Rivista di Diritto Tributario 2/2016

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La collana propone interventi di studiosi della materia su problemi di attualità e su temi di più ampio respiro, affrontati in modo diretto e puntuale, allo scopo di fornire al lettore un quadro d’insieme che unisca approfondimento della questione, sinteticità di esposizione, visione sistematica e attenzione alle esigenze della prassi.

1. Guglielmo Fransoni, Profili fiscali della disciplina comunitaria degli aiuti di stato 2. Francesco Padovani, L’imposta sul valore aggiunto 3. Andrea Carinci, La riscossione a mezzo ruolo nell’attuazione del tributo 4. Marco Greggi, Profili fiscali della proprietà intellettuale nelle imposte sui redditi 5. Laura Castaldi, Sul processo tributario litisconsortile 6. Thomas Tassani, I trusts nel sistema fiscale italiano 7. Marco Greggi, Il principio di inerenza nel sistema di imposta sul valore aggiunto: profili nazionali e comunitari 8. Andrea Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’iva europea 9. Philip Laroma Jezzi, Integrazione negativa e fiscalità diretta. L’impatto delle libertà fondamentali sui sistemi tributari dell’unione europea 10. Simone Ghinassi, La fattispecie impositiva del tributo successorio

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Rivista bimestrale

2016

Vol. XXVI - Aprile 2016

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DIRETTA DA Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo

In evidenza: • l nuovo interpello disapplicativo

Tommaso Di Tanno • Diritto giurisprudenziale, contrasto ai comportamenti abusivi e certezza nei rapporti

tributari Francesco Montanari • L’incidenza della normativa in tema di aiuti di Stato sull’autonomia tributaria degli Stati

membri alla luce del nuovo modello di finanziamento Sarah Eusepi • Il tormentato destino della disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento:

riflessioni intorno ad una ipotesi di interpretatio secundum constitutionem Federico Aquilanti • Il termine assoluto (o relativo?) di prescrizione dei reati tributari alla luce della sentenza

Taricco: profili sistematici Alessandro Albano

ISSN 1121-4074

Adriano Di Pietro Andrea Fedele Guglielmo Fransoni Pasquale Russo

Diritto Tributario Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016

COMITATO DI DIREZIONE

Vol. XXVI - Aprile

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Pacini


Indici

DOTTRINA Alessandro Albano

Il termine assoluto (o relativo?) di prescrizione dei reati tributari alla luce della sentenza Taricco: profili sistematici (nota a Corte di Giustizia, C-105/14 dell’8 settembre 2015)............................................................................... IV, 45 Federico Aquilanti

Il tormentato destino della disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento: riflessioni intorno ad una ipotesi di interpretatio secundum constitutionem (nota a Comm. trib. prov. di Torino, n. 2019/2015)..........................

II, 83

Luca Cogliandro (*)

“Società non operative”, rimborso dell’Iva e principi comunitari (nota a Cass., n. 6200/2015).................................................................................

II, 64

Tommaso Di Tanno

Il nuovo interpello disapplicativo ............................................................. I, 147 Sarah Eusepi (*)

L’incidenza della normativa in tema di aiuti di Stato sull’autonomia tributaria degli Stati membri alla luce del nuovo modello di finanziamento............ I, 247 Guglielmo Fransoni

La tassazione degli sportivi e degli artisti nelle convenzioni internazionali... I, 175 Francesco Montanari (*)

Diritto giurisprudenziale, contrasto ai comportamenti abusivi e certezza nei rapporti tributari...................................................................................... I, 211 Francesco Pedrotti (*)

Gli accertamenti basati su indagini bancarie e finanziarie nel reddito di impresa....................................................................................................... I, 185 Corrado Sanvito

Il denaro, bene d’equivalente valore del profitto del reato tributario e il ripristino dell’ordine economico perturbato (nota a Cass, sez. III pen., n. 6205/2015).............................................................................................. III, 20 Roberto Succio

Advanced pricing agreements e procedure negoziate di determinazione del valore normale: la Cassazione nega il potere di veto dell’amministrazione finanziaria......................................................................................................... (*) Lavori sottoposti a revisione esterna.

V, 19


II

indici

Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli............................................................................ III, 15 Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi............................................................................... IV, 31 Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto....................................................................... V, 19

INDICE ANALITICO QUESTIONI GENERALI ACCERTAMENTO

Raddoppio dei termini in presenza di reati tributari – Esclusione in caso di tardiva denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria (Comm. trib. prov. di Torino, 26 novembre 2015 - 30 dicembre 2015, n. 2019 con nota di Federico Aquilanti)..................................................................................

II, 81

CONFISCA Confisca – Confisca diretta – Preventiva ricerca del denaro profitto del reato tributario – Possibilità di disporre confisca diretta del profitto a disposizione della persona giuridica – Incapienza della persona giuridica – Situazione di fatto sostitutiva della preventiva ricerca del profitto – Confisca per equivalente (Cass, sez. III pen., 29 ottobre 2014 - 11 febbraio 2015, n. 6205, con nota di Corrado Sanvito).......................................................................... III, 15

SANZIONI PENALI Processo penale in materia di frodi gravi IVA – Sanzioni penali tributarie – Principio di effettività – Normativa nazionale che prevede termini assoluti di prescrizione che possono determinare l’impunità dei reati – Tutela degli interessi finanziari dell’Unione europea – Obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la disposizione nazionale che possa pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 8 settembre 2015, Causa C-105/14, con nota di Alessandro Albano).................................. IV, 31


indici

III

IVA Detrazione – Diritto a detrazione e al conseguente rimborso – Spese sostenute su immobili di terzi – Ammissibilità – superamento delle preclusioni derivanti dalla presunzione di “non operatività della società” ex art. 30 legge n. 724 del 1994 – Condizioni – Prova contraria – Ammissibilità anche in sede processuale – Mancata previa presentazione dell’istanza di disapplicazione – irrilevanza – Inesistenza nell’immediato di operazioni attive – Irrilevanza (Cass., 10 marzo 2014 - 27 marzo 2015, n. 6200, con nota di Luca Cogliandro) ..................

II, 59

INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia, Grande Sezione 8 settembre 2015, Causa C-105/14............................................................ IV, 31 *** Cassazione, sez. V civ., 10 marzo 2014 - 27 marzo 2015, n. 6200...................................................

II, 59

*** Cassazione, sez. III pen. 29 ottobre 2014 - 11 febbraio 2015, n. 6205............................................... III, 15 *** Commissione Tributaria Provinciale di Torino 26 novembre 2015 - 30 dicembre 2015, n. 2019.........................................

II, 81


Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio...................


Dottrina

Il nuovo interpello disapplicativo Sommario: 1. Premessa. – 2. Le norme di carattere antielusivo – 2.1. L’incerta

individuazione delle norme di carattere antielusivo. – 2.2. L’inesistente obbligatorietà dell’interpello disapplicativo. – 2.3. Il problematico ricorso alla ratio legis per l’individuazione delle norme antielusive. 3. – La concreta fattispecie in cui l’elusione non può verificarsi. – 3.1. Le caratteristiche della particolare fattispecie. – 3.2. Che cos’è la fattispecie? – 4. Conclusioni.

L’interpello finalizzato alla disapplicazione di norme antielusive oggi, col D.lgs. 156/2015, funziona ma richiede l’individuazione di precisi contenuti: (i) quando una norma può definirsi “antielusiva”; (ii) quali caratteri deve avere la “particolare fattispecie” per comprovare che l’elusione temuta non può, in concreto, verificarsi. Determinante, per affermare la natura antielusiva di una norma, è l’individuazione della ratio legis. Con questa va, poi, confrontata la “particolare fattispecie” che non si presta ad essere in alcun modo tipizzata. Compiti entrambi attribuiti all’interprete con i rischi che ne conseguono. The ruling intended to neutralise the application of antiavoidance rules is nowadays fully available but requires the shared assumption of precise contents: (i) when a law might be said to be counter abusive; (ii) what characters need to be shown by the facts to evidence the abuse, in the case, cannot be actually pursued. As to ascertain the anti abuse nature of a rule, fundamental is to reconstruct its rationale. Such rationale has than to be matched with the case under scrutiny whose main characters cannot be generalized. Such duty have, unfortunately, to be performed by the interpreter whose function carries on inevitably consequential risks.

1. Premessa. – Che il “principio di civiltà giuridica e di pari opportunità tra Fisco e contribuenti” (1) portato dall’ottavo comma dell’art. 37-bis DPR

(1) La relazione illustrativa del D.lgs 358/1997, infatti, afferma: «Il comma 8 del nuovo art. 37-bis introduce un principio di civiltà giuridica e di pari opportunità tra Fisco e contribuenti. È noto che sono state introdotte nel nostro ordinamento una pluralità di norme sostanziali con lo scopo di limitare comportamenti elusivi; spesso queste norme, a causa della loro ineliminabile imprecisione,


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600/1973 avesse fatto ben poca strada ed avesse bisogno di una robusta rilucidatura era, purtroppo, ben noto a tutti. E che l’ostacolo principale contro cui la fruibilità della norma andava a cozzare fosse rappresentato dall’inesistenza di fattive conseguenze all’eventuale silenzio dell’Amministrazione Finanziaria era altrettanto noto. La norma rinviava, infatti, quanto a modalità attuative, ad un decreto da emanarsi ai sensi dell’art. 17, comma 3, della Legge 23 agosto 1988, n. 400. Detto decreto fu effettivamente emanato e tradotto in regola cogente nel DM 19 giugno 1998, n. 259. Esso recava una serie di indicazioni procedimentali attinenti a contenuto e modalità di presentazione dell’istanza ma, quanto agli effetti della stessa, si limitava a prevedere – al comma 6 – che «le determinazioni del direttore regionale delle entrate vanno comunicate al contribuente, non oltre novanta giorni dalla presentazione dell’istanza, con provvedimento che è da ritenersi definitivo». La circostanza che, poi, i novanta giorni in questione – seguendo un deprecato ma ben consolidato andazzo – fossero assunti come termine “ordinatorio” e non “perentorio” e che la norma fosse espressamente sfornita di indicazioni vincolanti circa la natura del silenzio che ne poteva conseguire ha fatto il resto (2). L’Amministrazione Finanziaria ha preso, infatti, a rispondere solo quando aveva le idee chiare sull’oggetto del contendere. Ha preferito, invece, semplicemente glissare ogni qual volta le si prospettava un caso quantomeno atipico. Atteggiamento forse comprensibile su un piano, diciamo così, psicologico: ma davvero squilibrato sotto un profilo istituzionale, se non altro perché le disposizioni antielusive sono da un lato necessarie per fronteggiare ipotetici – ed anche probabili – abusi; ma dall’altro sparano inevitabilmente nel mucchio e possono tradursi in fonte di grave inopportunità – e nei casi limite addirittura di radicale ingiustizia - quando vanno a colpire in modo del tutto insensato comportamenti che di elusivo non hanno un bel nulla (3).

provocano indebite penalizzazioni per comportamenti che non hanno nulla di elusivo. Se le norme possono essere disapplicate quando il contribuente le manipola per ottenere vantaggi indebiti, occorre che lo siano [anche] quando l’obiettivo condurrebbe a penalizzazioni altrettanto indebite». (2) Anche se G. Fransoni in Efficacia ed impugnabilità degli interpelli fiscali, in Elusione ed abuso del diritto tributario” a cura di Maisto, Milano, 2009, 105, si era domandato se davvero il silenzio in questione non potesse essere interpretato come manifestazione di assenso pur rilevando che essa, «sotto il profilo pratico, espone certamente a maggiori rischi». Dello stesso parere è F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, Milano, 2007, 96, secondo il quale l’atto sollecitato con la domanda di interpello è certamente un provvedimento amministrativo e come tale, in virtù di quanto disposto in via generale dell’art. 20, comma 1 della legge 241/1990, assistito dal meccanismo del c.d. silenzio assenso. Così, anche G. Zizzo, Uno spiraglio per il silenzio-assenso, in Il Sole 24 Ore del 6 marzo 2007. (3) Sul punto vedi D. Stevanato, Interpelli fiscali: preventività rispetto a che cosa?,


Dottrina

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Questo stato di cose era ben presente, come è ovvio, al legislatore della miniriforma tributaria varata a seguito della delega conferita con la legge 11 marzo 2014, n. 23, ove – all’art. 6 – si disponeva la «revisione generale della disciplina degli interpelli» (4). E si inquadrava l’intervento nella necessaria profonda trasformazione del ruolo e delle funzioni della pubblica amministrazione disegnato dalla legge 241 del 1990 così da «sostituire al modello tradizionale ed autoritativo dell’amministrazione “controllore” quello, più moderno ed avanzato, di amministrazione collaborativa, propensa al dialogo coi cittadini ed incline a supportarli nell’adempimento dei loro obblighi, non ultimi quelli tributari» (5). Il D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156, ha, quindi, portato a termine questo faticoso ma davvero utile processo riorganizzativo dando nuova, più coerente ed ordinata veste a quel fondamentale strumento di dialogo fra Amministrazione Finanziaria e contribuente costituito, per l’appunto, dall’interpello (6). E lo ha

in Dialoghi Dir. Trib., 2004, 1285, secondo il quale: «Le regole in questione standardizzano comportamenti ritenuti in contrasto con una certa scelta di fondo del sistema… Per conseguire tale obiettivo, non potendo disciplinare espressamente tutti i casi in cui ciò potrebbe verificarsi, la legge seleziona alcuni “fatti” (il trasferimento della maggioranza delle azioni della società le cui perdite sono riportabili, il “depotenziamento” della società stessa nel periodo immediatamente precedente la fusione, etc.) reputati sul piano probabilistico equivalenti all’idea, di per se non traducibile compiutamente in norma di legge, del “commercio delle perdite”. Regole come queste, proprio perché rappresentano un tentativo inevitabilmente imperfetto di disciplinare la generalità dei fenomeni riconducibili al commercio delle perdite, finiscono per risultare talvolta insufficienti… ed altre volte, all’opposto, sovrabbondanti…In queste situazioni, l’ultimo comma dell’art. 37-bis interviene per salvaguardare i contribuenti dagli effetti di eccessiva estensione applicativa che le generalizzazioni normative inevitabilmente possono determinare, “disapplicando” la regola quando la stessa appaia in contrasto con la sua giustificazione di fondo (evitare comportamenti elusivi)». (4) Tant’è che la Relazione Ministeriale al D.lgs. 156/2015 afferma, con riferimento all’interpello disapplicativo, che «si tratta, indubbiamente, della categoria di istanze che ha creato maggiore esigenza di coordinamento con la struttura generale del procedimento tributario». (5) Così la Relazione Ministeriale al D.lgs. 24 settembre 2015, n. 156 la cui premessa significativamente afferma: «Il presente decreto legislativo al Titolo I dà attuazione alle disposizioni contenute nell’articolo 6, comma 6, della legge 11 marzo 2014, n. 23 (Delega per la realizzazione di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita) che, nel contesto delle misure volte a rafforzare la cooperazione tra amministrazione e contribuente e nel quadro della costruzione di un rapporto fondato sul dialogo e sulla reciproca collaborazione, ha posto al centro del dibattito la necessità di provvedere ad una riforma dell’istituto dell’interpello, dettando importanti linee guida per la sua realizzazione». (6) Sulla natura e caratteristiche dell’interpello vedi, per tutti, F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, cit. e G. Turri, Il diritto di interpello del contribuente: antielusivo, correttivo e generalizzato, in Dir. Prat. Trib., 2004, I, 1008.


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realizzato inquadrando lo stesso nell’ambito dello Statuto del contribuente (7), quasi a volerne sottolineare la natura di strumento attuativo dei principi di collaborazione e buona fede ivi più enfaticamente sanciti (8). Nell’ambito di questa rilettura di norme, peraltro già disordinatamente presenti nell’ordinamento tributario, un ruolo di adeguato rilievo è stato attribuito all’interpello cosiddetto “disapplicativo”. Nulla è stato innovato sotto il profilo sostanziale: ma sono stati significativamente rivisti (o forse anche solo meglio precisati) tanto i profili connessi con l’efficacia dell’istanza, quanto i più discussi aspetti processuali (9). Per quanto attiene ai primi, determinante è la esplicita ricomprensione degli interpelli de quo fra quelli generatori di conseguenze al decorso infruttuoso del termine normativamente fissato per la risposta. Il comma 3 del rinnovato art. 11 L. 212/2000 stabilisce, infatti, in via generale (quindi anche per l’interpello disapplicativo, contemplato nel comma 2), che «quando la risposta non è comunicata al contribuente entro il termine previsto, il silenzio equivale a condivisione, da parte dell’amministrazione, della soluzione prospettata dal contribuente». Quanto ai secondi viene normativamente confermata la tesi, che peraltro si era andata già affermando, anche nella giurisprudenza di maggior rilievo (10), in base alla quale: (i) non vi è alcun obbligo di subordinare la disap-

(7) Precisamente all’art. 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212. Salvo che tale norma si limita ad enunciare le caratteristiche della varie tipologie di interpello individuate mentre le concrete modalità operative restano confinate nel D.lgs. 156 (negli artt. da 2 ad 8 che seguono). Insomma: ci si propone un riordino ma anziché concentrare la nuova regolamentazione in un’unica fonte normativa si procede ad un nuovo sparpagliamento della stessa. (8) Sul punto, ex multis, vedi G. Marongiu, Statuto del contribuente, affidamento e buona fede, in Rass. Trib., 2001, 1275 ss.; E. Della Valle, La tutela dell’affidamento del contribuente, in Rass. Trib., 2002, 459 ss.; M. Logozzo, La tutela dell’affidamento e della buona fede tra prospettiva comunitaria e «nuova» codificazione, in Boll. Trib. 2003, 1125 ss. (9) Su cui era aperto un intenso dibattito perlopiù ancora privo di salde conclusioni. Vedi, ex multis, F. Pistolesi, op. cit., 87 ss.; G. Turri, op. cit., I, 1008; G. Fransoni, op. cit., 104; Id., Integrazione e armonizzazione della disciplina degli interpelli, in Corr. Trib. 2009, 757; G. Zoppini, Lo strano caso delle procedure di interpello in materia di elusione fiscale, in Riv. Dir. Trib, 2002, I, 991; D. Stevanato, Istanza di disapplicazione di norme antielusive e significato del silenzio”, in Dialoghi dir. trib., 2007, 209; F. Tesauro, Gli atti impugnabili e i limiti della giurisdizione tributaria, in Giust. Trib., 2007, 1. (10) Vedi Cassaz. n. 16183 del 2014, Sez. VI, in Corr. Trib., 2014, 2932, ove si afferma «Invero la giurisprudenza di questa Corte appare attestata sul principio secondo cui la procedura di interpello con cui all’art. 37 bis 8° comma D.P.R. n. 600 del 1973, costituisce per il contribuente una facoltà che consente di conseguire (in caso di risposta positiva dell’Ufficio) una certezza nei rapporti con la Amministrazione. Ma l’utilizzo di tale strumento non costituisce


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plicazione ad iniziativa del contribuente alla ricezione di una risposta positiva ad un interpello disapplicativo qualora lo stesso mai sia stato presentato (11); (ii) non è necessario impugnare autonomamente l’eventuale risposta negativa ad un interpello disapplicativo effettivamente presentato, potendosi procedere all’impugnativa nell’ambito dell’atto di contestazione che segue la richiesta di imposizione avanzata dall’Agenzia delle Entrate o alla negazione, da parte della stessa autorità, del rimborso eventualmente richiesto (12). Sennonché una volta sgomberato il campo dei – pur assai significativi – profili procedimentali, occorre ora ben più concretamente misurarsi con i contenuti della norma. La posta in gioco, infatti, si è fatta davvero appetibile e la disapplicazione di norme concepite per contrastare determinati (quanto ipotetici) fenomeni – ma rivelatesi sovente un po’ troppo, ed immotivatamente penalizzanti – può oggi essere “umanizzata” e conferire adeguata ragionevolezza alla tesi della loro inapplicabilità quando se ne possa dimostrare – beninteso: nel caso specifico – la “incongruità”. Si fa luce, così, la necessità di riempire di contenuti alcune indicazioni prescrittive certo comprensibili ma tutt’altro che inequivoche. La norma dichiara, infatti, suscettibili di disapplicazione le norme tributarie che, (i) “allo scopo di contrastare comportamenti elusivi,” pongono alcune limitazioni. Ma, poi, aggiunge che questo risultato può essere conseguito soltanto laddove possa fornirsi la dimostrazione che (ii) “nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi”. Occorre, quindi, interrogarsi innanzitutto su quali sono le norme aventi lo scopo di contrastare comportamenti elusivi, cioè le norme comunemente quanto imprecisamente definite come “antielusive”. E, poi, ma solo dopo aver dato risposta positiva al primo interrogativo, domandarsi come deve atteggiarsi il contribuente per fattualmente dimostrare che i comportamenti, presuntivamente elusivi che la norma in questione intende astrattamente fronteggiare, non si verificano nella particolare fattispecie.

una via obbligata per il superamento della presunzione posta a carico del contribuente stesso dalle disposizioni anti-elusive. Quindi al contribuente è sempre consentito fornire in giudizio la prova delle condizioni che consentono di superare la presunzione posta dalla legge a suo danno (sentenza n. 17010 del 5 ottobre 2012) dal momento che il principio di effettività di cui all’art. 53 Cost. impone di limitare nel più ristretto ambito le presunzioni juris et de jure. Sul punto, cfr. anche la sent. n. 20394 del 2012, in Boll. trib., 2013, 214. (11) Tesi anticipata in tempi non sospetti da D. Stevanato, op. cit., 1278; così anche F. Crovato, Disapplicazione di norme antielusive e preventività della richiesta, in Dialoghi dir. trib., 2004, 1277. (12) Vedi, in particolare il secondo periodo dell’art. 11, comma 2, L. 212/2000, come innovato dal D.lgs. 156/2015 e l’art. 6, comma 1, del medesimo decreto.


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2. Le norme di carattere antielusivo. 2.1. L’incerta individuazione delle norme di carattere antielusivo. – Per quanto riguarda l’individuazione delle norme a carattere “antielusivo” va detto subito che una ispirazione di tal fatta è generalmente avvertita in un gran numero di disposizioni. Si potrebbe addirittura sostenere che non vi è prescrizione che, nel prevedere una qualche eccezione alla regola generale appena dettata, non ne limiti in qualche modo l’applicazione; e ciò vuoi per ragioni chiarificatorie, semplificatorie o, all’opposto, proprio per ragioni tendenti ad evitare che la prescrizione dettata venga facilmente aggirata. Il fondamento di questa tecnica normativa sta nel necessario carattere generale della legge e nell’indubitabile consapevolezza che applicare indiscriminatamente la prescrizione – o il divieto – renderebbe la norma cieca ed incapace di distinguere situazioni che, invece, meritano di essere distinte. Passare col rosso è vietato per tutti; ma se si guida un’auto ambulanza e questa sta portando un ferito in ospedale è evidente che occorre superare il divieto perché salvare una vita umana appare alla collettività obiettivo più meritorio di quello, pur importante, di mantenere – in quel determinato contesto – un ragionato ordine circolatorio. La deroga, peraltro, vale solo per l’auto ambulanza e chi se ne volesse avvalere approfittando dell’eccezionalità della situazione resterebbe sanzionabile come avverrebbe anche in circostanze del tutto ordinarie. L’eccezione, insomma, è parte integrante della struttura regolamentare perché consente di distinguere, nell’ambito della apparente medesima situazione tipizzata dalla norma, ciò che configura davvero l’obiettivo che essa persegue rispetto a ciò che, pur ricadendo nell’area dalla stessa contrassegnata, merita un trattamento diversificato (migliore o peggiore che esso sia). Il diritto tributario non fa eccezioni al riguardo. Anzi, più si persevera in una normazione di tipo casistico – come negli anni più recenti ci è abituati a fare - più ci si trova a dover mirare bene i contenuti della prescrizione: e questo risultato può essere raggiunto in positivo formulando norme che si occupano di minuscoli spicchi di realtà oppure redigendo norme di carattere più generale ma che abbisognano, poi, di articolarsi in numerose specificazioni, divaricazioni, eccezioni ed eccezioni di eccezioni. Oppure, ancora, di rinvii a norme secondarie indicate come meramente organizzative ma spesso e volentieri dotate di effetti regolatori veri e propri (13). Ed è questa – piaccia oppure no – la

(13) Un esempio facilmente riscontrabile può ravvisarsi nei decreti attuativi delle disposizioni in materia di rivalutazioni fiscalmente rilevanti seguite alla legge 342 del 2000,


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tecnica seguita perlopiù dal legislatore nazionale (14). Basti pensare, tanto per fare un esempio eclatante, al concetto stesso di reddito che l’articolo 1 del TUIR enuncia; l’articolo 6, cui l’art. 1 fa rinvio, suddistingue in sei categorie nel primo comma, per usare poi i comma successivi per fornire dettagli interpretativi relativi alla collocazione di specifici fenomeni all’interno di una o di un’altra categoria. Le specificazioni e le deroghe, insomma, hanno la funzione di rendere più evidente (e funzionante) lo scopo della norma, di mirare a separare l’oggetto da colpire (benefico o malefico che esso sia) rispetto a situazioni limitrofe che vi ricadrebbero per ragioni meramente letterali ma che rappresentano fattispecie che il legislatore stesso non vuole assoggettare affatto alla regola generale in questione. Le disposizioni “antielusive” – quelle cioè che “allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, o altre posizioni soggettive…altrimenti ammesse” – si inseriscono proprio in questo filone. Esse si atteggiano, perlopiù, a precisazioni, a presupposti o a conseguenze, tendendo a guardare oltre ciò che appare ictu oculi, prima facie. A volte lo sguardo è rivolto all’indietro (la vitalità pregressa della società portatrice di perdite fiscali nell’ambito di una fusione); altre volte è rivolta al futuro (la fuoriuscita dal consolidato nazionale). In alcuni casi si occupa di schemi contrattuali più articolati (il valore effettivo del bene riscattato nei contratti di leasing) oppure dei soggetti fra cui intervengono transazioni (padre e figlio; controllata e controllante). Insomma: non c’è un canovaccio unico idoneo a classificare le norme fra quelle a contenuto antielusivo rispetto a quelle che tali non sono (15). Si tratta di una scelta che certo non aiuta a facilitare l’approccio alla tematica qui trattata. Ma ciononostante essa appare per tanti versi inevitabile.

peraltro più volte prorogata, come il DM 13 aprile 2001, n. 162 ovvero nella parallela disposizione in tema di affrancamento delle riserve di rivalutazione disposta con la legge 448 del 2001, anch’essa nei fatti, prorogata a più riprese, come il DM 19 aprile 2002, n. 86. (14) Così P. Boria, Il sistema tributario, Torino, 2008, 148. Nello stesso senso, L. Tosi, La nozione di reddito, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, diretta da Tesauro, Torino, 1994, 10 ss.; G. Tremonti, Scienza e tecnica della legislazione, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1992, I, 51; E. Della Valle, L’affidamento nella certezza del diritto tributario, Milano, 2001, 29 ss. (15) Quelle che non hanno contenuto antielusivo vengono indicate dall’Agenzia delle Entrate, con dubbia appropriatezza terminologica, come “di sistema”. Tale è, ad esempio, secondo l’Agenzia, la disposizione prevista nell’art. 87, comma 5, alla luce della quale la spettanza del regime della participation exemption alle holding di partecipazione va ricavata dai contenuti della holding stessa, dovendosi verificare i requisiti della “commercialità” e della operatività in Paesi White List in relazione ai valori delle partecipate possedute e non in relazione alla holding medesima (c.d look through approach). Vedi Circ. 7/E del 29 marzo 2013.


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La consapevolezza della estrema diffusione – e l’assenza di un filo conduttore, se non unico quantomeno individuabile – di norme a carattere “antielusivo” ha fatto emergere una prima distinzione, nell’ambito delle istanze di interpello disapplicativo, fra quelli c.d. “necessari” (asseritamente “obbligatori”) e quelli semplicemente “facoltizzati”. Appartengono alla prima categoria tutti quegli interpelli in relazione ai quali la norma che ne consente la disapplicazione costringe (ma senza troppa convinzione) ad attivare l’istanza pena la mancata deroga al regime (avvertito come più penalizzante) ivi stabilito. La casistica di detti interpelli “necessari” era – ante riforma – piuttosto numerosa quanto, ahimè, sparpagliata. La problematica è stata quantomeno inquadrata dal legislatore della riforma che, non a caso, nel provvedimento che ne sistematizza il regime prova a mettervi ordine formulando l’art. 7 del D.lgs. 156/2015. Questa disposizione mette a fuoco la tematica della disapplicazione con riferimento ad una casistica, in verità, già segnalata dalla dottrina più accorta (16). Essa dispone, infatti, l’attivazione della procedura dell’interpello – asseritamente disapplicativo – ove si voglia ottenere l’applicazione di un regime alternativo a quello che deriverebbe dall’ordinaria applicazione della norma (o del sistema di norme) altrimenti applicabile. Non a caso vengono richiamati specifici articoli del TUIR quali l’art. 113 (partecipazioni acquisite per il recupero di crediti bancari), l’art. 124 (tassazione su base consolidata nazionale), l’art. 132 (tassazione su base consolidata mondiale), l’art. 167 (tassazione delle CFC), l’art. 110, comma 11 (controllate Black List di controllante residente con effettiva attività commerciale), l’art. 108 (distinzione fra spese di pubblicità e propaganda e spese di rappresentanza), l’art. 84, comma 3, (riporto delle perdite in caso di cessione del controllo), l’art. 172, comma 7, (riporto delle perdite a seguito di fusione di società), l’art. 109, comma 3-sexies (modalità di applicazione della Pex nelle operazioni di dividend washing). Fuori dal TUIR vengono, poi, richiamate anche le ipotesi previste nell’art. 37, comma 3, DPR 600/1973, (interposizione fittizia); nell’art. 30 della L. 724/1994 (società di comodo); nell’art. 1, comma

(16) Vedi G. Fransoni, op. cit., a cura di Maisto, 90, che cita il caso (i) della continuazione della tassazione su base consolidata nell’ipotesi di fusione fra la controllante ed una società del gruppo non inclusa nella tassazione di Gruppo (art. 124, comma 5, TUIR); (ii) della esclusione dal consolidato mondiale di società controllate di dimensioni irrilevanti (art. 132, comma 4, TUIR); (iii) della esclusine dal regime Pex delle partecipazioni acquisite da banche nell’ambito di conversione di crediti in partecipazioni ai sensi dell’art. 113, TUIR; (iv) della verifica della sussistenza dei requisiti per la tassazione consolidata di Gruppo mondiale (art. 134, TUIR); (v) della verifica delle condizioni di applicazione del bonus “aggregazioni” di cui all’art 1, comma 242-246, della Legge 296/2006. Nello stesso senso può vedersi anche F. Pistolesi, L’interpello per la disapplicazione del regime delle società di comodo, in Corr. Trib., 2007, 2987.


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8, DL 201/2011, convertito nella L. 214/2011 (computo della capitalizzazione a fini “ACE”). Le norme indicate sono, palesemente, solo quelle che in misura più evidente si prestano ad essere oggetto di provvedimenti disapplicativi (in senso lato) e la loro espressa menzione è certo utile ad avviare su un canale inequivoco il rapporto contribuente-fisco che le coinvolge. Ma da qui a desumerne che si tratta in tutti i casi di disposizioni di carattere “antielusivo” ce ne corre. Gli interpelli riferiti agli artt. 113, 124, 132, 167 e 110 comma 11, del TUIR, nonché all’art. 30 della Legge 724/1994 e all’art. 1, comma 8, della legge 214/2011, infatti, pur presentati come interpelli apparentemente disapplicativi, rinviano tutti alla lett. b) del novello art. 11, comma 1, dello Statuto. Rinviano, cioè, al c.d. interpello “probatorio” ed hanno lo scopo di chiarire la congruità dei mezzi di prova portati per neutralizzare le norme penalizzanti che altrimenti si renderebbero applicabili. Gli interpelli riferiti all’art. 37, comma 3, DPR 600/1973 e all’art. 108 del TUIR, sono – in realtà – interpelli “qualificatori” rinviando stavolta alla lett. a) del detto art. 11, comma 1, dello Statuto. Solo gli interpelli riferiti all’art. 84, comma 3; all’art. 172, comma 7 e all’art. 109 del TUIR si presentano, in questo contesto, come autentici interpelli disapplicativi di disposizioni “antielusive” richiamandosi specificamente al comma 2 dell’art. 11 del novellato Statuto. La novella, quindi, pur apprezzabile per il tentativo di mettere ordine in una materia assai disordinata, coglie ben poco nel segno. Essa consente, certo, di dare per assolto il primo onere cui il regime della disapplicazione “antielusiva” si presta: e cioè quello della indiscussa definizione come “antielusiva” della norma che si chiede di disapplicare (e che costituisce condizione di ammissibilità tanto dell’istanza quanto della concreta disapplicazione). Sennonché, come spesso accade, il pur apprezzabile intento chiarificatorio sotteso all’intervento del legislatore delegato rischia di aprire un ulteriore vaso di pandora interpretativo. Sono oggetto di disapplicazione solo le norme che il legislatore stesso definisce come “antielusive”, tali dovendosi considerare quelle per le quali ha previsto espressamente l’attivazione dell’interpello disapplicativo (e cioè quelle previste negli articoli 84, 109 e 172 del TUIR), o lo sono anche quelle che, ancorché non ricomprese in detta elencazione, presentano oggettivamente i caratteri tipici della disposizione “antielusiva”? Dico subito che a me pare che la norma appena emanata non possa che essere considerata meramente esemplificativa (non siamo, cioè, di fronte ad un numerus clausus) e che essa non impedisce affatto che fattispecie analoghe – vale a dire ipotesi di norme “antielusive” suscettibili di disapplicazione – possano essere individuate anche al-


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trove (17). La casistica, pure in questo caso, è assai ricca spaziando - solo per fare degli esempi e, quindi, senza alcuna pretesa di esaustività - dall’art. 4, comma 5 del DPR 633/1972 (18); all’art. 10, comma 6, D.lgs. 460/1997 (19); art. 6, comma 1, lett. b), del DM 30 gennaio 2014 (attuativo del DL 179/2012 convertito nella L. 221/2012) (20); all’art. 74-quater, comma 6-bis, DPR 633/1972 (21); all’art. 10, comma 8-bis, DPR 633/1972 (22); all’art. 51, comma 1, TUIR (23). E ciò solo

(17) Saremmo, cioè, di fronte ad un tipico caso di mix fra principi generali (la disapplicazione di norme “antielusive”) e fattispecie casistiche, portatrici queste ultime di «un valore esemplificativo…che servirebbe a specificare e chiarire il principio generale, al quale ricondurre le fattispecie non espressamente previste». Così G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 132. (18) «La cennata disposizione ha finalità antielusive perché volta ad impedire il recupero dell’IVA assolta sugli acquisti di beni e servizi da parte di società ed enti, non per l’espletamento di attività commerciali, ma ai fini di una gestione finalizzata al godimento gratuito o a condizioni di particolare favore da parte dei propri soci o dei loro familiari.» Circ. 24 dicembre 1997, n. 328 (par. 1.1.2), in Boll. trib., 1998, 106. (19) Si tratta di una «norma antielusiva di tipo sostanziale della quale può essere chiesta la disapplicazione, ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del DPR 29 settembre 1973, n. 600, con apposita istanza alla Direzione regionale competente» . Cfr. Circ. 59/E del 2007 (par. 5), in Boll. trib., 2007, 1726. (20) L’articolo 29, commi 3 e 5, del decreto-legge n. 179 del 2012 e l’articolo 6 del decreto attuativo disciplinano le cause che determinano la decadenza dal diritto a fruire delle agevolazioni. La Circ. 16/E del 2011 (par. 6.7.1.), in Boll. trib., 2011, 608., in tema di investimenti agevolati per il finanziamento di start up innovative, riconosce a tali cause, «la finalità, chiaramente antielusiva, del precetto contenuto nella citata lettera b) cui riconnettere la decadenza dai benefici è costituita – come precisato nella relazione illustrativa al decreto attuativo – dalla necessità di scongiurare incrementi di capitale fittizi realizzati al solo fine di fruire delle agevolazioni.». (21) L’articolo 35, comma 1 del D.L. 223/2006 ha inserito il comma 6bis all’articolo 74quater, che, come chiarito dalla Relazione illustrativa, reperibile nel sistema di documentazione informatico del Parlamento, «è volto a contrastare il fenomeno dell’elusione dell’IVA che caratterizza le consumazioni obbligatorie nei locali da ballo». (22) Cassazione, n. 24681 del 23 novembre 2011, in Mass., 2011, 946, secondo la quale la funzione antielusiva della norma consiste nel contrastare il fenomeno di “parcheggio” di immobili presso società per evitarne ovvero rinviarne l’assoggettamento a tassazione. (23) Cassazione, Ordinanza n. 27099/2013, secondo cui «In tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’articolo 48, comma 1 (ossia l’art. 51, comma 1, del “nuovo Tuir”) – il quale costituisce una norma antielusiva tendente ad evitare che, sotto forma di erogazioni liberali, vengano corrisposte al lavoratore somme che in realtà hanno natura di vero e proprio corrispettivo». In senso conforme, Cassazione, n. 2341/2001 (secondo cui « Occorre osservare che l’art. 48, comma 1, del D.P.R. n. 917/1986 (ossia l’art. 51, comma 1, del “nuovo Tuir”, n.d.r.) ha una chiara natura antielusiva poiché tende ad evitare che sotto forma di erogazioni liberali vengano corrisposte al lavoratore somme che in realtà hanno natura di un vero e proprio corrispettivo per l’attività svolta» ) e Cassazione n. 7932/2001 (che riconosce che « Tale ultima disposizione (ossia l’art. 51, comma 1, del “nuovo Tuir”, n.d.r.) ha chiaramente una funzione


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per stare agli interventi già resi espliciti dell’Agenzia delle Entrate ovvero a quelli esplicitati dal legislatore o, ancora, dalla giurisprudenza di grado più elevato. Anche la dottrina, peraltro, si è spesso cimentata col tema ampliando ulteriormente la già ben nutrita batteria di norme a dichiarato intento “antielusivo”. E le ha individuate, anche qui a mero titolo esemplificativo e senza pretese di completezza, nell’art. 3, comma 3, D.lgs. 358/1997 (24); nell’art. 88, comma 5, TUIR (25); nell’art. 87, comma 5, TUIR (26). 2.2. L’inesistente obbligatorietà dell’interpello disapplicativo. – Qualche ulteriore notazione va, poi, aggiunta circa l’esistenza o meno del carattere

antielusiva, accentuata nelle successive modifiche legislative, mirando ad evitare che sotto forma di erogazioni liberali vengano corrisposte al lavoratore somme che in realtà hanno natura di corrispettivo per l’attività lavorativa prestata». (24) La norma in commento “assoggetta alla disciplina dei beni d’impresa, non già alla disciplina dei cosiddetti capital gains, le cessioni di partecipazioni societarie conseguite in occasione del conferimento in società dell’unica azienda da parte dell’imprenditore individuale”. In particolare, “[…]pare corretto affermare che il limite temporale (il triennio), pur inserito nel quadro di disposizioni di favore, non è assunto a presupposto dell’agevolazione, ma ha funzione per così dire di “sbarramento” (dunque, antielusiva), volendosi in tal modo evitare che nella più mite disciplina della riorganizzazione dei complessi produttivi confluiscano operazioni di carattere speculativo.” M. Beghin, L’elusione tributaria tra clausole “generali” e disposizioni “correttive”: alcune chiavi di lettura della vigente disciplina, in il Fisco, n. 24/2002. (25) “Poiché questa disposizione mira ad evitare la duplicazione di costi deducibili in assenza di effettive esigenze economiche operative, è data la possibilità di ottenere la disapplicazione laddove l’effetto testé indicato sia escluso” (M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso di diritto, Padova, 2013, 20; così pure M. Leo, Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2014, 1391; A. Dodero - L. Miele, Imposta sul reddito delle società, Roma, 2008, 288). (26) «La previsione risponde […] ad una matrice antielusiva volta ad evitare l’aggiramento dei requisiti richiesti in capo alla società partecipata attraverso l’interposizione di una holding la quale consentirebbe l’accesso al regime Pex, altrimenti non consentito», Falsitta - Fantozzi - Marongiu - Moschetti, in Commentario breve alle leggi tributarie,, Padova, 2010, 442. Condivide G. Tinelli in Commentario al Testo Unico delle imposte sui redditi, Padova, 2009, 732, secondo cui «la ratio della disposizione è volta ad evitare l’elusione dei requisiti di cui alle letter c) e d) del comma 1 dell’art. 8». Nello stesso senso vedi pure P. Serva - S. Calavena, La disciplina delle holding nell’ambito della participation exemption” in La Participation Exemption, a cura di Brunelli, Milano, 2015, 132; A. Viotto, Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazione, Padova, 2013, 372; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Parte speciale, Torino, 2012, 117. Così si esprime anche l’Assonime, in Circ. 38 del 2005 (par. 7), secondo la quale «La finalità della norma è di evitare, evidentemente, che i suddetti requisiti possano essere elusi attraverso l’interposizione di una società holding. In altri termini, si intende impedire che il regime di esenzione possa essere fruito, anche con riferimento a partecipazioni in società prive dei requisiti della commercialità e/o della residenza, attraverso la loro intestazione ad una società holding e la successiva cessione della partecipazione in quest’ultima».


dell’obbligatorietà (e preventività) per gli interpelli in questione. Il piano terminologico, che nella specie avrebbe dovuto aiutare a rendere inequivoco il pensiero del legislatore, appare fortemente contraddittorio. Gli interpelli che abbiamo appena definito come apparentemente disapplicativi ma, in realtà, meramente “probatori” sono assistiti da una formulazione di indubitabile natura facoltativa (“il contribuente può interpellare”). Altrettanto può, sostanzialmente, dirsi per gli interpelli di natura palesemente “qualificatoria” (“il contribuente può comunque richiedere un parere all’amministrazione”). Restano quelli a carattere dichiaratamente “antielusivo” la cui formula è, almeno all’apparenza, ben più cogente (“il contribuente interpella”). Sennonché tanto l’ultimo periodo del comma 2 dell’art. 11, quanto il comma 1 dell’art. 6, che, infine, il comma 14, ultimo periodo, dell’art.7, confermano senza ombra di dubbio che il contribuente può procedere alla disapplicazione della disposizione asseritamente considerata “antielusiva” (i) tanto nell’ipotesi di non aver presentato alcuna istanza, (ii) quanto in quella in cui, pur essendo stato presentato un interpello disapplicativo, ad esso è stata fornita risposta negativa. Insomma: se obbligatorietà si voleva disporre, quantomeno per la delicata ipotesi della disapplicazione di norme fastidiose, si è scelta la strada meno prescrittiva. Anzi, mi pare sconfortatamente che neanche l’interpretazione più largheggiante e favorevole alle esigenze del Fisco può portare a concludere che non possa farsi luogo alla disapplicazione se non dopo avere interpellato al riguardo l’Amministrazione finanziaria. Massima libertà d’azione, insomma. L’assenza dell’obbligatorietà dell’istanza preventiva, tuttavia, è ben lungi dal dare luogo ad un regime di maggior favore per il contribuente. Questi, infatti, in presenza dell’obbligo – assistito, beninteso, dal meccanismo del silenzio-assenso in caso di mancata risposta – saprebbe per certo quale regime gli compete (la norma nuda e cruda ma ritenuta inadeguata nella fattispecie). Può decidere di discostarsene: ma saprebbe pure che una lite probabilmente insorgerà e che potranno ben applicarsi adeguate sanzioni ove nella successiva sede contenziosa trovi conferma la tesi negazionista dell’amministrazione finanziaria. Al contrario, in assenza dell’obbligo, il contribuente procede senza bussola. Intanto viola, con la disapplicazione, la norma positiva; argomenta con se stesso che lo fa perché si trova di fronte a disposizioni “antielusive”; si autoconforta dicendosi che “nella fattispecie” la pur ipotizzabile elusione non può verificarsi; in qualche modo si affida all’italico stellone perché le verifiche, in fondo, non sono poi così frequenti. E quando l’accertamento arriva ed il giudice gli dà torto invoca candidamente le “condizioni di obiettiva incertezza” per la difficoltà di interpretazione della norma (perché il distinguo


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fra norma “antielusiva” e “di sistema” è, oggettivamente, piuttosto labile)! Sarebbe questa la garanzia dell’affidamento del contribuente che il sistema tributario italiano vuole assumere a suo nuovo paradigma? (27) 2.3. Il problematico ricorso alla ratio legis per l’individuazione delle norme antielusive. – Tornando al tema dell’individuazione delle norme “antielusive”– come tali suscettibili di disapplicazione – occorre innanzitutto prendere atto che l’ordinamento positivo evidenzia che non vi sono norme che si autodefiniscono come “antielusive” (28). Questa constatazione consente di superare – semplicemente perché inesistente – il possibile ed in un certo senso tradizionale conflitto fra lettera della norma e ratio della stessa (29). Ma constatata la mancata autoenunciazione, occorre domandarsi se essa sia il frutto di una scelta consapevole del legislatore od una forma di carente tecnica normativa accompagnata ad una distratta attenzione alle vicende del sistema tributario. Insomma un segno di sciatteria normativa piuttosto che il frutto di una scelta meditata. E, qualora si sposi la tesi più negativa se possa avere un senso il tentare di individuare, una per una, le norme in questione: se abbia senso, cioè, stilare una sorta di catalogo in cui inserire - una volta per tutte - la

(27) La conclusione cui perviene il legislatore delegato circa l’obbligatorietà dell’interpello preventivo come conditio sine qua non per accedere al regime della disapplicazione non piace neppure a F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. Trib., 2015, 1335, che critica la scelta di non subordinare l’esperibilità della disapplicazione all’ottenimento di un parere favorevole – nei fatti di natura autorizzativa – da parte dell’Amministrazione Finanziaria. Secondo l’illustre Autore, infatti: «Sarebbe stato, invece, più corretto e coerente alla prevista ricorribilità e al carattere disapplicativo dell’interpello costruire l’interpello stesso come obbligatorio, e cioè considerare la disapplicazione l’esito di un procedimento complesso caratterizzato dalla richiesta (appunto, obbligatoria) del contribuente, da un lato, e dalla verifica dei presupposti per la disapplicazione da parte dell’amministrazione, dall’altro. In particolare, si sarebbe dovuto far discendere la possibilità di disapplicare una specifica norma antielusiva non – come accade ora con la nuova normativa – da una mera scelta del contribuente circa la sussistenza delle condizioni di legge, bensì dalla sola pronuncia dell’amministrazione che ha preliminarmente accertato la sussistenza di tali condizioni». (28) Neppure l’art. 7 del D.lgs. 156 si spinge a tanto. Esso si limita a richiedere la presentazione dell’interpello disapplicativo per alcune specifiche fattispecie normative ma si guarda bene dal qualificare le stesse come disposizioni “antielusive”. (29) Nell’intesa che se esso, invece, dovesse emergere la prevalenza andrebbe data al dettato letterale essendo l’interpretazione secondo la ratio legis del tutto subalterna ed eccezionale rispetto a quella risultante dal dato testuale. Così, ex multis, vedi F. Galgano, Trattato di diritto civile,, Padova, 2015, 123 ss.


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congerie di disposizioni, inevitabilmente specificatrici, derogatorie ed asistematiche, cui attribuire la patente speciale di “norma antielusiva” e, quindi, potenzialmente disapplicabile. Le norme, infatti, viste asetticamente, sono insiemi di parole, costruite a mo’ di frasi e con uno o più incisi. La redazione di una norma porta, quindi, a misurarsi con possibili estensioni non volute dei precetti o benefici che le parole che la rappresentano possono esprimere. Le parole, a loro volta, hanno spesso pluralità di significati ed assumono contenuti diversi a seconda del contesto in cui vengono utilizzate. Le specificazioni circa l’applicabilità di un determinato regime sono, pertanto, utilizzate proprio per mettere a fuoco – fra i significati possibili – quelli prescelti e così far emergere l’obiettivo che si intende conseguire: col risultato che la loro assenza – al di là del pur legittimo desiderio di non estenderne oltre certi confini l’ambito applicativo – può rivelarsi addirittura controproducente proprio ai fini dell’inequivoca individuazione del detto obiettivo. Sennonché pare davvero evidente che non tutte le specificazioni, ancorché portatrici di limiti o indicatrici di regimi alternativi, possono essere annoverate fra le disposizione di carattere “antielusivo”. Occorre, per usare una fraseologia tipica di situazioni del genere, un “quid pluris”: occorre, cioè, che la norma abbia un qualche sapore cautelativo; che lasci intravedere che la norma reggente si presta ad un utilizzo distorto e che, proprio per questo, se ne dispone un regime di maggior sospetto e, quindi, se si vuole, di maggior rigore. La norma “antielusiva” deve, in particolare, oltre che limitare “deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta ed altre posizioni soggettive”, esprimere una funzione di contrasto nei confronti di possibili comportamenti devianti rispetto a quelli – che si suppone ben identificati – cui la norma tende e, come tali, dunque, “elusivi”. Aggiungo che questi ultimi devono essere, poi, se non proprio già visibili ad occhio nudo, almeno ipotizzabili secondo la comune esperienza. Per quelli visibili ad occhio nudo, infatti, bastano (dovrebbero bastare) le norme c.d. antielusive “specifiche” (30). Per quelli meno evidenti occorre procedere ad una ricostruzione sistematica del disegno del legislatore ed individuare le cautele che esso ha inteso assumere contro possibili distorsioni delle sue previsioni “genuine”. Occorre, cioè, un approccio di carattere interpretativo fortemente ancorato alla ricerca della ratio legis (31). Del resto questo rinvio alla ratio

(30) Fraseologia comunemente usata nella pratica ma, purtroppo, anch’essa priva di sicuri riferimenti. (31) Sia pure con linguaggio un po’ circonvoluto mi sembra questo anche il pensiero di D.


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legis permea l’intera riformulazione dello stesso concetto di “abuso di diritto” – equiparato per legge al concetto di “elusione” – derivato dal D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128. Il legislatore della riforma vuole, infatti, che i vantaggi tributari siano negati qualora essi siano realizzati “in contrasto con le finalità delle norme fiscali”. Si tratta, come ognun vede, di un linguaggio ben poco prescrittivo (32) ma ricco di richiami, per l’appunto, alla ratio della norma, agli obiettivi della stessa ed ai “principi dell’ordinamento tributario” (33). Il che impone l’obbligo di attivare, di volta in volta, un lavoro a più problematico contenuto intellettuale volto alla ricerca di detta ratio ed alla sua coniugazione con i principi dell’ordinamento tributario (34).

Stevanato, op. cit., 1286, secondo cui «la “disapplicazione” in oggetto sia il prodotto di una di una attività ulteriore, ma contigua, alla normale attività interpretativa, dalla quale si differenzia per il fatto che l’interpretazione stricto sensu deve sempre, in qualche modo, contemperare gli elementi testuali con considerazioni di tipo logico e teleologico, attinenti alla ratio ed allo spirito della legge. Se infatti l’elemento testuale venisse pregiudizialmente privato di ogni rilevanza, la “legislazione” cesserebbe di essere tale. Nella “disapplicazione” di cui all’ultimo comma dell’art. 37-bis, invece, l’enunciato normativo va riesaminato alla luce della sua giustificazione di fondo (inespressa sul piano verbale ma vero fondamento della “regola”), per l’accertata inadeguatezza della “regola” (che, in quanto “generalizzazione probabilistica”, non può mai essere totalmente equivalente alla sua giustificazione di fondo) nei singoli casi concreti». Per concludere che «Insomma, rispetto alla ordinaria attività interpretativa, viene semplicemente svilito l’elemento testuale, consentendo all’interprete di ripercorrere un’unica ratio legis». (32) Come sottolinea F. Gallo, Abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. Trib., 2015, 1332, giustificandone l’inevitabilità. Egli ritiene, infatti, che: «Se certezza del diritto vuol dire regole lineari e perentorie, capaci di imprimere sicurezza alle umane relazioni e inattaccabilità degli effetti e, in ultima analisi, il rispetto del principio fondamentale di legalità (in materia fiscale di stretta legalità), è difficile dire che questo obiettivo sia agevolmente raggiungibile con la normativa in esame. Dato l’oggetto della materia regolata, essa non sempre potrà garantire con puntualità la prevedibilità degli interventi degli organi decisionali in sede applicativa, l’esito delle loro decisioni e l’univocità della qualificazione giuridica che sono l’essenza della certezza del diritto». (33) Vedi al riguardo quanto affermato nella Relazione Ministeriale al D.lgs. 128/2015: «Secondo la lettera b) del medesimo comma 2, per vantaggi fiscali indebiti si considerano, poi, i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario. Deve sussistere, quindi, la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento, e, soprattutto, di quelli della disciplina tributaria in cui sono collocati gli obblighi e i divieti elusi. Ciò permette, in particolare, di calibrare in modo adeguato l’ipotesi di abuso in ragione dei differenti principi che sono alla base dei tributi non applicati, fermo restando che, come si è detto, la ricerca della ratio e la dimostrazione della violazione di essa deve costituire il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d’imposta dall’elusione». (34) Desumibili da – inevitabilmente mutevoli – indirizzi espressi dai concreti operatori del diritto tributario: primi fra tutti i collegi giudicanti – specie se di ordine costituzionale - e la dottrina.


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Occorre, allora, domandarsi: che cos’è, in concreto, e come si individua la ratio di una norma? La ratio legis, innanzitutto, è tutt’altro che un principio astratto costruito dall’accademia. Essa è, al contrario, espressamente richiamata dall’art. 12 delle Preleggi ove, nell’interpretazione della legge, si prescrive l’adozione di due criteri e cioè quello fatto palese: a) dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, b) dalla intenzione del legislatore. Il significato letterale delle parole è qui di scarso rilievo e comunque in nulla contraddittorio con la ricerca della ratio legis. Si tratta, infatti, di attribuire contenuto all’espressione “norma antielusiva” ed ai confini tracciati dalla stessa in assenza di ulteriori specificazioni circa i significati ad essa attribuibili. Questa espressione, peraltro, è tutta interna al mondo del diritto tributario e frutto della ricerca di strumenti di contrasto contro l’abusivo utilizzo di combinazioni di regimi pienamente legittimi che hanno permeato il dibattito sul tema dell’elusione fiscale a partire quantomeno dall’ultima parte degli anni ’80 del secolo scorso in avanti (35). La formulazione letterale della norma è, anzi, talmente asettica da prestarsi ad una ricerca interpretativa tutta ancorata alla ricerca della ratio legis. È questo, quindi, il criterio dominante con i pregi e difetti che tale orizzonte pone. La ricerca della intenzione del legislatore è stata – ed è tuttora – oggetto di un dibattito assai articolato nella dottrina, tributaria e non, che con essa si è cimentata (36). Il punto di partenza del dibattito gira perlopiù intorno al tema che essa è, ordinariamente, ancorata all’osservazione dei fatti del passato. Sennonché la norma positiva che ne deriva esplica le sue funzioni nel futuro ipotizzando, o forse più semplicemente sperando, che esso si manifesti in termini non troppo dissimili da quelli presi in considerazione per il passato. In un certo senso perché la norma produca correttamente i suoi effetti – posto che essa sia stata redatta in termini tecnici ineccepibili – occorrerebbe che

L’unica fonte normativa al riguardo attendibile dovrebbe riscontrarsi nello Statuto del contribuente con tutti i limiti che questa disposizione porta con sé. Vedi quanto richiamato nella nota 8. (35) Vedi F. Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione, in Dir. Prat. Trib., 1992, I, 1761 ss.; G. Tremonti, Autonomia contrattuale e normativa tributaria: il problema dell’elusione tributaria, in Riv. Dir Fin. Sc. Fin., 1986, 375; S. Cipollina, Elusione Fiscale, in Riv. Dir. Fin. Sc. Fin., 2007, I, 555 ss. (36) Per tutti per i profili di diritto in generale, vedi F. Modugno, L’interpretazione giuridica. L’oggetto, Padova, 2015. Per i profili tributari, vedi G. Melis, op. cit., 190 ss; M. Trimeloni, L’interpretazione nel diritto tributario, , Padova, 1979.


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il futuro si rivelasse sostanzialmente uguale al passato così che nessun fatto del futuro possa configurarsi come non previsto dalla norma che se ne occupa. Insomma: il fatto della vita (cioè la fattispecie concreta) dovrebbe essere perlopiù riconducibile all’evento ipotizzato (fattispecie astratta). Questa situazione appare, tuttavia, già da subito, come irrealistica perché gli “accadimenti sono mutevoli nella loro realtà dei fatti; ogni accadimento ha una sua individualità; il fatto diverso rispetto ai fatti ipotizzati dalla legge è accadimento ineliminabile. (37)” Occorre, proprio per questo, attivare un dialogo circolare fra norma, esperienza e funzione interpretativa nella consapevolezza che l’esperienza giuridica si nutre di stabilità e generalità (il testo normativo); mentre il contesto “secolarizzato” in cui la norma deve trovare applicazione non può che nutrirsi di dinamismo e di individualità. Coniugare questi due elementi è compito dell’interpretazione della legge ed il primo canone ermeneutico di questa operazione risiede nell’individuazione, per l’appunto, della ratio legis. Operazione che richiede, innanzitutto, uno scrupoloso esame degli atti parlamentari che hanno accompagnato la formulazione finale della norma. Il legislatore, peraltro, non è un singolo individuo ma un’entità plurale (i parlamentari che hanno votato – ciascuno con motivazione e capacità di comprensione propria – quel determinato testo). Questa entità si è mossa alla luce di un dibattito sulla situazione da normare e delle indicazioni espresse da coloro che la sede parlamentare ha inteso ascoltare prima di procedere al voto (audizioni parlamentari, indagini parlamentari ed approfondimenti svolti dagli uffici delle relative commissioni interne, etc.) e della relazione conclusiva che ne è conseguita tenuto conto, altresì, degli eventuali emendamenti, tanto se accolti che se respinti. Ma la legge, una volta formulata in modo definitivo ed approvata, vincola per il suo contenuto letterale E tale vincolo resta anche qualora quest’ultimo possa apparire in contraddizione con gli atti parlamentari che lo hanno accompagnato. L’interprete, infatti, “non deve risalire alla volontà soggettiva degli autori del testo normativo, né deve scoprire la contingente motivazione storico politica dell’intervento legislativo (c.d. occasio legis); ma deve accertare lo scopo oggettivo della legge, come esso si ricava dalla stessa legge” (38). E, ancora una volta, occorre tenere i piedi ben saldi in terra dovendo, poi, alla fin fine, confrontarsi con norme di carattere tributario.

(37) Così G. Visentini, Lezioni di teoria generale del diritto, Padova, 2010, 88. (38) Così M. Confortini, Dieci lezioni di diritto privato, Torino, 2006, 44. Nello stesso senso, F. Galgano, op. cit., 124.


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L’esperienza insegna, infatti, che tale modus procedendi per individuare la “vera” ratio legis, ancorché ineccepibile ed indispensabile, non sempre viene premiato. Frequenti sono, al riguardo, le norme accompagnate da relazioni ministeriali assai poco esplicative. Ma anche quando la pervasività dell’intervento si presenta adeguatamente motivata, sovente solo di sfuggita vengono trattate le disposizioni che ne limitano o modificano il trattamento. E ancora: tutt’altro che inconsuete sono le norme o le specificazioni adottate con interventi dell’ultim’ora. Talvolta esse trovano adeguata giustificazione nella relazione di accompagnamento predisposta dal proponente: ma l’esperienza insegna ancora che, spesso, la relazione di accompagnamento contiene una mera parafrasi della disposizione nuda e cruda (39). Oppure che norme sulla cui formulazione si è pure a lungo discusso assumano una veste compiuta – e prescrittiva – visibile solo al momento della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Col risultato di rendere davvero problematico il ruolo dell’interprete e spesso affannosa (e, in definitiva, inconcludente) la ricerca di una inequivoca ratio legis! L’interprete, peraltro, è chiamato a fare proprio questo: scavare, scartabellare ma soprattutto contestualizzare (40). La ratio legis, in questo contesto, non va intesa, dunque, quantomeno unicamente, come un apriori: le ragioni esaminate, inevitabilmente preesistenti, sono solo la prima fonte della ratio. Ma essa si definisce anche, nel tempo, nel divenire e nella partecipazione degli interessati alla soluzione di casi concreti. La ratio, dunque, si compone di una fase preliminare alla formulazione della norma che ne delinea l’indirizzo: ma si arricchisce, poi, dell’esperienza concreta, del dinamismo e della multiformità che la realtà si premura di offrire all’osservazione degli interessati anche dopo l’entrata in vigore della norma (41). Alla prima fase

(39) Tale è, financo nel nostro caso, la Relazione che accompagna la ribadita formulazione della norma che prevede la disapplicazione delle norme “antielusive” ove si legge: «Il successivo comma 2 contiene la disciplina dell’interpello cd “disapplicativo” – già noto perché previsto nell’arricolo 37-bis, comma 8, del Decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 – il quale consente al contribuente di richiedere un parere in ordine alla sussistenza delle condizioni che legittimano la disapplicazione di norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive del soggetto passivo.». (40) Sul ruolo dell’interprete, vedi V. Velluzzi, Commentario del Codice Civile – Delle Persone – Vol. I - Disposizioni sulla legge in generale, a cura di Barba e Pagliantini, 2012, 215 ss. (41) Illuminanti le parole di G. Visentini, op. cit., 91, che annota: «La rinnovata creazione del diritto nell’esperienza del quotidiano, e quindi nel riproporsi del discorso ideologico sul contenuto del diritto, è un dato di fatto ineliminabile, almeno nella prospettiva di tempo oggi attendibile. Non si riesce davvero ad immaginare su quali presupposti organizzare


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concorrono i lavori parlamentari ed una dinamica diciamo pure soggettiva che traduce in norma le valutazioni prevalenti all’epoca di formazione del dettato normativo. La voluntas legis è qui essenzialmente la voluntas legislatoris. Essa rappresenta la volontà del legislatore storico (di qui la dicitura “metodo storico” con cui questa chiave interpretativa viene richiamata). A questa segue, però, una seconda fase, una fase in cui l’atto legislativo si separa dal suo autore ed emerge nella sua autonoma esistenza oggettiva. Con il risultato che il suo significato può andare anche ben oltre quello cui il legislatore pensasse all’epoca dell’elaborazione del dettato normativo (“metodo teleologico oggettivo (42)”). La norma e l’interpretazione che di essa viene data – attraverso la giurisprudenza ed anche la dottrina – diviene così parte dell’ordinamento giuridico, partecipa alla sua trasformazione e ne subisce le relative evoluzioni sociali, economiche e tecniche (43). Illuminante, da questo punto di vista, potrebbe essere il caso dell’art. 87, comma 5, del TUIR ove si dispone che l’applicabilità del regime Pex alle holding di partecipazione va riferito non già ai requisiti della partecipante quanto a quelli delle partecipate (ed, eventualmente, delle partecipate di partecipate) utilizzando il c.d. look through approach. Qui il legislatore mostra appieno la sua diffidenza nei confronti di un interlocutore (la holding) che potrebbe celare tante anime diverse (immobiliare, non commerciale, prevalentemente Black List, subholding). E lo fa ricorrendo ad un istituto tipico delle situazioni pluriformi: l’istituto della prevalenza. Insomma tale è la consapevolezza che

una società diversamente. Cioè in modo tale da un canto che le ideologie restino relegate alla fase o momento politico di creazione delle norme come atto politico del legislatore, irrilevante per il giurista, se non per l’aspetto tecnico della redazione formale dei testi; dall’altro canto in modo tale che le ideologie non concorrano poi, attraverso l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, alla pratica formazione del diritto. È la scelta ideologica, quella che chiamiamo ragione (ratio) della legge, che comanda l’attitudine del giurista nell’interpretare ed applicare le disposizioni prodotte dalle fonti formali dell’ordinamento (legislazione), le quali, se vincolano ed indirizzano, non riescono a determinare in modo assolutamente indiscutibile le decisioni, anche nei casi che potrebbero sembrare più chiari e, quindi, non riescono a fissare l’elaborazione del diritto al momento legislativo». (42) Per tutti vedi V. Velluzzi, op. cit., 2012, 241. (43) Questa è anche la tesi, ben più riccamente illustrata, di G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, 2003, 193 ss. che riporta a supporto il pensiero di E. Betti, Interpretazione della legge, in Nuovissimo Digesto, Torino, VIII, 1968, 896, secondo cui «non si tratta di indagare, come nel negozio unilaterale, la volontà del dichiarante o , nel negozio plurilaterale, la volontà comune dei dichiaranti, ma si deve indagare quale sia la volontà immanente della legge, la quale una volta creata esiste in sé e per sé».


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il regime Pex possa essere strumentalmente aggirato (sia per appropriarsene sia per discostarvisi) che occorre scavalcare la partecipata diretta (la holdingcontenitore) per guardare all’insieme delle partecipate indirette (il contenuto) e procedere ad un miniconsolidato ad hoc da redigersi, peraltro, con finalità dichiaratamente tributarie (44). Del tutto diverso è, per stare ancora al regime Pex, il caso delle partecipazioni in società immobiliari. Queste sono ordinariamente escluse dal regime Pex (“senza possibilità di prova contraria”) nell’intesa che tale esclusione viene però meno se la società in questione è quotata in una borsa valori. In questo caso, dunque, il legislatore sceglie un regime alternativo netto (divieto di ingresso al regime Pex); ma revoca il divieto se le condizioni di circolazione delle azioni sono, diciamo così, più garantiste. Scelte, come ognun vede, discutibili: ma quantomeno inequivoche. La disposizione riferita alle partecipazioni in società immobiliari è, essa si, scelta “di sistema” e, quindi, priva di contenuti antielusivi e, come tale, non suscettibile di disapplicazione. Quella riferita, invece, alle partecipazioni in una holding è scelta di cautela, ricca di contenuti “antielusivi” e, come tale, suscettibile di disapplicazione. Insomma mi pare di poter concludere che una disposizione merita di definirsi antielusiva laddove: (i) deroghi al regime ordinario, (ii) contenga elementi che richiedono un esame più approfondito della situazione di fatto, (iii) trovi il suo fondamento nella comune esperienza (id quod plerumque accidit), (iv) giustifichi il regime derogatorio in funzione della cautela dell’approccio all’operazione de qua (45).

(44) Sorprende davvero la posizione assunta al riguardo dall’Agenzia delle Entrate che nella Circ. 7/E del 29 marzo 2013, in Boll. trib., 2013, 517, afferma: «Risulta evidente che la previsione contenuta nel comma 5 del citato articolo 87 del TUIR si qualifica come norma di sistema e, in quanto tale, non risulta disapplicabile. Pertanto, incombe sempre sul contribuente l’onere della prova in merito alla verifica dei requisiti richiesti dalla disposizione in esame sulle società indirettamente partecipate». Qualche perplessità deriva, poi, dalla concreta modalità di redazione dell’ipotizzato miniconsolidato ad hoc. Da un lato emergono, infatti, difficoltà di redazione dello stesso quando la partecipazione detenuta dalla holding non è di controllo per la possibile difettosa conoscenza dei dati necessari al consolidamento (le partite intercompany si elidono? Se si, come?); dall’altro il richiamo al “valore” lascia perplessi perché il richiamo al valore normale – pur sostenuto con qualche ragionevolezza dall’Agenzia nella Circ. 7/E del 29 marzo 2013 – non trova riscontro alcuno nella norma e la sua affidabilità variare grandemente secondo che la partecipata in questione sia, a sua volta, quotata o meno. Sul punto, vedi P. Serva - S. Calavena, in La Participation Exemption, cit., 132. (45) Si veda al riguardo la posizione di G. Fransoni, op. cit., 90, per il quale «Se, infatti, quella di cui all’art. 113 del TUIR è perfettamente individuata sia per ciò che attiene alla norma disapplicabile (che è quella recata dall’art. 87 TUIR) sia per quanto riguarda i presupposti della disapplicazione (costituiti dalla particolare vicenda acquisitiva delle partecipazioni),


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3. La concreta fattispecie in cui l’elusione non può verificarsi. – Ci si è soffermati supra sul tema assai spigoloso dell’accertamento della natura “antielusiva” della norma nel presupposto che questa costituisce la premessa – e condizione di ammissibilità – alla disapplicazione della stessa. Ma una volta svoltata questa prima boa se ne presenta una seconda di non meno ardua circumnavigazione, quantomeno sotto il profilo definitorio. 3.1. Le caratteristiche della particolare fattispecie. – Alla luce di quali circostanze si può incontestabilmente sostenere che “nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non possono verificarsi”? Il tema, a mio modo di vedere, ha una duplice chiave di lettura. Da un lato occorre tornare al tema della ratio legis. Tema che, ad ogni modo, occorre dare per risolto nel momento stesso in cui si dà per assunto il (pre)requisito della natura “antielusiva” della norma. Se la ratio della norma è “bianca” (impedire che la norma reggente, avente certi obiettivi, venga utilizzata per conseguire obiettivi diversi) e la concreta fattispecie è “rossa” (si presta a realizzare, cioè, obiettivi anche diversi da quelli definiti come “bianchi”), se ne può desumere che la fattispecie (particolare, cioè specifica) esaminata non rientrava fra quelle che la norma (generica) voleva sanzionare imponendone un certo regime (presuntivamente peggiorativo). Dall’altro lato occorre entrare nel merito della “fattispecie”. E questo è un compito diffusamente ricostruttivo che richiede il massimo di attenzione alla concatenazione dei fatti e l’estrema difficoltà, se non l’impossibilità, di farne emergere un qualche principio ispiratore. Il procedimento logico dovrebbe qui essere: (i) individuazione e comprensione (46) della fattispecie; (ii) individuazione del regime asetticamente applicabile alla fattispecie; (iii) valutazione della norma applicabile, e cioè se si tratta o meno di norma

al contrario la fattispecie dell’art 37-bis, comma ottavo, del DPR 600/1973 è doppiamente indeterminata: le norme disapplicabili sono, infatti, individuate solo con riferimento alla ratio e, al tempo stesso, i presupposti della disapplicazione sono genericamente ravvisati in ciò che “gli effetti elusivi non potevano nel caso di specie verificarsi”». (46) A volte l’individuazione, infatti, non basta: occorre anche la comprensione degli scenari economici coinvolti. Si pensi alla complessità di alcune operazioni finanziarie – derivati in testa – ovvero ad operazioni che si muovono su più contesti normativi dai quali frequentemente emergono ipotesi di veri e propri arbitraggi fiscali volti a scaricare elementi reddituali negativi negli ordinamenti a tassazione più elevata ed elementi reddituali positivi in ordinamenti a tassazione più lieve. Tipico il caso della capitalizzazione di società lussemburghesi da parte di soci il cui ordinamento ammette che parte del capitale di debito sia considerato – secondo certi parametri – capitale di rischio, con la conseguenza che i relativi frutti, che dovrebbero essere considerati e trattati come interessi, sono qualificati e trattati come dividendi. Con evidenti benefici per i prestatori residenti di paesi in cui opera la participation exemption (quindi Italia compresa).


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a contenuto “antielusivo”; (iv) se la norma astrattamente applicabile ha contenuto “antielusivo”, individuazione della sua ratio; (v) tipizzazione dei comportamenti ricadenti nel perimetro di quelli che, per ragioni “antielusive”, la norma intende reprimere; (vi) confronto della fattispecie con il perimetro - più o meno largo dei comportamenti che la norma intende contrastare; (vii) disapplicazione della norma “antielusiva” se la fattispecie ricade fuori del perimetro della medesima. Percorso logico davvero ineccepibile ma che richiede – palesemente – passaggi interpretativi di un certo rilievo. L’interprete della norma – contribuente, amministrazione o giudice che esso sia – deve farsi innanzitutto un’idea abbastanza precisa della ratio legis: ed abbiamo già visto come quest’obiettivo presenti non trascurabili difficoltà. Poi deve, in qualche misura, leggere la norma “antielusiva” con un certo grado di elasticità, posto che essa – quando il suo intento non emerge in modo inequivoco (47) – tende ad occuparsi più delle conseguenze (tributarie) che non dei presupposti giuridico-economici della fattispecie oggetto di esame. Definito così il “perimetro” della disposizione “antielusiva”, occorre mettere a confronto la “fattispecie” con il “perimetro”. Insomma, il meccanismo della disapplicazione richiede un significativo impegno di ordine interpretativo: il che vuol dire permeato di quel soggettivismo che tutte le attività interpretative comportano. Ma la necessità di passare attraverso un procedimento interpretativo difficile e complesso non vuol dire trasferire l’attività dell’interprete sul terreno della discrezionalità amministrativa. L’attività dell’interprete – per quanto delicata e complessa possa essere – è pur sempre legata a presupposti giuridici e non ha, di per sé, nulla di discrezionale (non va apprezzata la personalità del contribuente, né la buona fede del suo approccio), ma comporta una certa (elevata) onestà intellettuale, soprattutto da parte dell’Amministrazione Finanziaria che potrebbe essere tentata di avvantaggiarsi in modo strumentale della lettera della legge per mantenere attivo un carattere repressivo della norma anche laddove la “fattispecie” esula da (forse non evidentissime) ragioni elusive. Né questo comportamento può considerarsi lesivo del principio di legalità (48). Qui non

(47) Come nel caso di negare rilievo ai trasferimenti di residenza delle persone fisiche già residenti in Italia verso paradisi fiscali (art. 2, comma 2-bis, TUIR). Tant’è che la negazione dà luogo ad una esplicita presunzione relativa, superabile mediante prova contraria che altro non è che una tipizzazione ante litteram del diritto alla disapplicazione di una norma se la stessa, concepita in chiave antielusiva, si rivela poi assurdamente vincolante e afflittiva di comportamenti che non meritano siffatta afflizione. (48) La pensa così anche F. Pistolesi, op. cit., 98-99, che mette in luce l’assoluta


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si sta concedendo alcuna agevolazione né mitigazione di tassazione. Non si sta raggiungendo alcun accordo fra contribuente e fisco, come – per dire – nel caso dell’interpello internazionale (49). Né vi è transazione sulla definizione di una base imponibile (accertamento con adesione) (50) o esercizio di un potere di autotutela. Siamo di fronte, semmai, ad un procedimento inverso, ma concettualmente corrispondente, a quello che dà luogo all’interpello c.d. anti abuso. In entrambi i casi il contribuente non è soggetto ad alcun obbligo di richiesta preventiva potendo individuare autonomamente la legge applicabile. In entrambi i casi può interpellare l’Amministrazione Finanziaria per farsi confermare la sua tesi interpretativa. Da quest’ultima può, peraltro, liberamente discostarsi – subendo qualche svantaggio nella successiva probabile sede contenziosa – nell’intesa che l’Amministrazione è libera di perseverare nella propria linea discorde. Come ognun vede sono tutti passaggi in cui l’elemento di discussione è solo la corretta interpretazione della legge che legittima il contribuente a sostenere la propria tesi. Ed obbliga l’Amministrazione a sottostarvi qualora la sua diversa interpretazione non raggiunga un conclusivo successo. Non vi è deroga alcuna, quindi, al principio di legalità proprio perché manca del tutto, in questo contesto, il ricorso a qualche profilo di valutazione discrezionale (51). 3.2. Che cos’è la fattispecie?. – Ma torniamo alla ricerca delle caratteristiche che dovrebbe presentare la concreta (particolare) fattispecie perché la disapplicazione della norma possa essere invocata con successo. Che cos’è, innanzitutto,

mancanza di discrezionalità amministrativa nel disporre la disapplicazione di una norma antielusiva qualora se ne constati l’inappropriatezza a comprimere un diritto altrimenti spettante al contribuente. In particolare l’amministrazione finanziaria «deve cogliere quale sia la ratio della norma di cui è chiesta la disapplicazione, considerando in specie quale sia stata la condotta tipica che il legislatore ha inteso discriminare allorché ha adottato tale precetto, ed accertare poi se – alla luce delle prove prodotte dal contribuente – il comportamento da questi tenuto (o che si ripromette di porre in essere) sia diverso da quello preso in esame dalla legge, si da poterne sancire nel caso la non operatività. Non vi è dunque motivo che entrino in gioco profili di discrezionalità amministrativa». Né, proprio per questo, detto comportamento può assumersi, quindi, come frutto della violazione del principio di legalità. (49) Cfr. art. 31ter , D.lgs. 600/1973. (50) Sulla linea di una qualche forma di accordo fra contribuente e fisco nell’ipotesi di disapplicazione vedi F. Crovato, op. cit., 1278, per il quale la disapplicazione farebbe emergere «i tratti di un atto che si avvicina per alcune caratteristiche agli accordi preventivi recentemente introdotti nel nostro ordinamento». (51) Così F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, op. cit., 99. Contra D. Stevanato, Quale tutela avverso il diniego di disapplicazion, in Dialoghi dir. trib., 2005, 351.


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la “fattispecie”? Il termine fattispecie deriva dal latino medioevale facti species. Nel tempo, però, esso è venuto assumendo il significato disegnato dal diritto germanico che riconduce tale figura al concetto di Tatbestand per distinguerlo da concezioni di natura penalistica espressi dalla locuzione corpus delicti. In questa accezione, di causa degli effetti giuridici, il termine Tatbestand (fattispecie) è diventato comune a tutte le discipline giuridiche per esprimere un concetto fondamentale nella dinamica del diritto e viene adoperato, in prevalenza, come sinonimo di «fatto giuridico» (52). L’evoluzione della dottrina sull’argomento ha prodotto un inquadramento terminologicamente più affinato (e semplificatorio) tale da consentire di definire la “fattispecie” come causa degli effetti giuridici della norma (concezione causale). Ma anch’essa è stata variamente criticata per varie ragioni, prima fra tutte quella di una presunta – ma oggettivamente inesistente – affinità fra causalità giuridica e causalità naturale (53). Si è, quindi, pervenuti più propriamente alla configurazione della “fattispecie” come evento che rende concreta la previsione normativa e consente il trapasso dalla virtualità della stessa alla sua effettualità (54). La formula normativa, peraltro, risponde a precise esigenze ordinamentali nel suo relazionarsi alla realtà sociale. Che si traduce nella necessità di fornire ai soggetti dell’ordinamento precise indicazioni sull’atteggiamento che esso ordinamento assumerà in relazione alle future (ed imprevedibili) situazioni di fatto. La “fattispecie”, in questo contesto, altro non è che lo strumento attraverso cui l’ordinamento trasferisce un messaggio – quanto più possibile preciso – agli utenti della norma. L’ordinamento prende posizione, quindi, non nei confronti di una fattispecie astratta bensì rispetto alla serie indeterminata di fatti che hanno in comune le caratteristiche empiriche precisate nello schema normativo, così che nella valutazione astrattamente espressa nella norma possa intravedersi la valutazione che l’ordinamento darà di tutte le concrete fatti-

(52) R. Sconamiglio, Fattispecie - Enciclopedia Giuridica Treccani, 2015; A. A. Cataudella, Enciclopedia del diritto, diretta da Mortati e Pugliatti, 1974, 926. (53) Infatti, «mentre ogni mutamento, nel mondo della natura, si verifica con continuità e gradualità e determina una modificazione della realtà preesistente, gli effetti giuridici si verificano senza gradualità e si presentano come assoluta novità». A. Cataudella, op. cit., 928. Così anche R. Scognamiglio, op. cit., 1. (54) Illuminanti, al riguardo, le parole di E. Betti, Diritto romano, I, 1935, 4, che definisce l’interno congegno di norma giuridica come il «precetto ipotetico , ossia condizionato, il quale consta di una previsione (condizione) e di una corrispondente disposizione o statuizione. In essa, vale a dire: a) si prevede in astratto e in generale una data ipotesi di fatto o di fattispecie; b) si dispone di un correlativo trattamento giuridico: si statuisce, cioè, che ogni volta si verifichi tale fattispecie, debba aver luogo un corrispondente determinato effetto».


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specie che rientrino nel detto schema tipico (55). Né a questo modo di procedere, apparentemente circonvoluto, può rinunciarsi visto che «il diritto ha la pretesa di dominare l’imprevedibile, di attribuire significato agli eventi futuri… non si limita a descrivere e ricostruire l’accaduto, a registrare che qualcosa di nuovo è entrato nella natura o nella storia, ma vuole attribuire all’evento un significato e trarre da esso una linea di condotta» (56). Insomma, il rapporto fra norma e caso (leggi “fattispecie”) potrebbe ben leggersi come relazione fra forma ed evento, visto che quest’ultimo non ha un significato suo proprio ma, anzi, lo assume proprio in virtù del giudizio che ne dà la legge (57). In questo senso può ben dirsi, conclusivamente, che la fattispecie giuridica è il fatto che la norma prende in considerazione per collegarvi effetti giuridici. Così delineato il concetto di “fattispecie”, mi pare se ne possa desumere che per individuare i presupposti della disapplicazione occorra decrittare gli eventi (gli “effetti elusivi”) che la norma “antielusiva” intendeva contrastare. Il che comporta, da un lato, un ritorno alla ratio; dall’altro procedere ad una verifica in concreto sui risultati che si verificherebbero se la norma (asseritamente “antielusiva”) venisse effettivamente applicata. Questa valutazione va fatta a tutto tondo dovendosi ricomprendere nella stessa sia le imposte (rectius: la pluralità di tributi) che si sarebbero in concreto rese applicabili, sia le posizioni soggettive proiettate nel futuro che ne sarebbero scaturite. Una prova dal vero potrebbe essere fatta proprio utilizzando gli esempi di norma antielusiva da disapplicare forniti dal legislatore dell’appena novellato regime degli interpelli. Questi prescrive (o forse meglio: ipotizza, come si diceva sopra) l’utilizzo dell’interpello disapplicativo per lo scomputo delle perdite ai sensi dell’art. 84, comma 3, del TUIR. La norma (generale) dispone l’indisponibilità delle perdite pregresse qualora, nel biennio posteriore od anteriore al periodo d’imposta di riferimento, si verifichi un certo evento (il passaggio di mano della maggioranza del capitale sociale e, in aggiunta, la modifica dell’attività di fatto esercitata nei periodi di realizzo delle perdite medesime). La ratio della norma va qui ricercata nella repressione del fenomeno del cosiddetto “commercio di bare fiscali”. Il sistema tributario, infatti, garantisce

(55) «La fattispecie, dunque, se si considera nel quadro del procedimento di produzione degli effetti, non è causa né concausa né condizione di essi: e non è neppure condizione per il concretizzarsi della norma; costituisce piuttosto uno dei termini, col soggetto valutante, dell’atto di valutazione: vale a dire, l’oggetto della valutazione». A. Cataudella, op. cit., 935. (56) Così N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. Dir. Proc., 2014, 36. (57) N. Irti, op. cit., 39.


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la riportabilità delle perdite pregresse per abbattere gli imponibili futuri. Ma lo fa in un’ottica sistemica, un’ottica in cui le perdite di ieri (per ipotesi: la fase di investimento) sono il preludio degli utili di domani (la fase della messa a regime dell’attività oggetto di investimento). La riportabilità delle perdite è, dunque, il meccanismo attraverso il quale il legislatore persegue un riequilibrio fra malefici del passato (più costi che ricavi) e benefici del presente (più ricavi che costi) così che i primi possano essere “consolidati” con i secondi. E dispone ciò con lo scopo di prendere in considerazione la capacità produttiva aziendale nella sua rotondità, senza farsi annebbiare dalla sua strumentale scansione in distinti periodi d’imposta. La capacità produttiva nasce, infatti, col nascere dell’azienda e si esaurisce con la sua estinzione. I distinti periodi d’imposta sono, alla fin fine, solo un meccanismo del prelievo del tributo sul reddito (una sorta di prelievo in acconto) ma non anche il fondamento dell’imposta, tale essendo, per l’appunto, la produzione di un reddito. La norma (generale) mira, dunque, a fare si che l’azienda (lo strumento di produzione del reddito) che ha prodotto una perdita possa tenere conto della perdita stessa qualora, continuando ad operare in una struttura sostanzialmente analoga, riesca a riequilibrare le sue sorti e pervenga a risultati positivi. Sennonché l’azienda – cioè lo strumento di produzione del reddito – non è anche, di per sé, il “soggetto passivo d’imposta”. L’azienda (oggetto) è il contenuto, laddove il contenitore (soggetto) è una persona fisica (l’imprenditore individuale) od un soggetto collettivo (società, ente, consorzio, etc.). Questi può anche essere una società di capitali. Se, quindi, l’azienda in questione continua a deperire (o addirittura l’attività viene a cessare) ed il soggetto passivo d’imposta cui l’azienda fa capo (un’ipotetica società di capitali) viene venduto, chi ne acquisisce le partecipazioni ne eredita altresì le perdite. Ma se questi vi esercita attività che nulla (o poco) hanno a che spartire con le attività che diedero luogo alle perdite si concretizza l’appropriazione di un beneficio, diciamolo così, non meritato. Se le attività aziendali, pur apparentemente mantenute in vita, vengono ad essere stravolte da un’attività del tutto diversa da quella originaria, la norma (generale) alza sue barriere “antielusive” ed impedisce, attraverso l’art. 84,comma 3, TUIR, di godere (mediante riporto) delle dette perdite (pur ordinariamente riportabili). Si presume, anzi, che l’acquirente della società in perdita tanto era interessato alle perdite – e così poco alle attività aziendali – da essersi disfatto rapidamente di queste ultime per godersi solo i benefici delle prime. E l’intervento della disposizione “antielusiva” serve proprio ad impedirglielo. Ed è a questo punto che potrebbe fare ingresso l’esame, se del caso, della “particolare fattispecie”. Potrebbe verificarsi, infatti, che l’acqui-


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rente delle partecipazioni proceda ad una ristrutturazione industriale delle originarie attività aziendali mediante la quale i fattori di crisi e quelli di sviluppo potrebbero, per esempio, separarsi. Potrebbe, ad esempio, essere mantenuta l’attività commerciale e ceduta o esternalizzata l’attività industriale. E ciò potrebbe avvenire nell’ambito dello stesso nuovo gruppo proprietario ovvero mediante accordi con terzi. Si verificherebbe, quindi, apparentemente proprio la situazione prevista dalla norma generale (cessione del controllo e stravolgimento dell’originaria attività portatrice di perdite). Ebbene è proprio questa la situazione in cui la “fattispecie” merita particolare attenzione. L’operazione in questione, infatti, potrebbe configurarsi come operazione finalizzata al risanamento di un’attività in difficoltà così da evidenziare che non è il riporto ed utilizzo delle perdite l’obiettivo principe del riordino. Anzi, al contrario, questo potrebbe risultare semplicemente occasionale ed, al tempo stesso, decisivo al salvataggio dell’attività aziendale. La “particolare fattispecie” da esaminare sta, dunque, tutta qui: nella valutazione, diciamo così, industriale del piano e nella sua significatività. Se esso è genuino (conta poco sapere se avrà successo oppure no), la disposizione “antielusiva” merita di essere disapplicata. Se esso, invece, è mera finzione, va semplicemente mantenuta. Altro esempio classico, avventurandoci fuori dal seminato delle disposizioni antielusive espressamente richiamate dalla norma, potrebbe essere rappresentato dall’art. 87, comma 5, TUIR, ove si dispone il c.d. look through approach per individuare il regime (Pex o non Pex) applicabile alla partecipazione in una holding. La norma (generale) prevede che i requisiti Pex (nella specie quelli della “commercialità” e della “residenza in paese White List) debbano essere valutati in funzione dei contenuti della holding: cioè a dire che vanno esaminate e “pesate” le partecipate piuttosto che fermarsi sulla soglia della partecipante. La ratio di questa disposizione è chiaramente quella di evitare che attraverso lo schermo della holding si nascondano partecipazioni che – per le proprie caratteristiche – mai avrebbero potuto intitolarsi il regime Pex (perché società immobiliari ovvero localizzate in paesi Black List). La norma “antielusiva” – attraverso il look through approach – consente, in quest’ottica, di valutare correttamente se l’interposizione della holding ha la finalità di garantire un beneficio altrimenti non godibile o meno. Se la prevalente componente delle partecipazioni detenute, “consolidate” in una unica ideale entità societaria, possiede i requisiti in questione la Pex resta applicabile; in caso contrario ai suoi benefici non può farsi ricorso. La “fattispecie” da esaminare in questo caso consiste, dunque, proprio nelle modalità di assunzione e nella concreta possibilità di utilizzare la holding


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con la detta finalità di schermare il contenuto delle partecipate. Se, ad esempio, la partecipazione nella holding è di scarsa consistenza (sotto la soglia del collegamento), non è accompagnata da alcun diritto di voto particolare tale da influenzarne le decisioni mediante patti parasociali, non è accompagnata da intese commerciali che finiscano per garantire diritti analoghi a quelli derivanti da patti parasociali, è evidente che i temuti “effetti elusivi” non possono in concreto verificarsi risultando il partecipante un socio sostanzialmente passivo ed impossibilitato ad orientare i comportamenti della holding verso obiettivi di carattere elusivo (58). Occorre, dunque, in questo caso, disapplicare il sistema di individuazione dei requisiti Pex riferendolo alla sola holding – anziché pesarlo in relazione ai valori espressi dalle partecipate – proprio perché intanto “effetti elusivi” possono essere conseguiti in quanto essi sono perseguiti e governati da chi ha il potere di influire sugli indirizzi strategici della holding in questione. Laddove questa influenza non può essere (direttamente od indirettamente) esercitata è evidente che l’effetto elusivo semplicemente non può essere conseguito. 4. Conclusioni. – Per concludere non si può che prendere atto dell’elevato grado di incertezza che circonda questa materia. Il bianco ed il nero qui si sovrappongono in modo fin troppo evidente, quasi stridente. Ma a ben vedere questa è la vita, questo è l’approccio ad una realtà complessa che può solo essere affrontata e definita di volta in volta. Vale la sostanza degli argomenti ed anche degli elementi di prova che vengono messi in campo. E la loro forza logica dovendo risultare convincenti le tesi di chi (contribuente, amministratore pubblico o giudice) legge i fatti portati dalla “fattispecie”. Dalla ricaduta della medesima nel perimetro della norma “antielusiva” o fuori di esso.

Tommaso Di Tanno

(58) In termini sostanzialmente adesivi si esprime Assonime, Circ. 38 del 2005 (par. 7) che ritiene assai inopportuno il rinvio al regime della trasparenza per i partecipanti che non controllano le partecipate sottostanti.


La tassazione degli sportivi e degli artisti nelle convenzioni internazionali Sommario: 1. Natura derogatoria dell’art. 17 – 2. Il fondamento della deroga. – 3. La legittimità delle deroghe nel diritto convenzionale. – 4. L’ambito di applicazione in generale. – 4.1. Le situazioni “ibirde”. – 4.2. Le ipotesi di contiguità. – 5. Le criticità di applicazione. – 6. L’ambito di applicazione dell’art. 17, co. 2. – 7. Le criticità applicative. – 8. Molteplicità di Stati e art. 17, co. 2. – 9. I limitati pregi della soluzione convenzionale. – 10. La necessità di un ripensamento. La regola contenuta nell’art. 17 del Modello di Convenzione introduce una deroga ai principi generali in funzione antielusiva. Tuttavia, essa si ispira a una visione dell’attività sportiva e artistica sociologicamente “datata” e conduce a soluzioni problematiche e irrazionali. Come tale meriterebbe di essere ripensata a fondo. The rule contained in art. 17 of the OECD Model Convention is derogatory to the general principles of international taxation with an antiavoidance purpose. However, this rule is designed with regard to a notion of sports persons’ and entertainers’ activity which is definetly out of date. Therefore it gives raise to inconsistencies and to application problems. As such, it deserves to be thoroughy redesigned.

1. Natura derogatoria dell’art. 17. – L’art. 17 del Modello di Convenzione è certamente una norma derogatoria. È derogatorio, innanzi tutto, il primo comma che, diversamente da quanto previsto in via generale per i lavoratori dipendenti e le attività di impresa, prevede che gli artisti e gli sportivi siano tassati nello Stato in cui esercitano, di volta in volta, la loro attività anche quando tale esercizio avvenga in mancanza di una stabile organizzazione (se l’artista o lo sportivo rientrano nel campo di applicazione dell’art. 7) ovvero anche quando il periodo di permanenza nell’altro stato è inferiore a 183 giorni e/o il datore di lavoro non è residente (se l’artista o lo sportivo sono lavoratori dipendenti, così derogando all’art. 15).


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In via di ulteriore deroga, poi, il secondo comma dell’art. 17 prevede che sia tassato nello stato di esercizio dell’attività anche il reddito conseguito da una società se questo deriva dalle prestazioni rese da uno sportivo o un artista, anche se la società non ha una stabile organizzazione nello stato medesimo (così derogando all’art. 7). 2. Il fondamento della deroga. – Come tutte le regole derogatorie, il primo problema che si pone è quello di individuarne il fondamento. Sul punto sembra esservi una larga convergenza di opinioni circa il fatto che il primo comma dell’art. 17 – introdotto per la prima volta nel 1963 nel modello di convenzione – risponde alla presa d’atto della capacità, che si ritiene specifica degli atleti e degli artisti, di guadagnare compensi molto elevati con singole prestazioni in molte parti del mondo. Questo elemento, unito a una presunta maggiore propensione a sottrarre a tassazione questi redditi, avrebbe giustificato la deroga ai principi generali. Data la convergenza delle opinioni riscontrabile in ordine a questa giustificazione e considerati i relativi i riscontri storici non è possibile discostarsene. Tuttavia, è forse possibile chiarirne meglio la portata. L’evidenza storica sembra dimostrare che il maggior impegno per l’introduzione di questa disposizione sia stato profuso dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, ossia da due Stati che, in linea di principio, sono più “esportatori” che non “importatori” di atleti e artisti. Altrimenti detto, per i due Stati sopra menzionati la tassazione degli atleti e degli artisti nello stato della fonte non costituisce, di per sé, un vantaggio. È vero, infatti, che, in questo modo, il Regno Unito e gli USA acquisiscono il diritto di tassare gli artisti e gli atleti non residenti per i redditi derivanti dalle loro performances in UK e negli USA; ma è altrettanto vero che questo sistema ridurrà le imposte percepite in relazione alle performances all’estero di artisti e atleti residenti nei due Stati considerati. E siccome è altamente probabile che gli atleti e gli artisti residenti nel Regno Unito e negli USA che si recano all’estero per singole perfomances siano prevalenti per numero degli individui e per quantità dei redditi conseguiti rispetto a quelli che fanno il percorso opposto, sembra logico concludere che, in sé, la disposizione non tutela direttamente gli interessi degli Stati che, come si è detto, maggiormente hanno avuto a cuore la specifica disciplina. Si deve quindi ritenere che la tutela perseguita – e che costituisce la ratio della previsione convenzionale – è di tipo indiretto. La tassazione alla fonte, infatti, rende più facile l’emersione di redditi che, altrimenti, sarebbero restati nascosti perché evita che lo Stato estero possa


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essere disinteressato alle tecniche eventualmente impiegate dall’artista per occultare il reddito e, al tempo stesso, implica l’acquisizione da parte del medesimo Stato di informazioni che possono essere poi rilevanti nell’ambito dello scambio di informazioni. Il secondo comma è stato introdotto, per la prima volta, nel 1974 ed ha una giustificazione più chiara. La regola in esso contenuta ha la funzione di evitare che la norma contenuta nel primo comma possa essere aggirata sostituendo una società all’artista o al professionista che effettivamente rende la prestazione. 3. La legittimità delle deroghe nel diritto convenzionale. – Siamo quindi di fronte a una disciplina diretta a prevenire l’evasione delle regole generali (il primo comma) e a una norma diretta a prevenire l’elusione della precedente disposizione anti-evasiva (il secondo comma). Da questo punto di vista, non appare superfluo domandarsi fino a che punto questa iperfetazione di deroghe possa ritenersi tutt’ora giustificato. Non a caso anche l’OCSE ha avviato una fase di riconsiderazione della disciplina fin dal 2010. A mio avviso, la prospettiva dalla quale occorre porsi per rispondere a questa domanda è diversa da quella da cui sarebbe necessario partire nell’esaminare le deroghe proprie della disciplina tributaria nazionale. Queste ultime deroghe, infatti, pongono un problema di “equità” interindividuale; quindi, possono risultare in conflitto con il principio di eguaglianza che, oltre ad essere un valore fondante di molti ordinamenti è, comunque, un principio sicuramente rilevante (pur se variamente declinato) nella struttura dei sistemi fiscali in generale. Per contro, le convenzioni internazionali contengono regole distributive del potere impositivo. Esse dirimono conflitti interstatali attribuendo la potestà impositiva allo Stato di residenza oppure allo Stato della fonte. La scelta, operata dall’art. 17, di rendere tassabile il reddito degli artisti e degli sportivi nello Stato della fonte, quindi, non pone, in via immediata, un problema di eguaglianza, non implicando di per sé una diversa entità del prelievo. Anzi, se lo Stato della residenza adotta il sistema del credito d’imposta una diversità di trattamento è tendenzialmente esclusa. La deroga introdotta dall’art. 17 non deve essere quindi valutata alla stregua del principio di eguaglianza. La distribuzione del potere impositivo è funzionale – oltre che alla tutela dell’integrità fiscale degli Stati – anche alla realizzazione delle migliori condizioni per lo sviluppo economico. È quindi questo il punto di osservazione da assumere nella valutazione della persistente validità delle scelte riflesse nell’art. 17.


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Questa valutazione, tuttavia, richiede una previa ricognizione delle attuali criticità riscontrabili nella tassazione di sportivi e artisti. 4. L’ambito di applicazione in generale. – Come noto l’art. 17 si applica agli sportivi e agli artisti. Mentre la rubrica dell’articolo impiega la parola “artista” anche nella versione inglese, nel testo della disposizione questa versione impiega la parola “entertainer”. Si chiarisce, così, che l’attività che forma oggetto della previsione non è quella artistica in generale, ma quella diretta all’intrattenimento. La formula utilizzata dalle convenzioni in lingua italiana è meno chiara, ma sostanzialmente realizza il medesimo risultato. Quindi, la tassazione nello Stato della fonte riguarda solo le prestazioni “personali” degli artisti dello spettacolo (in senso lato, cinematografico, teatrale, radiofonico, televisivo, musicale ecc.) e degli sportivi rese per l’intrattenimento o per lo spettacolo sportivo. La disposizione è stata cioè pensata per situazioni molto lineari. Quelle, per intendersi, in cui il grande cantante d’opera viene ingaggiato per cantare al Metropolitan o il campione di pugilato per sfidarsi al Madison. Tuttavia, la realtà dell’attività dello spettacolo dimostra che vi è molta meno linearità. 4.1. Le situazioni “ibirde”. – Innanzi tutto, vi sono le ipotesi di “ibridismo”, ossia quelle in cui, nell’ambito di un rapporto strutturalmente unitario, sono presenti, per vari motivi, caratteri diversi. Si possono immaginare almeno le seguenti ipotesi: A) la medesima persona può rendere una prestazione complessa che è sia da artista dello spettacolo, sia diversa: p.es. il ballerino può anche essere coreografo, oppure l’attore può anche fare lo stuntman o il regista; B) la medesima remunerazione può abbracciare diverse prestazioni: è questo il caso in cui vi è l’ingaggio di una compagnia teatrale o di un gruppo musicale, tale che la remunerazione comprende sia le prestazioni degli artisti, che quella del regista, dello scenografo, del tecnico delle luci ecc.; C) la medesima remunerazione può abbracciare prestazioni svolte in Stati diversi come avviene quanto l’impresario ingaggia la compagnia teatrale per una somma fissa per una tournee internazionale; D) la medesima prestazione può determinare diverse forme di remunerazione, ad esempio vi può essere il compenso per l’apparizione nello spettacolo e, poi, la percezione di royalties per le successive trasmissioni dello stesso;


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E) la medesima occasione della prestazione può avere natura complessa: il caso classico è quello della prestazione del commentatore sportivo, che, in sé, non è certamente una prestazione di intrattenimento, ma che può acquisire questo carattere se svolta da determinate persone o in determinate condizioni. 4.2. Le ipotesi di contiguità. – Vi sono, poi, le ipotesi di contiguità, ossia quelle in cui la fattispecie si distingue solo per pochi elementi da quella normativamente prevista. A titolo puramente esemplificativo si può ricordare, in primo luogo, l’ipotesi dei professionisti che svolgono attività che hanno anche un risvolto di intrattenimento, ma non sono propriamente attività di intrattenimento. È questo il caso delle modelle nelle sfilate di moda. La sfilata non è svolta in funzione di intrattenimento avendo finalità prettamente economico pubblicitarie e i professionisti che vi sono impegnati non possono quindi definirsi professionisti dell’intrattenimento. Tuttavia, il discrimine rispetto alle attività di intrattenimento vere e proprie è certamente sottile. Una seconda ipotesi è quella dei personaggi la cui notorietà costituisce in sé occasione per richiamare il pubblico e che vengono invitati a manifestazioni che hanno prettamente valore di “intrattenimento” anche se la prestazione che essi rendono non è da “artista dello spettacolo”. Si pensi al grande chef che viene invitato per una dimostrazione in occasione di una manifestazione pubblica. Un’altra ipotesi è poi quella delle persone comuni, ossia di quelle che non svolgono l’attività di intrattenimento né come professionisti, né in forma amatoriale e che partecipano a “competizioni” il cui carattere ludico o il cui format mediatico è tale da rendere comunque prevalente il profilo di “intrattenimento” (come avviene, per esempio, nei c.d. reality show) 5. Le criticità di applicazione. – Gli ibridismi (cioè i casi in cui, unitamente agli elementi della fattispecie, sono presenti altri elementi) e le ipotesi di contiguità costituiscono sempre un problema per le norme derogatorie. Essi pongono problemi pratici, perché rendono difficile l’applicazione della norma, e problemi concettuali, perché determinano il dubbio circa l’idoneità in se della deroga a soddisfare le finalità per cui è posta. I criteri di soluzione dei problemi pratici, ovviamente non mancano. Lo stesso commentario accenna a taluni metodi, ma, in realtà, si tratta dei criteri che vengono sempre applicati in situazioni analoghe. In tutte le ipotesi di “ibridismo” si dovrà procedere:


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1. o con il metodo della distinzione cioè riconducendo all’ambito di applicazione della norma solo una parte della fattispecie identificata secondo un criterio empirico; è questo, ad esempio, il metodo che si usa quando il medesimo soggetto svolge più attività (cfr., supra, sub A), o la medesima remunerazione riguarda le diverse prestazioni di soggetti diversi (cfr., supra, sub B), o quando la medesima remunerazione è riferita a prestazioni svolte in Stati diversi (cfr., supra, sub C); 2. o con il metodo della prevalenza/assorbimento, ossia la fattispecie è interamente inclusa (o, viceversa, esclusa) dall’ambito di applicazione della norma in ragione della prevalenza (sempre determinata in base a criteri empirici) o meno degli elementi della fattispecie normativa; è questo il caso delle ipotesi sub D e E. Tuttavia, per un verso, è evidente che non esiste nessuna ragione logica per affermare che, ad esempio, i casi in cui si applica il metodo della distinzione non potrebbero essere soggetti a quello della prevalenza/assorbimento o viceversa e, per altro verso, è altrettanto evidente che i criteri che saranno di volta in volta applicati per operare la distinzione o stabilire la prevalenza, per quanto ragionevoli e empiricamente accettabili, forniranno solo una delle possibili soluzioni. Quel che più rileva, tuttavia, non è la mancanza di una univoca base logica dei criteri, quanto, piuttosto, l’assenza di base normativa. Lo stesso vale per le ipotesi che abbiamo definito di “contiguità”, per le quali il criterio guida risulta essere, in definitiva, l’apprezzamento sociale. Cosicché la soluzione è rimessa alla giurisprudenza con le sue inevitabili oscillazioni. In tutti questi casi, insomma la disciplina derogatoria lascia uno spazio largamente indeterminato che appare poco coerente proprio rispetto alle finalità specifiche della deroga. 6. L’ambito di applicazione dell’art. 17, co. 2. – Problemi di indeterminatezza si riscontrano anche nella definizione dell’art. 17, secondo comma. È noto che il par. 11 del Commentario riconduce all’ambito applicativo della disciplina tre ipotesi diverse: - quella della società di management che riceve compensi per una determinata performance degli sportivi o degli artisti che rappresenta; - quella dei gruppi di artisti o sportivi (squadre, troupe, orchestre ecc) che hanno forma societaria; - quella delle c.d. “star company” in cui la società riceve un compenso per la prestazione dell’artista o dello sportivo che è il socio della società stessa o co-


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lui che ha ceduto alla medesima i diritti di sfruttamento dell’immagine cosicchè la remunerazione dell’artista o dello sportivo perviene al medesimo sotto forma di dividendi o di percezione del prezzo della vendita dei predetti diritti. Le tre ipotesi sono assolutamente eterogenee e solo l’ultima è perfettamente rispondente alla finalità originaria della disposizione. Non a caso, nelle riserve al modello di convenzione, Canada, Svizzera e Stati Uniti hanno espresso l’opinione che solo l’ipotesi della “star company” è riconducibile all’art. 17, secondo comma e si sono riservati il diritto di proporre una modifica della disposizione per chiarirne la portata. 7. Le criticità applicative. – D’altra parte, lo stesso Commentario rende evidenti le difficoltà che si incontrano applicando l’art. 17, comma 2 anche alle orchestre, alle squadre e alle troupe. In primo luogo, infatti, la remunerazione di questi team rappresenta un tipico caso di ibridismo – nel senso chiarito poc’anzi – perché comprende anche le prestazioni di soggetti che non sono artisti o sportivi (l’allenatore, i massaggiatori, i coreografi, ecc.). Cosicché la corretta applicazione dell’art. 17 implicherà il ricorso ai criteri distintivi di cui si è detto con tutte le incertezze cui si è pure accennato. In secondo luogo, non si deve dimenticare che nel caso dei team con forma societaria, i singoli artisti o sportivi sono comunque remunerati – normalmente sotto forma di salario per un’attività di lavoro dipendente – dalla società medesima e che tale remunerazione, per la quota parte riferibile alla prestazione resa all’estero, è già di per sé stessa tassabile nello Stato dove è resa la prestazione ai sensi dell’art. 17, comma 1. Ne consegue che è certamente possibile che il medesimo reddito sia tassato due volte nel medesimo Stato: una prima volta al momento della percezione della remunerazione della prestazione da parte del team in applicazione dell’art. 17, comma 2; una seconda volta nel momento in cui i singoli “dipendenti” del team percepiscono la loro remunerazione. La posizione assunta, al riguardo, dal Commentario (par. 11, lett. b) è tutt’altro che appagante. A) Innanzi tutto, sembrerebbe di comprendere che, ad avviso degli estensori del Commentario, il problema si pone solo se i membri del team ricevono un salario fisso del quale sia difficile individuare la parte specificamente afferente alla prestazione resa in ciascuno Stato estero. Il passaggio è, a mio avviso, ambiguo e si presta a due interpretazioni comunque problematiche.


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Una prima opzione interpretativa è nel senso che, nel caso in cui il salario sia variabile e/o agevolmente allocato, allora l’art. 17, comma 2 si applica solo sulla differenza fra il salario variabile e agevolmente allocabile (tassato in capo al singolo dipendente-artista ai sensi dell’art. 17, comma 1) e l’intera remunerazione della prestazione del team. Se così fosse, allora la posizione del Commentario sarebbe accettabile nei suoi risultati concreti, salvo che, in questo caso, la deroga contenuta dall’art. 17, comma 2 si risolve nella tassazione di una fattispecie del tutto diversa dalle ipotesi di elusione che, invece, costituiscono la giustificazione della disposizione. La seconda opzione è, invece, nel senso che le ipotesi dubbie sono solo quelle in cui il salario è fisso e non allocabile. Tutte le altre ipotesi ricadrebbero per intero tanto nell’ambito del primo quanto in quello del secondo comma dell’art. 17. Ma è evidente la doppia imposizione che si realizza in questo modo, restando così frustrata la funzione stessa della Convenzione. B) Anche nelle ipotesi di salario fisso e difficilmente allocabile, poi, il Commentario assume una posizione scarsamente appagante in quanto afferma che, in tali ipotesi, i singoli Stati possono (ma non debbono!) prevedere unilateralmente o bilateralmente di non tassare la porzione del salario astrattamente riconducibile alla prestazione svolta all’estero. Questa affermazione appare, in primo luogo, contraddittoria perché introduce una possibilità di esenzione proprio nei casi cui è maggiormente difficile individuarne l’oggetto (giacché si parte appunto dal presupposto che l’allocazione del salario è difficile allocazione). Essa, inoltre, contrasta con un consolidato orientamento dottrinale secondo cui l’art. 17, comma 1 si applicherebbe solo alle remunerazioni per la prestazione “specifica” cosicché i salari non direttamente correlati alla prestazione rientrerebbero nella ordinaria applicazione dell’art. 15. Peraltro, la proposta offerta dal Commentario non costituisce neppure una vera soluzione del problema risolvendosi in una mera facoltà dei singoli Stati membri e null’altro. Il risultato complessivo è quello di attribuire alla deroga una portata decisamente eccedente la sua effettiva funzione e, finanche, contrastante con la generale finalità delle Convenzioni, sia perché può determinare problemi di doppia imposizione, sia perché comunque introduce complessità applicative e incertezza. 8. Molteplicità di Stati e art. 17, co. 2. – Infine, la previsione di cui all’art. 17, comma 2, può determinare problemi nei casi di in cui, come è ben possibile, gli Stati coinvolti sono più di due.


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Si tratta di un’ipotesi tutt’altro che remota suscettibile di verificarsi là dove la società che riceve il reddito relativo alla prestazione artistica o sportiva sia residente in uno Stato diverso da quello di residenza dell’artista o dello sportivo che rende la prestazione. Nel caso di team, gli Stati coinvolti possono essere molto numerosi. Il primo problema che si pone in questi casi è quello di stabilire se si deve applicare la convezione esistente fra lo Stato della fonte e quello ove ha sede la società oppure la convenzione con lo Stato dove risiede l’artista o lo sportivo. Implicitamente il Commentario (par. 11.1) risolve il problema stabilendo che si deve applicare la convenzione dello Stato ove ha sede la società. Si tratta di una soluzione non del tutto convincente. Se, infatti, l’art. 17, comma 2, è diretto a evitare la possibile elusione dell’art. 17, comma 1, sembrerebbe logico prevedere che si debba partire proprio da questa norma. Per fare un esempio, si immagini che l’artista residente nello Stato A renda una prestazione nello Stato B e che la convenzione fra lo Stato A e lo Stato B preveda, come è possibile, una soglia al di sotto della quale il potere impositivo resta attribuito totalmente allo Stato di residenza. Se così fosse, lo Stato B (che è lo Stato della fonte) non avrebbe la possibilità di tassare il reddito dell’artista residente nello Stato A. Questa impossibilità dovrebbe permanere anche se l’artista consegue la propria remunerazione tramite una società. Tuttavia, questo risultato non si ottiene se l’artista rende la prestazione attraverso una società residente nello Stato C e la convenzione fra lo Stato B e lo Stato C non prevede alcuna soglia, dovendosi applicare, in base alle indicazioni del Commentario, la convenzione fra Stato B e Stato C. A risultati opposti si perviene se, invece, la convenzione fra Stato A e Stato B non prevedesse nessuna soglia e, invece, questa fosse prevista dalla convenzione fra Stato B e Stato C. In entrambe le ipotesi, quindi, il risultato è che la norma antielusiva non determina un risultato coincidente a quello cui si sarebbe pervenuti in base alle norma elusa. 9. I limitati pregi della soluzione convenzionale. – La soluzione indicata dal Commentario presenta, tuttavia, un indiscutibile vantaggio operativo. Nelle ipotesi, cui si è già fatto cenno, in cui gli Stati coinvolti fossero addirittura più di tre (ossia là dove, oltre allo Stato della fonte e a quello di residenza della società, fossero coinvolti più Stati di residenza degli sportivi o


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degli artisti che compongono il team), applicare la tassazione conformemente alle convenzioni in essere fra lo Stato delle fonte e ciascuno degli Stati di residenza delle persone fisiche introduce un ulteriore elemento di complessità. Tuttavia, specialmente in queste ipotesi, il risultato cui si perviene – riguardato dal punto di vista della funzione delle convenzioni contro le doppie imposizioni – risulta particolarmente incongruo, non potendosi escludere che l’applicazione di una convenzione diversa da quella applicabile in ragione della residenza del singolo artista o sportivo possa dar luogo a problemi anche in termini di effettiva possibilità di applicazione dei rimedi contro le doppie imposizioni. 10. La necessità di un ripensamento. – Le considerazioni sommariamente svolte, convincono, a mio avviso, che l’art. 17 meriterebbe di essere ripensato. Vi è al riguardo, un elemento particolarmente importante da segnalare. Fino al 2000, il primo comma dell’art. 17 prevedeva che esso si applicasse in deroga agli art. 14 e 15 della Convenzione. La disciplina presupponeva quindi che le prestazioni degli sportivi e degli artisti dovessero essere classificate, in sé, fra le attività indipendenti (art. 14) ovvero fra quelle dipendenti (art. 15) alle cui regole di allocazione del potere di imposizione derogava, appunto, l’art. 17. Era pertanto evidente che la disciplina si muoveva esclusivamente nella prospettiva della qualificazione dell’attività dello sportivo o dell’artista come attività individuale “liberale” o dipendente. Nel 2000 l’art. 17, primo comma è cambiato e si è sostituito il riferimento all’art. 14 con quello all’art. 7. In altri termini, la deroga opera con riguardo ai criteri di allocazione previsti o per il reddito derivante dalla prestazione di attività dipendenti o per i redditi d’impresa (art. 7). Si presuppone quindi che l’attività dello sportivo o dell’artista, fuori dai casi in cui essa si configuri come attività dipendente, sia riconducibile all’area dell’attività di impresa. Verosimilmente, alla luce delle considerazioni di cui sopra, il rilievo coglie esattamente un aspetto della evoluzione di queste attività tanto sul piano della realtà effettuale, quanto su quello dell’apprezzamento sociale. Ma, se così è, risulta difficile comprendere perché solo questa tipologia di prestazioni, nell’ambito dell’area dell’attività di impresa, richieda una così particolare e così discutibile disciplina antielusiva e antievasiva e non si possa, invece, fare riferimento alle ordinarie clausole antiabuso, magari opportunamente adattate.

Guglielmo Fransoni


Gli accertamenti basati su indagini bancarie e finanziarie nel reddito di impresa* Sommario: 1. Introduzione e breve excursus storico concernente le norme sugli accertamenti tributari fondati su indagini bancarie. – 2. L’interpretazione dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 operata dalla giurisprudenza. – 3. L’interpretazione dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 operata dalla dottrina. – 4. Una possibile interpretazione alternativa dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 – 5. Argomentazioni finalizzate a delimitare la portata applicativa dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973. – 5.1. L’accertamento basato su movimentazioni bancarie risultanti da conti correnti intestati a soggetti terzi rispetto al contribuente. – 5.2. I prelevamenti bancari. – 5.3. La prova contraria del contribuente. La prevalente giurisprudenza e dottrina ritiene che l’art. 32, comma 1, n. 2, del DPR n. 600/1973 e l’art. 51, comma 2, n. 2), del DPR n. 633/1972 legittimino l’amministrazione finanziaria a presumere, in sede di accertamento, rispettivamente, un maggior reddito imponibile ed un maggior volume di affari ai fini Iva, sulla base dei meri dati risultanti dai conti correnti bancari del contribuente, oppure risultanti da operazioni finanziarie da quest’ultimo effettuate. Il presente lavoro mira a fornire un’interpretazione delle suddette norme alternativa rispetto a quella prevalente e, comunque, a proporre argomentazioni atte a circoscrivere l’ambito applicativo delle norme stesse. Main jurisprudence and doctrine consider that art. 32, par. 1, n. 2), of DPR n. 600/1973 and art. 51, par. 2, n. 2), of DPR n. 633/1972 enable tax authorities to presume, in place of assessment, respectively, an higher taxable income and an higher turnover for VAT purposes, on the basis of the mere banking and financial data referred to the taxpayer. This article aims at proposing an interpretation of the relevant rules different from the prevailing one and, anyway, aims at proposing some argumentations geared to limit the scope of the named rules.

(*) Lavoro sottoposto a revisione esterna.


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1. Introduzione e breve excursus storico concernente le norme sugli accertamenti tributari fondati su indagini bancarie. – Le norme in materia di accertamento tributario basato su indagini bancarie furono introdotte dal legislatore italiano, per la prima volta, con l’abrogato art. 35 del DPR 29 settembre 1973, n. 600 (1), il quale, in deroga al segreto bancario allora esistente, legittimava l’amministrazione finanziaria ad esperire indagini bancarie ai soli fini delle imposte sul reddito e nelle sole ipotesi in cui la stessa amministrazione avesse acquisito prove certe di evasione di una certa entità, nonché dei connessi elementi probatori (2). I successivi artt. 1 e 3 del DPR 15 luglio 1982, n. 463 – oltre ad estendere, mediante norme non dissimili da quelle previste in materia di imposte reddituali, le deroghe al segreto bancario anche in ambito Iva, tramite l’introduzione dell’art. 51 bis del DPR 26 ottobre 1972, n. 633 – apportarono alcune modifiche al contenuto dell’art. 35 del DPR n. 600/1973, le quali, in una prospettiva di ampliamento delle ipotesi di deroga al segreto bancario, si sostanziarono: (i) nella previsione della possibilità di accesso diretto dei funzionari dell’amministrazione finanziaria presso gli istituti di credito al fine di reperire dati bancari relativi ad un dato contribuente (ii) nella possibilità di utilizzo dei dati bancari a base dell’accertamento secondo moduli presuntivi (iii) nella possibilità per l’amministrazione finanziaria di effettuare indagini anche sui conti correnti bancari dei soci di società di fatto e degli amministratori in carica di società in nome collettivo e di società in accomandita semplice (3).

(1) La norma in questione era attuativa dell’art. 10, n. 12, della L. 9 ottobre 1971, n. 825, il quale delegava il Governo la previsione “limitate ad ipotesi di particolare gravità, di deroghe al segreto bancario nei rapporti con l’Amministrazione finanziaria, tassativamente determinate nel contenuto e nei presupposti”. (2) Le indagini bancarie potevano, più in dettaglio, essere condotte esclusivamente in presenza dei seguenti presupposti: - in caso di omessa presentazione, da parte del contribuente, della dichiarazione dei redditi. È bene rilevare che detta omissione non consentiva, comunque, all’amministrazione finanziaria di porre in essere l’attività di acquisizione dei dati bancari ascrivibili al contribuente stesso. A tale fine era, infatti, necessario il possesso, da parte dell’amministrazione finanziaria, di “elementi certi” atti a dimostrare che il contribuente avesse conseguito entrate o acquistato beni oltre determinate soglie di valore; - nel caso in cui l’amministrazione finanziaria fosse in possesso di elementi certi dai quali risultasse il conseguimento, ad opera del contribuente, di entrate di ammontare superiore al quadruplo di quanto dichiarato e sempre che si fosse superata una determinata soglia di punibilità; - in caso di omessa tenuta, da parte del contribuente, delle scritture contabili obbligatorie per tre periodi di imposta consecutivi. (3) Le modifiche all’art. 35 del DPR n. 600/1973, apportate dal DPR n. 463/1982,


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L’art. 35 del DPR n. 600/1973 e l’art. 51 bis del DPR n. 633/1972 furono, a loro volta, abrogati dall’art. 18 della L. 30 dicembre 1991, n. 413, il quale riversò le disposizioni contenute nelle due norme abrogate, rispettivamente, nell’art. 32, comma 1, n. 2, del DPR n. 600/1973 e nell’art. 51, comma 2, n. 2, del DPR n. 633/1972. La ratio dell’intervento legislativo in parola è stata individuata nella volontà di eliminare il carattere di eccezionalità delle deroghe al segreto bancario annoverando le medesime tra i poteri comunemente esercitabili dagli uffici (4). La disciplina degli accertamenti basati su indagini bancarie e finanziarie è quindi attualmente regolata, per quanto riguarda le imposte sul reddito, dall’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del DPR n. 600/1973 e, per quanto concerne l’Iva, dall’art. 51, comma 2, n. 2, secondo periodo, del DPR n. 633/1972 (5). Le norme poc’anzi menzionate legittimano l’amministrazione finanziaria a presumere, in sede di accertamento, rispettivamente, un maggior reddito imponibile e un maggior volume di affari ai fini Iva, sulla scorta dei meri dati risultanti dai conti correnti bancari del contribuente, oppure risultanti da operazioni finanziarie da quest’ultimo effettuate. Pur essendo state le norme in questione oggetto di interpretazioni giurisprudenziali e dottrinali tra loro contrastanti, è bene osservare come la tesi prevalente sia quella secondo cui i dati bancari e finanziari attribuibili al contribuente sarebbero di per sé idonei a consentire all’amministrazione finanziaria di inferire, in via presuntiva, un maggior reddito imponibile e un maggiore volume di affari ai fini Iva. Il presente lavoro, dopo l’illustrazione delle principali tesi giurisprudenziali e dottrinali espresse in merito alla tematica che qui ci occupa, mira a fornire un’interpretazione delle norme di cui si discorre alternativa rispetto a

consentirono, inoltre, all’amministrazione finanziaria di accedere ai conti correnti bancari dei contribuenti, in caso di omessa presentazione della dichiarazione da parte di questi ultimi, in base a meri elementi presuntivi, senza, quindi, la necessaria contestazione di maggiori ricavi di una certa entità supportata dalla presenza di elementi certi. Le modifiche apportate dal DPR n. 463/1982 legittimarono, inoltre, l’amministrazione finanziaria all’accesso ai conti correnti bancari dei contribuenti non solo in ipotesi di omessa tenuta delle scritture contabili, ma anche in caso di contabilità inattendibile a causa di violazioni ripetute. (4) In questi termini M. Cedro, Le indagini fiscali sulle operazioni finanziarie e assicurative, Torino, 2011, 23. (5) Poiché il dettato delle due norme è essenzialmente analogo, le considerazioni svolte nel prosieguo in relazione alla prima di esse devono intendersi riferite anche alla seconda.


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quella prevalente e, comunque, a proporre alcune argomentazioni atte a circoscrivere la portata applicativa delle norme stesse. 2. L’interpretazione dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 operata dalla giurisprudenza. – La prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito ritiene che le norme contenute nell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 siano espressione di presunzioni legali relative attraverso le quali l’amministrazione finanziaria è legittimata a considerare, in maniera automatica, quale reddito imponibile, le movimentazioni risultanti da rapporti bancari e finanziari intrattenuti dal contribuente, salvo che quest’ultimo dimostri l’irrilevanza reddituale di dette movimentazioni, oppure di aver tenuto conto delle stesse nella propria dichiarazione tributaria. Le sentenze con le quali la giurisprudenza ha affermato l’esistenza della presunzione legale relativa in oggetto sono molteplici (6), ma il ragionamento che, ad avviso dei giudici, giustifica il percorso inferenziale summenzionato è molto simile in tutte le pronunce e pare possa trovare chiara rappresentazione nel passo di seguito riportato “la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili si correla ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità (id quod plerumque accidit) che il contribuente si avvalga di tutti i conti di cui possa disporre per le rimesse ed i prelevamenti inerenti

(6) In proposito si veda, ex pluribus, Cass. 28 luglio 2000, n. 9946, Cass. 28 agosto 2000, n. 11234, Cass. 6 novembre 2002, n. 15538, Cass. 10 marzo 2006, n. 5365, Cass. 1° ottobre 2007, n. 20630, Cass. 6 agosto 2008, n. 21180, Cass. 14 novembre 2011, n. 767, Cass. 29 ottobre 2014, n. 22920 e Cass. 26 gennaio 2015, n. 1285. È bene rilevare come la giurisprudenza tratti, generalmente, in modo unitario la tematica delle presunzioni previste dall’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/12973, mentre la dottrina tenda, al contrario, ad operare una più analitica distinzione tra la prima parte della norma da ultimo nominata, genericamente riferita a tutti i “dati ed elementi” attinenti rapporti ed operazioni bancarie e finanziarie e quindi applicabile a tutti i contribuenti, e la seconda parte della norma medesima riguardante esclusivamente i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni e applicabile ai soli soggetti titolari di reddito di impresa (si rammenta come la sentenza della Corte Costituzionale 6 ottobre 2014 n. 228 abbia sancito l’inapplicabilità ai titolari di reddito di lavoro autonomo della norma contenuta nella seconda parte dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 dichiarando incostituzionale la norma stessa limitatamente alle parole “o compensi”). La principale conseguenza, sul piano applicativo, del summenzionato approccio giurisprudenziale è l’attrazione a maggior reddito imponibile della sommatoria di versamenti e prelevamenti risultanti dai conti bancari del contribuente (sottolinea quest’aspetto A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008, 134).


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all’esercizio dell’attività”. Posto ciò, i giudici hanno aggiunto che “Da tanto discende che (…) nella specifica fattispecie l’amministrazione finanziaria non deve effettuare “nessun supplemento di istruttoria”, né è tenuta ad “elaborare le risultanze contabili” dei conti bancari del contribuente né, ancora, deve offrire (neanche al giudice, in sede di giudizio) “elementi ulteriori” di prova, quand’anche indiziari. La “presunzione” legale di “riferibilità dei movimenti bancari od operazioni imponibili”, inoltre, porta in sé la qualificazione (anche questa presunta iuris tantum) certamente reddituale di quei “movimenti” avendo il legislatore posto a carico del contribuente la prova (oltre che della loro considerazione “nelle dichiarazioni”) della eventuale irrilevanza fiscale degli stessi” (7). Si vuole, in aggiunta, rilevare che l’amministrazione finanziaria e parte della giurisprudenza attivano la presunzione iuris tantum cui si è fatto cenno poc’anzi utilizzando addirittura movimentazioni bancarie e finanziarie risultanti da rapporti intestati a soggetti diversi dal contribuente accertato e legati ad esso in virtù di relazioni commerciali, professionali o personali (8). Posto quanto sopra, giurisprudenza minoritaria e risalente nel tempo ha, invece, sostenuto che le movimentazioni risultanti dai rapporti bancari e finanziari intrattenuti dal contribuente hanno carattere meramente indiziario (9) e non costituiscano, di per sé, prove presuntive di maggior reddito (10). In altri termini, la locuzione contenuta nell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del DPR n. 600/1973 – in base alla quale i dati ed elementi ricavati dai rapporti bancari intrattenuti dal contribuente sono “posti a base delle rettifiche e degli

(7) Cfr. Cass. n. 767/2011. (8) In questo senso si vedano, senza pretesa di esaustività, le seguenti sentenze riguardanti in particolare accertamenti nei confronti di società di persone o di capitali a seguito di indagini bancarie e finanziarie effettuate su rapporti intestati ad amministratori, soci o familiari di soci delle società stesse: Cass. 24 febbraio 2001, n. 2738, Cass. 6 novembre 2002, n. 15523, Cass. 13 settembre 2006, n. 19609, Cass. 21 marzo 2007, n. 6743, Cass. 24 agosto 2007, n. 18013, Cass. 15 settembre 2008, n. 23652, Cass. 21 marzo 2008, n. 7776, Cass. 11 febbraio 2009, n. 3300, Cass. 13 settembre 2010, n. 19493, Cass. 6 ottobre 2011, n. 20449, Cass. 30 novembre 2012, n. 21420, Cass. 2 luglio 2013, n. 16675, Cass. 1° ottobre 2014, n. 20668 e Cass. 14 gennaio 2015, n. 428. (9) È stato chiarito che il termine “indizio” “indicherebbe quegli elementi di prova che, pur non essendo privi di qualche efficacia probatoria, tuttavia non presentano i requisiti richiesti dalla legge per l’impiego delle presunzioni semplici. Si tratterebbe quindi di qualcosa di simile alla presunzione semplice, ma più debole, ossia non capace di dar luogo ad una vera e propria presunzione” (in questi termini M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, Milano, 1982, 451). (10) Cfr. Comm. trib. I grado Milano, sez. XI, 3 marzo 1997.


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accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 (del DPR n. 600 n.d.r.)” – consentirebbe di affermare che i predetti dati ed elementi non costituiscano prove presuntive dotate di gravità, precisione e concordanza e che i medesimi siano idonei a presumere maggior materia imponibile solo previo abbinamento con altri elementi contestati dall’amministrazione finanziaria (11). 3. L’interpretazione dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 operata dalla dottrina. – Già si è avuto modo di notare che, mentre la giurisprudenza affronta in modo unitario la tematica delle presunzioni previste dall’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973, la dottrina tende ad operare una distinzione tra la prima parte della norma da ultimo nominata, genericamente riferita a tutti i “dati ed elementi” attinenti rapporti ed operazioni bancarie e finanziarie e quindi applicabile a tutti i contribuenti, e la seconda parte della norma medesima riguardante esclusivamente i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni e applicabile ai soli soggetti titolari di reddito di impresa. Detto questo, dottrina prevalente è dell’avviso che la prima parte dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 racchiuda una presunzione relativa in base alla quale l’amministrazione finanziaria è legittimata a desumere in modo automatico l’esistenza di redditi non dichiarati da parte del contribuente (12). Dottrina minoritaria ritiene, invece, che la

(11) Cfr. Comm. trib. distr., Sez. VII, Reggio Emilia 24 aprile 1992, Comm. trib. centr. 11 novembre 1994, n. 3778, Comm. trib. prov. Vicenza 17 aprile 1998, n. 159 e Comm. trib. reg. Venezia 17 dicembre 1998, n. 195. Le ultime due sentenze citate hanno più precisamente arguito che le risultanze delle indagini bancarie sono di per sé insufficienti a dimostrare un’evasione di imposta in quanto indizi gravi, ma sprovvisti di precisione e concordanza. (12) In questo senso, senza pretesa di completezza, si sono espressi: R. Cordeiro Guerra, Questioni aperte in tema di accertamenti basati su dati estrapolati da conti correnti bancari, nota a Comm. trib. prov. Como 7 maggio 1997, n. 260, Comm. trib. prov. Grosseto 29 luglio 1997, n. 157 e Comm. trib. reg. Firenze 27 gennaio 1997, n. 2, Rass. trib., 1998, 561, A. Fantozzi, I rapporti tra fisco e contribuente nella nuova prospettiva dell’accertamento tributario, Riv. dir. fin. sc. fin., 1984, 231, A. Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 305, A. Lovisolo, Il diritto tributario nella giurisprudenza delle commissioni tributarie: breve disamina di taluni argomenti problematici, AA.VV., La normativa tributaria nella giurisprudenza delle Corti e nella nuova legislatura, Atti del Convegno “Gli ottanta anni di Diritto e Pratica Tributaria”, coordinati da Uckmar, Padova, 2007, 246, R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario. Principi generali e approfondimenti specialistici, cit., 305, R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, Diritto tributario, a cura di A. Fantozzi, IV ed., 2012, 658, F. Tesauro, Istituzioni di Diritto tributari o, Torino, VII ed., Vol. 1 Parte generale, 2000, 178. È bene notare sin da subito come alcuni autori abbiano, tuttavia, sottolineato l’rragionevolezza


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norma in questione non contempli una presunzione legale relativa, ma solo una presunzione semplice e questo perché, benché la struttura della locuzione normativa richiami, attesa la clausola di salvezza della prova contraria del contribuente, una presunzione del primo tipo, la genericità delle disposizioni ivi contenute, nonché l’eterogeneità degli elementi che i rapporti bancari e finanziari possono rivelare, lascerebbero propendere per una presunzione del secondo tipo. In base a questa chiave di lettura, il riferimento operato dal legislatore alla prova contraria del contribuente dovrebbe, dunque, essere interpretato alla stregua della necessità di un contraddittorio tra il contribuente stesso e l’amministrazione finanziaria al fine di consentire al primo di essi di fornire, prima dell’emissione dell’atto di accertamento, giustificazioni circa la natura dei movimenti bancari e finanziari (13). Sempre in merito alla natura di presunzione semplice, e non legale, dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, prima parte, del DPR n. 600/1973 è stato, inoltre, osservato che la generica espressione utilizzata dal legislatore – secondo cui i dati e gli elementi attinenti ai rapporti bancari e finanziari sono “posti a base” delle rettifiche e degli accertamenti di cui agli artt. 38, 39 40 e 41 del DPR n. 600/1973 – è ben diversa da quelle – “si considerano”, “costituiscono” – normalmente adottate dal legislatore medesimo per introdurre una presunzione legale (14). In definitiva, in base a questo filone dottrinale, i dati ed elementi inerenti i rapporti bancari e finanziari relativi ad un determinato contribuente – ove quest’ultimo non ne dimostri l’irrilevanza reddituale o comunque di averne tenuto conto in dichiarazione dei redditi – non vincolano, di per sé, l’Agenzia delle Entrate ad alcun specifico accertamento e non dispensano l’organo

di tale presunzione a motivo dell’assenza, nell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, prima parte, del DPR n. 600/1973, di alcun riferimento al “fatto noto” da cui si inferirebbe la natura reddituale delle somme rinvenute sui conti correnti bancari (cfr. R. Miceli, L’attività istruttoria tributaria, cit., 658). In merito a quest’aspetto altra dottrina ha rilevato come nella norma di cui si discorre difetterebbero sia il “fatto noto” – rappresentato da una pluralità di dati ed elementi non meglio individuati – sia il “fatto ignoto”, il quale non sarebbe neppure individuato (cfr. S. Sammartino, La rilevanza fiscale delle operazioni bancarie di prelevamento, in AA.VV., Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di Perrone e Berliri, Napoli, 2006, 452, A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 128). (13) Così A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 127-128. (14) In questi termini S. Sammartino, La rilevanza fiscale delle operazioni bancarie di prelevamento, cit., 452.


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accertatore dal scegliere il metodo accertativo più consono in ragione delle circostanze di fatto manifestatesi (15). Di conseguenza, i predetti dati ed elementi rappresenterebbero null’altro che il risultato di un’attività istruttoria ed avrebbero la valenza di meri indizi, i quali, unitamente ad altri fatti di segno concorrente, potrebbero assurgere al rango di prove a fondamento della rettifica della dichiarazione (16). Con riferimento, invece, alla seconda parte dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 – riguardante i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito dei rapporti bancari e finanziari intrattenuti dal contribuente – è da rilevare come la dottrina prevalente abbia considerato la norma ivi contenuta espressione di una presunzione legale relativa e ciò a motivo della presenza sia del “fatto noto”, ossia i predetti prelevamenti e riscossioni, sia del “fatto ignoto” rappresentato dai ricavi di cui si presume il conseguimento (17)- (18). Al fine di contrastare siffatta presunzione il contribuente è legittimato ad addurre alcune prove contrarie quali, oltre alla dimostrazione dell’irrilevanza reddituale o dell’annotazione in dichiarazione dei redditi delle operazioni de quibus, l’iscrizione in contabilità delle operazioni medesime e, in ogni caso,

(15) Cfr. S. Muleo, “Dati”, “dabili” ed “acquisibili” nelle indagini bancarie tra prove ed indizi (e cenni minimi sull’abrogazione delle c.d. sanzioni improprie), nota a Comm. trib. reg. Venezia 17 dicembre 1998, n. 195, Comm. trib. prov. Vicenza 5 novembre 1997, Comm. trib. prov. Vicenza 17 aprile 1998, n. 159, Riv. dir. trib., II, 1999, 611. (16) Cfr. S. Sammartino, La rilevanza fiscale delle operazioni bancarie di prelevamento, cit., 452. (17) Cfr. S. Sammartino, La rilevanza fiscale delle operazioni bancarie di prelevamento, cit., 454, A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 129. (18) La presunzione contenuta nella norma in parola si applica unicamente nei confronti dei soggetti titolari di reddito di impresa. A questo proposito si rammenta la sentenza della Corte Costituzionale 6 ottobre 2014, n. 228, in base alla quale la norma in discorso è da ritenersi incostituzionale, per violazione del principio di ragionevolezza e del principio di capacità contributiva, nella parte in cui estende la presunzione ai compensi percepiti dai titolari di reddito di lavoro autonomo. Per approfondimenti circa la sentenza in parola si rinvia ai contributi di E. Artuso, Finalmente dichiarata incostituzionale la presunzione “prelevamento=compenso” per i professionisti: prime osservazioni “a caldo”, Riv. dir. trib., II, 250 ss., P. Boria, Un leading case della Corte Costituzionale in materia di presunzioni bancarie, Riv. dir. trib., II, 228 ss., G. Fransoni, Il coraggio della Consulta, il valore indiziario dei prelevamenti bancari e il principio di Al Capone (postilla a Emanuele Artuso), Riv. dir. trib., II, 260 ss.


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l’indicazione del beneficiario dei prelevamenti o delle riscossioni (19)- (20). Premesso ciò, vale la pena notare come la seconda parte dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 si caratterizzi per un contenuto assai peculiare, in quanto connotato da una duplice presunzione in base alla quale ai prelevamenti bancari non giustificati dal contribuente corrisponderebbero componenti negativi del reddito di impresa, i quali, a loro volta, sarebbero produttivi di componenti positivi rientranti nella predetta categoria reddituale. La Corte costituzionale non ha, tuttavia, considerato fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione alla norma in parola ritenendo la medesima non lesiva, oltre che del principio di uguaglianza, del principio di capacità contributiva. La Consulta ha, in sostanza, statuito che l’ammontare dei prelevamenti bancari non giustificati può essere considerato, una volta detratti i relativi costi, reddito imponibile (21). L’autorevole interpretazione fornita dalla Corte costituzionale, secondo la quale non può essere soggetto ad imposizione, pena la violazione del prin-

(19) In questi termini S. Sammartino, La rilevanza fiscale delle operazioni bancarie di prelevamento, cit., 454, V. Ficari, La rilevanza delle movimentazioni bancarie e finanziarie ai fini dell’accertamento delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto, Rass. trib., 2009, 1282. (20) Con specifico riferimento alla prova contraria da ultimo indicata nel testo è stato osservato che – come del resto sembra affermare la Corte Costituzionale nella sentenza 8 giugno 2005, n. 225 – la mera indicazione della persona del beneficiario dei prelevamenti o delle riscossioni sarebbe di per sé sufficiente a vincere la presunzione attivata dall’amministrazione finanziaria (in questo senso si veda Cedro, Le indagini fiscali sulle operazioni finanziarie e assicurative, cit., 131, e, in giurisprudenza, Comm. trib. prov. Bologna 4 giugno 2007, n. 158). Altra dottrina ha, invece, sostenuto che “non tutti i prelevamenti di cui si indichino i beneficiari (ma non la relativa causale) possono escludere l’operatività della presunzione. In particolare, se il beneficiario fosse un fornitore dell’impresa, il primo passaggio del collegamento inferenziale sarebbe confermato, anziché smentito” (così G. Fransoni, La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’interpretazione della Corte costituzionale, Riv. dir. trib., 2005, 976). (21) Cfr. Cost. n. 225/2005. Per un commento alla sentenza della Consulta si veda, tra gli altri, G. Fransoni, La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’interpretazione della Corte costituzionale, cit., 967 ss. Altra dottrina sottolinea con chiarezza il pensiero della Corte costituzionale volto ad ammettere la legittimità della presunzione legale relativa contenuta nella seconda parte dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 subordinandola però alla “tassazione del solo differenziale presuntivamente accertabile tra importo del prelevamento (che di per sé non può che rappresentare una spesa) e conseguente ricavo ipotizzabile, a fronte della spesa effettuata al di fuori del contesto contabile” (cfr. M. Basilavecchia, La determinazione concordata della ricchezza, Atti del convegno “Crisi dei metodi di accertamento tributario e prospettive di riforma”, Milano, 25-26 settembre 2014, 4, nota 8).


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cipio di capacità contributiva, un reddito lordo, merita, nondimeno, di essere calata nel contesto applicativo, al fine di comprendere quale sia il quantum di materia imponibile presuntivamente accertabile e, in particolare, quale sia il criterio di deducibilità dei costi dall’ammontare dei prelevamenti bancari non giustificati, i quali sono considerati dal legislatore, al termine del tortuoso percorso inferenziale innanzi descritto, alla stregua di componenti positivi di reddito. Ciò si rende necessario in quanto una lettura rigida dell’interpretazione operata dalla Consulta condurrebbe ad una sostanziale inapplicabilità della norma in questione a motivo del fatto che l’entità dei maggiori ricavi accertati risulterebbe compensata dai maggiori costi (22). A questo proposito va osservato come, non costituendo l’art. 32, comma 1, n. 2), del DPR n. 600/1973 una norma sostanziale volta alla determinazione della base imponibile del reddito di impresa, i criteri di deducibilità dei costi in questione non possano essere ricercati nell’ambito della norma stessa, bensì avendo riguardo alle regole sulla quantificazione del reddito di impresa previste dal Tuir (23). In questo modo non necessariamente il costo sarebbe interamente deducibile dal ricavo, ma l’eventuale deducibilità, totale o parziale, del costo sarebbe funzione della natura dell’operazione di gestione, evidentemente non annotata nei libri contabili, che lo ha generato (24). Ritornando ora alla natura della norma di cui all’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, prima parte, del DPR n. 600/1973, si è avuto modo di notare come il pensiero dottrinale tenda a polarizzarsi tra coloro i quali attribuiscono a tale norma la natura di presunzione legale relativa e coloro che assegnano alla norma medesima la natura di presunzione semplice.

(22) In questi termini G. Fransoni, La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’nterpretazione della Corte costituzionale, cit., 979, e A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit,. 133. (23) Così G. Fransoni, La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’nterpretazione della Corte costituzionale, cit., 970. (24) Con riferimento all’onere probatorio dei costi cui si è fatto cenno nel testo, mentre la giurisprudenza di legittimità ritiene che essi debbano essere analiticamente dimostrati dal contribuente (cfr. Cass. 15 ottobre 2008, n. 25207, Cass. 24 novembre 2010, n., 23873, Cass. 2 luglio 2014, n. 15050 e Cass. 24 luglio 2014, n. 16896), alcuna giurisprudenza di merito e parte della dottrina ritengono che siffatta dimostrazione possa avvenire anche ricorrendo a mezzi presuntivi (cfr. Comm. trib. reg. Roma 29 novembre 2012, n. 311, G. Fransoni, La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’interpretazione della Corte costituzionale, cit., 978, A. Lovisolo, Il diritto tributario nella giurisprudenza delle commissioni tributarie: breve disamina di taluni argomenti problematici, cit., 263, A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 134).


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In posizione mediana rispetto alle tesi predette si pone, invece, quella dottrina secondo cui quella in parola, pur racchiudendo una presunzione non legale, costituisce, tuttavia, una norma sulle prove con valenza sostanziale (25). Vale la pena di notare, in termini generali, come le norme sulle prove si collochino sul crinale tra norme sostanziali e norme procedurali e dispongano peculiari modalità di documentazione di fatti potenzialmente idonei a rivestire effetti sostanziali sulla determinazione della base imponibile (26). Più in particolare, l’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 assume valenza sostanziale giacché, in assenza di prova contraria del contribuente, l’amministrazione finanziaria sarebbe legittimata ad attribuire valenza reddituale alle movimentazioni bancarie non giustificate (27). Premesso ciò, è stato ritenuto che la valenza sostanziale della norma da ultimo nominata, se da un lato legittima l’amministrazione finanziaria a fondare l’accertamento solo sulla scorta dei dati risultanti dai rapporti bancari e finanziari del contribuente, senza quindi l’obbligo di integrare tali dati con ulteriori elementi esterni, dall’altro lato non legittima l’organo accertatore a tradurre in maniera automatica le movimentazioni bancarie e finanziarie in reddito imponibile. Questo troverebbe conferma nel testo dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973, nel quale la (non casuale) genericità della locuzione “sono posti a base” rivelerebbe la volontà del legislatore di evitare la trasformazione degli elementi indiziari ottenuti dalle risultanze bancarie e finanziarie in prove certe di evasione (28). Pertanto, secondo quest’ultima impostazione, le risultanze bancarie e finanziarie assurgerebbero al ruolo di prova presuntiva solo dopo che l’amministrazione finanziaria abbia, con riferimento al singolo caso concreto, vagliato

(25) In questo senso V. Ficari, La rilevanza delle movimentazioni bancarie e finanziarie ai fini dell’accertamento delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto, Rass. trib., 2009, 12721273. Sembra includere l’art. 32, comma 1, n. 2), del DPR n. 600/1973 nel novero delle norme sulle prove anche L. Tosi, Segreto bancario: irretroattività e portata dell’art. 18 della L. n. 413 del 1991, Rass. trib. 1995, 1388. (26) Attribuiscono valenza sostanziale o para-sostanziale alle norme sulle prove anche Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, V ed., Padova, 2005, 84 e G. Fransoni, Tipologia e struttura della norma tributaria, AA.VV., Diritto tributario, a cura di Fantozzi, IV ed., Torino, 2012, 250. (27) Cfr. V. Ficari, La rilevanza delle movimentazioni bancarie e finanziarie ai fini dell’accertamento delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto, cit., 1276-1277. (28) Cfr. V. Verduci, Le presunzioni in base ai dati bancari nel sistema delle prove, nota a Cass. 28 luglio 2000, n. 9946, Cass. 6 ottobre 1999, n. 11094 e Cass. 3 agosto 2000, n. 10060, Riv. dir. trib. 2000, II, 641.


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in modo critico dette risultanze, attraverso una valutazione la quale, pur senza muovere da ulteriori elementi probatori, tenga in debita considerazione, ad esempio, il tipo di attività svolta dal contribuente, la sua dimensione, nonché le condizioni generali del settore economico in cui il contribuente opera (29). 4. Una possibile interpretazione alternativa dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 – Alcune delle notazioni di cui al paragrafo precedente inducono a ritenere che, in linea di principio, l’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 possa essere oggetto di un’interpretazione diversa rispetto a quella ritenuta corretta dalla prevalente giurisprudenza e dottrina. Una siffatta interpretazione si fonda su argomenti di carattere letterale, teleologico e sistematico idonei a condurre ad una lettura delle disposizioni contenute nell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del DPR n. 600/1973 in chiave costituzionalmente orientata, più attenta, in specie, alla funzione garantistica svolta dall’art. 53, comma 1, Cost. (30) Dal punto di vista letterale sembrerebbe lecito, innanzitutto, ritenere che l’enunciato, ricavabile dall’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, prima parte, del DPR n. 600/1973, secondo cui i dati e gli elementi risultanti dai rapporti bancari e finanziari “sono posti a base” degli accertamenti e rettifiche di cui agli artt. 38 ss. del DPR n. 600/1973, non sia di per sé idoneo a configurare la norma di cui si discorre alla stregua di una presunzione legale relativa. Invero, a parte l’estrema genericità dell’enunciato stesso, non è dato desumere quali siano gli elementi tipici – ossia: fatto noto e fatto ignoto – atti a connotare una presunzione legale (31).

(29) In questi termini, V. Verduci, Le presunzioni in base ai dati bancari nel sistema delle prove, cit., 644. In termini sostanzialmente analoghi L. Tosi, Segreto bancario: irretroattività e portata dell’art. 18 della L. n. 413 del 1991, cit., 1396, F. Marrone, La disciplina degli accertamenti bancari ai fini fiscali, Rass. trib., 1996, 623 e, in giurisprudenza, Comm. trib. prov. Pavia, sez. V, 17 dicembre 1998, n. 270. (30) Sulla duplice funzione – solidaristica e garantistica – svolta dall’art. 53 Cost. si veda, per tutti, F. Moschetti, Il principio della capacità contributiva, Padova, 1973, 59 ss. Con riguardo poi alla valenza del principio di capacità contributiva, non solo nel momento di istituzione del tributo, ma anche nella fase attuativa del medesimo, si veda A. Fantozzi, Il Diritto tributario, Torino, 2003, 249. (31) In questo senso anche S. Sammartino, La rilevanza fiscale delle operazioni bancarie di prelevamento, cit., 452 e A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 128.


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Inoltre, come già si è avuto modo di notare, la clausola di salvezza della prova contraria del contribuente richiamerebbe, più che una presunzione legale, la necessità di un contraddittorio tra amministrazione finanziaria e contribuente atto a consentire a quest’ultimo di fornire chiarimenti circa la natura delle movimentazioni bancarie oggetto di controllo fiscale (32). Un secondo argomento, basato su di un’interpretazione in senso evolutivo della ratio sottesa alle norme in materia di accertamenti bancari succedutesi nel tempo, porterebbe a sostenere che la tesi atta ad annoverare quella prevista dalle norme in parola tra le presunzioni legali relative fosse tutt’al più giustificabile in vigenza della disciplina anteriore l’introduzione dell’art. 18 della L. n. 413/1991. Invero, mentre in vigenza di quest’ultima disciplina era ancora presente il c.d. “segreto bancario” e l’attivazione di siffatta presunzione traeva giustificazione nell’applicazione della medesima nei confronti dei soli contribuenti per i quali l’amministrazione finanziaria aveva già puntualmente provato la sussistenza di probabili comportamenti evasivi (33), nella disciplina introdotta dall’art. 18 della L. n. 413/1991, simile a quella oggi in vigore, ove il “segreto bancario” è definitivamente caduto (34) e l’amministrazione finanziaria è legittimata a controllare le risultanze bancarie ascrivibili al contribuente indipendentemente dalla sussistenza o meno di gravi indizi di evasione, risulterebbe priva di giustificazione l’automatica trasformazione in materia imponibile delle movimentazioni bancarie effettuate dal contribuente (35). Un terzo ed ultimo argomento di carattere sistematico – traente origine dal fatto che la procedura di cui all’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 deve comunque essere inscritta, come risulta dal testo della norma, nella più ampia metodologia accertativa di stampo analitico-induttivo

(32) Cfr. A. Marcheselli, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 128. (33) Per questa ragione la dottrina incluse quella in questione tra le norme sanzionatorie. Sul punto si veda, per tutti, A. Fantozzi, I rapporti tra fisco e contribuente nella nuova prospettiva dell’accertamento tributario, cit., 232. (34) Vale al riguardo la pena di riportare il passo della Relazione al DDL n. 3005/1991, citato da R. Schiavolin, Segreto bancario, Riv. dir. trib., 1993, I, 1133, secondo cui lo scopo dell’art. 18 della L. n. 413/1991 era quello di “superare l’attuale cultura del segreto per passare ad una cultura della “trasparenza” improntata alla chiarezza del rapporto Fisco-contribuente”. (35) In tal senso R. Cordeiro Guerra, Questioni aperte in tema di accertamenti basati su dati estrapolati da conti correnti bancari, cit., 562 e F. Marrone, La disciplina degli accertamenti bancari ai fini fiscali, cit., 622.


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risultante dall’art. 39, comma 1, lettera d), ultimo periodo, del decreto da ultimo nominato (36)- (37) – indurrebbe a ritenere gli elementi risultanti dai rapporti bancari e finanziari, dei quali il contribuente non è stato in grado, in fase istruttoria, di fornire giustificazione, idonei, tutt’al più, a legittimare l’attivazione, ad opera dell’amministrazione finanziaria, di una presunzione semplice di reddito sottratto a tassazione. A questo riguardo è però necessario comprendere se una siffatta presunzione semplice integrerebbe o meno, di per sé, i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 39, comma 1, lett. d), del DPR n. 600/1973 (38)- (39). Pare possibile affermare che i siffatti requisiti non possano essere ritenuti sussistere a priori, ma la loro sussistenza debba, innanzitutto, essere motivata dall’amministrazione finanziaria all’interno dell’avviso di accertamento e, conseguentemente, vagliata, caso per caso, da parte del giudice, fermo restando che nell’eventualità in cui quest’ultimo ritenesse la presunzione attivata dall’organo accertatore dotata dei predetti requisiti permarrebbe comunque aperta la possibilità per il contribuente di fornire eventuali prove contrarie atte a sovvertire tale presunzione.

(36) La norma in parola prevede, come noto, che “L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”. (37) In tal senso F. Amatucci, Le indagini bancarie nella determinazione del maggior reddito tassabile, Riv. dir. trib., 2010, I, 1025, il quale ha affermato che “(…) la verifica sui dati bancari non è una diversa e più invasiva tipologia di accertamento, ma è una procedura che può essere utilizzata per determinare – insieme ad altri elementi – l’ammontare del reddito evaso all’interno di schemi generali e regole presuntive predeterminati da altre norme e senza superarli”. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone E. Artuso, L’abnorme polifunzionalità delle presunzioni di ricavo a fronte di movimenti bancari nella più recente giurisprudenza della Suprema Corte, nota a Cass. 18 dicembre 2006, n. 27063, Riv. dir. trib., II, 2007, 349. (38) È necessario rammentare, in breve, che il requisito di “gravità” è da ritenersi soddisfatto qualora il fatto noto consenta di indurre, con un alto grado di probabilità (il c.d. “id quod plerumque accidit”) o con un ragionevole grado di sicurezza, il fatto ignoto. Per ciò che concerne il requisito di “precisione”, esso è soddisfatto nel caso in cui le induzioni risultanti dal fatto noto stabiliscano direttamente e particolarmente il fatto da provarsi senza dare luogo a contraddizioni logiche. Quanto, infine, al requisito di “concordanza”, si nota che, ove sussistano più “fatti noti”, detto requisito è soddisfatto quando essi convergano tutti verso la stessa conclusione e non si neutralizzino reciprocamente. (39) La Suprema Corte ha considerato un versamento effettuato da un contribuente sul proprio conto corrente bancario, per il quale non è stata fornita alcuna giustificazione, quale presunzione grave, precisa e concordante di maggior reddito (cfr. Cass. 4 febbraio 2000, n. 1209).


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Sempre sul piano sistematico si vuole, inoltre, notare come quella qui postulata potrebbe essere considerata quale interpretazione adeguatrice (40) al principio di effettività della tutela racchiuso nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. A tale proposito, merita, in primo luogo, osservare come la ratio della norma in materia di presunzioni legali contenuta nell’art. 2728 del codice civile – il cui effetto giuridico principale consiste nell’inversione dell’onere della prova a carico della controparte del soggetto processuale che invoca un proprio diritto in giudizio – sia essenzialmente riconducibile all’intento di agevolare l’esercizio di un diritto a beneficio della parte processuale per la quale la prova specifica di un fatto risulti gravosa o impossibile (41). Detto questo, pare lecito avanzare il dubbio circa la conformità della tesi giurisprudenziale e dottrinale prevalente – in base alla quale le norme contenute nell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 sarebbero espressione di presunzioni legali relative – al summenzionato principio europeo di effettività della tutela e ciò a motivo dell’ampiezza dei poteri di indagine spettanti all’amministrazione finanziaria, la quale farebbe ritenere poco credibile, nel contesto attuale, la permanenza di lacune conoscitive, in punto di reperimento del materiale indiziario e/o probatorio, tali da giustificare l’inversione ex-lege dell’onere della prova a carico del contribuente (42). Tuttavia, al fine di determinare la fondatezza del dubbio poc’anzi avanzato, parrebbe corretto domandarsi se l’amministrazione finanziaria sia, in concreto, nella possibilità di reperire – facendo ricorso, nell’ambito dell’istruttoria endoprocedimentale, ai poteri di indagine di cui essa dispone – il materiale probatorio, o comunque indiziario, volto a stabilire se le movimentazioni bancarie non giustificate dal contribuente costituiscano o meno presunzioni qualificate di materia imponibile sottratta a tassazione. Sembra possibile sostenere che il quesito testé formulato meriti, in non pochi casi, risposta positiva.

(40) In dottrina l’argomento interpretativo denominato “interpretazione adeguatrice” è stato autorevolmente considerato alla stregua di una sottospecie dell’argomento sistematico (cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, III ed., Milano, 1999, 185). (41) In questo senso si veda, per tutti, M. Taruffo, (voce) Onere ella prova, Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XIII, Torino, 1997, 76. (42) Su questo tema si veda, più in generale, S. Muleo, Il principio europeo dell’effettività della tutela e gli anacronismi delle presunzioni legali tributarie alla luce dei potenziamenti istruttori dell’amministrazione finanziaria, Riv. trim. dir. trib., 2012, 685 ss.


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In proposito valgano i seguenti esempi. In caso di versamenti effettuati sul conto corrente riconducibili a bonifici, assegni bancari e assegni circolari non giustificati da parte del contribuente, l’amministrazione finanziaria potrebbe verificare, nell’eventualità in cui il contribuente stesso operi principalmente con clienti titolari di partita Iva, se i soggetti da cui provengono le somme versate (43) svolgano un’attività economica il cui oggetto renda plausibile l’acquisto di beni e/o servizi prodotti dal contribuente, avvalendosi, eventualmente, a tale scopo, anche del potere di indagine previsto dall’art. 32, comma 1, n. 8 bis) del DPR n. 600/1973. Ove da tale verifica scaturisse esito positivo, si è del parere che il versamento bancario non giustificato dal contribuente potrebbe legittimare, di per sé, l’amministrazione finanziaria ad attivare una presunzione qualificata di reddito sottratto a tassazione, confutabile, mediante prova contraria, solo nell’ambito del successivo procedimento di accertamento con adesione, oppure nell’ambito della successiva fase contenziosa (44). L’amministrazione finanziaria potrebbe, inoltre, verificare, ricorrendo agli ampi poteri conoscitivi di cui essa dispone, se la somma dei versamenti e dei prelevamenti bancari dei quali non è stata fornita giustificazione conduca alla quantificazione di maggiori ricavi accertabili, in linea, oppure sproporzionati in eccesso, rispetto alla specifica attività imprenditoriale svolta dal contribuente. La sussistenza o meno di tale sproporzione dovrebbe essere attentamente valutata tenendo conto, tra l’altro, del giro di affari annuo mediamente conseguito dal contribuente, dal luogo in cui l’attività imprenditoriale è prevalentemente esercitata, dalla media del fatturato annuo dichiarato dai principali concorrenti del contribuente possibilmente operanti nella medesima zona geografica. In conclusione, è da ritenere che gli argomenti interpretativi poc’anzi illustrati meriterebbero di essere presi concretamente in considerazione da parte della giurisprudenza di merito e di legittimità.

(43) L’amministrazione finanziaria può venire a conoscenza del nominativo di tali soggetti, in ipotesi di versamenti mediante bonifici e assegni bancari, utilizzando la copia di questi ultimi documenti prodotta dal contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale e, in ipotesi di assegni circolari, utilizzando la copia prodotta dal contribuente durante il contraddittorio e consultando la banca traente previo ricorso ai poteri di cui ai nn. 7) e 8 bis) dell’art. 32, comma 1, del DPR n. 600/1973. (44) A conclusioni analoghe si giunge, in via speculare, con riferimento ai prelevamenti bancari effettuati dal contribuente tramite bonifico, assegno bancario e assegno circolare.


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Al riguardo vale la pena di rammentare come già in passato i giudici di legittimità abbiano mutato il loro indirizzo in relazione alla natura di presunzioni – presunzioni legali vs presunzioni semplici – racchiuse in norme procedurali in tema di accertamento. Si pensi, in proposito, alle norme in materia di studi di settore e di redditometro, le quali sono caratterizzate, salvo alcuni aspetti peculiari che le contraddistinguono, da scelte legislative simili a quelle adottate in relazione agli accertamenti basati su indagini bancarie e finanziarie, ossia: la ricostruzione presuntiva del reddito, la distribuzione dell’onere della prova e il contraddittorio tra contribuente ed amministrazione finanziaria (45). Pertanto, assumendo di poter mutuare, anche per gli accertamenti de quibus, le regole procedurali indicate dalla giurisprudenza di legittimità in ordine agli accertamenti basati sull’applicazione degli studi di settore, quelle contenute nell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 dovrebbero essere considerate alla stregua di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza, non determinabile ex lege, dovrebbe essere valutata, di volta in volta, dall’amministrazione finanziaria nel corso di apposito contraddittorio endoprocedimentale instaurato con il contribuente. L’amministrazione finanziaria sarebbe poi tenuta a motivare, all’interno dell’avviso dell’accertamento, le ragioni della gravità, precisione e concordanza della presunzione attivata così come il rigetto di eventuali tesi difensive addotte dal contribuente durante il contraddittorio. Ciò posto, occorre, tuttavia, osservare come i suddetti argomenti interpretativi non paiano destinati, almeno nel breve termine, ad aprire una si-

(45) Con specifico riguardo agli studi di settore è stato statuito che “La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione (…) degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano state disattese. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente” (cfr. Cass. SS.UU. 18 dicembre 2009, n. 26635)


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gnificativa breccia nel monolitico orientamento, di segno contrario, espresso della Suprema Corte e ciò principalmente, come sostenuto dalla dottrina, a causa del “clima giustizialista di cui oggi viene inevitabilmente a risentire ogni questione fiscale dietro la quale si celino problematiche di interesse generale connesse alla lotta all’evasione” (46). Il “clima giustizialista” cui ha fatto cenno la dottrina poc’anzi citata parrebbe, in ogni caso, ispirato alla nozione di “interesse fiscale” dello Stato comunità alla regolare e sollecita riscossione dei tributi da intendersi quale valore “rispetto al quale devono coordinarsi tutti i principi fondamentali per il diritto tributario compreso quello di capacità contributiva” (47). Ciò nonostante, è lecito ritenere che, anche nell’ambito dell’attuale contesto interpretativo, nel quale prevale una visione piuttosto lata dell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del DPR n. 600/1973, trovi comunque spazio la possibilità del contribuente di produrre, in sede amministrativa e/o giudiziale, alcune argomentazioni finalizzate a circoscrivere la portata applicativa della norma di cui si discorre (48). Di siffatte argomentazioni si darà conto nei paragrafi successivi. 5. Argomentazioni finalizzate a delimitare la portata applicativa dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973. 5.1. L’accertamento basato su movimentazioni bancarie risultanti da conti correnti intestati a soggetti terzi rispetto al contribuente – Una prima argomentazione atta a delimitare la portata applicativa dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 potrebbe essere quella secondo cui, in caso di accertamenti aventi ad oggetto rapporti bancari intestati a soggetti diversi rispetto al contribuente, l’amministrazione finanziaria avrebbe

(46) Così R. Cordeiro Guerra, Questioni aperte in tema di accertamenti basati su dati estrapolati da conti correnti bancari, cit., 561. (47) La definizione di “interesse fiscale” riportata nel testo è attribuibile a A. Fantozzi, Il Diritto tributario, cit., 48. Per approfondimenti in merito alla nozione di “interesse fiscale” si rinvia a contributi, il cui contenuto pare ancora attuale, di P. Boria, L’nteresse fiscale, Torino, 2002 e E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente. Garanzie costituzionali, Milano, 2006. (48) In questo senso anche R. Cordeiro Guerra, Questioni aperte in tema di accertamenti basati su dati estrapolati da conti correnti bancari, cit., 563.


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il preventivo onere di dimostrare l’afferenza delle movimentazioni risultanti dai predetti rapporti all’attività di impresa esercitata dal contribuente stesso e, solo una volta assolto tale onere probatorio, far ricadere sul contribuente la prova contraria di cui alla norma in oggetto (49) (50) (51). La tesi in parola è essenzialmente basata sulla considerazione secondo cui lettera e ratio dell’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 non ne autorizzino l’automatica applicazione a movimentazioni risultanti da conti correnti bancari intestati esclusivamente a persone diverse dal contribuente e a quest’ultimo legate da vincoli familiari o commercia-

(49) In questo senso si veda, senza pretesa di completezza: Comm. trib. Vicenza, sez. VII, 5 novembre 1997, Comm. trib. reg. Roma 2 ottobre 2008, n. 377 (conti correnti intestati a persona fisica terza rispetto alla società di capitali accertata), Cass. 24 agosto 2007, n. 18013 (conti correnti intestati ai soci della società di capitali accertata), Comm. trib. reg. Firenze 27 gennaio 1998, n. 2, Cass. 2 marzo 1999, n. 1728, Comm. trib. reg. Lombardia 10 gennaio 2013, n. 1 (conti correnti intestati ai soci della società di persone accertata), Comm. trib. prov. Roma 16 luglio 2004, n. 288 (conto corrente intestato al rappresentante legale della società di capitali accertata), Cass. 14.11.2008, n. 27186 e Cass. 23.7.2010, n. 17367 (conto corrente intestato a familiare del legale rappresentante della società di capitali accertata). In dottrina si veda A. Lovisolo, Il diritto tributario nella giurisprudenza delle commissioni tributarie: breve disamina di taluni argomenti problematici, cit., 257-260, Lupi, Manuale professionale di diritto tributario. Principi generali e approfondimenti specialistici, II ed., Milano, 1999, 308. (50) La tesi giurisprudenziale in oggetto non è, a dire il vero, affatto pacifica, in quanto sussiste altra giurisprudenza secondo la quale, al fine di integrare la presunzione legale relativa di maggior reddito, l’amministrazione finanziaria non è tenuta preventivamente a dimostrare né la fittizietà dell’intestazione dei conti correnti bancari a soggetti terzi (cfr. Cass. 12 luglio 2012, n. 12624), né la riferibilità all’attività di impresa esercitata dal contribuente delle movimentazioni risultanti dai rapporti bancari e finanziari intestati a soggetti terzi. In proposito, in ordine ad un accertamento emesso nei confronti di una società di capitali a base familiare, si veda Comm. trib. reg. Genova 22 luglio 2011, n. 85. Nello stesso senso si veda, ex multis, la giurisprudenza citata nel precedente paragrafo 2 in nota 8. (51) La giurisprudenza di merito ha sancito che, in caso accertamenti basati su movimentazioni bancarie risultanti da conti correnti intestati ai soci del contribuente, l’onere, in capo a quest’ultimo, di dimostrare l’irrilevanza reddituale di dette movimentazioni ricade solo nell’ipotesi in cui il giro d’affari dallo stesso dichiarato sia pari o superiore all’importo complessivo delle movimentazioni bancarie (cfr. Comm. trib. prov. Alessandria, Sez. I, 9 maggio 2012, n. 61).


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li (52)- (53). Al contrario, la norma da ultimo richiamata si dovrebbe applicare ove l’amministrazione finanziaria fosse in grado di provare la sostanziale imputabilità al contribuente delle posizioni creditorie e debitorie annotate sui conti correnti stessi (54). È stato, più in dettaglio, sostenuto che, mentre i conti correnti bancari intestati al contribuente soggetto ad accertamento sono direttamente utilizzabili dall’amministrazione finanziaria, i conti correnti bancari intestati a terzi possono essere utilizzati dall’organo accertatore solo nel caso in cui quest’ultimo abbia preventivamente dimostrato, attraverso il riscontro con altra documentazione riferibile al contribuente accertato, il collegamento delle movimentazioni bancarie ad operazioni imponibili effettuate dal soggetto da ultimo

(52) Vale la pena di notare come nessuna disposizione, all’interno dell’art. 32, comma 1, n. 2, secondo periodo, del DPR n. 600/1973, preveda espressamente che le indagini bancarie e finanziarie riguardanti un dato contribuente possano avere ad oggetto anche rapporti intestati a soggetti diversi rispetto al contribuente medesimo. In proposito, si reputa opportuno riportare il pensiero di quella dottrina secondo cui “nulla impedisce al legislatore ordinario di prevedere la piena penetrabilità dei rapporti fra banche e clienti da parte della amministrazione finanziaria (per quanto ci riguarda) nell’ambito dei poteri di indagine esperibili in sede di accertamento tributario; ciò, peraltro, non elide la necessità di esplicite previsioni ad hoc, non perché sussista il diaframma del diritto inviolabile al segreto bancario, bensì perché lo impone il principio di legalità (in forza del quale ogni potere, anche se soltanto di tipo istruttorio deve essere conferito dalla legge)” (cfr. P. Russo, Questioni vecchie e nuove in tema di operatività del segreto bancario in materia tributaria, Riv. dir. trib., 1991, 82). (53) In dottrina è stato osservato che in relazione ai dati bancari reperiti sui conti di soggetti terzi rispetto al contribuente “non operino in modo automatico le discutibili presunzioni di redditività descritte (…) a proposito dei conti intrattenuti dal contribuente. Questo non vuol dire che versamenti e prelevamenti avvenuti su tali conti non abbiano efficacia probatoria, ma solo che dovranno essere valutati secondo la loro intrinseca attitudine al convincimento; occorrerà valutare caso per caso in quale misura queste argomentazioni siano idonee ad assolvere l’onere della prova che grava sul fisco secondo le regole ordinarie” (cfr. R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario. Principi generali e approfondimenti specialistici, cit., 308-309). (54) Si veda, con specifico riferimento all’art. 51, comma 2, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 633/1972 (norma omologa, come visto sopra, all’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973), la Cass. 28 giugno 2011, n. 8826. In senso conforme, Cass. 26 marzo 2003, n. 4423, Comm. trib. prov. Roma n. 288/2004, Cass. n. 18013/2007 e Comm. trib. prov. Roma 2 ottobre 2008, n. 377. Con riferimento al punto in questione è stato osservato che un indizio concreto, utilizzabile dall’amministrazione finanziaria per dimostrare la riferibilità al contribuente di operazioni (versamenti e/o prelevamenti) risultanti da conti correnti bancari intestati a terzi, potrebbe essere rappresentato anche da una dichiarazione dell’autore del versamento o del beneficiario del prelevamento di aver effettivamente effettuato quella transazione con il soggetto destinatario dell’accertamento tributario (cfr. Comm. trib. prov. Roma n. 377/2008).


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nominato. Un diverso comportamento dell’amministrazione finanziaria incorrerebbe nel divieto di presunzione da presunzione (55). La tesi di cui si discorre non sembra possa essere inficiata dalla circostanza per cui il soggetto raggiunto dall’avviso di accertamento sia una società di persone, oppure una società di capitali a base familiare o comunque a ristretta base partecipativa. Con riguardo al primo dei soggetti da ultimo nominati merita, innanzitutto, porre in rilievo il fatto che, come sostenuto da costante giurisprudenza e dottrina civilistiche, esso rappresenta un’entità giuridica in ogni caso distinta dalla persona dei singoli soci e come tale espressione di un distinto centro di interessi e di imputazione di rapporti giuridici (56). Inoltre, l’abrogato art. 35, comma 2, del DPR n. 600/1973 autorizzava l’utilizzo ai fini accertativi delle movimentazioni bancarie registrate sui conti dei soci delle società di fatto e sui conti degli amministratori delle s.n.c. e s.a.s. solo tassativamente e cioè solo in caso di emissione o utilizzo di fatture, da parte della società, per operazioni inesistenti. La mancata riproposizione di una siffatta disposizione nelle citate norme, attualmente vigenti, in tema di indagini bancarie e finanziarie – rectius: l’art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 e l’art. 51, comma 2, n. 2), secondo periodo, del DPR n. 633/1972 – sarebbe rivelatrice dell’intento del legislatore volto ad escludere in radice l’estensione delle suddette indagini ai conti correnti dei soci delle società di persone (57). In relazione al secondo dei soggetti sunnominati è stato notato, in generale, che i conti correnti bancari relativi a soggetti terzi (familiari del legale rappresentante) possano essere legittimamente utilizzati dall’amministrazione finanziaria purché sussistano presunzioni gravi, precise e concordanti tali da

(55) Così Comm. trib. reg. Firenze n. 2/1998. (56) Al riguardo si veda R. Cordeiro Guerra, Questioni aperte in tema di accertamenti basati su dati estrapolati da conti correnti bancari, cit., 567, nonché la giurisprudenza civilistica ivi citata. Con riguardo al versante tributario si rinvia, invece, al lavoro di P. Boria, Il principio di trasparenza nella imposizione delle società di persone, Milano, 1996. (57) In proposito si veda, con specifico riferimento all’abrogato art. 51 bis, comma 2, del DPR n. 633/1972 (norma omologa all’abrogato art. 35, comma 2, del DPR n. 600/1973), M. Cucuzza - A. Capolupo, Accertamento tributario e segreto bancario, allegato a Il Fisco 1° febbraio 1999, citati da F. Montanari, Riflessioni sui limiti di utilizzo delle movimentazioni bancarie dei soci per rettificare il reddito di una società di persone: un contrasto giurisprudenziale, nota a Cass. 24 febbraio 2001, n. 2738 e 2739, Riv. dir. trib., 2001, 428.


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ricondurre le operazioni annotate su detti conti all’attività di impresa esercitata dalla società accertata (58). La giurisprudenza di merito ha, più in particolare, affermato che la tesi circa la sostanziale riferibilità ad una società di capitali dei conti correnti bancari, o di alcune loro movimentazioni, intestati ai soci della società stessa, sulla base del mero fatto che la società in questione è a ristretta base partecipativa, incorre nel divieto della presunzione da presunzione e questo perché, in difetto di altro elemento probatorio (ad esempio: mancanza di disponibilità dei soci tale da giustificare i movimenti, incassi o pagamenti che si riferiscono in modo certo ad operazioni nei confronti di fornitori, clienti o collaboratori), sussiste solo il sospetto, e non la ragionevole probabilità, di riferibilità delle movimentazioni bancarie alle operazioni della società. La stessa giurisprudenza ha poi sostenuto che, poiché i movimenti bancari dei soci non sono sufficienti di per sé ad inferire operazioni imponibili della società, l’amministrazione finanziaria è tenuta ad acquisire ulteriori elementi probatori al fine di collegare le movimentazioni bancarie dei soci ad eventi gestionali della società (59). L’amministrazione finanziaria dovrebbe pertanto operare un vaglio critico, anche minimo, delle movimentazioni bancarie registrate sui conti correnti dei soggetti terzi al fine di calare le stesse nel contesto economico-imprenditoriale in cui opera il contribuente sottoposto ad accertamento. In altri termini, l’organo accertatore non potrebbe considerare automaticamente e sbrigativamente le suddette movimentazioni bancarie alla stregua di ricavi non fatturati, ma dovrebbe, invece, valutare le medesime alla luce della realtà imprenditoriale propria del contribuente. Come si è già avuto modo di osservare nel precedente paragrafo 4, l’amministrazione finanziaria, già durante la fase istruttoria endoprocedimentale, potrebbe, ad esempio, avvalendosi degli ampi poteri di indagine di cui essa dispone, verificare, nel caso in cui il contribuente operi principalmente con clienti e fornitori titolari di partita Iva, se i soggetti da cui provengono le somme versate sul conto corrente del terzo, nonché i soggetti beneficiari dei prelevamenti effettuati sul medesimo conto, svolgano o meno un’attività economica il cui oggetto renda plausibile, rispettivamente, l’acquisto di beni e/o servizi prodotti dal contribuente, oppure la vendita di beni e/o servizi utilizzabili, quali fattori produttivi, nell’ambito dell’attività del contribuente medesi-

(58) (59)

Cfr. Cass. n. 27186/2008 e Cass. n. 17367/2010. In questi termini Comm. trib. reg. Lombardia 26 aprile 2013, n. 92.


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mo. Pare ragionevole sostenere che, nel caso in cui detta verifica producesse un risultato totalmente negativo, risulterebbe meno agevole per l’amministrazione finanziaria classificare i versamenti e i prelevamenti risultanti dal conto corrente bancario del terzo, rispettivamente, quali “ricavi neri” e “costi neri” imputabili all’attività di impresa del contribuente e, conseguentemente, attivare una presunzione qualificata di maggior reddito. Ancora, l’amministrazione finanziaria – sempre nel corso del contraddittorio endoprocedimentale – potrebbe, ad esempio, verificare se la somma dei versamenti e dei prelevamenti bancari dei quali non è stata fornita giustificazione conduca alla quantificazione di maggiori ricavi accertabili sproporzionati in eccesso in relazione alla specifica attività imprenditoriale svolta dal contribuente. La sussistenza o meno di tale sproporzione dovrebbe essere attentamente valutata tenendo conto, tra l’altro, del giro di affari annuo mediamente conseguito dal contribuente, dal luogo in cui l’attività imprenditoriale è esercitata, dalla media del fatturato annuo dichiarato dai principali concorrenti del contribuente possibilmente operanti nella medesima zona geografica. 5.2. I prelevamenti bancari – Una seconda argomentazione atta a circoscrivere la portata applicativa dell’art. 32 comma 1 n. 2), secondo periodo, del DPR n. 600/1973 si fonda su una lettura, a nostro avviso, più razionale delle disposizioni, contenute nella seconda parte della norma da ultimo citata, in tema di prelevamenti bancari. Nel precedente paragrafo 3. si è già avuto modo di porre in risalto la peculiarità delle predette disposizioni connotate dalla duplice presunzione in base alla quale ai prelevamenti bancari non giustificati dal contribuente corrisponderebbero componenti negativi del reddito di impresa, i quali, a loro volta, sarebbero produttivi di componenti positivi rientranti nella predetta categoria reddituale. Premesso ciò, si può ipotizzare che i prelevamenti bancari risultanti dai conti correnti intestati al contribuente o a soggetti terzi possano essere correlati tanto a versamenti bancari operati precedentemente ai prelevamenti stessi quanto a versamenti bancari operati successivamente all’effettuazione dei prelevamenti medesimi. In altri termini, il prelevamento bancario potrebbe riguardare, alternativamente, somme relative ad un precedente versamento derivante da un ricavo non fatturato, oppure potrebbe concernere somme relative ad un costo derivante da un acquisto “in nero” di beni successivamente ceduti senza emissione di fattura e il cui corrispettivo è stato versato sul conto corrente bancario.


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È da notare che, in entrambi i casi testé rappresentati, al fine di scongiurare fenomeni di doppia imposizione giuridica contrari agli artt. 163 del Tuir e 67 del DPR n. 600/1973 e al principio di capacità contributiva racchiuso nell’art. 53 Cost. (60), sarebbe necessario evitare, in sede di accertamento, il duplice concorso alla formazione del reddito di impresa della stessa materia imponibile. Pertanto, al fine di cui sopra, dovrebbe, nel primo dei due casi summenzionati, concorrere a formare il reddito di impresa, non già l’ammontare del prelevamento bancario, bensì l’ammontare del precedente ricavo non fatturato. Nel secondo caso dovrebbero concorrere a formare il reddito di impresa sia il ricavo di cessione non fatturato sia il precedente costo di acquisto “in nero” del bene ceduto – ove, naturalmente, deducibile in base alle regole del Tuir – al quale il prelevamento bancario si riferisce. Si osserva, da ultimo, come un siffatto riconoscimento da parte dell’amministrazione finanziaria, operato già in sede di contraddittorio, consentirebbe, inoltre, a quest’ultima, il rispetto del principio di buona fede di cui all’art. 10 della L. 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto del Contribuente) attuativo del principio costituzionale di capacità contributiva. È noto, infatti, come il suddetto principio statutario permei tutta la fase attuativa del tributo e assicuri lungo tale fase la piena e costante corrispondenza tra l’imposta riscossa dall’Erario e quella dovuta dal contribuente in base alla legge (61). Il principio di buona fede obbliga, pertanto, l’amministrazione finanziaria, anche prima dell’emissione dell’avviso di accertamento, alla ricerca della corretta qualificazione e quantificazione del presupposto impositivo secondo le regole previste sul versante sostanziale (62). 5.3. La prova contraria del contribuente – Una terza ed ultima argomentazione, volta a delimitare la portata applicativa dell’art. 32 comma 1 n. 2),

(60) In questi termini V. Ficari, La rilevanza delle movimentazioni bancarie e finanziarie ai fini dell’accertamento delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto, cit., 1281. (61) Cfr. M. Trivellin, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, Milano, 2009, 66-67. (62) In questo senso si veda Cass. 7 maggio 2003, n. 6911 secondo cui “il carico fiscale deve essere ragguagliato alla “capacità contributiva”, cioè alla effettiva ricchezza a disposizione del contribuente. Non è quindi consentito - ad esempio tassare quelle ricchezze che (…) non siano possedute dal soggetto passivo della imposta. L’indicazione costituzionale è poi stata recepita e rafforzata dallo «Statuto dei diritti del contribuente», approvato con L. 27 luglio 2000, n. 212, in particolare laddove ha sancito il principio di buona fede che, ad avviso del Collegio, impone alla Amministrazione di far riferimento a dati di ricchezza reali”.


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secondo periodo, del DPR n. 600/1973, concerne il grado di ampiezza dei mezzi di prova a disposizione del contribuente al fine di giustificare le movimentazioni bancarie e finanziarie risultanti dai rapporti intestati al medesimo o a soggetti terzi. Grado di ampiezza che, a nostro avviso, deve essere determinato tenendo conto dell’obiettiva posizione di svantaggio nella quale il contribuente viene a trovarsi, nell’ambito della procedura accertativa de qua, rispetto alla posizione assunta dall’amministrazione finanziaria. Invero, mentre l’organo accertatore è dotato di un potere accertativo particolarmente incisivo, il quale consente di inferire un maggiore reddito imponibile sulla scorta delle mere movimentazioni bancarie ottenute in sede di istruttoria, il contribuente è generalmente chiamato a fornire giustificazione analitica e documentale delle somme incassate e delle spese conseguite trascorsi parecchi anni dalla data del loro materiale incasso o sostenimento. È dunque agevole avvedersi delle difficoltà pratiche incontrate in questa fase anche dai contribuenti più collaborativi e meticolosi. Paradigmatico potrebbe essere il caso di un contribuente impossibilitato a dimostrare la natura di un versamento bancario avvenuto diversi anni prima e costituito da un assegno, oramai non più reperibile, emesso a suo favore da un correntista di un altro istituto di credito. Ciò posto, allo scopo di ristabilire un parziale equilibrio tra il sunnominato potere accertativo e il sacrosanto diritto di difesa riconosciuto al contribuente, pare ragionevole consentire a quest’ultimo l’utilizzo di un ampio margine di manovra in ordine alla tipologia di mezzi probatori attivabili al fine di vincere la presunzione erariale di cui si discorre. A questo proposito è da ritenere, ad esempio, che il contribuente, contrariamente al filone giurisprudenziale secondo il quale la prova contraria può essere solo analitica e non presuntiva (63), sia legittimato a difendersi, in fase amministrativa e/o giudiziale, ricorrendo a prove contrarie fondate su presunzioni semplici qualificate (64), ossia dotate di gravità, precisione e concordanza. Tra le presunzioni cui si è fatto cenno poc’anzi ben potrebbero figurare, a titolo esemplificativo, dichiarazioni rese per iscritto da soggetti terzi (65)

(63) Cfr. Cass. 28 settembre 2005, n. 19003, Cass. 23 luglio 2007, n. 16251, Cass. 26 maggio 2008, n. 13516, Cass. 17 agosto 2009, n. 18339 e Cass. 2 aprile 2014, n. 7648. (64) Cfr. Cass. 2 luglio 2012, n. 13500. (65) Cfr. Cass. 26 marzo 2003, n. 4423, Cass. 21 aprile 2008, n. 10261 e, con specifico riferimento agli accertamenti bancari, Cass. 18 settembre 2013, n. 21305.


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dalle quali si evinca che versamenti bancari dagli stessi effettuati a favore del contribuente o prelevamenti bancari da quest’ultimo effettuati a loro beneficio non afferiscono l’attività di impresa esercitata dal contribuente medesimo. In questo senso vale la pena menzionare quella giurisprudenza di merito la quale ha considerato sufficiente, al fine di dimostrare la natura non reddituale di un versamento bancario, la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà con la quale un soggetto ha attestato di avere versato somme a favore del contribuente affetto da malattia comprovata da certificazioni mediche (66). Merita, da ultimo, osservare come il riconoscimento di un certo grado di ampiezza dei mezzi di prova a disposizione del contribuente si ponga, tra l’altro, in linea con il già richiamato principio di effettività della tutela contenuto nell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Si è del parere, infatti, che il rispetto del suddetto principio non è assicurato, e quindi la tutela non può dirsi effettiva, non solo quando l’assolvimento dell’onere della prova a carico del contribuente è totalmente precluso, ma anche quando l’assolvimento di tale onere è reso eccessivamente difficile (67). Nel caso di specie, precludere al contribuente la possibilità di spiegare la natura dei dati risultanti dai rapporti bancari e finanziari utilizzando prove presuntive qualificate, significherebbe – attesa la consueta difficoltà di giustificare, a distanza di anni, la natura di tali dati facendo ricorso a documentazione analitica – obbligare il contribuente alla produzione di prove praticamente impossibili.

Francesco Pedrotti

(66) (67)

Cfr. Comm. Trib. Prov. Milano, sez. 40, 27 marzo 2013, n. 119. Al riguardo si veda Corte di Giustizia Ue, sez. II, 7 settembre 2006, causa 526-04.


Diritto giurisprudenziale, contrasto ai comportamenti abusivi e certezza nei rapporti tributari* ** Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il ruolo creativo/autoreferenziale della giurisprudenza

e la necessaria affermazione dei principi. – 3. Il ruolo delle clausole generali. – 4. Le ragioni dell’incertezza: il mancato bilanciamento di interessi. – 5. Conclusioni. L’articolo è incentrato sulle ragioni dell’incertezza che oggi caratterizza il contrasto ai comportamenti abusivi. L’idea centrale è che la codificazione di una clausola generale antiabuso non determinerà un maggior livello di certezza in quanto quest’ultima dipende dai concreti criteri applicativi individuati dalla giurisprudenza e dall’amministrazione finanziaria. Infatti, tutte le clausole generali e gli standard – ontologicamente vaghi ed indeterminati – implicano una sostanziale “integrazione valutativa”. In tale contesto, le più rilevanti criticità derivano proprio dalla giurisprudenza della Suprema Corte la quale, da un lato, si è arrogata un ruolo assai prossimo a quello del legislatore, e, dall’altro, attribuisce al principio dell’abuso del diritto una sorta di superiorità assiologica rispetto ad altri principi di pari rango, senza spiegarne le ragioni. In altri termini, la giurisprudenza mostra una significativa mancanza di equilibrio in termini di bilanciamento di valori e di principi (soprattutto sul piano del metodo argomentativo). Alla luce di ciò, solamente un mutamento radicale della giurisprudenza può condurre a soluzioni appaganti. The article focuses on the reasons behind the legal uncertainty that connotes the fight against abusive behaviours these days. The central idea is that the provision of general anti-abuse rules will not implicate an higher degree of legal certainty because it actually depends on the concrete application criteria given by Courts and tax authorities. Indeed, all the general clauses and the standards – ontologically vague and unspecified – imply a substantial “evaluative integration”. In this context, the most significant criticalities really derive from the case law of the Italian Supreme Court which, on the one hand, has assumed

(*) Lavoro sottoposto a revisione esterna. (**) Il presente lavoro – già avviato e ampiamente elaborato anteriormente alla introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 10-bis, dello Statuto dei diritti del contribuente – costituisce, allo stato, un inquadramento generale del pricipio del divieto di abuso del diritto secondo l’elaborazione giurisprudenziale e funge da premessa per uno studio sulla natura e portata di quel medesimo principio a seguito della sua “legificazione”.


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a role similar to the legislator’s one and, on the other hand, confers a sort of axiological superiority to the principle of abuse of law compared to other equal principles, without explaining the reasons. In other words, case law shows a lack of balance between different values and principles (especially with reference to the method of argumentation). Against this background, only a critical change of the case law may lead to fulfilling solutions.

1. Introduzione. – Come è noto, “non vi è nulla di più efficace, per non capirsi, che usare gli stessi termini con significati diversi” (1). Tale considerazione si attaglia, perfettamente, alla tematica dell’abuso il quale, sul piano definitorio e formale, assume caratteristiche proprie a seconda del contesto in cui si inserisce, essendo sovente applicato e valorizzato in ambiti diversi ed eterogenei, con significati e risultati teorici altrettanto variegati (2). Nel diritto tributario è, peraltro, agevole verificare che viene utilizzata, quasi sempre in modo sovrapponibile, la terminologia “abuso del diritto”, “principio generale dell’abuso del diritto”, “clausola generale antiabuso”, “nozione generale di abuso del diritto, “clausola generale antielusiva”, dandosi, il più delle volte, per scontate tali equiparazioni. Anche in pregevoli e recenti contributi, secondo una linea di pensiero largamente condivisa dalla giurisprudenza della Suprema Corte, autorevoli studiosi identificano l’abuso con una clausola generale di matrice pretoria e l’elusione con un abuso codificato (3). Tuttavia, la sensazione è che la continua ricerca di “paradigmi definitori” sia funzionale – ed, a volte, forse falsata – da specifici singoli aspetti del fenomeno (primo fra tutti, quello dell’applicabilità o meno delle sanzioni ammini-

39.

(1)

F. Bosello, La certezza nei rapporti tributari, in Sociologia del diritto, 1990,

(2) Si pensi all’abuso della personalità giuridica nel diritto commerciale, all’abuso di posizione dominante nel diritto della concorrenza, all’abuso del processo, piuttosto che alla terminologia utilizzata in settori del tutto peculiari quali il diritto penale (a titolo meramente descrittivo ed esemplificativo, basta fare riferimento all’abuso di minori, all’ abuso d’ufficio, all’abuso di potere, ecc.). Sulle problematiche linguistiche, anche legate alla categoria dell’abuso vd. F. Galgano, Le insidie del linguaggio giuridico. Saggio sulle metafore nel diritto, Bologna, 2010, 54 ss.; A. Gentili, Il diritto come discorso in Trattato di Diritto Privato (diretto da G. Iudica e P. Zatti), 2013, 401 ss. (3) G.M. Flick, Reati fiscali, principio di legalità e ne bis in idem: variazioni italiane su un tema europeo, in Rass. Trib., 2014, 939. Contra, da ultimo, A. Giovannini, Note controcorrente sulla sanzionabilità dell’abuso del diritto, in Corr. Trib., 2015, 823.


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strative e penali) e che sia anche il sintomo, inequivocabile, di una difficoltà a “categorizzare” l’abuso, ammesso e non concesso che abbia una qualche utilità “categorizzarlo” sul piano formale (4). Nella teoria generale del diritto, al contrario, è tutt’oggi vivo, con diverse ed articolate sfumature, il dibattito sul significato da attribuire alla categoria delle clausole generali ed a quella dei principi (5) ed appare largamente condiviso che definirne, nettamente, i confini sia particolarmente complesso (6) ma anche, secondo taluni autori, privo di concreta utilità pratica (7). Pur non essendo pacifico che il contrasto all’abuso del diritto sia qualificabile come un principio generale – ed al di là delle variegate terminologie utilizzate (ed utilizzabili) – è, comunque, quanto meno difficilmente sostenibile che, in ambito tributario, non costituisca un valore (8) da salvaguardare, sia sul piano internazionale ed europeo (9), sia su quello domestico e che,

(4) Scriveva autorevole dottrina, già trent’anni orsono, che l’abuso del diritto costituisce un “universo in espansione”. F. Galgano, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa, 1985, 1. (5) Per una approfondita analisi della categoria dei “principi” ed una dettagliata ricostruzione del dibattito contemporaneo vd. G. Pino, Principi e argomentazione giuridica, in Arsinterpretandi, 2009, 131; Id., I principi tra teoria della norma e teoria dell’argomentazione giuridica, in Diritto e questioni pubbliche, 2012, 75, al quale si rinvia anche per ampi riferimenti bibliografici. (6) Sul punto vd., senza alcuna pretesa di esaustività, gli autorevoli contributi di V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e política del diritto, Milano, 2010; M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Aa.Vv., Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, a cura di Jaeger, Milano, 2011, 116; F. Denozza, Norme, principi e clausole generali nel diritto commerciale: un’analisi funzionale, in Riv. crit. Dir. priv., 2011, I, 379; S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, Milano, 2013; Id, Autonomia contrattuale e diritto privato europeo in Contratto e Impresa, 2013, 633; Id., L’interpretazione delle clausole generali, in Riv. dir. civ., 2013, 263; F. Pedrini, Le clausole generali. Profili teorici e aspetti costituzionali, Milano, 2014. (7) Si chiede F. Denozza, op. loc. cit., 2, “tanti nomi per dire la stessa cosa o tante cose diverse?” (8) Sulle diverse accezioni di “principio” e “valore” vd., da ultimo, P. Veronesi, Valori, principi e regole: tra dimensione positiva e metapositiva della Costituzione, in Arsinterpretandi, 2014, 37. Per una interessante analisi circa il rapporto tra “valori” e legalità, vd. Z. Tamanha, On the Rule of Law, Cambridge, 2004, nonché, da ultimo, Aa.Vv., Law, Liberty and the Rule of Law, a cura di Flores e Einar Himma, Springer ed., 2013. In ambito tributario vd., da ultimo, M. Ingrosso, Il ruolo del giurista nella elaborazione di una legge generale sull’attuazione dei tributi e la riserva di amministrazione, in questa rivista, 2012, I, 1013. (9) Per un’ampia ricostruzione dell’abuso in ambito europeo vd., F. Losurdo, Il divieto dell’abuso del diritto nell’ordinamento europeo. Storia e giurisprudenza, Torino, 2011; A. Adinolfi, La nozione di «abuso del diritto» dell’ordinamento dell’Unione europea, in Riv.


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specularmente, le condotte abusive non siano tutte connotate da un certo grado di disvalore (10). D’altro canto, anche nella recente riforma inglese del 2013 (11), con la quale è stata introdotta, per la prima volta, una clausola generale anti abuso, viene costantemente valorizzata la fair contribution o, da altro punto di vista, gli unfair tax advantage (12). È sufficiente, altresì, la lettura della Comunicazione del 6 dicembre 2012 della Commissione Europea, intitolata “Piano d’azione per rafforzare la lotta alla frode fiscale e all’evasione fiscale” e della coeva raccomandazione sulla “Pianificazione fiscale aggressiva” (13), nonché degli innumerevoli documenti Ocse (14) degli ultimi anni, per avvedersi che la lotta alle “costruzioni

dir. int. 2012, 329; A. Saydè, Abuse of EU Law and regulation of internal market, Oxford, 2014. Con particolare riferimento al diritto tributario, cfr. P. Piantavigna, Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Torino, 2011; F. Munari, Il divieto di abuso del diritto nell’ordinamento dell’Unione europea, in Dur. Prat. Trib., 2015, I, 519. (10) Autorevole dottrina, peraltro, definisce lo stesso art. 37-bis, D.P.R. 600/1973 come una “clausola generale di giustizia nella ripartizione del carico tributario tra i consociati”. G. Falsitta, Profili della tutela costituzionale della giustizia tributaria, in Aa.Vv., Diritto tributario e Corte Costituzionale, a cura di Berliri e Perrone, Napoli, 2006, 116. (11) Finance Act 17 luglio 2013 (12) Con particolare riferimento all’iter che ha portato a tale riforma vd. il report presentato da Graham AAronson Gaar Study, 11 novembre 2011, su commissione dello stesso governo britannico, reperibile all’indirizzo www.gov.uk/government/policies/reducingtax-evasion-and-avoidance#background. Sul tema, in particolare, J. Freedman, GAAR as a process and the process of discussing the GAAR, in British Tax Review, 2012, 22 ss. Sulla recente riforma inglese vd. anche R. Murray, Tax Avoidance, London, 2013; D. Roxburgh, General anti-abuse rule (GAAR), in European Taxation, 2014, 113. Sul punto vd. anche la recente “circolare” dell’Amministrazione finanziaria inglese in www.gov.uk/government/ uploads/system/uploads/attachment_data/file/399270/2__HMRC_GAAR_Guidance_ Parts_A-C_with_effect_from_30_January_2015_AD_V6.pdf. (13) C (2012) 8806 e C (2012/772). Su tali atti vd. M. Aujean, Fighting Tax Fraud and evasion: in search of a tax strategy?, in Ec Tax Review, 2013, 64 e M.T. Soler Roch , J.J. Bayona Gimenèz, À propos de la recommandation de la Commission européenne relative à la planification fiscale agressive, in Revue de droit fiscal, 2013, 15; A. Dourado, Aggressive Tax Planning in EU Law in the light of Beps, in Intertax, 2015, 42. (14) Si pensi all’Action plan on base erosion and profit shifting del 19 luglio 2013 ove vengono esortati i singoli governi a introdurre clausole anti abuso per evitare fenomeni di doppia “non imposizione”. Sul punto vd., in particolare, senza alcuna pretesa di completezza M. De Flora, Abuso del diritto: profili di diritto interno, comparato ed internazionale, in Dir. Prat. Trib. Int., 2013, 762 ss.; A. Cracea, OECD actions to counter tax evasion and avoidance (2013): base erosion and profit shifting and the proposed action plan, aggressive tax planning based on aftertax hedging and automatic exchange of information as the new standard, in European Taxation, 2013, 565; S. Van Weeghel, Global developments and trends in international anti-avoidance in Bulletin for international taxation, 2013, 428 nonché i contributi contenuti su Intertax, Vol. 43,


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artificiose” (rectius, abusive) costituisce una priorità sul piano della politica fiscale ed economica (15). In ambito domestico, poi, secondo la giurisprudenza, il contrasto all’abuso trova la propria fonte in valori generalmente riconosciuti quali la capacità contributiva e l’uguaglianza sostanziale (vd. infra par. II). Ma allora, date queste brevi premesse, occorre identificare le ragioni per cui un principio ormai ampiamente “sviscerato” nei propri elementi strutturali, dichiaratamente espressione di principi e valori fondamentali contenuti nella Costituzione (e nell’art. 54 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea (16)), nonché sempre più valorizzato dalla prassi internazionale, crea così tante incertezze (17). In altri termini, è quanto meno curioso che proprio uno strumento diretto a salvaguardare l’uguaglianza sostanziale, la solidarietà, la correttezza e, quindi, la “giusta contribuzione” (18), sia ritenuto fonte di tante instabilità ed insicurezze (19).

2015 tutti dedicati a tale tematica. Sui rapport tra strategia europea e dell’OECD P. Kavelaars, Eu and Oecd: fighting against tax avoidance, in Intertax, 2013, 507. (15) Per il rapporto tra abuso e il sistema convenzionale italiano vd., per tutti, P. Tarigo, Elusione del diritto interno e cosiddetto abuso del trattato in questa rivista, 2012, I, 349 nonché, da ultimo, L. Del Federico, F. Montanari, Clausole antiabuso e convenzioni per evitare le doppie imposizioni nella prospettiva italiana, in Memorias de las XXVII Journadas Latinoamericanas de Derecho Tributario, Tomo II, Lima, 2014, 313. (16) Sul tale profilo vd., F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contratto e Impresa, 2011, 311, il quale, espressamente, ritiene che il fondamento normativo del contrasto all’abuso sia da individuare proprio nell’art. 54. Per un’ampia ricostruzione di tali profili vd. M. Pandigmiglio, L’abuso del diritto nei Trattati di Nizza e Lisbona, in Contratto e Impresa, 2011, 1076. Per considerazioni relative alla materia tributaria cfr. P. Pistone, L’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Dir. prat. trib. int., 2012, p. 436. (17) È noto il riferimento all’abuso dell’abuso del diritto. Vd., in particolare, G. Zizzo, L’abuso dell’abuso del diritto, in Riv. giur. Trib., 2008, 465; G. Marongiu, Abuso del diritto o abuso del potere?, in Corr. Trib., 2009, 1076; R. De Caria, La nuova fortuna dell’abuso del diritto nella giurisprudenza di legittimità: la Cassazione sta abusando dell’abuso? Una riflessione sul piano costituzionale e della politica del diritto, in Giur. Cost., 2010, 3627. Per considerazioni critiche sulla giurisprudenza della Cassazione vd. anche l’approfondito contributo di A. Contrino, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, in Dir. e Prat. Trib., 2009, I, 463 nonché, con particolare riferimento ai profili costituzionali in tema di elusione Id., Elusione fiscale, evasione e strumenti di contrasto, Bologna, 1996, 31 ss. (18) Per un’ampia bibliografía su tali tematiche e sull’effetto che i diversi modelli culturali possono avere in ambito tributario sia concesso rinviare a Montanari, Le operazioni esenti nel sistema dell’Iva, Torino, 2013. (19) Parte della dottrina civilistica identifica nel contrasto all’abuso del diritto una


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Nel diritto tributario, peraltro, il problema, formale, della definizione di “operazione abusiva” dovrebbe creare, paradossalmente, meno incertezze rispetto ad altri settori, in quanto è annoverabile una tale casistica giurisprudenziale ed una tale mole di prassi applicativa (nazionale, europea ed internazionale), per cui appare ormai quasi “intuitivo” ed “epidermico” individuare le caratteristiche delle fattispecie abusive anche sul piano empirico. La questione è, dunque, ben più profonda e sofisticata rispetto alla mera comprensione di “che cosa” sia l’abuso del diritto tributario: il problema è, infatti, che ciò che caratterizza le diverse accezioni di comportamento abusivo, anche sul piano semantico e linguistico, è il disvalore sociale che gli viene attribuito, sia che si tratti di abuso di un “interesse proprio”, sia, a fortiori, di una situazione giuridica soggettiva altrui (evidentemente, secondo diverse gradazioni e con diverse reazioni da parte dell’ordinamento). È, peraltro, facile verificare che la Suprema Corte, sul piano argomentativo, valorizza spesso i profili soggettivi delle diverse operazioni (20) ed è frequente che venga utilizzato l’avverbio “fraudolentemente” per censurare l’uno o l’altro comportamento, laddove, come è noto, il requisito della “fraudolenza” era già stato, definitivamente, espunto dall’art. 37-bis (21). In ambito tributario, inoltre, al di là delle diverse definizioni di “operazione abusiva”, occorre porsi, esclusivamente, sul piano dell’abuso di una posizione giuridica soggettiva propria (22), in quanto tutte le altre forme di abuso

espressione del principio di solidarietà, ex art. 2, Cost. Sul punto vd., anche per ampi riferimenti bibliografici, G. Pino, Il diritto e il suo rovescio – Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Riv. crit. Di dir. priv., 2004, 25 ss. Altri autori hanno osservato che “dietro l’espressione abuso del diritto si cela lo strumento mediante il quale la giurisprudenza ha aperto una breccia nel formalismo degli ordinamenti moderni e contemporanei, tutti preoccupati di garantire quella certezza del diritto che tendenzialmente ha dominato e domina il mondo delle norme giuridiche. Tanto affinché la valutazione delle fattispecie giuridiche potesse arricchirsi di canoni ulteriori rispetto a quello puramente formale e, quindi, permettere in definitiva di dare sfogo, seppur limitatamente, all’esigenza di una maggiore equità nell’amministrazione della giustizia del caso concreto. A. Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione della buona fede), in Giust. Civ., 2010, 2550. Altra dottrina parla di strumento volto alla “razionalizzazione del sistema di diritto positivo”. F. Di Marzio, Divieto di abuso e autonomia contrattuale d’impresa, in Riv. dir. civ., 2011, 494. (20) Su tali aspetti vd., da ultimo, G. Fransoni, Spunti in tema di abuso del diritto e intenzionalità dell’azione, in Rass. Trib., 2014, 403. (21) Sul punto vd., in particolare, F. Gallo, Prime riflessioni su alcune recenti norme antielusione,, in Dir. Prat. Trib., 1992, I, 1765. (22) Secondo la dottrina più autorevole “nella sua accezione oggettiva ed allargata, il divieto di abuso del diritto si estende dagli atti materiali lesivi del diritto altrui ad atti giuridici,


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non possono che sfociare in comportamenti contra legem e, quindi, nell’evasione in senso stretto (23). Tali considerazioni – che potrebbero apparire, prima facie, scontate – hanno, tuttavia, un rilevante significato sul piano giuridico ed applicativo: la percezione sociale dell’abuso, infatti, appare molto diversa rispetto a quella dell’elusione (24), fenomeno, quest’ultimo, riconducibile, in via immediata e diretta, solamente al diritto tributario, pur essendo necessario rilevare che la giurisprudenza della Suprema Corte – nonché larga parte della dottrina – tende ad equiparare le due categorie (25). A ciò si aggiunga che lo stesso legislatore, in seguito alla recente introduzione dell’art. 10-bis dello Statuto dei

rispetto ai quali la sanzione appropriata è quella della nullità o inefficacia…. il divieto di abuso del diritto si allarga dunque dai profili originari strettamente relazionali (ancora insiti nel divieto degli atti emulativi), fino a cogliere anche atti non caratterizzati da specifico animus nocendi, né da lesione di legittime aspettative di una controparte determinata, bensì caratterizzati da sviamento di interesse”. M. Libertini, Ancora in tema di contratto, impresa e società. Un commento a Francesco Denozza, in Giur. Comm., 2014, I, 682. (23) Pone in luce, acutamente, autorevole dottrina che non è corretto parlare di “divieto di abuso del diritto tributario”, ma di “contrasto all’abuso del diritto”. C. Palao Taboada, relazione dal titolo Il divieto di abuso nel diritto tributario europeo tenuta al convegno Il contrasto all’abuso del diritto nei rapporti economici e tributari – Un dialogo tra diritto dell’economia e diritto tributario, Libera Università di Bolzano – Facoltà di Economia, 28-29 Novembre 2014, p. 1 del dattiloscritto. Del medesimo autore vd., su tali tematiche, anche La aplicacion de las normas tributarias y la elusion fiscal, Valladolid, 129 ss. Come si è osservato “il termine divieto viene esprimendo un’istanza di sistema: quella di ritenere non sempre esaustive le valutazioni in termini di liceità e di esigere un certo tasso di legittimità delle soluzioni normative, il che consente di considerare un atto di esercizio di una prerogativa riconosciuta dal diritto oggettivo come un abuso e, conseguentemente, di contrastarlo”. F. Piraino, Il divieto di abuso del diritto, in Europa e dir. privato, 2013, 75-76 al quale si rinvia per approfonditi riferimenti bibliografici. (24) Come osserva autorevole dottrina, la radice etimologica del termine elusione è quella di “ludus” o gioco. C. Palao Taboada, relazione dal titolo Il divieto di abuso nel diritto tributario europeo, op. cit., p. 2 del dattiloscritto. Tale considerazione anche in P. Valente, Elusione fiscale internazionale, Milano, 2014, 3, nota n. 1, il quale osserva che “Elusione deriva dal latino “ex ludere”, da ludus (gioco); quindi è l’atto, promanazione della volontà, di prendersi gioco di qualcuno: nel rapporto tributario, dell’amministrazione finanziaria. Nell’etimo latino è racchiusa l’attitudine umana a minimizzare il carico tributario mediante una sorta di gioco”. (25) Sul punto vd., da ultimo, le considerazioni di G. Fransoni, Abuso ed elusione del diritto in Treccani – Il Libro dell’anno del diritto, Roma, 2015, 407 ss.; D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche: anatomia di un equivoco, in Dir. Prat. Trib., 2015, I, 695 nonché S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto in retro, 2010, I, 1031.


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Diritti del Contribuente (26) – rubricato proprio “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale” – sembra confermare tale equiparazione. Tuttavia, il tema centrale è che, al di là della singola operazione qualificata dalla giurisprudenza – a torto o a ragione – come abusiva, da un lato, l’abuso è un qualche cosa che, intuitivamente, viene percepito come da contrastare (27) ma, dall’altro, trova come muro (apparentemente) insormontabile l’aspettativa – più o meno legittima – del contribuente alla “minimizzazione” del carico fiscale e la libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita (28). Come si è efficacemente osservato, infatti, la giurisprudenza in materia di abuso afferma una “espressa subordinazione del perseguimento dell’interesse individuale alla tutela dell’interesse generale” (29), ben più di quanto non sia riscontrabile nell’ambito della tradizionale lotta all’elusione fiscale. L’analisi dell’abuso, dal punto di vista della certezza dei rapporti giuridici, impone, dunque, di svincolarsi da una rigida visione positivistica e formalistica (vd. infra par. II) e di interrogarsi su di un duplice ordine di questioni: da un lato, come viene percepito l’abuso da parte dei diversi operatori del diritto, dall’altro – ed è quello chi si tenterà di fare nel presente scritto – come, in concreto, viene applicato, dalla giurisprudenza, il principio stesso sul piano argomentativo (30) ed in termini di bilanciamento tra diversi valori.

(26) Introdotto dall’art. 1, comma 1, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128. (27) Osserva A. Fedele, Assetti negoziali e forme di impresa tra opponibilità, simulazione e riqualificazione in retro, 2010, 1110 che «l’accertamento dell’abuso del diritto si rivela frutto di una percezione “intuitiva” della “disapprovazione” dell’ordinamento, certamente condizionata dalla considerazione dei principi ordinatori dei diversi rami del diritto (in materia tributaria delle rationes dei singoli tributi), ma non riconducibile ad alcuna regola predeterminata». (28) Su tale profilo vd., in particolare, A. Amatucci, La funzione antiabuso dell’interpretazione del diritto tributario, in Dir. Prat. Trib., 2012, I, 879. Per interessanti spunti sui rapporti tra abuso e libertà economiche vd. F. Di Marzio, Divieto di abuso e autonomia contrattuale d’impresa, op. cit., 491. Tali aspetti risultano, centrali, anche nel dibattito americano sul quale vd. W. Barker, The Ideology of Tax Avoidance, in Loyola University Chicago Law Journal, 2009, 230, al quale si rinvia, oltre che per l’ampia bibliografia d’oltre oceano, anche per la comparazione con alcuni paesi europei. (29) De Caria, op. cit. 3627. (30) Sulla necessità di una analisi concreta della giurisprudenza, per “abbandonare idee generali e approssimative attraverso le quali si giunge spesso a conclusioni altrettanto generali di carattere astratto” vd. S. Cassese, I tribunali di Babele. I giudici alla ricerca di un nuovo ordine globale, Roma, 2009, 12. Sul problema dei rapporti tra argomentazione e certezza vd. G. Pino, Coerenza e verità nell’argomentazione giuridica. Alcune riflessioni, in Riv. internazionale di fil. del diritto., 1998, 84. Sulla necessità di una argomentazione “per


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Ovviamente, applicazione concreta e percezione sono due profili che, pur apprezzabili autonomamente, anche in ambiti non prettamente giuridici (31), sono strettamente connessi e dipendenti tra loro: è evidente che nel momento in cui i principi vengono applicati dalla Giurisprudenza secondo criteri uniformi, equilibrati e razionali, gli operatori tendono a percepire il contrasto all’abuso in termini virtuosi e non con la diffidenza che, invece, caratterizza, da sempre, tale istituto (32). Quello che emerge, invece, è un palpabile senso di instabilità ed incertezza derivante proprio dalla casistica giurisprudenziale (vd. infra par. IV), cioè da una costante applicazione a senso unico dell’abuso del diritto, a discapito di altri principi e valori quanto meno di pari rango, senza che nella motivazione delle sentenze emerga chiaramente un iter argomentativo idoneo a giustificare la costante mancanza di bilanciamento di interessi. In tale contesto, dunque, occorre domandarsi se la tanto invocata (e, come detto, recentemente attuata) codificazione di una clausola generale antiabuso possa costituire la panacea di tutti i mali o se, invece, l’unica strada percorribile sia quella di una sostanziale “autorideterminazione” della giurisprudenza stessa la quale tende, sempre più, ad attribuirsi un ruolo assai prossimo a quello del legislatore e ad esplicitare criteri applicativi, valori e principi da essa ritenuti insiti nell’ordinamento (vd. infra par. II). Ed è proprio l’analisi di tali criteri che dovrebbe costituire oggetto di studio essendo, probabilmente, ormai maturo il tempo per superare l’apparente dicotomia tra abuso codificato e non codificato (vd. infra par. III e IV). 2. Il ruolo creativo/autoreferenziale della giurisprudenza e la necessaria affermazione dei principi. – Il dibattito che, fin dalle sentenze a Sezioni

valori”, specie nell’ambito delle clausole generali, vd., da ultimo, A. Abignente, Verità e responsabilità nell’argomentazione giuridica dei valori, in Arsinterpretandi, 2014, 19 ed, in particolare, sul ruolo del giudice, E. Maestri, Il giudice responsabile. Norme, valori e virtù nella pratica interpretativa, in Arsinterpretandi, 2014, 51. (31) È in tal senso significativo che inizino ad emergere anche contributi filosofici in materia di abuso. Sul punto vd., da ultimo, l’interessante saggio di filosofia del diritto di C. Sarra, L’imposizione nell’era della positività pluritipica, in Aa.Vv., Custodire il fuoco. Saggi di filosofia del diritto, a cura di Zanuso, Milano, 2013, 223 (sull’abuso, in particolare, p. 234 ss.). (32) Lo stesso OCSE ha pubblicato un documento, proprio su evasione, elusione ed abuso intitolato “What drive tax morale?”, fondato su dati empirici e statistici (http://www. oecd.org/ctp/tax-global/TaxMorale_march13.pdf).


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Unite del 2008 (33), ha riguardato i profili della certezza del diritto, ha radici profonde e riguarda tematiche di ampio respiro teorico, in larga misura sviscerate dalla dottrina e sulle quali non si ha, certamente, la pretesa di soffermarsi compiutamente in questa sede. In seguito a tale arresto giurisprudenziale, infatti, la maggiore “incertezza del sistema” è stata attribuita alla mancanza di codificazione di una clausola generale anti abuso (34) e, quindi, ad un ruolo eccessivamente creativo ed autoreferenziale della giurisprudenza (35). Dal punto di vista della certezza del diritto, peraltro, suscitavano ben meno perplessità, quanto meno sul piano dogmatico-formale, le prime sentenze in tema di dividend washing e dividend stripping, in quanto la Corte applicava, de plano, figure tradizionali quali quella del contratto in frode alla legge, piuttosto che della nullità per mancanza di causa in concreto (36). È chiaro che, invece, l’iter argomentativo seguito delle Sezioni Unite costituisce un punto di rottura rispetto al passato nel momento in cui la Corte fa discendere il contrasto all’abuso del diritto tributario direttamente dai principi costituzionali (37), superando (ma non negandola, anzi ampliando-

(33) SS. UU. n. 30055, n. 30056 e n. 30057 del 23 dicembre 2008. (34) Oltre alla bibliografia già citata vd., in particolare, F. Moschetti, Il principio democratico sotteso allo Statuto dei diritti del contribuente e la sua forza espansiva in questa rivista, 2011, I, 731; S. La Rosa, Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze ed interferenze, in Dir. Prat. Trib., 2012, I, 707; P. Pistone, L’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Dir. Prat. Trib. Int., 2012, I, 460 nonché, da ultimo, D. Conte, La (ir)rilevanza penale delle condotte elusive/abusive il reato di dichiarazione infedele: una lettura critica alla luce della delega fiscale e della loro attuazione in questa rivista, 2014, I, 781 ss. (35) La necessità di norme scritte è costantemente richiamata anche sui principali organi di stampa. Fra i tanti vd. A. Manzitti, Sull’abuso di diritto occorre ripristinare il ruolo della legge, in Il sole 24 ore, 23/04/2014, 33 il quale identifica nella Legge Delega “una occasione imperdibile per rimettere le cose nell’ordine di priorità corretto”. (36) Sul punto vd., tra gli altri,, D. Stevanato, Le “ragioni economiche” nel dividend washing e l’indagine sulla “causa concreta” del negozio: spunti per un approfondimento, in Rass. trib., 2006, 30; G. Zizzo, Nullità negoziali ed elusione tributaria, in Corr. Trib., 2006, 2143; G. Corasaniti, La nullità dei contratti come strumento di contrasto alle operazioni di dividend washing nella recente giurisprudenza della Suprema Corte, in Dir. prat. Trib., 2006, II, 235; M. Basilavecchia, Sui limiti fiscali all’autonomia negoziale in attesa delle Sezioni Unite, in Corr. Trib., 2007, 2673; G. Zizzo, Abuso del diritto, scopo di risparmio d’imposta e collegamento negoziale, in Rass. Trib., 2008, II, 869. (37) Sul punto vd., da ultimo, anche per gli ampi riferimenti bibliografici, M. Basilavecchia, Efficacia diretta dell’art. 53 Cost. e D. Mazzagreco, Profili di tecnica normativa nella codificazione del principio generale antiabuso entrambi in Aa.Vv., L’evoluzione


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la) la nozione accolta dalla giurisprudenza europea (38). Tale posizione ha inizialmente “spiazzato” gli studiosi del diritto tributario, necessariamente influenzati dal vincolo della riserva di legge (39) ed, al tempo stesso, ha acceso, nuovamente, l’interesse dei “non tributaristi” (40), questi ultimi ormai abituati ad un dibattito ultra quarantennale dai confini più o meno definiti, sia dalla casistica giurisprudenziale, sia da una solida dottrina sulla corret-

del sistema fiscale e il principio di capacità contributiva, a cura di Melis e Salvini, Padova, 2014, 87 e 543. Per ampie considerazioni sistematiche vd. anche, il pregevole contributo di F. Moschetti, Interesse fiscale e ragioni del fisco nel prisma della capacità contributiva, in Aa.Vv., Atti della giornata di studi in onore di Gaspare Falsitta, a cura di Beghin, Moschetti, Schiavolin, Tosi e Zizzo, Padova, 2012, 158. (38) Su tali tematiche la dottrina è ormai “sterminata”. Senza alcuna pretesa di completezza, W. Schön, Abuse of right and European tax law in Comparative Perspectives on Revenue Law, a cura di Avery Jones, Harris e Oliver, Cambridge, 2008, 75; F.A. Garcia Prats, The abuse of tax law: prospects and analysis, in Aa.Vv., Essays in International and European Tax Law, a cura di Bizioli, Napoli, 2010, 50; Aa.Vv., Prohibition of Abuse of Law. A New General Principle of EU Law?, a cura di de la Feira-Vogenhauer, Oxford, 2011;D. Weber, Abuse of law in European tax law: an overview and some recent trends in the direct and indirect tax case law of the direct and indirect tax case law of the ECJ: part 1 e part. II, in European Taxation, 2013, rispettivamente a p. 251 e 313. (39) La dottrina tributaria si è, in larga misura, occupata proprio della compatibilità dell’abuso, introdotto in via pretoria, con la riserva di legge. Sul punto vd., tra gli altri, L. Carpentieri, L’ordinamento tributario tra abuso e incertezza del diritto in questa rivista, 2008, I, 1055; G. Melis, Sull’”interpretazione antielusiva” in Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la Scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, in questa rivista, 2008, I, 413; F. Moschetti, Avvisaglie di supplenza del giudiziario al legislativo, nelle sentenze delle Sezioni Unite in tema di utilizzo abusivo di norme fiscali di favore, in Riv. giur. Trib., 2009, 197; V. Ficari, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rass. Trib., 2009, 390; M. Beghin, Alla ricerca di punti fermi in tema di elusione fiscale e abuso del diritto tributario (nel comparto dei tributi non armonizzati), in Aa.Vv., Attuazione del tributo e diritti del contribuente in Europa, a cura di Tassani, Roma, 2009, 168; D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, op. cit., 703 ss. (40) A. Gentili, Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, in Ianus, n. 1- 2009; F. Prosperi, L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista, in Dir. Prat. Trib., 2012, I, 717; F. Addis, L’abuso del diritto tra diritto civile e tributario, in Dir. Prat. Trib., 2012, I, 872; C. Salvi, Note critiche in tema di abuso del diritto e di poteri del giudice, in Riv. critica di dir. priv., 2014, I, 27; C.M. Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, 251. Sui rapporti tra abuso e causa in concreto vd., diffusamente, R. Rolli, Causa in astratto e causa in concreto, Padova, 2008 nonché, da ultimo, M. Barcellona, Della Causa, Padova, 2015, 563 ss.


tezza contrattuale, sulla buona fede (41) e sul divieto di atti emulativi (42). La reazione, immediata, di parte della dottrina (43) è stata quella di sostenere la riaffermazione del ruolo della legge sulla giurisprudenza, tacciata di essere “sovversiva” laddove, al tempo stesso, secondo una diversa prospettiva, altri autori hanno ritenuto le sentenze della Suprema Corte – ed i principi in esse espressi – come un dato di fatto ineliminabile, in taluni casi solamente da “reindirizzare” (44). La tematica è, evidentemente, di estrema attualità se solamente si pensa che la Corte Costituzionale francese con la sentenza 685 del 29 dicembre 2013 (45), proprio applicando il parametro valutativo della certezza del diritto, ha “bocciato” le modifiche all’art. 64 del cosiddetto “codice delle obbligazioni tributarie”, il quale qualificava l’abuso come quel comportamento avente come “motivo principale quello di eludere o ridurre l’onere fiscale” e non più come “motivo esclusivo”. La Corte, in estrema sintesi, ha ritenuto che l’ordinamento deve presentare delle disposizioni normative non equivoche e

(41) Sui rapporti tra abuso e buona fede (o meglio, sull’abbandono di tale rapporto) nel diritto tributario vd. M. Trivellin, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, Milano, 2009, 294. Sui rapporti tra abuso nel diritto tributario e la buona fede vd., da ultimo, A. Giovannini, L’abuso del diritto nella Legge delega fiscale, in Rass. Trib., 2014, I, 231. (42) Su tali profili ci limitiamo a rinviare., da ultimo, a M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla funzione teleologicamente orientata del traffico giuridico, in Riv. dir. civ., 2014, 467; A. Cataudella, L’uso abusivo di principi in Riv. dir. civ., 2014, I, 747. Per una interessante analisi interdisciplinare vd. G. Perlingieri, Profili civilistici dell’abuso. L’inopponibilità delle condotte abusive, Napoli, 2012. (43) Per un’ampia disamina di tali orientamenti, oltre agli autori citati alla nota n. 40, vd. A. Contrino, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, op. cit., 471 ss. Recentemente, per una impostazione rigorista, vd. anche M. Beghin, voce Elusione e abuso del diritto (dir. Trib) in Treccani – Diritto on line, 2014. (44) S. La Rosa, Elusione e antielusione fiscale nel sistema delle fonti del diritto, op. cit., 801; G. Fransoni, Appunti su abuso del diritto e “valide ragioni economiche” in Rass. Trib., 2010, 932; Fedele, Assetti negoziali e forme di impresa tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, op. cit.; V. Mastroiacovo, L’economicità delle valide ragioni economiche (note minime a margine della recente evoluzione del principio dell’abuso del diritto, in Retro, 2010, I, 450; M. Miccinesi, Riflessioni sull’abuso del diritto in Aa.Vv., Studi in onore di Enrico De Mita, Napoli, 2012, 594 ss.; P. Puri, Riorganizzazione societaria nell’ambito della crisi di impresa ed elusione tributaria in retro, 2013, I, 851. (45) Sul punto vd. E. Altieri, La codificazione di una clausola generale antielusiva: giungla o wild west?, in Rass. Trib., 2014, 521. Sull’abuso del diritto nell’ordinamento francese vd. l’approfondito contributo di V. Liprino, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’esperienza francese, in Rass. Trib., 2009, 445.


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che non si può riservare all’Amministrazione finanziaria ed alla magistratura il compito di creare regole. Queste affermazioni, tranchant, ed improntate ad un evidente formalismo giuridico della Corte francese appaiono, tuttavia, quanto meno in controtendenza con il diritto vivente che sembra ormai orientato, forse con degli eccessi di sostanzialismo, ad attribuire alla giurisprudenza un ruolo assai prossimo a quello del legislatore e, per molti versi, a ridurre in modo significativo le distanze tra ordinamenti di civil law e di common law (46). Il fenomeno è noto ed ampiamente studiato – nonché in larga misura influenzato dall’approccio adottato dalla stessa Corte di Giustizia – ma negli ultimi anni ha assunto, con riferimento all’ordinamento italiano, contorni sempre più definiti e dirompenti. È sufficiente leggere la relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008 del primo presidente della Suprema Corte – peraltro coeva proprio alle sentenze “gemelle” in tema di abuso – per avvedersi del ruolo che si (auto)attribuisce la giurisprudenza (47): “La Cassazione si va evolvendo, in questi anni, rispetto alla funzione tradizionale di organo di suprema istanza per la singola controversia… Oggi, la Cassazione si va configurando soprattutto come titolare della funzione di indirizzo interpretativo, costituzionalmente orientato…, che risponde a nuove finalità al passo con i tempi”. Ancora, nella relazione del procuratore generale viene espressamente affermato quanto segue: “tramontato l’ideale illuministico di una legge perfetta, espressione gelosa della sovranità nazionale, è oggi la dimensione europea ad indicarci una nozione nuova di legalità – attenta ad aspetti sostanziali più che formali – connotata dalla trasformazione del ruolo partecipativo della giurisprudenza alla formazione della norma”. Occorre, altresì, riconoscere che la funzione legislativa è entrata in crisi anche sotto altro aspetto: la legge – in Italia come in altri Paesi – non riesce a regolare la complessità del reale; non riesce a tener dietro alla vertiginosa accelerazione dei processi sociali. Essa, inoltre, assume spesso carattere

(46) Su tali aspetti, evidentemente, la giurisprudenza è sterminata e ci limitiamo a rinviare, da ultimo, all’autorevole contributivo di N. Lipari, Per un ripensamento delle fontifatto nel quadro del diritto europeo, in Riv. Trim. dir. Proc. Civ., 2013, 1207 ed all’ampia bibliografia citata dall’autore, nonché ai vari scritti contenuti in Aa.Vv., Soft law e hard law nelle società postmoderne, a cura di Somma, Torino, 2009. (47) Tale relazione è riportata ed ampiamente analizzata da G. Franzoni, L’interprete del diritto nell’economia globalizzata, in Contratto e impresa, 2010, 366.


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valutativo e non meramente descrittivo; ha bisogno del giudice per essere integrata nei suoi contenuti” (48). Il messaggio della Suprema Corte è netto ed inequivocabile: la giurisprudenza tende a supplire le inerzie del legislatore, ponendosi a tutela di valori dell’ordinamento che la legge non è in grado di salvaguardare compiutamente (49). Quindi, se, come teorizzato in tempi ormai lontani da indiscussi Maestri, occorre valorizzare il diritto come scienza pratica (50), si deve prendere atto di un fenomeno inarrestabile, ovvero che il diritto – per il tramite della giurisprudenza (nazionale od europea), e con innesti sempre più incisivi della prassi internazionale – tende ad automodellarsi per costruire una scala di valori condivisi (51) e per superare taluni limiti del legislatore (52). Tali circostanze

(48) Su tali profili – ed, in particolare, sulla “crisi dei legislatori”, vd. anche in chiave europea, da ultimo, l’eccellente lavoro di A. Von Bogdandy , M. Ioannidis, Il deficit sistemico nell’Unione europea, in Riv. trim. dir. pubb., 2014, I, 593. (49) Peraltro, che, quanto meno di fatto, la giurisprudenza sia ormai una fonte “primaria” emerge, nitidamente, anche da talune specifiche disposizioni. Si pensi all’art. 360, bis, c.p.c. il quale dispone che il ricorso per Cassazione è inammissibile “quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa”. Ancora, per la stessa giurisprudenza della CEDU il concetto di norma include il diritto sia di origine legislativa che giurisprudenziale ed implica requisiti qualitativi, quali l’accessibilità e la prevedibilità. Sulla posizione della CEDU vd., da ultimo, R. Rolli, Overruling del diritto vivente vs. ius superveniens, in Contratto e Impresa, 2013, 577. (50) Osservava S. Pugliatti, Grammatica e diritto, Milano, 1978, 118 che “mettere in rilievo l’atteggiamento pratico della giurisprudenza vuol dire porre la metodologia giuridica sui binari di concretezza”. È, sul punto, ancora di estrema attualità anche il pensiero di T. Ascarelli, Antigone e Porzia in Problemi giuridici, Milano, 1959, 15. Su tali profili, ovviamente, la dottrina è sterminata. Per ampie ricostruzioni delle varie posizioni vd., da ultimo, A. La Torre, Dizionario di pensieri intorno al diritto, Milano, 2012, nonché, V. Scalisi, Fonti, teoria, metodo – Alla ricerca della “regola giuridica” nell’epoca della postmodernità, Milano, 2012. (51) Sul punto vd. l’approfondita analisi di F. Viola, Il diritto come pratica sociale, Milano, 1990. Osserva M. Miccinesi, Riflessioni sull’abuso del diritto, op. cit, 595, che “in un conteso economico e sociale scosso da urgenti necessità, la latitanza del potere normativo schiude ampi spazi all’intervento correttivo e innovativo della giurisprudenza; e la giurisprudenza ha buon gioco nel rivendicare il ruolo di assicurare l’aderenza del diritto alla società ed, in specie, alle basi ossia ai principi che della società fondano coesione e linee di sviluppo”. Sul punto vd., altresì, l’ampia ricostruzione di G. Fransoni, Appunti su abuso del diritto e “valide ragioni economiche”, op. cit., 939 ss., nonché Id., Abuso ed elusione del diritto in Treccani – Il Libro dell’anno del diritto, op. cit. 407. (52) Osserva M. Logozzo, L’ignoranza della legge tributaria, op. cit., 60 che “il diritto vero è quello applicato dai giudici, sicché lo studio della giurisprudenza pratica assume un


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devono essere considerate ed apprezzate, sia sul piano teorico, sia su quello applicativo: la giurisprudenza – al di là delle diverse impostazioni dogmatiche circa il “ruolo della legge” (53) –assume (e si attribuisce) una funzione ed una responsabilità tale da assurgere a rango di “legislatore per principi e per valori” (54). Tale fenomeno, come detto, non deve affatto stupire, posto che la stessa Corte di Giustizia si pone ormai come principale attore nella formazione – e non, quindi, solamente nell’interpretazione – del diritto europeo, anche per sopperire alle difficoltà delle istituzioni a legiferare (55). È, d’altro canto, ormai un sentimento diffuso anche nella dottrina tributaria (56) che sia necessaria una riaffermazione dei principi generali, a fronte di una disciplina positiva casistica, caotica e, soprattutto, sovente esposta ad una “esasperata ricerca della completezza, che naturalmente non è possibile raggiungere” (57).

ruolo determinante nella costruzione degli istituti giuridici”. (53) Per un’analisi filosofica-giuridica di tali problematiche vd. i recenti contributi di G. Palombella, È possibile una legalità globale? Il rule of law e la governance del mondo, Bologna, 2012 nonché di G. Pino, Costituzione, positivismo giuridico democrazia. Analisi critica di tre pilastri della filosofia del diritto di Luigi Ferrajoli, Diritto e Questioni pubbliche, 2014, 57. Per una approfondita analisi di tali tematiche vd. anche il pregevole contributo di S. Civitarese Matteucci, Il significato formale dell’ideale del governo delle leggi (Rule of Law), in Dir. Amm., 2011, 29, al quale si rinvia anche per gli opportuni riferimenti bibliografici. Da ultimo, vd. l’autorevole e stimolante analisi di F. Schauer, The Force of Law, Harvard, 2015. (54) Osserva G. Zaccaria, La storicità recuperata: l’insegnamento di Paolo Grossi, in Riv. dir. civ., 2013, I, 171, che la giurisprudenza, “legandosi indissolubilmente alla vita, configura un’impresa ben più ampia legata alla ragionevolezza pratica e volta ad amministrare l’uso del diritto nelle società pluralistiche del nostro tempo”. (55) Su tali profili sia concesso rinviare, diffusamente, a F. Montanari, Le operazioni esenti nel sistemza dell’Iva, op. cit., 377. (56) Sul punto vd., in particolare, F. Montanari, Evoluzione del principio di effettività e rimborso dei tributi incompatibili con il diritto comunitario, in Riv. it. Dir. Pubb. Com., 2009, 89 ss. F. Moschetti, I principi di giustizia fiscale della costituzione italiana, per l’ordinamento giuridico in camino dell’Unione europea in questa rivista, 2010, I, 427; L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea – Contributo allo Studio della prospettiva italiana, Milano, 2010; A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria in questa rivista, 2013, I, 875; Aa.Vv., Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e giustizia tributaria italiana, a cura di Bilancia, Califano, Del Federico e Puoti, Torino, 2014; A. Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014; Aa.Vv., I principi europei del diritto tributario, a cura di Di Pietro e Tassani, Padova, 2014. Nella dottrina europea, da ultimo, Aa.Vv., Principles of Law: Function, Status and Impact in EU Tax Law, op. cit. (57) F. Bosello, La fiscalità tra crisi del sistema e crisi del diritto in questa rivista, 1998,


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Bisogna, dunque, essere coerenti: se è ormai largamente condiviso che i singoli ordinamenti si formino per flussi e formanti (58), anche in via giurisprudenziale, e che tale percorso conferisca certezza alla affermazione di modelli giuridici e culturali condivisi, appare quanto meno anacronistico sostenere che proprio la mancanza di “norme dettagliate” contribuisca ad alimentare le incertezze. Basti pensare a taluni principi, anche di origine europea – quali, a titolo meramente esemplificativo, l’equivalenza, l’effettività, la proporzionalità, piuttosto che la tutela della buona fede e del legittimo affidamento (59) (codificato solamente in tempi relativamente recenti con lo Statuto dei diritti del contribuente) – che hanno influenzato, ed influenzano, il diritto vivente senza che mai si sia posto il problema della introduzione di una disciplina positiva in termini di certezza del diritto. Mal si comprende, dunque, al di là delle diverse ideologie e convinzioni culturali di fondo, perché mai, con riferimento all’abuso del diritto, ci si debba arroccare su posizioni marcatamente formalistiche. Il problema è, dunque, un altro ovvero che, mentre nell’ambito dei suddetti principi (e clausole) generali la Suprema Corte ha, in larga misura, ben esplicitato i criteri applicativi e dimostrato equilibrio nelle decisioni, con rife-

I, 1998, 1073. Osserva ancora G. Falsitta, Giustizia tributaria e tirannia fiscale, Milano, 2008, 449, che se, da un lato, certezza significa “non lacunosità”, la “completezza non va confusa con le elencazioni interminabili, minuziosamente ed esasperatamente casistiche”. Per il rapporto tra disciplina casistica, vaghezza e certezza vd. anche G. Melis, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, 104. Su tale tematiche vd., in particolare, l’autorevole contributo di B.G. Mattarella, La trappola delle leggi. Molte, oscure, complicate, Bologna, 2011. Per una approfondita analisi relativa al diritto tributario vd. M. Logozzo, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, 43 ss. Tali profili sono stati, altresì, ampiamente analizzati anche dalla dottrina straniera ed, in particolare, da J. Avery Jones, Tax Law: Rules or Principles? in Fiscal Studies, 1996, 63; D. Weisbach, Formalism in the Tax Law in The University of Chicago Law Review, 1999, 860; J. Braithwaite, Making Tax Law More Certain: a Theory in Australian Business Law Journal, 2003, 2; J. Freedman, Defining Taxpayer Responsibility: in Support of a General Anti-Avoidance Principle in British Tax Review, 2004, 332; Id., Improving (Not Perfecting) Tax Legislation: Rules and Principles Revisited in British Tax Review, 2010, 717; Id., Interpreting Tax Statues: Tax avoidance and the Intention of Parliament in Law Quarterly Review, 2007, 53. (58) Su tali profili, anche in una prospettiva metodologica, ci limitiamo a citare gli acuti contributi di Von Bogdandy, Le sfide della scienza giuridica nello spazio giuridico europeo in Dir, dell’Un. Europea, 2012, 225; Brutti, Per la scienza giuridica europea (riflessioni su un dibattito in corso), in Riv. trim dir. pubb., 2012, 905. (59) Su tali profili vd., per tutti, diffusamente, gli autori citati alla nota n. 56.


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rimento all’abuso del diritto la difficoltà è proprio quella di individuare la medesima linearità argomentativa ed una stabilità di giudizio (vd. infra, par. IV). 3. Il ruolo delle clausole generali. – Date tali premesse, dunque, – ed anticipando, in parte, le conclusioni – dare per scontato che sia fonte di incertezze la presenza di un principio di origine pretoria ed, al contrario, sostenere che l’introduzione di una clausola generale, per il canale legislativo, risolva tali incertezze, significa non cogliere l’essenza stessa del problema o, quanto meno, porsi su di una posizione rigidamente formalistica, laddove appare ormai inequivocabile che, al contrario, l’ordinamento tributario tende ad una logica marcatamente sostanzialistica anche in settori “tradizionalmente formali” come quello del procedimento (60). Senza poterci soffermare, evidentemente, su tali tematiche di ampio respiro ed al di là delle diverse e raffinate sfumature teoriche, appare un dato acquisito che la caratteristica preponderante di tutte le clausole generali sia proprio quella della indeterminatezza, anche dal punto di vista semantico, “da cui deriva la necessità di un’integrazione valutativa” (61): osserva autorevole dottrina, infatti, che clausole generali, norme aperte e principi generali “hanno un tratto comune, cioè di lasciare all’interprete il compito di procedere alla loro concretizzazione, con il pericolo, da un lato, di convertire il nostro ordinamento – che è un ordinamento di diritto scritto – in un ordinamento di equità e, dall’altro, di consentire arbitrii nell’opera di concretizzazione, non agevolmente controllabili” (62).

(60) Sul punto vd., da ultimo, L. Del Federico, L’evoluzione del procedimento nell’azione impositiva: verso l’amministrazione di risultato, in Riv. trim. dir. trib., I, 2013, 886, nonché sia consentito rinviare a F. Montanari, Le violazioni di obblighi formali, contabili e documentali, destinato al Trattato di Diritto sanzionatorio, doganale e valutario in corso di pubblicazione per i tipi della Giuffré, diretto da A. Giovannini e curato da E. Marzaduri e A. Martino. (61) V. Velluzzi, Osservazione sulla semantica delle clausole generali in Etica e política, 2006, 12 nonché, Id., Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, op. cit. Sul punto vd., oltre alla bibliografia già citata, i contributi, a “commento” dell’opera di V. Velluzzi, di P. Chiassoni, Le clausole generali tra teoria analitica e dogmatica giuridica, di S. Mazzamuto, Il rapporto tra clausole generali e valori, P. Rescigno, Una nuova stagione delle clausole generali, tutti pubblicati in Giur. It., 2011, n. 7. Per una approfondita ricostruzione del dibattito attuale vd. F. Forcellini, A. Iuliani, Le clausole generali tra struttura e funzione, in Europa e di. Priv., 2011, 395. (62) F. Benatti, Norme aperte e limiti ai poteri del giudice, in Europa e Dir. Priv., 2013, 19. Lo stesso autore, infatti, parla, espressamente di “procedimento di concretizzazione”


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Le clausole generali, inoltre, sono, per natura, tutte caratterizzate dalla vaghezza (63) in quanto tale concetto implica proprio la possibilità di ricondurre nell’ambito applicativo di una fattispecie una quantità di casi non definibili a priori e, soprattutto, le ipotesi “borderline” (64): peraltro, la vaghezza caratterizza, ontologicamente, sia le clausole generali codificate, sia i principi generali (65). Quindi, anche dopo la codificazione del contrasto all’abuso del diritto tributario i termini del problema rimarranno, in larga misura, immutati (66): il compito della giurisprudenza (ma anche dell’Amministrazione finanziaria) sarà sempre quello di creare regole e criteri applicativi in tutte le ipotesi di comportamenti abusivi – per definizione “borderline” – in quanto le clausole generali hanno proprio la funzione di dare prevalenza “alla consuetudine giudiziale o sociale sulla legge scritta” (67).

in La clausola generale di buona fede in, Banca, Borsa e tit. di cr., 2009, I, 241. Osserva altra autorevole dottrina che le clausole generali “rendono il giudice partecipe del potere legislativo”. A. Angeletti, L’eccesso di potere e la violazione di clausole generali, in Giur. It, 2012, 1225. (63) Su tali profili vd., per tutti, C. Luzzati, La vahezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, 1990, 299 ss. il quale, con riferimento alle clausole generali ed alla integrazione valutativa parla di “vaghezza socialmente tipica” e di “variabili parametri di giudizio e alle mutevoli tipologie della morale sociale e del costume”. La tematica è ampiamente studiata anche nella dottrina straniera sulla quale ci limitiamo a rinviare a T. Endicott, Vagueness in Law, Oxford, 2000; Id., The Value of Vagueness, in Aa.Vv., The Philosophical Foundations of Language in the Law, a cura di Marmor-Soames, Oxford, 2011, nonché, per le diverse “categorie” di vaghezza, da ultimo, a A. Marmor, Varieties of Vagueness in Law, USC Gould School of Law, Legal Studies Research Paper No. 12-8, 2013, in http://papers. ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2039076. Per una approfondita analisi su tali tematiche vd., da ultimo, H.E. Smith., Equity as Second-Order Law: The Problem of Opportunism (January 15, 2015) in. Harvard Public Law Working Paper No. 15-13,. SSRN: http://ssrn.com/ abstract=2617413. (64) Osserva A. Marmor, op. loc. cit., “there is a fact of the matter about the application of vague terms to what seems like borderline cases, but those facts are not knowable”. A. Marmor, op. loc. cit., nota n. 1. Su tale profilo vd. F. Denozza, Norme, principi e clausole generali, op. cit., 387. (65) Sul punto, vd., per le diverse posizioni teoriche, G. Pino, I principi tra teoria della norma e teoria dell’argomentazione giuridica, op. cit., 98 ss. Per rilevanti ed approfondite distinzioni vd., in particolare, anche E. Fabiani, Clausole generali e sindacato della Cassazione, Torino, 2003, 17 nonché, del medesiomo autore, Il sindacato della Corte di Cassazione sulle clausole generali, in Riv. dir. Civ., 2004, I, 581 e l’ampia bibliografia citata dall’autore. (66) Sul punto vd. anche già G. Fransoni, Abuso ed elusione del diritto in Treccani – Il Libro dell’anno del diritto, op. cit.; 411; A. Fedele, Assetti negoziali e forme di impresa tra opponibilità, simulazione e riqualificazione, op. cit., 820. (67) M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, op cit., 121. Osserva altra autorevole dottrina


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Sotto tale profilo, è sufficiente anche un’analisi superficiale delle comuni clausole antiabuso ed antielusive per rendersi conto che, volutamente, i legislatori che le hanno introdotte utilizzano termini assolutamente vaghi e che implicano una integrazione valutativa da parte dei giudici, ma anche della stessa Amministrazione finanziaria: si pensi solamente alla nozione di “valide ragioni economiche”, ai comportamenti “non ragionevoli”, allo stesso concetto di “operazione artificiosa” coniato dalla Corte di Giustizia, piuttosto che “all’anormale” utilizzo di uno strumento giuridico o alla nozione di “forma giuridica appropriata” presente nell’ordinamento tedesco (68). A tale integrazione valutativa non si sottrae, certamente, il novellato art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del contribuente ove le operazioni abusive vengono identificate con quelle “prive di sostanza economica”, giustificabili solamente se connotate “da valide ragioni extrafiscali, non marginali”. D’altro canto, anche nei paesi che hanno una forte tradizione in tema di clausole generali anti abuso codificate, il dibattito sulla certezza del diritto rimane sempre vivo e, comunque, parametrato ed ancorato ai criteri applicativi adottati dalla giurisprudenza (69).

che le clausole generali implicano una “interpretazione per valori”. A. Abignente, Verità e responsabilità nell’argomentazione giuridica dei valori, op. cit., 31. (68) Sull’ordinamento tedesco vd. P. Pistone, Abuso del diritto ed elusione fiscale, Padova, 1995, nonché, da ultimo, A. Crazzolara, Abuso del diritto ed elusione fiscale: la clausola generale antiabuso nel diritto tributario tedesco, in Dir. Prat. Trib. Int., 2010, I, 22. Per una sintetica panoramica dei principali paesi europei vd. anche G. Girelli, Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2012, 3 ss. (69) Con riferimento, per esempio, all’ordinamento canadese vd. già J. Nitikman, Is GAAR Void for Vagueness?, in Canadian Tax Journal, 1989, 1409 e, da ultimo, D. Lacroix, GAAR: Observation of the Concept of Abuse, in Canadian Tax Journal, 2013, 181. Si pensi, ancora, a quanto scrive, con riferimento all’Australia, Evans, The Battle Continues: Recent Australian Experienc ewith Statutory Avoidance and Disclosure Rulesin, in Aa.Vv. Beyond Boundaries., a cura di Freedman, op. cit., 46 ovvero che “the emerging jurisprudence might be characterized more for the uncertainty than for the clarity of its outcomes”. Altrettanto significativa è la posizione della dottrina con riferimento alla Nuova Zelanda sulla quale vd., da ultimo, C. Elliffe, Policy Forum: New Zeland’s General Anti-Avoidance Rule – Triumph of Flexibility over Certainty, in Canadian Tax Journal, 2014, 147 ove tale autore afferma che “the evolution of New Zealand’s gaar is classic evidence that, at least in New Zealand, such broadly worded anti-avoidance provisions are ultimately judgemade law”. Alcuni autori analizzano le differenze tra clausole codificate e applicazioni giurisprudenziali, affermando che non è immediato comprendere quale dei due modelli sia da prediligere. Sul punto vd. D. Dunbar, Tax Avoidance: A Judicial or Legislative Solution; Lessons for the United States from the British Commonwealth, in Corporate Business Taxation Monthly, 2010, 20; M. Littlewood, Tax Avoidance, the Rule of Law and the New Zeland Supreme Court, in New Zeland Law Review, 2011, 35.


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In altri termini, anche le esperienze straniere insegnano che il punto centrale della problematica rimane, sempre e comunque, l’uso che viene fatto da parte delle Corti nazionali delle clausole generali: tanto più che queste ultime, specialmente quelle di recente introduzione, sono state coniate ed implementate proprio sulla base della casistica emersa nella giurisprudenza (70). È, altresì, consolidata un’ampia ed autorevole letteratura, di matrice anglosassone, che studia, anche nell’ottica dell’analisi economica del diritto, la nota dicotomia standard versus rules (71) ed, evidentemente, una delle tematiche centrali è, da sempre, il rapporto con la certezza (72) e, quindi, l’impatto che l’uno o l’altro modello produce sugli operatori del mercato al di là del contenuto della singola disposizione normativa (73). Sul punto si è efficacemente rilevato che, pur essendo uno standard (o, utilizzando le categorie continentali, una clausola generale) ontologicamente più indeterminato di una rule, l’incertezza dovrebbe, tendenzialmente, cedere il passo nel momento in cui si consolida un orientamento giurisprudenziale e “sempre che la rule non contenga troppe qualificazioni ed eccezioni” (74).

(70) Sul ruolo, fondamentale, della giurisprudenza nell’ordinamento inglese, dopo la codificazione della clausola generale anti abuso vd. il recente ed approfondito contributo di J. Freedman, Lord Hoffmann, Tax Law and Principles – Oxford Legal Studies Research Paper n. 14/2015 destinato al volume Aa.Vv., The Jurisprudence of Lord Hoffmann, a cura di Davies e Pila, Oxford, 2015 (in corso di pubblicazione). (71) Sul punto, tra i “classici” vd. L. Kaplow, Rules Versus Standards: An Economic Analysis, in DukeLaw Journal, 1992, 557; R.A. Posner, Economic Analysis of Law, New York, 1998. Per contributi maggiormente recenti, D. Weisbach, An Economic Analysis of Anti-TaxAvoidance Doctrines, in American Law and Economica Review, 2002, 88; F. Schauer, Thinking like a Lawyer, Boston, 2009, 188 ss.; E. Friedman, A.L. Wickelgren, A New Angle of Rules versus Standard, in American Law and Economics Review, 2013, 499; D.A. Weisbach, Is Knowledge of the Tax Law Socially Desirable?, in American Law and Economics Review, 2013, 187; S.B. Lawsky, Modeling Uncertainty in Tax Law, in Stanford Law Review, 2013, 242. Per una pregevole ricognizione delle diverse prospettive vd., da ultimo, M. Filippelli, Collective dominance and collusion. Parallelism in EU and US competition law, Chelteman, 2013, 281. (72) Oltre alla bibliografia citata in precedenza, vd.; J. Braithwaite, Rules and principles: a Theory of Legal Certainty, in Australian Journal of Legal Philosophy, 2002, 47; ss. (73) Per un fondamentale ed antesignano contributo in materia tributaria vd. E. Antonini, Norma di legge, standard giuridico e risoluzione ministeriale, in Riv.dir. fin. sc. fin.,1979, I, 422. (74) F. Denozza, Norme, principi e clausole generali, op. cit., 383. Su tali profili vd. la pregevole analisi di L. Lombardi Vallauri, Norme vaghe e teoria generale del diritto in


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È facile verificare che, al contrario, in ambito tributario, il monolitico orientamento della Suprema Corte continua ad alimentare dubbi e zone grigie in modo “inversamente proporzionale” all’aumento esponenziale del numero di pronunce. In altri termini, non pare in alcun modo appagante sostenere che una clausola generale codificata è più certa di un principio immesso nel sistema dalla giurisprudenza (75). D’altra parte, come osserva autorevole dottrina, “una sentenza errata e perfino arbitraria può basarsi su una norma specifica per il fatto che quest’ultima non è in grado di tenere conto di tutte le circostanze della fattispecie concreta: sotto tale profilo, la clausola generale serve ad impedire il risultato ingiusto che, in alcuni casi, potrebbe derivare dall’applicazione, sia pure rigorosa, di una norma non elastica” (76). Quindi, potremmo dire che il binomio “specificità/certezza” vs “generalità/incertezza” è tutt’altro che scontato (77) sul piano degli effetti o, quanto meno, rischia di essere fuorviante. 4. Le ragioni dell’incertezza: il mancato bilanciamento di interessi. – Il problema, grave, è, dunque, un altro rispetto alla mancanza di regole scritte e, quindi, ad un ordinamento tributario che, quanto meno in materia di abuso del diritto, privilegia un modello sostanziale fondato sui rimedi (78). Vi è, infatti, incertezza laddove manchi la ricerca di un corretto bilancia-

Arsinterpretandi, 1998, 155, il quale propone una netta distinzione, anche in termini di certezza del diritto, tra “ambiguità casistica” e “vaghezza”, nonché le altrettanto autorevoli riflessioni di R. Guastini, Enunciati interpretativi, in Arsinterpretandi, 1997, 35, al quale si rinvia anche per l’approfondito apparato bibliografico. (75) Sul punto vd., ampiamente, G. Fransoni, Appunti su abuso del diritto e “valide ragioni economiche”, op. cit., 941 ss. (76) S. Patti, Clausole generali e discrezionalità del giudice, in Riv. del notariato, 2010, 303. Sul fatto che le clausole antiabuso non siano necessariamente causa di incertezza vd. anche F. Di Marzio, Teoria dell’abuso e contratti dei consumatori, in Riv. dir. civ., 2007, 681. (77) Su tali profili vd. anche l’interessante prospettiva di A. Saydè, Abuse of EU Law and Regulation of Internal Market, op. cit., 193 ss. (78) Sul punto vd., da ultimo, il pregevole saggio di G. Smorto, Sul significato di “rimedi”, in Europa e Dir Priv., 2014, 159.


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mento, in termini di coerenza (79), ragionevolezza (80) e proporzionalità (81), tra diversi valori e principi giuridici, non meramente morali ed etici e, dunque, quando, si passa dall’interpretazione – o, comunque, dall’integrazione valutativa – al mero arbitrio ed alla mancanza di argomentazione per principi (82). La questione diviene, dunque, quella del corretto equilibrio tra parametri di giudizio e valori tra loro potenzialmente concorrenti (83) e, conseguentemente, della “discrezionalità giudiziale” (cioè di un potere insindacabile del giudice) (84), ma anche, spostando il campo di indagine sul versante procedimentale, della discrezionalità amministrativa (85).

(79) Osserva autorevole dottrina che “una volta fissati i principi generali, le contraddizioni vanno rapportate al requisito di coerenza ordinamentale, a sua volta collegato al principio di certezza del diritto, che è applicazione dello Stato di diritto, e dunque della democraticità del rapporto tra potere e cittadino, della strumentalità del primo e del primato del secondo”. F. Moschetti, Il principio democratico sotteso allo Statuto dei diritti del contribuente e la sua forza espansiva, in Aa.Vv., Consenso, equità e imparzialità nello Statuto dei diritti del contribuente. Studi in onore del Prof. Gianni Marongiu, a cura di Bodrito, Contrino e Marcheselli, Torino, 2012, 17. (80) Sui rapporti tra clausole generali e ragionevolezza nella loro applicazione vd. R. Rolli, Causa in astratto e causa in concreto, op. cit., 203 ss. Sui diversi significati del principio della ragionevolezza, anche in contrapposizione tra loro vd., per tutti, A. Morrone, Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001; G. Zagrebelsky, Giustizia costituzionale, Bologna, 2012. (81) Su tali tematiche nel diritto amministrativo vd., per tutti, S. Cognetti, Clausole generali nel diritto amministrativo. Principi di ragionevolezza e proporzionalità, in Giur. It., 2012, 1197, al quale si rinvia anche per ampi e dettagliati riferimenti bibliografici. (82) Osserva F. Benatti, La clausola generale di buona fede, op. cit., che “richiedendo al giudice di esplicitare la trama del ragionamento attraverso cui si forma il suo convincimento e di indicare il metro di valutazione cui ha fatto ricorso, evitando il ricorso a formule di maniera o di stile oppure a luoghi comuni privi di valenza argomentativa, si riduce la possibilità di arbitrio, di uso discrezionale non controllato e di creazione di una regola non fondata oppure legata ad una determinata ideologia”. Altra dottrina osserva che, sul piano del diritto amministrativo, la proporzionalità è peraltro sempre di più vista come una tecnica nella mani dei giudici per sottrarre ogni spazio di merito all’amministrazione”. S. Civitarese Matteucci, Funzione, potere amministrativo e discrezionalità in un ordinamento liberal-democratico, in Dir. Pubb., 2009 nota n. 68, 766. (83) Valorizza tale percorso argomentativo S. Fiorentino, Qualificazione fiscale dei contratti di impresa: abuso e sanzionabilità in questa rivista, 2012, I, 177, seppur con particolare riferimento al profilo sanzionatorio. (84) Enfatizza tale profilo M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, op. cit., 123. (85) Per interessanti considerazioni su tale problematiche nel diritto amministrativo ed, in particolare, sulla applicazione delle clausole generali vd., da ultimo, L. Perfetti, Per una teoria delle clausole generali in relazione all’esercizio dei pubblici poteri, in Giur. It., 2012, 1213; Id., Discrezionalità amministrativa, clausole generali e ordine giuridico della


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D’altro canto, appare largamente condiviso in dottrina che le clausole generali hanno proprio la funzione di bilanciare beni e interessi tra loro potenzialmente contrapposti, al fine di sopperire “alla rigidità del formalismo” (86) per il tramite delle applicazioni giurisprudenziali (87). Come si è, ancora, osservato, “il vero problema è di comprendere che cosa accade quando il ragionamento del giudice supera i confini di ciò che convenzionalmente si intende come «diritto», e di individuare quali siano le garanzie di razionalità e di ragionevolezza, di attendibilità, di accettabilità e di controllabilità di quei numerosi aspetti della decisione giudiziaria che – appunto – non sono, né direttamente, né indirettamente controllati o determinati dal diritto” (88). Il “nucleo forte” del problema è, quindi, identificabile nel fatto che nelle applicazioni giurisprudenziali in tema di abuso del diritto tributario emerge

società, in Dir. Amm., 2013, 309, nonché taluni interessanti spunti in F. Merusi, Il codice del giusto processo amministrativo, in Dir. proc. Amm., 2011, I, 1. Per una approfondita analisi con particolare riferimento all’uso degli standard nel diritto amministrativo vd., per tutti, l’approfondito e colto contributo di S. Civitarese Matteucci, Funzione, potere amministrativo e discrezionalità in un ordinamento liberal-democratico, op. cit., 739, (86) A. Caprara, La giurisprudenza e le fonti del diritto commerciale: le clausole generali e l’approccio sostanziale alla teoria delle fonti, in Aa.Vv., Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia (diretto da F. Galgano), Le clausole generali nel diritto societario, a cura di Tantini e Meruzzi, Padova, 2011, 71-72. Sullo specifico profilo del bilanciamento di interessi, vd., tra gli altri, anche M. Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti a violazioni di norme antitrust, in Danno e Resp., 2004, 937, nonché Id, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, op cit.; V. Velluzzi, Le clausole generali, op. cit., 71; F. Forcellini, A. Iuliani, Le clausole generali tra struttura e funzione, op. cit., 401 ss. Sul punto, con specifico riferimento alle clausole anti abuso vd., da ultimo, I. Radoccia, Abuso del diritto come bilanciamento degli interessi, in Giur. Di merito, 2013, 742. (87) Per interessanti considerazioni con riferimento alla responsabilità dei giudici nella applicazione delle clausole generali, anche in chiave processuale, vd. C. Gamba, Diritto societario e ruolo del giudice, Padova, 2008, 138 ss. (88) M. Taruffo, Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, 122-123. Del medesimo autore vd. Considerazioni sulle massime d’esperienza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, 551. Osserva, infatti, C. Gamba, op. loc. cit., 146, che “la vera esigenza è che gli ampi poteri creativi attribuiti al giudice siano esercitati secondo criteri razionali e controllabili ed il requisito della razionalità porta l’attenzione sul procedimento decisorio e sulle modalità del suo svolgimento in modo corretto. La controllabilità richiede che il giudice utilizzi procedure argomentative controllate sul piano linguistico, logico e metodologico, si avvalga, cioè di strumenti discorsivi razionali idonei a legittimare il suo operato proprio in quanto razionali e, quindi, contestabili e capaci di scongiurare il pericolo di decisioni arbitrarie.


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un immediato ed innegabile senso di ingiustizia e arbitrarietà (89) che, contestualmente, attribuisce un “potere di fatto” incontrollabile all’Amministrazione finanziaria (90). Tuttavia, appare opportuno non cadere in un superficiale luogo comune: tale senso di ingiustizia, infatti, non deriva dal fatto che la Suprema Corte adotta un approccio tendenzialmente rigorista, privilegiando sovente l’interesse fiscale. Potrebbe, infatti, accadere che, effettivamente e secondo una vlutazione ex post, in tutti i casi oggetto di giudizio l’operazione sia qualificabile artificiosa e priva di valide ragioni economiche e che, quindi, debba prevalere l’interesse dello “Stato comunità” su quello egoistico del singolo (91). Un’analisi in tal senso – cioè ancorata all’esito della singola controversia – porterebbe l’interprete fuori strada. Ciò significherebbe applicare, meccanicamente, un mero case to case approach (che, nella sostanza, non si differenzierebbe da una sterile “elencazione normativa”), laddove occorre, invece, trarre dalla prassi argomentazioni, criteri applicativi e valori di portata generale (92). Osserva la dottrina più autorevole, infatti, che “diritto giurisprudenziale significa diritto che nasce dalla considerazione dei casi concreti, ma non equivale a giustizia caso per caso” (93).

(89) Scriveva ormai in tempi lontani un maestro che i “caratteri che contraddistinguono l’interpretazione anche in funzione integrativa e ne fanno risaltare l’antitesi con la discrezionalità, sono: l’univocità, che conduce a riconoscere esatta, almeno teoricamente, una sola soluzione (in quel dato momento storico e in quella data situazione di fatto); quindi la prevedibilità e la rigorosa controllabilità del risultato, assicurate, almeno in teoria, dal fatto che in essa sono escluse valutazioni di mera opportunità con la possibilità di usare due pesi e due misure”. E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (1949), Milano, 1971, 161. (90) Su tali profili ed, in particolare, sul fatto che l’introduzione di una clausola generale anti abuso non possa risolvere le incertezze vd., da ultimo, S. La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali in questa rivista, 2014, I, 226. (91) Su tali profili vd., per tutti, P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002. (92) Osserva F. Di Marzio, Teoria dell’abuso e contratti dei consumatori, op. cit., 691, che la certezza del diritto deve “oggi apprezzarsi non tanto e non semplicemente nell’orizzonte di attesa del risultato della decisione giudiziale quanto, più intensamente, nel rispetto delle procedure interpretative legalmente imposte per attingere al risultato nonché – aggiungo – nel rispetto delle procedure anche non legalmente imposte ma comunque richieste per la piena legittimazione dell’operato dell’interprete in generale e soprattutto del giudice”. (93) F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2009, 130131. Sono, altresì, estremamente significative le considerazioni di N. Irti, Per la magistratura ordinaria nella storia dell’unità d’Italia, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 2013, I, 128 il quale osserva che “il destino della sentenza è, al pari della legge, di distaccarsi dall’autore, di sciogliersi dalla determinatezza individuale, e di porsi come oggettiva parola del diritto”. Sul punto vd. anche i contributi di M. Taruffo, voce Giurisprudenza, in Enc. delle scienze sociali, Roma, 1994


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Il problema, quindi, non è tanto la mancanza di una disciplina positiva o il rigorismo assunto dalla Suprema Corte, quanto la irragionevolezza nella applicazione delle regulae iuris a senso unico e la mancanza di “equilibrio” (94) nella risoluzione delle controversie dalla quale deriva quella che viene spesso definita la “inadeguatezza della decisione” (95). In altri termini, il punto centrale dell’analisi deve sempre essere quello del bilanciamento dei valori, analogamente, peraltro, a quanto è facilmente riscontrabile nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (96), nonché della Corte di Giustizia quando applica, per esempio, il principio di proporzionalità in ambito Iva (97). L’applicazione di una regola giurisprudenziale, dunque, determina incertezza nel momento in cui viene utilizzata come “grimaldello” (98) per far prevalere, sempre e comunque, a senso unico, alcuni valori e principi generalmente riconosciuti su altri – quanto meno di pari rango – senza che vengano evidenziate le ragioni di tale prevalenza sul piano argomentativo. In buona sostanza, ciò che è fortemente da stigmatizzare è la mancanza di “limpidi” ed inequivocabili criteri guida per il contribuente nonché per la

e, da ultimo, del medesimo autore, La giurisprudenza tra casistica e uniformità, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 2014, I, 35, nonché A. La Torre, Dizionario di pensieri intorno al diritto, Milano, 2012, 83 ss. Si è acutamente osservato, con un approccio fortemente “anti abuso”, che “il potere crescente dei giudici, la loro ricerca dell’equità del caso singolo (perché questa è la sostanza dell’abuso del diritto come principio generale), e qualche volta della equità collettiva, si inserisce in questo vuoto della dimensione sociale e della progettazione giuridica”. Salvi, Note critiche in tema di abuso del diritto e di poteri del giudice, op. cit., 37. (94) Osserva autorevole dottrina che “piuttosto che la garanzia della certezza al diritto contemporaneo si chiede principalmente la garanzia dell’equilibrio”. G. Palombella, Dopo la certezza. Il diritto in equilibrio tra giustizia e democrazia, Bari 2006, 5. (95) Su tali profili, per ampi riferimenti dottrinali e per un’attenta ricostruzione delle diverse posizioni, C. Gamba, Diritto societario e ruolo del giudice, op. cit., 147 ss. Osserva, sul punto, H. Albert, Scienza giuridica ed ermeneutica. Il diritto come fatto sociale e il compito della giurisprudenza, in Arsinterpretandi, 1997, 242, che la giurisprudenza “avrebbe il compito di formulare, innanzitutto, dei consigli interpretativi adeguati”. (96) Su tali profili vd., in particolare, A. Morrone, voce Bilanciamento (giustizia costituzionale), in Enc. Dir. – Annali, Vol. II, Tomo VIII, Milano, 2008, 185. (97) Sul punto vd., per tutti, A. Mondini, Contributo allo studio del principio di proporzionalità nel sistema dell’Iva europea, Pisa, 2012; J. Dacio Rolim, Proportionality and Fair Taxation,op. cit. Sui rapporti tra certezza del diritto e proporzionalità vd. anche H. Taveira Torres, The Principle of Legal Certainty of the Tax Constitutional System, in Dir. Prat. Trib. Int., 2012, I, 513. (98) L’espressione è di P. Pistone, L’abuso del diritto nella giurisprudenza tributaria della Corte di Giustizia dell’Unione europea, op. cit., 442.


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stessa Amministrazione finanziaria: e ciò appare ancora più grave in un ambito – come quello dell’abuso – in cui la qualificazione delle operazioni verte, in larga misura, su giudizi di fatto (in merito, per esempio, alla assenza di valide ragioni economiche, piuttosto che alla “artificiosità” dello schema negoziale prescelto). Ed è, certamente, proprio il senso di “disequilibrio” che emerge da talune sentenze della Suprema Corte in quei settori in cui apparirebbe, invece, prioritario un iter argomentativo lineare e bilanciato. È estremamente significativo l’orientamento assunto dalla Cassazione in tema di garanzie procedimentali e processuali in cui emerge, nitidamente, che quando il termine di paragone, rispetto all’applicazione di altri principi, è l’abuso, quest’ultimo diviene spesso un “dogma” intoccabile, senza che il contribuente possa prevedere gli esiti del giudizio. È paradigmatico il fatto che sia stato rinviata alla Corte Costituzionale la questione della nullità degli avvisi di accertamento emanati ai sensi del 37-bis, D. P. R. 600/1973 avendo ritenuto la Suprema Corte irragionevole e contrastante con l’art. 53 della Costituzione, non il fatto che sia assente una espressa forma di contraddittorio per le operazioni abusive, ma che un avviso di accertamento sia dichiarato nullo se non preceduto dal contraddittorio nel 37-bis, D. P. R. 600/1973 (99). In sostanza, ciò che viene chiesto alla Corte Costituzionale è se la sanzione della nullità in mancanza di un contraddittorio sia “eccessiva” rispetto al principio di capacità contributiva (dal quale, per l’appunto, viene fatto discendere l’abuso) (100). Secondo la Cassazione, infatti, la regola contenuta nell’art. 37-bis sareb-

(99) Cass. 5 novembre 2013, n. 24739. Su tale sentenza vd., in particolare, le note critiche – e condivisibili – di G. Marino, Il principio del contraddittorio tra abuso di diritto, abuso di potere e diritto dell’Unione europea, in Giur. Comm, 2014, 570, nonché di A. Renda, Elusione e abuso del diritto: l’incidente della Cassazione sul diritto al contraddittorio preventivo, in Dir. prat. Trib., 2014, II, 395; G. Fransoni, La diversa disciplina procedimentale dell’elusione e dell’abuso del diritto: la Cassazione vede il problema, ma non trova la soluzione in questa rivista, 2014, II, 48. Su tali tematiche vd., in particolare, A. Contrino, Il divieto di abuso del diritto fiscale: profili evolutivi, (asseriti) fondamenti giuridici e connotati strutturali, op. cit. 483 ss.; M. Nussi, Abuso del diritto: profili sostanziali, procedimental-processuali e sanzionatori, in Giust. Trib., 2009, 323; E. Marello, Elusione fiscale e abuso del diritto: profili procedimentali e processuali, in Giur. It., 2010, 84. (100) Per ampie considerazioni sistematiche vd. G. Fransoni, Abuso ed elusione del diritto in Treccani – Il Libro dell’anno del diritto, op. cit.,407 ss.


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be “distonica rispetto al diritto vivente e creatrice di irragionevoli disparità di trattamento” giungendo ad affermare che la mancanza di contraddittorio costituisce una “mera formalità” in sede di accertamento (quando, peraltro, è facilmente riscontrabile nella prassi e sul piano pratico-applicativo che neppure la stessa Amministrazione finanziaria ritiene il contraddittorio una mera formalità, ma un fondamentale strumento di confronto, anche a garanzia degli interessi erariali). Come era prevedibile (ed auspicabile), la Corte Costituzionale (101) ha dichiarato non fondata la questione, enfatizzando la centralità del ruolo del contraddittorio, anche sulla spinta dei principi del diritto europeo e con ampi riferimenti alla giurisprudenza della stessa Suprema Corte. Al contrario, i Giudici di Legittimità avrebbero avuto l’occasione per fornire, definitivamente, un’interpretazione costituzionalmente orientata del contraddittorio, affermando che, secondo un giudizio di ragionevolezza, non sono ammesse distinzioni tra “elusione codificata” e abuso in termini di garanzie procedimentali e che, anzi, il contraddittorio deve essere la strada maestra per verificare la sussistenza o meno dei requisiti sostanziali dell’operazione abusiva. Parametrando tale ordinanza di rinvio al Giudice delle Leggi con i più recenti orientamenti proprio in tema di contraddittorio preventivo emerge, nitidamente, la irragionevole asserita superiorità assiologia dell’abuso rispetto ad altri valori dell’ordinamento. Oltre alla nota sentenza del 2009 (102) in tema di studi di settore ed accertamenti parametrici, basti citare la recente pronuncia, ancora a Sezioni Unite (103), che ha ritenuto addirittura nullo il provvedimento di iscrizione di ipoteca non preceduto dal relativo avviso di iscrizione pur in assenza di specifiche disposizioni normative, in quanto “il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell’e-

(101) Sent. 7 luglio 2015, n. 132 (102) Cass. SS. UU., 18 dicembre 2009, n. 26635, sulla quale sia consentito rinviare a F. Montanari, Un importante contributo delle Sezioni Unite verso la lenta affermazione del contraddittorio difensivo nel procedimento di accertamento tributario, in Riv. dir. Fin. Sc. Fin., 2010, II, 40, al quale si rinvia per ulteriori approfondimenti. (103) Cass. SS. UU., 18 settembre 2014 Sul punto vd., da ultimo, C. Scalinci, Lo Statuto e l’auretta dei principi che…in comincia a sussurrar: il contraddittorio preventivo per una tutela effettiva e un giusto procedimento partecipato in questa rivista, 2014, I, 883; A. Marcheselli, Il contraddittorio deve precedere ogni provvedimento tributario, in Corr. Trib., 2014, 3019.


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manazione di questo, realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’articolo 24 Cost., e il buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’articolo 97 Cost”. In altri termini, al di là del singolo caso specifico e del fatto che la stessa Suprema Corte (104) abbia recentemente stabilito che le garanzie procedimentali di cui all’art. 12, comma VII, dello Statuto dei diritti del contribuente debbano trovare applicazione anche quando venga contestata una operazione abusiva (105) – il ché, a dire il vero, appare scontato – ciò che non convince rimane sempre l’iter argomentativo e la continua (ingiustificata) tensione tra principi: in buona sostanza, la già richiamata “inadeguatezza” della decisione e l’assenza di criteri applicativi uniformi, sia sul versante sostanziale, sia procedimentale. Sono altrettanto significative in tal senso altre sentenze, da un lato, in tema di retroattività del principio antiabuso (106) e, dall’altro, sul piano processuale, della rilevabilità d’Ufficio delle condotte abusive. Sotto il primo profilo la Corte (107), con riferimento ad una tipologia di operazione societaria avvenuta nel 1999, ma ricondotta dal legislatore nell’ambito di operatività dell’art. 37-bis solamente molti anni dopo, ha ritenuto, comunque, censurabile tale operazione sulla base del principio anti abuso: quest’ultimo, infatti, legittimerebbe “il potere dell’amministrazione di contestare la deducibilità della componente passiva esposta dalla contribuente, ritenendola inopponibile, in forza del generale principio antielusivo immanente nell’ordinamento, e la cui fonte va rinvenuta nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, di cui all’art. 53 Cost., commi l e 2”.

(104) Cass. 14 gennaio 2015, n. 406. (105) Su tale specifico aspetto vd. le acute considerazioni di E. Marello, Elusione fiscale e abuso del diritto: profili procedimentali e processuali, op. cit. 90, che ha “anticipato” le conclusioni della Suprema Corte. (106) Su tale profilo vd., per ampie considerazioni sistematiche, vd. G. Marongiu, L’abuso del diritto nella legge di regsitro tra principi veri e principi asseriti, in Dir. prat. Trib., 2013, I, 361. (107) Cass. 16 febbraio 2012, n. 2193. Sul punto vd. le noe critiche di G. Marongiu, Abuso del diritto vs retroattività, in Rass. Trib., 2012, 1152; S. Dorigo, Il divieto di retroattivtà delle norme tributarie: spunti ricostruttivi a partire da una recente sentenza sull’abuso del diritto in questa rivista, 2013, II, 603 nonché, diffusamente e con riferimento anche ad altre fattispecie, C. Sallustio, Overruling e retroattività del principio dell’abuso del diritto, in Dir. prat. Trib., 2014, I, 527, il quale valorizza la mancanza di bilanciamento tra diversi valori e l’attribuita superiorità assiologica all’abuso.


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Anche in tal caso vengono totalmente superati altri principi generalmente riconosciuti – quali la tutela del legittimo affidamento e della buona fede, che, come noto, anche secondo la Corte di Giustizia, costituiscono un preciso limite alla retroattività (108) – senza che nella motivazione della sentenza emerga il benché minimo iter argomentativo circa le ragioni che hanno spinto i Giudici di Legittimità a trascurare tali principi e, quindi, a valutare solamente un aspetto “parziale” della vicenda. Assolutamente speculare – ed in talune sentenze, contigua – alla tematica della retroattività è quella della rilevabilità d’Ufficio dell’abuso in cui la giurisprudenza della Suprema Corte è a dir poco altalenante (109) e foriera di incertezze. Dopo le sentenze gemelle delle Sezioni Unite del 2008 che hanno sancito la rilevabilità d’Ufficio dell’abuso, si è assistito (e si assiste) ad un continuo mutamento di orientamenti. In alcuni casi, infatti, dando per scontata la priorità assoluta del contrasto all’abuso (110), è stato ribadita la posizione delle Sezioni Unite, mentre in altre pronunce tali principi sembravano essere stati superati, da un lato, perché l’ordinamento non consente “sentenze a sorpresa” (111), dall’altro, per il fatto che il mutamento del titolo della pretesa in corso di giudizio violerebbe l’obbligo di motivazione del provvedimento (112) e i principi in materia di onere probatorio (113). Anche qui emergono gravi carenze in termini di bilanciamento di valori e la discrezionalità giudiziaria prevale sui più basilari principi di civiltà giuridica (quali l’obbligo del giudice di indicare alle parti le questioni rilevabili d’uf-

(108) Su tali profili vd., oltre alla bibliografia già citata alla nota n. 55, da ultimo, D. Weber, T. Sirithaporn, Legal Certainty, Legitimate Expectations, Legislative Drafting, Harmonization and Legal Enforcement in EU Tax Law, in Aa.Vv., Principles of Law: Function, Status and Impact in EU Tax Law, op. cit., 235. (109) Su tali profili vd., da ultimo, G. Ragucci, Abuso del diritto e difesa del contribuente, in Aa.Vv. Atti della giornata di studi in onore di Gaspare Falsitta, op. cit., 463. (110) Cass. 11 maggio 2012, n. 7393; Cass. 21 marzo 2013, n. 7239; Cass. 8 ottobre 2014, n. 21190. (111) Cass. 19 ottobre 2012, n. 17949. (112) Cass. 4 aprile 2014. In realtà, tale sentenza appare, sul piano argomentativo, “sibillina” in quanto, nella motivazione, viene espressamente affermato che le “pratiche consistenti in abuso del diritto consentono al giudice tributario di utilizzare, anche d’ufficio, lo strumento dell’inopponibilità all’amministrazione anche per ogni altro profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda far discendere dall’operazione elusiva”. (113) Cass. 26 marzo 2014, n. 7056


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ficio delle quali ritiene opportuna la trattazione (114)) laddove, al contrario, la stessa Corte è monolitica nel sancire – quando non si controverte in tema di abuso – la nullità della sentenza per difetto di contraddittorio tra le parti. Mal si comprende, davvero, come il criterio della rilevabilità d’ufficio sia compatibile con la individuazione degli elementi strutturali delle fattispecie abusive, senza che il contribuente sia posto in grado di esplicitare le ragioni sottese alla operazione contestata da “calare”, necessariamente, nel singolo settore impositivo. Ancora, la Suprema Corte è altrettanto netta quando deve far prevalere l’abuso sul principio della stabilità del giudicato affermando che “le controversie in materia di IVA richiedono il rispetto di norme comunitarie imperative, la cui applicazione non può essere ostacolata dal carattere vincolante del giudicato nazionale, previsto dall’art. 2909 c.c., e dalla eventuale sua proiezione anche oltre il periodo di imposta che ne costituisce specifico oggetto, ove sia impedita la realizzazione del principio di contrasto dell›abuso del diritto, come strumento teso a garantire la piena applicazione del sistema armonizzato d›imposta” (115). Il problema rimane, tuttavia, quello della ricerca dell’equilibrio nella decisione in quanto, se è vero che occorre dare prevalenza ai principi europei, al tempo stesso si dovrebbero applicare tali conclusioni “a tutto tondo” e non solamente con riferimento allo strumento dell’abuso, senza appiattirsi su asserite esigenze di effettività nell’applicazione del diritto dell’Unione (116). D’altro canto, la stessa Corte di Giustizia (117), mitigando quanto già affermato nei propri precedenti e noti orientamenti (118), ha invitato gli Stati

(114) Art. 183 c.p.c. Su tali profili vd. G. Zoppini, Da mihi factum dabo tibi ius: note laterali sulle recenti sentenze delle Sezioni Unite in tema di abuso del diritto in questa rivista, 2009, I, 607. (115) Cass. 5 ottobre 2012, n. 16996; Cass. 5 novembre 2014, n. 23561. (116) Osserva autorevole dottrina che effettività nel senso di pura supremazia del diritto europeo ha “scarso significato perché non vi può essere un’applicazione (e, quindi, un riconoscimento) dell’enunciato al di fuori dell’esperienza giuridica dei singoli Stati. La singolarità dell’ordinamento europeo sta proprio qui, nel fatto di porsi come elemento essenziale di un amalgama che ciascuno Stato realizza nella sintesi con le regole di fonte interna”. N. Lipari, Il problema dell’effettività del diritto comunitario, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2009, I, 891. Sul punto vd. anche l’altrettanto autorevole ricostruzione di G. De Vergottini, Oltre il dialogo tra le Corti, Bologna, 2010, 69. (117) CGCE 10/07/2014, C-213/13. Su tali profili vd., da ultimo, V. Cerulli Irelli, Violazioni del diritto europeo e rimedi nazionali, in Riv. trim. dir. pubb., 2014, 657. (118) Per i precedenti orientamenti vd., in particolare, F. Tesauro, The Eu Prohibition


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membri ad applicare con molta cautela tali principi in quanto il diritto europeo non impone a un giudice nazionale di disapplicare norme nazionali che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto (ma potremmo aggiungere, con i principi generali dell’Unione (119)). In sostanza, ciò che la Corte chiede, anche espressamente, è una ponderazione tra diversi principi e valori (cioè quello della stabilità dei rapporti giuridici e della certezza del diritto e quello del primato del diritto dell’Unione europea) (120). In ultima analisi, ma non certamente per ordine di importanza, appare altrettanto priva di equilibrio la posizione assunta dalla Corte quando è stata chiamata a pronunciarsi sui rapporti tra diritto tributario internazionale e operazioni abusive (121), spingendosi a forzare le categorie convenzionali (nel caso di specie quella di “beneficiario effettivo”) sulla spinta del principio antiabuso. La Corte, infatti, in una complessa vicenda che riguardava la Convenzione contro le doppie imposizioni Italia – Inghilterra ha, in estrema sintesi, affermato che la nozione di “pagamento di dividendi”, al fine del rimborso, implica l’effettiva corresponsione degli stessi laddove, come noto, secondo l’art. 10 del Commentario OCSE “deve essere “attribuito un significato lato, che include le varie forme di soddisfacimento del diritto dell’azionista a percepire i dividendi”. Anche in tal caso, a prescindere dal fatto che l’operazione fosse, probabilmente, abusiva, emerge la più volte citata prevalenza assiologica dell’abuso

of Abuse of Law and the limits ofe the Principles of “External” Res Judicata in Conflict with European Law, in Aa.Vv., Legal Remedies in European Tax Law, a cura di P. Pistone, Amsterdam, 2009, 507; C. Consolo, Il percorso della Corte di Giustizia, la sentenza Olimpiclub, e gli eventuali limiti di diritto europeo all’efficacia esterna ultrannuale del giudicato tributario (davvero ridimensionato in funzione antielusiva Iva del divieto comunitario di abusi della libertà negoziale?, in questa rivista, 2010, I, 1143. (119) Tanto che la stessa Corte individua nei principi di effettività ed equivalenza “i controlimiti”. (120) È significativo, in tal senso che, al contrario, la Suprema Corte sia estremamente attenta a ponderare i diversi principi della stabilità del giudicato, della certezza del diritto ed, in generale, dei principi dell’unione quando non si verte in tema di abuso. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alle pronunce rese nell’ambito della rimessione in termini nel processo tributario. (121) Cass. 20 febbraio 2013, n. 4165 sulla quale vd. la nota critica di G. Zizzo, Brevi note sulla nozione di pagamento di dividendi nelle convenzioni contro le doppie imposizioni, in Rass. Trib., 2013, 675, il quale ritiene che “l’assillo dell’abuso continua a portare la Suprema Corte su sentieri impervi”.


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in un terreno – quello del diritto tributario internazionale – in cui appare largamente condiviso che i Trattati abbiano prevalenza su principi e categorie di matrice nazionale, essendo espressione della volontà degli Stati contraenti: ecco che, anche qui, emerge quel pericoloso fenomeno secondo cui il diritto giurisprudenziale diviene mera ricerca di giustizia caso per caso, invece che di uniformi criteri applicativi che possano realmente costituire il substrato del diritto vivente. 5. Conclusioni. – È noto che, negli ultimi anni, si sono susseguiti numerosi ed articolati tentativi di codificazione delle norme antiabuso, culminati con la più volte menzionata introduzione dell’art. 10-bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente. Il punto è che l’abuso del diritto, sul piano sostanziale, non pare utilmente codificabile: l’unica strada percorribile è quella di un significativo mutamento giurisprudenziale e, quindi, della individuazione di criteri applicativi razionali da parte della Suprema Corte, anche parametrati alle esigenze dei singoli settori impositivi (122). Il recente Decreto Legislativo 5 agosto 2015, n. 128 – che, come anticipato, ha introdotto una tipica clausola generale antiabuso/elusione – è proprio intitolato “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”. La volontà del governo è, infatti, quella di dare attuazione al “diritto dell’Unione europea in materia di abuso del diritto fiscale, dei principi costituzionali di eguaglianza, legalità, capacità contributiva e di certezza dei rapporti giuridici, nonché dei principi dello Statuto dei diritti del contribuente”. In particolare, nella nuova clausola generale, con formule necessariamente vaghe ed indeterminate (vd. retro, par. III), vengono stigmatizzate le operazioni “prive di sostanza economica”, la “non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”, i vantaggi fiscali indebiti “realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali e con i principi dell’ordinamento tributario”.

(122) Vd. Taluni riferimenti in tal senso, da ultimo, in D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, op. cit., 704 e ss.gg, nonché 713 ss. Per una analisi dell’art. 10bis vd., altresì, A. Contrino, A. Marcheselli, Luci e ombre nella struttura dell’abuso fiscale riformato, in Corr. Trib., 2015, 3869.


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Al tempo stesso, si esclude l’abusività della condotta se quest’ultima è caratterizzata “da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente” e, comunque, “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”. È chiaro che, se, da un lato, tali disposizioni non aggiungono (e non tolgono) nulla rispetto alla definizione di comportamento abusivo ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità – nonché, sostanzialmente, nella prassi europea ed internazionale – dall’altro, al tempo stesso, l’encomiabile intenzione del legislatore è quella di bilanciare le esigenze di contrasto all’abuso con la libertà di iniziativa economica. In altri termini, la funzione della novella, comune a qualunque clausola generale, è quella di fornire le linee guida per una applicazione prudente dell’abuso e bilanciata tra diversi valori ed esigenze dell’ordinamento. Il punto è che spetterà sempre alla giurisprudenza (ma anche all’Amministrazione finanziaria) la “concretizzazione” dei criteri individuati dal legislatore ed occorre constatare che la Suprema Corte, nel corso degli anni, ha perso l’occasione per imboccare la strada oggi segnata dal governo (vd. retro par. IV). In una nota ed ineccepibile sentenza (123), considerata un punto di svolta (124) nella giurisprudenza in tema di abuso, veniva affermato che “l’applicazione del principio dell’abuso del diritto deve essere guidata da una particolare cautela essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività di impresa”. Tuttavia, è proprio la mancata individuazione dei criteri per definire la menzionata “linea di confine” che caratterizza la giurisprudenza prevalente. Prova ne sia che il metodo argomentativo seguito in detta sentenza – la quale, in larga misura “rispecchia” ed anticipa le intenzioni del legislatore

(123) Cass. 21/01/2011, n. 1372. (124) Testualmente, M. Miccinesi, Riflessioni sull’abuso del diritto, in Aa.Vv., Studi in onore di Enrico De Mita, op. cit., 602. In termini analoghi M. Basilavecchia, L’autonomia contrattuale recupera sull’abuso del diritto, in Riv. giur. Trib. 2011, 285. Critico, invece, sul metodo argomentativo adottato dalla Corte D. Stevanato, Ancora un’accusa di elusione senza aggiramento dello spirito della legge, in Corr. Trib., 2011, 673.


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– è rimasto del tutto isolato per molti anni: infatti, tale pronuncia è stata pressoché ignorata dalla giurisprudenza successiva, in taluni casi utilizzata in obiter dictum solamente per “rafforzare” l’esistenza di un principio generale anti abuso ed, a volte, addirittura richiamata per enfatizzare un generale “obbligo di cautela” e di “prudenza” da parte del contribuente nelle scelte negoziali. È, infatti, agevole verificare, anche sul piano empirico, che sono assolutamente sporadiche ed isolate le sentenze di legittimità in cui, a chiare lettere, viene auspicato un utilizzo prudente e cauto dell’abuso del diritto, pur essendo significative in tal senso talune recenti pronunce che vanno nella direzione corretta e che fanno ben sperare per una radicale inversione di tendenza (125). In tale contesto, mal si comprende come la codificazione di una clausola generale possa ridurre la discrezionalità giudiziale ed amministrativa se l’abuso continua ad assumere una superiorità assiologica incontrastata rispetto a principi generalmente riconosciuti, anche di matrice europea ed internazionale (vd. retro par. IV). In altri termini, alla luce di quanto osservato sino ad ora, appare quanto mai illusorio e contrastante con la realtà che l’introduzione della suddetta clausola generale – che, ontologicamente, implica una sostanziale e radicale integrazione valutativa da parte del giudice – possa “invertire la tendenza” rispetto ad una applicazione “disequilibrata”, parziale ed irragionevole dell’abuso. In tale prospettiva è, quindi, da accogliere con favore l’espresso richiamo, contenuto nella relazione illustrativa agli schemi di decreti legislativi, alla menzionata sentenza 1372/2011: tale “inciso” sembra quasi “fungere da monito” alla Giurisprudenza di Legittimità per una applicazione cauta ed equilibrata dell’istituto. Sul piano processuale e procedimentale il “salto di qualità”, in termini di garanzie, è, invece, particolarmente rilevante, in quanto l’art. 10-bis, da un lato, prevede la possibilità per il contribuente di proporre una istanza di interpello e, dall’altro, sancisce, comunque, la nullità dei provvedimenti non

(125) In particolare, Cass. 14 gennaio 2015, n. 438, in Riv. giur. Trib., 2015, 501, con nota di D. Stevanato, Il disconoscimento del prezzo pagato per acquistare l’azienda e il paradosso dell’elusione senza aggiramento nella quale la Suprema Corte rinvia, espressamente, alla citata sentenza 1372/2011; Cass. 15 luglio 2015, n. 14761 la quale afferma, rinviando anch’essa agli sporadici precedenti in tal senso, che l’applicazione dell’abuso deve essere guidata da una particolare cautela.


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preceduti dal contradditorio endoprocedimentale nei casi in cui venga contestato un comportamento abusivo (126). Chiaramente, dovrebbero dirsi superati, definitivamente, gli orientamenti limitativi dell’obbligo del contraddittorio, e quelli che ammettono la rilevabilità d’Ufficio dell’abuso in linea, peraltro, con quegli orientamenti dottrinali che propendono per una codificazione sul versante della attuazione dei tributi, piuttosto che su quello sostanziale. Tuttavia, rimane, comunque, auspicabile, in seno alla giurisprudenza, un netto e radicale mutamento di prospettiva – soprattutto sul piano del corretto equilibrio tra diversi valori, nonché sul versante della individuazione dei criteri applicativi – in quanto, se la volontà rimane quella di dare prevalenza all’abuso, vi sarà sempre il rischio che vengano posti in essere tortuosi percorsi argomentativi per depotenziare anche le garanzie procedimentali.

Francesco Montanari

(126) Sul punto vd. A. Contrino, A. Marcheselli, Difesa nel procedimento e nel proceso dopo la reforma dell’abuso del Diritto, in Corr. Trib., 2015, 3896



L’incidenza della normativa in tema di aiuti di Stato sull’autonomia tributaria degli Stati membri alla luce del nuovo modello di finanziamento* Sommario: 1. Integrazione economica e decentramento fiscale. Aspetti dialettici. – 1.1. Premessa. – 1.2. (Segue) Il divieto di aiuti di Stato. Profili evolutivi e spunti meditativi. – 1.3. Fiscal Compact e Golden Rules. – 2. Gli aiuti di Stato. Il test di autonomia e la connotazione ‘simmetrica’ o ‘asimmetrica’ della struttura federalista interna. – 2.1. Aiuti di Stato ed aiuti illegittimi (cenni). – 2.2. Gli aiuti fiscali. – 2.3. I rapporti con il fenomeno agevolativo e con l’area della parafiscalità. – 2.4. Selettività territoriale e misure fiscali. – 2.5. Il divieto di aiuti di Stato quale strumento di contrasto alla concorrenza fiscale tra gli Stati membri. – 2.6. (Segue) Il collegamento con il nucleo deontologico e concettuale delle libertà di circolazione. – 3. Il decentamento fiscale nell’ordinamento nazionale (quadro di sintesi). – 4. (Segue) La centralità della fiscalità di sviluppo e della fiscalità di scopo nel sistema delineato dalla riforma. – 5. Spazi di autonomia ‘autodefiniti’ e vincoli ‘eterodeterminati’. L’autonomia finanziaria degli Enti territoriali nella prospettiva multilivello. Spunti ricostruttivi. –5.1. I vincoli derivanti in via immediata dal principio di incompatibilità. – 5.2. (Segue) I vincoli derivanti dall’interazione col principio di non discriminazione e dal contrasto alla Harmful Tax Competition. – 5.3. I limiti imposti dal Patto di Stabilità interno. Il sostanziale depotenziamento dell’autonomia finanziaria territoriale. – 6. Conclusioni Il definitivo consolidamento del mercato unico presuppone un intervento diretto delle istituzioni europee sui sistemi tributari degli Stati membri, teso a garantirne la tendenziale convergenza. Centrale, in tale prospettiva, lo spazio operativo offerto dalla normativa statal-ausiliativa nella sua progressiva ibridazione con il divieto di misure fiscali discriminatorie e con il divieto di attuazione di politiche fiscali scorrette. L’esercizio combinato dei poteri e delle competenze attribuiti in ordine a tali materie ha consentito l’affermazione di una fiscalità europea positiva, frammento dell’emergente competenza macroeconomica europea, cui è conseguito un significativo ridimensionamento della potestà tributaria nazionale, sia a livello centrale, che a livello territoriale.

(*) Lavoro sottoposto a revisione esterna.


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The ultimate enforcement of the single market implies a direct intervention of European Institutions, as to ensure a tendential alignment within Member States’ tax systems. In this perspective a consistent room for maneuver is offered by the Treaty provisions on State aid as gradually crossbred with the anti-discriminatory and anti-competitive provisions on internai taxation. The extensive use of the matching regulatory and executive powers allowed the emergence of a proper European Taxation, a feature of the rising European macro-economie regulatory power, which has induced a severe downsizing in both States’ fiscal sovereignty and local government’s financial authority.

1. Integrazione economica e decentramento fiscale. Aspetti dialettici. 1.1. Premessa. – La progressiva affermazione di una fiscalità europea costituisce senza dubbio la principale linea evolutiva dell’esperienza multilivello. Il definitivo consolidamento del mercato unico, assunto nella sua rinnovata declinazione sociale (1), sembra richiedere l’esercizio di un’azione conformativa diretta sulle fiscalità nazionali da parte delle istituzioni europee. Ciò implica la rottura degli schemi d’intervento tradizionali improntati al binomio competenza-attribuzione (2). Nei Trattati la fiscalità viene, infatti, delineata

(1) La c.d. leva fiscale costituisce il principale strumento di attuazione delle politiche sociali o, comunque, ispirate a valori solidaristici. Queste ultime, sono state oggetto di una crescente valorizzazione a livello europeo, conseguente al graduale consolidamento del paradigma della “economia sociale di mercato”, alla stregua del quale ogni intervento legislativo volto all’attuazione ed al consolidamento del mercato unico deve essere improntato all’imprescindibile considerazione e al rispetto delle contingenti (ed equiordinate) istanze sociali. L’impostazione rinviene la sua più compiuta espressione normativa nel ‘nuovo’ art. 3, paragrafo 3, TUE, nell’ambito del quale la nozione di ‘mercato unico’ – che pure permane come obiettivo dell’Unione – cede il passo alla precisa individuazione delle condizioni che la crescita economica deve rispettare. (2) L’ordinamento europeo difetta – nella sua attuale conformazione – di un autonomo sistema fiscale, inteso quale nucleo organico sovrapposto a quello degli Stati membri risultante dell’esercizio di una competenza normativa espressamente conferita (rectius, trasferita). I Trattati istitutivi, invero, non attribuiscono all’Unione competenze fiscali tali da legittimare le istituzioni all’introduzione e riscossione di forme impositive proprie; la fiscalità, nella sistematica pattizia, viene in rilievo nella sua dimensione macroeconomica, quale fenomeno potenzialmente distorsivo della naturale allocazione infra-europea dei fattori produttivi e matrice di ipotetici assetti discriminatori. Di qui, la formulazione di un espresso divieto di discriminazioni fiscali (artt. 110 e 111 TFUE). Nondimeno, l’area dei contegni rilevanti risulta circoscritta: i) all’applicazione diretta od indiretta ai prodotti degli altri Stati membri di imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari; ii) all’applicazione ai prodotti degli altri Stati membri di imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni; iii) all’applicazione ai prodotti esportati nel


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come entità ‘negativa’ esterna all’area delle competenze dell’Unione ordinata in via esclusiva al consolidamento del mercato comune. Le difficoltà insite nella modifica dei consolidati assetti competenziali pattizi hanno, così, indotto le istituzioni europee ad attuare la propria azione di coordinamento attraverso l’esercizio espansivo di competenze e poteri già espressamente attribuiti dai Trattati in relazione a distinti settori di intervento (3). Al di là delle criticità di ordine politico e propriamente internazionale connesse a una simile autopoiesi competenziale è evidente come tale approccio determini una inevitabile compressione della potestà impositiva degli Stati membri e delle relative autonomie territoriali (4). A tale livello, una particolare la vis conformativa è riferibile alla norma-

territorio di uno degli Stati membri di ristorni di imposizioni interne superiori alle imposizioni ad essi direttamente od indirettamente applicate. Ne è dipesa l’espressa delimitazione degli interventi di armonizzazione al settore dell’imposizione indiretta (art. 113 TFUE). A tal proposito, deve rammentarsi come l’esercizio di poteri normativi da parte dell’Unione sia vincolato al rispetto dei principi di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità (art. 5, parr. 3 e 4, TUE), in forza dei quali gli interventi volti al ravvicinamento delle legislazioni nazionali, anche quando ammessi, devono esplicarsi nei limiti dei poteri esplicitamente conferiti dai Trattati. La legittimità dell’intervento normativo unionale – lungi dall’essere immanente al perseguimento delle finalità integrative – presenta, dunque, un diretto collegamento con l’assetto competenziale pattizio. In generale, sulla rilevanza dell’assetto competenziale ai fini dell’attuazione dei meccanismi di ravvicinamento F. Gianassi, Il quadro concettuale e normativo degli strumenti comunitari del ‘ravvicinamento’, in Osservatoriosullefonti.it, fasc. 3/2012, 2 e ss. (3) Centrali, sotto tale aspetto, le disposizioni fiscali in materia di tutela del mercato unico (artt. 110 e 111 TFUE), come si avrà modo di chiarire più ampiamente nel proseguio del presente lavoro. (4) Il potere impositivo costituisce, invero, una componente essenziale della sovranità statale, giacché fonte di risorse finanziarie e strumento di politica economica. A una simile essenzialità “strategica” consegue la necessità di ancorare l’eventuale azione conformativa sovranazionale all’attribuzione di una specifica competenza normativa/di intervento o, quantomeno, di una equiordinata posizione assiologica del fenomeno fiscale che ne legittimi l’intervento alla stregua della c.d. clausola di flessibilità.


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tiva concorrenziale (5) e, segnatamente, alla disciplina statal-ausiliativa (6), connotata da una naturale interattività rispetto alle “strutture portanti” dei sistemi tributari nazionali (infra § 2.3.). 1.2. (Segue) Il divieto di aiuti di Stato. Profili evolutivi e spunti meditativi. – Può colpire, in prima approssimazione, l’apparente divergenza “dimensionale” dei due termini della relazione: spaccato minimo – ancorché significativo – del fervido filone normativo concorrenziale, il primo; complesso giuridico cardinale dell’ordinamento nazionale, il secondo. Il divario, nondimeno, risulta del tutto appianato, allorché le medesime entità vengano riguardate sotto il profilo dinamico-evolutivo. La nozione di aiuto delineata dall’art. 107 TFUE è stata, invero, oggetto di

(5) Inquadrabile nell’ambito della c.d. integrazione positiva (della quale costituisce una delle più rilevanti attuazioni), la disciplina della concorrenza si sostanzia in un complesso di norme volte ad attribuire alle istituzioni europee i poteri necessari ad assicurare la piena apertura e integrazione dei mercati attraverso l’eliminazione di eventuali, persistenti, distorsioni della concorrenza. Essa si articola in un complesso di divieti chiari e precisi indirizzati, sia alle imprese nazionali, che agli Stati membri. Sotto il primo profilo, vengono in rilievo: a) il divieto di intese recanti pregiudizio alla concorrenza (art. 101 TFUE); b) il divieto di abuso di posizione dominante (art. 102 TFUE); sotto il secondo profilo: a) i divieti di dazi doganali e di tasse ad effetto equivalente (art. 28 TFUE), di introduzione di ostacoli di natura fiscale (art. 110 TFUE), di restrizioni quantitative e di misure ad effetto equivalente (artt. 34 e 35 TFUE), posti a tutela della libera circolazione delle merci; b) i divieti di discriminazione posti a tutela della libertà di circolazione dei lavoratori (artt. 45-48 TFUE), della libertà di stabilimento (art. 49 TFUE) e della libera circolazione dei servizi (artt. 56 e 57 TFUE); c) il divieto di normative nazionali discriminatorie posto a tutela della libera circolazione dei capitali (art. 63 TFUE); d) il divieto di aiuti di Stato alle imprese (art. 107 TFUE). Nel contesto pattizio vigente – quale risultante dalle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona – la tutela della concorrenza non figura tra gli obiettivi dell’Unione (art. 3 TUE), mentre, invece, l’art. 3, TCE includeva tra le azioni della Comunità “un regime inteso a garantire che la concorrenza non fosse falsata nel mercato interno” (lett. g). Nondimento, la concorrenza è espressamente menzionata nel Protocollo n. 27 (“Sul mercato interno e sulla concorrenza”), ove si afferma che “il mercato interno ai sensi dell’art. 3 [TUE] comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata”. Nella medesima sede, viene altesì evidenziata la possibilità di ricorrere, a tali fini, all’adozione di misure ex art. 352 TFUE (c.d. clausola di flessibilità), il quale – come noto – consente al Consiglio, previa approvazione del Parlamento europeo, di adottare misure necessarie “per realizzare uno degli obiettivi di cui ai Trattati”, pur nel difetto di uno specifico potere d’azione. Nel senso che dal combinato disposto di tali disposizioni emerga il permanente inquadramento della concorrenza come ‘obiettivo’ dell’Unione, L. Daniele, Diritto del mercato unico europeo, Milano, 2012, 230. Per una diffusa analisi del ruolo della concorrenza nell’ambito della Comunità europea, si veda A. Frignani - P. Waelbroeck, Disciplina della concorrenza nella CE, Torino, 1996. (6) Artt. 107-109 TFUE.


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un progressivo ampliamento, complice il carattere “aperto” e polisemico del dato normativo. Al contempo, l’elevata attitudine conformativa del sistema di controllo delineato dal successivo art. 108 TFUE, ne ha favorito il collegamento funzionale con ulteriori nuclei normativi e con i relativi assetti competenziali. La disciplina statal-ausiliativa ha così assunto – a dispetto della sua apparente specificità – un’indubbia centralità nell’ambito dell’ordinamento unionale. Un passaggio essenziale della relativa ascesa operativa è stato rappresentato dalla elaborazione della nozione di ‘aiuto fiscale’, in rapporto di genere a specie con quella di ‘aiuto di Stato’, connotata da una fisiologica interattività rispetto all’azione di coordinamento delle politiche economiche nazionali. Presupposto logico della successiva “fusione” con il nucleo portante della costruzione europea (il sistema delle libertà di circolazione ed il divieto di discriminazioni), la nozione ha altresì agevolato il collegamento con una delle principali linee di sviluppo della assiologia integrativa: il contrasto alla Harmful Tax Competition. Un ampliamento operativo, cui è corrisposto un arricchimento sostrato ideologico, che ha contribuito ad individuare la normativa statal-ausiliativa come ideale referente positivo di ogni riflessione orientata alla ricostruzione della dialettica istituzionale e della ripartizione della potestà impositiva nell’attuale dinamica multilivello. L’intreccio nozionistico e pragmatico che ne discende, sebbene accattivante e di sicura utilità nella prospettiva dell’integrazione economica – calato nella dimensione nazionale – genera significative criticità. L’amplissima nozione di ‘aiuto’ – estesa a configurare una asistematica nozione di ‘aiuto fiscale discriminatorio’ (7) – costituisce, invero, un fattore di depotenziamento della potestà impositiva statale e della agognata autonomia tributaria degli Enti territoriali nazionali (8). 1.3. Fiscal Compact e Golden Rules. – Ulteriori e non meno penetranti vincoli discendono dalla recente costituzionalizzazione del principio dell’equilibrio di bilancio (9) attuativa degli impegni assunti nell’ambito del c.d.

(7) Infra § 6. (8) Infra, §§ 3 e 4. (9) Operata dalla Legge costituzionale n. 1 del 20 aprile 2012.


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Fiscal compact (10). Sintesi e riaffermazione di interventi precedenti, adottati nel quadro della c.d. normativa europea di bilancio inaugurata dal Patto di Stabilità e Crescita (11), l’accordo (12) attesta un crescente coordinamento

(10) Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’Unione economica e monetaria, approvato con un trattato internazionale il 2 marzo 2012 da 25 dei 28 Stati membri dell’Unione europea (non è stato sottoscritto da Regno Unito, Croazia e Repubblica Ceca), entrato in vigore il 1º gennaio 2013. (11) Reg. CE n. 1466/1977. È noto come l’esigenza di coordinamento delle politiche di bilancio in ambito europeo avesse condotto alla definizione di ‘parametri di accesso’ al processo di unificazione monetaria (i c.d. criteri di convergenza fissati dal Trattato di Maastricht), oggetto di reiterata affermazione nell’ambito dei provvedimenti adottati, a partire dagli anni Novanta, nel quadro della c.d. governance economica e fiscale europea. Un ruolo fondamentale nella progressiva delineazione di una politica economica e di bilancio unitaria dell’Eurozona deve, in particolare riferirsi: 1) al Patto di Stabilità e Crescita, intervenuto a delineare, in attuazione degli artt. 121 e 126 TFUE, i limiti di manovra degli Stati membri in materia di programmazione, risultati e azioni di risanamento, con contestuale rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit e sui i debiti pubblici, anche attraverso l’introduzione di una specifica procedura di infrazione (c.d. procedura per deficit eccessivo). Nel corso degli anni, ciascuno Stato ha implementato internamente il Patto di Stabilità seguendo criteri e regole proprie, in accordo con la normativa interna inerente alla gestione delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo. In particolare, l’Italia ha formulato, con cadenza annuale, a partire dal 1999, un proprio Patto di Stabilità interno, elaborato in sede di predisposizione ed approvazione della c.d. manovra di finanza pubblica, recante l’individuazione degli obiettivi programmatici per gli Enti territoriali ed i corrispondenti risultati; 2) al Patto Euro-plus e alle c.d. misure anticrisi (Meccanismo europeo di Stabilità, Fondo europeo di Stabilità). Il primo – pur connotandosi in ragione del sensibile irrigidimento dei meccanismi di coordinamento preventivo e del relativo corredo sanzionatorio – si inserisce nel solco precedentemente tracciato dal Patto di Stabilità e crescita; le seconde, invece, risultano orientate al (complementare) sostenimento delle economie nazionali in crisi, al fine di garantire la stabilità dell’Eurozona. (12) Si tratta di un vero e proprio accordo internazionale, formalmente esterno all’ordinamento europeo, ma a esso idealmente collegato. Costituisce il rafforzamento e la riproposizione di principi già enunciati nell’ambito del c.d. Six Pack (i Regolamenti del 16 novembre 2011, nn. 1173 e 1174, in materia di sanzioni e ammende; n. 1175, di modifica del Reg. 1466/97/CE; n. 1176, avente ad oggetto il c.d. meccanismo di allerta e quadro di valutazione; n. 1177, di modifica del Reg.1467/97/CE; la Direttiva dell’8 novembre 2011, n. 85, recante l’individuazione delle regole di bilancio degli Stati nazionali) già intervenuto a ridefinire la disciplina della governance economica europea. Evoluzione dell’originario Patto di Stabilità, ha istituito un sistema di controllo europeo preventivo sulla finanza degli Stati membri, orientato all’individuazione degli squilibri macroeconomici più evidenti. Il complesso normativo, pur confermando l’obiettivo di bilancio medio-termine quale vincolo per gli Stati dell’Eurozona ha modificato la procedura di controllo ed il contenuto dei relativi piani di stabilità, imponendone la presentazione entro un termine ‘anticipato’ ed improntandone la valutazione a due essenziali criteri: i) uno ‘ordinario’ costituito da un miglioramento annuale del deficit di bilancio, pari ad almeno lo 0,5% del PIL; ii) uno ‘speciale’ per gli Stati con un livello di indebitamento superiore al 60% del PIL, tenuti a garantire una diminuzione superiore allo 0,5%. Oggetto del vincolo


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dell’Unione sulle politiche economiche nazionali attraverso l’enucleazione di vere e proprie regole di funzionamento della finanza pubblica (c.d. Golden Rules) (13), implicanti l’attuazione di cadenzati percorsi istituzionali, al cui disattendimento consegue l’irrogazione di sanzioni automatiche. Un sistema di vincoli, che se da un lato rappresenta un’opportunità per gli Stati aderenti (14), dall’altro implica una erosione della sovranità fiscale, determinando una corrispondente (e surrettizia) compressione della rilevanza del dibattito parlamentare interno (necessariamente confermativo di decisioni assunte esternamente (15)), inevitabilmente riverberando sugli (autonomi) assetti istituzionali e finanziari dei livelli di Governo infrastatuali (16). Il fenomeno, dunque, coinvolge ed interessa anche gli Enti autonomi sub-statali, espressamente chiamati dallo Stato centrale a concorrere – sia a livello deontico, che a livello strettamente finanziario – al rispetto di tali parametri. Il ‘nuovo’ articolo 119 Cost. (17), precisa che l’autonomia finanziaria degli Enti territoriali è assicurata “nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci”, essendo i medesimi

restano, dunque, i saldi di bilancio; ne consegue che l’eventuale maggiore crescita della spesa rispetto al parametro di riferimento non implica un automatico disallineamento rispetto ai parametri, ben potendo risultare compensata da un contestuale aumento delle entrate obbligatorie. Nondimeno, gli ulteriori parametri valutativi (quali, ad esempio, il tasso di crescita annuo della spesa pubblica, la riforma delle pensioni, l’adozione di importanti riforme strutturali con effetti positivi lungo-termine) presentano una indubbia incidenza sulle scelte allocative e redistributive degli Stati. (13) Le quali si sostanziano nei seguenti parametri: i) il deficit strutturale non deve superare lo 0,5% del PIL; ii) per i Paesi il cui debito pubblico è inferiore al 60% del PIL il rapporto è elevato all’1%; iii) il deficit pubblico, come previsto dal Patto di stabilità, dovrà essere mantenuto al di sotto della soglia del 3% rispetto al PIL; al superamento di tale soglia scatteranno sanzioni automatiche; iv) gli Stati con un debito pubblico superiore al 60% del PIL hanno l’obbligo di rientrare entro tale soglia nell’arco di venti anni ad un ritmo pari ad un ventesimo dell’eccedenza in ciascuna annualità; v) ogni Stato membro deve garantire le correzioni automatiche della finanza pubblica qualora non raggiunga gli obiettivi di bilancio concordati; (14) Di questo avviso, G. Bizioli, La disciplina europea della finanza pubblica. Origine, evoluzione e crisi del Patto europeo di Stabilità e Crescita, cit., 135. (15) G. Bizioli, op. loc. ult. cit., il quale rileva la spiccata incidenza dell’azione europea in materia di politica economica nazionale sulla stessa posizione istituzionale dei Parlamenti nazionali, la cui originaria funzione decisionale assumerebbe – quanto al profilo considerato – la consistenza di un mero ‘passaggio integrativo formale’, orientato al recepimento di determinazioni eteronome (funzione di c.d. rubber stamp). (16) In questo senso, F. Gallo, Profili finanziari del regionalismo differenziato, Lectio Magistralis tenuta in occasione dei cinquant’anni di specialità (31 gennaio 1963-31 gennaio 2013) della Regione Autonoma del Friuli-Venezia Giulia, tenutasi a Trieste il 31 gennaio 2013, 13 disponibile sul sito www.cortecostituzionale.it. (17) Nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla l. cost. n. 1/2012.


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tenuti – quali articolazioni territoriali degli Stati membri – “all’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione”. Contestualmente, la Legge 24 dicembre 2012, n. 243 – adottata in attuazione del ‘nuovo’ art. 81 Cost. (18) – è intervenuta a declinare concretamente, con specifico riferimento agli Enti territoriali il paradigma dell’equilibrio di bilancio, precisando i termini del relativo ricorso all’indebitamento e definendo le modalità del relativo concorso alla sostenibilità del debito pubblico. La connessione strutturale tra fiscalità locale e funzioni amministrative indotta dalla ormai risalente redistribuzione delle competenze amministrative di Regioni ed Enti locali, secondo una logica ‘discendente’ e ‘federalista’ (19), unitamente alla centralità riferita all’imposizione di scopo nell’ambito del c.d. federalismo municipale (infra § 4) rende evidente come il rispetto di tali criteri induca una ulteriore compressione dell’autonomia finanziaria degli Enti territoriali, che – sommata ai vincoli propriamente normativi derivanti dalla disciplina concorrenziale – vale a restringerne l’ambito esplicativo entro confini alquanto ridotti (infra § 5). 2. Gli aiuti di Stato. Il test di autonomia e la connotazione ‘simmetrica’ o ‘asimmetrica’ della struttura federalista interna. 2.1. Aiuti di Stato ed aiuti illegittimi (cenni). – La disciplina in materia di

(18) Ai sensi del quale “lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali. Ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte. Le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale”. (19) Il riferimento è alla Legge delega 15 marzo 1997, n. 59 ed ai relativi decreti delegati (in particolare, il DPR n. 112 del 1998). L’impostazione è stata, in seguito, pienamente confermata dalla riforma del Titolo V, coerentemente intervenuta a modificare il testo dell’art. 118 Cost, che nella sua attuale formulazione dispone: “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.”


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aiuti di Stato rappresenta uno dei principali strumenti di attuazione del processo di integrazione economica europea, nell’ambito del quale si inserisce quale ‘versante pubblicistico’ del complesso normativo volto a tutelare il libero dispiegarsi della concorrenza in vista del consolidamento del mercato unico. In funzione di tali obiettivi, la normativa pattizia sancisce l’incompatibilità con il mercato interno degli aiuti concessi, sotto qualsiasi forma, dagli Stati, ovvero, mediante risorse statali, che favorendo talune imprese o produzioni falsino o minaccino di falsare la concorrenza, incidendo sugli scambi tra Stati membri, salvo deroghe contemplate dai Trattati medesimi (paragrafo 1 dell’art. 107 TFUE). La disposizione – volutamente formulata in termini ‘aperti’ e ‘flessibili’ (20) – postula il costante riferimento ad elementi ulteriori ed esterni rispetto ai Trattati e, segnatamente, agli orientamenti assunti dalla Corte di Giustizia e dalla Commissione nell’esercizio delle rispettive funzioni di controllo (art. 108 TFUE). A queste ultime risulta, dunque, concretamente demandato il compito di stabilire la precisa valenza semantica delle categorie concettuali evocate dalla norma (il ‘trasferimento di risorse statali’, il ‘vantaggio economico’, ecc.). L’approccio marcatamente economico assunto dalla istituzioni sovranazionali – teso a valorizzare la sussistenza degli elementi strutturali indipendentemente dalle eventuali finalità extrafiscali sottese all’adozione della misura ausiliativa – ha comportato un progressivo ampliamento della nozione di aiuto, estesa a ricomprendere il modulo tipico di attuazione delle politiche di sviluppo e promozione allocativa (l’incentivo economico (21)) co-essenziali ai moderni sistemi di Welfare (22). Nondimeno, il principio di incompatibilità non costituisce un assioma inderogabile. Occorre, invero, tenere distinte – sia a livello logico, che operativo – le nozioni di ‘aiuto di Stato’ e di ‘aiuto illegittimo’. La prima interviene ad isolare, nell’ambito dei multiformi assetti partenariali, un particolare modulo relazionale (di per sé legittimo), potenzialmente incidente sul mercato interno. L’eventuale rispondenza strutturale all’archetipo delineato dal paragrafo 1

(20) Supra §1.2. (21) In questo senso, Del Monte, voce Incentivi economici, in Enc. giur. Treccani, disponibile su www.treccani.it (22) I quali presuppongono (rectius, esigono) un intervento attivo statale nell’economia di mercato, orientato a modificarne in modo deliberato e regolamentato gli assetti distributivi (produttivi e reddituali).


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dell’art. 107 TFUE determina, dunque, di per sé, una mera esigenza di monitoraggio della misura. La relativa legittimità dovrà, invece, valutarsi alla stregua di ulteriori disposizioni, apparentemente volte a regolare aspetti strettamente operativi, eppure, dotate di una indubbia efficacia discriminante (e, dunque, sostanziale). Il riferimento è alle deroghe e alle eccezioni disciplinate dai successivi paragrafi dell’art. 107 TFUE i quali intervengono a sancire – rispettivamente – l’automatica e la potenziale compatibilità con il mercato interno di talune categorie e tipologie di ‘aiuti’ (23), tendenzialmente coincidenti con l’area degli interventi di sostegno settoriale e territoriale. Particolare rilievo assume, inoltre, la poderosa opera di codificazione degli aiuti (automaticamente) compatibili (24) (25) intrapresa dalle istituzioni europee attraverso i c.d. regolamenti di esenzione (26). La legittimità della misura deve, infine, valutarsi in funzione degli obblighi procedurali imposti dalla normativa statal-ausiliativa a presidio della

(23) Le ordinarie dinamiche concorrenziali, del resto, non sempre garantiscono la creazione di assetti economici equilibrati. Osserva M. Pellecchia, I servizi di interesse economico generale, in Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di L. Salvini, Padova, 2007, 245, come il libero operare degli spontanei meccanismi concorrenziali possa esasperare il divario strutturale di talune imprese od aree (deboli, eppure, nevralgiche), danneggiando la complessiva economia nazionale. La consapevolezza di tali dinamiche ha indotto l’introduzione di un sistema di deroghe abilitante la creazione delle condizioni necessarie al ‘competitivo’ ingresso di taluni soggetti nel mercato unico, escludendo – al contempo – che l’adozione di tali misure fosse interamente demandata ad autonome ed unilaterali determinazioni degli Stati membri. In questo senso, U. Leanza, Aiuti concessi dagli Stati. Art. 92 del trattato istitutivo della Cee, cit., 731. (24) Di “poderosa opera di codificazione degli aiuti”, discorre R. Miceli, La metamorfosi degli aiuti di Stato nella materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2015, I, 31 e ss. (25) Tale processo di ‘codificazione’ trova la sua più recente espressione nel regolamento della Commissione n. 651/2014 del 17 giugno 2014, il cui art. 1 sancisce la compatibilità con il mercato europeo degli aiuti: i) agli investimenti e all’occupazione in favore delle PMI e delle piccole imprese di recente costituzione a partecipazione femminile; ii) per la tutela ambientale; iii) alle PMI che consentano loro di beneficiare di servizi di consulenza e di partecipare a fiere; iv) sotto forma di capitale di rischio; v) a favore di ricerca, sviluppo e innovazione; vi) alla formazione; vii) in favore dei lavoratori svantaggiati e disabili. (26) Trattasi dei regolamenti emanati dal Consiglio ai sensi dell’art. 109 TFUE, recanti l’individuazione delle categorie di aiuti compatibili e, quindi, esentate dall’obbligo di notifica (art. 108 TFUE). Di particolare interesse, nella prospettiva considerata, la stabilizzazione della deroga in favore delle misure di sostegno dirette ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse (cfr. Regolamento della Commissione, 24 ottobre 2006 n. 1628/2006 “sull’applicazione degli articoli 92 e 93 del trattato che istituisce la Comunità europea agli aiuti di Stato per investimenti a finalità regionale”).


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effettività della procedura di controllo (art. 108 TFUE) (27), il cui nucleo caratterizzante deve individuarsi nella posizione – in capo agli Stati membri – di due distinti obblighi: uno a contenuto positivo (obbligo di notitifica) (28) ed uno a contenuto negativo (obbligo di standstill) (29). 2.2. Gli aiuti fiscali. – È evidente che l’acritica trasposizione di tali paradigmi all’area tributaria renderebbe materialmente impossibile il ricorso alla c.d. leva fiscale finalizzato al sostegno degli operatori nazionali (30). Particolarmente critici, sotto tale aspetto, i fenomeni di interferenza indotti dalla accezione eminentemente economica degli elementi del ‘beneficio’ (31) e della ‘incidenza sul commercio dell’Unione’ emergenti dalla prassi

(27) Il sistema di controlli approntato dal Trattato è informato al binomio aiuti nuoviaiuti esistenti. Questi ultimi sono rappresentati dal complesso delle misure di favore istituite ed erogate prima dell’entrata in vigore dei Trattati, in relazione alle quali la Commissione opera un controllo successivo e permenente. L’eliminazione di tali misure, tuttavia, non configura una conseguenza automatica dell’entrata in vigore dei Trattati, essendo rimessa ad una espressa decisione della Commissione. In difetto, ovvero, nelle more della medesima gli aiuti esistenti conservano provvisoriamente la propria efficacia; di qui, l’inoperatività dell’obbligo di standstill e la possibilità, per lo Stato membro, di proseguire l’erogazione degli aiuti esistenti sino a quando non ne venga formalmente accertata l’incompatibilità (Corte di Giustizia, 30 giugno 1992, causa C-47/91, Commissione c. Italia). (28) Alla stregua del quale gli Stati membri sono tenuti a notificare alla Commissione i progetti istituivi di aiuti nuovi o modificativi di aiuti esistenti. La relativa inosservanza: 1. legittima la Commissione a promuovere il procedimento di infrazione (art. 258 TFUE); 2. implica l’inquadramento della misura non notificata come “aiuto illegale” suscettibile di recupero. (29) Il quale costituisce una declinazione deontologica dell’effetto sospensivo della notifica, a seguito della quale l’adozione, ovvero, l’erogazione della misura resta sospesa sino alla conclusione della procedura di controllo. Gli eventuali atti di esecuzione emanati prima della decisione finale della Commissione sono radicalmente illegittimi, indipendentemente dagli esiti del controllo e le misure sovventive (illegittimamente) erogate durante il periodo di sospensione sono passibili di recupero presso i beneficiari. (30) Un parziale contemperamento è, tuttavia, introdotto dal binomio operativo ‘aiuti di Stato’ – ‘aiuti illegittimi’, alla stregua del quale è dato configurare – accanto agli ‘aiuti fiscali illegittimi’ – degli ‘aiuti fiscali compatibili’ espressione di una iniziativa pubblica attuativa di prerogative sovrane. Del resto, l’assoggettamento di un’impresa ad un differente (e più favorevole) statuto fiscale ben può essere sorretto da ragioni di natura oggettiva ed economica; cosicché il trasferimento di risorse in favore di imprese senza contropartita, ovvero, con una contropartita anomala rispetto ai livelli di mercato, configura necessariamente una forma di ‘aiuto’, un simile automatismo non può predicarsi con riguardo alle ipotesi di rinuncia totale o parziale alla percezione di tributi normalmente dovuti. In questo senso, P. Laroma Jezzi, Principi tributari nazionali e controllo sopranazionale sugli aiuti fiscali, in Riv. it. Dir. pubbl. comp., 2004, 103. (31) A tale livello, le istituzioni europee hanno tradizionalmente assunto la piena equi-


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e dal diritto derivato sovranazionale (32).

valenza tra la diminuzione del gettito fiscale (spesa fiscale) e il consumo attivo di risorse statali, indipendentemente dalla connotazione formale (legislativa, regolamentare, amministrativa) delle relative disposizioni istitutive (cfr. Commissione COM 98/C 384/03 del 10 dicembre 1998 sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese, lett. B, punto 1). Per quanto attiene, in particolare, la prassi dell’Amministrazione finanziaria (administrative rulings), possono ricondursi all’area delle misure sovventive rilevanti unicamente le prassi discrezionali che esulino dalla mera gestione del gettito fiscale, consentendo uno scostamento ingiustificato rispetto al regime fiscale ordinario riferibile ad una data impresa/ produzione. Al contrario devono ritenersi tendenzialmente compatibili con l’ordinamento europeo le prassi amministrative fondate su valutazioni specifiche improntate a criteri obiettivi (natura dei beni impiegati, rischio connesso all’esercizio dell’attività di riferimento) che assicurino un livello minimo di trasparenza (Corte di Giustizia, 26 settembre 1996, causa C-241/94, Francia c. Commissione). Per un approfondimento in ordine a tali aspetti si veda F. Rasi, I confini della nozione, in Aa.Vv., Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di L. Salvini, Padova, 2007, 65-67. (32) L’attitudine distorsiva della misura – secondo il costante indirizzo delle istituzioni europee – si pone quale inesorabile evenienza della destinazione dell’attività economica svolta dal beneficiario ad un mercato aperto agli scambi tra gli Stati membri, indipendentemente dalle peculiarità riferibili alla singola misura, quali la particolare esiguità dell’importo (ad eccezione delle misure ascrivibili alla categoria degli aiuti c.d. de minimis), ovvero, alla struttura organizzativa e alle politiche commerciali del beneficiario (le modeste dimensioni dell’impresa beneficiaria o della sua quota sul mercato europeo (cfr. Corte di Giustizia, 14 settembre 1994, cause riunite C-278/92, C-279/92 e C-280/92, Spagna c. Commissione), l’assenza di attività di esportazione (Corte di Giustizia, 13 luglio 1988, causa C-102/87, Francia c. Commissione), ovvero, l’integrale destinazione extra-europea dell’attività di esportazione (Corte di Giustizia, 21 marzo 1990, causa C-142/87, Belgio c. Commissione). Non assumono, del pari, alcun rilievo lo statuto giuridico e le modalità di finanziamento del beneficiario, così ricadendo nell’ambito di operatività del divieto le misure fiscali indirizzate al sostegno di qualsiasi attività economica, ivi comprese le attività artistiche e di tipo professionale (Corte di Giustizia, 26 marzo 1987, causa C-235/85, Commissione c. Paesi Bassi, conf. 16 giugno 1987, causa C-118/85, Commissione c. Italia10 gennaio 2006, causa C-222/04, Ministero dell’Economia c. Cassa di risparmio di Firenze e altri). La nozione di impresa assunta a livello europeo presenta, invero, margini nettamente più ampi rispetto a quella assunta a livello nazionale. Per un approfondimento in ordine alla nozione di impresa rilevante ai fini delle imposte sui redditi si rinvia a Gallo, I soggetti del libro primo del codice civile e l’Irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, in Riv. dir. trib., 1993, I, 345 e ss., Fantozzi, Imprenditore e impresa nelle imposte sui redditi e nell’IVA, Milano, 1982). Mentre quest’ultima è incentrata sulla ‘economicità della gestione’, l’unico dato rilevante nella prospettiva europea è rappresentato dalla ‘destinazione al mercato’ (Corte di Giustizia, 11 luglio 2006, causa C- 205/03, Federación Española de Empresas de Tecnología Sanitaria (FENIN) c. Commissione). Ben potrebbero, dunque, essere dichiarate incompatibili misure ausiliative disposte in favore di soggetti che nell’ordinamento interno non sono inquadrati come ‘imprenditori’, id est, lavoratori autonomi, organizzazioni non lucrative (come rileva F. Amatucci, Identificazione dell’attività d’impresa ai fini fiscali in ambito comunitario, in Riv. dir. trib., 2009, I, 781). La discrasia tra la nozione europea di impresa e quella domestica è all base della nota vicenda delle agevolazioni concesse dal legislatore italiano alle fondazioni bacarie (Corte di Giustizia, 10 gennaio 2006, causa C-222/04, Ministero dell’Economia c. Cassa di risparmio di


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La consapevolezza di tali dinamiche ha indotto le istituzioni europee ad individuare uno specifico criterio direttivo (c.d. di normalità), in conformità al quale le misure di sostegno necessarie o, comunque, giustificabili alla luce della complessiva economia del sistema fiscale di afferenza non configurano ‘aiuti illegittimi’ (33). Per tale via, l’operatività del divieto risulta opportunamente circoscritta alle disposizioni istitutive di trattamenti differenziati eccezionali (34), consentendo una parziale modulazione soggettiva e settoriale del prelievo. L’approccio trova conferma nella peculiare articolazione del requisito della selettività (35), connotato da un più intenso collegamento con l’elemento del ‘vantaggio’, che ne conferma l’intimo collegamento con la nozione di ‘misure fiscali generali’. Ricorre, segnatamente, la parziale ‘disapplicazione’ degli ordinari paradigmi della selettività materiale e della selettività soggettiva, a vantaggio di valutazioni dal chiaro sentore sistematico, articolate lungo la linea di frattura della struttura multilivello. La limitazione soggettiva, ovvero, oggettiva dell’ambito di applicazione della misura rileva, infatti, unicamente qualora l’esonero (totale o parziale) dagli ordinari oneri impositivi non possa giustificarsi in funzione della natura o della struttura del sistema tributario interno (36). In altri termini, il carattere selettivo della misura, non ne implica l’automatica incompatibilità con il mercato interno, non potendosi attribuire una valenza distorsiva a misure che – ancorché derogatorie – siano coeren-

Firenze e altri), per una diffusa ricostruzione delle quali si rinvia a Gallo, Fondazioni e fisco, in Rass. trib., 2004, 1159 e ss., Del Federico, La Corte di Giustizia chiamata a pronunciarsi sulle agevolazioni per i redditi delle fondazioni bancarie, in Riv. dir. trib., 2004, 574 e ss., F. Amatucci, I requisiti di ‘non commercialità’ dell’attività svolta dalle fondazioni bancarie per il riconoscimento delle agevolazioni fiscali, in Rass. trib., 2006, 134 e ss., L. Perrone, Le vicende delle agevolazioni tributarie sul reddito delle fondazioni di origine bancaria, in Rass. trib., 2010, 25 e ss., F. Racioppi, Principali tipologie di aiuti fiscali, in Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di L. Salvini, Padova, 2007, 430 e ss. (33) Il paradigma presenta una valenza eminentemente oggettiva, essendo l’ordinarietà del trattamento valutata in funzione della ragionevole compatibilità con gli oneri fiscali normalmente gravanti sul bilancio delle imprese, da determinarsi in funzione del complesso delle misure fiscali generali (cfr. Commissione, COM 98/C 384/03 cit.). (34) In questo senso, F. Fichera, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 1998, 107. (35) Per ‘selettività’ deve intendersi la “delimitazione dell’ambito di applicazione della normativa istitutiva del beneficio in relazione ad elementi fortemente caratterizzanti”, quali l’ambito territoriale, il settore di attività, il tipo di produzione, le dimensioni dell’impresa (Fontana, Gli aiuti di Stato di natura fiscale, Torino, 2012, 101). (36) Corte di Giustizia, 2 luglio 1974, causa C-173/73, Italia c. Commissione.


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ti (37) con i principi generali del sistema tributario interno (self-standing) (38). Cosicché l’inquadramento delle misure fiscali postula l’individuazione del sistema tributario di riferimento (il quale può anche essere rappresentato da uno spazio territoriale autonomo (39)) e dei relativi principi fondamentali. In tale prospettiva, l’introduzione misure fiscali selettive può risultare legittima anche nella specifica prospettiva concorrenziale, purché l’attribuzione del beneficio non trasmodi nell’asservimento logico e funzionale del sistema alle esigenze di una singola impresa, ovvero, di un determinato settore (40). 2.3. I rapporti con il fenomeno agevolativo e con l’area della parafiscalità. – Il collegamento ideologico e strutturale tra normative fiscali derogatorie e distorsione degli equilibri concorrenziali comporta l’assimilazione del fenomeno agevolativo a quello propriamente sovventivo. L’introduzione di regimi agevolativi, implicando la sottoposizione di taluni soggetti ad un trattamento fiscale differenziato e meno incisivo, si risolve, invero, in una di una spesa fiscale (41) tendenzialmente incompatibile con il mercato unico (42).

(37) L’individuazione della ‘logica del sistema’ e la materiale valutazione del grado di ‘coerenza’ delle misure fiscali di vantaggio sono al centro dell’indagine di P. Nicolaides (Fiscal aid in the EU: the Limits of Tax Autonomy, in World Competition, 2004, Kluver Law International, 27, 364 e ss), che ha elaborato un vero e proprio test, articolato secondo un efficace percorso logico-grafico. Per un approfondimento, sul punto, si veda G. Caputi, Le misure fiscali coerenti: un’applicazione pratica del test di P. Nicolaides sulla coerenza della misura nella logica del sistema, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009, 715 e ss. (38) In questo senso, M. Laroma Jezzi, Principi tributari nazionali e controllo sopranazionale sugli aiuti fiscali, cit., 108. (39) Infra § 2.4. (40) M. Laroma Jezzi, op. loc. ult. cit. (41) In questo senso, S. La Rosa, Le agevolazioni tributarie, in Trattato di diritto tributario, diretto da A. Amatucci, Padova, 1994, 409 e ss. (42) Nondimeno, deve escludersi una piena coincidenza delle nozioni di ‘agevolazione fiscale’ e ‘aiuto fiscale’, parzialmente divergenti sotto il profilo strutturale. Segnatamente, mentre le misure agevolative devono necessariamente essere disciplinate, nei loro aspetti essenziali, dalla normativa primaria (F. Batistoni Ferrara voce Agevolazioni ed esenzioni fiscali, in Dizionario di dir. pubbl., a cura di S. Cassese, Milano, 2006, 179 e ss.), gli aiuti fiscali possono essere integrati anche da misure istituite dalla normativa secondaria (riduzioni di aliquota, crediti d’imposta, ecc., cfr. S. Fiorentino, Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, in Aa.Vv., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009, 400), ovvero, da provvedimenti amministrativi e da atti di diritto privato (M. Basilavecchia, Agevolazioni, esenzioni ed esclusioni, in Rass. trib., 2002, 437). Diverso è, inoltre, l’ambito di rilevanza soggettiva delle due figure, giacché nella prospettiva europea vengono in rilievo unicamente le


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Nondimeno, si è avuto modo di chiarire (43), come l’apprezzamento della ‘distorsione’, ovvero, della ‘alterazione’ concorrenziale’ debba essere improntato a canoni di prevedibilità e ordinarietà economica. La deviazione rispetto al regime generale viene, dunque, in rilievo, non ex se, ma in ragione della distonia rispetto alle logiche tipiche del sistema di riferimento (imprevedibilità). Le misure fiscali sottrattive (deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta, ecc.), infatti, non presentano una necessaria connotazione agevolativa (perseguimento di finalità extrafiscali) (44), ben potendo essere funzionali al completamento della disciplina del tributo, concorrendo a delinearne l’assetto ordinario. Occorre, in particolare, tenere distinte: 1. le ipotesi di esclusione, da quelle di agevolazione e di esenzione; 2. le misure agevolative di carattere generale da quelle selettive; 3. nell’ambito delle misure selettive, quelle giustificabili alla stregua della conformità (coerenza) ai principi generali del sistema, ovvero, dell’ordinamento nazionale, rispetto a quelle prive di tale connotazione. Le esclusioni (45) si collocano, infatti, in posizione esterna rispetto al fenomeno strettamente agevolativo, afferendo al distinto genus delle ‘misure di tecnica fiscale’ ordinate, non all’attribuzione di un vantaggio economico di matrice extrasistematica, bensì alla definizione della fattispecie imponibile. Al contrario le esenzioni (46) – ferma la comune attitudine delimitativa – introducono una ‘deviazione’ rispetto alla struttura del tributo, stabilendo, limitatamente a talune fattispecie, un azzeramento degli oneri imposivi, orientato al perseguimento di finalità promozionali (47).

misure agevolative destinate alle imprese. (43) Supra § 2.2. (44) I. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 183. (45) Sono norme di esclusione quelle che concorrono alla delimitazione del presupposto del tributo attraverso l’eliminazione totale o parziale di elementi estrinseci alla ratio del tributo (La Rosa, voce Esclusioni tributarie, in Enc. giur. Treccani, XIII, Roma, 1989) in coerenza con la struttura del medesimo (F. Batistoni Ferrara, voce Agevolazioni ed esenzioni fiscali, in Dizionario di dir. pubbl., a cura di S. Cassese, Milano, 2006, 175). (46) Sono norme di esenzione quelle che delimitano il presupposto del tributo attraverso l’espunzione di elementi intriseci alla ratio del tributo (e, dunque, in deroga alla medesima). Così, F. Batistoni Ferrara, op. loc. ult. cit. (47) Rispetto alla categoria delle ‘esclusioni’, quella delle ‘agevolazioni’ (comprensiva delle agevolazioni tout court e delle ‘esenzioni’) rinviene, dunque, il proprio nucleo caratterizzante nel perseguimento di finalità extra-fiscali, fondamento del diverso e più mite regime fiscale approntato in ordine a fattispecie astrattamente riconducibili a quella impositiva. Esse


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In posizione egualmente esterna rispetto al fenomeno agevolativo si pongono le misure agevolative di carattere generale, concorrendo a delineare il trattamento normale della fattispecie impositiva (48). A ben vedere, dunque, le misure di cui al punto n. 3, sono le uniche a ricadere nell’ambito di applicazione della normativa in materia di aiuti di Stato, dalla quale restano, invece, escluse le misure di cui ai nn. 1 e 2, per difetto – rispettivamente – dei requisiti oggettivi delineati dall’art. 107 TFUE e del requisito della selettività. Nondimeno, l’ampiezza delle nozioni di riferimento e la matrice speculativa delle medesime vale a connotare in senso marcatamente discrezionale gli esiti del giudizio di compatibilità (49), imponendo agli Stati membri la cautelativa e generalizzata notifica dei progetti istitutivi di misure (anche solo latamente) agevolative (50). Tra le figure astrattamente riconducibili alla nozione di ‘aiuto fiscale’ devono annoverarsi anche i tributi di scopo o parafiscali (51) (c.d. Earmar-

presentano, dunque, un carattere derogatorio (in quanto latamente sottrattivo), non solo rispetto ai normali meccanismi di funzionamento del tributo, ma anche rispetto alla ratio (e, dunque, alle ordinarie finalità) del medesimo. Sul punto, F. Fichera, Le agevolazioni fiscali, Padova, 1994, 32 e ss. (48) Da un lato, il complesso delle misure fiscali generali riferibili ad un dato settore consente di individuarne il ‘regime fiscale ordinario’; dall’altro, poiché la nozione di ‘misure fiscali generali’ non presuppone una rigida uniformità di trattamento, bensì la formale ‘indeterminatezza’ (o comunque, la sensibile ampiezza) dello spettro dei destinatari, esse possono considerarsi rappresentative di altrettante, endemiche, rationes derogandi. (49) La dimostrazione della ‘coerenza’ delle disposizioni istitutive, ovvero, modificative è, invero, interamente rimessa allo Stato proponente, che è altresì tenuto a fornire alla Commissione (e alla Corte di Giustizia) i necessari elementi comparativi (come rilevato dall’Avvocato Generale Lèger nelle conclusioni formulate in data 12 giugno 2003, nell’ambito della causa C- 159/01, Paesi Bassi c. Commissione). Spetta, invece, alla Commissione la dimostrazione del carattere eccezionale del vantaggio accordato (Tribunale di primo grado, 18 dicembre 2008, cause riunite T-211/04 E T-215/04, Governo di Gibilterra e Regno Unito c. Commissione). (50) La tendenziale compatibilità delle misure agevolative orientate al perseguimento di finalità extra-fiscali (par. 3, art. 107 TFUE), non vale a rimuovere le rilevanti conseguenze economiche derivanti dall’inadempimento dell’obbligo di notifica. Il riferimento è, in particolare, alla possibilità di disporre il c.d. ordine di recupero ai sensi del par. 1, art. 14 Reg. CE/659/1999, in relazione al quale si vedano Viviano, L’ordine di recupero, in AA.VV., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009, 299 e ss., C. Ciampolillo, Incompatibilità e recupero, in Aiuti di Stato in materia fiscale, a cura di L. Salvini, Padova, 2007, 351 e ss. (51) Il predicato della ‘parafiscalità’ viene tradizionalmente riferito dall’analisi economica a talune forme di contribuzione proprie degli Enti pubblici territoriali, finalizzate alla copertura finanziaria delle relative funzioni.


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ked Taxes), destinati alla copertura di specifici programmi o azioni di spesa dell’Ente impositore (52) (53). Nella prospettiva concorrenziale il fenomeno viene in rilievo in ragione della attitudine distorsiva delle relative misure attuative, indistintamente riferite ad operatori residenti e non residenti (54) e, tuttavia, preordinate al finanziamento di specifiche operazioni nell’ambito di un dato settore (55) (56). A

(52) A. Stein, Whither you taxes? Match or mismatch? The relationship between public sector revenue from ‘earmarked’ taxes and expenditure on related items, in IEA Inquiry, Londra, 1991, 23, 1 e ss. (53) Sebbene vistosamente difformi rispetto all’archetipo contributivo dell’imposta – che rinviene nella acausalità il suo specimen ideologico e strutturale (così, G.A. Micheli, Corso di diritto tributario, cit., 17 e ss.) – tali forme di prelievo hanno natura propriamente tributaria e, segnatamente, coattiva (Corte cost., 7 aprile 1987, n. 431). Si tratta di strumenti estremamente duttili, applicabili a qualsiasi settore di intervento e secondo modalità temporali non predefinite (anche una tantum, ovvero, per un periodo di tempo limitato). Essi risultano altresì positivamente connotati sotto il profilo della trasparenza, rendendo evidente ed immediatamente percepibile lo scopo del prelievo fiscale. Il vantaggio ritraibile è duplice: la valorizzazione del collegamento tra imposizione e copertura delle pubbliche spese e la conseguente responsabilizzazione dell’Ente impositore, da un lato; l’obbligatorietà dell’impiego delle relative entrate alla copertura dei costi ‘vincolati’, dall’altro (così F. Uricchio, Il modello delle imposte di scopo tra principi ispiratori e sbocchi normativi, in Aa.Vv., La fiscalità locale tra modelli gestori e nuovi strumenti di prelievo, a cura di Uricchio, Santarcangelo di Romagna, 2014, 95). Nondimeno, essi sono stati gradualmente espunti dall’ordinamento nazionale, in favore di moduli impositivi improntati in via esclusiva al paradigma della capacità contributiva, nel quadro della “fiscalizzazione” indotta dai principi del Welfare State (Fantozzi, Il diritto tributario, cit., 81) (54) Si pensi alla nota Imposta speciale sullo zucchero, avente ad oggetto l’immissione in consumo in Italia di zucchero bianco, sia da parte dei produttori nazionali, che a seguito di importazione, il cui relativo onere veniva tuttavia neutralizzato in capo ai produttori nazionali attraverso l’erogazione di aiuti finanziati attraverso il gettito del tributo. Di qui, l’effetto distorsivo e discriminatorio che ne ha comportato la dichiarazione di illegittimità (Corte di Giustizia, 21 maggio 1980, causa C-73/79, Eridania). Analogamente, si è ritenuta l’incompatibilità delle tasse portuali che colpivano il carico e lo scarico di merci nel porto di Cagliari, i cui proventi erano per due terzi devoluti ex lege all’Azienda dei mezzi e meccanici e dei magazzini operante nel medesimo porto. L’attribuzione di una simile quota configura un aiuto di Stato qualora non sia connessa ad una missione di servizio pubblico dai costi preventivamente definiti (Corte di giustizia, 27 novembre 2003, cause riunite C-34/01 e C-30/01, Enirisorse). (55) Cfr. Commissione, Quarto censimento degli aiuti di Stato nel settore manifatturiero ed in taluni altri settori, Lussemburgo, 1995. (56) Rispetto alla generalità dei tributi, i tributi di scopo si connotano in ragione: a) della riferibilità del dovere di contribuzione ad una platea di destinatari circoscritta (c.d. parafiscalità); b) della strumentalità rispetto al finanziamento di determinate produzioni (c.d. finalizzazione). In questo senso, Corte di Giustizia, 11 marzo 1991, cause riunite C-78/90 e C-83/90, Compagnie commerciale de l’Ouest.


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venire in rilievo, in altri termini, è la preordinazione del tributo al finanziamento di una misura di sostegno selettiva (57); il tributo di scopo è, dunque, contestualmente elemento strutturale e condizione dell’aiuto (58), secondo un nesso di reciproca (59) ed essenziale implicazione, che non consente di scindere l’aiuto tout court dalle relative modalità di finanziamento (60).

(57) R. Franzè, I ‘tributi di scopo’ nella disciplina comunitaria degli aiuti di Stato alla imprese, in Dir. pubbl. comed eur., 2005, II, 867. Qualora, invece, il gettito del tributo risulti destinato in maniera esclusiva e vincolante ad uno scopo specifico – e, tuttavia, diverso – dalla erogazione di un ‘aiuto’ (come nei c.d. tributi ambientali) il vincolo di destinazione non assume alcun rilievo ai fini della disciplina statal-ausiliativa al pari dell’ipotesi in cui il gettito medesimo – pur settoriale quanto a provenienza – venga integralmente appreso dall’Erario. Nondimeno, alcune forme impositive connotate da un vincolo di destinazione per finalità ambientali introdotte dagli Enti territoriali nazionali sono state ‘censurate’ dalla Corte di Giustizia, in ragione del relativo spillover in capo ai soggetti non residenti. Di particolare rilievo, le pronunce relative al c.d. tubatico siciliano (Corte di giustizia, 21 giugno 2007, causa C-173/05, Commissione c. Repubblica italiana) ed alla tassa regionale sugli scali istituita dalla Regione Sardegna (Corte di Giustizia, 17 novembre 2009, causa C-169/08, Presidente del Consiglio dei Ministri c. Regione Sardegna), assimilate alle tasse ad effetto equivalente, giacché intese – – al pari di queste ultime – a ‘colpire’ le merci in ragione del mero passaggio sul territorio regionale. Ne è scaturita una approfondita riflessione dottrinale tesa a definire la relazione tra le ‘finalità ambientali’ ed i principi generali dell’ordinamento europeo nel tentativo di definire i contorni della relativa ‘attitudine giustificativa’. Si segnalano, in particolare, i contributi di A.e. La Scala, Il carattere ambientale di un tributo non prevale sul divieto di introdurre tasse ad effetto equivalente ai dazi doganali, in Rass. trib., 2007, 1371 e ss., R. Alfano, Il tributo regionale sul passaggio di gas metano attraverso il territorio della Regione Sicilia: cronaca di una morte annunciata, in Riv. dir. trib., 2007, 328 e ss., S. Sammartino, Federalismo fiscale e autonomia finanziaria della Regione siciliana, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, a cura di A.E. La Scala, Torino, 2010, 19 e ss. In precedenza alla pronuncia della Corte di Giustizia la legittimità del prelievo in discorso era già stata revocata in dubbio da L. Antonini, La prima giurisprudenza costituzionale sul federalismo fiscale: il caso dell’IRAP, in Riv. dir. fin e sc. fin., 2003, 106-107, il quale osservava: “il ‘tubatico’ deliberato dalla Regione Sicilia verrà così pagato da tutti gli italiani, con grave lesione dello spirito del federalismo”, A. Carinci, L’imposta sugli scali della Regione Sardegna: ulteriori indicazioni della Corte di Giustizia sui limiti comunitari all’autonomia tributaria regionale, in Rass. trib., 2010, 278 e ss., F. Picciaredda, Federalismo fiscale e tributi propri della Regione Sardegna tra esigenze di coordinamento e tassazione ambientale, in Riv. dir. trib., 2007, 921 e ss., G. Marongiu, Le ‘tasse Soru’ e l’impatto con la Corte costituzionale, Riv. giur. trib., 2008, 568 e ss., nonché all’opera monografica a cura di V. Ficari e G. Scanu, ‘Tourism taxation’. Sostenibilità ambientale e turismo tra fiscalità locale e competitività, Torino, 2013. (58) Come osservato dall’Avv. Genearale G. Tesauro nelle conclusioni formulate il 25 giugno 1992 nell’ambito della causa C-17/91, Lornoy e Zonen c. Belgio. (59) Cosicché, il venir meno del regime di aiuti, determina la totale o parziale eliminazione del tributo e viceversa. (60) Corte di Giustizia, 25 giugno 1992, causa C-17/91, Lornoy e Zonen c. Belgio. Maggiormente controversa giacché demandata ad un apprezzamento casistico (e, perciò, inevi-


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Tale assetto, vale a legittimare l’altrimenti precluso intervento della Commissione (61), che può dischiarare l’incompatibilità del tributo, ovvero, imporne una diversa articolazione (62). 2.4. Selettività territoriale e misure fiscali. – L’essenziale funzione discretiva assegnata alla selettività nell’ambito del giudizio di compatibilità rende evidente come nei sistemi multilivello la valorizzazione ed il grado di effettività delle scelte (sovrane) di decentramento fiscale dipenda in maniera sostanziale dalla precipua declinazione ‘territoriale’ del canone in discorso (63). Un approccio esasperatamente ‘organico’, infatti, determina la sistematica compressione dell’autonomia impositiva eventualmente riconosciuta agli Enti sub-statali in attuazione di precise opzioni politiche interne. Di qui, l’essenzialità dell’ambito territoriale di riferimento assunto ai fini della valutazione. Assumerne (come lungamente predicato dalle istituzioni europee – la coincidenza logica e fenomenica con il ‘territorio dello Stato’ (inteso quale nucleo geografico unitario ed indivisibile (64)) implica, invero, la piana affermazione

tabilemente discrezionale), l’ipotesi in cui il tributo sia destinato solo in parte al finanziamento della misura controversa. Sul punto, si vedano Corte di Giustizia, 21 ottobre 2003, cause riunite C- 261/01 e C-262/01, Van Calster c. Commissione, 27 novembre 2003, cause riunite C-34/01 e C-30/01, Enirisorse. (61) Il fenomeno, ancorché riconducibile al genus degli ‘aiuti di Stato’ – costituendo una forma di sostegno indiretto agli operatori nazionali – non può, tuttavia, ascriversi alla species degli aiuti fiscali, rispetto ai quali è dato riscontrare una vistosa divergenza strutturale. Nell’ambito degli aiuti fiscali il ‘vantaggio economico’ si configura in termini integralmente negativi, sia in capo al beneficiario (risparmio d’imposta), che in capo all’Ente erogatore (rinuncia ad una entrata). Nei tributi di scopo, invece, il medesimo elemento si pone in termini integralmente positivi, tanto nella prospettiva del beneficiario (sovvenzione), quanto in quella dell’Ente erogatore (per il quale l’operazione di finanziamento è somma zero). Il fenomeno parafiscale presenta altresì significativi profili di interazione con la disciplina dei vincoli di bilancio, come si avrà modo di chiarire nel successivo § 5.3. (62) P. Russo, op. loc. ult. cit. (63) In questo senso, R. Gonzales Piñeiro, Aiuti di Stato,“selettività regionale” e politiche fiscali agevolative delle Regioni, in Riv. dir. trib., 2010, I, 891 (64) Cfr. COM 98/C 384/03 cit., lett. B, punto 17. Di estremo interesse anche le ulteriori precisazioni formulate nell’ambito della successiva Relazione del 9 febbraio 2004 sull’attuazione della Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle norme relative agli aiuti di Stato alle misure di tassazione diretta delle imprese C(2004)43, ove si afferma (punto 32) che “la selettività di una misura si basa su un confronto tra il trattamento fiscale vantaggioso concesso a talune imprese e quello che si applica ad altre imprese che si trovano nello stesso ambito di riferimento, laddove l’ambito di questo confronto è rappresentato dal territorio dello Stato membro”.


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della ‘selettività’ (e, dunque, la tendenziale incompatibilità (65)) di qualunque misura fiscale sovventiva non riferita all’intero territorio nazionale. L’omessa valorizzazione del livello di governo da cui promana la misura determina una insuperabile antinomia tra il divieto di aiuti di Stato e l’autonomia tributaria degli Enti sub-statali, intesa quale facoltà di modulazione del prelievo fiscale nell’ambito del territorio di riferimento (66). L’evidente contrarietà di un simile approccio all’impegno originario dell’Unione a rispettare l’identità nazionale degli Stati membri (67) – rinnovato ed espressamente esteso alle autonomie locali (art. 4 TUE) (68) – ha indotto la Corte di Giustizia a ridefinire l’area geografica rilevante ai fini del giudizio di compatibilità, imponendo l’inquadramento delle entità sub-statali autonome quali aree geografiche rilevanti. Il nuovo corso ermenuetico, trova il proprio referente storico-ideologico nella nota sentenza Azzorre ed è stato ulteriormente declinato e confermato nell’ambito dei leading case Paesi Baschi e Gibilterra. Gli arresti richiamati hanno contribuito all’elaborazione di una nuova nozione – quella di ‘aiuto regionale generale’ – che ha costituito lo snodo dogmatico essenziale della valorizzazione della potestà impositiva degli Enti territoriali autonomi. La Corte di Giustizia ha così, dapprima, rinnegato l’aprioristica coincidenza tra ‘misure fiscali selettive’ e misure applicabili in via esclusiva ad una data area geografica all’interno del territorio nazionale, escludendone l’automatica assunzione come contesto geografico rilevante. Contestualmente, ha rappresentato la necessità di improntare il giudizio di compatibilità sulle misure istituite da enti territoriali autonomi a un diverso parametro geografico (il territorio dell’Ente autonomo). Ricorrendo tale condizione (autonomia), una normativa di matrice locale che favorisca in modo analogo tutte le imprese, ovvero, le produzioni localizzate nel territorio di riferimento deve inquadrarsi come ‘misura generale

(65) Simili misure potrebbero, invero, essere ritenute compatibili ai sensi del par. 3 dell’art. 107 TFUE. (66) A. Carinci, Il divieto di aiuti di Stato quale limite all’autonomia tributaria degli enti infrastatuali, in Giurisprudenza delle imposte, 2009, 2. (67) Affermato dal ‘vecchio’ testo dell’art. 6 TUE, confluito – a seguito delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona – nel ‘nuovo’ art. 4 TUE. (68) Nel testo modificato dal Trattato di Lisbona, la disposizione prevede espressamente: “L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai Trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali”.


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regionale’, esclusa – in quanto non selettiva – dall’ambito di operatività del divieto di aiuti di Stato. Il fenomeno della fiscalità di vantaggio non si tratteggia, dunque, univocamente rispetto alla normativa anticoncorrenziale europea, differentemente articolandosi in ragione della specifica connotazione ordinamentale del soggetto emanante. A tale livello, devono, in particolare, tenersi distinte (69): i) le misure agevolative relative a tributi erariali stabilite unilateralmente dal governo centrale applicabili in via esclusiva ad un’area geografica interna al territorio nazionale, tendenzialmente riconducibili alla species degli ‘aiuti fiscali’; ii) le misure agevolative introdotte dalle collettività territoriali nell’esercizio di facoltà ad esse simmetricamente attribuite in ordine ad un tributo ‘nazionale’ o ‘locale’. In tale ipotesi, non esistendo la possibilità di individuare un livello di tassazione ‘normale’, deve escludersi il carattere selettivo della misura (70); iii) le misure agevolative introdotte da talune collettività territoriali nell’esercizio una potestà normativa asimmetrica (71), indirizzate in via esclusiva agli operatori localizzati nel territorio di competenza. Nell’ipotesi sub iii), l’elevazione territorio dell’Ente sub-statale ad area geografica di riferimento richiede il soddisfacimento di precise condizioni (c.d. test di autonomia), al ricorrere delle quali è dato inquadrare la misura controversa come risultato di una autonoma determinazione dell’Ente tesa a definire il contesto politico-economico in cui operano le imprese localizzate nel relativo territorio (misura fiscale regionale generale). In particolare, l’Ente sub-statale configura uno spazio autonomo, in presenza delle seguenti condizioni: a) autonomia istituzionale, intesa quale ri-

(69) Decisive – come rilevato da attenta dottrina (I. Fantozzi, I rapporti tra ordinamento comunitario e autonomia finanziaria degli Enti territoriali, in Dir. e prat. trib. int., 2008, 1049) – le conclusioni formulate il 20 ottobre 2005 dall’Avvocato Generale Geelhoed, il quale aveva evidenziato la necessità di valutare la compatibilità delle misure adottate dagli enti territoriali autonomi in funzione del carattere simmetrico o asimmetrico della distribuzione interna dei poteri tributari. (70) Tali considerazioni non sono del tutto estranee alla precedente prassi istituzionale. Già con la decisione del 7 dicembre 2005 C(2005)4675 la Commisione aveva ritenuto la compatibilità delle misure (generali) di attuazione del potere di variazione dell’aliquota IRAP riconosciuto alle Regioni, trattandosi di una competenza simmetricamente attribuita ad entità giuridicamente e materialmente equiordinate. La vicenda è oggetto di approfondita e sistematica meditazione da parte di S. Fiorentino - O. Lombardi, Misure sottrattive IRAP, agevolazioni fiscali e divieto di aiuti di Stato, in Aa.Vv., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009, 425 e ss. (71) Non riferita, vale a dire, alla generalità delle collettività territoriali di pari livello.


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feribilità all’Ente di uno statuto politico ed amministrativo distinto rispetto a quello del governo centrale; b) autonomia procedurale, intesa come esclusiva riferibilità della misura alle determinazioni dell’Ente, in assenza di qualsisi possibilità di intervento diretto da parte dell’autorità centrale; c) autonomia economica e finanziaria, implicante l’assenza di compensazioni statali del minor gettito derivante dall’introduzione delle misure sovventive (72). Il meccanismo valutativo delineato dalla sentenza Azzorre ha rappresentato, dunque, un primo significativo tentativo di coniugare il doveroso rispetto delle strutture costituzionali degli Stati membri (art. 4 TUE) (73) con il consolidato assioma giurisprudenziale (74) della inadeguatezza giustificativa delle disposizioni, prassi o situazioni interne (ivi comprese quelle derianti dalla relativa organizzazione costituzionale) (75) a fronte dell’inadempimento degli obblighi derivanti dai Trattati. Nondimeno, i criteri individuati lasciavano aperte rilevanti questioni di ordine definitorio, anche anche in considerazione della significativa ampiezza delle nozioni teorico-generali evocate. Ulteriori precisazioni si imponevano, in particolare, con riguardo alle categorie concettuali della ‘autonomia procedurale’ e della ‘autonomia fianziaria’, attesa la necessità di individuare delle precise ‘soglie di rilevanza’ rispetto agli interventi perequativi dell’autorità centrale, contemplati – almeno in minima parte – anche nelle più radicali ed ‘esasperate’ forme contemporanee di decentramento (76).

(72) Ne discende un implicito adeguamento delle cadenze logiche e procedimentali della valutazione della Commissione, tenuta in via preliminare alla individuazione dell’area geografica di riferimento per poi muovere, in via gradata: 1. alla identificazione del trattamento fiscale ‘normale’ riferibile alla fattispecie impositiva; 2. alla dimostrazione del carattere eccezionale del vantaggio fiscale; 3. a verificare l’insussistenza di cause di giustificazione. (73) Supra § 1. (74) Corte di Giustizia, 27 giugno 2000, causa C-404/97, Commissione c. Portogallo, 7 settembre 2006, causa C-526/04, Laboratoirs Boiron SA c. URSSAF, 5 ottobre 2006, causa C-232/05, Commissione c. Repubblica francese (Scott). (75) Come rilevato dall’Avvocato Generale J. Kokkott nelle conclusioni formulate l’8 maggio 2008, nell’ambito della causa Azzorre (Corte di Giustizia, 6 settembre 2006, causa C-88/03). (76) Sebbene l’attuazione degli schemi fiscal-federalisti rinvenga il proprio principale modulo attuativo nell’istituzione di forme impositive ‘proprie’ dell’Ente competente e responsabile, una permanente rilevanza (ideologica e materiale) deve riferirsi ai trasferimenti perequativi da parte dello Stato centrale, volti a colmare il divario esistente nelle dotazioni di risorse finanziarie conseguente alla differente ‘capacità fiscale’ dei diversi territori. Lungi dall’esaurirsi nella instaurazione di una perfetta coincidenza tra risorse ‘spendibili’ e risorse reperibili sul


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Tali aspetti non risultavano, tuttavia, opportunamente valorizzati nella originaria formulazione del test di autonomia, nell’ambito della quale 1. la configurazione della ‘autonomia procedurale’ dell’Ente sembrava postulare l’assenza di qualsiasi intervento del governo centrale nella formazione dell’atto normativo istitutivo della misura (anche nella forma delle c.d. commissioni decentrate); 2. la configurazione del requisito della ‘autonomia finanziaria’ sembrava essere connessa all’assenza di qualsiasi trasferimento da parte del governo centrale e di qualsisi meccanismo di perequazione interregionale. Fondamentali, pertanto, nella prospettiva federalista, le precisazioni operate nelle successive sentenze Paesi Baschi e Gibilterra, soprattutto con riguardo al profilo della autonomia finanziaria. Si è difatti chiarita l’inesistenza di una consustanziale antinomia tra principio di autonomia e meccanismi perequativi, purché i corrispondenti trasferimenti non presentino un nesso causale con le misure agevolative regionali (77), sia sotto il profilo dell’an, che del quantum (78). Ricorrendo un simile nesso, infatti, i trasferimenti si risolvono in vere e proprie compensazioni, suscettibili di revocare in dubbio la matrice ‘autonoma’ della misura, interrompendo il continuum logico-causale tra misura, onere economico e responsabilità. L’esplicitazione di tale ulteriore parametro ha consentito di declinare il canone della selettività secondo una prospettiva maggiormente aderente alla sensibilità federalista. Al di là delle conseguenze più immediate (riconoscimento della valenza strutturale dei trattamenti regionali differenziati e conseguente esclusione dell’elemento del ‘vantaggio’), l’orientamento sottintende l’idoneità del sistema territoriale autonomo (quale risultante, appunto, dal complesso delle predette misure generali) a porsi quale parametro di valutazione della coerenza delle misure fiscali adottate dagli Enti territoriali minori (non autonomi) ricadenti nel proprio territorio. In tale prospettiva, la rimodulazione

territorio di riferimento, il federalismo fiscale mira – piuttosto – al conseguimento di un apprezzabile livello di “responsabilizzazione in un contesto di perequazione” (così, L. Antonini, L’Alta Commissione e l’esigenza del federalismo fiscale, in Dir. e prat. trib., 2006, I, 1233). Per un’analisi dei rapporti tra meccanismi perequativi e autonomia finanziaria territoriale si veda V. Uckmar, Federalismo fiscale tra autonomia e solidarietà, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, a cura di A.E. La Scala, Torino, 2010, 3 e ss., A. Giannola, Dualismo trasferimenti e perequazione: dove va il Sistema Italia?, in Rass. trib., 6/2010, 1639 e ss. (77) Inteso quale relazione diretta tra la riduzione delle entrate fiscali locali indotta dalla misura locale agvolativa ed i trasferimenti provenienti dallo Stato centrale. (78) Tenuto conto anche delle possibili compensazioni occulte (id est, garanzia della copertura di un livello minimo di costi di un determinato servizio pubblico).


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del canone della selettività assume un ruolo essenziale, non solo rispetto alle strutture decentrate asimmetriche, ma anche rispetto a quelle apparentemente simmetriche. 2.5. Il divieto di aiuti di Stato quale strumento di contrasto alla concorrenza fiscale tra gli Stati membri. – L’effetto razionalizzante dell’ormai consolidata nozione di ‘misura regionale generale’ è stato, tuttavia, parzialmente compromesso dalla progressiva ibridazione logico-operativa della normativa propriamente concorrenziale (ed, in specie, di quella statal-ausiliativa) con le disposizioni volte a contrastare la c.d. concorrenza fiscale (Harmful Tax Competition) (79). L’accostamento dei due nuclei normativi è stato consentito dalla prossimità strutturale degli ‘aiuti fiscali’ rispetto alle ‘misure fiscali discriminatorie’ stigmatizzate dal c.d. Codice di condotta (80), ricadevano nella nozione le disposizioni introduttive connotate dai seguenti elementi: 1. riduzione, ovvero, azzeramento dell’aliquota d’imposizione effettiva; 2. carattere selettivo del regime; 3. assenza di trasparenza dei relativi meccanismi di funzionamento; 4. omessa garanzia, da parte dello Stato impositore, di uno scambio di informazioni effettivo. In ordine a tali misure gli Stati membri avevano assunto l’obbligo: a) di astenersi dall’introdurre misure ‘pregiudizievoli’ (c.d. status quo); b) di esaminare la normativa e la prassi interne al fine di modificare, ovvero, rimuovere le eventuali misure dannose esistenti (c.d. smantellamento) L’effettività di tali prescrizioni è stata, tuttavia, pregiudicata dall’insussistenza di sanzioni che ne assistessero l’osservanza. A tale formale difetto di effettività del Codice sia contrappone – come si avrà modo di chiarire – la

(79) Il relativo fondamento storico e materiale deve individuarsi nel c.d. Rapporto Ruding del 1992. Il documento poneva in luce l’incidenza delle differenze esistenti nelle legislazioni fiscali degli Stati membri sulla (de)localizzazione delle imprese multinazionali, attesa l’attrattività allocativa delle aree interne connotate da una minore pressione fiscale. Assunta l’armonizzazione della fiscalità diretta quale condizione indispensabile ai fini del corretto funzionamento del mercato interno, veniva delineato un ipotetico programma internazionale di azione, volto: i) alla eliminazione delle disposizioni fiscali discriminatorie; ii) alla fissazione di un livello minimo di imposizione (in vista del contrasto alla c.d. Harmful Tax Competition); iii) a garantire la trasparenza delle agevolazioni fiscali. Il nucleo concettuale del programma (la coessenzialità dell’armonizzazione fiscale rispetto al funzionamento del mercato) è stato ripreso e sviluppato nell’ambito del c.d Pacchetto Monti del 1997, attraverso l’adozione di una nuova strategia operativa (il c.d. Global Approach) che ha indotto una essenziale e stabile deviazione nell’inquadramento sistematico della ‘fiscalità’ nell’ambito dell’ordinamento europeo, elevata a politica e resa oggetto di concertazione, c.d. Codice di condotta (infra). (80) Risoluzione del Consiglio del 1° dicembre 1997, n. 98/C 2/01.


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sostanziale azione di deterrenza indirettamente esercitata dalle istituzioni europee attraverso l’utilizzo estensivo di alcuni meccanismi conformativi approntati dai Trattati. 2.6. (Segue) Il collegamento con il nucleo deontologico e concettuale delle libertà di circolazione. – Con specifico riguardo all’area fiscale, l’indirizzo europeo in materia di tutela delle libertà di circolazione si è tradizionalmente sviluppato secondo due distinte direttrici. La prima, rinviene il suo fulcro ideologico e sistematico nel principio generale della libera circolazione delle merci, la cui tutela è rimessa ad un sistema di vincoli - non afferenti, quantomeno in via diretta, alla struttura del sistema tributario - preordinati all’assicurazione di una uniformità nel trattamento impositivo riservato alle merci stesse, in assenza di qualsiasi diversificazione in funzione della relativa origine (c.d. divieto di restrizioni). La seconda – funzionalmente collegata alla prima – ha per oggetto l’armonizzione e il ravvicinamento dei sistemi tributari interni, attraverso l’introduzione di limiti all’azione legislativa degli Stati membri, ai quali è fatto obbligo di eliminare o modificare le disposizioni previgenti incompatibili con la normativa pattizia (c.d. principio di non discriminazione fiscale, artt. 110 e ss. TFUE). L’assunto ideologico sotteso a tale linea d’intervento è rappresentato dal convincimento che i sistemi tributari nazionali siano suscettibili di alterare – in ragione della loro precipua articolazione – gli equilibri concorrenziali e commerciali fra gli Stati. L’estensione di tali nuclei normativi e concettuali alla materia tributaria (rectius alle disposizioni tributarie nazionali ed alla valutazione della relativa compatibilità) ha comportato significative conseguenze operative, amplificate, nel contesto attuale, dall’approccio ermenutico adottato dalla Corte di Giustizia, il cui asse valutativo ha subito un progressivo spostamento dalla prospettiva propria del principio di non discriminazione (81), a quella propria del divieto di restrizione (82).

(81) L’indirizzo ermeneutico, inugurato dalla sentenza Avoir fiscal (Corte di Giustizia, 28 gennaio 1986, causa 270/83), è stato successivamente declinato in relazione ai temi della c.d. discriminazione indiretta (Corte di Giustizia,8 maggio 1990, causa C-175/88, Biehl c. Administratìon des contribution del Granducato di Lussemburgo), della discriminazione occulta (Corte di Giustizia, 13 luglio 1993, causa C-330/91, The Queen c. Inland Revenue Commissioners-Commerzbank AG) e della discriminazione ‘a rovescio’ (Corte di Giustizia, 27 giugno 1996, causa C-107/94, Asscher c. Staatssecretaris). (82) Corte di Giustizia, 21 settembre 1999, causa C-307/97, Saint Gobain c. Finanzamt


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Ne è discesa una ridefinizione del contenuto prescrittivo del divieto di restrizione, implicante – nella sua rinnovata accezione – il divieto, per gli Stati membri, di adottare normative fiscali: a) protezionistiche, ovvero, dirigistiche; b) che, ancorché non restrittive, sortiscano l’effetto di ostacolare, anche in via potenziale ed indiretta, il commercio e la mobilità economica nell’ambito del mercato interno (distorsione concorrenziale). Conseguentemente, la legittimità delle norme tributarie interne è divenuta oggetto di valutazione, non solo sotto il profilo della sussistenza di una differenza di trattamento tra soggetti residenti e non residenti (divieto di discriminazioni), ma anche sotto il profilo della attitudine restrittiva delle medesime (libertà di circolazione). Un approccio che, se da un lato ha consentito di censurare forme impositive effettivamente incidenti sul sistema delle libertà (id est, le c.d. Exit Taxes), dall’altro, ha comportato un sensibile ampliamento del sindacato di compatibilità sulle norme tributarie interne, introducendo in capo ai legislatori tributari nazionali vincoli ulteriori e non espressamente contemplati dai Trattati. Ed invero, la sovrapposizione del sistema deontologico delle libertà di circolazione all’area dei trattamenti fiscali discriminatori implica, sotto il profilo effettuale, la valorizzazione degli eventuali profili di differenziazione, introducendo un ulteriore parametro di valutazione delle misure fiscali ausiliative. Ne è dipesa la tensione (ermeneutica ed ordinamentale) verso una uniformità di disciplina che mal si attaglia alla materia tributaria, a livello della quale la differenziazione del trattamento fiscale è strumentale al perseguimento di precisi (e legittimamente attuabili) obiettivi di politica economica, nonché di ulteriori ed immanenti principi animanti il tessuto costituzionale domestico (83). 3. Il decentamento fiscale nell’ordinamento nazionale (quadro di sintesi). – Il federalismo (84) ha gradualmente assunto nell’esperienza contemporanea una intensa connotazione ideologica. In prima approssimazione, il feno-

Aachen-Innenstdt. (83) Gli innesti ideologici e sistematici appena descritti assumono estremo interesse nella prospettiva considerata; la sovrapposizione tra misure fiscali discriminatorie e misure regionali costituisce, infatti, il perno ideologico di alcuni significativi arresti della Corte di Giustizia aventi ad oggetto la compatibilità di tributi propri istituiti da Enti territoriali nazionali (Corte di Giustizia, 17 novembre 2009, causa C-169/08, Presidente del Consiglio dei Ministri c. Regione Sardegna, 21 giugno 2007, causa C-173/05, Commissione c. Repubblica italiana). (84) Dal latino, foedus, “patto”, “alleanza”.


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meno, si identifica con la ricorrente tendenza organizzativa degli ordinamenti politico-giuridici moderni a ripartire i poteri di comando tipici dello Stato tra una pluralità di enti politici distinti e sovrapposti (85); in funzione di strategie attinenti a piani di riflessione distinti, ancorché concatenati (86); cosicché si discorre, a seconda dei casi, di ‘federalismo politico’, di ‘federalismo legislativo’ o di ‘federalismo fiscale’. Il relativo passaggio da mera regola di organizzazione istituzionale ed amministrativa, a movimento politico, a moderno assioma delle relazioni interorganiche e declinazione operativa privilegiata della ‘autonomia’, ne ha imposto l’accettazione da parte delle istituzioni europee. Un ruolo centrale nella prospettiva multilivello deve, in particolare, riferirsi alla specifica declinazione pubblicistico-finanziaria del fenomeno: il c.d. federalismo fiscale (87), implicante la distribuzione, tra i diversi livelli di governo, del potere di reperire le risorse necessarie alla comunità di riferimento (88), in attuazione del principio di responsabilità.

(85) Così G. Bognetti, voce Federalismo, in Dig. disc. pubbl., Torino, 2002, 274. (86) In prima approssimazione il federalismo politico (anche detto, federalismo reale) può essere definito come il processo di unione tra diversi Stati, i quali – pur conservando le proprie prerogative con riferimento ad alcuni settori chiave – scelgono di adottare una Costituzione condivisa e nominare un governo comune (A.V. Dicey, An Introduction to the Study of the Law of the Constitution, Londra, 1915). La locuzione federalismo amministrativo descrive, invece, il processo di decentramento connotato dall’inversione del tradizionale sistema di attribuzione delle funzioni tra Stato ed autonomie territoriali. Il fenomeno – nella sua configurazione più blanda – si traduce nella generica valorizzazione del ruolo attribuito alle autonomie locali nell’ambito del sistema di riferimento, attraverso un incremento delle competenze amministrative e delle funzioni. In una sua più caratterizzante configurazione tale valorizzazione si associa all’attribuzione agli Enti locali di una competenza amministrativa residuale generale (G. Bognetti, op. loc. ult. cit.). (87) La nozione di “federalismo fiscale” venne venne originariamente elaborata nell’ambito degli studi di finanza pubblica. La locuzione venne utilizzata per la prima volta nel 1959 da Musgrave, nel suo celebre saggio Theory of public finance; nella sua formulazione originaria designava uno specifico progetto di riforma istituzionale degli Stati Uniti, orientato al superamento degli eccessi indotti dall’accentuato localismo e dalle sperequazioni economiche e sociali tra gli Stati federati attraverso una più attiva presenza dello Stato federale nelle attività dei livelli di governo inferiori (Stati, contee, municipalità). Per un approfondimento sul punto si rinvia a G. Marongiu, Note a margine del ‘federalismo fiscale’, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, a cura di A.E. La Scala, Torino, 2010, 7-8, nonché alla diffusa ricostruzione di matrice economica operata da R. Murer, Il federalismo fiscale, Padova, 2011. (88) In questi termini, A. Giovanardi, voce Federalismo fiscale, in Enc. giur. Treccani, Roma, agg. 2009, 1.


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Il fenomeno, fondamentale per il dinamismo federale (89), ha interessato anche l’ordinamento tributario nazionale. Né altrimenti avrebbe potuto essere, assunte le criticità tradizionalmente riferibili ai rapporti tra lo Stato centrale e le relative articolazioni territoriali (90), notoriamente espressive di altrettante e sperequate realtà economico-sociali ed identità culturali. L’attuazione della costruzione federalista domestica si è connotata per l’alternanza di momenti di rapida evoluzione (91) a subintanei arresti, imputabili, da un lato, alle alterne vicende indotte dalla crisi economica (92), dall’altro, alla ricorrente ‘decontestualizzazione’ delle relative disposizioni attuative, inserite in corpi normativi più ampi orientati al perseguimento di obiettivi, rispetto a cui non era dato rilevare una eguale identità nel ‘sentire politico’ (93). Un percorso tortuoso, dunque, connotato da deviazioni e ripensamenti rispetto al progetto originario (94), delineato dalla storica riforma del Titolo V della Costituzione (95).

(89) C.K. Sharma, The federal approach to fiscaldecentralisation: conceptual contours for policy makers, in Loyola Journal of Social Sciences, XIX, 2003, 169 e ss. (90) In ordine alle quali si rinvia all’approfondita ricostruzione storica di P. Boria, Evoluzione storica dei rapporti tra fiscalità locale e fiscalità erariale, in Riv. dir. trib., 1997, I, 713 e ss. (91) Si pensi all’applicazione in via sperimentale dell’IMU a partire dal 2012 (con due anni di anticipo rispetto alle “tappe” individuate dal d.lga. n. 23/2011) disposta dal d.l. n. 201/2011, convertito con modificazioni dalla L. n. 214/2011. (92) Si pensi alla L. n. 228/2012, che ha disposto la sospensione per gli anni 2013 e 2014 dell’efficacia delle disposizioni in materia di fiscalità immobiliare di cui al. D.lgs. n. 23/2011. (93) Assai frequente, invero, l’accostamento delle disposizioni in materia di federalismo con quelle ordinate ad una riduzione delle spese attraverso l’eliminazione di organi ed istituzioni anche di livello costituzionale (ad esempio, riordino/abolizione delle Province, abolizione del Senato, ecc.). (94) Il riferimento è al disegno di legge n. 1429/2014 nell’ambito del quale viene prospettata un’ulteriore revisione del Titolo V della Costituzione. Obiettivo della (nuova) riforma è la composizione delle criticità evidenziate dal vigente riparto di competenze (infra), individuate: i) nelle rigidità indotte dalla elencazione tassativa delle materie operata dall’art. 117 Cost.; ii) nell’eccessiva frammentarietà ed incoerenza del dettato costituzionale. In tale prospettiva, è stata prevista (all’art. 26) una ridefinizione del riparto delle competenze legislative tra i vari livelli di Governo, il cui aspetto di maggiore interesse è sicuramente rappresentato dalla eliminazione delle materie concorrenti (ivi compresa la materia del ‘coordinamento’) destinate a confluire integralmente nell’ambito della legislazione statale esclusiva. Pur comportando un indubitabile snellimento dei processi decisionali, la modifica pone, al contempo, le basi di un ‘riassorbimento’ della materia tributaria a livello centrale. (95) La riforma attuata dalla L. cost. n. 3/2001 ha rimodellato l’assetto istituzionale dell’ordinamento domestico, segnando il superamento dei tradizionali assiomi della centralità statale e della residualità del ruolo normativo ed istituzionale degli Enti territoriali, individuan-


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Nonostante il rinnovato slancio impresso dall’emanazione della Legge delega n. 42/2009 (96), il lungo arresto indotto dalla mancata emanazione dei principi di coordinamento (indispensabili ai fini della piena esplicazione dell’autonomia tributaria delle Regioni e degli Enti territoriali minori sancita dal ‘nuovo’ art. 119 Cost.) (97) ha drasticamente compromesso l’attuazione

do nella equiordinazione la nuova ‘cifra’ dei rapporti tra i diversi livelli di governo. In ordine a tali aspetti si rinvia alla diffusa ricostruzione operata da P. Boria, Evoluzione storica dei rapporti tra fiscalità locale e fiscalità erariale, cit., 713 e ss, Id., I rapporti tra ordinamenti autonomi: finanza statale e finanza locale, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, a cura di A.E. La Scala, Torino, 2010, 65 e ss. (96) La legge è intervenuta ad individuare i principi generali ed i criteri direttivi (i menzionati principi di coordinamento) cui il legislatore statale avrebbe dovuto attenersi in sede di definizione del quadro normativo preordinato a garantire il concreto esercizio dell’autonomia tributaria territoriale, nonché i principi generali per l’attribuzione di un proprio patrimonio a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni (art. 19), delle norme transitorie sull’ordinamento, anche finanziario, di Roma Capitale (art. 24). Si tratta, dunque, di un provvedimento legislativo composito ed articolato, rivelatosi, tuttavia, eccessivamente generico nelle indicazioni e poco circostanziato nella individuazione dei principi generali, così rimettendo la regolamentazione dei concreti spazi di autonomia tributaria degli Enti territoriali ai successivi decreti di attuazione. La legge delega, pertanto, pur autoqualificandosi come legge di attuazione dell’art. 119 Cost. ha finito col porsi come una “mera legge di delegazione, recante a maglie molto larghe principi e criteri direttivi” (in questi termini, F. Sorrentino, Coordinamento e principi costituzionali, in Rass. trib., 6/2010, 1568). (97) Nel testo modificato dall’art. 5 della legge cost. n. 3/2001, che ha espressamente riferito a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni “autonomia finanziaria di entrata e di spesa” (comma 1), nonché il potere di istituire “tributi ed entrate proprie in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (comma 2). Per una approfondita analisi dell’impatto della riforma sul precedente assetto impositivo-distributivo si rinvia al noto contributo di F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo testo dell’art. 119, in Rass. trib., 2002, 590. Nondimeno, le recise affermazioni di principio operate dal ‘nuovo’ art. 119 Cost. risultavano difficilmente conciliabili con il riparto della potestà legislativa tributaria emergente dal ‘nuovo’ art. 117 Cost. Il comma 2, lett. e) della disposizione ascriveva il ‘sistema tributario dello Stato’ tra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato; il successivo comma 3, tuttavia, riconduceva il ‘coordinamento del sistema tributario’ nell’alveo delle materie di competenza legislativa concorrente. La sostanziale efficacia ‘inibitoria’ di tale riparto competenziale rispetto al pieno dispiegamento dell’autonomia finanziaria territoriale sancita dal nuovo art. 119 Cost. è stata oggetto – all’indomani della riforma del Titolo V ed in precedenza all’emanazione della L. n. 42/2009 – di diffusa e reiterata segnalazione da parte della dottrina. Oltre al richiamato contributo di F. Gallo, Prime osservazioni sul nuovo testo dell’art. 119, cit., 585 e ss., si rinvia sul punto agli autorevoli contributi di L. Antonini, Dal federalismo legislativo al federalismo fiscale, in Riv. dir. fin. e sc. fin., 2004, 400 e ss., V. Cerulli Irelli, Sul federalismo fiscale (prime provvisorie osservazioni), in www. astridonline.it, 2007, A. Di Pietro, Federalismo e devoluzione nella recente riforma costituzionale: profili fiscali, in Rass. trib., 2002, 2007 e ss., P. Giarda, Le regole del federalismo


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del progetto, le cui originarie criticità non hanno trovato soluzione neppure a seguito dell’emanzione dei decreti attuativi (98). Al di là delle risonanti affermazioni ideologiche e politiche, la legge delega è risultata materialmente improntata ad una considerevole prudenza nella delimitazione degli spazi di autonomia tributaria degli Enti territoriali. L’impressione è che le esigenze di controllo siano state anteposte a quelle di autonomia (99). Per quanto attiene le Regioni risulta confermato l’approccio tradizionale volto circoscriverne l’autonomia tributaria originaria al complesso dei presupposti impositivi non selezionati dal legislatore statale. Nell’ambito di questi ultimi le Regioni possono: i) istituire tributi regionali e locali; ii) determinare le variazioni delle aliquote o le agevolazioni che Comuni, Province e Città metropolitane possono applicare nell’esercizio della propria autonomia con riferimento ai tributi locali. Persiste, inoltre, per lo Stato la possibilità di intervenire sulle basi imponibili e sulle aliquote dei tributi propri derivati degli Enti territoriali, salva l’adozione di misure compensative e la necessità di assicurare la corrispondenza tra responsabilità finanziaria e amministrativa. Di qui la sottointesa parametrazione dell’imposizione autonoma ‘originaria’ al beneficio derivante alla collettività dalle funzioni esercitate sul territorio e la

fiscale nell’art. 119, in Le Regioni, 2001, 435 e ss., G. Pitruzzella, Problemi e pericoli del ‘federalismo fiscale’ in Italia, in Aa.Vv., Studi in onore di A. Pensovecchio Li Bassi, Torino, 2005, II, 1017 e ss. Per quanto attiene l’autonomia tributaria degli Enti territoriali minori, un significativo limite era rappresentato – in difetto di un intervento legislativo di coordinamento – dalla riserva posta dall’art. 23 Cost. In ordine a tale aspetto si rinvia ai contributi di A. Fedele, Federalismo fiscale e riserva di legge, in Rass. trib., 6/2010, 1525 e ss., G. Fransoni, Osservazioni in merito alla potestà impositiva degli enti locali alla luce della riforma del Titolo V, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Foggia, I, Milano 2005, I. Fantozzi, Riserva di legge e nuovo riparto della potestà normativa in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2005, I, 3 e ss., M. Cardillo, Potestà regolamentare comunale, in Aa.Vv., La fiscalità locale tra modelli gestori e nuovi strumenti di prelievo, a cura A. F. Uricchio, Santarcangelo di Romagna, 2014, 39 e ss. (98) Il d.lgs. 6 maggio 2011, n. 68 (in materia di federalismo regionale e provinciale e di autonomia tributaria delle Città metropolitane) ed d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23 (in materia di federalismo municipale). (99) In questo senso, A. Giovanardi, voce Federalismo fiscale, cit. 5, L. Perrone, I tributi regionali propri derivati, in Rass. trib., 6/2010, 1599. Non stupisce, pertanto, che la Legge 11 marzo 2014, n. 23 abbia delegato al Governo l’adozione di provvedimenti legislativi necessari ai fini della revisione del complessivo impianto fiscal-federalista, in vista della realizzazione di “un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita […] in coerenza con quanto stabilito dalla legge 5 maggio 2009, n. 42, in materia di federalismo fiscale”.


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tendenziale sovrapposizione ideologica della medesima con l’area dei tributi di scopo (100). Sussiste, tuttavia, per le Regioni a Statuto ordinario, la possibilità di ottenere, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119 Cost., forme e condizioni particolari di autonomia nelle materie di legislazione concorrente (101), nonché in alcune materie afferenti alla sfera di competenza esclusiva statale (102) (103). Quanto agli Enti territoriali, emerge un sistema di finanza locale strutturato in un insieme di tributi propri derivati (104), nell’ambito dei quali un ruolo centrale è astrattamente riferito ai tributi di scopo. Tutti gli Enti territoriali beneficiano di compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibili al proprio territorio. Permangono altresì dei meccanismi perequativi, differenziati in ragione della tipologia di funzione (e, dunque, di spesa finanziata), devono, in particolare, distinguersi le funzioni pubbliche tutelate dalla perequazione sui fabbisogni standard dalle funzioni assistite dalla perequazione sulle capacità fiscali (105).

(100) In questo senso, G. Ragucci, Considerazioni sul disegno di legge delega per l’attuazione dell’art. 119 della Costituzione, in Fin. loc., 2008, 50, A. Giovanardi, voce Federalismo fiscale, cit. 6. Più diffusamente, in ordine a tale aspetto, infra § 4. (101) Attribuita dal comma 3 del ‘nuovo’ art. 116 Cost. (102) Si tratta delle materie della ‘giurisdizione e norme processuali’, dell’ ‘ordinamento civile e penale’, e della ‘giustizia amministrativa’ (comma 2, lett. l, art. 117 Cost.), delle ‘norme generali sull’istruzione’ (comma 2 cit, lett. n) e della ‘tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali’ (comma 2 cit. lett. s). Tali, ulteriori, spazi di autonomia sono attribuiti con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli Enti locali. (103) Si tratta di un profilo di particolare interesse, giacché implicante la potenziale instaurazione di assetti decentrati asimmetrici (infra § 5.1.). In questo senso R. Gonzales Piñeiro, Aiuti di Stato,“selettività regionale” e politiche fiscali agevolative delle Regioni, cit., 914-915. In senso conforme anche F. Stradini, Autonomia impositiva delle Regioni a Statuto speciale: il riconoscimento costituzionale e l’erosione del primato tra Corte costituzionale e diritto comunitario, in Riv. dir. trib., 2013, 1202, nota 2. L’A., in particolare, ritiene che unicamente l’introduzione possa determinare l’instaurazione di assetti decentrati stricto sensu asimmetrici, tali ulteriori forme di condizioni di autonomia altrimenti non configurabili neppure con riferimento alle Regioni a Statuto speciale, la cui condizione risulta improntata al diverso paradigma della specialità. (104) Per un approfondimento sul punto si rinvia alla accurata ricostruzione operata da L. Antonini, Le linee essenziali del nuovo federalismo fiscale, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, a cura di A.E. La Scala, Torino, 2010, 58-64.

Dovendosi all’uopo distinguere tra funzioni pubbliche tutelate dalla perequazione sui fabbisogni standard e funzioni assistite dalla perequazione (105)


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In posizione del tutto particolare rispetto a tale sistema si pongono le Regioni a Statuto speciale i cui spazi di autonomia tributaria appaiono essenzialmente rimessi ad un confronto diretto con lo Stato (c.d. principio di bilateralità), improntato al rispetto di principi di matrice non eminentemente tributaria (id est, il principio di continenza). Rispetto a queste ultime, dunque, non sembra possibile delineare una forma di coordinamento generale, attesa l’individualità degli assetti negoziati dalle singole autonomie speciali. L’attuazione del pricipio di bilateralità implica, dunque, una differenziazione tra specialità che si giustappone a quella ‘codificata’ tra Regioni a Statuto ordinario e Regioni a Statuto speciale (106). Nondimeno, il ‘nuovo’ art. 119, nel disciplinarne l’autonomia finanziaria, non opera – quantomeno sul versante delle entrate – una differenziazione tra le due categorie istituzionali, indistintamente legittimate: i) ad istituire tributi c.d. propri; ii) a disporre del gettito dei tributi c.d. propri derivati; iii) a ‘compartecipare’ al gettito dei tributi erariali. Tuttavia, per quanto attiene il profilo sub i), vengono in rilievo i più ampi magini di esplicazione demandati alla potestà impositiva ‘originaria’ delle autonomie speciali, vincolate unicamente all’armonico rispetto delle norme costituzionali e dei principi del sistema tributario dello Stato (107); in luogo dei più stringenti principi generali di coordinamento (art. 117, comma 3, Cost.) (108).

sulle capacità fiscali.

(106) In ordine a tali aspetti, da ultimo F. Stradini, Autonomia impositiva delle Regioni a Statuto speciale: il riconoscimento costituzionale e l’erosione del primato tra Corte costituzionale e diritto comunitario, cit., 1201 e ss. (107) Implicante la conformazione dei tributi regionali agli elementi essenziali del sistema statale e alle rationes dei singoli istituti tributari Come opportunamente rilevato da F. Gallo, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 4. La differente ampiezza e la maggiore stringenza dei ‘principi fondamentali di coordinamento’ rispetto ai ‘principi fondamentali del sistema tributario’ è stata evidenziata dalla stessa Corte costituzionale nella nota sentanza del 15 aprile 2008, n. 102. In tale occasione la Corte, pur rilevando l’identità funzionale dei due nuclei concettuali (entrambi preposti al “coordinamento in senso lato fra i diversi sottosistemi del complessivo sistema tributario”), ne ha evidenziato la differente portata sostanziale, i primi esigendo unicamente “che la Regione nell’istituire tributi propri valuti essa stessa la coerenza del sistema regionale con quello statale”; i secondi, “derivando da una delimitazione [da parte dello Stato] delle sfere di competenza legislativa”, anche attraverso la fissazione di “un determinato rapporto percentuale tra tributi statali e tributi regionali e locali”, ovvero, la ripartizione “tra i diversi livelli di governo dei presupposti d’imposta”. (108) Osserva F. Sorrentino, Coordinamento e principi costituzionali, cit., 1570-1572, come l’ampiezza della nozione di ‘coordinamento’ e l’inquadramento di quest’ultimo nell’am-


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Quanto al profilo sub ii), vengono in rilievo la più ampia autonomia di manovra contemplata dagli Statuti regionali ed i più elevati livelli di partecipazione al gettito dei tributi erariali (109). Infine, sul versante della ‘spesa’ (iii) risulta configurabile in capo alle autonomie speciali una vera e propria capacità di disporre del proprio bilancio, in funzione delle specifiche politiche regionali (110). Anche il concorso alla realizzazione degli obiettivi di solidarietà e perequazione (art. 27, L. n. 42/2009) risulta egualmente demandato a procedure consensuali attuate nell’ambito di apposite commissioni paritetiche (111). In definitiva, il coordinamento della finanza pubblica speciale con quella nazionale sembra essere ancorato ad una trattativa bilaterale con lo Stato,

bito delle competenze legislative concorrenti, valga a ridurre l’intervento legislativo regionale in subiecta materia ad una mera “attività di esecuzione di scelte di politica economica effettuate in sede governativa” (1571). Sebbene in linea teorica l’intervento legislativo statale nelle materie correnti dovrebbe essere circoscritto alla delineazione dei principi fondamentali, rispetto alla materia del ‘coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario’ si rende necessario un più pervasivo intervento del potere legislativo centrale in ragione: a) del carattere ‘aperto’ della relativa nozione; b) dei vincoli di bilancio discendenti dal Patto di stabilità interno; c) della connessione con materie di competenza esclusiva dello Stato; d) dello stesso collegamento istituito dall’art. 119 Cost. tra il ‘coordinamento’ medesimo ed i tributi propri degli Enti locali (1570-1571). In particolare, per quanto attiene il profilo sub a), l’A. osserva come il ‘coordinamento’ esprima una finalità, piuttosto che un contenuto, ponendosi in posizione trasversale rispetto alle competenze territoriali, giustapponendosi quale strumento di potenziale avocazione di competenze altrimenti regionali. L’assunto trova conferma in una nota pronuniciata dalla Corte cost.,che ha ricondotto alla materia del ‘coordinamento’ la disciplina delle condizioni e dei limiti per l’accesso al mercato dei capitali (Corte cost., 30 dicembre 2003, n. 376). Tali dinamiche sono oggetto di significativo approfondimento, nell’ambito di una più generale riflessione in ordine al corretto equilibrio fra pluralità e unità dei sistemi tributari anche da parte di P. Russo - G. Fransoni, Ripartizione delle basi imponibili e principi di coordinamento del sistema tributario, in Rass. trib., 6/2010, 1575 e ss., i quali osservano come i principi di coordinamento non rappresentino unicamente un termine di riferimento, ma si pongano, al contrario, quale presupposto dell’esercizio dei poteri di autonomia finanziaria da parte degli Enti territoriali (1577). (109) La cui incidenza sui bilanci regionali ha indotto autorevole dottrina a ritenere che la ‘specialità finanziaria’ di tali autonomie si sostanzi, in definitiva, in un mero ‘privilegio finanziario’. In questo senso F. Gallo, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 5. (110) Da F. Gallo, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 6-7. (111) A tal proposito la stessa Corte costituzionale ha precisato come l’art. 27 della legge delega abbia all’uopo istituito una vera e propria riserva di competenza in favore delle norme statutarie ai fini dell’integrazione della disciplina finanziaria delle Regioni a Statuto speciale, costituendo il più saldo presidio della relativa specialità (Corte cost., 28 marzo 2012, n. 71, 31 ottobre 2012, n. 241).


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del tutto estraneo al meccanismo perequativo generale delineato dall’art. 119 Cost. (112). 4. (Segue) La centralità della fiscalità di sviluppo e della fiscalità di scopo nel sistema delineato dalla riforma. – In esito ad un articolato percorso evolutivo avviato dalla Legge costituzionale n. 3/2001, la L. n. 42/2009 è intervenuta a porre le basi dell’effettiva esplicazione dell’autonomia finanziaria degli Enti territoriali (art. 119 Cost). Di particolare interesse, ai fini della presente riflessione, i criteri ed i principi direttivi individuati dall’art. 2 della Legge delega, ove viene espressa (rectius prescritta) la necessità di procedere all’individuazione di forme di fiscalità di sviluppo (comma 2, lett. mm) orientate alla creazione di nuove attività nelle aree sottoutilizzate (art. 16) (113) (114). Il relativo strumento attuativo viene individuato – come già evidenziato – proprio nella leva fiscale e, precisamente, nella introduzione di speciali esenzioni, deduzioni ed agevolazioni volte a valorizzare le risorse presenti sui rispettivi territori in applicazione del principio di sussidiarietà fiscale (115). La legge delega ha, inoltre, dato nuovo slancio all’imposizione di scopo, attribuendo alle Regioni la facoltà di istituire tributi propri di scopo in base ai presupposti non già assoggettati ad imposizione erariale (116). La riforma, del

(112) Fondato sulla costituzione di un fondo alimentato da compartecipazioni ai tributi erariali per i territori con minore capacità fiscale per abitante In relazione a tali aspetti, si veda F. Gallo, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 9. (113) Evidenzia G. Melis, La c.d. ‘fiscalità di vantaggio’ nella delega sul federalismo fiscale e gli aiuti di Stato: alcune riflessioni, in Federalismo fiscale e autonomia degli enti territoriali, a cura di A.E. La Scala, Torino, 2010, 121, come la dizione utilizzata dal legislatore riproduca fedelmente nei contenuti gli Orientamenti della Commissione in materia di aiuti di stato a finalità regionale 2007-2013, del 4 marzo 2006, n. 2006/C 54/08. In generale sulla centralità della fiscalità di vantaggio nel quadro assiologico emergente dalla legge delega L. Letizia, L’autonomia finanziaria regionale nella Costituzione italiana: il caso della fiscalità di vantaggio, in Aa.Vv., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009, 513 e ss. (114) Analoga esigenza viene rappresentata anche rispetto alle Regioni a Statuto speciale (art. 27, lett. c). (115) Essenziale, nella prospettiva considerata, il riconoscimento di effettivi spazi di autonomia in capo agli Enti territoriali minori, come opportunamente rilevato da M. Cardillo, Il ruolo dei Comuni nell’applicazione del principio di sussidiarietà fiscale, in Dir. e prat. trib., 2012, 343 e ss. (116) Art. 7, comma 1, lett. b), L. n. 42/2009. A tale livello la riemersione di forme impositive parafiscali appare direttamente correlata ai pincipi di continenza e di correlazione.


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resto, appare complessivamente ordinata alla instaurazione di una proporzionalità diretta fra i tributi riscossi in una determinata area territoriale e le relative risorse autonome. Tali forme impositive trovano ancor più ampia affermazione nell’ambito del c.d. federalismo municipale, ove i tributi di scopo sono individuati quali primaria fonte di finanziamento dell’Ente territoriale (117). Nel complesso l’autonoma iniziativa fiscale degli Enti territoriali risulta, dunque, fortemente condizionata dai limiti introdotti dal principio di incompatibilità e dai tangenti nuclei normativi (infra, §§ 5 e ss.). 5. Spazi di autonomia ‘autodefiniti’ e vincoli ‘eterodeterminati’. L’autonomia finanziaria degli Enti territoriali nella prospettiva multilivello. Spunti ricostruttivi. – Sinteticamente ricostruita l’evoluzione del processo di integrazione e delineati i tratti salienti dell’architettura federalista domestica, è possibile valutare l’incidenza della disciplina statal-ausiliativa sugli spazi di autonomia riferibili agli Enti territoriali nazionali, anche alla luce dei segnalati fenomeni di interazione con nuclei normativi ed assiologici tangenti e della (eterodiretta) disciplina dei vincoli di bilancio. 5.1. I vincoli derivanti in via immediata dal principio di incompatibilità. – Al di là dell’aderenza dell’attuale assetto decentrato delineato agli originari obiettivi della riforma, ciò che nella prospettiva sovranazionale preme maggiormente stabilire è se il federalismo domestico, nella sua attuale configurazione: a) individui gli Enti territoriali come enti finanziariamente autonomi; b) abbia carattere simmetrico, ovvero, asimmetrico (118).

Questi ultimi, implicando il radicamento delle fattispecie impositive regionali (tributi propri) nell’ambito delle materie di competenza regionale, istituiscono un univoco collegamento tra esercizio della potestà impositiva e funzioni devolute all’Ente territoriale. (117) Cfr. art. 12 L. n. 212/2000, recante la delega all’emanazione di decreti legislativi aventi ad oggetto “la disciplina di uno o più tributi propri comunali che, valorizzando l’autonomia tributaria, attribuiscano all’ente la facoltà di stabilirli e applicarli in riferimento a particolari scopi quali la realizzazione di opere pubbliche e di investimenti pluriennali nei servizi sociali ovvero il finanziamento degli oneri derivanti da eventi particolari quali flussi turistici e mobilità urbana”. (118) La configurazione di una organizzazione federalista (sotto il profilo politico, amministrativo, fiscale) non postula l’omogeneità della distribuzione ‘orizzontale’ dei poteri di governo, i quali possono essere oggetto di più intensa devoluzione in favore di talune entità territoriali, anche alla luce delle peculiarità storiche, geografiche ed economiche relative. Segnatamente, è dato distinguere tra forme di decentramento: asimmetrico, nell’ambito delle quali la posizione degli Enti territoriali risulta connotata da livelli di autonomia (normativa,


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Sotto il primo aspetto (a), significative criticità sono indotte: 1. dal difetto di autonomia normativa degli Enti territoriali minori, condizione essenziale ai fini della configurazione di una autonomia tributaria effettiva (119); 2. dalla presenza di meccanismi redistributivi (120); 3. dal sistema di trasferimenti perequativi approntato dalla Legge n. 42/2009 e, segnatamente, dai trasferimenti finalizzati a ridurre le differenze nella capacità fiscale delle diverse Regioni (c.d. perequazione orizzontale) (121) (122). Sotto il secondo aspetto (b) viene in rilievo il differente (e più elevato) grado di autonomia costituzionalmente

amministrativa, tributaria) disomogenei; simmetrico, nell’ambito delle quali gli Enti territoriali godono di livelli di autonomia tendenzialmente omogenei (c.d. Stati pluriregionali). Per una approfondita analisi dei diversi modelli, sia consentito rinviare alla diffusa ricostruzione di G. D’Ignazio, Integrazione europea e asimmetrie regionali: modelli a confronto, Milano, 2007. (119) L’autonomia tributaria, invero, costituisce promanazione della più generale ‘autonomia di diritto pubblico’ (titolarità di un potere normativo da parte di Enti non sovrani e non originari, S. Romano, Autonomia, in Frammenti di dizionario giuridico, Milano, 1953, p.15 e ss.), nell’ambito della quale, si inserisce come peculiare declinazione della ‘autonomia finanziaria’ (infra). Essa, segnatamente, costituisce manifestazione della ‘autonomia di entrata’ dell’Ente titolare, rinvenendo il proprio caratterizzante ‘riscontro fenomenico’ nella produzione di norme impositive e nell’attuazione di queste ultime attraverso l’esercizio di poteri di accertamento, di riscossione e sanzionatori (G.A. Micheli, Premesse per una teoria dell’imposizione, in Riv. dir. fin., 1967, 265 e ss.). (120) Intesa quale potere di autodeterminazione delle risorse necessarie al perseguimento dei propri fini attribuito dall’ordinamento ad un dato soggetto. L’evoluzione storica, normativa e dottrinale consente di evidenziare una duplice accezione di ‘autonomia finanziaria’. Il corrispondente potere di autodeterminazione può, invero: i) essere limitato al solo versante della spesa, così risolvendosi nella mera indipendenza finanziaria del soggetto autonomo rispetto al contingente indirizzo politico del soggetto finanziatore (c.d. autonomia di spesa); ii) ricomprendere un ben più signficativo potere di (auto)determinazione delle risorse, cui consegue la possibilità, per l’Ente autonomo, di attuare delle politiche di bilancio ‘individuali’ sul versante del prelievo (c.d. autonomia di entrata). Sul punto, M.S. Giannini, voce Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. del diritto, IV, Milano, 1959, 360 e ss. (121) Art. 9, comma 2, lett. g), nn. 1 e 2, L. n. 42/2009. (122) Il fatto che, a tali fini, non sia stata espressamente esclusa la rilevanza delle variazioni di gettito indotte dalle misure fiscali sovventive adottate dalle Regioni nell’esercizio della propria autonomia, costituisce, invero, un serio ostacolo al superamento del test di autonomia. Identici rilievi possono, peraltro, operarsi con riguardo ai trasferimenti di cui al comma 5 dell’art. 119 Cost. e all’art. 16 della L. n. 42/2009. Di questo avviso R. Gonzales Piñeiro, Aiuti di Stato,“selettività regionale” e politiche fiscali agevolative delle Regioni, cit., 918-919, il quale ritiene che l’attuazione di un’autonomia di sviluppo da parte delle regioni esiga la modifica della disposizione richiamata, volta ad escludere dal calcolo del gettito per abitante e del gettito medio per abitante le variazioni di gettito determinate dall’esercizio dell’autonomia tributaria regionale.


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riconosciuto alle Regioni a Statuto speciale (123), che la stessa legge delega ha posto in posizione esterna rispetto al sistema. La potenziale asimmetria del decentramento fiscale domestico costituisce un dato essenziale nella prospettiva concorrenziale poiché i criteri valutativi individuati dal test di autonomia risultano distintamente modulati in funzione della omogeneità, ovvero, della eterogenità dello spazio di autonoma manovra riferito all’entità sub-statale rispetto al contesto nazionale. Nelle ipotesi di decentramento simmetrico, invero, le misure fiscali territorialmente (ma non oggettivamente e soggettivamente) selettive sono considerate automaticamente compatibili con il mercato unico in quanto coerenti con il sistema tributario (124). Ricorre, a ben vedere, una parziale marginalizzazione della realtà istituzionale e procedurale sub-statale; la coerenza della misura, invero, è valutata in funzione della struttura del sistema nazionale e non della partita realtà territoriale (125). Viceversa, nelle ipotesi di decetramento asimmetrico ricorre una trasversale valorizzazione degli spazi di autonomia dell’ente sub-statale, che, in ragione dell’unicità delle proprie prerogative, viene in rilievo sia come spazio territoriale, che anche come realtà istituzionale autonoma, cosicché la coerenza della relativa iniziativa sovventiva dovrà valutarsi in funzione del sistema territoriale isolatamente considerato (126). Un ulteriore profilo di criticità è, infine, rappresentato dalla centralità della fiscalità di vantaggio nel sistema delineato dalla Legge delega. La sostanziale coincidenza di quest’ultima con il fenomeno agevolativo (e, dunque, con una ‘spesa fiscale’ rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina statal-ausiliativa) rende palese il ruolo nevralgico della verifica delle condizioni di autonomia dell’Ente. Ed invero, le iniziative agevolative indirizzate ai soli soggetti residenti potranno essere ritenute compatibili con la disciplina concorrenziale sovranazionale unicamente qualora l’Ente configuri un spazio territoriale autonomo.

(123) Art. 116 Cost., Capo IX, L. n. 42/2009. (124) La diversità del trattamento in tali casi costituisce una regola di struttura del sistema; cosicché eventuali trattamenti differenziati indiscriminatamente attuati su base regionale configureranno degli aiuti fiscali compatibili. (125) La centralità della cornice legislativa statale rispetto a tali forme impositive trova, del resto, ampia conferma nella giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 26 settembre 2003, nn. 296 e 297, del 15 ottobre 2003, n. 311, 26 gennaio 2004, n. 37, 19 luglio 2004, n. 241, 29 dicembre 2004, n. 431, 14 dicembre 2006, nn. 412 e 413, 23 maggio 2008, n.168). (126) Riemerge, in tale ipotesi, la paritetica rilevanza di tutti i criteri enucleati dal test.


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Le questioni sin qui rappresentate non appaiono univocamente definibili, implicando una valutazione inevitabilmente equilibrativa e, dunque, largamente dipendente dalla specifica formazione e sensibilità scientifica dell’interprete. Ciò premesso, si ritiene di poter sintetizzare, nei seguenti termini, i risultati dell’analisi svolta nei precedenti paragrafi. Agli Enti territoriali nazionali possono senza dubbio riferirsi momenti, anche significativi, di autonomia impositiva (127), ma non poteri di governo autentici (128). Sotto il profilo istituzionale e procedurale, in particolare, appare determinante la formale matrice statale, sia delle misure fiscali originarie (i c.d. tributi propri), che di quelle oggetto di un potere di manovra derivato dell’Ente (i c.d. tributi propri derivati) (129). Tali circostanze, infatti, valgono a circoscrivere l’area delle misure agevo-

(127) Di ‘momenti di autonomia impositiva’discorre R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei. spazi di autonomia, livelli di responsabilità e modelli di federalismo, Milano, 2014, 155. Altra dottrina, ritiene, al contrario, che il c.d. test di autonomia implichi necessariamente un apprezzamento globale ed unitario della situzione istituzionale e finanziaria, non solo dell’Ente territoriale, ma a ben vedere dell’ordinamento generale. Rileva, da ultimo, F. Stradini, Autonomia impositiva delle Regioni a Statuto speciale: il riconoscimento costituzionale e l’erosione del primato tra Corte costituzionale e diritto comunitario, cit., 1216, nella prospettiva del test di autonomia, la formulazione del giudizio di compatibilità implichi un duplice di passaggio: 1. la verifica del modello di federalismo adottato (competitivo, cooperativo, solidaristico); 2. la valutazione delle misure controverse alla stregua anche attraverso l’eventuale applicazione del test di autonomia. (128) La mancanza di forme di autonomia sostanziale quale evenienza dello stesso impianto complessivo delineato dalla riforma del Titolo V è stata diffusamente rilevata dalla dottrina nazionale. In tal senso, si vedano A. Di Pietro, Federalismo e devoluzione nella recente riforma costituzionale: profili fiscali, cit., 2007 e ss., L. Antonini, Dal federalismo legislativo al federalismo fiscale, cit., 400 e ss., A. Giovannini, Normazione regionale in materia tributaria, in Rass. trib., 2003, 1165 e ss., E. Corali, Federalismo fiscale e Costituzione. Essere e dover essere in tema di autonomia di entrata e di spesa di Regioni ed Enti locali, Milano, 2010, V. Ceriani, Federalismo perequazione e tributi, in Rass. trib., 2002, 1664 e ss., Giovanardi, La fiscalità delle Regioni a Statuto ordinario nell’attuazione del federalismo fiscale, in Rass. trib., 6/2010, 1617 e ss., G. Muraro, Dal federalismo alla riforma fiscale, in Rass. trib., 6/2010, 1637 e ss. (129) Il territorio regionale potrà, invero, assumersi quale contesto geografico rilevante unicamente in relazione alle modulazioni afferenti elementi autonomamente disciplinati dalla Regione entro i suoi spazi di governo. A tali fini è, dunque, necessario che la modulazione del trattamento fiscale non sia riconducibile ad un potere di intervento dello Stato centrale che abbia ‘diretto’ o, comunque, orientato l’adozione della misura, contribuendo ad individuarne i beneficiari, come osservato da Coppola, Il Fisco come leva ed acceleratore delle politiche di sviluppo, Padova, 2012, 161.


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lative compatibili a quelle disposte nell’esercizio di poteri simmetricamente distribuiti (130). In tale prospettiva, le Regioni a Statuto ordinario e quelle a Statuto speciale (131) si configurano indubbiamente come aree geografiche rilevanti rispetto alle misure attinenti alla modulazione (132) dei c.d. tributi propri (133), venendo in rilievo l’esercizio autonomo di un potere simmetricamente ‘distribuito’ nell’ambito di un assetto decentrato (134). Maggiormente problematico l’inquadramento dei poteri di modulazione attribuiti in relazione ai c.d. tributi propri derivati, differentemente articolato in funzione del carattere ordinario, ovvero, speciale delle autonomie regionali. Vengono in rilievo, a tale livello, gli uleriori margini di autonomia riferiti alle Regioni a Statuto speciale, i cui più ampi poteri di manovra (art. 116 Cost., Capo IX, L. n. 42/2009) introducono profili di asimmetria nella costruzione federalista domestica, determinando una ‘riemersione’ del parametro istituzionale e procedurale. Ne discenderebbe l’impossibilità di assumere il territorio delle Regioni ordinarie come spazio territoriale autonomo e la conseguente necessità di valutarne l’iniziativa sovventiva in funzione della coerenza con il sistema tributario statale. La maggiore consistenza istituzionale e procedurale delle autonomie regionali speciali ne consentirebbe, invece, l’elevazione ad area geografica rilevante. Determinante, a tale livello, il rilievo riferito ai persistenti meccanismi perequativi (135). Qualora, infatti, se ne assumesse la totale estraneità rispetto

(130) In ragione della minor rilevanza della realtà istituzionale e procedurale dell’ente nei contesti simmetrici. (131) Osserva R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei. spazi di autonomia, livelli di responsabilità e modelli di federalismo, cit., 156 come, sotto tale aspetto, non sussista una differenza sostanziale quanto al grado di autonomia riconosciuto alle Regioni a Statuto ordinario e alle Regioni a Statuto speciale, distinte unicamente quanto al profilo ‘quantitativo’ della entità dei presupposti individuabili (maggiore nelle Regioni a statuto speciale). (132) Si ritiene che l’istituzione di tributi non rientri – a rigore – nell’ambito di operatività del divieto di aiuti in quanto esercizio di una prerogativa sovrana (devoluta, nell’ipotesi considerata ad un Ente territoriale), non censurabile sotto il profilo della distorsione, ma unicamente sotto quello della discriminazione. (133) In questo senso, G. Fransoni, Gli aiuti di stato fra autonomia e capacità contributiva, in Riv. dir. trib., 2006, 259 e da ultimo Miceli, op. loc. ult. cit. (134) Nell’ambito di un simile assetto non è, infatti, dato individuare un trattamento fiscale generale rispetto a cui verificare l’esistenza di una ‘deroga’ rilevante nella prospettiva concorrenziale. In questo senso, R. Gonzales Piñeiro, Aiuti di Stato,“selettività regionale” e politiche fiscali agevolative delle Regioni, cit., 915. (135) L’incidenza di tali meccanismi sull’esito del test di autonomia non può determinarsi


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alle misure fiscali controverse, il territorio della Regione a Statuto speciale dovrebbe assumersi quale area geografica rilevante, così risultando compatibili le misure fiscali di vantaggio orientate al sostegno trasversale della collettività di riferimento. Anche gli Enti locali minori sono soggetti al divieto di aiuti di Stato in relazione alla modulazione dei relativi tributi propri derivati, istituiti dallo Stato o dalla Regione (136). Nella prospettiva multilivello, tuttavia, la relativa iniziativa fiscale è destinata ad essere inquadrata in un contesto geografico più ampio (statale o regionale), in funzione del quale dovrà esserne valutata la selettività e la coerenza (137). Il quadro delineato rende evidente la stringenza dei vincoli imposti all’autonomia tributaria regionale, anche a seguito della rimodulazione del canone della ‘selettività territoriale’, dalla normativa statal-ausiliativa. 5.2. (Segue) I vincoli derivanti dall’interazione col principio di non discriminazione e dal contrasto alla Harmful Tax Competition. – La sovrap-

in maniera assoluta, risultando strettamente connessa alla concreta declinazione del nesso causale. Sostiene R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei. spazi di autonomia, livelli di responsabilità e modelli di federalismo, cit., 159, che l’esistenza di tali misure non sia idonea a far venire meno la responsabilità economica dell’Ente ai fini del test di autonomia, attese le finalità generali perseguite dagli interventi perequativi effettuati dallo Stato che ne escluderebbero il collegamento con le discipline locali fiscali. L’indirizzo è condiviso da G. Fransoni, Gli aiuti di stato fra autonomia e capacità contributiva, cit., 259. L’A., pur intravedendo le problematicità indotte da tali meccanismi, ritiene ferma la piena responsabilità economica dell’Ente e, dunque, la relativa autonomia finanziaria nella prospettiva propria del test di autonomia. (136) Si è del resto chiarito come qualsiasi misura fiscale di sostegno sia suscettibile di configurare un ‘aiuto di Stato’, indipendentemente dal fatto che la relativa fonte sia costituita da disposizioni di natura legislativa, regolamentare o amministrativa (Comunicazione della Commissione, 10 dicembre 1998, COM 98/C 384/03, lett. B, punto 10). (137) L’impostazione non è condivisa da R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei. spazi di autonomia, livelli di responsabilità e modelli di federalismo, cit., 155 e ss. L’A. ritiene che il c.d. test di autonomia non abbia ad oggetto il complesso dei poteri riconosciuti all’Ente sub-statale nell’ambito dell’assetto decentrato, bensì lo specifico segmento autoritativo la cui esplicazione ha condotto all’emanazione della misura controversa. In tale prospettiva, gli Enti territoriali nazionali devono tendenzialmente ritenersi ‘autonomi’ e, dunque, idonei a porsi quale area geografica rilevante ai fini della valutazione della ‘selettività’ delle misure fiscali sovventive. Altra dottrina – cui si ritiene di aderire – ritiene, al contrario, che il c.d. test di autonomia implichi necessariamente un apprezzamento globale ed unitario della situzione istituzionale e finanziaria, non solo dell’Ente territoriale, ma dell’ordinamento generale. In tale senso, da ultimo, F. Stradini, Autonomia impositiva delle Regioni a Statuto speciale: il riconoscimento costituzionale e l’erosione del primato tra Corte costituzionale e diritto comunitario, cit., 1216.


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posizione ideologica e fenomenica tra ‘incompatibilità’ e ‘discriminazione’ operata dalla prassi istituzionale e giurisprudenziale europea – (a quale, come visto, induce una sostanziale (ed illegittima) compressione della postestà tributaria statale) (138) – riverbera in una analoga compressione dell’autonomia tributaria degli Enti territoriali. Superato il test di autonomia, questi ultimi risulteranno, infatti, soggetti: i) ai vincoli derivanti dalla normativa strettamente concorrenziale (aiuti di Stato), in ordine alla modulazione dei tributi propri derivati; ii) al principio di non discriminazione ed ai criteri di uniformità sottesi paradigma della ‘Healthy Tax Competition’, in ordine alla istituzione dei tributi propri (misure generali regionali). Né la diretta soggezione degli Enti territoriali nazionali a tali principi/ nuclei normativi può – alla luce dell’attuale assetto ordinamentale – essere validamente revocata in dubbio. Numerose disposizioni nazionali impongono, invero, agli Enti territoriali di rispettare i principi europei nell’esercizio dei propri poteri legislativi ed amministrativi (139), quale pendant deontico dei poteri di iniziativa e di intervento progressivamente riconosciuti ai medesimi nell’ambito della ‘fase ascendete’ e ‘discendente’ (140) del processo di integrazione. Ne discende un sostanziale ‘depotenziamento’ della pur formalmente riconosciuta autonomia tributaria degli Enti tributari nazionali, fortemente limitata dalla partecipazione unionale, sia nel suo contenuto ‘modulare’ (introduzione di trattamenti fiscali agevolativi settoriali a partire dalla comune disciplina dei tributi propri derivati), che nella sua componente ‘creativa’ (delineazione della discplina dei relativi tributi propri ed, in particolare, determinazione della base imponibile, delle aliquote e delle fattispecie escluse). 5.3. I limiti imposti dal Patto di Stabilità interno. Il sostanziale depotenziamento dell’autonomia finanziaria territoriale. – Si è visto come la ‘costitu-

(138) Supra, § 2.6. (139) Come osserva, R. Miceli, Federalismo fiscale e principi europei. spazi di autonomia, livelli di responsabilità e modelli di federalismo, cit., 7. (140) Tali denominazioni sono descrittive della partecipazione degli Enti nazionali (statali e sub-statali) alla formazione del diritto europeo (fase c.d. ascendente) ed alla attuazione/ uniforme applicazione del medesimo (fase c.d. discendente). Vengono in rilievo, per quanto riguarda le Regioni, i vincoli derivanti dal combinato disposto del comma 1 dell’art. 117 e del comma 2 dell’art. 120 Cost.; per quanto riguarda gli Enti locali minori, dal combinato disposto del comma 2 cit. e delle previsioni di cui alla recente Legge 24 dicembre 2012, n. 234.


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zionalizzazione’ del pareggio di bilancio abbia implicato il diretto ed espresso coinvolgimento degli Enti territoriali nella realizzazione degli obiettivi macroeconomici imposti dall Fiscal Ccompact, i cui parametri dovranno essere rispettati, non solo a priori, ma anche a consuntivo. Gli Enti territoriali (ed in particolare, gli Enti locali minori) risultano così restii ad iscrivere nei propri bilanci entrate la cui esigibilità risulti incerta, configuranti potenziali residui attivi non riscuotibili. Ne discende una sostanziale disincentivazione della spesa per investimenti, anche alla luce della concomitante riduzione dei trasferimenti statali e del carattere insopprimibile di numerose spese correnti. In tale contesto sussiste il fondato pericolo che le entrate tributarie (correnti) – ex lege destinate a finanziare spese in conto capitale – possano essere ‘deviate’ a compensazione dei predetti tagli (141). Tale deviazione risulta centrale rispetto alla c.d. imposizione di scopo deputata a costituire – nelle aspirazioni della Legge delega – uno dei pilastri dell’imposizione locale (e, segnatamente, comunale). L’interruzione del vincolo tra imposizione ed erogazione dei servizi preventivamente individuati non solo determina il venir meno dei benefici tradizionalmente ascritti a tale forma impositiva a livello di accauntability e di trasparenza nella gestione delle risorse fiscali, ma induce altresì una deviazione a livello della stessa ‘ratio’ fiscale dell’istituto, idealmente preordinato al finanziamento di funzioni e non al ‘ripianamento di perdite’. Nella prospettiva eminentemente concorrenziale viene in rilievo l’ipotesi in cui gli Enti medesimi – a fronte dei predetti ‘tagli’ nei trasferimenti – decidano di attingere al gettito dei tributi di scopo per finanziare talune spese per investimenti, diverse da quelle espressamente contemplate nell’ambito del vincolo rilevante (ed, in particolare, misure sovventive volte a sostenere determinati operatori/settori). L’interruzione del vincolo di scopo costuisce – come visto – il presupposto per l’inquadramento della successiva erogazione come ‘sovvenzione’ nella prospettiva statal-ausiliativa. In tale prospettiva, la frustrazione ideologica della forma impositiva si associa alla materiale inibizione della relativa funzione di finanziamento.

(141) Come osserva C. Sciancalepore, I vincoli comunitari, in Aa.Vv., La fiscalità locale tra modelli gestori e nuovi strumenti di prelievo, a cura A. F. Uricchio, Santarcangelo di Romagna, 2014, 171.


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6. Conclusioni. – La progressiva sovrapposizione ideologica ed operativa tra principio di incompatibilità e divieto di discriminazioni fiscali, in vista del contrasto alla c.d. concorrenza fiscale dannosa, ha determinato – complice l’assenza di un solido referente normativo – una decisa espansione della nozione di aiuto fiscale, estesa a ricomprendere, non solo il complesso delle misure lato sensu agevolative (ivi comprese le norme di esclusione e le misure fiscali generali), ma anche le stesse forme impositive in sé considerate ‘degradate’, nella prospettiva propria della ‘non discriminazione’, ad oggetto del sindacato istituzionale sovranazionale. L’inquadramento dei tributi nell’ambito della emergente nozione di ‘aiuti discriminatori’ appare controverso, sia dal punto di vista statico (strutturale), che dal punto di vista dinamico (relazioni internazionali). Il sistema delle libertà di circolazione costituisce, invero, un nucleo normativo (storicamente, logicamente e deontologicamente) distinto rispetto alla disciplina della concorrenza. A livello operativo, inoltre, la difformità delle fattispecie normative ne esclude la piena sovrapponibilità. Le conseguenze sistematiche, ideologiche ed operative di tale commistione sono particolarmente significative, imponendo una complessiva rivalutazione dei rapporti tra i diversi livelli della ‘struttura’. L’asservimento dell’incisivo corredo conformativo approntato dagli artt. 107 e 108 TFUE (ideologicamente preordinato alla tutela della concorrenza tout court) al contrasto alla concorrenza fiscale, comporta una evidente lesione della potestà tributaria degli Stati membri e dei relativi Enti territoriali autonomi, in difetto di qualsiasi corrispondente devoluzione ed attribuzione di poteri normativi. Nondimeno, tale competenza tributaria europea, agevolata – nella sua affermazione, dai meccanismi di adeguamento automatico introdotti a livello interno è destinata a prevalere, in caso di contrasto – sulla normativa interna, quand’anche conforme a principi e valori costituzionalmente affermati (142). È innegabile che un simile assetto si risolva: i) nell’introduzione di significativi limiti alla individuazione dei presupposti impositivi; ii) in un sostanziale depotenziamento della leva fiscale; iii) in una complessiva ‘marginalizzazione’ del diritto tributario nazionale, compromesso nella sua specifica autonomia normativa e deprivato – a livello ideologico – della sua stessa identità (143).

(142) In senso critico, M. Laroma Jezzi, Principi tributari nazionali e controllo sopranazionale sugli aiuti fiscali, cit., 91 e ss. (143) Come rilevato da M. Ingrosso, La comunitarizzazione del diritto tributario e gli


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Le matrice storica e politica della sovrapposizione segnalata deve individuarsi nella progressiva connotazione sociale e solidaristica del processo di integrazione economica. La relativa tensione verso una ‘economia sociale di mercato’ impone, infatti, il soddisfacimento di istanze sociali solitamente ascritte alla funzione fiscale. Si rende, pertanto, necessario, in tale rinnovata prospettiva, il superamento dell’originaria impostazione pattizia, improntata ad una visione strettamente ‘negativa’ della funzione fiscale, fattore di alterazione dei diritti proprietari rilevante unicamente nella prospettiva del mercato comune (imposizione indiretta) (144). È dunque la stessa ‘costituzione economica’ ad imporre – nel suo implementato impianto assiologico e teleologico – la necessità di una autonoma ‘fiscalità europea’ e la trasmigrazione dei corrispondenti poteri normativi in capo alle istituzioni sovranazionali. Nella prospettiva eminentemente interna, tuttavia, l’obiettivo si pone in aperto contrasto con il libero esercizio, da parte degli Stati membri, della propria (gelosamente e deliberatamente preservata) sovranità impositiva. La consapevolezza di tale contrapposizione ha indotto le istituzioni europee a perseguire le proprie finalità di coordinamento in maniera indiretta (145). A tale livello, la normativa statal-ausiliativa si è posta in posizione utilmente strumentale, aprendo un varco all’intervento istituzionale in materia di imposizione diretta. Il pacifico inquadramento delle misure fiscali sottrattive come aiuti fiscali, l’utilizzo estensivo di poteri normativi ed inibitori pacificamente attribuiti in relazione ad altri settori (libertà di circolazione), combinati agli incisivi poteri conformativi previsti dalla disciplina statal-ausiliativa, hanno determinato il passaggio dall’esercizio di una mera influenza mediata da strumenti puramente dissuasivi all’esercizio di una vera e propria competenza attraverso atti dotati di valore normativo (le decisioni negative della Commissione e le pronunce della Corte di Giustizia).

aiuti di Stato, in Aa.Vv., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009, 3 e ss. (144) Rileva lo stretto collegamento con l’ideologia neoliberista dell’originario approccio emergente dai Trattati istitutivi F. Gallo, Il ruolo dell’imposizione dal Trattato dell’Unione alla Costituzione europea, in Rass. trib., 5/2003, 1473 e ss. (145) Non di rado, del resto, nel contesto internazionale, la modifica delle impostazioni politiche od economiche degli Stati passa attraverso modalità apparentemente negoziali, formalmente configurandosi l’accettazione di taluni standard e condizionamenti politico-economici come ‘consensuali’ e ‘negoziali’.


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La transizione risulta, peraltro, ulteriormente agevolata e rafforzata dall’introduzione – su base volontaristica (146) e sulla scorta della destabilizzazione indotta dalla crisi economica mondiale – di ulteriori vincoli di bilancio e criteri di gestione politico-economica (c.d. Fiscal Compact). Il recepimento di questi ultimi a livello costituzionale pone, invero, le fondamenta di una più intensa (e legittima) incidenza europea sulla politica economica degli Stati aderenti, preludio della definitiva (e positiva) affermazione di un formale potere normativo dell’Unione in materia di imposizione diretta legittimante la costruzione di una autonoma potestà tributaria unionale. Nel contesto delineato la valorizzazione delle autonomie ‘simmetriche’ assume una funzione strumentale non immediatamente percepibile, eppure logicamente coerente. L’Unione europea non ha, come noto, un apparato amministrativo (147). Di qui, l’opportunità di un decentramento delle funzioni amministrative attuato secondo i principi di prossimità e sussidiarietà, volto a dare corpo a quella Europa delle Regioni (148) preconizzata, già negli anni Trenta, dagli ambienti intellettuali francesi ed autorevolmente accolta e sviluppata – in un più recente passato – da Denis de Rougemont (149) ed, in seguito, con più ampia risonan-

(146) Ricorre, nondimeno, un’azione di pressione e coordinamento discendente, sebbene dissimulato dal binomio attuativo uniformazione – beneficio, disomogeneità – misure repressive. Per una dffusa analisi degli strumenti di pressione sugli Stati evidenziati dalla prassi internazionale, si veda M. Orlandi, Lezioni di Diritto internazionale dell’Economia, Napoli, 2009, 119 e ss. (147) Del resto, risulta storicamente provata l’inefficienza degli assetti centralizzati in ordine a contesti politici ed economici ampi quanto a dimensioni ed eterogenei quanto a strutturazione. (148) Antitesi politico-ideologica della Europa delle patrie paventata da Charles De Gaulle. Secondo lo statista francese il fulcro politico-ideologico della costruzione comunitaria era comunque rappresentato dai singoli Stati quali espressione di un ‘comune sentire nazionale’. In tale prospettiva, le Comunità europee venivano in rilievo quali semplici aggregazioni funzionali dei diversi Stati (organismi inter-nazionale) e non come un ordinamento autonomo (sovra-nazionali). Di qui, la conseguente preminenza (in ambito comunitario) degli organi espressione diretta degli Stati rispetto agli altri organismi comuni, sottofondo storico ed assiologico della nota crisi della sedia vuota. Per un approfondimento si rinvia all’esaustiva ricostruzione di A. Moravcsik, De Gaulle and Europe: Historical Revision and Social Science Theory, in Working Paper Series - Program for the Study of Germany and Europe, Cambridge (MA), disponibile su http://aei.pitt.edu. (149) Nel suo noto saggio L’aventure occidentale de l’homme (1957), l’A. – nell’ambito di un’ampia riflessione sulla ‘cultura’ – oppone al “principio distruttore dello Stato-nazione”, origine di tutte le guerre in Europa, oppone un “federalismo creatore”, basato sui Comuni e sulle Regioni.


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za, da Daniel Bell (150), padri dell’odierna assiologia della ‘federazione di unità di meso-livello’ (151). Ovviamente l’esercizio di funzioni implica la titolarità delle risorse finanziarie volte a coprirne i costi. Trova così piena giustificazione l’indirizzo istituzionale volto, da un lato, a comprimere la potestà impositiva degli Stati, dall’altro a valorizzare (contestualmente ed in maniera apparentemente incoerente) la potestà impositiva e i relativi enti territoriali autonomi. In tale prospettiva il canone della selettività, assunto nelle sue più recenti declinazioni fiscali, costituisce il fulcro ed il principale strumento di realizzazione di un nuovo assetto tributario, politico ed istituzionale europeo, connotato dalla eliminazione degli Stati nazionali, scomodamente interposti tra il nucleo politico e decisionale della struttura (le istituzioni europee) ed i relativi rami operativi (gli Enti territoriali) (152). La maggiore flessibilità nella valutazione delle misure fiscali regionali nell’ambito degli assetti ‘asimmetrici’ rinviene, invece, il proprio fondamento nel contrasto alla delocalizzazione delle attività produttive verso Paesi terzi. In tale prospettiva, gli aiuti regionali risultano assoggettati a criteri valutativi più ampi e meno stringenti, soprattutto sotto il profilo della attitudine distorsiva, materialmente compensata dai relativi effetti positivi sulla ‘delocalizzazione’ interna (153). Qualora questa sia – come si crede – l’effettiva trama politico-ideologica sottesa alle dinamiche ed ai fenomeni sin qui descritti, non può non eviden-

(150) Nel celeberrimo The Cultural Contradictions of Capitalism (1976), l’A. rileva l’inadeguatezza ‘dimensionale’ degli Stati nazionali rispetto alle problematiche economico-sociali indotte dalle dimaniche proprie del capitalismo post-industriale. (151) Le relative linee di sviluppo sono oggetto di accurata ricostruzione da parte di Caciagli, Integrazione europea e identità regionali, in CIRES Working Papers, 1/2001, 9 e ss. (152) Di Regioni “poco amministrative e molto amministrative” discorre, non a caso, F. Gallo nelle conclusioni della più volte richiamata lectio magistralis del 31 gennaio 2013 (Gallo, Profili finanziari del regionalismo differenziato, cit., 12). (153) Soprattutto nell’ipotesi in cui vengano in rilievo territori che – per prossimità geografica, culturale e storica – rappresentino degli ‘avamposti’ dell’Unione (A.E. La Scala, Gli aiuti a finalità regionale tra autonomia statutaria, solidarietà e libero mercato, in Aa.Vv., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009, 755 e ss., 780). In linea con tale tendenza si pone, del resto, anche l’esperienza relativa alle c.d. Zone franche urbane, diffusamente analizzata da P. Coppola, Nuove forme agevolative: la sperimentazione italiana di Zone franche urbane, in Aa.Vv., Agevolazioni fiscali e aiuti di Stato, a cura di M. Ingrosso e G. Tesauro, Napoli, 2009, 573 e ss., Id., Il Fisco come leva ed acceleratore delle politiche di sviluppo, cit., 279 e ss.,


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ziarsene – senza che a tale notazione sia da attribuirsi una portata ‘antieuropeista’ che in alcun modo le appartine – l’indubbia connotazione tutoria dell’assetto delineato. Riemerge, in definitiva, quel deficit democratico che sembra costituire il vero leitmotiv dell’esperienza europea, negativamente connotata non tanto sotto il profilo legittimazione, quanto sotto quello della condivisione (154).

Sarah Eusepi

(154) Sovvengono le osservazioni di un noto Autore in ordine alla intrinseca connotazione antidemocratica (giacché antipolitica) dell’Unione, che si desidera, a chiusura della presente riflessione, richiamare integralmente: “quando si denunciano le tecnocrazie europee e si invoca che esse siano sostituite o sorrette da volomtà democratiche non ci si avvede di negare lo stesso fondamento dell’Unione. La tecno-economia che pretende di interpretare leggi ‘naturali’ o di appoggiarsi a fatti accertabili per esperienza, respinge i conflitti di idee. Essa è intrinsecamente anti-politica: alle battaglie di idee e di forze sociali oppone l’incontestabile sapere dei tecnici. Gli ‘esperti’, i ‘competenti’, i ‘professionisti’ prendono il luogo dagli uomini politici; la pacificante uniformità della tecnica, il luogo dei conflitti e delle umane storie” (N. Irti, Diritto europeo e tecno-economia, cit., 4).



Giurisprudenza e interpretazione amministrativa

Cassazione, sez. V civ., 10 marzo 2014 - 27 marzo 2015, n. 6200, Pres. Bielli, Est. Cirillo Detrazione – Diritto a detrazione e al conseguente rimborso – Spese sostenute su immobili di terzi – Ammissibilità – superamento delle preclusioni derivanti dalla presunzione di “non operatività della società” ex art. 30 legge n. 724 del 1994 – Condizioni – Prova contraria – Ammissibilità anche in sede processuale – Mancata previa presentazione dell’istanza di disapplicazione – irrilevanza – Inesistenza nell’immediato di operazioni attive – Irrilevanza In materia d’imposta sul valore aggiunto, in virtù del principio fondamentale di neutralità, il contribuente può esercitare il diritto alla detrazione ed ottenere il conseguente rimborso dell’IVA assolta sulle spese di ristrutturazione dell’immobile destinato all’esercizio dell’attività d’impresa, anche se non ne è proprietario, ma conduttore o comodatario, non ostando a tale conclusione la circostanza della mancata presentazione dell’interpello disapplicativo previsto per le c.d. “società non operative”, salvo che i costi siano fittizi e sia, perciò, configurabile una fattispecie fraudolenta o comunque effettivamente elusiva. La prova della sussistenza del diritto può essere fornita anche al di fuori della procedura prevista dal combinato disposto dell’art. 30, comma 4-bis della legge n. 724 del 1994 e dell’art 37-bis del DPR 600 del 1973, e dunque anche in sede processuale. (1)

(Omissis)

Ritenuto in fatto. 1. In riferimento all’anno d’imposta 2007 la soc. VIOLA di Viola E.; Co. chiedeva il rimborso dei credito IVA di 210 mila euro adducendo l’acquisto di beni ammortizzabili. Il fisco negava il rimborso sia perché il credito d’imposta derivava da spese per la ristrutturazione di un immobile alberghiero condotto in locazione ritenute non suscettibile di ammortamento, mancando il requisito della proprietà dell’immobile, sia perché la società, all’epoca inattiva, non aveva mai attivato la preventiva procedura dell’interpello disapplicativo. Il diniego, impugnato dalla società, era annullato in prime cure con decisione confermata in appello dalla sezione messinese della Commissione tributaria regionale della Sicilia, giusta sentenza del 14 marzo 2011. 2. Il giudice di secondo grado motivava la pronunzia ritenendo, sul primo punto controverso, che il decreto IVA (D.P.R. n. 633 del 1972), agli artt. 30 e 38 bis, non


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poneva alcuna distinzione tra spese inerenti a immobili appartenenti alla parte contribuente e spese inerenti ad immobile rilevato in locazione dalla parte contribuente; aggiungeva che l’elemento discriminante non era la proprietà dell’immobile bensì l’inerenza delle spese di ristrutturazione come costo d’impresa diretto a produrre in futuro maggiori ricavi e maggiori redditi. Sulla seconda questione controversa, rilevava che, avendo il fisco riscontrato in loco che il fabbricato adibito ad albergo era in fase di completa ristrutturazione, aveva quindi appurato la ragione per la quale negli ultimi tempi la società non aveva posto in essere operazioni attive, così rientrando nel perimetro delle fattispecie disapplicative della normativa antielusiva disegnato dalla Circolare n. 5 del 2007. 3. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione per vizi motivazionali e violazioni di norme di diritto. La società resiste con controricorso, ricorso incidentale (sulla compensazione delle spese) e memoria. Considerato in diritto. 4. L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione per vizi motivazionali (motivo 1) e per violazioni dell’art. 30, comma 3 - lett. c), del decreto IVA (motivo 2) e della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1 e comma 4 bis (motivo 3). Con i primi due motivi la ricorrente principale censura su piano della motivazione e della tesi giuridica la sentenza d’appello nella parte in cui trascura che ai fini (della detrazione d’imposta e quindi) del rimborso è necessario che la spesa sostenuta riguardi beni strumentali i quali, utilizzati nel ciclo produttivo direttamente dall’imprenditore, siano da questo posseduti a titolo di proprietà o di altro diritto reale e, in quanto tali, fiscalmente ammortizzabili. Per cui deve trattarsi di immobilizzazioni materiali (art. 102 TUIR) o immateriali (art. 103 TUIR), ammortizzabili ai fini delle imposte dirette, mentre le spese incrementative su beni di terzi rientrano nella diversa categoria degli oneri pluriennali quali semplici spese relative a più esercizi (art. 108, comma 3, TUIR). Con l’ultimo motivo, la ricorrente ribadisce il proprio assunto secondo cui l’attivazione preventiva dell’interpello disapplicativo, disciplinato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8, fosse condizione indispensabile per essere esonerata dall’osservanza delle disposizioni relative alle società non operative, non bastando il semplice dato dell’impossibilità obiettiva di conseguire ricavi durante la ristrutturazione e la conseguente inagibilità dell’immobile alberghiero. 5. Riguardo ai primi due motivi, si osserva che, in virtù dell’art. 30 del decreto IVA, “il contribuente può chiedere in tutto o in parte il rimborso dell’eccedenza detraibile, se di importo superiore a lire cinque milioni, all’atto della presentazione della dichiarazione... limitatamente all’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni ammortizzabili...”. La Direttiva CE del Consiglio n.112 del 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, stabilisce all’art. 183: “Qualora, per un periodo d’imposta, l’importo delle detrazioni superi quello dell’IVA dovuta, gli Stati membri possono far riportare l’eccedenza al periodo successivo, o procedere


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al rimborso secondo modalità da essi stabilite”. Indi, prevede all’art. 187 che, “per quanto riguarda i beni d’investimento, la rettifica deve essere ripartita su cinque anni” e che, “per quanto riguarda i beni d’investimento immobiliari, la durata dei periodo che funge da base per il calcolo delle rettifiche può essere prolungata sino a vent’anni”. Inoltre chiarisce all’art. 189 che “gli Stati membri possono adottare le misure per definire il concetto di beni d’investimento” e all’articolo 190 che “gli Stati membri possono considerare beni d’investimento i servizi che hanno caratteristiche analoghe a quelle normalmente attribuite ai beni d’investimento”. Infine, la Corte di giustizia rammenta che i principi di neutralità e proporzionalità impongono agli Stati membri di far ricorso a mezzi che portino il minor pregiudizio possibile agli obiettivi e ai principi stabiliti dal diritto dell’UE (sentenze C-112/78 del 20/02/1979, Buitoni; C-265/87 dell’I 1/07/1989, Schrader, C-133/93 del 05/10/1994, Crispoltoni). 6. Il fisco si rifà alla distinzione tra ammortamento dei beni materiali e immateriali (artt. 102 e 103 TUIR), da un lato, e deduzione delle “spese relative a più esercizi” (art. 108, comma 3, TUIR), ricavando la conclusione che solo quelle ammortizzabili ai sensi del TUIR consentono il rimborso dell’IVA assolta per l’acquisto dei relativi beni materiali e immateriali, diversamente dai costi con utilità pluriennale che, sempre secondo il TUIR, sono deducibili ma non ammortizzabili. Si tratta di spese che, nel bilancio civilistico (art. 2424 c.c.), sono classificate tra le “altre immobilizzazioni” di cui al punto B.I.7. In particolare, l’OIC 24 sulle immobilizzazioni immateriali classifica tra le “altre immobilizzazioni immateriali” (p.73) tra l’altro “l’ammortamento dei costi per migliorie dei beni di terzi” (p.95), precisando che esso “si effettua nel periodo minore tra quello di utilità futura delle spese sostenute e quello residuo della locazione”. Ciò pare coerente con l’art. 9 della IV Direttiva sui conti annuali delle società (n. 660 del 1978) che al B consente alle legislazioni nazionali di prevedere le spese di ampliamento sotto le “immobilizzazioni immateriali”. Dunque, le migliorie dei beni di terzi non sono suscettibili di ammortamento fiscale secondo il TUIR, mentre sono assoggettate ad ammortamento di bilancio secondo il codice civile e la Direttiva sui conti annuali. 7. Sul piano dell’IVA si è detto in dottrina che la detassazione degli scambi situati nel ciclo produttivo e distributivo è attuata attraverso la detrazione e determina il rimborso dell’eventuale eccedenza detraibile. La stessa Corte di giustizia non ha mancato di ricordare che l’obbligo del fisco nazionale di rimborsare l’eccedenza dell’IVA si riconnette al diritto del contribuente all’immediato diritto a detrazione (sentenza C-286/94 del 18/12/1997, Molenheide Bvba), secondo un sistema diretto ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche (sentenza C-110/98 del 21/03/2000, Gabalfrisa SL). La Corte di Lussemburgo ha ripetutamele ribadito che, ai fini di stabilire se sia detraibile, o meno un’attività di acquisto o di ristrutturazione di un bene da adibire all’esercizio dell’impresa, deve aversi riguardo all’intenzione del soggetto passivo di imposta, confermata da elementi obiettivi, di utilizzare un bene o un servizio per fini aziendali; il che consente di determinare se, nel momento in cui procede all’operazione a monte, detto soggetto


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passivo agisca come tale, e debba dunque poter beneficiare del diritto a detrazione dell’IVA dovuta o assolta per i detti beni e servizi (sentenze C- 97/90 dell’11/07/1991, Lennartz, e C-400/98 del 08/06/00, Breitshol; conf. C-334/10 del 19/07/2012). Ne consegue, per la Corte di giustizia, che il sistema comune garantisce, di regola, “la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purchè queste siano di per sé soggette all’IVA” (sentenza C-50/87 del 21/09/1988, Commissione c. Repubblica francese; conf. C-268/83 del 14/02/1985, Rompelman). In tale prospettiva, si è detto nella dottrina italiana, “le modalità stabilite dai Paesi membri in funzione del rimborso, ovvero del riporto, dell’eccedenza..., non possono violare il principio fondamentale della neutralità, mediante restrizioni poste all’immediatezza ed all’integralità della deduzione, in modo da far gravare sul soggetto passivo una parte degli oneri (anche di natura finanziaria) dell’IVA, mentre gli stessi dovrebbero gravare esclusivamente sul patrimonio del consumatore finale, al termine dalla catena produttiva e distributiva dei beni e dei servizi” (analogamente nella dottrina francese, in considerazione dell’art. 2 della prima direttiva dell’11 aprile 1967, “tel que defini dans la premiere directive, le systeme communautaire de IVA repose sur le mecanisme centrai de la deduetion, cest lui qui confere a cette taxe les avantages de la neutralita”). 8. Sul piano dei diritto interno, questa Corte di legittimità ha già avuto modo di affermare che l’affittuario di fondi rustici ha il diritto di portare in detrazione l’imposta assolta sulle spese di ristrutturazione dei fabbricati rurali costituenti beni destinati all’esercizio dell’attività agriturista, non rilevando che egli non ne sia proprietario, né potendo il proprietario del fondo essere considerato come destinatario o consumatore finale dei lavori di ristrutturazione (Sez. 5, Sentenza n. 10079 del 30/04/2009), trattandosi di spese incrementative del valore dei beni che si trovano nella sua disponibilità e che vengono eseguite al fine di migliorare la redditività della sua impresa (conf. Sez. 5, Sentenza n. 3544 del 16/02/2010). Ad analoghe conclusioni, questa Corte è recentemente giunta anche in tema di ristrutturazione d’immobile aziendale ottenuto in comodato, ritenendo esservi un interesse idoneo a giustificare il tutto sul piano economico-giuridico, prima ancora che fiscale, atteso che, in siffatta ipotesi, il comodatario ottiene il diritto di disporre dell’immobile al fine di utilizzarlo e adeguarlo per la propria attività economica per la durata del contratto (Sez. 5, Sentenza n. 1959 del 29/01/2014). Ciò che rileva, in definitiva, è la strumentante dell’immobile, sul quale vengono eseguiti i lavori di ristrutturazione o miglioramento, all’attività dell’impresa, a prescindere dalla proprietà del bene da parte del soggetto che esegue i lavori, restando, quindi, irrilevante, di per sé, la disciplina civilistica in tema di locazione e gli stessi accordi contrattuali intercorsi tra le parti, ferma restando ovviamente la configurabilità di fattispecie fraudolente in ipotesi di fittizietà dei costi medesimi (Sez. 5, Sentenza n. 13327 del 17/06/2011; v. n. 8389 del 05/04/2013). 9. Pertanto, dovendo la Corte nazionale di ultima istanza attenersi all’articolo 249 del Trattato di Amsterdam e quindi interpretare, per quanto possibile, il diritto interno


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alla luce della lettera e dello scopo della Direttiva del Consiglio n. 112 del 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, non v’è ragione per escludere (la detrazione e di conseguenza) il rimborso dell’IVA assolta sul costo dei lavori di ristrutturazione del fabbricato condotto in locazione e dalla parte contribuente e costituente bene destinato all’esercizio dell’attività alberghiera della stessa parte contribuente. Si tratta, infatti, di eccedenza per un verso conforme ai dettami generali della predetta Direttiva del 2006 (artt. 163, 183, 187, 189 e 190), per un altro formatasi in relazione a costi per migliorie di beni di terzi eseguite al fine di migliorare la redditività dell’impresa e ammortizzabili nel bilancio civilistico quali “altre immobilizzazioni immateriali” (art. 2424 c.c., B.I.7; OIC 24, 23, 73, 95) alla stregua della normativa comunitaria sui conti annuali delle società (IV Direttiva, art. 9). 10. Passando all’esame dell’ultimo motivo la stessa amministrazione, nella Circolare n. 32 del 2010 invocata in controricorso, riesamina favorevolmente la posizione dei soggetti che, pur essendo obbligati alla presentazione dell’istanza di interpello in ragione di particolari situazioni per le quali si rende necessario un monitoraggio preventivo da parte dell’Agenzia, non abbiano ottemperato al relativo obbligo, disattendendo la condizione prevista per la disapplicazione di specifiche disposizioni normative. In proposito rilevato che, nel rispetto dei principi costituzionali e comunitari, deve considerarsi superata l’indicazione, contenuta nella citata Circolare n. 7 del 2009, che con riferimento specifico alle istanze d’interpello disapplicativo della disciplina delle società non operative, aveva stabilito che “in assenza di presentazione dell’istanza, il ricorso al giudice tributario è inammissibile considerato che la disapplicazione non è ammessa in assenza della relativa istanza, che non può essere proposta per la prima volta in sede contenziosa”. Infatti, anche quando l’interpello sia stato proposto, la risposta della P.A. ha la natura di parere, al quale il contribuente può non adeguarsi, il che non è in alcun modo lesivo della posizione del contribuente il quale può riservarsi d’impugnare a tempo debito, gli eventuali atti nei quali si dovesse farsi applicazione delle disposizioni antieiusive il cui esonero sia stato negato (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 17010 del 05/10/2012; vedi Cons. Stato, decisione n. 414 del 26/01/2009). Il che comporta che la sede giudiziale sia quella propria nella quale il contribuente possa allegare e provare sempre la presenza di quelle oggettive situazioni che non hanno consentito di effettuare operazioni rilevanti ai fini dell’IVA e che consentono la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive. 11. La conclusione è coerente anche coi principi sanciti dalla Corte di giustizia secondo cui il diritto a detrazione rimane acquisito qualora, a causa di circostanze estranee alla sua volontà, il soggetto passivo non abbia mai fatto uso dei suddetti beni e servizi per realizzare operazioni imponibili (sentenza C-37/95 del 15/01/1998), atteso che osta ai principi in materia di armonizzazione delle imposte sulla cifra d1 affari la perdita del diritto alla detrazione o il differimento dell’esercizio di tale diritto fino all’inizio effettivo dello svolgimento abituale delle operazioni imponibili (sentenza C-110/98 del 21/03/2000); infatti, anche le attività preparatorie devono già essere considerate attività


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economiche (sentenza C-268/83 del 14/02/1985), al pari delle prime spese di investimento effettuate con la dichiarata intenzione dell’impresa di avviare un’attività soggetta all’IVA (sentenza C-I 10/94 del 29/02/1996). A maggior ragione ciò vale in presenza delle peculiari situazioni ritenute rilevanti dal 4.5 della Circolare n. 5 del 2007 a favore della parte contribuente, quali le immobilizzazioni in corso di realizzazione non suscettibili, al momento, di produrre un reddito, ancorché minimo, e la temporanea inagibilità dell’immobile. Si tratta appunto delle condiziono addotte dalla contro ricorrente e positivamente riscontrate in loco dai funzionari dell’Agenzia che hanno rilevato come l’albergo fosse in fase di ristrutturazione, tanto che, proposto interpello disapplicativo per il successivo anno d’imposta 2008, esso è stato pacificamente accolto. 12. Con l’unico motivo di ricorso incidentale la società contribuente si duole della compensazione delle spese di secondo grado denunciando la violazione dell’art. 92 c.p.c. Il mezzo non è fondato. Nella sentenza d’appello si legge: “Considerata la peculiarità della materia, si ritiene che esistano giusti motivi per la compensazione delle spese di giudizio”. Invero, per quanto riguarda l’oggetto principale della vertenza, il rimborso dell’IVA assolta dalla società conduttrice sul costo dei lavori di ristrutturazione del fabbricato alberghiero condotto in locazione, gli indicatori giurisprudenziali sono andati formando in epoca prossima e successiva alla proposizione dell’appello. Da qui deriva “la peculiarità della materia” in termini di rilevante novità della relativa questione (Cass. Sez. U, Sentenza n. 2572 del 22/02/2012). 13. Le spese processuali del presente giudizio di legittimità seguono la maggior soccombenza dell’Agenzia delle entrate e sono liquidate in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Condanna l’Agenzia delle entrate alle spese del presente giudizio di legittimità liquidate, a favore dell’Agenzia delle entrate, in Euro 7000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per borsuali e agli oneri di legge. (Omissis)

(1) “Società non operative”, rimborso dell’Iva e principi comunitari*. Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il diritto alla detrazione in assenza di operazioni attive – 3. L’applicazione dei principi di neutralità e proporzionalità nell’interpretazione delle disposizioni antielusive nazionali in materia d’imposta sul valore aggiunto. – 4. La natura presuntiva della qualifica di “società non operativa” e la controprova.

La nota a sentenza che segue tratta la tematica del diritto alla detrazione e, conseguentemente, al rimborso dell’IVA per le spese sostenute su immobili di terzi, strumentali all’attivi-

(*) Lavoro sottoposto a revisione esterna.


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tà di impresa, soggette alla preclusione derivante dall’applicazione della normativa antielusiva contenuta nell’art. 30 della legge n. 724/94, riferita alle c.d. “società non operative”. La nota, che condivide integralmente l’iter logico-giuridico contenuto nella motivazione della sentenza nonché le relative conclusioni, evidenzia che la disapplicazione delle disposizioni antielusive in questione – che richiede il superamento della presunzione legale di “non operatività” – può avvenire anche in sede processuale, e ciò anche allorché la società non abbia assolto l’onere di presentare l’interpello disapplicativo. L’approccio scelto dalla Corte di Cassazione è conforme dunque al diritto dell’Unione Europea e, più in particolare, ai principi fondamentali dell’IVA: le restrizioni imposte dalle disposizioni antielusive nazionali risultano vincolate al rispetto dei principi comunitari di neutralità e proporzionalità, e non trovano dunque applicazione in assenza di fattispecie fraudolente o abusive. In conclusione, laddove risulti giustificata, anche soltanto nella successiva fase processuale, la condizione di “non operatività”, al contribuente che prova l’effettività delle operazioni di acquisto svolte nell’esercizio dell’attività d’impresa deve essere riconosciuto il diritto alla detrazione, e ciò anche se operazioni attive non sono ancora poste in essere poiché l’attività è ancora nella fase preparatoria, come in quella della ristrutturazione dell’impianto aziendale. The article deals with the right of deduction and refund of VAT for expenditure incurred on leasehold relating to the activity of the company, when deduction is not allowed according to anti-avoidance rules contained in Article 30 of Law no. 724/94, for the “inactive companies”. The article, fully sharing the logical and legal reasoning contained in the grounds of the judgment as well as its conclusions, highlights that non-ap­plication of anti-avoidance provisions, which requires the overturning of the legal presumption to be “dormant”, may also take place during the trial, even if the com­pany has not presented the request of tax ruling in order to obtain non application of anti-ab­use rules. Hence, the approach taken by the Supreme Court complies with European law and, more particularly, to the basic principles of VAT: the restrictions imposed by domestic anti-avoidance provisions are bound to respect the European principles of neut­rality and proportionality, consequently that rules do not apply in the absence of fraud or abuse cases. In conclusion, when the inactive condition is justified, even if only in the subsequent court proceeding, it should be recognized the right of VAT deduction to a company although taxable transactions have not yet put in place, because the activity is still in the preparatory phase, as in that of the renovation of the company plant.

1. Introduzione. – La Corte di Cassazione affronta una serie di tematiche concatenate, riguardanti le disposizioni antielusive dettate per le “società non operative”, i principi comunitari in tema d’imposta sul valore aggiunto nonché le modalità (e le fasi) di superamento della presunzione legale nell’ambito della disapplicazione di disposizioni antielusive. In particolare, i giudici di vertice hanno puntualizzato importanti principi quali, in ordine decrescente d’importanza (sotto il profilo dei contenuti di novità e di originalità): a) la soggezione delle disposizioni nazionali in tema di “società non operative” (art. 30 della legge n. 724 del 1994) ai principi comunitari di neutralità


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e proporzionalità, con conseguente diritto al rimborso dell’IVA che non spetterebbe sulla base delle disposizioni interne; b) la possibilità di affrontare il thema probandum della “non operatività” anche nel processo e non solo nella fase procedimentale d’interpello disapplicativo ex art. 37-bis del DPR 600/73; c) la premessa di fondo dell’esistenza ed effettività delle operazioni di acquisto, nonché dell’insussistenza di ipotesi di frodi od abusi quale condizione preliminare del ragionamento; d) in generale, il necessario rispetto dei requisiti d’inerenza e di afferenza, ed in particolare, l’irrilevanza del titolo di possesso (proprietà o locazione) del bene cui ineriscono le spese che avevano originato il diritto al rimborso. Nell’occasione, l’esercizio della funzione nomofilattica ha trovato ampio supporto nei principi risultanti dalla giurisprudenza comunitaria, con la conseguente affermazione di diritti (il rimborso dell’IVA) la cui sussistenza non sarebbe così pacifica sulla base dell’interpretazione delle norme nazionali. La sentenza è dunque di particolare interesse perché mette in luce il perimetro di efficacia delle disposizioni antielusive dettate dall’art. 30 della L. 724/94, individuabile nel rispetto dei principi comunitari di neutralità e proporzionalità, al fine di verificare la sussistenza del diritto alla detrazione e, conseguentemente, al rimborso dell’IVA per un soggetto passivo. 2. Il diritto alla detrazione in assenza di operazioni attive. – Nel caso al vaglio della Corte, una richiesta di rimborso dell’IVA era stata negata dall’amministrazione finanziaria a motivo dell’inattività della società istante (qualificabile pertanto, come “non operativa” e – come tale – soggetta alle preclusioni in tema di utilizzo del credito IVA dettate della disposizioni antielusive contenute nell’art. 30 della legge 724 del 1994) nonché ad ulteriore motivo del fatto che gli acquisti alla base dell’IVA a credito riguardavano un immobile di terzi condotto in locazione. La sentenza riconosce invece il diritto al rimborso dell’IVA, anche allorché sia maturato nell’esercizio di un’attività economica che non abbia (definitivamente o solo temporaneamente, come nel caso in esame) dato luogo alla effettuazione di operazioni attive. Le conclusioni raggiunte dai giudici di vertice si fondano sulla preliminare verifica dell’esistenza reale nonché dell’inerenza delle spese rispetto all’attività d’impresa svolta: tali elementi fondanti costituiscono il prius logico del


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ragionamento (1), congiuntamente alla precisazione dell’irrilevanza del titolo di possesso (proprietà o locazione) del bene cui erano riferite le spese. Con riguardo a tale profilo, incidentale ai fini della presente disamina, va rilevato che la soluzione si fonda anche in tal caso sul richiamo al diritto comunitario: la Corte, rifacendosi all’art. 249 del Trattato di Amsterdam ed alla Direttiva del Consiglio n. 112 del 2006 (l’attuale direttiva IVA), ha chiarito che “non v’è ragione per escludere” la detrazione e il conseguente rimborso dell’IVA assolta sulle spese di ristrutturazione del fabbricato condotto in locazione in quanto destinato all’esercizio dell’attività alberghiera del contribuente, poiché tali spese hanno costituito un’eccedenza conforme ai principi della richiamata Direttiva, formatasi in relazione a costi per “migliorie di beni di terzi”, eseguite per aumentare la redditività d’impresa, ammortizzabili nel bilancio civilistico quali “altre immobilizzazioni immateriali”. Sgombrato il campo da tale questione, ed affermata la possibilità di detrarre anche l’IVA relativa a spese riferibili ad immobili di terzi (qualora, ovviamente, le stesse risultino inerenti all’attività d’impresa), la sentenza afferma che il diritto alla detrazione (2) rimane acquisito anche qualora, a causa di circostanze estranee alla sua volontà, il soggetto passivo non abbia mai fatto uso dei beni e dei servizi per realizzare operazioni imponibili. Tali conclusioni consentono di circoscrivere gli effetti della disciplina antielusiva dettata dall’art. 30 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 in materia di “società non operative”, richiamata dall’Ufficio a supporto motivazionale del provvedimento di diniego del rimborso IVA, derivante dalla mancata realizzazione di operazioni attive (tipica della “società non operativa”). Il diniego, infatti, trovava fondamento in una presunta implicita assenza – sottesa alle disposizioni antielusive dettate dall’art. 30 della legge 724/94 – dei requisiti di inerenza e di afferenza che, contenuti nell’art. 19 del DPR

(1) Conformemente al costante orientamento della Corte di Giustizia, la lotta contro ogni possibile frode, evasione fiscale ed abuso è un obiettivo riconosciuto e promosso dalla Direttiva IVA (Sentenza 27 settembre 2007, causa C-409/04, Teleos e altri; sentenza 29 aprile 2004, cause riunite C-487/01 e C-7/02, Gemeente Leusden e Holin Groep, punto 76, e citata sentenza Kittel e Recolta Recycling, punto 54); a tal fine occorre perseguire tutti i comportamenti che, dietro l’apparente osservanza delle prescrizioni della norma, tendono ad ottenere un risultato diverso da quello previsto da quest’ultima (Sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, in Riv. Giur. Trib., 5/2006, 377, commento di A. Santi, Il divieto di comportamenti abusivi si applica anche al settore dell’Iva). (2) In generale, sul tema, M. Giorgi, Detrazione e soggettività passiva nel sistema dell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2005.


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633/72 (3), postulano, in via di principio, la specularità dell’iva sulle operazioni passive rispetto all’iva sulle operazioni attive. Il chiarimento interpretativo fornito dalla Corte, dunque, conduce al superamento delle limitazioni alla detrazione o al rimborso dell’IVA prescritte dall’art. 30 della legge 724 del 1994, e ciò attraverso la verifica dell’esistenza della soggettività passiva nonché dei requisiti di inerenza e di afferenza (quest’ultimo requisito da intendersi necessariamente in via potenziale e prospettica per l’inesistenza, nell’immediato, di operazioni imponibili). Pertanto, laddove un soggetto passivo, nello svolgimento della propria attività economica, si trovi in una fase della vita aziendale caratterizzata dall’assenza di operazioni attive, derivante da circostanze giuridicamente apprezzabili, non risulta coerente una preclusione del diritto alla detrazione, ed al conseguente rimborso dell’iva assolta sulle operazioni passive, risultando già acquisita la soggettività passiva, che legittima il diritto alla detrazione in presenza di operazioni passive effettivamente realizzate. Soggettività, inerenza ed afferenza dunque: la locuzione “esercizio di impresa”, contenuta nell’art. 19, individua fatti fiscalmente rilevanti, sia a monte (quali l’acquisto o l’importazione di beni e servizi) che a valle (quali l’effettuazione di cessione di beni e prestazioni di servizi), ed attinenti al presupposto oggettivo, necessari ai fini della nascita e del conseguente esercizio del diritto alla detrazione relativamente ai primi, postulando tuttavia una corrispondenza con i secondi, definita “afferenza”. La soggettività passiva, rappresentando il presupposto dell’imposizione, rappresenta anche il presupposto della detrazione del tributo assolto in relazione agli acquisti effettuati. In tale ottica, anche gli atti preparatori costituiscono parte integrante dell’attività economica: gli acquisti relativi all’esercizio dell’attività ed il sostenimento dei relativi costi determinano l’insorgenza della soggettività passiva e del correlato diritto di detrazione, che peraltro è incondizionato rispetto alla oggettivazione successiva dell’attività economica che potrebbe, per avventura, anche poi non essere più esercitata, e dunque resta impregiudicato da una eventuale successiva assenza di operazioni attive (4).

(3) L’art. 19, comma 2, del DPR 633/72 così prescrive: “Non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni e servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta [...]”. (4) In tal senso si è espressa la Corte di Giustizia CEE, 29 febbraio 1996, causa C-110/94, Inzo. Per una compiuta disamina ricostruttiva delle relative conclusioni, cfr. G. Melis, Atti preparatori, esercizio di attività economiche e detrazione IVA, in Riv. Dir. Trib. 1996, II, 893-909.


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La posizione contraria assunta in precedenza dalla giurisprudenza nazionale (5), che ha condiviso l’orientamento manifestato dall’amministrazione finanziaria, secondo cui il diritto alla detrazione dovrebbe essere subordinato ad un evento successivo, segnatamente individuabile nella effettuazione di operazioni attive riconducibili agli acquisti effettuati, si pone dunque in contrasto con i principi affermati dalla Corte di Giustizia, attualmente fatti propri anche dalla giurisprudenza di legittimità nazionale; la soluzione si rinviene dunque nella ricerca di una “afferenza” quantomeno prospettica quale condizione necessaria per verificare la sussistenza del diritto alla detrazione o al rimborso dell’Iva. La conclusione della Corte è dunque condivisibile in quanto una diversa soluzione, che ipotizzasse l’indetraibilità dell’Iva sugli acquisti, conseguente alla mancata realizzazione di operazioni attive, comporterebbe un duplice ordine di distorsioni: sotto un primo profilo, la simmetria (6) rivalsa-addebito e detrazione dell’imposta, necessaria ai fini della neutralità dell’Iva, verrebbe violata, ed inoltre sotto un ulteriore profilo la società subirebbe un pregiudizio, derivante dalla sopportazione di un costo in termini di iva indetraibile, per il solo fatto di trovarsi in una particolare fase della vita aziendale, con conseguente ulteriore violazione del principio di parità di trattamento.

(5) Cfr, Comm. trib. centrale, sez. XXV, 25 ottobre 1988, n. 7017; Comm. Trib. I grado Salerno, sez. I, 1 marzo 1994, n. 59/94, in Rass. Trib., 1995, 733 e ss., secondo cui, poiché ai fini della detraibilità del tributo è necessario il ricorrere per il bene acquistato del requisito dell’inerenza, per stabilire tale inerenza occorre che sussista un’attività di impresa esplicata in concreto mentre non è sufficiente la sua mera potenzialità (annota in contrario D. Stevanato, Detraibilità per le società senza impresa, ivi, che la detraibilità del tributo per gli atti preparatori dell’impresa prescinde “dal concreto esercizio dell’attività, ossia dal fatto che gli acquisti appartengano alla fase di organizzazione, preparatoria all’attività di gestione”, sia in ragione del principio di neutralità, sia a motivo del meccanismo stesso del tributo e, precisamente, dei rigorosi termini previsti per la registrazione e la detrazione che non consentono di attendere l’effettuazione di operazioni attive); Comm. Trib. I grado Salerno, sez. I, 13 marzo 1995, n. 115, in Il codice Iva, Ipsoa. Si veda, altresì, D. Stevanato, Atti di organizzazione, società senza impresa e detrazione dell’Iva, in Rass. Trib., 1996, 736 ss. (6) Sul tema, cfr. F. Saponaro, Rimborsi Iva ai non residenti, in Rass. Trib., 2006, 1282; inoltre cfr. Cass. 7689/1992 e 1348/1999. L’autore osserva che la Corte di Cassazione non condivide la tesi della simmetria, sulla base di un richiamo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia che, sin dalla sentenza del 13 dicembre 1989, in causa 342/97, Genius Holding BV, ha sostenuto un orientamento contrario. Ma l’autore conclude, al termine dell’analisi, per l’esistenza di tale simmetria definita come “rapporto di sinallagmaticità” tra obbligo di rivalsa e diritto di detrazione, riprendendo quanto sostenuto, in tal senso, da G. Lo Verso, Cessione d’azienda assoggettata ad Iva anziché ad imposta di registro, conseguenze, in “Il fisco”, 1989, 5273.


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L’interpretazione opposta a quella della Corte sarebbe inoltre incompatibile con il principio della neutralità dell’Iva per quanto riguarda l’imposizione fiscale dell’impresa, creando, in relazione alle stesse attività di investimento, disparità di trattamento non giustificate tra imprese che effettuano già operazioni imponibili e altre che cercano, mediante investimenti, di avviare un’attività da cui deriveranno operazioni imponibili: in quest’ultima ipotesi, l’accettazione definitiva delle detrazioni dipenderebbe dal fatto che tali investimenti diano poi effettivamente luogo, nel prosieguo, ad operazioni soggette ad imposta. In caso negativo, resterebbe a carico del soggetto passivo l’importo dell’Iva senza che sia intervenuto il consumo finale di beni o servizi e dunque in assenza della naturale destinazione del carico impositivo: verrebbe violata la ratio dell’imposta, in quanto non potrebbe sostenersi che si sia verificato il presupposto dell’IVA in termini economico-sostanziali, e cioè la realizzazione di un “consumo”. 3. L’applicazione dei principi di neutralità e proporzionalità nell’interpretazione delle disposizioni antielusive nazionali in materia d’imposta sul valore aggiunto. – L’interpretazione fornita dalla Corte consente di rendere “comunitariamente compatibili” le disposizioni antielusive nazionali le quali spiegano i propri effetti nel rispetto dei principi comunitari, in particolare di neutralità e di proporzionalità (7), in assenza dei quali, e sulla base di una acritica e formale lettura della disposizione nazionale, non vi sarebbe stato il diritto al rimborso né alla detrazione dell’Iva assolta sulle operazioni passive. Il principio di neutralità (8) dell’imposta, in tutte le fasi che precedono il consumo del bene, costituisce un caposaldo del meccanismo di funzionamento dell’IVA, ed è stato più volte enunciato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui “il sistema delle detrazioni è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’Iva dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune d’imposta sul valore aggiunto garantisce, di conseguenza, la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività” (9).

(7) Cfr, sul punto, A.M. Rhode, L’abuso del diritto nell’Iva ed i principi di proporzionalità, neutralità e certezza del diritto, in Riv. Dir. Trib., 2009, 82, che richiama la direttiva 2006/112/Ce del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto. (8) In tema di neutralità fiscale, cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2005, 187; Miceli, L’effettività della disciplina nazionale sull’esercizio del diritto di detrazione Iva in caso di accertamento tributario, in Riv. Dir. Trib., 2008, 237; A.M. Rhode, op. cit., 91. (9) Corte di Giustizia Europea, 15 gennaio 1998, causa C-37/95, Ghent Coal Terminal,


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Secondo la Corte il principio di neutralità fiscale, ed in particolare il diritto di detrazione (10) rappresentano dei principi fondamentali nel sistema Iva (11) ed il principio di neutralità, in effetti, costituisce una specificazione del principio di parità di trattamento (12). Ciò senza alcuna discriminazione, in linea di principio, sulle specifiche modalità di esercizio del diritto: secondo la giurisprudenza comunitaria sussiste una equivalenza tra requisiti per il diritto al rimborso e diritto alla detrazione (13); conclusioni queste condivise dalla dottrina, secondo cui il diritto alla detrazione ed il diritto al rimborso non sono due autonome fattispecie, ma due modalità di esercizio dello stesso diritto di credito (14), ciò in quanto per effetto del pagamento dell’imposta (da parte del cessionario/utilizzatore) addebitata in via di rivalsa (dal cedente o prestatore), nelle ipotesi in cui non sia esercitato il diritto di detrazione, piuttosto che un diritto di rimborso nel senso proprio del termine, nasce un vero e proprio credito d’imposta. Secondo l’interpretazione fornita dalla Corte, detrazione e rimborso, e più in particolare il diniego del diritto alla detrazione ovvero al rimborso perseguono finalità diverse, laddove nel primo caso il divieto persegue la finalità di contrastare l’evasione fiscale, mentre il diniego del rimborso sarebbe rivolto, in particolare, a contrastare il pericolo d’introdurre profili di disponibilità

par. 15. Si deve osservare, tuttavia, che l’affermazione della Corte non va presa come un valore assoluto: la perfetta neutralità dell’Iva non esiste nello stesso tessuto normativo dell’imposta, che prevede esplicite ipotesi di indetraibilità. In particolare le esenzioni, nate con l’intento di non incidere il consumatore, destinatario effettivo del tributo, finiscono per trasferire l’imposizione sull’operatore economico nella misura dell’Iva assolta sui beni e servizi utilizzati nell’esercizio dell’attività, indetraibile ex lege. (10) Sul ruolo della detrazione nel sistema Iva, cfr, E. Fazzini, Il diritto di detrazione nel tributo sul valore aggiunto, Padova, 2000; per una comparazione dell’istituto e del suo funzionamento in ambito italiano, spagnolo e comunitario, si veda D. Casas Agudo, Crónica Tributaria, Instituto de Estudios Fiscales, 2009, 223-252. (11) Sentenza del 29 ottobre 2009, causa C-174/08, Ncc Construction Danmark, punti 40-44. Ed inoltre, sentenze sulle cause C-25/07 Sosnowska (2008); paragrafi 14 e 15 e C-74/08 PARAT Automotive Cabrio (2009), paragrafo 15. (12) La Corte richiama la sentenza sulla causa C-309/06 Marks & Spencer (2008) paragrafo 49. (13) Corte di Giustizia UE, 15 marzo 2007 in causa C-35/05, Reemtsma Cigarettenfabriken GmbH. (14) Così, F. Bosello, Appunti sulla struttura giuridica dell’imposta sul valore aggiunto, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1978, I, 420, spec. 434. In senso analogo, M. Greggi, Il rimborso dell’Iva indebitamente versata in via di rivalsa (profili di diritto tributario comunitario), in Riv. Dir. Trib., 2007, 289.


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dell’imposta da parte dei soggetti Iva alterando le modalità di assolvimento del debito tributario. Ciò che però può ben rilevare anche sotto il profilo di comportamenti fraudolenti ovvero abusivi: per tale motivo la norma (nel caso in questione, l’art. 30 del DPR 633/72) prevede requisiti specifici per l’esercizio del diritto al rimborso. Il parallelismo tra i due istituti di cui si è detto poc’anzi, affermato dal giudice europeo nella sentenza Reemtsma, conferma un orientamento consolidato sul tema in ambito comunitario sin dalla sentenza Genius Holding (15): il diritto alla detrazione può essere esercitato secondo diverse modalità, in particolare il rimborso rappresenta una forma specifica di esercizio del diritto sottoposta a requisiti più stringenti sia per i rischi che esso comporta (frodi) sia per l’impatto in termini di liquidità per l’erario. Con l’interpretazione operata nella sentenza in rassegna, dunque la disposizione nazionale (art. 30 L. 724/1994) esplica ragionevolmente i suoi effetti, consentendo di contrastare l’abuso dello strumento societario ma evitando – nel rispetto del principio di proporzionalità – di colpire “nel mucchio”, ricomprendendo anche operatori economici che, per avventura, siano ricaduti nella “scure” delle norme sulle società di comodo, ciò che si verificherebbe attraverso una lettura solo formale ed acritica delle disposizioni dettate dall’art. 30 della legge n. 724 del 1994. La soluzione normativa prospettata dalla Corte di Cassazione è dunque lineare e coerente rispetto alla logica di sistema nazionale e comunitaria. Peraltro, già in precedenza la Corte di Cassazione riconosceva il diritto alla detrazione dell’IVA ad una società di capitali che in un determinato periodo d’imposta non aveva compiuto alcuna operazione attiva, ponendo quale unica condizione che le operazioni passive siano state realmente effettuate nell’esercizio di impresa e purché si sia trattato di beni acquistati in stretta connessione con le finalità imprenditoriali (16), ritenendo inapplicabile la limitazione al rimborso dettata dall’art. 30 della legge 724 del 1994, ovvero allorché sussista una individuabile causa di esclusione (17). Ovviamente, l’onere probatorio, in caso di mancato superamento del “test di operatività” e della conseguente applicabilità della presunzione legale, compete al contribuente

(15) Corte di giustizia CE, 13 dicembre 1989, causa C – 342/87. (16) Corte di Cassazione, n. 1863 del 2 febbraio 2004; la Corte richiama l’orientamento pregresso sul tema: Cass., 19 gennaio 1996, n. 422; Cass., 27 febbraio 1997, n. 1521; Cass., 5 luglio 2002, n. 9806; Cass., 9 dicembre 2002, n. 17514; Cass., 9 aprile 2003, n. 5599. (17) Corte di Cassazione, n.16183 del 15 luglio 2014.


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il quale deve dimostrare non solo che l’atto di acquisto del bene sia inerente, anche se riferibile alla fase preparatoria rispetto all’attività d’impresa che ha dichiarato di voler avviare, ma anche che l’acquisto stesso si riferisce ad una attività imprenditoriale effettiva, per quanto futura (18). La sentenza in commento, dunque, percorre un solco giurisprudenziale già tracciato dalla giurisprudenza di legittimità nazionale e trova ampio fondamento nella giurisprudenza comunitaria, ove è stato affermato che l’obbligo del fisco nazionale di rimborsare l’eccedenza dell’IVA si riconnette al diritto del contribuente alla detrazione (sentenza C-286/94 del 18/12/1997, Molenheide Bvba), secondo un sistema diretto ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o pagata nell’ambito delle sue attività economiche (sentenza C-110/98 del 21/03/2000, Gabalfrisa SL). Non a caso, dunque, nella motivazione della sentenza in rassegna è ampiamente richiamata la giurisprudenza comunitaria, ove è stato affermato, in tema di detrazione, che deve aversi riguardo all’intenzione del soggetto passivo di imposta, confermata da elementi obiettivi, di utilizzare un bene o un servizio per fini imprenditoriali, al fine di verificare la sussistenza del diritto alla detrazione: (19) in tal modo il sistema comune può garantire «la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano di per sé soggette all’IVA» (20). Il rapporto inscindibile tra detrazione e neutralità fiscale, affermato in sentenza, emerge anche dalla disamina delle riflessioni maturate in ambito nazionale, con riferimento alla circostanza che, se è vero che le modalità di esercizio del diritto a detrazione sono in parte rimesse ai Paesi membri (21), tali modalità non possono violare il principio fondamentale della neutralità del tributo, mediante restrizioni poste all’immediatezza ed all’integralità della deduzione, in modo da far gravare sul soggetto passivo una parte degli oneri

(18) Corte di Cassazione, n. 7816 del 23 aprile 2004. (19) Corte di Giustizia UE, C-97/90 dell’1/07/1991, Lennartz, e C-400/98 del 08/06/00, Breitshol; conf. C-334/10 del 19/07/2012. (20) Corte di Giustizia UE, C-50/87 del 21/09/1988, Commissione c. Repubblica francese; conf. C- 268/83 del 14/02/1985, Rompelman. (21) Ai sensi dell’art. 183 della Direttiva CE del Consiglio n.112 del 2006, «Qualora, per un periodo d’imposta, l’importo delle detrazioni superi quello dell’IVA dovuta, gli Stati membri possono far riportare l’eccedenza al periodo successivo, o procedere al rimborso secondo modalità da essi stabilite».


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(anche di natura finanziaria) dell’IVA, in quanto gli stessi dovrebbero gravare esclusivamente sul patrimonio del consumatore finale, al termine dalla catena produttiva e distributiva dei beni e dei servizi» (22). Entrano dunque in gioco i principi di neutralità e proporzionalità che impongono agli Stati membri di far ricorso a mezzi che portino il minor pregiudizio possibile agli obiettivi e ai principi stabiliti dal diritto dell’UE (23); ciò in quanto le disposizioni nazionali dei paesi membri incompatibili obbligano il giudice nazionale ad una interpretazione conforme al diritto comunitario, in funzione di una tutela effettiva delle situazioni giuridiche di rilevanza comunitaria in modo tale da non addivenire ad un risultato contrario a quello cui mira la direttiva (24). Ne deriva che, in presenza di operazioni effettivamente realizzate ed in assenza di situazioni abusive o fraudolente, la presunzione legale di non operatività può essere ragionevolmente vinta al fine di veder riconosciuto il diritto al rimborso dell’IVA assolta sugli acquisti, non operando in tal caso le preclusioni dettate

(22) La Corte richiama la dottrina italiana che è pervenuta a tali conclusioni, condivise dalla dottrina francese, con riferimento all’articolo 2 della prima direttiva dell’11 aprile 1967, ove era stato osservato che «tel que défini dans la première directive, le système communautaire de TVA repose sur le mécanisme central de la déduction, c’est lui qui confère à cette taxe les avantages de la neutralité». (23) Corte di Giustizia UE, sentenze C-112/78 del 20/02/1979, Buitoni; C-265/87 deII’11/07/1989, Schrader, C-133/93 del 05/10/1994, Crispoltoni. Per un approfondimento, A. Di Pietro (a cura di), Lo stato della fiscalità nell’Unione europea, Roma, 2003; M. Ridsale, Abuse of Rights, Fiscal Neutrality and Vat Cases, in EC Tax review, 2005, 82; H.L. Mc Carty, Abuse of Rights: the effect of the Doctrine on Vat Planning, in British Tax review, 2007, 162 ss. (24) Cass., SS.UU., 17 novembre 2008, n. 27310, dalla quale gli excerpta, nonché 18 dicembre 2006, n. 26948. Come osserva E. Fazzini, Il diritto alla detrazione nell’imposta sul valore aggiunto, Padova, 2000, le direttive, recepite di volta in volta a più riprese dal legislatore nazionale, oltre a costituire uno strumento interpretativo della normativa interna, scaduto il termine per il loro recepimento, se sufficientemente dettagliate e precise, possono anche trovare diretta applicazione nell’ordinamento interno determinando altresì, sempre che risultino più favorevoli per il soggetto passivo, la disapplicazione della normativa interna che risulti difforme. Si veda, al riguardo, P. Braccioni, L’efficacia delle direttive comunitarie in materia tributaria, in Rass. Trib., 1987, I, 211 ss., G. Sacchetto, L’immediata applicabilità delle direttive fiscali CEE, in Rass. Trib., 1987, II, 212 ss; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, parte generale, Torino, 1999: l’autore, dopo aver ricordato che per giurisprudenza consolidata della Corte di Giustizia CE, le direttive comunitarie hanno efficacia immediata quando impongono un obbligo incondizionato e preciso, rileva che in tal caso i singoli acquistano diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare in quanto le direttive devono essere applicate negli ordinamenti degli Stati membri senza necessità di norme di recepimento, e “gli Stati non possono opporsi invocando norme nazionali contrarie al diritto comunitario” in quanto “ciò equivarrebbe ad invocare la violazione, da parte dello Stato, degli obblighi impostigli dalle direttive”.


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dalla disciplina nazionale in tema di società di comodo: in tal modo, l’interpretazione delle disposizioni antielusive nazionali è conforme al diritto comunitario. 4. La natura presuntiva della qualifica di “società non operativa” e la controprova. – La sentenza precisa che il superamento delle presunzioni dettate dall’art. 30 della legge 724 del 1994, che costituisce condicio sine qua non per legittimare il diritto al rimborso dell’IVA, può avvenire non solo nella fase procedurale (in sede di istanza di disapplicazione) ma anche nella successiva, eventuale fase processuale. Al riguardo, la sentenza osserva che il principio di effettività di cui all’art. 53 Cost. impone di limitare le presunzioni juris et de jure: (25) al contribuente è dunque sempre consentito fornire in giudizio la prova delle condizioni che consentono di superare la presunzione posta dalla legge a suo danno (26). Ci si consenta dunque di proseguire la disamina di tali ulteriori contenuti della sentenza, che presentano effetti dirompenti, o quantomeno dirimenti, in ordine ai limiti ed al perimetro di applicazione delle disposizioni nazionali antielusive dettate in tema di “società non operative”. Tale disamina si pone in rapporto di mezzo a fine rispetto al traguardo raggiunto, in quanto una pedissequa applicazione delle disposizioni in questione avrebbe (ed anzi nei fatti di causa, ha) impedito l’utilizzo del credito IVA. In tale percorso, occorre riassumere le caratteristiche della normativa in questione, che comporta, per le “società non operative”, una serie di conseguenze penalizzanti (in questa sede abbiamo trattato le limitazioni all’utilizzo del credito IVA) (27), ciò attribuendo rilevanza alla mancanza di attività operativo-gestionali, individuata sull’acritica rilevazione di parametri ricavati dal bilancio, anziché verificare la sussistenza o meno, in concreto, di elementi caratterizzanti un abuso dello strumento societario.

(25) Corte di Cassazione, sentenza n. 16183 del 15 luglio 2014. (26) Corte di Cassazione, sentenza n. 17010 del 5 ottobre 2012. (27) In particolare, i commi 4 e 4 bis, del menzionato art. 30, così dispongono: “Per le società e gli enti non operativi, l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non è ammessa al rimborso né può costituire oggetto di compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17, o di cessione ai sensi del D.L. 14 marzo 1988, n. 70, art. 5, comma 4 ter, convertito, con modificazioni, dalla L. 13 maggio 1988, n. 154. Qualora per tre periodi di imposta consecutivi la società o l’ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto non inferiore all’importo che risulta dalla applicazione delle percentuali di cui al comma 1, l’eccedenza di credito non è ulteriormente riportabile a scomputo dell’IVA a debito relativa ai periodi di imposta successivi”.


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Per effetto della disciplina in argomento, sono considerate società di comodo quelle società che, nell’esercizio in esame e nei due precedenti, non raggiungono un volume di ricavi, di incrementi di rimanenze e di proventi pari a determinate percentuali applicate all’attivo dello stato patrimoniale. Inoltre, l’ambito di applicazione è stato esteso alle c.d. “società in perdita sistematica” (28). In sostanza, il legislatore, sulla sola base di indicatori di bilancio, pone una presunzione legale di “non operatività”, con la finalità di disincentivare l’utilizzo strumentale della forma societaria per usufruire di indebiti vantaggi fiscali (spesso vengono intestati alla società determinati beni, immobili, automobili di lusso, imbarcazioni, aeromobili, che in realtà permangono nella disponibilità dei soci o dei loro familiari): di norma, il vantaggio fiscale si concretizza nella deduzione dell’Iva assolta sull’acquisto dei predetti beni, nonché nella detrazione del relativo costo dal reddito d’impresa, ovvero nell’occultamento del reale proprietario dei beni sotto ulteriori profili rilevanti ai fini fiscali. Dal tenore testuale della formulazione dell’art. 30 della legge 724 del 1994 emerge inequivocabilmente la natura presuntiva della qualifica attribuita dall’Amministrazione finanziaria: “si considerano non operativi”, recita la norma, che configura dunque una fictio iuris. Anzitutto è opportuno precisare che altro è “società di comodo” (abuso dello strumento societario), altro è “società non operativa” (società che per diverse ragioni, non necessariamente riconducibili a fenomeni di evasione o elusione, non producono un valore di ricavi minimi). La legge n. 724/94, contiene dunque una presunzione legale (nel senso che non devono mancare i requisiti di gravità, precisione e concordanza che sono predeterminati dal legislatore) di “non operatività”. Stando alla norma, la controprova dovrebbe essere fornita attraverso la presentazione di una apposita di istanza di disapplicazione delle disposizioni

(28) La disciplina dopo la sua introduzione è stata oggetto di numerose modifiche, in particolare dall’art. 35, commi 15 e 16, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, (convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248); dall’art. 1, commi 128 e 129, della legge 24 dicembre 2007, n. 244; successivamente, dall’art. 2, commi da 36-decies a 36-duodecies, del decreto legge 13 agosto 2011, n 138 (convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148) che ha previsto l’ampliamento della categoria delle società non operative anche ai soggetti in «perdita sistematica». Ulteriori modifiche sono state apportate dall’art. 18 del D.lgs. 21 novembre 2014, n. 175 (c.d. “decreto semplificazioni”).


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antielusive (29), in cui il contribuente è onerato di fornire la dimostrazione dell’esistenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, ovvero hanno cagionato l’insorgenza delle perdite sistematiche, le quali devono avere carattere meramente oggettivo, cioè non riconducibili alla mera voluntas dell’imprenditore. La disposizione dettata dall’art. 30 della legge 724/94 rientra nel novero delle disposizioni antielusive specifiche che, come è noto, possono essere disapplicate, ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8, del DPR n. 600/73, qualora il contribuente dimostri che, nella particolare fattispecie, quegli effetti elusivi non potevano verificarsi (30). La disapplicazione dell’art. 30 della legge 724 del 1994 riguarda un numero rilevantissimo di società che ricadono nelle fattispecie astratte previste dalla norma, e l’ottenimento di un parere positivo può essere considerato talora il risultato di una sorta di “lotteria” in ragione della complessità e farraginosità della materia, della discrezionalità del funzionario tenuto ad interpretare la fattispecie prospettata e le indicazioni della prassi amministrativa, nonché dell’impossibilità, stando alla normativa, di verificare de facto la reale situazione aziendale. Nel caso all’attenzione della Corte, la società ricorrente non aveva neppure presentato l’istanza di disapplicazione (assunta dall’amministrazione come obbligatoria (31), ma prevista dalla legge come facoltativa) (32).

(29) Il comma 4-bis dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 precisa che “In presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4, la società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, comma 8”. (30) La disposizione così prevede: “Le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi. A tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione”. (31) Con la Circolare del 14 giugno 2010, n. 32/E, l’Agenzia ha affermato l’obbligatorietà dell’istanza, la quale “non muta il carattere non vincolante della risposta, quale atto avente natura di parere (cfr. Circ. 7/E del 2009), né tanto meno preclude all’istante la possibilità di dimostrare anche successivamente la sussistenza delle condizioni che legittimano l’accesso al regime derogatorio”. La mancata presentazione dell’istanza comporterebbe dunque solo l’irrogazione di una sanzione amministrativa. (32) In tal senso depone l’art. 37-bis, comma 8, del DPR n. 600/73.


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Nell’ipotesi del mancato superamento, nella fase procedurale, della presunzione legale prevista dall’art. 30 della legge 724/94 (o perché non è stata presentata l’istanza, o perché, pur essendo stata presentata, la risposta della Direzione Regionale è stata negativa), il contribuente può comunque sottrarsi volontariamente alle conseguenze penalizzanti previste dalla disciplina, restando sempre possibile fornire la prova della “operatività” ovvero dell’esistenza di “esimenti” nella fase dell’accertamento o nella successiva fase processuale. Tali conclusioni non discendono dal dato normativo, ma ad esse pervengono in via ricostruttiva la prassi e la giurisprudenza: la sentenza in rassegna afferma – concordemente con l’amministrazione finanziaria – che anche quando l’interpello sia stato proposto la risposta non avrebbe carattere vincolante, e comunque il contribuente, in caso di scostamento da tale determinazione, potrebbe sempre successivamente impugnare l’eventuale avviso di accertamento successivamente emesso attraverso l’applicazione delle disposizioni antielusive il cui esonero era stato negato (33). Ne deriva che il contribuente potrà sempre provare, anche in sede giudiziale, la presenza di quelle oggettive situazioni che consentono la disapplicazione delle disposizioni antielusive in tema di società non operative. L’amministrazione finanziaria, nei propri documenti di prassi, ha affermato che il mancato accoglimento dell’istanza da parte della competente Direzione Regionale non assume natura provvedimentale, in quanto qualificabile come “parere”, non impugnabile, non vincolante ed inidoneo a cagionare pregiudizi di carattere impositivo (anche se la controversia giunta al cospetto della Corte, avente ad oggetto il diniego di rimborso IVA, dimostra che tale conclusione non è completamente condivisibile, quantomeno laddove la società risulti titolare di una posizione creditoria del tributo). Secondo la ricostruzione operata dall’Agenzia delle Entrate, dunque, il contribuente ha la possibilità di dimostrare, anche in sede di accertamento o contenzioso, la insussistenza della c.d. “non operatività” (34), ovvero la ricorrenza di quelle c.d. “situazioni oggettive”, previste dalla norma e successivamente integrate da due Provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle En-

(33) Corte di Cass., n. 17010 del 05/10/2012; Consiglio di Stato, decisione n. 414 del 26/01/2009. (34) Agenzia delle Entrate Circolare n. 32/E del 14 giugno 2010; Circolare n. 7/E del 2009.


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trate (35) che legittimerebbero la disapplicazione della disciplina, costituendo cause giustificative del mancato raggiungimento dei ricavi minimi previsti dalla norma ovvero delle c.d. “perdite sistematiche” realizzate dalla società. Nel merito, la prassi dell’amministrazione finanziaria individua fasi della vita aziendale giustificative delle perdite fiscali ovvero del mancato raggiungimento dei ricavi minimi (36), nonché specifiche attività per le quali, è ancora più probabile l’impossibilità di produrre ricavi nella fase iniziale ovvero finale del ciclo di vita aziendale. Non appare dunque coerente, nell’ottica del rispetto del principio di neutralità, limitare il diritto al rimborso dell’Iva in tali circostanze “non normali” (se analizzate in termini di potenzialità reddituali), che sono però in rapporto di mezzo a fine rispetto al corretto esercizio dell’attività d’impresa. La “non normalità” della vita aziendale trovava cittadinanza nel dato normativo dettato dalla previgente versione dell’art. 30, che specificamente individuava, quale causa giustificativa, un “periodo di non normale svolgimento dell’attività”. La Corte di Cassazione ha delineato il perimetro di tale concetto affermando che l’individuazione del «periodo di non normale svolgimento dell’attività economica», che nella normativa vigente «ratione temporis» escludeva l’applicazione della disciplina sulle società di comodo, si rinviene, non solo se la società si trova in stato di liquidazione, ma pure in tutti gli altri casi in cui, comunque, non sia dato ad essa di svolgere la propria attività per le più diver-

(35) Il Provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate n. 23681 del 14/02/2008 individua alcune situazioni oggettive, in presenza delle quali è consentita la disapplicazione automatica della disciplina delle società non operative, senza dover previamente assolvere l’onere di presentare istanza di interpello. Inoltre, con successivo provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate dell’11 giugno 2012, sono state individuate ulteriori cause di disapplicazione automatica. (36) Si pensi alla fase di “start-up”, ove i primi periodi di vita aziendale possono essere caratterizzati dall’inesistenza di ricavi, in quanto l’attività produttiva non è iniziata, ovvero l’esistenza di un periodo di non normale svolgimento dell’attività. Con la Circolare n. 5/E del 2 febbraio 2007, l’Agenzia delle Entrate ha specificato che “I Direttori regionali potranno fare specifico riferimento alle direttive impartite con la circolare 26 febbraio 1997, n. 48, in tema di “periodo di non normale svolgimento dell’attività”, al fine di disapplicare la disciplina in esame con riguardo “ai periodi d’imposta successivi al primo, in cui il soggetto non abbia ancora avviato l’attività prevista dall’oggetto sociale, perché, ad esempio (…) la costruzione dell’impianto da utilizzare per lo svolgimento dell’attività si è protratta, per cause non dipendenti dalla volontà dell’imprenditore, oltre il primo periodo d’imposta”; ovvero venga svolta un’attività propedeutica allo svolgimento dell’attività produttiva, la quale non consente di per sé la produzione di beni e servizi.


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se ragioni, non dipendenti dalla volontà del gestore, ostative al suo normale funzionamento (37). Nel caso all’attenzione della Corte, la mancata realizzazione di operazione attive (i.e., la condizione di “non operatività”) era fisiologica, in quanto relativa all’attività di ristrutturazione dell’immobile strumentale allo svolgimento dell’attività stessa. In definitiva, ed a fattor comune, possono valorizzarsi positivamente ai fini del superamento della presunzione di “non operatività” tutte quelle situazioni in cui il mancato avvio dell’attività produttiva prevista dall’oggetto sociale non dipenda da fenomeni elusivi (38) ma risulti cagionata da circostanze fisiologiche dimostrabili, il cui onere probatorio compete al contribuente, sia nella fase dell’interpello disapplicativo, sia nella fase processuale: una volta verificato il superamento della presunzione legale dettata dalla disciplina delle società non operative potrà legittimamente invocarsi il diritto alla detrazione ovvero al rimborso dell’IVA in applicazione del diritto comunitario.

Luca Cogliandro

(37) Sentenza 19 luglio 2013, n. 17676; ed inoltre, Cass. 10100/05, 11368/12. (38) S. Douma - F. Engelen, Halifax Plc and Others v Commissioners of Customs & Excise: the Ecj Applies the Abuse of Rights Doctrine in VAT Cases, in British Tax Review, 2006, 429-440.


Commissione Tributaria Provinciale di Torino, 26 novembre 2015 - 30 dicembre 2015, n. 2019; Pres. Roggero, Rel. Nicodano Tributi – Accertamento – Raddoppio dei termini in presenza di reati tributari – Esclusione in caso di tardiva denuncia da parte dell’Amministrazione finanziaria La “clausola di salvaguardia” prevista dall’ art. 2, co. 3 del D.lgs. n. 128/2015 è inapplicabile poiché presenta, oltre all’evidente ed unico fine di tutela della casse erariali, gravi profili di incostituzionalità in quanto configura un’ingiustificata disparità di trattamento tra contribuenti assoggettati a diversi termini di accertamento ed a diverse modalità di raddoppio degli stessi solo in conseguenza del momento in cui viene formulata la notizia di reato e/o del momento in cui hanno subito la notifica dell’avviso di accertamento. (1)

(Omissis) In fatto. Con ricorso rg. … la srl X impugnava avanti questa Commissione l’avviso di accertamento di cui ante concernente imposte anno 2007. Con ricorso rg 1197/14 Y impugnava avanti questa Commissione l’avviso di accertamento di cui ante concernente il reddito di partecipazione nella srl X per le imposte anno 2007. Con ricorso rg 1198/14 Z impugnava avanti questa Commissione l’avviso di accertamento di cui ante concernente il reddito di partecipazione nella srl X per le imposte anno 2007. Con detti ricorsi i ricorrenti chiedevano la sospensione dell’esecutività degli atti impugnati; la Commissione con provvedimenti 19.6.2010 e 27.6.2014 respingeva l’istanza. L’atto impugnato scaturisce dal controllo incrociato degli elenchi clienti fornitori dal quale è risultato che la Sepi avrebbe utilizzato fatture emesse da ditta che non presentò la dichiarazione dei redditi ed aveva praticamente cessato l’attività già all’inizio dell’anno. La ricorrente preliminarmente eccepiva la decadenza dall’azione accertatrice. Nel merito eccepiva la carenza di motivazione, l’omessa allegazione della denunzia di reato, l’infondatezza nel merito, l’inesistenza della responsabilità solidale dei soci, vizi della sottoscrizione. Si costituiva l’Ufficio convenuto contestando punto per punte le attoree deduzioni e sostenendo la correttezza del proprio operato soprattutto alla luce della previsione di raddoppio dei termini per la decadenza dall’azione accertatrice in presenza di una notizia di reato tributario. All’udienza del 26.11.2015, fissata nella forma della pubblica udienza, il relatore esponeva i termini


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dei ricorsi, venivano sentiti i rappresentanti delle Parti. Quindi la Commissione contestualmente disponeva la riunione dei ricorsi stante la loro connessione oggettiva e soggettiva e decideva nel seguente modo. Motivi della decisione. Pacificamente l’atto impugnato è stato notificato il 4.9.2013, ossia dopo il decorso del normale termine per la decadenza dall’azione accertatrice, la presentazione dell’informativa contenente la notizia di reato non è pacificamente avvenuta in data anteriore alla scadenza del predetto termine. L’Ufficio convenuto sostiene la correttezza del proprio operato alla luce della previsione di raddoppio dei termini per la decadenza dall’azione accertatrice in presenza di una notizia di reato tributario. La disciplina del raddoppio dei termini di decadenza per l’accertamento, in presenza di una notizia di reato tributario, è stata introdotta dall’articolo 37, commi 24, 25 e 26, del decreto legge 223/2006. In particolare, il comma 24 ha integrato l’articolo 43 del Dpr 600/1973, tramite l’inserimento del terzo comma, in base al quale “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”. Tale disposizione entra in vigore a partire dal periodo d’imposta per il quale, alla data dell’entrata in vigore del D.L. n. 223/2006 (4 luglio 2006), i termini per l’accertamento siano ancora pendenti. In virtù delle citate norme, gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento sono raddoppiati qualora il pubblico ufficiale, nell’esercizio delle sue funzioni, constati una violazione per la quale sussiste l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 74/2000. Ciò vuol dire che il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello della presentazione della dichiarazione dei redditi, ovvero del quinto anno in caso dì omessa presentazione della dichiarazione, diviene, pertanto, 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello della presentazione della dichiarazione dei redditi ovvero del decimo anno in caso di omessa presentazione della dichiarazione. L’ordinanza della Corte costituzionale 247/2011 ha confermato la legittimità, in presenza di reato, del raddoppio del termine di decadenza. La stessa Consulta, con l’ordinanza 247/2011, ha precisato inoltre che il raddoppio si realizza anche se il reato viene scoperto dai verificatori dopo il termine di decadenza ordinario, laddove ha avuto modo di sancire come in seguito all’entrata in vigore della norma del 2006, sia stato introdotto nel nostro ordinamento una sorta di “doppio binario” relativamente ai termini di accertamento, distinguendosi tra termine breve e termine raddoppiato: il “breve” si applicherebbe ogni qualvolta non sussista l’obbligo di presentare una denuncia penale per uno dei reati di cui al D.Lgs. n. 74/2000; il “raddoppiato” sarebbe anch’esso un termine fissato dalla legge, operante automaticamente in presenza di una speciale condizione obiettiva, qual è la sussistenza dell’obbligo di denuncia penale. Alla luce di quanto esposto si potrebbe ritenere che il predetto termine lungo operi semplicemente in presenza di un obbligo di denunzia, a prescindere dalla presenza o meno della prova che questa sia effettivamente


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presentata, non essendo previsto un obbligo di produzione della denuncia all’Autorità giudiziaria. Tuttavia con il D.Lgs. n. 128/2015 del 5 agosto 2015 è entrata in vigore la modifica dell’art. 43, comma 3, del DPR 600/73 la cui nuova formulazione dispone testualmente che “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione. II raddoppio non opera qualora la denuncia da parte dell’Amministrazione Finanziaria, in cui è ricompresa la Guardia di Finanza, sia presentata o trasmessa oltre la scadenza ordinaria dei termini di cui ai commi precedenti”. Peraltro la riforma ha fatto salvi gli effetti degli avvisi di accertamento già notificati alla data di entrata in vigore del decreto. La Commissione ritiene tuttavia che la “clausola di salvaguardia” prevista dalla nuova normativa sia inapplicabile poiché presenta, oltre all’evidente ed unico fine di tutela della casse erariali, gravi profili di incostituzionalità in quanto configura un’ingiustificata disparità di trattamento tra contribuenti assoggettati a diversi termini di accertamento ed a diverse modalità di raddoppio degli stessi solo in conseguenza del momento in cui viene formulata la notizia di reato e/o del momento in cui hanno subito la notifica dell’avviso di accertamento. Peraltro già prima dell’entrata in vigore delle citata norma era sorto un filone giurisprudenziale che ha sancito il principio secondo cui “Il presupposto che dovrebbe far scattare il termine raddoppiato in luogo di quello breve ordinario, ex art. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973, ossia la presentazione dell’informativa contenente la notizia di reato ai sensi dell’art. 331 c.p.p., deve realizzarsi prima che il termine breve si sia consumato e con esso si sia realizzata la decadenza dell’azione accertatrice da parte dell’Amministrazione Finanziaria”. L’eccezione preliminare di decadenza dall’azione accertatrice va quindi accolta; tale accoglimento (in quanto assorbente) esime dall’esame di ogni altra questione prospettata. La novità della materia induce alla compensazione delle spese di giudizio. P.Q.M. Ogni altra istanza, eccezione e domanda respinte. La Commissione accoglie i ricorsi riuniti. Compensa le spese.

(1) Il tormentato destino della disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento: riflessioni intorno ad una ipotesi di interpretatio secundum constitutionem. Sommario: 1. Il caso affrontato dalla Commissione tributaria e la soluzione prospettata. – 2. Il raddoppio dei termini: tra “vecchia”, “nuova” e “nuovissima” disciplina. – 3. Il regime transitorio previsto dall’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128: profili applicativi. – 4. L’(in)applicabilità della clausola di salvaguardia: una “svista” interpretativa? – 5. Conclusioni: il punto sui regimi transitori in tema di raddoppio dei termini e le ragioni di un “cambio di rotta” in ordine alla loro applicazione.


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Il caso sottoposto alla Commissione Tributaria Provinciale di Torino affronta la questione relativa alla portata applicativa dell’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 (cd. regime transitorio) in materia di raddoppio dei termini per l’accertamento tributario. A questo proposito, la Commissione offre una soluzione affatto inaspettata: disapplica il regime transitorio in nome di un (asserito) vizio di costituzionalità dello stesso. In ragione di ciò, appare opportuno chiedersi se la soluzione della Commissione possa assurgere a valido precedente per le future decisioni delle Commissioni di merito, ma soprattutto quali potevano essere le soluzioni alternative che si potevano offrire, o quantomeno prospettare. The case submitted to the tax Judge of Torino tackles the question of the scope of application of article 2, co. 3 of the D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 (cd. transitional arrangements) concerning the doubling of the “deadline” for tax assessment. In this regard, the Judge offers a unexpected solution: disregards the transitional regime in the name of an constitutional violation. For this reason, it is appropriate to ask whether the solution of the Judge can rise to valid precedent for future decisions on the merits of the tax Judges.

1. Il caso affrontato dalla Commissione tributaria e la soluzione prospettata. – Il caso sottoposto alla Commissione tributaria provinciale di Torino affronta la questione relativa alla portata applicativa dell’art. 2, co. 3 del D.lgs. n. 128/2015, che ha riformato la disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento tributario. Segnatamente del regime transitorio. Con la sentenza n. 2019/01/2015 la Commissione citata ha disapplicato il regime transitorio di cui all’art. 2, co. 3 del D.lgs. n. 128/2015, sull’assunto che questo «presenta oltre all’evidente ed unico fine di tutela delle casse erariali, gravi profili di incostituzionalità in quanto configura un’ingiustificata disparità di trattamento tra contribuenti assoggettati a diversi termini di accertamento ed a diverse modalità di raddoppio degli stessi solo in conseguenza del momento in cui viene formulata la notizia di reato e/o del momento in cui hanno subito la notifica dell’avviso di accertamento». Con questa lapidaria motivazione i giudici di merito hanno disapplicato il regime transitorio di cui all’art. 2, co. 3 del D.lgs. n. 128/2015, accogliendo quindi il ricorso proposto dal contribuente. 2. Il raddoppio dei termini: tra “vecchia”, “nuova” e “nuovissima” disciplina. – La sentenza qui a commento offre l’occasione per compiere una ricognizione delle “vicende” che hanno interessato la disciplina del raddoppio dei termini. Come noto, l’istituto del raddoppio dei termini per l’accertamento in materia di imposte dirette ed Iva è stato introdotto con l’art. 37, co. 24 e 25 del


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D.L. 4 luglio 2006, n. 223, in forza del quale «in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione». La finalità dell’istituto del raddoppio dei termini era chiara: contrastare in maniera più efficace l’evasione fiscale attraverso un ampliamento dei termini ordinari di accertamento delle imposte sui redditi e dell’Iva in presenza di fatti penalmente rilevanti ai sensi e per gli effetti del D.lgs. n. 74/2000 (1). Fin da subito, l’applicazione di questa disciplina ha dato adito a molteplici questioni. La più rilevante, indubbiamente, è stata quella in ordine al momento in cui doveva essere presentata/trasmessa la notizia di reato ex art. 331 c.p.p. all’Autorità giudiziaria ai fini dell’innesco del raddoppio dei termini: se entro il termine ordinario per l’accertamento tributario o meno. Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale che ha chiarito che «…l’art. 57 del D.P.R. n. 633 del 1972 («In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati […]») prevede, quale unica condizione per il raddoppio dei termini, la sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento» (2). La disciplina è stata quindi modificata con l’art. 2, co. 1 e 2 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che, in attuazione delle direttive dell’art. 8, co. 2 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, ha ridisegnato l’istituto del raddoppio

(1) In dottrina, G.M. Cipolla, Il rasoio di Occam ed il raddoppio dei termini di accertamento tributario, in Riv. dir. trib., 7-8, 2011, 757; G. Fransoni, Osservazioni controcorrente sul doppio termine dell’accertamento, in Rass. trib., n. 2, 2012, 311; G. Zoppini, Il raddoppio dei termini per l’accertamento, ovvero nuove ipotesi “borgesiane” di decadenza dell’azione della finanza, in Riv. dir. trib., 7-8, 2008, 669; E. Marello, Raddoppio dei termini per l’accertamento e crisi del “doppio binario”, in Riv. dir. trib., 2010, III, 87; A. Iorio - L. Ambrosi, Legittimo il raddoppio dei termini anche in assenza di notizia del reato?, in Corr. trib., 2015, 4513; su questi profili si segnala la Circolare n. 28/E del 4 agosto 2006 dell’Agenzia delle Entrate, per cui «la norma è volta a garantire all’amministrazione finanziaria, a fronte di fattispecie che assumono rilevanza penale, l’utilizzabilità degli elementi istruttori che emergano nel corso delle indagini condotte dall’autorità giudiziaria per un periodo di tempo più ampio rispetto a quello previsto a pena di decadenza per l’accertamento». (2) Corte Costituzionale n. 247 del 25 luglio 2011.


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dei termini per l’accertamento. La “nuova” disciplina ancora l’operatività del raddoppio dei termini alla trasmissione/presentazione della notizia di reato ex art. 331 c.p.p. all’Autorità giudiziaria entro e non oltre il termine ordinario per l’accertamento ex art. 43, co. 1 e 2 del D.P.R. n. 600/1973 e 57, co. 1 e 2 del D.P.R. n. 633/1972. In questo modo, è venuta meno la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di ricorrere al raddoppio dei termini, laddove la notizia di reato sia trasmessa dopo il termine ordinario per l’esercizio dell’azione accertatrice. Sennonché per espressa previsione normativa il nuovo regime ha previsto una limitazione sotto il profilo applicativo-temporale. Il legislatore delegato all’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 ha approntato un peculiare regime transitorio, che ha fatto salvi gli effetti degli atti di accertamento notificati prima dell’entrata in vigore del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 (2 settembre 2015), nonché e soprattutto quelli (gli accertamenti) non ancora notificati ma derivanti da «i processi verbali di constatazione redatti ai sensi dell’articolo 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 dei quali il contribuente abbia avuto formale conoscenza entro la stessa data, sempre che i relativi atti recanti la pretesa impositiva o sanzionatoria siano notificati entro il 31 dicembre 2015» (3). Infine con l’art. 1, co. 130 e 131 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (cd. legge di stabilità 2016) il legislatore ha definitivamente soppresso l’istituto del raddoppio dei termini. In luogo del regime del raddoppio dei termini si è previsto un prolungamento dei termini ordinari per l’accertamento delle imposte dirette e dell’Iva. Per l’effetto, ai sensi del “nuovissimo” art. 43, co. 1 e 2 del D.P.R. n. 600/1973 e 57, co. 1 e 2 del D.P.R. n. 633/1972, gli avvisi di accertamento dovranno essere notificati, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione; mentre nei casi di omessa presentazione della dichiarazione o di presentazione di dichiarazione nulla, l’avviso di accertamento potrà essere notificato entro

(3) In dottrina, si vedano sul “nuovo” raddoppio dei termini, A. Carinci - D. Deotto, Profili di criticità e dubbi di opportunità nella revisione del raddoppio dei termini, in il Fisco, 2015, 3407; F. Randazzo, Notitia criminis, azione amministrativa e disciplina dei termini per l’accertamento tributario, in Riv. dir. trib., 3, 2015, 214; A. Tomassini, Raddoppio dei termini, regime transitorio da rivedere, in Quotidiano del fisco – Sole 24 Ore del 12 gennaio 2016; G. Parente - A. Tomassini, Raddoppio dei termini, tutela retroattiva, in Quotidiano del fisco – Sole 24 Ore del 9 gennaio 2016; A. Renda, L’attuazione della legge delega nella disciplina del raddoppio dei termini di accertamento, in Corr. trib., 2015, 2574.


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il 31 dicembre del settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata (4). Anche la modifica da ultimo citata incontra una limitazione sul piano applicativo – temporale, nel senso che alla stregua dell’art. 1, co. 132 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 i “nuovissimi” termini tornano applicabili agli avvisi relativi al periodo d’imposta 2016 (Modello Unico 2017) e successivi. Ne consegue che, con riferimento agli atti di accertamento relativi al periodo d’imposta 2015 (Unico 2016) e agli atti di accertamento notificati successivamente al 2 settembre 2015 (salvo quelli per i quali l’invito a comparire o il Pvc sia stato notificato prima della data suddetta e il relativo accertamento sia stato notificato entro il 31 dicembre 2015) tornerà applicabile la disciplina introdotta con l’art. 2, co. 1 e 2 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128. A questo proposito, si deve registrare una recente soluzione della giurisprudenza di merito (5) affatto peculiare, che giunge ad una conclusione opposta rispetto a quella sopra enunciata. Nel caso appena evocato, la Commissione adita ha disapplicato il regime transitorio di cui all’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 sull’assunto che questo debba ritenersi implicitamente abrogato dall’entrata in vigore dell’art. l, co. 130 e 131 della legge 28 dicembre 2015, n. 208. È evidente come l’argomentazione della Commissione non possa ritenersi condivisibile. L’implicita abrogazione di una legge si realizza nel momento in cui interviene una nuova disciplina su una determinata materia già regolata da una legge anteriore, per cui la nuova disciplina si sostituisce alla precedente. Quanto sopra, sembra essere accaduto proprio con riferimento alla disciplina dei termini per l’accertamento: la legge di stabilità 2016 ha predisposto una nuova disciplina in materia di termini per l’accertamento, nonostante questa (materia) fosse già regolata dall’art. 2, co. 1 e 2 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128. In linea di principio, si può allora affermare che questa “nuova” disciplina sostituisce – e quindi abroga implicitamente – quella precedente.

(4) Per un commento “a caldo” sui nuovi termini per l’accertamento, M. Leo, Revisione dei controlli degli Uffici e abrogazione dell’istituto del “raddoppio dei termini”, in il Fisco, 2016, 307 ss.; T. Marino - M. Zammarelli, I nuovi termini per l’accertamento in materia di imposte dirette e Iva, in Corr. trib., 2016, 489; A. Tomassini, Raddoppio dei termini, regime transitorio da rivedere, cit.; G. Parente - A. Tomassini, Raddoppio dei termini, tutela retroattiva, cit. (5) Sentenza n. 386 della CTR di Milano del 22 gennaio 2016.


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Sennonché, la Commissione ha trascurato un aspetto dirimente ai fini della sostenibilità dell’avvenuta abrogazione implicita dell’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, ossia la presenza di un regime transitorio riferibile specificamente alla nuova disciplina dei termini per l’accertamento introdotta con la legge di stabilità 2016. Ed infatti, ai sensi dell’art. 1, co. 132 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 i “nuovissimi” termini tornano applicabili agli avvisi relativi al periodo d’imposta 2016 (Modello Unico 2017) e successivi. La previsione è chiara nel fissare un “termine iniziale” all’applicazione della nuovissima disciplina: dagli accertamenti relativi al periodo 2016 in avanti. Ecco allora che, la soluzione dell’implicita abrogazione dell’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 non sembra trovare un adeguato fondamento. Piuttosto, si può argomentare e sostenere che il regime transitorio previsto dall’art. 1, co. 132 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 impone una sorta di convivenza tra due diverse discipline aventi ad oggetto la medesima materia, che però si riferiscono e tornano applicabili a rapporti tributari collocati in momenti temporali diversi. Questo per dire che, la nuova disciplina in quanto accompagnata da un apposito regime transitorio, che ne limita l’applicazione sotto il profilo temporale, non può certo dirsi sostitutiva di quella precedente. E quindi integrare un’implicita abrogazione della legge precedente. Ad ogni buon conto, la questione che qui viene in rilievo riguarda specificamente – come vedremo – la disapplicazione del regime transitorio di cui l’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128. 3. Il regime transitorio previsto dall’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128: profili applicativi. – Come noto, alla stregua dell’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 vengono «fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto…». La norma transitoria è chiara insomma nel fare salvi gli effetti degli atti (impositivi, impoesattivi e sanzionatori) notificati in data antecedente al 2 settembre 2015. Soluzione, quest’ultima, da intendersi come necessitata. D’altra parte, in ragione del principio tempus regit actum, il regime previsto dall’art. 2, co. 1 e 2 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 non avrebbe comunque potuto trovare applicazione con riferimento agli atti notificati prima dell’entrata in vigore


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del Decreto citato, e quindi, essere invocato per censurare la legittimità di atti già notificati in applicazione del regime previgente di cui all’art. 37, co. 24 e 25 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223 (6). È chiara, in questo senso, la giurisprudenza amministrativa, secondo cui «la legittimità di un provvedimento amministrativo deve essere apprezzata con riferimento allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua emanazione, secondo il principio del tempus regit actum» (7). Maggiori problemi si possono avere con riferimento al secondo periodo dell’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, per cui «sono, altresì, fatti salvi gli effetti degli inviti a comparire di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218 notificati alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonchè dei processi verbali di constatazione redatti ai sensi dell’articolo 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 dei quali il contribuente abbia avuto formale conoscenza entro la stessa data, sempre che i relativi atti recanti la pretesa impositiva o sanzionatoria siano notificati entro il 31 dicembre 2015». Con tale previsione, in effetti, si è voluto estendere l’operatività della previgente disciplina, anche agli avvisi di accertamento non ancora emessi/notificati alla data entrata in vigore del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128. Si è previsto, quindi, un regime transitorio d’ultrattività, con precise condizioni: i) che gli avvisi siano notificati entro il 31 dicembre 2015; e ii) che siano relativi ad inviti a comparire ex art. 5 del D.Lgs. n. 218/1997 notificati alla data di entrata in vigore del decreto (2 settembre 2015) ovvero a Pvc di cui alla stessa data il contribuente abbia avuto formale conoscenza (8). In presenza di entrambe le condizioni, resta applicabile il “vecchio” regime anche per gli avvisi di accertamento non ancora notificati. Questo significa che fino al 31 dicembre 2015 si sono potuti notificare avvisi di accertamento per i quali il raddoppio dei termini ha operato a prescindere dalla circostanza che la denuncia ex art. 331 c.p.p. sia stata presentata/trasmessa prima della scadenza dei termini ordinari per l’accertamento.

(6) Così, A. Carinci - D. Deotto, Profili di criticità e dubbi di opportunità nella revisione del raddoppio dei termini, cit., 3407. (7) Cons. St. Sez. VI, 09 agosto 2011, n. 4738; Id., Sez. IV, 15 settembre 2006, n. 5381; Id., 18 dicembre 2006, n. 7618. (8) Ancora, su questi profili di disciplina, A.Carinci - D. Deotto, Profili di criticità e dubbi di opportunità nella revisione del raddoppio dei termini, cit., 3407.


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4. L’(in)applicabilità della clausola di salvaguardia: una “svista” interpretativa? – Ebbene proprio con specifico riferimento al regime transitorio succitato la Ctp di Torino ha fornito una soluzione interpretativa peculiare, che ha comportato nel caso in esame la disapplicazione del regime suddetto. L’assunto alla base della decisione, rectius disapplicazione, operata dalla Commissione è quello per cui l’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 presenta «oltre all’evidente ed unico fine di tutela delle casse erariali, gravi profili di incostituzionalità in quanto configura un’ingiustificata disparità di trattamento tra contribuenti assoggettati a diversi termini di accertamento ed a diverse modalità di raddoppio degli stessi solo in conseguenza del momento in cui viene formulata la notizia di reato e/o del momento in cui hanno subito la notifica dell’avviso di accertamento». Va subito detto che l’argomentazione impiegata dalla Commissione non può essere condivisa. In linea di principio, il conflitto di una norma nazionale con una di rango costituzionale va risolto secondo il paradigma della gerarchia delle fonti con la caducazione della prima. A questo fine l’ordinamento prevede però un apposito procedimento con il coinvolgimento di un organo dedicato, ossia la Corte Costituzionale. Questo per dire che ove il giudice sospetti il contrasto di una norma di legge con la Costituzione deve rimettere la questione alla Corte Costituzionale (cd. controllo accentrato). Il potere di disapplicazione incidenter tantum dei giudici tributari è invero limitato alle sole ipotesi di cui all’art. 7, co. 4 del D.lgs. n. 546/1992, ossia ai regolamenti e atti amministrativi generali ritenuti illegittimi (9). Qualora emerga un conflitto tra una norma comunitaria ed una nazionale: in questo caso il giudice è chiamato a disapplicare la norma nazionale ritenuta incompatibile con quella comunitaria (10). Abrogazione e disapplicazione sono soluzioni diverse per regolare diversi rapporti tra fonti: la prima per la gerarchia, la seconda per la competenza.

(9) Così l’art. 7, co. 4 del D.lgs. n. 546/92 «le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’ eventuale impugnazione nella diversa sede competente». (10) Costituisce insegnamento pacifico presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea, quello per cui «il diritto comunitario dev’essere interpretato nel senso che il giudice nazionale chiamato a dirimere una controversia vertente sul diritto comunitario, qualora ritenga che una norma di diritto nazionale sia l’unico ostacolo che gli impedisce di pronunciare provvedimenti provvisori, deve disapplicare detta norma» (CGUE del 19 giugno 1990, C-213/89, Factortame); in dottrina si veda, per tutti, Tesauro, Diritto dell’Unione europea, Padova, 2012, 150 ss.


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Tanto premesso, si potrebbe argomentare – con le dovute riserve – che la soluzione resa nella sentenza qui a commento costituisca solamente espressione di un’interpretatio secundum constitutionem. La tecnica interpretativa evocata si caratterizza per il trasferimento in capo ai giudici di merito e di legittimità del potere-dovere di interpretare secundum constitutionem le disposizioni legislative, prima ed in luogo di devolverne l’esame alla Corte Costituzionale (11). Il giudice “comune” finisce così per essere gravato dallo specifico onere processuale di sperimentare preventivamente la possibilità di attribuire al testo legislativo un significato compatibile con il parametro costituzionale. Infatti il potere di identificare il significato costituzionalmente compatibile della norma viene demandato proprio ai giudici comuni, che vedono in questo modo dilatata la propria autonomia interpretativa (12). Sennonché, riferito al caso affrontato dalla sentenza qui a commento, si è portati ad escludere che l’interpretazione resa dalla Commissione possa definirsi secundum constitutionem. E questo per la ragione che la stessa semplicemente disapplica la norma di cui all’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 in nome di un asserito vizio di legittimità costituzionale, senza però trovare una significato alternativo e costituzionalmente compatibile alla norma in argomento. Nell’impossibilità di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata (13) la Commissione avrebbe dovuto, del caso, ai sensi e per gli effetti

(11) Sul tema dell’interpretazione costituzionalmente orientata, senza alcuna pretesa di esaustività, si veda L. Iannuccilli, L’interpretazione secundum constitutionem tra Corte Costituzionale e giudici comuni, in Corte Costituzionale, giudici comuni e interpretazioni adeguatrici - seminario del 6 novembre 2009 (a cura di L. Iannuccilli), Roma, 2009; G. Laneve, L’interpretazione conforme a costituzione: problemi e prospettive di un sistema diffuso di applicazione costituzionale all’interno di un sindacato (che resta) accentrato, in La giustizia costituzionale in trasformazione: la Corte Costituzionale tra giudice dei diritti e giudice dei conflitti - Atti del Convegno di Roma del 11 luglio 2011, Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione (a cura di B. Caravita), Napoli, 2012, 3 ss.; con specifico riferimento alla materia tributaria si veda il puntuale contributo di Giovannini, L’interpretazione secundum constitutionem come strumento di riforma del processo tributario, in Dir. prat. trib., 2013, I, 635 ss. (12) Ancora, L. Iannuccilli, L’interpretazione secundum constitutionem tra Corte Costituzionale e giudici comuni, cit. (13) «A fronte di più significati possibili della stessa disposizione, è compito dell’interprete escludere quello che difetti di coerenza rispetto ai dettami della Costituzione, giacché “in linea di principio, le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (Corte. Cost. n. 65 del 12 marzo 1999)


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dell’art. 23, co. 3 della l. 11 marzo 1953, n 87, sollevare d’ufficio la questione di costituzionalità con ordinanza, rilevando la norma viziata da illegittimità costituzionale ossia l’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 e poi le norme costituzionali asseritamente violate (14). In presenza di un dubbio di costituzionalità su di una norma oggetto di contenzioso, il Giudice a quo non può decidere in ordine alla costituzionalità o meno della medesima. Tanto meno può disapplicare la norma ritenuta incostituzionale (15). La soluzione cui è giunta la Commissione appare allora in patente conflitto con le norme sul funzionamento della Corte Costituzionale, segnatamente, con l’art. 23, co. 1, 2 e 3 della l. 11 marzo 1953, n 87. L’interpretazione dell’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 operata dalla Commissione adita non può allora che essere letta come una “svista” sul piano della tecnica decisoria. Ad ogni modo, l’eventuale questione di costituzionalità non avrebbe potuto certo essere posta con riferimento al parametro dell’art. 3 Cost., posto che la norma transitoria riguarda rapporti tributari collocati in momenti temporali diversi. Come tali, quindi, naturalmente soggetti alle diverse discipline del tempo in cui i rapporti predetti sono venuti in essere. Ma non solo. La norma transitoria appare compatibile con il parametro di ragionevolezza dell’art. 3 Cost., nella misura in cui fa salvi gli effetti delle attività di accertamento e di verifica già esaurite e/o programmate in costanza della previgente disciplina sul raddoppio. Basti pensare alle attività di verifica (inviti a comparire e Pvc): qui la ragionevolezza del regime transitorio, così come congegnato, può essere ritrovata nel fatto che in mancanza di esso le verifiche fiscali pianificate ed

(14) Così l’art. 23, co. 3 della l. 11 marzo 1953, n 87 «la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata, di ufficio, dall’autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio con ordinanza contenente le indicazioni previste alle lettere a) e b) del primo comma e le disposizioni di cui al comma precedente [a) le disposizioni della legge o dell’atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale; b) le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali, che si assumono violate.]». (15) In questo senso, l’art. 23, co. 2 della l. 11 marzo 1953, n 87, per cui «l’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso».


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effettuate sulla base del previgente regime ai fini dell’accertamento sarebbero state rese vane (illegittime). A riprova della ragionevolezza del regime in argomento è sufficiente richiamare la circostanza per cui le verifiche suddette debbono comunque “sfociare” entro e non oltre il 31 dicembre 2015 in un atto di accertamento. L’esigenza di tutelare le attività amministrative già pianificate e le precise condizioni di applicazione di cui all’art. 2, co. 3, secondo periodo del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 sembrano costituire elementi idonei per conferire ragionevolezza al regime transitorio in esame. Semmai, i giudici di merito avrebbero dovuto porre la questione di costituzionalità con riferimento all’art. 2, co. 3 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 sotto il profilo dell’art. 76 Cost. (16); nella misura cioè in cui il legislatore delegato non ha dato corretta attuazione alle direttive dell’art. 8, co. 2 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23 (17). Il regime transitorio in esame fa salvi i provvedimenti impositivi (impoesattivi e sanzionatori) notificati entro il 31 dicembre 2015 se correlati ad inviti a comparire o Pvc notificati entro il 2 settembre 2015 (18); ciò appare in contrasto con il criterio direttivo della legge delega 23/2014: che prevede di preservare i soli “atti di controllo” notificati prima dell’entrata in vigore del Decreto attuativo (2 settembre 2015). Stante la genericità, rectius l’utilizzo improprio, della formula “atti di controllo” è forse possibile argomentare la riconducibilità dei Pvc alla formula suddetta; ma non anche degli Inviti a comparire ex art. 5 del D.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, che non possono essere riferiti a veri e propri atti di controllo (19). Da qui la violazione dell’art. 76 Cost. (salvo verificare la rilevanza nel caso concreto). In definitiva, si può osservare come la soluzione della Commissione tributaria di Torino non trovi un adeguato fondamento, stante la violazione dell’art. 23, co. 1, 2 e 3 della l. 11 marzo 1953, n 87 sul funzionamento della Corte Costituzionale. Anche laddove fosse stata posta la questione di costitu-

(16) Chiaramente su questo aspetto, G. Fransoni, La certezza del diritto inizia ad inciampare sulle norme transitorie, in Il Sole 24 Ore del 23 agosto 2015 («qualunque lettura si dia di questa disposizione, sembrerebbe comunque violato l’articolo 76 della Costituzione»). (17) M. Nussi, Il “raddoppio” dei termini per l’accertamento, cit., 473; A. Carinci - D. Deotto, Profili di criticità e dubbi di opportunità nella revisione del raddoppio dei termini, cit., 3407; A. Renda, L’attuazione della legge delega nella disciplina del raddoppio dei termini di accertamento, cit., 2574. (18) A. Renda, L’attuazione della legge delega nella disciplina del raddoppio dei termini di accertamento, cit., 2574. (19) Su questi aspetti, T. Lamedica, Termine “breve” per il raddoppio dei termini e non aderenza alla legge delega, in Corr. trib. 2015, 1657.


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zionalità la Commissione avrebbe comunque erroneamente selezionato la norma costituzionale asseritamente violata ossia l’art. 3 Cost., dal momento che il regime transitorio in argomento appare – per le ragioni sopra esposte - affatto compatibile con il parametro costituzionale di ragionevolezza. 5. Conclusioni: il punto sui regimi transitori in tema di raddoppio dei termini e le ragioni di un “cambio di rotta” in ordine alla loro applicazione. – Le “vicende” che hanno interessato la disciplina del raddoppio dei termini per l’accertamento pongono in evidenza uno scenario applicativo piuttosto articolato. Tale scenario si caratterizza infatti per la presenza di una pluralità di discipline, a loro volta accompagnate da specifici regimi transitori. In particolare: a) Per gli atti (impositivi, impoesattivi e sanzionatori) notificati prima del 2 settembre 2015 torna applicabile la disciplina di cui all’art. 37, co. 24 e 25 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, che consente all’Amministrazione finanziaria di attivare il raddoppio dei termini a prescindere dal momento in cui è stata presentata/trasmessa la notizia di reato; b) Lo stesso regime torna applicabile agli atti (impositivi, impoesattivi e sanzionatori) notificati entro il 31 dicembre 2015 se correlati ad inviti a comparire ex art. 5 del D.Lgs. n. 218/1997 ovvero a Pvc notificati prima del 2 settembre 2015 c) Per gli atti (impositivi, impoesattivi e sanzionatori) notificati entro il 31 dicembre 2015 ma correlati ad inviti a comparire ex art. 5 del D.Lgs. n. 218/1997 ovvero a Pvc notificati dopo il 2 settembre 2015 tornerà applicabile la disciplina di cui all’art. 2, co. 1 e 2 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che impone all’Amministrazione finanziaria di presentare/trasmettere la notizia di reato entro e non oltre il termine ordinario per l’accertamento ai fini del raddoppio dei termini; d) Lo stesso regime si applica anche agli atti (impositivi, impoesattivi e sanzionatori) notificati dopo il 31 dicembre 2015 indipendentemente dalla circostanza che siano correlati ad Invito o Pvc notificati prima o dopo il 2 settembre; e) Per gli atti (impositivi, impoesattivi e sanzionatori) relativi al periodo 2016 (Unico 2017 e successivi) tornerà invece applicabile la nuova disciplina di cui all’art. 1, co. 130 e 131 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (cd. legge di stabilità 2016), che sopprime il raddoppio dei termini, allungando però i termini ordinari per l’accertamento: i) cinque anni nei casi di rettifica della dichiarazione; ii) sette anni nei casi di omessa o nullità della dichiarazione.


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Il nuovo regime del raddoppio dei termini introdotto con l’art. 2, co. 1 e 2 del D.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 ha risolto (in parte) i dubbi applicativi che hanno accompagnato la disciplina previgente, segnatamente quale dovesse essere il momento in cui deve essere presentata/trasmessa la notizia di reato all’Autorità giudiziaria. E su questo, infatti, il nuovo regime è chiaro: entro e non oltre il termine ordinario per l’accertamento. Sennonché, la previsione di una simile misura sembra difettare in punto di razionalità. Non si comprende, infatti, perché all’Agenzia servano ulteriori 4/5 anni per formalizzare l’accertamento una volta che questa ha già gli elementi per presentare la denuncia. Il senso della modifica resta così oscuro. Con la legge di stabilità 2016 il regime del raddoppio dei termini viene definitivamente soppresso. In luogo del raddoppio vengono prolungati i termini ordinari per l’accertamento (cinque anni nei casi di rettifica della dichiarazione, sette anni nei casi di omessa o nullità della dichiarazione). Ma nemmeno questa soluzione appare adeguata. Prima facie, un prolungamento “generalizzato” come previsto dall’art. 1, co. 130 e 131 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 non sembra trovare giustificazione alcuna. A ben vedere, la scelta in argomento appare come una sorta di “ritorno al passato”, in quanto la previsione originaria dell’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973 prevedeva un termine di cinque anni per l’accertamento nei casi di rettifica della dichiarazione, mentre di sei anni nei casi di omessa o nullità della dichiarazione. Senza quindi un regime di raddoppio dei termini. La norma venne poi modificata dall’art. 15, co. 1 del D.lgs. 9 luglio 1997, n. 241, con il quale si fissò un termine per l’accertamento inferiore: i) quattro anni nei casi di rettifica della dichiarazione; ii) cinque anni nei casi di omessa o nullità della dichiarazione. In quella occasione, sebbene la scelta del legislatore fu quella di ridurre i termini per l’accertamento, la modifica sembrava trovare una valida giustificazione, nella misura in cui «le nuove modalità di presentazione delle dichiarazioni consentono l’effettuazione dei controlli con tempi anticipati», in quanto «la trasmissione in via telematica delle dichiarazioni all’amministrazione finanziaria, rendendo immediatamente disponibili i dati contenuti delle stesse, consente l’adozione di nuove e più rapide modalità di controllo» (20).

(20) Si veda la Relazione di accompagnamento al D.lgs. 9 luglio 1997, n. 241; G. GavSui termini d’ accertamento si torna indietro di 20 anni (nonostante il web), in Quotidiano del fisco – Sole 24 Ore del 15 febbraio 2016. elli,


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Nessuna valida ed esplicita giustificazione viene invece in considerazione per la modifica introdotta con la legge di stabilità 2016 (“prolungamento generalizzato”), come dimostrato dall’inequivocabile silenzio del Legislatore nella relazione di accompagnamento alla Legge. Con ciò, lasciando intendere che la diversa modulazione – in aumento – dei termini per l’accertamento sia stata dettata da una scelta arbitraria del Legislatore, piuttosto che da precise e ben individuate esigenze di sistema. Per tali e tante ragioni, il prolungamento “generalizzato” introdotto con la legge di stabilità 2016 non sembrerebbe trovare valide giustificazioni. Un prolungamento siffatto si sarebbe potuto immaginare e giustificare allorché il legislatore avesse introdotto una previsione sull’obbligatorietà del contradditorio procedimentale tra Amministrazione finanziaria e contribuente. Con una simile previsione, del resto, l’Amministrazione avrebbe dovuto attivare una fase procedimentale ulteriore, allungando di fatto i tempi per la formazione e l’emissione dell’accertamento. In questo caso, un prolungamento si sarebbe potuto giustificare. In assenza di una simile previsione, la scelta di un prolungamento “generalizzato” dei termini per l’accertamento in luogo di termini più brevi e di un regime di raddoppio appare arbitraria se non addirittura contraddittoria. D’altra parte, dal punto vista sistematico una misura così congegnata finisce per assicurare un termine più ampio agli accertamenti di carattere “elementare” (si pensi agli accertamenti “redditometrici”), e un termine inferiore agli accertamenti di carattere più “complesso” (si pensi agli accertamenti in materia di Frodi Iva). A questo punto parrebbe evidente la natura contraddittoria della norma sul prolungamento “generalizzato” dei termini per l’accertamento. Tanto più, in ragione del fatto che il legislatore non ha “espulso” in modo definitivo dall’ordinamento tributario il regime del raddoppio dei termini. Difatti, a norma dell’art. 12, co. 2-bis del D.L. n. 78/2009 in tema di accertamenti relativi alle attività detenute all’estero, «…i termini di cui all’art. 43, co. 1 e 2 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e all’articolo 57, co. 1 e 2 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e successive modificazioni, sono raddoppiati». Ebbene, la permanenza di un raddoppio dei termini operante solo nel comparto dell’imposizione diretta non può che sollevare un dubbio di compatibilità con l’ordinamento europeo della nuova misura in materia di termini. I nuovi termini, pur se prolungati, potrebbero rivelarsi inadeguati rispetto ad accertamenti “complessi”, come ad esempio in materia di frodi Iva. Per effetto dei “nuovi” termini l’Amministrazione finanziaria potrebbe non essere in grado di


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valutare gli elementi acquisiti nel corso delle indagini penali, proprio perché i termini prolungati non sono stati concepiti per questa finalità. Detto altrimenti, il termine prolungato non garantisce, e non può garantire, sempre e comunque la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di valutare gli elementi acquisiti da un’indagine penale ai fini dell’accertamento. In materia di Iva, tutto questo rischia di tradursi in una violazione del principio europeo di proporzionalità, stante l’inadeguatezza del termine prolungato rispetto allo scopo di reprimere le frodi Iva. D’altra parte, le norme tributarie nazionali debbono osservare gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’Iva. Ne discende di qui, l’obbligo degli Stati membri di combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione con le stesse misure – dissuasive ed effettive – che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari (21). In considerazione di ciò, la previsione di un regime di raddoppio dei termini per il solo comparto dell’imposizione sui redditi dovrebbe “sollecitare” il legislatore a ripensare alla disciplina dei termini per l’accertamento (prolungamento generalizzato). In una prospettiva de jure condendo, si potrebbe immaginare una soluzione alternativa. E cioè la previsione – sia ai fini reddituali che Iva – di un termine ad hoc con una “speciale” decorrenza, laddove l’accertamento si riferisca a violazioni penalmente rilevanti. Più precisamente, che il termine suddetto decorra dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 c.p.p. In questo modo, in presenza di una violazione penalmente rilevante l’Amministrazione finanziaria vedrebbe salvaguardata la propria possibilità di valutare entro un termine ragionevole gli elementi acquisiti nel corso dell’indagine penale ai fini dell’accertamento. Così, per concludere, sarebbe assicurata tanto l’esigenza di contrasto all’evasione quanto la certezza e la stabilità dei rapporti tributari.

Federico Aquilanti

(21) CGUE del 8 settembre 2015, C-105/14, Taricco.



Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli

Cassazione, sez. III pen., 29 ottobre 2014 - 11 febbraio 2015, n. 6205; Pres. Fiale, Est. Scarcella. Confisca diretta – Preventiva ricerca del profitto – Denaro, profitto del reato tributario – Possibilità di disporre confisca diretta del profitto a disposizione della persona giuridica – Incapienza della persona giuridica – Situazione di fatto sostitutiva della preventiva ricerca del profitto – Confisca per equivalente L’identificazione del profitto del reato tributario con il denaro e il riferimento al principio, speciale, del ripristino dell’ordine economico perturbato, di cui alla confisca per gli illeciti amministrativi degli enti, renderebbero operativa la confisca diretta nei confronti della persona giuridica; donde la preventiva ricerca del profitto, salvo l’incapienza della persona giuridica, fatto che rende vana la ricerca del profitto del reato tributario e quindi, la possibilità d’operare la confisca per equivalente nei confronti dell’organo amministrativo, senza preventiva ricerca ai fini della confisca diretta. (1)

Svolgimento del processo. 1. Con ordinanza del 25/03/2014, depositata in data 28/03/2014, il tribunale del riesame di PERUGIA, in accoglimento dell’appello cautelare proposto dal P.M. avverso il provvedimento emesso dal GIP del medesimo tribunale in data 21/02/2014 con cui era stata rigettata la richiesta dell’organo inquirente, disponeva: a) il sequestro preventivo della somma complessiva di Euro 636.606,20 giacente sui cc/ cc riconducibili direttamente od indirettamente all’indagato M. o, in caso di mancanza di liquidità sui medesimi conti correnti, dei beni immobili o mobili registrati riconducibili al medesimo indagato; b) il sequestro preventivo della somma complessiva risultante dalla sottrazione di Euro 25.268,76 (già pagati all’Erario) dalla somma di Euro 798.740,00 giacente sui cc/cc riconducibili direttamente od indirettamente all’indagato M. o, in caso di mancanza di liquidità sui medesimi conti correnti, dei beni immobili o mobili registrati riconducibili al medesimo indagato; giova precisare, per migliore intelligibilità dell’impugnazione, che il sequestro è stato disposto in quanto i ricorrenti risultano indagati per i reati di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10 bis e 10 ter, quali amministratori succedutisi nel tempo della FERCOS s.r.l. 2. Hanno proposto separati ricorsi gli indagati a mezzo dei rispettivi difensori fiduciari cassazionisti, impugnando l’ordinanza predetta, e deducendo


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complessivamente due motivi di ricorso, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p.. 2.1. Deduce, in particolare, il MI., con l’unico motivo di ricorso, il vizio di violazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. B), con riferimento all’art. 322 ter c.p.. In sintesi, la censura investe l’impugnata ordinanza in quanto non è possibile procedere al sequestro per equivalente nei confronti dell’amministratore della società, essendo mancata la verifica preventiva della possibilità di procedere al sequestro finalizzato alla confisca di denaro o altri beni fungibili o di beni direttamente collegati al profitto del reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica o in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato; poiché, si osserva in ricorso, ogniqualvolta il profitto del reato non sia uscito dalla disponibilità della persona giuridica ben può essere disposto, nei confronti della medesima, il sequestro finalizzato alla confisca diretta dello stesso profitto del reato, apparirebbe evidente, nel caso in esame, che il profitto del reato non sia stato locupletato dal ricorrente, che non avrebbe conseguito alcun profitto personale dalla contestata commissione del reato; il tribunale, dunque, avrebbe omesso di valutare la sussistenza dell’impossibilità di procedere al sequestro finalizzato alla confisca diretta nei confronti della società, in violazione di quanto disposto dall’art. 322 ter c.p., che individua detta impossibilità quale condizione per disporre la confisca per equivalente. 2.2. Deduce, in particolare, il M., con l’unico motivo di ricorso, il vizio di violazione e/o erronea applicazione di legge ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. B) e C), con riferimento al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 10 bis e 10 ter, artt. 240 e 322 ter c.p., nonché art. 321 c.p.p.. In sintesi, il ricorrente, nel riproporre identica censura a quella mossa dal coindagato Mi., ha inoltre sostenuto che il tribunale del riesame si sarebbe sottratto all’obbligo prima di procedere al sequestro per equivalente nei confronti dell’amministratore - di verificare la possibilità di procedere al sequestro preventivo finalizzato alla confisca del credito vantato dalla società dal ricorrente amministrata nei confronti di altra società (la Danieli Centro Combustion s.p.a.). Motivi della decisione. 3. I ricorsi sono manifestamente infondati e devono essere dichiarati inammissibili per le ragioni di seguito esposte. 4. I motivi di impugnazione, come sinteticamente esposto nell’illustrazione degli stessi, attengono tutti alla medesima doglianza, ossia il non essere stata disposta la confisca del profitto derivante dal reato tributario “diretta” sul patrimonio della persona giuridica. Sul punto occorre svolgere alcune puntualizzazioni. 5. Prima di chiarire le ragioni poste a fondamento della decisione di questa Corte, è utile rammentare i caratteri strutturali della confisca. La confisca c.d. “diretta” (che può essere obbligatoria o facoltativa) è una misura di


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sicurezza di natura ablatoria, che espropria il reo – mediante provvedimento permanente ed irrevocabile – di beni in qualche modo legati alla commissione dell’illecito: si tratta di cose utilizzate per il compimento del reato o che ad esso erano state destinate; si tratta poi del profitto, del prodotto e del prezzo del reato. Il profitto è il vantaggio economico realizzato mediante il fenomeno criminoso, direttamente o indirettamente (vale a dire, in questo secondo caso, mediante surrogazione o rivendita del profitto immediatamente ricavato dal reato); il prodotto del reato è il bene creato con l’attività criminosa; infine, il prezzo è la prestazione data o promessa al reo al fine di motivarlo a compiere l’illecito. Particolare ipotesi costituisce l’art. 240 c.p., comma 2, n. 2, per il quale forma oggetto di confisca obbligatoria la cosa la cui fabbricazione, detenzione, alienazione, il cui uso o porto costituiscano reato, anche se non è stata emessa sentenza definitiva di condanna. La disciplina codicistica è fornita principalmente dagli artt. 240 e 322 ter c.p., ma il fenomeno della confisca è variegato, in quanto la figura è disciplinata altresì da norme speciali, tra le quali si annovera – poiché qui di interesse – la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, che estende la confisca ex art. 322 ter cit., ad alcuni reati tributari contenuti nel D.Lgs. n. 74 del 2000. Si ritiene che la natura giuridica della confisca sia effettivamente quella di “misura di sicurezza”, in quanto fondata sui medesimi presupposti della misura di sicurezza tout court, vale a dire il reato compiuto (o il c.d. “quasi reato”) e la pericolosità del reo valutata secondo una prognosi della capacità a delinquere ex art. 133 c.p. Taluno in dottrina, mettendo in dubbio quanto appena riferito, ritiene che a mancare sia proprio la pericolosità del reo, sostituita dalla “pericolosità della cosa”. A tale impostazione si obietta da altra dottrina che in realtà sia proprio il soggetto agente ad essere pericoloso, in quanto la disponibilità della res mantiene viva la sua attrattiva per il compimento di ulteriori illeciti. Ecco perché si ripudia la concezione della confisca come sanzione sui generis, e si mantiene salda l’opzione ricostruttiva in termini di misura di sicurezza. Palese dunque il tratto distintivo con la figura della c.d. confisca per equivalente, resa possibile da norme diverse dall’art. 240 cit. (tra le quali lo stesso art. 322 ter cit., richiamato dalla L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143): quando sia accertato che il reato abbia generato un profitto o sia stato provocato dalla dazione/promessa di un prezzo, ma né il profitto né il prezzo siano stati materialmente rintracciati, l’Autorità Giudiziaria è abilitata a sottoporre a confisca un valore equivalente ad essi, che si trovi nella disponibilità del reo. Si ritiene che la confisca per equivalente abbia funzione sanzionatoria, e che dunque operi nel rispetto del principio di irretroattività sfavorevole, a differenza di quanto accade per la confisca diretta, la quale, essendo misura di sicurezza, sottostà al principio ex artt. 25 Cost., comma 3, e art. 199 c.p., che consentono la retroattività sfavorevole. V’è da precisare che la confisca, diretta o per equivalente, è uno strumento che può colpire beni che si trovino nella disponibilità del reo, mentre non può innestarsi su cose che appartengano a “persona estranea al reato”. 6. Così chiariti in astratto i termini della questione, va qui ricordato, con riferimento


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al motivo di ricorso comune proposto, il pensiero delle Sezioni Unite concernente la confisca “diretta” del profitto, sempre nei riguardi della persona giuridica e per reati tributari compiuti dal legale rappresentante. Il Supremo Consesso (Sez. U, n. 10561 del 30/01/2014 - dep. 05/03/2014, Gubert, Rv.258647) ritiene che “è consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica” (pagina 6 della sentenza). Non sono mancate, a tal proposito, le critiche dottrinali di chi evidenzia che nel caso in parola, data la costante inapplicabilità del D.Lgs. n. 231 del 2001, la confisca diretta opererebbe irragionevolmente nei confronti di beni che si trovano nella disponibilità di un soggetto – la persona giuridica – qualificabile (questa volta effettivamente) come estraneo al reato, e che l’operatività del provvedimento ablatorio sarebbe insensatamente giustificato dall’essere la persona giuridica mero “beneficiario del reato”, connotazione – quest’ultima – che non può porsi come presupposto valido per la succitata tipologia di confisca. In altri termini, il concetto di estraneità al reato viene, così, sensibilmente ridotto, coincidendo esclusivamente con una – per così dire – “estraneità totale” (rispetto al reato e rispetto a tutto ciò che da esso deriva) la quale verrebbe reputata insussistente nel caso in cui la persona giuridica “entri in contatto” con le conseguenze economicamente rilevanti dell’illecito. Se ciò è vero, tuttavia, osserva il Collegio come, al fine di poter disporre la confisca “diretta” del profitto (nella specie rappresentato dal mancato pagamento sia di quanto dovuto a titolo di ritenute alla fonte relative agli stipendi pagati ai dipendenti, sia dell’IVA dovuta in base alle dichiarazione annuale per i periodi di imposta di cui all’imputazione cautelare) nei confronti della persona giuridica, è pur sempre necessario che risulti la disponibilità nelle casse societarie di denaro da aggredire “direttamente”, non potendo ritenersi sussistere un obbligo per la Pubblica Accusa di dover provvedere alla preventiva ricerca anche nel caso in cui risulti ex actis l’incapienza del patrimonio dell’Ente. Ed è quanto verificatosi nel caso in esame, atteso che dall’esame del provvedimento impugnato, emergeva pacificamente una situazione di oggettiva illiquidità, tant’è che lo stesso Ministero del Lavoro aveva approvato il programma di crisi aziendale della FERCOS s.r.l. dal novembre 2010 all’ottobre 2011 e che la stessa società aveva ottenuto l’autorizzazione alla C.I.G. nel 2010 e 2012, sino a cessare l’attività alla fine del 2013 con cessione in affitto dell’azienda alla data dell’8 gennaio 2014. Tutti elementi, questi, che rendevano logicamente prima ancora che giuridicamente inutile una preventiva ricerca da parte del P.M. ai fini della confisca “diretta” nei confronti della persona giuridica, prima di procedere al sequestro per equivalente avente ad oggetto i beni dei ricorrenti.


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7. Questa Corte, del resto, con la citata sentenza Gubert, evidenzia anche che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente è legittimo solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, ovvero quando gli stessi non siano aggredibili; tuttavia, non è richiesta la preventiva ricerca generalizzata dei beni costituenti il profitto di reato, poiché, durante il tempo necessario per l’espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente. Le Sezioni Unite della Cassazione ammettono quindi il sequestro preventivo, nei confronti di una persona giuridica, finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della stessa, quando tale profitto o tali beni siano nella disponibilità della medesima o quando la persona giuridica risulti in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l’amministratore agisca come effettivo titolare. In tale ipotesi, secondo le Sezioni Unite, il denaro o il valore trasferito devono infatti ritenersi pertinenti alla disponibilità del soggetto che ha commesso il reato, in apparente vantaggio dell’ente ma, nella sostanza, a favore proprio. La decisione richiamata non ritiene, certo, possibile la confisca per equivalente di beni della persona giuridica per reati tributari commessi da suoi organi qualora non sia stato reperito il profitto del reato tributario compiuto dai medesimi organi, o anche nell’ipotesi in cui sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro, o di altri beni fungibili, o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona non estranea al reato. Tuttavia, quando, come nel caso in esame, ove la situazione di fatto della persona giuridica renda oggettivamente inutile tentare il sequestro finalizzato alla confisca “diretta” emergendo ex actis l’indisponibilità di risorse in capo alla persona giuridica, la regola fissata dalle Sezioni Unite (ossia la necessità di procedere alla confisca diretta prima che possa essere disposta quella per equivalente) non può operare, sicché riacquista vigore la regola dettata dall’art. 322 ter c.p., che consente il sequestro funzionale alla confisca “per equivalente” in caso di impossibilità di confisca diretta. Soluzione, questa, che non contrasta con il principio, affermato da questa stessa Sezione, secondo cui nei confronti di una persona giuridica è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla “confisca diretta” del profitto rimasto nella disponibilità della stessa, derivante dal reato tributario commesso dal suo legale rappresentante, non potendo considerarsi l’ente una persona estranea al detto reato ma non anche il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, in quanto precluso dal D.Lgs. n. 231 del 2001 (Sez. 3, n. 39177 del 08/05/2014 - dep. 24/09/2014, P.M. in proc. Civil Vigilanza s.r.l., Rv. 260547); ed invero, l’applicazione di tale principio presuppone pur sempre che una confisca diretta nei confronti dell’Ente sia oggettivamente possibile ove ne risulti la “capienza” patrimoniale e, soprattutto, laddove sia possibile individuare con certezza che di “quel” profitto si tratti (trattandosi di reati tributari concretanti un’evasione per omissione, come nel


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caso in esame, le somme accantonate per il pagamento delle ritenute certificate e dell’IVA annuale dichiarata). Quando, invece, come nel caso esaminato da questo Collegio, la situazione di illiquidità sia conclamata (a tal punto che la società debitrice risulta già cessata), non ricorrono le condizioni per una confisca diretta, con conseguente operatività dello strumento sanzionatorio della confisca “per equivalente”. 8. In conclusione, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non ricorrendo ragioni di esonero, anche al pagamento della somma di Euro 1000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibili i ricorsi (Omissis).

(1) Il denaro, bene d’equivalente valore del profitto del reato tributario e il ripristino dell’ordine economico perturbato. Sommario: 1. La massima della sentenza: l’illiquidità della persona giuridica supera la necessità di ricerca del profitto del reato. 2. Il “fenomeno variegato” della confisca: il processo osmotico della funzionalità dicotomica pena-misura di sicurezza. 3. L’esigenza di eliminare il vantaggio illecito. 4. La peculiarità del profitto del reato tributario. 5. La confisca diretta del profitto del reato tributario. 6. La confisca diretta del profitto del reato tributario, nei confronti della persona giuridica. 7. Conclusioni. L’equiparazione del denaro con il profitto del reato tributario valga solo quale occasione di confisca per equivalente e non per operare la confisca diretta. La previsione normativa di cui all’articolo 6 comma 5 del d.lgs. 231/2001, valga solo quale previsione speciale; non sia estesa dunque ad altro ambito normativo. Equite money with the profit of the tax offences, is related only as an opportunity for confiscation by equivalent, and not to operate the direct confiscation. Rules provided for in Article 6, paragraph 5 of Legislative Decree n. 231/2001, which is related only special account; therefore, not be extended to other legislative framework.

1. La massima della sentenza: l’illiquidità della persona giuridica supera la necessità di ricerca del profitto del reato. – La sentenza, in commento, risponde ai motivi di ricorso che, così, si possono riassumere. Vorrebbe, il ricorrente, che la confisca del profitto del reato tributario sia disposta direttamente sul patrimonio della persona giuridica, anziché per


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equivalente su quello dell’amministratore; e dunque che, a tal fine, venga effettuata la preventiva verifica della possibilità di disporlo sul denaro o altro bene fungibili della persona giuridica. Vorrebbe, ancora, il ricorrente, che prima di procedere alla confisca per equivalente, si verifichi, inoltre, la possibilità di procedere alla confisca del credito vantato dalla società, nei confronti di altra società. Dai motivi di ricorso, ne deriva una sentenza espressione di sintesi del “fenomeno variegato” (1) della confisca, operativa, in particolare, con riferimento al profitto del reato tributario: dai “caratteri strutturali della confisca” (2), al profitto, appunto, del reato tributario; e così, l’occasione del presente commento. La sentenza, è pur motivo di rilevare la massima che “quando la situazione di illiquidità sia conclamata (a tal punto che la società debitrice risulta già cessata) non ricorrono le condizioni per una confisca diretta, con conseguente operatività dello strumento sanzionatorio della confisca per equivalente”. A seguire, dunque, brevi note sulle ragioni argomentative; senza peraltro dissimulare attenzione al vero tema d’approfondimento, ossia la possibilità di disporre confisca diretta del profitto di reato tributario, e quindi di disporlo nei confronti della società che nonostante sia soggetto estraneo al reato, comunque ne benefici, tema che la massima pur propone quale presupposto. Così, dunque, argomenta, la sentenza, che, al fine di poter disporre la confisca diretta del profitto nei confronti dell’ente (nella specie rappresentato dal mancato pagamento delle ritenute certificate che dell’IVA) “è pur sempre necessario che risulti la disponibilità nelle casse societarie di denaro da aggredire direttamente”; ma che, qualora “risulti ex actis, l’incapienza del patrimonio dell’ente (3)“, non sussisterà alcun onere “di dover provvedere alla preventiva ricerca”. Prosegue, la sentenza, rilevando che, infatti, “logicamente prima ancora che giuridicamente inutile” era apparsa, al giudice di merito, una “preventiva ricerca da parte del PM, ai fini della confisca diretta nei confronti della persona giuridica”, prima di procedere al sequestro per equivalente nei confronti degli organi amministrativi. E aggiunge che, comunque, non sarebbe richiesta una preventiva ricerca generalizzata “poiché

(1) Espressione letterale tratta dalla sentenza in commento. (2) Espressione letterale tratta dalla sentenza in commento. (3) Incapienza che veniva in evidenza stante il fatto che lo stesso ministero del Lavoro aveva approvato il programma per le aziende in crisi aziendale.


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durante il tempo necessario per l’espletamento di tale ricerca, potrebbero essere occultati gli altri beni suscettibili di confisca per equivalente”. Quanto, poi, al tema che la massima assume, e che ne costituisce il presupposto, si concentri il principale seguito d’attenzione: ossia alla possibilità di disporre la confisca del profitto del reato tributario, direttamente nei confronti dell’ente; e così, dunque, trattandosi, il profitto, di risparmio d’imposta, di compiersi la confisca di denaro nella disponibilità dell’ente medesimo. Dalla sentenza in commento, ecco, allora, l’occasione di proporre il caso “Gubert”, il cui ricorso, la terza sezione della Cassazione penale ha rimesso alle Sezioni Unite (4) e i relativi principi enunciati; tra cui, l’assunto della possibilità di disporre, nei confronti della società, la confisca diretta di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario commesso dagli organi della stessa “quando tale profitto o tali beni siano nella disponibilità della medesima”. 2. La confisca: il processo osmotico della funzionalità dicotomica penamisura di sicurezza e il fenomeno variegato. – Pene e misure di sicurezza hanno funzioni distinte e opposte; sebbene, come assunto in dottrina, quanto, appunto, all’istituto della confisca, i confini talvolta si perdano, presentando la misura di sicurezza reale, “qualche punto di contatto piuttosto con le pene accessorie” (5). Tale distinzione, originaria, è oggi relegata allo stato di finzione giuridica, e la dottrina rileva i limiti, tanto da qualificarla sanzione sui generis (6) e pena accessoria (7); e la questione, non è argomento di poco conto, tanto da presentare, la previsione normativa, occasione di confisca obbligatoria che pur induce riferimento alla misura di sicurezza, ma che tradisce una valenza sanzionatoria accessoria, anzi, si potrebbe assumere, finanche principale, di fatto, rispetto a quella detentiva. Accade così, che nelle ipotesi di confisca obbligatoria speciali (speciali rispetto a quella delle previsione del comma 2 dell’articolo 240 c.p.) si palesi la radice di un provvedimento sanzionatorio, ablativo del profitto illecito nella sua astrattezza tanto da potersi operare fin anche indirettamente su di un bene per nulla pertinente il reato e sol perché e purché di uguale valore.

(4) Si veda Cass. pen. S.U. n. 10561/2014, in De Jure, che dal ricorrente, appunto Gubert, appunto prende il riferimento indicativo di sintesi, (5) Così si esprime I. Caraccioli, Confisca, in Manuale di diritto penale, Padova, 2005, 833. (6) Così V. Manzini, Trattato di diritto penale III, Torino, 1982, 383. (7) In questo senso M. Iaccarino, La confisca, Bari, 1935.


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Rilevi, quindi, di questo processo osmotico, quanto evidenziato dalla dottrina che ne ha proposta l’opacità scientifica indotta da un uso adattato a un fine che non gli è proprio (8); un istituto a cui si guarda per legittimare l’obbligatorietà di un provvedimento sostanzialmente sanzionatorio (9). 3. L’esigenza di eliminare il vantaggio illecito. – Quando, poi, l’esigenza di eliminare il vantaggio illecito, che il profitto da reato genera, è l’obiettivo cui tendere, il confine diventa oltremodo labile, e i due istituti si avvicendano nella funzione pur con originaria diversa ragione giuridica; così che il fine giustifichi i mezzi, e i mezzi si adattino per il raggiungimento del fine; subito, di seguito, un breve cenno di riscontro. Segno di questi tempi sia l’ipotesi di confisca, così come dettata, oggi (10), dall’articolo 12 bis del d.lgs.74/2000; una previsione normativa che ben rappresenta quel percorso, tra confini peraltro, come ricordato, labili, che parte dall’ipotesi speciale della confisca obbligatoria, nell’alveo, dunque, tipico della misura di sicurezza, per arrivare alla confisca di valore e così essere attratta dalla funzione di pena (11). La previsione assume il risparmio di spesa d’imposta quale profitto illecito; risparmio di spesa che ben rappresenta il profitto, così com’è, il profitto, categoria dogmatica che, dal prodotto, quest’ultimo di diretta creazione, trasformazione, acquisizione dal reato, si differenzia quanto ne rappresenta il risultato-prodotto indiretto (12).

(8) Si legga A. Alessandri, Confisca nel diritto penale, in Digesto, 4° edizione, Discipline penalistiche, vol. III, 1989, 39 e ss., che così si esprime “segnata da un destino scientifico piuttosto oscuro, di basso profilo, soprattutto caratterizzato da un reticente silenzio sullo scopo e sulla legittimazione della misura”. (9) Si legga A. Melchionda, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di confisca, in Riv. It. Dir. e proc. pen., I, 1977, 334, a commento di Cass. pen. sez. I, 19 gennaio 1976, ove propone il disorientamento, in termini di una confisca quale “pena accessoria, indiscriminatamente obbligatoria e sostanzialmente sanzionatoria”, come “le contrastanti applicazioni di questo istituto legittimano il dubbio che ad esso (art. 240 c.p.) si guardi”. (10) Solo oggi, infatti, se ne può parlare, riferendosi all’articolo 12 bis, quanto a i reati tributari, diversamente essendo stato, il riferimento, l’articolo 322 ter c.p., cui il rimando operato dal comma 143 dell’articolo 1 della L. 244/2007. (11) La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 97 del 2009, in De Jure, ha assunto “…la natura eminentemente sanzionatoria” della confisca per equivalente, stante “… la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un rapporto di pertinenzialità (inteso come diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, …”. (12) Si legga V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. III, 1986, 388, secondo cui “Sono il profitto del reato quelle cose che, pur non costituendone il prodotto diretto, ne rappresentano tuttavia il prodotto indiretto, come il denaro ricavato dalla vendita delle cose


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Se il fine è di eliminare il vantaggio patrimoniale illecito che la commissione del reato tributario determina, potrà ben tradursi (confinarsi), così, l’assenza di addendo, tipica del risparmio d’imposta, donde, appunto, un mero risparmio di spesa, in presupposto logico, il profitto, fondante l’azione sanzionatoria, della misura di sicurezza e della pena. Rileverà, dunque la confisca, quale mezzo per il fine d’ablazione dell’illecito vantaggio patrimoniale. Si consideri, quindi, fine, l’eliminazione del vantaggio patrimoniale illecito che la commissione del reato determina; si assuma, dunque, il profitto, quale vantaggio patrimoniale (13) illecito e il risparmio di spesa d’imposta, quale vantaggio patrimoniale, illecito profitto. Risparmio di spesa che ben rappresenta il profitto, così com’è, il profitto, categoria dogmatica che dal prodotto, quest’ultimo di diretta creazione, trasformazione, acquisizione dal reato, si differenzia quanto ne rappresenta il risultato-prodotto indiretto. (14) Si traduca (confini), così, l’assenza di addendo, tipica del risparmio d’imposta, donde, appunto, un mero risparmio di spesa, in presupposto logico, il profitto, fondante l’azione sanzionatoria, della misura di sicurezza e della pena. Rileverà, dunque la confisca, quale mezzo per il fine d’ablazione dell’illecito vantaggio patrimoniale. 4. La peculiarità del profitto del reato tributario. – Peculiarità del profitto da reato tributario è quella di consistere in un risparmio di spesa; profitto, dunque, che si traduce nel vantaggio economico che il risparmio comporta.

rubate, gli acquisti fatti col denaro rubato, ecc..”. Si legga anche A. Alessandri, Confisca, cit., 52, ove assume che “Il profitto va ravvisato nell’utilità economica immediatamente ricavata dal fatto di reato, rispetto alla quale la frequente affermazione sulla natura “indiretta” del vantaggio sembra esclusivamente da limitare alla naturale inerenza ad un (primo) rapporto di scambio come fonte del profitto stesso.” (13) Così si espressa Cass. S.U. n. 18374/2013, Adami, in Rv. 255036, in De Jure, in tema di reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, affermando testualmente: “…non è revocabile in dubbio che il profitto possa essere costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguente alla consumazione del reato e possa, dunque, consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi e sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario”. (14) Si legga V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. III, 1986, 388, secondo cui “Sono il profitto del reato quelle cose che, pur non costituendone il prodotto diretto, ne rappresentano tuttavia il prodotto indiretto, come il denaro ricavato dalla vendita delle cose rubate, gli acquisti fatti col denaro rubato, ecc..”. Si legga anche A. Alessandri, Confisca, cit., 52, ove assume che “Il profitto va ravvisato nell’utilità economica immediatamente ricavata dal fatto di reato, rispetto alla quale la frequente affermazione sulla natura “indiretta” del vantaggio sembra esclusivamente da limitare alla naturale inerenza ad un (primo) rapporto di scambio come fonte del profitto stesso”.


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Il dato, risparmio, è concettuale, concernente il concetto, non la sostanza, concetto che, la spesa, specifica in termini di valore economico; dunque, il dato, risparmio di spesa, si dirà, è concettuale di valore. Un dato concettuale di valore necessita per sua natura, equivalente dato concreto, di valore. Il risparmio di spesa, per sua natura, necessita, dunque, di essere individuato in un bene, di tangibile rilevo patrimoniale, che possa esprimerne l’equivalente valore. Il denaro, quindi, pare così rappresentare la più immediata forma d’equivalente valore, del profitto del reato tributario; non il profitto diretto e neppure l’unica occasione d’equivalenza! (si pensi a qualunque bene assuma rilievo patrimoniale). Ciò che più rileva, peraltro, è che lo stesso denaro sarà occasione di confisca per equivalente e non diretta; così com’è appunto occasione di equivalente dato concreto di valore. Difficile da accettare la soluzione così proposta, parrebbe, peraltro, interpretazione onesta; certo, impedirebbe la confisca diretta del profitto del reato tributario, conseguenza che, si teme, induca, l’assunto, all’insuccesso. Insuccesso, che, già, sembra decretare la stessa Gubert, che assume la possibilità di disporre, nei confronti della persona giuridica, la confisca di denaro o altri beni fungibili, o di beni direttamente riconducibili al profitto del reato tributario, profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) di cui abbia la disponibilità; e così proclama il tema del denaro quale bene profitto del reato tributario. 5. La confisca diretta del profitto del reato tributario. – Merita, dunque, attenzione l’argomentare della citata sentenza Gubert, che così inizia: confisca diretta e per equivalente sono due istituti ben distinti e la confisca di denaro o di beni fungibili è sempre diretta; per, poi, proporre l’assunto che “la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o di beni fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta”. L’iniziale argomentare, trova espresso riferimento nel pronunciamento della sentenza c.d. Puliga (15), secondo cui, se il profitto è costituito da denaro che il concussore riceve per l’effetto della sua attività di costrizione o induzione, il sequestro preventivo, di disponibilità del conto corrente dell’imputato “… è legittimamente operato in base alla prima parte e non alla seconda parte dell’articolo 322 ter c.p., comma 1”; ossia la confisca di denaro è sempre diretta quando attiene il profitto in denaro.

(15) Si veda Cass. pen. sz. VI n. 30966/2007 in Rv. 236984 e De Jure.


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L’argomento, poi, si evolve fino a considerare la sentenza c.d. Giacalone (16), secondo cui la trasformazione che il denaro, profitto del reato di concussione, abbia subito in beni d’altra natura, non è d’ostacolo alla confisca diretta e la sentenza, Sezioni unite, c.d. Miragliotta (17), secondo cui “è possibile la confisca del bene immobile in forma specifica ai sensi dell’art. 322 ter c.p., comma 1, parte prima e non essendo necessaria quella per valore equivalente”, immobile che sia provato essere oggetto d’acquisto col denaro provento dal reato di concussione; e così fino a proporre l’assunto che “in tutte le ipotesi sopra richiamate non si è in presenza di confisca per equivalente ma di confisca diretta del profitto del reato”. Si dirà, dunque, in sintesi, l’espressione del concetto che dal bene, oggetto diretto di apprensione da parte dell’autore del reato, il denaro, bene fungibile o altro bene fungibile, all’utilità che, da quel bene l’autore stesso realizza in maniera indiretta, per effetto dell’attività criminosa (18), siano beni tutti confiscabili in forma specifica. Dall’enunciato principio, alla sua applicazione traslata quanto al profitto del reato tributario, s’imporrebbe di considerare il risparmio di spesa bene fungibile che si apprende e il denaro, la sua trasformazione, l’utilità che realizza: ossia che il denaro sarebbe oggetto di confisca specifica del profitto del risparmio d’imposta, quanto bene in cui il risparmio di spesa, bene fungibile, trovi trasformazione. Operazione argomentativa, che, obiettivamente, in sentenza, non trova espressa proposizione e peraltro, non appare così immediata; sol si voglia considerare il risparmio di spesa un dato, concettuale, di valore, che non si apprende, dunque tanto meno si trasforma nel denaro, bene, il denaro, che è, solo una non la sola, occasione, la più convenzionale, d’equivalenza di valore, dunque bene in sé oggetto d’ablazione, al più, per equivalenza, ma non specifica. 6. La confisca diretta del profitto del reato tributario nei confronti della persona giuridica. – Si assuma pure, dunque, la possibilità di disporre la confisca diretta del profitto del reato tributario, trascurando, peraltro, la tesi proposta, che n’è peculiare, quanto attiene alla natura del risparmio di spesa.

(16) Si veda Cass. pen. sez. VI n. 4114/1994 in Rv. 200855. (17) Si veda Cass. pen. S.U. n. 10280/2007 in Rv. 238700 e in De Jure. (18) L’espressione di sintesi è tratta dalla sentenza Cass. pen. S.U. c.d. Miragliotta, che utilizza le espressioni apprendere e realizzare.


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Rilevino, comunque, alcuni limiti dell’istituto: il primo, che quanto misura di sicurezza patrimoniale si fonda, pur sempre, sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di alcune cose, tra le altre ipotesi quelle che costituiscono il profitto del reato, dunque sulla necessità di prevenire la commissione di nuovi reati, con effetto dunque cautelare (19); il secondo, che quanto pena, presuppone, per la sua comminazione, l’imputabilità e dunque la sussistenza di responsabilità; il terzo, ossia l’inoperatività della confisca quando il bene appartenga a persona estranea al reato, così com’è la persona giuridica per conto della quale il soggetto fisico si determini a perpetrare l’illecito penale (20). Affermata, come premesso, la possibilità di disporre la confisca diretta del profitto del reato tributario, la Gubert (21), passa agli assunti e quindi ai principi di diritto: in particolare, enuncia che, quando il profitto del reato (tributario) sia rimasto nella disponibilità della persona giuridica il cui organo amministrativo abbia commesso il reato, lo stesso è passibile di confisca; assunto, che, motiva, con l’esigenza di ripristino dell’ordine economico perturbato dal reato. Nella pena, si colga il rimprovero rieducativo, la sanzione per il fatto illecito. Nella misura di sicurezza, si legga la tutela della collettività, la sanzione per la pericolosità. Nel ripristino dell’ordine economico perturbato, la privazione dell’illecito vantaggio, si evidenzi un terzo genere di provvedimento; presupposto, questo terzo, così, “inusuale” della confisca, il ripristino dell’ordine economico perturbato, si dirà essere condizione di un’ipotesi d’ablazione che non presenta i caratteri della pena né della misura di sicurezza; difficile, senonché impossibile, l’inquadramento dogmatico, si dovrà pensare, dunque, a una sorta di terzo genere che solo una previsione positiva potrebbe dare seguito d’esistenza. Ciò non può non rilevare come suo limite, essendo, l’inquadramento dell’istituto, ancor prima che esigenza dogmatica, presupposto cui demandare la soluzione di quei problemi, concreti (22), inerenti la sua applicazione, per cui non vi sarebbe espresso riscontro normativo. Limite, quello che il “nuovo” presupposto così individuato induce, di cui la sentenza pare rendersi conto; tanto da cercare giustificativo, normativo, all’operare dell’oblazione che abbia la sua ragione nella ricordata necessità

(19) Si legga Cass. pen. S.U. 22 gennaio 1983, in Giust. pen., 1984, II, c. 35. (20) Si legga, in tal senso, A. Barazzetta, I nuovi reati socetrai: diritto e processo, in Problemi attuali della giustizia penale, a cura di Giarda e Seminara, 215 . (21) Si veda Cass. S.U. n. 10561/2014, Gubert, in De Jure. (22) Uno per tutti, l’applicazione in caso di prescrizione del reato.


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di ripristino dell’ordine economico perturbato. La Gubert presenta, così, la previsione del comma 5 dell’articolo 6 del d.lgs. 231/2001, quale contesto positivo giustificativo. Lo fa, assumendo, testualmente che “va infatti rammentato” a ragione del ripristino, “che, a norma del D.Lgs. n. 23 del 2001, art. 6, comma 5, anche nei confronti degli enti per i quali non sia applicabile la confisca sanzione di cui all’art. 19 dello stesso decreto per essere stati efficacemente attuati i modelli organizzativi per impedire la commissione di reati da parte di rappresentanti dell’ente, è ‘comunque disposta la confisca del profitto che l’ente ha tratto dal reato, anche nella forma per equivalente’”. La Suprema Corte che, dunque, “rammenta”, espressione verbale dal tono che, quasi timidamente fa riferimento alla previsione normativa, la ragione positiva tale, da consentire di ovviare quanto la stessa rileva, e che pure chi scrive evidenzia, ossia: per un verso, che la confisca così prevista, dunque a ragione di ripristinare l’ordine economico, diretta o per equivalente che sia, non ha carattere sanzionatorio, essendo fuori discussione la “irresponsabilità dell’ente”; ma neppure di misura di sicurezza, “dovendosi escludere un necessario profilo di intrinseca pericolosità della res oggetto d’espropriazione” (23). Si dica, così, che quel vantaggio, che il d.,lgs. 231/2001 vuole eliminare, si pone alla base del provvedimento ablativo. Certamente, comunque, illecito, quanto vantaggio “obiettivo” derivato all’ente a seguito della commissione di un reato che sia presupposto d’operatività della responsabilità dell’ente ai sensi del medesimo d.lgs. 231/2001, dunque reato espressamente annoverato in numero chiuso. La “giustificazione” normativa presenta così essa stessa il limite che la rende altrimenti non applicabile al reato tributario, che ben si sa, non rientra nel novero, chiuso, dei reati, presupposto. Se, dunque, quanto all’operatività della confisca nei confronti della persona giuridica, l’individuazione di una previsione normativa speciale, denuncia il limite delle strutture dogmatiche “tradizionali”, inidonee ad affrontare il problema, per altro verso la stessa previsione normativa, quanto speciale, presenta il limite dell’applicabilità relativa. Pur vero che la ragione giustificatrice della disposizione è di “impedire che l’ente possa in alcun modo beneficiare dell’eventuale profitto economico derivante dai reati commessi da persone che ricoprono posizioni di vertice in seno all’ente stesso.” e “Ciò indipendentemente dal fatto che l’ente,

(23) Così, la Gubert, citando, la nota Cass. pen. S.U. n. 26654/08, c.d. Fisia Impianti s.p.a., in Rv. 239925 e in De Jure.


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… sia esente da responsabilità …” (24); ma, dicasi che, tale ragione trova espressione positiva nel d.lgs. 231/2001 che disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi (articolo 1) dipendente da reato, per cui, la responsabilità, sia espressamente prevista da norma (articolo 2). Inevitabile, dunque, il “rammento”, l’espressione verbale, e non l’inquadramento, che la Gubert propone; rammento della previsione speciale, peraltro, al più auspicio che possa così essere, anche con riferimento al profitto del reato tributario ma, richiamo non tale da consentire di travalicare la riserva di legge. 7. Conclusioni. – Si vorrebbe che il denaro possa costituire oggetto di confisca diretta del profitto d’un reato tributario, anche nei confronti della persona giuridica, sempre che lo stesso (denaro) sia nella sua disponibilità. Si vorrebbe, dunque, che il denaro sia il profitto del reato tributario; ancora, che, il denaro nella disponibilità della persona giuridica possa, quanto bene fungibile, essere appreso, confiscato, a ripristino dell’ordine economico perturbato. Ragione per cui, così assume la sentenza in commento (25), doverosa la ricerca del profitto, presso la persona giuridica, la sua situazione d’incapienza, legittimerebbe, di per sé sola, la confisca per equivalente nei confronti del suo organo amministrativo. Si rifletta, peraltro, se il denaro coincida con quel bene che il profitto, in termini di risparmio di spesa, si vorrebbe costituisca, per disporne confisca diretta; o se, piuttosto, sia l’occasione d’individuazione di bene d’equivalente valore, tale d’essere oggetto d’ablazione indiretta, così come la disposizione dell’articolo (oggi) 12 bis del d.lgs. 74/2000, prevede, quando, appunto, non sia possibile la confisca diretta dei beni costituenti il profitto. Parrebbe, insomma, onesto sostenere che il reato tributario, salva l’ipotesi del rimborso indebito, generi un profitto del tutto peculiare, tanto che la confisca per equivalenza sia la naturale reazione ordinamentale, all’impossibilità (26) della sua

(24) Espressioni letterali tratte da S. Gennai - A. Traversi, La responsabilità degli enti, in Teoria e pratica del diritto, 52. (25) Cass. pen. sez. III, n. 6205/2015, citata. (26) Interessante, sul punto, la lettura di A. Marcheselli, Tecniche di aggressione dei profitti dell’economia fiscalmente infedele: la confisca “penale” tra efficacia preventiva e tutela dei diritti fondamentali, in Diritto Penale Contemporaneo, pubblicazione recentissima, del 24.12.2015, e ultima aggiunta al presente elaborato; interessante tanto più perché occasione di conferma della tesi già elaborata, nel presente scritto, successivo solo perché non ancora pubblicato, della peculiarità del profitto del reato tributario. Si legga così, a pag. 12 e 13, laddove l’autore sostiene che, dato per problematico l’inquadramento del profitto del reato


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individuazione e dunque ablazione diretta. Così com’è, si ripete, il risparmio d’imposta, dato concettuale di valore, che necessita, esso stesso, d’equivalente dato concreto, per cui il denaro, ne rappresenta, solo, un’occasione e non la sola, di confisca indiretta, si dirà, quindi, per equivalente. Non si trascuri, comunque, di dubitare della possibilità che disposizione normativa speciale (l’articolo 6 comma 5 del d.lgs. 231/2001) possa operare al di fuori del contesto normativo in cui è prevista; dunque, d’ipotizzare che, “rammentarla” (così si legge in sentenza), sia esercizio comparativo improduttivo di effetti giuridici. Si rammenta, dunque si richiama alla mente, qualche cosa quindi anche, certamente, un istituto giuridico; ma l’istituto giuridico si applica e l’occasione o è diretta, per espressa previsione, o indiretta, per analogia, dunque, in tal ultimo caso, con i limiti, tassativi, che il diritto penale detta alla sua operatività.

Corrado Sanvito

tributario, che non sia un risparmio d’imposta, poiché “al reo non affluiscono beni, ma, al contrario, si evita che beni fuoriescano dal suo patrimonio e può essere difficile individuare quali beni siano risparmiati”, e dunque, “Se ciò che precede è corretto, una certa difficoltà applicativa della confisca, nel caso di delitti che comportino risparmi, potrebbe concernere la confisca ordinaria, se resta fermo il requisito della pertinenza della cosa al delitto, ma mai la confisca per equivalente”, si possa affermare che “sotto il profilo evolutivo, la confisca per equivalente nasce come la forma di confisca di elezione per i reati tributari di evasione.”.


Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi

Corte di Giustizia, Grande Sezione, 8 settembre 2015, Causa C-105/14, Pres. Skouris, Rel. Berger Processo penale in materia di frodi gravi IVA – Sanzioni penali tributarie – Principio di effettività – Normativa nazionale che prevede termini assoluti di prescrizione che possono determinare l’impunità dei reati – Tutela interessi finanziari dell’Unione europea – Obbligo per il giudice nazionale di disapplicare una disposizione nazionale che possa pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dal diritto dell’Unione Una normativa di uno Stato membro (nella specie, quello italiano), in materia di interruzione della prescrizione nel processo penale, può essere disapplicata da parte del giudice nazionale qualora impedisca, in concreto, la piena attuazione del principio di effettività in materia di repressione delle violazioni che comportano la lesione degli interessi finanziari dell’Unione Europea, sancito dall’art. 325 TFUE. (1)

(Omissis) La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE nonché dell’articolo 158 della direttiva 2006/112/ CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU L 347, pag. 1). Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento penale a carico dei sigg. Taricco e Filippi, della sig.ra Leonetti e dei sigg. Spagnolo, Salvoni, Spaccavento e Anakiev (in prosieguo, congiuntamente: gli «imputati»), ai quali viene imputata la costituzione e l’organizzazione di un’associazione allo scopo di commettere più delitti in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA). Contesto normativo Il diritto dell’Unione. L’articolo 325 TFUE prevede quanto segue: «1. L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione.


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2. Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari. (…)». La Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee. A termini del preambolo della Convenzione elaborata in base all’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, firmata a Lussemburgo il 26 luglio 1995 (GU C 316, pag. 48; in prosieguo: la «Convenzione PIF»), le parti contraenti di tale Convenzione, Stati membri dell’Unione europea, sono convinti «che la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee esige che ogni condotta fraudolenta che leda tali interessi debba dar luogo ad azioni penali» e «della necessità di rendere tali condotte passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, fatta salva l’applicazione di altre sanzioni in taluni casi opportuni, e di prevedere, almeno nei casi gravi, delle pene privative della libertà». L’articolo 1, paragrafo 1, della Convenzione PIF così dispone: «Ai fini della presente convenzione costituisce frode che lede gli interessi finanziari delle Comunità europee: (…) b) in materia di entrate, qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa: – all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale delle Comunità europee o dei bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse; (…)». L’articolo 2, paragrafo 1, di tale Convenzione prevede quanto segue: «Ogni Stato membro prende le misure necessarie affinché le condotte di cui all’articolo 1 nonché la complicità, l’istigazione o il tentativo relativi alle condotte descritte all’articolo 1, paragrafo 1, siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno, nei casi di frode grave, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione, rimanendo inteso che dev’essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo minimo da determinare in ciascuno Stato membro. Tale importo minimo non può essere superiore a [EUR] 50.000 (…)». La direttiva 2006/112. L’articolo 131 della direttiva 2006/112 dispone che: «Le esenzioni previste ai capi da 2 a 9 [del titolo IX della direttiva 2006/112] si applicano, salvo le altre disposizioni comunitarie e alle condizioni che gli Stati membri stabiliscono per assicurare la corretta e semplice applicazione delle medesime esenzioni e per prevenire ogni possibile evasione, elusione e abuso». L’articolo 138, paragrafo 1, di tale direttiva prevede quanto segue: «Gli Stati membri esentano le cessioni di beni spediti o trasportati, fuori del loro rispettivo terri-


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torio ma nella Comunità, dal venditore, dall’acquirente o per loro conto, effettuate nei confronti di un altro soggetto passivo, o di un ente non soggetto passivo, che agisce in quanto tale in uno Stato membro diverso dallo Stato membro di partenza della spedizione o del trasporto dei beni». L’articolo 158 della suddetta direttiva dispone quanto segue: «1. (…) gli Stati membri possono prevedere un regime di deposito diverso da quello doganale nei casi seguenti: a) per i beni destinati a punti di vendita in esenzione da imposte (…); (…) 2. Quando si avvalgono della facoltà di esenzione di cui al paragrafo 1, lettera a), gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicurare l’applicazione corretta e semplice di detta esenzione e per prevenire qualsiasi evasione, elusione e abuso. (…)». La decisione 2007/436/CE. L’articolo 2, paragrafo 1, della decisione 2007/436/ CE, Euratom del Consiglio, del 7 giugno 2007, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee (GU L 163, pag. 17), è del seguente tenore: «Costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio generale dell’Unione europea le entrate provenienti: (…) b) (…) dall’applicazione di un’aliquota uniforme, valida per tutti gli Stati membri, agli imponibili IVA armonizzati, determinati secondo regole comunitarie. (…)». Il diritto italiano. L’articolo 157 del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (GURI n. 285, del 7 dicembre 2005; in prosieguo: il «codice penale»), articolo riguardante la prescrizione in materia penale, prevede quanto segue: «La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. (…)». L’articolo 158 di tale codice fissa l’inizio della decorrenza del termine della prescrizione nel modo seguente: «Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza. (…)». Ai sensi dell’articolo 159 di detto codice, relativo alle regole sulla sospensione del corso della prescrizione: «Il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: 1) autorizzazione a procedere; 2) deferimento della questione ad altro giudizio; 3) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimen-


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to delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore. (…) (…) La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione». L’articolo 160 del medesimo codice, che disciplina l’interruzione del corso della prescrizione, così dispone: «Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna. Interrompono pure la prescrizione l’ordinanza che applica le misure cautelari personali e (…) il decreto di fissazione della udienza preliminare (…). La prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno della interruzione. Se più sono gli atti interruttivi, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi; ma in nessun caso i termini stabiliti nell’articolo 157 possono essere prolungati oltre il termine di cui all’articolo 161, secondo comma, fatta eccezione per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale». A norma dell’articolo 161 del codice penale, relativo agli effetti della sospensione e dell’interruzione: «La sospensione e l’interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato. Salvo che si proceda per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere (…)». L’articolo 416 del codice penale punisce con la reclusione fino a sette anni i promotori di un’associazione finalizzata alla commissione di più delitti. Coloro che si limitano a partecipare ad una siffatta associazione sono puniti con la reclusione fino a cinque anni. Ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, recante nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto (GURI n. 76 del 31 marzo 2000; in prosieguo: il «d.lgs. n. 74/2000»), la presentazione di una dichiarazione IVA fraudolenta che menzioni fatture o altri documenti relativi a operazioni inesistenti è punita con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. Alla stessa pena soggiace, ai sensi dell’articolo 8 del d.lgs. n. 74/2000, chiunque emetta fatture per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione dell’IVA. Fatti della controversia principale e questioni pregiudiziali. A carico degli imputati è stato promosso, dinanzi al Tribunale di Cuneo, un procedimento penale con l’imputazione di aver costituito e organizzato, nel corso degli esercizi fiscali dal 2005 al 2009, un’associazione per delinquere allo scopo di commettere vari delitti in materia di IVA. Essi vengono infatti accusati di aver posto in essere operazioni giuridiche fraudolente, note come «frodi carosello» – che implicavano, in particolare, la costituzione di società interposte e l’emissione di falsi documenti – che avrebbero consentito l’acquisto di beni, segnatamente di bottiglie di champagne, in esenzione da IVA. Tale operazione avrebbe consentito alla società Planet Srl (in prosieguo: la «Planet») di


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disporre di prodotti a un prezzo inferiore a quello di mercato che poteva rivendere ai suoi clienti, in tal modo falsando detto mercato. La Planet avrebbe ricevuto fatture emesse da tali società interposte per operazioni inesistenti. Le stesse società avrebbero tuttavia omesso di presentare la dichiarazione annuale IVA o, pur avendola presentata, non avrebbero comunque provveduto ai corrispondenti versamenti d’imposta. La Planet avrebbe invece annotato nella propria contabilità le fatture emesse dalle suddette società interposte detraendo indebitamente l’IVA in esse riportata e, di conseguenza, avrebbe presentato dichiarazioni annuali IVA fraudolente. 20 Dall’ordinanza di rinvio emerge che, dopo che il procedimento sottoposto alla cognizione del giudice del rinvio è stato oggetto di vari incidenti procedurali e a seguito del rigetto delle numerose eccezioni sollevate dagli imputati nell’ambito dell’udienza preliminare svoltasi dinanzi a detto giudice, quest’ultimo è chiamato, da un lato, a pronunciare sentenza di non luogo a procedere nei confronti di uno degli imputati, il sig. Anakiev, poiché i reati considerati risultano estinti per prescrizione nei suoi riguardi. Dall’altro, egli dovrebbe emettere decreto di rinvio a giudizio per gli altri imputati, fissando un’udienza dinanzi al giudice del dibattimento. Il giudice del rinvio precisa che i reati contestati agli imputati sono puniti, ai sensi degli articoli 2 e 8 del d.lgs. n. 74/2000, con la reclusione fino a sei anni. Il delitto di associazione per delinquere, previsto dall’articolo 416 del codice penale, di cui gli imputati potrebbero altresì essere dichiarati colpevoli, sarebbe invece punito con la reclusione fino a sette anni per i promotori dell’associazione e fino a cinque anni per i semplici partecipanti. Ne consegue che, per i promotori dell’associazione per delinquere, il termine di prescrizione è di sette anni, mentre è di sei anni per tutti gli altri. L’ultimo atto interruttivo del termine sarebbe stato il decreto di fissazione dell’udienza preliminare. Orbene, nonostante l’interruzione della prescrizione, il termine della medesima non potrebbe essere prorogato, in applicazione del combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale e dell’articolo 161 dello stesso codice (in prosieguo: le «disposizioni nazionali di cui trattasi») oltre i sette anni e sei mesi o, per i promotori dell’associazione per delinquere, oltre gli otto anni e nove mesi a decorrere dalla data di consumazione dei reati. Secondo il giudice del rinvio, è certo che tutti i reati, ove non ancora prescritti, lo saranno entro l’8 febbraio 2018, ossia prima che possa essere pronunciata sentenza definitiva nei confronti degli imputati. Da ciò conseguirebbe che questi ultimi, accusati di aver commesso una frode in materia di IVA per vari milioni di euro, potranno beneficiare di un’impunità di fatto dovuta allo scadere del termine di prescrizione. Ad avviso del giudice del rinvio, tale conseguenza era tuttavia prevedibile a causa dell’esistenza della regola sancita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale e dell’articolo 161, secondo comma, dello stesso codice, regola che permettendo solamente, a seguito di interruzione della prescrizione, un


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prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto della sua durata iniziale, finisce in realtà col non interrompere la prescrizione nella maggior parte dei procedimenti penali. Orbene, i procedimenti penali relativi a una frode fiscale come quella contestata agli imputati comporterebbero, di norma, indagini assai complesse, con la conseguenza che il procedimento si protrarrebbe a lungo già nella fase delle indagini preliminari. La durata del procedimento, cumulati tutti i gradi di giudizio, sarebbe tale che, in questo tipo di casi, l’impunità di fatto costituirebbe in Italia non un’evenienza rara, ma la norma. Peraltro, sarebbe spesso impossibile per l’amministrazione tributaria italiana recuperare l’importo di imposte che abbiano fatto oggetto del reato considerato. In tale contesto, il giudice del rinvio ritiene che le disposizioni italiane di cui trattasi autorizzino indirettamente una concorrenza sleale da parte di taluni operatori economici stabiliti in Italia rispetto ad imprese con sede in altri Stati membri, con conseguente violazione dell’articolo 101 TFUE. Peraltro, tali disposizioni sarebbero idonee a favorire determinate imprese, in violazione dell’articolo 107 TFUE. Inoltre, dette disposizioni creerebbero, di fatto, un’esenzione non prevista all’articolo 158, paragrafo 2, della direttiva 2006/112. Infine, l’impunità de facto di cui godrebbero gli evasori fiscali violerebbe il principio direttivo, previsto all’articolo 119 TFUE, secondo cui gli Stati membri devono vigilare sul carattere sano delle loro finanze pubbliche. Il giudice del rinvio ritiene tuttavia che, qualora gli fosse consentito disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, sarebbe possibile garantire in Italia l’applicazione effettiva del diritto dell’Unione. Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale di Cuneo ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali: «1) [S]e, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, consentendo la prescrizione dei reati nonostante il tempestivo esercizio dell’azione penale, con conseguente impunità – sia stata infranta la norma a tutela della concorrenza contenuta nell’art. 101 del TFUE; 2) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, privando di conseguenze penali i reati commessi da operatori economici senza scrupoli – lo Stato italiano abbia introdotto una forma di aiuto vietata dall’art. 107 del TFUE; 3) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, creando un’ipotesi di impunità per coloro che strumentalizzano la direttiva comunitaria – lo Stato italiano abbia indebitamente aggiunto un’esenzione ulteriore rispetto a quelle tassativamente contemplate dall’articolo 158 della direttiva 2006/112/CE;


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4) Se, modificando con legge n. 251 del 2005 l’art. 160 ultimo comma del codice penale italiano – nella parte in cui contempla un prolungamento del termine di prescrizione di appena un quarto a seguito di interruzione, e quindi, rinunciando a punire condotte che privano lo Stato delle risorse necessarie anche a far fronte agli obblighi verso l’Unione europea, sia stato violato il principio di finanze sane fissato dall’art. 119 del TFUE». Sulle questioni pregiudiziali Sulla ricevibilità delle questioni. Il sig. Anakiev nonché i governi italiano e tedesco ritengono che le questioni poste dal giudice del rinvio siano irricevibili. A tale riguardo, il sig. Anakiev rileva che le disposizioni di diritto nazionale che stabiliscono le regole sulla prescrizione per i reati in materia fiscale sono state oggetto di recente modifica, ragion per cui le considerazioni del giudice del rinvio risultano infondate. I governi italiano e tedesco sostengono, in sostanza, che le questioni di interpretazione poste dal giudice del rinvio sono puramente astratte o ipotetiche e non hanno alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale. In proposito, occorre rammentare che, secondo costante giurisprudenza della Corte, nell’ambito della collaborazione tra quest’ultima e i giudici nazionali istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta esclusivamente al giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell’emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze del caso, sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale ai fini dell’emanazione della propria sentenza sia la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte. Di conseguenza, allorché le questioni sollevate riguardano l’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte, in via di principio, è tenuta a statuire (v., in particolare, sentenza Banco Privado Português e Massa Insolvente do Banco Privado Português, C-667/13, EU:C:2015:151, punto 34 e giurisprudenza ivi citata). Ne consegue che le questioni relative al diritto dell’Unione godono di una presunzione di rilevanza. Il rifiuto della Corte di statuire su una questione pregiudiziale proposta da un giudice nazionale è possibile soltanto qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale, qualora la questione sia di tipo ipotetico o, ancora, qualora la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte (v., in particolare, sentenza Halaf, C-528/11, EU:C:2013:342, punto 29 e giurisprudenza ivi citata). Tuttavia, come in sostanza rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 45 e seguenti delle sue conclusioni, i presupposti che possono condurre la Corte a rifiutare di pronunciarsi sulle questioni poste risultano, nel caso di specie, manifestamente insussistenti. Infatti, le indicazioni contenute nell’ordinanza di rinvio consentono alla Corte di formulare risposte utili per il giudice del rinvio. Inoltre, tali indicazioni sono


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idonee a consentire agli interessati menzionati all’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea di pronunciarsi in modo efficace. Peraltro, dall’ordinanza di rinvio risulta chiaramente che le questioni poste alla Corte non sono affatto di tipo ipotetico e che viene individuato un rapporto con la realtà effettiva della controversia principale, dato che tali questioni vertono sull’interpretazione di varie disposizioni del diritto dell’Unione che il giudice del rinvio considera determinanti per la futura decisione che sarà chiamato a emanare nel procedimento principale, più precisamente per quel che riguarda il rinvio a giudizio degli imputati. La domanda di pronuncia pregiudiziale deve pertanto essere dichiarata ricevibile. Sulla terza questione. Con la sua terza questione, che è opportuno affrontare per prima, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, da un lato, se una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dalle disposizioni nazionali di cui trattasi – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti reati in materia di IVA comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale, consentendo in tal modo agli imputati di beneficiare di un’impunità di fatto – determini l’introduzione di un’ipotesi di esenzione dall’IVA non prevista all’articolo 158 della direttiva 2006/112. D’altro lato, in caso di risposta affermativa a tale questione, il giudice del rinvio chiede se gli sia consentito disapplicare dette disposizioni. Sulla conformità al diritto dell’Unione di una normativa nazionale come quella stabilita dalle disposizioni nazionali di cui trattasi occorre in limine rilevare che, sebbene la terza questione faccia riferimento all’articolo 158 della direttiva 2006/112, emerge chiaramente dalla motivazione dell’ordinanza di rinvio che, con tale questione, il giudice del rinvio mira a determinare, in sostanza, se una normativa nazionale come quella stabilita dalle disposizioni di cui trattasi non si risolva in un ostacolo all’efficace lotta contro la frode in materia di IVA nello Stato membro interessato, in modo incompatibile con la direttiva 2006/112 nonché, più in generale, con il diritto dell’Unione. A tale riguardo, si deve ricordare che, in base al combinato disposto della direttiva 2006/112 e dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE, gli Stati membri hanno non solo l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative idonee a garantire che l’IVA dovuta nei loro rispettivi territori sia interamente riscossa, ma devono anche lottare contro la frode (v., in tal senso, sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 25 e giurisprudenza ivi citata). Inoltre, l’articolo 325 TFUE obbliga gli Stati membri a lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, li obbliga ad adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei


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loro interessi finanziari (v. sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 26 e giurisprudenza ivi citata). La Corte ha in proposito sottolineato che, poiché le risorse proprie dell’Unione comprendono in particolare, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della decisione 2007/436, le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione, sussiste quindi un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto dell’Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, dal momento che qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde (v. sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 26). Se è pur vero che gli Stati membri dispongono di una libertà di scelta delle sanzioni applicabili, che possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due, al fine di assicurare la riscossione di tutte le entrate provenienti dall’IVA e tutelare in tal modo gli interessi finanziari dell’Unione conformemente alle disposizioni della direttiva 2006/112 e all’articolo 325 TFUE (v., in tal senso, sentenza Åkerberg Fransson, C-617/10, EU:C:2013:105, punto 34 e giurisprudenza ivi citata), possono tuttavia essere indispensabili sanzioni penali per combattere in modo effettivo e dissuasivo determinate ipotesi di gravi frodi in materia di IVA. Occorre del resto ricordare che, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF, gli Stati membri devono prendere le misure necessarie affinché le condotte che integrano una frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative della libertà. La nozione di «frode» è definita all’articolo 1 della Convenzione PIF come «qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa (…) all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale [dell’Unione] o dei bilanci gestiti [dall’Unione] o per conto di ess[a]». Tale nozione include, di conseguenza, le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione. Questa conclusione non può essere infirmata dal fatto che l’IVA non sarebbe riscossa direttamente per conto dell’Unione, poiché l’articolo 1 della Convenzione PIF non prevede affatto un presupposto del genere, che sarebbe contrario all’obiettivo di tale Convenzione di combattere con la massima determinazione le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Nel caso di specie, dall’ordinanza di rinvio emerge che la normativa nazionale prevede sanzioni penali per i reati perseguiti nel procedimento principale, vale a dire, in particolare, la costituzione di un’associazione per delinquere allo scopo di commettere delitti in materia di IVA nonché una frode nella medesima materia per vari milioni di euro. Si deve rilevare come simili reati costituiscano casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.


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Orbene, dall’insieme delle considerazioni svolte ai punti 37 e da 39 a 41 della presente sentenza emerge che gli Stati membri devono assicurarsi che casi siffatti di frode grave siano passibili di sanzioni penali dotate, in particolare, di carattere effettivo e dissuasivo. Peraltro, le misure prese a tale riguardo devono essere le stesse che gli Stati membri adottano per combattere i casi di frode di pari gravità che ledono i loro interessi finanziari. Il giudice nazionale è quindi tenuto a verificare, alla luce di tutte le circostanze di diritto e di fatto rilevanti, se le disposizioni nazionali applicabili consentano di sanzionare in modo effettivo e dissuasivo i casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. Si deve in proposito precisare che né il giudice del rinvio né gli interessati che hanno presentato osservazioni alla Corte hanno sollevato dubbi sul carattere dissuasivo, in sé, delle sanzioni penali indicate da detto giudice, ossia della pena della reclusione fino a sette anni, e neppure sulla conformità al diritto dell’Unione della previsione, nel diritto penale italiano, di un termine di prescrizione per i fatti costitutivi di una frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione. Tuttavia, dall’ordinanza di rinvio emerge che le disposizioni nazionali di cui trattasi, introducendo una regola in base alla quale, in caso di interruzione della prescrizione per una delle cause menzionate all’articolo 160 del codice penale, il termine di prescrizione non può essere in alcun caso prolungato di oltre un quarto della sua durata iniziale, hanno per conseguenza, date la complessità e la lunghezza dei procedimenti penali che conducono all’adozione di una sentenza definitiva, di neutralizzare l’effetto temporale di una causa di interruzione della prescrizione. Qualora il giudice nazionale dovesse concludere che dall’applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva, si dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto nazionale per combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive, il che sarebbe in contrasto con l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, con l’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione PIF nonché con la direttiva 2006/112, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE. Inoltre, il giudice nazionale dovrà verificare se le disposizioni nazionali di cui trattasi si applichino ai casi di frode in materia di IVA allo stesso modo che ai casi di frode lesivi dei soli interessi finanziari della Repubblica italiana, come richiesto dall’articolo 325, paragrafo 2, TFUE. Ciò non avverrebbe, in particolare, se l’articolo 161, secondo comma, del codice penale stabilisse termini di prescrizione più lunghi per fatti, di natura e gravità comparabili, che ledano gli interessi finanziari della Repubblica italiana. Orbene, come osservato dalla Commissione europea nell’udienza


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dinanzi alla Corte, e con riserva di verifica da parte del giudice nazionale, il diritto nazionale non prevede, in particolare, alcun termine assoluto di prescrizione per quel che riguarda il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in materia di accise sui prodotti del tabacco. Sulle conseguenze di un’eventuale incompatibilità delle disposizioni nazionali di cui trattasi con il diritto dell’Unione e sul ruolo del giudice nazionale. Qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (v., in tal senso, sentenze Berlusconi e a., C-387/02, C-391/02 e C-403/02, EU:C:2005:270, punto 72 e giurisprudenza ivi citata, nonché Kücükdeveci, C-555/07, EU:C:2010:21, punto 51 e giurisprudenza ivi citata). A tale riguardo, è necessario sottolineare che l’obbligo degli Stati membri di lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive nonché il loro obbligo di adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari sono obblighi imposti, in particolare, dal diritto primario dell’Unione, ossia dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE. Tali disposizioni del diritto primario dell’Unione pongono a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della regola in esse enunciata, ricordata al punto precedente. In forza del principio del primato del diritto dell’Unione, le disposizioni dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE hanno l’effetto, nei loro rapporti con il diritto interno degli Stati membri, di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente (v. in tal senso, in particolare, sentenza ANAFE, C-606/10, EU:C:2012:348, punto 73 e giurisprudenza ivi citata). Occorre aggiungere che se il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati. Questi ultimi, infatti, potrebbero vedersi infliggere sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale. A tale riguardo, diversi interessati che hanno presentato osservazioni alla Corte hanno fatto riferimento all’articolo 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), che sancisce i principi di legalità e di proporzionalità dei reati e delle pene, in base ai quali, in particolare, nessuno può essere con-


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dannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Tuttavia, con riserva di verifica da parte del giudice nazionale, la disapplicazione delle disposizioni nazionali di cui trattasi avrebbe soltanto per effetto di non abbreviare il termine di prescrizione generale nell’ambito di un procedimento penale pendente, di consentire un effettivo perseguimento dei fatti incriminati nonché di assicurare, all’occorrenza, la parità di trattamento tra le sanzioni volte a tutelare, rispettivamente, gli interessi finanziari dell’Unione e quelli della Repubblica italiana. Una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’articolo 49 della Carta. Infatti, non ne deriverebbe affatto una condanna degli imputati per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva un reato punito dal diritto nazionale (v., per analogia, sentenza Niselli, C-457/02, EU:C:2004:707, punto 30), né l’applicazione di una sanzione che, allo stesso momento, non era prevista da tale diritto. Al contrario, i fatti contestati agli imputati nel procedimento principale integravano, alla data della loro commissione, gli stessi reati ed erano passibili delle stesse sanzioni penali attualmente previste. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’articolo 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che sancisce diritti corrispondenti a quelli garantiti dall’articolo 49 della Carta, avvalora tale conclusione. Secondo tale giurisprudenza, infatti, la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’articolo 7 della suddetta Convenzione, dato che tale disposizione non può essere interpretata nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti [v., in tal senso, Corte eur D.U., sentenze Coëme e a. c. Belgio, nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, § 149, CEDU 2000‑VII; Scoppola c. Italia (n. 2) del 17 settembre 2009, n. 10249/03, § 110 e giurisprudenza ivi citata, e OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia del 20 settembre 2011, n. 14902/04, §§ 563, 564 e 570 e giurisprudenza ivi citata]. Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla terza questione che una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dalle disposizioni nazionali di cui trattasi – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di IVA comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi


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di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE. Sulle questioni prima, seconda e quarta. Con la sua prima, seconda e quarta questione, da esaminarsi congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se un regime di prescrizione applicabile a reati commessi in materia di IVA, come quello previsto dalle disposizioni nazionali di cui trattasi nella loro versione vigente alla data dei fatti di cui al procedimento principale, possa essere valutato alla luce degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE. Per quanto riguarda, in primo luogo, l’articolo 101 TFUE, esso vieta tutti gli accordi tra imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra gli Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno. Come in sostanza rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 60 delle sue conclusioni, un’attuazione eventualmente carente delle disposizioni penali nazionali in materia di IVA non ha tuttavia una necessaria incidenza su possibili comportamenti collusivi tra imprese, contrari all’articolo 101 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE. Con riferimento, in secondo luogo, al divieto degli aiuti di Stato previsto all’articolo 107 TFUE, occorre ricordare che una misura mediante la quale le pubbliche autorità accordino a determinate imprese un trattamento fiscale vantaggioso che, pur non implicando un trasferimento di risorse statali, collochi i beneficiari in una situazione finanziaria più favorevole rispetto agli altri contribuenti costituisce aiuto di Stato ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE (v., in particolare, sentenza P, C-6/12, EU:C:2013:525, punto 18 e giurisprudenza ivi citata). Orbene, se il carattere non effettivo e/o non dissuasivo delle sanzioni previste in materia di IVA può eventualmente procurare un vantaggio finanziario alle imprese interessate, l’applicazione dell’articolo 107 TFUE non può tuttavia assumere rilievo nel caso di specie, dal momento che tutte le transazioni sono soggette al regime di IVA e che qualsiasi reato in materia di IVA è penalmente sanzionato, a prescindere da casi particolari nei quali il regime della prescrizione potrebbe privare determinati reati di conseguenze penali. In terzo luogo, quanto all’articolo 119 TFUE, tale disposizione menziona, al paragrafo 3, tra i principi direttivi che devono governare le azioni degli Stati membri nell’ambito dell’instaurazione di una politica economica e monetaria, il principio secondo cui gli Stati membri devono vigliare sul carattere sano delle loro finanze pubbliche. Orbene, si deve rilevare che la questione riguardante la conformità al suddetto principio di finanze pubbliche sane delle disposizioni di diritto nazionale di cui trat-


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tasi, che possono lasciare impuniti determinati reati in materia di IVA, non rientra nella sfera di applicazione dell’articolo 119 TFUE, dato che il collegamento tra tale questione e il suddetto obbligo gravante sugli Stati membri è molto indiretto. Alla luce di tali considerazioni, occorre rispondere alla prima, alla seconda e alla quarta questione che un regime della prescrizione applicabile a reati commessi in materia di IVA, come quello previsto dalle disposizioni nazionali di cui trattasi nella loro versione vigente alla data dei fatti di cui al procedimento principale, non può essere valutato alla luce degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE. Sulle spese. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione. P.Q.R. La Corte (Grande Sezione) dichiara: 1) Una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice – normativa che prevedeva, all’epoca dei fatti di cui al procedimento principale, che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di imposta sul valore aggiunto comportasse il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare. Il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE. 2) Un regime della prescrizione applicabile a reati commessi in materia di imposta sul valore aggiunto, come quello previsto dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice, non può essere valutato alla luce degli articoli 101 TFUE, 107 TFUE e 119 TFUE.


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(1) Il termine assoluto (o relativo?) di prescrizione dei reati tributari alla luce della sentenza Taricco: profili sistematici. Sommario: 1. Premessa: la portata sistematica della decisione della Corte di Giustizia

nella causa Taricco. – 2. La decisione della Corte di Giustizia: fondamento e percorso logico, dall’ordinanza di rinvio del Tribunale di Cuneo alle motivazioni, passando per le conclusioni dell’Avvocato generale. – 3. L’inquadramento sistematico della decisione Taricco in linea di (apparente) continuità con la pronuncia della Corte di Giustizia in materia di condono IVA. – 4. Conclusioni provvisorie: cenni al primo impatto della sentenza Taricco nella giurisprudenza nazionale.

La Corte di Giustizia ha affermato che una normativa di uno Stato membro (nella specie, quello italiano), in materia di interruzione della prescrizione nel processo penale, può essere disapplicata da parte del giudice nazionale qualora impedisca, in concreto, la piena attuazione del principio di effettività in materia di repressione delle violazioni che comportano la lesione degli interessi finanziari dell’Unione Europea, sancito dall’art. 325 TFUE. La sentenza, sulla scorta di precedenti in materia di tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea, consente di svolgere una riflessione tra i diversi – significativi – profili, in merito alla legittimità di intervento della Corte di Giustizia, ed all’ampiezza del medesimo, nella materia penale, che è del resto sollecitata dalle prime sentenze, tra loro non concordi, pronunciate dalla Corte di Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano nei giorni seguenti alla pubblicazione della sentenza; dall’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale, rivolta al giudice delle leggi da parte del giudice di merito, si potrà apprezzare se la Corte ritiene necessario (come sostenuto dalla maggior parte della dottrina penalistica) attivare i c.d. “controlimiti” a tutela della potestà normativa sanzionatoria degli Stati nazionali. The Court of Justice has held that a legislation of a Member State (in this case, the Italian one), regarding interruption of the limitation in the criminal trial, may be disregarded by the national court where it prevents, in practice, the full implementation of the principle of effectiveness in the field of repression of breaches resulting harm to the financial interests of the European Union, enshrined in Article. 325 TFEU. The judgment, on the basis of previous one concerning the protection of EU financial interests, allows to carry out a reflection, among other – significant – profiles, about the legitimacy of intervention of the Court of Justice, and the breadth thereof, in criminal matters, which is moreover urged by the first judgments, does not agree with each other, handed down by the Court of Cassation and the Milan Court of Appeal in the days following the publication of the judgment; from the order for referral to the Constitutional Court, addressed to that one by the Court of Appeal, it will be appreciated if the Court deems it necessary (as advocated by most of the criminal law doctrine) enable so-called “contro limiti” to protect the legislative powers of the national sanctioning States.

1. Premessa: la portata sistematica della decisione della Corte di Giustizia nella causa Taricco. – La sentenza della Corte di Giustizia dello scorso


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8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco (1), è di notevole importanza, sia sotto il profilo scientifico, per la rilevanza delle questioni sollevate, in parziale continuità con precedenti arresti della medesima Corte (2), sia sotto il profilo delle implicazioni in concreto derivanti per quanto riguarda i giudizi penali pendenti in materia tributaria, qualora afferenti la ripresa fiscale di un tributo comunitario (tipicamente, l’imposta sul valore aggiunto). Sotto il profilo scientifico, in primo luogo, la decisione della Corte di Giustizia sollecita l’interprete ad individuare l’attuale (ed il prevedibile, nell’immeditato futuro) punto di equilibrio tra disposizioni sanzionatorie interne e principi comunitari in materia di repressione delle violazioni aventi impatto

(1) Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza 8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco ed altri, preceduta dalle Conclusioni dell’Avvocato Generale Juliane Kokott del 30 aprile 2015, di cui si segnala la pubblicazione sul sito internet della Corte di Giustizia, www.curia.eu. La sentenza è stata oggetto di diversi commenti, in prevalenza critici nei confronti della decisione della Corte. Cfr., in particolare, G. Civello, La sentenza “Taricco” della Corte di Giustizia UE: contraria al Trattato la disciplina italiana in tema di interruzione della prescrizione del reato, Arch. Pen., 2015, 1 ss., nonché S. Manacorda, La prescrizione delle frodi gravi in materia di IVA: note minime sulla sentenza Taricco, ibidem e, per una riflessione maggiormente sistematica, F. Viganò, Disapplicare le norme vigenti sulla prescrizione nelle frodi IVA?, www. penalecontemporaneo.it, nonché, con toni particolarmente accesi, L. Eusebi, Nemmeno la Corte di Giustizia dell’Unione Europea può erigere il Giudice a Legislatore, ibidem. Si veda, poi, sempre sulla stessa Rivista, il contributo di A. Venegoni, La sentenza Taricco: una ulteriore lettura sotto il profilo dei riflessi sulla potestà legislativa dell’Unione in diritto penale nell’area della lotta alle frodi. La tematica ha, inoltre, sollecitato l’intervento, allarmato, dell’Unione Camere Penali nel proprio comunicato Il “dialogo” tra le Corti: la sentenza Taricco, la Cassazione e la Corte Costituzionale, in cui si evidenzia la crisi del modello di tutela “multilivello” dei diritti, tematica sviluppata parzialmente da R. Lugarà, La tutela “multilivello” dei diritti come canone normativo. Brevi spunti a partire dal caso Taricco, Libero Osservatorio del Diritto, 2016, 35 ss. Si ricordano, inoltre, i contributi di F. Cerioni, Interessi finanziari dell’UE e “favor rei”: difficile ricerca dell’armonia delle fonti poste da ordinamenti giuridici diversi, Corr. Trib., 2015, 4226 ss., particolarmente attento all’analisi della fattispecie dedotta nel giudizio oggetto del rinvio pregiudiziale e di O. Mazza, Il sasso nello stagno: la sentenza europea sulla prescrizione e il crepuscolo della legalità penale, Rass. Trib, 2015, 1552 ss. (2) Si veda, in particolare, il richiamo, più volte effettuato sia dai giudici che dall’Avvocato generale alla sentenza resa dalla Corte di Giustizia il 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Akerberg Fransson, nonché – per evidenti collegamenti sistematici – i precedenti arresti del 5 giugno 2012, causa C-489/10, Bonda, ivi per il richiamo al concetto di “materia penale” e – per la rilevanza della lesione degli interessi finanziari dell’Unione quale profilo determinante al fine di sancire l’illegittimità di una disciplina nazionale, la sentenza che ha censurato la disciplina italiana del c.d. “condono IVA”, 17 luglio 2008, causa C-132/06, Commissione/Italia; inoltre, per quanto attiene l’importanza del principio di neutralità dell’IVA anche nella fase della riscossione dell’imposta, sentenza 16 settembre 2004, causa C-382/02, Cimber Air.


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sulle risorse proprie dell’Unione Europea e, in particolare, delle frodi IVA (3). Il logico corollario di tale profilo è rappresentato dalla necessaria comprensione dell’istituto della prescrizione del reato, al fine di comprendere se le disposizioni afferenti la fase interruttiva della medesima possano essere, sulla base di un’opera ermeneutica fondata sul rapporto tra giurisprudenza comunitaria e nazionale, oggetto di riflessione e decisione vincolante da parte della Corte di Giustizia (4). Si tratta, pertanto, di un profilo afferente, nello specifico, la materia sanzionatoria c.d. “sostanziale”. Inoltre, la pronuncia suggerisce una riflessione più profonda, che in tale sede può essere solamente segnalata, attinente al rapporto tra ordinamenti – comunitario e nazionale – ed all’impatto delle decisioni della Corte di Giustizia nel processo penale tributario, nell’ottica di salvaguardare il principio del giusto processo ed assicurare, allo stesso tempo, il rispetto dello “statuto” dei diritti del contribuente e la corretta riscossione delle risorse finanziarie comunitarie (5). Trattasi, quest’ultimo, di aspetto che coinvolge non solamente profili di natura sostanziale ma anche di natura procedimentale sempre, tuttavia, afferenti implicazioni in materia punitiva. La suddetta analisi, peraltro, oltre che importante dal punto di vista scientifico, è altresì “urgente” a causa delle immediate e contrastanti reazioni che la pronuncia ha provocato nella giurisprudenza nazionale. La Corte d’Appello di Milano, mediante ordinanza di rimessione, ha sollecitato la Corte Costituzionale ad attivare l’esercizio dei “controlimiti” alle limitazioni di sovranità nei confronti dell’ordinamento interno (6), valorizzan-

(3) Cfr. inter alia il fondamentale contributo di A. Di Pietro, Diritto penale tributario: profili comparati, Rass. Trib, 2015, 333 ss., in cui vengono evidenziati, nell’ottica di fornire un quadro comparato dei regimi sanzionatori nazionali in materia tributaria, i principali problemi posti dal necessario “dialogo” tra Corte di Giustizia e giudici nazionali. (4) In materia di prescrizione, si rinvia ai contributi istituzionali di F. Mantovani, Diritto penale, Padova, 2015, 852 ss., e G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale, parte generale, Milnao, 1985, 741 ss., nonché alle Opere monografiche di A. Molari, Prescrizione del reato e della pena, Nov. Dig. It., XIII, Torino, 1966, 679 ss. e P. Pisa, Prescrizione, Enc. Dir., XXXV, Milano, 1986. Una importante riflessione, particolarmente utile ai fini del commento della sentenza Taricco, è compiuta da D. Pulitanò, Il nodo della prescrizione, Dir. Pen. Cont., 2015, 20 ss. (5) Cfr., per una analisi completa dei diversi profili sottesi al rapporto tra principi comunitari e processo nazionale, A. Di Pietro, Giusto processo, giustizia tributaria e giurisprudenza comunitaria, Rass. Trib., 2013, 405 ss., nonché F. Cerioni, op. cit. (6) Corte di Appello di Milano, II Sezione Penale, 18 settembre 2015, pubblicata su


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do, in particolare, il principio di legalità in materia penale, di cui all’art. 25, comma 2, Cost., principio considerato prevalente sin dalla causa Granital (C. Cost., sentenza 8 giugno 1984, n. 170) rispetto ai vincoli assunti dall’Italia nei confronti dell’Unione Europea. La Corte di Cassazione, per contro, ha disapplicato la normativa afferente la disciplina dell’interruzione della prescrizione nel processo applicabile ratione temporis, ritenendo, pertanto, sostanzialmente infondate le preoccupazioni sollevate dalla gran parte della dottrina nei primi commenti successivi alla pubblicazione della sentenza Taricco (7), più sopra richiamati e condivisi dalla Corte d’Appello di Milano. Prima di procedere alla valorizzazione delle implicazioni domestiche della decisione della Corte di Giustizia, oggetto di specifico approfondimento nel seguito, è opportuno illustrare la fattispecie oggetto del rinvio pregiudiziale, che risulta del resto fondamentale per tracciare la logica decisoria del caso concreto, oltre che per comprendere appieno la ratio della pronuncia della Corte, nell’ottica sistematica che tanto ha preoccupato (e preoccupa) gli interpreti e gli operatori del diritto. 2. La decisione della Corte di Giustizia: fondamento e percorso logico, dall’ordinanza di rinvio del Tribunale di Cuneo alle motivazioni, passando per le conclusioni dell’Avvocato generale. – L’oggetto della decisione attiene all’applicazione in concreto delle sanzioni penali tributarie nazionali nell’ambito della repressione delle frodi IVA (8).

www.penalecontemporaneo.it, ivi per l’annotazione di F. Viganò, Prescrizione e reati lesivi degli interessi finanziari dell’UE: la Corte d’Appello di Milano sollecita la Corte Costituzionale ad azionare i “controlimiti”. (7) Corte di Cassazione, III Sezione Penale, 17 settembre 2015, sentenza n. 2210 depositata il 20 gennaio 2016, pubblicata su Il Fisco, 2016, pp. 678 ss., ivi per il commento di Santoriello. Si segnala, peraltro, che altro giudice di merito, Tribunale di Varese, Ufficio del GUP, con Ordinanza n. 349 del 30 ottobre 2015, pubblicata su Il Fisco, 2016, 89 ss., con commento di Santoriello, ha sollevato tre questioni pregiudiziali rinviando la causa alla Corte di Giustizia e sollecitando la medesima a rispondere in merito alla possibile violazione dell’art. 325 Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (d’ora in poi, TFUE) in relazione alla diversa soglia di punibilità tra omesso versamento di ritenute ed omesso versamento di IVA, nonché di verificare se nell’ambito dell’art. 1 della Convenzione PIF (su cui vedi infra nel testo) sia riconducibile anche l’omesso, parziale o tardivo versamento dell’IVA. (8) Sull’inquadramento delle fattispecie sussumibili nel novero di “frodi” IVA, con particolare riferimento alle implicazioni sotto il profilo sanzionatorio, si consenta il rinvio ad A. Albano, Riflessioni sistematiche e profili innovativi in materia di contrasto alle frodi IVA alla


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La pronuncia della Corte di Giustizia non è stata sollecitata, pertanto, al fine di decidere se fossero sussistenti o meno, nel caso di specie, gli elementi costitutivi di una frode al sistema comune sull’imposta sul valore aggiunto; nella controversia oggetto della decisione, infatti, il meccanismo della frode risulta chiaro nella sua struttura. La fattispecie oggetto di rinvio pregiudiziale è la seguente: al sig. Taricco ed altri, operatori nel commercio di champagne, è stata contestata la costituzione e partecipazione di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di frodi IVA, in particolare di frodi c.d. “carosello”. Più in particolare gli imputati, mediante specifici accordi fra loro, ponevano in essere vendite nazionali (in considerazione delle quali, pertanto, si rendeva dovuta l’IVA in Italia) che erano fatte apparire falsamente come transazioni intracomunitarie. Il meccanismo consentiva alla società Planet S.r.l. di detrarre l’IVA a seguito dell’emissione di fatture a suo carico, per operazioni mai effettivamente realizzate, da parte di altre società, cc.dd. “missing traders”, riconducibili sempre ai partecipanti alla frode, che figuravano come importatrici di champagne, pur non avendo mai posto in essere operazioni con l’estero. In conseguenza di tale schema fraudolento (9), la Planet S.r.l. avrebbe detratto indebitamente l’IVA sugli acquisti presentando, conseguentemente, dichiarazioni IVA fraudolente; inoltre, le società operanti con il ruolo di “missing traders” non avrebbero presentato la dichiarazione IVA o, avendola presentata, non avrebbero comunque provveduto al versamento dell’imposta (10).

luce della sentenza ITALMODA: il complesso “equilibrio dinamico” tra tutela del contribuente e fattispecie repressive “impropriamente” sanzionatorie, in questa Rivista, 2015, IV, 59 ss., ivi per diversi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali. Si vedano, inter alia, i contributi monografici di A. Giovanardi, Le frodi IVA. Profili ricostruttivi, Torino, 2013, e di G. Moschetti, “Diniego di detrazione per consapevolezza” nel contrasto alle frodi IVA alla luce dei principi di certezza del diritto e proporzionalità, Padova, 2013. (9) Per una descrizione del meccanismo delle cc.dd. frodi “carosello”, si consenta il rinvio ad A. Albano, op. cit., 63, nota 9. (10) La descrizione della fattispecie, oltre che nelle Conclusioni dell’Avvocato generale Juliane Kokott, parr. 26, 27, è riassunta nel Comunicato stampa n. 95/15 della Corte di Giustizia, reso noto il giorno stesso della pronuncia (8 settembre 2015); una scheda riassuntiva della controversia che, tuttavia, non menziona i fatti di causa, è presentata da L. Bartoli, Il caso Taricco. Scheda riassuntiva, Arch. Nuova Proc. Pen., 2016, 1 ss. L’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia è invece ampiamente illustrata da F. Rossi Dal Pozzo, La prescrizione nel processo penale al vaglio della Corte di Giustizia?, www.penalecontemporaneo.it, in nota a Trib. Cuneo, Ord. 17.01.2014, GUP Boetti.


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La fattispecie in concreto posta in essere, pertanto, non ha suscitato particolari dubbi nel giudice nazionale in merito alla sua piena sussumibilità nel novero delle frodi IVA. Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia da parte del giudice nazionale è stato, invece, fondato sul dubbio di legittimità comunitaria della disciplina domestica in materia di prescrizione (o, per meglio dire, di interruzione della prescrizione nel processo in vigore all’epoca dei fatti), contenuta nell’art. 160 comma 4 e 161 del Codice penale, in ragione della cui applicazione, come sottolineato dall’Avvocato generale, “il termine di prescrizione per i reati fiscali nel settore dell’IVA viene prolungato, nel caso della sua interruzione, esclusivamente di un quarto del termine originario, dopodichè interviene la prescrizione assoluta” (11). Le questioni sollevate dal giudice nazionale nella propria ordinanza di rinvio hanno riguardato il principio di libera concorrenza dell’Unione (prima e seconda questione pregiudiziale), la disciplina comunitaria in materia di esenzioni dell’IVA (terza questione pregiudiziale), il principio delle finanze pubbliche sane (quarta questione pregiudiziale) (12). L’Avvocato generale, dopo aver evidenziato che nessuna delle disposizioni invocate dal giudice nazionale osta alla legittimità comunitaria della disciplina in materia di prescrizione dei reati, come quella di cui all’art. 160, comma 4, del Codice penale italiano, ravvisa tuttavia la presenza di una implicita “questione supplementare” contenuta nell’ordinanza di rinvio, e cioè “se una normativa sulla prescrizione come quella italiana sia compatibile con l’obbligo del diritto dell’Unione Europea che incombe agli Stati membri di

(11) Punto 54) delle Conclusioni dell’Avvocato generale Kokott; come riassunto in un altro passaggio (punto 31 delle Conclusioni), il giudice del rinvio “esprime la preoccupazione che l’istituto della prescrizione dei reati in Italia – contrariamente alla sua finalità originaria – si tramuti in una “garanzia dell’impunità” per reati economici e che l’Italia, in definitiva, non ottemperi ai propri obblighi di diritto dell’Unione. La causa di ciò deve essere ravvisata nella legge n. 251/2005, la quale limita ad un quarto il prolungamento dei termini di prescrizione in caso di una loro interruzione, mentre in precedenza tali termini erano prolungabili della metà”. (12) Il giudice nazionale ha invocato, in particolare, la pretesa violazione della normativa in materia di concorrenza e di aiuti di Stato (101, 107 e 109 TFUE), nonché dell’art. 158 della Direttiva 2006/112/CE di rifusione delle precedenti Direttive in materia di IVA, in quanto il legislatore domestico avrebbe introdotto un’ulteriore ipotesi di esenzione, non contemplata dalla normativa comunitaria e, infine, dell’art. 119, TFUE, in quanto lo Stato italiano non si sarebbe attenuto al principio delle finanze pubbliche sane, ivi previsto. Cfr. F. Cerioni, op. cit, e F. Rossi Dal Pozzo, op. cit. per una migliore illustrazione del contenuto delle medesime, nonché le Conclusioni dell’Avvocato generale, paragrafi 57) - 71).


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applicare sanzioni per irregolarità nel settore dell’IVA” (punto 78); inoltre, al fine di compiere tale analisi, l’Avvocato precisa che è necessario verificare se la normativa italiana soddisfa: - “l’obbligo generale” che incombe sugli Stati membri di “applicare sanzioni efficaci” per violazioni del diritto dell’Unione e - “l’obbligo specifico” di perseguire penalmente la frode a danno degli interessi finanziari dell’Unione. Tale impostazione metodologica presuppone la possibilità di sindacare pienamente la normativa nazionale in materia di prescrizione del reato tributario, tematica che ha da subito suscitato forti dubbi nella dottrina e diviso la giurisprudenza (13). Sotto il primo profilo, l’Avvocato generale ha richiamato significativamente la sentenza Akerberg Fransson (14) (d’ora in poi anche solo “Fransson”), a presidio del principio di effettività delle sanzioni in materia di IVA e, quale logico corollario, la sentenza con cui la Corte di Giustizia ha censurato il regime di “condono IVA” in Italia, in causa C-132/06, Commissione/Italia, in quanto l’irrogazione di sanzioni aventi carattere “effettivo, proporzionato e dissuasivo” non si pone solamente a presidio del principio di libera concorrenza all’interno dell’Unione, bensì assicura la piena tutela degli interessi finanziari dell’Unione. Al riguardo, l’Avvocato generale ha confermato quanto precisato dai giudici comunitari in occasione della pronuncia Fransson, e cioè la sostanziale indifferenza circa la natura penale e/o amministrativa delle sanzioni in materia di frodi IVA, sottolineando inoltre che devono essere considerate le eventuali “interazioni” fra sanzioni penali ed amministrative, al fine di assicurare che la prescrizione del reato non comporti la non punibilità della violazione anche dal punto di vista amministrativo (15).

(13) Cfr. par. 1 e infra, par. 4. (14) Sentenza resa in causa C-617/10, cit., infra per successive considerazioni. (15) La tematica, particolarmente delicata prima della riforma in materia di c.d. “raddoppio” dei termini di accertamento (D.lgs. 5 agosto 2015 n. 128), che sarà definitivamente superato con l’entrata in vigore dei nuovi termini di accertamento prevista dalla Legge di Stabilità 2016 (Legge n. 208/2015), a partire dal 2017, afferiva in particolare la possibilità di svolgere attività di accertamento tributario (non solo di applicare sanzioni ma financo di riprendere a tassazione l’imposta evasa) in costanza di reato prescritto, ovvero di esercizio dell’attività di accertamento oltre i termini di prescrizione dei reati conseguenti alla violazione commessa. In relazione a tale profilo, la Corte di Cassazione, in contrasto con la giurisprudenza di merito, ha affermato con sentenza n. 20043 del 2015 che l’intervenuta prescrizione del reato non preclude


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Sotto il secondo profilo, l’Avvocato generale richiama la Convenzione per la tutela degli interessi finanziari dell’Unione (c.d. “Convenzione Pif”), che all’art. 2 prevede che le sanzioni, nel caso di frode grave, devono contemplare la possibilità di irrogare anche pene privative della libertà personale e che “dev’essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo minimo da determinare in ciascun Stato membro […]”. Alla luce di quanto sopra, poiché i giudici nazionali sono tenuti a garantire “la piena efficacia del diritto dell’Unione” viene incisivamente precisato dall’Avvocato generale che “qualora il giudice del rinvio non dovesse poter conseguire, tramite l’interpretazione del diritto nazionale, un risultato conforme al diritto dell’Unione, esso sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale” (punto 111). La tematica, particolarmente sensibile nella materia penale, del rispetto del principio di legalità, viene agevolmente superata perché “le norme sulla prescrizione […] nulla dicono in relazione alla punibilità di una condotta né alla misura della pena, bensì si pronunciano unicamente sulla perseguibilità di un reato, non ricadendo assolutamente nell’ambito di applicazione della regola nullum crimen, nulla poena sine lege. Per lo stesso motivo, neanche il principio dell’applicazione della pena più mite [favor rei, n.d.r.] si applica alle questioni concernenti la prescrizione” (punto 115) (16). La Corte di Giustizia, nella propria decisione, ha condiviso le conclusioni dell’Avvocato generale (17), sensibilizzando pertanto il giudice nazionale a

l’attività di accertamento anche oltre l’ordinario termine di accertamento, previsto dall’art. 43, D.P.R. n. 600/73 e, per quanto riguarda l’IVA, dall’art. 57, D.P.R. n. 633/72. Sotto questo profilo, pertanto, la Corte di Cassazione conferma di confortare la lettura rigorosa offerta dall’Avvocato generale con riferimento alla tutela del principio di effettività delle sanzioni tributarie. (16) In pratica, malgrado la disciplina della prescrizione sia contenuta non nel codice di rito penale, bensì nel codice penale, l’Avvocato generale ritiene che essa possa (debba) essere disapplicata qualora comporti “in numerosi casi” (punto 3 delle Conclusioni) la non punibilità dei responsabili delle frodi nel settore dell’IVA. (17) Anche se non integralmente, perché, come correttamente sottolineato da S. Manacorda, op. cit., 5, a differenza della Grande Sezione, l’Avvocato generale ha rilevato che “sotto il profilo del diritto dell’Unione occorre unicamente aver cura che la soluzione accolta venga trovata nell’ambito di un procedimento equo […] in maniera non discriminatoria e che la stessa poggi su criteri chiari, comprensibili, nonché generalmente applicabili” (parr. 124 e 127 delle Conclusioni).


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compiere un giudizio in merito alla “effettività, proporzionalità e compiuta realizzazione dello scopo dissuasivo” delle disposizioni nazionali che disciplinano il regime sanzionatorio delle frodi IVA, anche nella fase processuale in cui si verifica l’intervenuta prescrizione (o meno) del reato. Al riguardo, viene particolarmente valorizzata, al fine di compiere tale valutazione, la decorrenza del termine assoluto di prescrizione, che in base alla Legge n. 251 del 5 dicembre 2005 (c.d. “ex Cirielli”) viene stabilito nella misura di sette anni e mezzo dalla commissione del reato, per gli autori di una frode IVA, ovvero di otto anni e nove mesi, per i promotori di un’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di tali reati (18). I giudici comunitari, nella propria decisione, hanno sottolineato la centralità dell’art. 325 del TFUE (19), al fine di effettuare una valutazione in merito al carattere effettivo e dissuasivo delle sanzioni penali previste per la repressione delle frodi IVA, e di considerare altresì soddisfatta la “parità di trattamento” tra frodi in materia di tributi destinati a far parte delle risorse proprie dell’Unione e violazioni che comportano la sottrazione di entrate erariali degli Stati nazionali (20). Alla luce di quanto sopra evidenziato, la Corte di Giustizia ha ritenuto fondato, accogliendo sostanzialmente l’attività ortopedica sui motivi dell’ordinanza di rimessione, condotta dall’Avvocato generale, il dubbio proposto dal giudice nazionale in merito al possibile pregiudizio arrecato da una disciplina in materia di prescrizione che “è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli

(18) Cfr. punto 22) della sentenza. Si segnala, peraltro, che il termine assoluto di prescrizione è stato prolungato dalla legge n. 148 del 14 settembre 2011 e trova applicazione ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore (17 settembre 2011). Per un raffronto dei termini prescrizionali in vigore prima, durante e dopo la vigenza della legge n. 251/2005, cfr. A. Iorio, Mecca, Prescrizione, impedimento del difensore e frodi IVA: le soluzione della giurisprudenza, in Norme e tributi mese, 2016, 3, 74ss. (19) L’art. 325 TFUE così recita: “L’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione. Gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari”. (20) Sotto tale profilo la Corte ha, in particolare, sottolineato che “il diritto nazionale non prevede, in particolare, alcun termine assoluto di prescrizione per quel che riguarda il reato di associazione allo scopo di commettere delitti in materie di accise sui prodotti del tabacco” (punto 48 della sentenza).


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Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea o in cui prevede, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi…”. Al di là dell’affermazione del primato del diritto dell’Unione, pertanto, la sentenza della Corte di Giustizia, in sintesi, sollecita l’individuazione dei seguenti profili sistematici e di criticità: a) principio di tutela delle risorse proprie dell’Unione come cardine della motivazione sottostante la valorizzazione dei principi in materia di effettività della sanzione delle frodi IVA; b) natura della prescrizione del reato e sua riconducibilità nel novero delle norme fornite di tutela costituzionale, per le quali in virtù del principio di legalità ex art. 25, comma 2 Cost., non è possibile derogare in pejus; c) rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento tributario nella materia delle sanzioni penali e/o amministrative in materia tributaria (21); d) rapporto tra prescrittibilità “relativa” del reato e diritto ad un processo equo e avente una ragionevole durata (parimenti fornito di tutela costituzionale ex art. 111 Cost.), profilo quest’ultimo che merita, al pari di quello sub c), una apposita e separata trattazione, per le profonde implicazioni che ne discendono in relazione al rapporto tra sistemi processuali nazionali e giurisprudenza comunitaria. 3. L’inquadramento sistematico della decisione Taricco in linea di (apparente) continuità con la pronuncia della Corte di Giustizia in materia di condono IVA. – In merito al primo profilo, un utile termine di confronto, anche per valutare la possibile reazione da parte della Corte Costituzionale alla richiesta di attivazione dei cc.dd. “controlimiti” da parte della Corte di Appello di Milano (su cui vedi infra), è rappresentato dalla decisione della Corte di Giustizia del 17 luglio 2008, resa in causa C-132/06 (22) e dalla successiva

(21) Tale profilo, per la verità cruciale in quanto investe la coeva trattazione della tematica del c.d. ne bis in idem, è stato da ultimo sollecitato dal Tribunale di Bergamo, Ordinanza 16 settembre 2015, commentata da P. Centore, Ne bis in idem e sanzioni fiscali: una rivoluzione culturale prima che giuridica, GT, 2016, 80 ss. (22) Corte di Giustizia, Grande Sezione, 17 luglio 2008, causa C-132/06, su cui vedi G. Falsitta, I condoni fiscali Iva come provvedimenti di natura agevolativa violatori del principio di neutralità del tributo, Rass. Trib, 2008, IV, 334 ss., nonché S. Medici, Gli effetti della de-


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decisione della Corte Costituzionale del 22 ottobre 2008, n. 356 (23). La pronuncia comunitaria, sollecitata dal procedimento di infrazione attivato dalla Commissione Europea nei confronti dello Stato italiano, ha statuito l’illegittimità delle disposizioni contenute nella Legge n. 289 del 27 dicembre 2002, mentre la Corte Costituzionale ha sostanzialmente ritenuto pienamente legittima, a distanza di pochi mesi, la legislazione condonistica (anche se, per la verità, in tale occasione la Corte ha statuito in materia di proroga dei termini di accertamento per coloro che non si sono avvalsi del condono). La successione delle pronunce è interessante perché il procedimento logico potrebbe ripetersi anche a seguito dell’ordinanza di rimessione della Corte d’Appello di Milano; peraltro, anche la sentenza della Corte di Giustizia nel caso del c.d. condono IVA fu seguita da pronunce della Corte di Cassazione coerenti con la decisione comunitaria (analogamente, pertanto, a quanto accaduto nei giorni immediatamente successivi alla pronuncia Taricco) (24). Il confronto con la decisione assunta dalla Corte di Giustizia che ha statuito l’incompatibilità della normativa italiana in materia di condoni fiscali con i principi comunitari di neutralità dell’IVA e (soprattutto, ai nostri fini) con la tutela delle risorse proprie dell’Unione è significativa in quanto, così come è stato sollecitato dalla Dottrina (25), ha consentito di analizzare i termini della possibilità di applicare una disposizione (nella specie, la Direttiva in materia di IVA) disapplicando in malam partem una disposizione nazionale (contenuta nella disciplina condonistica).

claratoria di incompatibilità comunitaria dell’istituto del condono in materia di Iva, in questa Rivista, 2008, IV, 34 ss. e M.G. De Flora, Osservazioni sull’incompatibilità del condono Iva con la normativa comunitaria, in questa Rivista, 2009, IV, 238 ss. (23) Corte Costituzionale, 22 ottobre 2008 - 31 ottobre 2008, n. 356, in questa Rivista, 2009, II, 181 ss., con nota di G. Falsitta, La evanescente consistenza del principio di eguaglianza in una sentenza della Consulta di salvataggio della legislazione condonistica e E. Marello, Proroga dei termini per l’accertamento in occasione di condono: considerazioni sull’efficienza delle azioni amministrative, in Giur. It., 6/2009, 155 ss. (24) Corte di Cassazione, 18 settembre 2009, nn. 20068 e 20069, pubblicate su Corr. Trib, 2010, 979, con nota di G. Falsitta, Il contributo della Cassazione alla demolizione della legislazione condonistica in materia di IVA, che peraltro ha riguardato una disposizione di una precedente legge di condono (art. 44, legge n. 413/1991). In seguito, in senso discordante con la prima interpretazione di legittimità, Corte di Cassazione, SS.UU. Civili, sentenza 17 febbraio 2010, n. 3677, su cui si consenta il rinvio ad A. Albano, Incompatibilità comunitaria del condono ed effetti nazionali, Rass. Trib, 2010, 842 ss., ivi per ulteriori riferimenti dottrinali e giurisprudenziali. (25) Si veda l’importante contributo di R. Miceli, Gli effetti della incompatibilità comunitaria del condono Iva e della relativa sentenza di inadempimento sul sistema giuridico nazionale, in questa Rivista, I, 2010, 587 ss.


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Ebbene, alla luce di una complessa riflessione (26), all’epoca fu sostenuto, direi correttamente, che a fronte della disapplicazione della legge nazionale sul condono, il contribuente avrebbe dovuto assolvere all’imposta recata nell’atto impositivo; tale imposta sarebbe stata superiore rispetto al prelievo fiscale (di natura forfetaria) dovuta per l’adesione alla misura premiale di condono. Si sarebbe verificata, in tal caso, un’applicazione in malam partem della Direttiva, non consentita dai principi comunitari (27). Nel caso oggetto della sentenza Taricco, la Corte di Giustizia ha tuttavia sollecitato direttamente il giudice nazionale a disapplicare la normativa domestica in materia di prescrizione assoluta del reato, anche se ciò comporta conseguenze in malam partem, in quanto produce l’effetto di “spostare in avanti” (senza tuttavia sapere sino a quale limite…) il suddetto termine (che, pertanto, sarebbe più corretto qualificare come relativo, alla luce della sentenza Taricco). Il riferimento, pertanto, compiuto nella sentenza Taricco al precedente Commissione/Italia è solo parzialmente conferente, alla luce della riflessione scientifica e degli arresti che ne sono seguiti, nella giurisprudenza di legittimità e nella Corte Costituzionale, ma ugualmente utile a comprendere la logica della Corte di Giustizia e le possibili conseguenze sul piano domestico. Da un lato, infatti, entrambi gli arresti, provenienti dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia, sono motivati dalla ratio di tutelare la corretta riscossione delle risorse proprie dell’Unione ma, mentre la sentenza Taricco affronta condotte riferite a violazioni di disposizioni interne commesse dai contribuenti, la sentenza in materia di condono IVA ha statuito direttamente l’illegittimità comunitaria di una disposizione nazionale. Da ciò consegue che la disapplicazione della normativa condonistica, oltre al fatto che avrebbe provocato distorsioni nel meccanismo di determinazione ex post dell’imposta dovuta, in quanto afferente la determinazione del tributo e non l’irrogazione di una sanzione (o, per meglio dire, di una sanzione positiva) (28) non avrebbe certamente potuto prodursi, in quanto avrebbe determinato un effetto indebitamente negativo a carico dei contribuenti, che hanno semplicemente usufruito di una normativa nazionale.

(26) R. Miceli, op. cit., 607 (27) Cfr. M. Giorgi, Disapplicazione, in malam partem, del diritto interno a favore di quello comunitario e tutela dell’affidamento del contribuente, Dialoghi dir. trib., 2004, 797 ss.; in senso conforme R. Miceli, op.cit., 606-608 (28) Sulla nozione di condono come sanzione positiva, si veda l’opera monografica di Preziosi, Il condono fiscale, Milano, 1987.


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D’altro canto, a diverse conclusioni si giunge in relazione ad una condotta offensiva (frode IVA) posta in essere dal contribuente in violazione di una disposizione nazionale che tutela le risorse proprie dell’Unione; in tale caso, infatti, la disapplicazione del termine prescrizionale assoluto del reato sarebbe “giustificata”, secondo l’interpretazione che si evince dalla lettura della sentenza della Corte, anche dall’esigenza di assicurare l’effettività della sanzione tributaria, sia essa penale o amministrativa. Le due sentenze, pertanto, seppure concernenti entrambe alla tutela delle risorse proprie dell’Unione, afferiscono a piani diversi; la sentenza Commissione/Italia è relativa alla tutela del principio di neutralità dell’imposta, messa in crisi dall’introduzione di una sanzione positiva; la sentenza Taricco, invece, affronta la tematica del rischio di impunità a fronte di frodi commesse in danno del meccanismo applicativo dell’IVA (e riguarda, pertanto, una sanzione “negativa”, o sanzione propriamente detta). Premesso quanto sopra, pur considerando la parzialmente diversa ratio delle due decisioni, per entrambe si ritiene che siano da condividere le considerazioni che hanno condotto gli interpreti a sostenere fondatamente la non disapplicazione della normativa domestica in malam partem da parte dei giudici nazionali (29). 4. Conclusioni provvisorie: cenni al primo impatto della sentenza Taricco nella giurisprudenza nazionale. – La decisione resa dalla Corte di Giustizia ha avuto un immediato impatto nella giurisprudenza domestica. La Corte di Cassazione, con decisione ut supra, Sez. III Penale, 17 settembre 2015, n. 2210, depositata il 20 gennaio 2016, in una fattispecie rientrante tra le frodi IVA, ha disapplicato la normativa in materia di prescrizione del reato successiva all’introduzione della legge “ex Cirielli”, stabilendo che la suddetta disapplicazione, pur se provoca effetti sfavorevoli per l’imputato, “Non viola il principio di legalità in materia penale non godendo la disciplina in materia di prescrizione di copertura costituzionale né potendosi richiamare il disposto di cui all’art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che si limita a garantire che il soggetto non sia punito per un fatto e con una pena previsti dalla legge come reato al momento della sua commissione”.

(29) A ben vedere, peraltro, sia la prima pronuncia, direttamente, che la seconda, in via mediata, si rivolgono essenzialmente ai legislatori nazionali in quanto contestano la legittimità comunitaria di una disposizione positiva nazionale.


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La Corte di Cassazione, seguita poi dal Tribunale di Varese (cfr. nota 7) ha sostanzialmente recepito l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia. Uno dei punti qualificanti della motivazione della sentenza della Corte di Cassazione è da ravvisarsi nel punto 18., laddove i giudici hanno precisato che “non si prospetta alcun dubbio di illegittimità costituzionale […] e ciò perché la specifica norma [in materia di termine assoluto di prescrizione, n.d.r.] che nella specie viene in rilievo, non gode – anche secondo la giurisprudenza costituzionale, oltre che secondo quella europea – della copertura della citata norma costituzionale di cui all’art. 25. In ogni caso, non rileva nella specie, la questione, peraltro di natura dogmatica, se la disciplina della prescrizione, o di alcuni elementi di essa, abbia natura sostanziale o processuale, perché, quale che sia la risposta che si voglia dare dogmaticamente, comunque la specifica norma non è coperta dalla tutela dell’art. 25 Cost. e dall’art. 236/2011 della Corte Costituzionale”. Al riguardo, la lettura della sentenza della Corte di Cassazione conferma, innanzitutto, quanto sostenuto dalla dottrina penalistica nei primi commenti successivi alla pubblicazione della sentenza, e cioè che la disapplicazione lascia aperti scenari imperscrutabili, conferendo aleatorietà al giudizio e scardinando potenzialmente i principi di un processo equo, richiamati dall’Avvocato generale nelle proprie conclusioni ma non valorizzati dalla Corte di Giustizia (30). In coincidenza con la Corte di Cassazione, la Corte di Appello di Milano ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale, invitandola espressamente ad opporre – come sottolineato per la prima volta nella storia della giurisprudenza costituzionale (31) l’arma dei “controlimiti” alle limitazioni di sovranità nei confronti dell’ordinamento europeo.

(30) S. Manacorda, op.cit. Ancora più esplicito Eusebi, op. cit., laddove afferma che la Corte di Giustizia ha nei fatti richiesto direttamente al giudice (non al Paese membro dell’Unione) di valutare se una norma penale (o foss’anche processuale) interna risponda a caratteristiche di dissuasività ed effettività, e cioè “se sia da ritenersi adeguata rispetto ai fini di prevenzione di un dato comportamento illecito perseguito dalla UE”. (31) F. Viganò, Prescrizione e reati lesivi degli interessi finanziari dell’UE: la Corte d’Appello di Milano sollecita la Corte Costituzionale ad azionare i “controlimiti”, www.penalecontemporaneo.it ivi per interessanti riflessioni anche di natura processuale, afferenti in particolare la potenziale inammissibilità dell’ordinanza limitatamente alle fattispecie per le quali la prescrizione del reato sia intervenuta prima dell’8 settembre 2015, data di pronuncia della Corte di Giustizia.


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Il controlimite rappresentato dalla Corte d’Appello di Milano alla Corte Costituzionale è raffigurato dall’art. 25, comma 2, Cost. (principio di legalità) e suoi corollari, in particolare riserva di legge e irretroattività dei mutamenti sfavorevoli della disciplina penale e, al riguardo, richiama (pag. 14 dell’ordinanza) (32) alcuni arresti del giudice delle leggi che confermano quanto sostenuto nell’ordinanza, in contrasto con l’arresto della Corte di Giustizia. Si attende, pertanto, la decisione della Corte Costituzionale, che dovrà disciplinare il non facile conflitto già reso evidente tra giudice di merito e di legittimità e che dovrebbe, logicamente, condurre ad una censura della sentenza della Corte di Giustizia sul piano degli effetti nel Diritto nazionale, qualora l’esame fosse condotto in base ai criteri ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza della Corte medesima. La precedente esperienza del condono IVA, sopra richiamata, seppure afferente un diverso profilo, qualora replicata nei suoi principi ispiratori, dovrebbe infatti logicamente condurre ad una sentenza che riconosca la legittimità e la intangibilità della disciplina in materia di prescrizione assoluta del reato. La sentenza Taricco, comunque, in attesa di ulteriori arresti sulla (parzialmente) diversa materia del ne bis in idem, sollecitati dal giudice nazionale, rappresenta una ulteriore tappa del complicato rapporto tra normativa domestica e principi comunitari in materia penale, peraltro anche in parte afferente la corretta interpretazione dei principi contenuti nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (33). Tale rapporto non può essere compreso se non, probabilmente, alla luce di una profonda riflessione in merito al rapporto tra ordinamenti, con particolare riferimento all’accoglimento della teoria “dualista” ovvero della teoria “monista” (34). Ciò consentirà, in particolare, di comprendere in quale misura sia condivisibile accedere alla teoria “monista”, riconoscendo pari dignità alle fonti e regole comunitarie, anche qualora ciò si traduca, diversamente da

(32) Cfr. in particolare sentenza Corte Cost. n. 394 del 2006 e n. 324 del 2008. (33) Si segnala, peraltro, che la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità sollevata in relazione alla irrogazione delle sanzioni penali e amministrative in materia di omesso versamento IVA (comunicato 8 marzo 2016). Cfr. P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del ne bis in idem alla luce del diritto comunitario, in questa Rivista, 1, 2016, 23 ss. (34) Per una riflessione sistematica su tali profili, cfr. inter alia P. Boria, L’antisovrano, potere tributario e sovranità nell’ordinamento comunitario, Torino, 2004.


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quanto sinora ipotizzato e verificato, in una compressione dei diritti del contribuente (35), a favore, invece, di un interesse fiscale di rango comunitario.

Alessandro Albano

(35) Cfr. F. Amatucci, Il rafforzamento dei principi comuni europei e l’unicità del sistema fiscale nazionale, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2013, 3 ss., per una analisi del sistema delle fonti del diritto tributario in ottica comunitaria.


Rubrica di diritto tributario internazionale e comparato a cura di Guglielmo Maisto

Advanced pricing agreements e procedure negoziate di determinazione del valore normale: la Cassazione nega il potere di veto dell’amministrazione finanziaria Sommario: 1. Premessa. – 2. La convenzione arbitrale 90/436/CEE del 23 luglio 1990. – 3. Il ruling internazionale quale “Apa Italian Version”: un confronto con le mutual agreements procedure. – 4. Problemi applicativi in tema di “ruling”. – 5. Dalla procedura negoziata all’arbitrato vero e proprio: profili di tutela del contribuente. – 6. Conclusioni. Il tema della disciplina tributaria del transfer pricing è una delle maggiori preoccupazioni per le imprese multinazionali. In questo contesto delicato, gli Advance Pricing Agreements (APAs) si sono sviluppati come una via alternativa per la risoluzione delle possibili controversie sul tema, e si fondano su un accordo tra contribuente e Amministrazione Finanziaria riguardo al metodo da utilizzare per determinare il valore normale nelle operazioni infragruppo. Come ogni forma di interpello preventivo, essi consentono al contribuente di ottenere certezza riguardo le conseguenze tributarie delle operazioni in parola, e sono considerate ormai indispensabili nel mondo moderno, specie stante la condivisione da parte del contribuente dell’obbligo di compliance. Sebbene poi la Convenzione Arbitrale comunitaria abbia ormai una lunga storia, la sua concreta applicazione da parte degli Stati Membri ha seguito una via tortuosa, con frequenti rallentamenti e false partenze. Recentemente comunque, il numero di casi che si sono esaminati in quella sede è sensibilmente aumentato. D’altro canto, l’art. 25(2) del Modello OECD apparentemente attribuisce all’Autorità competente degli Stati Membri un vero e proprio potere discrezionale nel valutare se l’istanza del contribuente di dar corso alla procedura arbitrale sia fondata o meno; con ciò si lascia il contribuente senza la possibilità di contestare giudizialmente il mancato esercizio di tale potere. Con riguardo a tale profilo, il Commentario al Modello OECD si duole della mancanza di chiarezza che risulta dall’attribuzione di tal discrezionalità all’Autorità competente (vale a dire all’Amministrazione Finanziaria), sottolineando come “le circostanze nelle quali uno stato potrebbe negare l’accesso alla procedura arbitrale dovrebbero esser chiaramente previste nel Trattato”. La decisione della Corte di cassazione italiana che è oggetto dell’ultima parte di questo articolo è importante in quanto i giudici hanno con essa rimosso uno specifico ostacolo al funzionamento della procedura arbitrale dichiarando ammissibile e fondato il ricorso del contribuente di fronte al rifiuto dell’Erario di attivare la procedura in questione. Peraltro, né la Convenzione Arbitrale comunitaria, né il Code of Conduct contengono previsioni o indicazioni interpretative per determinare in


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quali casi il diniego può esser legittimo. L’importanza di tale sentenza è ancora maggiore se si considera che una raccomandazione proprio in argomento è stata recentemente approvata dall’European Joint Transfer Pricing Forum (EU JTPF) nel corso dei lavori per la revisione del Code of Conduct del 2009. The issue of the tax regime applicable to transfer pricing is of major concern for multinational companies. It has been in this difficult context that advance pricing agreements (APAs) have developed as an alternative way to resolve transfer pricing issues, through an agreement between tax authorities and taxpayers regarding the method to be used in determining fair prices in related-party transactions. Advance tax rulings allow taxpayers to achieve certainty about the tax consequences of contemplated transactions, and are thus considered indispensable in the modern world of tax administration and compliance. Although the EU Arbitration Convention has quite a long history, thus far its implementation by the Member States has followed a tortuous path, frequently suffering serious setbacks and false starts. However, in recent years the number of cases initiated under the Arbitration Convention has appreciably increased. On the other hand, article 25(2) of the OECD Model apparently accords a discretionary power to the competent authorities of the contracting states in evaluating whether the complaint submitted by the taxpayer is justified, thus leaving the taxpayer without any legal remedy in case of a refusal by the competent authority to activate the MAP. In this regard, the Commentary on the OECD Model laments the lack of clarity resulting from the discretion enjoyed by tax authorities, highlighting that “the circumstances in which a State would deny access to the mutual agreement procedure should be made clear in the Convention”. The Italian Supreme Court decision that is the subject of the concluding part of this article is notable insofar as the judges have removed a specific hurdle in the functioning of the Arbitration Convention MAP, by ensuring the availability of legal remedies for taxpayers where a denial of access to the MAP is asserted by the competent tax authority. In this regard, neither the Arbitration Convention nor the Code of Conduct provide any remedy or – at least – guidance for determining whether such a denial is justified. The significance of this decision is further increased by the circumstance that a recommendation on this specific subject was recently released by the European Joint Transfer Pricing Forum (EU JTPF) in its work for the revision of the 2009 Code of Conduct.

1. Premessa. – Senza dubbio, il fenomeno del transfer pricing è da tempo esaminato dalla dottrina tributaria internazionale, e invero non solo dal punto di vista strettamente giuridico a causa della stretta connessione del tema con la materia economico-aziendalistica (1).

(1) Imponenti i contributi sull’argomento in dottrina. Per gli aspetti generali, che sono principalmente trattati a fondo nella letteratura internazionale, leggasi Abdallah, Global Transfer Pricing of Multinationals and E-Commerce in the Twenty-First Century, Multinational Business Review, Fall 2002; Miesel-Higinbotham - Chun W. Yi, International Transfer


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Esso trae origine dalla differenza che deriva tra l’essere assoggettati a im-

Pricing: Practical Solutions for Intercompany Pricing, International Tax Journal, Fall 2002; Shusheng, Possible Changes to the Intercompany Services Safe Harbor Rule on Multinationalsm, International Tax Journal, Fall 2002; L. Gimbel, Second First? Transfer Pricing Issues in Secondment of Personnel, Tax Executive, July/August 2002; Adams - Godshaw, Intellectual Property and Transfer Pricing, International Tax Review, 2002; Burns, U.S. Outbound: U.S. Transfer Pricing Developments, International Tax Review, April 2002; Clair - Hunt, Transfer Pricing Software: Reaching New Technological Heights, Journal of International Taxation, April 2002; Rosenberg-Mclennan, Technology, Licensing, and Economic Issues in Transfer Pricing, Corporate Business Taxation Monthly, January 2002; Vogele - Cruger Schmitt, Sharing the Cost of Expatriates In Germany, International Tax Review, April 2002; B.J. Cody, Market Capitalization, Economic Substance and Adjusting Transfer Pricing, Taxes: The Tax Magazine, March 2002; S.F. Foley - Apa: Certainty In an Uncertain Time, Taxes: The Tax Magazine, March 2002; L.A. Immerman, IRS Applies Section 482 to Partnership Contributions--Was It Necessary? Tax Notes, April 8, 2002; Swenson, Apa Competent Authority Developments, Taxes: The Tax Magazine, March 2002; F. Vincent, Transfer Pricing in Canada, A Legal Perspective Carswell, 1963; J.V. Williamson, Transfer Pricing Litigation, Taxes: The Tax Magazine, March 2002; P. Raimondos-Moller, K. Scharf, Transfer Pricing Rules and Competing Governments, Oxford Economic Papers, April 2002; B. Cornell - D.L. Forst - C.E. Hodges - E.M. Manigault - D.J. Kautter, Consequences of 482 Reallocation to Shareholder Where S/L Had Run On Correlative Adjustment, Journal of Taxation, April 2002; K.A. Bell, Stock Options Popping Up In More U.S.-Canada Transfer Pricing Cases, Tax Notes, March 4, 2002;. S.C. Borkowski, Electronic Commerce, Transnational Taxation, and Transfer Pricing: Issues and Practices, International Tax Journal, Spring 2002; L.A. Immerman, U.S. IRS Applies Section 482 to Partnership Contributions: Was It Necessary, Tax Notes International, March 4, 2002; J. Ghislain, Transfer Pricing: The EC Arbitration Convention As a Dispute Resolution Mechanism, International Tax Journal, Spring 2002; M.J. Mckee - R.C. Miall - W.S. Mcshan, Transfer Pricing At a Time of Economic Downturn, International Tax Review, March 2002. Riguardo l’approccio UE, si legga Eu Proposes Code Of Conduct For Transfer Pricing Documentation, in Tax Analysts, november 14, 2005, secondo il quale “the European Commission on November 10 proposed a code of conduct for transfer pricing documentation to simplify the reporting burden on EU companies with cross-border operations. Those companies face “onerous and divergent documentation obligations, but the code of conduct would reduce significantly the tax complications if member states implement it”. Questa la comunicazione della Commissione UE in quella stessa data, secondo la quale “at the heart of the proposal is a requirement for companies with cross-border intragroup transactions to file two different sets of transfer pricing documentation. The first set, called a ‘masterfile’, would have general information on a company’s type of business activity, its cross-border transactions, and its transfer pricing policy. The masterfile documents would be provided to all member states concerned with the companies’ transactions. The second set of documentation would be the ‘countryspecific documentation’, setting out amounts of transactions taking place in a member state, contractual terms, and information on the company’s transfer pricing methods. The countryspecific documentation would go only to the member state directly concerned”. Si veda il testo complete all’ interno del documento citato. Sul tema, con riferimento alle legislazioni delle singole nazioni extraeuropee, leggasi Ohno, Japan’s New Directive on Mutual Agreement Procedures, Bulletin for International Fiscal Documentation, March 2002; Sair, Eleventh Circuit


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posizione in quanto residenti o in quanto non residenti; il miglior modo per sottrarre materia imponibile al principio di tassazione secondo la residenza è infatti quello di collocare tale materia in capo a un soggetto non residente (2): all’interno del medesimo gruppo di imprese multinazionali, nel quale controllante e controllate o stabili organizzazioni di controllate e controllanti sono residenti in stati diversi, la pratica del transfer pricing è il sistema più efficace per raggiungere tale risultato. Nel concreto ciò avviene collocando – senza alcuna ragione che non sia quella di ottenere una minore imposizione – costi in capo al soggetto residente nello Stato la cui legislazione ne consente più favorevole deduzione e ricavi in capo al soggetto residente nello Stato la cui legislazione ne consente più mite imposizione. A tal fenomeno viene dedicata spesso attenzione accurata da parte delle Amministrazioni finanziarie, le quali dedicano al controllo delle operazioni cross-border uomini e mezzi di livello e qualità, ben consce della fruttuosità dell’azione di recupero – se ben operata – in tal direzione (3). Uno studio non più recente in materia, mai peraltro smentito da valutazioni successive, ha dimostrato da tempo come il fenomeno in esame sia strettamente connesso non solo all’interesse di evitare la doppia imposizione ma

Reverses TC Decision in UPS, Tax Adviser, March 2; H. Swaneveld - M. Przysuski, Transfer Pricing Now a Canadian Priority, CMA Management, April 2002; P. Blackwood, Australia: Developments in the Practice of Transfer Pricing, International Tax Review, December 2001; T. Borstell - P. Stalberg, German Transfer Pricing Developments, International Tax Review, December 2001; P.J. Douvier, France: Transfer Pricing Trends, International Tax Review, December 2001; FU, Transfer Pricing in Hong Kong, International Tax Review, December 2001; J. Neighbour, The Future Work of the OECD, International Tax Review, December 2001; D.I. Meyer - W.D. Outman, U.S. Tax and Customs Consequences of Dealing With a Related Foreign Supplier--Part 2, Journal of International Taxation, January 2002; Sollund, Norway: Arm’s Length Adjustment of Premiums Paid to Captive Insurance Company Upheld Decision of the Supreme Court of 11 October 2001, European Taxation, December 2001; J. Tynan - E. Lyne, Transfer Pricing in E-Business, Accountancy Ireland, February 2002; A. Vögele - W. Bader, New Deal for German Transfer Pricing, International Tax Review, February 2002. (2) R.S. Avi-Yonah, International Tax as International Law: An Analysis of the International Tax Regime, Cambridge, 2007, 102. (3) Secondo un’analisi Ernst & Young condotta nel 2010 che ha esaminato 877 gruppi multinazionali in 25 stati, il 66% degli esaminati ha subito un controllo dall’Erario, rispetto al 52% nel 2007. Secondo tali risultati, ogni MNE ha circa 1 possibilità su 5 di subire sanzioni da attività di controllo come quelle in parola; nel 2007 la probabilità era di 1 a 25. Ernst & Young, 2010 Global Transfer Pricing Survey, disponibile presso http://www.ey.com/GL/en/Services/ Tax/International-Tax/2010-Global-Transfer-Pricing-Survey (consultato il 10 luglio 2014).


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anche alle concrete modalità di imposizione che orientano le decisioni imprenditoriali dei gruppi multinazionali (4). La migliore definizione del fenomeno in esame si trova a mio avviso in uno scritto non più recente della più autorevole dottrina internazional-tributaristica statunitense, la cui precisione merita una ampia citazione letterale: “What is the ALS (Arm’s length principle), and why did the Treasury seek to defend it in these terms? The problem for which the ALS attempts to provide the solution may be illustrated by a simple example. Suppose that a product (e.g., computers) is manufactured by a corporation in country A, and then sold to a wholly owned subsidiary of the manufacturer in country B, which proceeds to resell it to unrelated customers. In this common situation, the taxable profit of the subsidiary is determined by three factors: (1) the price at which it resells the computers to the unrelated customers, (2) its expenses other than cost of goods sold, and (3) the price which it pays its parent corporation for the computers. The first two of these factors are governed by market forces outside the control of the parent or the subsidiary. However, because the parent controls the subsidiary, the third factor (the price for which the manufacturer sells the computers to the reseller, or the “transfer price”) is wholly within the control of the related parties. Accordingly, the potential for abuse arises because the related parties will seek to increase after-tax profits by manipulating the transfer price. If the effective tax rate in the manufacturer’s country is higher, the price will be set as low as possible so as to channel all taxable profit to the reseller. Conversely, if the effective tax rate in the reseller’s jurisdiction is higher, the transfer price will be as high as possible, so as to eliminate any taxable profit of the reseller and concentrate the entire profit in the hands of the manufacturer. But for tax considerations, the affiliated parties do not care what the transfer price is, since it merely re-allocates profits within the affiliated group. Given these facts, it is understandable that transfer pricing manipulation is one of the most common techniques of tax avoidance” (5). Fatta questa premessa definitoria, va verificato quale potrebbe essere in concreto l’interesse delle parti coinvolte (contribuente e Erario) di addive-

(4) Si veda Ernest & Young, Transfer Pricing 1999 Global Survay: practise, perceptions and trends for 200 and beyond, 19 TNI, 1907, Nov. 15, 1999). (5) In tal senso R.S. Avi-Yonah, The rise and fall of arm’s length: a study in the evolution of U.S. international taxation, Virginia Tax Review, Summer 1995, 1.


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nire alla determinazione del valore normale dei beni o dei servizi in esame secondo il principio di valutazione delle operazioni infragruppo “at arm’s lenght”. Per il contribuente, tale esatta determinazione quanto più con precisione determinata lo pone al riparo dalle pretese del Fisco della fonte o della residenza del reddito sottoposto a imposizione; ove questi contesti come strumentale tale determinazione, e ne disconosca le conseguenze tributarie, il contribuente potrà opporre la sua precisa determinazione, smentendo ogni censura di strumentalità e quindi vedendosi riconoscere la legittimità delle proprie scelte. Per il fisco, in modo del tutto speculare, l’esatta determinazione del valore normale consente di scoprire quelle imponenti operazioni imprenditoriali dirette unicamente a dedurre un costo nello stato in cui ciò è più conveniente, o a sottoporre a imposizione più mite un ricavo, ponendo in essere comportamenti anomali diretti a ottenere vantaggi tributari non consentiti dagli ordinamenti giuridici interessati, con conseguente recupero dell’imposta sottratta a imposizione e applicazione delle sanzioni dovute. Il presente contributo intende esaminare alcuni degli strumenti giuridici che prevedono la partecipazione attiva e collaborativa del contribuente, non la sua mera opposizione in sede amministrativa o giurisdizionale a provvedimenti autoritativi dell’Erario. Quanto sopra presupponendo che in capo ai protagonisti (contribuente ed Erario) sussista o possa sussistere una comune preferenza – pur riconoscendo legittima l’aspirazione del gruppo di imprese a contenere quanto più possibile il costo del prelievo – per la compliance, vale a dire lo spontaneo adempimento agli obblighi tributari, rispetto alla via giudiziale. La prima alternativa offre ai partecipanti notevole speditezza delle procedure, rispetto ai tempi sempre dilatati dei processi, e consente altresì di meglio tutelare i profili di riservatezza e di stabilità delle determinazioni che il giudizio tributario potrebbe non rendere così impermeabili all’esterno, al tempo stesso munendo il risultato della procedura di una elevata tecnicità del merito, al punto da costituire adeguato equilibrio tra gli interessi dei partecipanti (6).

(6) Sull’ importanza degli aspetti di riservatezza in genere si leggano le considerazioni di M. Young, S. Chapman, Confidentiality in International Arbitration, do the exception prove the rule?, 27 Asa Bullettin, n. 1 del 2009, 26 e segg. i quali si soffermano sul sistema britannico, ricavandone peraltro elementi di analisi e di riflessioni applicabili a ogni rapporto di conflitto definito senza l’ intervento del potere giurisdizionale.


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Per non dire della minore opinabilità dei risultati ottenuti in tali sedi, rispetto a quanto può avvenire ove ci si arrischi nella via giudiziale, ove l’alea del risultato è il solo elemento indiscutibilmente certo. Dal punto di vista sistematico, l’istituto pare rispondere ai quesiti che si pongono, nell’economia moderna, relativi alla progressiva globalizzazione anche della giurisdizione. È interesse di ogni struttura collettiva rispondere e affrontare in modo efficace il quesito che si pone quella dottrina che si interroga in ordine ai rapporti tra potere giurisdizionale e sua attuazione nei confronti di soggetti alieni a tale potere, in quanto privi di collegamento diretto con il territorio dello Stato. Tali soggetti sono ad ora in grado di restare nei fatti del tutto immuni da tal giurisdizione (semplicemente collocando nell’altro Stato una controllata, e non la controllante) e possono dare origine a situazioni contrarie al comune sentire giuridico, che non vede di buon occhio condizioni di sostanziale immunità, nelle quali detti soggetti godono di vantaggi senza addossarsi oneri, in particolare tributari, né rispondere di fronte all’Autorità giudicante al cui controllo possono nei fatti sottrarsi (7). Un’ampia applicazione dell’istituto in esame costituirebbe quindi un incentivo per tali soggetti, che si troverebbero non più a dover sfuggire un controllo giurisdizionale, visto con sospetto anche in quanto non di rado non provvisto delle conoscenze tecniche necessarie al decidere, ma a negoziare una pattuizione concordata, soppesandone preventivamente vantaggi e svantaggi nel dialogo con soggetti di specifica professionalità e privi di interesse diretto al contenuto della pattuizioni, collocando altresì nel contesto delle proprie valutazioni imprenditoriali anche detti aspetti. Per non dire della stabilità che tali pattuizioni assumono, anche con il trascorrere del tempo, quando sia prevista la loro inattaccabilità sia da parte dell’Erario che da parte del giudice; ne discende in questo senso anche la loro migliore gestione dal punto di vista della redazione dei bilanci delle società coinvolte, che possono contare su elementi di maggior certezza rispetto alle stime ed alle operazioni

(7) P.F. Berman, The globalization of jurisdiction, University of Pennsylvania Law review, vol. 151 december 2002 no. 2, osserva nell’esordio dello scritto ridetto: “supposing however that the act [at issue] had said in terms, that though a person sued in the island [of Tobago] had never been present within the jurisdiction, yet that it should bind him upon proof of nailing up the summons at the court door; how could that be obligatory upon the subjects of other countries? Can the island of Tobago pass a law to bind the rights of the whole world? Would the world submit to such an assumed jurisdiction?”.


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di accantonamento contabile che conseguono alle vie giudiziarie contra Fiscum. Particolare rilevanza assume in questo contesto lo scambio di informazioni, spesso di qualità elevata e sempre decisamente confidenziali, comunque non rese pubbliche (8), che si produce tra i soggetti coinvolti; si tratta di una serie di valutazioni di grande delicatezza, che spesso coinvolgono esperti in rami del sapere umano più vario, con funzione di consulenti in grado di fornire a non tecnici nozioni specifiche. L’OECD ha da tempo pubblicato un documento allegato alle Transfer Pricing Guidelies nel quale sono fornite alcune indicazioni dirette a trasfondere in Advance Pricing Agreeements (da ora in avanti anche APA) tali valutazioni, nel contesto di apposite procedure amichevoli tra Stati (9), proponendo metodologie di determinazione e di esposizione e formalizzazione ormai consolidate e quindi atte a rimuovere incertezze e oscurità interpretative e applicative. Dal punto di vista dei soggetti protagonisti, in queste fattispecie assume notevole rilevanza la particolare competenza tecnica dei medesimi, difficilmente rinvenibile nei giudici; si tratta di un aspetto essenziale quando oggetto dell’indagine sono profili tecnicamente assai raffinati, che solo con grande difficoltà, costi esorbitanti, e comunque a rischio di probabili e gravi incomprensioni, pure il miglior perito o consulente tecnico riuscirebbe a comunicare ai decidenti. È evidente che i contribuenti coinvolti in tali procedimenti sono soggetti passivi d’imposta del tutto particolari, quali le Imprese multinazionali (10).

(8) M. Sullivan, Economic Analysis: With Billions at Stake, Glaxo Puts U.S. APA Program on Trial, Tax Notes Int’l, May 3, 2004, 456. (9) Per un commento vedasi J. Neightbour, OECD Issues Guidance on Mutual Agreement APAs, 19 TNI, 1954, Nov. 22, 1999. (10) S’intende per impresa multinazionale una grande impresa con attività integrata che opera in più stati attraverso altre società o stabili organizzazioni o strutture più semplici. Essa è caratterizzata da due elementi: - una struttura composita che fraziona l’attività in più unità. - la dislocazione della struttura, o di parti di essa, in più Stati. Si differenzia dall’impresa con attività internazionale in quanto quest’ultima non deve necessariamente avere una struttura composita: è sufficiente che entri in contatto con gli ordinamenti di più stati. L’impresa con attività internazionale è un’impresa che, nel suo operare, ha contatti, esclusivamente o prevalentemente per mezzo di strumenti contrattuali, con gli ordinamenti giuridici di Paesi stranieri. Il problema principale che si pone in relazione a queste strutture imprenditoriali è dato dal fatto che le stesse si trovano ad operare sotto diversi ordinamenti giuridici, ciascuno con una propria disciplina tributaria. Sorgono quindi problemi sia per quanto riguarda l’individuazione soggettiva che per quanto riguarda l’individuazione della Nazione che deve esercitare la potestà impositiva sugli utili dell’impresa. Il legislatore applicherà la legge vigente sul territorio in cui la società, dotata o meno di soggettività, si è costituita. Quindi se una società si è costituita in Francia il legislatore


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La partecipazione del contribuente è senza dubbio importante, tanto da tipizzare le modalità delle procedure in esame a seconda che sia coinvolto o meno il soggetto passivo del prelievo. Lo sottolinea quella dottrina secondo la quale “tax Arbitration most typically arises in either of two contexts: arbitration between the taxpayer and the governmental authority having jurisdiction over the taxpayer; or arbitration between two governments having jurisdiction over the taxpayer” (11). Se nel primo contesto è il contribuente a relazionarsi con il Fisco, nel secondo sono le due Amministrazioni Finanziarie degli stati interessati a relazionarsi direttamente e quasi esclusivamente tra loro, anche se è chiaro che le loro decisioni avranno effetto proprio su quel medesimo contribuente che è generalmente escluso o comunque non necessariamente coinvolto nelle relazioni tra tali soggetti. Come vedremo, gli APA debbono tenere conto proprio di queste premesse. Si tratta di istituti sorti dapprima dalla prassi in forza nel sistema statunitense, nel quale è ormai fatto acquisito che il medesimo contribuente, quando si tratta di soggetto multinazionale, abbia relazioni costanti con il sistema tributario e l’amministrazione finanziaria di ogni singolo Stato ove svolge la propria attività. A fronte di quanto sopra illustrato, che costituisce elemento positivo degli strumenti giuridici in esame, si pongono alcune controindicazioni. È opportuno infatti indagare se e sino a quanto essi siano rispettosi dei principi di legalità e di eguaglianza, poiché si risolvono in un regime tributario spesso derogatorio a quello applicato alla generalità dei consociati, nel quale l’ammontare dell’imposta dovuta è determinata certo non mediante la semplice applicazione di disposizioni legislative domestiche, ma per mezzo di procedure applicative e interpretative del sistema normativo che paiono eterodirette rispetto all’ordinamento interno (12). Inoltre, molto spesso il contenuto di tali accordi viene mantenuto sostan-

applicherà l’ordinamento francese. In conformità a questo stabilirà se la figura è riconosciuta come soggetto nell’ordinamento francese. Sulla base dell’individuazione soggettiva procederà poi, attraverso le norme interne, comunitarie o pattizie a risolvere i problemi di doppia imposizione. (11) Si veda in argomento Feinschreiber, Kent, and Mason on Arbitration Use in International Tax Treaties, 2008 Robert Feinschreiber, M. Kent and Paul E. Mason, February 12, 2008. (12) In argomento M. Toribio Leão, Advance Pricing Agreements and the Principles of Legality and Equality: The Problems Surrounding Contracts in Tax Law, International transfer pricing journal, july-august 2014, 258 e segg.


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zialmente segreto, almeno per la generalità dei contribuenti, e conseguentemente alimenta nell’opinione pubblica il diffondersi di illazioni e prospettazioni più o meno fondate di ogni genere. Anche per queste ragioni, tali procedure non possono limitarsi a disciplinare con regole procedimentali o processuali la determinazione del valore normale, secondo un modello inquisitorio nel quale ogni Erario dei diversi stati coinvolti cerca di scoprire quanto il contribuente ha inteso nascondergli per ridurre l’imposta a questi dovuta; esse hanno invece l’opposto fine di indurre tutte le Amministrazioni finanziarie a collaborare in forza non solo di obblighi di legge, ma nell’interesse comune, che porta tali soggetti a diventare sinergici in modo ancora più efficace di come consentirebbe il sistema (13). L’esigenza di trovare meccanismi di coordinamento, nello specifico fenomeno del transfer pricing, tra le Amministrazioni Finanziarie dei singoli stati ha dato quindi origine a un network di previsioni di fonte internazionale volte non solo a combattere la doppia non imposizione, o l’elusione fiscale internazionale, ma anche a eliminare la doppia imposizione internazionale, doppia imposizione frequentemente collegata al tema in oggetto; e il tutto senza procedimenti giurisdizionali. In via generale possiamo subito identificare come rilevanti a questi fini, nel novero delle fonti internazionali, da un lato la Convenzione che è comunemente indicata nella letteratura come relativa alla c.d. procedura arbitrale, oggetto di disamina nel prossimo paragrafo, e dall’altro le Mutual Agreement Procedures (anche MAP Procedures) previste dalle singole Convenzioni internazionali contro la doppia imposizione sulla falsariga delle indicazioni del Modello di convenzione OECD, delle quali si parlerà ancora oltre. In realtà l’una e le altre non sono meramente alternative tra loro, ben potendo – come vedremo, e non senza porre ulteriori problemi – l’un sistema interagire con l’altro. Quanto alle fonti di diritto interno, l’ordinamento italiano offre il c.d. Ruling internazionale, del quale si tratta poco oltre proprio per porlo in relazione con le c.d. Map Procedures.

(13) D.M. Ring, Inside the United States APA Program, in Proceedings of the In­ ternational Seminar on Harmonious Society & Tax Judicial Reform in China, PKU-UMICH Tax Law Forum (Peking University 2006), 557.


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2. La convenzione arbitrale 90/436/CEE del 23 luglio 1990. – La convenzione in parola è entrata in vigore per l’Italia il 1 gennaio 1995; il nostro paese è stato invero l’ultimo a ratificarla. Essa potrebbe costituire attuazione della norma di cui all’art.100 del Trattato UE che prevede direttive per il ravvicinamento delle disposizioni legislative aventi incidenza sul funzionamento del Mercato Comune, per la precisione, e non nell’art. 220 del medesimo testo normativo; è peraltro vero che la Convenzione è stata infine approvata in base all’art. 220 ridetto, che prevede (con tono più dimesso e generico) l’avvio da parte degli Stati di negoziati intesi a garantire la eliminazione della doppia imposizione. La corretta denominazione del testo è quella di “Convenzione per la eliminazione delle doppie imposizioni in relazione alla rettifica degli utili di imprese associate”. Di procedura arbitrale, in senso procedimentale, si parla pertanto soltanto nella titolazione della Sezione III, di cui fa parte l’art. 7 che prevede, nel corso della complessa procedura, l’intervento di una Commissione Consultiva (Advisory Commission) incaricata di esprimere il proprio parere (opinion) sulla eliminazione della doppia imposizione in questione. Sono previste quattro fasi, in successione, logicamente interrelate tra loro, per il raggiungimento del fine. La prima fase prevede una classica procedura amichevole che non si distingue sostanzialmente da quelle previste dal modello di convenzione OECD e dalla stragrande maggioranza delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni in vigore. La seconda fase prevede che, qualora le autorità competenti degli Stati manchino l’obiettivo di raggiungere un accordo che elimini la doppia imposizione entro due anni dalla data in cui è stata per la prima rappresentata ad una delle due Autorità competenti, devono porre in essere (letteralmente “shall set-up”) una Commissione Consultiva che deve rendere il proprio parere sull’eliminazione della doppia imposizione in questione. La Commissione, quindi è tenuta a rendere il parere non oltre i sei mesi dalla data in cui la questione è stata portata alla sua attenzione, come prevede espressamente l’art. 11 comma 1 della Convenzione. La terza fase prevede nuovamente una valutazione del problema da parte delle Autorità competenti che dovranno prendere una decisione che elimini la doppia imposizione sulla base dei principi previsti dall’art. 4; questo entro sei mesi dalla data in cui la Commissione Consultiva avrà reso il proprio parere, secondo quando indica l’art. 12 comma 1 della Convenzione).


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È previsto che le Autorità competenti degli Stati possano raggiungere una decisione che non sia conforme al parere reso dalla Commissione. La quarta fase prevede infine che, se non riescono a raggiungere un accordo, le Autorità competenti, debbano essere obbligate (letteralmente: “shall be obliged”) ad agire in accordo con il parere, (art. 12 comma 1 della Convenzione); sono quindi obbligate ad eliminare la doppia imposizione attuando quanto suggerito alla Commissione. L’obbligo di agire in base al parere, in mancanza di accordo fra le Amministrazioni, costituisce una fase separata da quella precedente in cui le Amministrazioni rinnovano il tentativo di accordo, potendo anche considerare il contenuto del parere, ed è quindi la fase quarta di questa complessa procedura che in qualche modo porta all’eliminazione della doppia imposizione denunziata e ritenuta tale dalle due Amministrazioni. Gli Stati sottoscrivendo la Convenzione hanno convenuto una vera e propria obbligazione di risultato avente ad oggetto l’eliminazione della doppia imposizione. Può quindi sostenersi che il contribuente abbia la sostanziale certezza che, ricorrendone le condizioni, il procedimento sarà iniziato e soprattutto alla sua conclusione la doppia imposizione sarà eliminata. Questa è una previsione sostanzialmente diversa da quella che emerge, sullo stesso problema, dall’art. 26 del Modello di Convenzione OECD relativo alla procedura amichevole. Il paragrafo 2 di detto articolo prevede che se l’Autorità competente alla quale il ricorso è stato presentato da parte di una impresa lo ritiene fondato e se non è in grado di giungere ad una soddisfacente soluzione, farà del suo meglio per regolare il caso per via di amichevole composizione con l’Autorità competente dell’altro Stato contraente. L’art. 6 comma 1 della Convenzione arbitrale, prevede invece che l’Autorità competente di una Paese, che abbia ricevuto la segnalazione di doppia imposizione, debba notificarla, (letteralmente: “shall notify”) tempestivamente, all’Autorità competente dell’altro Stato contraente, e, se il caso appare fondato e non può essere risolto in maniera soddisfacente dalla medesima Autorità, dovrà attivarsi per risolvere il caso tramite accordo con l’Autorità competente di qualsivoglia altro Stato contraente interessato, con l’obiettivo di eliminare la doppia imposizione sulla base dei principi enunciati nell’art. 4. Sia per quanto riguarda la procedura amichevole sia per quanto riguarda il procedimento previsto dalla Convenzione arbitrale, il punto in comune riguarda il fatto che l’Autorità competente al quale viene sottoposto un caso


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di doppia imposizione deve preliminarmente verificare se lo stesso parta da premesse di fatto e diritto non infondate. Questa è una ragionevole misura di salvaguardia per evitare che si intraprendano costose e impegnative procedure in casi in cui non ve ne siano i presupposti. L’impresa contribuente è dunque libera di agire azionando, in via alternativa tra loro, il complesso procedimento di cui si è appena detto, oppure gli strumenti offerti dalla propria legislazione nazionale. Quello che rileva è che, laddove la procedura in questione prevista dalla Convenzione sia richiesta, al termine del procedimento una soluzione che la elimini deve essere trovata, avendo il contribuente comunque un vero e proprio diritto alla eliminazione della doppia imposizione. 3. Il ruling internazionale quale “Apa Italian Version”: un confronto con le Mutual Agreements Procedure. – Nel contesto normativo sopra descritto è intervenuto l’art. 8 del D.L. n. 269 del 30 settembre 2003, che ha previsto la facoltà, per le imprese che esercitano attività multinazionale, di avere accesso alla procedura definite in rubrica di “ruling” internazionale (14). Doveva, nelle premesse del Legislatore, trattarsi un nuovo istituto volto da un lato a prevenire conflitti tra Amministrazione Finanziaria e contribuenti, e dall’altro a ridurre i casi di doppia imposizione (15). Detto istituto opera quale strumento la cui funzione è la corretta individuazione dei criteri per la determinazione dei prezzi di trasferimento tra società ubicate in Paesi diversi e, ciò, allo scopo di prevenire eventuali contenziosi derivanti dal disconoscimento, in sede accertativa, dei criteri adoperati per quantificare i prezzi di trasferimento con l´estero.

(14) Per i primi scritti sul tema leggasi P. Adonnino, Considerazioni in tema di ruling internazionale, in Rivista di diritto Tributario, 2004, 57-73; C. Romano, Advance Tax Rulings and Principles of law. Towards a European Tax Rulings System, Amsterdam, 2002, 193-204; Russo, What’s going on. New Advance Rulings Regime, in European Taxation, 2001, 399-403, ed anche G. Pezzato, I riflessi del ruling internazionale sull’attività di verifica fiscale dell’Amministrazione finanziaria, in Fisco, 2004, 1-8; G. Gaffuri, Il ruling internazionale, in Rassegna Tributaria, 2004, 488-504; M. Lorenzetti, Prime valutazioni sul ruling internazionale, in Corriere Tributario, 2004, 32-36. (15) Da ultimo anche la Cass. sez. trib., 30 marzo 2001, n. 4760, in Foro it., 2001, I, 1853, ha sottolineato come “uno Stato moderno che operi secondo criteri di efficienza e di economia, che non ha timore di porsi su un piano di parità con il cittadino (non più suddito), tanto da formalizzarne e tutelarne i diritti inviolabili (almeno in linea di principio) nei confronti del fisco in un apposito Statuto (legge n. 212/2000) (...)”.


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Giova precisare che in nessuna parte dell’articolato normativo di cui sopra si fa rimando a previsioni o principi di cui alla precedentemente citata convenzione comunitaria. È bene poi osservare che si tratta di uno strumento la cui efficacia non è quella del semplice parere interpretativo, bensì di un atto, questa natura di accordo raggiunto tra contribuente e Amministrazione, effettivamente vincolante per le parti, per il periodo d’imposta nel corso del quale è concluso e per i due successivi a condizione che non mutino i presupposti e le circostanze di fatto e di diritto sulla scorta delle quali è stato adottato. Se da un lato quindi non si ritrova alcuna vicinanza con la disciplina convenzionale di cui al precedente paragrafo, d’altro canto l’istituto pare creato prendendo spunto da strumenti simili già esistenti in altri Paesi quali proprio gli APA (16). La dottrina statunitense (17), che esamina gli strumenti ridetti da decenni,

(16) Si veda sul tema N. Field, Effective APA Oversight, in Tax Analyst, Jan 16, 2004, secondo il quale “the APA process has characteristics that demand regular, methodical, detailed oversight: - it is a process based on specialized, detailed, often esoteric economic and business information, generally known only to a select few. - it is a process conducted largely in secret, because it involves confidential information regarding specific taxpayers. - it is a process requiring a great deal of judgment and creativity to produce a result, and IRS officials therefore possess a substantial degree of discretion when handling APAs”. Nel sistema Statunitense, l’ Internal Revenue Code (IRC) alla sec. 482 prevede che l’ Amministrazione Finanziaria “may distribute, apportion, or allocate gross income, deductions, credits, or allowances between or among two or more commonly controlled businesses if necessary to reflect clearly the income of such businesses. Under the regulations, the standard to be applied in determining the true taxable income of a controlled business is that of a business dealing at arm’s length with an unrelated business”. Il c.d. arm’s length standard è stato adottato dalla comunità internazionale, come dimostra il testo OECD, Transfer pricing guidelines for Multinational Entreprises and Tax Administrators (1995). Il programma APA è stato concepito per risolvere contrasti e conflitti attuale e potenziali riguardo la determinazione delle “transfer pricing disputes in a principled, cooperative manner, as an alternative to the traditional examination process”. Così IRS Announcement 2003, 19 in www.lexisnexis.com/lawschool, research task “trasfer pricing”. (17) D.M. Ring, Inside the United States APA Program, in Proceedings of the In­ ternational Seminar on Harmonious Society & Tax Judicial Reform in China & PKU-UMICH Tax Law Forum (Peking University 2006), at 557. La studiosa qui citata descrive il sistema degli APA come segue: “in a bold move in the early 1990s, the United States led its trading partners toward a new model of advance dispute resolution for transfer pricing, the APA program, which relies on a backbone of familiar mechanism complemented by some novel features. The APA process is an alternative to the standard taxpayer path of doing the transactions, filing a return, facing audit (some level of audit is more likely with larger taxpayers),


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insegna come essi consentano di evitare il ricorso ai metodi tradizionalmente utilizzati dall’Amministrazione finanziaria e conosciuti dal contribuente. I metodi descritti nelle Linee Guida OECD da utilizzare per applicare il principio di libera concorrenza alle transazioni infragruppo sono suddivisi in due principali gruppi: il primo comprende i c.d. “metodi tradizionali” basati sulla transazione in esame, fra i quali il metodo del confronto del prezzo (Comparable Uncontrolled Price o “CUP”), il metodo del prezzo di rivendita (Resale Minus o “RM”) e il metodo del costo maggiorato (Costo Plus o “CP”). Il secondo comprende i “metodi reddituali”, basati sull’utile della transazione, tra cui il metodo del margine netto della transazione (Transactional Net Margin Method o “TNMM”) e il metodo della ripartizione dei profitti (PROFIT SPLIT). Le Linee Guida OECD stabiliscono che occorre selezionare, tra quelli previsti, il metodo “atto a fornire la valutazione migliore per un prezzo di libera concorrenza”. In coerenza con questo obiettivo, le Linee Guida OECD, nella versione del Luglio 2010, hanno ridotto la rilevanza della cosiddetta “gerarchia tra i metodi” di cui, prima dell’ultimo aggiornamento delle Linee Guida stesse, si doveva tenere rigidamente conto nella selezione dei metodi (18).

and, finally, possible appeal with settlement or litigation. The taxpayer initiates the APA process by approaching the Service (and typically the corresponding tax authority in the other relevant jurisdiction) before engaging in the related party transactions potentially at issue. At this point, the taxpayer voluntarily provides detailed information to the government regarding its business activities, plans, competitors, market conditions, and prior tax circumstances. The critical piece of this presentation is the taxpayer’s explanation of its planned pricing methods. Following discussion and negotiation, the parties hopefully reach agreement on how the taxpayer should handle the pricing of these anticipated related transactions. This understanding is embodied in the [confidential] APA agreement which typically runs for three years.” Si legga per quanto appena citato – sempre della stessa autrice -, On the Frontier of Procedural Innovation: Advance Pricing Agreements and the Struggle to Allocate Income for Cross Border Taxation, 21 Michigan Journal of International Law, 2000. Per un’analisi globale dell’APA process, si veda anche J.M. Caldero, Advance Pricing Agreements. A Global Analysis, Kluwer Law International, 1998. (18) R. Cordeiro Guerra, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Rivista di diritto tributario, I, 2000, 421-442; M. D’avossa, Contenuti obbligatori della documentazione nel transfer pricing, in Fiscalità e commercio internazionale, II, 2011, 5-9; E. Della Valle, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, in Rivista di diritto tributario, I, 2009, 133-179; G. Maisto, La disciplina dei prezzi di trasferimento infragruppo, in Materiali di diritto tributario internazionale, a cura di C. Sacchetto, L. Alemanno, Milano, 2002, 257- 284; G. Maisto, OECD Revision of chapter I-III and IX of the Transfer Pricing Guidelines: some comments on hierarchy of methods and re-characterization of actual transactions undertaken, in The 2010 OECD Updates: Model Tax Convention & Transfer Pricing Guidelines – A critical review, a cura di D. Weber, S. Van Weeghel, Milano, 2011, 172-178.


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Tali metodi portano a risultati non omogenei a seconda dei casi concreti ai quali sono applicati; richiedono persone altamente specializzate per essere adoperati, e infine presuppongono una cooperazione tra amministrazioni e contribuenti di Stati diversi che è difficile da realizzare. Nel caso italiano, inoltre, il ruling non si è limitato al regime dei prezzi di trasferimento, ma è stato esteso fino a ricomprendere anche la determinazione degli ammontari di interessi, le royalties ed i dividendi trasferiti all’interno del gruppo di impresa multinazionale. Più in generale, l’istituto è utilizzabile per qualsiasi problema di determinazione consensuale tra Erario e contribuente del debito tributario in rapporti infragruppo cross-border che coinvolga le imprese con attività internazionale, sul modello pare degli spagnoli acuerdos previos de valoracion previsti dalla ley de derechos y garantìas de los contribuyentes del 1998. I contribuenti beneficiari, e cioè “le imprese con attività internazionale”, sono definite dal ridetto provvedimento domestico quali imprese residenti, ai sensi delle normative in vigore sulle imposte sui redditi, nel territorio dello Stato che, in via alternativa o congiunta: a) operano con società non residenti in Italia che direttamente o indirettamente controllano l’impresa residente, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa residente nel territorio dello Stato (in pratica si tratta delle c.a. sibling companies, o imprese sorelle, sia pur nell’assenza di un espresso richiamo all’art. 2359 c.c.); b) il cui patrimonio, fondo o capitale sia partecipato da non residenti, o partecipi in quello di non residenti; c) abbiano corrisposto o percepito a (o da) non residenti dei dividendi, interessi o royalties. Sono altresì ammesse alla procedura tutte le imprese non residenti che hanno una stabile organizzazione sul territorio dello Stato. Venendo alla determinazione del campo di applicazione della procedura in esame, va detto che essa si applica alle svariate materie tipicamente connotate di internazionalità, o meglio a quegli elementi tipicamente costitutivi, anche se non esclusivi, del reddito dell’impresa multinazionale, ancorché non si escludano altri elementi che concorrono alla formazione del medesimo reddito. Tal previsione normativa si colloca – come è noto – in un contesto normativo in cui ormai abbondano strumenti di natura pattizia per definire i rapporti tra l’Erario ed il contribuente. Peraltro, è questo il solo istituto espressamente dedicato alle fattispecie connotate espressamente e tipicamente dalla presenza di operazioni cross border.


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La prima considerazione che si può fare è quindi una mera constatazione: il legislatore trova poco efficienti gli strumenti in vigore e ne introduce di nuovi senza peraltro minimamente tenere in adeguato conto né il panorama comunitario né le indicazioni dell’OECD. Tale affermazione non è priva di una contraddizione in radice: non è dato rinvenire alcun atto legislativo che disponga l’abrogazione di strumenti siffatti, abrogazione che sarebbe logico aspettarsi ove tali istituti fossero da censurare per la loro inefficienza, vetustà, inutilità o comunque per altre ragioni non fossero ritenuti idonei alla funzione assegnata in origine. La ragione di esistenza del nuovo strumento – che per ragioni di logica e razionalità del sistema deve pur esistere – pare fondarsi allora sulla sua specialità: si tratta di una via preferenziale di regolazione dei rapporti tributari riservata a contribuenti “qualificati”, la cui attività è “internazionale”. È dunque necessario, in assenza di ulteriori specificazioni sui requisiti soggettivi richiesti per accedere allo strumento in oggetto, verificare quando in concreto sussistano tali requisiti. La norma qui commentata consente unicamente la stipula dell’accordo, senza subordinarlo all’esistenza di un contesto di difficoltà interpretativa, o di altre complicazioni tecniche la cui assenza, invece, renderebbe inammissibile l’interpello previsto dal decreto appena indicato. A conferma dell’importanza del procedimento, per la costruzione di relazioni solide tra contribuente e amministrazione, nell’interesse dell’uno a vedere consolidato il proprio investimento, si noti che ove si tratti di impresa multinazionale, si precisa che “qualsiasi atto, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio, emanato in difformità dalla risposta, anche se desunta ai sensi del periodo precedente, è nullo”. L’attuale nuova disciplina presenta quindi uno iato netto con il passato: si parla espressamente – al comma secondo dell’art. 8 del D.L. n. 269 del 30 settembre 2003 – di un “accordo” tra Fisco e contribuente; tale termine ricorda letteralmente l’art. 1321 c.c., secondo il quale il contratto è “l’accordo tra due o più persone per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Senza dubbio, trattandosi di un accorto assolutamente facoltativo, l’accesso al quale risiede in un atto di mera volontà, presenta una forte componente tipicamente contrattuale. Depone in tal senso anche l’impiego del vocabolo “accordo”: esso giustifica una considerazione terminologica avente come comparazione il vo-


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cabolo analogamente impiegato dall’ordinamento statunitense: “an APA is a binding contract between the IRS and a taxpayer by which the IRS agrees not to seek a transfer pricing adjustment under IRC § 482 for a covered transaction if the taxpayer files its tax return for a covered year consistent with the agreed transfer pricing method (TPM). In 2003, the IRS and taxpayers executed 58 APAs and amended 4 APAs. …. The APA process is voluntary” (19). Tale definizione è più sintetica di quella contenuta nella nuova recente versione delle OECD Transfer Pricing Guidelines. Qui lo si definisce come “an arrangement that determines, in advance of controlled transactions, an appropriate set of criteria (e.g. method, comparables and appropriate adjustments thereto, critical assumptions as to future events) for the determination of the transfer pricing for those transactions over a fixed period of time. An APA is formally initiated by a taxpayer and requires negotiations between the taxpayer, one or more associated enterprises, and one or more tax administrations. APAs are intended to supplement the traditional administrative, judicial, and treaty mechanisms for resolving transfer pricing issues. They may be most useful when traditional mechanisms fail or are difficult to apply” (20). Si noti la sottolineatura posta sia sulla volontarietà del vincolo, da un lato, e sulla centralità che assumono sia le rinunce reciproche al ricorso ad atti contro l’accordo, sia il contenuto dedotto nell’accordo, qui sintetizzato nel

(19) Altra definizione, tratta dal principale strumento definitorio di partenza, il Black’ s Law Dictionary, 2004 West, a Thomson business recita: “ADVANCE PRICING AGREEMENT. Tax. A usu. binding arrangement made between a multinational company and one or more national tax authorities about what method the company will use to calculate transfer prices. The agreement’s purpose is to reduce or eliminate double taxation. — Abbr. APA. bilateral advance pricing agreement. An advance pricing agreement made between a company and two tax authorities. multilateral advance pricing agreement. An advance pricing agreement made between a company and more than two tax authorities. unilateral advance pricing agreement. An advance pricing agreement made between a company and one tax authority. This does not necessarily allow a company to avoid double taxation. A tax authority that is not a party to the agreement is not bound by the transfer-pricing method specified in the agreement”. Più sintetica e meno articolata la definizione del non meno noto Westin Tax Law dictionary “a ruling issued in advance of a transaction, which ruling approves related party pricing plans. This can be used to revolve sec. 482 issues before they emerge”. (20) OECD Transfer pricing guidelines 2009, (Amended on 16 July 2009). Sulla rilevanza e collocazione tra le fonti delle ridette Guidelines, leggasi J. Calderon, The OECD transfer pricing guidelines as a Source of Tax LAw: il globalization reaching the tax law?, in Intertax, vol. 35 n. 1, 2007. Si veda in dettaglio, sul contenuto degli APA, il testo OECD Guidelines, Report of the OECD Committee on Fiscal Affairs, Paris, 2010, IV, 168-169.


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metodo utilizzato per la determinazione in quel caso concreto del valore normale, sia infine la chiara alternatività rispetto ai metodi “tradizionali” per la determinazione del valore normale. Addirittura, tale alternatività è comprensiva anche degli ordinari rimedi amministrativi tradizionali, come alla via giurisdizionale, e ai “treaty mechanism”, vale a dire alla procedura di cui all’art. 25 del Modello di Convenzione OECD. L’art. 25, paragrafo 1, del Modello OECD statuisce che se una “persona” reputa che si sia realizzata, o si possa realizzare, nei suoi confronti una imposizione non conforme alla Convenzione, essa può presentare il caso all’autorità competente del proprio Stato di residenza o, nell’ipotesi di cui all’articolo 24 (non discriminazione), paragrafo 1, dello stesso Modello OECD, all’autorità competente dello Stato di cui possiede la nazionalità. Osservando ancora l’ordinamento statunitense, che ha una certa tradizione nell’applicazione dello strumento appena citato, si deve notare come esso sia del tutto variabile quanto alle proprie previsioni da trattato a trattato. Nella convenzione tra Stati Uniti e Germania, ad esempio, esso viene a esser talmente preferenziale (21) da consentirne l’esperimento anche e contro le eventuali preclusioni processuali previste dai singoli ordinamenti. Sul punto si tornerà quando esamineremo le relazioni individuate dalla Corte di cassazione italiana tra la procedura arbitrale convenzionale dei trattati internazionali (espressamente riferita alla Convenzione del 1990) e il contenzioso ordinario. Sempre esaminando il sistema Statunitense, notiamo come il procedimento venga ivi disciplinato assai partitamente e minuziosamente nel suo iter: (1) application, vale a dire istanza del contribuente che dà impulso alla procedura;

(21) Esso prevede letteralmente: “where a party considers that the actions of one or both of the Contracting States result or will result for him in taxation not in accordance with the provisions of this Convention, he may, irrespective of the remedies provided by the domestic law of those States, present his case to the competent authority of the Contracting State in which he is resident or, if his case comes under paragraph 1 of Article 24 (non-discrimination), to that of the Contracting State of which he is a national. The case must be presented within four years from the notification of the assessment giving rise to double taxation or to taxation not in accordance with the provisions of this Convention. 2. The Competent Authority shall endeavour, if the objection appears to it to be justified and if it is not itself able to arrive at a satisfactory solution, to resolve the case by mutual agreement with the competent authority of the other Contracting State, with a view to the avoidance of taxation which is not in accordance with this Convention. Any agreement reached shall be implemented notwithstanding the time limits or other procedural limitations in the domestic law of the Contracting States”.


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(2) due diligence, quindi verifica dei dati contabili e delle valutazioni ivi eseguite; (3) analysis, quindi esame della fattispecie con riferimento alla scelta del metodo e della sua applicazione; (4) discussion and agreement, vale a dire scambio di valutazioni e conclusioni al fine del raggiungimento di un punto condiviso; (5) drafting, review, and execution (22), redazione del testo da sottoscrivere, revisione, ed esecuzione di quanto ivi concordato. L’accordo “de quo” nel sistema italiano si conclude nondimeno a seguito di una procedura il cui dipanarsi non è peraltro descritto nella norma istitutiva ma in successive norme regolamentari sottordinate: il comma 5 di detto art. 8, inoltre, prevede l’emanazione di un provvedimento attuativo da parte dell’Agenzia delle Entrate, provvedimento che, infatti, è stato pubblicato in data 23 Luglio 2004. L’istanza può avere ad oggetto alternativamente: a) la preventiva definizione, in contraddittorio, dei metodi di calcolo del valore normale delle operazioni di cui al comma 7 dell’art. 110 del t.u.i.r. ante riforma (23). L’utilizzo dell’aggettivo “preventiva” parrebbe qui indicare che l’istanza debba necessariamente essere introdotta prima della realizzazione delle transazioni; peraltro, non si ritrova traccia di tale interpretazione né nella norma né nella logica stessa dell’istituto che dovrebbe dare, fra l’altro, maggiore tranquillità proprio a quei gruppi che, perseguendo delle politiche

(22) Così IRS Announcemente 2003, 19 in www.lexisnexis.com/lawschool, research task “trasfert pricing”. (23) Si veda in tema la Risoluzione n.46 del 16 marzo 2004 adottata dall’Agenzia delle Entrate a seguito di un’istanza di interpello presentata a norma dell’art.11, comma 3, della Legge n.413/’91, in www.finanze.it. La disposizione dell’ art. 110 comma 7 è sostanzialmente iterativa dell’ art. 76 comma 5-bis del previdente t.u.i.r., e prevede: “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa, sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali «procedure amichevoli» previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti”.


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consolidate e documentate di transfer price interno, tendono ad avere – anche per certezza nei propri bilanci e per la determinazione del dividendo da erogare ai propri azionisti magari in mercati ufficiali – un assenso netto da parte dell’Amministrazione. b) l’erogazione o la percezione di dividendi, interessi o royalties a (o da) soggetti non residenti; c) l’erogazione o la percezione di altri componenti reddituali (a o da) soggetti non residenti; d) l’attribuzione di utili o perdite alla stabile organizzazione in un altro Stato di un’impresa residente ovvero alla stabile organizzazione in Italia di un soggetto non residente. La procedura prende le mosse con l’invio al competente ufficio di un’apposita istanza, che deve riportare tutti i dati dell’istante, la documentazione che comprovi i requisiti soggettivi di ammissibilità e l’indicazione dell’oggetto del ruling oltre alla firma del legale rappresentante del contribuente. Entro 30 giorni dalla ricezione, l’Agenzia delle Entrate deve comunicare l’inammissibilità dell’istanza se viene ravvisata una carenza di elementi essenziali a meno che non sia possibile desumerli da un’ulteriore istruttoria. In tal caso, il termine per la dichiarazione di inammissibilità viene sospeso per il tempo necessario al completamento della stessa. Se l’istanza viene ritenuta ammissibile, l’Agenzia invita il contribuente a comparire, tramite il proprio legale rappresentante pro-tempore, per: a) verificare le informazioni fornite; b) richiedere eventualmente della nuova documentazione; c) fissare i termini del contraddittorio (che deve concludersi entro 180 giorni dal ricevimento dell’istanza). Si noti la particolare ampiezza dello spatium deliberandi, necessaria ed opportuna alla luce della complessità della situazione e delle valutazioni da compiersi. Nel corso del procedimento, funzionari ed impiegati dell’Agenzia possono accedere presso le sedi dell’impresa, o della stabile organizzazione della società non residente al fine di prendere visione di tutti gli elementi utili ai fini istruttori. Il provvedimento direttoriale prevede che, se per l’istruttoria è necessario attivare degli strumenti di cooperazione internazionale presso Amministrazioni fiscali estere, il termine della procedura deve essere ampliato per un periodo di tempo pari a quello necessario per ottenere le informazioni delle stesse. Quest’ultimo aspetto, al tempo stesso, rischia nei fatti di tradursi in un


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aspetto negativo: si rischia di dilatare in maniera imprevedibile (anche perché manca nella disposizione la previsione di un termine massimo) i tempi di una procedura che dovrebbe essere, data la finalità dell’istituto e a dispetto della natura dell’oggetto (come si è detto assai tecnica e delicata), molto rapida. E comunque nulla viene detto con riferimento alle conseguenze del mancato rispetto del termine dei 180 giorni. Infine, la procedura si perfeziona tramite la sottoscrizione congiunta del responsabile dell’ufficio competente dell’Agenzia delle Entrate ed il legale rappresentante dell’impresa di un accordo che definisce i criteri di calcolo del valore normale delle transazioni summenzionate o i criteri di applicazione della norma negli altri casi. L’accordo è efficace per il periodo d’imposta nel corso del quale è stipulato e per i due successivi salvo che non vi siano dei mutamenti nelle circostanze di fatto e di diritto rilevanti al fine dell’applicazione dell’accordo stesso, come prevede l’art. 8, comma 2, D.L. n. 269 del 2003. L’esigenza di monitorare le condizioni in oggetto, dedotte nell’accordo o recepite dal medesimo anche implicitamente, purché necessariamente, quali premesse anche logiche del medesimo, rende implicita la necessità di periodico aggiornamento, da parte del contribuente, e della documentazione e dei fatti o comportamenti che possano produrre effetti risolutori dell’accordo. Nel periodo di cui sopra, potrà altresì l’Agenzia accedere ai locali dell’impresa per verificare direttamente la veridicità dei dati forniti. Se in seguito a questa attività di verifica l’Agenzia riscontra delle violazioni totali o parziali dell’accordo raggiunto, essa può, con atto motivato, darne comunicazione all’impresa, la quale ha 30 giorni da detta notifica per far pervenire delle memorie difensive. Se queste ultime non pervengono entro il termine assegnato, o sono considerate non idonee a smentire la violazione denunciata l’Amministrazione considera l’accordo risolto, o parzialmente risolto, a decorrere dalla data in cui risulta accertata la situazione che ha provocato la violazione. Ove non sia possibile determinare una data precisa resta dubbio se gli effetti risolutori si producano dalla data di scoperta del quid novi, come potrebbe darsi in caso di risoluzione ex art. 1460 c.c., o viceversa operino ex tunc, dalla data di stipula dell’accordo medesimo. L’accordo può essere peraltro modificato consensualmente sia su invito dell’Agenzia che su richiesta del contribuente qualora siano mutate le condizioni di fatto o di diritto a fondamento dell’accordo stesso, e vi sia ovvia-


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mente accordo delle parti alla sua novazione. Lo stesso può essere rinnovato alla scadenza previa richiesta dell’impresa, nel rispetto del termine di 90 giorni prima della scadenza, con presentazione di una apposita istanza. L’Agenzia comunica in questo caso, almeno 15 giorni prima della scadenza dell’accordo, il proprio assenso al rinnovo oppure il rigetto della proposta, rigetto che è soggetto ad obbligo di motivazione. Non è dato comprendere a fondo quali tutele abbia il contribuente contro il provvedimento di rigetto. 4. Problemi applicativi in tema di “ruling”. – La nuova disposizione, nel ritenere che l’accordo qui descritto sia vincolante sino a che non si producano modificazioni di fatto o di diritto, urta contro alcune considerazioni che seguono e rischia di far diventare l’istituto in esame di difficile applicazione. È ben vero che interpretandosi a contrario tal norma si dovrebbe fissare la validità ed inoppugnabilità dell’accordo sino a tali modificazioni; con il risultato che nessuna parte potrebbe disconoscere sino ad allora quanto a suo tempo stabilito. È altrettanto vero, però, che ogni singola modifica, anche marginale e di dettaglio, intervenuta con riferimento alla normativa che regola la fattispecie, così come a circostanze di fatto, anche poco o per nulla significative, potrebbe consentire – anche maliziosamente, a fini di legittimare la risoluzione dell’accordo – ad uno dei contraenti di ritenere non più efficace il pactum. Per finalità, evidentemente, anche meramente strumentali. Per la verità, il testo richiede anche che i mutamenti di fatto e di diritto siano “rilevanti al fine delle predette metodologie e risultanti dall’accordo sottoscritto dai contribuenti”. Quindi, devono sussistere i conseguenti elementi di rilevanza delle circostanza (vale a dire di determinante influenza, verrebbe da sostenere), e di concreta deduzione delle stesse nell’accordo. È lecito chiedersi se si tratta o meno di una trasposizione in materia tributaria del concetto di “gravità dell’inadempimento” di origine e disciplina civilistica. Certo è che in tal caso sarebbe necessario che le circostanze fossero state poste espressamente a fondamento dell’accordo, che vale quindi unicamente rebus sic stantibus. Il rischio – specie per quanto riguarda accordi aventi per oggetto i prezzi


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di trasferimento, che si fondano proprio su “metodologie” (24) – è che ogni volta si debba discutere di tutti questi aspetti, ad ogni mutamento delle metodologie la cui rapida evoluzione, ai fini di adattarsi al progresso tecnologico ed alle strategie delle imprese, è fatto indiscutibile. Ancora, in ordine alla vincolatività del patto confezionato a seguito della procedura, si rammenti come, già con riferimento al parere del Comitato consultivo, parte della dottrina ha sostenuto che lo stesso non sia così stringente. Non manca, infatti, chi ritiene in dottrina – e con argomenti di pregio – che i pareri non siano vincolanti né per l’Amministrazione finanziaria, né per i contribuenti (25). Precisamente la tesi sopra indicata viene sostenuta con alcune argomentazioni che si basano soprattutto sulle considerazioni in forza delle quali il Comitato è stato qualificato organo consultivo, i cui provvedimenti sono definiti non a caso “pareri”. Anche se la tradizionale dottrina amministrativa ha individuato la categoria di pareri vincolanti, “confutando la risalente opinione secondo cui il parere non potrebbe avere contenuto decisorio, è pure vero: in primis, che il carattere vincolante deve essere oggetto di espressa attribuzione, rappresentando una deviazione rispetto a quello di consiglio o suggerimento, che connota di regola gli atti costituenti espressione di una funzione consultiva; in secundis, che il carattere vincolante si adatta ai pareri obbligatori (ai pareri cioè che l’organo di amministrazione attiva è obbligato a richiedere), giacché se questo può provvedere senza avere sentito l’organo consultivo, significa che gli si riconosce la capacità di determinare in modo autonomo il contenuto dei propri atti, e se gli si conosce tale capacità, non si vede il motivo per obbligarlo ad adeguarsi alle opinioni o ai giudizi espressi dall’organo consultivo eventualmente interpellato. Nel caso di specie – si osserverà facilmente – non solo difetta una norma che esplicitamente conferisca carattere vincolante ai pareri del comitato, ma questi ultimi non possono neppure essere richiesti dagli organi di amministrazione attiva” (26). Non è mancato chi (27), ha definito “sfuggente” l’efficacia dei pareri, sot-

(24) Si legga OECD, Transfer pricing guidelines for multinational entreprises and tax administrations, 2001. (25) In questo senso G. Zizzo, Abuso del diritto, scopo di risparmio di imposta e collegamento negoziale, in Rass. Trib., 2008, 145. (26) G. Zizzo, op.cit., pag.145. (27) Così C. Consolo, I “pareri” del comitato per l’applicazione della normativa antie-


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tolineando la necessità che l’organo incaricato di fornire i pareri sia garanzia non solo di massima autorevolezza, ma anche di indipendenza rispetto alla Amministrazione attiva. Sotto questo profilo, evidentemente, la nuova norma si pone in netto contrasto con tali osservazioni: l’accordo è concluso direttamente tra Amministrazione accertatrice e contribuente, anzi proprio tra Ufficio accertatore e possibile contribuente sottoposto ad accertamento. Senza dubbio risulta del tutto mancante il collegamento con della disposizione del 2003 con l’unico riferimento normativo espresso alle procedure amichevoli, che si ritrova al comma 7, secondo periodo, dell’art. 110 (norme generali sulle valutazioni) del Testo Unico delle Imposte sui Redditi 22 dicembre 1986, n.917, laddove si afferma che le regole di determinazione a valore normale si applicano “anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali “procedure amichevoli” previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi”. Volendo tentare una ulteriore riflessione, pare che il legislatore abbia nei fatti tentato, sia pur in modo del tutto asistematico, di introdurre nel nostro ordinamento domestico uno strumento paragonabile agli APA previsti nell’ordinamento degli Stati Uniti d’America, e per alcuni aspetti anche in altri ordinamenti. Il risultato, a un primo esame, è deludente: invero, la disciplina è troppo sintetica per consentire all’interprete di formulare osservazioni equilibrate e complete; certo, non paiono affrontati – e non è aspetto da ignorarsi – una serie di aspetti fondamentali nell’applicazione efficace degli APA (28). Tornando alla definizione dell’OECD, essi consistono in “an arrangement that determines, in advance of controlled transactions, an appropriate set of criteria (e.g. method, comparables and appropriate adjustments thereto, and critical assumptions as to future events) for the determination of the transfer pricing for those transactions over a fixed period of time. An APA is formally initiated by a taxpayer and requires negotiations between the taxpayer, one or more associated enterprises, and one or more tax administrations” (29).

lusiva e la loro sfuggente efficacia, in Dir. e prat. Trib. 1993, 951 ss. (28) Critico sull’ istituto anche J. Monsenego, The italian international ruling procedure: towards a complete Apa programme? Some thoughts based on the French example, in Dir. E prat. Trib. Int. n. 3-07, 881. (29) OECD guidelines, 4.124: “By the same token, an APA has been defined by the United States as an agreement between the tax authority and the taxpayer on the transfer pricing


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Inoltre, come nota la dottrina internazionale “the central difference between bilateral and multilateral APAs is the number of players involved (in addition to the taxpayer) in the transfer pricing dispute. In bilateral APAs, two competent authorities are involved, whereas in multilateral APAs that figure rises to three or more competent authorities” (30). La sensazione è che il legislatore abbia voluto fornire alle imprese ed all’Amministrazione una via di fuga da situazioni obbiettivamente assai delicate; si intendeva solo render possibile, per ambedue le parti, definire pattiziamente (con minor dispendio di energie e denaro pubblico e privato) vicende la cui gestione giudiziaria, anche in termini di tempi, oltre che di alea della lite, non è conveniente addossarsi (31). Nulla viene invero previsto con riferimento alla partecipazione dell’altra Amministrazione finanziaria, e men che meno riguardo la possibilità che le Amministrazioni “altre” siano più di una. È pure del tutto assente – nel dettato normativo – ogni necessario approfondimento riguardo le conseguenze applicative più di lungo periodo; inoltre non si è considerato il sistema normativo e culturale nel quale l’istituto è stato brutalmente calato dall’alto. Ne risentirà senza dubbio la qualità delle professionalità, sempre orientate a un “fisco negoziato” ove la semplificazione, meta sempre legittima e commendevole da perseguire, rischia –se eccessiva, oltre il possibile- di diventare brutale appiattimento dei problemi, loro sottovalutazione, quindi risoluzione superficiale e grossolana. Risoluzione peraltro sottratta in sostanza a ogni tipo di controllo giurisdizionale, quindi irrimediabilmente immodificabile.

method. The APA can be applied to any apportionment or allocation of income, deductions, credits, or allowances between two or more organizations, trades, or businesses owned or controlled (directly or indirectly) by the same interests”. Si legga section 1 of the U.S. Rev. Proc. 96-53, IRB CB 96-49, December 2, 1996. Analoghe definizioni si trovano in altri Stati quali Australia (section 10 of the ATO Taxation Ruling 95/23, on APAs) e Canada (sections 3 and 4 Revenue Canada Information Circular Number 94-4)). Si veda J.M. Calderon, Advance Pricing Agreements. A Global Analysis, Kluwer Law International, 1998. (30) Così E.A. Baistrocchi, Transfer Pricing in the 21st Century: A Proposal for both Developed and Developing Countries, Berkeley Program in Law & Economics Latin American and Caribbean Law and Economics Association (ALACDE) Annual Papers (University of California, Berkeley), paper n. 20, 2005, 10. (31) Sostiene decisamente la natura contrattuale dell’accordo tra le parti negli APA, in generale, T. Rosembuj, La transacción tributaria: discrecionalidad y actos de consenso, Barcelona, 2000, 37.


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Possono pertanto essere utili le indicazioni delle norme internazionali; di tali esperienze pare davvero difficile trovare influenza nella disposizione introduttiva del Ruling interazionale qui commentata. La dottrina internazionale ha osservato da tempo come “the main inconveniences of the mutual agreement procedure, pointed out both by the commentators (32) and the international organizations, in particular by the International Fiscal Association (IFA), can be summarized as follows: 1) the competent authorities have no obligation to reach an agreement but only to communicate with each other and negotiate in order to clarify the interpretative dispute” (33). Si segnala, sotto questo profilo, il rischio che – al di là delle dichiarazioni di principio, sempre altisonanti e condivisibili – la soluzione del caso concreto non sia per nulla garantita, vigente il principio di cui sopra, dato che ciò che si richiede agli Stati (o meglio, alle Amministrazioni Finanziarie) non è altro che fare del proprio meglio. Si tratta in questi casi di una sorta di obbligazione di mezzi, non certo di risultato, il cui inadempimento lascia in ogni modo del tutto sprovvisto di tutela il contribuente (34). A tale proposito, il Commentario OECD all’art. 25 (par. 37) espressamente chiarisce che il paragrafo 2 senza dubbio comporta un dovere di trattare; è altrettanto vero che per quanto attiene al raggiungimento del mutuo accordo a mezzo della procedura, le autorità competenti hanno soltanto l’obbligo di fare del loro meglio e non quello di raggiungere un risultato.

(32) Si leggano OECD 1984 Report on Mutual Agreement Procedure, Paras. 39 and 40; J.F. Avery et al., The legal nature of the mutual agreement under the OECD Model Convention (I), British Tax Review (1979), 337; C. Palao Taboada, El procedimiento amistoso en los convenios para evitar la doble imposicione, 16 Hacienda P.blica Espa.ola (1972), 327; Goldberg, Competent Authority, 40 Bulletin for International Fiscal Documentation 10 (1986), 433; A.A. Skaar, The legal nature of mutual agreements under tax treaties, 5 Tax Notes International 26 (1992), 1441-1450; P. Baker, Double taxation conventions and international tax law, second edition, London, 1994, 420; R. Casero Barron, La interpretacion en Derecho espanol de los tratados internacionales para evitar la doble imposicion. El papel del Consejo de Estado. Propuesta revitalizante o regeneracionistao, (I), Carta Tributaria 288 (1998), 2; T. How Teck, The Mutual Agreement Procedure Article in tax treaties Singapores perspective, Intertax 5 (2000), 210. (33) IFA, Cahiers de droit fiscal international, Vol. LXVIa, (34) Ben può dirsi che le Autorità competenti hanno “the life of the conventions in their hands, whether united or divided”. In tema Gest, Tixier and Kerogues, Droit Fiscal International (Paris: Librairies Techniques, 1979), 190.


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Proprio per evitare situazioni di stallo, la modifica introdotta nel 2008 nel testo dell’articolo 25 del Modello OECD, ora prevede, al par. 5, una fase arbitrale obbligatoria in esito al mancato accordo, entro due anni, tra i due Stati in sede di procedura amichevole. Il nuovo par. 5 dell’art. 25 è applicabile a condizione che a livello bilaterale venga negoziato (o rinegoziato) il suo inserimento nelle nuove (o vigenti) Convenzioni per evitare le doppie imposizioni. Tanto dipende dalla volontà negoziale degli Stati, che possono preferire di introdurre una simile clausola nelle Convenzioni stipulate con determinati Stati partner piuttosto che con altri, sulla base di valutazioni di varia natura. Non mancano naturalmente indicazioni a ogni livello volte a sostenere “politicamente” o a livello di raccomandazione l’utilizzo degli strumenti in parola: l’European Union Joint Transfer Pricing Forum (JTPF) sostiene che “the over-all aim of the Forum’s work on APAs is to encourage the use of APAs where they are appropriate tools for dispute avoidance” (35). Il Forum ha sottolineato l’importanza sistematica di render più simili tra loro le procedure tra Stati membri riducendo le disparità nelle procedure di APA (36). Ritiene espressamente la Commissione – con espressione del tutto inequivoca – che “APAs are an exemplary method of dispute avoidance” (37), e che “the Commission fully supports the conclusions and suggestions of the JTPF on APAs” (38).

(35) Commission staff working document, Report prepared by the EU Joint Transfer Pricing Forum, 26 February 2007, SEC(2007) 246, 38§, 9. (36) Commission staff working document, Report prepared by the EU Joint Transfer Pricing Forum, 26 February 2007, SEC(2007) 246, 16§, 6: «businesses argue that the different sets of rules governing the various APA procedures in Member States are time consuming and burdensome for businesses. transfer pricing methodology, it is much easier if the various jurisdictions use a similar approach». (37) Communication from the Commission to the Council, the European Parliament and the European Economic and Social Committee, COM (2007)71, 26 February 2007, 13§, 7. E 5§, 3: «The Commission considers that APAs Guidelines are an efficient tool for dispute avoidance with valuable advantages for tax administrations and taxpayers. APAs will provide in advance certainty concerning the transfer pricing methodology and therefore simplify or prevent costly and time-consuming tax examinations into the transactions included in the APA: this should lead to savings for all parties involved in the APA». Per altre annotazioni sulle Guidelines si rimanda a B. Gibert e X. Daluzeau, Commission proposes Guidelines for advance pricing agreements in the European Union, International Transfer Pricing Journal, July/August 2007, 228-232. (38) Communication from the Commission to the Council, the European Parliament and the European Economic and Social Committee, COM (2007)71, 26 February 2007, 36§,


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Dal punto di vista del diritto convenzionale l’art. 25 par. 3 del Modello OECD, nella versione del 2000, stabilisce che “the competent authorities of the Contracting States shall endeavour to resolve by mutual agreement any difficulties or doubts arising as to the interpretation or application of the Convention. They may also consult together for the elimination of double taxation in cases not provided for in the Convention”. La finalità è quindi quella di impedire la doppia imposizione; i tempi di perseguimento di tal obiettivo non sono invero dettagliati. Anzi, nel prosieguo si prevede espressamente che “there are no time limits within which a solution is required to be found”; pertanto la negoziazione deve avviarsi obbligatoriamente ma in concreto può proseguire (e anche languire, in attesa di diverse volontà o tempi migliori) senza che vi siano preclusioni alla sua pendenza. In concreto la questione giunge allo stadio di discussione e in tal condizione corre il rischio di restare indefinitamente. Interessante e opportuna peraltro pare la previsione secondo la quale dal punto di vista dell’applicazione soggettiva dell’istituto, esso – che nasce come bilaterale - può diventare in concreto multilaterale, essendo sufficiente l’adesione di uno o più stati ulteriori, sin all’adesione terzi, perché le pattuizioni e valutazioni in esso contenute si applichino anche a questi nuovi aderenti. Deve poi ritenersi che per quanto l’art. 25 del Modello OECD non consideri esplicitamente gli APA, le Guidelines accettano e riconoscono quegli APA che siano negoziati con riferimento alle MAP Procedure, per un doppio ordine di ragioni. In primo luogo, proprio l’art. 5 par. 3 del modello OECD indica quale via preferenziale per le dispute di genere internazionale i c.d. mutual agreement, e secondariamente il par. 32 del Commentario ritiene possa rilevare ed esser recepito il contenuto di un accordo che sia stato determinato in occasione di un caso singolo. Ancora, sempre il già citato art. 25 par. 3 del modello OECD autorizza la Mutual Agreement Procedure a risolvere casi di doppia imposizione, facendo coin-

8. Nell’ allegato al documento la Commissione stabilisce che «these Guidelines constitute a worthwhile blueprint for APA processes across the EU» e «invites Member States to implement quickly the recommendations included in the Guidelines in their national legislation or administrative rules». Le Guidelines furono approvate dal Council il 5 giugno 2007, e sono intese come strumento base per tutti gli stati membri. Le si vedano in Transfer Pricing Review 2006/07, Euromoney Yearbooks, 14.


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cidere nella sostanza l’obiettivo di questa procedura con quello degli APA (39). Le guidelines in materia di Transfer Pricing datate 2009 prevedono in modo sostanzialmente inequivoco, sul punto, che “APAs involving the competent authority of a treaty partner should be considered within the scope of the mutual agreement procedure under Article 25 of the OECD Model Tax Convention, even though such arrangements are not expressly mentioned there” (40). In concreto quindi, la sottoscrizione dell’APA consente di ritenere adempiuti gli obblighi procedurarli e sostanziali delle MAP, naturalmente ove tutte le amministrazioni finanziarie interessate alla loro efficacia e opponibilità ai partecipanti abbiano potuto prender parte alla procedura. Proprio al fine di favorire una più efficace e trasparente gestione delle MAP, a partire dal 2004 l’OECD ha avviato un progetto volto a migliorare il funzionamento dei meccanismi per la composizione delle controversie fiscali internazionali. Tale progetto ha condotto, tra l’altro, alla stesura del Manuale apposito in tema di efficace gestione delle procedure amichevoli (“Manual on Effective Mutual Agreement Procedures”, di seguito MEMAP). Quest’ultimo fornisce alle Amministrazioni fiscali e ai contribuenti le informazioni di base sul funzionamento delle MAP, identificando alcune best practices cui le Amministrazioni fiscali degli Stati membri dovrebbero conformarsi (41). Il par. 3 già citato continua poi nel prevedere che l’Autorità debba, come già evidenziato in precedenza, tentare di risolvere in via amichevole “any difficulties or doubts arising as to the interpretation or application of the Convention” (42). Sebbene il par. 32 del Commentario faccia riferimento a difficoltà non meglio precisate, quindi generiche, deve ritenersi che la previsione non si rivolga solo a categorie di contribuenti, ma anche al singolo “individual case” (43).

(39) OECD TRANSFER PRICING GUIDELINES, OECD, 2009, par. 4.140§. Si veda specialmente l’annex 3, Guidelines for conducting advance pricing arrangements under the mutual agreement procedure («MAP APAs»). (40) OECD TRANSFER PRICING GUIDELINES, OECD 2009, specialmente Cap. IV: ADMINISTRATIVE APPROACHES – 131. (41) OECD – Centre for Tax Policy and Administration, Manual on Effective Mutual Agreement Procedures (MEMAP) - February 2007 Version, disponibile all’indirizzo www. oecd.org/ctp/memap. (42) OECD TRANSFER PRICING GUIDELINES, OECD 2009 cit. supra n. 39. (43) Ancora OECD TRANSFER PRICING GUIDELINES, OECD 2009, cit. supra n. 39.


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In particolare, gli APA c.d. bilaterali dovrebbero ricadere nel campo di applicazione della procedura surrichiamata, ed attuarne quindi i principi, in quanto uno degli obiettivi dei medesimi – come della Convenzione che disciplina la richiamata procedura – è proprio quello di evitare la doppia imposizione. E per quanto la Convenzione richieda l’accesso ad accordi per evitare detto dannoso fenomeno che sorge anche nei rapporti internazionali infragruppo, essa non specifica nulla in ordine all’adozione di particolari metodologie. Conseguentemente, in quanto in grado di attuare i principi di cui all’art. 9 della Convenzione Modello OECD, gli APA appaiono consentiti dall’art. 25 par. 3 del medesimo Modello in quanto non vi è altra specifica disposizione convenzionale che li richiami o escluda espressamente. Lo stesso scambio di informazioni di cui all’art. 26 potrebbe facilitarne la determinazione, consentendo alle Autorità che negoziano di scambiarsi informazioni proprio onde avere conferma di quanto evidenziato dai soggetti contribuenti. Si tratta in questo caso di sottolineare, nuovamente, come non vi siano steps temporali o termini decadenziali, il cui rispetto è imposto da norme: secondo alcuni tale situazione costituirebbe una seconda “important deficiency” (44) del meccanismo italiano rispetto al più collaudato istituto degli Stati Uniti d’America. Non si dimentichi poi come le differenze di lingua, procedure amministrative, competenza professionale dei funzionari impiegati, nel concreto possano complicare e dilatare ulteriormente il procedimento (45), proprio in quanto non è previsto un termine entro il quale esso deve esser concluso. Riguardo le forme di pubblicità degli agreements, si osserva nella stessa sede come “the criteria adopted are not homogeneous, which is obviously unsatisfactory; thus it depends on the discretion of each state whether the

(44) IFA, Cahiers de droit fiscal international, Vol. LXVIa, Mutual Agreement Procedure and Practice (Deventer: Kluwer Law and Taxation Publishers, 1981). Parte della dottrina sostiene che “the maxim justice delayed is justice denied, is apparently ignored by the competent authorities in practice”. Così Sivalingam, Tax Treaties. Do They Help?, 3 Asia-Pacific Bulletin, 4, (1997), 116. (45) IFA, Cahiers de droit fiscal international, Vol. LXVIa, Mutual Agreement Procedure and Practice (Deventer: Kluwer Law and Taxation Publishers, 1981); Bricker, Arbitration procedures in tax treaties. A first Israeli tax treaty includes an arbitration clause But do such clauses really matter?, Intertax 3 (1998), 102.


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interpretative mutual agreements are eventually published” (46). Infine, diverse nazioni, o meglio varie Amministrazioni, “tend to adopt a neutral attitude towards the mutual agreement procedure, i.e. they do not demonstrate any interest in using this dispute resolution mechanism, maybe because of the aforementioned deficiencies” (47). Si deve ancora ribadire come per le imprese, ma anche per le Amministrazioni “it is also essential agreements be implemented regardless of domestic constraints, as implementation is an essential condition for the development of international tax law” (48). Sotto questo aspetto, il Ruling internazionale italiano, nel prevedere che il vincolo giuridico sorga e resti operante solo ove non vi siano modifiche nello stato di fatto e di diritto che riguarda la materia dell’accordo medesimo sicuramente espone le parti della procedura a rischio di grandi incertezze. Non pare chiaro, ad esempio, se anche le modifiche nell’ordinamento dell’altro Stato, in quanto modifiche di diritto, possano esser ritenute causa di risoluzione dell’accordo; si immagini sul punto – in particolare – quale difficoltà ponga all’interprete domestico (oltre quella non di rado già rilevante, della lingua; si pensi all’applicazione del diritto giapponese) l’applicazione della norma di fonte estera. Al di là della necessità di dar contenuto a questi concetti poco netti, colpisce ancor più il riferimento proprio alla normativa domestica – in materia di fiscalità internazionale – come elemento avente effetti risolutivi, in senso privatistico, sull’accordo; è lecito chiedersi se mutando la norma interna, o la sua interpretazione da parte del Giudice o dell’Erario, possa venire meno l’efficacia dell’accordo. Conseguentemente, la Finanza potrà comportarsi, come peraltro il contribuente, come se l’accordo non fosse mai stato sottoscritto, con effetti dal momento del sorgere della causa di risoluzione, e lo stesso non sarà quindi implemented. Propenderei personalmente per la soluzione negativa, dal momento che l’accordo tra le parti è intervenuto su un profilo di fatto, che resta insensibile in linea generale ai mutamenti del diritto. Come vedremo tra poco, la disposizione non conforta del tutto tale interpretazione. Si è detto infatti come uno dei vantaggi per i quali si caratterizza istituto

(46) IFA, Cahiers de droit fiscal international, Vol. LXVIa, (47) IFA, Cahiers de droit fiscal international, Vol. LXVIa. (48) Idem.


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domestico in esame – ed è probabilmente la ragione dell’appetibilità per il contribuente – risieda nella possibilità di paralizzare, raggiunto e formalizzato l’accordo, l’azione accertatrice dell’Erario. La disciplina normativa concreta non è per la verità così netta sul punto. L’art. 8 comma quarto del D.L. 269 del 2003, limita i poteri di cui all’art. 32 e seguenti del D.P.R. n.600 del 1973 solo per ciò che riguarda le materie diverse a quelle oggetto dell’accordo, è vero, ma è altrettanto vero che detta limitazione è riferita solamente alla materia delle imposte dirette e non già all’applicazione dell’I.V.A. Deve quindi almeno dubitarsi che l’Erario non possa agire in rettifica ex art. 53 D.p.r. n. 633 del 1972 così come per quanto riguarda i tributi doganali. Inoltre, non vi sono dei riferimenti al fatto che il soggetto istante sia protetto da accertamenti che utilizzino delle informazioni provenienti da attività istruttorie svolte nell’ambito di indagini afferenti dei reati non previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e che siano utilizzate per fini fiscali nelle more del procedimento penale o eventualmente a procedimento giunto a giudizio. Altro punto nebuloso è quello richiamato al comma 3 dell’art. 8 del D.L. 269 del 2003, in cui in base alla normativa comunitaria, l’amministrazione finanziaria invia copia dell’accordo all’Autorità Fiscale competente degli Stati di residenza o di stabilimento delle imprese con i quali i contribuenti pongono in essere le relative operazioni. Nel contesto complessivo degli scambi di informazioni (49), la previsione suona del tutto episodica, non coordinata con alcuna Direttiva o Accordo internazionale in materia. Non è possibile quindi conoscere quale utilizzo possa fare di detta informazione l’Amministrazione ad quem; anzi ad un primo esame della disposizione, poiché l’informazione giunge al di fuori delle procedure che disciplinano il transito delle stesse, viene da pensare che essa abbia solo funzione di mera notizia. Ed allora non si vede perché sia prevista la sua consegna ad altro Erario, se detto soggetto non può concretamente porla alla base di propria attività di controllo. Ancora, detta comunicazione non è in alcun modo vincolante per le determinazioni di chi la riceve; non mi pare possibile che allo Stato estero si possa

(49) In argomento M. Barassi, in Materiali di diritto tributario a cura di Alemanno L. e Sacchetto C., Ipsoa, 2001, 123 e segg.ti.


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opporre l’accordo reso, poiché realizzatosi in assenza del medesimo, al di fuori delle procedure di cui alle Convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. Il contribuente non residente resterebbe quindi esposto alle determinazioni dell’Amministrazione estera, determinazioni che potrebbero ben essere addirittura sospinte dalla comunicazione dell’accordo in oggetto; di qui un evidente disincentivo per la diffusione dell’istituto. Ancora, sempre circa gli effetti impeditivi afferenti il potere di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, altre disposizioni normative da interpretare sistematicamente ed in accordo con quella appena descritta vengono ritrovate nei commi 2 e 4 del decreto sopra citato, secondo cui “la procedura si conclude con la stipula di un accordo, tra il competente ufficio dell’Agenzia delle entrate e il contribuente, e vincola per il periodo d’imposta nel corso del quale l’accordo è stipulato e per i due periodi d’imposta successivi, salvo che intervengano mutamenti nelle circostanze di fatto o di diritto rilevanti al fine delle predette metodologie e risultanti dall’accordo sottoscritto dai contribuenti”. Dal combinato disposto di queste disposizioni pare emergere evidente un’antinomia: da un lato è disposta poco prima, o pare esser disposta, l’inibizione dei poteri istruttori in relazione alle questioni oggetto dell’accordo mentre, dall’altro lato, l’efficacia dell’accordo è subordinata alla mancata sopravvenienza di mutamenti nelle circostanze di fatto o di diritto rilevanti. L’antinomia consiste nel fatto che, specie con riferimento al mutamento delle circostanze di fatto, la relativa apprensione da parte dell’Amministrazione Finanziaria non può che avvenire con l’esercizio dei poteri istruttori. Si deve quindi dire del sostanziale residuare dei poteri di controllo, cui fa riferimento l’art. 9 del provvedimento attuativo, in forza del quale “al fine di: a) verificare il rispetto dei termini dell’accordo sottoscritto; b) accertare di iniziativa il sopravvenuto mutamento delle condizioni di fatto o di diritto costituenti presupposto delle conclusioni raggiunte in sede di accordo; l’accordo stesso prevede, a carico dell’impresa, l’onere di: 1) predisporre e mettere a disposizione dei competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, periodicamente, ovvero dietro specifica richiesta, documentazione ed elementi informativi; 2) consentire ai competenti uffici dell’Agenzia delle Entrate, previo accordo con l’impresa, di disporre l’accesso di propri funzionari ed impiegati presso la sede di svolgimento delle attività, allo scopo di prendere visione di documenti e in generale di apprendere elementi informativi utili”. In sintesi, dal combinato disposto di cui ai commi 2 e 4 art. 8 del decreto


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legge n. 269 del 2003 e dell’art. 9 del provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, si desume la persistenza dell’esercizio dei poteri istruttori, in relazione alle materie oggetto di accordo tra contribuente e Amministrazione finanziaria. Tuttavia, tale esercizio è subordinato all’accordo del contribuente; è evidente quindi che nessun accordo sarà sottoscritto dall’Erario ove venga in esso esclusa la sussistenza di tali poteri. Ed è altrettanto vero, allora, che una previsione così ampia come quella di cui al n. 2 precitato consente nei fatti all’Erario di acquisire elementi informativi utili non solo per verificare l’adempimento dell’accordo, ma anche per verificare in senso tecnico – pratico il soggetto, vale a dire per sottoporlo a verifica. In buona sostanza, nel momento in cui accetta di far accedere i funzionari in adempimento dell’accordo, l’impresa accetta di esser - quotidianamente, salvo il rispetto dello Statuto del Contribuente - “visitata” dalla Finanza, che deve poter “apprendere elementi informativi utili”, anche per diversi accertamenti. Rischia quindi chi si sottopone ai termini dell’accordo di restare in ogni modo sottoposto al potere di controllo, anzi addirittura in forma anche ben più ampia e penetrante di quanto potesse accadere in precedenza. 5. Dalla procedura negoziata all’arbitrato vero e proprio: profili di tutela del contribuente. – Nella introduzione al Chap. 10 del suo “Arbitrability. International and comparative perspective”, W.W. Park esordisce scrivendo: “assertion that tax matters remain “non arbitrable” bring to mind the story of an elderly farmer who met the pastor while walking by the village church one Sunday. The clergyman asked the farmer if he believed in infant baptism. Being a sceptic, but hoping to avoid a theological controversy that might delay supper, the old man replied: “Belive in it? Reverend, I’ve seen it done!” Tanto a riprova di come spesso il concreto operare degli istituti giuridici, nell’utilizzo degli operatori, non si curi dei principi sui quali essi si fondano ma semplicemente ricorra ad essi ove tal utilizzo consenta – o sembri consentire – la soluzione di problemi pratici. L’Autore precisa che a ben vedere, come anche in questo testo ho tentato di sostenere, esistono almeno tre generi di tax arbitration (termine arduo da tradurre; sommessamente lo sostituirei con una perifrasi, anche se più ampollosa: modalità negoziali di determinazione del debito tributario). Segnatamente esse sono:


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1. tax controversies arising from business relationships; 2. overlapping tax on the same transaction by two or more countries; 3. disputes implicating tax issue between a foreign investor and the host state” (50). Gli APA consentono di affrontare – e potenzialmente risolvere – tutti e tre i generi di nodi sopra indicate. Si sta quindi assistendo a una sorta di diffusione – e sarà necessaria ulteriore riflessione per verificare se si tratti o meno di un vero e proprio transplant (51) – dell’istituto e dell’esperienza giuridica statunitense in tema di APA negli altri ordinamenti con i quali detto strumento partecipativo viene a contatto, anche in forza delle già richiamate previsione convenzionali (52). La recente globalizzazione economia ha certo incentivato il fenomeno. Il termine “globalisation” (assai frequentamente usato e abusato) potrebbe

(50) W.W. Park, Arbitrability and tax, in Arbitrability: International and Comparative Perspective, Milano, 2008, 181 (51) Nel rimandare a R. Succio, Comparazione delle procedure di soluzione dei conflitti in materia tributaria, Milano, 2012, 81 ss., mi limito qui a enunciare come si tratti di un concetto ideato e definito come consistente nel «moving of a rule or a system of law from one country to another, or from one people to another». Trad.: «lo spostamento di una regolamento o di un sistema giuridico da un paese ad un altro, da un popolo a un altro»; così Watson, Legal transplant: an approach to comparative law, The University of Georgia Press, ed. 1993, 21. Rheinstein interpreta il termine transplantation in un senso più ristretto; esso descrive due situazioni differenti. Nella prima si tratta di una condizione nella quale – vigente un sistema fondato sulla personalità del diritto – un gruppo migra da un luogo a un altro, portando con sé il proprio sistema giuridico. Nella seconda, in un sistema di territorialità del diritto, un gruppo migra, cito testualmente, da:«an old,settled country in to what may be called empty or virgin soil (or its equivalent)». M. Rheinstein, cit. supra nota 173, 34-35. Scrive con curiosa assonanza A. Watson, Legal Transplant, cit., 29-30: «Voluntary major transplants – that is, when either an entire legal system or a large portion of it is moved to a newsphere – fall into three main categories. First when a people moves into a different territory where there is no comparable civilisation, and takes its law with it. Secondly, when a people moves into a different territory where there is a comparable civilisation, and takes its law with it. Thirdly, when a people voluntarily accepts a large part of the system of another people or peoples», trad: «I principali transplants volontari – vale a dire, quando un intero sistema giuridico o una gran parte di esso è trasposto in uno nuovo – rientrano in tre categorie principali. In primo luogo, quando un popolo si muove in un territorio diverso, dove non c’è una civiltà paragonabile, e prende con esso la sua legge. In secondo luogo, quando un popolo si muove in un territorio diverso, in cui vi è una civiltà paragonabile, e prende con esso la sua legge. In terzo luogo, quando un popolo accetta volontariamente gran parte del sistema di altre persone o popoli». (52) Si veda l’elevato numero di stati che ormai conosce quanto in argomento: http:// ec.europa.eu/taxation_customs/resource//documents/taxation/company_tax/transfer_pricing/ forum/ jtpf/2011/jtpf_013_rev1_back_2011.pdf (accessed 28 Mar. 2013).


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qui tradursi, per i nostri fini, come “the integration of countries and peoples brought about by deep reductions in the costs of transport and communication, and the dismantling of barriers to the flow of goods, services, capital, knowledge, and people” (53). L’ordinamento statunitense ha sviluppato – partendo, nella sua prospettiva convenzionale non di rado autonoma rispetto al modello OECD - dalla previsione dell’art. 35 del modello di convenzione USA, la c.d. procedura amichevole (54), collegando le previsioni ivi contenute con la problematica in esame, ritenendo quindi che tra le materie possibili oggetto di Mutual Agreement Procedure possano rientrare anche i transfer pricing adjustments (55). Tali previsioni consentono di ritenere che ad oggi si debbano esaminare contestualmente sia dette norme che quelle della Convenzione Arbitrale UE, che infine le previsioni dell’OECD’s Proposals for Improving Mechanisms for the Resolution of Tax Treaty Disputes (“the OECD Arbitration Commentary”), nella versione datata 1 febbraio 2006. In estrema sintesi, possiamo rilevare come – in conformità anche alle indicazioni OECD sopra accennate – “as amended, Article 25(5) envisions arbitration as a backstop, not as an alternative, to competent authority consideration of a double tax case. This approach is the same as the EU Arbitration Convention and the OECD Arbitration Commentary. The treaty partners have no intention of replacing existing mutual agreement procedures, but recognize that arbitration may overcome competent authority gridlock in specific cases” (56). È evidente però che la procedura amichevole in parola deve esser valutata anche alla luce dei tempi che essa richiede per la conclusione dell’accordo.

(53) La definizione è di Stiglitz, Globalization and Its Discontents (NewYork, W.W. Norton, 2002) 9. (54) Per la verità,anche negli USA detta procedura non ha avuto grande successo: il 3.2% dei c.d. MAP cases definiti tra il 2001 e il 2005 si sono risolti senza accordo alcuno. Inoltre circa il10% dei casi definiti nel medesimo periodo hanno portato a soluzioni solo parziali con conseguente perdurare di situazioni nelle quali ad esempio somme importanti spettanti al contribuente quale credito d’imposta nel concreto non sono state restituite. (55) Si legga l’art. XXVI(22)(e) del Protocollo aggiunto alla Convenzione USA-GER, il quale è stato sottoscritto in data 1 giugno 2006; esso sostituisce l’ art. 25 c.5 della convenzione previgente, introducendo una assai dettagliata procedura diretta a far risolvere da un collegio o panel arbitrale tutte le questioni che non siano definite di comune accordo dagli Stati secondo la procedura amichevole. (56) J.M. O’Brien - M.A. Oates, Arbitrating Competent Authority Disputes?, Journal of taxation of global trasnactions, Fall 2006, 26.


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I tempi medi si collocano nell’intorno degli 800 giorni per la definizione della procedura con la sottoscrizione dell’accordo: sicuramente si tratta per così dire di un dato perfettibile. Si è detto poi come l’articolo 25, paragrafo 1, del Modello OECD preveda che l’apertura della procedura amichevole possa essere richiesta dal contribuente anche indipendentemente dalle azioni giudiziarie previste dalla legislazione nazionale. A tale riguardo, la maggior parte delle Convenzioni stipulate dall’Italia contengono, nel relativo Protocollo di accompagnamento, una disposizione interpretativa dell’articolo sulle MAP in forza della quale la locuzione “indipendentemente dai ricorsi previsti dalla legislazione nazionale” di cui all’art. 25 ridetto va intesa nel senso che l’attivazione della procedura amichevole non è in alternativa con la procedura contenziosa nazionale che va, in ogni caso, preventivamente instaurata laddove la controversia concerne un’applicazione delle imposte non conforme alla Convenzione (o equivalente). L’articolato normativo non brilla per chiarezza; pare comunque prevedere in buona sostanza la possibilità per il contribuente di adire comunque la via giudiziaria senza esperire preliminarmente, quale passaggio necessario, la via arbitrale. Il rischio che si presente è infatti quello – per il contribuente – di vedersi negato l’accesso al rimedio alternativo; in tal caso tal diniego non deve comunque tradursi in un potere di veto dell’Amministrazione. È quindi necessario prevedere uno strumento di tutela per il contribuente che ritenga sia stato ingiustamente impedito l’accesso alla procedura convenzionale, in modo da consentire il controllo del giudice sull’operato del Fisco. Nella pratica, si è assistito negli anni più recenti a un maggior ricorso allo strumento in esame (57): sono pendenti, con riferimento all’Autorità italiana, 173 casi per i quali la procedura è iniziata nel 2013; di essi 5 sono stati conclusi nel corso del 2014 (58). Un recente caso portato all’esame della Corte di cassazione (59) riveste importanza sistematica e pratica senza dubbio di rilievo: invero né la convenzione arbitrale del 1990, né le MAP, e neppure il Code of Conduct allegato

(57) Vedasi L. Hinnekens, European Arbitration Convention: Thoughts on Its Principles, Procedures and First Experience, 19 EC Tax Rev. 3 (2010), at 109. (58) EU JTPF, Statistics on Pending Mutual Agreement Procedures (MAPs) under the Arbitration Convention at the end of 2013 (Brussels 24 Oct. 2014). (59) Si tratta di Corte Cass. SS.UU., sent. N. 12759 del 19 giugno 2015.


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al Final Report on Improving the Functioning of the Arbitration Convention Meeting, tenutosi il 12 marzo 2015 (60) offrono regole chiare per garantire l’applicazione della convenzione ove esso sia impedito da un diniego; neppure viene indicato alcun criterio atto a valutare la legittimità o meno di tal rifiuto opposto dall’Erario di dar corso alla procedura arbitrale. La dottrina sottolinea come “although only a limited number of cases have been denied access to the Arbitration Convention (90/436/EEC) procedure thus far according to the statistics, it is expected that denied access under the Arbitration Convention (90/436/EEC) may become a bigger issue as the number of disputes increases”) (61). La sola previsione espressa diretta alla fase dell’iniziativa procedimentale si ritrova nell’art. 6 comma 2 della convenzione arbitrale, secondo la quale “l’autorità competente, se il reclamo le appare fondato e se essa non è in grado di giungere ad una soddisfacente soluzione, fa del suo meglio per regolare il caso per via amichevole con l’autorità competente di qualsiasi altro Stato contraente interessato, al fine di evitare la doppia imposizione in base ai principi di cui all’articolo”. Nulla viene detto con riferimento ai requisiti di fondatezza del reclamo in esame, e neppure con riguardo ai rimedi esperibili a fronte dell’alt dell’Autorità a procedere. L’Erario Italiano, nella sua prassi operativa (62), ha sostanzialmente – come era prevedibile – eluso il problema; al di là dell’intento di evitare la doppia imposizione, il Fisco non fornisce alcuna interpretazione delle disposizioni in vigore atta a rimediare al diniego espresso o tacito opposto all’istanza del contribuente di dar corso alla procedura in parola. Dalla lettura della ultima versione del Code of Conduct si evince invero che “member States should consider providing domestic legal remedies for determining whether the denial of access to the Arbitration Convention by their administrative bodies is justified”.

(60) EU JTPF, Final Report on Improving the Functioning of the Arbitration Convention, vedilo online www.ec.online.europa.eu. Brussels, meeting of 12 Mar. 2015. In Gazzetta ufficiale dell’Unione europea n. 322/1 del 30 dicembre 2009. Si tratta della revisione del Codice di condotta già adottato nel 2006 dal Consiglio dell’Unione europea (2006/C 176/02). (61) X. Van Vlem, B. Markey, A. Leclercq & I. Verlinden, The EU Arbitration Convention: Reinforcing the Procedure To Cope with an Expected Flood of Double Taxation Disputes, 21 Intl. Transfer Pricing J. 4 (2014), 233, Journals IBFD. (62) Si legga Circ. n. 21E del 2012.


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Va quindi salutata con apprezzamento la sentenza della Corte di cassazione (63) in esame: essa sostanzialmente adegua il nostro ordinamento a tal indicazione, sia pure con un livello di consapevolezza e di argomentazione differente. Dopo aver riepilogato le previsioni della convenzione arbitrale del 1990 e le indicazioni del GTPF Joint Transfer Pricing Forum si spiega come da tale documento possa evincersi il principio generale – condiviso da tutti gli Stati che vi aderiscono – secondo il quale il procedimento di accordo amichevole tra gli Stati non impedisce il contemporaneo svolgimento delle azioni giudiziarie relative alle imposizioni innanzi agli organi giudiziari nazionali. Ciò posto, alla luce di quanto evidenziato, deve ritenersi che nell’ambito della procedura amichevole ai sensi dell’art. 6 della Convenzione Arbitrale i due Stati non agiscono “iure privatorum”, bensì nell’ambito della propria potestà d’imperio in materia tributaria. La Procedura Amichevole in esame, prosegue la Corte, “si fonda infatti su preminenti interessi pubblici degli Stati che vi partecipano in quanto investe la potestà impositiva degli stessi ed i negoziati si svolgono esclusivamente tra le Autorità Competenti degli Stati sottoscrittori della Convenzione e l’accordo amichevole viene sottoscritto e adottato esclusivamente da questi”. Ciò chiarito, e attribuita quindi relazione diretta tra la procedura amichevole e l’attuazione del prelievo – senza addentrarsi nella problematica relativa alla partecipazione del contribuente – la Corte opera una netta distinzione tra la “fase prodromica oggetto del ricorso relativa alla presentazione dell’istanza di apertura della procedura amichevole ed alla valutazione dei requisiti soggettivi ed oggettivi di ammissibilità, che si svolge tutta nell’ambito del diritto interno (come può chiaramente evincersi dai citati art. 6 e 7 della Convenzione e come confermato dalla circolare dell’Agenzia delle entrate 5/6/2012 n. 21 punto 5.8.)” e quella successiva. Se a tal prima fase si applica unicamente il diritto interno, alla successiva (durante la quale ha luogo il confronto fra le autorità competenti) si applicano le disposizioni convenzionali; in essa il contribuente non svolge un ruolo attivo ma è tenuto unicamente a prestare la propria collaborazione descrivendo puntualmente il caso e fornendo sollecitamente le informazioni supplementari eventualmente richieste come prevede l’art. 10 della Convenzione in oggetto. Le questioni che possono insorgere nella prima fase, quindi, spiega la

(63) Corte cass., SS.UU., sent n. 12759 del 19 giugno 2015.


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Corte, “non possono essere aprioristicamente sottratte alla valutazione giurisdizionale di organo giudiziario. E questo non può che essere il giudice dello Stato ove l’istanza viene proposta, giacché la Commissione consultiva si limita a dare un parere sul modo di eliminare la doppia imposizione”. In concreto quindi, in quanto atto adottato dall’ente impositore che porti comunque a conoscenza del contribuente una specifica pretesa tributaria, con esplicitazione delle concrete ragioni fattuali e giuridiche, è necessariamente impugnabile davanti al giudice tributario senza necessità che si manifesti in forma autoritativa. Tale impugnazione va proposta davanti al giudice tributario, in quanto munito di giurisdizione a carattere generale e competente ogni qualvolta si controverta di uno specifico rapporto tributario. Non rileva quindi il mero elemento formale secondo il quale tal rimedio non sarebbe previsto dal diritto interno, non risultando il diniego (espresso o tacito) di accesso alla procedura atto compreso nel novero dei provvedimenti impugnabili. L’affermazione è infatti del tutto contraria alle intenzioni - ripetutamente e solennemente manifestate nella prassi ridetta – dell’Amministrazione Italiana “to comply” con le indicazioni proprio del Code of Conduct. 6. Conclusioni. – Il sistema normativo convenzionale viene nel concreto valorizzato dalla sentenza della Corte di cassazione che ammette il sindacato degli giudice sul rifiuto dell’Erario di fare applicazione della stessa Ne è derivata l’evidente preferenza del sistema per la via non giurisdizionale, ritenuta in sostanza vera e propria condizione di procedibilità alla quale subordinare l’azione. Posso concludere affermando che – tornando alle considerazioni del più volte citato e noto studioso di transplants (64) – in linea generale una regola giuridica, o la sua applicazione, può esser integrata in un sistema assolutamente diverso, o in un sistema che si fonda su principi del tutto differenti rispetto a quelli del sistema donatore. Ritengo di poter sostenere, come ho illustrato sopra, che le previsioni della Convenzione Arbitrale, come quelle delle MAP procedures costituiscano un sistema alternativo alla giurisdizione, di origine esterna rispetto agli ordinamenti giuridici dei singoli stati che sottoscrivono le convenzioni internazionali e la convenzione arbitrale, anzi ALLE giurisdizioni; un vero e proprio

(64) A. Watson, Legal transplants, an approach to comparative law, 1993, 55


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percorso procedimentale autonomo e speciale di dialogo tra amministrazioni con la partecipazione – per quanto ridotta – del contribuente Tale insieme di meccanismi e relazioni tra Erarii e contribuente è soggetto ad applicazione ed evoluzione, quindi a mutamento: il progresso di un sistema giuridico è spesso legata alla sua capacità di ricevere da sistemi donatori, specie se muniti di una loro specialità. Senza dubbio il sistema in esame ha sue particolarità esclusive. Tale capacità per così dire assorbente si è in questi ultimi anni accentuata, per ragioni economiche legate alla globalizzazione, e per ragioni culturali, legate alla formazione dei giuristi, che si arricchiscono sempre più di esperienze comparatistiche; in forza di tal ultimo elemento, i sistemi sono meno restii ad accettare soluzioni e principi che derivano da altri ordinamenti e sistemi. Non di rado, l’ingresso di questi nuovi elementi produce mutamenti sensibili nel sistema beneficiario. Sarà necessario attendere le prossime applicazioni delle procedure in esame per verificare la corrispondenza al vero di quanto appena affermato e per valutarne gli effetti sul sistema italiano

Roberto Succio


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