e don Giorgio Fallara portate alla luce grazie a Antonio Nicaso e Nicola Gratteri nel loro libro “Acqua santissima. Storia di rapporti tra Chiesa e ’ndrangheta”. Storie di preti e uomini “dimenticati”. Alcuni di questi sono ricordati nella rassegna di Umberto Santino intitolata “Sicilia 102. Caduti nella lotta contro la mafia per la democrazia dal 1893 al 1994”. Alcuni di questi ebbero la “sola colpa” di ascoltare l’invito di Leone XIII ad uscire fuori dalla sagrestia. Erano i cosiddetti preti “sociali”, da cui la Chiesa, ancora oggi, dovrebbe prenderne esempio. Ricordare per conoscere e per fare della memoria impegno, con la speranza che la Chiesa di Roma stia sempre un po’ più vicina a quei preti come don Giacomo Panizza, don Maurizio Patriciello, come Papa Francesco. Così che il vescovo di Roma da questi incoraggiamenti possa trarre la forza necessaria per trasformare parole e buoni intenti in fatti concreti per dare vita a un vero e auspicato cambiamento. La beatificazione di don Pino Puglisi e la recente proposta per istituire il processo di beatificazione per don Giuseppe Diana, entrambi per odium fidei (uccisi in odio alla fede) vanno in questa direzione ma ciò non basta. Anzi, la creazione di una martirologia mafiosa, non fa altro che aumentare la responsabilità e l’attenzione nei confronti della Chiesa di Roma, perché di “santini” e “figurine” di certo non abbiamo bisogno. Quello di cui necessita, il popolo dei fedeli e non solo, è una testimonianza forte e credibile di questi uomini di Dio. Accanto ai due preti uccisi negli anni ‘90, non vanno quindi dimenticati coloro che hanno perso la vita contro le mafie, facendo del Cristianesimo e del Cattolicesimo in particolar modo, una ragione di vita talmente aulica e giusta che non può finire nel dimenticatoio e rimanere in un passato senza memoria. 4
PER UNA PAROLA DI LIBERTÀ E DIGNITÀ
Un reddito per la dignità, contro la povertà e le mafie! di Giovanni Modica Scala Nell’aula della facoltà di giurisprudenza tipicamente riservata ai coinvolgenti seminari di Mafie e Antimafia, si è tenuto il workshop tematico dedicato al reddito di dignità e alla recente iniziativa promossa da LIBERA (www. campagnareddito.eu per informarsi e sottoscrivere l’appello) Nata nell’ambito della campagna nazionale Miseria Ladra, finalizzata al contrasto della povertà, la petizione per un “reddito di dignità” intende fare pressing nei confronti delle istituzioni affinché si discuta e si approvi una legge per liberare dalla ricattabilità chi versa in stato
di povertà. Sono, infatti, 10 milioni (16% della popolazione) i cittadini in stato di povertà relativa costretti a campare con una media di 506€ al mese e ben 6 milioni (9% della popolazione) quelli in stato di povertà assoluta. Ad aprire i lavori, Sandro Gobetti di BIN Italia, network per la promozione del reddito garantito. Molto sinteticamente illustra alcune tappe del dibattito, specificando che già nel 1997 la Commissione Onofri aveva indicato la necessità di introdurre il reddito minimo garantito per fronteggiare le politiche di deregulation. Nel 2005, poi, l’Eurostat metteva in luce il rischio
La parola passa al costituzionalista Gaetano Azzariti, il cui discorso si focalizza sul fondamento costituzionale del reddito di cittadinanza. Il docente universitario individua i principi fondanti della nostra Costituzione che giustificano l’adozione di una forma di reddito di cittadinanza: la dignità della persona, connessa ai doveri di solidarietà; l’eguaglianza; i diritti di cittadinanza, intesi come partecipazione ed appartenenza; il lavoro, che si pone a fondamento della nostra Costituzione. Sono dei principi inscindibili ed interconnessi, specialmente per quel che concerne lavoro e dignità (“garantire ai cittadini un’esistenza libera e dignitosa” - art.36 Cost.; dignità umana come limite alla libertà di iniziativa economica privata - art.41 Cost.; lavoro necessario per garantire il pieno sviluppo della persona - art.4 Cost.). Bisogna intendere il reddito di cittadinanza come forma di partecipazione: bisogna scongiurare il rischio del reddito come mero sussidio, come elemento caritatevole. Per fare ciò si può legare il reddito alle attività sociali, legandolo alla necessità che ciascuno svolga in base alle proprie capacità e alla propria scelta un’attività “che concorra al progresso spirituale e materiale della società” (art.4 Cost.). Il giurista
ricorda, poi - a proposito del solito slogan “Ce lo chiede l’Europa” al quale si ricorre per giustificare esclusivamente politiche di taglio al welfare - che il Parlamento Europeo, sempre nel 2010, ha invitato i paesi membri ad adottare forme di reddito minimo sostenendo che “è uno strumento che può contribuire a migliorare la qualità della vita e offre a tutti la possibilità di partecipare alla vita sociale, culturale e politica”. Non mancano, in chiusura, critici riferimenti all’attualità delle riforme costituzionali: “riformare la Costituzione per garantire la governabilità è una contraddizione in termini: il diritto costituzionale serve a limitare i poteri”. Prima dell’atteso intervento di Maurizio Landini, il coordinatore della campagna Miseria Ladra, Giuseppe De Marzo, incentra il proprio discorso sui dati allarmanti sulla povertà in Italia e sull’ impellenza di alzare la voce affinché le istituzioni si facciano carico di un problema che dovrebbe essere all’ordine del giorno (negli ultimi 3 anni la percentuale di atti e iniziative di legge discusse dal Parlamento in tema di lotta alla povertà è dello 0,8%). L’origine di “Miseria Ladra” risiede nella necessità, come LIBERA, di assumersi delle responsabilità di fronte alle pratiche di darwinismo sociale che colpiscono il nostro Paese. La povertà, nel giro di 7 anni, è raddoppiata. L’Italia è il Paese in cui più di 1/4 della popolazione è in condizione di povertà. E’ anche il Paese con il più alto tasso assoluto di povertà minorile. Il tasso di rischio di rimanere povero è il più alto d’Europa. Anche i dati sulla dispersione scolastica sono sconcertanti: siamo al 17,6% (con punte del 22% al sud) contro una media europea del 13,2%. In uno Stato in cui il 61% dei disoccupati sarebbe disposto a lavorare per le mafie, il primo fattore di lotta alla corruzione è la giustizia sociale, per questo motivo LIBERA ha deciso di condurre una battaglia sul reddito di dignità. Maurizio Landini, leader della FIOM e protagonista del lancio della cd. coalizione sociale, ammette che era in principio contrario a questa forma
di reddito, specie se destinato anche a chi non lavora. Viene ricordata in proposito la posizione del dirigente della CGIL, Bruno Trentin, il quale motivava la sua contrarietà in quanto l’ambizione di un sindacato dev’essere quella di puntare alla qualità del lavoro. Dopo la fase di massima forza del sindacato e di conquiste anche sul piano dei diritti, tra il 1969 e il 1980, il mondo del lavoro è totalmente cambiato: secondo Landini siamo di fronte ad una svalorizzazione generale del lavoro senza precedenti, in cui anche chi lavora è spesso povero. Oggi c’è gente che pur di lavorare, paga per essere assunta: si è passati ad una logica del favore. Di fronte a tutto ciò, Landini e la FIOM hanno progressivamente allargato gli orizzonti. La battaglia non deve, però, limitarsi al tema del reddito minimo garantito. Di fronte alla scomposizione del ciclo produttivo e alla libertà di licenziare diviene difficile per i lavoratori organizzarsi collettivamente. Di qui l’esigenza di ricomporre uno strato sociale frantumato anche all’interno del mondo del lavoro (v. partite IVA e lavoro autonomo). Le proposte della FIOM sono: estendere la cassa integrazione a tutti e finanziarla con i contributi dei lavoratori e delle imprese; introdurre una forma di reddito minimo garantito finanziato dalla fiscalità generale e, in particolare, dai più ricchi; andare verso un nuovo Statuto dei diritti dei lavoratori e verso un ripensamento della contrattazione collettiva. Conclusi gli interventi dei principali relatori, è stato concesso uno spazio anche a movimenti e realtà studentesche che da tempo portano avanti delle battaglie in tema di reddito minimo e che forniranno il loro sostanzioso apporto alla causa. Pertini diceva: “Per me non vi può essere vera libertà senza giustizia sociale. Possiamo considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli? Questo non è un uomo libero. Sarà libero di bestemmiare, di imprecare, ma questa non è la libertà che intendo io.” 5
PER UNA PAROLA DI LIBERTÀ E DIGNITÀ
PER UNA PAROLA DI LIBERTÀ E DIGNITÀ
di Antonella Frasca Caccia
“Quale giustizia per il carcere?” di Giulia Silvestri
Il 21 marzo non è solo la giornata nazionale antimafia, ma anche la giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale. Per questo motivo parlare di carcere in quel primo giorno di primavera è stato particolarmente significativo: gli immigrati irregolari sono circa il 30% del totale dei detenuti. Questo aiuta a capire, come hanno sottolineato i relatori dell’incontro, in che modo viene visto oggi il carcere: una sorta di discarica in cui vengono rinchiusi coloro che sono considerati diversi dal resto della società, tra i quali vengono annoverati i tossicodipendenti, gli stranieri irregolari, i reietti di ogni genere. Erano presenti l’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, il parroco del quartiere Dozza don Giovanni Nicolini, il presidente dell’associazione Altro Diritto Emilio Santoro, Ornella Favero di Stretti Orizzonti e Paola Piazzi dell’associazione Il poggeschi per il carcere, nonché Claudia Clementi, la direttrice del carcere di Bologna. L’incontro si è concentrato sull’inumanità degli istituti pentenziari del nostro Paese, partendo dalla sentenza che l’8 gennaio 2013 ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti; la Corte ha affermato che il sovraffollamento degli istituti penintenziari è contrario al rispetto della dignità umana. 6
Prima di mettere in discussione diversi istituti giuridici in merito al regime carcerario, le parole di don Nicolini sono risuonate forti nella stanza di Palazzo d’Accursio: per i volontari in carcere e per tutti i cittadini il confronto con il detenuto deve avvenire come un incontro di persone “con persone”. Si tratta di una frase che potrebbe essere considerata provocatoria, soprattutto oggi che la televisione ci presenta l’indagato come un colpevole, il condannato come un soggetto lontano dalla nostra vita e il capro espiatorio di una società inumana. Una volta entrati nel vivo dell’argomento si è parlato della rieducazione del condannato, la finalità a cui la pena dovrebbe tendere, almeno secondo la nostra Costituzione: scopo rimasto perlopiù sulla carta. Si può parlare di rieducazione ai fini del reinserimento sociale quando un soggetto è condannato all’ergastolo o è sottoposto al regime di carcere duro del 41 bis? La rieducazione venne considerata possibile dalla nostra Corte Costituzionale, che si pronunciò sul primo istituto quando non esisteva ancora l’ergastolo ostativo (senza alcuna possibilità da parte del condannato di essere scarcerato). Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo l’istituto va valutato invece sotto il profino della dignità umana e non in merito alla finalità rieducativa: in questo senso una pena che non
lascia la speranza di esere liberati è considerata inumanizzante. Secondo Ornella Favero oggi si deve avere il coraggio di intraprendere anche un’altra lotta, a favore di quelle persone che sono sottoposte al 41 bis, molto spesso componenti di un’organizzazione criminale. Quello che hanno fatto non giustifica ciò che subiscono questi soggetti sotto il profilo psicologico, sentimentale e anche fisico (l’isolamento continuo può avere ripercussioni sere sulla salute di una persona). È evidente che si tratta di due istituti che tolgono la dignità agli esseri umani che vi sono sottoposti, resta tuttavia difficile proporre oggi la loro abolizione, almeno finché i detenuti verranno additati come mostri lontani dal nostro mondo e fino a che non si riuscirà a lavorare sulla società cosiddetta civile che, anche a causa di una stampa malata, grida vendetta e non giustizia. È necessario anche in questo caso, come in quello dell’immigrazione, capire che stiamo parlando di esseri umani che nonostante la nostra riluttanza sono uguali a noi; in carcere non ci sono solo mostri, ma persone che hanno fatto degli errori. Se togliamo loro la dignità come possiamo pensare di essere migliori? Dobbiamo lavorare su noi stessi e, come auspicava Vittorio Arrigoni, restare umani.
Era questo il nome di uno dei seminari organizzati a Bologna in occasione della Giornata dell’impegno e della memoria per le vittime innocenti di mafia. Tra i relatori Mirta Da Pra del Gruppo Abele, l’avvocato Alessandra Ballerini, il presidente onorario di Libera Nando dalla Chiesa, e l’avvocato e coordinatore della Carovana Antimafie, Alessandro Cobianchi.
che dietro la tratta di esseri umani non ci sono le organizzazioni criminali. C’è chi resta un po’ stupito da questa affermazione fino a quando non capiamo che lo zampino delle organizzazioni criminali c’è, ma il loro maggiore profitto non deriva dallo sfruttamento delle vittime di tratta nel settore agricolo o industriale, ma soprattutto nella gestione del sistema di accoglienza. Alessandra Ballerini, avvocato e autrice del libro “La vita ti sia lieve”, con una semplicità disarmante
“Tratta di esseri umani: dalla parte delle vittime” Ad aprire il seminario è stata Mirta Da Pra, con un quadro generale sul tema della tratta, spiegando che il termine “tratta” si può riferire a fenomeni diversi: la tratta a scopo di sfruttamento nel lavoro, nell’accattonaggio, nelle economie illegali, nella prostituzione e la tratta volta all’espianto degli organi (reni e cornea). È importante porre l’accento sul rapporto che si crea tra la vittima della tratta e il suo trafficante. Il forte legame che si crea è dovuto al fatto che nella maggior parte dei casi il trafficante è un amico se non un familiare della vittima, e dal fatto che c’è sempre un debito dietro al quale si cela un ricatto. Spesso questo rapporto raggiunge la gratitudine. Quel trafficante è l’unica possibilità per cambiare vita, per tentare di emanciparsi lontano dal proprio paese, per scappare dalla povertà, dalla guerra, per cercare un lavoro, per avere, chissà, addirittura la possibilità di studiare. Nando dalla Chiesa, sfatando uno dei più gradi luoghi comuni spiega
spiega che se è vero che la mafia concede come favore ciò che spetta a ognuno come diritto, la cosa principale da fare per combatterla è tutelare quei diritti. In breve, come specificato dalla relatrice, se fossimo noi a far attraversare le nostre frontiere ai migranti, questi non avrebbero bisogno di trafficanti. Se per esempio gli stati europei decidessero di rilasciare dei visti per motivi umanitari, tanta gente eviterebbe di attraversare il mare, e i più preoccupati dall’idea che dal mare possano arrivare dei terroristi potrebbero trovare serenità nella consapevolezza che un visto umanitario comporta un’identificazione certa della persona. E poi, quale organizzazione spenderebbe tanti soldi per addestrare un terrorista per poi lasciarlo in balia delle onde? Mente gli stati europei sembrano preferire continuare a far affollare il cimitero Mediterraneo pur di non aprire vie legali per i profughi - ad esempio, siriani ed eritrei – un’appello, al limite della provocazione, è stato
rivolto allo Stato Vaticano. Si richiede a quest’ultimo di rilasciare, tramite le nunziature apostoliche (le missioni diplomatiche della Santa Sede presso altri Stati), dei visti temporanei ai migranti in modo da farli arrivare fisicamente in Vaticano, dove sono presenti le ambasciate di numerosi paesi presso cui poter richiedere protezione internazionale. Tutto questo sarebbe possibile poiché, non essendo lo Stato Vaticano firmatario del regolamento comunitario Dublino III, i migranti giunti lì non sarebbero obbligati a richiedere protezione proprio in quello Stato, e potrebbero quindi richiedere protezione altrove. Non c’è l’illusione che un unico stato possa risolvere il problema delle morti in mare. Il pericolo mar Mediterraneo è solo la prima questione da risolvere. Come facciamo a evitare tutte queste morti? Come facciamo tutelare il diritto d’asilo e protezione internazionale? Come facciamo a evitare che le nostre mafie speculino nella gestione del sistema d’accoglienza attualmente in funzione e nello sfruttamento delle vittime di tratta? Cosa possiamo fare per non contribuire a realizzare la maggior parte delle cause che stanno all’origine della tratta di esseri umani? Gli spunti forniti dal seminario possono essere dei punti di partenza per una riflessione sul tema. Come ricordato da Nando dalla Chiesa sarebbe auspicabile una maggiore cooperazione a livello europeo nella lotta alla criminalità organizzata, anche se, ad esempio, la commissone antimafia europea non è più stata ricostituita. La costruizione di un’Europa più giusta passa dalla attivazione di cordoni umanitari e dalla possibilità di rilasciare dei visti per raggiungere l’Europa su mezzi sicuri. L’unica via è quella dei diritti umani. 7
PER UN DOVERE DI INFORMAZIONE E DEMOCRAZIA
PER UNA DOMANDA DI GIUSTIZIA E VERITÀ
TERRORISMO E MAFIE,
tra verità storica e verità giudiziarie di Valeria Grimaldi
MAFIE IN EMILIA-ROMAGNA: l’impegno della conoscenza di Irene Astorri Al giorno d’oggi, e soprattutto grazie alla manifestazione di LIBERA, è più facile parlare della presenza della mafia in Emilia Romagna. Presenza a lungo negata, con amministratori locali che hanno preferito per molto tempo girarsi dall’altra parte, ignorando il problema. Presenza ormai data invece come un fatto certo: non si parla più, infatti, di semplice infiltrazione , ma di una vera e propria colonizzazione. Ad affermarlo, in una aula gremita di persone, sono illustri relatori: Giovanni Tizian, giornalista minacciato più volte dalla ‘ndrangheta, Carlo Lucarelli, giornalista e scrittore di nota fama e Roberto Alfonso, Procuratore capo di Bologna, moderati da Lorenzo Frigerio, rappresentante di Libera. Il fenomeno nasce purtroppo da una normativa Antimafia del passato completamente sbagliata: l’obbligo di soggiorno dei Boss mafiosi in un Comune diverso da quello di residenza (cd. “soggiorno obbligato”). La norma, nata con lo scopo di allontanare i boss dalla terra di origine e, conseguentemente, indebolire il clan, ha invece fatto sì che proprio in Emilia, considerata per motivi storici terra completamente estranea alla mafia, i soggetti socialmente pericolosi potessero porre in essere le loro attività, creando una personale e “nordica” rete di contatti. Il radicamento ha una data e un nome precisi: giugno 1982 ad opera del capo mafia calabrese Dragone. 8
È con il suo arrivo infatti, che sono iniziati anche i conflitti armati per la conquista della leadership. Con le diverse indagini portate avanti dai pubblici ministeri è stato possibile ricostruire l’intera rete: l’indagine consiste nell’acquisire elementi fattuali che, anche se non consentono di individuare l’autore specifico di un reato, permettono comunque di capire l’intero fenomeno nel suo complesso. Ciò ha permesso di ricostruire il filo rosso che lega la mafia emilianoromagnola alla ‘ndragheta di Cutro, alla cui testa si trova Nicolino Grande Aracri. Infatti, benchè da una parte le articolazioni locali stiano subendo un progressivo processo di autonomizzazione, dall’altra rimangono comunque ancora fortemente legate alla “casa madre”. Ma come ha fatto la mafia ad infiltrarsi in Emilia-Romagna, una terra che, storicamente parlando, è sempre stata lontana da queste logiche? Gli elementi che hanno portato a questo risultato sono stati molteplici: innanzitutto a permettere l’avanzamento del fenomeno è stata proprio la certezza di avere gli anticorpi per poterlo contrastare, il negare la stessa esistenza, la stessa presenza. In secondo luogo è stata fondamentale la scelta da parte della stessa mafia di rinunciare alla sua componente azionista in favore di una affaristica e imprenditoriale: presentarsi con volto da imprenditore anzichè da criminale, le ha permesso di porsi sullo stesso livello degli imprenditori
stessi, che hanno pensato di poter scendere a patti perchè “in fondo si tratta solo di denaro/affari”. Altro elemento, sempre legato al mondo dell’imprenditoria, è stata la continua e prolungata assenza dei Governi che si sono succeduti durante i periodi di crisi economica, duranti i quali gli imprenditori, non potendo accedere agli Istituti di credito e non avendo altre forme di tutela, si sono rivolti ad altri “istituti” per poter continuare il loro lavoro. Permettendo alla mafia di riciclare il denaro e di assumere de facto la proprietà dell’azienda (cd azienda di paglia). I veri alleati della mafia sono quindi tre categorie di persone: - coloro che pensano sia possibile fare accordi purchè non si partecipi ad azione criminali - chi proclama continuamente la creazione di leggi antimafia e in realtà toglie gli strumenti idonei a combatterla realmente (in primis le intercettazioni) - chi sostiene che con la mafia si può convivere: questo è un riconoscimento che le mafie stesse vogliono ottenere e perciò è la categoria più pericolosa. Alla luce di ciò, non è necessario un processo per accertare la presenza della mafia in Emilia Romagna. L’unica azione possibile è fare il possibile per contrastarla e ciò è possibile tramite due strumenti: diffondendo la cultura della legalità, insegnando ai giovani che le scorciatoie non portano da nessuna parte e aggredendo i patrimoni economici, perchè le persone si sostituiscono, le ricchezze no. Il seminario si è comunque chiuso con una nota di speranza: se tutte le persone presenti alla manifestazione sapranno praticare quanto detto, sarà possibile sconfiggerla.
Lo si ripete più e più volte. Il nostro è un paese la cui storia è segnata dalle stragi, tentativi di golpe (alcuni, a quanto pare, andati a buon fine) che hanno destabilizzato le fondamenta della nostra democrazia e cambiato il corso della storia. Un cambiamento che trascina i suoi effetti fino ad oggi, a 60, 50, 40, 30, 20 anni da quegli eccidi: non esiste una sola decade che non abbia conosciuto esplosioni e sangue di innocenti che scorre, come un fiume in piena. Nella XX giornata della memoria e dell’impegno per le vittime innocenti di tutte le mafie, insieme all’elenco delle vittime di mafia, Libera e Don Ciotti hanno voluto includere anche altri nomi, quelli delle vittime della Strage del 2 agosto, dei treni Italicus e Rapido 904, della strage di Ustica e della Uno Bianca. Stragi che trovano qui, a Bologna, un comune denominatore che intreccia storia giudiziaria e storia di vita. Nel seminario “Terrorismo e mafie, tra verità storica e verità giudiziarie”, si è cercato di mettere un punto a tante scomode verità; si è seguito un filo rosso che accompagna tutta la storia della nostra repubblica: da Portella della Ginestra, in quel 1 maggio 1947, alle stragi del “continente” nel 1993 tra Firenze, Roma e Milano; passando per Bologna, alla stazione, quello squarcio rivolto al cielo; l’Italicus e il Rapido 904, Piazza Fontana e Piazza della Loggia. Un Paese unito sotto il (di)segno di un uso politico della storia e delle strutture del nostro ordinamento. E’ questa una prima certezza. Una certezza che viene detta con forza da tutti i relatori presenti: Maurizio Torrealta, giornalista che si è sempre occupato di queste tematiche; Cinzia Venturoli, storica che da anni conduce un lavoro di sensibilizzazione coi giovani e con le scuole; Manlio Milani, presidente dell’Associazione Familiari delle
vittimi di Piazza della Loggia; Raimondo Catanzaro, sociologo esperto di mafia e terrorismo; Vincenzo Macrì, procuratore generale di Ancona, già giudice e procuratore generale a Reggio Calabria e sostituto procuratore alla Direzione Nazionale Antimafia, vice di Pietro Grasso; e Ilaria Moroni, moderatrice dell’incontro, della Rete degli archivi per non dimenticare (http:// www.memoria.san.beniculturali. it/ ). Intervengono, dopo una prima battuta di riflessioni, i magistrati Leonardo Grassi (che si occupò nella sua carriera dei processi Italicus bis e Strage di Bologna bis) e Claudio Nunziata (anche lui si occupò della Strage del 2 agosto, dell’Italicus e del Rapido 904); gli storici Francesco M. Biscione (fu consulente per la Commissione Parlamentare d’inchiesta sul terrorismo) e Francesco Di Bartolo (che si è occupato, e continua ad occuparsi, di Portella della Ginestra). Tante voci, diverse, ma che sembrano parlare all’unisono. C’è una certezza, abbiamo detto. E cioè la destabilizzazione che le stragi hanno provocato nella nostra storia e nella nostra democrazia, cambiandone sicuramente la direzione. Viene quasi automatico provare ad immaginare, a questo punto, come sarebbe stato il nostro Paese, come sarebbe oggi. Ma è un pensiero inutile, che scarica facilmente le colpe che ciascuno di noi ha e di cui deve farsi carico. Perché sono tante altre le certezze, una in particolare. Più volte ribadita in tantissime sedi, ma che in questa occasione acquista un significato che pesa sulle spalle. E’ proprio la verità la grande assente della nostra storia. E questo perché “spaventa”, come sostiene Catanzaro, o è addirittura “inconfessabile”, come invece sostiene Nunziata. Questo concetto così reale e fugace al tempo stesso, viene declinato in una moltitudine di sfaccettature che te ne fanno
cogliere l’estrema duttilità. Ma anche la necessità che venga gridata a gran voce. Il rapporto tra verità storica e verità giudiziaria, all’interno di un ordinamento giuridico, non dovrebbe nemmeno porsi. Il giudice accerta i reati all’interno di un processo, non la storia. E lo storico, come spiega bene Cinzia Venturoli, proprio lì dove il giudice è costretto a fermarsi per le regole processuali, ha il dovere di andare avanti. Una “responsabilità di fare la storia”. Il fatto che le sentenze, quelle poche che giudizialmente sono arrivate ad un accertamento penale delle responsabilità, arrivino a ricostruire fatti e pezzi della storia del nostro paese, è una anomalia tutta italiana, proprio perché, come già ribadito, le stragi, sia di terrorismo che di mafia (e molto spesso entrambi hanno concorso nella loro realizzazione), hanno avuto un preciso scopo politico. E anche perché, dall’altro lato, come ribadisce anche Manlio Milani, gli storici non stanno facendo la loro parte, salvo rare eccezioni: insieme ai mass media “si rinchiudono nella facilità del mistero e del misterioso”; sul terrorismo brigatista ci sono state una infinità di pubblicazioni, mentre su questo periodo si fa un enorme fatica perché, dice sempre Milani “risulta più facile entrare in collisione con il potere”. Quel potere che ha utilizzato i nostri apparati per una precisa finalità di politica interna. Un cerchio che si chiude, insomma. “Non si può capire il presente e soprattutto costruire il futuro, senza conoscere il passato”, dice il procuratore Macrì. Un passato che a fatica riesce a costruire memoria e conoscenza. Le due chiavi di lettura necessarie affinché tutti possiamo renderci responsabili di fare la storia. Di conoscerla, capirla, e farla nostra. Quel “io so, ma non ho le prove”, di pasoliniana memoria, riecheggia nell’aria costantemente. Ma si arresta ad un certo punto, non può 9
PER UNA ECONOMIA DI SOLIDARIETÀ E SVILUPPO
che essere costretto a fermarsi. Da un muro di parole e di commozione dell’unica persona intervenuta che non mi sono sentita di includere insieme a tutti gli altri. Franco Sirotti è fratello di Silver Sirotti, una delle vittime del treno Italicus, che nel 2014 ha compiuto 40 anni da quella bomba deflagrata fuori dalla galleria del Grande Appenino, e che fece 12 morti e 48 feriti. Silver era conduttore per le Ferrovie dello Stato: diplomato, studente di ingegneria. Era lì, ci racconta Franco: non era il suo turno quel giorno, ma fu chiamato lo stesso per essere in servizio su quel treno espresso Roma-Monaco di Baviera, in quella calda estate del ’74. Aveva solo 14 anni Franco, quando seppe che il fratello 24 enne era una delle vittime di quella strage: un giorno che non ha mai dimenticato e che gli ha cambiato la vita per sempre. La cosa sorprendente della storia di Silver, e di Franco, è che Silver era
sopravvissuto all’esplosione: non si trovava nella quinta carrozza dove era stata posizionata la bomba. Ma decise, con un estintore in mano, di gettarsi tra le fiamme, per salvare le persone intrappolate in quell’inferno di fuoco. E da quell’inferno non fece più ritorno. “Per la celebrazione dei quarant’anni della strage, lo scorso 9 maggio, mi è successa una cosa straordinaria”: Franco racconta di aver conosciuto per la prima volta, dopo quarant’anni, Mauro Russo, uno dei sopravvissuti alla strage grazie all’intervento di suo fratello Silver, insieme alla sorella Marisa, purtroppo scomparsa qualche anno prima per un male incurabile. E conobbe anche un’altra famiglia, di Castel Franco Emilia, che fu spostata dalla quinta carrozza ad un’altra proprio da Silver, per farli stare più comodi, e salvandogli, casualmente, la vita. «Controllore in servizio, in occasione
del criminale attentato al treno Italicus non esitava a lanciarsi, munito di estintore, nel vagone ov’era avvenuta l’esplosione per soccorrere i passeggeri della vettura in fiamme. Nel nobile tentativo, immolava la giovane vita ai più alti ideali di umana solidarietà. Esempio fulgido di eccezionale sprezzo del pericolo e incondizionato attaccamento al dovere, spinti fino all’estremo sacrificio. Alla memoria.» (Medaglia d’oro al valore civile) Non nasconde l’emozione, Franco. E non la nascondo nemmeno io. Per quel ragazzo, poco più grande di me, che ha dato la sua vita per salvarne altre. Forse ad una verità piena non si arriverà mai. Ma questo non ci giustifica dalla nostra responsabilità, la stessa di cui parlavo prima. Una responsabilità che ci chiede, a gran voce, che il coraggio di Silver non venga mai dimenticato.
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Ecoreati, per un Paese attento all’ambiente Il lungo iter parlamentare per l’approvazione della nuova legge sui reati ambientali di Giuseppe Mugnano Un numero, qualsiasi numero, presuppone due peculiarità: certezza e grandezza. La prima, che possiamo anche definire precisione, fa sì che solo un altro numero possa controvertere il suo verdetto. La seconda, semplicemente, ne indica la portata. E’ con questi che da anni Legambiente si batte per far approvare in Parlamento la legge sui cosiddetti ‘Ecoreati’, i reati legati all’inquinamento dell’ambiente. “Era il 1994 quando Legambiente – spiega Stefano Ciofani, Vicepresidente nazionale dell’associazione, a margine della conferenza ‘Ecoreati nel codice penale: #ChiInquinapaghi’ tenutasi il 21 marzo a Bologna – presentò il suo primo rapporto sulle ecomafie in Parlamento, in cui si descriveva nel dettaglio il ciclo del cemento e dei rifiuti”. Abuso edilizio e inquinamento ambientale, espressioni
fin troppo familiari nel nostro Paese, vessato instancabilmente da decenni a causa delle attività illecite delle organizzazioni criminali. “Nel 2002 ci fu il primo arresto legato ad un reato ambientale, all’interno dell’operazione ‘Greenland’: sebbene il 40% dei reati si registri tra Sicilia, Campania, Puglia e Calabria – sottolinea Ciofani – l’arresto avvenne in provincia di Perugia”. Ciò testimonia della capillarità del fenomeno, diventato metastasi in poco tempo: sono infatti millecinquecento i traffici illegali ambientali stimati a partire da quella data. Eppure lo Stato non si è mosso, almeno fino al 2013, quando il governo Letta nella figura dell’allora Ministro dell’ambiente Andrea Orlando, ha cominciato a smuovere le acque. Furono presentati quindi tre disegnati di legge, da parte del Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Sinistra Ecologia Libertà. “Un grande gioco di squadra – racconta
– che tuttavia presentano ancora delle lacune che impediscono un regolare iter giudiziario”. Si riferisce ai tempi di prescrizione, di 4 anni, e alla gravità del reato. Esistono infatti “due tipi di reati – spiega l’Avvocato David Zandolfini, presidente nazionale del Centro di azione giuridica di Legambiente – contravvenzionali e delittuosi. Gli ‘ecoreati’ appartengono al primo di questi e quindi prevedono esclusivamente pene pecuniarie”. Ma ora la situazione si sta lentamente evolvendo. Il testo unico, approvato dalla Camera il 26 febbraio 2014, prevedeva l’inserimento di quattro nuovi reati (inquinamento, disastro ambientale, mancata bonifica e trasporto di materiale radioattivo), nonché la conversione dei reati ambientali in delittuosi, con condanne fino ai vent’anni di reclusione. Dopo 10 mesi di stasi, risoltasi grazie alla sentenza del processo Eternit e di
Alessandro Bratti, parlamentare Pd e Presidente della Commissione d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti – ha permesso di presentare una proposta di legge valida, mirata a semplificare la legge e favorire un controllo più efficace”. Semplificare, perché una legge tuttora esiste. Si tratta però di “130mila norme – interviene Giuseppe Giove, comandante regionale del corpo forestale dello Stato Emilia Romagna
altre due condanne in cause ambientali, il testo è stato approvato anche dal Senato, ma con due modifiche. Si torna pertanto alla Camera, per la terza lettura (cominciata lo scorso 19 febbraio) per cui Legambiente ha lanciato un appello in stile social: “Cari deputati, approvate la legge sugli ecoreati senza cambiare #neancheunavirgola”. Se così non fosse, il rischio è di affossare definitivamente il provvedimento. A chiederlo non sono soltanto le associazioni ambientaliste, ma “ le tante vittime silenti – esorta Salvatore Micillo, parlamentare M5S nonché cofirmatario della proposta di legge – che ogni giorno muoiono di cancro”. Per lui, che proviene da Giugliano, uno degli epicentri della ‘Terra dei fuochi’, è anche una battaglia personale. “La loro intenzione è di bruciare perfino le ecoballe: si tratterebbe di un genocidio annunciato!”. Perciò è forte il suo invito allo Stato ad intervenire, ma soprattutto alla comunità a “ribellarsi per difendere la propria esistenza”.
BENI CONFISCATI, UN’OPPORTUNITÀ DI CRESCITA UMANA ED ECONOMICA di Antonio Cormaci Quella dei beni confiscati è certamente una delle battaglie più difficili del mondo dell’antimafia sociale e, soprattutto, normativa. Libera è stata il fil rouge di questo tortuoso percorso normativo, un percorso che ancora non ha forse sortito gli esiti sperati e che rimane, al momento, un sogno che nella sua completezza è parte più dei progetti della politica sociale, che di quella reale. Di beni confiscati si è parlato domenica 21 marzo, una data importante non solo per il ricordo, ma perché spesso, attraverso la ricchezza delle sue attività pomeridiane, diventa sempre più una tavola rotonda, un luogo di dialogo. Il seminario “I beni confiscati per l’inclusione sociale, il lavoro vero e lo sviluppo sostenibile” è stato un ricchissimo luogo di confronto sulla materia. Ad aprire i lavori, la prof.ssa Stefania Pellegrini, titolare della cattedra di “Mafia e Antimafia” presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, la quale in una fase introduttiva ha sottolineato l’importanza, appunto , del dialogo, poiché “non si può essere voci solitarie”, poiché la tematica dei beni confiscati comprende diverse voci, “si tratta di una questione sociale, di una questione 10
normativa, di una questione di diritto del lavoro”. Su questa poliedricità della tematica hanno insistito tutti i relatori della giornata; Fabio Giuliani, referente di Libera Campania, ha sottolineato l’importanza non solo della confisca in sé del bene, ma anche della restituzione del maltolto, di una sorta di risarcimento del danno, che non può avvenire in altro modo se non attraverso una riassegnazione che contempli un rapido riutilizzo in un’ottica anche sociale, considerata la vita che alcuni ragazzi di strada – per esempio in Campania – sono costretti a fare, senza strutture sociali di riferimento; una riassegnazione giusta del bene “libera il welfare”, ne aumenta l’efficienza, diventando un mezzo per lo sviluppo di una civiltà condivisa. Condivisione e rete, due termini importantissimi all’interno del mondo dell’antimafia. Ne è convinto Luca Grosso, dell’Agenzia Cooperare con Libera Terra, il quale ha più volte sottolineato, all’interno della sua relazione, come una strutturazione razionale nel lavoro all’interno delle cooperative che gravitano intorno a Libera Terra possa essere motivo per infondere quella “qualità imprenditoriale” che a dire il vero è stata carente nei primi anni di storia del recupero del bene confiscato. Una verità, in questa affermazione, c’è e lo testimonia il fatto
che il Nero d’Avola prodotto dai vitigni dei beni confiscati è stato decretato come secondo miglior vino italiano. Occorre pertanto un’organizzazione, una sorta di collante con la realtà industriale ed imprenditoriale già presente nel territorio, al fine di creare un sistema economico che prenda spunto dalla realtà dei beni confiscati. Uno che di beni confiscati se ne è intende è Antonio Maruccia, procuratore generale presso la Corte d’Appello di Lecce ed ex commissario dei beni confiscati, una figura che esisteva prima dell’istituzione dell’Agenzia. Come conclusione ideale del percorso tracciato fino a quel momento, Maruccia, più che parlare propriamente di beni e recupero, ha insistito sull’importanza della conoscenza del fenomeno in senso ampio, dell’informazione, poiché “la mafia agisce attraverso diversi modelli operativi e la corruzione è uno di quelli, ma non il solo”. Serve pertanto “un monitoraggio”, uno sforzo collettivo, così come è stato fino ad ora, attraverso l’ausilio non solo dell’attività dei tribunali ma anche, per esempio dei sindacati. Ma deve esserci anche uno sforzo da parte della politica: la proposta di legge Mattiello, sull’estensione dell’incandidabilità dei sindaci, potrebbe essere utile in tal senso.
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