Rivista
bimestrale cartacea e online
Diretta
da
IN EVIDENZA some observaTions based on The iTalian experience
Carlo Rimini
coinTesTazione dei conTi correnTi bancari e comunione legale dei beni: le ricaduTe nel TraTTamenTo successorio
Familia è indirizzata a chiunque necessiti di uno strumento autorevole e costantemente aggiornato per affrontare le problematiche più complesse del Diritto di Famiglia. Alla rivista è collegato un sito web costantemente aggiornato che prevede le seguenti aree: Famiglia; unioni civili; minori; separazione e divorzio; successioni mortis causa e donazioni.
www.rivistadirittotributario.it
6
Contiene tutta la normativa tributaria essenziale aggiornata a marzo 2016 con le modifiche introdotte dai decreti attuativi della recente riforma tributaria.
Rivista bimestrale
2016
Accertamento delle imposte sui redditi;
7
Imposte indirette;
8
Tributi regionali e comunali;
9
Riscossione;
Rivista di Diritto Tributario
Imposte sui redditi;
6
10 Sanzioni;
Pacini
€ 23,00
11 Processo Tributario. • 568 pagine • euro 23
L’opera è arricchita dagli indici generale, analitico e cronologico. Fondamentale per la didattica e per la professione.
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Organizzazione dell’Amministrazione Finanziaria;
5
In evidenza: • Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione
Gaspare Falsitta • La posizione sostanziale e processuale del pubblico ufficiale in ordine alle imposte dovute
sull’atto rogato Simone Ghinassi • La cessione delle partecipazioni nella disciplina di participation exemption: spunti per una
modifica normativa Giuseppe Ingrao • Immobili “culturali”: la ratio dell’agevolazione fiscale secondo la Consulta nell’assenza
dell’art. 9 Cost. Silvia Giorgi • Controlli fiscali e reati tributari con soglia di punibilità: la Cassazione rimarca i diritti della
difesa ex art. 220 disp. att. c.p.p. Tommaso Rafaraci
Pacini
Pacini
Mario Segni
Pacini
Rivista bimestrale cartacea e online Diretta da M. Beghin, P. Boria, L. Carpentieri, G. Falsitta, A. Fantozzi, A. Fedele, G. Fransoni, S. La Rosa, F. Moschetti, P. Russo, R. Schiavolin, G. Zizzo
www.rivistadirittotributario.it
Novità
La nuova disciplina dei licenziamenti Tutele del lavoratore illegittimamente licenziato dalla Riforma Fornero al Jobs Act Sapere professionale
1
1
Pacini
bimestrale cartacea e online
Diretta
da
Il testo si occupa della disciplina del licenziamento, individuale e collettivo, partendo anzitutto dall’analisi del dato normativo per poi analizzare le più importanti e rilevanti novità e modifiche apportate, in particolar modo, nel 2012, dalla legge n. 92 meglio nota come Riforma Fornero, e nel 2015 con il famoso Jobs Act e decreti attuativi; il tutto, ovviamente, alla luce della copiosa e interessante giurisprudenza sul punto. Il testo vuole essere di aiuto a tutti gli operatori del diritto, ma anche ai lavoratori e datori di lavoro, che quotidianamente si trovano ad affrontare le problematiche legate al recesso nell’ordinamento giuslavoristico. La lettura del volume è resa, senza dubbio, più agevole dalla presenza di schemi, sintesi, casi giurisprudenziali, al fine di rendere più chiara la normativa come riformata, ovvero l’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, concernente la tutela del lavoratore che subisce – a suo dire – un licenziamento illegittimo.
Oronzo Mazzotta
La nuova disciplina dei licenziamenti Tutele del lavoratore illegittimamente licenziato dalla Riforma Fornero al Jobs Act Manuela Rinaldi
Manuela Rinaldi - Avvocato del Foro di Avezzano (AQ); dal 2011 è Docente tutor in Diritto del lavoro presso la UTIU - Università Telematica Internazionale Uninettuno; già Docente di Diritto del lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza Università di Teramo, sede distaccata di Avezzano, Diritto del lavoro e Diritto Sindacale; Dottore di ricerca in Diritto dell‘Economia e dell‘Impresa, Diritto Internazionale e Diritto Processuale Civile, Curriculum Diritto del lavoro, con tesi su “L‘infortunio in itinere nella giurisprudenza“, Tutor Prof. Arturo Maresca, conseguito presso l‘Università La Sapienza - Roma; Docente in vari corsi di Formazione per professionisti e aziende; Autore di numerose pubblicazioni, sia opere monografiche che collettanee; Relatore a Convegni e Seminari, quali ad esempio Convegno “Le ultime riforme della Giustizia Civile”, presso la Corte di Cassazione, Roma, 28 marzo 2014 con relazione sul tema “Problemi del rito Fornero tra Consulta e Cassazione”.
Pacini
€ 19,00
www.rivistalabor.it
Manuela Rinaldi pp. 152 euro 19 Il testo si occupa della disciplina del licenziamento, individuale e collettivo, partendo dall’analisi del dato normativo per poi analizzare le più importanti e rilevanti novità e modifiche apportate, in particolar modo, nel 2012, dalla legge n. 92 meglio nota come Riforma Fornero, e nel 2015 con il famoso Jobs Act e decreti attuativi; il tutto, ovviamente alla luce della copiosa e interessante giurisprudenza sul punto. La lettura del volume è resa, senza dubbio, più agevole dalla presenza di schemi, sintesi, casi giurisprudenziali, al fine di rendere più chiara la normativa come riformata, ovvero l’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, concernente la tutela del lavoratore che subisce – a suo dire – un licenziamento illegittimo.
L
issn 2531-4688
ABOR Il lavoro nel diritto
5-6
Familia 5 -6 2016
Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa Rivista bimestRale caRtacea e Diretta da Salvatore Patti
Familia
Rivista di
Diritto Tributario
www.rivistadirittotributario.it
Raffaele De Luca Tamajo
Il neotipo e il prototipo: precarietà e stabilità Carlo Cester
Il “fatto materiale”: una riflessione interpretativa Riccardo Del Punta
Rivista bimestrale
2016
In evidenza:
• Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione
Gaspare Falsitta
• La posizione sostanziale e processuale del pubblico ufficiale in ordine alle imposte dovute
sull’atto rogato Simone Ghinassi
• La cessione delle partecipazioni nella disciplina di participation exemption: spunti per una
modifica normativa Giuseppe Ingrao
• Immobili “culturali”: la ratio dell’agevolazione fiscale secondo la Consulta nell’assenza
dell’art. 9 Cost. Silvia Giorgi
• Controlli fiscali e reati tributari con soglia di punibilità: la Cassazione rimarca i diritti della
difesa ex art. 220 disp. att. c.p.p. Tommaso Rafaraci
Pacini
Pacini
Novità
1
La nuova disciplina dei licenziamenti
Tutele del lavoratore illegittimamente licenziato dalla Riforma Fornero al Jobs Act
Manuela Rinaldi
Pacini
€ 19,00
Manuela Rinaldi pp. 152 euro 19
Il testo si occupa della disciplina del licenziamento, individuale e collettivo, partendo dall’analisi del dato normativo per poi analizzare le più importanti e rilevanti novità e modifiche apportate, in particolar modo, nel 2012, dalla legge n. 92 meglio nota come Riforma Fornero, e nel 2015 con il famoso Jobs Act e decreti attuativi; il tutto, ovviamente alla luce della copiosa e interessante giurisprudenza sul punto. La lettura del volume è resa, senza dubbio, più agevole dalla presenza di schemi, sintesi, casi giurisprudenziali, al fine di rendere più chiara la normativa come riformata, ovvero l’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, concernente la tutela del lavoratore che subisce – a suo dire – un licenziamento illegittimo.
€ 29,00
4/2016
Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009
•
Società bancarie e società di diritto comune Sicaf
Sostegno finanziario infragruppo Contratti derivati impliciti
Pacini
ottobre-dicembre
4/2016 anno xxx
1
Jobs act I e II - Prospettive applicative
Pacini
Mariacarla Giorgetti
Jobs act I e II
Prospettive applicative
i PraticiPacini
ISBN 978-88-6315-984-4
9 788863 159844
•
settembre-dicembre 2016
D iretta Da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
Il “fatto materiale”: una riflessione interpretativa
Riccardo Del Punta
Marina Brollo
Pacini
Focus su articolo 18 e lavoro pubblico privatizzato
Alessandro Lima
Giurisprudenza commentata
Cinzia Carta, Antonio Preteroti, Francesco Paolo Luiso, Elisabetta Tarquini
Pacini
Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista tRimestRale Diretta da Alessandro Nigro
La rivista offre, nella sua prima parte, contributi di dottrina, commenti a sentenze di rilevante interesse, rassegne di giurisprudenza, approfondimenti di problemi della pratica, spunti di varietà; nella seconda parte si concentra sull’attualità, normative italiane e comunitarie, documenti particolarmente significativi, informazioni sulle novità.
Parola alla difesa
Rivista bimestRale online fRee access dell’Unione cameRe Penali italiane Diretta da B. Migliucci, G. Spangher, G. Flora
www.parolaalladifesa.it
La rivista è liberamente consultabile. Oltre ai fascicoli, il sito ospita gli aggiornamenti, curati dalla redazione scientifica e riferiti alla giurisprudenza e alla legislazione più recente, e le NEWS sui temi di principale attualità nel settore penale.
2
www.parolaalladifesa.it
DUEMILASEDICI
novembre-dicembre Comitato scientifico:
A. De Caro, F. Dinacci, O. Dominioni, G. Fiandaca, L. Filippi, A. Gaito, M. Gallo, A. Gargani, G. Garuti, A. Giarda, F. Giunta, G. Insolera, A. Lanzi, V. Maiello, V. Manes, A. Marandola, N. Mazzacuva, G. Pecorella, D. Siracusano, L. Stortoni
Pacini
Jobs act I e II - Prospettive applicative
Pacini
Alessandro Lima
Giurisprudenza commentata
lavoratore
Cinzia Carta, Antonio Preteroti, Francesco Paolo Luiso, Elisabetta Tarquini
Patrizia Tullini
Pacini
Nascita, infanzia e prima adolescenza dell’art. 39 della Costituzione Lorenzo Gaeta
Alessandro Nigro
il processo civile in Italia e in Europa
Rivista trimestrale
Marzo 2017
1
Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini
In evidenza: La trascrizione della domanda di opposizione di terzo ordinaria Cristina Asprella
Riconoscimento ed esecuzione dei provvedimenti stranieri, con particolare riferimento alla materia familiare Paolo Biavati
Per un nuovo concetto di giurisdizione Antonio Cabral
Il giudicato come limite alle sentenze della Corte costituzionale e delle Corti europee Ulisse Corea
Le nuove Rules del Tribunale unificato dei brevetti Mariacarla Giorgetti
Prospettive ed evoluzione del processo esecutivo in Italia Giuseppe Miccolis
I nuovi confini del binomio mutatio-emendatio libelli come ridisegnati dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite del 2015 Silvia Ricci
Les nova dans la procédure d’appel: l’évolution du procès civil italien Achille Saletti
2 DUEMILASEDICI novembre-dicembre
PAROLA alla DIFESA
La rivista è liberamente consultabile. Oltre ai fascicoli, il sito ospita gli aggiornamenti, curati dalla redazione scientifica e riferiti alla giurisprudenza e alla legislazione più recente, e le NEWS sui temi di principale attualità nel settore penale.
I diritti sociali come controlimiti Luigi Cavallaro
Focus sulla loi Travail
PAROLA alla DIFESA
Caroline Dechristé
rivista bimestrale diretta da Beniamino Migliucci, Giorgio Spangher, Giovanni Flora
2
www.parolaalladifesa.it
Giurisprudenza commentata
DUEMILASEDICI
novembre-dicembre Comitato scientifico: A. De Caro, F. Dinacci, O. Dominioni, G. Fiandaca, L. Filippi, A. Gaito, M. Gallo, A. Gargani, G. Garuti, A. Giarda, F. Giunta, G. Insolera, A. Lanzi, V. Maiello, V. Manes, A. Marandola, N. Mazzacuva, G. Pecorella, D. Siracusano, L. Stortoni
Pacini
Pacini
Samuele Renzi, Gionata Cavallini, Mirko Altimari, Alberto Mattei, Luca Busico, Giulio Centamore
Judicium
il processo civile in Italia e in Europa Rivista trimestrale cartacea e online Diretta da B. Sassani, F. Auletta, A. Panzarola, S. Barona Vilar, P. Biavati, A. Cabral, G. Califano, D. Dalfino, M. De Cristofaro, G. Della Pietra, F. Ghirga, A. Gidi, M. Giorgetti, A. Giussani, G. Impagnatiello, G. Miccolis, M. Ortells Ramos, F. Santangeli, R. Tiscini
www.judicium.it
Variations sérieuses sul riesame della motivazione Bruno Sassani
PAROLA alla DIFESA rivista bimestrale diretta da Beniamino Migliucci, Giorgio Spangher, Giovanni Flora
da
www.parolaalladifesa.it
Le “quote di genere” negli organi di governo delle società
Mariacarla Giorgetti pp. 376 euro 29
Il lavoro analizza l’articolato e complesso insieme dei provvedimenti del Governo Renzi finalizzati a rendere più semplice e competitivo il mercato del lavoro nel nostro Paese. Sono individuati gli scopi pratici perseguiti dal Riformatore sin dal disegno di legge-delega, poi concretizzatosi nella legge n. 183/2014, e sono analizzati i contenuti del d.l. 34/2014, che ha dato vita al cd. Jobs Act I. Nella seconda parte dell’opera, dedicata al cosiddetto Jobs Act II, sono oggetto di analisi i decreti attuativi, tra cui spicca, per impatto pratico, il decreto dedicato al contratto a tutele crescenti, istituto destinato a determinare il superamento delle forme di lavoro atipico.
Diretta
Rivista bimestrale online free access dell’UNIONE CAMERE PENALI ITALIANE Diretta da B. Migliucci, G. Spangher, G. Flora
Carlo Cester
Jobs act I e II
Mariacarla Giorgetti è Professore Ordinario di Diritto Processuale Civile, Diritto Fallimentare e di Diritto dell’Arbitrato presso l’Università degli Studi di Bergamo. È autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto processuale civile – con particolare attenzione alle tematiche relative al processo del lavoro – di diritto dell’arbitrato e di diritto fallimentare. È membro del Comitato editoriale della Rivista di diritto processuale. È avvocato in Milano, Bergamo e Ancona. Ha maturato una pluriennale esperienza nel contenzioso ordinario, civilistico e laburistico, arbitrale, fallimentare e concorsuale, in ambito nazionale ed internazionale.
•
issn 2531-4688
5-6
Il lavoro nel diritto
Rivista bimestrale
Raffaele De Luca Tamajo
Prospettive applicative
iure
i PraticiPacini
4
Il lavoro analizza l’articolato e complesso insieme dei provvedimenti del Governo Renzi finalizzati a rendere più semplice e competitivo il mercato del lavoro nel nostro Paese. Sono individuati gli scopi pratici perseguiti dal Riformatore sin dal disegno di legge-delega, poi concretizzatosi nella legge n. 183/2014, e sono analizzati i contenuti del d.l. n. 34/2014, che ha dato vita al cd. Jobs Act I. Nella seconda parte dell’opera, dedicata al cosiddetto Jobs Act II, sono oggetto di analisi i decreti attuativi, tra cui spicca, per impatto pratico, il decreto dedicato al contratto a tutele crescenti, istituto destinato a determinare il superamento delle forme di lavoro atipico.
•
LABOR
IN EVIDENZA
La (in)derogabilità della normativa lavoristica ai tempi del Jobs Act Il neotipo e il prototipo: precarietà e stabilità
trimestrale
Parola alla difesa
Pacini
Labor è indirizzata a chiunque necessiti di uno strumento autorevole e costantemente aggiornato per affrontare le problematiche più complesse del Diritto del Lavoro. Alla rivista è collegato un sito web che seleziona le novità più rilevanti che interessano la materia (sentenze, anzitutto, ma anche novità legislative, progetti, circolari, ecc.) e fornisce un primo rapido commento.
Diritto della banca e del mercato finanziario
Le Riviste
La nuova disciplina dei licenziamenti
Tutele del lavoratore illegittimamente licenziato dalla Riforma Fornero al Jobs Act
Sapere
professionale
1
Pacini
Il testo si occupa della disciplina del licenziamento, individuale e collettivo, partendo anzitutto dall’analisi del dato normativo per poi analizzare le più importanti e rilevanti novità e modifiche apportate, in particolar modo, nel 2012, dalla legge n. 92 meglio nota come Riforma Fornero, e nel 2015 con il famoso Jobs Act e decreti attuativi; il tutto, ovviamente, alla luce della copiosa e interessante giurisprudenza sul punto. Il testo vuole essere di aiuto a tutti gli operatori del diritto, ma anche ai lavoratori e datori di lavoro, che quotidianamente si trovano ad affrontare le problematiche legate al recesso nell’ordinamento giuslavoristico. La lettura del volume è resa, senza dubbio, più agevole dalla presenza di schemi, sintesi, casi giurisprudenziali, al fine di rendere più chiara la normativa come riformata, ovvero l’articolo 18 della legge n. 300 del 1970, concernente la tutela del lavoratore che subisce – a suo dire – un licenziamento illegittimo. Manuela Rinaldi - Avvocato del Foro di Avezzano (AQ); dal 2011 è Docente tutor in Diritto del lavoro presso la UTIU - Università Telematica Internazionale Uninettuno; già Docente di Diritto del lavoro presso la Facoltà di Giurisprudenza Università di Teramo, sede distaccata di Avezzano, Diritto del lavoro e Diritto Sindacale; Dottore di ricerca in Diritto dell‘Economia e dell‘Impresa, Diritto Internazionale e Diritto Processuale Civile, Curriculum Diritto del lavoro, con tesi su “L‘infortunio in itinere nella giurisprudenza“, Tutor Prof. Arturo Maresca, conseguito presso l‘Università La Sapienza - Roma; Docente in vari corsi di Formazione per professionisti e aziende; Autore di numerose pubblicazioni, sia opere monografiche che collettanee; Relatore a Convegni e Seminari, quali ad esempio Convegno “Le ultime riforme della Giustizia Civile”, presso la Corte di Cassazione, Roma, 28 marzo 2014 con relazione sul tema “Problemi del rito Fornero tra Consulta e Cassazione”.
Focus su articolo 18 e lavoro pubblico privatizzato
Il lavoro analizza l’articolato e complesso insieme dei provvedimenti del Governo Renzi finalizzati a rendere più semplice e competitivo il mercato del lavoro nel nostro Paese. Sono individuati gli scopi pratici perseguiti dal Riformatore sin dal disegno di legge-delega, poi concretizzatosi nella legge n. 183/2014, e sono analizzati i contenuti del d.l. 34/2014, che ha dato vita al cd. Jobs Act I. Nella seconda parte dell’opera, dedicata al cosiddetto Jobs Act II, sono oggetto di analisi i decreti attuativi, tra cui spicca, per impatto pratico, il decreto dedicato al contratto a tutele crescenti, istituto destinato a determinare il superamento delle forme di lavoro atipico.
xxx
ISSN 1592-9930
La rivista si articola in sezioni contenenti le più importanti pronunce giurisprudenziali, le sentenze e le decisioni inedite, commentate con collegamenti ad altri argomenti di interesse professionale e la dottrina più autorevole del settore. Alla rivista è collegato un sito web che seleziona le novità più rilevanti che interessano la materia (sentenze, novità legislative, progetti, circolari, ecc.) e fornisce un primo rapido commento.
Mariacarla Giorgetti pp. 376 euro 29
Sicurezza sul lavoro: posizione di garanzia del datore e concorso di colpa del
4/2016 anno
5-6
www.rivistadirittotributario.it
Marina Brollo
ottobre-dicembre
Pacini
maggio - agosto 2016
Rivista bimestRale caRtacea e online Diretta da M. Beghin, P. Boria, L. Carpentieri, G. Falsitta, A. Fantozzi, A. Fedele, G. Fransoni, S. La Rosa, F. Moschetti, P. Russo, R. Schiavolin, G. Zizzo
IN EVIDENZA
1
Diretta Da S alvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Maria Giovanna Cubeddu, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
Rivista di Diritto Tributario
www.rivistalabor.it
ISSN 1722-8360
Contratti derivati impliciti
Mario Segni
Il lavoro nel diritto
di particolare interesse in questo fascicolo
•
Carlo Rimini
Labor
Saggi
Sostegno finanziario infragruppo
Pietro Sirena
Rivista bimestRale caRtacea e online Diretta da Oronzo Mazzotta
Diritto della banca e del mercato finanziario
Sicaf
•
le ricaduTe nel TraTTamenTo successorio
2 DUEMILASEDICI novembre-dicembre
Imposte sui redditi;
Accertamento delle imposte sui redditi; Imposte indirette;
Tributi regionali e comunali; Riscossione;
L’opera è arricchita dagli indici generale, analitico e cronologico. Fondamentale per la didattica e per la professione.
Società bancarie e società di diritto comune
•
some observaTions based on The iTalian experience
PAROLA alla DIFESA
Fiscalità dell’Unione europea; Organizzazione dell’Amministrazione Finanziaria;
5 6
8 9
10 Sanzioni;
11 Processo Tributario.
• 568 pagine • euro 23
Rivista di Diritto Tributario
Norme generali;
Fiscalità internazionale;
3 4
7
Pacini
€ 23,00
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Codice Tributario
2
2016
Maurizio Logozzo
9 788869 950537
ISSN 1121-4074
ISBN: 978-88-6995-053-7
Pacini
Maurizio Logozzo, professore ordinario di Diritto Tributario nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e avvocato cassazionista in Milano. È direttore del Master universitario di secondo livello di Diritto Tributario dell’Università Cattolica. È autore di un centinaio di pubblicazioni in materia tributaria.
•
IN EVIDENZA
6
D iretta Da Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo
Si articola in undici parti: 1
Codice
Tributario
Il Codice Tributario, aggiornato a marzo 2016, contiene le leggi tributarie di più frequente applicazione. La struttura del Codice propone una sistematica che rimanda alla gerarchia delle fonti, presentando, ove possibile, la distinzione tra norme sostanziali e norme procedurali. L’opera è destinata non solo al mondo universitario, ma anche a tutti gli operatori professionali.
Vol. XXVI - Dicembre 2016
Le “quote di genere” negli organi di governo delle società
La rivista offre, nella sua prima parte, contributi di dottrina, commenti a sentenze di rilevante interesse, rassegne di giurisprudenza, approfondimenti di problemi della pratica, spunti di varietà; nella seconda parte si concentra sull’attualità, normative italiane e comunitarie, documenti particolarmente significativi, informazioni sulle novità.
di particolare interesse in questo fascicolo
The day-by-day operaTion and enforcemenT of judgmenTs relaTive To parenTal responsibiliTies.
LABOR 5 -6 2016
6
Rivista
l’adozione nelle unioni civili. smenTiTa la cassazione
La nuova disciplina dei licenziamenti
Vol. XXVI - Dicembre
Maurizio Logozzo
Codice Tributario 2016
Contiene tutta la normativa tributaria essenziale aggiornata a marzo 2016 con le modifiche introdotte dai decreti attuativi della recente riforma tributaria.
Pacini
www.rivistalabor.it
ISSN 1722-8360
Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale
D iretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
Diritto della banca e del mercato finanziario
coinTesTazione dei conTi correnTi bancari e comunione legale dei beni:
Familia è indirizzata a chiunque necessiti di uno strumento autorevole e costantemente aggiornato per affrontare le problematiche più complesse del Diritto di Famiglia. Alla rivista è collegato un sito web costantemente aggiornato che prevede le seguenti aree: Famiglia; unioni civili; minori; separazione e divorzio; successioni mortis causa e donazioni.
Prospettive applicative
€ 29,00
www.rivistafamilia.it
pubblicità 40345-Crisi matrimonio-Andreola
online
www.rivistafamilia.it
Jobs act I e II
9 788863 159844
4/2016
Le Riviste Familia
Pacini
ISBN 978-88-6315-984-4
Mariacarla Giorgetti
i PraticiPacini
i PraticiPacini
4
Saggi
marzo-aprile 2017
Rivista bimestrale
IN EVIDENZA
Prospettive applicative
Mariacarla Giorgetti è Professore Ordinario di Diritto Processuale Civile, Diritto Fallimentare e di Diritto dell’Arbitrato presso l’Università degli Studi di Bergamo. È autore di numerose pubblicazioni in materia di diritto processuale civile – con particolare attenzione alle tematiche relative al processo del lavoro – di diritto dell’arbitrato e di diritto fallimentare. È membro del Comitato editoriale della Rivista di diritto processuale. È avvocato in Milano, Bergamo e Ancona. Ha maturato una pluriennale esperienza nel contenzioso ordinario, civilistico e laburistico, arbitrale, fallimentare e concorsuale, in ambito nazionale ed internazionale.
2
D iretta Da Oronzo Mazzotta
Jobs act I e II
Il lavoro analizza l’articolato e complesso insieme dei provvedimenti del Governo Renzi finalizzati a rendere più semplice e competitivo il mercato del lavoro nel nostro Paese. Sono individuati gli scopi pratici perseguiti dal Riformatore sin dal disegno di legge-delega, poi concretizzatosi nella legge n. 183/2014, e sono analizzati i contenuti del d.l. n. 34/2014, che ha dato vita al cd. Jobs Act I. Nella seconda parte dell’opera, dedicata al cosiddetto Jobs Act II, sono oggetto di analisi i decreti attuativi, tra cui spicca, per impatto pratico, il decreto dedicato al contratto a tutele crescenti, istituto destinato a determinare il superamento delle forme di lavoro atipico.
issn 2531-4688
settembre-dicembre 2016
Rivista bimestrale
La (in)derogabilità della normativa lavoristica ai tempi del Jobs Act
Labor è indirizzata a chiunque necessiti di uno strumento autorevole e costantemente aggiornato per iure sito web che affrontare le problematiche più complesse del Diritto del Lavoro. Alla rivista è collegato un seleziona le novità più rilevanti che interessano la materia (sentenze, anzitutto, ma anche novità legislative, progetti, circolari, ecc.) e fornisce un primo rapido commento.
Diritto della banca e del mercato finanziario
L
ABOR Il lavoro nel diritto
La rivista si articola in sezioni contenenti le più importanti pronunce giurisprudenziali, le sentenze e le decisioni inedite, commentate con collegamenti ad altri argomenti di interesse professionale e la dottrina più autorevole del settore. Alla rivista è collegato un sito web che seleziona le novità più rilevanti che interessano la materia (sentenze, novità legislative, progetti, circolari, ecc.) e fornisce un primo rapido commento.
Il lavoro nel diritto Rivista
l’adozione nelle unioni civili. smenTiTa la cassazione
Rivista di Diritto Tributario
Labor
Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009
ISBN: 978-88-6995-053-7
9 788869 950537
4
Diritto della banca e del mercato finanziario
zionista in Milano. È direttore del Master universitario di secondo livello di Diritto Tributario dell’Università Cattolica. È autore di un centinaio di pubblicazioni in materia tributaria.
2016
Maurizio Logozzo
Fiscalità internazionale; Fiscalità dell’Unione europea;
Judicium n. 1/2017
Maurizio Logozzo, professore ordinario di Diritto Tributario nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e avvocato cassa-
Pacini
norme sostanziali e norme procedurali. L’opera è destinata non solo al mondo universitario, ma anche a tutti gli operatori professionali.
Codice Tributario
Tributario Il Codice Tributario, aggiornato a marzo 2016, contiene le leggi tributarie di più frequente applicazione. La struttura del Codice propone una sistematica che rimanda alla gerarchia delle fonti, presentando, ove possibile, la distinzione tra
2 3
ISSN 1121-4074
Codice
Norme generali;
6
D iretta Da Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo
Si articola in undici parti: 1
Vol. XXVI - Dicembre 2016
Pietro Sirena
LABOR 5 - 6 2016
Diritto Tributario
La nuova disciplina dei licenziamenti
Rivista di
Vol. XXVI - Dicembre
Codice Tributario 2016
maggio - agosto 2016
Diretta Da Salvatore Patti Tommaso Auletta, Mirzia Bianca, Maria Giovanna Cubeddu, Lucilla Gatt (vicedirettore), Fabio Padovini, Massimo Paradiso, Enrico Quadri, Carlo Rimini, Giovanni Maria Uda
The day-by-day operaTion and enforcemenT of judgmenTs relaTive To parenTal responsibiliTies.
www.rivistafamilia.it
Maurizio Logozzo
Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
Rivista bimestrale
www.rivistafamilia.it
pubblicità 40345-Crisi matrimonio-Andreola
Salvatore Patti
Familia
2017
Il diritto della famiglia e delle successioni in Europa
ISSN 1592-9930
5-6
LABOR 2
Pacini
Familia 5 - 6 2016
Familia
Judicium, un periodico di “procedura” che esamina tutti i differenti processi civili del nostro ordinamento giuridico anche in una prospettiva internazionale. Particolare attenzione viene dedicata alla giurisprudenza più attuale e interessante.
Pacini
Indici
Saggi Patrizia Tullini, Sicurezza sul lavoro: posizione di garanzia del datore e concorso di colpa del lavoratore.................................................................................................................................... p. 125 Lorenzo Gaeta, Nascita, infanzia e prima adolescenza dell’art. 39 della Costituzione...................... » 135 Luigi Cavallaro, I diritti sociali come controlimiti. Note preliminari.................................................. » 149
Focus Caroline Dechristé, Le misure più rilevanti della loi Travail.............................................................. » 161
Giurisprudenza commentata Samuele Renzi, Licenziamento collettivo: in caso di inadeguata comunicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta, il vizio resta di natura formale (nota Corte di Cassazione, 29 settembre 2016, n. 19320)................................................................................................................ » 175 Gionata Cavallini, La redistribuzione delle mansioni giustifica il licenziamento, purché ne costituisca la causa e non l’effetto (nota Corte di Cassazione, 28 settembre 2016, n. 19185).......... » 183 Mirko Altimari, Giornate festive: no al cumulo tra compenso aggiuntivo (ex art. 24) e maggiorazione per lavoro su turni (ex art. 22) del Ccnl Regioni e Autonomie locali (nota Corte di Cassazione, sentenza 27 settembre 2016, n. 18942)........................................................................ » 193 Alberto Mattei, Nullità del licenziamento in prova: quali conseguenze? (nota Corte di Cassazione, sentenza 12 settembre 2016, n. 17921)........................................................................ » 199 Luca Busico, Le conseguenze dell’abuso del contratto di lavoro a tempo determinato da parte delle P.A.: la parola fine è ancora molto lontana (nota Tribunale di Trapani, ordinanza 5 settembre 2016; Tribunale di Foggia, ordinanza 26 ottobre 2016).................................................................. » 205 Giulio Centamore, Contratti collettivi «qualificati» e trattamento economico dei soci lavoratori di cooperativa: cronaca e implicazioni di una vicenda singolare (nota Tribunale di Milano, Sentenza 30 giugno 2016, n. 1977).................................................................................................. » 233
Indice analitico delle sentenze Contratto di lavoro – patto di prova – nullità – intimazione licenziamento – conseguenze – applicazione art. 18 l. n. 300/70 o l. n. 604/66 (Cass., sez. lav., 12 settembre 2016, n. 17921, con nota di Mattei) Licenziamenti – licenziamento collettivo – comunicazione ex art. 4, co. 9, l. n. 223/91 – errata applicazione dei criteri di scelta – vizi procedurali – sussistenza (Cass., sez. lav., 29 settembre 2016, n. 19320, con nota di Renzi) – licenziamento per giustificato motivo oggettivo – soppressione del posto di lavoro – redistribuzione delle mansioni del lavoratore licenziato – sussistenza – verifica del nesso causale – necessità (Cass., sez. lav., 28 settembre 2016, n. 19185, con nota di Cavallini) Pubblico impiego – C.C.N.L. Regioni e Autonomie locali – lavoro festivo – maggiorazione – riposo compensativo – lavoro su turni – indennità – insussistenza cumulo (Cass., sez. lav., 27 settembre 2016, n. 18942, con nota di Altimari) – Contratti a tempo determinato – abuso – art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001 – risarcimento del danno – quantificazione ex art. 32, comma 5, l. 183/2010 – possibile contrasto con l’accordo quadro comunitario recepito dalla dir. n. 99/70/CE – rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (Trib. Trapani, 5 settembre 2016, con nota di Busico) – Contratti a tempo determinato – abuso – art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001 – possibile contrasto con gli artt. 3, 4, 24, 35, 97, 101, 104, 111 e 117 Cost. – rinvio alla Corte costituzionale (Trib. Foggia, 26 ottobre 2016, con nota di Busico) Socio lavoratore – società cooperative – retribuzione minima – art. 7, comma 4, l. n. 31/2008 – art. 36 Cost. – organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative (Trib. Milano, 30 giugno 2016, con nota di Centamore) Indice cronologico delle sentenze Giorno
30 5 12 27 28 29 26
Autorità 2016 Giugno Trib. Milano Settembre Trib. Trapani Cass., sez. lav., n. 17921 Cass., sez. lav., n. 18942 Cass., sez. lav., n. 19185 Cass., sez. lav., n. 19320 Ottobre Trib. Foggia
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233 205 199 193 183 175 205
Notizie sugli autori
Mirko Altimari – ricercatore nell’Università Cattolica del Sacro Cuore Luca Busico – coordinatore presso la Direzione del personale dell’Università di Pisa Luigi Cavallaro – consigliere presso la sezione lavoro della Corte di Cassazione Gionata Cavallini – dottorando di ricerca nell’Università degli studi di Milano Giulio Centamore – assegnista di ricerca nell’Università di Bologna Caroline Dechristé – redattrice capa presso Dalloz Lorenzo Gaeta – professore ordinario nell’Università degli Studi di Siena Alberto Mattei – assegnista di ricerca nell’Università degli studi di Verona Patrizia Tullini – professoressa ordinaria nell’Università di Bologna Samuele Renzi – collaboratore presso la cattedra di diritto del lavoro nell’Università di Firenze
Saggi
Patrizia Tullini
Sicurezza sul lavoro: posizione di garanzia del datore e concorso di colpa del lavoratore Sommario : 1. Oltre il contenuto tecnico dell’art. 2087 c.c.: disposizione generale, norma in bianco, clausola aperta, principio di ordine pubblico e altro ancora. – 2. Il modello collaborativo della sicurezza sul lavoro e l’istituto del concorso di colpa. Le ipotesi di revisione teorica. – 3. Il c.d. principio di auto-responsabilità del lavoratore: una nuova acquisizione teorica?
Sinossi. Il contributo esamina i recenti orientamenti della giurisprudenza penale e del lavoro in materia di concorso di colpa del lavoratore nel verificarsi dell’evento lesivo della salute e sicurezza. L’analisi sottolinea, in termini critici, l’utilizzo emergente del principio generale dell’affidamento che incide sul giudizio di colpa del datore di lavoro, in funzione di attenuazione della sua responsabilità per violazione dell’obbligo di sicurezza derivante dall’art. 2087 c.c. Attraverso il ricorso all’affidamento alcune pronunce configurano un “nuovo” principio di auto-responsabilità del lavoratore e accolgono l’idea del lavoratore “garante di se stesso”, attenuando di conseguenza i doveri di vigilanza e di controllo sulla condotta del destinatario della tutela che sono previsti per legge ed incombono sul datore di lavoro nella sua qualità di soggetto garante. Abstract. The paper examines the recent trends in criminal law and labor law relating to the worker’s negligence in the occurrence of the harmful effects on health and safety. The analysis points out, in critical terms, the emerging use of the general principle of trust which affects the judgment of guilt by the employer, and determines the attenuation of its liability for breach of contractual obligation under the art. 2087 cod. Civ. Some judgements are considered a “new” principle of the employee self-responsibility and the idea of the worker “guarantor of himself”, thus mitigating the supervisory duties and control which are provided by law and imposed on the employer as agent of guarantee. Parole chiave: art. 2087 c.c. – obbligo di sicurezza – legittimo affidamento – concorso di colpa – auto-responsabilità
Patrizia Tullini
1. Oltre il contenuto tecnico dell’art. 2087 c.c.: disposizione
generale, norma in bianco, clausola aperta, principio di ordine pubblico e altro ancora.
Nell’ampio panorama della normativa lavoristica, l’art. 2087 c.c. introduce una disposizione sicuramente molto duttile e poliforme che sfugge ad un’unica qualificazione giuridica o ad un preciso inquadramento concettuale, sottraendosi elegantemente ai molti tentativi, compiuti da studiosi ed interpreti, di consegnarla ad una gloriosa stagione del diritto del lavoro che non è più. Considerata in modo unanime una «norma generale», specie se confrontata con le innumerevoli disposizioni di prevenzione e tutela della sicurezza sul lavoro di carattere particolare e dettagliato1, per alcuni autori l’art. 2087 c.c. può qualificarsi come «norma in bianco» o come «clausola generale», in ragione del suo precetto indeterminato ma rivolto alle istanze socio-economiche esterne2. Talvolta è stata definita una «norma a contenuto aperto» perché capace di auto-integrarsi ed assicurare un costante adeguamento del contenuto giuridico, oppure come «norma di chiusura del sistema antinfortunistico» secondo la formulazione elaborata dall’uniforme indirizzo giurisprudenziale in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle cautele dovute3. E ancora, secondo la prevalente interpretazione, l’art. 2087 c.c. introduce una «norma di sistema» per il collegamento (appunto, sistematico) che ha strettamente intrecciato con le Carte costituzionali vigenti nell’ordinamento giuridico multilivello. Dapprima dottrina e giurisprudenza hanno instaurato un nesso teorico (ed operativo) tra l’art. 2087 c.c. e i principi fondamentali della Costituzione (cfr. spec. artt. 4, 32, 41, c. 2), rivitalizzando una disposizione codicistica abbandonata a se stessa e fortemente indiziata d’aver favorito un certo paternalismo giuridico di stampo corporativo. Più di recente s’è delineata una correlazione ancor più ambiziosa sul piano teorico-ricostruttivo: all’art. 2087 c.c. è stato assegnato il nobile compito di gettare un ponte verso i principi della Carta di Nizza e addirittura verso la Tavola dei diritti umani. Si sono aperte prospettive affascinanti e inedite per l’antica norma – secondo alcuni autori, ormai assurta in apicibus al ruolo di autentico principio d’ordine pubblico-privato – dal quale non potrebbero che derivare fruttuose conseguenze e molteplici opportunità di applicazioni concrete. L’art. 2087 c.c. si fa chiave di volta del diritto antidiscriminatorio
1
Albi, Sicurezza sul lavoro e sistema civile (art. 2087 c.c.), in Natullo (a cura di), Salute e sicurezza sul lavoro, Utet Giuridica, 2015, 149; Id., Adempimento dell’obbligo di sicurezza e tutela della persona, in Busnelli (diretto da), Il Cod. Civ. Commentario, Giuffré, 2008, 78 ss. 2 Cfr. Natullo, Il quadro normativo dal Codice civile al Codice della sicurezza sul lavoro. Dalla Massima Sicurezza possibile alla Massima Sicurezza effettivamente applicata?, in Id. (a cura di), op. cit., 12; Breccia, Clausole generali e ruolo del giudice, in Mazzotta (a cura di), Ragioni del licenziamento e formazione culturale del giudice del lavoro, Giappichelli, 2008, 18. 3 Cfr., ad es., Cass., 19 febbraio 2016, n. 3291, in MGL, 2016, 301. In dottrina v. Montuschi, Dai principi al sistema della sicurezza sul lavoro, in Id. (a cura di), La nuova sicurezza sul lavoro, I, Principi comuni, Zanichelli, 2011, 10: «nonostante la tendenziale completezza del testo unico del 2008, c’è ancora bisogno dell’art. 2087 c.c., nel quale si compendia la filosofia e la prassi operazionale della prevenzione e, in definitiva, dal quale partono i percorsi attuativi dello stesso d. lgs. n. 81/2008».
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Sicurezza sul lavoro: posizione di garanzia del datore e concorso di colpa del lavoratore
con una vocazione generale e universale4; porta d’ingresso della protezione dei diritti e delle libertà nel rapporto di lavoro; regola di contrasto e sanzionatoria del licenziamento arbitrario (diverso da quello ingiustificato)5; fondamento della tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali arrecati alla persona6; presidio giuridico del valore della dignità del lavoratore. Ai giuslavoristi l’ambizione non manca, ma il risvolto di letture di politica del diritto così ideali e visionarie è quello di trascurare, o almeno depotenziare, il profilo tecnico della disposizione: cioè, la sua essenziale funzione strumentale per l’individuazione di regole di tutela dei beni fondamentali del lavoratore. Questa sorte tocca, almeno in parte, all’art. 2087 c.c.: sotto il peso di cotanta gloria conquistata nell’orizzonte politico-normativo, sembra lentamente franare il contenuto tecnico della norma imperativa e, in tal modo, la misura garantista di cui è portatrice.
2. Il modello collaborativo della sicurezza sul lavoro e l’istituto del concorso di colpa. Le ipotesi di revisione teorica.
Un esempio del doppio registro – politico e tecnico – sul quale agisce l’art. 2087 c.c. si può cogliere nel recente indirizzo interpretativo che – forse per controbilanciare gli effetti ritenuti troppo estensivi della responsabilità datoriale per inadempimento dell’obbligo di sicurezza – ha iniziato un iter di revisione dell’istituto del concorso di colpa del lavoratore nella produzione dell’evento lesivo. Un processo di revisione teorica che inevitabilmente investe anche la posizione soggettiva del datore di lavoro, quella che la dottrina penalista identifica come la principale “posizione di garanzia” nell’ambito della gestione prevenzionistica aziendale. Il trend interpretativo è guidato da un nuovo orientamento sviluppato da (una parte) della giurisprudenza penale, che pure in passato aveva sostenuto in modo pressoché unanime un’interpretazione rigorosa della posizione datoriale proprio evocando l’art. 2087 c.c. ed esercitando una forte influenza sull’elaborazione della dottrina giuslavorista in materia di obbligo di sicurezza. Alcune recenti pronunce della Cassazione penale hanno argomentato – in modo testuale – che il sistema normativo prevenzionistico si sarebbe lentamente trasformato da un modello iper-protettivo, incentrato sulla figura del datore quale garante della sicurezza e investito d’un dovere assoluto di vigilanza sui lavoratori, in un modello di tipo colla-
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Lassandari, Le discriminazioni nel lavoro. Nozione, interessi, tutele, Cedam, 2010, 242. Razzolini, I nuovi confini della discrezionalità del giudice in materia di lavoro a termine e licenziamento, in LD, 2016, 433: «attraverso la ricerca di una distinzione fra licenziamento arbitrario e licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo fondata sulla dignità della persona, che per il tramite dell’art. 2087 c.c. acquista preciso rilievo giuridico all’interno del rapporto contrattuale». 6 Da ultimo cfr. Santoro Passarelli, Appunti sulla funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro dopo il Jobs Act, in q. Riv., 2016, n. 1-2, 19. 5
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Patrizia Tullini
borativo nel quale gli obblighi giuridici di protezione sono ripartiti fra più attori, incluso il lavoratore-creditore di sicurezza7. Il riferimento cade soprattutto sull’art. 20, d. lgs. n. 81/2008 che ha introdotto una serie di obblighi e regole precauzionali anche in capo al lavoratore, esigendo un comportamento improntato a diligenza, prudenza e perizia diretto a prendersi cura della propria salute e sicurezza. Dal paradigma dell’«ontologica irrilevanza del concorso colposo del lavoratore» – che l’interpretazione giurisprudenziale aveva tradizionalmente collegato alla posizione di garanzia derivante dall’art. 2087 c.c. – si sarebbe passati, nel quadro normativo vigente, alla definizione di un’area di rischio che il datore di lavoro è tenuto a valutare in via preventiva e a governare attraverso il piano di sicurezza aziendale (artt. 28-29, d. lgs. n. 81/2008). Viene così a delinearsi un criterio di prevedibilità dell’evento lesivo da intendersi come «dominabilità umana del fattore causale»8 e, in relazione all’area di rischio previamente circoscritta, sarebbero individuabili i requisiti di rilevanza giuridica del contributo colposo del lavoratore (cui può corrispondere una proporzionale delimitazione della responsabilità datoriale, sino all’ipotesi dell’esonero totale). In questa prospettiva, l’eventuale cooperazione colposa della vittima non assumerebbe alcuna evidenza qualora risulti ricompresa nell’area di rischio pertinente all’attività lavorativa e al processo produttivo che dev’essere presidiato dal ruolo di garanzia del datore di lavoro. Mentre, al contrario, la condotta del lavoratore sarebbe in grado di escludere la responsabilità datoriale, interrompendo il nesso causale tra l’attività prevenzionistica obbligatoria e il verificarsi dell’infortunio, quando sia «esorbitante» rispetto alle mansioni affidate e alle direttive ricevute, oppure «abnorme» perché fuoriesce dall’organizzazione e dal contesto lavorativo9, o ancora presenti i caratteri dell’«atipicità ed eccezionalità» così da porsi come causa esclusiva e determinante dell’evento lesivo10. In simili ipotesi-limite, infatti, i comportamenti del lavoratore non sono più riconducibili all’area di rischio governata dal soggetto garante in base al criterio della prevedibilità, ma ne fuoriescono, tracciando l’estremo confine del corretto adempimento dell’obbligo di sicurezza11. Sino a questo punto il ragionamento dei giudici non si presta a censure, seguendo una linea interpretativa rigorosa e coerente. Salvo il fatto che le fattispecie concrete in cui è verificabile una condotta esorbitante o abnorme o atipica o eccezionale a carico del la-
7
Cfr. spec. Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883, in NGL, 2016, 496 e ss.; Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 2015, n. 36040, in ADL, 2015, 1385 e ss. con nota di Di Stasi; Cass. pen., sez. IV, 5 maggio 2015, n. 41486, in De Jure. 8 Così Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 2015, n. 36040 cit. 9 Secondo Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883, cit., la nozione di comportamento «esorbitante» riguarda «le condotte che fuoriescono dall’ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartite dal datore di lavoro», mentre quella di comportamento «abnorme» si riferisce alle «condotte poste in essere in maniera imprevedibile dal prestatore al di fuori del contesto lavorativo, cioè che nulla hanno a che vedere con l’attività svolta». 10 Cfr. Cass., 27 settembre 2012, n. 16474, in www.olympus.uniurb.it: «Il comportamento imprudente del lavoratore, quando non presenti i caratteri estremi sopra indicati, può rilevare come concausa dell’infortunio, ed in tal caso la responsabilità del datore di lavoro può essere proporzionalmente ridotta». Resta fermo che, quando la condotta del lavoratore sia attuativa di uno specifico ordine di servizio, «nonostante la sussistenza di condizioni di pericolo per le modalità dell’esecuzione, il comportamento imprudente o negligente assume efficacia soltanto di merca occasione o modalità dell’iter produttivo dell’evento, la cui responsabilità va ascritta per intero al datore di lavoro». 11 Cfr. Tullini, Tutela civile e penale della sicurezza del lavoro: principi, categorie e regole probatorie a confronto, in RTDPC, 2011, 752.
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Sicurezza sul lavoro: posizione di garanzia del datore e concorso di colpa del lavoratore
voratore sono piuttosto rare. Non sorprende, allora, che l’istituto del concorso di colpa sia messo in tensione per altra via e che la giurisprudenza riceva continue sollecitazioni a re-interpretare in senso restrittivo l’ambito della responsabilità datoriale incidendo sul rimprovero di colpa e sull’addebito d’inosservanza del dovere di sicurezza. Così, nel processo di revisione ermeneutica affiora un altro principio – sebbene spesso non evocato in modo esplicito – destinato ad influire sull’accertamento dell’elemento colposo imputabile al datore, anziché sul piano della relazione causale. Si tratta del principio di (ragionevole) affidamento, che valorizza la fiducia del soggetto garante nell’adempimento delle rispettive regole precauzionali da parte di tutti i soggetti obbligati, nessuno escluso. Tale principio di carattere generale sarebbe idoneo a condizionare il giudizio di prevedibilità dell’evento infortunistico e lo standard di prevenzione in concreto esigibile, sino ad attenuare o addirittura escludere la responsabilità del datore. In più occasioni, nella giurisprudenza recente emerge (con diverse sfumature) il tema del legittimo affidamento sulla condotta prudente e diligente che il legislatore, come si fa osservare, richiede anche al lavoratore. Più si amplia l’ambito di operatività di tale principio e più si riduce la portata dell’obbligo di vigilanza nei confronti dei destinatari della tutela12. Anzi, secondo una parte della giurisprudenza, la fiducia riposta nell’adempimento da parte del lavoratore dell’obbligo di prendersi cura di sé conduce ad escludere la necessità di attuare una continua e attenta sorveglianza. Una volta che il datore abbia assolto correttamente ai propri obblighi prevenzionistici e fornito i necessari strumenti di protezione, non risponderà del fatto lesivo eventualmente occorso al lavoratore13. In particolare, la Cassazione ha ritenuto che l’esercizio del controllo datoriale si possa attenuare quando il lavoratore sia una persona esperta o specializzata14, oppure sia stato formato/addestrato in modo adeguato alla gestione del rischio. E ancora, per giustificare l’insorgere del legittimo affidamento è stato attribuito qualche rilievo all’incarico di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ricoperto dalla vittima, dovendosi presumere la sua capacità ed esperienza nell’ambito prevenzionistico15. Soprattutto l’assolvimento degli obblighi informativi/formativi da parte del datore di lavoro (cfr. artt. 36-37, d. lgs. n. 81/2008) servirebbe a rafforzare l’affidamento sulle qualità del dipendente e sull’osservanza del suo comportamento diligente16. In dottrina l’operatività del principio di affidamento non è stata esclusa a priori né considerata incompatibile con il quadro teorico generale. S’è ritenuto sufficiente introdurre qualche precisazione, desunta dall’osservazione casistica, per scongiurare gli effetti più eclatanti. La possibilità d’invocare l’affidamento è stata negata solo nelle ipotesi in cui il
12
Cfr. Paolini, La culpa in vigilando del datore di lavoro e la sua natura di responsabilità contrattuale, in ADL, 2016, 655 ss. Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883, cit.; Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 2015, n. 36040, cit. 14 Cfr. Cass., 16 marzo 2016, n. 5233, in RIDL 2016, II, 544, con nota di Lazzari, Sicurezza sul lavoro e obbligo datoriale di vigilanza: «l’obbligo di vigilanza subisce un’ulteriore attenuazione, in base ad un principio di ragionevole affidamento nelle accertate qualità del dipendente, in ipotesi di provetta specializzazione dell’operaio munito di approfondita conoscenza d’una determinata lavorazione cui sia addetto da lungo tempo». La pronuncia richiama un lontano precedente della Cass., 26 novembre 1994, n. 10066, in De Jure. 15 Hanno tuttavia negato che la qualifica di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza della vittima potesse diminuire la responsabilità a carico del datore, Cass. pen., sez. fer., 22 agosto 2013, n. 35424, in RIMP, 2013, II, 102 e ss.; Cass., 27 settembre 2012, n. 16474, cit. 16 Lazzari, Sicurezza sul lavoro e obbligo datoriale di vigilanza, in RIDL, 2016, II, 545. 13
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Patrizia Tullini
garante abbia avuto il tempo o l’occasione di percepire segnali tangibili della negligenza del lavoratore (trattandosi di situazione inconciliabile con l’insorgere della fiducia nella sua condotta osservante). E ancora, è stato disconosciuto il ricorso al principio di affidamento quando sono in gioco misure cautelari ispirate alla sicurezza c.d. oggettiva, cioè quelle misure che non richiedono alcuna cooperazione del lavoratore e sono dettate proprio per ovviare alla sua imprudenza o imperizia (ad es., nel caso dell’apprendista o del lavoratore giovane e inesperto)17. Ne risulta, invero, un contesto interpretativo piuttosto fumoso e, ancor più, un’applicazione pratica molto incerta e oscillante. In verità, il richiamo al principio del legittimo affidamento, da intendersi come limite o contrappeso nel giudizio di colpevolezza del datore di lavoro, è abbastanza problematico in questa materia dove resiste il baluardo dell’art. 2087 c.c. La norma individua esattamente l’immancabile figura di garanzia e mantiene fermo il dovere di sicurezza a suo carico, che include, tra l’altro, l’esercizio del controllo sul rispetto delle misure di tutela da parte degli stessi destinatari. Non si può trascurare che, almeno nell’ambito lavoristico (senza avventurarsi nel più scivoloso terreno del diritto penale), i limiti di rilevanza del principio di affidamento sono stati definiti in modo esplicito dal legislatore. In base all’art. 18, co. 3-bis, d. lgs. n. 81/2008 incombe sul datore (e sui dirigenti) l’obbligo di vigilare anche sull’adempimento dei doveri di sicurezza che sono propri e tipici del lavoratore. Pertanto, la responsabilità esclusiva ed univoca per l’evento lesivo potrà essere accollata alla vittima solo quando si accerti – non solo il pieno rispetto da parte datoriale delle norme di prevenzione, ma – l’inesistenza d’un difetto di vigilanza o d’una culpa in vigilando. Ciò significa, in altri termini, che la violazione dell’obbligo di tutela che compete al soggetto garante assume un valore preliminare e assorbente rispetto alla condotta del lavoratore: quest’ultima potrà acquisire un rilievo giuridico solo dopo che il datore abbia puntualmente adempiuto a tutte le prescrizioni poste a suo carico18.
3. Il c.d. principio di auto-responsabilità del lavoratore: una
nuova acquisizione teorica ?
L’estremo approdo del ripensamento in atto sull’istituto del concorso di colpa è icasticamente descritto da alcune pronunce giurisprudenziali come «il c.d. principio di auto-
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Secondo Marra, La rilevanza della condotta colposa del lavoratore negli infortuni sul lavoro, Il penalista.it, 11 aprile 2016, il principio di affidamento, inteso in questi termini, non è strutturalmente incompatibile con la posizione di garanzia del datore «ed anzi offre un utile strumento per individuare i limiti operativi del dovere di vigilanza gravanti su di esso». Per una definizione delle cautele di carattere “oggettivo” cfr. Cass. pen., sez. IV, 9 settembre 2015, n. 40721, in RIDL, 2016, II, 166, con nota di Gentile. 18 Così Cass. pen., sez. IV, 15 gennaio 2015, n. 1858, in www.olympus.uniurb.it. In dottrina cfr. Pascucci, Angelini, Lazzari, I “sistemi” di vigilanza e di controllo nel diritto della salute e sicurezza sul lavoro, in LD, 2015, 621 ss.
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Sicurezza sul lavoro: posizione di garanzia del datore e concorso di colpa del lavoratore
responsabilità del lavoratore»19. Il tema è stato subito ripreso e amplificato da una parte della dottrina giuslavorista in termini sostanzialmente adesivi20: nasce di qui un’abbondante retorica sul ruolo attivo attribuito al lavoratore-creditore di sicurezza nell’ambito della prevenzione aziendale e titolare degli obblighi introdotti dall’art. 20, d. lgs. n. 81/2008. Si enfatizza il significato sintomatico di tale disposizione che contempla il dovere di prendersi cura di se stesso e delle altre persone presenti nel luogo di lavoro, stabilendo persino una sanzione penale (cfr. art. 59) in caso di violazione di alcuni precisi doveri di comportamento elencati dall’art. 20, c. 2. Qualche autore arriva sino al punto di concettualizzare l’idea del lavoratore «garante di se stesso», partendo dal presupposto che sarebbe contraddittorio identificare un agentemodello di per sé ontologicamente imprudente e incapace di assicurare la propria incolumità. Da un lato, si obietta che un modello normativo, in quanto tale, va considerato per definizione prudente e diligente; dall’altro, si rileva che una limitazione dell’autoresponsabilità giuridica del lavoratore sarebbe incompatibile con la rappresentazione di tale soggetto che si desume dall’art. 20, d. lgs. n. 81/200821. In verità, dalla ricostruzione emerge un possibile fraintendimento nell’interpretazione del (preteso) compito prevenzionistico attribuito al lavoratore. Gli obblighi previsti dall’art. 20, d. lgs. n. 81/2008 riguardano la collaborazione dovuta nei confronti dei garanti della sicurezza (datore di lavoro, dirigenti, preposti) ai fini della realizzazione della protezione individuale e collettiva. È pacifico che tale collaborazione (esigibile anche ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c. in combinato disposto con l’art. 1227 c.c.) è diretta ad evitare il verificarsi di eventi lesivi e, in caso di inadempimento od omissione, la condotta del lavoratore può rilevare potenzialmente come concausa e ridurre in modo proporzionale la responsabilità del datore22. Una posizione di garanzia – sia pure di mero fatto – verso gli altri lavoratori e le persone presenti nell’ambiente di lavoro può configurarsi esclusivamente quando il dipendente, in ragione della maggiore esperienza e capacità professionale, si trovi nella concreta condizione e possibilità d’intervenire per rimuovere le fonti di rischio, impedendo l’imminente verificarsi dell’infortunio23. È comprensibile l’esigenza politica di evitare una dilatazione eccessiva o incontrollata della sfera di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., trasformandola in una forma di responsabilità di stampo oggettivo o da posizione. Per scongiurare questo timore, mai sopito, la giurisprudenza è costretta ad intervenire ripetutamente con una massima che è
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Così esplicitamente Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883, cit.; Cass. pen., sez. IV, 17 giugno 2015, n. 36040, cit.; Cass. pen., sez. IV, 15 ottobre 2015, n. 41486, cit. 20 Di Stasi, Obblighi di sicurezza, sistema “collaborativo” e principio di auto-responsabilità del prestatore di lavoro, in ADL, 2015, 1385 ss. 21 Castronuovo, Curi, Tordini Cagli, Torre, Valentini, Diritto penale della sicurezza sul lavoro, BUP, 2016, 94. 22 Cfr., ad es., Cass., 3 luglio 2008, n. 18376, in NGL, 2008, 586; Cass., 14 aprile 2008, n. 9817, ivi, 2008, 310; Cass. pen., IV sez., 20 marzo 2008, n. 12348, ivi, 2008, 311. 23 Cfr. Cass. pen., sez. IV, 1° settembre 2014, n. 36452, in De Jure, che, descrivendo la posizione di garante di fatto assunta dal lavoratore specializzato e più esperto nei confronti del collega neo-assunto infortunatosi, ha dato adito all’idea del lavoratore “garante di se stesso”.
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Patrizia Tullini
ormai stilema, secondo la quale l’art. 2087 c.c. «non prevede un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma occorre sempre che l’evento sia riferibile a colpa del datore di lavoro per violazione di obblighi di comportamento imposti da norme di fonte legale o suggeriti dalla tecnica e concretamente individuati»24. È necessario, dunque, evitare le manipolazioni dei principi e delle regole di tutela. Dalla trasposizione interna della direttiva-quadro europea 89/391 deriva l’intero sistema normativo prevenzionistico, inclusa la disciplina degli obblighi del lavoratore che è stata riversata pressoché alla lettera nel dettato dell’art. 20, d. lgs. n. 81/2008. La fonte europea chiarisce senza equivoci che il ruolo “attivo” del dipendente consiste nel suo contributo fattivo e nella collaborazione verso i soggetti garanti, i quali «hanno una funzione specifica in materia di protezione della salute e della sicurezza». Ciò significa che i lavoratori s’impegnano «a rendere possibile … al datore di lavoro di garantire che l’ambiente e le condizioni di lavoro siano sicuri e senza rischi» (art. 13, c. 2, lett. e)-f), dir. 89/391/Cee). Con altrettanta chiarezza, l’art. 5, c. 3, dir. 89/391/Cee stabilisce che gli obblighi di comportamento diligente assunti dal lavoratore «non intaccano il principio della responsabilità del datore di lavoro». Un principio di responsabilità che incombe sulla principale posizione di garanzia e al quale non si può contrapporre uno speculare principio di autoresponsabilità del destinatario della medesima garanzia giuridica. È pur vero che la normativa (europea e nazionale) sollecita il contributo e la cooperazione dei lavoratori in vista della più efficace realizzazione del disegno di prevenzione aziendale. Ma, appunto, si tratta d’una cooperazione creditoria richiesta per il corretto assolvimento dell’obbligo di sicurezza che compete al soggetto garante25. L’entusiasmo zelante di alcuni interpreti per il “nuovo” ruolo attivo del lavoratore-creditore di sicurezza ha indotto a sovraccaricare il piano della cooperazione creditoria, sino a trasmodare in una autentica posizione di garanzia. Così, un diritto di credito del lavoratore si trasforma in un obbligo giuridico verso se stesso e/o verso la controparte datoriale26. La ricostruzione, oltre che eccessiva, va oltre ciò che serve per assicurare il funzionamento ottimale del sistema prevenzionistico. Inutile richiamare l’art. 20, d. lgs. n. 81/2008 e
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Così, ad es., Cass., 14 aprile 2008, n. 9817, cit. Nello stesso senso, con alcune puntualizzazioni sull’onere probatorio del lavoratore cfr. Cass., 26 aprile 2016, n. 8237, in RIDL, 2016, II, 544, con nota di Lazzari, Sicurezza sul lavoro e obbligo datoriale di vigilanza; Cass., 4 febbraio 2016, n. 2209, in NGL, 2016, 389; Cass., 5 novembre 2015, n. 22615, ivi, 2016, 138; Cass., 21 maggio 2015, n. 10465, ivi, 2015, 527; Cass., 5 febbraio 2015, n. 2138, ivi, 2014, 387; Cass., 5 novembre 2012, n. 18921, ivi, 2013, 173; Cass., 23 dicembre 2014, n. 27364, in MGL, 2015, 388. 25 Correttamente, dunque, può dirsi che «il datore di lavoro, debitore di sicurezza, può contemporaneamente esigere dal lavoratore, una volta adempiuti i suoi obblighi, che egli si conformi a prescrizioni che … mirano al medesimo risultato finale»; Del Punta, Diritti e obblighi del lavoratore: informazione e formazione, in Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza. Per una gestione integrata dei rischi da lavoro, Giappichelli, 1997, 180. 26 In dottrina Corrias, Sicurezza e obblighi del lavoratore, Giappichelli, 2008, spec. 69 ss., ha proposto di configurare un obbligo di protezione del lavoratore verso il datore e gli altri lavoratori, destinato ad integrare lo schema contrattuale perché ritenuto intrinseco al contenuto della prestazione principale (l’art. 2087 c.c. sarebbe una norma biunivoca). Con la conseguenza che, qualora l’obbligo di sicurezza proprio del lavoratore fosse inosservato, la prestazione principale risulterebbe inadempiuta e potrebbe sfociare nella reazione sanzionatoria, sino al licenziamento. Aderisce a tale impostazione Martinelli, I lavoratori, in Natullo (a cura di), op. cit., 640 ss., secondo cui in base all’art. 20 c. 1, d. lgs. n. 81/2008 la prestazione principale «non è più solo una prestazione di lavoro da svolgersi nelle condizioni di sicurezza predisposte dal datore … ma anche una prestazione sicura da realizzarsi nel rispetto degli obblighi imposti al lavoratore dalla normativa prevenzionistica».
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puntare sull’iper-valorizzazione dei doveri di collaborazione del lavoratore, oppure evocare in modo suggestivo l’utilizzo della pena pubblica per la violazione delle «disposizioni e istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale» (cfr. art. 20, co. 2, lett. b), d. lgs. n. 81/2008). In realtà, l’apparato normativo e sanzionatorio si fonda sulla valenza assoluta ed erga omnes del bene fondamentale che si vuole tutelare. L’intreccio tra il profilo pubblicistico e privatistico è «originario e irresolubile»27 e conduce ad arricchire la complessa struttura del rapporto di lavoro. Si chiarisce così l’apparente anomalia d’un lavoratore-creditore di sicurezza che è tenuto a cooperare con il datore-debitore di sicurezza, finalizzando l’adempimento dei propri obblighi di comportamento alla realizzazione di interessi di speciale rango28, senza tuttavia invertire o scambiare le rispettive posizioni giuridiche (attive e passive) né contraddire la regola generale tuttora sancita dall’art. 2087 c.c.
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Del Punta, op. cit., 181. Cfr. Montuschi, Dai principi al sistema della sicurezza sul lavoro, cit., 17: «l’apparente bisticcio o paradosso d’un creditore che è tenuto a cooperare con il debitore … si spiega ove si tenga presente che la protezione che s’intende realizzare non è solo individuale, bensì “collettiva” ».
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Lorenzo Gaeta
Nascita, infanzia e prima adolescenza dell’art. 39 della costituzione Sommario : 1. La frustrante trasformazione del “più fascista dei diritti”. – 2. “Quel pasticciaccio” dell’art. 39. – 3. Il Quarantotto. – 4. La “falsa partenza” del diritto del lavoro. – 5. L’invenzione del contratto collettivo di diritto comune. – 6. Gli aggiramenti dell’art. 39. – 7. «The times they are a-changin’».
Sinossi. Il contributo, di taglio essenzialmente storico, ricostruisce il contesto culturale degli anni precedenti e immediatamente successivi all’emanazione della Costituzione, con riferimento all’art. 39 di quest’ultima. Si mettono in luce i principali orientamenti politico-culturali che si sono misurati, alla caduta del regime fascista, nello sforzo di definire il nuovo assetto democratico per il sistema sindacale e della contrattazione collettiva. Una volta descritto il compromesso individuato nell’art. 39, l’articolo evidenzia come questo sia stato aggirato per una serie di ragioni storiche e politiche, aprendo la strada a fondamentali apporti ricostruttivi della dottrina che hanno consentito di ricondurre il sistema creatosi entro coordinate giuridiche razionali. Abstract. This historical essay traces the cultural context of the years previous and immediately following the emanation of the Italian Constitution, with regard to its art. 39. The author underlines the main political views which competed, after the downfall of the fascism, in the effort of defining a new democratic organization for trade unions and collective bargaining. Once the compromise of art. 39 is described, the essay highlights how this rule has been bypassed because of many historical and political reasons, paving the way for fundamental critical contributions from the doctrine which permitted to bring the existing system back to reasonable juridical frameworks. Parole chiave: sindacato – libertà sindacale – contratto collettivo – Costituzione.
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Il testo riproduce la relazione tenuta a Trieste il 19 novembre 2016 a un incontro su La libertà sindacale tra la Carta e la Corte costituzionale. È destinato al Liber amicorum per Giuseppe Santoro-Passarelli.
Lorenzo Gaeta
1. La frustrante trasformazione del “più fascista dei diritti”. Subito dopo la caduta del fascismo, la materia del lavoro è forse quella dove il taglio col passato appare più difficoltoso: la scommessa è infatti quella di trasformare il diritto “più fascista” in quello “più democratico”. E lo è per più motivi. Innanzitutto, la struttura del diritto del lavoro italiano quale si presenta dopo il 25 luglio 1943 è assolutamente particolare. Non tanto per quanto riguarda il rapporto di lavoro individuale, la cui ossatura continua a restare immutata, tanto più che il codice civile è ancora fresco di stampa e, sebbene spacciato con grande ipocrisia per genuina creatura “mussoliniana” da quel Dino Grandi1 poi artefice della caduta del regime, altro non è che un buon vecchio codice liberale2. Le particolarità stanno tutte nel diritto sindacale: già un paio di settimane dopo il 25 luglio le strutture del corporativismo sono state smantellate, mentre il sindacato unico fascista, ente di diritto pubblico, è stato soppresso l’anno dopo; ma la “fascistissima” legge sindacale del 1926 è formalmente ancora in vigore, con tutte le sue regole autoritarie, tra cui il divieto dello sciopero e una rigida disciplina del contratto collettivo3, che (come ulteriormente ribadito dal codice civile) ha forza di legge tra le parti ed è inderogabile dal contratto individuale se non in meglio per il lavoratore. L’ordinamento sindacale fascista, formalmente ancora in vigore, è praticamente svuotato di contenuto a seguito dell’eliminazione di tutti i suoi organismi. Ma non c’è un nuovo ordinamento che ne possa prendere il posto. In anni di «interminabile vacatio»4, continua a vigere, infatti, una sorta di diritto “ad esaurimento” costituito dal corporativismo senza corporazioni. Perciò tutti, senza alcuna esclusione, attendono un nuovo «ordinamento sindacale di diritto», soprattutto da parte della Costituzione che ci si accinge a scrivere5.
2. “Quel pasticciaccio” dell’art. 39. L’altra difficoltà di una transizione democratica del diritto del lavoro sta nell’affannosa ricerca di un supporto dottrinale in grado di orientare il dialogo: manca chi lo studi scientificamente e lo insegni nelle Università, dove dall’anno accademico 1943-44 la “nuova” materia ha sostituito il diritto corporativo. Infatti, dopo la Liberazione, le cattedre di diritto del lavoro sono tenute da giuslavoristi “di mestiere” (cioè vincitori di concorsi di diritto
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Grandi, Tradizione e rivoluzione nei codici mussoliniani, Tipografia delle Mantellate, 1940. Sull’asetticità tecnica del codice civile, Irti, Scuole e figure del diritto civile, Giuffrè, 1982. 3 Da ultimo, Gaeta, «La terza dimensione del diritto»: legge e contratto collettivo nel Novecento italiano, in DLRI, 2016. 4 Scotto, Considerazioni sulla emananda legislazione del lavoro secondo l’articolo 39 della Costituzione, in DL, 1948, I, 227. 5 Sermonti, Per la ricostruzione di un ordinamento sindacale di diritto, in DL, 1946, I, 177 ss.; Riva Sanseverino, Il contratto collettivo nella legislazione italiana, ivi, 3 ss. 2
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corporativo) soltanto a Pisa, Firenze e Napoli6 (e a Trieste, che però non è più in Italia7); le giovani leve, poi, tardano ad emergere, in una materia ad alta densità ideologica. Il diritto del lavoro diventa in breve «la Cenerentola delle cattedre di Giurisprudenza»8. Per questo motivo, all’Assemblea Costituente, dove abbondano i professori universitari di ogni disciplina giuridica, non c’è alcun giuslavorista, se non quelli reclutati “sul campo”9, in primis il carismatico leader del sindacato unitario, Giuseppe Di Vittorio, la cui relazione presentata alla terza sottocommissione diventa in breve punto di riferimento per un diritto da costruire10. C’è, quindi, un non indifferente scarto storico tra i giuslavoristi e i costituenti, tra gli esponenti di una materia epurata e i rifondatori dell’ordinamento democratico: i primi lasciano che siano i secondi a risolvere le grandi questioni, e preferiscono aspettare che “passi la nottata”, come nella Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, amara fotografia di un momento di duro passaggio. Ma in quel 1946 ancora vicino ai retaggi giuridici del fascismo, l’unico ordinamento sindacale al quale si riesce a pensare è un ordinamento statale. Democratico, ma pur sempre pubblicistico. Il nodo della posizione giuridica del sindacato trova perciò soluzione in una mediazione tra chi lo vuole come una sorta di ente riconosciuto e controllato dallo Stato, e chi lo vuole libero, svincolato da rapporti con il potere pubblico: un equilibrio molto delicato tra l’esigenza del sindacato di libertà e autonomia e l’esigenza opposta di ottenere da esso le garanzie necessarie per potergli affidare alcune funzioni di carattere pubblico. L’unica strada percorribile perché lo Stato garantisca al sindacato prerogative altrimenti inattingibili pare a tutti l’attribuzione della personalità giuridica: alla Costituente lo ribadisce autorevolmente Costantino Mortati, che la ritiene condizione indispensabile per l’esercizio della funzione, «indubbiamente pubblicistica», di stipulare contratti collettivi11. Le condizioni alle quali subordinare il riconoscimento del sindacato vengono risolte in maniera “leggera”, imponendo – peraltro solo nel dibattito finale in assemblea plenaria – l’unico requisito del possesso di «un ordinamento interno a base democratica». È una soluzione ancora figlia del passato12, nonché di un presente che vede un sindacato unico, forte e glorificato dalla Resistenza. I costituenti cuciono il nuovo «ordinamento sindacale di diritto» addosso al sindacato unitario, senza considerare cosa succederebbe se esso si frantumasse, come puntualmente avverrà solo uno o due anni dopo. Anzi, c’è chi propone di inserire un espresso riconoscimento della Cgil come «ente giuridico che
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Ichino, I primi due decenni del diritto del lavoro repubblicano: dalla liberazione alla legge sui licenziamenti, in Id. (a cura di), Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana. Teorie e vicende dei giuslavoristi dalla Liberazione al nuovo secolo, Giuffrè, 2008, 4. 7 Ferrara, Il diritto del lavoro a Trieste nel secondo dopoguerra, in RIDL, 2016, III, 115 ss. 8 Ardau, La Cenerentola delle cattedre di giurisprudenza, in DL, 1947, I, 243. 9 Passaniti, La Costituente tra cronaca e storia. Il nodo giuslavoristico nell’ordine democratico, in Gaeta (a cura di), Prima di tutto il lavoro. La costruzione di un diritto all’Assemblea Costituente, Ediesse, 2014, 23 ss. 10 Gaeta, Le parole sull’ordinamento sindacale, in Farina (a cura di), Le parole di Giuseppe Di Vittorio. La persona, il lavoro, il sindacato, la Costituzione, Ediesse, 2016, 93 ss. 11 Sul dibattito alla Costituente, Lazzeroni, Libertà sindacale e contrattazione collettiva: una norma impegnativa, in Gaeta (a cura di), Prima di tutto, cit., 229 ss. 12 Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, Comunità, 1967, 20.
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riunisce i sindacati»13. Alla fine, comunque, la faticosa opzione che passa tiene conto di un possibile pluralismo sindacale14. La scelta del termine «organizzazione» invece di «associazione», sulla quale la dottrina verserà i classici fiumi d’inchiostro15, avviene in maniera del tutto casuale: i costituenti ritengono si tratti di una questione del tutto “estetica”. Anzi, la stessa necessità di introdurre una previsione apposita per le associazioni sindacali rispetto a tutte le altre (cui già provvede la norma che sarà il futuro art. 18) viene messa in discussione da chi teme che una scelta del genere possa produrre l’effetto di limitare l’attività del sindacato; ma a questa preoccupazione di Lelio Basso risponde il collaudato asse Togliatti-Dossetti, che sottolinea le ragioni di una tale specificità. Intorno al sistema che si sta costruendo cresce l’attesa dei giuslavoristi: «La nuova Costituzione ci darà, a quanto sembra, fra le tante e varie disposizioni, anche la legge sindacale», profetizza Ubaldo Prosperetti16. Resta da legare il nodo della natura del sindacato a quello dell’efficacia dei contratti collettivi, tema assolutamente bisognoso di una soluzione, essendo allora uno dei più ingarbugliati: infatti, accanto ai contratti corporativi resi ultrattivi da un ambiguo decreto luogotenenziale del 194417 coesistono i nuovi contratti stipulati dai sindacati liberi, efficaci solo nei confronti dei sottoscrittori, che però qualche volta (secondo una prassi che si afferma proprio allora) sono trasfusi in norme di legge per far loro acquisire efficacia generale18. Naturale prerogativa della riconosciuta personalità giuridica è ritenuta, quindi, quella di poter stipulare contratti collettivi efficaci nei confronti di tutti i lavoratori appartenenti alla categoria. I costituenti hanno in mente un solo modello di contratto collettivo, non dissimile da quello corporativo (si propone anche di scrivere che «il contratto collettivo di lavoro ha efficacia di legge»). La quadratura del cerchio consiste, allora, nell’adattare un modello potenzialmente autoritario al nuovo sistema democratico dei rapporti di lavoro, in modo tale da imporre ai tanti datori di lavoro «egoisti», che nella natura non cogente del contratto collettivo trovano una scusa per non applicarlo, l’obbligo di «rispettare i contratti come le leggi sociali». Soluzione anche qui facilitata dalla presenza di un grande sindacato unitario. Tra l’opzione che ammette alle trattative il sindacato col maggior numero di iscritti tra i lavoratori interessati e quella che ammette tutti i sindacati, in proporzione al numero degli iscritti, prevale ampiamente la seconda: una soluzione che già allora ingenera non pochi dubbi tecnici su questa nuova entità del sindacato “di coordinamento”19. Qui, probabilmente, il costituente non è lungimirante, immaginando, a torto, che i sindacati accetteranno il compromesso della registrazione, del conferimento della personalità giuridica o dell’intervento della legge, pur di stipulare ibridi contratti collettivi con
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I socialisti Michele Giua ed Emilio Canevari (uno dei firmatari del “patto di Roma” del 1944): Lazzeroni, Libertà sindacale, cit., 242. Ruini, L’organizzazione sindacale ed il diritto di sciopero nella Costituzione, Giuffrè, 1953. 15 Per un magistrale compendio, Dell’Olio, L’organizzazione e l’azione sindacale, Cedam, 1980. 16 Prosperetti, Verso i nuovi contratti collettivi, in DL, 1947, I, 51. 17 Per tutti, Santoro Passarelli, Contratto collettivo e norma corporativa, in FI, 1949, I, 1069. 18 Riva Sanseverino, Contratto collettivo di lavoro, in Enc dir, X, 1962, 59. 19 Mazzoni, La disciplina dei sindacati e dei contratti collettivi di lavoro nel sistema delineato dall’art. 39 della Costituzione, in RDL, 1949, I, 31 ss.; Gasparri, Appunti sulla rappresentanza unitaria dei sindacati, in DL, 1950, I, 95 ss. 14
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efficacia generalizzata. Mai essi pensano a una contrattazione collettiva privatistica, con efficacia limitata ai soli iscritti, quanto meno come ipotesi residuale, né al fatto che il contratto collettivo possa originare anche solo dalla capacità di imposizione del sindacato alla controparte20. L’art. 39, con le sue forti incrostazioni corporative, dà vita a un vero «pasticciaccio»21, che provocherà un’ulteriore divaricazione – ora più ora meno pronunciata – tra concezione privatistica e pubblicistica dell’attività sindacale22. Gli studiosi, comunque, per il momento non attendono altro che un nuovo ordinamento sindacale su cui iniziare a lavorare, anche se a spingere giuslavoristi di ogni tipo a disegnare il futuro del diritto sindacale italiano è più una sorta di horror vacui che il desiderio di dare corpo a una Costituzione «fondata sul lavoro». Ma presto dall’entusiasmo si passa alla delusione: di mezzo c’è un dirompente Quarantotto, che in pochissimo tempo fa franare lo sfondo politico e sindacale alla base del nuovo ordinamento.
3. Il Quarantotto. La Costituzione della nuova Italia democratica e repubblicana è entrata in vigore il 1° gennaio 1948, e già il giorno dopo il quotidiano comunista L’Unità titola: La Costituzione è in vigore: applichiamola! Si è subito in ansia per una sua possibile inattuazione. Il compromesso politico su cui si è retto il nuovo ordinamento costituzionale collassa immediatamente. L’Assemblea costituente ha appena chiuso i suoi lavori (31 gennaio), che il primo ministro Alcide De Gasperi stipula un accordo decennale di amicizia e commercio con gli Stati Uniti (2 febbraio) e si dà inizio (8 febbraio) a una feroce campagna elettorale tra i due blocchi contrapposti. La vittoria della Democrazia cristiana alle elezioni del 18 aprile rimarca anche formalmente l’adesione italiana alla parte occidentale del mondo bipolarizzato già a Yalta, ma, per quel che ci riguarda, contribuisce a rendere sempre più precaria l’unità sindacale raggiunta col patto di Roma del 1944, che crolla definitivamente il 14 luglio con l’attentato a Palmiro Togliatti. L’insurrezione spontanea che subito divampa in tutto il paese23 è tenuta a freno anche grazie alla componente comunista del sindacato; l’Italia viene salvata dalla guerra civile, ma l’unità sindacale va definitivamente in frantumi: già il 22 luglio si avvia il processo che porta alla scissione della componente cattolica, cui segue quella socialdemocratica, con la nascita della Cisl e della Uil. E la Cgil, rimasta socialcomunista, diventa subito il destinatario preferito dei manganelli della polizia di Scelba, in uno scenario nel quale la strepitosa vittoria di Gino Bartali al Tour de France pochi giorni dopo l’attentato a Togliatti distoglie l’attenzione non tanto – come vuole la leggen-
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Lazzeroni, Libertà sindacale, cit., 234 s. Rispettivamente, Mancini, Libertà sindacale e contratto collettivo erga omnes, in RTDPC, 1963, 570 ss.; Id., Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, 1976, 170. 22 Liebman, Contributo allo studio della contrattazione collettiva nell’ordinamento giuridico italiano, Giuffrè, 1986, 81. 23 Per tutti, Tobagi, La rivoluzione impossibile. L’attentato a Togliatti: violenza politica e reazione popolare, Il Saggiatore, 1978. 21
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da – dai più accesi propositi di rivoluzione, quanto piuttosto dalla conseguente durissima repressione poliziesca, i cui numeri sono davvero impressionanti24. Già nel 1949, la discussione è polarizzata intorno ai due temi cardine del diritto del lavoro collettivo, lo sciopero e la contrattazione collettiva. Su questo punto, la spaccatura dell’unità sindacale rende l’art. 39 un vero e proprio enigma, nel nuovo quadro in cui il sindacato socialcomunista, maggioritario e quindi potenzialmente interessato alla realizzazione del sistema, incontra l’ostruzione degli altri sindacati, minoritari ma legati ai partiti politici di maggioranza. Perciò, il rifiuto – a suo modo politicamente corretto – della soluzione pubblicistica di un art. 39 che tanto ricorda il passato fascista diventa un’argomentazione plausibile per lasciare inattuata la Costituzione su questo punto; mentre il sindacato, abbandonata la prospettiva (mai seriamente accarezzata) di diventare persona giuridica, si adatta presto alle «povere e scarne norme» che il codice dedica alle associazioni non riconosciute25. A questo punto inizia un’altra storia, e i protagonisti sono nuovi giuslavoristi, che danno una lettura della materia in cui la Costituzione è messa decisamente tra parentesi. Da allora, e per tanto tempo, essa si trasforma in una sorta di garanzia per la sinistra che è uscita sconfitta, tranne che per gli artt. 39 e 40: questi per il sindacato rappresentano più un’insidia che una risorsa, perché l’attuazione viene vista come occasione per ingabbiare e delimitare la loro attività.
4. La “falsa partenza” del diritto del lavoro. Il diritto del lavoro degli anni Cinquanta è dunque banco di prova di una normalizzazione democratica compatibile con la Costituzione, ma niente di più. Il paese continua a comportarsi come se nulla fosse successo e la Costituzione «fondata sul lavoro» costituisca solo un accidente. I posti di potere continuano ad essere occupati dalle stesse persone, in molti casi legate a filo doppio con l’abbattuto regime. Ideologie e strategie continuano a ripetere quelle del ventennio, dopo un mero maquillage esteriore. Come sulle facciate dei palazzi si scalpellano fasci littori e aquile sabaude, così le norme e le istituzioni lavoristiche vengono semplicemente depurate dei soli elementi esteriori più intimamente legati all’ideologia corporativa. In una parola, un trapianto indolore degli apparati fascisti all’Italia repubblicana26. Nell’opera di anestetizzazione della Costituzione un ruolo non secondario lo svolgono i giudici a cui tocca interpretare il nuovo diritto del lavoro: troppo spesso, appunto, sono
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Tra il luglio del 1948 e la metà del 1950 si registrano 62 lavoratori uccisi, 3126 feriti, 92169 arrestati: Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza, 1973, 531. 25 Rescigno, Sindacati e partiti nel diritto privato, in Jus, 1956, 1. 26 Nel 1950 restano in carcere solo 10 delle 15000 persone arrestate alla fine della guerra perché pesantemente compromesse col fascismo; sulla blanda epurazione, Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, 1995.
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gli stessi che hanno appena finito di avallare il fascismo e ora sono pronti a dare una lettura “minimalista” della Carta fondamentale, che spesso relega tante sue norme al rango di semplici disposizioni programmatiche. Esempio macroscopico è quello di Gaetano Azzariti: nel 1938 è presidente del “tribunale della razza”, che deve applicare la legislazione antiebraica, e dal 1957 al 1961 è presidente della Corte costituzionale27, che deve verificare la compatibilità delle leggi con la Costituzione democratica (e che peraltro viene costituita ben otto anni dopo la sua entrata in vigore). Sono i frutti dell’“equilibrio del terrore” su cui si fonda la guerra fredda tra le due superpotenze. L’Italia ha fatto, democraticamente, la sua scelta di campo, ma finge di guardare con distacco al nuovo scenario, con don Camillo e Peppone a rappresentare un conflitto bonario e rassicurante. Vanamente uno dei maggiori artefici della Costituzione, Piero Calamandrei, ammonisce che essa «è un pezzo di carta […]; perché si muova bisogna ogni giorno […] metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse»28. La volontà non c’è. Perciò, la Costituzione non varca i cancelli delle fabbriche, al cui interno regna un ordine completamente diverso da quello democratico che si respira nella pagine del testo fondamentale29. La forbice tra mondo ideale e mondo reale si allarga paurosamente, segnando indelebilmente la “falsa partenza” del diritto del lavoro democratico30. Una Costituzione nata antifascista, che pone in materia di lavoro importanti principi innovativi, si stacca sempre più da uno scenario fattuale che riproduce lo stesso assetto autoritario appena lasciato alle spalle. L’assoluta libertà di licenziare un lavoratore è quasi del tutto incontestata, nonostante l’art. 4 riconosca il «diritto al lavoro»31. La libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 non viene riconosciuta quando il lavoratore intende esercitarla all’interno del luogo di lavoro: i diritti fondamentali – si sostiene – operano solo nei rapporti tra singolo e poteri pubblici e non si estendono ai rapporti tra privati32: una Drittwirkung “alla padana”, a uso e consumo delle grandi fabbriche del nord, verso le quali proprio allora si riversano fiumane di meridionali. L’emigrazione interna in dieci anni svuota un’agricoltura sempre più consegnata al latifondo, quando non alle mafie, e gonfia il triangolo industriale Torino-Genova-Milano33. Un’intera epica si celebra su questo esodo biblico, da quella nazionalpopolare delle valigie di cartone legate con lo spago a quella patinata di Rocco e i suoi fratelli (dove gli immi-
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Azzariti, La mancata attuazione della Costituzione e l’opera della magistratura, in FI, 1956, IV, 1. La Costituzione e la gioventù: discorso pronunciato da Piero Calamandrei nel gennaio 1955 a Milano, Ufficio stampa dell’amministrazione provinciale di Livorno, 1975; ora in www.youtube.com/watch?v=9jL2niCRC74. 29 Sulla mancata penetrazione della Costituzione nei luoghi di lavoro, Smuraglia, La Costituzione e il sistema del diritto del lavoro, Feltrinelli, 1958. 30 Gaeta, Passaniti, La falsa partenza. “Una vita difficile” per il diritto del lavoro nel dopoguerra, in L. Zoppoli, A. Zoppoli, Delfino (a cura di), Una nuova Costituzione per il sistema di relazioni sindacali?, Editoriale scientifica, 2014, 89 ss. 31 L’opinione contraria è del tutto isolata: Natoli, Diritto al lavoro, inserzione del lavoratore nell’azienda e recesso ad nutum, in RGL, 1951, I, 105. 32 Per la confutazione di tale teoria, Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1955. 33 I dati degli occupati cambiano in maniera impressionante tra i due censimenti del 1951 e del 1961: gli addetti all’agricoltura scendono dal 42 al 29% del totale, mentre gli addetti all’industria crescono dal 32 al 40% (addirittura, al 51% in Piemonte e al 59% in Lombardia). 28
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grati lucani hanno le facce di Alain Delon e di Claudia Cardinale). Ma i nuovi torinesi, cui certo non basta tifare Juventus per affermare una difficile integrazione, trovano la Fiat del professor Valletta, che, durante le vacanze di Natale del 1951, licenzia Battista Santhià, pur ottimo dipendente, perché «la sua funzione di dirigente nazionale del partito comunista lo rende incompatibile con la sua permanenza nella direzione Fiat». Ed è solo la classica punta dell’iceberg, quella più eclatante, che provoca scioperi generali e interventi degli studiosi più sensibili34.
5. L’invenzione del contratto collettivo “di diritto comune”. La Carta fondamentale, quindi, viene subito anestetizzata, anche se quella dell’art. 39 si rivela forse la più costituzionale delle inattuazioni della Costituzione35, almeno per i commi 2-4, il cui complicato “microsistema” regolativo non riesce assolutamente ad attecchire, per tanti motivi, storici e contingenti36, nonostante si inizi subito a presentare progetti di legge (sulle riviste ancor prima che in Parlamento37). La sua inattuazione inizia da allora a costituire il connotato stesso della materia, creando contemporaneamente un limite invalicabile: finché non interviene una legge attuativa, la via per sperimentare altre soluzioni resta irrimediabilmente bloccata; “non avrai altro contratto collettivo al di fuori di me”, sembra tuonare la norma. Del primo comma, peraltro, nessuno sembra accorgersi, limitandolo a un riconoscimento scontato e vago di una libertà che poi nei fatti viene fortemente limitata restringendo oltre misura i margini di liceità dello sciopero e gli ambiti di operatività della contrattazione collettiva: è quella sorta di “libertà condizionata” nella quale si trova a operare il sindacato negli anni Cinquanta, quasi sia ancora quello che a inizio secolo Philipp Lotmar definiva «libero come un fuorilegge»38. L’attenzione dei giuslavoristi nei confronti della Costituzione si riflette anche nella scarsità di commenti alle sue numerose norme lavoristiche. L’art. 39, co. 1, ne costituisce esempio emblematico39, pur inquadrandosi in un contesto sovranazionale segnato dalle fondamentali convenzioni Oil 87 e 98, emanate nel 1948 e nel 1949. Sono invece i costituzionalisti a esercitarsi sempre più spesso con le norme lavoristiche; tra tutte, la robusta
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Convegno nazionale di studio sulle condizioni del lavoratore nell’impresa industriale, Giuffrè, 1954 (dove, peraltro, ha spazio anche un’incredibile, ma autorevole, difesa della Fiat nel caso Santhià: Corrado, ivi, 64); La tutela delle libertà nei rapporti di lavoro, Giuffrè, 1955. 35 Romagnoli, Diritto sindacale (storia del), in DDP comm, 1989, 655. 36 Per tutti, Rusciano, Contratto collettivo e autonomia sindacale, Utet, 1986, 6 ss. 37 Francesco Santoro Passarelli è tra i “primi firmatari” di uno «schema per la disciplina dei sindacati e dei contratti collettivi», in DL, 1949, I, 3 ss. 38 Lotmar, Die Tarifverträge zwischen Arbeitgebern und Arbeitnehmern, in Archiv für soziale Gesetzgebung und Statistik, 1900, 63 (un intraducibile gioco di parole è dato dall’assonanza tra frei, «libero», e vogelfrei, «fuorilegge»). 39 Per un’eccezione, Prosperetti, Sulla posizione dei sindacati nello Stato, in RDL, 1950, I, 15 ss.
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ricostruzione di Carlo Esposito fonda appunto la nozione giuridica dell’autonomia collettiva sulla libertà sindacale di cui all’art. 39, co. 140. Si assiste, quindi, a un virtuale braccio di ferro tra pubblicisti e privatisti per incanalare una materia, il diritto sindacale e più in generale l’intero diritto del lavoro, ancora alla ricerca di una precisa collocazione. Al centro di questa accesa disputa si trova proprio la Costituzione, enfatizzata dai pubblicisti e minimizzata dai privatisti. La “scelta di campo” si celebra simbolicamente nel 1954 in un congresso al sole siciliano di Taormina. Tra l’opzione ricostruttiva pubblicistica, patrocinata da Costantino Mortati, che intende risistemare la materia alla luce della nuova fonte costituzionale e teorizza la funzione pubblica del sindacato, e quella privatistica, caldeggiata da Francesco Santoro Passarelli, che vuole un ritorno alle origini e vede nella pubblicizzazione un pericoloso retaggio del passato regime, s’impone di gran lunga la seconda41. Il “modello costituzionale” del diritto del lavoro42 non sfonda e da allora i privatisti dominano incontrastati43. Il prezzo di queste limpide geometrie ordinanti è, appunto, il ridimensionamento della normativa lavoristica costituzionale: nel suo manuale, Santoro Passarelli potrà scrivere che «alle norme regolanti direttamente il rapporto di lavoro la Costituzione non apporta sostanziali innovazioni»44. Santoro Passarelli, quindi, raccoglie i frutti di una sua teoria generale di grande portata e impatto, “occupando” il diritto del lavoro e rifondandolo alla radice. La sua opera45, fedele a una sistematica e a un metodo pandettistici e svolta esclusivamente tramite le categorie civilistiche, costituisce una sorta di manifesto del nuovo assetto liberista del Paese (è stato icasticamente detto, una sua «glossa ordinaria»46), condizionando profondamente gli orientamenti teorici e ideologici del nostro giuslavorismo (e non solo). Naturalmente, anche il contratto collettivo è riportato alla “ragione comune”. Santoro Passarelli, che nega al contratto collettivo “virtuale” dell’art. 39 la natura di fonte del diritto47, a maggior ragione la nega ai contratti collettivi liberi, per i quali rispolvera la definizione di contratti «di diritto comune»48 (utilizzata già durante il fascismo per identificare quelli del periodo liberale49). La sua ricostruzione dell’«autonomia privata collettiva» coniuga magistralmente i due poli: l’interesse collettivo del gruppo costituisce sintesi, e non somma, degli interessi individuali, destinati a soccombere di fronte ad esso50. La leg-
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Esposito, Lo Stato e i sindacati nella Costituzione italiana, in Id., La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, 1954, 154 ss. Per la ricostruzione del dibattito, Cazzetta, L’autonomia del diritto del lavoro nel dibattito giuridico tra fascismo e repubblica, in QF, 1999, 617. 42 Costa, Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, in Balandi, Cazzetta (a cura di), Diritti e lavoro nell’Italia repubblicana, Giuffrè, 2009, 28. 43 Romagnoli, La Costituzione delegittimata, in RTDPC, 2003, 829. 44 Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, 1969, 15. 45 In particolare, Santoro Passarelli, Istituzioni di diritto civile, Jovene, 1944, poi Dottrine generali del diritto civile, Jovene, giunte nel 1966 alla 9ª edizione, ristampata nel 2012; Id., Nozioni di diritto del lavoro, Jovene, 1945, giunte nel 1995 alla 35ª edizione. 46 Cianferotti, 1914. Le Università italiane e la Germania, Il Mulino, 2016, 177. 47 Santoro Passarelli, Esperienze e prospettive giuridiche dei rapporti fra i sindacati e lo Stato, in RDL, 1956, I, 1 ss. 48 Santoro Passarelli, Derogabilità dei contratti collettivi di diritto comune, in DG, 1950, 299 ss. (il titolo cambia in Inderogabilità dei contratti collettivi di diritto comune, in Id., Saggi di diritto civile, I, Jovene, 1961, 217). 49 Nogler, Il contratto collettivo. La funzione normativa, in Zoli (a cura di), Le fonti. Diritto sindacale, in F. Carinci (dir. da), Commentario di diritto del lavoro, Utet, 2007, 282. 50 Santoro Passarelli, Autonomia collettiva, cit.; Id., Norme corporative, autonomia collettiva, autonomia individuale, in DE, 1958, 1187. 41
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ge prevale sul contratto collettivo non in base alle norme sulla gerarchia tra le fonti, ma semplicemente in base alle regole generali sui rapporti con gli atti di autonomia privata, le cui eventuali previsioni difformi sono nulle e automaticamente sostituite (artt. 1339 e 1419, co. 2, c.c.). Negli anni Cinquanta, le dottrine privatistiche – che hanno il merito innegabile di superare definitivamente il modello corporativo, garantendo comunque la volontarietà del nuovo sistema51 – influenzano molto i giudici. Anzi, sul versante dei rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale, questi col tempo accreditano al primo una forza che va ben al di là del mero atto di autonomia privata: innanzitutto, con una criticata operazione52, gli applicano l’art. 2077 c.c., parificandolo in sostanza al contratto collettivo corporativo e ritenendolo quindi una fonte di integrazione degli effetti del contratto individuale, prevalente sulle sue determinazioni difformi53 (attirandosi gli strali di Santoro Passarelli, che giunge allo stesso risultato ragionando però privatisticamente in termini di mandato rappresentativo54); i giudici, poi, applicano autonomamente i minimi salariali della contrattazione collettiva anche ultra partes, quando il trattamento del contratto individuale non realizzi la retribuzione proporzionata e sufficiente dell’art. 36 Cost.55, e utilizzano altri espedienti per estendere la portata soggettiva del contratto collettivo56; creano in definitiva un microsistema molto anglosassone, nel quale il contratto collettivo acquisisce “di fatto” il ruolo di fonte. In questo modo, quindi, i giudici accreditano una sorta di continuità tra contratto corporativo e contratto privatistico, ritenendogli trasferiti automaticamente tutti i riferimenti che le leggi, in primis il codice civile, fanno al «contratto collettivo». Allo stesso modo sembra comportarsi il legislatore degli anni Cinquanta, che opera numerosi rinvii al contratto collettivo, quasi pensando di avere davanti una fonte sottordinata alla legge, ma comunque applicabile in via generale57 e che finisce con l’acquisire efficacia erga omnes nel momento in cui diventa parte della norma che lo richiama. La neoistituita Corte costituzionale interviene su una di queste leggi, quella che impone di applicare all’apprendista il contratto collettivo, in particolare le sue tariffe retributive (art. 11 c, l. 19 gennaio 1955, n. 25), affermando che essa non attribuisce surrettiziamente al contratto un’impropria efficacia erga omnes, ma gli assegna la rilevanza di un fatto il cui verificarsi integra e perfeziona l’efficacia del precetto legale58. Nasce uno schema di ragionamento che si diffonde presto, «fino a diventare uno dei pilastri che hanno sostenuto il
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Carabelli, Libertà e immunità del sindacato, Jovene, 1986, 33 ss. Per tutti, Mazzoni, Certezza del diritto e autonomia privata nell’odierno diritto del lavoro, in DE, 1956, 1223 ss. 53 Cass., 12 maggio 1951, n. 1184, in FI, 1951, I, 691. 54 Santoro Passarelli, Autonomia collettiva, cit., 138 ss. 55 Scognamiglio, Sull’applicazione dell’art. 36 Cost. in tema di retribuzione del lavoratore, in FC, 1951, 352. 56 Rusciano, Contratto collettivo, cit., 57 ss. 57 Assanti, Rilevanza e tipicità del contratto collettivo, Giuffrè, 1967, 97. 58 C. cost., 26 gennaio 1957, n. 10, su cui Suppiej, Pluralismo dei contratti collettivi e significato di un rinvio legislativo, in RDL, 1957, II, 215 ss. 52
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peso dei rapporti di cooperazione funzionale tra legge e contratto collettivo», contribuendo a «coonestare la funzione para-legislativa del contratto post-corporativo»59. Questo sistema, nel quale lo Stato rinuncia alla regolamentazione del contratto collettivo, sicuro che il controllo sui conflitti sarà garantito dal sistema politico e dai giudici, regge per tutti gli anni Cinquanta, anche perché «l’interscambio legge-contrattazione si svolge comunque su poste modeste»: la legge si occupa sostanzialmente di fasce perimetrali del lavoro dipendente, la contrattazione si occupa di fissare minimi salariali e normativi60. E si tiene in piedi anche grazie a una tacita definizione di competenze tra le due “fonti”, che vuole l’autonomia collettiva titolare di una sorta di “riserva assoluta” nella regolazione del rapporto di lavoro. Una struttura così delicata, le cui ambiguità non sono irrilevanti61, mostra segni di cedimento proprio alla fine del decennio. Davanti alle esigenze di un sistema moderno di relazioni di lavoro, la soluzione privatistica, dove il limitato ambito di efficacia soggettiva e oggettiva del contratto collettivo trova l’unico correttivo in faticose operazioni giurisprudenziali, appare sempre meno adeguata. La dottrina lavoristica, però, è stranamente silenziosa e acquiescente, forse soggiogata dalla personalità di Santoro Passarelli62. Nei quindici anni successivi alla Liberazione – nota Giuseppe Pera – «gli studi relativi ai vari e ardui problemi del diritto sindacale nella ritrovata democrazia non hanno avuto, nel complesso, quello svolgimento e quell’approfondimento che sarebbe stato necessario»63.
6. Gli aggiramenti dell’art. 39. Negli anni Cinquanta si continuano a presentare progetti di legge sul contratto collettivo, ma non perché si creda realmente all’attuazione dell’art. 39. Almeno da quando cade nel vuoto il progetto presentato nel 1951 dal ministro del lavoro, Leopoldo Rubinacci64; il vincolismo delle sue previsioni provoca la reazione compatta di un sindacato allora diviso quasi su tutto. Da quel momento il governo non presenta più – e per lungo tempo – disegni attuativi. Ci pensano, anche con una certa costanza, i partiti di destra, ma più per dovere rituale che per reale convinzione: si è ormai capito che la norma costituzionale è destinata a un lungo sonno (anche una proposta del Cnel del 196065 cadrà nel vuoto). Si cercano, allora, vie alternative per garantire ai contratti collettivi l’efficacia erga omnes. Vi tendono due proposte del 1953: una di Di Vittorio, che prevede l’estensione a tutti i lavoratori dei contratti collettivi sottoscritti fino a quel momento dalle grandi confe-
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Romagnoli, Il contratto collettivo, cit., 236. Mariucci, La contrattazione collettiva, Il Mulino, 1985, 306 s. 61 Tarello, Teorie e ideologie, cit., 14 ss. 62 Sul tema, Giugni, Il diritto sindacale e i suoi interlocutori, in RTDPC, 1970, 369 ss. 63 Pera, Problemi costituzionali del diritto sindacale italiano, Feltrinelli, 1960, 16. 64 Camera, n. 2380/1951, in RGL, 1952, I, 62 ss. 65 In FI, 1961, IV, 154 ss. 60
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derazioni; l’altra dal leader della Cisl, Giulio Pastore, che prevede l’attribuzione di efficacia generale ai contratti collettivi presentati da un sindacato nazionale, sentito il parere di una costituenda commissione66. Alla fine, passa il sistema studiato dal ministro del lavoro Ezio Vigorelli, che affida a decreti legislativi il compito di “ricopiare” il testo dei contratti collettivi, trasformandoli così in norme di legge. La l. 14 luglio 1959, n. 741, patrocinata dai sindacati, consente di non incrinare uno status quo tutto sommato tranquillizzante67. Il «diritto sindacale transitorio»68 che ne deriva desta più di un problema, quanto alla natura del contratto collettivo trasfuso in decreto legislativo: le sue disposizioni, infatti, non possono «essere in contrasto con norme imperative di legge» (art. 5), mentre sono derogabili in melius per il lavoratore da parte del contratto collettivo di diritto comune e del contratto individuale (art. 7). C’è chi riconosce ai contratti “ricopiati” piena natura di atto legislativo e chi gliela nega completamente69, passando attraverso tante posizioni intermedie70, con le conseguenze del caso. Resta, però, forte il dubbio che la norma comporti una semplice estensione dell’ambito soggettivo di regole che restano contrattuali. Per citare Carnelutti al contrario, qualcosa che ha il corpo della legge ma l’anima del contratto71! La norma viene salvata dalla Corte costituzionale perché «transitoria ed eccezionale», a differenza di quella analoga dell’anno successivo (l. 1 ottobre 1960, n. 1027), con la quale si tenta di ripetere l’escamotage: l’unica via per ottenere l’erga omnes rimane quella indicata dall’art. 3972. Da allora, il contratto collettivo “ad efficacia limitata”, frutto dell’inattuazione dell’art. 39, diviene un prodotto nazionale doc, quasi come gli spaghetti o l’opera lirica.
7. «The times they are a-changin’». Ma siamo già nel 1960, il «migliore anno della nostra vita»73: quello delle Olimpiadi romane e della Dolce vita, ma anche quello nel quale cinque operai vengono falciati dalla polizia a Reggio Emilia. Il mondo sta cambiando: lo canta Bob Dylan, che incita la gente a cominciare a nuotare se non vuole affondare come un sasso, perché l’acqua dei tempi nuovi sta inondando tutto.
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Rispettivamente, Camera, nn. 21 e 23/1953. Proia, Gambacciani, Il contratto collettivo di diritto comune, in Proia (a cura di), Organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, Cedam, 2014. 68 Carullo, Diritto sindacale transitorio, Giuffrè, 1960. 69 Rispettivamente, Persiani, Natura ed interpretazione delle norme delegate sui minimi di trattamento ai lavoratori, in RDL, 1963, I, 244; Mazzoni, Illegittimità costituzionale della nuova legge, in DE, 1959, 1244. 70 Sul punto, M. Ricci, Il contratto collettivo fonte e l’art. 39 Cost., in Il sistema delle fonti nel diritto del lavoro, Giuffrè, 2002, 144 ss. 71 Il riferimento è alla famosa definizione del contratto collettivo corporativo come «un ibrido, che ha il corpo del contratto e l’anima della legge»: Carnelutti, Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro, Cedam, 1928, 108. 72 C. cost., 19 dicembre 1962, n. 106, su cui, per tutti, Ghera, Note sulla legittimità della disciplina legislativa per la estensione dei contratti collettivi, in RTDPC, 1963, 1177 ss. 73 Caruso, 1960. Il migliore anno della nostra vita, Longanesi, 2016. 67
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Nascita, infanzia e prima adolescenza dell’art. 39 della costituzione
Nel nostro campo, un salvagente lo lancia Gino Giugni con la sua teoria dell’ordinamento intersindacale74, ritenuto originario, autoproduttivo di regole pragmatiche, talvolta confliggenti con quelle dell’ordinamento statale – con cui convive e dal quale non ha bisogno di legittimazioni –, ma dotate di efficacia tanto più vincolante quanto maggiore è l’autolegittimazione degli attori e la loro forza all’interno del sistema. La ricostruzione, che rielabora l’esperienza pluralista anglosassone delle industrial relations e le teorie dei giuslavoristi weimariani, crea un ordinamento autonomo e pluralista, nel quale il contratto collettivo, la cui forza è fondata sulla rappresentatività degli agenti contrattuali, non si scontra con la legge; teoria figlia di un momento nel quale il sindacato rappresenta lavoratori sostanzialmente omogenei e le relazioni industriali virano verso l’affermazione di un sistema sindacale “di fatto”, quasi indifferente rispetto al parallelo sistema giuridico statualistico e alle sue lacune. Si è, poi, capito che il modello dell’art. 39 non si realizzerà: nella prolusione con cui sale in cattedra a Bologna, Federico Mancini illustra i motivi tecnici e politici del diminuito interesse del sindacato nei confronti di un modello formalistico di contratto collettivo a efficacia generale75. Lo scritto ha un forte impatto tra i giuslavoristi: dopo di esso, nonostante qualche tentativo di recupero76, «non sarà più in discussione il come dare attuazione ai tre ultimi commi dell’art. 39, bensì soltanto il come modificarli o sostituirli»77. I tempi, insomma, sono profondamente cambiati, sia nella società che nel mondo del (diritto del) lavoro. Scenari del tutto nuovi, e promettenti, si aprono al sindacato e ai lavoratori. Ma – come si dice con un’espressione ormai abusata – questa è un’altra storia.
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Giugni, Introduzione allo studio della autonomia collettiva, Giuffrè, 1959. Mancini, Libertà sindacale, cit., 593. 76 Pera, Problemi costituzionali, cit. 77 Ichino, I primi due decenni, cit., 46 s. 75
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I diritti sociali come controlimiti. Note preliminari Sommario : 1. L’integrazione europea come problema, ovvero le due costituzioni in senso materiale. – 2. L’estraneità all’ordinamento dell’Unione Europea del concetto di cittadinanza sociale. – 3. (Segue): i diritti sociali di fronte al principio di condizionalità. – 4. I diritti sociali come controlimiti: spunti ricostruttivi.
Sinossi. I problemi dell’integrazione europea non sono dovuti soltanto alla difficoltà di omogeneizzare ius commune e iura propria dei singoli Stati in assenza di una chiara gerarchia delle fonti del diritto, ma soprattutto alla incompatibilità tra l’ordinamento giuridico europeo, essenzialmente volto alla preservazione del funzionamento del mercato concorrenziale, e le tradizioni costituzionali nazionali maturate nel Secondo dopoguerra, che - come la nostra viceversa prevedono che il libero dispiegarsi delle forze di mercato debba arrestarsi di fronte alla tutela dei diritti sociali di cittadinanza. Scopo del lavoro è di suggerire che solo l’inquadramento dei diritti sociali di cittadinanza fra i “controlimiti” può arginare l’odierna tendenza alla compressione indiscriminata delle tutele sociali condotta dalle istituzioni europee in nome della stabilità finanziaria. Abstract. The problems of the European integration derive not only from the tough harmonization between the ius commune and the iura propria of the single Member States, but also from the incompatibility among the European legal system, deserved to maintain a fair competition market, and the national constitutional traditions developed after the second world war which draft an arrest of the market forces in front of the protection of citizenship social rights. The purpose of the article is to suggest that only a consideration of the social rights as “counter-limits” (controlimiti) can control the present tendency to indiscriminate compression of social protections pursued by the European institutions in the name of financial stability. Parole chiave: diritti sociali – integrazione europea – cittadinanza – controlimiti
Luigi Cavallaro
1. L’integrazione europea come problema, ovvero le due
costituzioni in senso materiale.
È ormai acquisito in dottrina e in giurisprudenza che, con la costruzione dell’Unione monetaria europea e la firma del Trattato di Lisbona, l’integrazione europea si è rafforzata giungendo ad una vera e propria distribuzione di competenze tra Unione e Stati membri. E non meno acquisito – specie in dottrina – è che, anche in conseguenza di questa progressiva unificazione, i due pianeti di civil law e common law hanno visto attenuarsi i netti confini del passato, visto che il diritto dell’Unione continua a mantenere un andamento abbastanza “casistico” (specie in forza di quei moderni “decretali” che sono le sentenze della Corte di Giustizia), mentre si va attenuando la capacità degli Stati membri di ordinare giuridicamente la realtà con proprie leggi1. Ma se pure è vero che già questa compresenza di molteplici fonti di normazione crea confusione negli interpreti, sembrando a molti di essere ritornati a quella produzione giuridica alluvionale, pluralistica ed extrastatuale che aveva contrassegnato il Medioevo e si era perpetuata fino all’Ancien Régime, con giudici chiamati ad una funzione (non più di interpretazione, bensì) di intermediazione, alla stessa maniera dei glossatori medievali che s’ingegnavano a rendere compatibili ius commune e iura propria in assenza di una vera e propria gerarchia tra le fonti del diritto, il vero punctum dolens, almeno per ciò che riguarda noi “euroitaliani”, mi sembra dato dalla compresenza di costituzioni in senso materiale affatto differenti. Prendendo a prestito una metafora da un celebre romanzo2, potremmo dire, in effetti, che da vent’anni in qua conviviamo con due costituzioni in senso materiale. Ce n’è una – quella disegnata dai Trattati istitutivi dell’Unione Europea – che pone gli individui sotto il segno della fatalità economica, come delle rotelle di un meccanismo a orologeria caricato per l’eternità che non può essere né arrestato né influenzato. E ce n’è un’altra – quella scritta nella nostra Carta repubblicana – che enuncia invece il diritto della rotella di ribellarsi all’orologio e di pretendere che un’istanza superiore interferisca sul suo corso, riorientandolo verso il perseguimento di fini democraticamente condivisi. L’una assume a proprio principio-guida la libertà, esortando a rimuovere lacci e lacciuoli che possano ostacolare l’iniziativa economica privata, l’altra invece identifica la propria ragione fondante nell’uguaglianza e si dà esplicitamente il compito di porre un freno agli spiriti animali del mercato quante volte la libera ricerca del profitto possa debordare in disuguaglianze inaccettabili e/o in deficienze della domanda effettiva.
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Rinviamo sul punto alla sintesi di Grossi, L’Europa del diritto, Laterza, 2007. Alludiamo a Koestler, Buio a mezzogiorno, Mondadori, 1946.
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I diritti sociali come controlimiti. Note preliminari
2. L’estraneità all’ordinamento dell’Unione Europea del concetto di cittadinanza sociale.
L’ipotesi che la costituzione economica disegnata dai Trattati europei rassomigli all’orologio della fatalità economica necessita di essere argomentata, perché molti e illustri giuristi si sono spesi in questi anni per dimostrare l’infondatezza dei timori a suo tempo espressi da Federico Mancini circa la «frigidità sociale» dell’Europa3. Secondo costoro, infatti, il quadro normativo dell’Unione sarebbe profondamente cambiato a seguito dell’approvazione del Trattato di Lisbona: non solo perché l’art. 3 TUE enuncia specificamente gli obiettivi della piena occupazione e del progresso sociale, ma soprattutto perché il successivo art. 6, nel riconoscere i diritti e le libertà sanciti dalla Carta di Nizza, conferisce a quest’ultima lo stesso valore giuridico dei Trattati, facendo così dell’Unione Europea «la regione del mondo dove è più elevato il riconoscimento di libertà e diritti»4. La storia del Novecento insegna però che i diritti del lavoro, quando vengano declinati come diritti di cittadinanza sociale e non invece come semplici diritti di libertà, non possono essere puramente proclamati: nella misura in cui impongono restrizioni e vincoli all’organizzazione imprenditoriale, essi comportano un innalzamento dei costi dell’impresa, cioè qualcosa che l’imprenditore può accettare solo a patto che i margini di profitto (che a loro volta risultano fissati dall’altezza dei tassi d’interesse)5 vengano garantiti: ad es., mediante quelle politiche pubbliche di sostegno della domanda effettiva che hanno fatto la storia dei «Trenta gloriosi»6, cioè dei trent’anni successivi al Secondo dopoguerra. Detto altrimenti, non è possibile garantire cittadinanza sociale ai diritti del lavoro se non in presenza di una contrattazione collettiva e di un governo pubblico dell’economia che si propongano espressamente di modificare i rapporti di produzione e distribuzione che scaturiscono dal libero dispiegarsi del mercato concorrenziale7. E se così è, bisogna dubitare che l’ordinamento europeo sia davvero rispondente allo scopo. Si lascino per un momento le declamazioni della Carta di Nizza e si vada a vedere come concretamente è disegnato il funzionamento dell’Unione Europea. Ci si accorge, anzitutto, che è esclusa dalle competenze dell’Unione ogni azione in materia di retribuzioni, diritto di associazione, diritto di sciopero e di serrata (art. 153, comma 5, TFUE); che le politiche
3
Cfr. Mancini, Principi fondamentali di diritto del lavoro nell’ordinamento delle Comunità europee, in Aa.Vv., Il lavoro nel diritto comunitario e l’ordinamento italiano, Cedam, 1988, 26. 4 Così Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2012, 28. Sostanzialmente nello stesso senso, ancorché con sfumature differenti, v. almeno Bronzini, Il modello sociale europeo, in Bassanini, Tiberi (a cura di), Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, Il Mulino, 2010, 119 ss.; Sciarra, L’Europa e il lavoro. Solidarietà e conflitto in tempi di crisi, Laterza, 2013; Ruggeri, Per uno studio sui diritti sociali e sulla Costituzione come “sistema” (notazioni di metodo), in ConsultaOnline, 2/2015. 5 Per questa relazione fra saggio di profitto e saggio d’interesse si veda Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, 1960, 43. 6 Giusta l’espressione di Fourastié, Les Trente Glorieuses ou la révolution invisible de 1946 à 1975, Fayard, 1979. 7 Ho approfondito in quest’ottica il tema della peculiare natura dei diritti sociali di cittadinanza (e in specie del lavoro) e della loro strutturale differenza rispetto ai diritti di libertà in Cavallaro, A cosa serve l’articolo 18, Manifestolibri, 2012, le cui considerazioni sono state successivamente inquadrate nel più ampio scenario storico-sociale della vicenda repubblicana in Id., Giurisprudenza. Politiche del desiderio ed economia del godimento nell’Italia contemporanea, Quodlibet, 2015. Ma nello stesso senso era già l’analisi di Mazziotti, Diritti sociali, in Enc. dir., XII, 1964, 802 ss.
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occupazionali sono prive di alcuna giustiziabilità avanti alla Corte di Giustizia e si muovono sul terreno instabile di flebili vincoli intergovernativi; ancora, che la materia salariale è stata esclusa perfino dai contenuti possibili di eventuali accordi sindacali transnazionali e che, di conseguenza, l’Unione non soltanto è letteralmente impotente rispetto al problema della competizione fra diversi regimi salariali e ai connessi pericoli di dumping sociale, ma addirittura considera i differenziali salariali come ammissibili strumenti di concorrenza tra imprese stabilite nei diversi Stati membri8. Per non parlare di tutte le norme del Trattato che disegnano limiti stringenti ad eventuali politiche pubbliche di sostegno della domanda aggregata: l’art. 123 TFUE vieta ogni forma di sostegno finanziario della Banca centrale europea agli Stati membri, l’art. 126 TFUE impone a questi ultimi di «evitare disavanzi pubblici eccessivi» e l’art. 119 TFUE si premura di chiarire che il perseguimento delle nobili finalità enunciate nell’art. 3 TUE implica soltanto uno «stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri» allo scopo di realizzare una politica economica funzionale al «mantenimento della stabilità dei prezzi» e coerente con il «principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza». Si capisce, allora, perché mai gli osservatori più disincantati concordino sul fatto che la Carta di Nizza non proclama altro che diritti di libertà e, quand’anche si occupa di un qualche diritto sociale (come ad es. all’art. 34, in materia di sicurezza sociale), lo fa solo per ricordare alle legislazioni nazionali che possono tutelarlo solo nel rispetto del diritto dell’Unione, ossia senza interferire con i principi in materia di libera circolazione dei lavoratori (artt. 45-48 TFUE), libertà di stabilimento (artt. 49-55 TFUE), libera prestazione di servizi (artt. 56-62 TFUE), salvaguardia dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (art. 67 TFUE), concorrenza fra imprese (artt. 101-106 TFUE) e divieto di aiuti di Stato (artt. 107-108 TFUE)9: i diritti di libertà sono infatti gli unici diritti ad essere compatibili con un ordinamento basato sul rispetto della libera concorrenza, perché si limitano ad assicurare ai singoli la libertà di procacciarsi ciò che forma oggetto del loro interesse, senza impegnare i pubblici poteri a garantire nulla a priori. Parafrasando quanto scrisse Tom Marshall nelle sue celebri lezioni del 1949, potremmo dire che il diritto al lavoro di cui parla la Carta di Nizza non è il diritto ad avere un qualche lavoro, ma un diritto di trovare un lavoro se ci si riesce e a proteggerlo se lo si è conquistato10, in forme ben s’intende
8
Cfr. in tal senso C. giust., 18 settembre 2014, causa C-549/13, Bundesdruckerei, in RIDL, 2015, II, 558, con nota di Forlivesi, nella quale la Corte ha ritenuto legittima la possibilità che un’impresa tedesca subappaltasse integralmente ad un’impresa polacca l’attività dedotta quale oggetto dell’appalto a solo fine di beneficiare, nell’aggiudicazione, del vantaggio competitivo derivante dai più bassi salari polacchi, giungendo per contro a ritenere contraria alle norme dell’Unione una disposizione nazionale che imponesse all’impresa polacca il rispetto dei livelli salariali fissati nel contratto collettivo tedesco, che l’impresa appaltatrice avrebbe dovuto applicare qualora il lavoro fosse stato svolto in Germania. Sulla sentenza v. anche Ales, La dimensione “costituzionale” del Modello Sociale Europeo tra luci e ombre (con particolare riferimento ai diritti collettivi e al licenziamento), WP D’Antona Int., 129/2016. 9 Cfr. Ales, Diritti sociali e discrezionalità del legislatore nell’ordinamento multilivello: una prospettazione giuslavoristica, in DLRI, 2015, 455 ss. 10 Cfr. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Laterza, 2002, 37. V. a conferma Demuro, Sub art. 15, in Bifulco, Cartabia, Celotto (a cura di), L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, Il Mulino, 2001, 126 ss., che rimarca come il «diritto di lavorare» enunciato nella Carta non è altro che la traduzione dell’obiettivo comunitario dell’employability, inteso non già come pretesa ad ottenere un lavoro con l’aiuto dello Stato, ma come promozione di una forza lavoro competente, qualificata e adattabile a mercati del lavoro in crescente mutamento.
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compatibili con il principio della libera commerciabilità dei fattori economici che ispira le istituzioni giuridiche del capitalismo11. Viceversa, di diritti sociali si può parlare solo ed in quanto sussista un obbligo positivo dei pubblici poteri di garantire che gli interessi che vi sono sottesi abbiano comunque una qualche forma di soddisfacimento, a prescindere cioè dalla capacità del singolo di provvedervi12: e che di tali diritti la Carta di Nizza non si occupi proprio suona non solo come conferma della loro strutturale incompatibilità con l’ordinamento proprio del mercato concorrenziale, ma soprattutto del fatto che, ad onta dei desiderata della dottrina conquistata all’idealismo europeista, l’Unione Europea «non è e non vuole ancora essere uno Stato, né federale né altro», preferendo presentarsi come «un ordinamento di nuovo genere nel campo del diritto internazionale», giusta la formula utilizzata dalla Corte di Giustizia fin dagli anni ‘60 dello scorso secolo e «mai smentita dalla reale evoluzione del modo di essere della Comunità e poi dell’Unione»13.
3. (Segue): i diritti sociali di fronte al principio di
condizionalità.
Se ne coglie una riprova nel funzionamento del «principio di condizionalità», introdotto all’art. 136, comma 3, TFUE, nell’ambito delle misure per la salvaguardia della stabilità dell’eurozona, la cui genesi rimonta alla prescrizione di cui all’art. 119, comma 3, TFUE, secondo il quale l’azione degli Stati membri deve uniformarsi ai «seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile». Come riconoscono ormai anche economisti pienamente ortodossi rispetto alla teoria dominante14, l’odierna crisi economica nasce da un eccesso di debito, che è stato contratto non solo all’interno dei singoli Paesi, ma anche all’esterno di essi: la riprova è che i Paesi più colpiti dalla crisi sono quelli che hanno accumulato maggiori disavanzi delle partite correnti della bilancia di pagamenti, come appunto – nell’ambito dell’Unione Europea – l’Italia, la Spagna, il Portogallo e naturalmente la Grecia. Il problema è che l’Unione, pur costituendo un’area monetaria integrata, non prevede in alcun modo che l’emergere di differenziali di questo tipo fra un Paese e l’altro possa essere compensato attraverso trasferimenti di tipo fiscale (analoghi, per intenderci, a quelli che nel nostro Paese si verificano
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Abbiamo argomentato come una visione del genere sia all’origine della spinta abrogatrice manifestatasi sin dalla metà degli anni ‘90 nei confronti dell’art. 18 st. lav. nel nostro A cosa serve l’articolo 18, cit. 12 Cfr. Mazziotti, op. cit., 805. 13 Così, incisivamente, Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Cedam, 2010, 4. Un’indiretta riprova di quanto affermato nel testo si può cogliere in Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra Costituzione e diritto europeo, in RIDL, 2016, I, 111 ss., il quale, nell’individuare i possibili punti di frizione tra la nuova disciplina delle tutele per il licenziamento varata con il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, e le disposizioni di rango sovraordinato, non ne rinviene nessuna direttamente ascrivibile ai Trattati europei, salvo quella genericissima (e proprio per ciò inutilizzabile ai fini della valutazione dell’adeguatezza del risarcimento) contenuta nell’art. 30 della Carta di Nizza. 14 Si veda per tutti Bini Smaghi, Morire di austerità. Democrazie europee con le spalle al muro, Il Mulino, 2013.
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tra Nord e Sud): non solo perché, in generale, il bilancio europeo rappresenta appena l’1% del Pil del continente e non è dunque all’uopo sufficiente, ma soprattutto perché l’art. 125 TFUE vieta espressamente all’Unione di assumersi le passività degli Stati membri. Di conseguenza, se un Paese registra disavanzi commerciali nei confronti di altri, l’aggiustamento può avvenire soltanto attraverso la mobilità del lavoro verso le aree più produttive (cioè, attraverso l’emigrazione) ovvero, in mancanza di mobilità, attraverso ciò che gli economisti mainstream pudicamente denominano «svalutazione interna»15 e che noi, in termini più crudi (ma certo più comprensibili), possiamo convenientemente chiamare deflazione dei salari e dei diritti. Del resto, una volta che si assume che gli squilibri all’interno dell’area dell’euro sono ascrivibili al fatto che i prezzi e costi dei Paesi in disavanzo crescono in misura superiore alla loro produttività, diventa perfettamente logico concludere che la correzione degli squilibri debba ricadere esclusivamente su di essi: ogni diversa soluzione implicherebbe infatti un’interferenza inammissibile rispetto all’obiettivo di «un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza», ossia di quell’economia che – come dice chiaramente l’art. 119, comma 1, TFUE – è l’unico possibile assetto entro il quale l’Unione può perseguire le finalità di cui all’art. 3 TUE. Si spiega così il fatto che la Corte di Giustizia (alla quale tanto i trattati istitutivi del Meccanismo Europeo di Stabilità, c.d. MES, quanto quelli raccolti sotto la denominazione di Fiscal Compact hanno attribuito nuovi poteri interpretativi e sanzionatori)16 abbia potuto tranquillamente salvare il principio di condizionalità senza porsi il problema della compatibilità delle misure restrittive imposte ai Paesi debitori con il rispetto dei diritti fondamentali proclamati dalla Carta dei diritti. Al netto del fatto che la Carta non è richiamata nell’ambito del Trattato istitutivo del MES, onde non può assurgere a criterio di controllo di quest’ultimo17, e che, nell’ottica della Corte, i cospicui tagli stipendiali e/o pensionistici subiti dai lavoratori greci o portoghesi o italiani non sono direttamente ascrivibili alle ingiunzioni delle istituzioni preposte al funzionamento del MES, ma se del caso alle misure nazionali che vi hanno dato esecuzione, le quali – sempre se del caso – possono essere passibili solo di un ricorso giurisdizionale interno18, la verità è che le misure in questione incidono di norma su diritti sociali di cittadinanza, i quali, proprio perché tali, sono estranei alle competenze dell’Unione19: et pour cause, vien fatto di dire.
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Bini, Smaghi, op. cit., 61. Cfr. Porchia, Il ruolo della Corte di giustizia dell’Unione Europea nella governance economica europea, in DUE, 2013, 593 ss. 17 Cfr. C. giust., 27 novembre 2012, causa C-370/12, Pringle, in RGL, 2013, 179, con nota di Bertolini; C. Giust., 20 settembre 2016, cause riunite da C105/15 a C109/15, Mallis, in curia.europa.eu. 18 Cfr. C. giust., 15 novembre 2012, causa C-102/12, Stadter, in curia.europa.eu. 19 Cfr. C. giust., 7 marzo 2013, causa C-128/12, Sindicato dos Bancários do Norte, in curia.europa.eu. 16
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I diritti sociali come controlimiti. Note preliminari
4. I diritti sociali come controlimiti: spunti ricostruttivi. Se tutto ciò è vero, non è più che una fiaba la nuova narrazione che in questi anni ci è stata proposta circa un’Unione Europea “buona” e “solidale”, alla quale si contrapporrebbero i “cattivi”, di volta in volta interpretati dai mercati finanziari, dalla c.d. Troika o dagli Stati nazionali. La verità è ben diversa, ed è che assistiamo impotenti al dipanarsi di una strategia che, lungi dall’alterare il “modello sociale europeo”, si abbatte con violenza sui modelli sociali nazionali20, e segnatamente su quello disegnato dalla nostra Carta costituzionale21. Là dove la nostra Costituzione rifondeva le tradizioni cattolica, socialista e comunista allo scopo di collocare lo Stato in una posizione di primazia, attribuendogli all’art. 41, comma 3°, potestà rilevantissime in ordine alle decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre, i Trattati europei, in modo squisitamente liberale (cioè liberista), mirano infatti a costruire uno spazio retto dalla libera concorrenza e in cui lo Stato sia niente di più che un agente economico come gli altri22. Come dire che l’una pretendeva di stabilire un proprio ordine entro il quale costringere la libertà degli affari, gli altri si limitano a stabilire un ordine di libertà per il compimento degli affari. Abbiamo detto che assistiamo “impotenti”, ma avremmo dovuto più correttamente dire “compartecipi”. È stato infatti acutamente osservato23 che l’ordinamento dell’Unione ha potuto in questi anni espandersi indisturbato grazie anche alla funzione svolta dalla Corte di Giustizia, che – sollecitata da giudici nazionali sempre più «remittenti e remissivi» – ha finito per assumere le sembianze di una vera e propria «Sibilla cumana del diritto europeo», incaricata com’è di compiere giudizi in cui si stabilisce la salvezza o la perdizione dei diritti nazionali al cospetto di un “diritto unitario” che non di rado prende corpo e fattezze nel momento stesso in cui la Corte medesima lo assume a parametro della propria decisione. Né stupisce che, a fronte della strutturale carenza di contenuti della legislazione europea, la Corte di Lussemburgo abbia sistematicamente tralasciato di ricorrere alle tradizioni costituzionali comuni per ciò che concerne la tutela dei diritti fondamentali (come pure vorrebbe l’art. 6, comma 3, TUE) ovvero ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri per colmare le lacune della legislazione ordinaria dell’Unione (come suggerirebbe l’art. 340, comma 2, TFUE), preferendovi a seconda dei casi il criterio dell’interpretazione autonoma oppure quello dell’effettività24: si tratta al contrario della miglior conferma
20
Il rilievo è, tra gli altri, di Ricci, La retribuzione in tempi di crisi: diritto sociale fondamentale o variabile dipendente?, in Caruso, Fontana, Lavoro e diritti sociali nella crisi europea, Il Mulino, 2015, 207. 21 Tra i primi a denunciare l’antinomia esistente fra la nostra Costituzione e i Trattati istitutivi dell’Unione economica e monetaria è stato Guarino, Pubblico e privato nella economia. La sovranità tra Costituzione e istituzioni comunitarie, in Qcost., 1992, 21 ss. Nello stesso senso, Irti, L’ordine giuridico del mercato, Laterza, 1998. V. amplius Cavallaro, A cosa serve l’art. 18, cit., spec. 55 ss.; Id., Giurisprudenza, cit., spec. 151 ss. 22 Si ricorderà che, del tutto conseguentemente, Luigi Mengoni ne dedusse la necessità di rileggere l’art. 41 Cost., spostando le finalità dell’intervento pubblico «dalla funzione programmatoria alla funzione di rimozione degli ostacoli al funzionamento del mercato» e assimilando i «fini sociali» oggetto della riserva di legge di cui al terzo comma ai «limiti della libertà d’iniziativa economica indicati nel comma precedente» (Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in BBTC, 1997, 1 ss.). 23 Cfr. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Giuffrè, 2015, 227 ss. 24 Castronovo, op. cit., 231.
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del rilievo svolto in precedenza circa l’incompatibilità della costituzione in senso materiale sancita nei Trattati con quelle adottate nei singoli Stati membri nel Secondo dopoguerra. Tanto è vero che il Tribunale costituzionale del Portogallo, al fine di dichiarare l’illegittimità costituzionale delle misure di austerità introdotte dal Parlamento in ossequio al Memorandum of Understanding concordato, nell’ambito del MES, tra il governo locale e la c.d. Troika, ha per un verso denunciato la loro capacità di vulnerare i principi di eguaglianza, proporzionalità e tutela della dignità umana proclamati dalla Costituzione portoghese, ma soprattutto, e per l’altro verso, ha dovuto richiamare l’art. 4, comma 2, TUE, ossia la necessità che l’Unione rispetti l’identità costituzionale degli Stati membri quale “controlimite” alla cessione di sovranità attuata con l’adesione all’Unione medesima25. Posta così la questione, si concluderà facilmente che l’auspicio consegnato a queste brevi note è di riproporre, nel conflitto fra ius commune e iura propria, quel medesimo atteggiamento particolaristico che ebbe corso per tutto il Medioevo, quando gli statuti delle città comunali italiane, da poco affrancatesi dal dominio imperiale, puntualmente risolvevano il problema della compresenza conflittuale del diritto universale e del diritto locale sancendo la prevalenza di quest’ultimo26. E si sarà indotti a bollare questa posizione come frutto di uno sciovinismo miope e passatista. Non è così. Nell’ottica della tutela dei diritti sociali del lavoro e, in genere, di cittadinanza, crediamo che i controlimiti, arginando d’inammissibilità le distorsioni cui inevitabilmente si perviene mediante «l’incessante integrazione negativa attraverso il mercato»27, possano piuttosto indicare la strada per una più profonda e solidale unione politica e sociale, favorendo semmai lo smascheramento dell’equivoco per cui, attualmente, gli interessi egoistici di taluni Stati (quelli creditori, ovviamente) vengono spacciati per “interesse generale” dell’Unione28. A condizione, s’intende, che ci si sottragga a quella seducente teoria che, utilizzando l’art. 4, comma 2, TUE, vorrebbe assorbire i controlimiti all’interno dell’ordinamento europeo, in modo che siano le istituzioni di quest’ultimo ad amministrarne il funzionamento29: se è vero che la Corte di Giustizia non può che fare orecchie
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Cfr. al riguardo Salazar, La Costituzione, i diritti fondamentali, la crisi: “qualcosa di nuovo, anzi d’antico”?, in Caruso, Fontana, Lavoro e diritti sociali nella crisi europea, cit., 117 ss. È infatti evidente che, sebbene ad essere sindacata di costituzionalità fosse una norma dell’ordinamento interno, essa era stata ricostruita assumendo a proprio paradigma il diritto eurounitario, onde la sua censura implicava l’indiretta contestazione di quest’ultimo. Che in tali casi il giudice costituzionale possa ricondurre la vicenda nell’ambito dei controlimiti (magari previa proposizione di una pregiudiziale comunitaria per chiarire la portata della norma comunitaria che funge da paradigma) è argomentato in Luciani, Interpretazione conforme a costituzione, in Enc. dir., Annali, IX, 2016, 453 ss. 26 Cfr. Grossi, L’Europa del diritto, cit., 58. 27 L’espressione è di Fontana, I giudici europei di fronte alla crisi economica, in Caruso, Fontana, Lavoro e diritti sociali nella crisi europea, cit., 135. 28 Cfr. in tal senso Luciani, Il brusco risveglio. I controlimiti e la fine mancata della storia costituzionale, in RivistaAIC, 2/2016. In quest’ottica, va ricordato come molti economisti abbiano stigmatizzato la politica salariale deflazionista praticata sul piano interno dalla Germania, individuandola come origine del rilevantissimo avanzo commerciale che essa vanta nei confronti degli altri partner europei (si veda ad es. Brancaccio, Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, 2012, 69 ss.) e ravvisandone lo scopo ultimo nell’obiettivo di «rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna» (così Gattei, L’euro dei Nazi e il nostro, in economiaepolitica.it, 24 marzo 2013, che icasticamente ne sottolinea l’analogia con gli obiettivi di politica economica del Terzo Reich). 29 Così invece Ruggeri, Le fonti del diritto eurounitario ed i loro rapporti con le fonti nazionali, in Costanzo, Mezzetti, Ruggeri, Lineamenti di diritto costituzionale dell’Unione Europea, Giappichelli, 2014, spec. 320 ss.
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I diritti sociali come controlimiti. Note preliminari
da mercante rispetto ad istanze e pretese non riconducibili ad alcuna delle quattro libertà fondamentali dei Trattati, chiamarla a giudice del rispetto dei controlimiti in materia di diritti sociali fondamentali, prima ancora che essere una contraddizione in termini, avrebbe la stessa ragionevolezza di demandare al lupo il compito della custodia del gregge30. Proprio per ciò crediamo che abbiano ragione quanti, al contrario, sostengono che l’identità costituzionale nazionale che l’Unione è chiamata a rispettare sia quella (e solo quella) che viene dichiarata tale dall’ordinamento interessato, nelle forme e nei modi che la sua Costituzione stabilisce31. E poco male se il prezzo di una posizione del genere dovesse essere una radicalizzazione dell’odierna tendenza a concepire il dialogo tra le Corti in guisa di una reciproca actio finium regundorum32: l’unica alternativa possibile, detto con franchezza, è di lasciare ancora spazio ad una tendenza che non è chiaro soltanto se porterà all’implosione dell’Unione nella sua forma attuale o ad una sua sopravvivenza che avrà come prezzo la desertificazione economica e sociale delle sue aree più deboli. Perché la strada dell’inferno, notoriamente, è sempre lastricata di buone intenzioni.
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Se ne coglie un conferma in C. giust., 20 settembre 2016, cause riunite da C8/15 a C10/15, Ledra Advertising Ltd., in curia.europa.eu, in cui la Corte, pur ammettendo in linea di principio che si possano contestare alla Commissione europea e alla BCE comportamenti illegittimi connessi all’adozione di un protocollo d’intesa in nome del MES (sia pure solo nel contesto di un ricorso per risarcimento danni ai sensi degli artt. 268 e 340, commi 2 e 3, TFUE, e non già in un ricorso per annullamento ex art. 263 TFUE), sviluppa nel merito un’argomentazione secondo cui «la stabilità del sistema bancario della zona euro nel suo complesso» costituisce «un obiettivo di interesse generale perseguito dall’Unione», di fronte al quale vale la clausola di cui all’art. 52, comma 1, della Carta di Nizza, che in presenza di finalità del genere giustifica «limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta». Come dire che la difesa delle banche giustifica la compressione indiscriminata di qualunque diritto! 31 Così Luciani, op. loc. ult. cit. 32 Giusta l’espressione di Bin, L’interpretazione conforme. Due o tre cose che so di lei, in RivistaAIC, 1/2015.
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Focus Le misure piĂš rilevanti della loi Travail
Caroline Dechristé
Le misure più rilevanti della loi Travail Sommario :
1. Premessa. – 2. Durata del lavoro e ferie. – 3. Dialogo sociale e contrattazione collettiva. – 3.1. Contrattazione, contenuto e durata degli accordi collettivi. – 3.2. Efficacia generalizzata dei contratti sottoscritti a maggioranza. – 3.3. Revisione e “rimessione in questione” degli accordi collettivi. – 3.4. Contratti collettivi offensivi. – 3.5. Ristrutturazione delle categorie della contrattazione. – 3.6. Misura della rappresentatività datoriale. – 3.7. Rafforzamento dell’azione delle istituzioni rappresentative del personale. – 3.8. Nuova rappresentatività per i dipendenti in franchising. – 4. Compte personnel d’activité e formazione professionale. – 5. Misure a favore dell’occupazione e dell’alternanza. – 5.1. Percorsi di accompagnamento al lavoro e Garanzia giovani. – 5.2. Apprendistato e contrat de professionnalisation. – 5.3. Portage salarial, lavoro stagionale e gruppi di imprese. – 6. Tutela della salute sul lavoro. – 6.1. Controllo medico dei dipendenti. – 6.2. Regime dell’inidoneità. – 6.3. Accollo delle spese di perizia. – 6.4. Prevenzione dei comportamenti sessisti. – 7. Adeguamento del diritto del lavoro alle tecnologie digitali. – 8. Definizione del licenziamento per motivo economico.
Sinossi. Nel contributo l’Autrice ricostruisce i contenuti essenziali dell’ampia riforma operata dalla loi Travail del 2016 che si segnala per la modifica del licenziamento economico e per la rinnovata centralità attribuita alla contrattazione a livello aziendale. La legge contempla una serie di misure che riguardano il dialogo sociale, l’orario di lavoro, le ferie, la regolamentazione del lavoro digitale, la sicurezza sul lavoro, la lotta contro l’utilizzo abusivo del distacco transnazionale, la formazione professionale ed il compte personnel d’activité. Abstract. The Author retraces the main contents of the vast reform realized by the loi Travail of 2016, which is mainly relevant for the changes in the discipline of economic dismissal and for the new centrality of the collective bargaining at the company level. The new act includes a series of measures about social dialogue, working time, holidays, the regulation of digital work, safety at work, contrast to illegal posting of workers, professional training and the compte personnel d’activité. Parole chiave: Loi Travail – contrattazione aziendale – orario di lavoro – formazione professionale – tutela della salute – adeguamento alle tecnologie digitali – licenziamento per motivo economico.
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Il contributo è stato pubblicato nel numero di settembre 2016 sulla Revue de Droit du Travail. Traduzione a cura di Violette Peigné e Raffaele Galardi.
Caroline Dechristé
1. Premessa. Sette titoli, 243 pagine, 123 articoli, 300 articoli del Code du travail inseriti o modificati, la l. n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016 relativa al lavoro, alla modernizzazione del dialogo sociale e alla garanzia dei percorsi professionali, riforma notevolmente il diritto del lavoro. Oltre alla riforma del licenziamento economico e ed alla centralità attribuita alla contrattazione a livello aziendale, che sono gli aspetti su cui si è focalizzato il dibattito pubblico, la legge contempla una serie di misure che riguardano il dialogo sociale, l’orario di lavoro, le ferie, la regolamentazione del lavoro digitale, la sicurezza sul lavoro, la lotta contro l’utilizzo abusivo del distacco transnazionale, la formazione professionale ed il compte personnel d’activité (n.d.t.: il conto personale di attività lavorativa). Nel suo primo articolo, la legge annuncia una riforma del Code du travail nell’arco di un biennio. Una commissione di esperti e di tecnici, assistiti dalle parti sociali, proporrà una riscrittura del Code du travail con l’obiettivo di attribuire un ruolo centrale alla contrattazione collettiva, soprattutto al livello aziendale. Il Code du travail sarà riorganizzato su tre livelli: - norme assolutamente inderogabili; - regole che possono essere oggetto di contrattazione collettiva; - regole che si applicano in assenza di regolamentazione collettiva.
2. Durata del lavoro e ferie. L’art. 8 della legge prevede già tale architettura e le disposizioni del Code du travail sulla durata del lavoro, sulla struttura e la ripartizione degli orari e sui riposi giornalieri sono già state integralmente riscritte. La legge non modifica in maniera significativa la durata del lavoro o le nozioni di lavoro effettivo, di lavoro straordinario o l’organizzazione dei tempi di lavoro, ciò che cambia invece sono le modalità di presentazione di tali disposizioni. In primo luogo infatti vengono enucleate le disposizioni di ordine pubblico alle quali nessun tipo di accordo può derogare, viene poi individuato il terreno di regolazione della contrattazione collettiva ed infine vengono prefigurate le regole suppletive in caso di assenza di regolazione collettiva aziendale o di categoria. Si deve comunque registrare una maggiore flessibilità della disciplina. La durata massima giornaliera resta fissata a 10 ore ma la contrattazione collettiva può innalzare tale limite, nel massimo, a 12 ore «in caso di punte di attività o per motivi connessi alla organizzazione dell’impresa». Per la durata massima settimanale, sempre fissata a 48 ore, l’ispettorato del lavoro può innalzare tale limite a 60 ore in casi specifici e per «circostanze eccezionali e per la durata delle stesse». Inoltre, i dipendenti possono, se un contratto collettivo lo prevede, lavorare per 46 ore settimanali, per un periodo massimo di sedici settimane, con il tempo minimo di riposo quotidiano provvisoriamente ridotto.
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Allo stesso modo, le aziende potranno, anche in assenza di un contratto collettivo, proporre ai loro dipendenti di concludere una convention de forfait jour (n.d.t.: accordo di forfait giornaliero). Il forfait jour può essere realizzato attraverso un contratto collettivo aziendale o un accordo con un dipendente delegato da un’organizzazione sindacale rappresentativa o con un atto unilaterale del datore di lavoro che riprenda un accordo tipo negoziato a livello contrattuale di categoria. La legge stabilisce inoltre con più precisione il contenuto dei contratti collettivi (periodo di riferimento, condizioni per conteggiare nella retribuzione le assenze dei dipendenti, le modalità del diritto alla disconnessione e la valutazione e il controllo dei dipendenti in questo caso). Tuttavia si precisa che le nuove disposizioni non si applicano ai contratti esistenti. Per quanto riguarda il lavoro straordinario, prima della loi Travail, la retribuzione di queste ore era maggiorata del 25% per le prime 8 ore e del 50% per le ore successive. Un contratto collettivo (n.d.t.: aziendale) poteva prevedere una maggiorazione solo del 10% a condizione che non vi fossero previsioni contrarie della contrattazione di categoria. La nuova legge elimina quest’ultima condizione. L’accordo aziendale non deve più rispettare il limite fissato a livello di categoria. In assenza di accordo collettivo, la maggiorazione sarà del 25% per le prime 8 ore e del 50% per le ore successive (art. L. 3121-33 s. e L. 3121-35). Per quanto concerne le ferie, la loi dell’8 agosto 2016 prevede una nuova architettura nella loro presentazione. Le ferie sono regolate in tre sezioni diverse: i congedi per la conciliazione tra vita professionale e vita personale, i congedi sindacali, politici o militanti e i congedi per lo sviluppo del percorso professionale. Inoltre, va osservato che se il frazionamento delle ferie retribuite resta d’ordine pubblico, le regole di frazionamento oltre del dodicesimo giorno rientrano nella sfera regolativa della contrattazione collettiva.
3. Dialogo sociale e contrattazione collettiva. Il titolo II della legge mira a favorire una cultura del dialogo sociale e della contrattazione e stabilisce nuove regole in materia di contrattazione collettiva.
3.1. Contrattazione, contenuto e durata degli accordi collettivi. In primo luogo, lo scopo della legge è di generalizzare gli accords de méthode (n.d.t.: accordi aziendali o di categoria originariamente previsti per la procedura da seguire in caso di licenziamento economico di almeno dieci dipendenti in un arco temporale di trenta giorni) al fine di permettere una contrattazione in condizioni di correttezza e fiducia reciproca. Inoltre, ogni accordo collettivo deve contenere un preambolo che presenta i suoi obbiettivi ed il suo contenuto, definisce le sue condizioni di monitoraggio e comprende delle clausole di revisione a tempo.
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Inoltre, la legge fissa ora esplicitamente che la durata dei contratti collettivi – salvo previsione contraria – è di 5 anni. Infine, tutti gli accordi collettivi conclusi a partire dal 1° settembre 2017 devono essere pubblicati e saranno conservati in una banca dati nazionale pubblicata in rete.
3.2. Efficacia generalizzata dei contratti sottoscritti a maggioranza. Per essere efficace, un contratto deve recare la sottoscrizione delle organizzazioni sindacali che rappresentino la maggioranza dei voti espressi nelle elezioni in favore di organizzazioni sindacali rappresentative. In assenza di maggioranza, le organizzazioni sindacali che abbiano ottenuto il 30% degli voti potranno sottoporre a referendum dei dipendenti il testo e l’accordo potrà essere convalido solo se ottiene la maggioranza dei dipendenti. Gli accordi firmati con i rappresentanti del personale, in assenza di delegato sindacale, sono semplicemente trasmessi a titolo informativo alla commissione paritetica di settore e non sono più trasmessi per approvazione.
3.3. Revisione e “rimessione in questione” degli accordi collettivi. La loi Travail rielabora la procedura di revisione dei contratti ed accordi collettivi allo scopo di adattarla alle evoluzioni delle regole sulla rappresentatività e allo sviluppo della contrattazione collettiva nelle aziende prive di delegati sindacali. L’avvio della revisione di un contratto è riservato alle organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo fino alla fine del ciclo elettorale nel corso del quale l’accordo è stato concluso. Dopo, l’avvio della revisione è aperto a tutte le organizzazioni sindacali rappresentative, anche non firmatarie. Inoltre, il testo modifica anche le modalità di rimessione in questione del contratto collettivo in caso di modificazioni nella situazione giuridica del datore di lavoro (n.d.t.: si tratta di casi per vicende inerenti alla sfera dell’imprenditore occorre modificare l’ambito di applicazione dello stesso). L’obiettivo è quello di stimolare i datori di lavori a negoziare a monte la messa in discussione dell’accordo o una denuncia dello stesso. Ormai, in caso di denuncia di un contratto collettivo da parte della totalità dei firmatari datori di lavori firmatari o dei dipendenti o dei sindacati maggioritari, è possibile negoziare un accordo sostitutivo dall’inizio del preavviso di denuncia. E la negoziazione può dare luogo ad un accordo, anche prima della scadenza del termine di denuncia. In assenza di convenzioni o di accordi sostitutivi conclusi nel termine di un anno decorrente dalla scadenza del preavviso di denuncia, i dipendenti interessati non mantengono, come era il caso fino ad ora, i vantaggi individuali acquisiti in applicazione del testo denunciato, ma soltanto il loro stipendio anteriore, il cui ammontare annuale, per una durata di lavoro equivalente a quella prevista dal loro contratto di lavoro, non può essere inferiore allo stipendio versato negli ultimi dodici mesi. Queste disposizioni si applicano dalla data in cui i contratti denunciati cessano di produrre i loro effetti, anche se la data della loro denuncia è anteriore al 9 agosto 2016, data di pubblicazione della legge.
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3.4. Contratti collettivi offensivi. Infine, è prevista la possibilità di concludere degli accordi offensivi per favorire l’occupazione Le imprese potranno ormai concludere degli accordi per modulare, temporaneamente, il tempo di lavoro e lo stipendio dei dipendenti, con lo scopo “di sviluppare l’occupazione”. Se un dipendente rifiuta questi cambiamenti, può essere licenziato in virtù delle regole applicabili al licenziamento per motivo soggettivo.
3.5. Ristrutturazione delle categorie della contrattazione. Varie misure della loi Travail hanno, inoltre, lo scopo di accelerare la ristrutturazione delle categorie professionali. Il ministro del lavoro può fondere delle categorie in ragione della loro scarsa rappresentatività o dello scarso dinamismo nella contrattazione collettiva, quando l’ambito di applicazione è soltanto regionale o locale, oppure quando meno del 5% delle aziende aderiscono ad una organizzazione professionale rappresentativa dei datori di lavoro. Il ministro del lavoro può anche pronunciare l’ampliamento del campo di applicazione geografica o professionale di un contratto collettivo al fine di integrare un settore territoriale o professionale non coperto da un contratto collettivo e rifiutare di estendere un contratto collettivo, i suoi appendici o i suoi allegati. In caso di fusione o di conclusione di un accordo collettivo che raggruppa il campo di diversi contratti esistenti, le parti sociali dispongono di un termine di 5 anni per armonizzare le loro disposizioni convenzionali. In questo periodo, le differenze temporanee di trattamento tra dipendenti non possono essere invocate. Alla fine di questo periodo, le disposizioni del contratto collettivo di collegamento si applicano automaticamente in assenza di accordo.
3.6. Misura della rappresentatività datoriale. Il criterio della estensione («audience») che permette di misurare la rappresentatività datoriale è stato riformulato. La legge prevede una ponderazione permettendo di tener conto del numero di dipendenti di un’azienda. Il criterio della estensione («audience») è così adattato alla specificità delle organizzazioni di datori di lavoro. In tal modo, esso è valutato in funzione della loro capacità a dimostrare che hanno come aderenti: - almeno l’8 % delle aziende aderenti ad organizzazioni professionali di datori di lavoro che soddisfano i requisiti compresi tra 1 e 4 dell’art. L. 2151-1 del Code du travail e avendo presentato domanda, al relativo livello (settore o nazionale e interprofessionale); oppure - che le loro aziende aderenti impiegano almeno l’8 % dell’insieme dei dipendenti impiegati dall’insieme delle aziende aderenti alle organizzazioni professionali di datori di lavoro che soddisfano i requisiti e hanno presentato domanda. Queste modalità di calcolo dell’audience fondate sul numero di aziende aderenti nonché sul numero di dipendenti che impiegano sono previste dagli articoli L. 2151-1, L. 21521 e L. 2152-4 del Code du travail. È inoltre precisato che i dipendenti presi in conto sono quelli sottoposti al regime di sicurezza sociale francese.
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3.7. Rafforzamento dell’azione delle istituzioni rappresentative del personale.
Il testo opera vari cambiamenti relativi alle istituzioni rappresentative del personale e ai delegati dei rappresentanti del personale. La legge aumenta del 20% le ore di permesso dei delegati sindacali (DS), dei delegati sindacali centrali e dei dipendenti chiamati da la loro sezione sindacale a negoziare un accordo, precisando che il calcolo delle ore di delegazione dei DS, DS centrali e rappresentanti della sezione sindacale viene fatta in forfait jours, in assenza di accordo. Il credito di ore deve essere riunito in mezze giornate che sono deducibili dal numero annuale di giorni lavorati previsti dalla convenzione individuale di forfait jours. Inoltre, è facilitata la diffusione telematica delle comunicazioni sindacali (art. L. 2142-6 del Code du Travail). Infine, la copertura per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è estesa ai DS che partecipano alle negoziazioni ad un livello di contrattazione diverso da quello aziendale. Infine, la legge garantisce la messa a disposizione di locali a beneficio dei sindacati da parte delle collettività territoriali.
3.8. Nuova rappresentatività per i dipendenti in franchising. Una istanza di dialogo comune per tutte le reti in franchising è predisposta per quelle reti che contano almeno 300 dipendenti, allorquando il contratto di franchising preveda delle regolazioni che impattano sull’organizzazione del lavoro e sulle condizioni di lavoro. È condizione per l’istanza di dialogo comune che i rappresentanti sindacali al livello della categoria o della rete ne abbiano fatto richiesta. Tale istanza è creata con accordo collettivo. In assenza dell’accordo, le modalità saranno previste da un decreto che sarà pubblicato. Il Conseil constitutionnel ha tuttavia censurato parzialmente l’articolo 64 relativo a questa istanza, ritenendo che le spese di funzionamento non devono ricadere, in assenza di accordo, sul solo affiliante; il Conseil constitutionnel ha espresso riserve relative alla partecipazione di aziende in franchising alla contrattazione dell’accordo e le ore di permesso supplementari previste per i dipendenti in franchising. Il Conseil constitutionnel ha rilevato inoltre che “l’introduzione di questa istanza si impone soltanto se tre condizioni sono riunite: la rete di franchising deve contare almeno 300 dipendenti; il contratto di franchising deve contenere delle clausole che hanno un effetto sull’organizzazione del lavoro e sule condizioni di lavoro dei dipendenti delle aziende in franchising; una organizzazione rappresentativa al livello della categoria o che ha istituito una sezione sindacale all’interno dell’azienda di rete deve aver chiesto l’introduzione di questa istanza”.
4. Compte personnel d’activité e formazione professionale. Riprendendo la posizione comune firmata dalla CFDT, CFTC e FO, il testo instaura il compte personnel d’activité, CPA (n.d.t.: conto personale di attività lavorativa). Al 1° gen-
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naio 2017, tale dispositivo, composto dal conto personale di formazione (compte personnel de formation, CPF), dal conto personale di prevenzione della gravosità (compte personnel de prévention de la pénibilité, CPPP) e dal conto di impegno civico (compte d’engagement citoyen, CEC) ha come obiettivi, attraverso l’utilizzo dei diritti previsti, di rinforzare l’autonomia e la libertà di azione del suo titolare e di rendere più sicuro il suo percorso professionale, eliminando gli ostacoli alla mobilità. La loi Travail crea, inoltre, il nuovo conto di impegno civico (CEC) che identifica tutte le attività di volontariato e che faciliterà il riconoscimento delle competenze acquisite tramite queste attività, in particolare nell’ambito della validazione dell’esperienza precedente (validation des acquis de l’expérience, VAE). I giovani che hanno compiuto una missione di servizio pubblico, le persone che si impegnano in riserve (militari, sanitarie, di sicurezza civile o civiche) ed i maestri di apprendimento beneficeranno di punti supplementari sul loro CPA per valorizzare il loro impegno e dare diritto ad una maggior formazione. Dal 1° gennaio 2017, le condizioni di apertura e chiusura del CPF si effettueranno nell’ambito del CPA. Sono previste nuove modalità di finanziamento del CPF al fine di foraggiare quelle formazioni la cui durata eccede il numero di ore iscritte nel conto. La legge dell’8 agosto 2016 allarga anche la lista delle azioni ammissibili al CPF, l’accompagnamento alla VAE, le formazioni che permettono di beneficiare di bilanci di competenze per le persone che non hanno diritto al congedo di bilancio di competenze, e le formazioni impartite alle presone che creano o rilevano imprese. Inoltre, varie misure del progetto di legge mirano a favorire lo sviluppo della formazione professionale e dell’apprendistato. La validazione dell’esperienza precedente (VAE), in particolare, potrà essere accessibile alle persone che hanno avuto un’attività di un anno invece dei tre anni precedentemente previste. Il testo prevede anche che in caso di validazione parziale della certificazione, i blocchi di competenze convalidati saranno definitivamente acquisiti dalla persona. Infine, la legge estende, dal 1° gennaio 2018, il beneficio di questo conto ai lavoratori autonomi ed ai liberi professionisti.
5. Misure a favore dell’occupazione e dell’alternanza. 5.1. Percorsi di accompagnamento al lavoro e Garanzia giovani. Il primo luogo, la legge prevede l’applicazione generalizzata di Garanzia giovani. Lanciata prima in 10 dipartimenti, poi progressivamente estesa a 91 dipartimenti alla fine del 2016, dal 1° gennaio 2017 Garanzia giovani diventerà un diritto per i giovani da 18 a 25 anni, in condizione di precarietà rilevante e pronti ad intraprendere un percorso convenzionale di accompagnamento al lavoro.
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5.2. Apprendistato e contrat de professionnalisation. Modifiche sono state apportate anche per il contratto di apprendistato. In particolare, è stato previsto – a titolo sperimentale – l’allungamento del limite di età (30 anni). La legge ha poi consentito che la formazione formale possa essere effettuata in tutto o in parte a distanza. Infine la legge ha allargato la lista delle strutture presso cui le imprese possono essere esonerate dal pagamento di una quota («hors quota») della tassa di apprendistato aggiungendovi alcune strutture private di insegnamento di secondo grado gestite da organismi senza scopo di lucro. Del contrat de professionalisation (n.d.t.: apprendistato professionalizzante) la riforma modifica l’ambito di applicazione e le regole di finanziamento.
5.3. Portage salarial, lavoro stagionale e gruppi di imprese. È stata ratificata l’ordinanza sul cd. portage salarial al fine di rendere più stringente il ricorso a tale forma di impiego. In caso di ricorso abusivo o illegittimo a tale fattispecie vengono prefigurate anche sanzioni penali. Allo stesso modo viene regolato il lavoro stagionale, i cui presupposti applicativi (ipotesi di ricorso e lavori in cui le attività si ripetono annualmente con una periodicità fissa, in funzione del ritmo delle stagioni o dei modi di vivere della collettività) sono previsti per legge. Le modalità di rinnovo di questa tipologia di contratto a tempo determinato dovranno essere determinata dalle parti sociali dei settori in cui si fa maggiormente ricorso al lavoro stagionale. In mancanza di previsione collettiva nel termine di due anni, il Governo viene abilitato a definire, con atto amministrativo, le modalità di rinnovo del contratto e di calcolo dell’anzianità di servizio. Infine l’art. 89 agevola il ricorso a lavoro a tempo parziale nell’ambito dei gruppi di datori di lavoro (n.d.t.: reti di imprese). Nel caso in cui il contratto collettivo del gruppo dei datori di lavoro sia differente da quello della impresa utilizzatrice del lavoratore, quest’ultima può far ricorso al dipendente a tempo parziale alle condizioni previste dal suo contratto collettivo di categoria.
6. Tutela della salute sul lavoro. La legge dell’8 agosto 2016 porta a termine la riforma dell’inidoneità al lavoro e della medicina sul lavoro avviata dalla legge relativa al dialogo sociale del 17 agosto 2015. È stato previsto di ammorbidire le modalità di controllo mediche dei dipendenti (visita medica che precede l’assunzione, visite mediche periodiche) e di modificare in vari punti il regime dell’inidoneità.
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6.1. Controllo medico dei dipendenti. Il testo riforma il controllo medico dei dipendenti. La visita medica che precede l’assunzione viene eliminata a favore di una visita di informazione e di prevenzione dopo l’assunzione. Per quanto concerne la visita medica periodica, la sua periodicità deve variare tenendo conto delle condizioni di lavoro, dell’età e dello stato di salute del lavoratore.
6.2. Regime dell’inidoneità. Per quanto riguarda il regime dell’inidoneità, la loi Travail ha totalmente riscritto la procedura di accertamento e unificato le regole di ricollocazione in caso di inidoneità. Pertanto, dal 1° gennaio 2017, l’accertamento dell’inidoneità non necessiterà più della doppia visita medica. Il medico del lavoro, che prende atto che nessuna misura di organizzazione, di adattamento o di trasformazione del posto di lavoro è possibile e che lo stato di salute del lavoratore giustifica un cambiamento del posto di lavoro, dichiara il lavoratore inidoneo al suo posto di lavoro; non c’è più l’obbligo di procedere a due visite mediche. Il licenziamento per inidoneità viene anche facilitato. Il datore di lavoro può recedere senza dover cercare di ricollocare il lavoratore dal momento che il parere del medico del lavoro menziona espressamente che lo stato di salute del dipendente fa ostacolo ad ogni sua ricollocazione nell’azienda.
6.3. Accollo delle spese di perizia. Infine, occorre notare che sono state modificate le regole sul pagamento delle spese di perizia del comitato di igiene, di sicurezza e delle condizioni di lavoro (comité d’hygiène, de sécurité et des conditions de travail, CHSCT). L’articolo 4614-13 del Code du travail che impone al datore di lavoro di pagare le spese di perizia del CHSCT, anche quando la decisione di ricorrere ad un esperto è stata annullata in giudizio, era stata parzialmente annullato da una decisione del Conseil constitutionnel del 27 novembre 2015 in ragione dell’assenza di effetto sospensivo dell’esecutività del ricorso del datore di lavoro al giudice. Il progetto preliminare corregge quindi quest’articolo. Il giudice decide in prima e ultima istanza entro 10 giorni ed il corso del giudizio sospende l’esecutività della decisione del CHSCT. In caso di annullamento definitivo dal giudice della decisione del CHSCT, l’esperto è tenuto a rimborsare al datore di lavoro gli importi riscossi.
6.4. Prevenzione dei comportamenti sessisti. La loi Travail abbina al principio di protezione dei dipendenti contro i comportamenti sessisti un obbligo di prevenzione a carico del datore di lavoro, con l’eventuale sostegno degli rappresentanti del personale. Inoltre, le regole relative al divieto di comportamenti
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sessisti devono essere previste nel regolamento aziendale. La prevenzione di questo tipo di comportamenti fa ormai anche parte delle missioni del CHSCT.
7. Adeguamento del Diritto del lavoro alle tecnologie
digitali.
Per l’adeguamento del Diritto del lavoro al mondo digitale sono state previste tre misure: l’affermazione di un diritto alla disconnessione, l’introduzione di disposizioni che consentono l’utilizzo di strumenti telematici da parte delle organizzazioni sindacali e l’apertura di una contrattazione interprofessionale sul telelavoro nell’ottobre 2016. La loi Travail introduce il «diritto alla disconnessione». Le imprese con più di 50 dipendenti sono obbligate ad introdurre forme di regolazione degli strumenti telematici. Tali misure devono assicurare il rispetto dei tempi di non lavoro e garantire un equilibrio tra vita professionale e vita personale e familiare. Le modalità di estrinsecazione del diritto alla disconnessione dovranno essere negoziate nell’ambito della contrattazione obbligatoria annuale sull’uguaglianza professionale tra donne e uomini e sulla qualità di vita al lavoro. In mancanza di un accordo, il datore dovrà predisporre, sentiti il comitato d’impresa o, in mancanza, i rappresentanti sindacali, un codice che definisca le modalità di esercizio del diritto alla disconnessione e preveda, inoltre, a beneficio dei dipendenti e del personale direttivo, misure di formazione e di sensibilizzazione all’uso ragionevole degli strumenti telematici. Le legge precisa infine che il diritto di espressione dei dipendenti può anche esercitarsi «attraverso gli strumenti informatici disponibili nell’impresa».
8. Definizione del licenziamento per motivo economico. La legge introduce due motivi economici di licenziamento: la riorganizzazione dell’impresa che sia necessaria per la tutela della sua competitività e la cessazione di attività. La legge specifica la nozione di “difficoltà economiche” fornendo degli elementi identificativi che ne consentano da un lato la prova e dall’altro l’attivazione di una procedura di licenziamento. Le difficoltà economiche sono caratterizzate sia per una significativa evoluzione di almeno un indicatore economico tra riduzione degli ordini o del fatturato, perdite di esercizio o deterioramento della liquidità o del risultato lordo di gestione sia per qualsiasi altro elemento che possa suffragare tali difficoltà. Il calo significativo degli ordini o del fatturato è misurato su un arco temporale che tiene conto dell’organico effettivo dell’impresa. Gli elementi materiali – soppressione o trasformazione del lavoro o modificazioni del contratto di lavoro – su cui si fonda il licenziamento trovano dunque la loro causa nella situazione economica o nell’evoluzione dell’attività dell’impresa. Prendendo atto di una costante giurisprudenza della Cour de Cassation, la legge stabilisce che la valutazione di tali elementi materiali deve essere fatta al livello dell’impresa.
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Focus - Le misure più rilevanti della loi Travail
L’adozione «il più presto possibile» delle misure regolamentari necessarie all’applicazione della legge è stata annunciata dal Ministero del lavoro attraverso un comunicato. Una gran parte di essi dovrà essere pubblicata entro la fine di ottobre e la quasi totalità entro la fine dell’anno. Il Senato ha, peraltro, pubblicato sul proprio sito internet la lista degli atti regolamentari previsti per l’attuazione della loi Travail. Sono attesi 127 atti regolamentari.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza C orte di Cassazione, sentenza 29 settembre 2016, n. 19320 – Pres. Nobile – Est. Ghinoy – P.M. Finocchi Ghersi (conc. parz. diff.) – Fondazione Betania Onlus (Avv. Gidaro G., Avv. Gidaro S.) c. S.C. (Avv. Giampà). Cassa con rinvio App. Catanzaro, sent. n. 684/2015. Licenziamenti – licenziamento collettivo – comunicazione ex art. 4, co. 9, l. 223/91 – errata applicazione dei criteri di scelta – vizi procedurali – sussistenza.
In caso di licenziamento collettivo, qualora sia accertata l’inadeguatezza della comunicazione del datore di lavoro avente ad oggetto le modalità applicative dei criteri di scelta, al lavoratore spetta – nel regime ex L. 92/2012 – solo la tutela indennitaria prevista per i vizi procedurali del licenziamento, dal momento che la tutela reintegratoria è accordata esclusivamente nell’ipotesi di violazione sostanziale dei criteri di scelta.
Svolgimento del processo - La Corte d’appello di Catanzaro con la sentenza n. 684 del 2015 accoglieva il reclamo proposto ex art. 1 comma 58 della L. n. 92 del 2012 e dichiarava inefficace nei confronti di S.C. il licenziamento collettivo intimato con lettera del 17.1.2013 da Fondazione Betania Onlus, per genericità della comunicazione di cui all’art. 4 comma 9 della L. n. 223 del 1991. La decisione era fondata sul rilievo che nell’esporre le modalità di applicazione del criterio delle “esigenze tecnico produttive e organizzative”, la Fondazione aveva valorizzato l’anzianità nella mansione senza specificare la data di inizio delle pregresse esperienze lavorative, la relativa durata, il nominativo del datare di lavoro, la tipologia di documentazione presa in considerazione per l’attribuzione del punteggio finale. Condannava quindi la Fondazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità risarcitoria commisura a n. 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione ed interessi legali ed oltre alle spese del giudizio. Per la cassazione della sentenza la Fondazione Betania Onlus ha proposto ricorso, affidato a 3 motivi, illustrati anche con memoria ex art. 378 c.p.c. cui ha resistito con controricorso il S. Motivi della decisione – Omissis. 2. Come secondo, motivo, si deduce violazione dell’art. 4 comma 9 della L. n. 223 del 1991 e si addebita alla Corte territoriale di avere ritenuto che la suddetta comunicazione debba esplicitare i presupposti per I’ applicazione dei criteri di scelta, documentando tutti gli elementi all’uopo utilizzati, mentre è sufficiente che il datore di lavoro ne indichi le modalità di applicazione. Nel caso, la società aveva rappresentato che il criterio delle esigenze tecnico organizzative e produttive prevedeva l’attribuzione di “...due punti per ogni anno di attività, calcolato in giorni, svolta nell’attuale mansione, riscontrabile da relativa documentazione”, facendo così riferimento
ad elementi extratestuali per la documentazione delle esperienze lavorative pregresse dei dipendenti (anche attinenti a diversi precedenti rapporti di lavoro). Sostiene la ricorrente che il requisito posto dalla legge fosse stato in tal modo assolto, in quanto la Fondazione aveva esplicitato che erano stati attribuiti due punti per ogni anno di attività svolta nell’attuale mansione, e prodotto le graduatorie finali suddivise per profilo professionale. Tali modalità applicative peraltro erano corrispondenti alle argomentazioni spese dal datore di lavoro nel corso delle trattative sindacali, ed i relativi presupposti fattuali avrebbero ben potuto essere verificati mediante l’accesso agli atti della Fondazione, effettuabile ex L. n. 241 del 1990 in considerazione della natura dell’ente di incaricato di pubblico servizio. 2.1. Il motivo non è fondato. La comunicazione di cui all’art. 4, co. 9 della L. n 223 del 1991, che fa obbligo di indicare “puntualmente” le modalità cori le quali sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, è finalizzata a consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell’operazione e la rispondenza agli accordi raggiunti (Cass. civ. Sez. lavoro, 15-06-2015, n. 12344). Essa cristallizza anche le ragioni deliro recesso, non consentendo al datore di lavoro di dedurre in giudizio, ex post, l’applicazione di modalità della scelta diverse da quelle risultanti dalla citata comunicazione. A tal fine, quindi, l’esigenza di consentire il controllo (contestuale e successivo) impone che non solo i criteri, ma anche i presupposti fattuali sulla base dei quali i criteri sono stati applicati risultino ricavabili dalla comunicazione. La valutazione dell’adeguatezza della comunicazione costituisce un giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (così, con riferimento alla comunicazione, di apertura della procedura, Cass. civ. Sez. lavoro, 3-02-2016, n. 2113).
Giurisprudenza
Nel caso in esame, la Corte ha fatto applicazione di tali principi: ha ritenuto infatti che la comunicazione fosse del tutto inidonea a consentire il controllo sulla corretta applicazione dei criteri di criteri, con riferimento alle esperienze lavorative pregresse dei singoli lavoratori, in quanto non riportava la data di inizio delle stesse, né la relativa durata, né il nominativo del datore di lavoro, né la tipologia di documentazione presa in considerazione per l’attribuzione del punteggio finale che, quindi, non si comprendeva come fosse stato calcolato. Le ragioni del convincimento della Corte territoriale appaiono inoltre adeguatamente esplicitate, considerando che i presupposti per l’applicazione dei criteri attenevano ad elementi estranei al rapporto di lavoro con la Fondazione e del tutto al di fuori della conoscenza e conoscibilità dei destinatari della comunicazione, se non previo accesso a dati extratestuali neppure specificati. 3. Come terzo motivo, la Fondazione deduce violazione ed errata applicazione dell’art. 5 comma 3 della L. n. 223 del 1991 e lamenta la Corte territoriale, come effetto del riscontrato vizio del procedimento, non abbia conseguentemente applicato l’art. 18 comma settimo, terzo periodo, richiamato per il caso di “violazione delle procedure” dall’art. 5 comma 3 della L. n. 223 del 1991, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, e riconosciuto la tutela indennitaria (da 12 a 24 mensilità) ivi prevista. 3.1. Il motivo è fondato. In base al comma 3 dell’art. 5 della L. n. 223 del 1991, come sostituito dall’art. 1, co. 46, L. n. 92 del 2012, va distinta la “violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12” dalla “violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1”. Nel primo caso “si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18”; secondo il terzo periodo di tale settimo comma “nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”; il rinvio ulteriore a detto quinto comma fa sì che il giudice, in tali ipotesi, “dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”. Nel secondo caso, invece – “violazione di criteri di scelta” –, “si applica il regime di cui al quarto comma
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del medesimo articolo 18”; quindi il giudice “annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione”, in una misura non superiore alle dodici mensilità. La tutela indennitaria è quindi prevista in “caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12”; tale articolo 4, comma 12, prescrive che “le comunicazioni di cui al comma 9 sono prive di efficacia ove siano state effettuate senza l’osservanza della forma scritta e delle procedure previste dai presente articolo”. Pertanto l’incompletezza della comunicazione di cui al comma 9 costituisce “violazione delle procedure” previste dall’articolo 4 della I. n. 223 del 1991, dando luogo al “regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18” e, quindi, alla tutela indennitaria tra 12 e 24 mensilità (così Cass. n. 12095 del 13/6/2016). Diversi sono i presupposti del vizio attinente la “violazione dei criteri di scelta”, legittimante la reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di una indennità risarcitoria, in quanto, come puntualizzato da Cass. n. 12095 del 13/6/2016 sopra richiamata, tale caso si ha non nell’ipotesi di incompletezza formale della comunicazione di cui all’art. 4, co. 9, bensì allorquando i criteri di scelta siano, ad esempio, illegittimi, perché in violazione di legge, o illegittimamente applicati, perché attuati in difformità dalle previsioni legali o collettive. Nel caso che ci occupa, la Corte d’appello ha rilevato un difetto della comunicazione di cui all’art. 4 comma 9, limitandosi a sindacare il profilo formale attinente il contenuto della comunicazione, qualificando il vizio come meramente procedurale e senza scendere del merito della correttezza dei criteri di scelta applicati. Ha quindi erroneamente applicato la tutela reintegratoria, laddove la fattispecie sanzionatoria applicabile era quella meramente indennitaria prevista dal terzo periodo del settimo comma, con rinvio al quinto comma, del (novellato) art. 18 della L. n. 300 del 1970. 4. Segue la cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Reggio Calabria, che dovrà procedere a nuova valutazione delle conseguenze dell’illegittimità del recesso, in applicazione dei criteri sopra indicati. – Omissis.
Samuele Renzi
Licenziamento collettivo: in caso di inadeguata comunicazione delle modalità applicative dei criteri di scelta, il vizio resta di natura formale. Sommario : 1. Il caso. – 2. Gli obblighi procedimentali nel licenziamento collettivo: l’indicazione «puntuale» delle modalità applicative dei criteri di scelta. – 3.Violazione delle procedure, violazione dei criteri di scelta e loro conseguenze. – 4. Osservazioni conclusive.
Sinossi. La nota commenta la sent. n. 19320 del 29 settembre 2016 con cui la Cassazione si è occupata delle conseguenze derivanti da un vizio formale di comunicazione riguardante i criteri di scelta utilizzati nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo. L’analisi è focalizzata sul principio statuito dalla S.C. nel caso di specie, per cui la non puntuale indicazione delle concrete modalità applicative dei criteri costituisce comunque vizio formale sanzionabile ex art. 18, comma 7, st. lav. L’ampia ricognizione sulla disciplina legislativa di riferimento completa l’esame del caso.
1. Il caso. La sentenza in epigrafe interviene su un caso di licenziamento collettivo, occupandosi delle conseguenze di un vizio di comunicazione riguardante le modalità applicative dei criteri di scelta utilizzati dal datore di lavoro nella procedura. La decisione della S.C., apprezzabile per linearità e chiarezza, pone ordine nell’applicazione dei vari regimi sanzionatori che la legge commina in caso di violazione della procedura di mobilità, laddove nei giudizi di merito si era, invece, proceduto con una certa noncuranza dei dettagli più minuti – ma rilevanti – che la normativa, così come novellata dalla Riforma Fornero1, prevede in relazione alle diverse specie di vizio. Il caso, difatti, riguarda la corretta interpretazione e applicazione di alcune norme contenute negli artt. 4 e 5 della l. 23 luglio 1991, n. 223. Giova, in via preliminare, operare una ricostruzione di esso.
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Sartori, Prospettive sistematiche per i licenziamenti collettivi dopo la legge 92/2012, in RIDL, 2014, 4, 624, dove si afferma che proprio per effetto della riforma in parola, data la «rottura della unitarietà del disegno precedente», vi sia oggi un assetto dei regimi di tutela maggiormente articolato e complesso. Sul punto riflette ampiamente anche Ratti, Il licenziamento collettivo, in LG, 2015, 11, 1069.
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Il datore di lavoro lamenta che la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, la quale aveva dichiarato inefficace il licenziamento di un dipendente e disposto sia la reintegrazione di questi nel posto di lavoro sia il versamento di una indennità risarcitoria pari a 18 mensilità di retribuzione, fosse censurabile sotto tre profili. In primo luogo, viene prospettata una questione di carattere processuale, ritenendo la sentenza viziata da ultrapetizione. Tale motivo viene giudicato infondato. Il ricorrente, come secondo motivo di ricorso, sostiene che i giudici di merito avessero erroneamente rilevato una violazione dell’art. 4, comma 9, l. n. 223/91, consistente nella incompleta allegazione di documenti utili a esplicare le modalità applicative dei criteri di scelta selezionati. Il datore di lavoro contesta la ricostruzione operata dalla Corte d’appello e passa in rassegna gli atti che – a suo avviso – avrebbero integrato l’obbligo informativo in relazione all’applicazione dei criteri: la società specifica che il criterio di anzianità adoperato prevedeva l’attribuzione di «...due punti per ogni anno di attività, calcolato in giorni, svolta nell›attuale mansione, riscontrabile da relativa documentazione...», facendo anche riferimento ad altri e pregressi rapporti di lavoro, e che erano state prodotte delle graduatorie finali suddivise per profilo professionale. In ultimo, l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 3, l. n. 223/91, poiché – una volta rilevato il vizio procedimentale dianzi richiamato – sarebbe stata coerente con esso la condanna al solo ristoro indennitario ex art. 18, comma 7, st. lav., così come apertis verbis la norma prevede. La S.C. cassa parzialmente la sentenza di appello: respinge i primi due motivi di ricorso e, per converso, sposa la tesi prospettata dal ricorrente in relazione al terzo. Il percorso argomentativo della Cassazione in relazione all’esegesi degli artt. 4, commi 9 e 12, e 5, comma 3, della l. 223/91, si snoda in maniera fluida e ogni passaggio critico e posto in rapporto di dialogo con il precedente e il successivo. Si rende particolarmente interessante l’analisi di taluni punti affrontati nella pronuncia in commento, soprattutto in relazione ai vari regimi di tutela conseguenti alle diverse tipologie di vizio che possono affettare il procedimento di licenziamento collettivo.
2. Gli obblighi procedimentali nel licenziamento collettivo:
l’indicazione «puntuale» delle modalità applicative dei criteri di scelta. La procedura di licenziamento collettivo, come noto, prevede un iter preciso di prescrizioni che il datore di lavoro è tenuto a osservare per poter validamente disporre il recesso dei dipendenti ritenuti eccedentari. Fra i molti obblighi, è altresì necessario – per meglio dire, è uno dei punti nevralgici della procedura – individuare dei criteri di scelta attraverso i quali selezionare i lavoratori da licenziare, così come prevede l’art. 5 della l. n. 223/91, avendo cura di comunicare ai dipendenti destinatari dell’atto di recesso, alle organizzazioni sindacali e alle amministrazioni competenti, non solo di quale criterio vie-
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ne fatto utilizzo ma anche le modalità applicative dello stesso2. In altre parole, grava sul datore di lavoro l’obbligo di esplicare e motivare con precisione come il criterio discretivo sia stato selezionato e perché in applicazione di esso si siano prodotti determinati esiti. Ciò scongiura il rischio dell’arbitrarietà e permette agli interessati, e insieme con essi alle associazioni sindacali, di verificare la correttezza della procedura in ogni sua fase3. Una delle argomentazioni di valore sviluppate nella sentenza in commento concerne proprio la necessità di informare puntualmente i soggetti interessati, cui si è appena fatto cenno, circa le modalità attuative dei criteri di scelta utilizzati nella procedura di mobilità. Nel caso in esame, come si è sommariamente ricordato nel § 1, viene assunta l’anzianità di servizio in una stessa mansione quale parametro guida, cumulando gli anni di impiego pregressi al periodo trascorso alle dipendenze dell’attuale datore di lavoro. Ebbene, il dettato dell’art. 4, comma 9, l. 223/91 prevede che – con la comunicazione che esaurisce la procedura – il datore licenziante debba indicare i criteri di scelta e fornire «puntuale» esplicazione delle modalità applicative, intendendosi con ciò che non è sufficiente una generica e sommaria esposizione di queste bensì l’allegazione e la descrizione dei presupposti fattuali che ne costituiscono la giustificazione causale. In effetti, è proprio questa la tessera mancante nel disegno tracciato dal ricorrente: la Cassazione contesta la forma della comunicazione resa ai lavoratori e agli altri soggetti di cui sopra, dal momento che per comprendere correttamente l’applicazione del criterio dell’anzianità, facendosi riferimento anche ad esperienze lavorative precedenti all’attuale, sarebbe stato necessario rendere conoscibile agli interessati la documentazione a ciò pertinente. Il datore, invece, si limita soltanto a richiamare quei «dati extratestuali» e, come spiega la S.C., neppure li specifica, rendendo per ciò impossibile una verifica in ordine al contenuto di essi. La Cassazione, per le ragioni anzidette, mostra di condividere la lettura della Corte d’appello e ritiene non fondato il motivo di ricorso. Viene così confermata la linea tracciata dalla precedente giurisprudenza di legittimità poco sopra richiamata, arricchendola con il particolare riferimento agli elementi presupposti. Se, infatti, già da tempo la S.C. considerava essenziale il requisito della «puntuale indicazione» delle modalità attuative dei criteri, la sentenza in commento aggiunge che è altresì necessaria l’illustrazione chiara dei presupposti fattuali sui quali si fondano le graduatorie finali e la «specificazione» (ma potremmo pensare che sia preferibile la concreta allegazione) di tutti i documenti e i dati eventualmente utilizzati per la loro formazione.
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Ormai la giurisprudenza è costante nell’esigere anche un’approfondita specificazione in ordine alle modalità applicative, così come la legge richiede. Si vedano, ex plurimis: Cass., 13 giugno 2016, n. 12095, in D&G, 2016, 28, 28, con nota di Marino; Cass., 7 aprile 2015, n. 7490, in RIDL, 2016, 1, 29, con nota di De Salvia; Cass., 6 giugno 2011, n. 12196, in RIDL, 2012, 2, 327, con nota di Galardi. 3 Topo, I licenziamenti collettivi, in Fiorillo, Perulli, (diretto da), La riforma del mercato del lavoro, Giappichelli, 2014, 255 ss.
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3. Violazione delle procedure, violazione dei criteri di scelta
e loro conseguenze.
Una volta stabiliti quali siano gli obblighi informativi posti dalla legge a carico del soggetto licenziante, e con quale precisione si debba ottemperare a essi, la Cassazione passa a esaminare l’ultimo rilievo sollevato dal ricorrente, cioè a dire se vi sia effettiva coerenza fra l’accertamento in ordine alla inadeguatezza della comunicazione e la sanzione inflitta dai giudici di merito. Come si diceva in apertura, l’intervento riformatore del 2012 ha superato la previgente unitarietà del regime sanzionatorio4. Secondo il dictum originario dell’art. 5, comma 3, l. 223/91, al recesso giudicato inefficace o invalido – quale che fosse la violazione accertata – veniva applicato l’art. 18 st. lav. Si aprivano dunque due possibilità alternative per i lavoratori: essi avevano diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno (pari ad almeno 5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e commisurato a tante mensilità quante quelle non corrisposte sino al momento dell’effettiva reintegrazione) oppure, in luogo della reintegra, potevano optare per il pagamento di una indennità di 15 mensilità, oltre al risarcimento del danno. La Riforma Fornero ha distinto varie tipologie di vizio e coerentemente anche le relative conseguenze sanzionatorie5. L’operazione di «rottura dell’unitario regime sanzionatorio» si è resa ancor più necessaria a causa della riscrittura dell’art. 18 st. lav., che, in virtù della sua nuova e più articolata formulazione, anche per ragioni tecniche non poteva più essere richiamato in maniera secca dalla normativa sui licenziamenti collettivi6. Il novellato sistema ha previsto quella nota tripartizione di rimedi che combina diversamente tutela reintegratoria e tutela indennitaria a seconda delle violazioni accertate, in diretta connessione con la normativa sui licenziamenti individuali (art. 18, commi 1, 4 e 7)7. Il legislatore del 2012 ha dunque distinto la violazione dei criteri di scelta dalla violazione delle procedure, approntando due regimi sanzionatori diversi, di cui la Corte d’appello di Catanzaro non ha fatto corretta applicazione. L’accertamento di una violazione relativa agli obblighi informativi, ossia alla necessaria puntualità ed esaustività che debbono connotare la comunicazione conclusiva della procedura, ad avviso della S.C. avrebbe dovuto condurre i giudici di seconde cure all’applicazione della disciplina ex art. 18, comma 7, st. lav., consistente nella sola tutela indennitaria. È per questo che nella sentenza non v’è coerenza fra l’accertamento della violazione, ritenuto non censurabile, e la sanzione inflitta. In altre parole, tanto i giudici di merito quanto la Cassazione non hanno dichiarato violati i criteri di scelta, ma si sono limitati a rilevare il vizio formale di inadeguata o insuf-
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Oltre ai saggi citati in apertura, per rilievi ampi e di carattere generale si veda anche Lambertucci, La disciplina dei licenziamenti collettivi nella legge 28 giugno 2012, n. 92 in materia di riforma del mercato del lavoro: prime riflessioni, in ADL, 2013, 2, 242 ss. 5 Vallebona, La Riforma del lavoro 2012, Giappichelli, 2012, 68-69. 6 Tatarelli, Il licenziamento individuale e collettivo, Cedam, 2012, 461. 7 Circa il «maggior costo» della violazione procedimentale nel licenziamento collettivo rispetto a quello individuale e anche per le riflessioni circa il significato del rinvio dal terzo periodo del comma 7 al comma 5 dell’art. 18, si rimanda a Sitzia, I licenziamenti collettivi, in Cester, (a cura di), I licenziamenti dopo la legge n. 92 del 2012, Cedam, 2013, 329-332.
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ficiente comunicazione delle concrete modalità applicative dei criteri di scelta, ritenendo che esso non dovesse risolversi anche in vizio sostanziale. Da cui l’incongruità di applicare il rimedio reintegratorio. Per di più, la sentenza impugnata non presenta solo profili di contraddizione interna, giacché i giudici di appello hanno pure fatto commistione tra i due regimi di tutela: il dispositivo della sentenza prevedeva la reintegrazione accompagnata da un ristoro indennitario pari a 18 mensilità, laddove – semmai – l’art. 18, comma 4, applicabile in caso di violazione dei criteri, avrebbe, sì, condotto alla reintegrazione ma con un risarcimento limitato a un massimo di 12 mensilità. La S.C., quindi, riconduce a logica la ricostruzione e la qualificazione dei fatti effettuata dalla Corte d’appello, stabilendo che nel giudizio di rinvio dovrà esservi armonia fra la violazione accertata e l’applicazione delle sanzioni, in osservanza dell’interpretazione resa sull’art. 5, comma 3, l. 223/1991 e i relativi rimandi all’art. 18 st. lav.
4. Osservazioni conclusive. Nel riportare coerenza fra la fase dell’accertamento e il dispositivo della sentenza riformata, la Cassazione ha fatto chiarezza nel sistema delle tutele conseguenti alla violazione delle prescrizioni riguardanti la procedura di licenziamento collettivo. Se i criteri di scelta utilizzati sono illegittimi o essi vengono illegittimamente applicati, verrà ordinata la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, insieme a un risarcimento del danno fino a un massimo di 12 mensilità. Quando, d’altro canto, il vizio riguardi solo le necessarie comunicazioni che il datore deve effettuare, rendendo in tal modo più difficile – o impossibile – il controllo delle procedure da parte dei soggetti interessati, non potrà essere disposta la tutela c.d. reale ma il mero indennizzo (in una misura compresa fra le 12 e le 24 mensilità). In altre parole, il legislatore del 2012 ha voluto che anche nella procedura di licenziamento collettivo risaltasse quella generalissima e trasversale bipartizione – conosciuta in ogni campo del diritto – fra vizi sostanziali e vizi formali8, approntando soluzioni sanzionatorie più severe nel primo caso e meno afflittive nel secondo9. Sia consentito rilevare, in conclusione, che la l. 92/2012 nello specifico settore di cui ci siamo or ora occupati non interveniva in maniera affatto irragionevole ma che, anzi, introduceva un’apprezzabile graduazione delle tutele10. Come noto, tuttavia, il Jobs Act ha totalmente ridisegnato anche la procedura di licenziamento collettivo e il quadro tracciato dalla Riforma Fornero è stato superato da nuove disposizioni, che verranno applicate solo
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Ci riferiamo, com’è evidente, alla forma e alla sostanza della procedura. Angiello, I licenziamenti collettivi nella Riforma Fornero, in LG, 2012, 10, 917-921. 10 In questo senso si esprime, fra gli altri, Ferrante, Modifiche nella disciplina dei licenziamenti collettivi, in Magnani, Tiraboschi, (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Giuffré, 2012, 280-281. Non sono, invece, di questo avviso: Natullo, Tutele collettive versus tutele individuali nella riforma dei licenziamenti collettivi (Legge n. 92/2012), in DRI, 2014, 4, 945-949; Lambertucci, op. cit., 257. 9
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ai rapporti di lavoro venuti a esistenza dopo il 7 marzo 2015, così come si deduce dall’art. 1, comma 1, del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 2311. Per ciò che riguarda l’apparato rimediale, l’art. 10 del d.lgs. 23/2015 ha previsto che la tutela reintegratoria venga mantenuta solo per l’ipotesi del licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta. Di conseguenza, le restanti due ipotesi – di cui ci siamo fino ad ora occupati – di violazione delle procedure e di violazione dei criteri di scelta sono state equiparate, prevedendosi per entrambe il regime indennitario, consistente in un risarcimento pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio in una misura comunque compresa fra le 4 e le 24 mensilità12. Al netto di ogni rilievo critico in merito al nuovo e semplificato assetto normativo, è certo che l’attuale equivalenza delle sanzioni, unita alla predeterminazione del trattamento risarcitorio che azzera il ruolo discrezionale dell’autorità giudiziaria, ottiene due risultati: da un lato, riduce il margine di errore dei giudici nell’applicazione delle norme sanzionatorie e, da altro lato, permette al datore di lavoro di calcolare in anticipo e con precisione le conseguenze economiche di eventuali pronunce che dovessero dichiarare l’illegittimità dei licenziamenti13. È, pertanto, ragionevole immaginare pro futuro una maggiore esattezza e puntualità nell’applicazione dell’apparato rimediale già nelle fasi di merito, nonostante che nella fase procedurale potranno presumibilmente nascere diverse criticità a causa della «duplicità del regime sanzionatorio per vecchi e nuovi assunti»14. Samuele Renzi
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Boscati, Il campo di applicazione del d.lgs. 23/2015 e il nodo del pubblico impiego, in Zilio Grandi, Biasi, (a cura di), Commentario breve alla riforma del Jobs Act, Cedam, 2016, 121-123. 12 Per riferimenti ulteriori si rimanda a: Pellacani, Il licenziamento collettivo, in Zilio Grandi, Biasi, (a cura di), op. cit., 227 ss.; Ferraro, I licenziamenti collettivi nel Jobs Act, in RIDL, 2015, 2, 187 ss.; Natullo, Tutele sostanziali e tutele procedurali nel licenziamento collettivo: tra diritto vivente ed evoluzione normativa, in RIDL, 2015, 4, 525 ss. 13 Anche per una disamina critica si vedano gli stessi contributi citati da ultimo. 14 Pellacani, op cit., 239.
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Giurisprudenza C orte di C assazione, sentenza 28 settembre 2016, n. 19185 – Pres. Venuti – Est. Manna – P.M. Sanlorenzo (concl. diff.) – A. L. I. SRL in liquidazione (avv. Ghera e Fossati) c. C.P. (avv. Marchegiani e Fredella). Cassa con rinvio App. Roma sent. n. 4868/2013. Licenziamenti – licenziamento per giustificato motivo oggettivo – soppressione del posto di lavoro – redistribuzione delle mansioni del lavoratore licenziato – sussistenza – verifica del nesso causale – necessità.
Può costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento anche soltanto una diversa ripartizione di determinate mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate. Non basta tuttavia che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta (nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza impugnata, che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento perché alla soppressione della posizione lavorativa non aveva fatto seguito l’eliminazione di tutte le mansioni svolte dal lavoratore licenziato, che invece erano state assegnate ai colleghi rimasti in servizio). Svolgimento del processo – Con sentenza depositata il 7.8.13 la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di rigetto del 6.4.11 emessa dal Tribunale capitolino, dichiarava illegittimo il licenziamento intimato il 15.8.08 da AIG Lincoln Italia S.r.l. (società operante nel settore dello sviluppo di progetti immobiliari attraverso la loro individuazione, ideazione, realizzazione e vendita) a C.P., in favore del quale ordinava la riassunzione entro tre giorni o, in mancanza, il pagamento d’una indennità pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Rigettava nel resto le domande del lavoratore. Per la cassazione della sentenza ricorre AIG Lincoln Italia S.r.l. in liquidazione affidandosi a due motivi. C.P. resiste con controricorso. Motivi della decisione – Il primo motivo denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3, anche in relazione all’art. 41 Cost., per avere la Corte territoriale ritenuto irrilevante come giustificato motivo oggettivo di licenziamento la pur accertata chiusura della sede di Roma della società ricorrente cui era adibito l’attore, sol perché non erano state soppresse le mansioni affidategli (l’odierno controricorrente si occupava della commercializzazione di immobili per conto della società): in tal modo – si obietta in ricorso – la sentenza impugnata ha trascurato che un giustificato motivo oggettivo di licenziamento può consistere anche nella soppressione d’una singola posizione lavorativa con redistribuzione fra altri lavoratori delle mansioni assegnate al dipendente licenziato.
Il motivo è fondato. Dalla lettura della sentenza impugnata emerge, in punto di fatto, che la sede di Roma della società ricorrente (presso la quale lavorava C.P.) è stata effettivamente chiusa, ma che le relative attività di commercializzazione – di cui si occupava nell’esercizio delle proprie mansioni l’odierno controricorrente sono proseguite anche dopo il 15.8.08 (data del licenziamento per cui è causa). Da ciò la sentenza arguisce che dopo questa data le suddette mansioni sono state (ancora) espletate da altri dipendenti della società. Per tale ragione la ricorrente lamenta che erroneamente i giudici di merito hanno trascurato che il giustificato motivo oggettivo previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 3, ben può consistere anche in una diversa distribuzione di determinate mansioni, tale da far emergere l’esubero della posizione lavorativa del lavoratore licenziato. Ciò è conforme alla giurisprudenza di questa S.C., secondo cui il giustificato motivo oggettivo di licenziamento è ravvisabile anche nella soppressione d’una posizione lavorativa derivante da una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio (cfr., ex aliis, Cass. n. 21121/04, seguita da altre conformi), attuata a fini di più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate: il risultato finale
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può far emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. Lo stesso si dica quando le mansioni di più lavoratori siano suddivise fra un numero più ridotto di dipendenti. In entrambi i casi v’è, alla base, quella riorganizzazione tecnico-produttiva che integra il nucleo irriducibile del concetto di giustificato motivo oggettivo di cui al cit. L. n. 604 del 1966, art. 3. È appena il caso di ricordare che il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta (cfr. in tal senso Cass. n. 24502/11). Infatti, se tale redistribuzione fosse un mero effetto di risulta (e non la causale del licenziamento) si dovrebbe concludere che la vera ragione del licenziamento risiede altrove e non in un’esigenza di più efficiente organizzazione produttiva. Si rivela, infine, non conferente il richiamo (che si legge in controricorso) alla giurisprudenza secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo L. n. 604 del 1966, ex art. 3, deve essere valutato sulla base degli elementi di fatto realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso e non su circostanze future ed eventuali, giacché la prosecuzione – da parte di altri – di mansioni identiche o analoghe a quelle espletate da C.P. è stata collocata proprio nel medesimo contesto temporale in cui è stato intimato il licenziamento per cui è causa. Il secondo motivo prospetta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., per vizio di ultrapetizione, avendo la sentenza impugnata pronunciato nel merito della domanda - sia pur rigettandola di nullità del licenziamento perché ritorsivo, domanda che il lavoratore non aveva coltivato nelle conclusioni dell’atto d’appello.
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Ancor prima che infondato – perché il carattere ritorsivo del licenziamento aveva costituito apposito motivo di gravame e le conclusioni dell’atto d’appello, rinviando a quelle di primo grado (che per detto carattere ritorsivo avevano, infatti, chiesto la reintegra nel posto di lavoro), lo hanno coltivato – il motivo è inammissibile per difetto di interesse ad impugnare (v. art. 100 c.p.c.), atteso che sul punto la società ricorrente è risultata vittoriosa e che, proprio perché tale, non ha interesse ad impugnare al solo fine di ottenere una correzione della motivazione della sentenza (cfr., ex aliis, Cass. 12.9.2011 n. 18674; Cass. 2.7.07 n. 14970; Cass. 29.3.05 n. 6601; Cass. 16.7.01 n. 9637; Cass. 9.9.98 n. 8924). In conclusione, si accoglie il primo motivo e si dichiara inammissibile il secondo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: “Può costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3, anche soltanto una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, certe mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà aggiungere a quelle già espletate: il risultato finale fa emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente. In tale ultima evenienza il diritto del datore di lavoro di ripartire diversamente determinate mansioni fra più dipendenti non deve far perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento, nel senso che non basta che i compiti un tempo espletati dal lavoratore licenziato risultino essere stati distribuiti ad altri, ma è necessario che tale riassetto sia all’origine del licenziamento anziché costituirne mero effetto di risulta”. Si tratta di accertamento che dovrà essere svolto dal giudice di rinvio – Omissis.
Gionata Cavallini
La redistribuzione delle mansioni giustifica il licenziamento, purché ne costituisca la causa e non l’effetto Sommario : 1. Premessa. – 2. Il caso di specie e il principio di diritto riaffermato dalla Suprema Corte. – 3. La precisazione della Cassazione sulla rilevanza del nesso causale. – 4. Eventuali profili di illegittimità del licenziamento determinato dalla redistribuzione delle mansioni. – 5. La natura dei vizi del licenziamento che si colloca “a monte” del riassetto organizzativo: mera illegittimità o radicale illiceità? – 6. Conclusioni: una precisazione opportuna.
Sinossi. L’autore dà conto nella prima parte dell’orientamento consolidato in cui si colloca la sentenza in commento, secondo cui può costituire una valida ragione economica di licenziamento la decisione di sopprimere una posizione lavorativa per distribuirne le relative mansioni fra gli altri lavoratori in forza presso l’azienda. Nella seconda parte del contributo rivolge la propria attenzione all’opportuna precisazione della S.C. secondo cui il riassetto non può costituire mero “effetto di risulta” del recesso, da interpretarsi alla stregua di un monito a non perdere di vista la verifica del nesso causale per fronteggiare il proliferare di recessi pseudoeconomici.
1. Premessa. A oltre mezzo secolo dall’introduzione nell’ordinamento lavoristico della regola di giustificazione del recesso datoriale, la questione della latitudine della nozione di giustificato motivo oggettivo perdura al centro delle attenzioni degli interpreti, pratici e studiosi, rinfocolata da una produzione giurisprudenziale di legittimità costantemente ondivaga, nonostante le medesime “tralatizie premesse comuni”1 su cui si innestano i diversi percorsi logico-argomentativi delle decisioni in tema. Rimane controversa la legittimità del licenziamento determinato dall’intento di conseguire un mero incremento dei profitti, in assenza di situazioni di crisi aziendale non con-
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Individuate da Novella, I concetti di costo contabile, di costo-opportunità e di costo sociale nella problematica costruzione giuseconomica del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in RIDL, 2007, II, 992, nella costante affermazione del principio di insindacabilità delle scelte economico-organizzative, della limitazione del sindacato giudiziale all’effettività della riorganizzazione e alla non pretestuosità della stessa.
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tingenti2. Così come non può dirsi ancora risolta la faticosa questione della titolarità degli oneri di allegazione e prova in tema di repêchage3, sulla cui portata applicativa si è inoltre tornati a discutere in dottrina alla luce del nuovo art. 2103 c.c.4. Né può dirsi compiuta la faticosa esegesi della formula sibillina “manifesta insussistenza”, adoperata dal legislatore del 2012 per circoscrivere la limitata area di accesso alla tutela reale in caso di licenziamento per motivi economici5. Mentre si è progressivamente realizzato l’intento del legislatore di rispondere alle alee del controllo giudiziale con una significativa attenuazione delle tutele, su cui si è appena infranta la spada di Damocle della consultazione referendaria6, la giurisprudenza continua dunque a spaccarsi su snodi di cruciale rilevanza, che incidono sui tratti essenziali della clausola aperta rappresentata dall’art. 3, l. 15 luglio 1966, n. 604.
2. Il caso di specie e il principio di diritto riaffermato dalla Suprema Corte.
In questo contesto, a prima vista potrebbe apparire priva di elementi di sostanziale novità, o comunque estranea a quelli che sono i punti critici del corrente dibattito in tema di g.m.o., l’affermazione della sentenza in commento secondo cui costituisce una valida ragione economica di licenziamento la scelta imprenditoriale di sopprimere una posizione lavorativa per distribuirne le relative mansioni fra gli altri lavoratori in forza presso l’azienda. Nel caso di specie, una società operante nel settore dello sviluppo di progetti immobiliari, facente capo ad un gruppo internazionale leader nel settore del Real Estate, aveva proceduto al licenziamento di un lavoratore addetto alla commercializzazione degli immobili per giustificato motivo oggettivo consistente nella chiusura della sede di Roma cui era adibito. Le mansioni svolte dal lavoratore non erano tuttavia state soppresse, ma continuavano dopo il licenziamento ad essere espletate da altri dipendenti della società, circostanza sulla base della quale la Corte d’Appello di Roma aveva accertato l’insussistenza del g.m.o. addotto dalla società, in riforma della sentenza di primo grado che aveva rigettato
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In senso affermativo v. la recentissima Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, in FI, 2017, I, 1, 123, con nota di G. Santoro-Passarelli; nonché Cass., 18 novembre 2015, n. 23620, e Cass., 20 novembre 2015, n. 23791, in MGL, 2016, 461, con nota adesiva di Pizzuti. In senso contrario, Cass., 12 giugno 2015, n. 12242 e Cass., 16 marzo 2015, n. 5173, entrambe in RGL, 2015, II, 574, con nota adesiva di Salvagni. Sul punto, infra § 4. 3 Posti a carico del datore di lavoro da parte di Cass., 22 marzo 2016, n. 5592, in LB, 2016, 109, con nota di Diamanti, in rottura con un precedente orientamento apparentemente consolidato (e tuttavia riaffermato da Cass., 10 maggio 2016, n. 9647, in De Jure). 4 Nel senso che la novella ha comportato un’estensione dell’obbligo in questione, Ianniruberto, Ius variandi orizzontale e nuovo art. 2103 c.c., in MGL, 2016, 267. Contra Ciucciovino, Giustificato motivo di licenziamento e repêchage dopo il jobs act, in MGL, 2016, 441. 5 Su cui v. Santoro, Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in DRI, 2015, 1, 68 ss., e Varva, Il licenziamento economico, Giappichelli, 2015, 120 ss., anche per ulteriori riferimenti. 6 Con decisione dell’11 gennaio 2017, infatti, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito referendario promosso dalla CGIL avente ad oggetto l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 e delle modifiche apportate all’art. 18 st. lav. dalla l. 28 giugno 2012, n. 92.
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il ricorso promosso dal lavoratore, con conseguente applicazione della tutela obbligatoria prevista dall’art. 8, l. n. 604/1966, trattandosi di impresa con meno di sedici dipendenti. In accoglimento del ricorso presentato dalla società, la Suprema Corte ha cassato la decisione d’appello, formulando il principio di diritto indicato in epigrafe, cui dovrà attenersi il giudice del rinvio. La prima parte della massima – quella su cui si fonda la cassazione della sentenza impugnata – si colloca nel solco di un orientamento dei giudici di legittimità da tempo consolidato. Che non sia necessario, ai fini della configurabilità del giustificato motivo per soppressione del posto, che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, «ben potendo le stesse essere solo diversamente ripartite ed attribuite» tra i lavoratori già in forza presso l’azienda, è principio fatto proprio da tempo dalla giurisprudenza prevalente7, nonostante alcune isolate pronunce di segno difforme8 o apparentemente tale9. L’orientamento, peraltro, può essere fatto risalire ad una risalente pronuncia delle Sezioni Unite10, la quale (per la verità in un caso di licenziamento dirigenziale11), aveva precisato la differenza intercorrente tra la soppressione delle mansioni e la soppressione della posizione lavorativa, affermando che la giustificazione del licenziamento individuale «può consistere anche nel raggruppamento di mansioni in capo ad un singolo lavoratore, o, viceversa, nella loro separazione mediante l’incarico di svolgerle a più lavoratori rispetto all’unico cui prima erano attribuite». Anche secondo la sentenza in commento, la decisione di ridistribuire le mansioni del dipendente licenziando ai colleghi, così come quella di suddividere le mansioni ricoperte da più lavoratori fra un numero più ridotto di dipendenti, integra appieno quella riorganizzazione tecnico-produttiva che costituisce il “nucleo irriducibile” del concetto di g.m.o. di cui all’art. 3, l. n. 604/1966, che contempla infatti tra i motivi idonei a giustificare il recesso con preavviso quelli inerenti alla “organizzazione del lavoro”. Il principio, ormai accolto in dottrina12 al punto di entrare nelle trattazioni di carattere istituzionale13, rappresenta del resto un inevitabile sviluppo del valore costituzionale
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Oltre a Cass., 21 novembre 2011, n. 24502, in De Jure e Cass., 4 novembre 2004, n. 21121, in GC Mass, 2004, 2675, entrambe richiamate in sentenza, v. ex multis Cass., 12 settembre 2013, n. 20918, in De Jure; Cass., 2 ottobre 2006, n. 21282, in GC Mass, 2006, 2362; Cass., 23 ottobre 2001, n. 13021, in GC Mass, 2001, 1790; Cass., 29 marzo 2001, n. 4670, in NGL, 2001, 461; Cass., 14 giugno 2000, n. 8135, in OGL, 2000, 742, con nota redazionale; Cass., 17 dicembre 1997, n. 12764, in NGL, 1998, 191; Cass., 15 novembre 1993, n. 11241, in RIDL, 1994, II, 766, con nota adesiva di Morone; Cass., 26 gennaio 1989, n. 462, in GC Mass, 1989, 120; Cass., 2 settembre 1986, n. 5384, in GC Mass, 1986, 1551. 8 Cass., 24 giugno 1995, n. 7199, in D&L, 1996, 496, con nota adesiva di Muggia, secondo cui è illegittimo il licenziamento «ove esso segua alla distribuzione tra altri lavoratori delle mansioni proprie a quello o a quelli licenziati». 9 App. Torino, 30 marzo 2009, in RGL, 2010, II, 316, con nota adesiva di Spinelli, che tuttavia, adottando il medesimo approccio della sentenza in commento, considera illegittimo il recesso sulla scorta dell’accertata “interversione del nesso causale” tra la redistribuzione delle mansioni e il licenziamento; Cass., 17 giugno 1995, n. 5419, in GC Mass, 1997, 1002, dove tuttavia la società aveva licenziato una lavoratrice con mansioni di centralinista sulla base dell’asserita, e non realizzata, automazione del servizio. 10 Cass., sez. un., 9 dicembre 1986, n. 7295, in DL, 1987, II, 233, con nota redazionale. 11 E dunque al netto del minor grado di stabilità che caratterizzava il rapporto di lavoro. 12 M.T. Carinci, Il giustificato motivo oggettivo nel rapporto di lavoro subordinato, Cedam, 2005, 13; Calcaterra, La giustificazione causale del licenziamento per motivi oggettivi nella giurisprudenza di legittimità, in DRI, 2005, 660. 13 V. ad es. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè, 2016, 637.
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della libertà d’iniziativa economica privata – che ricomprende la libertà dell’imprenditore di imprimere insindacabilmente un determinato assetto organizzativo all’impresa – ed è coerente con quella giurisprudenza che ha ritenuto legittimo il licenziamento conseguente alla decisione di avocare le mansioni del lavoratore agli organi direttivi14 o a membri della compagine sociale15, con il solo limite del divieto di procedere semplicemente alla sostituzione di un lavoratore con altro meno costoso16.
3. La precisazione della Cassazione sulla rilevanza del
nesso causale.
Fino a questo punto la sentenza potrebbe apparire meramente affermativa di orientamenti già consolidati, e come tale non necessitare di ulteriore approfondimento. Sennonché, il giudice di legittimità si premura di precisare, nella seconda parte della massima destinata al giudice del rinvio, che è comunque necessario verificare attentamente la sussistenza del nesso di causalità intercorrente tra la legittima scelta organizzativa di procedere ad una diversa ripartizione delle mansioni e il licenziamento, poiché tale ridistribuzione non può costituire il semplice “effetto di risulta” del recesso. Il solo fatto storico della ridistribuzione delle mansioni, in altri termini, non è di per sé sufficiente a determinare la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Se il riassetto non si pone all’origine del licenziamento ma ne rappresenta un mero effetto, se ne deve infatti concludere che la vera ragione del recesso si trovi in un diverso motivo di natura (integralmente o prevalentemente) soggettiva – che il datore di lavoro potrebbe avere timore di disvelare stanti le maggiori difficoltà di farlo valere in giudizio17 – ma anche, nei casi più gravi, in intenti discriminatori o comunque illeciti. Tale precisazione, la cui paternità sembrerebbe doversi a Cass., 21 novembre 2011, n. 24502, estesa dal medesimo giudice consigliere e richiamata in sentenza, viene riaffermata per la terza volta in un anno18, quasi a palesare il monito degli ermellini (ai giudici del rinvio nel contenzioso in oggetto ed ai giudici del lavoro nel generale esercizio della propria funzione nomofilattica) a non «perdere di vista», per usare l’espressione della S.C., la necessità di un’attenta verifica del nesso causale intercorrente tra la riorganizzazione aziendale e il licenziamento. Il rischio è infatti quello che la ripartizione delle mansioni possa diventare una sorta di “grimaldello” capace di condurre alla giustificazione di qualsiasi licenziamento. È infatti di
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Cass., 20 dicembre 2001, n. 16106, in LG, 2002, 974, con nota di Girardi. Cass., 4 novembre 2004, n. 21121, cit.; Cass., 18 aprile 1991, n. 4164, in OGL, 1991, 707, con nota redazionale. 16 Cass., 12 giugno 2015, n. 12242, in De Jure; Cass., 17 marzo 2001, n. 3899, in OGL, 2001, I, 374, con nota redazionale; Cass., sez. un., 11 aprile 1994, n. 3353, in RGL, 1994, II, 978, con nota di Marazza. 17 In tal senso Spinelli, Redistribuzione delle mansioni e giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in RGL, 2010, II, 322, in riferimento alla delicata fattispecie del licenziamento per scarso rendimento. 18 Dopo Cass., 21 luglio 2016, n. 15082, in D&G, 2016, 33, 78, con nota di Leverone, e Cass., 1 luglio 2016, n. 13516, anch’esse estese dal medesimo magistrato estensore della pronuncia in commento. 15
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tutta evidenza che ad ogni licenziamento illegittimo che non sia determinato dalla completa soppressione delle mansioni non può che seguire l’attribuzione delle mansioni residue tra i lavoratori in forza presso l’azienda. La sopravvalutazione del fatto storico della ridistribuzione delle mansioni si traduce dunque in un argomento fallace (se effettiva ripartizione vi è stata, allora il licenziamento è legittimo) che finirebbe per impedire qualsiasi controllo effettivo sulle scelte effettuate dall’imprenditore19.
4. Eventuali profili di illegittimità del licenziamento determinato dalla redistribuzione delle mansioni.
Nell’enucleare il principio di diritto in epigrafe, la Cassazione non si sofferma su alcuni ulteriori profili, non sollevati nell’ambito del giudizio di legittimità, con cui tuttavia pare che dovrà confrontarsi il giudice del rinvio, anche ove ritenga che nel caso di specie il riassetto organizzativo si sia posto a monte del licenziamento senza costituirne un mero “effetto di risulta”. In primo luogo, ci si deve chiedere se con l’affermazione della legittimità del licenziamento conseguente a una riorganizzazione (sub specie di ripartizione delle mansioni tra un minor numero di addetti) attuata «a fini di più economica ed efficiente gestione aziendale» la Suprema Corte abbia inteso inserirsi nel dibattito relativo alla necessità che il licenziamento per g.m.o. sia diretto a fronteggiare situazioni di crisi aziendale ovvero possa essere giustificato anche dalla finalità di conseguire una generica riduzione dei costi del fattore lavoro. Anche recentemente, infatti, la Cassazione si è pronunciata in modo contrastante rispetto a tale annosa questione, dapprima ribadendo l’orientamento secondo cui il licenziamento per g.m.o. deve essere diretto a «fronteggiare situazioni sfavorevoli e non contingenti»20, per poi affermare, al contrario, che «al controllo giudiziale sfugge necessariamente anche il fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dall’imprenditore»21. Molto recentemente, con una sentenza articolata e ricca di richiami alla giurisprudenza sul punto, la Cassazione – sia pure non a Sezioni Unite – sembrerebbe avere propeso per la seconda opzione interpretativa, affermando (proprio in un caso in cui le mansioni del lavoratore licenziato erano state riassegnate al personale già in forza nell’organigramma aziendale) che «l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare ed il giudice accertare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, tra le quali non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo muta-
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Così Muggia, Brevi osservazioni sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in D&L, 1996, 497. Cass., 12 giugno 2015, n. 12242, cit.; Cass., 16 marzo 2015, n. 5173, cit.; in tal senso, nella giurisprudenza di merito, Trib. Trento, 24 febbraio 2016, in LB, 2016, 139, con nota di Treglia. 21 Cass., 18 novembre 2015, n. 23620, cit. In tal senso anche Cass., 20 novembre 2015, n. 23791, cit. 20
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mento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa»22. Alla domanda sugli intendimenti della S.C. nel caso di specie sembrerebbe non potersi dare che una risposta dubitativa, poiché, com’è stato osservato23, la sentenza in commento non si è preoccupata di verificare le ragioni del riassetto organizzativo alla base della soppressione del posto. In effetti, l’espressione «più economica ed efficiente gestione aziendale», adoperata dalla sentenza in commento, appare connotata da un margine di ambiguità tale da potersi conciliare con entrambi i sopracitati orientamenti. Spetterà al giudice del rinvio, eventualmente investito della questione (presumibilmente da parte della difesa del lavoratore, che potrebbe allegare l’insussistenza di situazioni sfavorevoli a sostegno dell’illegittimità del licenziamento), decidere nel solco di quale orientamento collocarsi. In secondo luogo, resta anche da chiedersi se la società abbia individuato correttamente la posizione in esubero nel posto di lavoro del dipendente licenziato. Infatti, dalla lettura della sentenza non è chiaro se la società abbia inteso procedere alla soppressione della specifica posizione lavorativa del dipendente (con eliminazione della prevalenza delle sue mansioni e distribuzione delle mansioni residue ai colleghi) ovvero se alla base del licenziamento vi fosse l’intenzione di procedere a un generico ridimensionamento dell’organizzazione in senso quantitativo attraverso l’eliminazione di una posizione omogenea e fungibile rispetto a quelle dei lavoratori rimasti in servizio. In tale ultima evenienza, ai fini della legittimità del licenziamento non sarebbe sufficiente l’accertamento dell’effettività della riorganizzazione addotta e del nesso causale24, dovendosi giustificare l’individuazione del lavoratore licenziato sulla base dell’applicazione analogica dei criteri individuati dall’art. 5, l. 23 luglio 1991, n. 22325 (che indica i criteri di scelta in materia di licenziamenti collettivi applicabili in mancanza di determinazione da parte dell’autonomia collettiva), ovvero della loro applicazione indiretta attraverso il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.)26.
5. La natura dei vizi del licenziamento che si colloca “a
monte” del riassetto organizzativo: mera illegittimità o radicale illiceità?
Occorre poi domandarsi quale dovrebbe essere la sorte del licenziamento se il giudice del rinvio accertasse l’avvenuta interversione del nesso causale, se cioè il riassetto orga-
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Cass., 7 dicembre 2016, n. 25201, cit. Così Santoro-Passarelli, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo “organizzativo”: la fattispecie, in WP D’Antona, It., 317/2016, 5. 24 M.T. Carinci, Il giustificato motivo oggettivo, cit., 25. 25 Cass., 8 luglio 2016, n. 14021, in De Jure. 26 Cass., 10 agosto 2016, n. 16897, in De Jure. 23
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nizzativo addotto come g.m.o. risultasse un mero “effetto di risulta” di un licenziamento dettato da ragioni diverse, di natura latu sensu soggettiva. A prima vista si potrebbe rispondere che il licenziamento è semplicemente ingiustificato per insussistenza del g.m.o., con conseguente applicabilità – a seconda delle dimensioni dell’impresa e della data di assunzione del lavoratore – delle tutele previste dall’art. 18, comma 7, st. lav., dall’art. 3, d.lgs. n. 23/2015, ovvero dall’art. 8, l. n. 604/1966. La tutela sarebbe dunque in ogni caso di ordine esclusivamente economico, a meno che il giudice non accertasse la natura “manifesta” dell’insussistenza del fatto posto a base del motivo oggettivo di licenziamento (ma solo per i c.d. vecchi assunti e solo in imprese sopra i quindici dipendenti). Merita tuttavia di essere richiamata quella prospettiva dottrinale27 che, valorizzando gli spazi di sovrapposizione tra le nozioni di licenziamento ingiustificato e licenziamento illecito (discriminatorio e ritorsivo), e sulla base dell’individuazione della causa dell’atto espulsivo nell’interesse costituzionalmente tutelato a strutturare l’organizzazione secondo i fini legittimamente prefissati dall’imprenditore28, è giunta a sostenere che in assenza totale di giustificazione l’atto di licenziamento è irrimediabilmente viziato da illiceità della causa, con conseguente applicabilità delle tutele previste rispettivamente dall’art. 18, comma 1, st. lav., e dall’art. 2, d.lgs. n. 23/2015, a prescindere dal numero di lavoratori occupati. La tesi parrebbe non essere stata accolta in giurisprudenza29; tuttavia, essa potrebbe risultare in parte corroborata dalla considerazione contenuta nella sentenza in commento secondo cui se la ridistribuzione delle mansioni addotta dal datore di lavoro finisse per risultare «un mero effetto di risulta (e non la causale del licenziamento) si dovrebbe concludere che la vera ragione del licenziamento risiede altrove e non in un’esigenza di più efficiente organizzazione produttiva». La sentenza non sviluppa ulteriormente tale riflessione, anche perché nel caso di specie la domanda di accertamento della nullità del licenziamento ritorsivo, rigettata in primo grado, non era stata coltivata in appello. Eppure, nel richiamo alla «vera ragione», che risiede «altrove», sembrerebbe possibile cogliere un riferimento, neppure tanto velato, alla sussistenza di una ragione giustificatrice illecita, discriminatoria o ritorsiva, e dunque un avallo della tesi secondo cui «qualunque causa giustificativa diversa da quella tecnicoorganizzativa ammessa dall’ordinamento – come tale, inevitabilmente collegata a caratteristiche, opinioni, scelte della persona del lavoratore prive di attinenza con la prestazione lavorativa – è per ciò stesso discriminatoria e illecita»30. Anche a non volere accogliere fino in fondo tale ricostruzione, ai cui suggestivi argomenti di carattere sistematico sembrerebbe opporsi la manifesta intenzione del legislatore
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Carinci, Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di legge o in forma orale, in Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 46 s.; Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity “all’italiana” a confronto, in DLRI, 2012, 556 ss. 28 E non già nel mero conseguimento dell’espulsione del lavoratore dall’organizzazione aziendale. 29 Come riconosciuto dalla stessa A., che richiama Cass., 27 febbraio 2015, n. 3986, in De Jure; Trib. Milano, 11 febbraio 2013, in D&L, 2013, 210, con nota redazionale; Trib. Milano, 5 novembre 2012, in RIDL, 2013, II, 654, con nota di Zoli. 30 Carinci, Il rapporto di lavoro al tempo della crisi, cit., 556.
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Giurisprudenza
di tracciare una netta linea di confine tra licenziamento nullo e licenziamento semplicemente ingiustificato, la circostanza che il riassetto organizzativo si collochi “a valle” del licenziamento potrebbe comunque essere valorizzata dalla difesa del lavoratore per sostenere che “a monte” del recesso via sia una ragione illecita. In altri termini, se anche la mera insussistenza del g.m.o. formalmente addotto non fosse sufficiente a determinare la nullità del licenziamento, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria piena, tale insussistenza ben potrà fungere, in concorso con altri elementi, quale indice dell’illiceità del licenziamento, o quantomeno quale indice della natura soggettivo-disciplinare dello stesso, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata per “insussistenza del fatto contestato” (art. 18, comma 4, st. lav.), posto che nel caso di licenziamento pseudo-economico manca per definizione non solo il regolare espletamento del procedimento disciplinare, ma ancor prima la contestazione di un “fatto” disciplinarmente rilevante.
6. Conclusioni: una precisazione opportuna. Si è visto come la sentenza in commento si collochi solo apparentemente all’interno di un orientamento consolidato, e come, nonostante la natura asciutta della decisione, essa sollevi comunque una serie di questioni di cruciale rilevanza ai fini dell’individuazione della nozione stessa di giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Anche prescindendo, tuttavia, dai profili non direttamente affrontati dalla decisione e su cui dovrà forse fare i conti il giudice del rinvio, l’esplicito monito degli ermellini a non «perdere di vista la necessità di verificare il rapporto di congruità causale fra la scelta imprenditoriale e il licenziamento» – anche in un caso se vogliamo “di scuola”, come quello de quo – si rivela particolarmente opportuno. Con tale precisazione la Suprema Corte sembrerebbe mostrarsi consapevole del fatto che, tanto più a fronte delle ultime riscritture delle tutele in caso di insussistenza del g.m.o., quello del recesso per motivi economici rischia di diventare terreno fertile per la proliferazione di recessi “pseudo-economici”, che dietro il motivo oggettivo formalmente addotto celano l’intento di sbarazzarsi di un lavoratore sgradito per le ragioni più varie, illecite (come nel caso del licenziamento discriminatorio o affetto da altre cause di nullità) o anche in ipotesi lecite ma di più gravosa azionabilità (si pensi a un licenziamento per inadempimento rispetto al quale il datore abbia difficoltà a provare tutti gli elementi costitutivi, ovvero al caso del licenziamento per scarso rendimento).
Gionata Cavallini
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Giurisprudenza C orte di C assazione, sentenza 27 settembre 2016, n. 18942; Pres. Napoletano – Est. Boghetich – P.M. Fuzio (concl. diff.) – Comune di San Giuseppe Vesuviano (avv. Bultrini, Marciano) c. C.A. (avv. Maccarone). Cassa senza rinvio App. Napoli, sent. n. 930/2011. Pubblico impiego – C.C.N.L. Regioni e Autonomie locali – lavoro festivo – maggiorazione – riposo compensativo – lavoro su turni – indennità – insussistenza cumulo.
Nel caso di svolgimento per il lavoratore turnista dell’ordinaria attività lavorativa in giornate festive, non sono cumulabili il compenso aggiuntivo ex art. 24 e la maggiorazione per il lavoro su turni ex art. 22 Ccnl Regioni e Autonomie locali. Svolgimento del processo 1. Con sentenza depositata il 12 febbraio 2011 la Corte d’appello di Napoli, confermando la sentenza resa dal Tribunale di Nola, accoglieva la domanda proposta da C.A. agente di polizia municipale turnista presso il Comune di San Giuseppe Vesuviano – avente ad oggetto il riconoscimento del compenso aggiuntivo previsto dall’art. 24, comma 1, c.c.n.l. 14.9.2000 Regioni e Autonomie locali, rivendicato dal lavoratore per l’attività prestata in giornata festiva infrasettimanale, in cumulo con la maggiorazione già percepita per il lavoro prestato in turno nei giorni festivi ai sensi dell’art. 22 dello stesso contratto. La Corte, per quel che interessa, ha ritenuto che le due clausole contrattuali abbiano scopi diversi, remunerando, l’art. 24, il maggior disagio per il lavoro prestato in turno, l’art. 22, la mancata fruizione del riposo compensativo. 2. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Comune con due motivi. Resiste il C. con controricorso. Motivi di diritto 1. Con il primo motivo il Comune ricorrente lamenta violazione degli artt. 22 e 24 c.c.n.l. per il personale del comparto Regioni e delle Autonomie locali del 14.9.2000 nonché vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5). Deduce, il ricorrente, che la ricostruzione esegetica e sistematica delle clausole negoziale consente di escludere la corresponsione della maggiorazione per lavoro straordinario festivo nel caso di attività dei lavoratori turnisti, presupponendo, l’art. 24, che il dipendente superi l’orario ordinario. – Omissis. 3. Il primo motivo di ricorso è fondato. La questione delle prestazioni lavorative svolte secondo turni nell’ambito del normale orario di lavoro da dipendenti della polizia municipale, è già stata esaminata e decisa da questa Corte (cfr., più recentemente, l’ordinanza di manifesta infondatezza n. 23917/2014, sulla scorta delle precedenti sentenze nn. 20344, 21524, 21609, 21610, 21611, 22799, 22800, 22801 e 23349 del 6 novembre 2012, con le quali è stato respinto il ricorso proposto dai lavoratori).
Nel richiamare ulteriori precedenti già intervenuti in argomento (Cass. n. 8458 del 2010; v. pure sent. n. 2888 del 2012), questa Corte ha affermato che, ove la prestazione cada in giornata festiva infrasettimanale, come in quella domenicale, si applica l’art. 22, comma 5, del contratto collettivo 14 settembre 2000 sulle Autonomie locali – che compensa il disagio con la maggiorazione del 30% della retribuzione –, mentre il disposto dell’art. 24 – che ha ad oggetto attività prestata dai lavoratori dipendenti, in giorni festivi infrasettimanali, oltre l’orario contrattuale di lavoro – trova applicazione soltanto quando i predetti lavoratori siano chiamati a svolgere la propria attività, in via eccezionale od occasionale, nelle giornate di riposo settimanale che competono loro in base ai turni, ovvero in giornate festive infrasettimanali al di là dell’orario di lavoro. Questa Corte ha ritenuto che il tenore testuale dell’art. 22, comma 5, renda palese la volontà delle parti collettive di attribuire al dipendente che presti attività in giorno festivo ricadente nel turno un’indennità con funzione interamente compensativa del disagio derivante dalla particolare articolazione dell’orario di lavoro, mentre i primi tre commi dell’art. 24 prendono in considerazione situazioni accomunate dal fatto che l’attività lavorativa viene prestata in giorni non lavorativi, ossia l’ipotesi di eccedenza, in forza del lavoro prestato in giorno non lavorativo, rispetto al normale orario di lavoro. Essi non individuano situazioni relative al lavoro prestato entro il limite del normale orario, quale deve ritenersi quello reso – di regola e in via ordinaria dai lavoratori turnisti, per i quali è stata dettata la speciale disciplina di cui all’art. 22. Ne costituisce riscontro la clausola contenuta nell’art. 24, comma 5, che, riferendosi al caso del dipendente che, fuori delle ipotesi di turnazione, ordinariamente, in base al suo orario di lavoro, è tenuto ad effettuare prestazioni lavorative di notte o in giorno festivo settimanale, assicura al lavoratore una maggiorazione di retribuzione compensativa del disagio. La maggiorazione di cui all’art. 24, comma 1, rivendicata dai ricorrenti, presuppone che “per particolari
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esigenze del servizio”, ossia per esigenze che esulano dall’articolazione ordinaria del lavoro - e in tal senso da intendere come situazioni straordinarie o occasionali –, il lavoratore turnista sia chiamato a lavorare nel giorno destinato a riposo settimanale. Invece, per l’attività prestata la domenica in regime di turnazione, il lavoratore non può rivendicare la maggiorazione di cui all’art. 24, ma solo quella di cui all’art. 22, già percepita. Pertanto, in relazione al lavoro prestato in giorni festivi, il lavoratore turnista ha diritto alla maggiorazione di cui all’art. 24, comma 1 c.c.n.l. quando ciò avvenga in coincidenza con il giorno destinato a riposo settimanale (in tal caso, la maggiorazione spetta in aggiunta al riposo compensativo); ha diritto alla corresponsione del compenso di cui all’art. 24, comma 2 (in alternativa al riposo compensativo) quando la prestazione sia resa in giorno festivo oltre il normale orario di lavoro; ha diritto al solo compenso di cui all’art. 22, comma 5, per la prestazione resa in giorno festivo in regime di turnazione ed entro il normale orario di lavoro. Va rilevato che il precedente giurisprudenziale citato dalla Corte territoriale e invocato dal controricorrente (Cass. n. 9097/2007) attiene a disciplina diversa da quella, di fonte negoziale, in esame e in particolare all’interpretazione del D.P.R. n. 268 del 1987, art. 13 ossia a disciplina, di rango normativo, vigente nel periodo precedente la privatizzazione del pubblico impiego con cui è stato, fra l’altro, demandato alle parti sociali e ai contratti collettivi di comparto (come quello applicato alla fattispecie de quo) la regolamentazione del rapporto di lavoro dei lavoratori dipendenti dagli enti di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2).
4. Nel presente giudizio il ricorrente non ha rivendicato le maggiorazioni di cui all’art. 24 c.c.n.l. per prestazioni rese in giorno destinato a riposo settimanale; non ha lamentato la mancata fruizione del riposo compensativo; non ha dedotto il superamento del normale orario di lavoro. Ha avanzato la sua rivendicazione per la stessa prestazione lavorativa resa in turno, nel normale orario di lavoro, solo in quanto coincidente con una giornata festiva infrasettimanale, così Intendendo infondatamente cumulare due benefici previsti per finalità e situazioni diverse. 5. Va anche precisato che l’ipotesi del cumulo non è sostenibile nemmeno alla luce dell’art. 24, comma 4, il quale fa riferimento alla possibilità che la maggiorazione di cui al comma 1 concorra con altri trattamenti accessori collegati alla prestazione. Presupposto di tale previsione è che il lavoratore versi nell’ipotesi regolata dal comma 1 e dunque che abbia lavorato in giorno destinato a riposo settimanale. Conseguentemente, la possibilità del cumulo non può in alcun modo riferirsi alle ipotesi disciplinate dall’art. 22, comma 5, il quale regola le prestazioni rese dal lavoratore turnista entro il normale orario di lavoro, vale a dire situazioni ontologicamente diverse da quella che l’art. 24, comma 4, presuppone a suo fondamento. – Omissis. 7. In conclusione, va accolto il ricorso con riguardo al primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. La sentenza impugnata deve essere cassata; non essendo necessari ulteriori accertamenti, la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda introduttiva del giudizio. Spese compensate in considerazione dell’esito favorevole al lavoratore dei giudizi di merito. – Omissis.
Giornate festive: no al cumulo tra compenso aggiuntivo (ex art. 24) e maggiorazione per lavoro su turni (ex art. 22) del Ccnl Regioni e Autonomie locali* Sinossi. Con la sentenza 27 settembre 2016, n. 18942 la Cassazione, conformemente ad alcune precedenti pronunce, ha ritenuto che nell’ambito di applicazione del Ccnl Regioni e Autonomie locali, nel caso di lavoratore turnista, lo svolgimento dell’ordinaria attività lavorativa in giornate festive non determini la cumulabilità del compenso aggiuntivo previsto ai sensi
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Si ringrazia per il proficuo confronto il dott. Mauro Santoianni, Responsabile del Servizio Gestione giuridico-economica del Personale della Camera di Commercio di Milano.
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dell’art. 24, comma 1, per l’attività lavorativa svolta in giornata festiva con la maggiorazione già percepita per il lavoro svolto su turni (ex art. 22).
La sentenza qui in commento scaturisce dall’azione promossa da un agente di polizia municipale che lavora su turni, avente ad oggetto il riconoscimento del compenso aggiuntivo previsto ai sensi dell’art. 24, comma 1, del Ccnl 14.9.2000 Regioni e Autonomie locali, richiesto per l’attività lavorativa svolta in giornata festiva infrasettimanale in cumulo con la maggiorazione già percepita per il lavoro prestato in turno nei giorni festivi, ex art. 22 del medesimo contratto. Mentre i giudici di merito avevano accolto la domanda del lavoratore, la Corte di Cassazione esclude la corresponsione della maggiorazione per il lavoro straordinario festivo1. Evidentemente, per meglio apprezzare l’iter argomentativo seguito dai giudici appare imprescindibile un seppur breve approfondimento circa le due norme contrattuali in questione; l’esito a cui giunge la Corte è del tutto coerente anche con precedenti sentenze in argomento, a quanto consta inedite2. Prima ancora della normativa contrattuale in tema di trattamento per l’attività prestata in un giorno festivo (di cui all’art. 22 del Ccnl, e su cui brevemente in seguito), il vero snodo centrale della questione è l’art. 24 del Ccnl, il quale disciplina le prestazioni lavorative che vengono svolte su turni e il cui contenuto, secondo l’interpretazione della Cassazione cui si aderisce, è di per sé idoneo a risolvere la controversia in oggetto. Il Ccnl del 14 settembre 2000 ha innovato non poco la materia dapprima disciplinata dall’art. 13 del d.p.r. n. 268/1987 il quale aveva continuato a trovare applicazione anche a seguito dell’entrata in vigore della prima tornata contrattuale di stampo privatistico relativa al quadriennio 1994/1997. Le novità erano consistite in una maggior chiarezza definitoria nonché – ciò che in questa sede maggiormente rileva – in tema di corresponsione del compenso aggiuntivo in caso di prestazione effettuata su turni. In primo luogo appare utile riportare la definizione di turno, il quale consiste in «un’effettiva rotazione del personale in prestabilite articolazioni giornaliere»3; dette articolazioni possono essere istituite dagli enti «in relazione alle proprie esigenze organizzative o di servizio». Non è irrilevante altresì evidenziare come i turni possano essere attuati in strutture operative che «prevedono un orario di servizio giornaliero di almeno 10 ore» (dove la previgente normativa ne prevedeva almeno 11: si è pertanto ampliata la possibilità per gli Enti di far ricorso alle turnazioni).
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Si tratta evidentemente di questioni molto tecniche, ma per una collocazione della tematica nell’ambito del quadro generale delineato dalle più recenti norme in tema di pubblico impiego contrattualizzato, senza pretesa di esaustività v. almeno Carinci, Mainardi, La terza riforma del lavoro pubblico: commentario al D. lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, aggiornato al Collegato lavoro, Wolters Kluwer Italia, 2011; Napoli, Garilli (a cura di), La terza riforma del lavoro pubblico tra aziendalismo e autoritarismo: D.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150 (con aggiornamento alla L. 7 agosto 2012, n. 135 – “Spending Review”), Cedam, 2013; oltre alle opere manualistiche Galantino, Diritto del lavoro pubblico, Giappichelli, 2014; Carabelli, Carinci, (a cura di), Il lavoro pubblico in Italia, Cacucci, 2010. 2 Ex multis cfr. Cass., 9 aprile 2010, n. 8458, in LG, 2011, 485, con nota di Squeglia; Cass., 24 febbraio 2012, n. 2888, in www. cortedicassazione.it. 3 Cfr. Napolitano, La definizione di “turno di lavoro” in una pronuncia di merito, in DRI, 2007, 828 ss. In tema invece di una prestazione resa su turni “non avvicendati” v. Cass., 25 novembre 2003, n. 17994, in LG, 2004, 496 ss.
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Con riferimento all’indennità prevista dal contratto collettivo – la quale ha lo scopo di «compensare interamente il disagio derivante dalla particolare articolazione dell’orario di lavoro» – la stessa consiste in una maggiorazione oraria del 10% della retribuzione (calcolata ai sensi dell’art. 52, comma 2, lett. c) in caso di turno diurno antimeridiano e pomeridiano; la maggiorazione oraria è pari al 30% in caso di turno notturno o festivo; mentre sale al 50% in caso di turno festivo notturno. Come evidenziato, dunque al personale che lavora su turni non può essere erogata nessuna ulteriore indennità che sia volta a compensare il medesimo disagio derivante dalla particolare articolazione dell’orario di lavoro. Con riferimento invece all’art. 24, rubricato «Trattamento per attività prestata in giorno festivo. Riposo compensativo»4, la disposizione disciplina distinte fattispecie caratterizzate da differenti modalità di articolazione e distribuzione della prestazione lavorativa, per ciascuna delle quali sono previste maggiorazioni retributive e/o riposi compensativi a ragione della maggior “penosità” che deriva dall’eseguire la propria prestazione lavorativa, ad esempio, nella giornata del riposo settimanale, ovvero in un giorno festivo infrasettimanale, in un giorno feriale non lavorativo o ancora per ciò che concerne il lavoro ordinario notturno, festivo o festivo notturno. In tutti i predetti casi si tratta di prestazioni lavorative che vengono rese «per particolari esigenze di servizio». Esposta brevemente la normativa in ipotesi applicabile, ci rimane da approfondire la fattispecie oggetto della controversia, vale a dire il trattamento spettante per l’attività lavorativa svolta su turni in una giornata festiva infrasettimanale. Il lavoratore agente di polizia municipale “turnista” infatti aveva chiesto oltre alla maggiorazione di cui all’art. 22, comma 5, spettante in caso di turno svolto in giornata festiva, che gli fosse riconosciuto anche il compenso previsto ex art. 24, comma 1, il quale prevede che «al dipendente che per particolari esigenze di sevizio non usufruisce del giorno di riposo settimanale deve essere corrisposto, per ogni ora di lavoro effettivamente prestata, un compenso aggiuntivo pari al 50% […] con diritto al riposo compensativo da fruire di regola entro 15 giorni e comunque non oltre il bimestre successivo». I giudici di merito hanno ritenuto sommabili le due distinte maggiorazioni, evidentemente ritenendo che le due clausole contrattuali abbiano uno scopo ben distinto, una andando a remunerare (l’art. 24) il maggior disagio per l’esecuzione della prestazione lavorativa su turni, l’altra (art. 22) la mancata fruizione del riposo compensativo e pertanto sarebbe consentita la contemporanea applicabilità degli istituti. Operazione questa che non trova il conforto dei giudici di legittimità dal momento che la Cassazione nega “ontologicamente” la cumulabilità delle due maggiorazioni. Dirimente sarebbe il presupposto che accumuna le fattispecie di cui all’art. 24: si tratta infatti di attività lavorativa che «viene prestata in giorni non lavorativi, ossia l’ipotesi di eccedenza, in forza del lavoro prestato in giorno non lavorativo, rispetto al normale orario di lavoro».
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Per una differente questione in tema di attività lavorative prestate nelle festività civili ricadenti di domenica si v. C. cost., 16 maggio 2008, n. 146 con nota di Diamanti, in RIDL, II, 2009, 939 ss.
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Pertanto, qualora la prestazione del “turnista” cada in giornata festiva infrasettimanale o domenicale, per via della ordinaria articolazione oraria per l’appunto su turni, troverà applicazione il solo art. 22, comma 5, che – come visto in precedenza – compensa il disagio con una maggiorazione della retribuzione pari al 30%. Nulla impedisce, in astratto, l’applicabilità del disposto di cui all’art. 24, che ha ad oggetto l’attività prestata in giorni festivi infrasettimanali, oltre l’orario contrattuale di lavoro, ai predetti lavoratori turnisti quando essi «siano chiamati a svolgere la propria attività, in via eccezionale od occasionale, nelle giornate di riposo settimanale che competono loro in base ai turni, ovvero in giornate festive infrasettimanali al di là dell’orario di lavoro». Schematicamente la Cassazione “riassume” le differenti ipotesi in relazione al lavoro prestato in giorni festivi dal lavoratore turnista: (i) questi ha diritto alla maggiorazione di cui all’art. 24, comma 1 quando ciò avvenga in coincidenza con il giorno destinato a riposo settimanale (in tal caso, la maggiorazione spetta in aggiunta al riposo compensativo); (ii) ha diritto alla corresponsione del compenso di cui all’art. 24, comma 2 (in alternativa al riposo compensativo) quando la prestazione sia resa in giorno festivo oltre il normale orario di lavoro; (iii) ha diritto al solo compenso di cui all’art. 22, comma 5, per la prestazione resa in giorno festivo in regime di turnazione ed entro il normale orario di lavoro. Proprio quest’ultima è la fattispecie concreta oggetto della controversia dalla quale è scaturita la sentenza in commento. Rimangono, in estrema sintesi, alcuni ulteriori tasselli da esaminare nel quadro così delineato. In tema di “precedenti” giurisprudenziali sul punto, oltre a quelli succitati bisogna prestare attenzione perché una pronuncia resa a Sezioni unite5 prima facie parrebbe ritenere cumulabili i due distinti benefici. Ma sul punto è il caso di riportare quanto argomentato in una recente sentenza di merito del Tribunale di Reggio Calabria6, poiché ne chiarisce l’esatta portata: «Al riguardo deve rilevarsi che, sebbene pronunciata dalle Sezioni Unite, la sentenza non reca alcun principio di diritto. Il motivo avente ad oggetto la questione interpretativa (ulteriore rispetto a quello vertente sulla questione della giurisdizione) è stato respinto, con conferma della sentenza impugnata, che è stata ritenuta immune da vizi per essere “non specificamente censurata dal ricorrente” in quel giudizio. Ne consegue che il percorso ricostruttivo riportato in tale precedente giurisprudenziale non è altro che quello mutuato dalla sentenza del giudice di merito, non efficacemente censurato dall’allora ricorrente per cassazione». Inoltre è il caso di evidenziare come la decisione attenesse ad una diversa disciplina, non di fonte negoziale bensì regolamentare id est il d.p.r. n. 268/1987 e più nello specifico l’art. 13: tale provvedimento aveva “resistito” alla prima fase della contrattualizzazione del pubblico impiego, fintantoché l’autonomia collettiva non aveva provveduto – col contratto collettivo qui in commento – alla regolamentazione del rapporto di lavoro dei dipendenti
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Cass., sez. un., 17 aprile 2007, n. 9097, a quanto consta inedita. Trib. Reggio Calabria, 26 aprile 2016, n. 505 (v. all’indirizzo web http://www.strettoweb.com/wp content/uploads/2016/04/Sentenza. pdf)
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del comparto Regioni ed Autonomie Locali. Pertanto i riferimenti a quelle pronunce – rese per controversie insorte sotto la vigenza del d.p.r. – non sono conferenti con la disciplina attualmente in vigore, conseguenza di un diverso assetto. Un ulteriore elemento da tenere in considerazione è il seguente: l’art. 24, comma 4, fa salva la possibilità che la maggiorazione concorra con altri trattamenti accessori collegati alla prestazione (si è già evidenziato di come l’indennità di turno compensi interamente il disagio derivante dalla particolare articolazione dell’orario di lavoro): ebbene nemmeno attraverso la lettura di questa disposizione parrebbe legittimo il cumulo delle due distinte maggiorazioni poiché, osserva la Corte, il comma in questione «fa riferimento alla possibilità che la maggiorazione di cui al comma 1 concorra con altri trattamenti accessori collegati alla prestazione. Presupposto di tale previsione è che il lavoratore versi nell’ipotesi regolata dal comma 1 e dunque che abbia lavorato in giorno destinato a riposo settimanale. Conseguentemente, la possibilità del cumulo non può in alcun modo riferirsi alle ipotesi disciplinate dall’art. 22, comma 5, il quale regola le prestazioni rese dal lavoratore turnista entro il normale orario di lavoro». In conclusione, l’orientamento della Corte di Cassazione in materia appare così delineato: i dipendenti del comparto Regioni e Autonomie locali che lavorano su turni, laddove nell’ambito del loro normale orario di lavoro, prestino servizio in giornata festiva infrasettimanale o domenicale, vedranno applicata la maggiorazione retributiva di cui all’art. 22 del Ccnl. Ma, è importante sottolineare come in maniera opportuna la Cassazione non escluda in assoluto la possibilità per il lavoratore turnista di godere della (più consistente) maggiorazione retributiva di cui all’art. 24, la quale avendo ad oggetto l’attività prestata in giorni festivi infrasettimanali oltre l’orario di lavoro – troverà applicazione soltanto quando i lavoratori siano chiamati a svolgere la propria attività in via eccezionale od occasionale, nelle giornate di riposo settimanale che spettano loro in base ai turni, ovvero in giornate festive infrasettimanali, oltre l’orario di lavoro. Ciò che sembra però non scalfibile è l’impossibilità del cumulo delle due maggiorazioni, le quali rimangono sempre alternative tra loro. Trattandosi di una materia molto rilevante sul piano applicativo nonché dal punto di vista delle relazioni sindacali e del contenzioso (e l’elevato numero di controversie testimonia come l’argomento sia particolarmente sentito, soprattutto da parte degli agenti di polizia municipale), è auspicabile che nel prossimo rinnovo contrattuale la questione trovi una più puntuale soluzione, magari per il tramite di una clausola di interpretazione autentica7. Mirko Altimari
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Del resto già nel contratto Ccnl Regioni e Autonomie locali 31 luglio 2009, all’articolo 7 «Clausola di rinvio» le parti «in considerazione del ritardo con il quale sono state avviate le trattative per il CCNL relativo al biennio economico 2008-2009, ritenendo prioritario concludere in tempi brevi la presente fase negoziale, si impegnano ad affrontare, in occasione del prossimo rinnovo contrattuale, le problematiche connesse all’eventuale revisione dei profili normativi dell’attuale regolamentazione del rapporto di lavoro e, in particolare, le seguenti materie:[…] g.) le problematiche connesse alla disciplina del turno».
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Giurisprudenza C orte di Cassazione, sentenza 12 settembre 2016, n. 17921; Pres. Macioce – Est. Di Paolantonio – P.M. Fresa (concl. conf.) – Centro formazione professionale San Giovanni Apostolo (avv. Cosio) c. D. G. (avv. Spataro). Cassa con rinvio App. Messina, sent. n. 1109/2013. Contratto di lavoro – patto di prova – nullità – intimazione licenziamento – conseguenze – applicazione art. 18 l. n. 300/70 o l. n. 604/66.
Il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, soggiace alla disciplina del licenziamento ordinario; ne consegue che la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per l’applicabilità della tutela reale.
Svolgimento del processo. – 1. La Corte di Appello di Messina, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, ha integralmente accolto le domande proposte da G. D. nei confronti del Centro Formazione Professionale “San G. Apostolo” e, dichiarata la nullità del patto di prova apposto al contratto a tempo indeterminato sottoscritto dalle parti il 28 maggio 2007, ha annullato “la risoluzione del rapporto e l’atto di recesso” condannando l’ente di formazione alla “riammissione in servizio e alla corresponsione delle retribuzioni dalla cessazione del rapporto fino alla effettiva reintegrazione”. 2. La Corte territoriale ha premesso che nei due anni immediatamente antecedenti la stipula del contratto il D., quale collaboratore a progetto, aveva svolto nei corsi di formazione professionale le medesime mansioni di docente di materie informatiche. Ha, quindi, ritenuto privo di causa il patto di prova, in quanto la sperimentazione era già avvenuta con esito positivo, anche se nel periodo precedente non era stato instaurato un vero e proprio rapporto di lavoro. Dalla nullità del patto la Corte, poi, ha fatto discendere la “automatica conversione della assunzione in definitiva sin dall’inizio e la vanificazione degli effetti del recesso”. 3. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Centro Formazione Professionale S. G. Apostolo sulla base di due motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. G. D. ha depositato procura ed il difensore ha discusso oralmente la causa, concludendo per il rigetto del ricorso ed eccependo anche l’inammissibilità del secondo motivo. Motivi della decisione. – 1.1. Il primo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c. “violazione degli artt. 2096, 2697, 2729 c.c.” e censura il capo della decisione relativo alla ritenuta nullità del patto di prova. Sostiene il ricorrente che il patto, in quanto destinato alla veri-
fica non solo delle qualità professionali ma anche del comportamento e della professionalità complessiva del lavoratore, è ammissibile ogniqualvolta risponda ad una “finalità apprezzabile”, sussistente nella fattispecie in considerazione della differenza quantitativa e qualitativa delle mansioni svolte sulla base dei contratti, di diversa natura, succedutisi nel tempo. Precisa al riguardo che la collaborazione a progetto aveva riguardato un’unica materia e l’insegnamento era stato reso in corsi destinati ad allievi in possesso della sola licenza media inferiore. Il rapporto di lavoro subordinato, invece, oltre a comportare un maggior impegno in termini temporali, era stato instaurato per l’attività di docenza di sei materie in corsi destinati a studenti che avessero conseguito il diploma di scuola media superiore. 1.2. Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata per “violazione dell’art. 1223 c.c. e dell’art. 8 della legge n. 604/1966”. Il ricorrente, richiamando giurisprudenza di questa Corte, evidenzia che la nullità del patto di prova non determina “la sanzione risarcitoria di diritto comune” in quanto il licenziamento resta assoggettato alla disciplina sua propria e, quindi, la illegittimità comporta, in caso di insussistenza del requisito dimensionale, le conseguenze previste dall’art. 8 della legge richiamata in rubrica. Aggiunge che il Tribunale di Messina, proprio in considerazione della incontestata inapplicabilità della tutela reale, aveva condannato il Centro al pagamento di tre mensilità. 2. Il primo motivo è infondato, nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 2096 c.c., ed è per il resto inammissibile. La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che la causa del patto di prova è quella di tutelare l’interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, sicché detta causa
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risulta insussistente ove la verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le medesime mansioni, in virtù di prestazione resa dal lavoratore, per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore di lavoro (in tal senso fra le più recenti Cass. 17.7.2015 n. 15059; Cass. 25.3.2015 n. 6001; Cass, 5.3.2015 n. 4466). È stato anche precisato che il principio è applicabile ogniqualvolta il prestatore venga chiamato a svolgere la medesima attività, senza che rilevino la natura e la qualificazione dei contratti stipulati in successione (Cass. 29.7.2005 n. 15960) nonché la diversa denominazione delle mansioni (Cass. 1°.9.2015 n. 17371) e senza che in sede di legittimità possa essere censurato l’accertamento di eguaglianza effettiva delle mansioni, in quanto riservato “al sovrano apprezzamento del giudice di merito” (Cass. n. 17371/2015 e Cass. 6001/2015). La sentenza impugnata è conforme ai principi di diritto sopra richiamati, dei quali ha fatto corretta applicazione, evidenziando che l’attività di insegnamento affidata al D. negli anni 2005 e 2006, nell’ambito del corso per operatore su computer, era del tutto sovrapponibile a quella oggetto del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulato nell’anno 2007. Il motivo, nella parte in cui censura detta valutazione, sottolineando le differenze che la Corte territoriale non avrebbe apprezzato, esula dalla denunciata violazione di legge e si risolve nella inammissibile sollecitazione di una diversa valutazione delle risultanze di causa, non consentita in sede di legittimità. Al riguardo occorre ribadire che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nel rispetto della disciplina applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 26.3.2010 n. 7394 e negli stessi termini Cass. 10.7.2015 n. 14468). Ne discende che per le sentenze pubblicate, come nella fattispecie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, la motivazione è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi, che qui non ricorre, di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”. 3. È, invece, fondato il secondo motivo perché erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che alla nullità del patto di prova dovessero conseguire, in modo automatico, la vanificazione degli effetti del recesso, la
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ricostituzione del rapporto, il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione sino a quella della riammissione in servizio. Va premesso che la censura, con la quale si sostiene, attraverso il richiamo a Cass., 5 marzo 2013 n. 5404, che le conseguenze del licenziamento intimato in presenza di un patto di prova affetto da nullità, dovevano essere quelle previste dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, applicato dal giudice di primo grado, e non quelle “di diritto comune”, prospetta una questione di diritto e non di fatto, sicché la stessa non può essere ritenuta inammissibile per novità, tanto più che le deduzioni del ricorso sono volte a contrastare la motivazione della sentenza impugnata. Si è detto che il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto di lavoro, sicché, proprio in ragione di detto interesse, l’art. 2096 c.c. consente il recesso ad nutum che permette al datore di lavoro di recedere dal rapporto, senza alcun obbligo motivazionale, qualora sia insoddisfatto dell’esito della sperimentazione. A sua volta l’art. 10 della legge n. 604 del 1966, nello stabilire che “le norme della presente legge (sui licenziamenti individuali) si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro ... assunti in prova ... dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva”, sottrae il rapporto nel quale il patto di prova sia stato validamente inserito alla applicazione della disciplina limitativa del licenziamento, con la conseguenza che “il recesso del datore (licenziamento) durante il periodo di prova rientra così nella cosiddetta area della recedibilità acausale, o ad nutum: il datore è titolare di un diritto potestativo, il cui esercizio legittimo non richiede giustificazione” (Cass. S.U. 2.8.2002 n.11633). Peraltro detta recedibilità, libera sia pure nei limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, presuppone che il patto di prova sia stato validamente apposto, sicché ove difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola, in quanto parziale, non estendendosi all’intero contratto, determina “la conversione (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario... e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale” (Cass. 18.11.2000 n. 14950). In altri termini il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova, in realtà già venuto a scadenza, non può iscriversi nell’eccezionale recesso ad nutum di cui all’art. 2096 c.c. bensì, non trovando applicazione l’art. 10 della legge n. 604 del 1966, “consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o giustificato motivo” (Cass. 19.8.2005 n. 17045 e negli stessi termini Cass. 22.3.1994 n. 2728). Ha, quindi, errato la Corte territoriale nel ritenere che la nullità del patto di prova vanificasse gli effetti
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del recesso determinando, per ciò solo, la ricostituzione del rapporto, dovendo, al contrario, trovare applicazione la disciplina ordinaria sui licenziamenti e, quindi, in presenza dei requisiti rispettivamente richiesti, la tutela assicurata dalla legge n. 604 del 1966 o dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970. Inoltre, ai fini della applicazione della disciplina concretamente applicabile alla fattispecie, valgono i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in merito all’onere della prova gravante sul datore di lavoro, anche in relazione al requisito dimensionale. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di Appello di Messina in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame attenen-
dosi a quanto sopra indicato ed al principio di diritto di seguito enunciato: “il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non è sottratto alla applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall’art. 18 della legge n. 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge n. 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per la applicabilità della tutela reale” – Omissis.
Nullità del licenziamento in prova: quali conseguenze? Sommario : 1. Il caso. – 2. Patto di prova: validità.... – 3. …e sanzione: quale conseguenza?
Sinossi. La Cassazione ha affermato che il licenziamento che viene intimato per esito negativo della prova sull’erroneo presupposto della validità della clausola della prova, consiste in un ordinario licenziamento ed è ricondotto all’applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti. In proposito, nel commento vengono presi in esame due profili di interesse: la nullità del patto di prova e le conseguenze spettanti rispetto alla nullità del medesimo patto.
1. Il caso. Con la sentenza in commento i giudici di legittimità si sono occupati del patto di prova1, e in maniera particolare del tema del recesso in prova nullo, chiarendo in maniera particolare le conseguenze spettanti dello stesso.
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Sul tema, Varesi, Il patto di prova nel rapporto di lavoro, in Le assunzioni. Prova e termine nel rapporto di lavoro, in Comm Sch, 1990. Più di recente, Vettor, Il patto di prova, in ADL, 2010, 3, 2, 805 ss.
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Il caso oggetto di giudizio ha riguardato un lavoratore assunto a tempo indeterminato presso un Centro di formazione professionale che nei due anni precedenti all’assunzione aveva compiuto presso lo stesso un’attività di collaborazione a progetto, svolgendo le medesime mansioni, per le quali era stato poi assunto e, in seguito, licenziato. In proposito, rilevano due profili di interesse: la Cassazione, da un lato, ha dichiarato la nullità del patto di prova, aderendo in tale modo alla prospettazione della Corte di Appello di Messina; dall’altro lato, con riguardo alle conseguenze spettanti in capo al datore rispetto alla nullità del medesimo patto, si è discostata dalla Corte messinese. I profili saranno esaminati distintamente; peraltro, come si vedrà, essi convergono sulla base di una lettura complessiva della vicenda.
2. Patto di prova: validità.... In primo luogo, riformando parzialmente la pronuncia del giudice di primo grado, la Corte di Appello ha dichiarato la nullità del patto di prova in considerazione del fatto che la verifica, con esito positivo, dell’idoneità a quel tipo di lavoro era già avvenuta ancorché in virtù di un rapporto di collaborazione a progetto; al riguardo, la Cassazione ha censurato la continuità sostanziale tra il primo e il secondo rapporto di lavoro, in considerazione del fatto che le due attività risultavano “sovrapponibili”. Sotto tale aspetto, la Cassazione ha confermato la prospettazione della Corte territoriale, rigettando il motivo di ricorso della società datrice: non assume rilievo né la differente natura del rapporto di lavoro precedentemente svolto, né la diversa qualificazione giuridica dei rispettivi contratti di lavoro stipulati2. Tale continuità sostanziale emerge anche dalla stessa giurisprudenza di legittimità in base alla quale l’ordinamento tutela sia l’interesse del lavoratore sia quello del datore a sperimentare la effettiva convenienza al proseguimento del rapporto, ancorché risulti scontato che la clausola di prova soddisfa, perlopiù, le esigenze dell’impresa3. Nella stessa scia si pone quella giurisprudenza che ha ritenuto illegittimo il patto di prova non funzionale alla “sperimentazione” prevista dall’art. 2096, co. 2 c.c., in base al quale “l’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”, giacché il lavoratore aveva già prestato la propria opera per il medesimo datore per un congruo lasso di tempo all’interno di un rapporto di collaborazione4. La giurisprudenza più risalente nel tempo ha ravvisato come dirimenti siano per il patto di prova due aspetti: la verifica oggettiva delle qualità professionali del prestatore e la valutazione soggettiva relativa al comportamento e alla personalità complessiva dello stesso. In
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Cass., 29 luglio 2005, n. 15960, in GC. Mass., 6, 2005. Mazzotta, Manuale di diritto del lavoro, Padova, 2014, 323. 4 Trib. Milano, 3 aprile 2001, richiamata in Galardi, Art. 2096, in Mazzotta, De Luca Tamajo (a cura di), Commentario breve alle leggi sul lavoro, Padova, 2014, 490 ss. 3
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questo senso, è stata ritenuta ammissibile la reiterazione del patto in due contratti di lavoro a termine sottoscritti a distanza di un certo lasso di tempo, se tale patto è “funzionalmente destinato alla verifica, non solo delle qualità professionali, ma anche del comportamento e della personalità complessiva del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione”5. Per altra giurisprudenza, la legittimità del patto, salvo che non si tratti di un sistema in frode alla legge per eludere la normativa sui licenziamenti, è derivata nel caso in cui le parti abbiano avuto un altro rapporto di lavoro in precedenza che si è concluso per esito negativo della prova6; e, ancora, si riconosce legittimo quel nuovo patto di prova se c’è un radicale e consensuale mutamento delle mansioni7. Rispetto al caso di specie, la verifica positiva, collegata al riscontro di entrambi gli aspetti, ha vanificato la legittimità stessa del patto stesso, portando di conseguenza a ritenere nullo quel patto apposto ad un contratto di lavoro subordinato per un’attività del tutto simile a quella svolta in precedenza, seppur in regime di contratto di collaborazione.
3. …e sanzione: quale conseguenza? Altrettanto meritevole di rilievo è il profilo, affrontato dalla sentenza in epigrafe, relativo alle conseguenze dell’invalidità del patto legate all’apparato sanzionatorio. Al contrario di quanto stabilito dalla Corte messinese, secondo i giudici di legittimità dalla nullità del recesso non deriva automaticamente la vanificazione degli effetti dello stesso in virtù dell’applicazione della tutela di “diritto comune” (e quindi la ricostituzione del rapporto di lavoro, il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione del rapporto sino a quella della riammissione in servizio), bensì la disciplina sanzionatoria prevista per il licenziamento illegittimo, e quindi, a seconda dei requisiti occupazionali dell’impresa, l’applicazione della tutela reintegratoria o di quella obbligatoria. In particolare, la sentenza in epigrafe argomenta sulla base della circostanza che il licenziamento intimato in conformità a un patto di prova ritenuto nullo non può rientrare nel recesso ad nutum ai sensi dell’art. 2096 c.c. e non trova applicazione la previsione della l. 604 del 1966 che stabilisce espressamente per i lavoratori in prova l’applicazione del regime dei licenziamenti solo se “l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, sono decorsi, sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro”8. In termini generali, tenendo distinta la determinazione delle conseguenze derivanti dalla declaratoria dell’illegittimità del recesso rispetto alle conseguenze per l’asserita nullità del patto di prova, occorre ricordare come la giurisprudenza si divida nettamente sulle
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Cass., 18 febbraio 1995, in MGL, 1995, 187. Cass., 24 luglio 1990, n. 7493, in MGL, 1991, 44, ripresa da Sitzia, Art. 2096, in Cendon (a cura di), Commentario al Codice Civile, Padova, 2011, 454. 7 App. Ancona, 17 marzo 2006, n. 115, in Glav, 2006, 50, 50 ripresa da Sitzia, ibidem. 8 Art. 10, comma 1, l. n. 604/1966,, al riguardo De Simone, Parte II. I lavoratori in prova, in Mazzotta (a cura di), I licenziamenti. Commentario, 1999, 555.
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conseguenze dell’invalidità del recesso intimato durante il periodo di prova, tanto che tale aspetto è uno dei più intricati da risolvere, attesa la mancanza di orientamenti univoci9: basti, al riguardo, ricordare che secondo un certo orientamento non sono applicabili le conseguenze previste dalla normativa sui licenziamenti individuali, ma solo il diritto al ristoro del pregiudizio sofferto, rappresentato dalla perdita di utilità che il prestatore avrebbe potuto percepire per la durata del concordato periodo di prova, consistente nella prosecuzione della prova per il periodo restante o nel pagamento delle retribuzioni non percepite fino al compimento della prova10; al contrario, per un altro orientamento nel caso di annullamento del recesso durante la prova può essere disposta la reintegrazione, avendo il datore di lavoro “consumato”, con il recesso ritenuto illegittimo, il potere di trarre dalla prova eventuali conseguenze negative per il lavoratore11. Rispetto a questi orientamenti giurisprudenziali, per la pronuncia in commento il giudizio va ricondotto ad una fase precedente rispetto alla tutela da riconoscere al lavoratore: secondo una visione complessiva dell’operazione posta in essere, viene travolta la libera recedibilità a cui soggiace il rapporto di lavoro durante tale periodo, in quanto la disciplina legale del licenziamento inizia ad applicarsi, di norma, dopo il superamento della prova. Infatti, per la Corte, la libera recedibilità ha come presupposto la circostanza obiettiva che il patto di prova sia stato validamente apposto, con la conseguenza che in mancanza dei requisiti di sostanza o di forma, come nel caso di specie, la nullità della clausola apposta al contratto individua una nullità solo parziale che determina “la conversione (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario”; e trovano così applicazione, con riguardo alle conseguenze del recesso, le conseguenze stabilite per il licenziamento individuale12. In conclusione, spingendosi comunque oltre l’art. 2096 c.c., “luogo” sottratto, per antonomasia, alla disciplina dei licenziamenti individuali, appare condivisibile la prospettazione che dà la Corte in merito alla vicenda complessiva: venendo meno la causa del patto di prova dinnanzi alla verifica già espletata in un contratto precedente seppur non a tempo indeterminato, viene riportata la tutela entro i confini delle sanzioni contemplate in caso di licenziamenti illegittimi, in quanto è da considerarsi licenziamento a tutti gli effetti13. Alberto Mattei
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Sul punto si rinvia alla ricostruzione effettuata da Brun, Il recesso dal patto di prova tra limiti sostanziali e conseguenza sanzionatorie, in ADL, 3, 2003, 677ss. 10 Cass., 12 marzo 1999, n. 2228 e ulteriori pronunce richiamate da Grassi, Art. 2096, in Amoroso, Di Cerbo, Maresca (a cura di), Diritto del lavoro, La Costituzione, Il codice civile, Le leggi speciali, Vol. I, IV ed., 2013, 834. 11 Cass., 24 novembre 1997, n. 11735, in Grassi, ibidem. 12 Cass. 18 novembre 2000, n. 14950; Rausei, Nullità della prova, illegittimità e conseguenze del licenziamento, in DPL, 42, 2016, 2479 ss. 13 Minervini, Nodo irrisolto della disciplina del patto di prova, in MGL, 11, 2016, 775 ss. Ulteriore giurisprudenza per cui la dichiarazione di nullità del patto comporta di dover considerare il rapporto a tempo indeterminato fin dall’origine, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato per mancato superamento della prova e applicazione della tutela stabilita dalla legge a seconda del tipo di rapporto è Cass., 22 giugno 2012, n. 10440; Cass., 10 ottobre 2006, n. 21698; con riguardo ad un dirigente, Trib. Roma, 14 luglio 2005, in MGL, 2005, 819, richiamate da Boscati, Patto di prova, in Diritto on-line, Opera enciclopedica dell’Istituto Treccani, 2015;
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Giurisprudenza Tribunale di T rapani, ordinanza 5 settembre 2016; Giud. Petrusa – G.S. (avv.ti Galleano e Campo) c. Comune di Valderice (avv. Messina) e Presidenza del Consiglio dei Ministri (Avvocatura dello Stato). Pubblico impiego – Contratti a tempo determinato – Abuso – Art. 36, comma 5, d.lgs. 165/2001 – Risarcimento del danno – Quantificazione ex art. 32, comma 5, l. 183/2010 – Possibile contrasto con l’accordo quadro comunitario recepito dalla dir. n. 99/70/CE – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
Sono sottoposte alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in via pregiudiziale ai sensi e per gli effetti dell’art. 267 TFUE, le seguenti questioni: 1) se rappresenti misura equivalente ed effettiva, nel senso di cui alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, l’attribuzione di un’indennità compresa tra le 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione (art.32, comma 5, l. 183/2010) al dipendente pubblico vittima di un’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, con la possibilità di conseguire l’integrale ristoro del danno provando la perdita di altre opportunità lavorative o la vittoria del concorso, qualora fosse stato bandito; 2) se il principio di equivalenza, di cui alla giurisprudenza della Corte di Giustizia vada inteso nel senso che, laddove lo Stato membro decida di non applicare al settore pubblico la conversione del rapporto (riconosciuta nel settore privato), questi sia tenuto a garantire al dipendente la medesima utilità, eventualmente mediante risarcimento del danno che abbia ad oggetto il valore del posto di lavoro a tempo indeterminato. (1) Tribunale di Foggia , ordinanza 26 ottobre 2016; Giud. De Simone – D.D. + 4 (avv.ti De Michele e Raffaele) c. Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata (dott. Serra ex art. 417-bis c.p.c.). Pubblico impiego – Contratti a tempo determinato – Abuso – Art. 36, comma 5, d.lgs. 165/2001 – Possibile contrasto con gli artt. 3, 4, 24, 35, 97, 101, 104, 111 e 117 Cost. – Rinvio alla Corte costituzionale.
È rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.36, commi 5, 5-ter, 5-quater, d.lgs. 165/2001 nella parte in cui, in violazione degli artt. 3, 4, 24, 35, 97, 101, 104, 111 e 117 Cost., consente alle amministrazioni pubbliche, senza limiti e misure preventive sanzionatorie, l’utilizzazione abusiva dei contratti a termine con personale, che, dopo aver superato procedure selettive pubbliche, ha prestato servizio a tempo determinato per più di trentasei mesi. (2) (1) 1. Premessa in fatto: La ricorrente, dal 1996 al 2002, aveva prestato attività lavorativa come Lavoratore Socialmente Utile in favore del Comune di Valderice e, poi, era stata impiegata presso il medesimo Ente con contratto di collaborazione coordinata e continuativa fino al 2010. In data 4.10.2010 ha stipulato con il Comune di Valderice un contratto di lavoro subordinato a tempo parziale per il periodo compreso fra la data di stipulazione e il 31.12.2012 (doc. AA).
Detto contratto è stato però prorogato per tre volte e ha avuto, quindi, una durata complessiva che si è protratta fino al 31.12.2016. In sostanza, ad oggi, la ricorrente ha lavorato per il Comune di Valderice, col vincolo della subordinazione, giusta contratto a tempo determinato, per più di 5 anni, ossia, oltre il limite dei 36 mesi stabilito dalla Direttiva 1999/70/CE, e recepito nel diritto interno dall’art. 5 del D.lgs. n. 368/2001.
Giurisprudenza
Con il ricorso in oggetto la ricorrente ha formulato le seguenti richieste: “1. Accertare e dichiarare che l’amministrazione convenuta ha, in violazione della Direttiva UE 1999/70, posto in essere un abuso nell’utilizzazione dei contratti a termine stipulati con la parte ricorrente; 2. Per l’effetto condannare la stessa al risarcimento del danno subito dal ricorrente in forma specifica, ordinando la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dalla data del compimento del 36° mese di lavoro alle dipendenze dell’ente convenuto; 3. In subordine – salvo gravame ed azione nei confronti dello Stato italiano per violazione della Direttiva UE – condannarsi l’Amministrazione convenuta al risarcimento del danno in forma monetaria nei termini specificati in ricorso; 4. In ulteriore subordine, condannarsi lo Stato italiano in via gradata al risarcimento in forma specifica, ordinando che proceda, nell’ambito dei suoi poteri ex art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, e dall’articolo 41 della legge 234/2012 alla costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’ente convenuto in giudizio, ovvero, in via gradata, a risarcire il danno in forma monetaria nei termini specificati in ricorso; 5. Condannarsi inoltre l’Amministrazione convenuta, in applicazione dell’art. 6 D.Lgs. 368/2001, dell’art. 45 D.Lgs. 165/2001 e, comunque, della clausola 4 della Direttiva UE 1999/70, a retribuire e trattare sotto il profilo giuridico il ricorrente nella stessa misura di un lavoratore a tempo interminato suo dipendente con la medesima anzianità di servizio, condannandolo al risarcimento dei danni nella misura da quantificarsi in separata sede, in caso di mancata ottemperanza da parte dell’ente convenuto, con rivalutazione ed interessi”. 2. Normativa e giurisprudenza dell’Unione europea: La Direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999, con la clausola n. 1, lett. b, pone l’obiettivo di “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”; la clausola n. 4, poi, sancisce il principio di non discriminazione fra lavoratori a tempo determinato e lavoratori a tempo indeterminato. La clausola n. 5 introduce l’obiettivo di “prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”, e indica talune misure che gli Stati membri sono chiamati a recepire (con l’obbligo di introdurne almeno una fra quelle elencate). La clausola in esame, tuttavia, riguarda le misure “a monte”, ossia, quelle inerenti alla legittimità della pattuizione contrattuale, non il rimedio applicabile per il caso di violazione dei limiti dettati dalla normativa nazionale.
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Sotto questo aspetto, la Direttiva non sancisce espressamente neppure un principio di “parità di trattamento” fra diversi settori lavorativi e, in particolare, non afferma espressamente che nel settore del pubblico impiego debba applicarsi la stessa misura predisposta nel settore del lavoro privato. Conseguentemente, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha più volte escluso che, nel settore dell’impiego pubblico, la violazione del divieto di reiterazione del rapporto oltre il trentaseiesimo mese debba essere necessariamente sanzionata col medesimo rimedio applicabile nel lavoro privato (in Italia, con la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato). Tuttavia, la Corte di Giustizia ha comunque ritenuto necessario elaborare un principio di “Equivalenza” fra posizioni lavorative affini; sebbene tale principio abbia portata meno incisiva di quello di “parità di trattamento”, esso rappresenta senz’altro un parametro che gli Stati membri sono tenuti ad osservare. In sostanza, l’abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato, nel settore pubblico, deve dare luogo all’applicazione di rimedi di peso comparabile a quelli applicati nel settore privato. Vanno quindi richiamate le seguenti pronunce: Sentenza emessa dalla Corte di Giustizia il 26.11.2006 nella causa C-53/04 (Caso Marrosu+1/ Ospedale San Martino di Genova), in cui si afferma che, sebbene non vi sia un obbligo per gli Stati Membri di predisporre la conversione dei contratti di lavoro a termine abusivamente reiterati e, quindi, (punto 48) “la clausola 5 dell’accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico” … (punto 49) “come risulta dal punto 105 della citata sentenza Adeneler e a., affinché una normativa nazionale … che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato, possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione”. In sostanza, il principio di Equivalenza consente sì agli Stati membri l’adozione di misure contenutisticamente differenti nei due settori, ma impone che, nella sostanza, le diverse reazioni contro gli (analoghi) abusi commessi nei due settori siano di intensità comparabile fra di loro, ossia, che la tutela (anche riparatoria) attribuita al lavoratore sia satisfattiva in egual misura nei due campi di applicazione.
Luca Busico
La conclusione che precede emerge in modo ancor più evidente dal punto n. 52 della sentenza in esame: “Anche se le modalità di attuazione di siffatte norme attengono all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere tuttavia meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (v., in particolare, sentenze 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12, nonché Adeneler e a., cit., punto 95)”. Il principio di effettività (che, accanto a quello di equivalenza, deve dirigere lo Stato membro nell’individuazione di misure alternative alla conversione del rapporto) è stato ben esplicato dalla Corte di Giustizia anche nell’Ordinanza del 12.12.2013, resa nel processo C-50/2013 (caso Papalia), in cui si è affermato che l’onere probatorio che il lavoratore deve assolvere per godere della protezione avverso l’abusiva reiterazione dei contratti a termine oltre il limite dei 36 mesi, non deve essere tanto gravoso al punto da svilire la tutela. In particolare, al lavoratore che intenda conseguire il risarcimento del danno non può essere chiesto di provare la perdita di migliori opportunità lavorative. La Sentenza emessa dalla Corte di Giustizia in data 26.11.2014, nelle cause riunite C-22/13, da C-61/13 A C-63/13 e C-418/13, c.d. caso Mascolo, in ordine all’individuazione dell’an dell’illecito, ha confermato in modo definitivo che la reiterazione di rapporti a tempo determinato, anche nell’ambito del settore pubblico (e salve talune eccezioni inquadrabili nell’ambito della lettera A della clausola 5 della Direttiva 1999/70/ CE), costituisce un abuso e, in quanto tale, deve essere necessariamente sanzionata. Per quanto concerne l’individuazione in concreto della misura repressiva applicabile (questione rilevante ai fini che qui interessano), la pronuncia suddetta, nei punti 77-83, ha ribadito che “quando, come nel caso di specie, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nell’ipotesi in cui vengano nondimeno accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non solo proporzionato, ma anche sufficientemente energico e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro (v., in particolare, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 62 nonché giurisprudenza ivi citata). Seppure, in mancanza di una specifica disciplina dell’Unione in materia, le modalità di applicazione di tali norme spettino all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in forza del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere però meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna (principio
di equivalenza) né rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) (v., in particolare, sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 63 nonché giurisprudenza ivi citata). Da ciò discende che, quando si è verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso e cancellare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione (sentenza Fiamingo e a., EU:C:2014:2044, punto 64 nonché giurisprudenza ivi citata). A tale proposito, occorre ricordare che, come sottolineato ripetutamente dalla Corte, l’accordo quadro non enuncia un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato. Nella pronuncia in esame la Corte ha ribadito che essa “non è competente a pronunciarsi sull’interpretazione delle disposizioni del diritto interno”, in quanto “Spetta … al giudice del rinvio valutare in che misura i presupposti per l’applicazione nonché l’effettiva attuazione delle disposizioni rilevanti del diritto interno costituiscano una misura adeguata per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”. Ma ha poi ricordato che “la Corte, nel pronunciarsi su un rinvio pregiudiziale, può fornire, ove necessario, precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua valutazione”. Proprio al fine di stimolare la Corte di Giustizia a fornire le suddette precisazioni, questo Tribunale solleva la presente questione pregiudiziale. Va chiarito che l’oggetto dei quesiti non investe la valutazione della legittimità o l’illegittimità dei contratti di lavoro protratti dalle Amministrazioni pubbliche oltre i limiti consentiti (questione ormai superata dalla folta giurisprudenza della Corte di Giustizia, da ultimo anche nel settore scolastico con la citata sentenza resa nel caso Mascolo), bensì riguarda soltanto l’individuazione di una concreta misura “dissuasiva”, applicabile nel caso in cui l’abusiva reiterazione dei rapporti a tempo determinato sia avvenuta nel settore pubblico, posto che, nei rapporti di lavoro privato, la normativa nazionale prevede i rimedi che appresso si diranno. 3. Normativa nazionale applicabile: L’art. 117 della Costituzione italiana ha recepito il principio di primazia del diritto dell’Unione europea affermando, nel primo comma, che “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
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Il D.lgs. n. 368/2001, recependo la Direttiva 1999/70/CE, ha delimitato il perimetro della legittimità dei contratti a tempo determinato e, nella versione applicabile ratione temporis al caso di specie, ha “sanzionato” l’abusiva protrazione/reiterazione dei rapporti a termine con la c.d. “conversione” del rapporto di lavoro in rapporto a tempo indeterminato. L’art. 5 del decreto, nel comma 4-bis (introdotto dalla L. 247/07), infatti, così recita: “Ferma restando la disciplina della successione di contratti di cui ai commi precedenti, qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato ai sensi del comma 2. …”. Il comma 2, infatti, stabilisce che “Se il rapporto di lavoro continua oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, nonché decorso il periodo complessivo di cui al comma 4-bis, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini”. In sostanza, il D.lgs. n. 368/2001 stabilisce che, nel caso in cui il dipendente venga impiegato oltre il limite stabilito dal contratto ovvero oltre il limite massimo di 36 mesi, il rapporto si “converte” e diviene a tempo indeterminato. La predetta “conversione”, però, si ritiene applicabile al solo settore di lavoro privato, in quanto nel pubblico impiego vige una disposizione che ha carattere di specialità rispetto alla disciplina anzidetta: l’art. 36 del D.lgs. n. 165/2001. Tale disposizione scaturisce dal dettato dell’art. 97 della Costituzione italiana, che impone alle pubbliche amministrazioni di assumere personale solo a seguito di procedure selettive. Nello specifico, l’art. 36 del D.lgs. n. 165/01, nel primo comma stabilisce che “Per le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato seguendo le procedure di reclutamento previste dall’articolo 35”, e nel comma 5 chiarisce quanto segue: “In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative…”.
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Da un lato, la disposizione predetta esclude la “conversione” del rapporto, ossia il rimedio che nel settore del lavoro privato costituisce il cardine della tutela del lavoratore, dall’altro, essa indica quale rimedio il risarcimento del danno. La locuzione “danno derivante dalla prestazione di lavoro” non deve fuorviare, nel senso che non può essere letta come volta a richiedere l’esistenza e la prova di un nesso di causalità fra lo svolgimento della prestazione e il pregiudizio (come invece viene affermato in talune sentenza italiane). Infatti, nell’ordinamento civile italiano vige il principio della atipicità dell’illecito, per cui, “Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno” (art. 2043 cod. Civ.). L’art. 36 del D.lgs. n. 165/01, cioè, non circoscrive la portata generale della tutela risarcitoria stabilita dalle norme civilistiche e, quindi, la locuzione che identifica il danno come “derivante dalla prestazione di lavoro” non può essere letta come volta ad escludere la risarcibilità di altri danni, scaturiti da diverse cause di matrice dolosa o colposa. Altra disposizione nazionale rilevante al fine di risolvere la questione in oggetto è l’art. 32 comma 5° della L. 183/2010: “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”. Con tale disposizione il legislatore nazionale ha voluto evitare che un fattore aleatorio, come la durata del processo per l’accertamento dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, possa incidere sulla misura del danno risarcibile. Si tratta cioè di un emolumento volto a dare ristoro per la perdita delle retribuzioni che sarebbero maturate nell’arco di tempo compreso fra la scadenza del termine apposto al contratto e la pronuncia di accoglimento del giudice. Va da subito evidenziato che, conformemente a tale ratio, nel settore di lavoro privato l’indennità in esame si applica “in aggiunta” alla conversione del rapporto lavorativo. Ciò scaturisce non solo dal tenore testuale della norma (che esordisce con la locuzione: “nei casi di conversione”), ma pure dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 303/2011 (“l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del rapporto è la protezione più intensa che possa essere riconosciuta ad un lavoratore precario”). In sostanza, l’indennità di cui all’art. 32 della L. 183/2010 non sostituisce il rapporto lavorativo (che viene riconosciuto mediante una tutela “reale”, ossia
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attraverso il meccanismo di conversione, di cui sopra), ma sostituisce solo le retribuzioni che sarebbero state percepite nelle more dell’accertamento delle ragioni del lavoratore. 4. Sintesi della questione: La necessità di adire la Corte di Giustizia scaturisce da una recente pronuncia resa dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite, con sent. n. 5072/2016. Con essa la corte nazionale ha ritenuto di dare corretta e puntuale esecuzione alle istruzioni impartite dall’Ordinamento Comunitario, in particolare dalle sentenze Marrosu del 2006 e Mascolo del 2014, le quali hanno sancito la possibilità per gli Stati Membri di adottare forme di tutela diverse dalla “conversione” del rapporto lavorativo, lasciando agli Stati membri una certa discrezionalità di scelta. Fra la soluzione “in natura” (la conversione del rapporto previa disapplicazione dell’art. 36 del D.lgs. n. 165/01) e quella “per equivalente”, la Corte di cassazione ha chiaramente mostrato di preferire la seconda. Le perplessità sollevate dallo scrivente nascono dal fatto che la pronuncia in esame ha quantificato l’emolumento da attribuire al privato danneggiato con criteri che possono apparire scarsamente incisivi, specie se rapportati alla tutela (ben più intensa) riconosciuta all’Ordinamento nazionale nel settore del lavoro privato. Il complesso di misure che le Sezioni Unite ritengono sufficienti a soddisfare i parametri dettati dalla Corte di Giustizia con la sent. Mascolo (C-22/13) si articola nel seguente modo: 1- Una “responsabilità, anche patrimoniale, del dirigente cui sia ascrivibile l’illegittimo ricorso al contratto a termine”, 2- Un risarcimento del danno che si compone di due elementi: a. Un’indennità forfetaria, attribuita senza che il lavoratore sia chiamato a fornire alcuna prova, da quantificare fra un minimo di 2,5 mensilità e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione (ossia, nell’indennità di cui al citato art. 32 co. 5° L. n. 183/2010 che, come detto, nel lavoro privato viene riconosciuta “in aggiunta” alla conversione del rapporto); b. Un risarcimento per la perdita di chances favorevoli, previo assolvimento di un pesante onere probatorio a carico del lavoratore. Costui deve dimostrare che, se l’Amministrazione avesse regolarmente indetto un concorso, egli sarebbe risultato vincitore o, comunque, che talune possibilità di impiego alternative sono sfumate a causa del rapporto a termine instaurato con l’Amministrazione. Il danno risarcibile, secondo la Corte di cassazione, non riguarda la “mancata conversione del rapporto” né la “perdita del posto di lavoro”. Secondo la Corte di cassazione “il danno è altro” e riguarda la perdita di chance. – Omissis. Riassumendo, la Corte di cassazione afferma che, sebbene il dipendente privato consegua apparentemente “qualcosa di più” rispetto ad al lavoratore
pubblico comparabile, ossia il rapporto lavorativo in natura, questa differenza sarebbe solo fittizia, perché compensata da un’agevolazione probatoria in favore del pubblico dipendente, il quale potrebbe conseguire l’indennità dell’art.32 L. 183/10 senza dover fornire alcuna prova. In realtà, però, allo scrivente sembra che le due situazioni vengano trattate in modo radicalmente diverso e che il lavoratore pubblico (nonostante ciò che afferma la Suprema Corte), sia fortemente penalizzato rispetto al dipendente privato “comparabile”. In estrema sintesi: – Nel settore privato, se il contratto prosegue oltre il limite di 36 mesi, viene riconosciuto (come detto) sia il rapporto in natura (con la conversione) che l’indennità di cui all’art. 32 L. 183/10. Entrambi i benefici vengono attribuiti senza che debba essere fornita alcuna prova in ordine alle conseguenze dell’illecito (basta la prova della violazione del limite dei 36 mesi). – Nel settore pubblico, l’abusiva successione di contratti dà luogo al riconoscimento della sola indennità di cui all’art.32 L. 183/2010, senza attribuzione “automatica” di alcun emolumento che sostituisca il rapporto. Solo laddove il lavoratore provi di aver perduto una migliore opportunità lavorativa (a causa del rapporto a termine instaurato con l’Amministrazione), ovvero, che laddove fosse stato indetto un concorso lo avrebbe vinto, allo stesso spetterà il risarcimento integrale del danno. Bisogna ricordare che la pronuncia resa dalle Sezioni Unite che qui si sta esaminando si prefigge dichiaratamente l’obiettivo di individuare una misura (alternativa alla conversione del rapporto) che la Corte di Giustizia, con le sentenze che hanno definito il caso Mascolo e il caso Marrosu, aveva detto essere compatibile con l’ordinamento dell’Unione europea. Occorre quindi appurare se la soluzione elaborata dalla Corte di cassazione rispetti i (già richiamati) principi di Equivalenza e di Effettività. 5. Osservazioni del giudice remittente: Con riferimento al principio di Effettività, va detto che è meramente teorica la possibilità che il lavoratore provi la perdita di una migliore occasione lavorativa favorevole, ed è addirittura giuridicamente impossibile che provi (sia pure con l’ausilio di presunzioni) l’ipotetica vittoria di un eventuale concorso pubblico (concorso mai concretamente bandito dall’Amministrazione). Sul punto è di esemplare chiarezza l’ordinanza che ha definito il caso Papalia (C-50/2013). La Corte di Giustizia ha già una volta censurato il ragionamento operato dalla Corte di cassazione affermando quanto segue (punti 26 e ss. dell’ordinanza citata): “dalla decisione di rinvio si evince che la normativa interna in questione nel procedimento principale, nell’interpretazione datane dalla Corte suprema di cassazione, pare che imponga che un lavoratore del settore pubblico, quale il sig. Papalia, il quale desideri ottenere il risarcimento del danno sofferto, nell’ipotesi di utilizzo
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abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, non goda di nessuna presunzione d’esistenza di un danno e, di conseguenza, debba dimostrare concretamente il medesimo. Secondo il giudice del rinvio, una prova siffatta, quanto all’interpretazione seguita nell’ordinamento nazionale, richiederebbe che il ricorrente sia in condizioni di provare che il proseguimento del rapporto di lavoro, in base a una successione di contratti a tempo determinato, l’abbia indotto a dover rinunciare a migliori opportunità di impiego. (...) 32 Nel caso di specie, secondo la decisione di rinvio, la prova richiesta in diritto nazionale può rivelarsi difficilissima, se non quasi impossibile da produrre da parte di un lavoratore quale il sig. Papalia. Pertanto, non si può escludere che questa prescrizione sia tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte di questo lavoratore, dei diritti attribuitigli dall’ordinamento dell’Unione, segnatamente, del suo diritto al risarcimento del danno sofferto, a causa dell’utilizzo abusivo, da parte del suo ex datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. 33 Spetta al giudice nazionale procedere alle verifiche del caso. In tale cornice, è suo compito anche esaminare in che misura, ammesso che risultino provate, le affermazioni del governo italiano, richiamate nel punto 27 della presente ordinanza, possano agevolare quest’onere della prova e, di conseguenza, incidere sull’analisi concernente il rispetto del principio di effettività in una controversia quale quella di cui al procedimento principale”. Ebbene, come ha riconosciuto la Corte di Giustizia nella pronuncia di cui sopra, il riconoscimento del diritto al ristoro della perdita di ciance favorevoli, previa dimostrazione di una deminutio sopra delineata, appare essere più apparente che concreto. Peraltro il richiamo alle presunzioni, operato dalla Corte di cassazione con la sentenza 5072/16, non è di alcun ausilio effettivo al danneggiato, in quanto non è chiaro quale dovrebbe essere il “fatto noto” dal quale procedere per risalire al “fatto ignoto” da provare (ossia alla perdita di opportunità lavorative migliori). Va ricordato che, ai sensi dell’art. 2727 cod. civ. “Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”. Se il fatto noto lo si volesse intendere “in astratto”, ossia come la generica attitudine del lavoratore a trovare altri impieghi, alla capacità professionale del lavoratore etc., allora la tesi della Corte di cassazione sfocerebbe necessariamente in un rigetto del risarcimento in quanto appare quantomeno dubbio che in giudizio il danneggiato possa fornire la prova della propria appetibilità sul mercato del lavoro. Anche se il lavoratore tentasse di fornire la detta prova, peraltro, è discutibile che il giudice la possa apprezzare.
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Infatti, la valutazione delle presunzioni non è affidata alla sensibilità del magistrato,ma a precisi indici, come chiarito dall’art. 2729 cod. civ.: “Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”. Quindi, il giudice non può applicare il sillogismo se non dopo aver accertato che il fatto noto esprima una elevata probabilità di esistenza del fatto ignoto (gravità), incompatibile con diverse conclusioni (precisione) e non sconfessata da altre risultanze (concordanza). Applicando queste coordinate al caso di specie, appare puramente teorica la possibilità che un giudice ritenga che il lavoratore, con il proprio curriculum e le proprie capacità professionali, aveva una consistente probabilità di ottenere impieghi alternativi. Al contrario: l’esistenza di un elevato numero di disoccupati (anche con ottimi curricola) e il fatto che il mercato del lavoro segua spesso regole che esulano dalla meritocrazia, sono circostanze che rendono impossibile applicare un sillogismo tale per cui, in relazione alla capacità professionale del soggetto, si possano formulare prognosi circa la sua possibilità di impiego. Se, invece, il fatto noto lo si volesse intendere “in concreto”, interpretando la tesi della Corte Costituzionale nel senso che il lavoratore, per conseguire il risarcimento, debba provare di aver ricevuto tangibili proposte di impiego a tempo indeterminato, e che le abbia dovute rifiutare perché vincolato dagli impegni assunti nei confronti dell’amministrazione, allora il risarcimento del danno menzionato dalla Corte italiana dovrebbe essere comunque negato, in quanto, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., il danneggiato ha il dovere giuridico di limitare il danno e non può pretendere il risarcimento del danno che avrebbe potuto evitare attivandosi diligentemente. In altri termini, il lavoratore che reperisca una concreta ed effettiva possibilità di impiego a tempo indeterminato mentre è impegnato in un rapporto contrattuale a termine con altro datore di lavoro, è tenuto a comportarsi in modo tale da ridurre il più possibile il proprio pregiudizio; egli dovrà, quindi, in primo luogo tentare di mediare fra le diverse esigenze (ad esempio proponendo al proprio datore di lavoro uno scioglimento consensuale e anticipato del rapporto) e, nel caso di insuccesso, ha l’onere di dimettersi dall’impiego a tempo determinato (risarcendo ovviamente il danno causato col proprio recesso anzitempo) e di accettare l’impiego a tempo indeterminato offertogli. Laddove ciò non faccia, e si limiti a rifiutare l’incarico migliore, non potrà poi pretendere di essere risarcito per il danno connesso alla perdita dell’opportunità di lavoro, in quanto tale perdita sarà a lui stesso ascrivibile. Da quanto precede emerge che, nonostante l’apparente alleggerimento dell’onere probatorio mediante il ricorso alle presunzioni, il risarcimento della perdita
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di chances, ossia uno dei due pilastri sui quali poggia la tutela approntata dalla Corte di cassazione, è solo apparente. L’unica forma di tutela effettiva, pertanto, è rappresentata dall’indennità di cui all’art 32 L. 183/2010. Ancor più evidente è l’impossibilità per il lavoratore di provare (come invece ipotizzato dalla Corte nazionale) che, se fosse stato indetto in regolare concorso, questo sarebbe stato vinto. In mancanza di un bando di gara che indichi i requisiti di partecipazione alla selezione, i criteri di scelta, le cause di esclusione, le cause di incompatibilità dell’incarico, appare decisamente impossibile sapere se il lavoratore sarebbe risultato o meno vittorioso. Neppure è possibile risarcire la sola perdita delle chance di vittoria della selezione, perché per misurare queste probabilità occorre almeno conoscere il numero di posti da occupare ed il numero di candidati (per poi risalire alle probabilità che il soggetto aveva di conseguire la vittoria). In sostanza, ogni riferimento contenuto nella sentenza della Corte di cassazione n. 5072/2016 all’eventualità che il lavoratore provi l’esistenza di un danno effettivo, va ignorato in quanto si tratta di affermazioni valide solo sul piano filosofico e teorico, che in concreto non possono portare ad alcuno sbocco risarcitorio per il lavoratore. Pertanto, il solo strumento di tutela che la Corte di cassazione ha riconosciuto al lavoratore vittima di una illegittima protrazione del rapporto oltre il 36° mese è rappresentato dall’indennità compresa fra 2,5 e 12 mensilità della retribuzione. Ciò fa dubitare, innanzitutto, del rispetto del principio di Effettività elaborato dalla Corte di Giustizia. Allo scrivente appare infatti poco verosimile che, per l’Amministrazione, possa avere una valenza dissuasiva la condanna a pagare un importo che può anche arrivare a sfiorare i limiti del risibile (2,5 mensilità di retribuzione). Ma quel che balza agli occhi è la differente intensità della tutela accordata nel settore privato, quindi, la possibile lesione del principio di Equivalenza. Come già detto, nel settore privato il lavoratore (vittima del medesimo abuso) può ottenere il bene “posto di lavoro” e, per ripagarlo della perdita delle retribuzioni durante lo svolgimento del processo, anche l’indennità di cui all’art.32 L. 183/2010. Quest’ultima, cioè, non rappresenta l’elemento fondamentale del rimedio, ma è di mero contorno, perché sostituisce solo il prezzo dell’attesa, come ha evidenziato la Corte Costituzionale con la già citata sentenza n. 303/2011. Nessuna prova deve essere fornita dal lavoratore privato il quale, dopo aver dimostrato il superamento del limite dei 36 mesi, ha diritto senz’altro all’applicazione di entrambe le misure suddette. È veramente difficile comprendere l’affermazione della Corte di cassazione secondo la quale, queste
tutele sarebbero Equivalenti a quelle riconosciuta nel settore pubblico. La sola misura (concreta) applicata in tale contesto, infatti, è l’indennità dell’art. 32 L. 183/2010, ossia, quella che nel lavoro privato rappresentava un quid pluris (verrebbe da dire: “la glassa sulla torta”). La misura coniata dalla Corte italiana s’incentra sul profilo marginale e nega la sostanza della tutela; questo deficit, secondo la Corte nazionale, dovrebbe essere compensato dall’esonero per il lavoratore pubblico da ogni onere probatorio, ma in realtà, come si è detto, anche nel lavoro privato vi è analogo esonero dalla prova, quindi, non è chiaro quale sia il vantaggio attribuito nel settore pubblico che valga a compensare la perdita del posto di lavoro. Se non si individua un beneficio “sostitutivo”, si dovrebbe necessariamente ritenere che le due tutele non siano “Equivalenti” fra di loro. Posto che, se l’Ordinamento nazionale intende predisporre nel settore privato un rimedio diverso dalla conversione del rapporto può farlo, ma ha l’obbligo di introdurre diverse misure che “non devono essere ... meno favorevoli di quelle che riguardano situazioni analoghe di natura interna”, (come ha chiarito la Corte di Giustizia nei casi Mascolo e Marrosu), allora è evidente che l’attribuzione al lavoratore pubblico della sola indennità di cui all’art. 32 L. 183/2010 esprime senza dubbio una tutela “meno favorevole” di quella predisposta nel lavoro privato. A parere dello scrivente l’errore di fondo ravvisabile nella sentenza resa dalla Corte di cassazione col n. 5072/2016 sta nel metodo logico seguito: la Corte ha sviluppato un ragionamento che prendeva le mosse dal diritto interno, raggiungendo la conclusione (condivisibile) che, secondo i parametri del diritto nazionale, al dipendente pubblico non possa essere erogato un risarcimento che tenga luogo del valore del posto di lavoro, perché per il diritto nazionale quel posto di lavoro non sarebbe mai spettato al dipendente, che non ha mai superato alcun concorso. Secondo il diritto nazionale, “il danno è altro”, come afferma (correttamente) la Corte in due punti della sentenza del 2016. Tuttavia, poiché la predetta conclusione avrebbe violato palesemente le istruzioni impartite dall’Unione europea, la Corte nazionale ha dovuto operare una forzatura delle norme interne e ha quindi cercato di attribuire un minimo di tutela anche al dipendente pubblico. Nel tentativo di limitare al massimo la forzatura del diritto italiano, la Corte di cassazione ha concentrato l’attenzione sull’elemento accessorio della tutela predisposta nel settore privato (l’indennità volta a ripagare il lavoratore per l’attesa del riconoscimento delle sue ragioni), anziché su quello principale (l’attribuzione del posto di lavoro) e ha cercato di esaltare i caratteri dell’emolumento economico attribuito in modo eccessivo (addirittura facendo apparire come agevolazioni per il lavoratore pubblico quegli esoneri probatori che, in realtà, sono riconosciuti anche al la-
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voratore privato). La Corte, in ultimo, ha mostrato di lasciare teoricamente aperta la possibilità che il dipendente consegua un pieno ristoro del danno, salvo poi subordinare tale evenienza a un onere probatorio di fatto impossibile da raggiungere. Piuttosto, a parere dello scrivente, l’iter logico da seguire è diametralmente opposto: occorre partire dall’obiettivo indicato dall’Ordinamento dell’Unione europea, la quale ha indicato un punto di arrivo ben preciso lasciando ai giudici nazionali il compito di scegliere il modo di raggiungerlo: l’intensità della tutela nei vari settori deve essere “Equivalente”; quindi, se nel settore privato è stata disposta la costituzione forzosa di un rapporto a tempo indeterminato, in quello pubblico, se non si vuole estendere la medesima tutela, devono essere introdotte misure che “non devono essere tuttavia meno favorevoli”. Movendo da tale premessa, se lo scrivente ha correttamente inteso il significato delle pronunce della Corte di Giustizia sopra menzionate, il parametro per individuare la misura applicabile nel settore dell’impiego pubblico va desunta da quelle in vigore nel settore privato, quantomeno con riferimento al grado di intensità della tutela. Se quindi nel settore privato è stato previsto che il lavoratore che abbia subito l’abuso ha diritto a conseguire in natura il bene “posto di lavoro a tempo indeterminato” senza dover provare alcun pregiudizio, nel settore pubblico, laddove l’Ordinamento nazionale scelga di non applicare la misura suddetta, dovrà essere elaborato uno strumento alternativo per attribuire al privato la stessa utilità del bene “posto di lavoro a tempo indeterminato”, anche in questo caso senza alcun onere probatorio. In dettaglio, se l’Ordinamento sceglie una tutela di matrice risarcitoria, il risarcimento non potrà che avere ad oggetto il valore del posto di lavoro a tempo indeterminato. Se queste coordinate sono corrette, allora diviene errata l’affermazione cardinale della pronuncia della Corte di cassazione del 2016 (“il danno è altro”): il danno, nel caso di specie, deve essere esattamente pari al valore di quel posto di lavoro che nel settore privato tale posto di lavoro sarebbe stato attribuito in natura. Non importa il fatto che il lavoratore non aveva diritto all’assunzione perché non aveva superato il concorso: la fonte del risarcimento non va ricercata nel principio del “danno effettivo” (che vige nell’ordinamento civile nazionale), ma nel fatto che, in situazioni analoghe, nel settore privato l’ordinamento italiano ha scelto di attribuire in natura il bene “assunzione a tempo indeterminato”, quindi, dovendo prevedere per il dipendente pubblico misure che “non devono essere tuttavia meno favorevoli”, l’emolumento non potrà che avere ad oggetto il valore economico del posto di lavoro negato. La fonte del rimedio, in sostanza, non va ri-
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cercata nel diritto nazionale, ma in quello dell’Unione europea. È ovvio che, così ragionando, si deroga a tutti i parametri conosciuti nel diritto civile italiano perché si finisce per configurare una vera e propria sanzione civile che è del tutto svincolata dal principio del “danno effettivo”. Ma questa conclusione non deve sconvolgere: il principio di primazia dell’Ordinamento dell’Unione europea impone agli Stati membri di superare i propri dogmi (anche i più radicati, come quello della matrice riparatoria e non sanzionatoria del risarcimento del danno) al fine di raggiungere gli obiettivi indicati dall’Unione. Del resto, anche nel settore del lavoro privato il D.lgs. n. 268/2001 ha derogato a taluni principi cardinali del diritto civile per dare spazio alla tutela del lavoratore vittima dell’abuso, come richiesto dalla direttiva 1999/70/CE. Il principio di “autonomia negoziale”, infatti, consente ad un soggetto di prestare o di non prestare il proprio consenso alla stipulazione di un contratto. Nel settore imprenditoriale, poi, il detto principio è rafforzato dall’art. 41 della Costituzione il quale afferma che “L’iniziativa economica privata è libera”. In altri termini, l’imprenditore privato sarebbe stato libero di assumere o di non assumere il lavoratore a propria discrezione. Quindi, anche il dipendente vittima dell’abusiva protrazione del rapporto a termine, nel settore privato, non avrebbe avuto diritto ad ottenere il posto di lavoro. Ciononostante, il legislatore italiano, ravvisata la necessità di proteggere il lavoratore privato (come imposto dalla Direttiva comunitaria del 1999 e dall’art. 4 della Costituzione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”), è intervenuto a tutela del dipendente vittima dell’abuso sacrificando sia la portata dell’art. 41 della Costituzione che quella del principio di “autonomia negoziale”, ossia imponendo al datore di lavoro privato la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (che lo stesso non avrebbe voluto instaurare), e addossandogli l’obbligo di erogare al lavoratore la retribuzione fino alla cessazione naturale del rapporto (di regola, fino al raggiungimento dell’età pensionabile del dipendente). Se questa è stata la reazione dell’ordinamento nel settore privato, e se il principio di Effettività impone allo Stato membro di attivarsi per raggiungere un analogo risultato nel lavoro pubblico, ogni eventuale intralcio che impedisca il raggiungimento della “Equiparazione” deve essere superato in via interpretativa o, al limite, con a disapplicazione da parte della magistratura nazionale delle norme ostative (ciò per il principio di primazia del diritto comunitario, recepito dall’art. 117 della Costituzione italiana).
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Quindi, veramente non si comprende il perché nel settore pubblico il principio del “danno effettivo” e quello del concorso pubblico debbano rappresentare ostacoli insormontabili, tali da rendere impossibile l’attribuzione al lavoratore di un emolumento economico che sostituisca il rapporto. In altri termini, a parere dello scrivente è errato affermare (come fa la Corte di cassazione) che, siccome il lavoratore nel settore pubblico non aveva diritto al posto di lavoro, perché non aveva superato il concorso, allora non può essere applicata né la conversione del rapporto, né il risarcimento del danno commisurato al valore del posto di lavoro. Ragionando in questi termini, cioè, pure nel settore privato al lavoratore dovrebbe essere negata la conversione del rapporto in quanto il datore di lavoro non ha mai espresso alcuna volontà di assumere quel dipendente e, considerata la protezione costituzionale delle scelte imprenditoriali (art. 41 Cost.), l’Ordinamento nazionale non avrebbe potuto introdurre alcuna misura che obbligasse l’azienda ad incrementare il proprio organico. Invece, l’Ordinamento italiano ha inteso proteggere il lavoratore vittima dell’abuso erodendo la portata dei suddetti diritti dell’imprenditore. L’erosione del principio di autonomia negoziale e della protezione costituzionale delle scelte imprenditoriali è stata possibile grazie all’art. 4 della Costituzione e dall’Ordinamento comunitario, che impone alla Repubblica di proteggere il lavoratore. Ma allora, considerato che anche il dipendente pubblico gode della medesima protezione costituzionale, l’Ordinamento interno avrebbe dovuto seguire la stessa logica applicata nel settore privato (per il principio di Equivalenza di matrice comunitaria), erodendo la portata del principio del danno effettivo e riconoscendo al lavoratore l’attribuzione di un emolumento che esprimesse il valore del posto di lavoro. Il fatto che non vi sia stato un intervento del legislatore italiano è irrilevante: gli obiettivi dell’Unione europea possono essere perseguiti con qualsiasi mezzo e da qualsiasi autorità nazionale (com’è noto, per l’Unione è irrilevante che la misura venga coniata dal legislatore nazionale, ovvero, dalla giurisprudenza dello Stato membro; la sola cosa che rileva è il raggiungimento della finalità indicata). Posto che il Parlamento italiano non ha legiferato in alcun modo in ordine alla questione in oggetto, la magistratura italiana è chiamata ad realizzare quelle forzature interpretative che sono necessarie per recepire le istruzioni impartite dalla Corte di Giustizia europea, eventualmente finendo per disapplicare le norme nazionali che fungono da ostacolo, anche laddove queste ultime abbiano il rango di norme costituzionali. Pertanto, non è possibile invocare il principio del danno effettivo per negare il ristoro al dipendente vittima dell’abuso, perché la fonte del danno da risarcire non è il pregiudizio da costui effettivamente patito,
ma il fatto che l’Unione abbia richiesto di adottare al lavoro pubblico misure analoghe a quelle applicate nel settore privato al “lavoratore comparabile”. Così come per il dipendente privato (che non aveva il diritto di essere assunto) è stato coniato dal legislatore il “diritto alla conversione forzosa del rapporto” (sacrificando il diritto dell’imprenditore a gestire la propria azienda protetto dall’art. 41 Cost.), allo stesso modo per il dipendente pubblico deve essere necessariamente coniato (eventualmente dalla giurisprudenza nazionale) il diritto a conseguire il valore del rapporto, sacrificando quei dogmi tradizionali che impedirebbero di raggiungere tale conclusione (il principio del danno effettivo). La sola alternativa, laddove lo Stato italiano volesse mantenere fermo il principio del “danno effettivo”, sarebbe quella di disapplicare l’art. 36 del D.lgs. n. 165/01, estendendo anche al settore pubblico la conversione del rapporto. In questo modo, però, verrebbe sacrificato il principio dell’accesso per concorso al pubblico impiego. Non si tratta di una soluzione inattuabile, perché va ricordato che anche le norme costituzionali interne soffrono il principio di primazia del diritto comunitario. Piuttosto è un problema di opportunità “politica” della scelta. Taluni giudici italiani (ad es. il Tribunale di Napoli) hanno optato per il sacrificio del principio del concorso pubblico (quindi, hanno pronunciato la conversione del rapporto). Altri Tribunali hanno invece preferito mantenere fermo il principio costituzionale sacrificando il dogma del danno effettivo, quindi, hanno coniato un risarcimento di matrice sanzionatoria quantificando l’importo del ristoro al valore del posto di lavoro a tempo indeterminato. Sarebbe stato preferibile che il legislatore italiano fosse intervenuto sulla questione (che, come detto, investe profili di opportunità “politica”). Nel silenzio dello stesso, però, la magistratura è chiamata a curare il rispetto degli obiettivi comunitari mediante il c.d. “controllo diffuso” ad opera dei singoli giudici. La necessità di adire la Corte di Giustizia europea con la presente ordinanza nasce dal fatto che, dalla sentenza emessa dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite nel 2016, che presumibilmente verrà recepita dalla magistratura di merito, scaturisce una “terza via” che, sul piano del diritto interno, riesce a non sacrificare né il principio del pubblico concorso né il dogma del danno effettivo (in quanto non applica né la conversione del rapporto né l’attribuzione per equivalente del posto di lavoro). Appare invece discutibile che la detta pronuncia rappresenti una effettiva applicazione delle istruzioni impartite dalla Corte di Giustizia europea, quindi, è necessario adire quest’ultima per verificare se e in che misura i principi di Equivalenza ed Effettività di cui alle pronunce sopra citate siano stati applicati.
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In conclusione, a parere dello scrivente, le uniche soluzioni possibili (nel silenzio del legislatore), per tutelare il lavoratore pubblico nel medesimo modo in cui in Italia si è scelto di tutelare il dipendente privato vittima di un’abusiva reiterazione del rapporto a termine sono le seguenti: 1- Forzare la nozione di “risarcimento del danno” e attribuire al lavoratore pubblico, senza prova di alcuna deminutio, il valore economico del posto di lavoro negatogli; 2- Disapplicare il divieto di conversione di cui all’art. 36 D.lgs. n. 165/012 (e l’art 97 Cost. che ne rappresenta l’antecedente logico) estendendo anche nel pubblico impiego la c.d. conversione del rapporto a seguito dell’abuso, ossia, attribuire anche lavoratore pubblico il posto di lavoro in natura. Se tale premessa è corretta, allora, avendo l’Ordinamento nazionale scelto la prima soluzione (come emerge non solo dal testo dell’art. 36 D.lgs.n. 165/01, ma pure dalla giurisprudenza della Corte di cassazione), la misura dissuasiva applicabile nel settore pubblico non può che essere rappresentata dal valore in termini economici del posto di lavoro a tempo indeterminato. 6. Quesiti: Il Tribunale di Trapani, in persona dello scrivente, solleva questione di pregiudizialità invitando la Corte di Giustizia dell’Unione europea a fornire le “precisazioni dirette a guidare il giudice nazionale nella sua valutazione” menzionate nella sentenza emessa nel corso della causa C-22/2013 e cause riunite (Casa Mascolo), quindi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, a pronunciarsi sui seguenti quesiti: 1) Se rappresenti misura Equivalente ed Effettiva, nel senso di cui alle pronunce della Corte di Giustizia Mascolo (C-22/13 e riunite) e Marrosu (C-53/04), l’attribuzione di una indennità compresa fra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione (art. 32 co. 5° L. 183/2010) al dipendente pubblico, vittima di un’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, con la possibilità per costui di conseguire l’integrale ristoro del danno solo provando la perdita di altre opportunità lavorative oppure provando che, se fosse stato bandito un regolare concorso, questo sarebbe stato vinto. 2) Se, il principio di Equivalenza menzionato dalla Corte di Giustizia (fra l’altro) nelle dette pronunce, vada inteso nel senso che, laddove lo Stato membro decida di non applicare al settore pubblico la conversione del rapporto li lavoro (riconosciuta nel settore privato), questi sia tenuto comunque a garantire al lavoratore la medesima utilità, eventualmente mediante un risarcimento del danno che abbia necessariamente ad oggetto il valore del posto di lavoro a tempo indeterminato. – Omissis. (2) Omissis. A) Con ricorso ex art. 409 c.p.c. depositato il 31 luglio 2015, iscritto al n. 8364/2015 R.G.L.
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gli epigrafati ricorrenti hanno adito questo Tribunale, in funzione di Giudice del Lavoro, chiedendo, in via principale di: a) accertare e dichiarare il diritto dei ricorrenti alla riqualificazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato, con le stesse mansioni e livello di inquadramento, a far tempo dalla data del compimento del 36° mese di lavoro alle dipendenze dell’ente convenuto, con le decorrenze e per tutti i motivi di cui alla narrativa del presente atto; b) per l’effetto, accertare e dichiarare che tra l’Istituto resistente e i ricorrenti intercorreva un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato a far tempo dal superamento del 36° mese di lavoro con mansioni equivalenti fino al momento del recesso inefficace alla data del 30 aprile 2014. Omissis. c) in conseguenza, dichiarare inefficaci i recessi intimati dall’Istituto a ciascuno dei ricorrenti alla data del 30 aprile 2015 senza forma scritta per formale cessazione del rapporto a tempo determinato, nonostante la già avvenuta trasformazione dei contratti a tempo determinato successivi in singoli contratti a tempo indeterminato, e condannare il convenuto Istituto, in persona del legale rappresentante pro tempore, alla reintegrazione nel posto di lavoro dei ricorrenti (…) ex art. 18, commi 1 e 2, l. 300/70, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, con il pagamento di un’indennità risarcitoria quantificata nella misura della retribuzione globale medio tempore maturata dal momento dei singoli inefficaci recessi fino a quello della reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione. In via subordinata, i ricorrenti chiedevano il ristoro dei danni subiti per gli illegittimi recessi, ex art.36, comma 5, D.Lgs. n. 165/2001, da quantificarsi in via equitativa attraverso l’applicazione analogica dell’art. 18, commi 4 e 5, L. 300/1970, in una somma corrispondente a 20 o 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre agli accessori come per legge (o, nella diversa, maggiore o minore, misura ritenuta equa e di giustizia), nonché alla corresponsione a ciascuno dei ricorrenti delle maggiorazioni previste dall’art.5, comma 1, d.lgs. n. 368/2001 a decorrere dal 1° giorno successivo alla maturazione dei 36 mesi di servizio con mansioni equivalenti e fino alla data – 30 aprile 2015 – di cessazione definitiva dei rapporti, oltre accessori come per legge sulle predette differenze retributive; con condanna, in ogni caso, dell’Istituto resistente alla refusione delle spese e competenze del giudizio, con distrazione. Omissis. C) I ricorrenti, dunque, – poiché, in virtù dei su richiamati contratti, hanno prestato servizio a tempo determinato in favore dell’Istituto Zooprofilattico
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Sperimentale per la Puglia e la Basilicata con contratti successivi tutti legittimi, dopo aver superato selezione pubblica, e per più di 36 mesi maturati alle date indicate per ciascuno di essi nelle conclusioni del ricorso introduttivo, svolgendo mansioni equivalenti – hanno chiesto, in via principale, il riconoscimento del diritto a che il loro rapporto di lavoro sia considerato a tempo indeterminato, ai sensi dell’art. 5, comma 4-bis (e comma 2, in combinato disposto, ai fini della decorrenza), del D.Lgs. n. 368/2001, così come previsto dalla clausola 5, n. 2, dell’accordo quadro comunitario sul contratto a tempo determinato, recepito nella Direttiva 1999/70/CE, di cui il D.Lgs. n. 368/2001 è disciplina nazionale attuativa giusta legge delega comunitaria n. 422/2000, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro da cui sarebbero stati illegittimamente estromessi alla cessazione dell’ultimo contratto a tempo determinato, avvenuta per tutti alla data del 30 aprile 2015. D) A fondamento della domanda di riqualificazione a tempo indeterminato dei rapporti a termine successivi al superamento del 36° mese di servizio anche non continuativo con mansioni equivalenti, i ricorrenti hanno evidenziato che l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata è un Ente Sanitario di Diritto Pubblico, sottoposto alla vigilanza del Ministero della Salute e dotato di autonomia amministrativa, gestionale e tecnica, cioè un’Azienda sanitaria che la Corte costituzionale con l’ordinanza n. 49/2013, richiamando l’ordinanza n. 2031/2008 della Cassazione a Sezioni unite e la sentenza n. 5924/2004 del Consiglio di Stato, ha qualificato come Ente pubblico economico, in quanto tale non rientrante nel campo di applicazione dell’art.36 D.Lgs. n. 165/2001, riservato soltanto alle amministrazioni pubbliche “non economiche”, richiamando in tal senso il punto 14 della sentenza n. 4685/2015 della Cassazione a Sezioni unite. D1) In ogni caso, secondo i ricorrenti, sulla base delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, in particolare dall’ordinanza Affatato (causa C-3/10, punto 48), dall’ordinanza Papalia (causa C-50/13, conclusioni) e, soprattutto, dalla sentenza Mascolo (cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13 e C-418/13, punto 55), il diritto alla riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti a termine ai sensi dell’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. © 368/2001 andrebbe riconosciuto, a prescindere dalla natura pubblica del datore di lavoro e dalla sua qualificazione come Ente pubblico economico, in virtù della primazia del diritto comunitario, come interpretato dalla Corte di Lussemburgo, applicando le stesse norme interne “sanzionatorie” dell’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato previste per i datori di lavoro privati, che recepiscono correttamente la direttiva 1999/70/CE, nel contempo disapplicando le norme che impediscono la tutela effettiva, cioè l’art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, D.Lgs. n. 165/2001
nonché, per il personale sanitario del Servizio sanitario nazionale, l’art. 10, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001. E) In data 7 marzo 2016 si è costituito l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Puglia e della Basilicata, per il tramite del funzionario ai sensi dell’art. bis c.p.c., chiedendo l’integrale rigetto delle domande dei ricorrenti, sia quelle principali che quelle subordinate. E1) In particolare, secondo l’Istituto resistente, la Corte costituzionale con la sentenza n. 89/2003 e le sentenze Marrosu-Sardino e Vassallo della Corte di giustizia (cause C-54/04 e C-180/04), queste ultime intervenute proprio su fattispecie di abusivo ricorso a contratti a tempo determinato nell’ambito di un’azienda sanitaria, riconoscerebbero legittimo il divieto di conversione posto dall’art.36, comma 5, D.Lgs. n. 165/2001 per tutto il pubblico impiego, compreso quello sanitario, e che il divieto di stabilizzazione nelle aziende sanitarie è peraltro confermato dall’art. 10, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001, introdotto dall’art.4, comma 5, del D.L. “Balduzzi” n. 158/2012 (inserito in sede di conversione del D.L. dalla legge n. 189/2012 con decorrenza dall’11 novembre 2012), e attualmente dall’art.29, comma 2, lett.c), D.Lgs. n. 81/2015. Per quanto riguarda la domanda subordinata di risarcimento dei danni, secondo l’IZS la Cassazione con le sentenze n. 392/2012 e n. 27363/2014 porrebbero a carico del lavoratore l’onere di provare i danni subiti per l’illegittimo ricorso al contratto a tempo determinato da parte delle pubbliche amministrazioni, onere che, nella fattispecie di causa, i ricorrenti non avrebbero assolto. F) All’udienza del 12 ottobre 2016 gli attori, come da processo verbale, hanno chiesto a questo giudice di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art.36, commi 5, 5-ter e 5-quater, D.Lgs. n. 165/2001, nonché dell’art.10, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001 e dell’art.29, comma 2, lett. c), D.Lgs. n. 81/2015, nella parte in cui non consentono la costituzione a tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni del personale sanitario del Servizio sanitario nazionale che, assunti a tempo determinato sulla base di legittime procedure selettive, hanno superato i 36 mesi di servizio anche non continuativo con mansioni equivalenti presso la stessa azienda sanitaria ai sensi dell’art.5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, per violazione degli artt. 3 e 117, comma 1, Cost. La normativa interna sui contratti a tempo determinato nel settore sanitario pubblico – Inadempimento alla direttiva 1999/70/CE – Sentenza N. 187/2016 della Corte costituzionale 1. Preliminarmente, non è contestato dall’Istituto resistente ed è documentato in atti che tutti i ricorrenti sono stati assunti a tempo determinato attraverso regolari procedure selettive pubbliche e hanno tutti superato i 36 mesi di servizio anche non continuativi con mansioni equivalenti presso l’IZS, alle decorrenze precisate nelle conclusioni del ricorso introduttivo. Sulle
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conseguenze dell’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato, una volta superata la clausola di durata massima complessiva di cui all’art.5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, vi è palese contrasto tra le domande degli attori e le tesi difensive del datore pubblico convenuto. 2. Le parti ricorrenti, dopo la sentenza n. 187/2016 e le contestuali ordinanze nn. 194-195/2016 della Corte costituzionale, ritengono che l’incidente di costituzionalità sollevato davanti al Giudice delle leggi costituisca l’unica possibilità per consentire a questo giudice di applicare nel giudizio principale la misura adeguata della trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine successivi al superamento dei 36 mesi di servizio anche continuativi (l’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001: cfr. Cass., 27363/14; sentenza Mascolo, punto 55) in caso di abusi nella successione dei contratti a tempo determinato nei confronti del personale sanitario del Servizio sanitario nazionale, rimuovendo con la declaratoria di incostituzionalità le norme interne [art.36, commi 5, 5-ter e 5-quater, d.lgs. n. 165/2001; art. 10, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001; art. 29, comma 2, lett. c), d.lgs. n. 81/2015], che impedirebbero ogni forma di tutela sanzionatoria in caso di abuso nella successione dei contratti a tempo determinato per questa particolare categoria di lavoratori del settore pubblico. 3. La questione di legittimità costituzionale proposta dalle parti ricorrenti è motivata sulla base delle argomentazioni con cui la sentenza n. 187/2016 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124/1999, accogliendo nei limiti di cui alla motivazione le ordinanze dei Tribunali di Roma (ordinanze nn. 143 e 144/2012 Reg.ord.) e Lamezia Terme (ordinanze nn. 248 e 249/2012 Reg.ord.), cioè sulla incompatibilità con la disciplina Ue del sistema di reclutamento scolastico, prima della legge n. 107/2015, dopo la sentenza Mascolo della Corte di giustizia. 4. In effetti, la Corte costituzionale ha così evidenziato al punto 18.1 della motivazione della sentenza n. 187/2016, con specifico riferimento alla stabilizzazione dei docenti precari: «Per i docenti, si è scelta la strada della loro stabilizzazione con il piano straordinario destinato alla «copertura di tutti i posti comuni e di sostegno dell’organico di diritto». Esso è volto a garantire all’intera massa di docenti precari la possibilità di fruire di un accesso privilegiato al pubblico impiego fino al totale scorrimento delle graduatorie ad esaurimento, secondo quanto previsto dal comma 109 dell’art. 1 della legge n. 107 del 2015, permettendo loro di ottenere la stabilizzazione grazie o a meri automatismi (le graduatorie) ovvero a selezioni blande (concorsi riservati). In tal modo vengono attribuite serie e indiscutibili chances di immissione in ruolo a tutto il personale interessato, secondo una delle alternative espressamente prese in considerazione dalla
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Corte di giustizia. La scelta è più lungimirante rispetto a quella del risarcimento, che avrebbe lasciato il sistema scolastico nell’attuale incertezza organizzativa e il personale in uno stato di provvisorietà perenne; una scelta che – va sottolineato – richiede uno sforzo organizzativo e finanziario estremamente impegnativo e che comporta un’attuazione invero peculiare di un principio basilare del pubblico impiego (l’accesso con concorso pubblico), volto a garantire non solo l’imparzialità ma anche l’efficienza dell’amministrazione (art. 97 Cost.).». 5. Rispetto alle azioni esperite nei giudizi principali pendenti davanti ai giudici rimettenti (Tribunali di Roma e di Lamezia Terme) dai docenti e personale ata precari che avevano superato i 36 mesi di servizio anche non continuativi nella scuola pubblica, la Corte costituzionale al punto 12 della sentenza n. 187/2016 chiarisce anche la “natura” delle domande proposte dai lavoratori, riqualificandole in azioni di risarcimento danni per inadempimento dello Stato italiano alla direttiva 1999/70/CE per tutto il precariato scolastico, su cui peraltro pendeva la procedura di infrazione n. 2010/2124 della Commissione Ue, archiviata soltanto dopo le misure di stabilizzazione di tutti i docenti precari introdotte dalla legge n. 107/2015. 6. Le misure di stabilizzazione di tutti i docenti precari introdotte dalla legge n. 107/2015 sono state utilizzate dal Giudice delle leggi per affermare, in mancanza di altro meccanismo sanzionatorio per l’inoperatività ex lege dell’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, che la stabilizzazione generale del personale precario scolastico è la misura più adeguata a rimuovere gli effetti dell’illecito comunitario, accertato dalla Corte di giustizia con la sentenza Mascolo: «In tal modo, tuttavia, essa non dà risposta alla questione della necessità o meno del riconoscimento del diritto al risarcimento in capo ai soggetti che abbiano subito un danno a seguito dell’inadempimento dello Stato italiano, questione che costituisce l’oggetto reale dei giudizi a quibus». 7. Questo giudice ritiene che la questione di legittimità costituzionale, nei termini in cui è stata proposta dalle parti ricorrenti, sia non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione della controversia, perché consente di individuare la sanzione “adeguata” della riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato successivi alle condizioni di cui all’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, applicabile ratione temporis alle fattispecie di causa prima della abrogazione con l’art.55, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 81/2015, rimuovendo con la declaratoria di incostituzionalità gli effetti ostativi alla tutela effettiva delle norme interne che impediscono l’operatività della sanzione più efficace a rimuovere l’illecito comunitario, con la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze della pubblica amministrazione resistente.
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8. Del resto, emerge dall’ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 207/2013 della Corte costituzionale che il Giudice delle leggi aveva ben chiara l’assoluta mancanza di misure preventive e sanzionatorie in caso di utilizzo abusivo delle supplenze scolastiche e quindi la mancata applicazione della clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE nei confronti del personale docente e ata della scuola statale assunto a termine ai sensi dell’art.4 della legge n. 124/1999. 9. Tuttavia, la Corte costituzionale, come appare nella motivazione dell’ordinanza n. 206/2013 della Consulta, non poteva rimuovere con la sola declaratoria di illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124/1999 sul reclutamento scolastico la situazione di incompatibilità con la direttiva 1999/70/CE, non essendo state sottoposte a scrutinio di costituzionalità le ulteriori norme che impedivano il riconoscimento della tutela richiesta anche nel presente giudizio (art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001), cioè l’art.4, comma 14-bis, della legge n. 124/1999 e l’art. 10, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001. 10. In effetti, la Corte costituzionale nella sentenza n. 187/2016 ha sottolineato che la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza Mascolo si è limitata per il precariato scolastico a dichiarare l’incompatibilità con «la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato» di una «normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, che autorizzi, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo qualsiasi possibilità, per tali docenti e detto personale, di ottenere il risarcimento del danno eventualmente subito a causa di un siffatto rinnovo». 11. La Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza Mascolo non ha risposto, perché assorbiti, agli ulteriori quesiti proposti dal Tribunale di Napoli nelle ordinanze di rinvio pregiudiziale Mascolo C-22/13, Forni C-61/13 e Racca C-62/13 sull’applicazione del principio di uguaglianza e non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e sull’applicazione dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. 12. Tuttavia, per il precariato pubblico non scolastico la Corte di giustizia nella sentenza Mascolo, nel risolvere con l’irricevibilità l’ordinanza pregiudiziale proposta dal Tribunale di Napoli per un’educatrice di asilo comunale per aveva superato i 36 mesi di servi-
zio anche non continuativi presso il datore di lavoro pubblico (causa Russo C-63/13), ha fornito al giudice del rinvio anche una chiarissima indicazione su quale possa essere la misura effettiva ed “energica” idonea a prevenire e, se del caso, sanzionare gli abusi nella successione dei contratti a tempo determinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, individuandola (perché individuata dal legislatore interno) proprio nell’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001 (sentenza Mascolo, punto 55; già ordinanza Affatato, punto 48), con la cui applicazione lo Stato italiano si adegua al principio di leale cooperazione con le Istituzioni europee di cui all’art. 4, punto 3, del Trattato dell’Unione europea TUE (sentenza Mascolo, punti 59-61). 13. Quindi, seguendo l’argomentazione sul punto della sentenza della Corte europea, il Giudice nazionale sarebbe tenuto a dare effettività alla tutela dei lavoratori pubblici a tempo determinato applicando le disposizioni di diritto nazionale volte a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione non scolastica, a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, in particolare l’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001, con la trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine successive che abbiano superato i 36 mesi di servizio anche non continuativi alle dipendenze del datore di lavoro pubblico, sanzione espressamente ritenuta adeguata ed applicabile nell’ordinamento interno, seppure con un obiter dictum, dalla Suprema Corte di cassazione (sentenza n. 27363/2014, che richiama l’ordinanza Papalia del 12 dicembre 2013 della Corte di giustizia). 14. La Corte costituzionale, del resto, nelle due ordinanze nn. 194 e 195 del 2016, sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Trento identiche, sostanzialmente, a quelle dei Tribunali di Roma e Lamezia Terme, ha evidenziato che «i princìpi enunciati dalla Corte di giustizia, riguardo a norme oggetto di giudizio di legittimità costituzionale, si inseriscono direttamente nell’ordinamento interno con il valore di ius superveniens, condizionando e determinando i limiti in cui quelle norme conservano efficacia e devono essere applicate anche da parte del giudice a quo (ordinanze n. 80 del 2015, n. 124 del 2012 e n. 216 del 2011)». 15. Se ne dovrebbe dedurre, in conseguenza, che anche le indicazioni sull’adeguatezza della misura della riqualificazione dei contratti a tempo determinato successivi al superamento dei 36 mesi per rimuovere l’illecito comunitario nel pubblico impiego non scolastico costituisca «ius superveniens», nella lettura combinata dell’ordinanza Affatato (punto 48) e della sentenza Mascolo (punto 55) della Corte di giustizia, nonchè della sentenza n. 187/2016 e delle due contestuali ordinanze nn. 194 e 195 del 2016 della Corte costituzionale. 16. Nessun dubbio, in ogni caso, che l’art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 368/2001, su cui si intende richiedere
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lo scrutinio di costituzionalità, potrebbe essere agevolmente rimosso dal giudice nazionale con la disapplicazione o non applicazione della detta norma interna ostativa, dal momento che anche questa disposizione è stata dichiarata incompatibile con la direttiva 1999/70/ CE dall’ordinanza Papalia della Corte di giustizia Ue del 12 dicembre 2013 in causa C-50/13, con le seguenti conclusioni che vanno considerate, alla luce della recentissima giurisprudenza costituzionale innanzi richiamata, «ius superveniens»: «L’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretato nel senso che esso osta ai provvedimenti previsti da una normativa nazionale, quale quella oggetto del procedimento principale, la quale, nell’ipotesi di utilizzo abusivo, da parte di un datore di lavoro pubblico, di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, preveda soltanto il diritto, per il lavoratore interessato, di ottenere il risarcimento del danno che egli reputi di aver sofferto a causa di ciò, restando esclusa qualsiasi trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, quando il diritto a detto risarcimento è subordinato all’obbligo, gravante su detto lavoratore, di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall’ordinamento dell’Unione. Spetta al giudice del rinvio valutare in che misura le disposizioni di diritto nazionale volte a sanzionare il ricorso abusivo, da parte della pubblica amministrazione, a una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato siano conformi a questi principi.». 17. Peraltro, la Corte di giustizia con la recente sentenza Martínez Andrés e Castrejana López del 14 settembre 2016 (cause riunite C-184/15 e C-197/15), in una delle quali (causa C-184/15 Martínez Andrés) si controverteva di precariato pubblico sanitario nell’ordinamento spagnolo, in una causa in cui la lavoratrice aveva chiesto la reintegrazione nel posto di lavoro come sanzione contro l’abusivo ricorso a 13 contratti a termine successivi per 32 mesi continuativi di servizio, ha evidenziato l’equiparazione sanzionatoria tra settore pubblico e settore privato, così concludendo: «1) La clausola 5, paragrafo 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, siglato il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che osta a che una normativa nazionale, quale quella di cui ai procedimenti principali, sia applicata dai giudici nazionali dello Stato membro interessato in modo che, in caso di utiliz-
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zo abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, il diritto alla conservazione del rapporto di lavoro è accordato alle persone assunte dall’amministrazione mediante un contratto di lavoro soggetto a normativa del lavoro di natura privatistica, ma non è riconosciuto, in generale, al personale assunto da tale amministrazione in regime di diritto pubblico, a meno che non esista un’altra misura efficace nell’ordinamento giuridico nazionale per sanzionare tali abusi nei confronti dei lavoratori, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare. 2) Le disposizioni dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato che figura in allegato alla direttiva 1999/70, lette in combinato disposto con il principio di effettività, devono essere interpretate nel senso che esse ostano a norme processuali nazionali che obbligano il lavoratore a tempo determinato a intentare una nuova azione per la determinazione della sanzione adeguata, quando un’autorità giudiziaria abbia accertato un ricorso abusivo a una successione di contratti a tempo determinato, in quanto ciò comporterebbe per tale lavoratore inconvenienti processuali, in termini, segnatamente, di costo, durata e regole di rappresentanza, tali da rendere eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti che gli sono conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione.». 18. Quindi, sul piano teorico, questo giudice dovrebbe essere in grado di assicurare la tutela adeguata, effettiva ed equivalente richiesta nel presente giudizio, ricorrendo allo strumento della disapplicazione o non applicazione delle norme interne ostative all’applicazione della sanzione della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la p.a. sanitaria, ai sensi dell’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001. 19. In realtà, le stesse norme ostative alla tutela riqualificatoria, su cui viene nelle note difensive di parte ricorrente ora sollecitato l’incidente di costituzionalità, non sono disapplicabili o non applicabili da questo giudice almeno rispetto alle situazioni soggettive di quattro dei cinque ricorrenti, in quanto legate ratione temporis alle fattispecie concrete dedotte in giudizio in guisa tale da impedire “preventivamente” il diritto alla riqualificazione a tempo indeterminato dei contratti a termine successivi. 20. Infatti, soltanto per il ricorrente Ferrara Alfredo le norme ostative alla riqualificazione a tempo indeterminato – art.10, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001 e art. 36, commi 5-ter e 5-quater, D.Lgs. n. 165/2001 – sono entrate in vigore successivamente al superamento del 36° mese di lavoro con mansioni equivalenti (1° settembre 2010), mentre per gli altri quattro ricorrenti l’efficacia della normativa antitutela è precedente alla maturazione del diritto alla stabilità lavorativa per il superamento della clausola di durata (per Dell’Oro Daniela dal 1° febbraio 2014; per Iammarino Marco dal 1° febbraio 2014; per Marchesani Giuliana dal 1° febbraio 2014; per Tarallo Marina dal 1° febbraio 2014).
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21. Né questo giudice può ignorare l’autorevole sentenza n. 5072/2016 del 15 marzo 2016, con cui la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni, proprio nella fattispecie di abusivo ricorso a contratti a tempo determinato “successivi” dei due cuochi Marrosu e Sardino ha escluso la sanzione della conversione a tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato “abusivi” del pubblico impiego sia in caso di apposizione illecita del termine contrattuale per mancanza delle ragioni oggettive ai sensi dell’art.1, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 368/2001 sia nel caso di superamento della clausola di durata dei 36 mesi o delle altre violazioni dell’art.5, commi 2, 3 e 4, D.Lgs. n. 368/2001 sulla successione dei contratti, richiamando la declaratoria di infondatezza dell’art.36, comma 2 (ora comma 5), D.Lgs. n. 165/2001 enunciata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 89/2003 e la necessità di concorsi pubblici per essere stabilmente inseriti nell’organico delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art.97, comma 4 (già comma 3), Cost. 22. Né si può superare la decisione delle Sezioni unite del 2016, come evidenziato dalle parti ricorrenti, evidenziando la natura di ente pubblico economico delle aziende sanitarie e la conseguente inapplicabilità dell’art.36 D.Lgs. n. 165/2001 e del divieto di conversione nel pubblico impiego “tradizionale”, cioè non svolgente attività economica in forma imprenditoriale (come potrebbe ricavarsi dal combinato disposto dell’ordinanza n. 49/2013 della Corte costituzionale e della sentenza n. 4685/2015 delle Sezioni unite, seguendo l’iter argomentativo del ricorso introduttivo). 23. Infatti, come è testuale nell’art. 70, comma 8, 1° capoverso, D.Lgs. n. 165/2001 che al personale supplente scolastico si applica tutta la normativa del testo unico sul pubblico impiego, compreso l’art. 36 comma 5 sul divieto di conversione dei contratti flessibili (cfr. sentenza Mascolo della Corte di giustizia, punti 12-13), le stesse disposizioni si applicano anche quando si controverte del rapporto delle «aziende e enti del Servizio sanitario nazionale», come letteralmente disposto dall’art.1, comma 2, dello stesso D.Lgs. n. 165/2001 (cfr. sentenza Marrosu-Sardino della Corte di giustizia, punto 15; ordinanza Affatato della Corte europea, punti 11 e 16). 24. Non sarebbe, quindi, consentito a questo giudice prescindere dal decisum in subiecta materia delle Sezioni unite su identica fattispecie di abusivo ricorso al contratto a tempo determinato di dipendenti precari di azienda sanitaria. 25. Inoltre, la soluzione adottata dalla Corte costituzionale per il precariato pubblico scolastico con la sentenza n. 187/2016 e con l’ordinanza n. 194/2016 non può essere agevolmente mutuata nei casi di abusivo ricorso alla successione dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego non scolastico, come nel caso di specie.
26. Infatti, sia la Corte costituzionale in più occasioni (ordinanza n. 251/2002; ordinanza n. 207/2013; sentenza n. 41/2011; sentenza n. 146/2016) sia la Corte di cassazione (Sez. lav., sentenza n. 10127/2012; SS.UU., sentenza n. 5072/2016) hanno sottolineato la specialità (e la legittimità, almeno fino alla sentenza n. 187/2016 del Giudice delle leggi) del sistema di reclutamento scolastico sia a tempo determinato che a tempo indeterminato del personale docente ed ata, e tale specialità rende di problematica applicazione lo sforzo interpretativo di estendere agli altri settori pubblici non scolastici le sanzioni antiabusive individuate dalla Corte costituzionale per il settore scolastico. 27. Tuttavia, da un lato non si può non rilevare che anche nella sentenza n. 5072/2016 delle Sezioni unite si ponga sostanzialmente un problema di inadempimento alla direttiva 1999/70/CE da parte del legislatore per assenza di una specifica sanzione antiabusiva idonea a rimuovere l’illecito comunitario assicurando le condizioni previste dalla giurisprudenza comunitaria sull’adeguatezza sanzionatoria nel settore pubblico (tra cui l’equivalenza rispetto a quella garantita nel settore privato) e che la stessa decisione della Suprema Corte nel suo massimo Consesso si sia posta il problema della non manifesta infondatezza e rilevanza della questione di legittimità costituzionale delle norme ostative alla tutela effettiva. 28. Dall’altro, la sentenza Martínez Andrés e Castrejana López della Corte di giustizia sembra togliere alla decisione delle Sezioni unite la condizione di soluzione definitiva della sanzione energica, effettiva, equivalente, dissuasiva, preventiva in caso di abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego, nella parte in cui detta sanzione è stata limitata al risarcimento del danno “comunitario”di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010, nella sola misura dell’indennità onnicomprensiva da 2,5 a 12 mensilità di retribuzione e con esclusione della conversione a tempo indeterminato, pure prevista dalla norma sanzionatoria applicabile ai lavoratori precari privati. 29. Inoltre, proprio alla luce della sentenza Martínez Andrés e Castrejana López della Corte di giustizia non poco rilievo può avere l’ordinanza del 5 settembre 2016 in causa C-494/16 Santoro contro Comune di Valderice e Presidenza del Consiglio dei Ministri, con cui il Tribunale di Trapani, in evidente contrasto logico e argomentativo con la soluzione del danno comunitario enunciata dalle Sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 5072/2016, ha sollevato due nuove questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia Ue proprio sul principio di equivalenza e di effettività della sanzione solo indennitaria dell’art.32, comma 5, della legge n. 183/2010, individuata dalla Suprema Corte come misura “energica”: – Omissis. 30. Anche nel giudizio principale in cui sono state sollevate le nuove questioni pregiudiziali Ue dal Tribu-
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nale di Trapani si controverte sulla domanda di riqualificazione a tempo indeterminato di rapporti di lavoro a termine successivi di durata superiore a 3 anni con lo stesso datore di lavoro pubblico (Comune di Valderice), fondata sull’inadempimento alla direttiva 1999/70/ CE dello Stato italiano. 31. Pertanto, appare necessario ricorrere all’incidente di costituzionalità che anche le Sezioni unite nella sentenza n. 5072/2016 avevano ipotizzato come ammissibile. 32. Infatti, la contestuale pendenza di giudizi o pregiudiziale davanti alla Corte di Lussemburgo sulla stessa problematica non esclude (anzi rafforza, potendosi trovare la soluzione definitiva all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale) la facoltà (per questo giudice la necessità) di sollevare l’incidente di costituzionalità. La questione di legittimità costituzionale – Le norme interne su cui si solleva l’incidente di costituzionalità. 33. Come già dedotto dalle parti costituite nei rispettivi atti difensivi, l’art. 10, comma 3-ter, D.Lgs. n. 368/2001 (in vigore dall’11 novembre 2012 al 25 giugno 2015) già impediva ex lege l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, prima ancora che per quattro dei cinque ricorrenti (personale sanitario del SSN) maturassero i requisiti di servizio previsti per l’applicazione degli effetti del superamento della clausola di durata, senza però prevedere alcuna altra misura idonea a sanzionare l’abusivo ricorso ai contratti a tempo determinato nel pubblico impiego sanitario. 34. Inoltre, al di là della già acclarata incompatibilità comunitaria dell’art.36, comma 5, D.Lgs. n. 165/2001, alla luce dello «ius superveniens» dell’ordinanza Papalia della Corte di giustizia, il legislatore nazionale con l’art. 4 del d.l. 31 agosto 2013, n. 101 (convertito con modificazioni dalla legge n. 125/2013) ha modificato l’art.36 D.lgs. n. 165/2001, inserendo due norme – il comma 5-ter e il comma 5-quater – che impediscono apertis verbis ogni tutela effettiva anche risarcitoria in caso di abuso nella successione dei contratti a termine in tutto il pubblico impiego, compreso quello sanitario. 35. Nello stesso articolo – art. 36, D.lgs. n. 165/2001 – in due commi è stata prevista l’applicazione del D.lgs. n. 368/2001 anche per i contratti a tempo determinato del personale pubblico, il comma 2 (con decorrenza dal 25 giugno 2008, in quanto introdotto dall’art. 49, comma 1, del D.L. n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla legge n. 133/2008) e ora anche il comma 5-ter . 36. Tuttavia, la impossibilità di trasformazione in contratto a tempo indeterminato nell’ipotesi di cui all’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001, derivante dall’art.36, comma 5-ter, TUPI, e la sanzione –prevista dall’art. 36, comma 5-quater, D.Lgs. n. 165/2001 – della nullità assoluta dei contratti a tempo determinato sti-
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pulati in violazione dell’art. 36, comma 2, TUPI, cioè per mancanza delle esigenze «esclusivamente temporanee o eccezionali» che giustificano l’apposizione del termine contrattuale, comporta la conseguenza, già evidenziata dalla Corte costituzionale nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale n. 207/2013 per il precariato scolastico e poi dalla Corte di giustizia sia nella sentenza Mascolo sia nella sentenza Martínez Andrés e Castrejana López, che l’ordinamento interno non prevede nessuna misura idonea a prevenire gli abusi in caso di successione di contratti a tempo determinato per quanto riguarda tutto il pubblico impiego, compreso quello sanitario del SSN. 37. Con la formulazione dell’attuale comma 5-quater dell’art. 36, d.lgs. n. 165/2001 se il lavoratore pubblico precario ha chiesto la tutela giudiziaria e l’applicazione della sanzione di cui all’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001, come nella fattispecie di causa, non ha diritto né alla costituzione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro originariamente a termine al superamento dei 36 mesi di servizio anche non continuativi (art.10, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001 e art. 36, comma 5-ter, d.lgs. n. 165/2001) né al risarcimento dei danni (art. 36, comma 5-quater, d.lgs. n. 165/2001). 38. In conseguenza, i legittimi contratti a tempo determinato diventano “nulli” per il semplice fatto di aver chiesto la tutela al Giudice del lavoro, come nel caso dei ricorrenti, che, anche per il periodo dal1° settembre 2013 fino alla definitiva dei rispettivi rapporti di lavoro a tempo determinato avvenuta per tutti alla data del 30 aprile 2015, hanno sostenuto nel ricorso introduttivo di aver sopperito a carenze strutturali di organico dell’Istituto resistente, con il paradosso che la mancanza di ragioni oggettive temporanee precluderebbe anche gli effetti giuridici di contratti di lavoro a tempo determinato formalmente legittimi, perché stipulati sulla base di procedure selettive pubbliche. 39. Per quanto il dato normativo non abbia incidenza sulle fattispecie di causa, tutte cessate al 30 aprile 2015 prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015, inoltre, il legislatore nazionale con l’art. 29, commi 2, lett. c) e 4, del d.lgs. n. 81/2015 ha confermato l’applicabilità formale (oltre che sostanziale) del (solo) art.36 d.lgs. n. 165/2001 alle pubbliche amministrazioni sanitarie, togliendo anche ogni riferimento a discipline interne attuative della direttiva 1999/70/Ce per tutti i lavoratori a tempo determinato di questo settore del pubblico impiego, confermando così la scelta di non applicare nessuna delle tutele minime previste dalla direttiva dell’Unione europea. 40. Con l’abrogazione del d.lgs. n. 368/2001 è stato privato di contenuto regolativo anche l’art. 36 d.lgs. n. 65/2001, in quanto continua ad applicarsi a tutti i dipendenti a tempo determinato delle pubbliche amministrazioni il predetto art.36 d.lgs. n. 65/2001, che però è svuotato del suo contenuto disciplinare dal momento che il d.lgs. n. 368/2001, richiamato espressamente nel
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comma 2 e nel comma 5 ter dello stesso art. 36, è stato soppresso dall’art. 55, c. 1, lett. b), d.lgs. n. 81/2015, rimanendo così operativa solo la disposizione sulla legittimazione all’uso dei contratti a tempo determinato esclusivamente per esigenze temporanee o eccezionali (art.36, comma 2, d.lgs. n. 165/2001) e la mancanza di qualsiasi sanzione effettiva in caso di abuso nella successione contrattuale (art. 36, commi 5, 5 ter e 5 quater, d.lgs. n. 65/2001). I parametri costituzionali violati: 41. Le norme ostative –– art.10, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001; art. 36, commi 5, 5-ter e 5-quater, D.Lgs. n. 165/2001 – al riconoscimento del diritto alla trasformazione a tempo indeterminato richiesto nel presente giudizio al superamento dei 36 mesi di servizio anche non continuativi con mansioni equivalenti, oltre a violare la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, recepito dalla direttiva 1999/70/CE, in relazione anche alla disparità di trattamento rispetto a situazioni analoghe, nella fattispecie di causa rileva la violazione del principio di non discriminazione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili, tutelato dalla clausola 4, n. 1, dello stesso accordo quadro, perché la cessazione ingiustificata dei singoli rapporti a tempo determinato dopo il superamento dei 36 mesi di servizio con lo stesso datore di lavoro pubblico equivale a tutti gli effetti ad un licenziamento, trattandosi di dipendente a tempo determinato “abitualmente” e illegittimamente impiegato per supplire a carenze strutturali di organico (per analogia, sulle condizioni di impiego al momento della cessazione del rapporto di lavoro, v. Corte di giustizia Ue, sentenza Diego Porras del 14 settembre 2016 in causa C-596/14, conclusioni; sentenza Pérez López del 14 settembre 2016 in causa C-16/15, punto 67). 42. Quindi, sussiste la violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., in relazione alla violazione delle clausole 4, n. 1, e 5, nn. 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, come interpretate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia Ue in particolare nella sentenza Mascolo e come applicata dalla Corte costituzionale come “ius superveniens” sia con la sentenza n. 260/2015 sia con la sentenza n. 187/2016. 43. Questo giudice ritiene che sia stato violato anche l’art. 3 Cost. e il principio di uguaglianza e non discriminazione, sia rispetto ai lavoratori privati cui si applica integralmente la sanzione dell’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001 rispetto ai dipendenti preca-
ri pubblici delle Fondazioni lirico-sinfoniche (sentenza n. 260/2015 della Corte costituzionale), che hanno avuto riconosciuto il diritto alla stabilità lavorativa a seguito della indicata pronuncia del Giudice delle leggi, nel dialogo diretto con la Corte di giustizia Ue. 44. Risultano violati anche gli artt. 4, 24, 35, comma 1, 97, comma 4, 101, comma 2, 104 comma 1, 111 comma 2 Cost., sempre in relazione all’art. 117, comma 1, Cost. e all’attuazione degli obblighi derivanti dai vincoli comunitari, con particolare riferimento, oltre che alla direttiva 1999/70/CE, all’art. 4, comma 3, del Trattato dell’Unione europea T.U.E., perché lo Stato italiano aveva già rappresentato nella causa Affatato C-3/10 alla Corte di giustizia Ue (v. osservazioni scritte del Governo italiano, punto 60, in Rass. Avv. Stato, n. 2, aprile-giugno 2010, pagg. 126-127) che l’art. 5, comma 4-bis, D.Lgs. n. 368/2001 veniva integralmente applicato anche a tutto il pubblico impiego, compreso quello sanitario. 45. La stessa Corte comunitaria nell’ordinanza Affatato aveva attestato l’adeguatezza di tale misura sanzionatoria interna (punto 48, nonchè sentenza Mascolo, punto 55). 46 Sotto questo profilo, sia l’art. 10, comma 4-ter, D.Lgs. n. 368/2001 che l’art. 36, commi 5-ter e 5-quater, D.Lgs. n. 165/2001 sono norme che violano il giusto processo e i principi della parità delle armi e dell’affidamento dei consociati nella sicurezza giuridica e le attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria, impedendo di applicare la tutela effettiva della stabilità lavorativa e così realizzando una grave violazione degli obblighi comunitari e del principio di leale cooperazione con le Istituzioni europee. 47. Di qui la necessità di proporre la questione di legittimità costituzionale, nei termini di cui in motivazione e nel seguente dispositivo. 48. Infatti, questo giudice ritiene che la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme ostative alla stabilità lavorativa, nella sostanziale impossibilità di operare l’interpretazione conforme costituzionalmente e comunitariamente orientata o della disapplicazione o non applicazione della disciplina antitutela, sarebbe una soluzione di gran lunga preferibile e più coerente con i poteri del giudice nazionale in un ordinamento di diritto civile a Costituzione rigida e già garantista nei rimedi interni in caso di violazione di diritti fondamentali, come nella fattispecie di causa. – Omissis.
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Le conseguenze dell’abuso del contratto di lavoro a tempo determinato da parte delle P.A.: la parola fine è ancora molto lontana Sommario : 1. I due casi concreti. – 2. L’abuso del contratto a termine da parte delle P.A. – 3. Gli eterogenei indirizzi giurisprudenziali. – 4. La soluzione delle sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 5072/2016). – 5. Le ordinanze dei Tribunali di Trapani e Foggia. – 6. Conclusioni.
Sinossi. Il contributo ripercorre l’evoluzione giurisprudenziale in tema di illegittima utilizzazione di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte delle amministrazioni pubbliche. L’intervento nomofilattico delle sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, come previsto da molti esponenti della dottrina, non si è rivelato definitivo: sulla questione sono state nuovamente chiamate in causa dai giudici di merito la Corte di Giustizia UE e la Corte Costituzionale.
1. I due casi concreti. Le pronunce dei Tribunali di Trapani e Foggia affrontano uno degli aspetti più complessi, discussi e tormentati del pubblico impiego contrattualizzato, vale a dire le conseguenze dell’illegittimo ricorso ai rapporti di lavoro a tempo determinato da parte delle amministrazioni pubbliche. La controversia sottoposta al giudice del lavoro trapanese è attivata da una dipendente di un ente locale, assunta con contratto di lavoro a tempo determinato, più volte prorogato per un complessivo periodo di oltre cinque anni; il giudice del lavoro foggiano, invece, viene adito da quattro dipendenti di un ente del comparto sanitario, che avevano superato per effetto di successione di rapporti di lavoro a termine il limite dei trentasei mesi. In entrambi i casi i ricorrenti rivendicano la costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’amministrazione, o, in subordine, il risarcimento dei danni derivanti dall’abusiva utilizzazione di rapporti di lavoro a tempo determinato.
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2. L’abuso del contratto a termine da parte delle P.A. La norma di riferimento in materia è l’art. 36, comma 5 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, secondo cui la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni. Il comma prosegue riconoscendo al lavoratore interessato il diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro espletata in violazione delle disposizioni imperative1. Tale disciplina differenziata rispetto al rapporto di lavoro privato, ove è prevista la conversione a tempo indeterminato in caso di violazione delle norme imperative, è stata sottoposta nel corso degli anni sia al vaglio di compatibilità costituzionale, sia a quello di compatibilità comunitaria. Per quanto concerne il primo, il Tribunale di Pisa, con un’ordinanza del 20022, aveva ritenuto la previsione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 in contrasto con gli articoli 3 (per la palese disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e lavoratori privati, in quanto preclude ai primi, nel caso di violazione delle norme imperative sul lavoro a termine, la tutela rappresentata dalla conversione del rapporto) e 97 (per violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, in quanto l’eliminazione di ogni residua forma di precariato consentirebbe al datore di lavoro pubblico di potersi avvalere di professionalità più motivate, in ragione della stabilità delle funzioni attribuite) della Costituzione. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 89 del 20033, ha ritenuto la questione non fondata, evidenziando il fondamentale principio in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97 Cost. Le argomentazioni del Tribunale di Pisa, che muovono dal presupposto della piena e completa assimilazione del lavoro pubblico a quello privato a seguito dell’avvenuta contrattualizzazione del primo, sono state, quindi, disattese dalla Consulta, che ha giustificato la previsione di conseguenze a carattere esclusivamente risarcitorio per il caso di violazione delle norme imperative sul lavoro a termine nell’impiego pubblico sulla base della differente disciplina del “procedimento costitutivo” che caratterizza i due rapporti. Per quanto concerne la compatibilità comunitaria, il Tribunale di Genova, con un’interessante ordinanza del 20044, aveva rimesso alla Corte di Giustizia europea la questione della conformità alla dir. n. 99/70/CE della disciplina dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 ed
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Tra i numerosi contributi cfr.: Preteroti, Il contratto a termine nel lavoro pubblico: in particolare il regime sanzionatorio, in ADL, 2005, 851; Garofalo, Quale risarcimento al dipendente pubblico per contratti a termine illegittimi?, in LG, 2007, 1097; Ciucciovino, L’idoneità dell’art.36, d. lgs. n. 165/2001, a prevenire l’abuso del contratto a termine da parte della pubblica amministrazione, in RIDL, 2012, II, 144; Chirone, Quale tutela per i precari del pubblico impiego? Spunti per una riflessione, in RGL, 2012, I, 735. 2 Trib. Pisa, ord. 7 agosto 2002, in D&L, 2002, 885, con nota di Civitelli, in DLM, 2003, 115, con nota di Santucci. 3 C. cost., 27 marzo 2003, n. 89, in LG, 2003, 831, con nota di Sciortino; in GI, 2004, 19, con nota di Mezzacapo; in GC, 2004, I, 2901, con nota di Menegatti. 4 Trib. Genova, ord. 22 gennaio 2004, in LPA, 2004, 693, con nota di Zappalà; in LG, 2004, 889, con nota di Costantino.
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in particolare del meccanismo sanzionatorio limitato al solo risarcimento del danno con esclusione della conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato. La Corte di giustizia si è pronunciata nel settembre 20065, affermando che la normativa italiana, che prevede il risarcimento del danno subito dal lavoratore a seguito del ricorso abusivo della pubblica amministrazione a una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato, è conforme alla dir. n. 99/70/CE. Tuttavia, spetta al giudice italiano valutare in quale misura le condizioni di applicazione, nonché l’attuazione effettiva, dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di una successione di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte della pubblica amministrazione. La Corte di giustizia ha ribadito tali conclusioni nel 20106 e nel 20137, precisando in quest’ultima occasione che la conseguenza risarcitoria è misura conforme al diritto europeo a condizione che la prova da addurre per ottenere il ristoro non renda impossibile o eccessivamente difficoltosa la tutela del lavoratore. Come è stato sinteticamente ed efficacemente evidenziato, la conclusione che si può trarre dalle pronunce dei giudici di Lussemburgo è che “l’adeguatezza della misura italiana vigente per il settore pubblico non è un dato apodittico, ma è da dimostrare”8.
3. Gli eterogenei indirizzi giurisprudenziali. I giudici di merito sono stati, quindi, chiamati a risolvere la non facile questione loro rimandata dalla Corte europea9. Deve, anzitutto, segnalarsi un indirizzo minoritario inaugurato da una sentenza del Tribunale di Siena del 201010, che, facendo leva sul principio di non discriminazione tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato, ha ritenuto la sanzione del risarcimento non sufficiente a prevenire gli abusi, in quanto priva di effettività, proporzionalità,
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Cfr.: C. giust., 7 settembre 2006, n. 53/04, Marrosu, in RIDL, 2006, II, 714, con nota di Nannipieri; in ADL, 2006, 1632, con nota di Miscione; in FI, 2007, IV, 72, con nota di Perrino; C. giust., 7 settembre 2006, n. 180/04, Vassallo, in LPA, 2006, 913, con nota di Santini; in RGL, 2006, II, 602, con nota di Gabriele; in DRI, 2007, 302, con nota di Cosio. Ampi riferimenti a tali pronunce si rinvengono nei seguenti contributi: Menghini, Il lavoro a termine nelle P.A. dopo le recenti innovazioni legislative e le sentenze della Corte di Giustizia, in LPA, 2006, 1105; De angelis, Il contratto di lavoro a termine nelle pubbliche amministrazioni alla luce della giurisprudenza comunitaria: spunti di riflessione, in FI, 2007, IV, 344. 6 C. giust., 1 ottobre 2010, n. 3/10, Affatato, in D&L, 2010, 956, con nota di Zampieri; in RIDL, 2011, II, 859, con nota di Borzaga. 7 C. giust., 12 dicembre 2013, n. 50/13, Papalia, in LPA, 2013, 1023, con nota di Cimino; in FI, 2014, IV, 69, con nota di Perrino; in RGL, 2014, II, 242, con nota di Nunin. 8 Scarascia, La successione anomala dei contratti a termine nel settore pubblico dopo le sentenze comunitarie del 2006, in lexitalia.it, n. 11/2006. 9 Cfr.: Marcianò, Lavoro a termine come terreno di confronto tra lavoro privato e lavoro pubblico, in LG, 2008, 867; Vettor, Il lavoro a tempo determinato negli orientamenti della giurisprudenza post D.lgs. n. 368 del 2001 e successive modifiche, in ADL, 2008, 617; Zampieri, Lo stato dell’arte sull’abuso del contratto a termine nel pubblico impiego contrattualizzato, in D&L, 2010, 957; De luca, Diritti di lavoratori flessibili, anche alle dipendenze di amministrazioni pubbliche: patrimonio costituzionale comune versus declino delle garanzie, in LPA, 2013, 941. 10 Trib. Siena, 27 settembre 2010, in LG, 2010, 1107, con nota di De Michele; in D&L, 2010, 1104, con nota di Gabigliani; in DRI, 2011, 471, con nota di Saracini.
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dissuasività ed equivalenza, disapplicando l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 e condannando l’amministrazione alla conversione a tempo indeterminato del contratto a termine nullo11. Tale soluzione suscita notevoli perplessità12 per l’evidente contrasto col principio di rilevanza costituzionale della necessità del pubblico concorso (art. 97 Cost.)13, col dettato dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/200114, nonché con i principi di tutela della programmazione finanziaria, di razionalizzazione e controllo della spesa pubblica. Inoltre, la Corte di Cassazione in più occasioni ha affermato a chiare lettere che nell’area del lavoro pubblico non può operare il principio della trasformazione dei rapporti flessibili in rapporti a tempo indeterminato e, qualora siano state violate norme imperative che regolano i rapporti flessibili, il lavoratore, i cui diritti siano stati lesi, potrà chiedere il risarcimento dei danni subiti15. La giurisprudenza maggioritaria ha, invece, ritenuto preclusa la conversione a tempo indeterminato, ma, in assenza di indicazioni nel testo del citato art. 3616, ha cercato faticosamente di individuare dei parametri per un effettivo risarcimento del danno, adottando molteplici soluzioni: 1) l’applicazione dei meccanismi sanzionatori dell’art.18, commi 4 e 5, della legge 20 maggio 1970, n. 300, unici istituti mediante i quali il legislatore ha monetizzato il posto di lavoro assistito da stabilità reale (quale è quello alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), commisurando il risarcimento del danno al valore minimo (5 mensilità) più la misura sostitutiva della reintegra (15 mensilità)17; 2) l’applicazione del meccanismo sanzionatorio dell’art. 8 della legge 15 giugno 1966, n. 604, più idoneo alle ipotesi di preclusione della prosecuzione del rapporto di lavoro, commisurando il risarcimento ad un importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità18;
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Conformi alla pronuncia della nota precedente: Trib. Siena, 13 dicembre 2010, in RIDL, 2011, II, 374, con nota di Siotto; Trib. Livorno, 25 gennaio 2011, in RGL, 2011, II, 416, con nota di Federici; Trib. Napoli, 16 giugno 2011, in LG, 2011, 697, con nota di De Michele; Trib. Trani, 15 marzo 2012, in FI, 2012, I, 2004, con nota di Perrino; Trib. Urbino, 30 agosto 2012, in www.dirittoscolastico.it. 12 Fiorillo, La stabilizzazione dei precari della scuola pubblica ad opera del giudice del lavoro. Una soluzione che non convince, in RIDL, 2011, II, 555. 13 Cfr.: C. cost., 16 maggio 2002, n. 194, in GDA, 2002, 953, con nota di Zucaro; C. cost., 3 marzo 2006, n. 81, in GCost, 2006, 873, con nota di Filippi; C. cost., 15 gennaio 2010, n. 9, in DRI, 2010, 795, con nota di Cerbone; C. cost., 23 febbraio 2012, n. 30, in GC, 2012, I, 813; C. cost., 30 gennaio 2015, n. 7, in GCost, 2015, 42. 14 Serra, Divieto di conversione dei contratti a termine nel settore pubblico, in LG, 2010, 354. 15 Cfr.: Cass., 15 giugno 2010, n. 14350, in LPA, 2010, 708; Cass., 13 gennaio 2012, n. 392, in RIDL, 2012, II, 138, con nota di Ciucciovino; Cass., 20 giugno 2012, n. 10127, in FI, 2012, I, 2004, con nota di Perrino; Cass., 8 settembre 2014, n. 18855, in RIDL, 2014, II, 455, con nota di Frasca. 16 L’assenza nell’art. 36 del d. lgs. n. 165/2001 di parametri di computo del danno è stata sottolineata da Trib. Rossano, ord. 14 dicembre 2009, in FI, 2010, I, 1656, con nota di Perrino, in LPO, 2010, 3, con nota di Bavasso. 17 Cfr.: Trib. Genova, 14 dicembre 2006, in DLM, 2007, 131, con nota di Sottile; Trib. Genova, 14 maggio 2007, in RIDL, 2007, II, 906, con nota di Tebano; App. Genova, 19 settembre 2008, in GM, 2009, 2973, con nota di Ciriello; App. Genova, 9 gennaio 2009, in RIDL, 2010, II, 133, con nota di Garattoni; Trib. Foggia, 5 novembre 2009, in LG, 2010, 171, con nota di Irmici; Trib. Roma, 28 aprile 2011, in RGL, 2011, II, 595, con nota di Raffi; Trib. L’Aquila, 27 giugno 2012, in LG, 2012, 777, con nota di De Michele. 18 Cfr.: Trib. Viterbo, 4 novembre 2009, in www.dirittoscolastico.it; App. Catanzaro, 1 aprile 2010, in FI, 2010, I, 1931.
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3) la corresponsione dell’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, di cui all’art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 18319; 4) la corresponsione delle retribuzioni maturate nel tempo medio necessario per ricercare una nuova occupazione stabile, tenuto conto di una serie di parametri, quali zona geografica, età, sesso e titolo di studio20; 5) la corresponsione della retribuzione spettante per il periodo compreso tra la messa in mora dell’amministrazione e la pronuncia giurisdizionale21; 6) la corresponsione del trattamento retributivo non erogato nei periodi di intervallo tra i vari contratti a termine intercorsi con l’amministrazione22; 7) la corresponsione della retribuzione spettante per il periodo compreso tra la cessazione del rapporto per effetto della scadenza del termine illegittimo e la naturale cessazione del rapporto al raggiungimento dell’età pensionabile23; 8) il riconoscimento delle maggiorazioni retributive ex art.5, comma 1, del d.lgs. n. 368/2001 per l’intera durata dell’illegittima prosecuzione del rapporto24. Come è stato esattamente osservato25, le soluzioni sopra riportate sono generalmente accomunate dalla riconosciuta esenzione a carico del lavoratore dell’onere di provare quale sia esattamente il danno subito, che può essere sempre identificato nella perdita del posto di lavoro a seguito della violazione di norme imperative sull’assunzione presso le amministrazioni pubbliche. Contrario a tale impostazione è un ulteriore indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale il danno risarcibile enunciato dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 deve derivare dalla prestazione di lavoro svolta in violazione di norme imperative e non è, dunque, il corrispettivo automatico della precarizzazione (o della mancata stabilizzazione) del rapporto26.
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Cfr.: Trib. Treviso, 28 gennaio 2011, in MGL, 2012, 249, con note di Vallebona, Giglio, Salvagni; Trib. Milano, 21 luglio 2014, in LG, 2015, 99. 20 Cfr.: Trib. Rossano, 4 aprile 2007, in GC, 2008, I, 2615, con nota di Mannino; Trib. Rossano, 13 giugno 2007, in MGL, 2008, 166, con nota di Miscione, in RGL, 2008, II, 446, con nota di Saracini (riformata da App. Catanzaro, 1 aprile 2010, cit. alla nota n. 18); Trib. Terni, 2 febbraio 2010, in www.dirittoscolastico.it. 21 Trib. Trapani, 30 gennaio 2007, in LPA, 2007, 1154, con nota di Militello. 22 Cfr.: Trib. Catania, 19 gennaio 2007, in FI, 2008, I, 30, con nota di Vallebona, confermata da App. Catania, 9 gennaio 2012, in FI, 2012, I, 1241; Trib. Sciacca, 3 dicembre 2014, in www.dirittoscolastico.it. 23 Trib. Trapani, 12 dicembre 2012, in ADL, 2014, 743, con nota di Marranca. 24 Cfr.: Trib. Bologna, 26 luglio 2007, in ADL, 2008, 598, con nota di Nanni; Trib. Milano, 25 maggio 2010, in D&L, 2010, 1084, con nota di Tanzarella. 25 Rota, Illegittimità dei contratti a termine nella PA e “originalità” delle soluzioni giurisprudenziali sulla questione della tutela risarcitoria, in D&L, 2010, 462. 26 Cfr.: App. Napoli, 24 febbraio 2010, in FI, 2010, I, 1591; Trib. Napoli, 8 marzo 2010, in D&L, 2010, 510, con nota di Laratta; Trib. Civitavecchia, 8 aprile 2010, in www.dirittoscolastico.it; Trib. Firenze, 27 gennaio 2011, in LG, 2011, 1239, con nota di Menghini; Trib. Trieste, 28 maggio 2011, in lexitalia.it, n. 7-8/2011, con nota di chi scrive.
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Conseguentemente i danni derivanti dalla prestazione resa in virtù di un contratto con termine illegittimamente apposto devono essere allegati e provati. Anche parte della giurisprudenza di legittimità, sulla base di un importante precedente delle sezioni unite del 2006 fedele alle tradizionali regole della responsabilità27, ha negato la configurabilità di un danno in re ipsa, ritenendo necessaria sempre l’allegazione della prova da parte del lavoratore28. Più recentemente si è sviluppato un altro orientamento, che qualifica la fattispecie dell’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 in termini di “danno comunitario”, il cui risarcimento è configurabile quale sanzione ex lege a carico del datore di lavoro pubblico29. Pertanto, il lavoratore deve limitarsi a provare l’illegittima stipulazione di più contratti a termine sulla base di esigenze falsamente indicate come straordinarie e temporanee, restando esonerato dalla prova di un danno effettivamente subito. Anche per quanto concerne la quantificazione del danno da risarcire si sono registrate diverse soluzioni nella giurisprudenza della Cassazione: 1) l’applicazione del meccanismo sanzionatorio dell’art. 8 della l. n. 604/196630; 2) la corresponsione dell’indennità onnicomprensiva di cui all’art. 32, comma 5 della l. n. 183/201031; 3) la corresponsione delle retribuzioni maturate nel tempo necessario per ricercare una nuova occupazione32.
4. La soluzione delle sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 5072/2016).
È stata evidenziata, alla luce della non uniformità degli indirizzi giurisprudenziali riportati e del perdurante silenzio del legislatore, l’ineludibilità di un intervento nomofilattico delle sezioni unite della Suprema Corte33.
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Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572, in FI, 2006, I, 1344, con nota di Perrino e ivi, 2334, con note di Cendon, Ponzanelli; in RGL, 2006, II, 233, con nota di Fabbri; in D&L, 2006, 473, con nota di Huge. Tale pronuncia riguardava i danni da demansionamento o da dequalificazione. 28 Cfr.: Cass., 13 gennaio 2012, n. 392, in RIDL, 2012, II, 138, con nota di Ciucciovino; Cass., 20 giugno 2012, n. 10127, in FI, 2012, I, 2004, con nota di Perrino; Cass., 23 dicembre 2014, n. 27363, in FI, 2015, I, 2859, con nota di Perrino, in RGL, 2015, II, 430, con nota di Raimondi. In quest’ultima pronuncia la Cassazione ha attenuato l’onere probatorio, ammettendo anche l’uso delle presunzioni. 29 Cfr.: Cass., 30 dicembre 2014, n. 27481, in DRI, 2015, 1108, con nota di MARINO, in MGL, 2015, 35, con nota di Franza; Cass., 22 gennaio 2015, n. 1181, in RIDL, 2015, II, 917, con nota di Zampieri; Cass., 23 gennaio 2015, n. 1260, in LG, 2015, 480, con nota di Bavasso; in RGL, 2015, II, 430, con nota di Raimondi. Conforme a tale indirizzo è Trib. Roma, 1 ottobre 2015, in RIDL, 2016, II, 59, con nota di Gadaleta. 30 Cfr. le sentenze citate alla nota precedente. 31 Cass., 21 agosto 2013, n. 19371, in RIDL, 2014, II, 76, con nota di Ales. 32 Cass., 2 dicembre 2013, n. 26951, in RGL, 2014, II, 242, con nota di Nunin. 33 Marino, Il “danno comunitario” da illegittima reiterazione di contratti di lavoro a termine: conforme al diritto dell’Unione?, in DRI, 2015, 1120.
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Tale auspicio è stato fatto proprio dalla sezione lavoro della Cassazione, che ha rimesso alle sezioni unite la decisione sulle questioni descritte in precedenza34. A breve distanza di tempo è stata depositata l’attesa pronuncia delle sezioni unite35, che con un’ampia ed articolata ricostruzione hanno ritenuto compatibile con l’ordinamento dell’Unione europea il regime sanzionatorio predisposto dal legislatore italiano per il ricorso abusivo al contratto a termine da parte delle amministrazioni pubbliche. I tratti salienti della pronuncia possono essere sintetizzati come di seguito: 1) anzitutto, nell’area dell’impiego pubblico la violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori non può comportare la trasformazione dei rapporti flessibili in rapporti a tempo indeterminato; 2) il danno risarcibile ex art. 36 del d. lgs. n. 165/2001 non deriva dalla perdita di un posto di lavoro a tempo indeterminato, non essendo mai sussistita per il dipendente precario tale prospettiva, ma da una prestazione di lavoro svolta in violazione di norme imperative; in altri termini, il pregiudizio sofferto non è la perdita di quello specifico posto di lavoro ottenuto solo per un periodo limitato anziché a tempo indeterminato, ma la perdita di chance di conseguire, con percorso alternativo, l’assunzione mediante concorso nel settore pubblico o la costituzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato con datore di lavoro privato; 3) sotto il profilo probatorio la soluzione del “danno comunitario” con esonero dal relativo onere probatorio è la più conforme alle indicazioni della Corte di Giustizia europea, la quale ha mostrato la sua contrarietà a meccanismi probatori che rendono impossibile o eccessivamente difficoltosa la tutela del lavoratore; 4) la quantificazione del danno viene effettuata attraverso l’applicazione dell’indennità di cui all’art.32, comma 5, della l. n. 183/2010 (disposizione abrogata, ma sostanzialmente riprodotta dall’art.28 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81); 5) al dipendente pubblico rimane, comunque, la possibilità di provare che le chances di lavoro perse, in quanto utilizzato in reiterati contratti a termine non conformi alla legge, si siano tradotte in un danno patrimoniale più elevato. Secondo le sezioni unite la forfettizzazione prevista dal citato art. 32 (tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale), unita all’agevolazione sul versante dell’onere probatorio (nonché alla possibilità di provare i maggiori danni patiti), è idonea a svolgere la funzione sanzionatoria equivalente, effettiva e dissuasiva richiesta dalla giurisprudenza europea.
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Cass. (ord.), 4 agosto 2015, n. 16363, in LPA, 2015, 307, con nota di Allamprese. Cass., sez. un., 15 marzo 2016, n. 5072, in LB, 2016, 248, con nota di Siotto, in NGCC, 2016, 1305, con nota di D’Ascola; in DRI, 2016, 828, con nota di Passalacqua.
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Pur tenendo in debito conto le numerose ed autorevoli critiche espresse36, a modesto (e piuttosto isolato) avviso di chi scrive, deve essere apprezzato il notevole sforzo ricostruttivo ed ermeneutico svolto dalle sezioni unite37 per (tentare di) fissare alcuni punti fermi in una materia caratterizzata dall’assenza di chiari riferimenti normativi e da un quadro giurisprudenziale molto intricato38.
5. Le ordinanze dei Tribunali di Trapani e Foggia. Come previsto dalla dottrina, la pronuncia delle sezioni unite ha dato vita ad un ampio dibattito circa l’equivalenza, l’effettività e la dissuasività della soluzione individuata39. Entrambe le ordinanze in commento non condividono il percorso argomentativo seguito dalla Cassazione nella sentenza n. 5072 del 2016, in quanto ritengono che il danno ex art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001 derivi dalla perdita di un posto di lavoro a tempo indeterminato e, pertanto, il risarcimento deve avere ad oggetto il valore di quel posto. Secondo il giudice del lavoro trapanese la corresponsione dell’indennità di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010 non costituisce una misura risarcitoria avente i caratteri richiesti dalla Corte di Giustizia europea dell’equivalenza tra posizioni lavorative affini e dell’effettività: due fattispecie analoghe (l’una nell’ambito del rapporto di lavoro privato, l’altra in quello di lavoro pubblico contrattualizzato) vengono trattate in modo radicalmente diverso ed il dipendente pubblico è fortemente penalizzato rispetto a quello privato, in quanto non può ottenere né la costituzione del rapporto a tempo indeterminato, ma nemmeno l’integrale ristoro del danno subito. In altri termini, i principi di equivalenza ed effettività risulterebbero frustrati, o fortemente limitati, da una quantificazione del risarcimento al ribasso, quale quella cui si perverrebbe con l’applicazione dell’art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010. Tali conclusioni sono condivise dal giudice del lavoro foggiano, che a sua volta dubita della legittimità costituzionale della disciplina dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in quanto non conforme a diverse disposizioni costituzionali, in particolare agli articoli 3 (violazione del principio di uguaglianza e non discriminazione rispetto ai lavoratori privati
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Cfr.: Cordella, L’abusiva reiterazione dei contratti temporanei, la non conversione nel regime generale del pubblico impiego privatizzato, in LPA, 2015, 681; Coppola, Corte di cassazione, Ss.Uu., sentenza n. 5072/16. Incertezze, dubbi, perplessità, in www. europeanrights.eu, 1/05/2016; Putaturo donati, P.A. e contratti a termine illegittimi: note critiche sul riconoscimento del danno (extra) comunitario, in MGL, 2016, 603; Tosi, Il danno nel rapporto a termine del dipendente pubblico, in GI, 2016, 1177; De Luca, Il giusto risarcimento per illegittima apposizione del termine a contratti privatizzati di pubblico impiego, in LG, 2016, 1053; Trimboli, Reiterazione di contratti a termine nel settore pubblico, in DPL, 2017, 98. 37 Giudizi favorevoli alla sentenza n. 5072 sono stati espressi anche da: Passalacqua, cit. alla nota n. 35, 837; Vallebona, Contratti a termine illegittimi nella p.a.: divieto di conversione e misura del danno, in MGL, 2016, 602. 38 Conformi alla pronuncia delle sezioni unite sono diverse sentenze della sezione lavoro depositate il 7 novembre 2016, tra cui Cass., 7 novembre 2016, n. 22557, in lexitalia.it, n. 11/2016, nonché Trib. Termini Imerse, 18 gennaio 2017, in www.dirittoscolastico.it. 39 Cfr.: Frasca, La quantificazione del “danno comunitario” da illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego nel perdurante silenzio del legislatore, si pronunciano le sezioni unite, in ADL, 2016, 883; Miscione, La fine del precariato pubblico ma non solo per la scuola, in LG, 2016, 747.
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ed ai dipendenti delle fondazioni lirico-sinfoniche40) e 117 (violazione della normativa europea in tema di lavoro a termine, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea), nonché della disposizione di legge (art.10, comma 4-ter del d.lgs. n. 368/2001, riprodotto dall’art.29, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 81/2015), che esclude il personale del settore sanitario dall’applicazione della disciplina sul rapporto di lavoro a tempo determinato. Sul rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea, recentemente la Cassazione ha affermato l’infondatezza delle argomentazioni del Tribunale di Trapani, in quanto utilizzano quale parametro del risarcimento del danno il valore del posto di lavoro a tempo indeterminato, presupponendo un evento (la conversione del rapporto) in contrasto con le disposizioni costituzionali (art. 97 Cost.)41. Per quanto concerne la legittimità costituzionale della disciplina dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165/2001, in particolare della mancata previsione della conversione dei rapporti a termine illegittimi in rapporti a tempo indeterminato, la Corte Costituzionale si è già espressa, seppur nel lontano 200342. Andando oltre tale specifica pronuncia, occorre tenere in debito conto la giurisprudenza della Corte, che in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato43, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali: secondo la Consulta la pubblica amministrazione, infatti, conserva, anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato, una connotazione peculiare, in quanto è tenuta al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento, cui è estranea ogni logica speculativa. Anche la Corte di giustizia in più occasioni ha affermato che la normativa dell’Unione europea non impone agli Stati membri di adottare, nell’ipotesi di abuso del contratto a termine, la misura della conversione, ma lascia agli Stati medesimi un certo margine di discrezionalità nell’individuazione delle conseguenze a carico del datore di lavoro44.
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Cfr. Menghini, Fondazioni lirico sinfoniche e contratti di lavoro a termine, in RGL, 2016, II, 164. Cass., 7 novembre 2016, n. 22557, cit. alla nota n. 38, in particolare i punti 109-116. 42 Cfr. nota n. 3. 43 Cfr.: C. cost., 25 luglio 1996, n. 313, in GCost., 1996, 2584, con nota di Pinelli; in FI, 1997, I, 34, con nota di Falcone; C. cost., 16 ottobre 1997, n. 309, in LPA, 1998, 131, con nota di Barbieri; in RIDL, 1998, II, 33, con note di Pera, Vallebona; C. cost., 23 luglio 2001, n. 275, in LPA, 2001, 619, con nota di D’alessio; in DL, 2001, II, 519, con nota di Bolognino; C. cost., 23 luglio 2008, n. 146, in MGL, 2008, 657, con nota di Barbieri, in D&L, 2008, 873, con nota di Laghezzani; C. cost., 10 maggio 2012, n. 120, in ADL, 2012, 928, con nota di Mezzacapo, in GCost, 2012, 1746, con nota di Pessi; C. cost., 23 luglio 2015, n. 178, in GCost, 2015, 1651, con nota di Fiorillo, in DRI, 2015, 1120, con nota di Ferrante. 44 Cfr. le pronunce citate alle note nn. 5, 6 e 7. 41
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6. Conclusioni. La parola fine sulla questione delle conseguenze a carico delle amministrazioni pubbliche per illegittimo ricorso ai rapporti di lavoro a tempo determinato è ancora molto lontana. A seguito delle ordinanze in commento tale questione sarà oggetto di nuovi rimpalli tra corti nazionali ed internazionali; sicuramente si registrerà una spaccatura nella giurisprudenza di merito tra indirizzi adesivi e contrari alle linee tracciate dalle sezioni unite della Cassazione nella sentenza n. 5072 del 2016, nonché soluzioni variegate ed eterogenee all’interno dei due citati indirizzi. In un quadro del genere è indispensabile ed opportuno, come da diverso tempo auspicato dalla dottrina45, l’intervento del legislatore per dettare una puntuale disciplina della materia.
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Cfr. Garilli, La privatizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni e l’art. 97 Cost.: di alcuni problemi e dei possibili rimedi, in RGL, 2007, I, 325.
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Giurisprudenza Tribunale di M ilano, Sentenza 30 giugno 2016, n. 1977 – Est. Mariani – Prodest Servizi Fiduciari soc. coop. (Avv. Omissis) c. B.I.C. (Avv. Omissis) Socio lavoratore – società cooperative – retribuzione minima – art. 7, comma 4, l. n. 31/2008 – art. 36 Cost. – organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.
È nulla per contrasto con l’art. 36 Cost. la clausola di un contratto collettivo stipulato dalle oo.ss. comparativamente più rappresentative che preveda un trattamento salariale non sufficiente a far fronte alle ordinarie necessità della vita. Svolgimento del processo – Omissis. – Con ricorso depositato in via telematica in data 24 febbraio 2016 ricorreva al Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, per sentire accogliere le sopra indicate conclusioni, nei confronti di P.S.F. soc. coop. Rilevava il ricorrente di svolgere da molti anni le mansioni di addetto alla reception. Il 30 dicembre 2010 B.I.C. era stato assunto da M. S.p.A., in qualità di impiegato, con inquadramento nel 4° livello del CCNL Servizi di Pulizia Industriale. Il ricorrente aveva svolto mansioni di addetto alla reception presso la sede dell’istituto bancario S.G.S.S. S.p.A. in Torino. Il trattamento salariale era parametrato su una retribuzione di € 1.243,23 lordi mensili. – Omissis. A seguito di cambio di appalto, il 1° giugno 2012, il ricorrente aveva stipulato con E.S. & S. S.p.A. un contratto di lavoro a tempo indeterminato avente ad oggetto lo svolgimento di “operatore addetto alla sicurezza e portierato” con inquadramento nel 4° livello del CCNL per le imprese di pulizia artigiane. All’esito di una vertenza sindacale, il ricorrente sottoscriveva con la datrice di lavoro verbale di conciliazione in forza del quale veniva prevista l’applicazione al rapporto di lavoro di cui è causa della disciplina normativa e retributiva del “CCNL Multiservizi integrati”. In forza del predetto accordo, il trattamento salariale era lievitato ad € 1.301,94 lordi mensili. – Omissis. A seguito di cambio di appalto, il 28/02/2014 il ricorrente aveva sottoscritto con C.P.M. S.r.l. un contratto di lavoro a tempo pieno (37,5 ore settimanali) e determinato con scadenza prevista al 30/06/2014, avente ad oggetto lo svolgimento di mansioni di custode con inquadramento nel livello A1 del CCNL per i dipendenti da proprietari di fabbricati. Il trattamento salariale ammontava ad € 1.049,00 lordi mensili. Venuto a scadenza tale contratto, il rapporto di B.I.C. era proseguito alle dipendenze della P.S.F. s.c., società del C.P. La cooperativa, a differenza del Consorzio, applicava il CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari – Sezione servizi fiduciari (CCNL SEFI). Il 1/07/2014 B.I.C. aveva sottoscritto domanda di adesione alla cooperativa ed
il contratto di lavoro, con inquadramento nel livello “F del ruolo del personale tecnico operativo”. Il salario spettante ammontava ad € 715,17 lordi mensili, mentre la paga base ammonta ad € 4,40954 lordi. B.I.C. intendeva ottenere l’accertamento dell’illegittimità del trattamento salariale percepito in base alle tabelle dell’articolo 23 della Sezione servizi fiduciari del CCNL imprese di vigilanza privata. Si costituiva P.S.F. soc. coop. rilevando che i parametri minimi individuati dalla contrattazione collettiva erano stati approvati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale e potevano vantare una presunzione di conformità alla costituzione. – Omissis. Motivi della decisione. – 1. Il ricorso di B.I.C.va accolto – Omissis. L’orario di lavoro normale è pari a 37,5 ore settimanali da considerarsi nel valore proporzionato a 162,5 ore mensili. La retribuzione è pari a € 715,17 su base mensile al lordo di ogni ritenuta di legge corrispondente la paga base tabellare conglobata. B.I.C. ritiene che tale retribuzione violi l’art. 36 Cost. – Omissis. 2. L’art. 36 Cost. stabilisce che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Il c.d. principio di sufficienza, che qui viene in discussione e che viene indicato dalla norma ora citata, impone che al lavoratore venga assicurato non solo un minimo vitale, ma anche il raggiungimento di un tenore di vita socialmente adeguato. La garanzia apprestata dall’art. 36 Cost. si riferisce al trattamento economico globale e non ai singoli elementi che lo compongono. La giurisprudenza ha di regola ritenuto i principi individuati dalla norma ora citata immediatamente precettivi ed ha affermato che il parametro di riferimento è rappresentato dai minimi salariali previsti dai contratti collettivi anche nel caso in cui essi non siano direttamente applicabili al rapporto di lavoro. Il giudice rimane comunque libero di utilizzare parametri diversi quali l’equità, il tipo e la natura dell’at-
Giurisprudenza
tività svolta, il raffronto con situazioni analoghe (Cass. 2835/1990), le condizioni di mercato (Cass. 9759/2002). Quanto all’onere della prova, il lavoratore che deduca la violazione dell’art. 36 Cost. deve provare solo l’entità della retribuzione e non anche l’insufficienza della stessa, spettando al giudice di valutarne la conformità ai criteri indicati dall’art. 36 Cost. (Cass. 8097/2002). 3. Nell’invarianza delle mansioni (quelle di addetto alla reception) B.I.C. passa dal 2010 in avanti attraverso vari datori di lavoro, che si succedono nell’appalto relativo alla sede della SGS SS di Torino, vedendo la propria retribuzione variare da (somme lorde) € 1.284,33 (Omissis), ad € 1.301,904 (Omissis), ad € 1.049, 45 (Omissis), all’ultima di € 715,17 (Omissis). Il CCNL SEFI rientra certamente tra quelli previsti dalla L 31/2008, poiché si tratta di un contratto collettivo sottoscritto da “organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”. Ma questo non lo mette certamente al riparo dallo scrutinio di compatibilità con la norma costituzionale. È già indicativo il fatto che vi sia una evidente diminuzione della retribuzione di oltre il 32% rispetto alle precedenti buste paga del ricorrente.
– Omissis. Può quindi concludersi che un dipendente che presti servizio a tempo pressoché pieno (93,57%) non possa dirsi tutelato da una retribuzione che prevede una paga oraria di € 4,40954 lordi, che manifestamente non è sufficiente a fargli condurre un’esistenza dignitosa e a far fronte alle ordinarie necessità della vita. Può peraltro dirsi che il salario minimo di riferimento possa essere quello applicato dal suo precedente datore, il Consorzio P., che applicava il CCNL per i dipendenti da proprietari di fabbricati, con il livello di riferimento A1 (Omissis), che garantiva al ricorrente € 1.049,00 lordi mensili – Omissis. P.Q.M. – Il tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, ogni contraria ed ulteriore istanza domanda ed eccezione disattesa, così decide: 1) accerta l’illegittimità dell’art 23 della Sezione servizi fiduciari del CCNL per i dipendenti da Istituti e Imprese di Vigilanza Privata e, per l’effetto, in applicazione dell’art. 36 Cost., accerta il diritto di B.I.C., a percepire un trattamento salariale non inferiore a quello previsto dal CCNL per i dipendenti da proprietari dei fabbricati. – Omissis.
Contratti collettivi «qualificati» e trattamento economico dei soci lavoratori di cooperativa: cronaca e implicazioni di una vicenda singolare Sommario: 1. Una vicenda singolare. – 2. Il quadro di riferimento. – 3. Legge e autonomia collettiva: un dibattito mai del tutto sopito. – 4. Una conferma inattesa.
Sinossi. Si commenta un’interessante pronuncia del Tribunale di Milano, riconducibile al filone giurisprudenziale sulla determinazione del trattamento economico dei soci lavoratori di cooperative mediante un rinvio legale (art. 7, l. n. 31/2008) ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria: l’originalità della pronuncia sta nel fatto che ad essere colpita da nullità per contrasto con una norma imperativa (art. 36 Cost.) è la clausola di un contratto collettivo stipulato dalle oo.ss. comparativamente più rappresentative, laddove il filone giurisprudenziale in esame si era confrontato con contratti collettivi stipulati da organizzazioni dotate di inferiore legittimità e rappresentatività nel settore cooperativo. La pronuncia offre, infine, lo spunto
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all’autore per intervenire su alcuni aspetti del dibattito sui rapporti tra legge e autonomia collettiva nelle ipotesi di rinvio legale alla fonte pattizia.
1. Una vicenda singolare. Il caso sottoposto all’attenzione del Tribunale di Milano trae origine dalle vicissitudini di un lavoratore che svolgeva, da anni, mansioni di «addetto alla reception». Come spesso accade, il lavoratore aveva instaurato e intrattenuto negli anni più d’un rapporto di lavoro, con le società che, a seguito di una serie di cambi di appalto consumatisi per lui a mansioni invariate, si erano succedute nello svolgimento del medesimo servizio: la qual cosa non era, peraltro, rimasta priva di ripercussioni sul livello di inquadramento e sulla retribuzione percepita dal lavoratore, più volte mutati per effetto dell’avvicendamento delle discipline collettive applicate dal datore di lavoro di turno. L’ultimo dei quali – quello convenuto in giudizio – era una società cooperativa che applicava il CCNL per i dipendenti da istituti e imprese di vigilanza privata (sezione servizi fiduciari), che il giudice milanese annovera «certamente fra quelli previsti dall’art. 7 l. 31/2008, poiché si tratta di un contratto collettivo sottoscritto da “organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”». Si apprende sempre dal testo della sentenza che il lavoratore, inquadrato al livello «F del ruolo del personale tecnico operativo», aveva subito una decurtazione della retribuzione pari al 32%, rispetto a quella goduta prima del cambio di appalto e dell’instaurazione del duplice rapporto giuridico con la cooperativa. Questi i tratti salienti della vicenda, la cui eccentricità sta nel fatto che, a quanto consta, la giurisprudenza formatasi a ridosso dell’art. 7, l. 28 febbraio 2008, n. 31 (di conversione del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248), si era finora confrontata con contratti collettivi stipulati da organizzazioni per le quali poteva essere (era in effetti puntualmente) revocato in dubbio lo status di organizzazione comparativamente più rappresentativa – se non la stessa genuinità di soggetto sindacale, nel senso storico-sociologico assunto dal termine1. Non è un caso, del resto, che a fronte della domanda del lavoratore volta a dichiarare l’illegittimità della disposizione pattizia per contrasto con l’art. 36 Cost. (e per questa via ottenere la condanna del datore di lavoro a corrispondere le relative differenze retributive)2, la difesa
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Particolarmente significativa al riguardo è Trib. Torino 5 febbraio 2011, in Banca dati Pluris, ove si afferma che «la norma sopra riportata viene in particolare suggerita e si rende indispensabile dal momento che tale vicenda si arricchisce da ultimo di un nuovo e più sofisticato strumento truffaldino, quello delle associazioni di categoria (datoriali e sindacali) di comodo, che siglano contratti collettivi anch’essi di comodo». Di diverso tenore, Trib. Torino 14 ottobre 2010, in RIDL, 2011, II, 409 ss., con nota di Moro; in ADL, 2011, 695 ss., con nota di Imberti, che non insiste tanto sulle qualità rappresentative dei soggetti stipulanti i CCNL posti a confronto, quanto sulla incompatibilità del trattamento economico previsto dal CCNL Unci-Cnai (inferiore di circa il 30% rispetto a quello sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil) rispetto all’art. 36 Cost. Una puntuale analisi della giurisprudenza sull’art. 7, l. n. 31/2008, precedente all’intervento della Corte Costituzionale, in Imberti, Il socio lavoratore di cooperativa: disciplina giuridica ed evidenze empiriche, Giuffrè, 2012, 187 ss. 2 Nel caso di specie il CCNL di riferimento per individuare il trattamento retributivo compatibile con l’art. 36 Cost è quello per i
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allestita da parte datoriale quasi si esaurisca nell’affermazione per la quale «i parametri minimi individuati dalla contrattazione collettiva erano stati approvati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale e potevano vantare una presunzione di conformità alla costituzione».
2. Il quadro normativo di riferimento. Un caso a dir poco spinoso, per venire a capo del quale è utile, anzitutto, ricostruire brevemente il quadro normativo di riferimento. Come noto, fin dalla riforma del 2001 il legislatore si era preoccupato di dettare alcune disposizioni volte a garantire che il lavoratore potesse godere di una retribuzione degna, in ossequio ai principi di cui all’art. 36 della Costituzione3; in particolare, viene in rilievo l’art. 3, l. 3 aprile 2001, n. 142, a mente del quale «le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine»4. Avendo raggiunto solo in parte l’effetto sperato5, il legislatore aveva, alcuni anni
dipendenti da proprietari di fabbricati (applicato dal precedente datore di lavoro). Non solo a tutela di diritti primari della persona che lavora, ma anche, indirettamente, al fine di impedire, per quanto possibile, che il mercato dei servizi fosse inquinato da operatori economici in grado di soverchiare la concorrenza giocando sul solo costo del lavoro, finendo, in tal modo, per trascinare in una corsa al ribasso anche gli altri operatori, a detrimento, tra le altre cose, degli stessi fruitori dei servizi in questione: cfr., anche per gli opportuni riferimenti dottrinali, Imberti, Il socio lavoratore di cooperativa, op. cit., 179-180. 4 La previsione ha suscitato un vivace dibattito, svoltosi, anzitutto, attorno ai dubbi di violazione dell’art. 39 Cost., in ragione della sospetta incompatibilità tra l’obbligo per le società non iscritte alle associazioni stipulanti di applicare le disposizioni poste da contratti collettivi di diritto comune e, per un verso, la dottrina sostenuta dalla Corte costituzionale fin dalla celebre sentenza del 1962, per altro verso, il principio di libertà sindacale negativa (cfr. Miscione, Il trattamento economico del socio: profili lavoristici, fiscali, previdenziali e processuali, in Garofalo, Miscione (a cura di), La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa. L. n. 142/2001 e provvedimenti attuativi, Ipsoa, 2002; Vallebona, L’incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, in MGL, 2001, 813 s.). È più convincente, tuttavia, l’orientamento prevalente, che ritiene – si passi l’espressione – quasi inopportuno il richiamo al procedimento delineato dall’art. 39 Cost. per conferire efficacia erga omnes ai contratti collettivi (ed alla sua nota «efficacia impeditiva» di meccanismi alternativi), atteso che il rinvio al trattamento economico previsto dai contratti collettivi nazionali «del settore o della categoria affine» rappresenterebbe null’altro che un parametro di riferimento privilegiato mediante il quale dare applicazione all’art. 36 Cost. (cfr. Zoli, Il corrispettivo della prestazione lavorativa, in Nogler, Tremolada, Zoli (a cura di), La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in NLCC, 2002, 409 ss.) e, per tale via, consentire un efficace sindacato giudiziale (cfr. Lassandari, Pluralità di contratti collettivi nazionali per la medesima categoria, in LD, 1997, 278). Si è discusso, altresì, della nozione di retribuzione accolta dalla citata disposizione della l. n. 142/2001, poiché non era chiaro quali voci retributive fossero dovute al socio lavoratore: per i termini del dibattito cfr. Barbieri, Cinque anni dopo: il rapporto di lavoro del socio di cooperativa tra modifiche legislative, dottrina e giurisprudenza, in Curzio (a cura di), Lavoro e diritti a tre anni dalla legge n. 30/2003, Cacucci, 2006, 556 ss., nonché Laforgia, La giusta retribuzione del socio di cooperativa: un’altra occasione per la Corte costituzionale per difendere i diritti dei lavoratori ai tempi della crisi, in ADL, 2015, 934 ss. 5 Essenzialmente a causa della proliferazione nel settore cooperativo di organizzazioni datoriali e sindacali di livello nazionale avvezze a contrattare sistematicamente al ribasso (in media, anche del 30%) i trattamenti retributivi, rispetto agli accordi stipulati dalle associazioni più importanti del settore: per arginare il fenomeno si erano mosse le parti sociali con l’Accordo 31 maggio 2007 «Tavolo di concertazione. Sistema di tutele, mercato del lavoro e previdenza. Proposte comuni di Agci, Confcooperative, Legacoop, Cgil, Cisl, Uil in materia di cooperative “spurie”, appalti e dumping contrattuali», mentre il tavolo con il Governo aveva portato al Protocollo di intesa del 10 ottobre 2007 tra Ministero del lavoro, Ministero dello sviluppo economico, Agci, Confcooperative, Legacoop, Cgil, Cisl e Uil. 3
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dopo, affinato il tiro, specificando, con una disposizione (solo apparentemente) transitoria, che, «in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria», tali società sono tenute ad applicare ai soci lavoratori trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria». L’intervento, ad avviso di chi scrive senz’altro opportuno – financo dovuto – su un piano di politica del diritto, aveva nondimeno riacceso il dibattito circa la compatibilità tra il meccanismo predisposto dal legislatore e l’art. 39 Cost.6: al riguardo, tuttavia, la Corte costituzionale, dopo aver, in una prima occasione, “schivato” il problema con un’impeccabile pronuncia di inammissibilità della questione sollevata dal Tribunale di Lucca7, ha in seguito fugato ogni dubbio di illegittimità costituzionale della disposizione citata, affermando che «la norma non attribuisce efficacia erga omnes bensì il ruolo di parametro esterno per la commisurazione della retribuzione nel rispetto dei principi di sufficienza e proporzionalità fissati dall’art. 36 Cost.»8. Benché il ragionamento svolto nella sentenza n. 51 non avesse raccolto consenso unanime – era parso ad un commentatore che «l’erga omnes escluso dalla prima parte della motivazione, viene affermato, con altre parole, dall’ultima parte della motivazione»9 – il problema poteva considerarsi chiuso, considerata l’autorevolezza del precedente ed il chiaro tenore della pronuncia del giudice delle leggi10.
3. Legge e autonomia collettiva: un dibattito mai del tutto
sopito.
Anche dopo la sentenza n. 51/2015 della Corte costituzionale non tutto è filato liscio. Ne rappresenta una prova la pronuncia in epigrafe del Tribunale di Milano, chiamato a decidere un caso (più unico che raro per la verità, almeno a quanto consta o per il momento) in cui il trattamento ritenuto contrario all’art. 36 Cost. è quello stabilito da un contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative: il mondo alla rovescia. Il ragionamento svolto dal giudice milanese, in una motivazione non particolarmente ricca ma di certo efficace, si riassume tutto in una constatazione, che nella sua apparente banalità potrebbe sembrare quasi sovversiva: il fatto che il trattamento eco-
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Cfr. Cinelli, Nicolini, La fine anticipata della XV legislatura, in RIDL, 2008, III, 85. C. cost., 29 marzo 2013, n. 59, in DRI, 2013, 779 ss., con nota di Imberti: la questione aveva eminente interesse previdenziale ed il riferimento all’art. 7, l. n. 31/2008 era, in effetti, improprio. 8 C. cost., 26 marzo 2015, n. 51 (la questione, si badi, era stata nuovamente sollevata dal Tribunale di Lucca: ord. 24 gennaio 2014, n. 100), in RGL, II, 2015, 493 ss., con nota di Barbieri; in MGL, 2015, 485 ss., con nota di Vallebona; in ADL, 2015, 934 ss., con nota di Laforgia; in DRI 2015, 823 ss., con nota di Schiuma. 9 Vallebona; Giochi di parole sull’erga omnes, in MGL, 2015, 490. 10 Tra le pronunce successive alla sentenza della Corte costituzionale e che a questa espressamente si rifanno, v. Trib. Parma, 12 novembre 2015, n. 367, in RIDL, 2016, II, 433 ss., con nota di Bonanomi; App. Torino 22 aprile 2015, n. 326 a quanto consta inedita (traggo da Barbieri, In tema di legittimità costituzionale del rinvio al CCNL delle organizzazioni più rappresentative nel settore per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente, in RGL, 2015, II, 502 (nota 26). 7
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nomico pattuito tra le parti del rapporto individuale fosse conforme a quello previsto da un contratto collettivo «qualificato» (ex art. 7, l. n. 31/2008) non esonera il giudice dall’obbligo di verificarne la compatibilità con l’art. 36 Cost.; detto altrimenti, neppure il contratto collettivo stipulato da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative si pone al riparo dallo scrutinio di compatibilità con la norma costituzionale. La pronuncia offre lo spunto per intervenire sul tema degli effetti del rinvio legale sul regime giuridico del contratto collettivo. Lungi dal voler ricostruire un dibattito ricco e complesso, che ha attraversato in lungo e in largo la dottrina gius-sindacale italiana11, si porranno all’attenzione del lettore alcune considerazioni su due questioni tra loro connesse: da un lato, quella dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo e, dall’altro, quella della «resistenza» di disposizioni pattizie intervenute su rinvio legale rispetto alle norme imperative ricavabili dall’ordinamento giuridico. È opportuno prendere le mosse dalla sentenza n. 10 del 1957 della Corte costituzionale, resa in materia di apprendistato12. Posta di fronte alla l. 19 gennaio 1955, n. 25 (art. 11, lett. c, art. 23), che imponeva agli imprenditori, a pena di sottoposizione a una sanzione penale, «di osservare le norme dei contratti collettivi di lavoro e di retribuire l’apprendista in base ai contratti stessi», la Corte rigettò la q.l.c., osservando laconicamente che la legge «non contiene affatto una dichiarazione di obbligatorietà dei contratti collettivi di diritto privato per tutti gli appartenenti alle rispettive categorie dei sindacati stipulanti» e, pertanto, «lascia immutata la situazione attuale» e non implica alcun contrasto con l’art. 39 Cost.13. Lungi dal mutarne il regime giuridico, il legislatore si era limitato ad attribuire – osserverà anni dopo D’Antona – rilevanza legale al contratto collettivo di diritto comune, associando determinate conseguenze (o effetti legali) all’applicazione di un contratto collettivo inquadrabile negli schemi della rappresentanza negoziale e, dunque, efficace solo inter volentes14. È utile rammentare questa pronuncia poiché essa rappresenta la prima espressione (in nuce) di uno schema di ragionamento «destinato ad affinarsi e diffondersi fino a diventare uno dei pilastri che hanno sostenuto il peso dei rapporti di cooperazione funzionale tra legge e contratto collettivo»15. Occorre quindi distinguere, anche concettualmente, il piano dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo da quello della sua rilevanza legale, ormai tangi-
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Senza pretesa di esaustività, cfr. Mengoni, Legge e autonomia collettiva, in MGL, 1980, 692 ss.; Tosi, Contratto collettivo e rappresentanza sindacale, in PD, 1985, 363 ss.; Giugni, Giuridificazione e deregolazione nel diritto del lavoro italiano, in DLRI, 1986, 317 ss.; Pedrazzoli, Qualificazioni dell’autonomia collettiva e procedimento applicativo del giudice, in LD, 1990, 355 e 549 ss.; Vallebona, Autonomia collettiva e occupazione: l’efficacia soggettiva del contratto collettivo, in DLRI, 1997, 381 ss.; Liso, Autonomia collettiva e occupazione, in DLRI, 1998, 191 ss.; D’Antona, Il quarto comma dell’art. 39 della Costituzione, oggi, in DLRI, 1998, 665 ss.; Tullini, Breve storia delle fonti nel mercato del lavoro, in ADL, 2005, 137 ss.; Passalacqua, Autonomia collettiva e mercato del lavoro: la contrattazione gestionale e di rinvio, Giappichelli, 2005; Romei, L’autonomia collettiva nella dottrina giuslavoristica: rileggendo Gaetano Vardaro, in DLRI, 2011, 181 ss.; Leccese, Il diritto sindacale al tempo della crisi. Intervento eteronomo e profili di legittimità costituzionale, in DLRI, 2012, 479 ss.; Gaeta, La «terza dimensione» del diritto: legge e contratto collettivo nel Novecento italiano, in DLRI, 2016, 573 ss. 12 C. Cost. 18 gennaio 1957, n. 10, in G. Cost., 1957, 72 ss., con nota di Esposito. 13 La disposizione doveva, quindi, essere interpretata come tesa a rinforzare l’efficacia oggettiva del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro, mediante un meccanismo di persuasione fondato sulla sanzione di natura penale, come sostenuto da Suppiej, Pluralismo dei contratti collettivi e significato di un rinvio legislativo, in RDL, 1957, II, 212 ss. 14 D’Antona, op. cit., 678. 15 Romagnoli, Il contratto collettivo, in DLRI, 2000, 236.
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bile in innumerevoli ambiti della disciplina lavoristica, dall’orario ai lavori flessibili, dalla tutela della salute e sicurezza agli appalti, fino allo jus variandi e alle collaborazioni eteroorganizzate: purché non si oltrepassi il limite – individuato nella «primitiva ricostruzione»16 fatta propria dalla sentenza del 1962 sui decreti delegati17 – dell’attribuzione al sindacato non riconosciuto della rappresentanza generale nella categoria, «nulla, infatti, vieta al legislatore di utilizzare in funzione normativa i prodotti dell’autonomia collettiva», senza che si abbia luogo ad «un mutamento nella natura di questi ultimi»18. D’altra parte, non si può trascurare che la Corte costituzionale, quando è stata chiamata a pronunciarsi sulle q.l.c. sollevate in relazione ad un rinvio legale al contratto collettivo, ha sovente dato prova di notevole pragmatismo; in più d’una occasione, infatti, è stato tenuto conto del contesto sociale, economico e produttivo nel quale la disposizione di legge è destinata ad operare: si può così osservare – puntualmente, con Barbieri – che il «nucleo duraturo dell’argomentazione della sentenza»19 n. 51/2015 consiste proprio nel rilievo che «nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso».
4. Una conferma inattesa. Perché ritornare su questo tema – ci si potrebbe chiedere – se la pronuncia oggetto di questo commento non è la n. 51/2015 della Corte costituzionale, bensì quella del Tribunale di Milano? La ragione sta in ciò, che la pronuncia in epigrafe parrebbe rappresentare una conferma (inattesa) della esattezza del ragionamento prospettato dalla Corte costituzionale nel 2015: se, infatti, i trattamenti economici complessivi dettati dai contratti collettivi oggetto di rinvio legale rappresentano «esclusivamente il parametro per accertare che quella [la retribuzione] stabilita nel contratto individuale di lavoro sia proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e sia conforme ai requisiti dell’art. 36 Cost.», non vi è motivo di dubitare che, nel caso in cui i suddetti trattamenti non rispettino (integrino) i principi co-
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Barbieri, op. cit., 503: l’autore, che si interroga sulla compatibilità tra il meccanismo predisposto dall’art. 7, l. n. 31/2008 ed il principio di libertà sindacale (condivisibilmente giungendo ad un esito positivo) osserva che «l’autonomia collettiva (e dunque il contratto collettivo che ne è il prodotto) è una parte integrante, non un altro separato principio contenuto nei commi successivi dell’art. 39 Cost., come nella primitiva ricostruzione della Corte costituzionale n. 106/1962» (corsivo di chi scrive). 17 Si tratta, come noto, di C. Cost. 19 dicembre 1962, n. 106, in G. Cost., 1963, 1408 ss.: tale pronuncia, nel respingere la questione di legittimità costituzionale della l. 14 luglio 1959, n. 741 (sul presupposto della transitorietà ed eccezionalità del meccanismo di recepimento dei contratti e degli accordi collettivi in decreti legislativi), dichiara, per ragioni identiche ma opposte, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, l. 1 ottobre 1960, n. 1027, atteso che anche una sola reiterazione del suddetto meccanismo farebbe venire meno proprio i suddetti elementi della transitorietà ed eccezionalità, così di fatto sostituendo al sistema costituzionale predisposto dall’art. 39 Cost. un altro sistema arbitrariamente costruito dal legislatore. 18 Così M.G. Garofalo, Per una teoria giuridica del contratto collettivo. Qualche osservazione di metodo, in DLRI, 2011, 532. 19 Barbieri, op. cit., 499.
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stituzionali, il giudice possa discostarsene e individuare, in un contratto collettivo diverso, anche non «qualificato», un parametro ritenuto adeguato. Quale miglior confutazione, in definitiva, dell’argomento che costringe la fattispecie delineata dall’art. 7, l. n. 31/2008, negli angusti schemi dell’efficacia erga omnes, di una decisione che riafferma la natura squisitamente negoziale delle disposizioni poste dai contratti collettivi stipulati, previo rinvio legale, dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, e giunge a dichiararne la nullità per contrasto con norma imperativa? Certo, non si tratta di una norma (imperativa) qualsiasi, atteso che la cogenza nei rapporti interprivati dell’art. 36 Cost. affonda le radici nella ricostruzione del diritto del lavoro repubblicano e rappresenta, forse, il simbolo di un certo diritto del lavoro; ma se è il principio quello che conta, si può trarre dalla sentenza resa dal giudice milanese un’importante implicazione, vieppiù preziosa in una stagione in cui il segno dei rapporti tra legge e contratto collettivo non è più, necessariamente, addizionale: dalla natura negoziale del contratto collettivo, quand’anche oggetto di rinvio legale20, deriva la sua perdurante sottoposizione al meccanismo della nullità per contrasto con norma imperativa, per lo meno nel caso in cui l’equilibrio trovato dalle parti collettive comprometta un diritto inderogabilmente garantito dalla legge (o da una fonte ad essa sovraordinata)21. Come dire che se la valorizzazione dell’autonomia collettiva indotta dall’art. 7, l. n. 31/2008, sortisce l’effetto, non di assicurare al lavoratore una retribuzione degna, ma quello opposto di svilirne e comprimerne le pretese, si riaprono gli spazi per l’intervento giudiziario; del resto, mutuando quanto affermato – in una diversa stagione – dalla Corte costituzionale, si può affermare che sarebbe di certo «aberrante far discendere da una legge che si proponeva lo scopo di consentire ai lavoratori non vincolati a contratti collettivi di beneficiare del trattamento più favorevole da questi disposto l’effetto contrario di ricostituire la sperequazione salariale voluta eliminare»22. Giulio Centamore
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Per tutti, cfr. la ricostruzione di Persiani, Il contratto collettivo di diritto comune nel sistema delle fonti del diritto del lavoro, in ADL, 2004, 1 ss. 21 Al riguardo, si può osservare – riprendendo le parole di Vardaro – che l’aver qualificato il contratto collettivo alla stregua del diritto privato preclude ogni possibilità di coordinamento orizzontale con la legge, atteso che la logica della gerarchia delle fonti «espulsa dalla porta, riaffiorava dalla finestra: infatti, (…) come ha dimostrato Hans Kelsen, dopo la codificazione, tutti i contratti di diritto privato possono essere considerati, dal punto di vista del diritto obbiettivo, come fonti di diritto (interprivato), gerarchicamente subordinate alla legge»: Vardaro, Contrattazione collettiva e sistema giuridico, Jovene, 1984, 102. 22 C. Cost. 6 luglio 1971, n. 156, che dichiara l’illegittimità «degli articoli unici di tutti i decreti presidenziali aventi forza di legge, emanati in base alla delega di cui agli artt. 1 e 7 della legge 14 luglio 1959 n. 741, limitatamente alla parte in cui escludono che la sopravvenuta non corrispondenza dei minimi salariali fissati nei contratti collettivi resi con essi validi per tutti gli appartenenti alle rispettive categorie conferisca al giudice ordinario l’esercizio del potere attribuito dall’art. 36 della Costituzione»
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