2017 LABOR 5
L
ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
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settembre-ottobre 2017
Rivista bimestrale
D iretta da Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA La protezione dei diritti sociali nell’U.E. Il caso del diritto di sciopero Maria Vittoria Ballestrero
The Social Dimension of the Euro-Canadian CETA Vincenzo Ferrante
Uguali nelle diversità o estranei a noi stessi? Riflessioni sul divieto di discriminazione Lucia Tria
Giurisprudenza commentata Silvia Ortis, Stefania Buoso, Davide Tardivo, Marco Novella
Pacini
Indici
Saggi Maria Vittoria Ballestrero, La protezione dei diritti sociali nell’Unione europea. Il caso del diritto di sciopero......................................................................................................................................... p. 495 Vincenzo Ferrante, The Social Dimension of the Euro-Canadian CETA.............................................. » 511 Lucia Tria, Uguali nelle diversità o estranei a noi stessi? Riflessioni sul divieto di discriminazione tra norme e prassi (prima parte)........................................................................................................ » 525
Giurisprudenza commentata Silvia Ortis, Lavoro intermittente: legittima la cessazione automatica del rapporto al compimento del 25° anno di età............................................................................................................................ » 551 Stefania Buoso, Sulla discriminazione collettiva per nazionalità, e non solo.................................... » 569 Davide Tardivo, L’incompatibilità nel pubblico impiego privatizzato: tra sanzione disciplinare e decadenza......................................................................................................................................... » 583 Marco Novella, La Corte di Cassazione dopo la sentenza Amatori: autonomia funzionale e conservazione dell’identità del ramo d’azienda ceduto..................................................................... » 599
Indice analitico delle sentenze Lavoro (rapporto) – contratto di lavoro intermittente – rinvio pregiudiziale – Dir. 2000/78/CE – Carta di Nizza – parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – discriminazione fondata sull’età – Insussistenza (C. giust., 19 luglio 2017, causa C-143/2016, con nota di Ortis) – pubblico impiego privatizzato – incompatibilità con altri impieghi, professioni, cariche ed attività – mancata rimozione dell’incompatibilità – cessazione del rapporto – violazione obbligo di esclusività – responsabilità disciplinare – sanzione proporzionata (Cass., sez. lav., 4 aprile 2017, n. 8722, con nota di Tardivo) – pubblico impiego privatizzato – obbligatorietà dell’azione disciplinare – inerzia datoriale – legittimo affidamento – insussistenza (Cass., sez. lav., 4 aprile 2017, n. 8722, con nota di Tardivo) – trasferimento di ramo di azienda – autonomia funzionale del ramo ceduto – preesistenza – necessità (Cass., sez. lav., 19 gennaio 2017, n. 1316, con nota di Novella) Previdenza sociale – assegno nucleo familiare – mancata concessione ai cittadini di paesi terzi soggiornanti in Italia – discriminazione collettiva per nazionalità – sussistenza (Cass., sez. lav., 8 maggio 2017, n. 11165, con nota di Buoso) – discriminazione collettiva per nazionalità – legittimazione ad agire – enti esponenziali – sussistenza (Cass., sez. lav., 8 maggio 2017, n. 11165, con nota di Buoso) Indice cronologico delle sentenze Giorno
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Autorità 2017 Gennaio Cass., sez. lav., n. 1316 Aprile Cass., sez. lav., n. 8722 Maggio Cass., sez. lav., n. 11165 Luglio C. giust., causa C-143/2016
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Notizie sugli autori
Maria Vittoria Ballestrero – professoressa emerita nell’Università degli studi di Genova Stefania Buoso – assegnista di ricerca nell’Università degli studi di Ferrara Vincenzo Ferrante – professore ordinario nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Marco Novella – professore associato nell’Università degli studi di Genova Silvia Ortis – dottoranda di ricerca nell’Università Ca’ Foscari di Venezia Davide Tardivo – dottorando di ricerca nell’Università degli studi di Padova Lucia Tria – consigliere presso la Sezione lavoro della Corte di Cassazione
Saggi
Maria Vittoria Ballestrero
La protezione dei diritti sociali nell’Unione europea. Il caso del diritto di sciopero* Sommario :
1. L’Unione Europea e il diritto di sciopero. Qualche considerazione preliminare. – 2. Il diritto i sciopero nelle fonti internazionali. – 3. Lo sciopero nel diritto dell’Unione europea: l’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali (CDFUE) e non solo. – 4. L’art. 28 CDFUE nell’interpretazione della Corte di Giustizia. Il bilanciamento dell’azione collettiva con le libertà economiche. – 4.1. Azione collettiva e libertà di stabilimento. – 4.2. Azione collettiva e libera prestazione di servizi. – 5. L’impatto della “dottrina Laval” sul diritto italiano: qualche considerazione conclusiva.
Sinossi: Nel saggio l’autore analizza la protezione multilivello del diritto di sciopero (diritto internazionale, diritto dell’Unione europea, diritto italiano). Particolare attenzione è dedicata all’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e alla sua interpretazione da parte della Corte di giustizia nella giurisprudenza nota come Laval quartet. Nelle conclusioni l’autore si sofferma sul possibile impatto della dottrina Laval sul diritto italiano. Abstract: In this essay the author analyzes the “multilevel” protection of the right to strike (international law, European Union law, Italian law). Particular attention is devoted to the art. 28 of the EU Charter of Fundamental Rights and its interpretation by the Court of Justice, in the decisions named Laval quartet. In the conclusions the author dwells on the possible impact of the “Laval doctrine” on Italian law. Parole chiave: Diritto di sciopero, Carta dei diritti fondamentali dell’unione Europea, Corte di giustizia, giurisprudenza.
* Questo saggio riproduce, con alcune modifiche e l’aggiunta delle note, la relazione svolta al seminario della rivista “Ragion pratica”, sul tema «Crisi economica, politiche pubbliche e diritti fondamentali», Genova, 23-24 settembre 2016.
Maria Vittoria Ballestrero
1. L’Unione europea e il diritto di sciopero. Qualche considerazione preliminare.
L’Unione europea è in crisi: una crisi politica che si manifesta sul fronte interno e su quello internazionale e finisce per investire ormai le ragioni stesse che giustificano l’esistenza di questa peculiare organizzazione internazionale, e le sue possibilità di sopravvivere come Unione; una crisi tanto evidente che non è neppure il caso di ripeterne qui le cause o di prefigurarne gli effetti. Ma è in crisi anche il rapporto dell’Italia con l’UE: le polemiche in atto da anni denunciano con tutta evidenza le tensioni e le difficoltà del rapporto con i vertici dell’UE (quelli istituzionali e quelli reali). Anche di questo non è il caso di parlare qui, se non per sottolineare che alla base delle tensioni e delle difficoltà sta la scarsa disponibilità dell’UE a consentire all’Italia di sforare il tetto del rapporto deficit/Pil. L’austerità imposta dall’Unione è sotto accusa, perché impedisce al nostro governo di mettere in atto una politica per la “crescita”. Certo, per la crescita ci vogliono miliardi di euro che non si possono trovare, se non sforando il tetto che la UE ci impone; senza quei miliardi l’economia reale resta al palo, le imprese non investono, l’innovazione langue, e al tavolo della competizione sul mercato globale restiamo inesorabilmente perdenti. Tutto giusto. Ma ciò di cui i nostri governanti parlano troppo poco è il costo sociale di questa austerità: un costo pesante pagato in questi anni, a partire dalle manovre economiche del Governo Berlusconi (il blocco dei salari e della contrattazione nel settore pubblico, tanto per fare un esempio) e via via attraverso le riforme del Governo Monti (basta pensare alla riforma delle pensioni targata Fornero) fino al cosiddetto “Jobs Act” del governo Renzi (basta pensare alla forte riduzione delle tutele contro i licenziamenti, alla liberalizzazione delle assunzioni a termine e della somministrazione di cui non è più richiesta alcuna ragione giustificatrice, al via libera concesso all’utilizzazione di altre forme di lavoro ultraflessibile e precario. Ebbene, costringendo i governi dei paesi indebitati a ridurre drasticamente i livelli di protezione sociale, l’austerità imposta dall’UE si traduce nell’arretramento delle condizioni di vita di milioni di persone: ma non è questo il modello di Unione prefigurato dai Trattati, e sarebbe forse il caso di ricordarlo, con un vigore maggiore di quello emerso nella bella gita in barca di Renzi, Merkel e Hollande a Ventotene. Allora ricordiamoli almeno noi questi valori: tra quelli sui quali si fonda l’Unione (art. 2 TUE), troviamo «il rispetto della dignità umana, della libertà, (…) dell’uguaglianza (…) e dei diritti umani», valori comuni «agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini» (art. 2 TUE). Questi stessi valori avevano già trovato la loro formale affermazione nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Nizza 2000 - Strasburgo 2007) (CDFUE), che con l’art. 6.1 TUE ha acquisito «lo stesso valore giuridico dei trattati», collocandosi, insieme ai trattati, al vertice della gerarchia delle fonti dell’UE. In particolare, la solidarietà “infiltra” (secondo la fortunata espressione di Gerard Lyon-Caen) gli obiettivi dell’UE, da cui scompare la concorrenza, recuperata come strumento, e non come fine, solo nel 27° Protocollo; compare invece (art. 3.3 TUE), l’«economia sociale di mercato»: «fortemente competitiva», certo, ma anche finalizzata «alla piena occupazione e al progresso sociale».
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Se le parole hanno un senso, l’art. 3 TUE disegna il “modello sociale europeo” come un modello di sviluppo dell’economia nel quale coesione e protezione sociale dovrebbero giocare un ruolo non secondario. Il problema è che il modello sociale scritto nei Trattati, come ho detto, sembra oggi dimenticato, e comunque non corrisponde all’insieme dei valori che segnano attualmente il percorso dell’Unione. Ciò di cui parlerò vuole essere un esempio della distanza che corre tra il modello sociale europeo e la reale garanzia dei diritti sociali nell’UE. Tra questi diritti ho scelto il diritto di sciopero, per l’indubbio interesse che le decisioni della Corte di giustizia europea, pure risalenti a circa dieci anni fa, continuano ad avere, a causa delle reazioni che ancora oggi suscitano su più fronti e a diversi livelli1. Scegliere proprio il diritto di sciopero per ragionare intorno alla condizione dei diritti sociali nella UE merita tuttavia qualche precisazione preliminare2. Non intendo affrontare, neppure restando sulla soglia, l’appassionante discussione sulla definizione (ricognitiva o normativa) della categoria dei diritti sociali3; tuttavia mi pare di dover spiegare almeno perché parlo del diritto di sciopero come di un diritto sociale4 anziché di un diritto di libertà, come sarebbe invece necessario fare se si rispettasse la tradizionale distinzione tra diritti di libertà e diritti sociali, e con essa la definizione di questi ultimi come “diritti a prestazione” (dei poteri pubblici), dunque condizionati, non immediatamente esigibili e neppure giustiziabili (e perciò definiti diritti in senso debole5 oppure diritti di carta6). Benché il diritto di sciopero, e i diritti sindacali in genere, non siano diritti a prestazione (impongono al datore di lavoro una posizione passiva, di soggezione, che non costituisce “prestazione” in senso tecnico), non siano condizionati7, presentino indubbi profili di libertà, e siano giustiziabili, la qualificazione come diritti sociali è nondimeno consueta
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Di tutto ciò ho parlato più ampiamente di quanto farò in questa sede nel commento all’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali pubblicato in Mastroianni, Pollicino, Allegrezza, Pappalardo, Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Giuffrè, 2017, 545 ss., al quale faccio rinvio per ulteriori approfondimenti e per i necessari riferimenti bibliografici. Non avrebbe richiesto le spiegazioni che dovrò dare per il diritto di sciopero la scelta di prendere ad esempio della condizione dei diritti sociali la sentenza della C. Giust., 15 gennaio 2014, causa C-176/12, Association de médiation sociale, sull’applicazione dell’art. 27 della CDFUE, che prevede il diritto dei lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali all’informazione e consultazione nelle imprese: si tratta infatti di un diritto definito generalmente come “diritto sociale” (ma non da Barberis, Europa del diritto, Il Mulino, 2008, 202). La sentenza assegna all’art. 27, del quale nega l’applicabilità diretta orizzontale, il valore di una disposizione programmatica (un “principio”, secondo la terminologia dell’art. 52.5 CDFUE), collocando così il diritto sociale che tale disposizione garantisce in una posizione di minorità rispetto ai diritti sanciti nei titoli della Carta dedicati a libertà ed eguaglianza. Per un commento alla sentenza rinvio a Ballestrero, Principi e regole nella giurisprudenza del lavoro. Due esempi e una digressione, in Ballestrero, Guastini, Dialogando su principi e regole, in Materiali per una storia della cultura giuridica, a. XLVII, n. 1, giugno 2017, 155. Nel n. 2/2016 di Ragion pratica possono leggersi alcuni contributi a questa discussione di notevole interesse. La bibliografia in materia di diritti sociali è molto vasta, ma i miei riferimenti saranno limitati al minimo indispensabile. C’è che considera il diritto di sciopero un diritto sociale di libertà, perché self executing: Baldassarre, Diritti sociali, in EGT, vol. X, 1989. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990, 82. Guastini, “Diritti”, in Comanducci, Guastini (a cura di), Analisi e diritto. Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, 1994. La distinzione tra diritti sociali condizionati e non condizionati è stata fatta propria anche dalla Corte costituzionale: lo ricorda Pino, Diritti sociali. Per una critica di alcuni luoghi comuni, in Ragion Pratica, 2016, 508; cfr. anche M. C. Cavallaro, I diritti sociali nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Ragion Pratica, 2000.
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(anche se non da tutti condivisa8). La qualificazione in termini di diritti sociali è basata: su ragioni storiche, perché sono diritti di seconda generazione; sul loro carattere non universalistico, almeno nel senso in cui si ritiene siano universali i diritti umani9; sui valori e sui principi su cui si fondano: eguaglianza sostanziale10 e, secondo alcuni, solidarietà11. Tutte ragioni che hanno in premessa l’accettazione della distinzione (storica, ma anche strutturale) tra i diritti di libertà e i diritti sociali. A voler spingere lo sguardo un po’ oltre, si potrebbe tuttavia rimettere in discussione proprio questa distinzione che, come altri ha dimostrato con ampia argomentazione, appare quanto mai incerta e approssimativa12. Fermo restando che la distinzione tra la pretesa ad una prestazione e la pretesa ad una astensione resta fondamentale13, e ferma restando la ragione storica della distinzione, i tradizionali criteri usati per tracciare la dicotomia strutturale tra queste due categorie di diritti non resistono ad una attenta analisi critica14. Incerta e approssimativa è la distinzione tra diritti di libertà e diritti sociali come distinzione tra diritti a prestazione negativa (astensione) e diritti a prestazione positiva: anche i diritti di libertà richiedono prestazioni positive (si pensi al diritto di libera circolazione, o al diritto ad un giusto processo), mentre non tutti i diritti sociali sono diritti a prestazioni positive (del potere pubblico) e spesso includono invece il diritto a prestazioni negative, di non interferenza (il diritto al lavoro, ad esempio, che certamente è qualificabile come diritto sociale a prestazione, si presenta contemporaneamente come diritto a prestazione negativa, includendo la libertà di lavorare: cosicché non è casuale che il diritto al lavoro sia menzionato dalla CDFUE all’art. 15, tra i diritti di libertà). Meno che approssimativa la distinzione in base al costo: tutti i diritti hanno infatti un “costo”15. Per superare la dicotomia strutturale tra diritti di libertà e diritti sociali occorre tuttavia: condividere l’opinione che esclude l’incompatibilità tra libertà ed eguaglianza (pur ammettendo che possono effettivamente entrare in conflitto16); accettare l’opinione secondo cui la distinzione tra diritti di libertà e diritti sociali si basa sul loro diverso fondamento (costi-
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Cfr. ad esempio Barberis, op. cit., 202. Sull’universalità dei diritti umani (e la loro collocazione nell’ambito della categoria dei diritti fondamentali) v. l’ampio dibattito tra Ferrajoli e alcuni suoi interlocutori riportato in Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di Vitale, Laterza, 2001. Un momento rilevante della discussione attiene proprio alla definizione del significato dell’aggettivo “universale” che Ferrajoli attribuisce ai diritti fondamentali; cfr. in particolare gli interventi di Guastini e Zolo, rispettivamente 43 e 49. 10 Numerosi autori indicano l’eguaglianza sostanziale come fondamento (o giustificazione) dei diritti sociali: cfr. per tutti Luciani, Diritti sociali e livelli essenziali delle prestazioni pubbliche nei sessant’anni della Corte costituzionale, in Rivista AIC, 2016, 3. 11 Pino, op. cit. Nella CDFUE i diritti sindacali (incluso lo sciopero: art. 28) sono previsti non nel Titolo “Libertà”, ma nel Titolo “Solidarietà”. 12 Cfr. Diciotti, Stato di diritto e diritti sociali, in Diritto & questioni pubbliche, 2004, 67; cfr. anche Pino, op. cit.; Riva, I diritti sociali e la concezione atomistica dei diritti fondamentali, in Ragion Pratica, 2016, 565 ss. 13 Luciani, I diritti sociali, in Vignudelli (a cura di), Lezioni magistrali di diritto costituzionale, Mucchi, 2011, 155. 14 Per la critica della distinzione tra diritti di libertà e diritti sociali, con argomentazioni diverse, cfr. specialmente i contributi già citati di Pino, Diciotti e Luciani; v. anche Bin, Diritti e fraintendimenti, in Ragion Pratica, 2000, 15. 15 V. Bin, op. cit., 15. 16 Luciani, op. ult. cit. 9
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tuzionale e valoriale), richiamando per questi ultimi il principio di eguaglianza sostanziale, e anche il valore della solidarietà. Opinione quest’ultima accettabile, a patto che non si configurino libertà ed eguaglianza sostanziale (ovvero libertà e giustizia sociale) come valori in conflitto17, perché altrimenti i diritti sociali sarebbero destinati a restare nello stato di minorità dei diritti “non veri”, nel quale li relega una opinione diffusa. Resta comunque da considerare che se l’accesso ad un certo numero di diritti di libertà pretende un minimo di eguaglianza sostanziale (redistribuzione nel possesso o godimento di beni), la garanzia dell’eguaglianza sostanziale comporta certamente il sacrificio di talune libertà (segnatamente le libertà costitutive del mercato: proprietà e iniziativa economica privata)18. Per concludere: che lo si qualifichi come diritto sociale o come diritto di libertà, resta fuori discussione almeno la qualificazione del diritto di sciopero come diritto fondamentale. Evitando di inoltrarmi nel dibattito sulla definizione dei diritti fondamentali, non meno appassionante di quello suscitato dalla distinzione tra diritti di libertà e diritti sociali19, mi limito a dire, da buon giuspositivista, che qualifico come fondamentale un diritto che riposa su una norma giuridica fondamentale: l’art. 40 Cost. e l’art. 28 CDFUE, nel caso del diritto di sciopero. Ciò di cui mi occuperò allora è la garanzia di un diritto fondamentale che nel diritto dell’UE gode di un livello di tutela minore di quello proprio dei diritti di libertà (libertà economiche, nella specie), tanto da riproporre quella dicotomia tra diritti di libertà e diritti sociali (affetti questi da “minorità”), che doveva essere superata dall’indivisibilità dei diritti fondamentali che la CDFUE sembrava aver accolto20.
2. Il diritto di sciopero nelle fonti internazionali. Il diritto di sciopero, che nell’ordinamento italiano è stato sancito dall’art. 40 Cost., gode di una protezione “multilivello” che è invece più recente, e come vedremo assai più problematica. Per quanto riguarda il livello delle fonti internazionali, la prima fonte da richiamare sono le Convenzioni OIL n. 87/1948 sulla libertà sindacale e la protezione del diritto sinda-
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Mi riferisco alla nota tesi di Bobbio, op. cit., 40 ss., 67 ss.; qualificati come “libertà” i diritti che sono garantiti quando lo stato non interviene, e “poteri” i diritti (sociali) che richiedono un intervento dello Stato per la loro attuazione, Bobbio afferma l’incompatibilità tra libertà e poteri; rispetto ai diritti di libertà vale il principio che gli uomini sono uguali nel godimento della libertà, che non vale nei riguardi dei diritti sociali, per i quali occorre tenere conto delle differenze che giustificano il non eguale trattamento. Si tratta di diritti «la cui protezione non può essere accordata senza che venga ristretta o soppressa la protezione di altri. Si fantastichi pure sulla società insieme libera e giusta, in cui siano globalmente e contemporaneamente attuati i diritti di libertà e i diritti sociali; le società reali, che abbiamo dinnanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere» (41). Per una riflessione critica sulla tesi dell’incompatibilità tra libertà e uguaglianza sostanziale rinvio a Diciotti, Il mercato delle libertà, Il Mulino, 2006, 73 ss. 18 Cfr. Diciotti, Stato di diritto, cit., 2004, 76; Ead., Il mercato, cit., 73 ss. 19 Cfr. Ferrajoli, op. cit. 20 Barberis, op. cit., 187.
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cale, e 98/1949 sull’applicazione del principio del diritto di organizzazione e negoziazione collettiva. Si tratta di due “core conventions”, richiamate nella Declaration of Fundamental Principles and Rights at Work 1998: ciò implica che gli Stati, per il solo fatto di essere membri dell’OIL, sono tenuti a rispettare e promuovere la libertà di associazione e l’effettivo riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva. Né la Convenzione 87, né la 98 menzionano espressamente il diritto di sciopero, che ha tuttavia ricevuto il pieno riconoscimento come “diritto fondamentale” strettamente inerente ai diritti sanciti dalle due citate convenzioni, fin dai tardi anni ’50 da parte dell’autorevole Comitato di esperti sull’applicazione delle convenzioni e raccomandazioni (CEACR). In coerenza con la configurazione del diritto di sciopero come diritto fondamentale, il Comitato, pur affermando che il diritto di sciopero non è un diritto assoluto, e come tale deve essere bilanciato con altri diritti fondamentali, ha recisamente escluso la possibilità di procedere ad un giudizio di proporzionalità tra sciopero e libertà economiche. La seconda fonte internazionale da richiamare è la Carta sociale europea (CSE) (firmata a Torino nel 1961 e riveduta a Strasburgo nel 1996), che diversamente dalle Convenzioni OIL, prevede espressamente il diritto di sciopero all’art. 6. 4. La CSE (alla quale la UE non aderisce, e che è spesso considerata una sorta di “sorella povera” della Cedu) è richiamata dall’art. 151.1 TFUE, ma non è integrata nel diritto dell’Unione (anche se l’Unione e gli Stati membri devono “tenere presenti” i diritti sociali fondamentali in essa definiti). Anche il Comitato europeo sui diritti sociali (CEDS), al quale compete il monitoraggio sull’applicazione della CSE, ha escluso che la CSE consenta altre limitazioni al diritto di sciopero oltre quelle (previste dall’art. G, Parte V) «necessarie, in una società democratica, per garantire il rispetto dei diritti e delle libertà altrui o per proteggere l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la salute pubblica o il buon costume»), escludendo perciò stesso che le libertà economiche possano avere un valore a priori più alto rispetto al diritto dei lavoratori di ricorrere all’azione collettiva per rivendicare una maggiore protezione dei propri diritti economici e sociali21. Last but not least, deve essere richiamata la Cedu, e in particolare, per quanto interessa in questa sede, l’art. 11 (libertà di riunione e di associazione). Nella interpretazione di tale disposizione (che non contempla espressamente il diritto di sciopero) si è registrata, come è noto, una notevole evoluzione nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo: a partire dalla sentenza Demir and Baykara c. Turchia (Grande Camera 12 novembre 2008, ricorso 34503/97), la Corte EDU ha operato una inedita integrazione tra diritti civili e politici e diritti sociali, estendendo a questi ultimi i principi che applica in materia di protezione degli human rights22. A partire da questo importante revirement, la Corte si è pronunciata sul diritto di sciopero (sentenze Enerji Yapi-Yol Sen c. Turchia, Sezione III, 21.4.2009,
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Sulle funzioni del CEDS e più in generale sull’effettività della CSE cfr. Panzera, Diritti ineffettivi? Gli strumenti di tutela della Carta sociale europea, in Rivista AIC, n. 1 del 2017. 22 La Corte ha affermato che la Cedu, «is a living instrument» e deve essere interpretata in armonia con i principi generali del diritto internazionale, in modo tale da «reflect the increasingly high standard being required in the area of the protection of human rights»; pertanto «limitations to rights must be construed restrictively, in a manner which gives practical and effective protection to human rights».
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ricorso 68959/01, e RMT c. UK, 8.9.2014, Sezione IV, ricorso 31045/10). Non posso qui soffermarmi ad analizzare queste sentenze23: posso limitarmi a dire che in Enerji Yapi-Yol Sen, la Corte ha affermato che il diritto di sciopero costituisce un corollario inscindibile dei diritti di associazione e negoziazione collettiva garantiti dall’art. 11 Cedu. Per la Corte, che si è largamente avvalsa dell’autorevole opinione espressa dagli organismi internazionali menzionati sopra (CEARC e CEDS), «il diritto di sciopero non ha carattere assoluto», e può essere soggetto a talune condizioni e restrizioni: ma deve trattarsi di restrizioni previste dalla legge, dirette ad uno o più scopi legittimi ai sensi dell’art. 11, comma 2, Cedu, e necessari in una società democratica per il perseguimento di tali fini (che, lo ricordiamo, sono la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, la prevenzione dei reati, la protezione della salute, la protezione dei diritti e delle libertà altrui). Questi principi sono stati ribaditi dalla Corte EDU, ancora una volta facendo largamente ricorso alle opinioni espresse da CEARC e CEDS, anche nella più recente sentenza RMT c. UK24 relativa al divieto di scioperi di solidarietà vigente in Gran Bretagna: anche se in questa sentenza la Corte, considerato che nel caso l’azione collettiva non era – a suo parere – riconducibile all’attività primaria (“core activity”) del sindacato, si mostra disponibile a bilanciare l’esercizio della libertà sindacale con «the social and economic framework of the country concerned», accettando l’argomento del Governo britannico che giustifica il perdurante divieto degli scioperi di solidarietà con «the pressing social need» «to schield the domestic economy from the disruptive effects of such industrial act»25. Per evitare di farsi illusioni su ulteriori positivi sviluppi della tutela del diritto di sciopero nel contesto della Cedu, vale la pena di sottolineare che, come si è giustamente osservato, la Corte EDU «ha riconosciuto tutela “indiretta” al diritto di sciopero, attraverso la garanzia di uno dei pochi diritti sociali espressamente sanciti dalla Convenzione»: lo sciopero è infatti considerato dalla Corte strumento indispensabile, ma anche “ultima ratio” per l’esercizio della libertà sindacale26. I diritti sociali si dimostrano dunque tutelabili dalla Corte «nella misura in cui si presentano nella loro veste “liberale”, cioè assumendo i
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Il caso deciso in Enerji aveva ad oggetto un provvedimento del Governo turco (circolare1996/21 della Presidenza del Consiglio) con cui veniva impedito (pena sanzioni disciplinari) ai funzionari del settore pubblico di partecipare a riunioni finalizzate all’organizzazione di uno sciopero, nonché a manifestazioni di protesta. La Corte EDU ha deciso nel senso della violazione dell’art. 11 Cedu: la Convenzione – afferma la Corte – «richiede che la normativa interna consenta ai sindacati, secondo modalità compatibili con l’art. 11, di avviare azioni di lotta per la tutela degli interessi dei loro membri», e lo sciopero rappresenta per i membri del sindacato un’importante iniziativa; la Corte «rileva parimenti che il diritto di sciopero è riconosciuto dagli organi di controllo dell’OIL quale corollario inscindibile del diritto di associazione sindacale, tutelato dalla Convenzione 87», e che la CSE riconosce altresì il diritto di sciopero «quale mezzo per assicurare l’esercizio effettivo del diritto alla negoziazione collettiva». 24 La decisione riguarda due diverse vicende, nelle quali era in discussione la conformità all’art. 11 Cedu delle regole vigenti nel Regno Unito che, oltre ad imporre stringenti limiti procedurali (strike ballot e non solo) all’esercizio del diritto di sciopero, vietano lo sciopero di solidarietà. 25 L’apertura peraltro non è nuova: un ampio margine di apprezzamento la Corte lo aveva già riconosciuto nel caso Sindacatul “Pastorul cel Bun” c. Romania (Grande Camera, 31 gennaio 2012, ricorso 2330/09), nel quale aveva ritenuto ammissibile il divieto opposto dalla Chiesa ortodossa romena alla costituzione di un sindacato di laici e sacerdoti dipendenti dalla congregazione religiosa, giustificato dalla esigenza di preservare l’ordine pubblico e salvaguardare l’autonomia della confessione religiosa. 26 Guazzarotti, Giurisprudenza CEDU e giurisprudenza costituzionale sui diritti sociali a confronto, relazione al Convegno di Trapani del Gruppo di Pisa, 8-9 giugno 2012.
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connotati di “libertà negative”»27. La distanza che separa questo approccio da quello della nostra Corte costituzionale (infra, § 5) è notevole, come peraltro è notevole la distanza che, in materia di diritti sociali, separa la Cedu dalla Costituzione italiana.
3. Lo sciopero nel diritto dell’Unione europea: l’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali e non solo.
Quello brevemente riassunto può essere considerato il livello internazionale di protezione del diritto di sciopero. Proviamo ora a confrontare questo livello con il livello di protezione garantito dal diritto dell’UE 28. Nel diritto dell’UE, il diritto di sciopero fa la sua comparsa ufficiale nel 2000, con l’art. 28 della CDFUE, che prevede il diritto dei «lavoratori e dei datori di lavoro, o delle rispettive organizzazioni, «di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi, compreso lo sciopero», e aggiunge: «conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali». Il riferimento alle legislazioni e prassi nazionali è doveroso, poiché la competenza a regolamentare la materia è riservata agli Stati membri (art. 153.5 TFUE). Il riferimento al diritto dell’UE è invece coerente con quanto disposto dall’art. 51 CDFUE: come ha precisato la C. giust., sebbene nei settori che non rientrano nella competenza dell’Unione «gli Stati membri restino in linea di principio liberi di determinare le condizioni di esistenza dei diritti in questione e i modi di esercizio degli stessi, resta tuttavia il fatto che, nell’esercizio di tale competenza, tali Stati sono comunque tenuti a rispettare il diritto comunitario». Lo sciopero è dunque un diritto fondamentale sancito dalla CDFUE, alla quale solo nel 2007, con i Trattati di Lisbona è stato attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati (art. 6.1 TUE). Prima di entrare nella Carta, il diritto di sciopero non era tuttavia sconosciuto all’UE; era già previsto infatti dall’art. 13 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali (adottata nel 1989), rimasta tuttavia, a causa della opposizione del Regno Unito, una mera dichiarazione di principi non vincolante perché non integrata nel diritto dell’UE: i diritti fondamentali in essa sanciti debbono tuttavia essere “tenuti presenti” (art. 151.1 TFUE) dall’UE e dagli Stati membri. L’art. 28 “ricomprende” espressamente lo sciopero (ma implicitamente anche la serrata, perché, diversamente dalla nostra Costituzione, la CDFUE mette sullo stesso piano, a parità di armi, datori di lavoro e lavoratori) nella più ampia categoria dell’azione collettiva. Non ho qui la possibilità di approfondire questo argomento; posso limitarmi a dire che, mentre lo sciopero rappresenta la più classica delle azioni collettive, l’azione collettiva
27 28
Ancora Guazzarotti, op. cit. Più in generale, sulla protezione dei diritti sociali nel diritto dell’Unione europea cfr. le riflessioni critiche di Luciani, Diritti sociali e integrazione europea, in Politica del diritto, 2000, 376 ss.: l’ordinamento comunitario – afferma l’A. – «mantiene una netta distinzione (a vantaggio delle prime) fra libertà economiche e diritti di diversa natura, determinando una situazione che lo differenzia nettamente da tutti gli ordinamenti degli Stati membri».
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può consistere in una forma di lotta diversa dallo sciopero (nel senso stretto di astensione collettiva dal lavoro): dal boicottaggio ad altre forme di lotta sindacale, come il rifiuto dello straordinario, o lo “sciopero delle mansioni”, e altre ancora, che non comportando una (completa) astensione dal lavoro sono tuttavia nella gran parte degli ordinamenti ritenute non rientranti nella nozione dello sciopero tutelato come diritto. Il diritto dell’UE non conosce, e non può conoscere una nozione codificata né dell’azione collettiva, né dello sciopero, perché l’UE non ha competenza per una siffatta codificazione, trattandosi di materie riservate alla competenza degli Stati membri (art. 153.5 TFUE). Nell’interpretare l’art. 28 CDFUE occorre pertanto fare riferimento alle diverse esperienze tenute in considerazione nelle legislazioni e nelle prassi nazionali degli Stati membri. La definizione della nozione di sciopero (che può assumere forme variabili nelle diverse esperienze sindacali) così come la determinazione dei limiti entro i quali il diritto è riconosciuto restano affidate al diritto interno degli Stati membri, e sono perciò molto variabili. Il punto merita di essere sottolineato, perché nella interpretazione dell’art. 28 CDFUE (come dell’intera Carta, peraltro) non si dovrebbe prescindere dalla considerazione dei diversi livelli di protezione del diritto di azione collettiva e di sciopero offerti, nei rispettivi campi di applicazione, dal diritto degli Stati membri, oltre che dal diritto dell’Unione e dal diritto internazionale: così dispone infatti l’art. 53 CDFUE29.
4. L’art. 28 CDFUE nell’interpretazione della Corte di
Giustizia. Il bilanciamento dell’azione collettiva con le libertà economiche. Le cose, nella interpretazione dell’art. 28, non stanno tuttavia così: almeno non stanno così se il discorso si ferma alla considerazione della giurisprudenza della C. giust., che peraltro è l’interprete autentico del diritto dell’Unione. La giurisprudenza di cui si tratta è costituita dal c.d. Laval quartet, vale a dire dalle quattro sentenze nelle quali la C. giust. ha affrontato l’interpretazione dell’art. 28 CDFUE, composto dalle sentenze Viking (11 dicembre 2007, causa C-438/05, Viking Line), Laval (18 dicembre 2007, causa C-341/05, Laval und Partneri Ltd), e dalle successive Rüffert (3 aprile 2008, causa C-346/06), Commissione c. Granducato di Lussemburgo (19 giugno 2008, causa C-319/06). Al Laval quartet sarebbe necessario aggiungere Commissione c. Repubblica federale di Germania (15 luglio 2010, causa C-271/08), e altre successive sentenze dello stesso tenore, di cui ometto per brevità la citazione30.
29
«Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare la Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle costituzioni degli Stati membri». 30 Cfr. Giubboni, Libertà economiche fondamentali, circolazione dei servizi e diritto del lavoro, in RGL, 2015, 811; sulla giurisprudenza più recente della C. giust. cfr. Costantini, Direttive sui contratti pubblici e Corte di giustizia: continuità e discontinuità in tema di clausole sociali, in WP D’Antona, It., 309/2016.
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Salvo le prime due (Viking e Laval del 2007), che riguardano direttamente l’azione collettiva, le altre investono il diritto alla negoziazione collettiva (garantito anch’esso dall’art. 28 CDF), coinvolto nella interpretazione della Direttiva 96/71 sul distacco transnazionale, con particolare riguardo al trattamento economico e normativo che deve essere assicurato ai lavoratori distaccati dall’impresa appaltatrice proveniente da altro Stato membro dell’UE. Meriterebbe certamente un commento la lettura assai riduttiva fornita dalla C. giust. alla regola della parità di trattamento tra i lavoratori distaccati e i dipendenti dell’impresa appaltante, ridotta ai soli minimi garantiti da contratti collettivi efficaci erga omnes, escluse le più favorevoli condizioni previste dal contratto collettivo (aziendale o comunque non efficace erga omnes) applicato ai dipendenti dell’appaltatore. Sarebbe necessario almeno sottolineare il vantaggio competitivo che tale lettura riduttiva assicura agli Stati new comers (entrati nell’UE a seguito dell’allargamento ad est), consentendo alle imprese di quegli Stati di competere sul mercato interno avvalendosi del più basso costo del lavoro, in spregio all’obiettivo della lotta al dumping sociale su cui è fondata, nella Direttiva 96/71 (ora sostituita dalla Direttiva 2014/67), la regola della parità di trattamento. Ma avendo scelto di parlare del diritto di sciopero devo tralasciare questo argomento, e concentrarmi invece solo sulle prime due sentenze, che essendo notissime, possono essere ricapitolate molto brevemente31.
4.1. Azione collettiva e libertà di stabilimento. Nel caso oggetto della prima delle due sentenze, l’impresa Viking Line, operatore finlandese di traghetti sulla rotta tra la Finlandia e l’Estonia, aveva tentato di immatricolare in Estonia una delle proprie imbarcazioni in perdita. Il cambiamento di bandiera avrebbe consentito all’impresa di concludere un contratto collettivo col sindacato estone, traendo così vantaggio competitivo dalla possibilità di applicare retribuzioni e condizioni di lavoro inferiori rispetto a quelle garantite ai lavoratori finlandesi dal loro contratto collettivo. L’azione collettiva di boicottaggio promossa dal sindacato finlandese FSU (sostenuta dall’azione di solidarietà della Federazione internazionale dei lavoratori dei trasporti) aveva bloccato l’iniziativa della Viking Line, che aveva però dato avvio all’azione giudiziaria contro la Federazione internazionale dei lavoratori dei trasporti (IFT) per impedirle di intraprendere nuove azioni di boicottaggio. La C. giust. ha impostato il caso Viking come coinvolgente la libertà di stabilimento (piuttosto che la libera prestazione di servizi) e le “restrizioni” al suo esercizio (art. 43 TCE, ora art. 49 TFUE). Preliminarmente la Corte ha risposto in senso positivo alla domanda se l’azione collettiva posta in essere da soggetti privati (i sindacati) possa rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 49 TFUE. La risposta positiva dipende dalla attribuzione a tale disposizione dell’effetto diretto orizzontale nei confronti dei privati; l’effetto diretto
31
Per un’analisi critica più approfondita di entrambe le sentenze rinvio a Ballestrero, Le sentenze Viking e Laval: la Corte di giustizia “bilancia” il diritto di sciopero, in LD, 2008, 357. Cfr. anche Carabelli, Europa dei mercati e conflitto sociale, Cacucci, 2009; Freedland, Prassl (a cura di), Viking, Laval and Beyond, Hart publishing, 2014.
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consente di inserire l’azione collettiva tra gli atti di soggetti privati in grado di ostacolare l’esercizio delle libertà di circolazione (di stabilimento, nel caso di specie). Risolta in senso positivo la questione preliminare, la Corte ha affrontato la questione centrale: vale a dire se un’azione collettiva (come il boicottaggio posto in essere dalla FSU, con la solidarietà della IFT) costituisca “restrizione” alla libertà di stabilimento e, in caso affermativo, in quale misura tale restrizione sia giustificata. La soluzione è costruita attraverso una serie di passaggi argomentativi. Con il primo passaggio la C. giust. supera l’ostacolo rappresentato dalla riserva agli Stati membri della competenza nelle materie di cui all’art. 153.5 TFUE (tra le quali rientra appunto il diritto di sciopero). La Corte, come ho ricordato prima, afferma che «sebbene nei settori che non rientrano nella competenza della Comunità gli Stati membri restino in linea di principio liberi di determinare le condizioni di esistenza dei diritti in questione e i modi di esercizio degli stessi, resta tuttavia il fatto che, nell’esercizio di tale competenza, tali Stati sono comunque tenuti a rispettare il diritto comunitario». La riserva di competenza non basta dunque a salvaguardare gli ordinamenti interni dall’invadenza comunitaria. Il secondo decisivo passaggio consiste nell’affermare che il diritto di azione collettiva è un diritto fondamentale riconosciuto e garantito dall’UE nell’ambito del Trattato e nei limiti della compatibilità con altri diritti fondamentali garantiti dal Trattato. Benché all’epoca la CDFUE non avesse ancora lo stesso valore giuridico dei Trattati, la Corte, richiamando le fonti internazionali e comunitarie, afferma «che il diritto di intraprendere un’azione collettiva, ivi compreso il diritto di sciopero, deve essere riconosciuto quale diritto fondamentale facente parte integrante dei principi generali del diritto comunitario di cui la Corte garantisce il rispetto». E aggiunge: «rimane però il fatto che il suo esercizio può essere sottoposto a talune restrizioni. Infatti, come riaffermato dall’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tali diritti sono tutelati conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali». La conclusione è che «il carattere fondamentale del diritto di intraprendere un’azione collettiva non è tale da escludere le azioni collettive (...) dall’ambito di applicazione dell’art. 43 TCE» (ora 49 TFUE). Riportando l’azione collettiva nell’ambito di applicazione del diritto di stabilimento, la Corte ne assoggetta l’esercizio alle regole che disciplinano quel diritto, aprendo così la strada al bilanciamento tra un diritto (sociale) fondamentale e una libertà economica; bilanciamento al quale è appunto preliminare la configurazione dell’azione collettiva come “restrizione” della libertà di circolazione coinvolta, ammissibile solo se persegua un obiettivo legittimo compatibile con il Trattato e sia inoltre giustificata da ragioni imperative di interesse generale. Ma non basta: perché la Corte ritiene sì che la tutela e il miglioramento delle condizioni di lavoro dei marittimi costituiscano una ragione imperativa di interesse generale, ma per giustificare le restrizioni alla libertà di stabilimento – afferma – occorre che l’azione collettiva sia effettivamente connessa all’obiettivo legittimo di tutela dei lavoratori: ciò che, secondo la Corte, non si verificherebbe «se fosse accertato che i posti o le condizioni di lavoro in questione non erano compromessi o seriamente minacciati». Spetterà al giudice nazionale valutare la legittimità dell’obiettivo; legittimità che non esclude che il giudice debba inoltre valutare se l’azione collettiva fosse “proporzionata”, vale a dire non eccedesse ciò che è necessario per conseguire l’obiettivo perseguito, valutando in particolare
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se, ai sensi della normativa nazionale e delle norme contrattuali applicabili a tale azione, il sindacato «non disponesse di altri mezzi, meno restrittivi della libertà di stabilimento, per condurre a buon fine il negoziato collettivo avviato con la Viking e, dall’altro lato, se detto sindacato avesse esperito tutti questi mezzi prima di avviare l’azione in questione». Dunque, l’azione collettiva, per essere proporzionata alla realizzazione di un obiettivo legittimo, deve essere un rimedio “ultimo”. La Corte sposa così una concezione del diritto di sciopero estranea alle tradizioni costituzionali e alle legislazioni nazionali di quella parte degli Stati membri (quello italiano, anzitutto) nei quali la tutela dell’autonomia sindacale garantisce l’autodeterminazione del sindacato nella scelta degli obiettivi da perseguire e non impone obblighi legali di preventivo esperimento delle procedure di conciliazione del conflitto.
4.2. Azione collettiva e libera prestazione di servizi. Ad una settimana di distanza dalla sentenza Viking, la C. giust. ha pronunciato la sentenza sul caso Laval. Nel caso, era in discussione l’azione collettiva intrapresa dal sindacato delle costruzioni, sostenuta dalla solidarietà dei sindacati del settore pubblico e del settore elettrico, per indurre l’impresa lettone Laval, che aveva distaccato alcuni propri dipendenti nel cantiere edile di un’impresa svedese da lei controllata, a sottoscrivere il contratto collettivo svedese dell’edilizia. A seguito degli scioperi che avevano bloccato l’attività, la Laval aveva rinunciato all’esecuzione del contratto di appalto, e la controllata svedese era fallita. I dispositivi delle due sentenze sono diversi: il dispositivo di Viking appare più aperto e possibilista di quello di Laval, che censura senz’altro l’azione collettiva intrapresa dai sindacati svedesi come ingiustificata restrizione della libertà di circolazione (libera prestazione dei servizi) garantita dall’art. 56 TFUE (ex art. 49 TCE). Ma è solo un’impressione, perché la sostanza delle decisioni non cambia. In una prima parte della sentenza Laval la Corte affronta, relativamente alla libera circolazione dei servizi, le questioni teoriche già esaminate in Viking in riferimento alla libertà di stabilimento: poiché le risposte della Corte sono le stesse esaminate commentando Viking, e cambia solo la libertà di circolazione alla quale la Corte fa riferimento, rinvio a quanto detto sopra. Nella seconda a parte (in realtà intrecciata alla prima) la Corte entra invece nel merito della valutazione degli obiettivi e della proporzionalità dell’azione collettiva intrapresa dai sindacati svedesi. La Corte premette (come in Viking) che il diritto di intraprendere un’azione collettiva, che ha come scopo la protezione dei lavoratori dello Stato ospitante contro un’eventuale pratica di dumping sociale, può costituire una ragione imperativa di interesse generale, tale da giustificare, in linea di principio, una restrizione ad una delle libertà economiche fondamentali garantite dal Trattato. E riconosce che l’azione collettiva, nel caso di specie, rientra nell’obiettivo della protezione dei lavoratori: tuttavia – precisa subito – l’ostacolo alla libertà di circolazione dei servizi che tale azione comporta nel caso di specie non può essere giustificato alla luce dell’obiettivo di protezione dei lavoratori. Per argomentare questa drastica soluzione la Corte collega la questione della legittimità dell’azione collettiva all’interpretazione delle disposizioni della dir. 96/71 sul distacco
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transnazionale, alla quale guarda come ad una normativa di tutela “minima” dei lavoratori distaccati (non diversamente da quanto farà nelle successive sentenze parte del Laval quartet, e in quelle ancora successive). Insomma: la protezione dei lavoratori svedesi contro il dumping sociale è una ragione di interesse generale, ma non può essere invocata nel caso dai sindacati (la cui azione era diretta ad imporre all’impresa lettone un contratto collettivo privo di efficacia generale) e quindi non giustifica la restrizione alla libertà di circolazione inflitta dall’azione collettiva intrapresa contro l’impresa lettone (d’altro canto, le misure legislative svedesi aventi lo stesso scopo di protezione anti dumping sono giudicate dalla Corte discriminatorie in ragione della nazionalità). La “dottrina Laval”, intendendo per tale la priorità assegnata alle libertà economiche nel bilanciamento con il diritto all’azione collettiva, è stata investita da critiche dure, inclusa quella autorevolmente formulata, nell’ambito del Consiglio d’Europa, dal CEDS: ma non si può dire che tali critiche fino ad ora abbiano avuto un tangibile seguito. Uno spiraglio potrebbe aprirsi, dopo il ritiro definitivo del regolamento Monti II, con la dir. 2014/67 sul distacco transnazionale, emanata per colmare le lacune della dir. 96/71, e frutto del faticoso accordo raggiunto tra le istituzioni europee (Parlamento, Commissione, Consiglio), segnato pesantemente dalla giurisprudenza della C. giust. nota come Laval quartet. Oltre alla (generica) clausola di salvaguardia (art. 1.2, c.d. clausola Monti)32, un segnale di cambiamento si può leggere nell’art. 9, lett. f)33 che potrebbe adombrare un’apertura al potere negoziale dei sindacati nei confronti dell’impresa straniera distaccante, e che potrebbe legittimare l’azione sindacale (ricorso allo sciopero incluso) oltre i limiti fissati dalla Corte in Laval. Ma sono segnali ancora flebili. Per concludere, allora, riprendendo il filo del discorso svolto sopra a proposito degli standard internazionali di protezione del diritto di azione collettiva e di sciopero in particolare: quando un diritto sancito dalla CDFUE “corrisponda” ad un diritto sancito dalla Cedu, a norma dell’art. 52.3 della stessa Carta, l’interpretazione della Corte di Strasburgo dovrebbe essere vincolante per le istituzioni dell’Unione. E se l’Unione prendesse sul serio gli standard dell’OIL, e ciò che ne è derivato in termini di tutela dei diritti umani da
32
Il testo del Considerando 48 è il seguente. «La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in particolare (...) il diritto di negoziazione e di azioni collettive (articolo 28), (...) e deve essere applicata nel rispetto di tali diritti e principi». La clausola di salvaguardia (art. 1.2) ha il seguente testo. «La presente direttiva non pregiudica in alcun modo l’esercizio dei diritti fondamentali riconosciuti negli Stati membri e a livello di Unione, ivi compresi il diritto o la libertà di sciopero e il diritto o la libertà di intraprendere altre azioni contemplate dalla disciplina delle relazioni industriali negli Stati membri, secondo il diritto e/o le prassi nazionali, né il diritto di negoziare, concludere applicare accordi collettivi e promuovere azioni collettive secondo il diritto e/o le prassi nazionali». 33 L’art. 9, lett. f, prevede la designazione di una persona di contatto in qualità di rappresentante legale, attraverso la quale le parti sociali interessate possano cercare di impegnare il prestatore di servizi ad avviare un’attività di negoziazione collettiva secondo il diritto e/o la prassi nazionali, all’interno dello Stato ospitante. Una timida apertura nel senso del superamento della “dottrina Laval” si può intravvedere nella sentenza Sähköalojen (C. giust., 12 febbraio 2015, causa C-396/13), laddove la Corte afferma che «il salario minimo calcolato in riferimento ai contratti collettivi pertinenti non può dipendere dalla libera scelta del datore di lavoro che distacca alcuni dipendenti al solo fine di proporre un costo del lavoro minore rispetto a quello dei lavoratori locali». Cfr. Giubboni, op. cit.
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parte della Corte EDU, la sola strada corretta per superare la “dottrina Laval” sarebbe sottrarre l’esercizio del diritto di sciopero da ogni forma di bilanciamento con le libertà economiche34. Ma fino ad ora questo non è avvenuto. Le argomentazioni con le quali la C. giust. ha motivato il parere negativo (2/2013, 18 dicembre 2014) sulla adesione dell’UE alla Cedu (pure prevista dall’art. 6. TUE) (v. specialmente i paragrafi 180, 183-188 del parere) lasciano irrisolta la questione di un diritto fondamentale, che la Corte di Strasburgo costruisce come human right, che tollera solo le limitazioni di cui si è detto sopra, e un diritto fondamentale che la Corte di Lussemburgo ha invece configurato come “restrizione” alle libertà economiche, costringendone il legittimo esercizio entro un test di proporzionalità che ne decreta in partenza lo stato di minorità.
5. L’impatto della “dottrina Laval” sul diritto italiano: qualche considerazione conclusiva.
Diversamente da quanto avvenuto in Svezia e in Gran Bretagna, dove l’impatto è stato rilevante35, in Italia la “dottrina Laval” non ha avuto sino ad ora riscontri giudiziari. Evidentemente le controversie hanno avuto carattere meramente interno, e in tal caso le regole fissate dalla C. giust. non trovano applicazione, mentre si applica la disciplina nazionale (che sono costretta qui a dare per nota). Ma l’occasione per un intervento del giudice nazionale può presentarsi, ed è allora opportuno chiarire quali siano i problemi che si troverà a dover risolvere. Infatti, pur essendo esclusa dalla competenza dell’Unione, la materia dello sciopero (e della serrata) non resta senz’altro al di fuori dell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione: le sentenze Viking e Laval ci dicono il contrario, e di questo è necessario tenere conto. Ma è altresì necessario chiarire quando e come tenerne conto.
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Così Bogg, Viking and Laval: the International Labour Law Perspective, Introduction, in Freedland, Prassl, op. cit., 71. In Svezia, dopo che la Corte del rinvio pregiudiziale ha condannato i sindacati, colpevoli di aver organizzato uno sciopero illegittimo in base al diritto europeo (ma all’epoca non a quello nazionale), ad un pesante risarcimento dei danni, è stata emanata una nuova legge (la Lex Laval), che ha introdotto forti limiti alle azioni collettive quando i lavoratori distaccati godano di un trattamento minimo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo di riferimento. In Gran Bretagna, la minaccia di una compagnia aerea di richiedere una injunction nei confronti del sindacato BALPA, che avrebbe potuto comportare il superamento dei limiti previsti dalla legge ai risarcimenti derivanti dalle responsabilità connesse all’azione sindacale, ha indotto il sindacato a rinunciare allo sciopero. Il CEDS ha ritenuto la Lex Laval in contrasto con l’art. 6.4. (e anche con l’art. 19.4) CSE; inoltre, richiamando i rapporti del CEACR riguardo sia alla Lex Laval sia al caso BALPA, ha ribadito che la libertà delle imprese di prestare servizi nel territorio di altri Stati non può avere un aprioristico maggior valore rispetto ai diritti fondamentali garantiti dalla Carta (cfr. Bogg op. cit., 67). Un panorama dell’impatto della “dottrina Laval” in alcuni Stati membri dell’UE in Vimercati (a cura di), Il conflitto sbilanciato. Libertà economiche e autonomia collettiva tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali, Cacucci, 2009. Per ulteriori approfondimenti cfr. i saggi di Malmberg, I rimedi nazionali contro le azioni collettive intraprese in violazione del diritto dell’Unione. Il caso svedese, in DLRI, 2011, 371, Bruun, Sanzioni e rimedi per azioni collettive illegittime negli stati membri del Nord Europa. Il diritto dell’Unione europea in context, in DLRI, 2011, 385, Zahn, de Witte, La prospettiva dell’unione europea: dare preminenza al mercato interno o rivedere la dottrina Laval?, in DLRI, 2011, 433.
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Punto primo: la materia non rientra nelle competenze dell’Unione, e dunque, la normativa nazionale relativa alla legittimità di uno sciopero (estensione del diritto, cioè titolarità e finalità, e modalità legittime del suo esercizio) non rientra, né può rientrare, direttamente nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione. Punto secondo: l’attuazione del diritto dell’Unione può venire in considerazione in via indiretta: così è stato quando la Corte ha deciso sulla “legittimità comunitaria” di azioni collettive, guardando ad esse attraverso la “lente” delle libertà economiche (di circolazione) con le quali erano entrate in conflitto, e attraendole per questa via indiretta nel cono d’ombra del diritto dell’Unione. Dall’insieme di questi due punti possiamo trarre almeno una prima conseguenza: e cioè che la “dottrina Laval” non è applicabile al di fuori delle particolari situazioni nelle quali il diritto fondamentale all’azione collettiva entra in conflitto con altri diritti fondamentali garantiti e regolati dal diritto primario e derivato dell’Unione. Ma quali potrebbero essere queste situazioni? Proviamo ad ipotizzare che un’impresa polacca, appaltatrice di un servizio, si ritenesse danneggiata nell’esercizio delle propria libertà di circolazione (distacco transnazionale) da uno sciopero articolato proclamato dal sindacato X per tutelare le condizioni di lavoro e l’occupazione dei lavoratori coinvolti nella vicenda, e, invocando la “dottrina Laval”, chiedesse al giudice italiano di condannare il sindacato al risarcimento dei danni. E poniamo che, alla luce del diritto interno, lo sciopero fosse legittimo36, ma che invece, alla luce del test di proporzionalità di cui alla “dottrina Laval”, lo sciopero fosse valutabile come non conforme al diritto dell’Unione (ingiustificata, non necessaria restrizione alla libertà economica dell’impresa polacca). Se partissimo dalla considerazione del primato del diritto dell’Unione, e dell’effetto diretto (orizzontale) dell’art. 56 TFUE, dovremmo concludere nel senso che il giudice nazionale deve disapplicare il diritto interno (effetto diretto orizzontale dell’art. 56 TFUE). Tenuto conto che il diritto dell’Unione di cui si tratta (“la dottrina Laval”), collegando strettamente l’azione collettiva alla contrattazione, imputa la responsabilità del danno subito dall’impresa al sindacato (non a caso, perché il modello di riferimento è quello di ordinamenti che prevedono la titolarità sindacale del diritto di sciopero), dovrebbe condannare il sindacato al risarcimento dei danni. E già questo sarebbe un problema di non facile soluzione. Infatti, poiché secondo la prevalente interpretazione dell’art. 40 Cost., la titolarità del diritto di sciopero è dei singoli lavoratori, la responsabilità del sindacato potrebbe derivare solo dall’aver violato eventuali regole contrattuali di pace sindacale proclamando lo sciopero, o, al limite, dal non aver esercitato il “dovere di influenza” sui lavoratori: ove
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Secondo il nostro diritto, l’autonomia sindacale garantisce al sindacato l’autodeterminazione nella scelta degli obiettivi da perseguire, e trattandosi di obiettivi tipicamente sindacali (finalità economico-professionali) gli obiettivi sarebbero pienamente legittimi. Quanto alle modalità di esercizio dello sciopero, queste sono legittime fino al limite del “danno alla produttività dell’impresa” (che la consolidata giurisprudenza della Cassazione ravvisa solo nelle situazioni di tale gravità da non consentire all’impresa la ripresa della propria attività dopo la cessazione dello sciopero: il caso ricorrente è quello del danneggiamento degli impianti): ma nel caso il giudice potrebbe avere escluso che lo sciopero avesse provocato un danno alla produttività dell’impresa.
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queste ipotesi non ricorrano, sembra difficile imputare al sindacato, per il solo fatto di avere proclamato lo sciopero, la responsabilità per i danni subiti dall’impresa37. Ma poniamo che anche questo ostacolo fosse superato. Il primato del diritto dell’UE sarebbe allora una soluzione soddisfacente? A mio parere no. La distanza siderale tra i canoni di giudizio interni ed europei, a partire dalla piramide dei valori e dei principi su cui tali canoni sono costruiti (priorità dei diritti sociali nell’ordinamento costituzionale italiano; priorità delle libertà economiche nel diritto dell’Unione), mette il giudice nazionale di fronte al non facile problema di decidere quale sia il diritto da applicare nella fattispecie. A mio avviso il problema non può essere senz’altro risolto nel senso del primato del diritto dell’Unione38. Mi pare che debba piuttosto valere la regola fissata dall’art. 53 CDFUE, che salvaguarda il superiore livello di protezione del diritto offerto dal diritto interno; mi pare inoltre, che trattandosi di un diritto fondamentale garantito sia dalla Carta, sia dalla nostra Costituzione, debba essere richiamato l’art. 52.4 CDFUE, che dovrebbe garantire una interpretazione dell’art. 28 “in armonia” con la nostra tradizione costituzionale. E non possiamo dimenticare che, trattandosi di uno dei diritti garantiti dall’art. 11 Cedu, l’art. 52.3. CDFUE prevede che «il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione»: significato e portata che, come ho detto sopra, sono molto distanti dalla configurazione del diritto di sciopero come “restrizione giustificata” delle libertà economiche fornita dalla C. giust. nelle sentenze Viking e Laval, e vicini invece alla configurazione del diritto di sciopero come “libertà negativa”, insuscettibile di bilanciamento (sbilanciato) con le libertà economiche39. Tutto ciò considerato, nel caso sopra ipotizzato il giudice nazionale che non se la sentisse di percorrere la via segnata dall’art. 53 CDFUE, salvaguardando senz’altro il superiore livello di protezione garantito dall’art. 40 Cost., dovrebbe – a mio modesto avviso – sospendere il giudizio e rinviare alla Corte costituzionale la questione della esistenza di un contro-limite (l’art. 40 Cost., appunto) che faccia da ostacolo al primato del diritto dell’Unione. Un rinvio pregiudiziale della nostra Corte alla C. giust. potrebbe fornire l’occasione (attesa ed auspicata) di scrivere una nuova dottrina, meno distante della “dottrina Laval” dalle tradizioni costituzionali comuni.
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Cfr. Lo Faro, Responsabilità e sanzioni per sciopero illegittimo: cambia qualcosa in Italia dopo Laval?, in DLRI, 2011, 419. Nel caso non sarebbe infatti applicabile la “dottrina Melloni” (C. giust., 26 febbraio 2013, causa C-399/11) perché la materia non è (e non può essere) interamente regolata dal diritto dell’Unione, che, come si è detto sopra, viene in considerazione solo in via indiretta. Nel caso Melloni si poneva una questione di standard di protezione, più elevati nell’ordinamento spagnolo rispetto a quelli previsti dal diritto dell’Unione (decisione quadro n. 2002/584 del Consiglio del 13 giugno 2002 sul mandato di arresto europeo); nella sentenza la Corte ha affermato che le autorità nazionali possono applicare un maggiore standard di tutela dei diritti fondamentali alla condizione che non vengano compromessi né il livello di protezione previsto dalla CDFUE, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. Qualora la materia sia interamente disciplinata dal diritto europeo senza alcuna discrezionalità per lo Stato membro, come nel caso in discussione, il rispetto del primato e dell’effettività del diritto europeo impongono che lo standard di protezione sia quello sancito dalla CDFUE, che costituisce allora lo standard minimo e massimo di protezione. 39 Ma non possiamo dimenticare che la C. giust., dando parere negativo all’adesione dell’Unione alla Cedu, ha voluto sottolineare la propria esclusiva competenza sul diritto dell’Unione e la propria totale autonomia, come interprete e garante del diritto dell’Unione, dalla Corte di Strasburgo. 38
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The Social Dimension of the Euro-Canadian CETA S ummary:
1. A tormented negotiation. – 2. Protection of collective bargaining and the right to strike in the Canadian legal system. – 3. Social provisions of CETA. – 4. Enforcement procedures – 5. Conclusions.
Sinossi: Il saggio, dopo aver dato conto della tormentata negoziazione del CETA, nonchè dello stato di protezione raggiunto dal Canada circa i due principali diritti sindacali, id est: il diritto di contrattazione collettiva e di sciopero, si sofferma ad analizzare le previsioni sociali dell’accordo per arrivare a concludere che il diritto del lavoro non è affatto un aspetto secondario nel diritto commerciale internazionale. Abstract: The essay, after giving an overview about the negotiation of the CETA and a look not only at the protection of collective bargaining and the right to strike in the Canadian legal system, but also at the social provisions of CETA and their enforcement, concludes with the thought that, at the very final stage, Labour Law is not properly a National State phenomenon but it reclaimed the international dimension which is, of course, the basis of its history, because of the pervasiveness of businesses well known to the workers’ movements from their origins. Parole dards.
chiave:
CETA, Trade agreements, Social provisions, Canadian Labour Law, ILO’s stan-
Vincenzo Ferrante
1. A tormented negotiation. Following long introductory talks from April 2009, a free trade agreement between Canada and the European Union was signed in August 2014. Because the issues laid down in the initial project had been in a remarkable way added to with respect to the subjects which traditionally are negotiated in a commercial treaty, in order to include a regulatory co-operation framework for promoting further developments of bilateral co-operation, the original Trade and Investment Enhancement Agreement (TIEA) changed its name to became the Comprehensive Economic and Trade Agreement (CETA). By a large majority of 408 votes the CETA was ratified on 15 February 2017 by the European Parliament (rejected by 254, with 33 abstentions) and will now face the task of being ratified by the 28 member states. The long break between the end of negotiations and signature has been spent in responding to attacks and condemnation which came from farmers’ organizations, workers’ unions and consumer associations. Of course CETA was not the only target of this criticism, having to share the stage with the more notorious TTIP, negotiated with the USA, which nowadays seems to have been dropped, at least for now, after President Trump announced his neoisolationist turnaround. Not surprisingly a long period of analysis from different stakeholders has been inevitable because, according to attribution of new external competences to the Union on trade matters, laid down in the Treaty of Lisbon (art. 218 ff. TFEU), and following the international diplomatic tradition of both parties, the agreement was negotiated by executive staff exclusively and the text was published for the first time on the EU’s official website only on 26 September 2014. European antagonists of the two treaties have pointed the finger largely at the risks of globalization through its abolition of customs barriers, and in particular against the possibility that American foods and chemicals, currently respectful of less stringent safety standards, could invade Europe to the detriment of local production. Fears, indeed, not too different from those that led to the USA neo-protectionist breakthrough referred to above. The fact that trade treaties, such as those at issue here, do not have a certain and predictable outcome in line with the benefits that each party acquires is not surprising, because the CETA (and a fortiori the TTIP, were it ever signed and ratified) establish a really unforeseeable expansion of the market, triggering a process in which it is not easy to identify what areas eventually reach the greatest success in terms of the increase in exports. This should constitute a guarantee that the trade agreements are a challenge for the economic systems on both sides and not necessarily a commercial, imperialistic event. The point, however, that has required special attention pertains to the binding nature of the Treaty provisions and their justiciability entrusted to private parties (rather than in favour of the national courts), in cases where the interests of foreign companies are involved, according to a more usual formula stipulated in the treaties for free trade with third world countries, but entirely new in the case of bilateral relations across the Atlantic. Here the protests were particularly strong: in particular, on the basis of the original agreement, some feared that the CETA creation of an exclusive arbitration system (ISDS: Investor
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- State Dispute Settlement1) would totally deny national courts the power to rule on any dispute, when this involved a foreign company. The preference for private referees is due to the fear that the investing entity can lose their capital in the face of foreign judges too respectful of state authority of the country which appointed them. While caution of this kind can be accepted when the business partner is represented by an “emerging” State, and where the judiciary provides little guarantee of independence, it seems inappropriate to apply such a strict system also to relations between States of long democratic tradition. In the sixty years of existence of the European Community, the national courts of all member States have never shown awe towards their own nations or any other foreign country and there is no reason why in the years to come a lawsuit with a Canadian entrepreneur should start to be withdrawn from national jurisdiction to be entrusted to a board of private citizens. Whatever the scope of such clauses, in order to meet these concerns, the European Commission and the Canadian federal government have changed the final text of the treaty and eliminated the initial ISDS clause, setting up modifications to the Investment Chapter, in order to «move to a permanent, transparent, and institutionalized dispute settlement tribunal, revise the process for the selection of tribunal members, who will adjudicate investor claims; set out more detailed commitments on ethics for all tribunal members; and agree to an appeal system»2. A bilateral settlement system remained, however, for matters relating to the resolution of disputes concerning the application of labour law (ch. 23, art.23.5 ff.). Finally, the text of CETA was approved for signature by all 28 European Union member states, with the Belgian Government being the last country to express itself in favour of it, after a previous rejection vote of the Walloon regional parliament. Justin Trudeau, Prime Minister of Canada travelled to Brussels on 30 October 2016 to sign on behalf of Canada, thus stressing the importance that from the other side of the Ocean the descendants of ancient European settlers give to the agreement. Article 30.7(3) of CETA provides for provisional application of the treaty, in force of ratification of EP, pending the completion of the procedures for its conclusion by each single national parliament. A split entry into force is due to the fact that it is unclear whether all the provisions of the Treaty fall within the general competences of the Union on trade policy, which is an exclusive one. On 5 July 2016 the Commission decided to propose CETA to the member States as a ‘mixed’ agreement, as expressed slightly later in a case currently being examined by the European Court of Justice, concerning the trade deal reached between the EU and Singapore. In his opinion issued on 21 December 2016 (ECLI:EU:C:2016:992), General Advocate Sharpston proposed a distinction in a trade agreement between the exclusive competence clauses and the mixed competence ones. The first would be ratified immediately by the Council and
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See Radicati di Brozolo, Where is Investor-State Arbitration Heading? Reflections on the Debate over EU Investor Protection Agreements, in International Arbitration Under Review, Essays in honour of John Beechey (Carlevaris, Lévy, Mourre, Schwartz eds.), ICC, 2015; Barletta, In tema di arbitrato degli investimenti e giurisdizione dello Stato, in Europa e Diritto privato, Giuffrè, n. 3/2015, 545 – 581. 2 See Joint statement of EU Commissioner for Trade and Minister of International Trade of Canada of 29 February 2016.
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could enter into force because of art. 218(5) TFEU and the latter, in addition, by the single national parliaments later on. According to this opinion, provisions, laying down fundamental labour and environmental standards and falling within the scope of either social policy or environmental policy, require single state ratification, as well as dispute settlement clause, mediation and transparency mechanisms «in so far as those provisions apply to (and are therefore ancillary to) the parts of [the agreement] for which the EU enjoys shared external competence» (para. 502 and 5623). To distinguish matters which fall within the shared competence of the European Union from the others, in relation to which EU enjoys exclusive external competence, could be an endearing solution to escape from a diplomatic impasse; nevertheless, because «trade in goods» or «in renewable energy generation» falls within the scope of the common commercial policy, it would be not easy, in the light of provisional effect following EP ratification, to separate the impact that the liberalization of trade in these areas will produce on the general working conditions in each Country. As a matter of fact, historical experience shows that the removal of customs barriers is ordinarily followed by a convergence in labor market regulation, since the costs of production tend to align. Many feed on the fear that, in the absence of specific correctives included in the treaty, this alignment will result in a race to the bottom with a reduction of individual protection standards, both in terms of security of work, and with regard to individual rights in terms of wages, hours of work, guarantees of the stability of the relationship, and union protection. In other terms, the idea of joint ratification can insure the Commission, in case they had proceeded independently onward in negotiations, against the risk of being put into difficulties by the Council or by a single Member State (i.e Germany, whose Constitutional Court has been called upon to decide about the ratification process), but cannot afford a suitable solution for the case in which one of the Member States will not ratify the international agreement, claiming to be protecting the internal market from the risks of competition. For this reasons, the provisional efficacy appears to be limited to only those (restricted) areas for which there is a secure exclusive EU competence, while for the others ratification remains a single state’s competence. Also the ISDS clauses require express ratification from each member to come into force, but it is on the provisional level that workers’ protection has to be reached, thanks to the special social clauses of the Treaty, which are intended to avoid a downward “conformation” effect on labour related costs and regulations. Not surprisingly the “Joint Interpretative Instrument” of 27 October 20164, which is a bilateral document signed to define the meanings of the single provisions of CETA, and also
3
According to par. 502, «The provisions concerning labour protection standards [...] can be regarded as necessary in order to achieve the social policy objectives set out in Article 151 TFEU relating to, in particular, those listed in Article 153(1)(a), (b) and (c) (improvement of the working environment to protect workers’ health and safety; working conditions; and social security and social protection of workers). The European Union therefore has shared competence over that component as a result of Articles 4(2)(b), 151 and 153(1) TFEU and the second ground under Article 216(1) TFEU». 4 See the document 13541/16 of the General Secretariat of the Council “Joint Interpretative Instrument on the Comprehensive Economic and Trade Agreement (CETA) between Canada and the European Union and its Member States” at http:// data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-13541-2016-INIT/en/pdf. About it, see also Van Harten, The EU-Canada Joint
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by this reason a criterion for their interpretation, affirms that: «CETA will not result in foreign investors being treated more favourably than domestic investors. CETA does not privilege recourse to the investment court system set up by the agreement. Investors may choose instead to pursue available recourse in domestic courts» (litt. a). At the same point, litt. b) recognizes the «CETA clarifies that governments may change their laws, regardless of whether this may negatively affect an investment or investor’s expectations of profits. Furthermore, CETA clarifies that any compensation due to an investor will be based on an objective determination by the Tribunal and will not be greater than the loss suffered by the investor». The joint Instrument also makes the Parties committed to regular review of the content of the Treaty’s obligation to provide fair and equitable treatment, to prevent “shell” or “mail box” companies established in the territory of each state, allowing Parties to issue binding notes of interpretation on these matters. Furthermore, the same document notes solemnly that CETA «moves decisively away from the traditional approach of investment dispute resolution and establishes independent, impartial and permanent investment Tribunals, inspired by the principles of public judicial systems», including an Appeal mechanism «which will allow the correction of errors and ensure the consistency of the decisions of the Tribunal of first instance». In the light of American legal experience, where expropriation and the right to a fair trial are linked together by the Due Process Clause of the 1787 Constitution, CETA provisions on this issue can be considered a first step to the institution of a multilateral investment court, as a guarantee for foreign companies against the risk of undue expropriation. Because the ISDS mechanism is regulated by the amended chapter 8, and chapter 23 of CETA also provides for a joint system of interpretation on labour issues, it is clear that, first of all, an effort has to be made to clearly identify the meanings of the CETA provisions relating to individual and collective contracts of employment, so as to narrow the scope left to the interpreter. And in this spirit it is time to go on to examine in detail the social issues of the Treaty, not before describing the basics of the North American industrial relations system.
2. Protection of collective bargaining and the right to strike in the Canadian legal system.
It is widely believed that the CETA represents a sort of blueprint for the final conclusion of the TTIP, to verify in concrete whether the expansion of the common market leads to a lowering of European standards with the traditional protective social shield modified downwards. It could be said that it waits to see what will happen in Canada before it takes up the
Interpretive Declaration/Instrument on the CETA, Osgoode Hall Law school Legal studies research papers: http://www. bilaterals.org/IMG/pdf/ssrn-id2858689.pdf.
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transatlantic dossier again that the Presidency of Trump has dropped, after having denounced the Transpacific Partnership (TPP) as well. Although the level of protection of workers guaranteed by Canadian law is commonly considered higher than the US, because of the influence that the UK had on the country until a few decades ago, on slightly closer analysis, the Canadian system of protection of workers seems not so influenced by European legislation, as demonstrated, not to mention other, as by the strong level of integration between the Canadian and American unions, due to the historical relationship between AFL-CIO and the Canadian Labour Congress (CLC). As a matter of fact, the analogue legal approach and the workforce mobility between Ontario and New England, make it seem for an European observer that these bonds are narrower than the one joining together unions of different traditions within the ETUC (although, of course, the last boasts nowadays years of common history). For the rest, it is difficult to give even a brief description of the Canadian labour law system: the absence of linguistic homogeneity, the very small number of inhabitants (only 30 million for a state with a territory among the largest in the world) and the independence trends in Quebec, culminating in the double celebration of a separatist referendum which always failed, make for more careful Canadian legal sources to the legislative competences of territorial bodies compared with the US, where the “commerce clause” guarantees a certain homogeneity to the regulatory model of employment. The federal powers are therefore limited to the employees of public services (including telecommunications, chartered banks, postal service, airports and all kinds of transportation services), so that, for the rest, reference is made to the local legislation of each province (or territory). The legal model is a compound system because (like that in Louisiana) the French Civil Code of 1804 is a source of law in Quebec, while in the other States without no doubt apply the British common law. The influence of the French regulatory tradition has penetrated however, also in Canadian public law, and also in the tendency to clarité, that led to the enactment of a Labour Code, which is simply an Act of Parliament to consolidate certain statutes respecting industrial relations. In particular, the code concerns itself with occupational safety and health, some employment standards (like working time, wages, leave, holidays, and sexual harassment and termination of employment), and strikes and lockouts. The code also applies to some crown corporations (Queen Elizabeth II is still the head of the State) and to the Royal Canadian Mounted Police (RCMP), whose union gave rise to important judgments in recent years. At the level of federal legislation, the system of industrial relations is shaped on US legislation, with the adoption of a Wagner model, under which a workers’ or employers’ trade union, recognised by the Canada Labour Relations Board, has a duty to meet the other side and negotiate «in good faith and make every reasonable effort to enter into a collective agreement». Of course, the provision of a right to collective bargaining makes, on the one hand, the overall picture of the rules that apply to private companies particularly fragmented and, on the other, determines a special relevance for the role that constitutional sources assume in the system, similar to a system which is all the more concise about the protection offered to trade union activity. On a more closely related legal analysis plan, the biggest difference thus ends up covering Constitutional provisions, because the Canadian Charter of Rights and Freedoms almost com-
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pletely concentrates on the problem of the definition of legislative powers vested in the States and territories. The question is, to a certain extent, unknown to European constitutionalism, which never fails to meet provisions stressing the social nature of the modern states5. The history of the Canadian constitution is completely different because it does not arise from an original people’s declaration of rights, following the founding of a new State after the end of the war or the fall of a dictatorship: on the contrary, when the independence process had found full accomplishment (“patriation”) the Charter was approved originally by a law of the British Parliament of 1982, subject to change, however, only on the initiative of the Canadian Parliament, and simply recognized, as a fundamental right, the freedom of association under section 2 (d) of the Charter6. However, analysis of the most recent Canadian case law shows how the differences compared to Europe do not get over-emphasized. While in the past7 the Court has adopted a strictly literal approach, recognition of union rights has recently been reinforced by three important decisions of the Supreme Court of Canada, which completed the meager provisions of the Canadian Constitution. The Court, by means of three judgments given in a very short period of time since January 2015, overturned their previous jurisprudence which had denied constitutional protection for the right to collective bargaining and to strike, acknowledging for the first time that “a meaningful process” of collective bargaining is a process that provides employees with a degree of choice and independence sufficient to enable them to determine their collective interests and pursue them. In Saskatchewan Federation of Labour v. Saskatchewan [2015 SCC 4], by a majority of 5 to 2, the Supreme Court recognised that the workers’ right to strike is an essential part of a meaningful collective bargaining process8. It has to be stressed that this essential target has been reached by reference to international labour standards and that an important role has been played in this decision by the comparison of the Canadian constitutional charter to the “jurisprudence” of the ILO’s Committee on Freedom of Association and by the provisions of some of the European Constitutions (the charters of France, Italy, Germany and Spain have been expressly quoted). As pointed out by an academic observer9, «Not so very long ago, when Canadian labour lawyers thought about international labour law – that is, when they thought about it at all –
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The German Basic Law shows a certain reluctance in giving detailed provisions on social matters, apart from art. 20 § 1, which qualify the Republic as a “welfare state”: in any case, like recently in Canada (see the text), the scholars and the Constitutional Court have played an important role in developing freedom of association as recognized in art. 9 § 3 GG to the point that the right to collective bargaining and to strike (and to lock out) are supposed to be included in the same provision. 6 Webber, The Constitution of Canada, A contextual analysis, Hart, Oxford and Portland, 2015. 7 On these points keen interest has been showed by Italian doctrine: see Rolla (cur.), Eguali, ma diversi, Giuffrè, 2006 (and also Lo sviluppo dei diritti fondamentali in Canada, Giuffrè, 2000). 8 The Court ruled that «[a]long with their right to associate, speak through a bargaining representative of their choice, and bargain collectively with their employer through that representative, the right of employees to strike is vital to protecting the meaningful process of collective bargaining within s. 2(d)» of the Charter. 9 Lynk, The fall and rise of a good idea: the use of international labour law in the interpretation of the Charter of Rights and Freedoms, in 2015 New Labour Trilogy, CFLR Report (labourrights.ca/research-publications/2015-new-labour-trilogy-cflrforum.pdf).
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they imagined a distant and lighter-than-air body of vague rules and soft law that had nothing to do with their daily legal practice. And they were right». On the contrary, according to the same scholar, the recent decision held in January 2015 «has provided a full-blooded endorsement of international labour law as a seminal source for the protection and evolution of fundamental rights at work in Canada». In Mounted Police Association of Ontario v. Canada, the Court found that s. 2(d) guarantees the right of employees to meaningfully associate in the pursuit of collective workplace goals, including the right to collectively bargain, and that the government cannot enact laws or impose a labour relations process that substantially interfere with those rights. In this way the Court rejected the notion that collective bargaining is merely a “derivative” right that lies outside the core of freedom of association under s. 2(d), as had been argued by various governments in the past. Rather, the Court held that collective bargaining is a necessary precondition to the meaningful exercise of the constitutional guarantee of freedom of association. Also in Meredith v. Canada the Supreme Court, whose members are appointed not for life, like in the USA, but until they are 75 years old, recognised the right to collective bargaining defending unions’ right in a case in which for budgetary reasons the salary had been cut by legislative intervention (ERA). By a 6 - 1 majority, the Court concluded that the federal legislation did not violate section 2(d) of the Charter because, on the facts, a process of consultation between RCMP members and management regarding compensation continued after the ERA was enacted, so that the salary cap provided by law did not «substantially impair the collective pursuit of the workplace goals of RCMP members». The Court stated that the right to free collective bargaining had been not infringed for the following reasons. First, the level at which the Act capped wage increases was consistent with the going rate reached in agreements concluded with bargaining agents inside and outside of the core public administration. Second, the salary limit applied for a limited three-year period. Third, the Act did not preclude consultation on other compensation-related issues and indeed permitted the negotiation of additional allowances for workers. Even in the latter case the Supreme Court confront themes well known to European constitutionalism, which affected the Court of Justice and especially the European Court of Human Rights, as well as national courts of Spain, Portugal, Greece and Italy10, with a number of issues relating to restrictions on rights to social benefits and collective bargaining as a result of the crisis of 2008. In recent years indeed European democracies seem to have found their social fragility, discovering how constitutional provisions are unsuitable for providing a shelter against the changes in social policies resulting from the new approach to the issue of a balanced budget. In this light, the reference to international standards has revealed a clear and not only European trend to the deconstruction of the most ancient discipline, so as to show, at the end of this process, international standards now in the role of the worker’s human rights: it is a phenomenon knowledge of which should make Europeans more aware of
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See Loy (a cura di), Diritto del lavoro e crisi economica: misure contro l’emergenza ed evolutione legislativa in Italia, Spagna e Francia, Ediesse, 2011; Gil y Gil (dir.), Migraciones internacionales e impacto de la crisis económica, Juruá Editorial, 2013.
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the international trend to deregulation and, perhaps, less hostile to the processes of economic globalization and the spread of treaties on free trade. In conclusion, neither the adoption of a US Wagnerian model of industrial relations nor the absence of constitutional provisions which concern social rights, seem to lead the Canadian system too far from that of the individual and collective constitutional protection of labour rights of European countries, prompting the researchers to undertake a more in-depth comparative study of the foreign legislation.
3. CETA Social provisions. CETA11 preserves, not unlike the 1957 Treaty of Rome, the form and provisions of an international free trade agreement, lowering or eliminating customs duties on imports of almost all goods originating on both sides of the Atlantic, at the time it comes into force or gradually within 3, 5 or 7 years12; it includes 30 chapters on the regulations relating to the goods to be exchanged, and services to be provided across boarders. Consequently, special measures are taken, for instance, for food safety and animal and plant health (ch. 5), for financial or maritime transport services (chs. 13 and 14), telecommunications (ch. 15), e-commerce (ch. 16), government procurement (ch. 19), fair competition policies (ch.2, 3, 4 etc.) etc. An important part of CETA is then dedicated to the freedom of movement of European citizens to North America and vice versa: in this aspect, it really can be said that if the EU loses the UK to Brexit, it gains Canada, whose citizens are to be treated from now onwards as European “Unionist”, with regard to freedom of movement required to accept jobs and orders for goods and services. In this sense, Chapter 10 of the agreement (Temporary entry and stay of natural persons for business purposes) provides for special status for trained workers, who temporarily enter the EU or Canada to work for a foreign employer or for his/her own overseas companies or to provide a service. The Treaty, with an innovative prediction compared to the TFEU, distinguishes special categories of migrant workers, giving them different status and referring to them as: “contractual services suppliers” (natural persons employed by an enterprise that has no establishment in the territory and that has concluded a bona fide contract to supply a service); “independent professionals” (natural persons engaged in the supply of a service), “key personnel” (business visitors for investment purposes or a natural persons who establish, develop, or administer the operation of an investment in a capacity that is supervisory or executive). Particular importance has to be paid to the notion of “intra-corporate transferees” which refers to natural persons who have been employed by an enterprise in one of the following
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Two different websites are devoted to it; see: http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ceta/ceta-chapter-by-chapter/, and the official site: http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2016/10/28-eu-canada-trade-agreement/. 12 Referring to the most famous overseas sweetener for food preparations, Stefan Renckens, an assistant professor at the University of Toronto, told to CTV News Channel that, for example, CETA would eliminate the 8% tariff on Canadian maple syrup exported to EU countries, making it «more competitive in the eyes of the buyers in the EU».
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categories: (i) senior personnel; (ii) specialists (persons who possess uncommon knowledge of the enterprise’s products or services and its application or an advanced level of expertise or knowledge of the enterprise’s processes); (iii) graduate trainees with a university degree; and – finally – key personnel, contractual services suppliers, independent professionals, or short-term business visitors who are citizens of a Party to the treaty. Art. 10.7 CETA provides also, on an equal treatment basis, the maximum length of their stay (from a minimum of 90 days within any six month period for business visitors for investment purposes to three years, with a possible extension of up to 18 months, for intra-corporate transferees, specialists or senior personnel). Here the treaty’s provisions diverge from the TFEU’s (and from directives 96/71/EC and 2014/67/EU, governing the posting of workers in the framework of the provision of services), since there is no general principle of freedom of movement (that would have made Canada a full member of the Union), while CETA imposes limits on a citizens’ stay on the territory of the other Party, thus overlapping with the competencies of each Member State of the EU. Chapter 11 (Mutual recognition of professional qualifications) establishes a framework that would allow a Party to the treaty to recognize professional qualifications earned in another to allow professionals on both sides of the Atlantic to practise in each other’s territory. The treaty leaves it up to the relevant authorities or professional bodies in both the EU and Canada to negotiate a proposal on so-called mutual recognition that can then be integrated into CETA. To understand the other provisions of Ch. 23 it is by no means pointless to recall the content of the Joint Interpretative Instrument (above mentioned) at Art. 8 of Ceta, where the parties, in a open-minded way send a clear signal of appeasement policy, by stating (para. a) that «CETA commits Canada and the European Union and its Member States to improving their laws and policies with the goal of providing high levels of labour protection. CETA provides that they cannot relax their labour laws in order to encourage trade or attract investment and, in case of any violation of this commitment, governments can remedy such violations regardless of whether these negatively affect an investment or investor’s expectations of profit. CETA does not change the rights of workers to negotiate, conclude and enforce collective agreements and to take collective action». This is an important statement if it has been considered the main risk feared by the opponents, binding both sides to a commitment not to start a race to the bottom in order to make their economy more competitive. The Treaty also states (litt. c) that: «CETA also creates a framework for Canada and the European Union and its Member States to cooperate on trade-related labour issues of common interest, including through involvement of the ILO and a sustained dialogue with civil society, to ensure that CETA encourages trade in a way that benefits workers and in a manner supportive of labour protection measures». This is the spirit that must drive everyone in reading and interpreting the Treaty, which at Chapter 23, entitled Trade and Labour, encloses the provisions strictly related to social matters, laying down a bilateral duty to respect the standards set by the ILO, and to ratifying and
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implementing their fundamental conventions (art. 23.3.) which constitutes a social clause in a strict sense13. At art. 23.1, after having solemnly recalled the social values shared by the parties, there is recognition for “the beneficial role” that «policy coherence in decent work, encompassing core labour standards, and high levels of labour protection coupled with their effective enforcement» can have on «economic efficiency, innovation and productivity». Also the role that social dialogue among workers and employers, and their respective organisations is highly appreciated, committing the parties «to the promotion of such dialogue» (art. 23.1, sub para. 2). At art. 23.3.2, the two parties oblige themselves to «ensure that its labour law and practices promote the … objectives included in the ILO Decent Work Agenda, and in accordance with the ILO Declaration on Social Justice for a Fair Globalization of 2008 adopted by the International Labour Conference at its 97th Session, and other international commitments». Special attention is paid to establishing acceptable minimum employment standards for wage earners, including those not covered by a collective agreement; and to a lawful application of a principle of non-discrimination in respect of working conditions, including for migrant workers (23.3.2. litt. a and b). Also the obligations of health and safety at work are strongly reaffirmed in the light of «the prevention of occupational injury or illness and compensation in cases of such injury or illness». The treaty, in full awareness of the human and environmental disaster that has sadly marked the exploitation of the earth’s resources in the past decades, provides that legislation of each country «shall take into account existing relevant scientific and technical information and related international standards, guidelines or recommendations» (art. 23.3.3). An important role is recognized for the ILO: according to art. 23.3.4, indeed, «Each Party reaffirms its commitment to effectively implement in its law and practices in its whole territory the fundamental ILO Conventions that Canada and the Member States of the European Union have ratified respectively. The Parties shall make continued and sustained efforts to ratify the fundamental ILO Conventions if they have not yet done so. The Parties shall exchange information on their respective situations and advances regarding the ratification of the fundamental as well as priority and other ILO Conventions that are classified as up to date by the ILO»14. Subpara. 3 also encloses an important prediction in order to measure the care required in the case of sectors characterised by a technology in development: so «The Parties acknowledge that in case of existing or potential hazards or conditions that could reasonably be
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The theme has now acquired extensive literature, see Gil y Gil (dir.), Ushakova (coord.), Comercio y justicia social en un mundo globalizado, ADAPT Labour Studies e-Book series; Treu, Globalizzazione e diritti umani. Le clausole sociali dei trattati commerciali, forthcoming; ILO, International Institute for Labor Studies, Social dimension of free trade agreements, Geneva, 2013; Blankett, Trebilcock eds., Research Handbuch on transnational labor law, Edward Elgar Pub., 2015; Vandaele, International labour rights and the social clause: friends or foes, London: Cameron May, 2005; Van Roozendaal, Trade Unions and Global Governance. The Debate on a Social Clause, Continuum, London & N.Y., 2002. 14 Unlike the US (which has ratified only Conventions 105 and 182 on child labour), seven of eight fundamental conventions have been ratified by Canada (C138/1973 will enter into force for Canada on 08 Jun 2017 with minimum age specified in 16 years); the 1949 Right to Organise and Collective Bargaining Convention No. 98 is not jet ratified; on a general basis however only 22 conventions are in force in Canada with a very low rate of fidelity when compared to European (see f.i. Spain which can boast 87 ratifications).
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expected to cause injury or illness to a natural person, a Party shall not use the lack of full scientific certainty as a reason to postpone cost-effective protective measures». After having recognized at art. 23.2 «the right of each Party to set its labour priorities, to establish its levels of labour protection and to adopt or modify its laws and policies accordingly in a manner consistent with its international labour commitments», CETA recognizes «that it is inappropriate to encourage trade or investment by weakening or reducing the levels of protection afforded in their labour law and standards» (at art. 23.4. subpara. 1). The two clauses, despite their vocational language, make an important commitment because both, by binding the prohibition of a reduction in the level of protection to the initial solemn declarations, indicate that the objective of the Treaty is to develop competitiveness and to ensure a mutual commitment, albeit not absolute, to the promotion of working conditions, with a language that does not appear different from the provisions of TFEU (despite the experience gained over the years of implementation of the European directives attention on the implementation phase must be kept alive, to avoid legislators walking away from an upward alignment towards a reduction in protection). In this light, art. 23.4 provides (with a clause cannot be intended as a stand-still one) that: A Party shall not (subpara. 2) «waive or otherwise derogate from … its labour law and standards, to encourage trade or the establishment, acquisition, expansion or retention of an investment in its territory» or (subpara. 3) «through a sustained or recurring course of action or inaction, fail to effectively enforce its labour law and standards to encourage trade or investment». And it is precisely to ensure that provisions will find the correct follow-up that a bilateral mechanism of enforcement is established in art. 23.5 ff., ensuring both sides put the chapter’s provisions into practice.
4. Enforcement procedures. First of all, art. 23.5 ensures the effectiveness of labour rights in each country, by (a) maintaining a system of labour inspection and (b) ensuring that administrative and judicial proceedings are available, in order to permit effective action against infringements of labour law, including appropriate remedies for violations of such law. These procedures «shall be, in accordance with the law of each country, not unnecessarily complicated or prohibitively costly». According to art. 23.6, «each Party shall encourage public debate with and among non-state actors as regards the development and definition of policies that may lead to the adoption of labour law and standards by its public authorities». Of course this kind of obligation implies that there was plenty «public awareness of labour law and standards» and consequently, art. 23.6.2 imposes a duty to each party to promote this awareness «by taking steps to further the knowledge and understanding of workers, employers and their representatives». According to art. 23.7, the parties, in cooperation with representatives of workers, employers, and civil society organizations, and also through arrangements to be taken with the ILO, commit themselves to cooperation in promoting the objectives of Labour and Trade Chapter «through actions such as: (a) the exchange of information on best practices on issues of common interest and on relevant events, activities, and initiatives; (b) cooperation in international fora that deal with issues relevant for trade and labour, including in particular the WTO and
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The Social Dimension of the Euro-Canadian CETA
the ILO; (c) the international promotion and the effective application of fundamental principles and rights at work referred to in Article 23.3.1, and the ILO Decent Work Agenda; (d) dialogue and information-sharing on the labour provisions in the context of their respective trade agreements, and the implementation thereof; (e) the exploration of collaboration in initiatives regarding third parties; and (f) any other form of cooperation deemed appropriate». In force of art. 23.8 provisions, a specialized Committee, established under CETA art. 26.2.1(g), shall, through its regular meetings or dedicated sessions, «oversee the implementation of the social Chapter and review the progress achieved under it, including its operation and effectiveness». It is not a purely formal system of diplomatic compliance, because «each Party shall be open to receive and shall give due consideration to submissions» arising from «the independent representative organisations of civil society in a balanced representation of employers, unions, labour and business organisations, as well as other relevant stakeholders as appropriate». Furthermore, according to subparagraph 6, «The Parties shall take into account the activities of the ILO so as to promote greater cooperation and coherence between the work of the Parties and the ILO»: it seems unequivocal that, in this way, every instance of reporting or evaluation that should come from the ILO Committee on Freedom of Association should find an answer from the Government of all countries involved in the implementation of CETA. CETA chapter 23 also provides a progressive mechanism of dispute resolution on national labour related matters through consultations (23.9) or, subsequently, by the institution of a “Panel of Experts” composed of three panelists that have the expertise appropriate to the relevant particular matter. The Panel has to be convened to examine the matter and to deliver a written report to both parties, at the end of a bilateral procedure in which everyone has the right to defend himself. At the first stage the panel will deliver an interim report and, after further consultations, a final report «setting out the findings of fact, its determinations on the matter including as to whether the responding Party has conformed with its obligations under this Chapter and the rationale behind any findings, determinations and recommendations that it makes». According to subpara. 12 of art. 23.10, if the final report of the Panel of Experts determines that a Party has not conformed with its obligations under the Labour and Trade Chapter, «the Parties shall engage in discussions and shall endeavour, within three months of the delivery of the final report, to identify appropriate measures or, if appropriate, to decide upon a mutually satisfactory action plan». Despite this, art. 23.11 provides that «For any dispute that arises under this Chapter, the Parties shall only have recourse to the rules and procedures provided in this Chapter», inconsistently, in accordance with article 30.6(1), «Nothing in this Agreement shall be construed as conferring rights or imposing obligations on persons other than those created between the Parties under public international law, nor as permitting this Agreement to be directly invoked in the domestic legal systems of the Parties». Clearly the diplomatic language here has taken over the legal stipulation style, necessarily marked by an internal consistency, to reassure public opinion that the Agreement does not confer rights or obligations which can be directly invoked before Union or Member State courts or tribunals. However, it remains a mystery how the target can be provided through such a complicated mechanism, if the implementation is left devoid of tangible effects.
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5. Conclusions. At an overall assessment, CETA provisions represent the realization that international standards are to complement and support the action of trade liberalization and reduction of customs duties, thus constituting a standard common to all countries, even for those that can boast a long tradition of protecting individual and collective workers’ rights. The surprise at the resurfacing of the ILO’s standards of the Canadian academician quoted above, in this sense, can be easily shared by every labour lawyer: as a matter of fact, it seems that all European jurists have forgotten how great the debt is of the “Continental” social model to the overseas New Deal legislation implemented mainly through the Wagner Act and what the origin of the international standard is. (Even Italians seem to have forgotten the US roots of a good part of their promotional laws and particularly of the “workers statute” which as well has been elaborated in the shadow of procedural US provisions, following the injunction model of the Wagner Act.) Recent history shows a divergence that is not retraceable to its origins: on one side, the development of the Luxembourg Court of Justice’s case law has stressed the importance of free competition principles giving them a role that is inconsistent with a federal model, bearing in mind that in Europe there is no central authority that can address expenditure policy, balancing regional differences and developing a stimulus through public works of common interest; on the other side, the advent of liberalist “Reaganomics” has erased all traces of the previous social model, which, also thanks to the British Beveridge report, was widely widespread in all the old Europe countries after the II World War. Similarly the dialogue between economists and lawyers has abandoned the path of Keynesian public policies to move towards a marked neoliberalism even in Europe because of the need for a common monetary policy. In this way, the attention, paid to the other European legal system and to the Court of Justice, almost entirely did involve the loss of the habit of the European lawyer to make a comparison with North American systems. In this perspective, international trade shows that, at the very final stage, Labour Law is not properly a National State phenomenon but that has reclaimed the international dimension which is the basis of its history, because of the pervasiveness of businesses well known to the workers’ movements from their origins. The ILO standards, from this angle, open themselves to being used to obtain increasing importance in the future, in every industrialized country.
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Uguali nelle diversità o estranei a noi stessi? Riflessioni sul divieto di discriminazione tra norme e prassi* “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” Albert Einstein Sommario : 1. Introduzione. – 2. La pervasività delle diseguaglianze. – 3. Discriminazioni e vulnerabilità sociale. – 4. Pluralità di fonti e pluralità di giudici: la ricerca della tutela più efficace. – 5. Applicazione alla materia delle discriminazioni del metodo di iter-relazione normativa delineato dalla Corte costituzionale. – 6. Il carattere relativo del divieto di discriminazione: tra diritto e giustizia. – 7. Vari tipi di discriminazioni. – 8. I più frequenti fattori discriminanti. – 9. Il principio di uguaglianza è la base delle democrazie contemporanee. – 10. Le Convenzioni ONU.
Sinossi: Le discriminazioni sono un tema centrale della vita contemporanea, che ha importanti riflessi anche sul trattamento fiscale degli Stati e sui problemi di mancato aumento della crescita delle imprese e quindi dell’occupazione. Da più parti, infatti, si evidenzia il collegamento esistente tra trattamento fiscale e contributivo di alcuni Stati irragionevolmente diverso rispetto a quello degli altri Stati “concorrenti” – come si registra anche nel nostro Paese – con evasione fiscale e contributiva, arretratezza del sistema economico, sfruttamento lavorativo e quindi discriminazioni. In sede giudiziaria per combattere il fenomeno l’interprete nazionale è chiamato ad applicare il metodo indicato dalla Corte costituzionale per offrire ai diritti fondamentali la tutela più efficace, tra diritto interno, normativa UE, C.e.d.u., Convenzioni ONU e le Convenzioni internazionali ratificate. Abstract: Discrimination is a central issue today, with significant effects also on tax treatment of the States and on low growth and unduly low employment. In fact, from many quarters is noted the
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La seconda parte del contributo sarà pubblicata sul n. 6/2017.
Lucia Tria
connection between tax treatment of one State unreasonably different than tax treatment of other States competitors – like is in Italy – and tax evasion, backwardness of the economic system, labor exploitation and consequently discrimination. To combat discrimination in legal proceedings the national interpreter must apply the method indicated by the Constitutional Court to give to the Fundamental Rights the best protection, considering the national law, the EU legislation, the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, the UN Conventions and the other ratified International Conventions. Parole chiave: discriminazioni, principio di uguaglianza, Corte costituzionale, interrelazione normativa
1. Introduzione. Il tema delle discriminazioni rappresenta una questione centrale della vita contemporanea, in generale e, quindi, anche nel mondo del lavoro. Si tratta, pertanto, di un argomento che va affrontato muovendo dall’affermazione di un grande giurista del secolo scorso secondo cui «chi sa solo il diritto non sa neppure il diritto» (Francesco Carnelutti). Ciò in quanto per combattere le discriminazioni in modo efficace, la cosa migliore è quella di acquisire il metodo e la sensibilità per farlo, grazie a strumenti di conoscenza che non sono solo giuridici in senso stretto. Questo è confermato anche da due documenti di grande interesse recentemente pubblicati: a) il Rapporto sulla Finanza pubblica della Corte dei conti, diffuso il 5 aprile 2017, dal quale risulta che le nostre imprese, i nostri lavoratori e soprattutto i nostri giovani subiscono un trattamento fiscale e contributivo irragionevolmente diverso da quello praticato negli altri Paesi UE, non giustificato dal mantenimento del welfare e tanto meno dalla lotta all’evasione, che anzi ne viene alimentata. Tanto che da più parti, come si dirà in seguito, si sostiene la necessità dell’istituzione di un unico Ministro delle Finanze in ambito UE, proprio per limitare le differenze di regime in ambito tributario attualmente esistenti fra i diversi Stati, che ne falsano la concorrenza; b) la seconda edizione del Rapporto su “Le dinamiche del mercato del lavoro nelle province italiane” dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro, dal quale risulta un enorme divario regionale che ancora caratterizza il nostro mercato del lavoro e che si manifesta non soltanto nel livello delle retribuzioni e nel numero dei disoccupati (che cercano lavoro ma non lo trovano), ma anche nel numero dei cosiddetti NEET1, cioè
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NEET è l’acronimo inglese di “Not (engaged) in Education, Employment or Training. Nella versione istituzionale italiana tale acronimo
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di quella quota di inattivi che non cerca e non ha un lavoro perché immagina di non trovarlo, ma che sarebbe disposta a lavorare se si presentasse l’occasione (sono, quindi, persone che anche se non lavorano vorrebbero farlo). Dal punto di vista delle discriminazioni, nel rapporto si evidenzia un notevole squilibrio tra tasso d’occupazione maschile e femminile, che appare strettamente correlato allo sbilanciamento nella suddivisione del carico familiare tra donne e uomini. Nonostante la differenziata presenza sul territorio nazionale di strutture dedite ai servizi per l’infanzia, spesso per le mamme non è conveniente lavorare, perché il costo dei servizi sostitutivi per la cura dei bambini e per il lavoro domestico è decisamente elevato. Il tasso d’occupazione femminile più alto si rinviene nella provincia di Bologna dove due terzi delle donne sono occupate (66,5%), mentre quello più basso si registra a Barletta-Andria-Trani dove lavorano meno di un quarto delle donne (24,1%). Tassi d’occupazione femminile superiori al 63% si registrano anche a Bolzano (66,4%), Arezzo (64,4%) e Forlì-Cesena (63,3%), mentre a Napoli (25,5%), Foggia (25,6%) e Agrigento (25,9%) solo poco più di un quarto delle donne in età lavorativa sono occupate. Va anche considerato che il rapporto si riferisce alle situazioni lavorative regolari, mentre come è noto le donne sono tra i soggetti più colpiti dai fenomeni di lavoro in nero e irregolare. Ebbene le situazioni di lavoro irregolare – che purtroppo sono in espansione nel nostro Paese – sono quelle nelle quali è particolarmente evidente il collegamento tra i fenomeni che i due suindicati rapporti hanno analizzato. Ciò trova riscontro nella recente audizione alla Bicamerale sull’anagrafe tributaria di Enrico Giovannini – Presidente della Commissione per la redazione della “Relazione annuale sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva” – nella quale è stato sottolineato che il triste primato del nostro Paese in ambito UE per evasione fiscale e contributiva – che in Italia si aggira in media sui 110 miliardi di euro l’anno – secondo la stima – incide negativamente su tutto il sistema. In particolare, infatti, se le imprese riescono ad andare avanti semplicemente attraverso l’evasione è evidente che non si può risolvere il problema di crescita della produttività di cui l’Italia soffre da molti anni perché ricorrendo all’evasione le imprese hanno molti meno incentivi a trovare una struttura più efficiente, ad investire e innovare. Di qui la conclusione di Giovannini secondo cui: “l’evasione ha un ruolo molto importante in un generale grado di arretratezza del sistema economico” nazionale.
resta e si traduce “né studio, né lavoro, né formazione”. È una sigla utilizzata in economia e in sociologia del lavoro per indicare individui che non sono impegnati nel ricevere un’istruzione o una formazione, non hanno un impiego né lo cercano, e non sono impegnati in altre attività assimilabili, quali ad esempio tirocini o lavori domestici. Risulta che sia stato utilizzato, per la prima volta, nel luglio 1999 in un report della Social Exclusion Unit del governo del Regno Unito, originariamente come termine di classificazione per una particolare fascia di popolazione, di età compresa tra i 16 e i 18 anni, poi estesa fino ai 24 anni. Nel corso del tempo, l’utilizzo del termine si è diffuso in altri contesti nazionali, a volte con lievi modifiche della fascia di riferimento. Così, in Italia, ad esempio, l’uso dell’acronimo NEET, come indicatore statistico, viene riferito a una fascia anagrafica più ampia, la cui età è compresa tra i 15 e i 29 anni. Per eventuali ulteriori approfondimenti mi permetto di rinviare a Tria, La prevalenza del lavoro “poco dignitoso” in Diritti dell’uomo. Cronache e battaglie, 2015, 219 e ss., tratto dalla relazione – pubblicata in www.europeanrights.eu − tenuta al Convegno nazionale del Centro Studi Domenico Napoletano (CSDN), organizzato con la collaborazione della Sezione Lucania dello stesso CSDN, svoltosi a Matera nei giorni 8 e 9 maggio 2015 e dedicato a “La tutela dell’occupazione nel quadro normativo del Jobs Act”.
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Va precisato che la suddetta audizione aveva ad oggetto il triennio 2012-2014, mentre dal 2015 il contrasto all’evasione fiscale è divenuto molto più efficiente rispetto al passato con risultati mai raggiunti in precedenza nei confronti di evasori totali, paratotali, lavoratori in nero e irregolari. Purtroppo anche su questo fronte c’è ancora molto da fare e non è certo questa la sede per parlarne. Ciò che però deve essere messo qui in evidenza da subito è il collegamento esistente tra trattamento fiscale e contributivo statale irragionevolmente diverso rispetto a quello degli altri Stati “concorrenti”, evasione fiscale e contributiva, arretratezza del sistema economico, sfruttamento lavorativo e quindi discriminazioni. Nel presente scritto si tratteggeranno i lineamenti generali del diritto antidiscriminatorio, focalizzando l’attenzione specialmente sulle discriminazioni nel modo del lavoro, che sono anche quelle dalle quali ha preso l’avvio tutto l’ormai articolato “diritto antidiscriminatorio”, italiano ed europeo. L’argomento è vastissimo, visto che e molto ampia e variegata è la composizione di tale branca del diritto. Ci si limiterà, pertanto, ad una trattazione sintetica ponendo l’accento sugli aspetti considerati più significativi per la prevenzione e la denuncia delle discriminazioni. In particolare, si illustreranno le diverse componenti di questo complesso quadro, le modalità in cui fra loro interferiscono e come si possano combinare le molteplicità di punti di vista diversi al fine di ottenere la più efficace tutela contro le discriminazioni. Si richiameranno, poi, alcuni esempi di pronunce emanate dai diversi Giudici internazionali, UE e nazionali, con riferimento al mondo del lavoro, onde dare conto del loro differente modo di operare.
2. La pervasività delle diseguaglianze. Quanto si è detto sopra a proposito del Rapporto sulla Finanza pubblica della Corte dei conti, diffuso il 5 aprile 2017 e del Rapporto su “Le dinamiche del mercato del lavoro nelle province italiane” dell’Osservatorio Statistico dei Consulenti del Lavoro, dimostra, con tutta evidenza, che – anche se non sempre lo si sottolinea in modo adeguato – le discriminazioni hanno ricadute negative di tipo economico oltre che di tipo sociale e giuridico non solo per la vittima ma per l’intero sistema di riferimento. Ma sono purtroppo, fin dai tempi antichi, un fenomeno connaturato allo svilupparsi di società variegate nella loro composizione, basta pensare che al tempo dei Romani gli schiavi erano considerati “cose” e, in quanto tali, potevano essere sottoposti al dominio di un altro essere umano. In momenti di crisi economica e anche politica (al livello nazionale, europeo e mondiale) come quella che stiamo vivendo ormai da anni la questione diventa ancora più acuta. Può anzi dirsi, insieme con i migliori studiosi e con le organizzazioni internazionali (a partire dall’ONU), che il tema dell’uguaglianza – che fa da sfondo alle discriminazioni – pur essendo ai margini del linguaggio politico contemporaneo, è invece al centro della vita individuale e collettiva e, come tale, da molto tempo è all’attenzione degli Istituti eco-
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nomici internazionali, tanto che da anni al World Economic Forum di Davos si sottolinea che alla base del rallentamento della crescita mondiale e della creazione di occupazione vi sono proprio le diseguaglianze – che tendono a crescere – tra persone e Paesi ricchi e poveri. Si rileva, in particolare, che se la ricchezza prodotta nel mondo si concentra e finisce in poche mani, quelle poche mani non sono in grado di spenderla e la accumulano: gli aumenti di produttività realizzati negli ultimi venticinque anni, infatti, non sono finiti ai salari che non riescono a riprendere a crescere. Questo, da un lato, aumenta la competitività delle imprese ma dall’altro le priva di un mercato per i loro prodotti. Così si viene a creare un circolo vizioso perché, in assenza di domanda, le imprese non investono e quindi alla crescita viene a mancare anche il secondo motore. L’esito finale è che molte imprese e un certo numero di investitori siedono su montagne di miliardi che non tornano nell’economia reale. Un importantissimo effetto collaterale di tutto ciò è che le imprese e le persone con redditi molto elevati sono abilissime a sfuggire al fisco, legalmente e non, e quindi le casse degli Stati che riescono (o vogliono) mettere le mani solo nelle tasche dei loro cittadini impoveriti, non hanno abbastanza risorse per fare investimenti pubblici, terzo motore della crescita. A tale ultimo riguardo, come si è detto, in Europa da più parti – fra le tante proposte in tal senso si possono ricordare quella fatta da Jean-Claude Trichet cinque anni orsono, al momento di lasciare la direzione della Banca centrale europea e quella più recente di Christine Lagarde, direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale – si pone l’accento sulle questioni legate all’efficienza del fisco e si sostiene la necessità dell’istituzione di un unico Ministro delle Finanze in ambito UE, anche per limitare le differenze di regime in ambito tributario attualmente esistenti fra i diversi Stati, che ne falsano la concorrenza potendo, quindi, dare luogo a situazioni di tipo discriminatorio per le imprese e per i loro dipendenti2, come si è sottolineato, di recente, anche nel citato nel Rapporto sulla Finanza pubblica della Corte dei conti.
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Vedi, per tutti: Salvini, I regimi fiscali e la concorrenza tra imprese, relazione tenuta al XXVIII Convegno di studio su: Unione europea: Concorrenza tra imprese e concorrenza tra Stati, Courmayeur, 19-20 settembre 2014, in GComm, n. 2, 2016 nonché in www.salviniescalar.it ove si rileva che “le misure fiscali di carattere specifico volte principalmente, se non esclusivamente, ad attrarre investimenti stranieri hanno invece spesso una caratteristica del tutto opposta: esse attuano cioè una “discriminazione a rovescio” (c.d. Home State Restriction), penalizzando le imprese domestiche a favore di quelle che – pur essendo formalmente residenti – presentano rilevanti elementi di collegamento con Paesi esteri, quali ad esempio la provenienza estera dei capitali e la destinazione all’estero degli utili”. L’Autrice osserva che, pertanto, per reprimere tale concorrenza fiscale dannosa sono necessari tipi di misure diversi da quelli oggi adoperati, tenendo conto del fatto che il tema della concorrenza fiscale travalica l’ambito comunitario e si manifesta anche con riferimento a Paesi terzi, non legati da un comune sostrato normativo e istituzionale. L’OCSE ha emanato nel 1998 un Rapporto sulla concorrenza fiscale dannosa (Harmful Tax Competition) il cui punto centrale è stato proprio quello di stabilire quando tale concorrenza sia “dannosa”, ed in proposito l’approccio è stato basato sulla selettività, nel senso di considerare dannosi i regimi o le prassi speciali che abbiano caratteristiche tali da avere l’effetto di attrarre investimenti dall’estero; in questa ottica il Rapporto si occupa esclusivamente della tassazione delle attività finanziarie in quanto, per loro natura, maggiormente suscettibili di allocazioni di comodo. L’autrice ricorda, inoltre, che “anche l’UE ha adottato un Codice di condotta 27 sostanzialmente analogo a quello OCSE ma che si applica a tutte le attività di impresa e non solo a quelle finanziarie. Sono state in particolare ritenute ‘dannose’ quelle misure che, ad esempio, accordano vantaggi solo ai non residenti e per transazioni condotte con non residenti, che non comportano effetti sulla base imponibile domestica, i cui vantaggi sono assicurati ad un soggetto che non abbia una presenza effettiva sul territorio
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Tutto questo rende chiara la pervasività delle disuguaglianze, che spesso si traducono in discriminazioni, in molti settori della vita sociale. Deve anche essere sottolineato che nel nostro continente e nel nostro Stato che sono la “culla del diritto” – da cui, in ultima analisi, provengono tutte le Carte che riconoscono diritti fondamentali – il diffondersi delle discriminazioni e, negli ultimi anni, addirittura di nuove forme di schiavitù rappresenta un tradimento rispetto al riconoscimento del diritto di tutti gli individui alla pari dignità il quale dovrebbe tradursi nella garanzia dell’effettività della tutela dei diritti fondamentali per tutti, che è da sempre il presupposto della legittimità democratica del “ progetto europeo ” e il «suo tratto specifico in ogni settore»3. Tale diritto – proclamato solennemente dalla Dichiarazione universale dei diritti umani firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, Carta dall’alto valore simbolico perché contenente il riconoscimento di diritti individuali per la prima volta con riguardo a tutti gli appartenenti agli Stati membri dell’ONU – rappresenta la base di tutti i diritti fondamentali – a cominciare da quello di uguaglianza – tanto che, non a caso, esso — oltre ad essere considerato il principio fondante della nostra Costituzione e a ricevere analogo riconoscimento nella maggior parte delle Costituzioni europee4— è, in ambito europeo, solennemente contemplato nella C.e.d.u., nell’art. 2 del Trattato di Lisbona e nell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali UE (c.d. Carta di Nizza) e riceve analogo riconoscimento in tutte le più importanti Convenzioni internazionali, a partire da quelle ONU. Va sempre ricordato che alla base del “progetto europeo”, secondo gli auspici di Winston Churchill, vi era l’idea di fare in modo che a tutti i componenti della «famiglia europea» venisse data la «possibilità di godere di quelle semplici gioie e di quelle speranze che fanno sì che la vita valga la pena di essere vissuta»5.
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dello Stato in questione, ecc. Tuttavia, nessuna di tali misure può o vuole avere, effetti di contrasto alla concorrenza fiscale tra Stati in modo assoluto, ma ciò che si tende a reprimere, peraltro attraverso atti non normativi e non vincolanti dato il limite inderogabile delle sovranità statali, è l’abuso, da parte degli Stati, delle loro prerogative in materia di tassazione; abuso che viene individuato sulla base dell’adozione di misure fiscali caratterizzate dall’essere state costruite ad hoc per attrarre “slealmente” imprese estere alterando così la fisiologica concorrenza tra Stati, con conseguenti effetti discriminatori, diretti o indiretti, dei non residenti rispetto ai residenti, o viceversa. E, quindi, viene a determinarsi una situazione che non può che svantaggiare anche la concorrenza tra imprese e la loro produttività. Vedi per tutti: Vettori, Il contratto europeo fra regole e principi, Giappichelli, 2015. Basti pensare, al riguardo, che la Corte costituzionale tedesca, nella nota sentenza del 9 febbraio 2010 sui rapporti tra « minimo vitale » e Stato sociale, è pervenuta alla dichiarazione di illegittimità costituzionale — con effetti temporali differiti al primo gennaio 2011 — della normativa relativa alla determinazione dei sussidi di disoccupazione, affermandone il contrasto con « il diritto fondamentale di un minimo vitale dignitoso », ricavabile dal combinato dell’art. 1.1 e dell’art. 20.1 della Costituzione tedesca. La Corte ha sottolineato che la prima delle suddette disposizioni contempla il «superprincipio» della dignità umana, qualificata come « intangibile » e che, nell’ambito considerato, deve essere coordinata con l’altra, secondo la quale la Repubblica federale è qualificata come « Stato federale democratico e sociale ». La sentenza contiene, poi, importanti affermazioni « sul rapporto tra Stato sociale, discrezionalità legislativa e contraccolpi delle decisioni dei giudici costituzionali » (come osserva Delledonne, Germania:« Minimo vitale » e Stato sociale in una recente pronuncia del Tribunale costituzionale, 17 aprile 2010, in www.forumquadernicostituzionali.it). Ciò che, in questa sede, mi sembra opportuno sottolineare è proprio il ruolo determinante attribuito al «superprincipio» della intangibilità della dignità umana. Sono le parole pronunciate da Churchill nel famoso “Discorso alla gioventù accademica”, tenuto all’Università di Zurigo il 19 settembre 1946. Questo discorso è ricordato come la prima tappa del percorso che portò alla firma del trattato di Londra (oggi conosciuto come Statuto del Consiglio d’Europa) che, il 5 maggio 1949, istituì il Consiglio d’Europa. Poco dopo, il Ministro degli Esteri francese Robert Schuman, in collaborazione con Jean Monnet, redasse il famoso “piano Schuman”, pubblicato il 9 maggio 1950, giorno che oggi è considerato la data di nascita dell’Unione europea. Per ulteriori informazioni al riguardo v. Tria, Ordinamento interno e ordinamento europeo nella più recente giurisprudenza costituzionale in www.europeanrights.eu.
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Deve anche essere, in particolare, sottolineato che, a differenza di quanto accade per la maggior parte delle altre Carte fondamentali, i nostri Padri costituenti – partendo dall’idea secondo cui circoscrivere in una disposizione la proclamazione dell’inviolabilità della dignità umana avrebbe potuto equivalere a sminuirne la portata – hanno preferito configurare tale inviolabilità quale il “valore fondante” di tutta la Costituzione, come espresso dal comma 1 dell’art. 1, ove solennemente si proclama che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», nell’ottica di considerare il lavoro dei singoli consociati non solo come il mezzo con cui mettere a frutto i propri talenti e procurarsi un reddito, ma soprattutto come il principale strumento per dare «un contenuto concreto» alla partecipazione del singolo alla comunità, in pari dignità. Questa scelta dei nostri Padri costituenti conferma che, dopo le orrende atrocità commesse nella devastante seconda guerra mondiale, gli Stati per scongiurare il pericolo di un altro sanguinoso conflitto mondiale hanno, per prima cosa, deciso di impegnarsi reciprocamente a riconoscere ad ogni individuo la stessa dignità nonché a riuscire a porre fine ad una piaga della storia dell’umanità come la schiavitù, che mortifica e annulla la dignità umana. L’Unione europea, scrivendo nel 2000 la Carta dei diritti fondamentali, dopo aver assunto solennemente – nel Preambolo della Carta stessa – l’impegno di porre “la persona al centro della … azione” della UE, nell’art. 1 della Carta ha ribadito il principio dell’inviolabilità della dignità umana e nell’art. 5 ha espressamente sancito la proibizione della schiavitù e del lavoro forzato, “mostrando così una consapevolezza culturale e una capacità di guardare lontano”, oggi difficilmente rinvenibili nell’azione della UE6. Infatti, purtroppo questi impegni – nei quali ancora adesso tutti dicono di riconoscersi, almeno in Europa e nel mondo occidentale in genere – sono stati (e sono) ignorati quotidianamente in quasi tutto il mondo e, giorno dopo giorno, si è arrivati all’attuale situazione caratterizzata da diseguaglianze sempre più incisive a tutti i livelli e addirittura dal diffondersi di vere e proprie nuove forme di schiavitù. Tutto questo è accaduto e accade mentre le norme di diritto antidiscriminatorio sono diventate sempre più articolate e complesse. Ma ciò non deve stupire, per varie ragioni. In primo luogo perché il disordinato moltiplicarsi delle fonti normative e le difficoltà di coordinamento tra esse, spesso determinano – anche grazie a quella che Ugo Romagnoli chiama la “verbosa estrosità” in cui noi italiani siamo maestri, ma non siamo certamente isolati in ambito europeo − una progressiva perdita della certezza del diritto in termini di sistematicità e chiarezza della normativa. In secondo luogo perché “le norme camminano sulle gambe degli uomini e delle donne cui sono dirette”, sicché se tra questi non si diffondono prassi rispettose delle norme stesse la loro emanazione può risultare inutile.
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Sono le parole di Rodotà, Schiavitù, le promesse mancate in www.repubblica.it del 29 marzo 2017.
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3. Discriminazioni e vulnerabilità sociale. In questo clima, anche in Italia le cronache dei giornali sempre più frequentemente riportano episodi di violenza – fisica e/o verbale – motivati da spirito discriminatorio, di vario tipo, anche se va detto che la maggior parte delle discriminazioni – quelle, cioè, che non varcano la soglia della cronaca nera, ma non per questo sono “indolori” – restano “sommerse” perché la vittima, per le più svariate ragioni, non le denuncia. Quindi non possiamo disporre di dati certi e soprattutto completi. Il suddetto fenomeno si verifica di frequente specialmente per le discriminazioni in danno degli immigrati, in danno dei minori, delle donne o per quelle sul lavoro. Ma non sono certamente solo questi i confini soggettivi ed oggettivi delle discriminazioni in quanto si tratta di un fenomeno globale. Come tale esso riceve – come si è detto – la prima fonte nella Dichiarazione universale dei diritti umani 1948, il cui art. 2 proclama solennemente che: “Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del paese o del territorio cui una persona appartiene, sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi limitazione di sovranità”. Le diverse ipotesi contemplate in tale disposizione rappresentano i più diffusi “fattori discriminanti” conosciuti nel 1948. Deve peraltro essere precisato che i “fattori discriminanti” sono configurati anche come le più frequenti situazioni di “vulnerabilità” umana e sociale, secondo l’interessante punto di vista degli studiosi appartenenti a differenti dipartimenti che hanno promosso l’istituzione – avvenuta nel 2016 – da parte dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia - UniMoRe del primo Centro di analisi delle discriminazioni, denominato “Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità” (CRID). Con tale approccio si vuole analizzare l’“altra faccia” dei diritti umani onde creare le condizioni di partenza per prevenire e contrastare le forme di discriminazione più diffuse, cercando anche di promuovere la creazione di nuclei di valutazione delle politiche pubbliche, composti di esperti ed esperte, al fine di collaborare con le istituzioni nelle politiche attive di promozione sociale delle minoranze e nel contrasto di comportamenti e pratiche contro soggetti vulnerabili e discriminati. In questo contesto nel Centro si è partiti dallo studio delle seguenti situazioni di vulnerabilità: genere, età (anzianità e minore età), orientamento sessuale, disabilità, caratteristiche genetiche, etnia-nazionalità, nonché sfera religiosa e politico-sociale, con la consapevolezza che:
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a) la diffusione sempre maggiore delle tecnologie digitali può incrementare le situazioni di vulnerabilità e quindi le discriminazioni7; b) si tratta ovviamente di fenomeni che vanno studiati nel contesto territoriale in cui si verificano, ma anche nel contesto nazionale, europeo e, più in generale, globale e quindi con uno sguardo ampio, anche dal punto vista giuridico. Delle suindicate situazioni di “vulnerabilità sociale” dal punto di vista “storico” – e in ambito internazionale ed europeo – la prima a essere presa in considerazione dal diritto, per quanto riguarda le vittime, è stata la discriminazione in danno delle donne, la cui regolamentazione ha dato inizio al diritto discriminatorio nella sua attuale configurazione, data dalla commistione e sovrapposizione di norme nazionali, internazionali e sovranazionali. Per quanto riguarda il contesto “territoriale” la disciplina delle discriminazioni nell’ambiente lavorativo è quella che è stata disciplinata per prima, anche in ambito nazionale (con l’art. 15 dello Statuto dei lavoratori). E in questa sede quest’ultima è quella che viene specialmente in considerazione. Per chiarezza espositiva giova premettere che: 1) quello delle discriminazioni è di uno degli aspetti più delicati della instaurazione e della gestione del rapporto di lavoro, specialmente per i soggetti considerati “deboli”, come i disabili, i giovani, le donne, i cittadini extracomunitari e gli apolidi; 2) la disciplina antidiscriminazione lavorativa, come quella generale della materia, è molto complessa, risultando dalla commistione e sovrapposizione di norme di diversa provenienza. Tuttavia, nel nostro ordinamento gli artt. 2 e 3 Cost. rappresentano, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, uno strumento di tutela delle vittime molto efficace, che può consentirci di contrastare qualunque tipo di discriminazione e, ove necessario, di utilizzare nel migliore dei modi la normativa di provenienza ONU, UE e C.e.d.u. per ottenere un plus di tutela.
4. Pluralità di fonti e pluralità di giudici: la ricerca della tutela più efficace.
Prima di entrare in medias res mi sembra opportuno porre l’accento sul fatto che le controversie in cui viene in considerazione una discriminazione sono controversie nelle
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Merita di essere ricordato che l’istituzione – avvenuta nel 2016 – da parte dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia - UniMoRe del suddetto primo Centro di analisi delle discriminazioni, denominato “Centro di Ricerca Interdipartimentale su Discriminazioni e vulnerabilità” (CRID) è stata promossa, voluta e realizzata grazie alla sensibilità con cui da anni un gruppo di docenti afferenti a diversi dipartimenti dell’Ateneo emiliano si dedica a questi studi e che precisamente sono: i professori Gianfrancesco Zanetti e Thomas Casadei del Dipartimento di Giurisprudenza, la prof.ssa Tindara Addabbo del Dipartimento di Economia Marco Biagi, Presidente del CUG – Comitato Unico di Garanzia di Unimore, e il prof. Michele Colajanni del Dipartimento di Ingegneria “Enzo Ferrari” – DIEF”.
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quali vengono in discussione diritti fondamentali, sicché per esse è connaturale la ricerca di un punto di equo bilanciamento tra principi o diritti fondamentali, come è stato autorevolmente sostenuto, fra gli altri, da Luigi Mengoni – alla fine del suo mandato di Giudice costituzionale8 – a proposito dei giudizi di competenza della Corte costituzionale, in materia di diritti fondamentali. Va, peraltro, precisato che, dal punto di vista dell’argomentazione giuridica, “bilanciare” non significa contemperare, conciliare, cioè trovare un punto di equilibrio, una soluzione “mediana”, che tenga conto dei principi o i diritti in conflitto e che – in qualche modo – li applichi o li sacrifichi parzialmente tutti o entrambi9. Ciò significa che in tale ambito per effetto del bilanciamento – cui si ricorre in tutte quelle situazioni giudiziali caratterizzate da conflitti e/o disarmonie tra principi e/o diritti fondamentali, che ne richiedano un “ragionevole” componimento, situazioni che possono verificarsi dinanzi a qualsiasi giudice internazionale, europeo o nazionale – il principio cui viene attribuito maggior valore, caso per caso, prevale – nel senso che è quello che viene applicato – mentre il principio o i principi considerati assiologicamente inferiori non sono utilizzati nella fattispecie sub judice, ma questo ovviamente non ne comporta l’invalidità o l’abrogazione. Infatti, con la tecnica del bilanciamento si istituisce in sede giudiziale “una gerarchia assiologica mobile”, considerata la più adeguata per la fattispecie esaminata10 e che, quindi, potrebbe invertirsi in relazione ad un caso concreto diverso. Il giudice, per creare tale relazione gerarchica, non soppesa il valore dei due principi configgenti in astratto e una volta per tutte, “ma valuta invece il possibile impatto della loro applicazione al caso concreto”11.
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Mengoni, Il diritto costituzionale come diritto per principi, in Ars interpretandi 1996, 95. La tecnica argomentativa del bilanciamento conosciuta e praticata da molto tempo – prima nella cultura giuridica nordamericana e poi in quella tedesca – in Italia ha fatto la sua comparsa solo dagli anni ‘60 del novecento, con riguardo a specifici rami del diritto non immediatamente confinanti con la tematica dei principi costituzionali o dei diritti fondamentali, come rileva Pino, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, in Etica & Politica/ Ethics & Politics, 2006, 1 www.units.it/ etica/2006_1/PINO.htm. Nel corso del tempo nel nostro Paese, la tecnica in oggetto ha ricevuto applicazioni sempre più incisive e ampie proprio con riguardo ai diritti fondamentali, soprattutto da quando nella giurisprudenza costituzionale si è pervenuti all’affermazione dell’applicazione diretta o “orizzontale” di principi o diritti costituzionali ai rapporti interprivati e dell’interpretazione estensiva (o iper-interpretazione) delle disposizioni costituzionali. In sintesi, può dirsi che oggi il tema del bilanciamento giudiziale di diritti, principi o interessi costituzionali sia del tutto familiare anche per i giuristi e i teorici del diritto italiani, specialmente grazie a due illustri studiosi che, all’inizio degli anni novanta del novecento, lo hanno portato con forza all’attenzione della cultura giuridica nazionale. Si tratta dei due celebri scritti coevi di G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritti giustizia, Einaudi, 1992 e di Bin, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale, Giuffrè, 1992. 10 Tali situazioni di conflitto, infatti, non possono essere risolte con le stesse tecniche abitualmente usate per risolvere conflitti tra norme. Sottolinea, al riguardo Guastini, Principi di diritto, in DDP civ, vol. XIV, Utet, 1996, che per la soluzione dei conflitti tra principi “non è applicabile il criterio lex superior derogat inferiori, poiché si sta parlando di norme pari-ordinate nella gerarchia delle fonti. Neppure è applicabile il criterio lex posterior derogat priori, poiché i principi coinvolti sono (almeno nel caso dei principi costituzionali) statuiti da un medesimo documento normativo, e dunque coevi. Non si può applicare, infine, il criterio lex specialis derogat generali, perché – quando si tratti di un’antinomia del tipo eventuale – non vi è tra le classi di fattispecie disciplinate dai due principi un rapporto di genere a specie”. Per tali ragioni si deve fare ricorso alla tecnica del bilanciamento (o della ponderazione), che consiste nell’istituire in sede giudiziale tra i due principi o diritti fondamentali confliggenti “una gerarchia assiologica mobile”, cioè una relazione di valore istituita non dalle fonti, ma soggettivamente dall’interprete, che si traduce nell’accordare, in via ermeneutica, ad uno dei due principi confliggenti un peso o valore maggiore rispetto all’altro o agli altri che pure potrebbero trovare applicazione nella fattispecie esaminata. 11 Guastini, op. cit. 9
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Ben si comprende come alla tecnica del bilanciamento, nel corso del tempo, sia stato attribuito un ruolo sempre più pregnante, essendo sempre più frequente il possibile verificarsi di situazioni di conflitto o disarmonia tra principi e/o diritti fondamentali derivanti anche da fonti diverse, non solo nei giudizi di competenza delle Corti costituzionali. Negli Stati che, come il nostro, fanno parte sia dell’Unione europea sia del Consiglio di Europa tali principi e diritti si possono rinvenire non solo nella Costituzione ma anche in fonti sovranazionali e internazionali e, in particolare, nel diritto dell’Unione europea e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (d’ora in poi: C.e.d.u.) e nei suoi Protocolli. Com’è noto, l’interpretazione di ognuno di questi complessi normativi è, rispettivamente, riservata alla Corte di giustizia dell’Unione europea e alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che operano con modalità differenti e in ordinamenti diversi, benché sia possibile – specialmente dopo l’emanazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – che le suddette due Corti europee “centrali” emettano decisioni fra di loro in un certo senso “coordinate” oppure riguardanti vicende analoghe se non uguali tra loro e con altre esaminate dalla stessa Corte costituzionale . La nostra Corte costituzionale ha costruito, nel tempo, una giurisprudenza ormai consolidata, nella quale ha, con sapienza, indicato all’interprete la strada da percorrere perché il suindicato bilanciamento possa consentire di raggiungere l’obiettivo di assicurare la «massima espansione delle garanzie» di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali, sovranazionali e internazionali, complessivamente considerati, che “sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca” (Corte cost. sentenze n. 85 e n. 170 del 2013; n. 264 del 2012). A questo risultato si è pervenuti non solo per effetto del nuovo testo dell’art. 117, comma 1, Cost., introdotto dalla riforma costituzionale del 2001, ma anche attraverso una intensificazione del dialogo tra la nostra Corte costituzionale e le Corti europee “centrali”, nonché le Corti costituzionali degli altri Paesi europei. Tale intensificazione ha anche favorito il dialogo con – e tra – tutti i giudici comuni sulle tematiche relative alla tutela dei diritti fondamentali ed è stato agevolato anche dall’opera della Commissione per la democrazia attraverso il diritto (cosiddetta “Commissione di Venezia”). Tale Commissione, istituita dal Consiglio d’Europa per diffondere la conoscenza dei sistemi giuridici dei diversi Paesi europei, soprattutto nel processo di democratizzazione degli Stati dell’Europa orientale onde costruire una cultura dei diritti fondamentali comune, in uno spazio anche più vasto rispetto a quello tradizionale, nel corso del tempo, è diventata un organismo di diffusione del patrimonio costituzionale europeo e di garanzia di un “sostegno costituzionale” agli Stati. E una importante manifestazione della suddetta situazione si rinviene nelle note ordinanze con la quali la Corte costituzionale – quale giudice di ultima istanza – si è avvalsa dello strumento del rinvio pregiudiziale alla C. giust., ai sensi dell’art. 267 TFUE, prima nell’ambito di un giudizio di legittimità costituzionale in via principale e nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale.
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5. Applicazione alla materia delle discriminazioni del
metodo di iter-relazione normativa delineato dalla Corte costituzionale. Il diritto antidiscriminatorio si presta all’applicazione del suddetto metodo perché ha una composizione variegata, essendo il frutto della commistione e sovrapposizione di norme di diritto nazionale, norme di recepimento di direttive comunitarie, norme primarie UE (in particolare: la Carta dei diritti fondamentali della UE), cui si aggiungono le Convenzioni ONU, ratificate dal nostro Stato, l’art. 14 della C.e.d.u., che proclama il divieto di discriminazione, pur se con una applicazione particolare, nonché la Carta Sociale Europea Riveduta, anch’essa dotata di una efficacia del tutto peculiare. Per completare l’inquadramento generale della materia, va, inoltre, tenuto presente che: a) sia in ambito C.e.d.u. sia in ambito UE all’attività delle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo si affianca quella di altri organismi volta a potenziare, in sede politica, l’effettività del diritto antidiscriminatorio; b) la prospettiva dalla quale le violazioni del diritto antidiscriminatorio sono esaminate dai diversi Giudici abilitati a farlo – C.e.d.u., C. giust., Corte costituzionale, Giudici nazionali comuni – è differente, così come sono diverse le norme procedurali applicabili, nei diversi casi, il contenuto e gli effetti delle decisioni rispettivamente assunte. Il menzionato metodo indicato dalla Corte costituzionale, a partire dalle c.d. sentenze “gemelle” n. 348 e n. 349 del 2007, è finalizzato ad indicare al giudice nazionale una strada da percorrere, al fine di apprestare la migliore tutela possibile al diritto fondamentale della cui violazione di volta in volta è chiamato ad occuparsi, laddove si ponga un problema di interazioni e/o di contrasti riscontrabili tra norme del diritto nazionale, del diritto internazionale (specialmente, Convenzioni ONU), del diritto UE e/o della C.e.d.u., ambiti per i quali, rispettivamente, valgono regole ermeneutiche non del tutto coincidenti. In simili evenienze i principali strumenti astrattamente utilizzabili per la soluzione delle suddette questioni sono, in ordine di priorità: a) l’interpretazione conforme (del diritto nazionale rispetto alla Costituzione e alle norme UE e/o C.e.d.u. rilevanti, come interpretate, rispettivamente dalle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo) b) l’eventuale disapplicazione della norma interna asseritamente contrastante con il diritto UE (strumento che, nel nostro ordinamento, non è utilizzabile per le norme contrastanti con la C.e.d.u.); c) l’incidente di costituzionalità; d) il rinvio pregiudiziale (che ha applicazione generale solo con riguardo al diritto UE rilevante nella specie, mentre per la C.e.d.u. sarà praticabile solo nei limiti previsti dal Protocollo n. 16 della Convenzione, che non è ancora entrato in vigore). Peraltro, in base alla consolidata giurisprudenza costituzionale, l’applicazione alla singola fattispecie della normativa UE (direttive o Carta UE) così come della C.e.d.u. − con l’utilizzazione dei suindicati strumenti, nel modo stabilito − presuppone che, almeno in tesi, sia ipotizzabile la eventuale realizzazione di un plus di tutela convenzionale o comunitaria rispetto a quella rispetto a quella offerta dalla normativa interna (sentenza n. 317 del 2009 e ordinanza n. 11 del 2011).
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Il che significa che il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma C.e.d.u. o UE sulla legislazione italiana deve derivare un aumento di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali.
6. Il carattere relativo del divieto di discriminazione: tra diritto e giustizia.
Sappiamo che discriminare significa attribuire – senza alcuna valida ragione – un trattamento meno favorevole ad un soggetto o ad una categoria di soggetti rispetto ad altri che si trovano in situazione analoga, sulla base di un determinato elemento – chiamato “fattore discriminante” – che non può considerarsi adeguato, perché è il frutto di un pregiudizio. Si tratta quindi della violazione del principio di uguaglianza. Va anche sottolineato che l’accertamento della violazione del divieto di discriminazione è per sua natura “relativo”, in un duplice senso, perché: 1) comporta di regola un giudizio comparativo fra il trattamento del singolo soggetto ed il gruppo in cui è inserito (anche se di recente si tende ad effettuare una valutazione della sola situazione del singolo individuo che ha subito il trattamento negativo); 2) assume valenza e portata diversa a seconda del periodo storico e dell’ambito sociale nel quale si verifica la singola discriminazione di cui si tratta. In linea generale, nel mondo globalizzato – che è diventato “più piccolo” – un giurista non può ignorare anche realtà che una volta sarebbero sembrate “lontane”, in quanto l’interpretazione giuridica, così come la creazione di nuove norme, è sempre più inevitabilmente influenzata dal contesto spazio-temporale nel quale viene compiuta, perché questa è la dimensione che consente alla scienza giuridica di assolvere al meglio la propria finalità che è quella di studiare i comportamenti collettivi ai fini della soluzione dei problemi concreti di propria che possono sorgere quotidianamente. Il che è coerente con la avvenuta inclusione della scienza giuridica stessa nel novero delle scienze sociali e tra queste, in particolare, nell’ambito della categoria delle c.d. “scienze umane”12. L’acquisizione della suddetta configurazione del diritto ha posto in primo piano quella che Gustavo Zagrebelsky13 definisce “l’originaria e costitutiva doppia anima del diritto”, cioè il comando delle leggi in senso formale e le valutazioni di giustizia materiale dando la prevalenza alle valutazioni della giustizia materiale. Ciò è avvenuto soprattutto con riguardo alle motivazioni e alle tecniche decisorie della giurisprudenza nelle controversie in materia di diritti fondamentali che sono quelle nelle quali il diritto riceve, nel momento dell’esercizio della attività giurisdizionale, la sua manifestazione maggiormente significativa e sono anche quelle di cui, istituzionalmente, si
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Vedi, per tutti: P. Rossi, voce “Scienze sociali” in Enciclopedia delle scienze sociali, 1997, www.treccani.it. G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, 2008.
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occupa la Corte costituzionale, ma di cui si occupano, nei rispettivi ambiti, anche le due Corti europee centrali14. Nell’intensificarsi del dialogo tra le Corti e i giudici, anche i c.d. giudici comuni e, per prima, la nostra Corte di cassazione sono chiamati, con sempre maggiore frequenza, a risolvere questioni in cui sono implicati diritti fondamentali. Ciò è accaduto anche per il notevole aumento di ricorsi in questa materia, dinanzi a tutti i giudici e alle Corti nazionali ed europee. Può dirsi, pertanto, che se il collegamento tra il diritto – come giustizia – e il tempo è connaturale alla configurazione del diritto come scienza sociale15 il carattere inevitabilmente relativo – nel tempo e nello spazio – della valutazione in materia di discriminazioni corrisponde in modo emblematico a tale configurazione.
7. Vari tipi di discriminazioni. Vi sono vari tipi di discriminazioni16, ma la distinzione di base di tutto l’anzidetto composito diritto antidiscriminatorio – internazionale, europeo e nazionale – è quella tra: a) discriminazione diretta, che si verifica quando viene attribuito ad un soggetto o ad una categoria di soggetti un trattamento irragionevolmente meno favorevole rispetto ad altri che si trovano in situazione analoga, sulla base di un “fattore discriminante”. Per esempio, si è in presenza di una discriminazione diretta se il padrone di una casa in affitto quando una famiglia africana si reca a visitare l’appartamento, esclude che una loro offerta di prendere l’appartamento in locazione possa venire presa in considerazione perché i condomini potrebbero avere da ridire sul fatto di avere persone “di colore” all’interno dello stabile; b) discriminazione indiretta, che si verifica quando una disposizione, un criterio, una prassi, o un comportamento apparentemente neutri mettono o possono mettere un individuo o una categoria di persone in una posizione di particolare svantaggio rispetto agli altri individui o categorie di persone. Si tratta di una forma più subdola di discriminazione, che, per esempio, può verificarsi se: 1) un datore di lavoro decidesse di escludere candidati che vivono in una specifica area della città, che è quella dove vivono molti Rom, sicché la selezione operata dal potenziale datore di lavoro sarebbe dunque svantaggiosa per gli eventuali candidati Rom, che, di conseguenza, verrebbero
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Cantaro, Introduzione in Aa.Vv., Giustizia e diritto nella scienza giuridica europea, Giappichelli, 2011. Tale configurazione può dirsi ormai acquisita da quando la ripresa della tradizione della giurisprudenza sociologica, inaugurata all’inizio del XX secolo da Hermann Kantorowicz e da Eugen Ehrlich, ha determinato il graduale declino dell’impostazione formalistica di origine kantiana – ripresa da Kelsen – secondo cui la scienza giuridica, studiando il “dover essere e non l’essere” non sarebbe una scienza sociale. Sul punto vedi: Tria, Il quadro della rappresentatività sindacale dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013, in RGL, 2014, 1. 16 Mi permetto di fare riferimento a Tria, Il divieto di discriminazione tra Corti europee centrali, Corte costituzionale e Corte di cassazione, Key Editore, 2015. 15
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discriminati in maniera indiretta; 2) se in un pubblico concorso per un lavoro ove siano richiesti particolari requisiti di prestanza fisica (come accade in campo militare) fossero previsti dei requisiti di altezza unici per tutti i candidati, senza tenere conto che l’altezza media delle donne è diversa da quella degli uomini. Si parla, poi, di discriminazioni plurime nell’ipotesi in cui vi siano più fattori che possono contribuire a generare la discriminazione. La maggior parte delle persone possiede più di un singolo elemento identitario: tutti abbiamo un’età, apparteniamo ad un genere, abbiamo un orientamento sessuale e facciamo parte di un’etnia; altri ancora hanno o acquisiscono un credo religioso o diventano disabili. Questi elementi identitari – isolatamente o in combinazione – possono diventare fattori di discriminazione. Nell’ipotesi in cui vi sia la suindicata combinazione si verifica una discriminazione plurima. Ad esempio, una donna appartenente ad una etnia minoritaria potrebbe essere discriminata in base al sesso o alla razza o a causa di entrambi questi fattori, un Rom disabile potrebbe trovarsi a dover fronteggiare pregiudizi a più livelli etc. Le discriminazioni alla rovescia sono caratterizzate dal fatto che viene discriminato un soggetto e/o un gruppo di soggetti che normalmente è favorito nell’ambito del sistema giuridico di riferimento. Nell’ambito delle “discriminazioni alla rovescia” rientrano: a) le situazioni di svantaggio, subìte dagli operatori di uno Stato UE interni e, come tali, normalmente privilegiati nell’ambito degli ordinamenti nazionali. Si tratta quindi di situazioni “inverse” rispetto a quelle più frequenti, nelle quali a essere svantaggiati sono di solito gli operatori di altri Stati membri. Per rimediare a questo tipo di discriminazioni è stata ripetutamente adita la C. giust., la quale però, almeno fino al 2000, ha negato la propria competenza per l’irrilevanza comunitaria di tutte quelle situazioni che, non avendo diretti collegamenti con il diritto comunitario, trovano il proprio fondamento nella legislazione interna del singolo Stato membro, mentre, a partire dalla sentenza 5 dicembre 2000, C–448/98, Guimont, la C. giust. ha abbandonato la sua posizione di chiusura sperimentando strade interpretative diverse, per cercare di dare tutela alle suddette situazioni, senza violare i Trattati. Comunque, nel nostro ordinamento, la strada che si è dimostrata più efficace è quella dell’incidente di costituzionalità, in riferimento all’art. 3 Cost. Infatti, in questo modo, la Corte costituzionale è intervenuta prima nella vicenda dei produttori di pasta, dichiarando costituzionalmente illegittime, per violazione del principio di eguaglianza, quelle disposizioni suscettibili di discriminare i cittadini italiani costringendoli a rispettare una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli Stati membri, in ordine ad una medesima fattispecie (sentenza n. 443 del 1997, in materia si vedano anche le sentenze n. 249 del 1995 e n. 61 del 1996). Successivamente, analoghi interventi hanno riguardato i lettori universitari di lingua straniera; b) un diverso fenomeno, che ha trovato i suoi primi significativi sviluppi nell’esperienza giuridica degli USA – e che si manifesta, con analogie e differenze, anche nel sistema giuridico della UE – riguardante quelle possibili discriminazioni a danno degli uomini, derivanti dall’introduzione di trattamenti preferenziali a favore delle donne, predisposti nell’ambito di programmi volti a garantire pari opportunità dei sessi sul mercato del lavoro (c.d. azioni positive). Esse sono dette “alla rovescia” in quanto a essere discrimi-
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nata può essere una categoria di soggetti (gli uomini) più spesso privilegiata nelle relazioni sociali. Si tratta quindi, anche in tal caso, di situazioni “inverse” rispetto a quelle più frequenti, nelle quali a essere svantaggiate sono le donne. Di discriminazioni simili a quelle del tipo da ultimo considerato ha avuto modo di occuparsi anche la Corte EDU, in alcuni casi in cui i ricorrenti di sesso maschile lamentavano la discriminazione per il diniego della pensione di reversibilità, prevista solo in favore delle vedove (e non anche dei vedovi). Tali casi sono stati risolti dalla Corte facendo riferimento, anziché all’art. 8, al combinato disposto degli artt. 14 della Convenzione e 1 del Protocollo n. 1, sul principale assunto secondo cui la differenza di trattamento prevista tra uomini e donne rispetto al diritto ad ottenere il pagamento della pensione del coniuge defunto, non era basato su una “giustificazione obiettiva e ragionevole”. Quelle fin qui indicate sono discriminazioni manifeste, ma si possono avere anche discriminazioni nascoste, o perché vengono commesse del tutto inconsapevolmente oppure perché si verificano in contesti inaspettati. Così, ad esempio, se si acquistano prodotti agricoli a bassissimo prezzo, in un certo senso si “alimenta” il lavoro nero nei campi, che è una piaga sociale e una forma molto grave di discriminazione. Infatti, in tanto si può mantenere un prezzo fuori mercato dei prodotti agricoli in quanto i lavoratori non sono adeguatamente pagati e anzi, a volte, vivono in una condizione di schiavitù. D’altra parte si può ricordare che se in Italia alle donne è stato riconosciuto il diritto di votare alle elezioni politiche per la prima volta in occasione del Referendum istituzionale monarchia-repubblica del 2 giugno 1946, in Svizzera il pieno diritto al voto, anche per le elezioni federali, è stato concesso alle donne soltanto il 7 Febbraio 1971. In ambito lavorativo il diritto a non essere discriminati vale sia nell’accesso al lavoro (privato o pubblico) sia nello svolgimento del rapporto di lavoro. Ne consegue che sono vietati trattamenti discriminatori che si traducano sia nella mancata assunzione o ammissione alle procedure selettive per l’assunzione sia in comportamenti del datore di lavoro o di altri soggetti in base ai quali ad uno o a più dipendenti determinati sia riservato sul luogo di lavoro un trattamento differente rispetto a quello applicato nei confronti della generalità dei dipendenti e tale trattamento non sia sorretto da una ragione idonea a giustificarlo, ma sia determinato solo da fattori (quali, ad esempio, il sesso, la razza, la fede, l’età) del tutto irrilevanti ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa. Nel nostro ordinamento ai comportamenti che possano integrare un trattamento discriminatorio sul luogo di lavoro è stata data da sempre una particolare attenzione al livello legislativo. La rilevanza di simili condotte è ulteriormente aumentata per effetto prima della c.d. Riforma Fornero (legge n. 92 del 2012) e poi del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), ove si è previsto che il lavoratore licenziato per ragioni discriminatorie sia protetto con la forma di tutela più forte (ossia, con la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento integrale del danno). Tale norma, infatti, ha reso ancor più importante verificare se, dietro ad un licenziamento formalmente intimato per ragioni oggettive o tecnico-organizzative, non si nascondano motivi sostanzialmente discriminatori.
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Sono altresì proibite: a) le molestie perpetrate allo scopo o con la conseguenza di violare la dignità di una persona a causa della sua origine razziale o etnica, religione o convinzioni personali, di una disabilità, per l’età o per il proprio orientamento sessuale, e di creare un ambiente di intimidazione, ostilità, degradazione, umiliazione e offesa; b) la ritorsione, che si verifica quando qualcuno è trattato male o diversamente solo per aver sporto denuncia contro le discriminazioni subite o per aver appoggiato un collega che abbia sporto denuncia.
8. I più frequenti fattori discriminanti. In base agli studi del settore, sono stati identificati come casi più frequenti di discriminazione i seguenti: • discriminazioni di genere, cui si collega il divieto di molestie generiche o sessuali;
• discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale; • discriminazioni basate sull’età, che possono riguardare sia i giovani sia gli anziani; • discriminazioni basate sulla disabilità; • discriminazioni religiose; • discriminazioni basate sulla razza e sull’origine etica, riguardo alle quali va ricordato che il concetto di etnia assume una valenza più ampia del concetto di razza, includendo la comunanza, oltre che degli aspetti esteriori, ereditari e somatici, anche di quelli legati a fattori culturali e linguistici. Inoltre, nel considerando 6 della direttiva 2000/43/ CE, che ha attuato l’art. 13 del Trattato CE – ove, per la prima volta, è stata evidenziata al Consiglio UE l’opportunità di prevedere l’attivazione di provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate, tra l’altro, sulla razza o l’origine etnica− si è specificato che “L’Unione Europea respinge le teorie che tentano di dimostrare l’esistenza di razze umane distinte. L’uso del termine “razza” nella presente direttiva non implica l’accettazione di siffatte teorie”;
• discriminazioni in base sulla nazionalità in danno dei cittadini UE, proibite dai trattati e disciplinate dalla direttiva 2004/38/CE. In particolare, il principio di “uguaglianza come divieto di discriminazione in base alla nazionalità” nella UE è considerato basilare per promuovere lo sviluppo equilibrato e competitivo delle attività economiche all’interno dell’Unione. Da questo generale principio, derivano le libertà fondamentali garantite ai cittadini degli Stati membri nel territorio dell’Unione europea: a) libera circolazione delle persone; b) libera circolazione delle merci; c) libera circolazione dei capitali; d) dritto di stabilimento (libertà di decidere il luogo ove svolgere la propria attività economica); e) libertà di prestazione di servizi;
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• discriminazioni politiche; • discriminazioni sindacali; • discriminazioni basate sulle condizioni sociali; • discriminazioni basate sulla lingua; • discriminazioni basate sulle caratteristiche fisiche, sui tratti somatici, sull’altezza, sul peso;
• discriminazioni basate sullo stato di salute; • discriminazioni basate sulle convinzioni personali. Naturalmente, non si tratta di una elencazione tassativa, perché l’evoluzione della normativa dimostra che la tendenza è quella di ampliare il concetto di discriminazione, tanto da dargli una valenza di tipo “assoluto”: non solo desunta dal giudizio comparativo fra il singolo soggetto ed il gruppo in cui è inserito, ma anche da un valutazione effettuata sulla sola situazione del singolo individuo che ha subito il trattamento negativo. Va, in particolare, sottolineato che la elencazione dei c.d. fattori discriminanti – che è presente nella normativa UE, recepita – risponde maggiormente alla logica dei Paesi di common law mentre è meno rilevante nei Paesi di civil law – come il nostro – nei quali, in via interpretativa, è più agevole tutelare tutte le situazioni, anche se, in ipotesi, non contemplate nell’elencazione stessa. Questo è quanto si verifica in Italia ove – come si dirà – la Corte costituzionale da molto tempo ha affermato che ai soggetti socialmente più deboli, che sono anche quelli per i quali il rischio di discriminazione è più alto – come: donne, bambini, giovani, disabili, immigrati, omosessuali etc. – deve essere garantita la massima tutela possibile rispetto alle discriminazioni sulla base di una interpretazione evolutiva degli artt. 2 e 3 della Costituzione.
9. Il principio di uguaglianza è la base delle democrazie contemporanee.
La precedente osservazione porta a soffermarsi sul significato più ampio che assume l’affermazione secondo cui alla base delle discriminazioni vi è la violazione del principio di uguaglianza. Il nostro Stato – e la stessa Unione europea – sono fondati sul principio democratico. L’essenza della democrazia contemporanea è rappresentata dal fatto che il benessere di ciascuno è la misura del benessere dell’intero corpo sociale di appartenenza, il che vale in tutte le relazioni tra i consociati, sia che si tratti di relazioni tra esseri umani sia che si tratti di rapporti fra Stati che siano membri di una comunità sulla base di trattati. Questo vuol dire che ognuno riconosce agli altri consociati pari dignità e quindi che alla base principio democratico vi è la solidarietà ma anche il divieto di discriminazioni, perché l’essenza delle discriminazioni è la negazione della suddetta pari dignità.
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Un elemento ineliminabile della democrazia è l’attribuzione ai cittadini – sia pure in forme e limiti che possono essere diversi – di una funzione attiva nelle decisioni che li riguardano. Questo rende evidente che vivere nella legalità nel nostro Paese – così come in tutti gli Stati democratici e nella UE – significa vivere nel rispetto del principio di uguaglianza. Va ricordato che tale principio ha acquisito rilevanza universale da quando i cinque Stati risultati vincitori nella seconda guerra mondiale17 alla fine del conflitto come prima cosa decisero di coinvolgere la maggior parte degli Stati all’epoca esistenti nella istituzione di un organismo di tipo internazionale – destinato a sostituire la Società delle Nazioni, la cui opera si era dimostrata inefficace – per sviluppare ed intensificare i rapporti di cooperazione pacifica tra gli Stati. L’iniziativa ebbe grande seguito e nello statuto della neo-istituita Organizzazione delle Nazioni Unite si stabilì di mettere in evidenza, fin dal Preambolo, che «i popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra», intendevano, con altrettanta determinazione «riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle Nazioni grandi e piccole». L’uso, nella suddetta dichiarazione, del verbo “riaffermare” è già, di per sé indicativo della consapevolezza delle radici molto antiche della storia dei diritti fondamentali, ma ciò non deve portare a misconoscere che un momento estremamente significativo di tale storia è rappresentata dall’istituzione dell’ONU. Infatti, questo ha consentito, nel giro di un biennio, di pervenire alla proclamazione, da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite18, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo il 10 dicembre 1948 e via via di procedere all’istituzione del Consiglio d’Europa e poco dopo di dare inizio, con al processo che, non senza sacrifici, ha portato all’attuale Unione europea. Tale processo è cominciato con la redazione da parte del Ministro degli Esteri francese Robert Schuman, in collaborazione con Jean Monnet, del famoso “piano Schuman”, pubblicato il 9 maggio 1950, giorno che oggi è considerato la data di nascita dell’Unione europea. In questo piano si proponeva il controllo congiunto della produzione di carbone e acciaio, le principali materie prime per l’industria degli armamenti, partendo dall’idea secondo la quale «chi non dispone liberamente del carbone e dell’acciaio non è più in grado di condurre una guerra». Schuman informò del suo piano il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, il quale immediatamente pensò che si trattasse di «un’opportunità per la pace in Europa e lo accol-
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Si tratta, come è noto, di Cina, Francia, Regno Unito, Stati Uniti d’America e Unione sovietica (membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU). Per eventuali ulteriori approfondimenti mi permetto di rinviare a: Tria, La tutela dei diritti fondamentali. Le tecniche di interrelazione normativa indicate dalla Corte Costituzionale. L’abilità di usare il patrimonio di sapienza giuridica ereditato dal passato per preparare il futuro, Sevizio Studi, Corte Costituzionale, STU 274, dicembre 2014. 18 In questa fase, l’Italia non aveva ancora dato la sua adesione all’ONU, cosa che avverrà il 14 dicembre 1955.
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se favorevolmente»19. Poco tempo dopo manifestarono lo stesso convincimento anche i governi di Italia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi. Tali sei Stati firmarono a Parigi, il 18 aprile 1951, l’accordo per la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), entrato in vigore il 24 luglio 1952 ed avente una durata di 50 anni20. Questo trattato ha gettato le basi per la successiva evoluzione delle istituzioni comunitarie, delineandone i caratteri principali e prevedendo anche la creazione di un organo giurisdizionale incaricato di garantire il rispetto del diritto comunitario, di farlo applicare uniformemente da tutti gli Stati membri e di risolvere le controversie provocate dalla sua applicazione: la Corte di giustizia della CECA (il cui primo Presidente fu il magistrato italiano Massimo Pilotti che rimase in carica dal 1952 al 1958 e che, quindi, nel marzo 1957 passò a presiedere la neo-istituita Corte di giustizia delle Comunità europee)
10. Le Convenzioni ONU. Dal precedente breve excursus storico si evince che è stata la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 l’elemento “scatenante” di tutto il descritto, virtuoso processo. Non deve, quindi, stupire se nell’evoluzione storico-giuridica della materia, il diritto antidiscriminatorio prima ancora che in ambito europeo sia nato proprio in ambito ONU ove, sulla base della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, sono state adottate specifiche Convenzioni al riguardo, a partire dalla CEDAW (del 1979), cioè la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women), ratificata e resa esecutiva dall’Italia con legge 10 giugno 1985 (mentre l’adesione del nostro Paese al Protocollo opzionale è avvenuta il 29 ottobre 2002). Ad essa sono seguite, fra le più importanti, la Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176) e, di recente, l’importante Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (ratificata e resa esecutiva con legge 3 marzo 2009, n. 18). Tali Convenzioni contengono affermazioni di principi molto innovativi e sono di grande impatto perché destinate ad avere applicazione in tutti gli Stati membri dell’Organizzazione (che oggi sono 193). L’emanazione di queste Convenzioni risponde alla logica secondo cui tutte le forme di discriminazione, dalle più blande a quelle che danno luogo a forme di violenza fisica e/o
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É interessante ricordare che – come risulta anche dal sito dell’Unione europea – tra i Padri fondatori dell’Unione figurano, oltre ai francesi Robert Schuman e Jean Monet e al tedesco Konrad Adenauer, anche l’inglese Winston Churchill, il belga Paul Herni Spaak, il tedesco Walter Hallstein (che fu anche il primo Presidente della Commissione europea dal 1958 al 1969) e i due italiani Alcide De Gasperi e Altero Spinelli. 20 Dal 23 luglio 2002, infatti, questo trattato non è più operativo e la CECA è entrata a far parte dell’Unione Europea. Questo trattato, peraltro, ha un importante rilievo in quanto, ancorché limitato ad un settore circoscritto, ha creato, per la prima volta in ambito europeo, uno spazio di libera circolazione per alcuni prodotti, senza diritti doganali né tasse, e con divieto di pratiche discriminatorie, sovvenzioni o aiuti imposti dagli Stati.
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psicologica, hanno la loro origine nella violazione del principio della pari dignità di tutti gli esseri umani, tanto che, non è un caso se normalmente le vittime di discriminazioni siano soggetti socialmente vulnerabili come le donne, i bambini e i disabili. Queste Convenzioni ONU – ratificate e rese esecutive dallo Stato italiano – come tali sono parte integrante del diritto interno e, nei rispettivi ambiti, vanno prese in considerazione prima ancora di altre fonti di origine europea, come non sempre si tende a fare e come, invece, ci invita a fare la stessa C. giust., per esempio nella sentenza 4 luglio 2013, C-312/11, Commissione c. Italia, nella quale si è precisato che, non contenendo la direttiva 2000/78/CE una espressa definizione della nozione di «handicap», tale nozione deve essere ricavata dalla Convenzione dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità. Da ciò risulta confermato che la soluzione dei diversi problemi ermeneutici che si possono presentare, di volta in volta, in materia di discriminazioni, presuppone uno sguardo “ampio” che sia comprensivo anche delle Convenzioni internazionali che il nostro Paese ha ratificato e reso esecutive, a partire dalle Convenzioni ONU. Ognuna di queste Convenzioni contiene l’impegno preciso del nostro Stato al rispetto delle categorie di persone considerate (donne, fanciulli, disabili) e alla non discriminazione, sicché l’interprete non può non tenerne conto, anche sulla base dell’art. 3 della nostra Costituzione. Non va, del resto, dimenticato che la Corte costituzionale attribuisce grande rilievo e diretta operatività alle suddette Convenzioni, come si desume, ad esempio, da: a) la sentenza n. 80 del 2010, nella quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa che limitava la possibilità per gli alunni disabili di avvalersi di insegnanti di sostegno. E, nella motivazione – per arrivare ad affermare che «il diritto del disabile all’istruzione si configura come un diritto fondamentale» – oltre a richiamare la propria giurisprudenza in materia (sentenze n. 215 del 1987, n. 52 del 2000, sentenze n. 251 e 431 del 2008), ha fra l’altro ricordato che «sotto il profilo normativo, il diritto all’istruzione dei disabili è oggetto di specifica tutela da parte sia dell’ordinamento internazionale che di quello interno» e che «in particolare, per quanto attiene alla normativa internazionale, viene in rilievo la recente Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006, entrata in vigore sul piano internazionale il 3 maggio 2008 e ratificata e resa esecutiva dall’Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18, il cui art. 24 statuisce che gli Stati Parti “riconoscono il diritto delle persone con disabilità all’istruzione”. Diritto, specifica la Convenzione in parola, che deve essere garantito, anche attraverso la predisposizione di accomodamenti ragionevoli, al fine di “andare incontro alle esigenze individuali” del disabile (art. 24, par. 2, lett. c), della Convenzione)»; b) la sentenza n. 275 del 2016, secondo cui il servizio di trasporto scolastico e di assistenza, per lo studente disabile, costituisce una componente essenziale ad assicurare l’effettività del diritto allo studio. Come si è detto, anche la C. giust. ha attribuito grande rilievo alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità nella sentenza 4 luglio 2013, C-312/11, Commissione c. Italia, con la quale la Corte ha stabilito che il nostro Paese, non avendo imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete,
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soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, è venuta meno al suo obbligo di recepire correttamente e completamente l’art. 5 della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che prevede un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. La peculiarità della decisione – per quanto qui interessa – sta nel fatto che la Corte, dopo aver dichiarato che la direttiva 2000/78/CE non contiene una espressa definizione della nozione di «handicap», ha precisato che tale nozione deve essere ricavata dalla Convenzione dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità e deve, quindi, essere riferita alle limitazioni risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, le quali, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Inoltre, alla medesima Convenzione si deve fare rinvio per la previsione degli «accomodamenti ragionevoli» volti a garantire alle persone disabili, nelle diverse situazioni, il godimento e l’esercizio di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali su base di uguaglianza con gli altri. Ne risulta confermato che la soluzione dei diversi problemi ermeneutici che si possono presentare, di volta in volta, in materia di discriminazioni, va trovata tenendo conto non soltanto della disciplina nazionale ed europea, ma anche delle Convenzioni internazionali che il nostro Paese ha ratificato e reso esecutive, a partire dalle Convenzioni ONU. Di questo anche la Corte di cassazione si è mostrata, in più occasioni, consapevole. E, a titolo di esempio, si possono ricordare: 1) Cass., 9 settembre 2016, n. 17867 che, superando un precedente indirizzo, ha affermato che in caso di assunzione con contratto a tempo determinato di un lavoratore disabile ex art. 11 della legge n. 68/1999, è richiesta l’indicazione nel contratto di lavoro delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che giustificano l’apposizione del termine, come previsto dal regime generale di cui al d.lgs. n. 368/2001, non sussistendo alcun elemento di natura letterale per ritenere che il legislatore abbia inteso derogare con tale legge ai principi in materia di assunzione a termine. La Corte ha anche precisato che detta opzione interpretativa è doverosa al fine di evitare effetti discriminatori che porrebbero il sistema di assunzioni di cui alla legge n. 68 del 1999 in contrasto con il diritto internazionale e cioè con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – che proibisce ogni forma di discriminazione al suo art. 5 – al nonché con la direttiva 2000/78/CE e con l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali della UE; 2) Cass. 14 luglio 2016, n. 14388, nella quale è stato affermato il principio secondo cui: l’attribuzione dei buoni pasto rappresenta una agevolazione di carattere assistenziale che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa quando l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio. Ne consegue che, comportando la suddetta garanzia la tutela della salute del lavoratore e, dunque, a maggior ragione, della sua disabilità, l’art. 4 dell’Accordo di concessione dei buoni pasto per il Comparto Ministeri del 30 aprile 1996 (e la contrattazione di settore che lo copia) vanno interpretati nel senso che le P.A. datrici di lavoro devono fornire
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ai lavoratori beneficiari in condizione di disabilità buoni pasto materialmente fruibili in relazione al loro stato, dovendo risarcire in caso contrario i conseguenti danni; 3) Cass., 12 dicembre 2013, n. 28230, secondo cui: “in tema di adozione di minori di età, la prioritaria esigenza per il figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i genitori biologici e di essere da loro allevato, impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, che non può fondarsi di per sé sulla disabilità del genitore, condizione che, nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (ratificata con legge 3 marzo 2009, n. 18) e del relativo Protocollo addizionale, non può essere causa di interruzione del legame naturale, oggetto di tutela ex art. 1 della legge 4 maggio 1983, n. 184, salvo che tale condizione, nonostante tutti i supporti adeguati e possibili offerti dallo Stato, comprometta irreversibilmente la capacità di allevare ed educare i figli, traducendosi in una totale inadeguatezza a prendersene cura”; 4) Cass., 7 giugno 2012, n. 9201, secondo cui: “la disposizione dell’art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, laddove vieta di trasferire, senza consenso, il lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati – alla luce dell’art. 3, comma 2, Cost., dell’art. 26 della Carta di Nizza e della Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti dei disabili, ratificata con legge n. 18 del 2009 – in funzione della tutela della persona disabile. Ne consegue che il trasferimento del lavoratore è vietato anche quando la disabilità del familiare, che egli assiste, non si configuri come grave, a meno che il datore di lavoro, a fronte della natura e del grado di infermità psico-fisica del familiare, provi la sussistenza di esigenze aziendali effettive ed urgenti, insuscettibili di essere altrimenti soddisfatte”; 5) Cass., 6 aprile 2011, n. 7889, secondo cui: “in tema di reclutamento del personale docente sulla base della graduatoria permanente di cui alla legge n. 124 del 1999, per coprire i posti riservati agli invalidi ai sensi dell’art. 3 della legge n. 68 del 1999, l’Amministrazione scolastica è obbligata ad attingere dalla graduatoria medesima a prescindere dall’operatività dei vari scaglioni della graduatoria, dovendosi escludere che il datore di lavoro pubblico possa, attraverso circolari od altri provvedimenti, negare un diritto che non è suscettibile di alcuna lesione ad opera di fonti non primarie, ponendosi la scelta operata dal legislatore nazionale in linea sia con il principio stabilito dall’art. 26 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (alla quale l’art. 6 del Trattato di Lisbona ha attribuito il valore giuridico dei trattati) secondo cui “l’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantire l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”, sia con l’art. 27 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 (ratificata e resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 18 del 2009) che riconosce il diritto al lavoro delle persone con disabilità, da garantire con “appropriate iniziative” volte a favorirne l’assunzione nel settore pubblico ovvero il loro impiego nel settore privato”.
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Purtroppo, però, non sempre, nel nostro ordinamento, viene attribuito alle suddette Convenzioni ONU il dovuto rilievo, sia in sede amministrativa, sia in sede giurisdizionale21. D’altra parte, per avere un’idea della attenzione che viene data nel nostro Paese alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza – di cui il 20 novembre 2014 è stato solennemente celebrato il 25° compleanno, visto che fu approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989 – basta pensare al trattamento inadeguato che spesso viene riservato ai migranti minorenni non accompagnati o anche ai fatti di cronaca riguardanti violenze morali e materiali inflitte ai bambini e agli adolescenti dai loro stessi genitori italiani.
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Basta pensare che in alcuni casi, in passato, è stato negato il diritto di diventare cittadini italiani a persone affette dalla sindrome di Down perché, date le loro condizioni di disabilità mentale, non erano in grado di prestare consapevolmente il giuramento “di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato” (art. 10 della legge n. 91 del 1992). E che anche quando il diritto è stato riconosciuto, non si è mai affermato l’esonero della persona disabile dall’obbligo di provare la conoscenza della lingua italiana e di prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica, in applicazione dell’art. 18 della Convenzione ONU sui diritti dei disabili, secondo cui alle suddette persone non può essere negato il diritto alla cittadinanza per motivi legati alla disabilità stessa.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di Giustizia UE, sentenza 19 luglio 2017, causa C-143/2016; Pres. Silva de Lapuerta – Rel. Arabadjiev – Avv. Gen. Bobek – Abercrombie & Fitch Italia Srl (Avv.ti G. Di Garbo, G. Brocchieri, G. Iorio Fiorelli ed E. Ceracchi) c. A. B. (Avv. A. Guariso). Lavoro (rapporto) – contratto di lavoro intermittente – rinvio pregiudiziale – Dir. 2000/78/CE – Carta di Nizza – parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – discriminazione fondata sull’età – insussistenza.
L’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché l’articolo 2, paragrafo 1, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano ad una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavoro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appropriati e necessari.
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 2, paragrafo 1, dell’ar‑ ticolo 2, paragrafo 2, lettera a), e dell’articolo 6, para‑ grafo 1, della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16), nonché dell’articolo 21 della Carta dei diritti fonda‑ mentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). 2. Tale domanda è stata proposta nell’ambito di una controversia tra la Abercrombie & Fitch Italia Srl (in prosieguo: la «Abercrombie») ed il sig. Antonino Bordonaro in merito alla risoluzione del contratto di lavoro intermittente di quest’ultimo, avvenuta in base al solo motivo che il convenuto aveva compiuto 25 anni. Contesto Normativo. – Omissis. Diritto italiano 6. L’articolo 34 del decreto legislativo del 10 set‑ tembre 2003, n. 276 – Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30 (GURI n. 235 del 9 ottobre 2003 – Supplemento ordinario n. 159; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 276/2003»), nella versione vigente alla data della conclusione del con‑ tratto tra la Abercrombie e il sig. Bordonaro, ossia il 14 dicembre 2010, così disponeva: «1. Il contratto di lavoro intermittente può essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi
stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno ai sensi dell’articolo 37. 2. Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con riferimento a prestazioni re‑ se da soggetti con meno di venticinque anni di età ovvero da lavoratori con più di quarantacinque anni di età, anche pensionati. (...)». 7. L’articolo 34, paragrafo 2, del decreto legislativo n. 276/2003, nella versione vigente al momento del licenziamento del sig. Bordonaro, così disponeva: «Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con più di cinquantacinque anni di età e con soggetti con meno di ventiquattro anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età». 8. L’articolo 34 del decreto legislativo n. 276/2003 è stato abrogato dal decreto legislativo del 15 giugno 2015, n. 81 (GURI n. 144 del 24 giugno 2015 – Supple‑ mento ordinario n. 34). Le sue disposizioni sono state tuttavia sostanzialmente riprese all’articolo 13 del de‑ creto legislativo da ultimo citato, ai sensi del quale: «1. Il contratto di lavoro intermittente è il contratto, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche con
Giurisprudenza
riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. In mancanza di contratto collettivo, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali. 2. Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 an‑ ni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni. – Omissis.» – Omissis. Sulla questione pregiudiziale. 16. Con la sua questione pregiudiziale, il giudice del rinvio domanda, in sostanza, se l’articolo 21 della Carta nonché l’articolo 2, paragrafo 1, l’articolo 2, pa‑ ragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, debbano essere interpretati nel sen‑ so che essi ostano ad una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a concludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da ese‑ guire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno. 17. A titolo preliminare, occorre ricordare che, quando adottano misure rientranti nell’ambito di ap‑ plicazione della direttiva 2000/78, nella quale trova espressione concreta, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, il principio di non discriminazio‑ ne fondata sull’età, ora sancito dall’articolo 21 della Carta, gli Stati membri e le parti sociali devono agire nel rispetto di tale direttiva (sentenze del 13 settem‑ bre 2011, Prigge e a., C‑447/09, EU:C:2011:573, pun‑ to 48; dell’11 novembre 2014, Schmitzer, C‑530/13, EU:C:2014:2359, punto 23, nonché del 21 dicembre 2016, Bowman, C‑539/15, EU:C:2016:977, punto 19). 18. Occorre pertanto, in primo luogo, verificare se una disposizione quale quella oggetto del proce‑ dimento principale comporti una disparità di trat‑ tamento basata sull’età, ai sensi dell’articolo 2 della direttiva 2000/78. Al riguardo va rammentato che, ai fini di tale disposizione, per «principio della parità di trattamento» si intende l’assenza di qualsiasi discrimi‑ nazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 della medesima direttiva. L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 precisa che, ai fini dell’applicazione dell’articolo 2, paragrafo 1, della stessa, sussiste discriminazione diretta quan‑ do, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’ar‑ ticolo 1 della direttiva, una persona è trattata in modo meno favorevole di un’altra in una situazione analoga. 19. Per quanto concerne innanzitutto la questione, sollevata dalla Commissione europea, se il sig. Bor‑ donaro possa essere qualificato come «lavoratore» ai sensi dell’articolo 45 TFUE, va ricordato che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, tale nozione
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ha portata autonoma e non dev’essere interpretata re‑ strittivamente. Pertanto, deve essere qualificata come «lavoratore» ogni persona che svolga attività reali ed effettive, restando escluse quelle attività talmente ri‑ dotte da risultare puramente marginali e accessorie. La caratteristica del rapporto di lavoro è, secondo tale giurisprudenza, la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazio‑ ni in contropartita delle quali riceva una retribuzio‑ ne (sentenze del 3 luglio 1986, Lawrie-Blum, 66/85, EU:C:1986:284, punti 16 e 17; del 23 marzo 2004, Col‑ lins, C‑138/02, EU:C:2004:172, punto 26, nonché del 3 maggio 2012, Neidel, C‑337/10, EU:C:2012:263, punto 23). – Omissis. 23. È dunque verosimile che il contratto di lavoro del sig. Bordonaro sia tale da consentirgli di avvalersi della qualità di «lavoratore» ai sensi dell’articolo 45 TFUE. Spetta al giudice del rinvio, che è l’unico ad avere una conoscenza approfondita e diretta della controversia di cui al procedimento principale, valutare se si versi in tale ipotesi. 24. Si deve poi esaminare se il sig. Bordonaro pos‑ sa sostenere di essere stato oggetto di una disparità di trattamento fondata sull’età. 25. Per quanto concerne la comparabilità delle si‑ tuazioni, si deve precisare che, da un lato, non è ne‑ cessario che le situazioni siano identiche, ma soltanto che siano comparabili e, dall’altro, che l’esame di tale comparabilità deve essere condotto non in maniera generale e astratta, bensì in modo specifico e concreto in riferimento alla prestazione di cui trattasi (sentenza del 12 dicembre 2013, Hay, C‑267/12, EU:C:2013:823, punto 33 e giurisprudenza ivi citata). 26. Nel caso di specie, si deve rilevare che l’artico‑ lo 34 del decreto legislativo n. 276/2003 ha introdotto due diversi regimi non solo per l’accesso e le con‑ dizioni di lavoro, ma anche per il licenziamento dei lavoratori intermittenti, in funzione della fascia di età alla quale detti lavoratori appartengono. Infatti, nel caso di lavoratori di età compresa tra i 25 e i 45 anni, il contratto di lavoro intermittente può essere con‑ cluso solo per l’esecuzione di prestazioni a carattere discontinuo o intermittente, secondo le modalità spe‑ cificate dai contratti collettivi e per periodi predeter‑ minati, mentre, nel caso di lavoratori di età inferiore ai 25 anni o superiore ai 45, la conclusione di un simile contratto di lavoro intermittente non è subordinata ad alcuna di tali condizioni e può avvenire «in ogni caso», con la precisazione, come osservato dal governo ita‑ liano in sede di udienza, che i contratti conclusi con lavoratori di età inferiore ai 25 anni cessano automati‑ camente quando i medesimi compiono 25 anni. 27. Ne consegue che, per l’applicazione di dispo‑ sizioni come quelle di cui al procedimento principale, la situazione di un lavoratore licenziato in ragione del solo compimento dei 25 anni di età è oggettivamente
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comparabile con quella dei lavoratori che rientrano in un’altra fascia di età. 28. Pertanto, si deve constatare che la disposizio‑ ne di cui al procedimento principale, nella parte in cui prevede che un contratto di lavoro intermittente possa essere concluso «in ogni caso» con un lavorato‑ re di età inferiore a 25 anni e cessi automaticamente quando il lavoratore compie 25 anni, introduce una disparità di trattamento basata sull’età, ai sensi dell’ar‑ ticolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78. 29. In seconda battuta, occorre esaminare se tale disparità di trattamento possa essere giustificata. 30. A tal proposito, l’articolo 6, paragrafo 1, comma 1, della direttiva 2000/78 enuncia che gli Stati mem‑ bri possono prevedere che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di po‑ litica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari. 31. Si deve ricordare che gli Stati membri dispon‑ gono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realiz‑ zarlo – Omissis. 32. – Omissis. tale disposizione si inserisce in un contesto normativo finalizzato a valorizzare la flessi‑ bilità nel mercato del lavoro, quale strumento per in‑ crementare l’occupazione. 33. Per quanto concerne, in particolare, la catego‑ ria dei lavoratori di età inferiore ai 25 anni, emerge infatti dalle osservazioni del governo italiano che la facoltà accordata ai datori di lavoro di concludere un contratto di lavoro intermittente «in ogni caso» e di risolverlo quando il lavoratore di cui trattasi compia 25 anni di età ha l’obiettivo di favorire l’accesso dei giovani al mercato del lavoro. Il governo italiano ha sottolineato che l’assenza di esperienza professiona‑ le, in un mercato del lavoro in difficoltà come quello italiano, è un fattore che penalizza i giovani. Inoltre, la possibilità di entrare nel mondo del lavoro e di acquisire un’esperienza, anche se flessibile e limitata nel tempo, può costituire un trampolino verso nuove possibilità d’impiego. – Omissis. 37. Inoltre, va ricordato che la promozione delle assunzioni costituisce incontestabilmente una finalità legittima di politica sociale e dell’occupazione degli Stati membri, in particolare quando si tratta di favo‑ rire l’accesso dei giovani all’esercizio di una profes‑ sione (sentenza del 21 luglio 2011, Fuchs e Köhler, C‑159/10 e C‑160/10, EU:C:2011:508, punto 49 e giu‑ risprudenza ivi citata). 38. Allo stesso modo, la Corte ha dichiarato che l’obiettivo di favorire il collocamento dei giovani nel
mercato del lavoro onde promuovere il loro inserimen‑ to professionale e assicurare la protezione degli stessi può essere ritenuto legittimo ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 (sentenza del 10 novembre 2016, de Lange, C‑548/15, EU:C:2016:850, punto 27). In particolare, è stato anche dichiarato come rappresenti una finalità legittima l’agevolazio‑ ne dell’assunzione di giovani lavoratori aumentando la flessibilità nella gestione del personale (v., in tal senso, sentenza del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci, C‑555/07, EU:C:2010:21, punti 35 e 36). 39. In tali circostanze, si deve constatare che la disposizione nazionale di cui al procedimento princi‑ pale, avendo la finalità di favorire l’accesso dei giova‑ ni al mercato del lavoro, persegue una finalità legitti‑ ma, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78. 40. Occorre pertanto esaminare se i mezzi ado‑ perati per il conseguimento di siffatta finalità siano appropriati e necessari. 41. Per quanto concerne l’adeguatezza di una di‑ sposizione come quella di cui al procedimento prin‑ cipale, si deve rilevare che una misura che autorizza i datori di lavoro a concludere contratti di lavoro meno rigidi, tenuto conto dell’ampio potere discrezionale di cui godono gli Stati membri in materia, può essere considerata come idonea a ottenere una certa flessibi‑ lità sul mercato del lavoro. – Omissis 42. Per quanto concerne il carattere necessario della disposizione di cui al procedimento principale, va osservato, come fa valere la Abercrombie, che, in un contesto di perdurante crisi economica e di cre‑ scita rallentata, la situazione di un lavoratore che ab‑ bia meno di 25 anni e che, grazie ad un contratto di lavoro flessibile e temporaneo, quale il contratto intermittente, possa accedere al mercato del lavoro è preferibile rispetto alla situazione di colui che tale possibilità non abbia e che, per tale ragione, si ritrovi disoccupato. 43. A sua volta, il governo italiano ha spiegato, in udienza, che dette forme flessibili di lavoro sono necessarie per favorire la mobilità dei lavoratori, ren‑ dere gli stipendi più adattabili al mercato del lavoro e facilitare l’accesso a tale mercato delle persone mi‑ nacciate dall’esclusione sociale, eliminando allo stes‑ so tempo le forme di lavoro illegali. 44. Il governo italiano ha anche sottolineato, in udienza, che è necessario che il maggior numero possibile di giovani possa far ricorso a tale tipo di contratto, al fine di raggiungere l’obiettivo perseguito dalla disposizione nazionale di cui al procedimento principale. Orbene, se i contratti di lavoro conclusi ai sensi dell’articolo 34, paragrafo 2, del decreto legi‑ slativo n. 276/2003 fossero stabili, le imprese non po‑ trebbero offrire lavoro a tutti i giovani, con la conse‑ guenza che un numero considerevole di giovani non potrebbe accedere a tali forme di lavoro.
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45. Peraltro, il governo italiana ha evidenziato che la misura di cui al procedimento principale è accom‑ pagnata da un certo numero di tutele. – Omissis. 46. Alla luce di tali considerazioni, si deve ritenere, considerato l’ampio margine discrezionale riconosciu‑ to agli Stati membri non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato in materia di politica sociale e dell’occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzarlo, che il legislatore nazionale abbia potuto ragionevolmente considerare come ne‑ cessaria l’adozione di una disposizione quale l’artico‑ lo 34, paragrafo 2, del decreto legislativo n. 276/2003. 47. Tenuto conto delle considerazioni che prece‑ dono, si deve rispondere alla questione sollevata di‑
chiarando che l’articolo 21 della Carta nonché l’artico‑ lo 2, paragrafo 1, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), e l’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 devo‑ no essere interpretati nel senso che essi non ostano a una disposizione, quale quella di cui al procedimento principale, che autorizza un datore di lavoro a con‑ cludere un contratto di lavoro intermittente con un lavoratore che abbia meno di 25 anni, qualunque sia la natura delle prestazioni da eseguire, e a licenziare detto lavoratore al compimento del venticinquesimo anno, giacché tale disposizione persegue una finalità legittima di politica del lavoro e del mercato del lavo‑ ro e i mezzi per conseguire tale finalità sono appro‑ priati e necessari».
Lavoro intermittente: legittima la cessazione automatica del rapporto al compimento del 25° anno d’età Sommario :
1. Il caso. – 2. Il quadro normativo sovrannazionale di riferimento. – 3. La disciplina italiana al vaglio di compatibilità. – 4. L’operazione logicogiuridica di accertamento dei profili di discriminazione per l’età. – 5. La risposta della Corte Europea.
Sinossi. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, pronunciandosi sulla domanda di rinvio pregiudiziale di cui era stata investita dalla Cassazione, ha stabilito che la disciplina italiana dettata in materia di lavoro intermittente non integra alcuna discriminazione fondata sull’età. È conforme al quadro europeo la normativa nazionale di cui al d. lgs. n. 276/2003 ed ora trasfusa nel d. lgs. n. 81/2015 che consente la stipula di un contratto di lavoro intermittente con soggetti di età inferiore ai 25 anni e la cessazione automatica del rapporto al compimento del 25° anno, essendo tali previsioni giustificate dal perseguimento di una legittima finalità occupazionale, volta a promuovere l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro con maggior flessibilità.
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1. Il caso. Di recente la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale di cui era stata investita dalla Corte di Cassazione italiana con ordinanza n. 3892/2016, con la quale veniva chiesto al Giudice europeo di valutare se la normativa italiana in materia di contratto di lavoro intermittente contenuta nel d. lgs. n. 276/2003 fosse conforme al quadro sovrannazionale delineato dagli art. 2, par. 1 e 2, lett. a) e 6 della dir. 2000/78/CE, nonché dall’art. 21 della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (c.d. Carta di Nizza), il cui combinato disposto promuove la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, stabilendo al contempo un generale divieto di discriminazioni dirette o indirette in base all’età1. In particolare, la Suprema Corte, adita a fronte del gravame proposto avverso una pronuncia della Corte d’Appello di Milano, riteneva opportuno, oltre che obbligatorio in quanto giudice di ultima istanza2, rimettere ex art. 276 TFUE alla Corte di Giustizia il citato quesito interpretativo. Risultava infatti pregiudiziale rispetto alla decisione della controversia appurare se dovesse essere censurata o meno la normativa introdotta con il Decreto Biagi, applicabile ratione temporis alla vicenda di causa, la quale prevedeva la possibilità di concludere un contratto di lavoro intermittente con soggetti con meno di venticinque anni di età per lo svolgimento di qualsiasi prestazione lavorativa e di risolvere tale rapporto al mero compimento del venticinquesimo anno, senza necessità di addurre e provare alcune delle causali tipizzate in materia di licenziamento. Il rinvio pregiudiziale proposto nei termini anzidetti si inseriva nell’ambito di un contenzioso sorto tra la nota società di abbigliamento statunitense Abercrombie & Fitch Srl ed il sig. A. B., avente ad oggetto la risoluzione del contratto di lavoro intermittente avvenuta automaticamente al solo compimento del venticinquesimo anno d’età del lavoratore. Il sig. A. B. era stato assunto a far data dal 14 dicembre 2010 con un contratto di lavoro a chiamata a tempo determinato, successivamente prorogato e convertito poi in un rapporto a tempo indeterminato dal 1 gennaio 2012, con mansioni di magazziniere notturno, dovendo su richiesta discontinua dell’azienda garantire l’assistenza ai clienti e operare sui registratori di cassa. Oggetto del contendere era la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 26 luglio 2012 al venir meno del requisito soggettivo anagrafico.
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Per un approfondimento sull’ordinanza della Cassazione si rinvia a Calafà, Tra norma inderogabile e diritto antidiscriminatorio: il caso della tutela dei lavoratori intermittenti in attesa della Corte di Giustizia, in RIDL, 2016, n. 3, 692 ss. Secondo Pasqualetto, Il potere del datore di licenziare il lavoratore «vecchio» e pensionabile alla luce della normativa antidiscriminatoria, tra disapplicazione della normativa interna e certezza del diritto, in RIDL, 2016, n. 4, 613 ss. l’aver rimesso la questione alla Corte di Giustizia dovrebbe avere «il vantaggio di chiarire una volta per tutte, e con effetti in un certo senso erga omnes, l’eventuale conflitto tra norme interne e norme europee». Nel medesimo senso Calafà, Tra norma inderogabile e diritto antidiscriminatorio, cit., la quale ritiene che nel contesto attuale del diritto del lavoro la scelta del rinvio fosse opportuna e condivisibile. In senso conforme anche Scarcella, Lavoro intermittente: norme italiane discriminatorie in base all’età?, in Ipsoa Quotid., 3.3.2016; Gragnoli, Il contrato di lavoro intermittente e la possibile discriminazione per età, in DRI, 2016, n. 4, 1111 ss.; Bronzini, La corte di Giustizia e il principio di non discriminazione per età: al giudice ordinario il compito di chiudere il sistema, in RIDL, 2016, n. 4, 999 ss.
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Il sig. A. B. aveva presentato ricorso ex artt. 28 d. lgs. n. 150/2011 e 702 bis c.p.c. dinnanzi al Tribunale di Milano chiedendo che fosse accertata l’illegittimità sia del suo contratto di lavoro sia dell’intimato licenziamento e, quindi, venisse accertata l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato sin dalla sua stipulazione, con condanna della Società all’eliminazione di ogni effetto discriminatorio per il tramite della sua riammissione in servizio ex art. 18 st. lav. ovvero in virtù della tutela reale di diritto comune. Tuttavia, il tribunale meneghino, in accoglimento delle eccezioni formulate dalla Società convenuta, aveva dichiarato l’improcedibilità del ricorso, ritenendo che le domande giudiziali avanzate avrebbe dovuto esser proposte con il c.d. rito Fornero di cui all’art. 1, comma 47 ss., l. n. 92/2012 avendo ad oggetto l’impugnativa del recesso datoriale, trovando invece il rito sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c. applicazione in tutti i casi di discriminazione, ad eccezione di quelli aventi ad oggetto un licenziamento3. La Corte d’Appello di Milano, adita dal sig. A. B., riformava tuttavia la sentenza sostenendo che lo speciale procedimento previsto dall’art. 28 d. lgs. n. 150/20114 per le controversie in materia di discriminazione non fosse stato abrogato dal rito Fornero, costituendo un modello processuale legittimamente esperibile anche nel caso di specie. Proseguiva poi nel merito, ritenendo che il contratto di lavoro intermittente concluso con l’Abercrombie ex art. 34 d. lgs. n. 276/2003 e il successivo licenziamento, intimato in ragione esclusivamente del compimento del venticinquesimo anno d’età, fossero contrari al principio di non discriminazione di cui alla dir. 2000/78/CE in quanto la disciplina nazionale «trovava fondamento esclusivamente sull’età senza alcuna altra specificazione non essendo richiamata alcuna ulteriore condizione soggettiva del lavoratore e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile»5. Nello specifico, statuiva che la legislazione nazionale, consentendo l’impiego del contratto a chiamata in virtù semplicemente del requisito d’età, aveva introdotto un trattamento differenziato che, in assenza di una finalità legittima, nonché della proporzionalità e necessità dei mezzi utilizzati, doveva considerarsi discriminatorio. La Corte, dunque, disapplicava la normativa interna contrastante, concludendo che il contratto di lavoro ed il licenziamento fossero illegittimi e il rapporto
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A fondamento della decisione vi era l’assunto in virtù del quale il conflitto d’applicazione fra due leggi speciali va risolto sulla base del brocardo lex posterior derogat lex priori, anche ove abbiano natura processuale. Secondo il Tribunale di Milano, dunque, qualora venga lamentata la natura discriminatoria di un licenziamento, la domanda giudiziale andrà incardinata ai sensi del rito di cui all’art. 1, comma 47 ss., l. n. 92/2012, risultando implicitamente abrogato in parte qua il procedimento previsto dagli artt. 4, d. lgs. n. 216/2003 e 28 d. lgs. n. 150/2011. La Corte ha altresì aggiunto che l’art. 18 St. Lav. in ordine alle ipotesi di licenziamento discriminatorio possa trovare applicazione solo con riferimento ai casi ivi tipizzati, ove non è incluso alcun richiamo al d. lgs. 216/2003. Il d. lgs. n. 150/2011, volto alla semplificazione dei riti, con riferimento alle controversie in materia di discriminazione ha disposto l’adozione del rito sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c. e l’incardinamento della causa dinnanzi al Tribunale ove il ricorrente ha il domicilio. Così App. Milano, 3 luglio 2014, n. 406. Per un commento si rinvia a Bonanomi, I requisiti soggettivi nel contratto di lavoro intermittente. Disparità di trattamento o discriminazione per età?, in DRI, 2015, n. 2, 467 ss.; Guaglione, Il caso Abercrombie: contratto intermittente e discriminazione per età, in RGL, 2014, n. 4, 613 ss.; Calafà, Lavoro intermittente e discriminazione diretta in base all’età: prove di disapplicazione, in RIDL, 2015, n. 2, 541 ss.; Calafà, Giudici (quasi) federali e diritto del lavoro recente, in LD, 2014, nn. 2-3, 457 ss.
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dovesse considerarsi a tempo indeterminato con orario part-time. La Corte d’Appello condannava dunque la Società a riammettere in servizio il sig. A. B. e a risarcire quest’ultimo del danno subito nella misura delle retribuzioni medio tempore maturate dalla risoluzione del rapporto sino alla data della sentenza, calcolata sulla media mensile del trattamento economico percepito nel corso del rapporto. Vale rilevare come in tale occasione la Corte d’Appello avesse optato per non proporre essa stessa un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, escludendone l’opportunità sulla scorta del fatto che il giudice europeo avesse già ampiamente chiarito la portata ed i limiti della discriminazione diretta in base all’età. Tuttavia, ancorché attraverso un giudizio a posteriori, sorge con facilità un’osservazione critica nei confronti di tale scelta della Corte territoriale in ragione del portato della pronuncia della Corte di Giustizia6, che ne ha disatteso completamente le considerazioni. La Società soccombente proponeva dunque ricorso per Cassazione avverso la sentenza d’appello riprendendo le ragioni pregiudiziali di improcedibilità e denunciando la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 34, comma 2, d. lgs. n. 276/2003, nonché della dir. 2000/78/CE e del principio di non discriminazione, sostenendo in primo luogo che la disciplina interna fosse finalizzata a favorire l’inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e non già a discriminarli in ragione dell’età e, in secondo luogo, che comunque l’eventuale sanzione in ipotesi di invalidità del contratto dovesse esser ravvisata esclusivamente nel risarcimento del danno e non anche nella conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato7. La Corte di Cassazione adita rimetteva dunque la questione pregiudiziale alla Corte europea rilevando che l’art. 34, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 «mostra di non contenere alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell’art. 6, n. 1, comma 1, della citata Direttiva 2000/78».
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Sul punto si veda Corti, Il lavoro intermittente: un modello contrattuale finalmente assestato, in Magnani, Pandolfo, Varesi (a cura di), I contratti di lavoro, 105, secondo cui la Corte d’Appello milanese avrebbe forse potuto giustificare da sé il differente trattamento in ragione delle precipue finalità di politica occupazionale sottese alle previsioni dell’art. 34, comma 2, d. lgs. n. 276/2003, anche alla luce della perdurante disoccupazione giovanile. L’Autore, inoltre, sottolinea come, viste le dirompenti ricadute della pronuncia sui presupposti di ricorso al lavoro intermittente, prudenzialmente la Corte avrebbe dovuto richiedere un’interpretazione pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Particolarmente interessanti sono tali osservazioni in quanto svolte prima della pronuncia qui in commento. In seno alla giurisprudenza, peraltro unicamente di merito, non vi è unanimità sul punto. All’illegittimità del contratto in quanto stipulato al di fuori delle ipotesi previste dalla legge taluna parte della giurisprudenza fa discendere il riconoscimento del risarcimento del danno in via equitativa, escludendo invece la conversione del rapporto in quanto quest’ultima sarebbe limitata esclusivamente alle ipotesi legislativamente previste (ex multis Trib. Monza, 15 ottobre 2012). Di segno opposto, invece, sono altri arresti secondo cui in tali casi deve essere dichiarata la nullità del contratto e disposta la conversione del rapporto (ex multis Trib. Milano, 9 dicembre 2009).
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2. Il quadro normativo sovrannazionale. La cornice normativa entro cui la vicenda di diritto oggetto della pronuncia qui commentata deve essere calata è delineata, da un lato, dalla dir. 2000/78/CE8 – ed, in particolare, dagli artt. 2 e 6 ivi contenuti – e, dall’altro lato, dall’art. 21 della Carta di Nizza. Il summenzionato art. 2, rubricato «nozione di discriminazione», cristallizza al par. 1 il principio della parità di trattamento nell’occupazione e nelle condizioni di lavoro, quale «assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta» fondata sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età9 o le tendenze sessuali. Si ha discriminazione diretta ove per una di tali ragioni una persona venga trattata in modo deteriore rispetto ad un’altra che si trova in un’analoga situazione. Viene invece qualificata come indiretta quando l’effetto discriminatorio deriva da una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri. Tale norma deve tuttavia esser letta ed applicata in combinato disposto con l’art. 6, par. 1 che le fa da pendant. Quest’ultimo introduce una fattispecie derogatoria rispetto all’enunciazione del divieto di discriminazione, prevedendo che sia facoltà degli Stati membri introdurre delle disparità di trattamento in ragione dell’età qualora «siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari». Il perimetro concettuale del principio di non discriminazione viene poi completato dall’art. 21 della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione Europea, il quale vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali» ovvero la cittadinanza.
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Per un approfondimento sulla dir. 2000/78 si veda Bonardi, Le discriminazioni per età nel diritto del lavoro, in Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Il quadro comunitario e nazionale, Giuffrè, 2007, 125 ss., la quale sottolinea come alla base dell’intensificazione dell’azione di tutela contro le discriminazioni per l’età vi sia un cambiamento sociopolitico dettato dall’aumento della durata della vita, dal ridimensionamento dei trattamenti previdenziali e dall’innalzamento della soglia di età pensionabile. Evidenzia tuttavia un grande limite della summenzionata direttiva nel suo ristretto campo di applicazione, rilevando come la discriminazione per età assuma importanza anche in molti altri campi non contemplati, quali il settore sanitario, dei trasporti e dei servizi locali etc. Monaco, La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul divieto delle discriminazioni per età, in DRI, 2010, n. 3, 876 ss., sottolinea come l’età, rispetto agli altri fattori di rischi individuati quali ragioni di discriminazione, presenti delle caratteristiche particolari in quanto muta nel tempo, rendendo difficile l’operazione di identificazione dei gruppi di persone ricadenti entro il cono d’ombra di tutela. Alla luce del 25 considerando della direttiva, l’Autrice sostiene che il fattore età sia valutato nella misura in cui ad esso fa riferimento il mercato del lavoro per il perseguimento delle politiche occupazionali. Per tali ragioni l’Autrice conclude ritenendo che il lasso temporale di età che la direttiva ha presuntivamente considerato ai fini del divieto della discriminazione decorra dall’acquisizione della capacità lavorativa e termini con il raggiungimento dei limiti di età pensionabile, rendendo ex ante impossibile indicare in termini univoci tale dato, essendo rimesso alla discrezionalità di ciascuno Stato membro.
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Nel panorama europeo10 l’inserimento del divieto di discriminazione in ragione dell’età entro il novero dei principi generali risale alla nota sentenza Mangold11, ove la Corte di Giustizia, pronunciandosi su un rinvio pregiudiziale avente ad oggetto l’interpretazione e la compatibilità della normativa tedesca in materia di contratto a termine, ha espressamente sancito che il suddetto principio costituisce un elemento essenziale ai fini del perseguimento degli obiettivi nelle politiche occupazionali, ivi compresa la promozione delle diversità. In particolare, all’affermazione dell’enunciato di diritto come principio generale ne sono seguite rilevanti conseguenze in termini applicativi, cristallizzando l’efficacia diretta orizzontale della dir. 2000/78. Nel filone giurisprudenziale inaugurato con tale pronuncia si ricorda per importanza un successivo arresto, la sentenza Kücükdeveci12, in occasione della quale la Corte di Giustizia, oltre a ribadire il messaggio giuridico già espresso nella Mangold, ne ha confermato il carattere di principio generale richiamando per la prima volta la Carta europea dei diritti
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Per una rassegna della giurisprudenza della Corte di Giustizia sulle deroghe al divieto di discriminazione per età si rinvia a Gualco, Unione europea e principio di non discriminazione in base all’età: tendenze consolidate e nuovi sviluppi alla luce della più recente giurisprudenza, in Dir. Pubbl. Comp. ed Eur., 2013, n. 4, 1129 ss. e Izzi, La Corte di Giustizia e le discriminazioni per età: scelte di metodo e di merito, in RGL, 2012, n. 1, 125 ss. Si veda anche Monaco, La giurisprudenza della Corte di Giustizia sul divieto delle discriminazioni per età, cit., la quale divide in diversi raggruppamenti le eccezioni al divieto di discriminazione in ragione dell’età, fra cui ipotesi in cui la differenza di trattamento è dovuta alla natura dell’attività lavorativa ovvero al contesto entro cui la stessa è svolta, oppure casi in cui vengono evocati motivi di sicurezza pubblica, ordine pubblico, prevenzione dei reati e tutela della salute, dei diritti e delle libertà altrui o, infine, ad obiettivi di politica e mercato del lavoro e di formazione professionale. Non da ultimo si rinvia a Calafà, Le discriminazioni fondate sull’età: sequenza giurisprudenziale recente del fattore di rischio “emergente”, in RIDL, 2010, n. 4, 993 ss.; Bronzini, La corte di Giustizia e il principio di non discriminazione per età: al giudice ordinario il compito di chiudere il sistema, cit., il quale rievoca la definizione della discriminazione per età come la «Cenerentola tra le discriminazioni» visto l’ampio ventaglio di deroghe ammissibili; Cartoceti, La Cassazione a Sezioni Unite esclude la sussistenza di un diritto potestativo alla prosecuzione del rapporto in capo al lavoratore pensionabile, in DRI, 2016, n. 1, 273 ss. ritiene che all’età sia «stata (volutamente e) irragionevolmente negata la “resistenza” riconosciuta agli altri motivi discriminatori». 11 C. giust., 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold. In tal caso il rinvio pregiudiziale aveva ad oggetto la compatibilità della normativa tedesca che autorizzava la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato, oltre il limite di durata massima di due anni e a prescindere dalla sussistenza di una ragione obiettiva, quando il lavoratore avesse raggiunto l’età di 58 anni, abbassata poi a 52. La Corte di Giustizia veniva chiamata a valutare la conformità di tali misure con la dir. 2000/78/CE sulla parità di trattamento in materia di occupazione, il cui termine di trasposizione negli ordinamenti nazionali non era ancora scaduto. Pur riconoscendo come legittima la finalità della disposizione nazionale, relativa all’integrazione professionale dei lavoratori anziani disoccupati, la Corte affermava che i mezzi utilizzati per conseguire tale obiettivo andavano oltre i limiti di proporzionalità e necessarietà in relazione al principio generale di eguaglianza per motivi d’età. 12 C. giust., 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Kücükdeveci. Si trattava di valutare la compatibilità fra il principio di non discriminazione in ragione dell’età e la normativa tedesca contenuta nell’art. 622 BGB che, nel prevedere il periodo di preavviso da osservare in caso di licenziamento, non teneva conto dell’eventuale anzianità di servizio maturata presso il medesimo datore di lavoro prima del compimento del venticinquesimo anno d’età.
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fondamentali, la quale, in virtù del Trattato di Lisbona all’epoca già entrato in vigore, ha acquisito pari efficacia dei Trattati13 14.
3. La disciplina nazionale al vaglio di compatibilità. La normativa italiana oggetto del rinvio pregiudiziale riguardava la disciplina del contratto di lavoro intermittente, più comunemente noto come contratto a chiamata ovvero job on call, introdotto con il d. lgs. n. 276/2003, le cui disposizioni sono state dapprima abrogate dalla l. n. 247/2007, che ha sostituito la predetta tipologia contrattuale con il lavoro discontinuo, per poi esser rese nuovamente operative ad opera dell’art. 39, comma 11, d. l. n. 112/2008, convertito con modificazioni dalla l. n. 133/2008. Ora la normativa è stata trasfusa nel d. lgs. n. 81/2015 che raggruppa organicamente in un unico testo normativo la disciplina delle diverse tipologie contrattuali. Cifra caratterizzante del contratto a chiamata, oltre alla subordinazione, è la fisiologica discontinuità della prestazione. L’art. 34 d. lgs. n. 276/2003, rubricato «casi di ricorso al lavoro intermittente», nella versione vigente al momento della stipula del contratto tra la società Abercrombie e il sig. A. B. prevedeva che lo stesso potesse essere concluso per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo ed intermittente nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno ai sensi del successivo art. 37 che faceva particolare riferimento ai fine settimana e alle festività estive, natalizie o pasquali (comma 1). In ogni caso, a prescindere da tali condizioni e da tali ipotesi tipizzate, il contratto poteva essere altresì concluso con soggetti con meno di venticinque anni di età ovvero più di quarantacinque, anche pensionati (comma 2). La riforma Fornero, novellando il comma 2 di tale norma e, dunque, il requisito anagrafico/soggettivo a cui era subordinato l’impiego del contratto a chiamata, ha disposto che quest’ultimo potesse esser «concluso con soggetti con più di cinquantacinque anni di
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Di recente la Corte di Giustizia con la sentenza, 6 marzo 2014, causa C-595/12 Association de Médiation Sociale è tornata a puntualizzare la portata della pronuncia Kücükdeveci, evidenziando come il principio di discriminazione per età contenuto nell’art. 21 Carta di Nizza fosse di per sé sufficiente a conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale, conferendo dunque efficacia orizzontale diretta alla dir. 2000/78. Per un commento si veda Sollecito, Gli effetti diretti orizzontali dei principi contenuti nella Carta di Nozza: la sentenza Association de Médiation Sociale della Corte UE e i chiarimenti sull’approccio Kücükdeveci, in DRI, 2014, n. 3, 849 ss. Secondo la Corte, come enunciato nella prima delle summenzionate sentenze, le disposizioni della Carta di Nizza per poter essere applicate anche in controversie tra privati devono esser chiare, precise ed incondizionate. A parere di Bronzini, Il rapporto sui diritti fondamentali dell’Unione: introduzione, in RIDL, 2015, n. 2, 61 ss. le statuizioni della Corte sembrano consentire un’applicazione orizzontale della direttiva anche laddove sia in questione un aspetto comunque ricavabile dal tenore della norma. 14 Bronzini, La corte di Giustizia e il principio di non discriminazione per età: al giudice ordinario il compito di chiudere il sistema, cit., cita a completamento del “trittico” di pronunce in materia di non discriminazione composto dalle precedenti Mangold e Kücükdeveci la sentenza, 19 aprile 2016, causa C-441/14, Dansk Industri, in materia di privazione del beneficio dell’indennità di licenziamento in caso di raggiungimento dei requisiti per l’accesso alla pensione.
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età e con soggetti con meno di ventiquattro anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età». Il tratto qualificante della disposizione sopra richiamata riguardava il duplice regime giuridico introdotto in punto di accesso e di condizioni di lavoro, nonché di risoluzione del rapporto ex latere datoriale in ragione esclusivamente dell’età anagrafica del dipendente interessato. Ed infatti, come chiarito anche dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali all’atto dell’entrata in vigore della summenzionata novella normativa15, a far data dal 18 luglio 2012 veniva preclusa la possibilità di stipulare dei contratti di lavoro intermittente con soggetti di età pari o superiore ai ventiquattro anni, essendo stato consentito solamente un regime transitorio per i contratti precedentemente stipulati ma non conformi al nuovo quadro normativo tale per cui gli stessi avrebbero cessato ex lege gli effetti una volta decorsi dodici mesi dall’entrata in vigore della Riforma. Il legislatore ha espressamente previsto che il compimento del venticinquesimo anno d’età costituisca un evento di per sé sufficiente per fondare e legittimare la risoluzione automatica del rapporto di lavoro. Sul punto pare opportuno svolgere due tipi di approfondimenti, l’uno attinente alla qualificazione giuridica del predetto evento e l’altro afferente invece alla natura facoltativa ovvero obbligatoria dell’effetto risolutorio del rapporto. Quanto alla prima delle questioni poste, pare che il compimento del venticinquesimo anno debba essere qualificato come termine finale del contratto ancorché non esplicitamente indicato dalle parti, avendo ad oggetto un evento il cui avveramento deve ritenersi certo nel corso della vigenza del rapporto, a prescindere dal fatto che quest’ultimo venga sulla carta definito a tempo determinato ovvero indeterminato. La certezza dell’avveramento dell’evento base, infatti, escluderebbe la configurazione dello stesso quale condizione contrattuale risolutiva. Inquadrando il compimento del venticinquesimo anno d’età nei termini sopradetti, tuttavia, sorgerebbe un problema di coordinamento con la volontà cartolare delle parti contenuta nel contratto individuale di lavoro intermittente ove lo stesso venga previsto come rapporto a tempo indeterminato. In particolare, ove si ipotizzasse la stipula di un contratto con un soggetto con meno di venticinque anni d’età ai sensi dell’art. 34 d. lgs. n. 276/2003, anche ove lo stesso fosse stato qualificato come contratto a tempo indeterminato, ancorché intermittente, il compimento del venticinquesimo anno avrebbe operato implicitamente come termine di durata del vincolo contrattuale, rendendo nei fatti il rapporto di lavoro non già a tempo indeterminato, bensì implicitamente determinato, ancorché sui generis. In tal caso la volontà delle parti di costituire un vincolo contrattuale perpetuo, a tempo indeterminato, verrebbe superata dall’operatività della previsione normativa di cui all’art. 34, comma 2, d. lgs. n. 276/2003, come novellata dalla l. n. 92/2012, non ponendosi alcun problema in ordine al rispetto degli oneri contenutistici previsti con specifico riguardo al contratto a termine. Si ricorda infatti come sul punto sia già intervenuto il Ministero del Lavoro con la circolare n. 4/2005, ove è stata espressamente esclusa
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Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, circ. n. 20/2012.
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l’applicabilità dell’allora vigente disciplina di cui al d. lgs. n. 368/2001 al contratto intermittente a tempo determinato, non essendo stata richiamata dal d. lgs. n. 276/2003. In ogni caso, emerge chiaramente come l’età del singolo lavoratore nella disciplina contenuta nel decreto Biagi costituisse uno dei criteri di discrimine ai fini della determinazione della vigenza ovvero della risoluzione del contratto. Venendo alla seconda delle questioni sopra esposte e su cui è opportuno soffermarsi, pare che il tenore letterale della formulazione della norma induca a configurare la risoluzione del rapporto come un effetto automatico derivante dal mero compimento del venticinquesimo anno e, dunque, come un effetto giuridico obbligatorio e non già rimesso alla libera determinazione del singolo datore di lavoro. Opinando diversamente e ritenendo che invece l’effetto ablativo sia rimesso alla facoltà del datore si introdurrebbe un forte ed evidente elemento di discrezionalità tale da obliterare la ratio legislativa di promozione dell’occupazione giovanile e da introdurre ulteriori possibilità di discriminazione. A ben vedere, quanto sopra delineato può essere replicato anche con riguardo alla disciplina normativa attualmente vigente in materia di contratto di lavoro intermittente, trasfusa ora negli artt. 13 ss. d. lgs. n. 81/2015. Continua infatti ad esser prevista la possibilità di concludere un contratto di lavoro a chiamata per lo svolgimento di prestazioni discontinue o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi, anche se attinenti a periodi determinati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno ovvero nei casi individuati con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali o in ogni caso «con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni». Portato implicito della nuova disposizione è che anche nell’attuale quadro normativo il compimento del venticinquesimo anno costituisce una ragione di risoluzione del rapporto di lavoro16. Diversamente opinando verrebbe aggirata la prescrizione in virtù della quale le prestazioni debbono esser svolte entro tale soglia anagrafica. Proprio per tal ragione ed, in particolare, per il carattere pressoché immutato del tessuto normativo vigente all’epoca della risoluzione del rapporto con il sig. A. B. e quello attualmente in vigore, si comprende con ogni evidenza la rilevanza del principio di diritto enunciato nella sentenza qui in commento, la quale spiega una vitalità ed una rilevanza giuridica anche pro futuro.
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Non ottemperate le aspettative di Bonanomi, I requisiti soggettivi nel contratto di lavoro intermittente, cit., il quale auspicava, in seguito alla sentenza della Corte d’Appello di Milano, che con il Jobs Act il legislatore cogliesse l’occasione per conformare la normativa sul contratto di lavoro intermittente alla disciplina comunitaria e la pronuncia della Corte territoriale milanese non cadesse nel vuoto. Chiara è la postura adottata dall’Autore in senso critico rispetto al quadro legislativo nazionale.
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4. L’operazione logico-giuridica di accertamento dei profili di discriminazione per l’età.
La pronuncia costituisce non solo un importante arresto in ordine ai limiti dettati a livello sovrannazionale in merito al divieto di discriminazione in base all’età, bensì anche un’occasione onde verificare puntualmente quale sia l’iter logico-giuridico che la Corte di Giustizia adotta per verificare se, ed eventualmente in che misura, la legislazione degli Stati membri sia incompatibile con i principi di diritto europeo. In via di premessa la Corte si è interrogata innanzitutto sulla nozione di lavoratore, giacché la dir. 2000/78 poteva essere invocata ed applicata al caso di specie a condizione che il sig. A. B. rientrasse entro il predetto perimetro concettuale. Passaggio logico probabilmente scontato considerata l’ampiezza della nozione europea di lavoratore ed altresì il fatto che nei tre gradi di giudizio precedentemente svolti tale specifica questione risultava incontestata e nemmeno sollevata, ma che tuttavia denota il grado di approfondimento con cui la Corte ha analizzato la vicenda. Ma nonostante ciò, ricostruita la nozione di lavoratore secondo il costante orientamento della giurisprudenza europea, la Corte finisce poi per rimettere al giudice del rinvio il compito di valutare se si versi effettivamente in tale ipotesi. Risolto ciò, la Corte si è proposta in primo luogo di verificare se la vicenda fosse sussumibile entro la fattispecie normativa prevista dall’art. 2 dir. 2000/78 e, dunque, concretizzasse una disparità di trattamento nell’accesso e nelle condizioni del lavoro legata all’età. Secondariamente, accertata l’esistenza di una disparità di trattamento, la Corte ha inteso valutare se ricorresse una delle ipotesi derogatorie prevista dall’art. 6 della medesima direttiva e, dunque, se tale disparità fosse giustificata da una finalità legittima e, in caso positivo, se i mezzi impiegati per il raggiungimento dell’obiettivo fossero appropriati e necessari. L’approccio impiegato viene dunque creato in via gradata, dovendo ricorrere i tre requisiti classici della giustificatezza, nonché dell’appropriatezza e necessità, il primo dei quali da valutare in via preliminare rispetto ai secondi, che operano peraltro in via cumulativa e non alternativa17. La giustificatezza risulta essere di più immediata comprensione, attenendo alla valutazione di corrispondenza delle ragioni addotte a fondamento dell’introduzione di un trattamento differenziato rispetto a motivazioni di politica generale, escludendo la sussistenza del requisito in parola ove le finalità sottese siano totalmente assenti, ovvero pretestuose o generiche. Maggiori riflessioni meritano invece i caratteri dell’appropriatezza
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Calafà, Lavoro intermittente e discriminazione diretta in base all’età, cit., evidenzia la differenza di approccio fra la Corte di Giustizia e il giudice nazionale nell’operazione di valutazione di eventuali profili di discriminatorietà: «davanti alla Corte di Giustizia vi sono (anche, spesso) i singoli Governi nazionali che si propongono di spiegare ed approfondire le ragioni delle scelte legislative effettuate; a livello nazionale, di fronte ad un giudice del lavoro, la dialettica è sempre e solo tra datore di lavoro e lavoratore ed è il giudice che deve motivare la sussistenza della discriminazione considerando in modo serio e ponderato l’esistenza di una finalità legittima e la progettazione di mezzi appropriati e necessari». Sembra dunque che l’Autrice, con ragione, ritenga più semplice fornire la prova della non discriminatorietà dinnanzi al giudice europeo, estendendosi le linee difensive ad appoggio della condotta del datore.
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e della necessità. La prima, infatti, concerne la ragionevolezza ed idoneità dei mezzi impiegati dagli Stati membri per il raggiungimento degli obiettivi divisati. La necessità degli strumenti, invece, assicura che le misure adottate dagli Stati non eccedano quanto necessario per il conseguimento della finalità, attraverso una ponderata comparazione di vantaggi e svantaggi. È dunque esiziale, ai fini del rispetto del parametro di necessità, che non vi concorrano altri rimedi alternativi e meno svantaggiosi che consentano di raggiungere il medesimo obiettivo.
5. La risposta della Corte di Giustizia. Utilizzando l’approccio e i parametri sopra descritti, la Corte di Giustizia ha finito, per taluni commentatori sorprendentemente, per sposare la linea difensivo-giuridica proposta dal governo italiano ed offerta anche dall’A. G. Bobek, disattendendo l’impostazione adottata dalla Corte d’Appello di Milano e che, quanto meno per le succinte ragioni esposte, sembrava aver latamente spostato anche la Cassazione nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale. Particolare è stata l’eco seguita a tale pronuncia, derivante, da un lato, dagli importanti effetti applicativi che ne conseguiranno, potendo costituire un incentivo o, quanto meno, una chiara legittimazione da parte della Corte di Giustizia al ricorso al contratto di lavoro intermittente, sovente impiegato esclusivamente per l’assunzione di giovani lavoratori appena affacciatisi nel mercato del lavoro e, dall’altro lato, dal fatto che tale tipologia contrattuale non ha costituito di frequente oggetto di contenzioso all’interno delle aule giudiziarie, nonostante l’ampio utilizzo che è stato fatto nel tempo di tale contratto. Il fulcro della questione atteneva al fatto che la normativa italiana applicabile al caso di specie ratione temporis potesse aver in realtà introdotto una disparità di trattamento nella misura in cui, identificando tre distinti gruppi di persone in ragione di un criterio eminentemente di età anagrafica, ne differenziava corrispondentemente il regime giuridico, a prescindere dal fatto che i lavoratori così distinti potessero trovarsi in situazioni analoghe in relazione alla natura delle prestazioni e delle mansioni, all’esperienza professionale o alle qualifiche. In particolare, il diverso trattamento deteriore concerneva non già le condizioni di accesso al lavoro, bensì di cessazione del rapporto, giacché veniva – e viene tuttora – legittimata la risoluzione automatica dello stesso al compimento del venticinquesimo anno. A ben vedere, le censure di incompatibilità con la normativa comunitaria presentavano una certa meritevolezza intrinseca, giacché il lavoratore assunto legittimamente in thesi all’età di 23 anni con un contratto di lavoro intermittente ex art. 34, comma 2, d. lgs. n. 276/2003, al compimento del venticinquesimo anno d’età poteva essere validamente licenziato ancorché, per ipotesi, potesse trovarsi nella medesima situazione sostanziale di coloro che, ultra55enni, erano stati assunti nella medesima maniera ovvero di altri soggetti assunti in base all’art. 34, comma 1, al ricorrere delle ipotesi legislativamente o contrattualmente individuate. Paradossalmente, tale lavoratore avrebbe potuto essere legittimamente licenziato anche se in thesi provvisto di un’esperienza professionale maggiore dei propri coetanei venticinquenni assunti ai sensi del comma 1 della sopra richiamata norma, con riferimento ai quali non era disposta alcuna cessazione del rapporto ipso facto.
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La fattispecie di cui all’art. 34, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 introduceva un rapporto di lavoro derogatorio al quadrato. La prima deroga riguardava in sé e per sé la configurazione del contratto di lavoro intermittente, quale eccezione rispetto al rapporto di lavoro subordinato tradizionale. La seconda deroga riguardava in particolare l’ipotesi di cui all’art. 34, comma 2, d. lgs. n 276/2003 che in caso di assunzione di un lavoratore con età inferiore ai 24 anni non prevedeva alcun limite attinente al carattere discontinuo dell’attività o al settore di essa a cui ancorare la legittimità del contratto. La deroga in tal caso si poneva rispetto al quadro generale delineato nel comma 1 della medesima norma. Tuttavia, secondo la difesa svolta dalla Società, non solo non sarebbe stata realizzata alcuna disparità di trattamento discriminatoria in danno del sig. A. B. e, più in generale, dei lavoratori che versassero nella sua medesima situazione, bensì sarebbe individuabile addirittura un trattamento di miglior favore ad essi esclusivamente riservato, in quanto volto a favorirne l’occupazione ed una maggior appetibilità agli occhi dei potenziali datori di lavoro. Riprendendo l’iter logico-giuridico sopra delineato e analizzando il primo profilo attinente alla sussunzione della vicenda concreta entro la fattispecie astratta di cui all’art. 2 dir. 2000/78, la Corte si è pronunciata statuendo che effettivamente la normativa italiana in materia di contratto di lavoro intermittente contenuta nell’art. 34, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 introducesse nei fatti una disparità di trattamento dettata esclusivamente in ragione dell’età. Tuttavia, la Corte non si è certamente arrestata a tale conclusione, verificando in primo luogo se le finalità addotte dal governo italiano nel corso della discussione fossero oggettivamente ragionevoli e tali da giustificare la diversità di regime giuridico. Sotto tale aspetto, in particolare, la Corte è andata oltre l’approccio prettamente formalistico secondo cui la mancata enunciazione nella disposizione normativa delle finalità ad essa sottese esclude a priori la possibilità di ritenere giustificata la disparità di trattamento18. Valutando il contesto entro cui il quadro normativo in parola si inseriva, ha ritenuto fondate e meritevoli le giustificazioni addotte e attinenti alla promozione della flessibilità nel mercato del lavoro al fine di aumentare il tasso di occupazione, favorire l’inserimento dei giovani e fornire un’opportunità di prima occupazione, consentendo così di maturare un’esperienza iniziale che, invece, al momento dell’assunzione manca a tali soggetti. L’obiettivo, dunque, non sarebbe stato quello di offrire a tale fascia di lavoratori un impiego stabile, bensì una prima occasione di lavoro, ponendo loro in una posizione di vantaggio concorrenziale19. Nei termini così sintetizzati e riprendendo l’approccio metodologico a scalare, la Corte ha ritenuto legittime ai sensi e per gli effetti dell’art. 6, par. 1, dir. 2000/78 le finalità indi-
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Secondo cospicua dottrina, infatti, gli obiettivi di politica del lavoro che avrebbero giustificato tale disciplina normativa sarebbero fumosi se non addirittura inesistenti. In tal senso, ex multis, Calafà, Lavoro intermittente e discriminazione diretta in base all’età, cit.; Id, Tra norma inderogabile e diritto antidiscriminatorio, cit. 19 Di diverso avviso Gragnoli, Il contrato di lavoro intermittente e la possibile discriminazione per età, cit., il quale, prima della pronuncia qui in commento, sottolineava come nel caso di specie vi fosse una sproporzione fra il mezzo e il fine, non essendovi alcun interesse pubblico da tutelare, né ricorrendo alcun nesso tra l’attività svolta e le condizioni fisiche del lavoratore tali da giustificare il differente trattamento in ragione dell’età.
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cate dal Governo italiano e perseguite entro il perimetro della discrezionalità spettante a ciascuno degli Stati membri nell’individuazione di un dato scopo di politica sociale e di occupazione da raggiungere e delle misure atte a realizzare lo scopo stesso. La Corte è passata dunque ad interrogarsi sugli ulteriori requisiti previsti dalla norma sovrannazionale, statuendo che sussistesse sia il carattere dell’appropriatezza - giacché la previsione legislativa oggetto di censura che consentiva di concludere contratti di lavoro meno rigidi risultava idonea al raggiungimento dell’obiettivo di una maggiore flessibilità -, nonché della necessità, ritenendo che tale tipologia contrattuale, anche in ragione del contesto di perdurante crisi economica, fosse preferibile rispetto all’alternativa data da uno stato di disoccupazione. Per le summenzionate ragioni la Corte è giunta a sostenere che la normativa italiana in materia di contratto di lavoro intermittente e contenuta nell’art. 34, comma 2, d. lgs. n. 276/2003 – ora trasposta in maniera inalterata nel d. lgs. n. 81/2015 – non costituisse una violazione del divieto di discriminazione in ragione dell’età e fosse dunque pienamente applicabile e non in contrasto con l’apparato normativo di cui alla dir. 2000/78 e con l’art. 21 Carta di Nizza, essendo dunque legittima la cessazione automatica del rapporto a chiamata per il mero compimento del venticinquesimo anno d’età. In tal caso, al datore di lavoro rimarrebbe unicamente l’onere formale, peraltro non previsto dalla norma, di comunicare la risoluzione del rapporto20. A ben vedere, la portata applicativa della pronuncia qui in commento è particolarmente ampia, consentendo al datore di lavoro di risolvere il rapporto senza la necessità di dedurre e tanto meno provare una delle causali che invece sono richieste ai fini della legittimità del licenziamento21. In particolare, la Corte di Giustizia nel proprio iter logico-argomentativo ha privilegiato una valutazione di carattere globale, volta non solo a ponderare elementi di carattere squisitamente giuridico, bensì prendendo anche in considerazione lo specifico contesto economico e sociale entro cui la vicenda si collocava, ove sempre maggiore è la precarietà dei giovani lavoratori. Invero, nelle intenzioni della Corte non vi era già la volontà di attribuire agli imprenditori uno strumento attraverso cui ricorrere legittimamente a brevi contratti di lavoro intermittenti con giovani dipendenti, risolvibili automaticamente al compimento del venticinquesimo anno d’età, senza l’alea di un contenzioso d’impugna-
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Secondo Bronzini, La corte di Giustizia e il principio di non discriminazione per età: al giudice ordinario il compito di chiudere il sistema, cit., sarebbe preferibile accordare la piena tutela in materia antidiscriminatoria nei rapporti interprivati attraverso l’art. 21 Carta di Nizza, il quale, soprattutto dopo l’obbligatorietà e la valenza acquisite con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha un fondamento scritto e solido, al punto da assurgere a Bill of rights europeo alla luce del quale valutare la legittimità stessa delle direttive. Nell’analisi condotta l’Autore coglie peraltro l’occasione per muovere una critica in ordine all’incerta costruzione gerarchica dei principi europei delineata dalla giurisprudenza della Corte, la quale sembrerebbe ritenere che ci siano «principi “più principi” di altri». 21 Disattese dunque le aspettative di Calafà, Tra norma inderogabile e diritto antidiscriminatorio, cit., secondo cui la Corte di Giustizia avrebbe dovuto fornire elementi di chiarezza, nonché ulteriori eventuali requisiti a cui subordinare la validità del contratto di lavoro intermittente, sfruttando i divieti di discriminazione dettati a livello sovrannazionale e rendendoli strumenti tali da assicurare «una tutela integrativa nei casi di evidente abbassamento dei livelli offerti dalle tecniche tradizionalmente incentrate sul riconoscimento della norma inderogabile»; in senso conforme Gragnoli, Il contrato di lavoro intermittente e la possibile discriminazione per età, cit., secondo cui non vi era motivo per discostarsi dalle tesi della giurisprudenza comunitaria.
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tiva di licenziamento. La Corte ha piuttosto inteso optare per il male minore, consentendo ai giovani lavoratori di accedere al mercato del lavoro ed acquisire una prima esperienza professionale. In altri termini, la precarietà è prevalsa rispetto allo stato di disoccupazione. Tuttavia, il percorso seguito dalla Corte di Giustizia pare non poter esser contestato22. Il piano su cui, forse, dovrebbe auspicarsi un intervento, onde evitare che tale pronuncia costituisca un ulteriore volano, sempre che fosse allo stato necessario, per un incremento della precarietà dell’occupazione giovanile, è quello legislativo. Preferibile, infatti, sarebbe la costruzione di politiche attive di formazione dei lavoratori e di ricollocazione nel mercato del lavoro dei soggetti il cui rapporto di lavoro viene legittimamente risolto al compimento del venticinquesimo anno d’età, al fine di scongiurare che l’esperienza professionale, la cui acquisizione si intende favorire con l’impiego del contratto di lavoro intermittente, venga effettivamente e proficuamente utilizzata. Diversamente, lo strumento normativo così come confezionato lascerebbe il giovane lavoratore privo di tutele e, soprattutto, privo della garanzia di poter godere del vantaggio concorrenziale nel mercato del lavoro evocato dal governo italiano nella pronuncia qui in commento, annullando dunque i benefici e gli obiettivi divisati. In altri termini, l’arresto della Corte di Giustizia è condivisibile nella misura in cui il contratto di lavoro intermittente non costituisca uno strumento giuridico che, nei fatti, si traduca in fonte ed occasione di mero differimento del problema, spostando lo stato di disoccupazione in una fascia di età successiva. Vero è, tuttavia, che ove non vi fosse il meccanismo della risoluzione automatica, con ogni probabilità e per effetto di un circolo vizioso, sarebbe sempre minore il numero di giovani lavoratori che potrebbero fruire di questa tipologia di contratto flessibile volta ad accompagnare ad un preingresso nel mercato del lavoro.
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Milizia, Il limite di 25 anni di età per il lavoro intermittente non è discriminatorio, in Dir. & Giust., 2017, fasc. 124, 35, condivide la soluzione adottata dalla Corte, sostenendo che in tal modo «si evitano emarginazioni sociali, forme di lavoro in nero e si favorisce la mobilità dei lavoratori» e ritenendo che il contratto a chiamata costituisca uno strumento appropriato per incentivare i datori a stipulare contratti meno onerosi, agevolando da un lato l’assunzione dei giovani ed incrementando dall’altro la flessibilità nella gestione delle risorse umane.
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Giurisprudenza Corte di Cassazione, sentenza 8 maggio 2017, n. 11165; Pres. D’Antonio – Est. Riverso – Inps (Avv. Coretti, Stumpo, Triolo) c. Asgi (Avv. Guariso). Conferma App. Milano sent. n. 1008/2014.
Previdenza sociale – Assegno nucleo familiare – mancata concessione ai cittadini di paesi terzi soggiornanti in Italia – discriminazione collettiva per nazionalità – sussistenza.
La mancata concessione ai cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo in Italia dell’assegno per il nucleo familiare previsto dall’art. 65 della l. n. 448/1998 per il periodo precedente all’1.7.2013 costituisce discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità per violazione del principio di parità in materia di assistenza sociale e protezione sociale in relazione alle prestazioni essenziali previsto dalla dir. 2003/109/CE ed attuato dall’art. 13, comma 1, della l. n. 97/2013. Previdenza sociale – Discriminazione collettiva per nazionalità – legittimazione ad agire – enti esponenziali – sussistenza.
Nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità (ex artt. 2 e 4 d.lgs. 215/2003 e 43 TU 286/1998) sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti nell’art.5 d. lgs. 215/2003.
Svolgimento del processo. – Omissis. 1.- Con sentenza n.2247/2012 la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello ex art. 702 quater c.p.c., proposto dall’INPS avverso l’ordinanza del tribunale di Milano che su ricorso di J.O., ASGI ASSOCIAZIONE STUDI GIURIDICI SULL’IMMIGRAZIONE, APN AVVOCATI PER NIENTE ONLUS, ha accertato il carattere discriminatorio della condotta consistita nell’aver negato agli stranieri soggiornanti di lungo periodo con residenza in Italia l’assegno al nucleo familiare di cui alla L. 23 dicembre 1998, n. 48, art. 65, per difetto del requisito della cittadinanza italiana o di altro Paese membro dell’Unione Europea – Omissis. 3.- Avverso la sentenza ricorre l’INPS con due motivi. Resistono J.O., ASGI ASSOCIAZIONE STUDI GIURIDICI SULL’IMMIGRAZIONE, ANP AVVOCATI PER NIENTE ONLUS. – Omissis. Motivi della decisione. Legittimazione ad agire per le discriminazioni collettive afferenti al fattore della nazionalità. 1. Con il primo motivo l’Inps deduce violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c., in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 43, e art. 44, comma 10, e D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 5, (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). L’INPS si duole anzitutto perchè la Corte territoriale ha dichiarato inammissibile, in quanto generico, il motivo di gravame proposto in relazione alla legitti-
mazione in capo alle associazioni ricorrenti ad agire con l’azione di discriminazione collettiva. In secondo luogo, nel merito, l’INPS sostiene che nessuna norma conferisca la legittimazione alle associazioni ricorrenti per proporre l’azione di discriminazione collettiva in quanto afferente al fattore della nazionalità. Inoltre nel caso di specie sarebbe stato carente l’ulteriore requisito, pure previsto ai fini della legittimazione ad agire delle associazioni collettive, della non individuabilità in modo diretto immeditato delle persone lese dalla discriminazione. 2. Il motivo non è fondato alla stregua delle seguenti assorbenti considerazioni relative al merito della questione. Deve infatti rilevarsi che con le censure in esame l’INPS sostenga una netta distinzione nella regolamentazione dei diversi fattori di discriminazione, ritagliando in quello che può definirsi un gioco di rinvii da una legge all’altra, da un articolo all’altro, da un comma all’altro - un vuoto di tutela processuale per le discriminazioni di natura collettiva fondate sulla nazionalità (escluse dalla procedura per la tutela della discriminazione collettiva di cui al D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 5, che richiama l’art. 4 precedente che a sua volta rinvia alle “forme previste dall’art. 44, commi da 1 a 6, 8 e 11, del testo unico immigrazione”). – Omissis.
Giurisprudenza
3.1. La tesi dell’INPS non può essere seguita, ad avviso del collegio. Essa porterebbe a negare l’esistenza stessa e la rilevanza nell’ordinamento di discriminazioni collettive fondate sulla nazionalità; ovvero l’esistenza di condotte offensive (o plurioffensive) nei confronti di una pluralità di soggetti accumunati dal fattore nazionalità; e l’esigenza di garantire una protezione giudiziale di interessi condivisi da una pluralità di soggetti accomunati sotto il medesimo fattore della nazionalità, senza che costoro siano tenuti a prendere parte al processo o ad attivarlo individualmente. Questa conclusione non è accoglibile, anzitutto, alla luce del rapporto che può essere instaurato tra gli artt. 2 e 4, del D.Lgs. n. 215 del 2003, e l’art. 43 T.U. immigrazione che prevede la nozione di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 3.2. L’art. 43, commi 1 e 2, del t.u. sull’immigrazione considera la nazionalità tra i fattori di discriminazione vietati in ogni campo della vita sociale, con una previsione che comprende atti di qualsiasi tipo, inclusivi anche di offese ad interessi di tipo collettivo; e pertanto anche le discriminazioni definite collettive (“Omisiss”). A queste discriminazioni collettive viene apprestata la tutela processuale dell’art. 44, comma 10 TU nell’ipotesi in cui vengano commesse dal datore di lavoro, prevedendosi allo scopo la legittimazione ad agire in capo alle rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. – Omissis. 4. Se non si riconosce questa connessione sostanziale e processuale fra le norme si creerebbero palesi incongruenze. 4.1. In primo luogo perchè va negato che nel nostro ordinamento, nella materia della tutela contro le discriminazioni collettive, la legittimazione ad agire in capo ad un soggetto collettivo rappresenti un’eccezione. – Omissis. Va pure ricordato che lo Statuto dei lavoratori all’art. 15 sanziona con la nullità tutti gli atti discriminatori posti in essere dal datore di lavoro; e che anche l’art. 28 dello Statuto, in ipotesi di comportamenti plurioffensivi, ovvero parimenti lesivi dell’interesse sindacale e dell’interesse di singoli lavoratori, può assumere anch’esso il valore di uno strumento antidiscriminatorio a carattere collettivo azionabile dagli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali. 4.2. Costituirebbe perciò una vistosa eccezione il mancato conferimento della legittimazione ad agire in capo ad un ente esponenziale in caso di discriminazione collettiva per il fattore nazionalità. Un’eccezione che non è giustificabile, alla luce del fatto che esso risulta, come si è visto, fattore discriminatorio parimenti vietato in ogni campo della vita sociale
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(lavorativa ed extralavorativa) ai sensi dell’art. 43 TU immigrazione. 4.3. Le Sezioni Unite di questa Corte, decidendo sulla natura discriminatoria di un bando per la selezione dei volontari da impiegare in progetti di servizio civile, che non consentiva l’accesso ai cittadini stranieri che risiedono regolarmente in Italia, si sono pronunciate in due occasioni su discriminazioni collettive fondate sulla nazionalità ai sensi della direttiva qui richiamata ed in procedimenti promossi dalle stesse associazioni di cui nel presente procedimento si predica il difetto di legittimazione ad agire – Omissis. 4.4. La giurisprudenza della CGUE, in relazione al caso di un datore di lavoro che aveva pubblicamente affermato, nell’ambito di una procedura di assunzione, che non avrebbe assunto lavoratori stranieri (alloctoni), ma solo autoctoni, ha già sostenuto (caso Feryn, 2008) la rilevanza della discriminazione collettiva, sia pure alla luce della Direttiva 2000/43 CE (che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica); riconoscendo, da una parte, che l’esistenza di una discriminazione diretta “non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione” (e pertanto riconoscendo che essa potesse essere fatta valere in giudizio alla luce del diritto nazionale da una associazione collettiva); ed affermando, dall’altra, che allo scopo fosse sufficiente considerare la potenzialità lesiva delle dichiarazioni dell’imprenditore (in quanto erano “in modo evidente idonee a dissuadere fortemente determinati candidati dal proporre le loro candidature”); sottolineando poi che lo scopo inclusivo prefissato dalla direttiva, in particolare nell’ottavo considerando, “sarebbe difficilmente raggiungibile se la sfera di applicazione della direttiva 2000/43 fosse circoscritta alle sole ipotesi in cui un candidato scartato per un posto di lavoro e che si reputi vittima di una discriminazione diretta abbia avviato una procedura giudiziaria nei confronti del datore di lavoro”. 4.5. Tali importanti osservazioni corrispondono al concetto di discriminazione collettiva presente in varie norme nel nostro ordinamento, dando fondamento alla ragione sostanziale (l’effettiva protezione dei diritti) per la quale la loro tutela non possa prescindere da una legittimazione conferita in capo ad un organismo collettivo. – Omissis. Le “differenze di trattamento basate sulla nazionalità”, di cui si discute alla luce della disposizione in oggetto, presente nel D.Lgs. n. 215 del 2003, non potrebbero comunque giustificare trattamenti illeciti ed oscurare le esigenze di protezione nascenti da discriminazioni collettive per nazionalità (già disciplinate dall’ordinamento), che lo stesso testo normativo
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riconosce anzi esplicitamente, ed alle quali intende volgere la tutela processuale ivi regolata. 4.7. Si consideri sotto questo aspetto che, in base all’art. 5 dello stesso decreto legislativo, le associazioni in discorso – alle quali si vorrebbe negare la legittimazione ad agire per discriminazioni collettive contrassegnate dal fattore della nazionalità sono quelle iscritte nell’elenco approvato con decreto ministeriale (previsto appunto dal D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 5) per le finalità programmatiche che le contraddistingue; le quali associazioni, in base al D.P.R. n. 349 del 1999, art. 52, devono essere qualificate dallo svolgimento di “attività a favore degli stranieri immigrati” e dallo “svolgimento di attività per favorire l’integrazione sociale degli stranieri” (non quindi testualmente in relazione alla razza o etnia). Ora, affermare che esse possano agire in giudizio solo per le discriminazioni per razza o etnia e non per il fattore della nazionalità che serve a qualificarle, non è solo palesemente illogico; ma introdurrebbe un ulteriore difetto di coordinamento tra norme di diverso livello, in quanto porterebbe ad ipotizzare che la legittimazione ad agire per un certo tipo di discriminazioni (razza o etnia) sia stata conferita ad enti che si occupano di un fattore di discriminazione che viene ritenuto dall’ordinamento del tutto differente, di diverso contenuto e rilevanza (come appunto la nazionalità straniera). 5. Occorre inoltre richiamare il consolidato principio dell’ordinamento, avente natura cogente per qualsiasi giudice, secondo cui, di fronte a possibili interpretazioni differenti di un medesimo testo normativo, occorre sempre preferire l’interpretazione che risulti conforme alla Costituzione ed al diritto comunitario. 5.1. Che la tesi negativa susciti immediati dubbi di costituzionalità (ai sensi dell’art. 3 Cost., commi 1 e 2, e art. 24 Cost.) pare qui evidente: sia ove si considerino le differenze di trattamento processuale che verrebbero introdotte (senza ragionevole giustificazione) tra fattori di discriminazione che godono di eguale protezione nell’ordinamento (ai sensi dell’art. 43 TU immigrazione, D.Lgs. n. 215 del 2003, D.Lgs. n. 216 del 2003, e D.Lgs. n. 198 del 2006); sia in relazione al fatto che il medesimo fattore della nazionalità rileverebbe diversamente, rispetto alla legittimazione ad agire, se la discriminazione collettiva fosse commessa o meno in ambito lavorativo. 5.2. Un ulteriore profilo di contrarietà alla Costituzione (art. 117 Cost.) emergerebbe in relazione alla CEDU, in quanto il diritto al giusto processo (previsto dall’art.6) verrebbe diversamente garantito a seconda dei differenti fattori di discriminazione che risultano vietati nell’art. 14 (e nei quali vi è incluso quello relativo all’origine nazionale). 5.3. L’esclusione della legittimazione ad agire nella discriminazione collettiva fondata sulla nazionalità
non appare conforme ai principi di equivalenza ed effettività della tutela valevoli in ambito comunitario. – Omissis. 5.6. In relazione al principio comunitario di equivalenza occorre considerare che, secondo un noto e ormai risalente orientamento della Corte di Giustizia, se è vero che è l’ordinamento giuridico interno di ciascuno stato membro a stabilire le modalità procedurali della tutela dei diritti a fondamento comunitario, è anche vero che esso non può approntare sanzioni e rimedi (ivi compresi quelli processuali) di livello ed efficacia inferiore rispetto a quelli approntati per la violazione di analoghi diritti garantiti dall’ordinamento nazionale; tenuto altresì conto che essi non devono essere tali da rendere in pratica impossibile l’esercizio degli stessi diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare. – Omissis. 6.1. Alla luce delle precedenti considerazioni, ed in questi termini, quindi, non è illegittima la conclusione cui è pervenuta la sentenza impugnata secondo la quale l’ordinamento appresta una legittimazione ad agire in capo agli stessi soggetti collettivi in relazione alle discriminazioni collettive per nazionalità. 7. Deve essere poi respinta l’autonoma censura formulata nel ricorso dall’INPS secondo la quale nel caso di specie difetterebbe il requisito, richiesto dal D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 5, comma 3, ai fini della legittimazione ad agire delle associazioni collettive, consistente nella non individuabilità in modo diretto ed immediato delle persone lese dalla discriminazione. Di tale assunto (ovvero che siano direttamente ed immediatamente identificabili tutti i lungo soggiornanti a cui sarebbe stato negato il diritto all’assegno per il nucleo familiare per il periodo in contestazione) non risulta data nessuna dimostrazione in giudizio; appare al contrario evidente che i destinatari del comportamento discriminatorio denunciato siano un numero indeterminato e comunque non identificabile di soggetti. La discriminazione collettiva. 8. Con il terzo motivo l’Istituto deduce la violazione e falsa applicazione del combinato disposto della L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 65; L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 80, comma 5; D.P.C.M. n. 452 del 2000, art. 16; D.Lgs. 8 gennaio 2007, n. 3, art. 9, comma 12, lett. c); D.Lgs. n. 284 del 1998, artt. 43 e 44; nonchè D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 3, anche in relazione all’art.12 disposizione sulle leggi in generale (art. 360 c.p.c., n. 3). Sostiene l’Istituto ricorrente che dalla disciplina dell’assegno per il nucleo familiare con almeno tre figli minori, concesso dai Comuni, si evince che la provvidenza fosse espressamente riservata ai cittadini italiani e comunitari e non potesse ritenersi estesa ai cittadini extracomunitari soggiornanti di lungo periodo; e che tale limitazione non si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali vigenti nell’ordinamento nazionale, nè con
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le disposizioni comunitarie contenute nella direttiva 2003/109/CE, in quanto la prestazione in discorso non rientra tra le prestazioni definite essenziali dalla direttiva le quali comprendono invece quelle che assicurano l’assistenza personale. 9. Il motivo non è fondato. Anzitutto va chiarito che la discriminazione collettiva è stata affermata dai giudici di merito in relazione alla mancata concessione, per il periodo precedente l’1.7.2013, dell’assegno per il nucleo familiare (ANF) previsto dalla L. n. 448 del 1998, art. 65, agli stranieri soggiornanti di lungo periodo con residenza in Italia; essendo stato invece riconosciuto per il periodo successivo dalla L. 6 agosto 2013, n. 97. Va ricordato poi che l’assegno per il nucleo familiare in questione è prestazione a carattere assistenziale concessa (a prescindere quindi dalla condizione di lavoratore e dal versamento di contributi) dall’1 gennaio 1999 ai nuclei familiari composti da cittadini italiani residenti, con tre o più figli minori, in possesso di risorse economiche non superiore al valore dell’ISE. La L. n. 388 del 2000, art. 80, ha esteso la concessione dell’ANF previsto nella L. n. 448 del 1998, art. 65, ai cittadini comunitari. Agli stranieri titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (D.Lgs. n. 3 del 2007, ex art. 1, in attuazione della direttiva 2003/109/ CE) l’ANF è stato riconosciuto in seguito alla legge 6.8.2013 n. 97 (pubblicata in GU 20.8.2013, ed entrata in vigore il 4.9.2013); secondo l’Inps tale riconoscimento opera a partire dal secondo semestre 2013 e quindi per il periodo successivo al 1 luglio 2013 stante la specifica previsione di risorse economiche solo da tale data (art. 13, commi 2, 3 e 4). 9.2. Come ricordato, l’INPS sostiene pure che detta limitazione temporale non si porrebbe in contrasto nè con disposizioni interne, nè con norme comunitarie; in particolare perchè l’Italia non sarebbe stata obbligata a concedere l’ANF ai soggiornanti non comunitari di lungo periodo in base alla regola di parità di trattamento affermata dall’art. 11 della direttiva 2003/109, poiché la prestazione non rientra nell’alveo delle prestazioni essenziali per le quali l’obbligo della parità è categoricamente stabilito dalla direttiva, senza facoltà di deroga da parte degli Stati nazionali. 9.3. Ad avviso del collegio risulta invece fondata la tesi contraria. E ciò in base alle seguenti considerazioni le quali muovono, anzitutto, dal contesto normativo di matrice Europea che ha portato all’estensione del riconoscimento in Italia dell’ANF ai soggiornanti non comunitari con permesso di soggiorno di lungo periodo. Deve essere ricordato in proposito che in relazione alla direttiva 2003/109 la Commissione Europea ha contestato all’Italia, con la procedura d’infrazione
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n. 4009/2013, la non conformità di alcune disposizioni vigenti nel nostro ordinamento tra le quali era compresa quella relativa all’assegno per il nucleo familiare regolato dalla L. n. 448 del 1998, art. 65. – Omissis. La norma di legge ha in tal modo esteso ai lungo soggiornanti di cui alla direttiva 2003/109/CE il diritto all’ANF, semplicemente operando un ampliamento del novero dei soggetti titolari della prestazione. 9.5. Per quanto concerne la data di decorrenza del riconoscimento della prestazione, la norma nulla dispone di specifico. Essa, ad avviso del collegio, deve essere identificata in relazione allo scopo (sottrarre l’Italia alla procedura d’infrazione) ed all’oggetto dell’intervento normativo (rivolto al “corretto recepimento della direttiva”), in particolare adeguando l’ambito soggettivo della L. n. 448 del 1998, art. 65, alla direttiva 2003/109/CE. La norma pertanto, in base ad un’interpretazione orientata in senso comunitario e costituzionale, deve essere intesa nel senso che il diritto dei lungo soggiornanti all’ANF decorra fin dal momento in cui esso doveva essere introdotto nell’ordinamento interno in attuazione della direttiva. 10. Ogni diversa interpretazione metterebbe il testo della L. n. 97 del 2013, art. 13, in contraddizione con il suo oggetto e la sua ratio, oltre ad esporre l’Italia alla contestazione di violazione dell’obbligo di corretta trasposizione della direttiva. – Omissis. 12. Accedendo a questa diversa tesi, della netta cesura temporale nel riconoscimento della prestazione tra il periodo precedente e quello successivo all’1.7.2013 – sostenuta in causa dell’INPS – occorrerebbe infatti riconoscere che lo Stato Italiano non abbia assicurato, addirittura in sede di emanazione di disposizioni volte all’adeguamento, il corretto recepimento della direttiva 2003/109 CE; dal momento che l’obbligo di trasposizione della direttiva nell’ordinamento interno sussisteva entro la scadenza del termine di recepimento del 23.1.2006, fissato dalla stessa direttiva (art. 26); ovviamente con il supporto di un stanziamento finanziario corrispondente, adeguato cioè rispetto al raggiungimento del risultato imposto dalla direttiva. 12.1. Il che comporterebbe, in base al primo pilastro portante del processo d’integrazione Europea, affermato dalla giurisprudenza della CGUE, che il giudice interno sarebbe comunque obbligato ad assicurare la primazia e l’efficacia diretta del diritto dell’Unione (sentenza Simmenthal, 9 marzo 1978) nell’ipotesi di conflitto, pure dispiegatosi con una norma interna preesistente (come l’art. 65 della legge 448/1998); ancorché esso si dispieghi sulla base di una direttiva, dotata dei requisiti di sufficiente precisione ed incondizionatezza e diretta ad operare nei rapporti verticali (sentenze Marshall 22.2.1986, Foster 12.7.1990).
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12.2. Tali requisiti ritenuti necessari, in base alla giurisprudenza della Corte GUE (sentenze Francovich 1991, Mangold 22 novembre 2005, Kijciikdeveci 19 gennaio 2010, Association de mediation sociale 15 gennaio 2014, Dansk Industri 19 aprile 2016), per l’efficacia diretta della direttiva, una volta scaduto il termine per il suo recepimento, erano infatti presenti nel caso in esame in quanto i beneficiari della posizione di vantaggio erano determinati (i cittadini non comunitari dotati di permesso di soggiorno di lungo periodo), il contenuto della posizione di vantaggio era specificato (trattandosi di “prestazione essenziale” individuabile dal giudice interno), il soggetto passivo tenuto ad assicurare il vantaggio era un’autorità pubblica. D’altra parte è sufficiente considerare che il legislatore italiano in sede di adeguamento si è limitato con la L. n. 97 del 2013, ad ampliare la sfera soggettiva dei destinatari in conformità alla direttiva. 12.3. Deve pertanto ritenersi – sulla base delle stesse premesse e del contenuto della legge Europea 97/2013 – che l’ANF costituisca prestazione che lo Stato Italiano ha riconosciuto di erogare in condizioni di parità (ai sensi dell’art. 11 della direttiva 2003/109 CE) ai cittadini non comunitari lungo soggiornanti; che esso sia stato riconosciuto in sede di tardivo adempimento in base alla legge 97/2013 ed in conformità alla direttiva; e che pertanto il mancato riconoscimento della prestazione in questi stessi termini da parte dell’INPS (con la circolare n. 4/2014) concreta una discriminazione collettiva sotto il profilo della nazionalità. 13. Del resto, la tesi sollevata dall’INPS in ricorso – secondo cui la prestazione in questione non rientra invece tra quelli essenziali disciplinate dalla direttiva – oltre ad essere superata dalla legge 97/2013, contrasta anche con la corretta interpretazione della direttiva 2003/109. La quale all’art. 11 prevede la “parità di trattamento” del soggiornante di lungo periodo che “gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale ai sensi della legislazione” (art. 13, comma 1). È vero che il comma 4 prevede che “Gli stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza sociale e protezione sociale alle prestazioni essenziali”. Tuttavia ai sensi del tredicesimo considerando le prestazioni essenziali comprendono “almeno un sostegno di reddito minimo, l’assistenza in caso di malattia, di gravidanza, l’assistenza parentale e l’assistenza di lungo termine”. 13.1. Ad avviso di questo Collegio, l’ANF costituisce una prestazione essenziale in quanto si tratta di una forma di assistenza riferita a famiglie in situazione di povertà in presenza di almeno tre figli minori, tenuto altresì conto del contesto in cui s’iscrive l’art. 11, comma 1, lett. d) e della finalità perseguita dalla
direttiva 2003/109; ossia l’integrazione dei cittadini di paesi terzi che abbiano soggiornato legalmente ed a titolo duraturo negli Stati membri. Ulteriori indicazioni in tal senso possono trarsi dall’art. 2 della legge 328/2000 volto a definire il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi all’interno delle quali può essere ricompreso l’ANF (art. 2, lett. a-d) come prestazione base sotto vari profili d’intervento ivi elencati (povertà, minori, responsabilità familiari). 14. Vale soprattutto in proposito quanto suggerito, sotto vari aspetti, dalla Corte giustizia UE nella causa C-571/10, Kamberaj (pronunciata in relazione ad una prestazione di sostegno all’alloggio). Anzitutto laddove la CGUE ha osservato che l’elenco contenuto nel tredicesimo considerando, e che illustra la nozione di “prestazioni essenziali” di cui all’art. 11, lett. d della direttiva 2003/109, “non è esaustivo, come confermato dall’impiego del termine almeno”. Pertanto, il fatto che in tale considerando non venga effettuato alcun riferimento espresso all’ANF non implica che questo ultimo non costituisca prestazione essenziale alla quale il principio della parità di trattamento deve necessariamente essere applicato, anche osservando che esso consiste in un sussidio di carattere economico alle famiglie in presenza di almeno tre figli minori e che sotto questo profilo può essere assimilato alla categoria di prestazione relativa all’assistenza ai parenti (che invece è testualmente ricompresa tra le prestazioni essenziali). – Omissis. 15. Va poi chiarito che il legislatore italiano non aveva comunque esercitato la deroga necessaria per evitare l’erogazione della prestazione in discorso ai lungo soggiornanti. Occorre considerare che la CGUE ha affermato sempre nella C-571/10, Kamberaj che “al riguardo occorre rilevare che un’autorità pubblica, sia essa di livello nazionale, regionale o locale, può invocare la deroga prevista all’art. 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109 unicamente qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione di tale direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersi della deroga suddetta”. Nel caso in esame non risulta, tanto meno chiaramente, che l’Italia avesse mai richiamato ed invocato la deroga al principio della parità di trattamento prevista dall’art. 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109 per l’ANF. L’Italia bensì per lungo tempo non si è conformata alla direttiva; e poi l’ha fatto in base alla legge 97/2013. Neppure può ritenersi che l’Italia abbia previsto la deroga quando, recependo la direttiva citata 2003/109 con il D.Lgs. n. 3 del 2007, ha sostituito il testo dell’art. 9 del TU immigrazione prevedendo che “Omissis”. Tale disposizione non può ritenersi l’espressione di una chiara volontà di deroga relativa alla concessione dell’ANF trattandosi piuttosto di una norma
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a carattere generale. E d’altra parte una simile tesi risulterebbe in contraddizione con la successiva introduzione del diritto all’ANF in sede di legislazione avente ad oggetto il corretto recepimento della direttiva 2003/109/CE approvata sotto procedura di infrazione 2013/4009 riferita anche alla mancata estensione dell’assegno per il nucleo familiare e di maternità. Inoltre, alla stregua di quanto affermato dalla CGUE nella sentenza Kamberaj, occorre ricordare che, conformemente all’art. 34, comma 3, della Carta, al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale volta a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali. Ne consegue che, nei limiti in cui l’ANF risponde alla finalità enunciata nel citato articolo della Carta, esso non potrebbe essere considerato, nell’ambito del diritto dell’Unione, come non compreso tra le prestazioni essenziali ai sensi dell’art. 11, paragrafo 4, della direttiva 2003/109. 16.1 L’INPS richiama a fondamento delle proprie difese la contraria affermazione effettuata nella sentenza di questa Corte n. 15220/2014 (secondo cui l’ANF non rientrerebbe tra le prestazioni essenziali), ma essa non può essere di ostacolo a quanto sin qui osservato, poiché quell’affermazione (all’interno di una disamina che la stessa sentenza sostiene effettuata “a grandi linee”) costituisce soltanto un obiter dictum non rilevante ai fini del giudizio: sia perchè quella causa era relativa ad un soggetto che non poteva aver diritto alla prestazione in discorso in quanto non era in possesso del titolo di lungo soggiornante; sia perchè la ratio decidendi della stessa pronuncia è stata fondata su una ragione di natura schiettamente procedurale, essendosi il giudizio concluso con una decisione di inammissibilità per genericità dei motivi che non implicava l’esame di alcuna questione di merito (come appunto la natura essenziale o meno della prestazione in discorso). 16.2. L’Inps sostiene poi che sia comunque illegittima la disapplicazione della L. n. 448 del 1998, art. 65, disposta dai giudici di merito, richiamando proprio la sentenza Kamberaj nella parte in cui la CGUE, esaminando la questione relativa all’applicabilità all’art. 14 della CEDU (senza dovere previamente sollevare questione di costituzionalità innanzi alla Corte Costituzionale nazionale), ha affermato che il rinvio operato dall’art. 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa. Ora, va anzitutto ricordato, incidentalmente, che rispetto alla prestazione in esame proprio la Corte
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EDU, con la sentenza 8.4.14 Dahabi, ha pure essa affermato la contrarietà della L. n. 448 del 1998, art. 65, alla CEDU (con gli artt. 8 e 14), giudicando in relazione ad un diniego dell’INPS alla domanda di concessione dell’assegno per il nucleo familiare ad un cittadino tunisino, diritto non riconosciuto neanche dal giudice nazionale italiano nei vari gradi di giudizio. Talché aderendo alla tesi dell’INPS sarebbe pure fondato il sospetto di costituzionalità (per violazione dell’art. 117 Cost.) sollevato in subordine dai controricorrenti. Nella causa qui in esame tuttavia non si procede ad alcuna disapplicazione della norma interna per effettuare l’applicazione diretta dell’art. 14 della CEDU, bensì proprio all’applicazione della norma interna che concretizza il principio di parità (nell’accesso alle prestazioni di assistenza sociale essenziali), già contenuto nella direttiva 2003/109/CE. 16.3. Non ha pertanto rilievo neppure la sentenza della Cass. n. 24981/2016 richiamata dall’INPS nella memoria ex art. 378 c.p.c., con la quale questa Corte ha annullato una sentenza di merito che aveva dichiarato discriminatorio il mancato riconoscimento dell’assegno sociale a chi non aveva la Carta di soggiorno disapplicando la legge che la richiede ed applicando direttamente l’art.14 della CEDU; la quale invece, com’ è noto, in caso di insanabile contrasto fra norma interna e Cedu non superabile in via interpretativa, non ha l’efficacia diretta comportante la non applicazione della norma interna (secondo quanto affermato dalle sentenze gemelle della Corte Cost. nn. 348 e 349/2007). Nel caso in esame, invece, la questione che si pone è se ai fini dell’affermazione della discriminazione collettiva, l’assegno per il nucleo familiare (non l’assegno sociale) spetti a chi aveva già la carta di soggiorno; e se spetti sulla base di una legge che si è adeguata alla direttiva Europea che impone la parità di trattamento per i lungo soggiornanti di lungo periodo per l’accesso alle prestazioni sociali essenziali. 16.4. Di nessun valore ai fini del presente giudizio è anche l’ordinanza n. 196/2013 con la quale la Corte Cost. ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di costituzionalità della L. n. 448 del 1998, art. 65, in quanto il giudice a quo non aveva motivato sulla rilevanza “omettendo di fornire qualsiasi descrizione della fattispecie sottoposta al suo giudizio”. 17. Le considerazioni sin qui svolte impongono dunque di rigettare il ricorso dell’INPS. 18. La novità e la complessità delle questioni giuridiche sollevate con il ricorso giustificano la compensazione integrale tra le parti delle spese del giudizio di cassazione. Sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore
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importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. 19. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., devono essere pronunciati i seguenti principi di diritto: a. “Nelle discriminazioni collettive in ragione del fattore della nazionalità (D.Lgs. n. 215 del 2003, ex artt. 2 e 4, e art. 43 TU 286/1998) sussiste la legittimazione ad agire in capo alle associazioni ed agli enti previsti nel D.Lgs. - 215 del 2003, art. 5”.
b. “La mancata concessione ai cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo in Italia dell’assegno per il nucleo familiare previsto dalla L. n. 448 del 1998, art. 65, per il periodo precedente all’1.7.2013 costituisce discriminazione collettiva per ragioni di nazionalità per violazione del principio di parità in materia di assistenza sociale e protezione sociale in relazione alle prestazioni essenziali previsto dalla direttiva 2003/109/CE ed attuato dalla L. n. 97 del 2013, art. 13, comma 1”. – Omissis.
Sulla discriminazione collettiva per nazionalità, e non solo Sommario : 1. La portata della sentenza n. 11165/2017. – 2. Discriminazioni collettive per nazionalità: una connessione sostanziale e processuale. – 3. L’accesso all’assegno al nucleo familiare per gli extracomunitari lungo soggiornanti. – 4. Sulla essenzialità della misura protettiva.
Sinossi: La nota ricostruisce il percorso espositivo svolto dalla sentenza di Cassazione n. 11165/2017, relativamente alle questioni di diritto antidiscriminatorio connesse alla concessione dell’assegno di maternità per i nuclei familiari numerosi. La esclusione degli stranieri lungo soggiornanti configura, difatti, una discriminazione collettiva per il fattore vietato nazionalità, azionabile anche dagli enti esponenziali.
1. La portata della sentenza n. 11165/2017. La pronuncia della Cassazione in commento appare particolarmente significativa perché coglie la sinergia sussistente tra strumenti di welfare e divieti di discriminazione, entrambi da configurarsi come rimedi contro le disuguaglianze; non vi può essere eguaglianza sostanziale se non sono predisposti adeguati strumenti di welfare e, al contempo, non ci
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può essere un welfare effettivo se non garantendo che ad esso si acceda in condizioni di eguaglianza1. La ricostruzione sui temi del diritto antidiscriminatorio ivi rintracciabile è ampia: dalle direttive europee per arrivare alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, in un percorso di approfondimento che si estende anche oltre la materia della parità di trattamento concernente le prestazioni, l’assistenza e la protezione sociale. Il giudizio è promosso dall’Inps, che veste i panni del ricorrente, contro Asgi (Associazione studi giuridici sull’immigrazione) e Anp (Avvocati per niente onlus), a sua volta controricorrenti. Nel caso della sentenza 11165/2017, Inps ricorre al giudice di legittimità avverso la sentenza n. 1008/2014 della Corte d’Appello di Milano che aveva accertato il carattere discriminatorio della condotta dell’ente previdenziale nel negare l’assegno al nucleo familiare agli stranieri soggiornanti di lungo periodo residenti in Italia. I profili relativi alla legittimazione ad agire per le discriminazioni collettive risultano – come si avrà modo di dire – funzionali a garantire la più ampia tutela a fronte di discriminazioni collettive afferenti al fattore della nazionalità2.
2. Discriminazioni collettive per nazionalità: una connessione sostanziale e processuale.
Il primo problema affrontato sembrerebbe, prima facie, squisitamente processuale: la legittimazione ad agire con l’azione di discriminazione collettiva, in capo ad associazioni. Inps adduce che le discriminazioni per nazionalità siano «meno allarmanti sotto il profilo sociale e giuridico di quelle per razza od etnia» e, su tale linea, afferma che la legittimazione processuale ad esperire l’azione collettiva «costituirebbe un’eccezione consentita solo per le fattispecie tassativamente previste dall’ordinamento»; per l’ente previdenziale, l’impossibilità di rintracciare un richiamo normativo esplicito che conferisca la legittimazione alle associazioni, comporta non solo la esclusione dalla tutela processuale ma pure dal beneficio assistenziale. Viene, da parte del ricorrente, rimarcata la esclusione delle differenze di trattamento basate sulla nazionalità dalla copertura del d. lgs. 9 luglio 2003, n. 215, recante l’attuazione della direttiva 2000/43/Ce per la parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. L’intreccio col diritto sostanziale diviene, dunque, esplicito.
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Bonardi, Diritto alla sicurezza sociale e divieti di discriminazione, in RGL, 2008, 565; l’eguaglianza si deve intendere, infatti, come «un principio costitutivo» dei diritti della persona e una condizione sociale verso cui l’attività dello Stato «va indirizzata», cfr. Barbera, Discriminazioni ed eguaglianza nel rapporto di lavoro, Giuffré, 1991, 182; Brunelli, Welfare e immigrazione: le declinazioni dell’uguaglianza, in IF, 541. V. anche Ballestrero, Lavoro subordinato e discriminazione fondata sulla cittadinanza, in DLRI, 1994, 481; Romagnoli, Eguaglianza e differenza nel diritto del lavoro, in DRLI, 1994, 545. 2 Gottardi, La libera circolazione delle persone: dai lavoratori ai cittadini. L’impatto del principio della parità di trattamento, in Studi in onore di Tiziano Treu, Jovene, 2011, 1463.
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La dottrina, fin dalla emanazione della direttiva poco sopra citata, aveva segnalato la «mancata chiarezza sulla consistenza definitoria del fattore di rischio» assieme all’ingiustificata separazione tra razza, origine etnica, religione e nazionalità3, con l’effetto di contenere la complessiva tutela del diritto antidiscriminatorio entro i confini della cittadinanza europea. La esclusione testuale della nazionalità ha come conseguenza di poter agire verso le discriminazioni ad essa riferibili solo qualora il fattore razza ricomprenda in sé la nazionalità4, mettendo in ombra i profili umanitario-inclusivi delle regole sulle migrazioni. Ne è risultata la sostanziale separazione tra politiche dell’immigrazione e tutela antidiscriminatoria e, al contempo, il depotenziamento dello strumento protettivo. I dubbi interpretativi, all’interno della disciplina nazionale, riguardano la nozione di discriminazione e la sua ampiezza, i fattori di rischio, il campo di applicazione della normativa di tutela, i rimedi processuali, individuali e collettivi5. Se il d. lgs. n. 215/2003 è la trasposizione della direttiva, che qualifica la discriminazione come «posizione di particolare svantaggio rispetto alle altre persone», il d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (denominato T.U. sull’immigrazione) fornisce due nozioni di discriminazione sia diretta che indiretta, una prima generale mentre una seconda legata al lavoro. Il T.U. allarga lo spettro applicativo della disciplina, riferendosi anche alle differenze di trattamento basate sulla nazionalità: gli stranieri immigrati, infatti, non necessariamente appartengono a una razza o etnia diversa, la nazionalità diventa, quindi, imprescindibile nel definire proprio la nozione di discriminazione. La normativa processuale del T.U., d’altra parte, trova la sua diretta matrice nel modello di azione individuale e collettiva di cui all’art. 4 della legge 10 aprile 1991, n. 125 per le pari opportunità tra lavoratrici e lavoratori6, da qui l’individuazione di soggetti collettivi abilitati a impugnare le discriminazioni a carattere collettivo. La separazione tra i due testi normativi richiamati è enfatizzata dall’Inps, affermando che a nulla rileva il richiamo dell’art. 2 del d. lgs. n. 215/2003 all’art. 43 del T.U. sull’immigrazione, un coordinamento che «pone evidenti e irrisolti dilemmi»7. In uno dei passaggi cardine della pronuncia in commento viene, per contro, affermato che, per risolvere la questione processuale, la nozione di discriminazione non può essere ignorata e, anzi, trova una fondamentale estrinsecazione nel rapporto tra gli artt. 2 e 4 del d. lgs. n. 215/2003 e l’art. 43 del T.U. Quest’ultimo è molto chiaro nel comprendere tra i fattori vietati i motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Esso qualifica come discriminazione «ogni comportamento che direttamente o indirettamente comporti una distinzione,
3
Militello, Le nuove discriminazioni, in Sciarra, Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, Giappichelli, 2009, 273 ss; Calafà, Migrazione economica e contratto di lavoro degli stranieri, Il Mulino, 2012, 84 ss. 4 Gottardi, La normativa e le politiche recenti sull’immigrazione. Due volti o solo uno?, in LD, 2009, 535. 5 Gottardi, Le discriminazioni basate sulla razza e l’origine etnica, in Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio: il quadro comunitario e nazionale, Giuffrè, 2007, 1. 6 Scarponi, Un caso di discriminazione collettiva, in LD, 1995, 511. 7 Gottardi, Le discriminazioni basate sulla razza e l’origine etnica, cit., 7; per l’Autrice, i problemi di coordinamento non si possono risolvere sulla base del criterio dello ius superveniens, anche a motivo del richiamo che il d. lgs. 215 (e 216) del 2003 fa, a più riprese, al T. U. sull’immigrazione. Neppure il criterio di specialità pare invocabile perché le due fonti «permangono affiancate e parzialmente sovrapponibili».
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esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza, l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica». Sono due gli argomenti chiave delle pronunce in commento: la nazionalità è fattore vietato «in ogni campo della vita sociale» ed è azionabile anche da enti esponenziali. Il piano della legittimazione ad agire a fronte di discriminazioni collettive seguirà, dunque, la ratio di estensione della tutela piuttosto che di restrizione: come per le discriminazioni per razza od origine etnica è ammessa azione individuale o collettiva, così anche nel caso di discriminazioni per nazionalità. La Corte di legittimità pone in evidenza come tale assunto costituisca, nel diritto antidiscriminatorio, la regola piuttosto che l’eccezione, attraverso un elenco di riferimenti normativi: si pensi alla repressione di comportamenti discriminatori nell’ambito dei luoghi di lavoro e relativi alle condizioni di lavoro (art. 4 d. lgs. 9 luglio 2003 n. 216 recante l’attuazione della direttiva 2000/78/Ce) o alla repressione di comportamenti discriminatori in danno a persone con disabilità (legge 1 marzo 2006, n. 6), tutte ipotesi in cui l’azione può essere individuale o collettiva. La tendenza del legislatore è di trattare i fattori di discriminazione – anche sul piano processuale – in maniera unitaria. La giurisprudenza – europea, costituzionale e di legittimità – si è pronunciata su questioni contigue che consentono di meglio inquadrare l’orientamento attuale delle sentenze gemelle. Le sezioni unite della Cassazione, pronunciandosi sulla natura discriminatoria di un bando per la selezione dei volontari da impiegare nei progetti di servizio civile, avevano puntualizzato che «la partecipazione dello straniero regolarmente soggiornante in Italia ad una comunità di diritti, più ampia e comprensiva di quella fondata sulla cittadinanza in senso stretto, postula che anch’egli, senza discriminazioni in ragione del criterio della nazionalità, sia legittimato, su base volontaria, a restituire un impegno di servizio a favore di quella stessa comunità, sperimentando le potenzialità inclusive che nascono dalla dimensione solidale e responsabile dell’azione a favore degli altri e a difesa dei valori inscritti nella Carta Repubblicana»8. Tale giudizio aveva visto come ricorrenti le medesime associazioni, senza che fossero, tra l’altro, sollevate questioni di inammissibilità. Nella decisione era stato sottolineato che rientra fra i compiti del giudice di ricercare, nell’applicazione della legge, soluzioni ermeneutiche «suscettibili di fare penetrare la costituzione in profondità nell’ordinamento e di armonizzare così le sfere della legalità ordinaria e della legalità costituzionale». La Corte costituzionale con una sentenza d’importanza centrale, la n. 245/2011, aveva statuito che «la condizione giuridica dello straniero non deve essere considerata come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi»9; l’inclusione della nazionalità
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Cfr. Cass., 1 ottobre 2014, n. 20661, in RGL, 2015, II, 59, con nota di Spinelli. C. cost., 25 luglio 2011, n. 245, in Famiglia e dir., 2012, 233, con nota di Pascucci.
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fra i fattori vietati si incardina nel disegno di eguagliamento formale e sostanziale che il documento costituzionale traccia. Il caso Feryn ha permesso, d’altra parte, di definire la rilevanza della discriminazione collettiva qualora il datore di lavoro, in fase di assunzione, dichiari di non assumere lavoratori stranieri10. In particolare, al p. 23 della sentenza, la corte del Lussemburgo ha escluso che la mancanza di un denunciante identificabile escluda altresì qualsivoglia discriminazione ai sensi della direttiva 2000/43/Ce; l’art. 7 della stessa «non si oppone in alcun modo a che gli Stati membri, nella loro normativa nazionale, riconoscano alle associazioni che abbiano un legittimo interesse a far garantire il rispetto della detta direttiva, ovvero all’organismo o agli organismi designati in conformità dell’art. 13 di quest’ultima, il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti da tale direttiva senza agire in nome di un denunciante determinato ovvero in mancanza di un denunciante identificabile» (cfr. p. 27 dir. 2000/43/Ce). L’effettiva protezione dei diritti passa dal riconoscimento della nozione di discriminazione collettiva nonché dal conferimento della legittimazione ad agire in capo all’organismo collettivo: le associazioni coinvolte sono, tra l’altro, iscritte nell’elenco approvato con decreto ministeriale previsto dall’art. 5 del d. lgs. n. 215/2003 in quanto specificamente deputate a svolgere attività in favore degli stranieri immigrati, in special modo in vista della loro integrazione11. I criteri di razionalità e logicità, il coordinamento tra regole multilivello nonché una coerente logica di sistema non possono che plasmare il giudizio antidiscriminatorio12.
3. L’accesso all’assegno al nucleo familiare per gli extracomunitari lungo soggiornanti.
Una copiosa giurisprudenza di merito, negli anni, ha accolto i ricorsi di cittadini di Stati terzi contro i dinieghi opposti dall’ente previdenziale13. Nel caso in commento, la prestazione assistenziale controversa è l’assegno per il nucleo familiare ai sensi dell’art. 65 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 che ha visto, nella evoluzione normativa, un percorso di progressiva estensione dell’ambito dei destinatari: dal 1 gennaio 1999 concesso ai nuclei familiari composti da cittadini italiani residenti con tre o più figli minori e in possesso di
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Izzi, Discriminazione razziale e accesso al lavoro: il caso Feryn, in RGL, 2008, 765; Giubboni, Un certo grado di solidarietà. Libera circolazione delle persone e accesso al welfare nella giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in WPDLE “Massimo D’Antona”.int, 2008, n. 62. 11 L’integrazione passa proprio dal pieno godimento dei diritti sociali, v. Chiaromonte, Previdenza e assistenza sociale degli stranieri. Prospettive nazionali e comunitarie, in LD, 2009, 587. 12 Biondi Dal Monte, Parità di trattamento e rapporti tra ordinamenti in una decisione della Corte di giustizia, in QCost., 2012, 665. 13 Si veda, esemplificativamente, Trib. di Padova ordinanza 5 dicembre 2011, Trib. di Milano ordinanza 16 luglio 2012, Trib. di Alessandria ordinanza 2 maggio 2013, reperibili e consultabili sul sito www.asgi.it. Mattei, Il diritto all’assegno al nucleo familiare per i cittadini lungo soggiornanti, in RGL, 2013, 724.
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risorse economiche scarse, con la legge 23 dicembre 2000, n. 388 esteso ai cittadini comunitari e, in seguito, con la legge 6 agosto 2013, n. 97 riconosciuto agli stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo. In tale ultimo caso, la discrasia temporale nel suo riconoscimento si verifica perché Inps sostiene che i destinatari avrebbero potuto goderne dal 1 luglio 2013, sulla base dello specifico stanziamento finanziario definito dalla legge citata e non nel periodo precedente. La Cassazione, invece, rileva che la fase precedente non avrebbe potuto restare sfornita di tutela assistenziale: i destinatari hanno diritto all’assegno per il nucleo familiare dal 23 gennaio 2006, termine di scadenza per il recepimento della direttiva 2003/109/Ce relativa allo status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo. Per la Corte, ogni diversa interpretazione «metterebbe il testo dell’art. 13 della legge 97/2013 in contraddizione con il suo oggetto e la sua ratio, oltre ad esporre l’Italia alla contestazione dell’obbligo di corretta trasposizione della direttiva». Il cammino verso la equiparazione tra stranieri e cittadini in materia di accesso alle prestazioni sociali è stato e continua ad essere in salita anche a ragione della “normale” (nostro malgrado) condizione di sfavore in cui lo straniero immigrato tradizionalmente versa14; incide anche la oggettiva limitatezza delle risorse alla quale corrisponde la necessità di selezionare gli aventi diritto. La Corte costituzionale con sentenza 432/200515 ha inaugurato un orientamento piuttosto netto nell’affermare che le scelte di individuazione dei possibili beneficiari delle prestazioni assistenziali dovrebbero essere operate in base a ragioni di carattere sostanziale e alla luce del principio di ragionevolezza16; l’introduzione di regimi differenziati è consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria che sia, cioè, giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio17.
4. Sulla essenzialità della misura protettiva. Il mancato riconoscimento della prestazione da parte dell’Inps, con circ. n. 4/2014, concreta una discriminazione collettiva sotto il profilo della nazionalità perché esclude – per gli stranieri lungo soggiornanti – l’erogazione «in condizioni di parità» dell’assegno al nucleo familiare.
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Loy, Lavoratori extracomunitari. Disparità di trattamento e discriminazione, in RGL, 2009, I, 517; Giubboni, Libera circolazione e protezione sociale, in Giubboni, Orlandini (a cura di), La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, Il Mulino, 2007, 139; Chiaromonte, Lavoro e diritti sociali degli stranieri. Il governo delle migrazioni economiche in Italia e in Europa, Giappichelli, 2013. 15 Corte cost. 02 dicembre 2005, n. 432, in Giur. cost., 2005, 4657, con nota di Rimoli, Gnes. 16 Chiaromonte, Stranieri e prestazioni assistenziali destinate al sostentamento della persona: sono illegittime le differenziazioni fondate sulla durata del soggiorno in Italia, in RIDL, 2010, 947; Turatto, Le pause della corte costituzionale in tema di parità di trattamento dei cittadini dei paesi terzi extracomunitari, in RGL, 2013, 549. 17 Cfr. C. cost., 4 luglio 2013, in D&L, 2013, 36, con nota di Guariso.
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È importante, invero, il richiamo all’art. 11 della direttiva 2003/109/Ce ai sensi del quale «il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali» per quanto riguarda (secondo il testo della lettera d del medesimo articolo) «le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale», conformemente alla legislazione nazionale18. La essenzialità della misura denota il nucleo intangibile di protezione entro il quale gli «Stati membri possono limitare la parità di trattamento in materia di assistenza e protezione sociale» (cfr. p. 4 art. 11 dir. 2003/109/Ce); ciò significa – grazie all’ausilio interpretativo del considerando 13 – che deve essere previsto un sostegno di reddito «minimo», l’assistenza in caso di malattia, gravidanza, assistenza parentale e a lungo termine. La Cassazione stabilisce, quindi, che l’assegno al nucleo familiare è da qualificarsi come prestazione essenziale proprio perché «si tratta di una forma di assistenza riferita a famiglie in situazione di povertà» con almeno 3 figli minori. L’assegno al nucleo familiare diventa, nell’occasione, pass par tout di una tutela autenticamente universalistica che non può e non deve distinguere sulla base dell’appartenenza nazionale. In questi termini, la sentenza Kamberaj della CGUE19 – richiamando l’art. 34 co. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – pone in evidenza la finalità di garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti; sul piano interpretativo la “essenzialità” della prestazione è strettamente connessa alla integrazione dei cittadini di paesi terzi che abbiano soggiornato legalmente e a titolo duraturo negli Stati membri20. Qualora un dato sussidio (nel caso Kamberaj si parla di sussidio di alloggio) abbia le caratteristiche descritte dalla direttiva, lo stesso non può essere escluso dalla qualificazione come “essenziale”. Si può discutere se la garanzia di una tutela minima essenziale si configuri ancora come troppo debole e lontana dal riconoscimento «pieno e integrale dei diritti sociali fondamentali» degli stranieri21; certamente, nel loro trattamento assistenziale, il rispetto della parità di trattamento secondo un quantum definito in tali termini può innalzare il grado di solidarietà del sistema. Il criterio del bisogno plasma la disciplina in parola nel momento in cui subordina la concessione dell’assegno alla numerosità della famiglia nonché ad una determinata soglia dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee). Nell’interpretazione della sentenza della Cassazione emerge che lo straniero soggiornante di lungo periodo ha diritto alla erogazione di tutte quelle misure deputate al sollievo del bisogno, in condizione di parità. Questo non significa propendere per un welfare minimalista ma, nel caso di specie, assicurare e garantire un assegno al nucleo familiare eguale per cittadini e stranieri lungo soggiornanti, a partire dall’assunto secondo cui il bisogno è criterio egualitario per eccellenza22.
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Elenco, peraltro, non esaustivo. C. giust., 4 marzo 2010, causa C- 578/08, Kamberaj, in D&L, 2012, 67, con nota di Allamprese, Bronzini. 20 Pellacani, La parità di trattamento dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo nell’accesso alle prestazioni assistenziali. Il caso Kamberaj, in Le Regioni, 2012, 1233. 21 Si veda, sul punto, Bonardi, Diritto alla sicurezza sociale e divieti di discriminazione, cit., 567. 22 Bobbio, Eguaglianza ed egualitarismo, in RIFD, 1976, 321. 19
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Secondo taluni, la teoria del nucleo essenziale di tutela – a soddisfazione dei bisogni primari – fa passare in secondo piano la comparazione tipica del diritto antidiscriminatorio: ossia se la prestazione sia negata in ragione di uno dei fattori vietati e se tale negazione sia assistita da una causa di giustificazione; il nucleo delle prestazioni essenziali, secondo tale ricostruzione, si rivolgerebbe a tutti, indipendentemente dalla regolarità del soggiorno23. Questa è un’altra questione sulla quale, al momento, non ci si sofferma più che per un breve cenno. Si tratta, comunque, di due prospettive che presentano significativi punti di contatto: entrambe tratteggiano un recinto ideale all’interno del quale la tutela sociale è apprestata in modo assoluto piuttosto che relativo, un’area di solidarietà la cui definizione non può essere lasciata solo all’intervento delle Corti ma che interpella il legislatore nel chiarimento delle misure che la compongono. L’obiter dictum – di una precedente pronuncia della Cassazione – secondo cui l’assegno non costituisce prestazione essenziale24, è definito come “non ostativo” della diversa prospettazione effettuata dal giudicante nelle sentenze gemelle del 2017.
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Guariso, Diritto antidiscriminatorio, giudici di merito e welfare paritario, in D&L, 2011, 530. Cass., 03 luglio 2014, n. 15220, in D&G, 2014, con nota di Marino.
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Giurisprudenza Corte di Cassazione, sentenza 4 aprile 2017, n. 8722; Pres. Macioce – Est. Di st. – P. M. Giacalone – Azienda Ulss Mirano (avv. Cossu, Cester, Rossi) c. G.R. (avv. Rossi, Azzarini). Cassa, con rinvio, App. Venezia sent. 30 dicembre 2015. Lavoro (rapporto di) – pubblico impiego privatizzato – obbligatorietà dell’azione disciplinare – inerzia datoriale – legittimo affidamento – insussistenza.
Nell’impiego pubblico contrattualizzato, il principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva. Lavoro (rapporto di) – pubblico impiego privatizzato – incompatibilità con altri impieghi, professioni, cariche ed attività – mancata rimozione dell’incompatibilità – cessazione del rapporto – violazione obbligo di esclusività – responsabilità disciplinare – sanzione proporzionata.
In materia di pubblico impiego contrattualizzato, nell’ipotesi di incompatibilità assoluta vengono in rilievo due diversi aspetti: l’uno, relativo alla cessazione automatica del rapporto, che si verifica qualora l’incompatibilità non venga rimossa nel termine assegnato al dipendente con la diffida, ai sensi dell’art. 63 del d.P.R. n. 3/1957; l’altro, inerente alla responsabilità disciplinare, per violazione dell’obbligo di esclusività, che può essere ravvisata anche ove l’incompatibilità venga rimossa, ed in tale ultimo caso la sanzione irrogata dal datore di lavoro deve essere proporzionata alla gravità della condotta, da valutarsi negli aspetti oggettivi e soggettivi, in relazione alla quale assumono particolare rilievo il comportamento del dipendente dopa la diffida e la mancata rimozione della incompatibilità.
Omissis. Svolgimento del processo. – La Corte di Appello di Venezia, adita dalla Azienda ULSS Mirano con reclamo della L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, ha parzialmente riformato la sentenza del locale Tribunale, che aveva respinto l’opposizione proposta avverso l’ordinanza con la quale lo stesso Tribunale, all’esito della fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato al direttore amministrativo G.R. 2. Omissis. I fatti oggetto di causa risultavano pacifici: a) in data 10 febbraio 2011 l’azienda aveva chiesto al G. di chiarire quale fosse la sua posizione rispetto alla s.n.c. Sapori Ritrovati di R.G.; b) il dirigente aveva riscontrato la missiva con lettere del 23 e 25 febbraio 2011, con le quali aveva comunicato di non svolgere alcuna attività di carattere commerciale, in quanto l’azienda di ristorazione era stata data in gestione a terzi; c) acquisito parere legale, la ASL, con nota del 20 aprile 2011, aveva diffidato il dipendente a rimuo-
vere la situazione di incompatibilità entro 60 giorni, precisando che la situazione di incompatibilità si riferiva, oltre che alla s.n.c. Sapori Ritrovati, anche alla s.n.c. Aurora nonché alla carica di liquidatore ricoperta nella Next Land, società cooperativa a responsabilità limitata; d) il dirigente aveva replicato, negando la sussistenza della incompatibilità e dichiarandosi comunque disponibile a rinunciare alla rappresentanza legale della s.n.c. Sapori Ritrovati, unica società ancora attiva; e) l’Azienda non aveva fatto seguire a detta comunicazione alcun atto e solo il 5 novembre 2013, a seguito di una richiesta di informazioni ricevuta dalla Guardia di Finanza, aveva chiesto al G. nuovamente notizie sulla rimozione delle cause di incompatibilità; f) il direttore amministrativo aveva, quindi, reso noto che: la società cooperativa era stata definitivamente liquidata nel maggio 2013; che la s.n.c. Aurora era in fase di scioglimento, avendo ceduto ogni at-
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tività nel gennaio 2012; che si stava concludendo la trasformazione della s.n.c. Sapori Ritrovati in società in accomandita semplice; g) gli atti venivano a questo punto trasmessi all’ufficio per i procedimenti disciplinari che il 17 dicembre 2013 contestava l’illecito e successivamente, con nota del 21 febbraio 2014, intimava il licenziamento per giusta causa, richiamando la previsione della L. n. 662 del 1996, art. 1, comma 61, ed evidenziando che in ogni caso la condotta era tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario. 3. Il giudice di appello ha escluso la decadenza dall’esercizio del potere disciplinare per tardività dello stesso, ritenuta invece dal Tribunale, perché la mancata rimozione della causa di incompatibilità integra un illecito permanente, con la conseguenza che ai fini della individuazione del dies a quo rileva non il termine concesso con la diffida, bensì la cessazione della condotta. 4. La Corte territoriale, peraltro, ha evidenziato che non sussistevano i presupposti necessari per la irrogazione della sanzione espulsiva in quanto la stessa Azienda, rimanendo inerte sino al 5 dicembre 2013, aveva evidentemente escluso che sussistesse in concreto la incompatibilità (o comunque non aveva assunto al riguardo una decisione definitiva) e, omettendo di rispondere alla missiva del 29 gennaio 2012, aveva ingenerato nel dipendente la convinzione incolpevole che la datrice di lavoro avesse recepito le sue giustificazioni. Quanto, poi, alla condotta successiva alla contestazione, il giudice di appello ha evidenziato che il mantenimento delle cariche nelle due s.n.c. fino alla trasformazione dell’una e allo scioglimento dell’altra, ossia per circa un mese, non giustificava l’asserita irrimediabile lesione del vincolo fiduciario, integrando, invece, l’ipotesi prevista dall’art. 8, comma 4, lett. a) del CCNL 6.5.2010, che per la inosservanza della normativa contrattuale e di legge prevede una sanzione di tipo conservativo. Ha aggiunto che non costituisce un parametro per valutare la gravità della condotta il fatto che il legislatore abbia previsto la decadenza in caso di mancata rimozione della incompatibilità e ha evidenziato che nella specie la decadenza non si era verificata perché alla prima diffida la amministrazione non aveva dato seguito, mentre alla seconda il G. aveva ottemperato. Ha evidenziato, inoltre, che l’azienda reclamante non poteva invocare la L. n. 662 del 1996, art. 1, perché il licenziamento è stato previsto dal legislatore solo in relazione allo svolgimento di attività di lavoro subordinato o autonomo, mentre nel caso di specie il reclamato non aveva mai svolto direttamente attività commerciale. Omissis. Motivi della decisione. – 1. Con il primo motivo la Azienda ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 60 e 63 e dell’art. 2119 c.c.. Premette che
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il mancato esercizio del potere disciplinare per un certo arco temporale non può essere equiparato a una valutazione di liceità della condotta e può solo determinare, ove ne ricorrano i presupposti, la decadenza per tardività dell’azione disciplinare. Omissis. Aggiunge la ricorrente che la Pubblica Amministrazione ben può avviare la procedura disciplinare anziché adottare un provvedimento di tipo automatico, ma in tal caso non può essere esclusa la giusta causa di licenziamento perché la improseguibilità del rapporto discende già dalla previsione di legge della causa di incompatibilità. Evidenzia che il dipendente deve rimuovere quest’ultima decorsi 15 giorni dalla diffida, sicché la Corte non poteva ritenere privo di effetti il ritardo nell’adempimento, atteso che la norma che impone la decadenza non lascia spazio alcuno per valutazioni discrezionali da parte del giudice. 2. Il secondo motivo addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., nonché l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. Evidenzia la ricorrente che la Corte territoriale, nell’escludere la gravità dell’addebito per il solo fatto che non vi fosse stato svolgimento di attività lavorativa, avrebbe trascurato elementi decisivi ai fini del giudizio di proporzionalità e in particolare non avrebbe valutato la entità del reddito percepito dal G. in relazione alle cariche ricoperte, che smentiva quanto sostenuto dal dirigente in merito alla natura dell’attività svolta. Omissis. 4. Occorre preliminarmente rilevare che si è formato giudicato interno sul capo della decisione che, valorizzando la natura permanente della condotta addebitata al dirigente, ha escluso la eccepita tardività dell’azione disciplinare. È, infatti, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui, qualora la sentenza impugnata abbia risolto in senso sfavorevole alla parte vittoriosa una questione preliminare o pregiudiziale, il ricorso per cassazione dell’avversario impone a detta parte, che intenda riproporre la questione stessa, di notificare ricorso incidentale (Cass. 28.3.2006 n. 6992; Cass. 14.4.2015 n. 7523). 5. I primi due motivi, da trattarsi congiuntamente perché connessi, sono fondati, in quanto la Corte territoriale ha errato nell’attribuire rilievo all’inerzia dell’amministrazione dopo la prima diffida, per escludere la rilevanza disciplinare della condotta tenuta dal G. nell’arco temporale compreso fra il 20 aprile 2011 e il 5 novembre 2013. Osserva al riguardo il Collegio che il potere disciplinare del datore di lavoro pubblico, sebbene fondato dopo la contrattualizzazione del rapporto di impiego sul contratto e, quindi, sottratto alle regole del procedimento amministrativo, conserva un carattere di specialità rispetto all’analogo potere del datore
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di lavoro privato, perché la qualità del soggetto che lo esercita incide sulle finalità alla cui realizzazione l’esercizio del potere deve essere indirizzato. 5.1. L’art. 2106 c.c., applicabile anche all’impiego pubblico contrattualizzato in forza del richiamo contenuto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, consacra il potere del datore di lavoro di reagire unilateralmente alle condotte tenute dal prestatore in violazione degli obblighi contrattuali. Detti obblighi, peraltro, nell’impresa privata sono funzionali alla redditività dell’impresa stessa e vengono imposti dal datore di lavoro nell’esercizio della libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost.; nelle amministrazioni pubbliche, invece, le regole di condotta devono assicurare il rispetto dei principi, di rilievo costituzionale, di buon andamento, imparzialità e legalità dell’azione amministrativa. Il potere, quindi, sebbene di natura privatistica, è condizionato dalla presenza di interessi che trascendono quelli del singolo datore di lavoro e ciò giustifica la specialità della disciplina e la non estensibilità all’impiego pubblico contrattualizzato di quei principi, affermati per il procedimento disciplinare dell’impiego privato, che non siano compatibili con il perseguimento degli interessi di cui si è detto. 5.3. Fra questi va annoverato quello della discrezionalità dell’esercizio del potere disciplinare, giacché se il datore di lavoro privato è libero di valutare la opportunità e la convenienza dell’iniziativa e anche di tollerare comportamenti che potrebbero essere ritenuti disciplinarmente rilevanti, non altrettanto può dirsi per il dirigente pubblico, che deve ispirare costantemente la propria condotta alla tutela degli interessi generali sopra evidenziati e, quindi, in nessun caso può consentire che rimangano impunite condotte poste in essere dall’impiegato in violazione delle regole di comportamento imposte dalla legge o dal contratto collettivo, nei limiti consentiti dalla nuova formulazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55. Non a caso l’art. 55 sexies del richiamato decreto, inserito dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, ha previsto, al comma 3, la responsabilità del dirigente per il ritardo o l’omissione della iniziativa disciplinare, evidentemente ritenuta doverosa dal legislatore. È anche significativo rilevare che in occasione dell’intervento riformatore sono stati sensibilmente ristretti i limiti del cosiddetto patteggiamento disciplinare, escluso per le condotte più gravi punite con la sanzione espulsiva, e inoltre limitato al quantum della misura, essendo preclusa la applicazione concordata di una pena di natura diversa da quella prevista dalla legge o dal contratto. Non vi è dubbio, quindi, che, quantomeno a seguito della entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009, nell’impiego pubblico contrattualizzato l’azione disciplinare sia caratterizzata dalla obbligatorietà.
5.4. Da ciò discende che nel rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche l’inerzia nella repressione del comportamento contrario ai doveri di ufficio può solo rilevare quale causa di decadenza dall’esercizio dell’azione, ove comporti il mancato rispetto dei termini perentori imposti dal legislatore, ma non può mai fare sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta vietata, perché il principio dell’affidamento incolpevole presuppone che il potere del datore sia discrezionale, di modo che l’inerzia possa essere interpretata dal lavoratore subordinato come rinuncia all’esercizio del potere medesimo e come valutazione in termini di liceità della condotta. Anche i doveri posti a carico del dipendente pubblico dalla legge, dal codice di comportamento, dalla contrattazione collettiva tengono conto della particolare natura del rapporto che pone l’impiegato al “servizio della Nazione” e, quindi, lo impegna a ispirare la propria condotta ai principi di cui sopra si è detto, efficacemente riassunti nell’ultima versione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 54, con il richiamo ai “doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell’interesse pubblico”. La consapevole violazione di detti doveri, strettamente connessi a interessi di carattere generale, non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito, inerzia che lascia inalterata la rilevanza disciplinare della condotta. 5.5. La Corte territoriale, pertanto, ha errato nell’affermare che il tempo trascorso fra le due diffide era di entità tale da determinare “il legittimo affidamento sull’acquiescenza della stessa datrice di lavoro”. 6. Il primo motivo è fondato anche nella parte in cui denuncia la violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 60 e segg. e rileva che, a fronte dell’automatica decadenza prevista per la mancata rimozione della incompatibilità, il giudice chiamato a valutare la gravità della condotta deve tener conto della valutazione espressa dal legislatore. Il motivo è ammissibile perché, contrariamente a quanto asserito dalla difesa del controricorrente, la questione era stata posta in sede di reclamo, come si desume dalla motivazione della sentenza impugnata, che a pag. 18 tratta espressamente della decadenza ed esclude che la stessa si sia verificata, da un lato rilevando che la incompatibilità era stata rimossa dopo la seconda intimazione e dall’altro facendo nuovamente leva, in relazione alla prima diffida, sull’inerzia della amministrazione e sul legittimo affidamento che dalla stessa sarebbe derivato. 6.1. La Corte territoriale non ha correttamente interpretato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, che al comma 1, richiama, salve le deroghe espressamente previste da leggi speciali, “per tutti i dipendenti pub-
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blici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 e segg. del testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3”. A sua volta il T.U., dopo avere indicato i casi di incompatibilità, fra i quali rientra, per quel che qui rileva, la accettazione di cariche in società costituite a fine di lucro (art. 60), all’art. 63 prevede che: l’impiegato debba essere diffidato a cessare dalla situazione di incompatibilità; la mancata ottemperanza alla diffida, decorsi quindici giorni dalla stessa, determina decadenza dal rapporto di impiego (art. 63 comma 3); la rimozione della situazione di incompatibilità “non preclude l’eventuale azione disciplinare” (art. 63 comma 2). Questa Corte ha già interpretato la normativa che qui viene in rilievo (si rimanda a Cass. 19.1.2006 n. 967; Cass. 21.8.2009 n. 18608; Cass. 15.1.2015 n. 617) e ha evidenziato che la perdurante vigenza per l’impiego pubblico contrattualizzato della disciplina dettata dal Testo Unico trova la sua ratio nella specialità del rapporto rispetto a quello privato, rapporto che, per espressa volontà del legislatore costituzionale, deve essere tendenzialmente esclusivo. Il provvedimento con il quale la pubblica amministrazione prende atto della mancata rimozione della causa di incompatibilità, seppure espressione di un potere privato e non autoritativo, costituisce una forma di cessazione automatica del rapporto, che non deriva dalla sussistenza di responsabilità disciplinare del dipendente (la questione della responsabilità disciplinare si pone per il legislatore del T.U. su un piano distinto anche nell’ipotesi in cui la incompatibilità venga rimossa) “scaturendo invece dalla perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la stessa costituzione del rapporto di lavoro” (Cass. n. 18608/2009 cit.). Ciò spiega la ragione per la quale il D.Lgs. n. 165 del 2001, sebbene ispirato al principio della contrattualizzazione anche degli illeciti disciplinari, aveva già sottratto alla contrattazione collettiva la materia delle incompatibilità (l’art. 55, al comma 3, faceva salva la previsione dell’art. 53, comma 1) e detta esclusione è stata ribadita dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 54, che, nel riformulare l’art. 40, ha riservato alla competenza del legislatore, fra l’altro, le materie elencate dalla L. n. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 2, comma 1, lett. c), che al n. 7 fa espresso riferimento alla “disciplina della responsabilità e delle incompatibilità tra l’impiego pubblico ed altre attività e i casi di divieto di cumulo di impieghi e incarichi pubblici”. 6.2. Il Collegio, nel dare continuità all’orientamento sopra richiamato, intende ribadire che, ove si profili una situazione di incompatibilità assoluta, vengono in rilievo due diversi aspetti: l’uno relativo alla cessazione automatica del rapporto, che per volontà del legislatore si verifica qualora la incom-
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patibilità non venga rimossa nel termine assegnato al dipendente; l’altro inerente alla responsabilità disciplinare per la violazione del dovere di esclusività, responsabilità che può essere comunque ravvisata anche nell’ipotesi in cui l’impiegato abbia ottemperato alla diffida. Mentre la prima conseguenza opera su un piano oggettivo e prescinde da valutazioni sulla gravità dell’inadempimento, la seconda è assoggettata ai principi propri della responsabilità disciplinare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, presuppone sempre un giudizio di proporzionalità fra fatto contestato e sanzione, da esprimere tenendo conto di tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta. Detta duplicità si riflette sulla natura dell’atto adottato dal datore di lavoro e sull’indagine che deve essere compiuta in sede giudiziale, qualora dell’atto medesimo venga contestata la legittimità. 6.3. Nel caso di specie è incontestato fra le parti che la Azienda ULSS, attivato il procedimento previsto dal D.P.R. n. 3 del 1957 e preso atto della mancata rimozione della causa di incompatibilità, anziché pronunciare la decadenza prevista dal richiamato D.P.R., ha iniziato il procedimento disciplinare e, all’esito dello stesso, ha intimato il licenziamento, ravvisando una giusta causa di risoluzione del rapporto nella inottemperanza alla diffida e, comunque, una responsabilità disciplinare nella violazione dell’obbligo di esclusività protrattasi nel tempo. Poiché la volontà risolutoria manifestata è stata con chiarezza ricondotta all’esercizio del potere disciplinare, il giudizio doveva essere espresso tenendo conto dei profili oggettivi e soggettivi dell’illecito ma, quanto al primo aspetto, dovevano essere considerate la disciplina normativa sopra richiamata e la rilevanza che nel rapporto di impiego pubblico il legislatore attribuisce al principio di esclusività. In altri termini, oltre a quanto si è detto sulla impossibilità di attribuire rilievo alla iniziale inerzia del datore di lavoro, una volta ritenuta sussistente la incompatibilità, il giudizio di gravità non poteva prescindere dalla considerazione della omessa ottemperanza alla diffida. 6.4. La sentenza impugnata è, quindi, errata perché non ha considerato: che la necessaria indagine sulla rimozione della incompatibilità assoluta va condotta su un piano obiettivo; che l’obbligatorietà dell’azione disciplinare non consente al dipendente pubblico di invocare il principio dell’affidamento incolpevole nella liceità della condotta, ove la violazione si riferisca a precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dal contratto collettivo; che la violazione del principio di esclusività determina il venir meno dei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità di preminente rilievo nel rapporto di impiego.
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7. Si impongono, pertanto, l’accoglimento dei primi due motivi di ricorso, la cassazione della decisione impugnata e il rinvio alla Corte di Appello di Venezia, in diversa composizione, che procederà a un nuovo esame, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi a quanto sopra evidenziato e ai principi di diritto di seguito enunciati: a) il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53, comma 1, nel rinviare alla disciplina dettata del D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 60 e segg., prevede che, in caso di incompatibilità assoluta, la violazione dell’obbligo di esclusività può essere fonte di responsabilità disciplinare anche nella ipotesi in cui la incompatibilità venga rimossa a seguito della diffida; b) la sanzione irrogata dal datore di lavoro all’esito del procedimento disciplinare, avviato dopo la
diffida prevista dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 63, deve essere proporzionata alla gravità della condotta, da valutarsi negli aspetti oggettivi e soggettivi, in relazione alla quale assumono particolare rilievo la condotta tenuta dal dipendente dopo la diffida e la mancata rimozione della incompatibilità; c) nell’impiego pubblico contrattualizzato il principio della obbligatorietà dell’azione disciplinare esclude che l’inerzia del datore di lavoro possa far sorgere un legittimo affidamento nella liceità della condotta, ove la stessa contrasti con precetti imposti dalla legge, dal codice di comportamento o dalla contrattazione collettiva. Omissis. La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Venezia in diversa composizione. Omissis.
L’incompatibilità nel pubblico impiego privatizzato: tra sanzione disciplinare e decadenza Sommario : 1. Premessa. – 2. Il fatto. – 3. Obbligatorietà del procedimento disci-
plinare: (il)legittimo affidamento del lavoratore. – 4. Decadenza del pubblico dipendente e procedimento disciplinare. – 5. Il concorso di decadenza e sanzione disciplinare espulsiva: quale coerenza del sistema?
Sinossi. Premessi brevi cenni sulle criticità derivanti dal progressivo distanziamento della disciplina del lavoro pubblico da quello privato, il commento si sofferma sull’analisi del potere disciplinare in capo all’Amministrazione, e sui tratti di specialità che lo contraddistinguono. In particolare si dà conto di come la Suprema Corte interpreti rispetto ad esso gli istituti del legittimo affidamento e della decadenza. Si conclude evidenziando l’incongruenza che discende dalla coesistenza degli istituti di decadenza e licenziamento disciplinare nell’attuale quadro normativo.
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1. Premessa. Il progetto di disciplinare il lavoro pubblico attraverso le regole dell’impresa privata1, se non definitivamente tramontato, può certamente dirsi nella sua fase crepuscolare2. Oggi, infatti, più che ad una convergenza si assiste al progressivo distanziamento delle due discipline, alimentato, oltre che dagli incessanti interventi di riforma3, anche da quegli arresti giurisprudenziali che – come quello in commento – accentuano le finalità pubblicistiche dei poteri propri dell’Amministrazione quale datore di lavoro. Il fondamento posto alla base di queste interpretazioni dalla giurisprudenza viene individuato nell’influenza che gli interessi pubblici, e dunque i principi che regolano l’azione amministrativa, sono in grado di esercitare anche in ambiti ulteriori e distinti rispetto a quelli in cui l’Amministrazione agisce iure imperii. Tra di essi uno spazio rilevante è occupato senz’altro dalla disciplina e dalla gestione del rapporto di lavoro alle dipendenze della pubblica Amministrazione. Principi come il buon andamento e l’imparzialità finiscono così per orientare in via diretta non solo l’azione strettamente “amministrativa”, ma anche l’esercizio di quei poteri propri del “del privato datore” che attengono alla sfera prettamente organizzativa, e che l’art. 4 d.lgs. 29/1993 aveva affidato all’Amministrazione affinché ne facesse un uso rinnovato rispetto agli originari schemi autoritativi4. Tra tali poteri figura anche quello disciplinare, che nella lettura del Supremo Collegio viene a tal punto condizionato dai richiamati principi da divenire direttamente finalizzato al loro perseguimento. Sebbene una simile interpretazione potesse considerarsi pienamente condivisibile in epoca antecedente alla privatizzazione, oggi, si trova a doversi necessariamente correlare con la natura del potere disciplinare così come delineatasi a seguito della contrattualizzazione5, ed offre, quindi, lo spunto per alcune riflessioni. Una prima valutazione verterà sulla natura e sulla finalità di questo potere, in una fase in cui la disciplina del lavoro alle dipendenze della P.A. è in bilico tra la prosecuzione
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Un’interessante analisi delle ragioni che avevano animato la stagione della contrattualizzazione è svolta da Topo, Legge e autonomia collettiva nel lavoro pubblico, Cedam, 2008, 7 ss., che evidenzia come l’intento perseguito fosse decisamente più ampio rispetto al mero incremento dell’efficienza economica dell’agire pubblico. Alla base del processo di assimilazione vi era principalmente l’intento di creare, pur nel rispetto delle reciproche peculiarità, un unico mercato del lavoro nel quale la P.A. potesse muoversi ed operare al pari dei privati. Per una ricostruzione storica degli interventi di riforma Boscati, La politica del Governo Renzi per il settore pubblico tra conservazione ed innovazione: il cielo illuminato diverrà luce perpetua?, in LPA, 2014, II, 233 ss. Attenta dottrina ha osservato, però, come durante il corso della sua risalente storia il pubblico impiego ha attraversato cicliche fasi di avvicinamento ed allontanamento dal fondamento contrattuale del rapporto di lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni pubbliche, sul punto Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, in Comm Sch, 2002, 42, spec. note 126 e 127 per ampi riferimenti bibliografici. Riforme distintesi più per i caveat riservati al pubblico impiego che per i tentativi di omogeneizzazione, come osserva Mainardi, Il campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015. Licenziamenti illegittimi, tutele crescenti, in LPA, 2015, 1, 24, considerando già la riforma Biagi, e la riforma Monti-Fornero del 2012. Cester, Lavoro pubblico e licenziamento illegittimo davanti alla Corte di Cassazione, in RIDL, 2015, II, 383. Anche nel pubblico impiego privatizzato il potere disciplinare è stato condivisibilmente definito come strumento di gestione del rapporto di lavoro, v. Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., p. 98.
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verso un’effettiva e piena contrattualizzazione, ovvero il ritorno ad una propria autonoma “specialità”, il cui fine primario è il conseguimento di superiori interessi pubblici. Una seconda considerazione, invece, riguarderà le interpretazioni che accentuano la “specialità” dei poteri del datore di lavoro pubblico, ed in particolare del potere disciplinare, generando talune criticità quando detto potere si coniuga con altri istituti di derivazione pubblicistica e dotati di finalità sanzionatorio-repressiva, come la decadenza. Dall’analisi di alcuni casi, infatti, si evince come il legislatore della contrattualizzazione abbia omesso di coordinare utilmente questa pluralità di sanzioni di diversa matrice, consentendo l’ingresso nell’ordinamento di alcune possibili contraddizioni.
2. Il fatto. Il supremo Collegio è chiamato a valutare la legittimità del licenziamento disciplinare intimato da un’Azienda sanitaria locale ad un proprio dirigente per violazione delle disposizioni in materia di incompatibilità. La vicenda può così riassumersi. Il 10 febbraio 2011, a fronte della richiesta di chiarimenti inviatagli dalla ULSS rispetto alla sua posizione in una società in nome collettivo, il dirigente replicava di non svolgere alcuna attività di carattere commerciale in detta società. Prova ne era che questa fosse gestita da soggetti terzi. Nonostante le giustificazioni, il 20 aprile 2011 la ULSS diffidava il proprio dirigente a rimuovere la situazione di incompatibilità entro 60 giorni, contestandogli che questa sussisteva non solo rispetto alla sua partecipazione nella predetta società, ma anche alla sua partecipazione in una seconda società in nome collettivo ed alla carica di liquidatore da lui ricoperta in una società cooperativa a responsabilità limitata. A questa prima diffida il dirigente rispondeva nuovamente per iscritto e, se da un lato continuava a sostenere l’inesistenza delle circostanze di incompatibilità, dall’altro, si dichiarava comunque disponibile a rinunciare alla rappresentanza legale dell’unica società in nome collettivo rimasta attiva. Ricevuta questa seconda giustificazione l’Amministrazione non solo non forniva più alcun riscontro ma, al contrario – decorso il termine assegnato con diffida – non comunicava neanche il provvedimento di intervenuta decadenza, nonostante le cause di incompatibilità non fossero state rimosse. L’Amministrazione interrompeva la propria inerzia solo a seguito di una richiesta della Guardia di Finanza sulla posizione del dirigente, che la induceva ad inviare, il 5 novembre 2013, una seconda richiesta di chiarimenti al proprio dirigente. Egli comunicava che la società cooperativa era stata definitivamente liquidata nel maggio 2013, che una delle due società in nome collettivo era in fase di scioglimento, e che la seconda, unica rimasta attiva, era in corso di trasformazione in società in accomandita semplice. A questo punto la ULSS trasmetteva gli atti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, che prima contestava l’illecito (17 dicembre 2013), e successivamente intimava al dirigente il licenziamento per giusta causa (21 febbraio 2014), per la violazione dell’art. 1, co. 61, l.
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662/1996 ed in ogni caso perché il vincolo fiduciario tra le parti era stato irrimediabilmente vulnerato dalla condotta del lavoratore. Impugnato il licenziamento, il Tribunale di Venezia ne riconosceva l’illegittimità6, confermata poi dalla Corte d’appello, anche se con alcuni discostamenti rispetto a quanto statuito dal Giudice di prime cure. A differenza del Tribunale, infatti, la Corte territoriale escludeva che l’Amministrazione fosse decaduta dall’esercizio del potere disciplinare nonostante la tardività con cui contestazione e sanzione erano state elevate, e ciò sulla base della natura dell’illecito contestato. Lo svolgimento di attività commerciali mediante la partecipazione in società è, infatti, un illecito di carattere permanente, e, dunque, per il calcolo del dies a quo rileva non tanto il termine della diffida, quanto quello di effettiva cessazione della condotta. Nonostante questo, la Corte riteneva comunque non sussistere i presupposti per la sanzione espulsiva, poiché l’inerzia dell’Amministrazione, perdurata da aprile/maggio 2011 al dicembre 2013, aveva ingenerato nel dirigente il legittimo affidamento sull’accoglimento delle giustificazioni e, quindi, sulla liceità della propria condotta. Il Giudice del gravame, infine, escludeva che fosse intervenuta anche la decadenza, poiché alla prima diffida l’Amministrazione non aveva dato seguito al procedimento, mentre alla seconda il lavoratore aveva ottemperato. I profili di rilievo affrontati dalla sentenza in commento sono essenzialmente due ed attengono, l’uno, al rapporto tra obbligatorietà del procedimento disciplinare e legittimo affidamento del pubblico dipendente contrattualizzato; l’altro, alla connessione tra il procedimento disciplinare e la decadenza per ragioni di incompatibilità.
3. Obbligatorietà del procedimento disciplinare: (il)legittimo affidamento del lavoratore.
La prima questione affrontata dalla Cassazione riguarda l’inerzia disciplinare della P.A., ed in particolare l’eventuale idoneità di questa ad ingenerare nel dipendente un legittimo affidamento sull’accettazione delle proprie giustificazioni e, conseguentemente, sulla liceità della propria condotta7.
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Trib. Venezia, 2 dicembre 2014, in LG, 2015, 6, 609, con nota di Dallacasa. Un’efficace e generale descrizione del legittimo affidamento quale declinazione del principio di buona fede nell’ambito del rapporto di lavoro si rinviene in Cass., 28 aprile 2009, n. 9924: “dall’art. 1175, che assoggetta il creditore alle regole della correttezza, e dall’art. 1375 c.c., che impone alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede, la giurisprudenza di questa Corte da tempo valuta il comportamento del contraente titolare di una situazione creditoria o potestativa, che per lungo tempo trascuri di esercitarla e generi così un affidamento della controparte nell’abbandono della relativa pretesa, come idoneo a determinare la perdita della stessa situazione soggettiva”. La Corte richiama il principio di derivazione tedesca del Verwirkung, definendolo come “una sorta di decadenza derivante dal divieto, più familiare agli ordinamenti latini, di venire contra factum proprium”; conclude statuendo che “si ha così la preclusione di un’azione, o eccezione, o più generalmente di una situazione soggettiva di vantaggio, non per illiceità o comunque per ragioni di stretto diritto, ma a causa di un comportamento del titolare, prolungato, non conforme ad essa e perciò tale da portare a ritenere l’abbandono”.
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Risolvendo negativamente la questione, la Corte afferma che dall’inerzia nella repressione di comportamenti contrari ai doveri d’ufficio non può mai discendere l’affidamento del lavoratore rispetto alla liceità della propria condotta, potendone eventualmente derivare – laddove i termini perentori siano spirati – la sola decadenza dall’esercizio dell’azione. Questa netta esclusione – che non trova corrispondenza nel settore privato8 – viene giustificata in ragione della “specialità” del potere disciplinare di cui è titolare l’Amministrazione, che deriva essenzialmente dal diverso fine perseguito mediante il suo esercizio. Il Supremo Collegio, infatti, pur riconoscendo che a seguito della contrattualizzazione anche il potere disciplinare della P.A. trova il proprio fondamento nel contratto9, evidenzia come tale potere si distingue da quello analogo del privato datore di lavoro, perché posto a garanzia non tanto della redditività dell’impresa (o, nel caso di specie, del funzionamento degli uffici), quanto, piuttosto, dell’osservanza di quelle regole di condotta che, a loro volta, sono strumentali al rispetto del buon andamento, dell’imparzialità e della legalità dell’azione amministrativa. Per questo, la Corte afferma che il potere disciplinare della P.A. “sebbene di natura privatistica, è condizionato dalla presenza di interessi che trascendono quelli del singolo datore di lavoro”. L’immediata conseguenza di questa “finalizzazione” è rappresentata dall’impossibilità di mutuare nel settore pubblico alcuni principi che connotano il potere disciplinare del privato datore di lavoro, tra i quali figura la discrezionalità. Se, infatti, il datore di lavoro privato nell’esercizio della propria libertà economica è tendenzialmente libero anche di non sanzionare gli illeciti disciplinari10, non così il dirigente pubblico. Egli, infatti, dovendo ispirare il proprio agire all’osservanza dei principi dell’azione amministrativa, “non può in nessun caso consentire che rimangano impunite
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La formazione del legittimo affidamento in capo al lavoratore nel settore privato viene riconnesso dalla giurisprudenza alla disponibilità dell’esercizio dell’azione disciplinare da parte del datore di lavoro, su cui ex multis Cass., 7 novembre 2003, n. 16754: “la contestazione disciplinare deve presentare il carattere della immediatezza al fine di garantire all’incolpato un diritto effettivo di difesa, dovendosi considerare anche il giusto affidamento che quest’ultimo, nel caso di ritardo, deve poter fare sulla rinuncia da parte del datore a esercitare il potere disciplinare, dato che tale esercizio non costituisce un obbligo, bensì una facoltà”. 9 Per una ricognizione delle teorie elaborate sul fondamento del potere disciplinare nel settore privato e pubblico Ichino, Il contratto di lavoro, III, in Schlesinger, Trattato di diritto civile e commerciale, 2003, 316 ss.; Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., cap. I. 10 È noto che nel settore privato la potestà di infliggere sanzioni disciplinari è affidata dall’art. 2106 c.c. alla discrezionalità dell’imprenditore, quale manifestazione del più ampio potere di direzione dell’impresa riconosciutogli ex art. 2086 c.c. Tale disposizione a sua volta rappresenta una concreta estrinsecazione della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., come conferma anche Cass., 6 febbraio 2015, n. 2330. La piena disponibilità dell’azione disciplinare del datore di lavoro privato, pertanto, rappresenta la regola. In talune situazioni, però, l’esercizio è stato qualificato come “doveroso”, come accade in materia di sicurezza sul lavoro. Ciò perché in questi casi il potere risulta strumentale alla salvaguardia di superiori interessi costituzionalmente garantiti, come quello alla salute ed alla vita del prestatore, cfr. Vallebona, Breviario di diritto del lavoro, Giappichelli, 2015, 296. Altra ipotesi che sembra rispondere alla medesima ratio – con esercizio “doveroso” del potere – è l’ipotesi in cui il lavoratore arrechi un danno ad un proprio collega. La rinuncia del datore all’esercizio del potere comporta anche un ulteriore problema proprio sul piano dell’affidamento che potrebbe ingenerarsi nel lavoratore. Sul punto si è giunti, però, ad escludere che la tolleranza del datore in precedenti occasioni possa determinare un’acquiescenza preclusiva rispetto ad una successiva ed eguale infrazione, che il datore pertanto potrà legittimamente sanzionare, cfr. Cass., 11 febbraio 1995, n. 1505.
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condotte che violino le regole di comportamento o il contratto collettivo”, compromettendo, così, il raggiungimento dei principi ex art. 97 Cost. Da questa finalizzazione al perseguimento di superiori interessi pubblici e dalla previsione della responsabilità del dirigente per mancato o ritardato esercizio dell’azione (ex art. 55sexies d.lgs. 165/2001), la Corte ricava il più significativo tratto di specialità del potere disciplinare nel settore pubblico, ossia l’obbligatorietà dell’azione. È proprio il connotato dell’obbligatorietà che consente al Supremo Collegio di escludere la formazione di un legittimo affidamento del lavoratore sulla liceità della propria condotta, anche a fronte dell’inerzia repressiva dell’Amministrazione. Secondo questa interpretazione, infatti, perché possa venire ad esistenza un affidamento incolpevole nel lavoratore è necessario che l’esercizio del potere sia discrezionale (rectius disponibile), giacché solo in questo caso l’inerzia può essere lecitamente interpretata come rinuncia all’esercizio del potere, e, quindi, come valutazione di liceità della condotta. Quando, invece, la repressione degli illeciti è obbligatoria – come nel caso del pubblico impiego contrattualizzato – deve escludersi che possa intervenire qualsivoglia valutazione sulla liceità della condotta, poiché “la consapevole violazione” dei doveri cui deve ispirarsi l’agire del pubblico dipendente “non può essere scriminata dalla colpevole inerzia del soggetto tenuto alla segnalazione dell’illecito”. La ricostruzione della Corte si presta, però, a due considerazioni. Una prima valutazione attiene alla portata della decisione nel più ampio contesto sistematico del pubblico impiego contrattualizzato. La ricostruzione secondo cui la “specialità” del potere disciplinare discende dalla sua finalizzazione al perseguimento di interessi pubblici mal si concilia con la natura stessa del potere disciplinare così come trasformatosi per opera della contrattualizzazione. Com’è stato correttamente osservato, infatti, la riconduzione del rapporto di lavoro presso la P.A. alle regole del lavoro nell’impresa, e la contestuale crescente rilevanza del contratto individuale e collettivo hanno posto le basi per la trasformazione dei tradizionali poteri della pubblica amministrazione11, ivi compreso quello disciplinare12. Proprio con specifico riguardo al potere disciplinare, può dirsi che questo – fondandosi ora sul contratto e non più sullo status di soggezione speciale del lavoratore – non solo ha perso definitivamente ogni contenuto etico-autoritativo di matrice pubblicistica13, ma
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D’Antona, Le fonti privatistiche. L’autonomia contrattuale delle pubbliche amministrazioni in materia di rapporti di lavoro, in La privatizzazione del pubblico impiego alla prova, in FI, 1995, V, 32-33. La previsione di una specifica disciplina e non il semplice “travaso” della disciplina del settore privato in quello pubblico è stata interpretata da autorevole dottrina come il tentativo di fornire un più corretto adattamento della disciplina al contesto, comunque peculiare, rappresentato dal settore pubblico, Mainardi, Il potere disciplinare nel lavoro privato e pubblico, cit., 71. Ora, infatti, i rapporti di lavoro originano posizioni giuridiche soggettive di diritto e di obbligo di natura contrattuale, con la fisiologica conseguenza che gli atti di gestione del rapporto perdono le caratteristiche del provvedimento amministrativo, in favore della natura negoziale. 12 Abbandonando la posizione di supremazia speciale, la P.A. si pone nei confronti del lavoratore quale mero creditore della prestazione lavorativa, senza che da ciò promani una riduzione della capacità di dirigere la prestazione e la posizione del dipendente nell’organizzazione dell’Amministrazione, come rileva Zoli, Subordinazione e poteri del datore di lavoro: privato e pubblico a confronto, in Aa.Vv., Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, Giuffrè, 1998, 706. 13 Mainardi, Miscione, Potere e responsabilità disciplinari, in F. Carinci, Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche
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ha persino consolidato il suo ruolo di strumento di organizzazione del lavoro, finalizzato a garantire in via diretta il diligente svolgimento della prestazione14, più che il conseguimento dell’interesse pubblico. Un’ulteriore conferma del superamento della concezione “funzionalizzata” del potere disciplinare si rinviene dal fatto che questo non si colloca nell’area di macro-organizzazione degli uffici (che il legislatore affida ad un regime pubblicistico), ma nell’area riservata all’organizzazione ed alla gestione del lavoro all’interno degli stessi, che è sottoposta al regime del lavoro privato. Nonostante tali argomenti abbiano condivisibilmente indotto a disconoscere il tratto di “specialità” del potere disciplinare del datore pubblico, non si può negare che i principi ex art. 97 Cost. esercitano comunque la propria influenza sull’organizzazione del lavoro, ma ciò avviene indirettamente, ossia per il tramite della responsabilità del dirigente in termini di raggiungimento degli scopi prefissati15. Non è, infatti, realistico pensare che sia la singola prestazione del lavoratore individualmente considerato ad essere direttamente funzionale al raggiungimento dell’interesse pubblico, mentre pare più coerente ritenere che questo si consegua grazie al coordinamento di tutte le prestazioni diligentemente svolte, e, quindi, in ragione del risultato dirigenziale eventualmente conseguito16. Questa ricostruzione, che ha il pregio di coordinarsi pienamente con la decennale opera di contrattualizzazione, sembra, oggi, essere smentita da norme come l’art. 55sexies d.lgs. 165/2001. Questa, unitamente alle interpretazioni che sostengono la diretta finalizzazione del potere disciplinare al perseguimento dei principi ex 97 Cost., confermano una tendenza interpretativa “regressiva” rispetto al processo della contrattualizzazione, mediante cui si mira ad accentuare il tratto di specialità della disciplina attraverso il discostamento dal paradigma privatistico. Una seconda considerazione riguarda il rapporto tra l’obbligatorietà dell’azione disciplinare e la formazione del legittimo affidamento. Se è vero, infatti, che la Corte ritiene conditio sine qua non per la formazione dell’affidamento la discrezionalità (rectius disponibilità) del potere, è altrettanto vero che le stesse argomentazioni della Corte si prestano a sostenere l’opposta soluzione17.
amministrazioni, Giuffrè, 1995, 1013; Tampieri, Contrattazione collettiva e potere disciplinare nel lavoro pubblico, Giuffrè 87; Alessi, Il potere disciplinare nel pubblico impiego riformato, in Napoli (a cura di), Riforma del pubblico impiego ed efficienza della pubblica amministrazione. Una riflessione a più voci, Giappichelli, 1996, 128. 14 L. Zoppoli, Il potere disciplinare nel passaggio da pubblico a privato, in Sorace (a cura di), Le responsabilità pubbliche, Cedam, 1998, 420. 15 Secondo Clarich, Iaria, La riforma del pubblico impiego, Maggioli, 1994, 108; D’Antona, Autonomia negoziale, discrezionalità e vincolo di scopo nella contrattazione collettiva delle pubbliche amministrazioni, in ADL, 1997, 47, la funzionalizzazione dell’attività privatizzata non comporta una funzionalizzazione in senso tecnico dei poteri privati del datore, tra cui il potere disciplinare. Piuttosto tali poteri devono esplicarsi tenendo conto della cornice pubblicistica presupposta e la funzione di controllo si sposta dal singolo atto di gestione alla valutazione dell’esercizio dei poteri organizzativi, privati e pubblici, complessivamente imputabili al solo dirigente. 16 Risultato che, pertanto, costituisce il solo punto di contatto tra le finalità istituzionali dell’Ente e lo svolgimento del rapporto di lavoro. 17 Pare, inoltre, che la Corte abbia operato una sovrapposizione di piani, nella misura in cui ritenga che la doverosità
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Proprio perché consapevole dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare, il lavoratore che si sia giustificato e che sia in buona fede, si aspetta – nel caso le sue giustificazioni siano rigettate – che segua nei termini prescritti dalla legge la contestazione, la sanzione disciplinare o la dichiarazione di intervenuta decadenza, in ottemperanza proprio al principio di legalità e più latamente ai principi di cui all’art. 97 Cost. Qualora ciò non avvenisse, l’affidamento sull’accettazione delle proprie giustificazioni (prim’ancora che sulla liceità della propria condotta) troverebbe un’ulteriore conferma proprio nel dato normativo e nell’indisponibilità dell’azione disciplinare. Di converso, accogliendo l’interpretazione della Corte si porrebbe a carico del lavoratore che abbia agito in buona fede – e, quindi, sprovvisto di quella “consapevole violazione” dei propri doveri che invoca la Corte – un irragionevole onere cognitivo, avente ad oggetto la valutazione di quali attività siano incompatibili e quali altre, invece, siano conformi al dettame legislativo. Onere che risulterebbe ancor più gravoso se si considera non solo la generica formulazione della disposizione di legge, ma anche il fatto che la giurisprudenza è intervenuta più volte nel corso del tempo in tema di incompatibilità, dilatando o restringendo il confine della previsione legale secondo logiche non sempre contraddistinte da una lineare coerenza18. Aderendo al ragionamento della Corte si ammetterebbe, inoltre, che il lavoratore – giustificatosi in buona fede ed il cui illecito sia permanente – rimanga esposto al rischio di essere sottoposto a procedimento disciplinare o di vedersi comunicata l’intervenuta decadenza per tutto il tempo in cui permane la colpevole inerzia della P.A. Detta eventualità, descritta nei termini netti impiegati dalla Cassazione, parrebbe contrastare con il principio generale di certezza che deve necessariamente governare i rapporti giuridici nell’ordinamento, ivi compresi quelli nei quali vi è l’obbligatorietà dell’azione disciplinare che, non per questo, esclude in via assoluta la legittima tutela dell’affidamento del lavoratore.
dell’azione disciplinare precluda in ogni caso la tutela dell’affidamento del lavoratore. È fuor di dubbio che l’affidamento non può originarsi sulla rinuncia, che, quale atto negoziale posto in essere nel settore pubblico contra legem, sarebbe da considerarsi sempre nullo e pertanto inidoneo a consentire la formazione dell’affidamento. Diversa è, però, l’ipotesi in cui l’affidamento, più che sulla rinuncia, si estende fino alla sua stessa premessa, ossia l’accettazione delle giustificazioni prodotte dal lavoratore, e, quindi, la valutazione in termini di liceità della condotta posta in essere dal lavoratore. 18 La materia dell’incompatibilità che interessa l’intero pubblico impiego (contrattualizzato e non), è al centro di un vivace ed intenso contenzioso. Solo per fornire alcuni esempi: si è escluso che sussista incompatibilità rispetto alla carica di consigliere di amministrazione di una banca di credito cooperativo, in società cooperativa (T.A.R. Venezia, 26 gennaio 1999, n. 35), anche ad opera dell’intervento del legislatore con legge 31 gennaio 1992, n. 59; parimenti si è ritenuta compatibile la carica di presidente di una società cooperativa per azioni a responsabilità limitata (T.A.R. Brescia, 19 gennaio 1998, n. 17); quanto alle società cooperative l’esclusione dell’incompatibilità del dipendente pubblico si limita alla qualità di socio e non alla prestazione di lavoro presso le medesime (Cass., 26 settembre 2016, n. 18861); è stato ritenuto, invece, compatibile l’incarico di consulente tecnico d’ufficio (Trib. Roma, 27 maggio 2015); ecc.
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4. Decadenza del pubblico dipendente e procedimento disciplinare.
La seconda questione di particolare interesse attiene alla decadenza del pubblico dipendente ed al rapporto che questa intreccia con la responsabilità disciplinare del lavoratore. L’istituto della decadenza19 – retaggio della fase in cui il lavoro alle dipendenze della P.A. era governato da principi di carattere gerarchico-amministrativo e priva di riscontro nel settore privato20 – trova oggi ingresso nel settore del pubblico impiego contrattualizzato in forza del richiamo dell’art. 53, co. 1, d.lgs. n. 165/2001, secondo cui “per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli artt. 60 ss. del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3”21. La ratio posta a fondamento di questo istituto è rappresentata dalla tutela dell’esclusività dell’attività prestata dal pubblico dipendente al servizio dell’Amministrazione22. In altri termini, attraverso l’incompatibilità si vuole garantire che le energie del lavoratore siano integralmente destinate all’attività che questo svolge in favore della P.A., e, quindi, orientata al perseguimento dei superiori interessi pubblici cui l’agire amministrativo naturalmente deve tendere. Così facendo, le disposizioni sull’incompatibilità prevengono sia potenziali conflitti di interessi ed interferenze tra interessi pubblici e privati (del lavoratore o del datore di lavoro privato presso cui questo svolge la sua seconda attività)23, sia disfunzioni o inconvenienti connessi al fattore di rischio che contraddistingue l’impresa privata24. Norma di riferimento, si è detto, è il d.P.R. n. 3/1957. Dopo aver indicato in termini alquanto generici le ipotesi di incompatibilità assoluta, ivi compresa l’accettazione di cariche in società a scopi di lucro (art. 60)25, all’art. 63 viene disciplinato il procedimento di diffida e di eventuale dichiarazione della decadenza del lavoratore26. Alla luce di questo quadro normativo, il Collegio conferma che, laddove si profili una situazione di incompatibilità assoluta, sono due gli aspetti che vengono in evidenza e che
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Su cui Tenore, Le incompatibilità per i pubblici dipendenti, le consulenze e gli incarichi dirigenziali esterni, Giuffrè, 2014; De Luca Tamajo, Mazzotta, Commentario breve alle leggi sul lavoro, commento all’art. 53 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, Cedam, 2013. 20 Nel settore privato l’art. 2105 c.c. si limita a vietare le attività extra-lavorative del dipendente ce siano concorrenti con l’attività del datore di lavoro. Solo quando il lavoratore violi detto principio incorrerà in responsabilità disciplinare. 21 La decadenza interessa, dunque, non solo i pubblici dipendenti contrattualizzati, ma anche coloro i quali hanno mantenuto il regime pubblico. 22 Ricondotto all’art. 98 Cost. è stato rappresentato da parte della dottrina come un’ingerenza del datore di lavoro pubblico anche sul tempo non lavorato del dipendente, Guariso, Incompatibilità del pubblico dipendente: l’impossibile quadratura del cerchio, in D&L, 1997, 701; propone una limitazione L. Zoppoli, Il lavoro pubblico negli anni ’90, Giappichelli, 1998, 152. Sul punto già Cons. Stato, 13 gennaio 1999, n. 24; e successivamente Cass., 19 gennaio 2006, n. 967; Cass., 15 gennaio 2015, n. 617. 23 Come sottolinea Cons. Stato, 16 maggio 1989, n. 297; T.A.R. Brescia, 9 marzo 1991, n. 210. 24 In tal senso Cons. Stato, 13 gennaio 1999, n. 24; conforme T.A.R. Venezia, 26 gennaio 1999, n. 35. 25 L’art. 60, d.P.R. n. 3/1957 statuisce che: “l’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente”. 26 Sulla cui natura di causa di cessazione automatica del rapporto v. Cass., 21 agosto 2009, n. 18608.
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operano su due piani paralleli: l’uno è quello relativo alla decadenza, ossia alla cessazione automatica del rapporto quando la causa di incompatibilità non viene rimossa; l’altro, è quello della responsabilità disciplinare per la violazione del dovere di esclusività, che può comunque insorgere anche quando l’incompatibilità viene rimossa dal lavoratore nei termini prescritti. Mentre la valutazione sulla decadenza opera su di un piano oggettivo – prescindendo da qualsivoglia considerazione in tema di gravità della violazione – la sanzione disciplinare dovrà, invece, considerare profili sia oggettivi sia soggettivi della condotta contestata, che si sostanzia non tanto nel fatto della rimozione, quanto nella temporanea perdita dei requisiti di imparzialità ed esclusività del lavoratore. Nonostante le differenze che connotano la decadenza e la responsabilità disciplinare, in taluni casi i due piani, concepiti come distinti, sembrano sovrapposti, dando luogo a conseguenze non sempre coerenti con i generali principi che informano il rapporto di lavoro.
5. Il concorso di decadenza e sanzione disciplinare espulsiva: quale coerenza del sistema?
Nonostante la Corte abbia proposto una lettura del rapporto tra decadenza e sanzione disciplinare pienamente aderente al dettato normativo (in particolare l’art. 63, co. 2 d.P.R. n. 3/1957), vale comunque la pena svolgere un’ultima riflessione in ordine alle conseguenze dell’esistenza di più sanzioni estintive nel pubblico impiego contrattualizzato, ciascuna delle quali discendente da fonti di diversa natura: da un lato, la decadenza di matrice pubblicistica; dall’altro, il licenziamento disciplinare per violazione delle disposizioni in materia di incompatibilità, che trova il proprio fondamento nel contratto di lavoro27. Come detto, la rimozione dell’incompatibilità da parte del lavoratore non lo esime dal rispondere in sede disciplinare della temporanea perdita di quei tratti essenziali che, se fossero mancati al momento dell’assunzione, l’avrebbero certamente preclusa28. Ora, pur nella consapevolezza della distinta funzione dei due istituti, e pur risultando ragionevole la sanzione disciplinare che punisce la temporanea violazione delle disposizioni sull’incompatibilità, è evidente che, laddove detta sanzione – in osservanza al principio di proporzionalità – venga determinata in quella estintiva, emerge una chiara contraddizione. Questa risiede nel fatto che si sanziona con il licenziamento una determinata condotta, che in un primo momento si era consentito al lavoratore di sanare mediante la diffida e la rimo-
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In astratto l’incompatibilità e la sanzione disciplinare rispondono a finalità tra loro distinte: la prima, infatti, proietta i propri effetti “preventivi” tendenzialmente pro futuro, vietando talune condotte che il lavoratore deve ancora porre in essere; la seconda, invece, opera in un’ottica retrospettiva, ossia sanzionando condotte illecite già verificatesi. 28 Come proposto da Cass., 26 marzo 2010, n. 7343: “in tema di pubblico impiego privatizzato, la ratio dell’art. 58 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, che manteneva ferma per tutti i dipendenti pubblici (contrattualizzati e non) la disciplina delle incompatibilità dettata dagli art. 60 ss. d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, era individuabile nella considerazione che la stessa attiene alla sussistenza di quei requisiti di indipendenza e totale disponibilità preclusivi della stessa costituzione del rapporto di lavoro”.
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zione dell’incompatibilità, evitando così il verificarsi della decadenza e, quindi, di quella stessa conseguenza che si raggiunge con il licenziamento, cioè la cessazione del rapporto di lavoro. La carenza di razionalità nel concorso tra questi due istituti emerge, in primo luogo, dal fatto che in una disciplina coerente, se il legislatore avesse ritenuto impossibile la prosecuzione del rapporto in presenza di una situazione di incompatibilità, non avrebbe certamente previsto l’istituto della diffida (art. 63 d.P.R. n. 3/1957)29, ma avrebbe disposto l’immediata cessazione del rapporto. In secondo luogo, consentire all’Amministrazione di avvalersi di una sanzione disciplinare estintiva per punire il lavoratore, che abbia ottemperato alla diffida, potrebbe rappresentare un grave nocumento patrimoniale per il prestatore diffidato ed in buona fede. Si pensi al caso del lavoratore che rimuove la causa di incompatibilità (e, quindi, il reddito da essa derivante) perché intende fermamente mantenere il proprio impiego presso la P.A., salvo, poi, vedersi irrogato il licenziamento disciplinare, con la perdita del reddito – ora sì – esclusivo residuatogli dalla rimozione. A fronte di queste considerazioni, sarebbe quanto mai utile che nella frenesia riformatrice propria di ogni Esecutivo che si approccia alla materia, si riuscisse ad introdurre un effettivo e razionale coordinamento tra queste distinte sanzioni. Questo potrebbe risolversi anche in una coesistenza, ma nella sola misura in cui la sanzione disciplinare, che seguisse alla rimozione dell’incompatibilità, rimanesse, per quanto aspra, nel novero di quelle conservative. Tale profilo, unitamente all’ennesima trasformazione della fisionomia del potere disciplinare in capo alla P.A., a cui si sta assistendo, rappresentano interessanti campi di indagine in una disciplina che, oggi più di ieri, necessita di chiarire la direzione del proprio sviluppo. Davide Tardivo
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Su cui Cons. Stato, 29 ottobre 1996, n. 1416.
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Giurisprudenza Corte di Cassazione, sentenza 19 gennaio 2017, n. 1316; Pres. Di Cerbo – Est. Cinque – P.M. Celeste (concl. diff.) – S.P., G.W. e altri 14 (avv. Afeltra, Zezza) c. Wi. Te. S.p.A. (avv. Maresca) e Fallimento O.S.C. S.p.A. Cassa con rinvio App. Milano, sent. n. 492/2010. Lavoro (rapporto) – trasferimento di ramo di azienda – autonomia funzionale del ramo ceduto – preesistenza – necessità.
È elemento costitutivo della cessione di ramo d’azienda prevista dall’art. 2112 c.c., anche nel testo modificato dal d. lgs. n. 276 del 2003, art. 32, l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionali ed organizzativi e quindi di svolgere autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione, indipendentemente dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti.
Svolgimento del processo - 1. La Corte di appello di Milano, con la sentenza n. 492/2010, ha confermato – per quello che interessa in questa sede – le pronunce n. 142/09 e n. 196/09 del Tribunale di Monza, rilevando che l’operazione economica riguardante la cessione del Call Center di – Omissis., dalla Wi. Te. spa alla – Omissis. spa, fosse qualificabile come cessione di ramo di azienda agli effetti dell’articolo 2112 c.c. in quanto l’attività di call center ceduta era già svolta dal cedente in forma funzionalmente autonoma e debitamente strutturata e che il ramo costituiva, pertanto, un insieme di elementi patrimoniali e personali idonei al raggiungimento di un fine economico-produttivo, nell’accezione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria. 2. Ricorrono per cassazione Se. Pi. e gli altri dipendenti in epigrafe indicati con nove motivi di ricorso. 3. Resiste con controricorso la Wi. Te. spa. 4. Restano intimati, senza svolgere attività difensiva, sia il Fallimento – Omissis. spa che la – Omissis. spa in bonis. 5. Sono state depositate memorie ex articolo 378 c.p.c. nell’interesse delle parti costituite. Motivi della decisione - 6. Preliminarmente va respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso, in quanto proposto oltre il termine semestrale, e fondata sulla circostanza che gli atti di appello furono depositati il 27.7.2009 ed il 7.1.2010, ossia ben dopo l’entrata in vigore della riforma operata con la L. n. 69 del 2009, sollevata dalla Wi. Te. spa. Al riguardo deve rilevarsi che, nella specie, si applica il
testo originario dell’articolo 327 c.p.c. (la decadenza dell’impugnazione un anno dopo la pubblicazione della sentenza impugnata) e non il nuovo testo, che riduce il termine utile a sei mesi, perché esso si applica, ai sensi della L. 18 giugno 2009, n. 69, articolo 58, comma 1, ai soli giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore e, quindi, dal 4.7.2009, dal momento che bisogna avere riguardo al deposito del ricorso di 1 grado, restando irrilevante il momento di una successiva fase o di un successivo grado di giudizio (Cass. n. 17060/2012 e Cass. n. 5249/2014). 7. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2112 c.c., in relazione alla mancata individuazione, da parte della Wind e della OSC, dell’oggetto del contratto di cessione del ramo di azienda ceduto (articolo 360 c.p.c., n. 3). In particolare sottolineano la discordanza tra quanto previsto nella comunicazione di apertura della procedura di cui alla L. n. 428 del 1990, articolo 47 ed il successivo contratto di cessione di cui viene lamentata anche la genericità. 8. Con il secondo motivo si censura la contraddittoria motivazione della sentenza, circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla ritenuta mancanza ed insussistenza di autonomia funzionale delle attività di assistenza clienti eseguite presso il sito di – Omissis. A tal uopo si evidenzia che l’attività di assistenza clienti veniva effettuata in vari siti dislocati in tutta Italia (e non solo a – Omissis.) e che nel citato sito di Sesto venivano effettuate attività non solo di assistenza clienti, ma anche funzioni esterne a tale segmento produttivo e non cedute alla OSC (le
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quali erano necessarie al completamento e al compimento della attività di assistenza clienti medesima), di talché non si poteva parlare di una unitaria “entità economica” e costituire, quindi, un ramo di azienda nel senso e nella accezione datane dalla giurisprudenza. Né a tal fine poteva essere rilevante, secondo l’’assunto dei ricorrenti, la circostanza dell’intervenuta cessione dalla Wind alla OSC spa dei rapporti di lavoro dei team leader e degli area manager, perché il teste Ar., qualificatosi come responsabile di tutto il Call Center di – Omissis. ed in particolare dell’area customer, era rimasto in Wind; analogo discorso poteva essere argomentato per il teste Pa. responsabile dell’area consumer. 9. Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2112 c.c., in relazione alla mancata cessione dalla Wind alla OSC spa dei beni materiali essenziali ed indispensabili ai fini dell’esecuzione delle attività di assistenza clienti eseguite presso il sito di – Omissis., costituiti dai sistemi applicativi ed informatici. Al riguardo osservano che l’avere mantenuto in capo alla cedente alcuni beni (sistemi informatici) non consentiva di individuare un’entità economica capace di dare vita ad un ciclo produttivo completo, in grado di funzionare con gli stessi contenuti e con la stessa intensità già esistente presso Wind ravvisandosi, in contrario, una ipotesi di smembramento non rientrante nell’articolo 2112 c.c. 10. Con il quarto motivo si eccepisce l’omessa e/o insufficiente motivazione della sentenza circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla asserita consuetudine per cui i beni essenziali per la produzione del servizio richiesto, nel settore interessato alla cessione in esame, avrebbero potuto non essere ceduti all’acquirente di ramo di azienda (articolo 360 c.p.c., n. 5): ciò perché non viene spiegato in che cosa consisterebbe il carattere “consuetudinario” e quali sarebbero gli elementi che avrebbero potuto determinare una completa rivisitazione della materia. 11. Con il quinto motivo i ricorrenti si dolgono della violazione e falsa applicazione dell’articolo 2112 c.c., in relazione alla mancare ed insussistenza di autonomia operativa degli operatori addetti alla attività di assistenza clienti eseguita presso il sito di – Omissis. (articolo 360 c.p.c., n. 3) perché ogni lavoratore operante nel citato sito, interessato come tale alla cessione, mai aveva avuto libertà e capacità di definire i contenuti della prestazione da effettuarsi, nonché di definire i tempi e le modalità cui porre in essere il servizio assistenza: e ciò, a differenza di quanto ritenuto dalla Corte di appello di Milano, evidenziava la non ricorrenza e la non applicabilità dell’articolo 2112 c.c. nella parte in cui prevede che oggetto della cessione debba appunto essere una
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“articolazione funzionalmente autonoma di una attività economicamente organizzata”. 12. Con il sesto motivo si censura l’omessa e/o insufficiente motivazione della sentenza circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla mancanza di autonomia operativa degli operatori addetti all’attività di assistenza clienti eseguita presso il sito di – Omissis. (articolo 360 c.p.c., n. 5), per non avere spiegato la Corte di appello la sussistenza dell’autonomia del ramo ceduto e la sua capacità di dare vita ad un ciclo produttivo completo, pur in presenza di una interazione tra il personale di – Omissis. con quelli di altre strutture, ritenendo che fosse nella natura dell’attività di assistenza clienti il fatto che obiettivi e procedure fossero fissati a livello centrale ed esternamente al sito ove venivano eseguite. 13. Con il settimo motivo si deduce la contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla mancata ed insussistenza di autonomia operativa degli operatori addetti alla attività di assistenza clienti eseguita presso il sito di – Omissis. (articolo 360 c.p.c., n. 5) perché la Corte territoriale era giunta alla illogica e contraddittoria conclusione sull’autonomia del ramo ceduto, pur dando atto che l’attività di assistenza clienti potesse completarsi solo con l’intervento di personale ad esso esterno. 14. Con l’ottavo motivo i ricorrenti si dolgono della contraddittoria motivazione della sentenza circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione alla mancanza ed insussistenza di autonomia gestionale degli operatori addetti alle attività di assistenza clienti eseguita presso il sito di – Omissis. (articolo 360 c.p.c., n. 5) perché il giudice di seconde cure, pur evidenziando la assoluta impossibilità del centro di – Omissis., quanto alla organizzazione del rapporto tra personale ed attività da eseguirsi, di potere decidere anche la destinazione degli addetti ad ogni singolo servizio pervenendo ogni direttiva da personale non gestito dalla OSC spa, tuttavia non aveva ritenuto tali circostanze, idonee ad inficiare la validità dell’operazione di trasferimento ex articolo 2112 c.c. 15. Oggetto del nono motivo, proposto in via subordinata, è, infine, la richiesta di sospensione del procedimento con il rinvio alla Corte di Giustizia affinché la stessa si pronunzi sul seguente quesito: se vi sia trasferimento di parti di impresa o di stabilimenti ai sensi dell’articolo 1 della direttiva del Consiglio 12.3.2001 23/01, concernente il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di impresa o di stabilimenti, qualora il soggetto cedente tale parte di impresa o di stabilimento trasferisca nella proprietà del soggetto acquirente a tempo indeterminato i soli rapporti dei dipendenti addetti
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alla parte di impresa o di stabilimento ceduti, mantenga nella sua proprietà i beni materiali essenziali ed indispensabili alla esecuzione dell’attività eseguita in e da detta parte di impresa e stabilmente ceduti, e conceda in uso al medesimo soggetto acquirente tali beni materiali essenziali ed indispensabili per la esecuzione delle relative attività per un tempo determinato. 16. Il primo motivo è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso. 17. Infatti, il ricorrente ha l’onere, nel processo di legittimità, di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, i documenti su cui il motivo è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione. 18. Nel caso in esame i ricorrenti lamentano una discordanza tra la comunicazione di apertura della procedura prevista dalla L. n. 428 del 1990, articolo 47 circa l’oggetto della futura prescritta cessione, e quello che effettivamente è stato oggetto del trasferimento ma non hanno riprodotto integralmente i due documenti per valutare la fondatezza della censura. Si sono limitati a richiamare alcune espressioni dei documenti in questione, senza però riportare in modo esauriente e puntuale il contenuto degli atti asseritamente male o insufficientemente valutati dal giudice di merito precludendo, così, in sede di legittimità di valutare il vizio denunziato, se non sceverando, compito non spettante alla Suprema Corte di estrapolare dal documento elementi rilevanti ai fini del decidere. 19. Per esigenze di, pregiudizialità logico-giuridica, vanno preliminarmente esaminati i motivi (terzo e quinto) con i quali si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2112 c.c. della gravata sentenza nella parte in cui ha ritenuto qualificabile l’operazione economica in esame come cessione di ramo di azienda agli effetti dell’articolo 2112 c.c. nonostante non fossero stati ceduti i beni materiali essenziali ed indispensabili ai fini dell’esecuzione dell’attività di assistenza clienti eseguite presso il sito di – Omissis., costituiti dai sistemi applicativi ed informatici e nonostante gli operatori addetti alle attività di assistenza clienti, eseguita presso il suddetto sito, non godessero di autonomia operativa in quanto non avevano alcuna libertà di determinare il benché minimo contenuto della prestazione da effettuarsi. 20. I motivi sono fondati. 21. I vizi denunziati sono quelli di violazione e falsa applicazione dell’articolo 2112 c.c. e concernono la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto nonché l’applicazione della norma stessa al caso concreto una volta correttamente individuata ed interpretata.
22. Nella fattispecie in esame gli elementi di fatto, posti a sostegno delle censure, sono incontroversi. 23. La problematica riguarda la sussunzione della cessione nell’ambito applicativo dell’articolo 2112 c.c. 24. Sul punto va ricordato il principio di questa Sezione (Cass. sent. n. 10542 del 25.2.2016), che il Collegio condivide, secondo cui costituisce elemento costitutivo della cessione del ramo di azienda prevista dall’articolo 2112 c.c., anche nel testo modificato dal Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articolo 32, l’autonomia funzionale del ramo ceduto, ovvero la capacità di questo, già al momento dello scorporo dal complesso cedente, di provvedere ad uno scopo produttivo con i propri mezzi, funzionale ed organizzativi e quindi di svolgere – autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario – il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione, indipendentemente dal coevo contratto di fornitura di servizi che venga contestualmente stipulato tra le parti”. 25. Ebbene, ritiene il Collegio che la Corte territoriale non abbia fatto corretta applicazione di tale principio. 26. L’autonomia funzionale del ramo di azienda ceduto può non coincidere con la materialità dello stesso, ma comunque l’autonomia dell’entità ceduta deve essere obiettivamente apprezzabile, sia pure con possibili interventi integrativi imprenditoriali ad opera del cessionario, al fine di verificarne l’imprescindibile requisito comunitario della sua conservazione. 27. L’articolo 1, lettera b), della direttiva 2001/23 stabilisce, infatti, che “è considerato come trasferimento ai sensi della presente direttiva quello di una entità economica che conserva la propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”. 28. Ciò suppone una preesistente realtà produttiva funzionalmente autonoma (articolo 2112 c.c., comma 5 come sostituito dal Decreto Legislativo n. 276 del 2003, articolo 32, comma 1) e non anche una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento (ex alis Cass. n. 21697 del 13.10.2009; n. 21481 del 9.10.2009; n. 20422 del 3.10.2012). 29. La ratio è quella di evitare che le parti imprenditoriali possano creare, in occasione della cessione, strutture produttive che, in realtà, costituirebbero l’oggetto di una forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un’entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità (Cass. n. 19740 del 17.7.2008 e n. 21481/2009 cit.). 30. La Corte di Giustizia, cui compete l’interpretazione del diritto comunitario, ha affermato che, proprio per garantire una protezione effettiva dei diritti dei lavoratori in una situazione di trasferimento, obietti-
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vo perseguito dalla direttiva 2001/23, il concetto di identità dell’entità economica non può riposare unicamente sul fattore relativo all’autonomia organizzativa (Corte di Giustizia 12.2.2009 C-466/07 Dietmar, punto 43) e che l’impiego del termine “conservi” nell’articolo 6, par. 1 commi 1 e 4 della direttiva “implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento” (Corte di Giustizia 6.3.2014, C- 458/12, Amatori, punti 30 e 32) pur non ostando che uno stretto vincolo di committenza ed una commistione del rischio di impresa non possa costituire di per sé ostacolo all’applicazione della direttiva 2001/23 (sentenza CG citata, Amatori, punto 50). 31. Muovendo da tali premesse, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, non può affermarsi che l’attività trasferita del Cali Center di Sesto Giovanni fosse un’attività economicamente organizzata, come tale valutabile prima della cessione, funzionalmente autonoma e debitamente strutturata e, soprattutto, che la struttura produttiva ceduta fosse identica a quella preesistente. 32. Invero, avendo riguardo ai fatti incontroversi e ai soli fini di valutare se debba appunto applicarsi la fondamentale garanzia dell’articolo 2112 c.c., vanno evidenziate le seguenti risultanze istruttorie. 33. I beni materiali effettivamente ceduti sono stati gli arredi, n. 304 personal computers, cuffie, telefoni, stampanti, apparati di rete e apparati sale. 34. Con il contratto di appalto (di durata quinquennale), sottoscritto unitamente a quello di cessione, la Wi. Te. spa affidò a O.S.C. spa, per un corrispettivo di euro 10.400.00,00, la fornitura a proprio favore dei servizi customer care per la propria clientela corporate non Top e consumer (privati e piccole aziende), in particolare i servizi di cali center inbound e outbound e quelli di back office. 35. La Wind, invece, non affidò i medesimi servizi per la clientela TOP, che era anche gestita dal Call Center di – Omissis., nonché l’assistenza tecnica. 36. Inoltre, con il Long Term Agreement (LTA), fu sottoscritto un contratto avente ad oggetto “ulteriori beni funzionali all’esercizio dell’attività del Ramo di Azienda – la cui titolarità rimarrà in capo a Wind, senza alterare l’unita’ economica e funzionale del Ramo di Azienda – secondo previsto nel Contratto di Appalto di Servizi”. La durata del contratto fu determinata in cinque anni. 37. A tale riguardo non possono essere condivise le argomentazioni dei giudici di seconde cure circa la sussistenza di un carattere consuetudinario, nell’attività di cali center, e particolarmente in un settore ad alta tecnologia informatica, dell’utilizzo di beni, quali i data base e i programmi SW necessari per gestirli che rimangano nella proprietà del committente e vengano utilizzati dall’appaltatore, così come riconosciuto in altri settori dalla Corte di Giustizia, per esempio, in quello minerario (cfr. causa Allen - CG 2.12.1999 - causa C - 234/98). 38. Infatti,
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in primo luogo va osservato che la mancata cessione dei programmi e dei sistemi informatici (che venivano utilizzati dai dipendenti prima dello scorporo), nel settore della telefonia mobile, può trovare il suo fondamento non nella consuetudine, bensì nel fatto che i data base contenevano (e contengono) dati sensibili relativi ai clienti per cui l’incedibilità dei programmi che consentono l’accesso e la modifica di tali data base è connessa ad esigenze di riservatezza e alla conseguente necessità che anche gli altri programmi e gli operativi informatici utilizzati prima della cessione per lo svolgimento di diverse attività rimangano nella proprietà della cedente. 39. In secondo luogo, deve precisarsi che la giurisprudenza comunitaria richiamata dalla Corte territoriale, posta a fondamento della ritenuta sussistenza di un carattere consuetudinario circa il mancato trasferimento da parte del cedente dei beni per la realizzazione dell’attività, riguarda settori (ristorazione in ospedali, sentenza Abler; controllo passeggeri, sentenza Guney-Gorres, Demir; trivellazione, sentenza Allen) dove l’entità economica era sin da principio costituita da due specifiche parti (personale, da una parte, e beni materiali, dall’altra), ascrivibili alla proprietà e titolarità formale di due distinti soggetti. 40. Circostanza, questa, non rinvenibile nel caso in esame in cui vi era un unico titolare dei beni, materiali e personale, successivamente separati senza che i lavoratori avessero chiesto di seguire l’azienda. 41. Con riferimento, inoltre, proprio al personale dipendente deve sottolinearsi che oggetto della cessione furono 268 lavoratori. Per alcuni di questi, però, la stessa Corte di merito ha riattivato il rapporto con Wi. Te. spa perché mancava il requisito dell’appartenenza funzionale al ramo ceduto. 42. Da tale ultima circostanza possono ricavarsi due conseguenze. 43. La prima concerne il fatto che non si è in presenza di una cessione di un ramo “dematerializzato” o “leggero” perché i lavoratori ceduti evidentemente non costituivano un gruppo coeso per professionalità, con precisi legami organizzativi preesistenti alla cessione e specifico Know how tali da individuarli come una struttura unitaria funzionalmente idonea e non invece come una mera sommatoria di dipendenti. 44. La seconda riguarda la circostanza che quella ceduta è stata una struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento, o come tale identificata dalle parti del negozio traslativo, proprio perché ad essa facevano parte anche lavoratori addetti alla attività di assistenza della clientela di fascia più alta (TOP fisso e mobile), rimasta della competenza Wind. 45. Infine, sotto il profilo dell’autonomia operativa, va considerata la mancanza di autonomia nella organizzazione del lavoro atteso che tutte le procedure operative, anche dettagliate, erano determinate a livello centrale, così, come gli obiettivi da raggiungere, l’autorizzazione, di spese per trasferte, rimborsi
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e cancelleria nonché le regole comportamentali di base per il rapporto con il cliente al punto che, in caso di necessità, gli interventi venivano passati ad altre strutture, interne o esterne Wind. 46. Dagli elementi sopra indicati, incontroversi e pacificamente riportati nella gravata sentenza, non può ritenersi applicabile il disposto di cui all’articolo 2112 c.c. perché non si verte in una ipotesi di cessione di un insieme organicamente finalizzato ex ante all’esercizio dell’attività di impresa, con autonomia funzionale di beni e strutture già esistenti al momento del trasferimento e, dunque, non solo teorica o potenziale (Cass. Sesta sez. lav. n. 5038 del 23.2.2016). 47. Mancava, infatti, nella cessione come realizzata l’autonomia e l’autosufficienza dell’articolazione aziendale trasferita, dimostrata dalla continua interazione necessaria per la realizzazione dell’attività ceduta, non svolta in autonomia, in continuo collegamento e sotto il controllo di Wind, con i programmi informatici necessari rimasti in proprietà esclusiva dell’impresa cedente e senza i quali non sarebbe sta-
to possibile l’espletamento del servizio. 48. È ipotizzabile, invece, una mera esternalizzazione di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza dei rapporti di lavoro ad un ramo di azienda già costituito (in questi termini Cass. n. 8017/2006, n. 2489/2008). 49. Alla stregua di quanto esposto sono fondate le doglianze di cui al il terzo e quinto motivo del ricorso, restando assorbito l’esame degli altri. 50. La gravata sentenza deve essere, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione che, nel procedere al riesame della controversia nei sensi sopra indicati e avendo riguardo al principio di diritto sopra citato, provvederà anche sulle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte: accoglie il terzo e quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri, e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Milano in diversa composizione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 2 novembre 2016. Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2017.
La Corte di Cassazione dopo la sentenza Amatori: autonomia funzionale e conservazione dell’identità del ramo d’azienda ceduto Sommario :
1. Il caso: esternalizzazione di parte dell’attività di un call center e riacquisizione del servizio tramite appalto. – 2. Il requisito dell’autonomia funzionale. – 3. La conservazione dell’identità. – 4. Il difficile dialogo con la sentenza Amatori. – 5. (segue) il contrasto tra la giurisprudenza della Cassazione e la pronuncia Amatori è soltanto apparente?
Sinossi. La nozione di “ramo d’azienda” ex art. 2112 c.c. adottata dalla Corte di Cassazione è rimasta insensibile alle modifiche legislative (art. 32, d. lgs. n. 276/2003) e agli apporti interpretativi provenienti dalla sentenza Amatori della Corte di Giustizia Ue. Fedele a se stessa, la Cassazione, in relazione alla fattispecie del trasferimento di ramo d’azienda, continua a ripetere che l’art. 2112 c.c. trova applicazione se il complesso trasferito è funzionalmente autonomo e
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se conserva nel trasferimento la propria identità. La scelta di tenere fermo tale orientamento ha indotto i giudici di legittimità ad elaborare nel tempo nuovi percorsi motivazionali. L’impegno profuso nella ricerca di nuovi argomenti a sostegno di consolidate soluzioni induce a ritenere che non siano probabili révirement in materia.
1. Il caso: esternalizzazione di parte dell’attività di un call center e riacquisizione del servizio tramite appalto. Una grande azienda di servizi di telecomunicazione e di telefonia ha ceduto all’acquirente beni materiali inerenti all’attività di call center (arredi, personal computers, cuffie, telefoni, stampanti, apparati di rete e apparati c.d. sale) concludendo con il cessionario, contestualmente alla cessione, un contratto di appalto (di durata quinquennale) avente ad oggetto la fornitura di alcuni dei servizi precedentemente gestiti direttamente con propri mezzi e proprio personale. Oggetto del contratto di appalto erano i servizi di customer care (call center inbound e outbound e quelli di back office) destinati ai clienti privati e alle piccole aziende. Non erano state invece appaltate le attività di assistenza tecnica e di assistenza ai clienti destinate ad una terza categoria di clientela, denominata “Top” che, precedentemente, erano gestite dal call center oggetto dell’esternalizzazione insieme ad un altro call center della stessa società telefonica. Con un terzo contratto, infine, sempre di durata quinquennale, veniva concesso l’uso all’appaltatore di ulteriori beni funzionali all’esercizio dell’attività (principalmente software aziendale e data base); beni che tuttavia rimanevano nella titolarità dell’appaltante e che pertanto non erano oggetto di trasferimento. Nei primi due gradi di giudizio il Tribunale di Monza e la Corte d’Appello di Milano1 avevano ravvisato gli estremi per l’applicazione dell’art. 2112 c.c. riconoscendo che l’attività di call center ceduta era già svolta dal cedente in forma funzionalmente autonoma e debitamente strutturata e che pertanto il ramo era costituito da un insieme di elementi idonei al raggiungimento di un fine economico-produttivo, in coerenza con gli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia UE. La Corte di Cassazione, con la sentenza del 19 gennaio 2017, n. 1316, ha invece ritenuto non applicabile la predetta disposizione, qualificando l’operazione compiuta dalle parti come «mera esternalizzazione di semplici reparti o uffici, di articolazioni non autonome, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza dei rapporti di lavoro ad un ramo di azienda già costituito».
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Le pronunce del Trib. Monza, 26 maggio 2009, n. 142 e n. 196/09 sono rimaste, a quanto consta, inedite. È stata invece pubblicata App. Milano, 22 marzo 2010, in RIDL, 2011, II, 320, con nota critica di Vallauri, Autonomia funzionale ed integrabilità del ramo da parte del cessionario.
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In particolare, la Corte ha giudicato fondati il terzo e il quinto motivo di ricorso dei lavoratori. Con il terzo motivo i lavoratori sostenevano che la carenza di autonomia funzionale del ramo ceduto potesse essere desunta dalla circostanza che l’appaltatore non fosse in grado, utilizzando e organizzando l’insieme degli elementi trasferiti, di svolgere autonomamente le attività di assistenza clienti senza l’ausilio di beni materiali (costituiti dai sistemi applicativi ed informatici) che non erano stati trasferiti al cessionario e che erano rimasti invece nella titolarità del cedente. Con il quinto motivo, invece, i lavoratori lamentavano assenza di autonomia funzionale del ramo ceduto in ragione del fatto che gli operatori addetti alle attività di assistenza clienti non avevano libertà nella definizione del contenuto della prestazione da effettuarsi, essendo questa determinata dall’appaltante.
2. Il requisito dell’autonomia funzionale. Sulla nozione di autonomia funzionale del ramo ceduto il dibattito è stato vivace in dottrina fin dal momento della riformulazione dell’art. 2112 c.c. ad opera dell’art. 32 del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276. Echi delle contrapposte interpretazioni si sono registrati anche all’interno della giurisprudenza, ma limitatamente alla dialettica tra Corti di merito e Corte di Cassazione2. Quest’ultima ha mantenuto in materia un orientamento tendenzialmente costante e uniforme, e la pronuncia in esame – come si vedrà in seguito – non si discosta dall’indirizzo prevalente. Partendo dagli aspetti sui quali si rinviene maggiore convergenza di opinioni tra dottrina e giurisprudenza, può osservarsi anzitutto come sia diffusa la convinzione che l’autonomia organizzativa e funzionale del ramo trasferito debba essere apprezzabile dal punto di vista oggettivo3. Fermo restando che alle parti è riconosciuto il potere di individuare liberamente quali beni costituiscano oggetto dell’atto negoziale traslativo, si deve ritenere che la qualificazione della fattispecie, ai fini dell’applicazione della relativa disciplina, non dipenda dalla mera volontà del cedente e del cessionario e quindi dal nomen convenzionalmente assegnato, ma dalla ricorrenza degli elementi richiesti dall’art. 2112 c.c.
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Mentre la Corte di Cassazione, come meglio si vedrà nel prosieguo, ha ribadito in svariate occasioni che requisiti della fattispecie “ramo d’azienda” sono l’autonomia funzionale e la preesistenza, tra i giudici di merito ha trovato un certo spazio l’opinione che l’autonomia del ramo ceduto possa essere valutata anche soltanto in senso potenziale: Trib. Torino, 17 dicembre 2005, in ADL, 2006, 6, 1773, con nota di Imberti; App. Roma, 30 giugno 2008, in DPL, 2009, 18, 1080, con nota di Petrucci e Taddei; oltre ad App. Milano, 22 marzo 2010, cit. Bavaro, Il trasferimento di azienda e di ramo di azienda, in Curzio (a cura di), Lavoro e diritti a tre anni dalla legge n. 30/2003, Cacucci, 2006, 250; Speziale, Appalti e trasferimento di azienda, in W.P. D’Antona, It, n. 41/2006; Novella, Vallauri, Il nuovo art. 2112, in DLRI, 2005, 177; Menghini, L’attuale nozione di ramo d’azienda, in LG, 2005, 434; Cester, La fattispecie: la nozione di azienda, di ramo d’azienda e di trasferimento fra norme interne norme comunitarie, in QDLRI, 2004, 52. Non sono mancate in dottrina posizioni contrarie, volte a enfatizzare la difformità della norma interna rispetto al diritto dell’UE: cfr. Mazziotti, Trasferimento d’azienda e tutele dei lavoratori, in De Luca Tamajo, Rusciano, Zoppoli (a cura di), Mercato del lavoro – Riforma e vincoli di sistema, Editoriale scientifica, 621; Andreoni, Impresa modulare, trasferimenti d’azienda e appalti interni: la soft law sul ciclo di produzione, in Ghezzi (a cura di), Il lavoro tra progresso e mercificazione, Ediesse, 2004, 192.
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(autonomia funzionale dell’articolazione aziendale con la quale viene esercitata l’attività economica)4. Ove così non fosse, si perderebbe il carattere imperativo della disposizione5. Tendenziale corrispondenza tra orientamenti giurisprudenziali e dottrinali si rinviene anche con riferimento ad un altro profilo relativo alla costruzione della fattispecie: trova ampio consenso l’opinione che la sussistenza del ramo d’azienda vada verificata non in assoluto o in astratto, ma in termini relativi, tenendo conto del tipo di attività esercitata. Quel che conta è che i mezzi oggetto del trasferimento siano idonei a svolgere, opportunamente organizzati, il tipo di attività a cui sono destinati; è invece irrilevante la natura (materiale, immateriale) dei mezzi trasferiti6. Si può dunque configurare la fattispecie di cui all’art. 2112 c.c. nel caso di cessione di entità economiche fortemente smaterializzate, costituite da insiemi di mezzi produttivi composti prevalentemente (o anche esclusivamente) da lavoratori stabilmente coordinati e organizzati, a condizione però che l’attività trasferita sia esercitabile con i mezzi (lavoratori, appunto) che compongono il ramo7. Per contro, il trasferimento di soli beni immateriali non determina l’applicazione della disciplina ove il tipo di attività esercitata richieda, per il suo svolgimento, anche l’utilizzo di beni materiali e questi non siano stati trasferiti al cessionario8. Nel caso affrontato nella sentenza che si commenta, l’insieme dei beni trasferito non comprendeva alcuni mezzi (principalmente, software) funzionali all’attività svolta che restavano nella titolarità del cedente e che venivano forniti in uso al cessionario in forza di apposito contratto. Si poneva dunque il dubbio se il requisito dell’autonomia funzionale del ramo ceduto fosse rinvenibile nella fattispecie, dato che l’attività di call center non avrebbe potuto essere esercitata senza i mezzi non trasferiti.
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Cass., 10 novembre 2016, n. 22935; Cass., 31 maggio 2016, n. 11247; Cass., 20 maggio 2016 n. 10541; Cass., 19 maggio 2016, n. 10352; Cass., 18 maggio 2016, n. 10243; Cass., 11 maggio 2016, n. 9682. Cass., 15 aprile 2014 n. 8757; Cass., 4 dicembre 2012, n. 21711, in FI, 2013, I, 904. Cfr. amplius Novella, Il trasferimento di ramo d’azienda: la fattispecie, in Aimo, Izzi (a cura di), Esternalizzazioni e tutela dei lavoratori, Utet, 2014, 256. L’orientamento, come è noto, trova origine nella giurisprudenza della Corte di giustizia CE, a partire da C. giust., 18 marzo 1986, causa C-24/85, Spijkers, punto 13; C. giust., 11 marzo 1997, causa C-13/95, Süzen, punto 14; C. giust., 25 gennaio 2001, causa C-172/99, Liikenne; Corte Giust. 24.02.2002, causa C-51/00, Temco; Corte Giust. 20.11.2003, causa C-340/01, Abler; C. giust., 15 dicembre 2005, cause riunite C-232/04 e C-233/04, Güney Görres; C. giust., 6 settembre 2011, causa C-108/10, Scattolon, punto 42-51. Tra le più recenti, Cass., 15 marzo 2017, n. 6770; Cass., 19 maggio 2017, n. 12720, ma l’orientamento è stabile: Cass., 4 dicembre 2012, n. 21711, cit.; Cass., 2 marzo 2012, n. 3301, in GD, 2012, 18, 41; Cass., 9 novembre 2011, n. 23342, in De Jure; Cass., 14 ottobre 2011, n. 21282, in De Jure; Cass., 12 ottobre 2011, n. 20980, in De Jure; Cass., 17 marzo 2009, n. 6452; Cass., 10 luglio 2009, n. 16198, in De Jure; Cass., 17 luglio 2008, n. 19740, in De Jure; Cass., 10 gennaio 2004, n. 206, in RIDL, 2004, II, 653; Cass., 30 dicembre 2003, n. 19842, in FI, 2004, I, 1096; Cass., 23 luglio 2002, n. 10761, in De Jure. Tra i giudici di merito, Trib. Roma, 12 marzo 2008, in RGL, 2008, II, 660; App. Milano, 18 gennaio 2008, in OGL, 2008, 69. V. ad esempio, Cass., 6 dicembre 2016, n. 24972, secondo la quale non si determina il passaggio dei dipendenti dal precedente appaltatore al nuovo, subentrato nell’appalto, in mancanza del contestuale trasferimento di non trascurabili strutture materiali organizzate o, comunque, di elementi idonei a conferire autonoma capacità operativa alle maestranze; Cass., 28 marzo 2011, n. 7044, in GD, 2011, 21, 44, secondo cui l’accertamento della consistenza dell’entità presuppone la valutazione complessiva di una pluralità di elementi tra loro in rapporto di interdipendenza in relazione al tipo di impresa, consistenti nell’eventuale trasferimento di elementi materiali o immateriali e del loro valore, nell’avvenuta riassunzione in fatto della maggior parte del personale da parte della nuova impresa, dell’eventuale trasferimento della clientela, nonché del grado di analogia tra le attività esercitate prima o dopo la cessione, in ciò differenziandosi dalla cessione del contratto ex art. 1406 c.c.
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Nel giudizio di secondo grado, in cui la Corte di Appello di Milano aveva riconosciuto l’autonomia funzionale del ramo, il mancato trasferimento della proprietà del software e dei data base non era stato considerato elemento dirimente: i beni necessari per lo svolgimento dell’attività produttiva erano infatti posti a disposizione del cessionario da parte del cedente, pur non essendo intervenuto un mutamento nella proprietà degli stessi. La Corte di Appello aveva richiamato a sostegno alcune note pronunce della Corte di Giustizia UE9, nelle quali, in ipotesi di passaggio al cessionario di un insieme organizzato di dipendenti, ma non dei mezzi materiali necessari per lo svolgimento dell’attività produttiva complessiva, erano stati comunque ravvisati gli estremi dell’applicazione della direttiva 2001/23. La Cassazione ha ritenuto improprio il richiamo alle pronunce dei giudici di Lussemburgo. Nei casi affrontati dalla Corte di Giustizia si trattava di valutare la ricorrenza degli estremi applicativi della dir. 2001/23 nell’ipotesi di successione nell’affidamento di un appalto di servizi in cui erano impiegati lavoratori che si servivano delle strutture e dei mezzi materiali dell’appaltante. In quei casi, ha affermato la Corte di Cassazione, «l’entità economica era sin da principio costituita da due specifiche parti (personale, da una parte, e beni materiali, dall’altra), ascrivibili alla proprietà e titolarità formale di due distinti soggetti». Diverso è stato giudicato il caso in esame, in cui la (presunta) entità economica è stata scorporata da un ramo che espletava l’attività produttiva attraverso l’organizzazione di beni materiali e attività dei lavoratori10. L’autonomia funzionale del ramo scorporato non viene riconosciuta perché l’insieme di lavoratori non aveva mai svolto autonomamente l’attività produttiva nell’ambito dell’organizzazione del cedente. Ulteriore indizio della mancanza di autonomia funzionale è desunto dal fatto che al complesso ceduto erano stati aggregati lavoratori non addetti alle attività oggetto di trasferimento: elemento, questo, rivelatore dell’insussistenza di un gruppo di lavoratori unitariamente organizzati per un comune scopo produttivo. Come si vede, sottostante al ragionamento della Corte è la convinzione che sia necessario, ai fini dell’applicazione dell’art. 2112 c.c., che il ramo ceduto sia funzionalmente autonomo prima del trasferimento e che tale autonomia, conservandosi nel trasferimento «senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario», permetta di svolgere «autonomamente dal cedente il servizio o la funzione cui risultava finalizzato nell’ambito dell’impresa cedente al momento della cessione»11.
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Si tratta delle sentenze C. giust., 2 dicembre 1999, causa C-234/98, Allen, e le già citate Abler e Güney Görres. La distinzione tra trasferimento di entità che già svolgono in autonomia un ciclo produttivo e trasferimento di entità oggetto di scorporo e di riaggregazione al fine del trasferimento riecheggia la distinzione in proposito delineata, al fine di individuare l’ambito di applicazione del comma 5 dell’art. 2112 c.c., da Lambertucci, Il trasferimento del ramo d’azienda dopo l’art. 32 d. lgs. D.Lgs n. 276/2003: un’importante “conferma” della Corte di Cassazione, in GI, 2013, 11 ss., secondo cui «la preesistente autonomia funzionale può individuarsi laddove l’attività economica trasferita si configuri come accessoria (si pensi, al servizio mensa, di pulizia, di sorveglianza, ecc.) ovvero strumentale, rispetto alla produzione “tipica” dell’impresa, ma, comunque, facilmente separabile da quest’ultima (si pensi ai servizi informatici o di contabilità, ecc.), mentre appare di più difficile individuazione con riguardo a quelle attività che rientrano nel ciclo produttivo dell’impresa, le quali si trovano inevitabilmente ad essere inscindibilmente collegate a quest’ultimo». 11 Cfr., tra le pronunce più recenti, Cass., 31 maggio 2016, n. 11248; Cass., 24 marzo 2017, n. 7686, in DG, 2017, con nota di Tonetti; Cass., 26 agosto 2016, n. 17366; Cass., 20 maggio 2016, n. 10541; Cass., 18 maggio 2016, n. 10243.
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Giurisprudenza
La verifica dell’autonomia funzionale deve avere ad oggetto non l’astratta potenzialità del ramo di essere impiegato dal cessionario per svolgere l’attività economica trasferita, ma il concreto impiego già da parte del cedente del ramo stesso al fine svolgere l’attività economica trasferita12. Nessun credito è riconosciuto agli orientamenti interpretativi (diffusi soprattutto in ambito dottrinale)13 che costruiscono la nozione di autonomia funzionale in modo più elastico, ammettendo l’applicazione dell’art. 2112 anche nel caso in cui l’entità trasferita si presenti come un’organizzazione autonoma di beni e contratti funzionalmente coordinati all’esercizio almeno potenziale di un’attività d’impresa, fermo restando – come si è detto in avvio di discorso – che tale autonomia dell’entità ceduta deve essere obiettivamente apprezzabile. Coerentemente, non viene assecondata l’apertura, sporadicamente presente in giurisprudenza, nei confronti dell’applicabilità dell’art. 2112 c.c. nell’ipotesi in cui il trasferimento riguardi un insieme di beni o rapporti idonei allo svolgimento di un’attività economica, al netto dei c.d. “supporti generali” sussistenti presso l’azienda cedente14, con la conseguenza che la valutazione dell’autonomia funzionale del ramo ceduto si sposterebbe sulla idoneità potenziale del complesso trasferito di operare in autonomia15. In sintesi, secondo la Cassazione, il mantenimento dell’autonomia funzionale del ramo ceduto implica la conservazione della sua identità. Si vedrà nel prosieguo con quali argomenti i giudici di legittimità ricavino dall’art. 2112 c.c. quest’ultimo requisito. Una volta esclusa l’autonomia funzionale, la Corte ha dedicato poche righe all’ulteriore questione, sollevata nel quinto motivo di ricorso, della mancanza di autonomia nella organizzazione del lavoro, limitandosi a rilevare come tutte le modalità operative e gestionali fossero sotto il controllo della società appaltante il servizio e dunque dovesse essere esclusa l’autonomia funzionale del ramo ceduto. Manca, in questa parte della motivazione, il confronto con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE, la quale, in modo netto, ha invece avuto modo di affermare che, ai fini dell’applicazione della direttiva, non osta il fatto che l’impresa cedente eserciti nei confronti del cessionario un intenso potere di supremazia attraverso uno stretto vincolo di committenza ed una commistione del rischio16.
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Si v. ad es. Cass., 23 febbraio 2016, n. 5038, secondo cui non può ritenersi applicabile il disposto di cui all’art. 2112 c.c. ove non si verta in una ipotesi di cessione di un insieme organicamente finalizzato ex ante all’esercizio dell’attività di impresa, con autonomia funzionale di beni e strutture già esistenti al momento del trasferimento; Cass., 25 febbraio 2016, n. 10542; Cass., 18 marzo 2015, n. 5425; Cass., 15 dicembre 2015, n. 25229, Cass., 15 aprile 2014, n. 8759; Cass., 6 febbraio 2013, n. 2766; Cass., 3 ottobre 2013, n. 22613; Cass., 4 dicembre del 2012, n. 21711. 13 In dottrina, Romei, Azienda, impresa, trasferimento, in DLRI, 2003, 63; Maresca, L’oggetto del trasferimento: azienda e ramo d’azienda, in Dialoghi fra dottrina e giurisprudenza, n. 2, 2004, 100; Boscati, La controversa qualificazione del ramo d’azienda tra preesistenza “qualificata” ed autonomia funzionale stabile e già compiuta, in ADL 2014, 442 ss.; Tursi, Cessione di ramo d’azienda: apparenti contrasti e persistenti equivoci alla luce della giurisprudenza nazionale e comunitaria, in DRI, 2015, 239. 14 Si v. ad es. Cass., 17 marzo 2009, n. 6452, cit., che ha ravvisato gli estremi dell’autonomia funzionale del ramo in un caso in cui esso comprendeva una quota (ridotta) di lavoratori addetti a funzioni miste e svolgeva l’attività economica grazie al supporto di alcuni servizi centralizzati forniti dal cedente. 15 Cfr. sul punto Maresca, L’oggetto del trasferimento: azienda e ramo d’azienda, in Trasferimento di ramo d’azienda e rapporto di lavoro, Dialoghi fra dottrina e giurisprudenza, Giuffrè, 2004, 395. 16 C. giust. 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori, punto 50.
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3. La conservazione dell’identità. L’art. 2112 c.c., come modificato dall’art. 32 del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, definisce ramo d’azienda l’articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, precisando che il ramo può essere identificato come tale da cedente e cessionario anche al momento del suo trasferimento. Nulla induce a ritenere, prendendo in considerazione il solo testo normativo, che l’autonomia funzionale del ramo ceduto sia caratteristica che il complesso deve possedere prima del trasferimento. Eppure, come è noto, la giurisprudenza della Cassazione è ferma nell’esigere il requisito della “conservazione dell’identità”17. Due sono gli argomenti utilizzati dai giudici di legittimità a sostegno di tale orientamento. Il primo fa leva sull’obbligo di interpretazione conforme. In coerenza con la direttiva europea, i giudici della Cassazione intendono per “ramo d’azienda” un’entità economica organizzata in maniera stabile, la quale in occasione del trasferimento conservi la propria identità18. Se il ramo trasferito deve mantenere la propria identità, significa che deve preesistere al trasferimento19. La sentenza che si commenta non fa eccezione20. Certo, si può obiettare che il requisito del mantenimento dell’identità potrebbe ben riconoscersi anche nel caso in cui il ramo sia identificato solo al momento del trasferimento: una volta identificato, il ramo sarebbe formalmente preesistente al trasferimento e manterrebbe nel trasferimento la propria identità21. Al fine di contrastare l’obiezione, la Cassazione ha sviluppato il secondo argomento a cui si faceva poc’anzi cenno. È un argomento di carattere teleologico. Ove non fosse richiesta la preesistenza (nell’accezione indicata) del ramo, sarebbe elusa la finalità della disciplina, la quale è volta a «evitare che il trasferimento si trasformi in semplice strumento di sostituzione del datore di lavoro, in una pluralità di rapporti individuali, con altro sul quale i lavoratori possano riporre minore affidamento sul piano sia della solvibilità sia dell’attitudine a proseguire con continuità l’attività produttiva»22. Utilizzando le parole con cui si esprime la Cassazione nella sentenza in esame (ma l’affermazione compare in varie altre precedenti pronunce), «la ratio è quella di evitare che le
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Cass., 4 dicembre 2012, n. 21711, cit.; Cass., 30 marzo 2012, n. 5117, in FI, 2012, I, 2378; Cass., 8 aprile 2011, n. 8066, in De Jure; Cass., 8 giugno 2009, n. 13171, cit.; Cass., 1 febbraio 2008, n. 2489, in De Jure; Cass., 10 gennaio 2004, n. 206, cit. Per una conferma del legame tra autonomia funzionale e preesistenza del ramo ceduto, ma con riferimento alla vecchia disciplina, cfr. Cass., 25 ottobre 2002, n. 15105, in MGL, 2002, 1848. 18 Cass., 28 marzo 2011, n. 7044, cit.; tra i giudici di merito v. ad es. Trib. Trieste, 9 marzo 2007, in De Jure. 19 Cass., 10 novembre 2016, n. 22935; Cass., 12 agosto 2014, n. 17901; Cass., 15 aprile 2014, n. 8757; Cass., 4 dicembre 2012, n. 21711; Cass., 8 giugno 2009, n. 13171; Cass., 9 ottobre 2009, n. 21481. 20 In essa, anzi, si osserva come in più occasioni la Corte di giustizia abbia affermato che il requisito della preesistenza derivi da quello della necessaria conservazione dell’identità: C. giust., 12 febbraio 2009, causa C-466/07 Dietmar, punto 43) e che l’impiego del termine “conservi” nell’articolo 6, par. 1, commi 1 e 4, della direttiva implica che l’autonomia dell’entità ceduta deve, in ogni caso, preesistere al trasferimento (C. giust., 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori, punti 30 e 32). 21 Sul punto, Treu, Cessione di ramo d’azienda: note orientative e di merito, in RIDL, 2016, I, 45. 22 Cass., 4 dicembre 2012, n. 21711, cit.; Cass., 26 gennaio 2012, n. 1085, cit.
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parti imprenditoriali possano creare, in occasione della cessione, strutture produttive che, in realtà, costituirebbero l’oggetto di una forma incontrollata di espulsione di frazioni non coordinate fra loro, unificate soltanto dalla volontà dell’imprenditore e non dall’inerenza del rapporto ad un’entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità»23. Il ragionamento si fonda sul presupposto che la migliore tutela dell’interesse del lavoratore a mantenere la propria occupazione si realizzi quando egli abbia la possibilità di “seguire” le sorti di un ramo d’azienda di cui sia già stata sperimentata l’idoneità a svolgere un’attività produttiva. Tutela che è invece presuntivamente inferiore (o quantomeno di più incerta valutazione) ove tale idoneità sia solo potenziale e prospettica, essendo stati i mezzi e i lavoratori aggregati soltanto al momento del trasferimento. Il requisito della conservazione dell’identità è dunque decisivo nel giudizio ed è inscindibilmente integrato con quello dell’autonomia funzionale. Non vi è autonomia funzionale senza conservazione dell’identità. Tale approccio interpretativo ha un vantaggio: permette ai giudici di evitare le più complesse e, facilmente controvertibili, valutazioni in ordine alla futura, potenziale idoneità di un complesso di beni di svolgere in modo autonomo e stabile un’attività economica, e di concentrare invece il giudizio su un elemento – la conservazione dell’identità – di più facile osservazione.
4. Il difficile dialogo con la sentenza Amatori. La pronuncia commentata affronta e risolve le questioni seguendo – come si è cercato di mostrare – un approccio del tutto allineato all’orientamento dominante presso la Corte di Cassazione. A fronte di soluzioni interpretative consolidate (e sostenute con argomenti ormai collaudati) è d’obbligo chiedersi se siano – realisticamente – prospettabili révirement. Alla domanda occorre probabilmente dare risposta negativa. Pare infatti di poter sostenere che l’occasione per mutare opinione i giudici della Cassazione l’abbiano avuta in tempi relativamente recenti, ma – consapevolmente – non l’abbiano colta, preferendo ribadire gli orientamenti consolidati a costo di dovere elaborare nuove argomentazioni. L’occasione a cui si allude è quella fornita dalla sentenza Amatori. Le (pur insoddisfacenti) soluzioni ricostruttive proposte dalla Corte di Giustizia in quell’occasione avrebbero potuto costituire, ove ve ne fosse stata la volontà, un buon pretesto per cambiare rotta sul tema della necessaria preesistenza del ramo oggetto di trasferimento. Le affermazioni di principio in essa contenute avrebbero potuto indurre a rimeditare i due principali argomenti con i quali i giudici nazionali – come si è visto – sostengono la tesi della necessaria preesistenza del ramo ceduto: l’obbligo di interpretazione conforme e l’opportunità del “controllo della fattispecie” onde evitare tradimenti della ratio protettiva della disciplina.
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Cass., 17 luglio 2008, n. 19740 e Cass., 9 ottobre 2009, n. 19740 cit.
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Si consideri infatti che la Corte di Giustizia, in occasione del caso Amatori, ha ritenuto conforme alla direttiva 2001/23 sia una disciplina nazionale di attuazione che preveda il requisito della conservazione della identità del ramo ceduto, sia una disciplina che tale requisito non preveda, in ragione del fatto che quest’ultima, ampliando il campo di applicazione della disciplina protettiva, sarebbe di miglior favore per i lavoratori, e dunque fatta salva dalla clausola di cui all’art. 8 della direttiva. Si avverte immediatamente, con riferimento anzitutto alla ratio ascrivibile alla disciplina, uno scarto tra il ragionamento della Cassazione e quello della Corte di Giustizia: i giudici nazionali hanno sempre ritenuto che possa non essere funzionale alla stabilità del rapporto di lavoro (e che quindi non sia necessariamente una condizione di favore per i lavoratori) l’estensione dell’art. 2112 c.c. anche a casi di trasferimento di entità prive di autonomia funzionale. Non solo. Le affermazioni della Corte di Giustizia gettano un’ombra anche sull’altro argomento dei giudici nazionali: quello fondato sulla necessità di interpretare il dato normativo interno alla luce della direttiva 2001/23. Se infatti si seguisse il ragionamento sviluppato nella pronuncia Amatori, occorrerebbe ammettere che una disciplina nazionale sarebbe comunque conforme al diritto UE anche ove non contemplasse i requisiti dell’autonomia funzionale e della conservazione dell’identità (in ragione della sua caratterizzazione in termini di disciplina di miglior favore per il lavoratore). Se si accettasse tale presupposto, l’interprete non sarebbe più autorizzato, nel dubbio, a interpretare il dato interno tenendo conto dei requisiti (compreso quello del mantenimento dell’identità) previsti dalla direttiva, per il semplice fatto che una disciplina nazionale che non li prevedesse sarebbe comunque compatibile con il diritto UE. Come si è detto, la giurisprudenza ha preferito non cogliere l’occasione. È stata una scelta saggia, posta la fragilità delle basi su cui la Corte di Giustizia ha fondato il proprio giudizio. Lascia perplessi, in particolare, il richiamo, contenuto nella sentenza Amatori, all’art. 8 della direttiva. È la stessa Corte (punti 34-35) ad affermare che in assenza di autonomia funzionale e di preesistenza il trasferimento «non ricadrebbe sotto la direttiva 2001/23»: ma se così è, e l’affermazione non può che essere condivisa, allora anche l’art. 8 dovrebbe trovare applicazione solo in presenza dei due requisiti contemplati dalla direttiva, e non nei casi in cui la direttiva non si applica per carenza dei requisiti stessi24. La coerente conseguenza è che la formula “disposizioni più favorevoli” per i lavoratori dovrebbe essere intesa come esclusivamente riferita alle eventuali migliori tutele per i lavoratori trasferiti (ad esempio, il mantenimento della disciplina collettiva più favorevole) e non alle discipline (del cui carattere favorevole si può dubitare) volte ad estendere la direttiva oltre il suo campo di applicazione.
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Coglie una contraddizione nel ragionamento della Corte Galardi, Ce lo chiede l’Europa»: il triste epilogo della nozione di ramo d’azienda, in NGCC, 2014, 950, secondo il quale, nella sentenza Amatori, dapprima si esclude dal campo di applicazione della direttiva il caso in cui l’entità trasferita risulti non essere funzionalmente autonoma e preesistente, per poi affermare il contrario quando vengono ricompresi nell’ambito della direttiva anche i trasferimenti privi dei suddetti requisiti in forza della clausola di favor.
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Il fatto che la Cassazione abbia deciso di mantenere fermi i propri convincimenti, non significa però che la sentenza Amatori non abbia influito sui percorsi motivazionali adottati dai giudici di legittimità. In alcune decisioni, a dire il vero, sembra emergere un atteggiamento di sostanziale elusione del problema posto dalla sentenza Amatori. È il caso delle pronunce in cui la sentenza della Corte è formalmente richiamata tra i precedenti a cui i giudici interni devono fare riferimento per praticare l’interpretazione conforme, ma manca poi qualsiasi confronto con essa25; è il caso altresì di quelle pronunce in cui la Cassazione ha ritenuto che il dubbio di conformità sollevato dal Tribunale di Trento (da cui nasce la vicenda Amatori) fosse fondato sull’errato presupposto della mancanza, nella disciplina italiana, del requisito della conservazione dell’identità del ramo ceduto26. In altre sentenze, invece, la sfida interpretativa contenuta nella sentenza Amatori è stata raccolta27. Per arrivare ad affermare la perdurante necessità di una interpretazione della disciplina interna che comprenda il requisito della conservazione dell’identità la Corte ha anzitutto ricordato che l’attuale formulazione dell’art. 2112 c.c. deriva dalle modifiche introdotte dall’art. 32, d. lgs. n. 276/2003, e che pertanto tale disposizione deve essere letta alla luce della legge delega e in particolare dell’art. 1, comma 2, lettera p) della l. n. 30/2003, ai sensi del quale la modifica della disciplina di cui all’art. 2112 c.c. doveva realizzare un «completo adeguamento della disciplina vigente alla normativa comunitaria». Da ciò, la Cassazione ha derivato la necessità di intendere l’art. 2112 c.c., comma 5, come comprendente i requisiti del mantenimento dell’identità e della preesistenza, pena il mancato rispetto della delega. A rafforzamento, viene poi ribadito il già citato argomento secondo cui il requisito della preesistenza del ramo deve essere inteso come reciprocamente integrato con quello, esplicitamente previsto, dell’autonomia funzionale. L’autonomia funzionale è rilevabile quando il ramo ceduto ha la capacità di svolgere, autonomamente dal cedente e senza integrazioni di rilievo da parte del cessionario, il servizio o la funzione cui esso risultava finalizzato già nell’ambito dell’impresa cedente anteriormente alla cessione: la conservazione dell’identità è intesa quindi come corollario necessario dell’autonomia funzionale, oltre che elemento rivelatore della stessa. Lo sforzo argomentativo prodotto induce a rafforzare l’impressione che, nella materia, non ci si debba attendere – a breve termine e salvo imprevedibili novità normative – rilevanti mutamenti degli orientamenti interpretativi: la Cassazione italiana non ha assecondato le novità (e le anomalie) della sentenza Amatori.
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Cass., 8 marzo 2016, n. 4500; Cass., 9 aprile 2015, n. 7144; Cass., 6 marzo 2015, n. 4601. Cass., 28 settembre 2015, n. 19141; Cass., 12 agosto 2014, n. 17901; Cass., 11 agosto 2014, n. 17863; Cass., 23 maggio 2014, n. 11575. Cass., 10 novembre 2016, n. 22935. 27 Cass., 31 maggio 2016, n. 11247; Cass., 20 maggio 2016, n. 10541; Cass., 19 maggio 2016, n. 10352; Cass., 18 maggio 2016, n. 10243; Cass., 11 maggio 2016, n. 9682. 26
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5. (segue) il contrasto tra la giurisprudenza della
Cassazione e la pronuncia Amatori è soltanto apparente? In aggiunta alle considerazioni sinora svolte, pare opportuno osservare come la Cassazione – al momento – non abbia fatto propria l’ipotesi ricostruttiva suggerita dalla dottrina28 che giudica soltanto apparente e frutto di fraintendimento il descritto contrasto tra la giurisprudenza della Cassazione e la pronuncia Amatori. L’Autore della tesi giunge a tale conclusione attraverso un complesso iter argomentativo che poggia, essenzialmente, sulla distinzione tra obbligo ex lege di trasferimento del rapporto alle dipendenze del cessionario e diritto del lavoratore di passare alle dipendenze dello stesso. Nell’ordinamento italiano l’obbligo viene individuato dall’Autore nell’art. 2558 c.c., norma che considera irrilevante il consenso del contraente ceduto nel solo caso di trasferimento di azienda o di ramo d’azienda ai sensi dell’art. 2555 c.c., cioè nel solo caso di trasferimento di entità economica già organizzata prima della cessione. Sempre secondo la tesi in esame, l’art. 2558 c.c. tutela in via primaria l’interesse del cedente e del cessionario al mantenimento della continuità funzionale dell’azienda, subordinando a tale interesse quello del lavoratore-contraente ceduto. Il diritto, e non l’obbligo, del lavoratore di passare alle dipendenze del cessionario discenderebbe invece dall’art. 2112 c.c., norma che troverebbe applicazione ai casi di trasferimento di entità economiche non preesistenti, ma individuate da cedente e cessionario al momento del trasferimento. In questo caso, il lavoratore non sarebbe assoggettato all’obbligo di cui all’art. 2558 c.c., ma transiterebbe alle dipendenze del cessionario solo a seguito di manifestazione del consenso ex art. 1406 c.c. L’attribuzione di tale diritto al lavoratore sarebbe da considerare quale condizione di miglior favore fatta salva dall’art. 8 della direttiva 2001/23. D’altro canto, la Corte di Giustizia ha in più occasioni stabilito essere scelta intangibile degli Stati membri attribuire o meno rilevanza al consenso/dissenso del lavoratore ceduto: e la sentenza Amatori non smentisce tale orientamento29. Come si comprende, ove fosse accolta, tale ricostruzione consentirebbe alla Corte di Cassazione di mantenere l’attuale orientamento evitando di incorrere nella critica di avere ignorato le novità provenienti dalla sentenza Amatori. I giudici di legittimità tuttavia continuano a percorrere, come si è detto, strade argomentative differenti. In effetti, accogliere la tesi proposta dalla dottrina imporrebbe di superare l’indicazione letterale proveniente dal primo comma dell’art. 2112 c.c. che, utilizzando l’indicativo (“… il rapporto di lavoro continua con il cessionario…”), induce a ritenere che il mutamento nella titolarità del rapporto sia un effetto legale della fattispecie e non il contenuto di un diritto che il lavoratore può esercitare (o non esercitare) nei confronti del cessionario. L’orientamento della Cassazione è netto nell’individuare nella norma un obbligo a carico del
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Pallini, La rilevanza del consenso del lavoratore nelle operazioni di esternalizzazione, in RGL, 2014, 427 ss. C. giust., 16 dicembre 1992, cause C-132/91 e C-138/91, Katsikas; C. giust., 24 gennaio 2002, causa C-51/00, Temco.
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Giurisprudenza
cedente e del cessionario e a ricostruire l’effetto del mutamento della titolarità del rapporto quale garanzia di carattere imperativo posta a favore del lavoratore30. Oltre alle difficoltà derivanti dalla lettera dell’art. 2112 c.c., vi sarebbero poi da superare ostacoli di tipo sistematico relativi ai rapporti tra gli artt. 2558, 2112 e 1406 c.c. Secondo la più consueta e convincente ricostruzione, l’art. 2558 c.c. è norma che regola la sorte dei rapporti giuridici inerenti all’azienda trasferita adottando il metro del comune interesse dei contraenti. L’effetto del trasferimento dei rapporti al cessionario è sottoposto alla decisione delle parti che, quindi, potrebbero ben escludere l’effetto stesso. Proprio per impedire che il trasferimento del rapporto di lavoro dipenda dalla volontà dei contraenti, l’art. 2112 c.c. impone imperativamente l’obbligo di mantenimento dei rapporti di lavoro, nel presupposto che tale obbligo rappresenti una garanzia di continuità occupazionale per i soggetti che si vogliono tutelare. I rapporti di lavoro sono dunque estranei all’art. 2558 non tanto perché rapporti in cui prevalga il carattere “personale”, ma piuttosto in quanto destinatari di una specifica disciplina di tutela di carattere imperativo. In applicazione della tesi in esame, invece, l’art. 2558 c.c. troverebbe applicazione ai rapporti di lavoro, previo accoglimento della tesi che non li considera rapporti di carattere personale, nelle sole ipotesi di trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda preesistente. Anche con riferimento ai rapporti tra art. 2112 c.c. e art. 1406 c.c. l’accoglimento della tesi in discussione imporrebbe di rimettere in discussione acquisizioni consolidate e convincenti. Se si è bene inteso, l’art. 1406 c.c. troverebbe applicazione in combinazione con l’art. 2112 c.c. nella sola ipotesi di trasferimento di ramo d’azienda non preesistente. In realtà le due disposizioni non possono trovare applicazione combinata, per la ragione che disciplinano due fattispecie differenti. L’art. 1406 c.c. trova applicazione nell’ipotesi di cessione del contratto (di lavoro nel caso specifico); l’art. 2112 c.c. non regola un’ipotesi di cessione del contratto di lavoro, ma l’ipotesi della cessione dell’azienda o del ramo d’azienda (preesistente o non preesistente che sia), imponendo l’effetto imperativo della continuazione del rapporto in capo al cessionario. La continuazione del rapporto di lavoro costituisce un effetto automatico ex lege della vicenda circolatoria e non un effetto della cessione del contratto. Marco Novella
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Cfr., di recente, Cass., 23 maggio 2017, n. 12919, la quale ribadisce come nelle ipotesi di cessione d’azienda si realizza, con riferimento alla posizione del lavoratore, una successione legale nel contratto che non richiede il consenso del contraente ceduto, il quale potrà successivamente esercitare il proprio diritto di recesso nei termini sanciti dal comma quarto dell’art. 2112 c.c.
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