2020 LABOR 3
L
ABOR Il lavoro nel diritto
issn 2531-4688
3
maggio-giugno 2020
Rivista bimestrale
D IRETTA DA Oronzo Mazzotta
www.rivistalabor.it
IN EVIDENZA I licenziamenti collettivi nel diritto UE e l’ordinamento italiano Michele De Luca
Appunti sulla crisi (della crisi?) della subordinazione Raffaele Galardi
Recensione a G. Giugni, Idee per il lavoro Cesare Pinelli
Giurisprudenza commentata Eugenia Fiorelli, Caterina Pareo, Alessia Matteoni, Silvia Magagnoli, Francesco Gadaleta
Pacini
Indici
Saggi Michele De Luca, I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano: da una remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell’Italia alla doppia pregiudizialità per il nostro regime sanzionatorio nazionale (note minime) (seconda parte).........p. 267 Raffaele Galardi, Appunti sulla crisi (della crisi?) della subordinazione............................................. » 287 Cesare Pinelli, Recensione a G. Giugni, Idee per il lavoro, a cura di Silvana Sciarra, Laterza, 2020, pp. 101............................................................................................................................................ » 311
Giurisprudenza commentata Eugenia Fiorelli, Il socio lavoratore di cooperativa, un lavoratore come tutti gli altri: in caso di illegittimità dell’esclusione e del licenziamento si applica l’art. 18 nel testo vigente all’epoca del licenziamento........................................................................................................................................... » 317 Caterina Pareo, Ai rapporti a termine convertiti dopo il 7 marzo 2015 si applicano le “tutele crescenti”?................................................................................................................................................. » 325 Alessia Matteoni, La scelta del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro........................... » 339 Silvia Magagnoli, Il licenziamento per disabilità sopravvenuta: i nuovi limiti al potere di recesso datoriale alla luce degli «accomodamenti ragionevoli».......................................................................... » 349 Francesco Gadaleta, La configurabilità della frode alla legge nel caso di stipulazione di contratti a termine in regime di a-causalità............................................................................................................. » 363
Indice analitico delle sentenze
Contratto collettivo – Applicabilità dell’art. 2070 c.c. – Esclusione – Libertà di scelta datoriale – Limiti – Art. 36 Cost. (Cass., 16 gennaio 2020, n. 810, con nota di Matteoni) Lavoro (rapporto di) – Contratto a tempo determinato – Proroghe e rinnovi per esigenze permanenti o durevoli – Frode alla legge – Sussistenza (Trib. Firenze, 26 settembre 2019, n. 724, con nota di Gadaleta) – Socio lavoratore di cooperativa – Esclusione e licenziamento – Illegittimità – Riammissione e reintegra – Natura del rinvio mobile (Cass., 15 febbraio 2020, n. 707, con nota di Fiorelli) Licenziamenti Tutele crescenti – Ambito di applicazione – Contratto a tempo determinato convertito dopo il 7 marzo 2015 – Inapplicabilità (Cass., 16 gennaio 2020, n. 823, con nota di Pareo) – Disabilità – Inidoneità fisica sopravvenuta – Obbligo di adozione di accomodamenti ragionevoli – Obbligo di repêchage – Nullità (Trib. Milano, 24 dicembre 2019, n. 2843, con nota di Magagnoli)
Indice cronologico delle sentenze Giorno
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16 16 15
Autorità 2019 Settembre Trib. Firenze, n. 724 Dicembre Trib. Milano, n. 2843 2020 Gennaio Cass., n. 810 Cass., n. 823 Febbraio Cass., n. 707
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Notizie sugli autori
Michele De Luca – già presidente di sezione titolare presso la Corte di Cassazione Eugenia Fiorelli – dottoranda di ricerca nell’Università di Pisa Francesco Gadaleta – borsista di ricerca nell’Università degli Studi di Firenze Raffaele Galardi – ricercatore nell’Università di Pisa Silvia Magagnoli – tirocinante presso il Tribunale di Milano Alessia Matteoni – collaboratrice di cattedra nell’Università di Pisa Caterina Pareo – dottoranda di ricerca nell’Università di Pisa Cesare Pinelli – professore ordinario nell’Università Roma La Sapienza
Saggi
Michele De Luca
I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano: da una remota sentenza storica della Corte di giustizia di condanna dell’Italia alla doppia pregiudizialità per il nostro regime sanzionatorio nazionale (note minime)* Sommario :
1. I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano: definizione ed impostazione del tema di indagine. – 2. Segue: fonte legale per la disciplina. – 3. Segue: nozione e procedura di intimazione del licenziamento collettivo, platea dei garantiti, regime sanzionatorio. – 4. Segue: nozione e procedura di intimazione del licenziamento collettivo. – 5. Segue: platea dei garantiti. – 6. Segue: regime sanzionatorio nel nostro ordinamento. – 7. Segue: Doppia pregiudizialità e dintorni per il nostro regime sanzionatorio nazionale. – 8. Note conclusive.
Sinossi. La disciplina giuridica dei licenziamenti collettivi – più di altri istituti giuslavoristici – deriva dal diritto dell’Unione europea. Intanto il diritto dell’Unione impone la fonte legale per la disciplina. Stabilisce, inoltre, nozione e procedura d’intimazione dei licenziamenti. Delimita,
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Seconda parte della rielaborazione della relazione presentata a Bologna il 14 febbraio 2020 nel seminario dal titolo I licenziamenti collettivi, promosso dall’Università di Bologna, dalla Scuola superiore di studi giuridici e dalla Scuola Superiore della Magistratura. La prima parte del contributo è stata pubblicata sul n. 2/2020.
Michele De Luca
infine, la platea dei garantiti, che identifica nei lavoratori subordinati. Riservato all’ordinamento nazionale, il regime sanzionatorio non può sottrarsi, tuttavia, alla osservanza di principi e disposizioni eurounitari, in quanto ad esso prevalenti. Proprio con riferimento al nostro ordinamento nazionale, quindi, risultano ora rinviate – alla Corte di giustizia – questioni pregiudiziali di coerenza del regime sanzionatorio nazionale – in materia di licenziamenti collettivi, appunto – in relazione, tra l’altro, ai principi eurounitari di uguaglianza e non discriminazione per data di assunzione o di conversione del contratto a tempo determinato. Né osta la sentenza della nostra Corte costituzionale (n. 194/2018), che – sia pure con riferimento a licenziamento individuale ed in relazione a principi costituzionali – investe la stessa indennità risarcitoria, che costituisce il regime sanzionatorio anche per i licenziamenti collettivi. La doppia pregiudizialità, infatti, risulta in linea con la posizione più recente della nostra Corte costituzionale – a partire da uno storico obiter dictum (C. cost., n. 269/2017) – né pare incompatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia. Coerentemente, viene ora investita – di questioni, sostanzialmente, non dissimili – anche la Corte costituzionale. La precedente sentenza della stessa Corte – e, segnatamente, la pronuncia di accoglimento – delimita tuttavia, alle questioni che non ne risultino pregiudicate, l’oggetto dello scrutinio, ora demandato ad entrambe le Corti. La loro (eventuale) pronuncia di accoglimento – in relazione ai principi di uguaglianza e di non discriminazione – comporterebbe, comunque, il diritto alla parificazione – al livello di maggior favore dei lavoratori avvantaggiai – per i lavoratori che risultino discriminati in dipendenza della data di assunzione o di conversione del contratto a tempo determinato. Abstract. The legal framework for collective dismissals is founded – more than on other labor law institutions – on European Union law. In first place, European framework represents the source of law, establishes notion and procedure for notifying redundancies and defines the guaranteed parties, who are identified as employed workers. On the other hand, while sanction system falls within the competence of national law, it should observe EU principles and provisions, as they prevail. According to Italian legal framework, preliminary rulings on national sanctioning system’s coherence regarding collective redundancies are referred to the Court of Justice in relation – inter alia – to the EU principles of equality and non-discrimination on hire date or fixed-term contract’s conversion. Nor shall this interpretation preclude the judgment of the Constitutional Court (ruling no. 194 / 2018), which – albeit with reference to individual dismissal and in relation to constitutional principles – concerns compensation, which constitutes the sanction for collective dismissals. The double preliminary ruling is in line with the most recent landmark case-law of the Italian Constitutional Court starting from a historical obiter dictum (Constitutional Court ruling no. 269/2017) and it does not seem incompatible with the rulings of the European Court of Justice. Therefore, the Constitutional Court is now invested with matters substantially not dissimilar. A previous ruling before the same Court – and, in particular, the judgment of acceptance – limits the object of the decision (now referred to both Courts) to the questions that are not preliminary judged. Their (possible) judgment of acceptance – in relation to the principles of “equality” and “non-discrimination” – would, however, entail the right to “equalization” – at the level of most favor – for workers discriminated as a result of hire date or fixed-term contract’s conversion. Parole
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chiave:
Licenziamenti collettivi – Doppia pregiudizialità – Principio di uguaglianza
I licenziamenti collettivi nel diritto dell’Unione europea e l’ordinamento italiano
5. Segue: platea dei garantiti Il diritto dell’Unione europea delimita – come è stato anticipato – la platea dei garantiti contro i licenziamenti collettivi, che identifica nei lavoratori subordinati investiti dagli stessi licenziamenti. Coerentemente, censura – con riferimento ad altri ordinamenti nazionali (Belgio) – l’esclusione di alcune categorie di lavoratori dipendenti (quali riparatori di navi, lavoratori portuali ed operai dell’industria edilizia). Mentre include i dirigenti – per quanto riguarda il nostro ordinamento – sulla base del principio di indisponibilità del tipo contrattuale di lavoro subordinato. 5.1. Intanto la direttiva – avendo, per quanto si è detto, lo scopo di rafforzare la tutela dei lavoratori in caso di licenziamento collettivo – all’evidenza identifica, in positivo, i destinatari della tutela – che intende garantire – nei lavoratori subordinati – che possono essere – colpiti dallo stesso licenziamento. Coerentemente, sono tutte di lavoro subordinato le tipologie contrattuali e le categorie di lavoratori che la stessa direttiva esclude esplicitamente – dal proprio campo d’applicazione – nei termini testuali seguenti: a) licenziamenti collettivi effettuati nel quadro di contratti di lavoro a tempo determinato o per un compito determinato, a meno che tali licenziamenti non avvengano prima della scadenza del termine o dell’espletamento del compito previsto nei suddetti contratti; b) dipendenti delle pubbliche amministrazioni o degli enti di diritto pubblico (o, negli Stati membri in cui tale nozione è sconosciuta, degli enti equivalenti); c) equipaggi di navi marittime. Agevole risulta, quindi, la conclusione alla quale perviene la Corte di giustizia, laddove46 – con riferimento all’ordinamento nazionale belga – censura l’esclusione, dalla tutela contro i licenziamenti collettivi, di categorie di lavoratori subordinati (riparatori di navi, lavoratori portuali ed operai dell’industria edilizia) – all’evidenza – affatto diverse da quelle che, per quanto si è detto, risultano esplicitamente escluse dal campo d’applicazione della direttiva. 5.2. L’inclusione, tra i garantiti, dei dirigenti – per quanto riguarda il nostro ordinamento – riposa47, poi, sul principio di indisponibilità del tipo contrattuale che, all’evidenza, integra il criterio distintivo del lavoro subordinato48.
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C. giust., 28 marzo 1985, causa C-215/83, cit. Vedi C. giust., 13 febbraio 2014, causa C-596/12. (in FI, 2014, IV, 193, con nota di richiami di Perrino; in LG, 2014, 233, con nota di Miscione; in MGL, 2014, 137, con nota di Della Rocca; in GI, 2014, 1154, con nota di Tosi; in Nuovo notiziario giuridico, 2014, 249, con nota di Fracchia; in CG, 2014, 1053, con nota di Di Garbo; in RGL, 2014, II, 581, con nota di Carbone; in RIDL, 2015, II, 366, con nota di Donini; in DML, 2014, 483, con nota di Caloja), che risulta così massimata: «La repubblica italiana, avendo escluso, mediante l’art. 4, par. 9, l. 23 luglio 1991 n. 223, la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura prevista dall’art. 2 direttiva 98/59/Ce del consiglio del 20 luglio 1998 in tema di licenziamenti collettivi, è venuta meno agli obblighi su di essa incombenti in forza dell’art. 1, par. 1 e 2, di tale direttiva». 48 Analogamente a quanto stabilito – con riferimento, tuttavia, alla nozione di licenziamento – da C. giust., 12 ottobre 2004, causa C-55/02, Commissione/Portogallo, in FI, 2004, IV, 606, con nota di Cosio, esplicitamente richiamata, spec. punto 49, laddove si legge: 47
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Pertanto l’efficacia diretta dello stesso principio costituisce, bensì, il fondamento giuridico dell’inclusione – tra i destinatari delle garanzie contro i licenziamenti collettivi – dei dirigenti, che ne erano esclusi nel nostro ordinamento49. Rappresenta, tuttavia, il criterio selettivo dei lavoratori, subordinati appunto, che risultano parimenti garantiti. Coerentemente, il rapporto di lavoro obiettivamente subordinato – del quale costituisce elemento essenziale la subordinazione, appunto, quale soggezione del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento, non già al risultato, delle prestazioni lavorative50 – identifica, in ogni caso, i lavoratori subordinati che risultano garantiti, appunto contro il licenziamento collettivo. La efficacia diretta dello stesso principio non ha esonerato dalla conformazione del nostro ordinamento51. 5.3. Una qualche timidezza (per dirla con un eufemismo), tuttavia, sembra connotare, anche in questo caso, l’applicazione – da parte dei nostri giudici comuni – del principio giurisprudenziale – eurounitario ed, insieme, costituzionale – di indisponibilità del tipo contrattuale di lavoro subordinato52. Pur riposando su tale principio, la sostanziale estensione, ai dirigenti, della disciplina in materia di licenziamenti collettivi – stabilita dalla Corte di giustizia53 – risulta dalla Corte
«49. - Pertanto, la nozione di «licenziamento», di cui all’art. 1, n. 1, lett. a), della direttiva, non può essere definita mediante un rinvio alle legislazioni degli Stati membri, bensì possiede una dimensione comunitaria». 49 Vedi C. giust., 13 febbraio 2014, causa C-596/12, cit. 50 Vedi De Luca, Rapporto di lavoro subordinato: tra indisponibilità del tipo contrattuale, problemi di qualificazione giuridica e nuove sfide della economia postindustriale, in RIDL, 2014, 3, I, 397 ss. 51 Vedi l’art. 16, intitolato, appunto, “Modifiche all’articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di licenziamenti collettivi. Procedura di infrazione n. 2007/4652. Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 13 febbraio 2014 nella causa C-596/12”, della legge 30 ottobre 2014, n. 161, Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (legge europea 2013-bis), che sancisce testualmente: «1. All’articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 1, primo periodo, dopo le parole: «più di quindici dipendenti» sono inserite le seguenti: «, compresi i dirigenti,»; b) dopo il comma 1-quater è inserito il seguente: «1-quinquies. Nel caso in cui l’impresa o il datore di lavoro non imprenditore, ricorrendo le condizioni di cui al comma 1, intenda procedere al licenziamento di uno o più dirigenti, trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 4, commi 2, 3, con esclusione dell’ultimo periodo, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11, 12, 14, 15 e 15-bis, e all’articolo 5, commi 1, 2 e 3, primo e quarto periodo. All’esame di cui all’articolo 4, commi 5 e 7, relativo ai dirigenti eccedenti, si procede in appositi incontri. Quando risulta accertata la violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, l’impresa o il datore di lavoro non imprenditore è tenuto al pagamento in favore del dirigente di un’indennità in misura compresa tra dodici e ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravità della violazione, fatte salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennità contenute nei contratti e negli accordi collettivi applicati al rapporto di lavoro»; c) al comma 2, le parole: «commi 1 e 1-bis» sono sostituite dalle seguenti: «commi 1, 1-bis». 52 Sul principio giurisprudenziale – eurounitario e costituzionale – di indisponibilità del tipo contrattuale di lavoro subordinato, vedi: De Luca, Rapporto di lavoro subordinato: tra indisponibilità, cit.; Id., Subordinazione e autonomia dopo il recente riordino delle tipologie; in GI, 2016, I, 741; Id., Legge sul lavoro agile: uno sguardo dal ponte sul sistema di tipologie contrattuali del lavoro dopo il recente riordino, in VTDL, 2018, 2, 547 ss., spec. §3. 53 Vedi C. giust., 13 febbraio 2014; causa C-596/12; Commissione c. Italia, cit. – laddove “dichiarare che, avendo escluso, mediante l’articolo 4, paragrafo 9, della legge n. 223/1991, la categoria dei ‘dirigenti’ dall’ambito di applicazione della procedura prevista dall’articolo 2 della direttiva 98/59, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 1, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva” – essenzialmente sulla base del rilievo (punto 17) che “la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un altro soggetto e sotto la direzione di quest’ultimo, prestazioni in contropartita delle quali percepisce una retribuzione (v., per analogia, sentenza dell’11 novembre 2010,
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cassazione 54 rinviata, alla data di entrata in vigore della legge attuativa della sentenza55, sebbene quel principio abbia efficacia diretta56. Alla stessa conclusione si perviene, tuttavia, in dipendenza della efficacia diretta57 della ricordata sentenza della Corte di giustizia, sebbene non sia dotata (di efficacia diretta, appunto, nei rapporti tra privati) la norma di direttiva (articolo 2 della direttiva 98/59, cit.), che ne risulta interpretata.
6. Segue: regime sanzionatorio nel nostro ordinamento. Riservato all’ordinamento nazionale – come è stato anticipato – il regime sanzionatorio, per i licenziamenti collettivi appunto, non può sottrarsi, tuttavia, alla osservanza di principi e disposizioni eurounitari, in quanto – rispetto ad esso – prevalenti. Proprio con riferimento al nostro regime sanzionatorio nazionale, infatti, risultano rinviate – alla Corte di giustizia – questioni pregiudiziali di coerenza con principi eurounitari. Né risulta d’ostacolo la sentenza della nostra Corte costituzionale58, che – con riferimento alla medesima disposizione – reca una pronuncia di accoglimento insieme a pronunce di rigetto e di inammissibilità. La doppia pregiudizialità – costituzionale, appunto, ed eurounitaria – risulta coerente, infatti, con la posizione, di recente, assunta dalla nostra Corte costituzionale – a partire da uno storico obiter dictum – né pare incompatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia. Tuttavia è la normativa di risulta – all’esito della pronuncia di accoglimento della nostra Corte costituzionale – a risultare investita dalla questione pregiudiziale, come della
Danosa, C232/09, Racc. pag. I-11405, punto 39 e la giurisprudenza ivi citata)”. Vedi Cass., 8 marzo 2018, n. 5513, che ha rigettato il ricorso e confermato, sostanzialmente, la sentenza impugnata, che aveva limitato l’estensione della disciplina dei licenziamenti collettivi ai dirigenti solo a far tempo dalla entrata in vigore della legge 30 ottobre 2014, n. 161 (art. 16), che ha dato attuazione alla sentenza della Corte di giustizia. Vedi, tuttavia, Trib. Roma, 2 aprile 2020, n. 5717, che pronuncia su domanda diretta ad ottenere – in alternativa all’applicazione diretta della estensione ai dirigenti della disciplina sui licenziamenti – la condanna dell’Italia al risarcimento del danno derivante dall’inadempimento, che ne consegue, agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea (ai sensi dell’articolo 258 TUFUE). 55 Vedi l’articolo 16 – intitolato, appunto, “Modifiche all’articolo 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, in materia di licenziamenti collettivi. Procedura di infrazione n. 2007/4652. Sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 13 febbraio 2014 nella causa C-596/12” – della legge 30 ottobre 2014, n. 161, Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea (legge europea 2013-bis), cit. 56 Sulla efficacia diretta del principio giurisprudenziale eurounitario di indisponibilità del tipo contrattuale di lavoro subordinato, vedi De Luca, Rapporto di lavoro subordinato: tra indisponibilità, cit., spec. § 1.4.; Id., Il lavoro nel diritto comunitario (ora eurounitario) e l’ordinamento italiano: (più di) trent’anni dopo, in RDSS, 2018, 387 (e spec. § 4.4.); Brusati, Gragnoli (a cura di), Il lavoro nel diritto comunitario (ora eurounitario) e l’ordinamento italiano: «più di) trent’anni dopo, seminario dedicato a Michele De Luca in occasione dei suoi 80 anni, in Quaderni di Argomenti di diritto del lavoro, n. 16, La Tribuna, 2020, 69 ss. 57 Sulla efficacia delle interpretazioni della Corte di giustizia – in sede di rinvio pregiudiziale o, come nella specie, di procedura di infrazione – vedi De Luca, op. loc. ult. cit. 58 C. cost., n. 194/2018, cit. 54
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riproposta – parimenti in coerenza della doppia pregiudizialità – questione di legittimità costituzionale. La parificazione al livello più elevato – va, parimenti, anticipato – costituisce l’esito delle (eventuali) pronunce di accoglimento – in relazione ai principi, eurounitario e costituzionale rispettivamente, di uguaglianza e non discriminazione – di ciascuna delle due Corti. 6.1. “In materia di licenziamenti collettivi, occorre distinguere tra l’ipotesi della violazione delle procedure e quella della violazione dei criteri di scelta: nel primo caso, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva; nel secondo caso, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro”59. Non saprei sintetizzare meglio lo stato dell’arte60 alla data dell’entrata in vigore della disposizione, ora vigente, nella stessa materia61. Con riferimento al licenziamento collettivo, appunto, ne risulta infatti stabilito: «In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, si applica il regime di cui all’articolo 3, comma 1». Anche in questo caso, pertanto, deve trovare applicazione – in forza dell’esplicito rinvio – la stessa indennità risarcitoria – da licenziamento illegittimo62 – calcolata, tuttavia, in base a criterio alternativo rispetto a quello automatico, dichiarato costituzionalmente illegittimo63. Di conseguenza, la reintegrazione nel posto di lavoro viene esclusa non solo per la violazione delle procedure, come in passato, ma anche per l’ipotesi della violazione dei criteri di scelta. 6.2. La reformatio in peius – che ne risulta – riguarda, tuttavia, soltanto i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – a decorrere dalla data (6 marzo 2015) di entrata in vigore del decreto legislativo64 – e nei casi di conversione,
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Così, testualmente, risulta massimata Cass., 13 giugno 2016, n. 12095, in coerenza con la giurisprudenza consolidata. Quale risulta dall’art. 5, comma 3, della l. n. 223 del 1991, cit., come sostituito dall’art. 1, comma 46, della l. n. 92 del 2012 (c.d. Legge Fornero). 61 Articolo 10, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183. 62 Prevista dall’articolo 3, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 23 del 2015, cit., che sancisce testualmente: «1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità». 63 Dopo la sentenza della Corte costituzionale n.194 del 2018, infatti, la disposizione – che ne risulta investita (articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n. 23 del 2015, cit., appunto) – si legge nei termini testuali seguenti: «1. Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale (……)per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità». 64 Cioè (ai sensi dell’art. 12) dal giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (n. 54 del 6 marzo 2015). 60
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successiva alla stessa data, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato65. La efficacia ex tunc della conversione giudiziale, tuttavia, ha indotto una sentenza recente66 alla interpretazione costituzionalmente orientata – “al fine di ascrivere alla disposizione in discorso un significato né pleonastico, né tanto meno irrilevante nella sua portata precettiva” – per “individuare quelle ipotesi di contratti a termine stipulati prima dell’entrata in vigore del dig. 23/2015 che si convertano in contratti a tempo indeterminato dopo tale data, in una corretta equiparazione alle nuove assunzioni non lesiva del principio di parità di trattamento”: – da un lato, nella “conversione volontaria (...), per effetto di una manifestazione di volontà delle parti successiva all’entrata in vigore del decreto, con effetto novativo” – dall’altro, “ipotesi di conversione giudiziale di contratti a termine stipulati anteriormente al d.Ig. 23/2015 ma che producano i loro effetti di conversione dopo la sua entrata in vigore, perché successivo è il vizio che li colpisce”67. Palese risulta, comunque, la diversità di trattamento – in dipendenza esclusiva della data di assunzione a tempo indeterminato, appunto, oppure della conversione di contratto a termine – tra lavoratori non solo dipendenti dallo stesso datore, ma anche assoggettati alla stessa procedura di licenziamento collettivo. 6.3. Con riferimento a licenziamento individuale, la stessa indennità risarcitoria è stata investita da pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale ed – insieme alla diversità di trattamento prospettata – anche da pronunce di rigetto e di inammissibilità della stessa Corte68. Con la riproposizione di questione di legittimità costituzionale, viene ora proposta – in coerenza con il principio di doppia pregiudizialità, accolto dalla nostra Corte costituzione,
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Così delimitato risulta – in coerenza con la delega (art. 1, comma 7, legge 10 dicembre 2014, n. 183) – il campo d’applicazione del decreto legislativo n. 23 del 2015, cit. (art. 1, commi 1 e 2). 66 Vedi Cass., 16 gennaio 2020, n. 823. 67 Quali: «a) la continuazione del rapporto di lavoro oltre trenta giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a sei mesi) ovvero oltre cinquanta giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi dell’art. 5, secondo comma d.lg. 368/2001 (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1058, in riferimento al previgente termine di venti, anziché di trenta giorni), qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015 (da essa considerandosi “il contratto ... a tempo indeterminato”); b) la riassunzione entro dieci giorni dalla scadenza del primo contratto a termine (qualora di durata inferiore a sei mesi) ovvero entro venti giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi dell’art. 5, terzo comma d.Ig. 368/2001, qualora il secondo contratto (che “si considera a tempo indeterminato”) sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015; c) il superamento “per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti” nel “rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore ... complessivamente” dei “trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro”, sicché “i/ rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato” (art. 5, comma 4bis), qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015 (Cass. s.u. 31 maggio 2016, n. 11374, p.ti da 54 a 59 in motivazione, ad illustrazione delle suddette ipotesi ed in particolare di quest’ultima, debitamente differenziata, proprio in merito alla diversa decorrenza rispetto a quella di successione di contratti a termine senza soluzione di continuità, prevista dall’art. 5, quarto comma d.Ig. 368/2001, per escluderne il contrasto con la clausola n. 5 dell’Accordo Quadro, recepito nella Direttiva n. 1999/70/CE)». 68 Vedine la sentenza 194/18, cit.
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ma non incompatibile con la giurisprudenza della Corte di giustizia – rinvio pregiudiziale alla stessa Corte di giustizia. 6.4. Ora la pronuncia di accoglimento della Corte costituzionale comporta la cessazione di efficacia e la non applicazione, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, della disposizione – che ne risulta investita69 – “limitatamente alle parole di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”. 6.5. La cessazione di efficacia e la non applicazione è imitata, quindi, al criterio di calcolo – commisurato, esclusivamente, alla anzianità di servizio – della indennità risarcitoria, così qualificata dalla stessa Corte costituzionale. Le contestuali pronunce di rigetto hanno efficacia giuridica esclusivamente processuali – soltanto nei confronti del giudice a quo – e quelle di inammissibilità precludono qualsiasi scrutinio nel merito, circa la fondatezza delle proposte questioni di legittimità costituzionale. 6.6. Ora dalla pronuncia di accoglimento restano, all’evidenza, impregiudicate – non solo tutte le questioni, che attengono alla prospettata diversità di trattamento, ma anche – le questioni che – in relazione alla indennità risarcitoria – riguardano il limite massimo (pari a trentasei mesi della retribuzione di fatto) e l’esonero dai contributi previdenziali. 6.7. In relazione alla adeguatezza dell’indennità risarcitoria – sotto i profili ora prospettati (limite massimo dell’indennità ed esonero dalla contribuzione previdenziale), oltre che per la esclusione della concorrente reintegrazione nel posto di lavoro – il principio della tutela in caso di licenziamento ingiustificato dettato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 30) – nell’ambito di applicazione, tuttavia70, di fonti euro unitarie diverse dalla Carta71 – risulta di sicuro rilievo, specie se letto – in coerenza con le Spiegazioni ad esso relative – alla luce della Carta sociale europea (art. 24)72. 6.8. In relazione alla diversità di trattamento, poi, il principio costituzionale di uguaglianza (art.3) – anche sotto il profilo della ragionevolezza – e quelli di uguaglianza dinanzi alla legge e di non discriminazione dettati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 20 e 21) – nell’ambito d’applicazione, tuttavia73, di fonti euro
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Art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, cit. Come stabilito dalla giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia. 71 Quali le direttive LC, parità di condizioni di lavoro, non discriminazione lavoratori a tempo determinato (art. 4). 72 Art. 24 carta sociale europea e comitato europeo dei diritti sociali. 73 Come stabilito dalla giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia. Con riferimento al regime sanzionatorio per licenziamento individuale (art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, cit.), infatti, nella precedente sentenza della Corte costituzionale (n. 194 del 2018, cit.), si legge: “A norma dell’art. 51 CDFUE, «[l]e disposizioni della presente Carta si applicano […] agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (comma 1, primo periodo). Sulla base di tale disposizione, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha costantemente asserito che le disposizioni della CDFUE sono applicabili agli Stati membri «quando agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione» (ex plurimis, Grande sezione, sentenza 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åklagaren contro Hans Åkerberg Fransson e, più recentemente, Ottava sezione, ordinanza 26 ottobre 2017, causa C-333/17, Caixa Económica Montepio Geral contro Carlos Samuel Pimenta Marinh e altri). Questa Corte ha perciò affermato che, «perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna “sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni 70
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unitarie diverse dalla Carta74 – possono essere scrutinati sotto il profilo della effettività della perseguita promozione di nuove assunzioni – profilo, all’evidenza, non precluso dalla pronuncia di rigetto della Corte costituzionale – sia dalla stessa Corte, sebbene ne resti problematico un overrulling75, sia dalla Corte di giustizia.
addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto” (sentenza n. 80 del 2011)» (sentenza n. 63 del 2016, punto 7. del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 111 del 2017 e ordinanza n. 138 del 2011). Nessun elemento consente di ritenere che la censurata disciplina dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 sia stata adottata in attuazione del diritto dell’Unione, in particolare, per attuare disposizioni nella materia dei licenziamenti individuali. Più nel dettaglio, ai fini dell’applicabilità della CDFUE, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 dovrebbe rientrare nell’ambito di applicazione di una norma del diritto dell’Unione diversa da quelle della Carta stessa (ex plurimis, Corte di giustizia, terza sezione, sentenza 1° dicembre 2016, causa C-395/15, Mohamed Daouidi contro Bootes Plus SL e altri, punto 64; ottava sezione, ordinanze 8 dicembre 2016, causa C-27/16, Angel Marinkov contro Predsedatel na Darzhavna agentsia za balgarite v chuzhbina, punto 49, e 16 gennaio 2014, causa C-332/13, Ferenc Weigl contro Nemzeti Innovációs Hivatal, punto 14; terza sezione, ordinanza 12 luglio 2012, causa C-466/11, Gennaro Currà e altri contro Bundesrepublik Deutschland, punto 26). Il solo fatto che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 ricada in un settore nel quale l’Unione è competente ai sensi dell’art. 153, paragrafo 2, lettera d), del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) non può comportare l’applicabilità della Carta dato che, riguardo alla disciplina dei licenziamenti individuali (e, tanto meno, nella situazione specificamente regolata dall’art. 3, comma 1), l’Unione non ha in concreto esercitato tale competenza, né ha adottato, mediante direttive, prescrizioni minime (ex plurimis, Corte di giustizia, decima sezione, sentenza 5 febbraio 2015, causa C-117/14, Grima Janet Nisttahuz Poclava contro Jose María Ariza Toledano, punto 41; quinta sezione, sentenza 10 luglio 2014, causa C-198/13, Víctor Manuel Julian Hernández e altri contro Regno di Spagna e altri, punti 36 e 46; settima sezione, ordinanza 16 gennaio 2008, causa C-361/07, Olivier Polier contro Najar EURL, punto 13). Contrariamente a quanto mostra di reputare la difesa della parte costituita, non si può ritenere che la normativa censurata sia stata adottata in attuazione della direttiva 20 luglio 1998, n. 98/59/CE (Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi), poiché, come è chiaro, l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 disciplina i licenziamenti individuali. Al fine di sostenere la sussistenza, nelle disposizioni denunciate, di una «fattispecie europea», la parte costituita ha argomentato – in verità, in modo assai generico − che esse ricadrebbero nell’ambito della politica dell’occupazione dell’Unione e, in particolare, nell’ambito delle misure adottate in risposta alle raccomandazioni del Consiglio. Tali raccomandazioni, previste dall’art. 148, paragrafo 4, TFUE all’esito dell’esame annuale svolto dalle istituzioni europee circa la situazione dell’occupazione nell’Unione, rientrano nella discrezionalità del Consiglio e sono prive di forza vincolante. Non vi sono dunque disposizioni del diritto dell’Unione che impongano specifici obblighi agli Stati membri – né all’Italia in particolare − nella materia disciplinata dal censurato art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015”. 74 Quali nella specie – con riferimento a regime sanzionatorio per licenziamento collettivo (art. 10, in relazione all’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, cit.), investito ora da doppia pregiudizialità anche sotto il profilo dei principi di uguaglianza e non discriminazione – le direttive in materia di licenziamenti collettivi (successione nel tempo di: Direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi, Direttiva 92/56/CEE del Consiglio, del 24 giugno del 1992, di modifica della Direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975; Direttiva 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, codificazione della direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, cit.), di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, del Consiglio, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro indipendentemente dalla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, cd. Direttiva quadro, e di lavoro a tempo determinato (direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999 relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, spec. articolo 4, in tema di non discriminazione dei lavoratori a tempo determinato, appunto). 75 Vedi De Luca, La tutela contro il licenziamento nel contratto a tutele crescenti, dopo l’intervento della Corte costituzionale: alla ricerca del giusto risarcimento quando risulta esclusa la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro, cit., spec. § 5.3, 5.4, 5.5., laddove si legge: «La doppia pronuncia sembra avere finora riguardato, a quanto consta, soltanto pronunce interpretative della Corte costituzionale: alla pronuncia di rigetto. Infatti, talora è seguita – in dipendenza della mancata conformazione dei giudici comuni – la pronuncia di accoglimento, parimenti interpretativa». Sulla doppia pronuncia, vedi Zagrebelsky, Marcenò, Giustizia costituzionale, Il Mulino, 2012, 382 ss., al quale si rinvia per riferimenti ulteriori.
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6.9. La parificazione al livello più elevato – all’esito dell’eventuale accoglimento delle questiono attinenti a disuguaglianza e discriminazione della diversità di trattamento prospettata – fonda l’interesse alla pronuncia dei lavoratori, che ne risultino pregiudicati, fugando il rischio – talora strumentalmente paventato – di parificazione al livello più basso, mediante l’applicazione della reformatio in peius a tutti i lavoratori. Valga, tuttavia, il vero.
7.Segue: Doppia pregiudizialità e dintorni per il nostro regime sanzionatorio nazionale.
7.1. In principio, è la doppia pregiudizialità, che – per il caso in cui il giudice comune nutra contemporaneamente un dubbio che legittimi il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e la rimessione alla Corte costituzionale di una questione di costituzionalità – risulta inizialmente enunciata, dalla Corte costituzionale76, in uno storico obiter dictum del tenore testuale seguente: «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta
Quanto, poi, alla questione dell’eccesso di delega (parimenti sollevata da App. Napoli, 18 settembre 2019, in relazione all’articolo 76 cost.) – non scrutinata dalla Corte costituzionale (nella sentenza 194/2018) – pare agevole osservare come il regime sanzionatorio per i licenziamenti collettivi (di cui al combinato disposto degli art. 3 e 10 d.lgs. n. 23 del 2015, cit.): – da un lato, «risulta coerente, con i principi direttivi della legge delega, laddove (comma 7, lettera c, dell’articolo 1, cit.) non solo accoglie la regola della tutela indennitaria, ma esplicitamente esclude, altresì, la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro per i licenziamenti economici, tra i quali rientrano, appunto, anche i licenziamenti collettivi»; – dall’altro, sul piano sistematico, è ben vero che «i licenziamenti collettivi risultano costantemente esclusi, nel nostro ordinamento, dal campo d’applicazione della disciplina dei licenziamenti individuali”, mentre “il sistema sanzionatorio – per il licenziamento collettivo illegittimo – risulta, (tuttavia), mutuato da sempre, come nella specie, dalla disciplina del licenziamento individuale». Sul punto, vedi De Luca, Contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti e nuovo sistema sanzionatorio contro i licenziamenti illegittimi: tra legge delega e lecce delegata, in LG, 2015, 545. 76 Vedi C. cost., 14 febbraio 2017, n. 269 (In FI, 2018, I, 26 e 405 con nota di Scoditti. Commentata da: Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), ed altre numerose note a margine della stessa C. cost., n. 269/2017 v. in Consulta on line, 2017; Delli Priscoli, in GP, 2017, I, 321, Scaccia, Repetto, Fedele, in GCost, 2017, 2925; Ferrara, in. Riv. giur. trib., 2018, 105; Miscali, in Corr. trib., 2018, 684; De Luca, Il lavoro il lavoro, appunto, nel diritto comunitario (ora eurounitario) e l’ordinamento italiano: più di) trent’anni dopo, cit., spec. § 3.1.; Romboli, Caro Antonio ti scrivo (così mi distraggo un po’). In dialogo con il Ruggeripensiero sul tema della “doppia pregiudizialità”, in Consulta online, 25 novembre 2019; Ruggeri, Caro Roberto, provo a risponderti sulla “doppia pregiudizialità” (così mi distraggo un po’ anch’io…), ivi, 9 dicembre 2019; Tega, Il superamento del modello Granital. Le questioni in materia di diritti fondamentali tra incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale, ivi, 27 gennaio 2020. Alle ultime tre pubblicazioni si rinvia per riferimenti ulteriori. Adde: Amalfitano, Il rapporto tra rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e rimessione alla Consulta e tra disapplicazione e rimessione alla luce della giurisprudenza comunitaria e costituzionale, in Rivista AIC, n. 1/2020 del 18 febbraio 2020, 796 ss. All’evidenza, si tratta di un obiter dictum, in quanto non ne risulta integrata la ratio decidendi della declaratoria che «sono inammissibili, per difetto di motivazione in ordine alla rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, 7° comma ter e 7° comma quater, l. 10 ottobre 1990 n. 287, aggiunti dall’art. 5 bis, 1° comma, d.l. 24 gennaio 2012 n. 1, conv., con modifiche, dalla l. 24 marzo 2012 n. 27, nella parte in cui prevede, al fine di assicurare il funzionamento dell’Agcm, l’applicazione di contributi a carico dei soli imprenditori con fatturato superiore a cinquanta milioni di euro, con un limite massimo per tale contributo, non superiore a cento volte la misura minima, in riferimento agli art. 3 e 53, 1° e 2° comma, cost.».
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dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, (deve) essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE». Tuttavia è una successiva sentenza della Corte costituzionale77 a dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale della legge di autorizzazione alla ratifica del trattato di Lisbona (legge n. 130 del 2008, art. 2) – in relazione al principio di legalità in materia penale (art. 25 Cost.) – risultando esclusa l’applicabilità della norma del trattato (art. 325 cit.) – sebbene dotata di efficacia diretta, come dichiarato sin dalla sentenza Taricco 1 – non solo a fatti anteriori all’8 settembre 2015 (data della sentenza Taricco 1), ma anche quando il giudice nazionale ne ravvisi, appunto, contrasto con lo stesso principio di legalità in materia penale. 7.2. Il rischio paventato78 – di inversione dell’assetto, risalente alle remote sentenze Simmenthal e Granital79, del rapporto tra ordinamento comunitario (ora eurounitario) e ordinamento nazionale80 – pare, tuttavia, escluso da sentenze sopravvenute della stessa
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Vedi C. cost., 31 maggio 2018, n. 115 che «dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130 (Ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea e alcuni atti connessi, con atto finale, protocolli e dichiarazioni, fatto a Lisbona il 13 dicembre 2007), sollevate dalla Corte di cassazione, in riferimento agli artt. 3, 11, 24, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, e dalla Corte d’appello di Milano, in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., con le ordinanze indicate in epigrafe». In relazione alla stessa sentenza, sono tati diffusi dalla Corte costituzionale ben due comunicati-stampa: uno alla data della decisione in camera di consiglio (10 aprile 2018) – volto ad anticipare l’informazione circa la decisione adottata (in coerenza con la prassi costante, per le sentenze di maggiore rilievo) – e l’altro, affatto inusuale (a quanto consta), coevo al deposito della sentenza (31 maggio 2018), che sembra oscillare, nella sostanza, tra una sorta di interpretazione autentica della sentenza e l’integrazione della sua motivazione. Sulla stessa sentenza n. 115 del 2018, vedi: Amalfitano, Pollicino, Jusqu’ici tout va bien… ma non sino alla fine della storia. Luci, ombre ed atterraggio della sentenza n. 115/2018 della Corte costituzionale che chiude (?) la saga Taricco, in Diritti comparati, 5 giugno 2018; Cupelli, La Corte costituzionale chiude il caso Taricco e apre a un diritto penale europeo certo, in Dir. Pen. Cont., 4 giugno 2018; Faraguta, Roma locuta, Taricco finita, in Diritti Comparati, 5 giugno 2018. Da ultimo vedi, altresì, Ruggeri, Taricco, amaro finale di partita, in Consulta online del 3 settembre 2018, al quale parimenti si rinvia per riferimenti ulteriori. 78 Vedi, da ultimo, Tega, Il superamento del modello Granital. Le questioni in materia di diritti fondamentali tra incidente di costituzionalità e rinvio pregiudiziale, cit. Vedi, altresì, Padula, Uno sviluppo nella saga della “doppia pregiudiziale”? Requisiti di residenza prolungata, edilizia residenziale pubblica e possibilità di disapplicazione della legge, in Consulta online, Studi, 2020, I, 173, 1° aprile 2020, Commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 44 del 9 marzo 2020, che perviene (punto 3.3) alle conclusioni seguenti: «3.3. – In conclusione, l’art. 22, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 16 del 2016, nella parte in cui fissa il requisito della residenza (o dell’occupazione) ultraquinquennale in regione come condizione di accesso al beneficio dell’alloggio di edilizia residenziale pubblica, contrasta sia con i principi di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, primo comma, Cost., perché produce una irragionevole disparità di trattamento a danno di chi, cittadino o straniero, non ne sia in possesso, sia con il principio di eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma, Cost., perché tale requisito contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica. 4. – A seguito dell’accoglimento della prima censura, le questioni poste con riferimento all’art. 10, terzo comma, e all’art. 117, primo comma, Cost. restano assorbite, unitamente alle relative eccezioni di inammissibilità». E «dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 22, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 8 luglio 2016, n. 16 (Disciplina regionale dei servizi abitativi), limitatamente alle parole «per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda». La doppia pregiudizialità risulta, all’evidenza, supposta dalla pronuncia di assorbimento, ancorché riferita a disposizione eurounitaria (articolo 11, par. 1, della dir. 2003/109/CE del 25 novembre 2003 relativa allo status dei cittadini di paesi terzi) quale fonte interposta (in relazione all’art. 117, primo comma, Cost.). 79 Si tratta delle remote sentenze Simmenthal e Granital: C. giust., 9 marzo 1978, C-106/77, e, rispettivamente, C. cost., 8 giugno 1984, n. 170. 80 Lucidamente sintetizzato dalla la sentenza Granital della nostra Corte costituzionale (n. 170 dell’8 giugno 1984), che – dopo avere sottolineato l’intervenuta convergenza con la Corte di giustizia – così prosegue:
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Corte costituzionale81. Ne risulta stabilito, infatti, che – nel contrasto di disposizione interna con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) e con la nostra costituzione – resta “fermo (….) il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”82. Tanto basta per escludere la paventata centralizzazione – in testa alla nostra Corte costituzionale – del controllo sul contrasto di disposizioni interne con norme della Carta dotate di efficacia diretta. Il potere del giudice comune di non applicarle nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame – previo rinvio pregiudiziale (eventuale) alla Corte di giustizia – risulta coerente con l’assetto, risalente alle remote sentenze Simmenthal e Granital, del rapporto tra ordinamento comunitario (ora euro unitario) e diritto interno. Infatti la efficacia diretta comporta l’applicazione delle norme comunitarie (ora eurounitarie) – che ne siano dotate – in luogo delle norme interne confliggenti. Vi provvedono, quindi, i giudici comuni. Ne risulta superata, di conseguenza, la pregressa necessità – imposta, in un remoto passato, dalla nostra Corte costituzionale, in contrasto della Corte di giustizia – di sollevare, in tal caso, questione di legittimità costituzionale (in relazione all’art. 11 cost.). Non può essere trascurato, peraltro, che l’incompatibilità della legislazione nazionale con disposizioni comunitarie (ed, ora, eurounitarie) – ancorché direttamente efficaci e, come tali, da applicare al caso concreto in luogo delle norme interne confliggenti – può essere soppressa, definitivamente, solo tramite disposizioni interne che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle incompatibili, appunto, con il diritto comunitario. E la trasgressione (eventuale) dell’obbligo di conformazione relativo – derivante dalla appartenenza alla Comunità (ed, ora, all’Unione) europea – comporta la soggezione dello stato membro inadempiente alla procedura di infrazione83.
«Detto Collegio considera, é vero, la fonte normativa della Comunità e quella del singolo Stato come integrate in un solo sistema, e quindi muove da diverse premesse, rispetto a quelle accolte nella giurisprudenza di questa Corte. Quel che importa, però, é che col giudice comunitario si possa convenire nel senso che alla normativa derivante dal Trattato, e del tipo qui considerato, va assicurata diretta ed ininterrotta efficacia: e basta questo per concordare sul principio secondo cui il regolamento comunitario é sempre e subito applicato dal giudice italiano, pur in presenza di confliggenti disposizioni della legge interna». La sentenza Simmenthal della Corte di giustizia (9 marzo 1978, in causa 108), infatti, stabilisce testualmente (punto 17): «(…) in forza del principio della preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti col diritto interno degli stati membri, non solo di rendere “ipso iure” inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale preesistente, ma anche – in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli stati membri – di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie». 81 C. cost., 21 febbraio 2019, n. 20 (commentata, a prima lettura, da Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronuncia in chiaroscuro, in Consulta online, Studi, 2019/I, 113); C. cost., 21 marzo 2019, n. 63. 82 Così, testualmente, C. cost., 21 marzo 2019, n. 63 ed, in sostanziale conformità, la n. 20 del 21 febbraio 2019. 83 Lo stabilisce la Corte di giustizia – sin da remota sentenza (15 ottobre 1986, in causa C-168/85, cit.) – laddove si legge: «La facoltà degli
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Ne risulta, infatti, che l’applicazione di norme dotate di efficacia diretta – all’evidenza, casistica – si coniuga con la conformazione definitiva dell’ordinamento interno a quello comunitario (ed, ora, eurounitario). 7.3. La conclusione raggiunta dalla nostra Corte costituzionale – in punto di doppia pregiudizialità – non sembra discostarsi dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Ne risulta stabilito84, infatti, che «l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa e l’effetto utile dell’articolo 267 TFUE risulterebbe sminuito se, a motivo dell’esistenza di un procedimento di controllo di costituzionalità, al giudice nazionale fosse impedito di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte e di dare immediatamente al diritto dell’Unione un’applicazione conforme alla decisione o alla giurisprudenza della Corte (v., in tal senso, sentenza del 4 giugno 2015, Kernkraftwerke Lippe-Ems, C-5/14, EU:C:2015:354, punto 36 e la giurisprudenza ivi citata)». Tanto basta per ritenere ammissibile il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia – oltreché, ovviamente, una nuova rimessione alla Corte costituzionale – dopo che sentenza della stessa Corte85 ha già investito la medesima disposizione interna. Tuttavia gli effetti giuridici – che risultano prodotti dalla pronuncia di accoglimento – all’evidenza delimitano l’oggetto dello scrutinio86.
amministrati di far valere dinanzi ai giudici nazionali disposizioni del trattato direttamente applicabili costituisce solo una garanzia minima e non è di per sé sufficiente ad assicurare la piena applicazione del trattato stesso; mantenere immutata, nella legislazione di uno stato membro, una disposizione interna incompatibile con una norma del trattato direttamente applicabile, crea una situazione di fatto ambigua in quanto mantiene gli interessati in uno stato di incertezza circa la possibilità di fare appello al diritto comunitario e costituisce quindi una trasgressione degli obblighi imposti dal trattato». 84 Vedi C. giust., 20 dicembre 2017, C-322/16, paragrafo 23. 85 C. cost., n. 194/2018, cit. 86 Demandato – alla Corte di giustizia ed alla Corte costituzionale – dalle ordinanze di rinvio pregiudiziale di Trib. Milano, 5 agosto/5 settembre 2019 ed App. Napoli, 18 settembre 2019 e, rispettivamente, da ordinanza di rimessione di questione di costituzionalità di App. Napoli, 18 settembre 2019 (resa nella medesima causa), che investono la stessa disposizione (at. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23) – come estesa, tuttavia, ai licenziamenti collettivi (art. 10 dello stesso d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23) – sulla quale è già intervenuta la Corte costituzionale (sentenza n. 194/2018. Cit.) con pronuncia di accoglimento e pronunce di rigetto e di inammissibilità Con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale del 5 agosto/5 settembre 2019, infatti, il Tribunale di Milano pone alla Corte di giustizia le questioni pregiudiziali seguenti: 1) «Se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 della direttiva 99/70/CE sulle condizioni di impiego ostino alle previsioni normative dell’art. 1, secondo comma e dell’art. 10 del D.lgs 23/15 che, con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela in forza del quale viene assicurata nella medesima procedura una tutela adeguata, effettiva e dissuasiva ai rapporti di lavoro a tempo indeterminato costituiti in data antecedente al 7 marzo 2015, per i quali sono previsti i rimedi della reintegrazione ed il pagamento dei contributi a carico del datore di lavoro e introduce, viceversa, una tutela meramente indennitaria nell’ambito di un limite minimo ed un limite massimo di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva per i rapporti di lavoro a tempo determinato aventi una pari anzianità lavorativa, in quanto costituiti precedentemente a tale data, ma convertiti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015»; 2) «Se le previsioni contenute negli artt. 20 e 30 della Carta dei diritti e nella direttiva 98/59/CE ostino ad una disposizione normativa come quella di cui all’art. 10 del d.lgs 23/15 che introduce per i soli lavoratori assunti (ovvero con rapporto a termine trasformato) a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui, in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, diversamente dagli altri analoghi rapporti di lavoro costituiti in precedenza e coinvolti nella medesima procedura, la reintegrazione nel posto di lavoro e che introduce, viceversa, un concorrente sistema di tutela meramente indennitario, inadeguato a ristorare le conseguenze economiche derivanti dalla perdita del posto di lavoro e deteriore rispetto all’altro modello coesistente, applicato ad altri lavoratori i cui rapporti hanno le medesime caratteristiche con la sola eccezione della data di conversione o costituzione». Nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale 18 settembre 2019 della Corte d’appello di Napoli, poi, si legge testualmente (punto 86): «86.La
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7.4. Intanto la sentenza della Corte costituzionale87 ha ritenuto non rilevante la questione – che non sembra, comunque, investita dalla decisione, quale risulta dal dispositivo, pur formando oggetto di un obiter dictum – se il limite massimo (pari a trentasei mensilità di retribuzione di fatto) osti alla adeguatezza dell’indennità risarcitoria. Non pare, di conseguenza, pregiudicato lo scrutinio di tale questione da parte della Corte di giustizia e della stessa Corte costituzionale – che ne risultano investite, in ossequio al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato – sulla falsariga di quanto stabilito dal Comitato Europeo dei Diritti sociali88. Parimenti non pregiudicata – dalla sentenza della Corte costituzionale – sembra la sollevata questione, che ne risulta affatto ignorata, concernente il rilievo dell’esonero dai contributi previdenziali – ai fini della adeguatezza – della indennità risarcitoria. Mentre il rilievo della, pure allegata, esclusione della concorrente tutela reintegratoria – agli stessi fini della adeguatezza della indennità risarcitoria – risulta, bensì, parimenti ignorato dalla Corte costituzionale89, ma sembra scontrarsi con la giurisprudenza della Corte di giustizia, che non esige la tutela in forma specifica – quale sanzione per gli sco-
normativa, sottoposta a giudizio della Corte, si pone pertanto in contrasto con i principi e i diritti fondamentali dell’Unione, (…) in spregio con i diritti di uguaglianza (art.20 CDFUE) e non discriminazione (art.21 CDFUE), in uno .con il diritto ad un rimedio effettivo (art.47 CDFUE), in quanto introduce, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo regolato dalla direttiva 98/59/CE, un doppio sistema di tutela che prevede nella stessa procedura, in caso di identica violazione dei criteri di scelta, una contestuale applicazione di sanzioni profondamente diverse per capacità afflittiva, dissuasività ed efficacia satisfattiva, anche del diritto all’accesso alle prestazioni sociali (art.34 CDFUE)». La questione di legittimità costituzionale, infine, viene sollevata da App. Napoli (con altra ordinanza del 18 settembre 2019, resa nella medesima causa) – “con riferimento agli articoli 3, 4, 35, 76, 117, 1 comma, Costituzione” – per avere la disposizione impugnata (combinato disposto degli artt. 3 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015) «introdotto, in assenza di una specifica attribuzione normativa e, comunque, in violazione dei principi e criteri della legge delega, una discplina sanzionatoria per i licenziamenti collettivi, statuendo un modello sanzionatorio in contrasto con i principi e i diritti fondamentali dell’Unione e e con le convenzioni internazionali» (art. 24 Carta sociale europea e artt. 20, 21, 30 e 47 CDFUE). 87 C. cost., n. 194/2018, cit. 88 Vedine le decisioni del 31 gennaio 2017, complaints n. 106/2014 e 107/2014, entrambe nei confronti della Finlandia, che – interpretando l’articolo 24 della Carta sociale europea – ha ritenuto adeguata la compensazione che include: – il rimborso delle perdite economiche subite tra la data di licenziamento e la decisione del ricorso; – la possibilità di reintegrazione; – la compensazione ad un livello sufficientemente elevato per dissuadere il datore di lavoro e risarcire il danno subito dal dipendente («compensationat a level high enough to dissuade the employer and makegood the damagesuffered by the employee»). Per quel che qui maggiormente interessa, tuttavia, ne ha ricavato la conclusione che, «in linea di principio, qualsiasi limite risarcitorio che precluda una compensazione commisurata alla perdita subita e sufficientemente dissuasiva è in contrasto con la Carta». Il principio enunciato, infatti, riguarda la legislazione finlandese, che «prevedeva il limite di 24 mesi di retribuzione quale limite massimo al risarcimento del danno da licenziamento illegittimo». Con riferimento specifico al plafond della indennità risarcitoria, di che trattasi, la recente decisione del Comitato – adottata l’11 settembre 2019 e pubblicata l’11 febbraio 2020, su reclamo collettivo della CGIL contro Italia (n. 158/2017) – è pervenuta, tuttavia, alla conclusione seguente (punti, 104, 105). «104. Alla luce di questi elementi, il Comitato ritiene che né i sistemi di tutela alternativi offrono al lavoratore vittima di un licenziamento illegittimo una possibilità di risarcimento oltre il tetto massimo del plafond previsto dalla legge in vigore, né il meccanismo di conciliazione, stabilito dalle disposizioni contestate, consente in tutti i tipi di licenziamento senza motivo valido di ottenere un risarcimento adeguato, proporzionato al danno subito, e tale da dissuadere dall’uso dei licenziamenti illegittimi. 105. Di conseguenza, il Comitato afferma cne vi è una violazione dell’articolo 24 della Carta». Su questa ultima decisione, vedi Perrone, La forza vincolante delle decisioni del del Comitato europeo dei diritti sociali: riflessioni critiche alla luce della decisione CGIL c. Italia dell’11 febbraio 2020 sul Jobs act sulle tutele crescenti, in LDE, n. 1/2020. 89 Nella sentenza 194/18, cit., appunto.
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stamenti degli ordinamenti nazionali dal diritto dell’Unione – purché la tutela per equivalente sia effettiva, proporzionata e dissuasiva90. 7.5. In relazione alla diversità di trattamento, poi, il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3) – anche sotto il profilo della ragionevolezza – e quelli di uguaglianza dinanzi alla legge e di non discriminazione dettati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 20 e 21) – nell’ambito di applicazione, tuttavia91, di fonti euro unitarie diverse dalla Carta92 – possono essere scrutinati – come è stato anticipato – sotto il profilo della effettività della perseguita promozione di nuove assunzioni. 7.6. Invero la ratio decidendi – sottesa alla pronuncia di rigetto della Corte costituzionale – riposa sui rilievi essenziali seguenti: – «spetta alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme (…)». – «La modulazione temporale dell’applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, censurata dal rimettente, non contrasta con il «canone di ragionevolezza» e, quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa si guarda alla luce della ragione giustificatrice – del tutto trascurata dal giudice rimettente – costituita dallo «scopo», dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014)». – «Poiché l’introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta a incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita». – «Tanto chiarito circa la non irragionevolezza del contestato regime temporale, non spetta a questa Corte addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito». Ora è proprio quest’ultimo passaggio argomentativo a risultare contestato dall’ordinanza rinvio pregiudiziale93. 7.7. Ne risulta, infatti sottolineato – fin dall’incipit argomentativo, sul punto, della stessa ordinanza – che «ancor più problematica appare la questione relativa al rispetto del cano-
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Sul punto, vedi: De Luca, Precariato pubblico: condizionalità eurounitaria per divieti nazionali di conversione, spec. § 2 – laddove si legge: Non risulta imposto, però, agli stati membri l’obbligo generale di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato (ed, ivi, richiamo di giurisprudenza della Corte di giustizia) – in Labor, 2017, 399, al quale si rinvia per riferimenti ulteriori. Id., Condizionalità eurounitaria per il divieto di conversione, nel pubblico impiego, previsto dall’ordinamento italiano: la parola alla Corte di giustizia, in WP D’Antona, It, n. 25/2017. Del resto, anche nel nostro ordinamento, la garanzia costituzionale del diritto alla tutela giurisdizionale non preclude – alla discrezionalità del legislatore ordinario – la previsione di un «meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario, purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza»: in tal senso è la giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale (vedine, da ultima, la sentenza n. 160 del 25 giugno 2019 – che scrutina il bilanciamento fra il principio costituzionale di tutela giurisdizionale, appunto, e la salvaguardia della autonomia dell’ordinamento sportivo, che trova ampia tutela negli articoli 2 e 18 della costituzione – ed, ivi richiamate, le sentenze n.194 del 2018, n. 303 del 2011, n. 46 del 2000, dalla quale è stato estratto il virgolettato). 91 Come stabilito, per quanto si è detto, dalla giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia. 92 Quali, nella specie, le direttive in materia di licenziamenti collettivi, parità di occupazione e condizioni di lavolo, contratti a tempo determinato (spec. art. 4), cit. 93 Vedi Trib Milano, 5 agosto/5 settembre 2019, cit.
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ne di ragionevolezza con riferimento alla ragione giustificatrice della norma, vale a dire lo scopo occupazionale». Infatti «rispettare il principio di ragionevolezza significa anche verificare l’adeguatezza strumentale della norma scelta rispetto al fine da realizzare». In altri termini – prosegue l’ordinanza – «il canone della ragionevolezza non può limitarsi ad una semplice dimensione discorsiva ma deve investire i profili causali del rapporto strumentale mezzi/fini e quelli di proporzionalità e del bilanciamento di interessi. In tale prospettiva il giudizio di ragionevolezza deve coinvolgere necessariamente l’impiego di dati extra-normativi, quali le conoscenze tecnico-scientifiche, i modelli statistici e i riscontri di tipo fattuale, utilizzabili per valutare la “pertinenza”, intesa quale giudizio di idoneità sul piano tecnico dello strumento per il conseguimento del fine e la “congruenza”, intesa quale valutazione della norma alla luce dei principi sistematici per verificare se la legge sia in rapporto logico con il fine che la giustificherebbe come ragionevole». La confutazione, che ne risulta, della tesi della Corte costituzionale – circa l’asserita correlazione tra riduzione della protezione ed incremento dell’occupazione asseritamente perseguito – viene arricchita, tuttavia, dal richiamo esplicito di fonti autorevoli che – integrando, per relationem, la motivazione dell’ordinanza – sostengono, motivatamente, la tesi contraria94. 7.8. Come è stato anticipato, la parificazione al livello più elevato – all’esito dell’eventuale accoglimento delle questiono attinenti a disuguaglianza e discriminazione della diversità di trattamento prospettata – fonda l’interesse alla pronuncia dei lavoratori, che ne risultino pregiudicati, fugando il rischio – talora strumentalmente paventato – di parificazione al livello più basso, mediante l’applicazione della reformatio in peius a tutti i lavoratori. 7.9. Infatti la giurisprudenza della Corte di giustizia 95 perviene alle conclusioni testuali seguenti:
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Infatti viene, tra l’altro, testualmente ricordato: «In verità la positiva correlazione tra riduzione della “job employment protection” ed incremento dell’occupazione è stata negata nel World Economic Outlook 2016, nel quale il FMI sottolinea che “le riforme che rendono più agevole il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno mediamente effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche” (v. sez. Time for a supply side boost pagg. 115-116). Altrettanto è stato evidenziato dal Documento di valutazione n. 7 dell’Ufficio Valutazione Impatto del Senato: “Da ultimo, l’OCSE nell’Employment Outlook del 2016 corregge solo parzialmente le evidenze accolte dalle principali organizzazioni internazionali, asserendo che la maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro suggerisce che esse hanno un impatto nullo o marginalmente positivo sui livelli di occupazione nel lungo periodo”. Nello stesso senso depone l’esperienza applicativa italiana del contratto a tutele crescenti. Ad oltre tre anni dall’entrata in vigore della legge, il risultato sperato, ossia l’aumento delle occupazioni stabili si è rivelato del tutto deficitario. Infatti, esauriti gli effetti degli sgravi contributivi connessi alle assunzioni a tempo indeterminato (v. l. n. 190/2014), si è assistito alla utilizzazione in misura preponderante dei contratti a termine nonostante il loro maggiore costo contributivo». 95 Vedine, da ultima, la sentenza della Grande chambre, 7 ottobre 2019, C-171/18, spec. punto 45. All’evidenza affatto diverso, sia detto per inciso, è il problema affrontato dalla Corte di giustizia nell’ordinanza 4 giugno 2020, in causa C-32/20 (ord. Romagnuolo). Pronunciando sulla questione pregiudiziale – posta dalla Corte d’appello di Napoli (con ordinanza di rinvio pregiudiziale, appunto, 18 settembre 2019, cit.) – la Corte di giustizia dichiara, infatti, la propria incompetenza, essenzialmente, in base ai rilievi seguenti (punti 32 ss.): «(…) le modalità della tutela da riconoscere ad un lavoratore, che sia stato oggetto di un licenziamento collettivo ingiustificato derivante da una violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, sono manifestamente prive di relazione con gli obblighi di notifica e di consultazione derivanti dalla direttiva 98/59. Né tali modalità né detti criteri di scelta rientrano nell’ambito di applica zione di quest’ultima. Di conseguenza, essi rimangono di competenza degli Stati membri (…)»; «(...) ai sensi dell’articolo 6 della direttiva gli stati membri devono provvedere affinché i rappresentanti dei lavoratori e/o i lavoratori dispongano di procedure amministrative e/o giurisdizionali per far rispettare gli obblighi previsti da tale direttiva. (…)»; «(...) Poiché dall’ordinanza di rinvio
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«45. Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla questione proposta dichiarando che l’articolo 119 del Trattato CE deve essere interpretato nel senso che esso osta, in assenza di una giustificazione obiettiva, a che un regime pensionistico adotti, per porre fine a una discriminazione contraria a tale disposizione, derivante dalla fissazione di un’ENP differenziata secondo il sesso, una misura che uniforma retroattivamente l’ENP degli affiliati a tale regime al livello di quella delle persone della categoria precedentemente svantaggiata, per il periodo compreso tra l’annuncio e l’adozione di tale misura, anche qualora tale misura sia autorizzata dal diritto nazionale e dall’atto costitutivo di tale regime pensionistico». Tali conclusioni sono sorrette da ampia ed articolata motivazione96, in coerenza con la giurisprudenza precedente della stessa Corte97, e risultano conformi alle conclusioni
emerge inequivocabilmente che la controversia oggetto del procedimento principale non riguarda la violazione di un obbligo stabilito da detta direttiva, bensì la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, i quali rientrano nella competenza degli Stati membri, detto articolo 6 e detta giurisprudenza non possono trovare applicazione nel caso di specie (…). (…) In mancanza di elementi, che consentano di constatare l’applicabilità della direttiva 98/59 alla situazione giuridica della ricorrente nel procedimento principale, occorre dichiarare, sulla base dell’articolo 53, paragrafo 2, del regolamento di procedura, che la Corte è manifestamente incompetente a rispondere alle questioni sollevate dalla Corte d’appello di Napoli con ordinanza del 18 settembre 2019 (…)». In altri termini, i criteri di scelta dei lavoratori, da sottoporre a licenziamento collettivo, non sono imposti dal diritto dell’Unione europea, ma costituiscono condizioni di miglior favore – per i lavoratori – che gli Stati membri possono introdurre (art. 5 direttiva 98/59, cit.). Coerentemente, non compete alla Corte di giustizia – ma ai giudici nazionali – conoscere della violazione di tali criteri di scelta. 96 Vedi i punti 33 ss. della stessa sentenza. 97 Nella motivazione (punti 33 ss., appunto), infatti, si legge testualmente; “33. In secondo luogo, per quanto riguarda la questione se l’articolo 119 del Trattato CE autorizzi una misura, (…), che consiste nell’uniformare con effetto retroattivo (…) al livello dell’ENP delle persone della categoria precedentemente svantaggiata, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, quando una discriminazione, contraria al diritto dell’Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata (sentenze del 28 gennaio 2015, Starjakob, C-417/13, UE:C:2015:38, punto 46, e del 22 gennaio 2019, Cresco Investigation, C-193/17, EU:C:2019:43, punto 79 e la giurisprudenza citata). 34. La Corte ha già dichiarato che tale principio osta a che un regime pensionistico elimini una discriminazione in contrasto con l’articolo 119 del Trattato CE procedendo alla soppressione, per il passato, dei vantaggi delle persone della categoria privilegiata (v., in tal senso, sentenza del 28 settembre 1994, Avdel Systems, C-408/92, EU:C:1994:349, punti 5, 13, 14, 17 e 18). 35. Tuttavia, il giudice del rinvio si chiede se tale giurisprudenza si applichi anche a situazioni, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, in cui i diritti a pensione in questione sono revocabili in forza del diritto nazionale e dell’atto costitutivo del regime pensionistico di cui trattasi. 36. Sebbene tale questione non sia stata ancora decisa esplicitamente dalla Corte, la facoltà, in tali situazioni, di uniformare retroattivamente le condizioni riguardanti i diritti degli affiliati a un regime pensionistico al livello di quelle delle persone della categoria precedentemente svantaggiata non trova alcun sostegno nella suddetta giurisprudenza. Al contrario, come ha rilevato l’avvocato generale al paragrafo 64 delle sue conclusioni, il riconoscimento di tale potere priverebbe ampiamente la stessa giurisprudenza della sua portata, in quanto sarebbe applicabile solo nei casi in cui tale uniformazione retroattiva è, in ogni caso, già vietata dal diritto nazionale o dall’atto costitutivo del regime pensionistico. 37. Inoltre, e soprattutto, va sottolineato che qualsiasi misura volta ad eliminare una discriminazione contraria al diritto dell’Unione costituisce un’attuazione di tale diritto, che deve essere conforme ai requisiti di quest’ultimo. In particolare, né la legislazione nazionale né le disposizioni dell’atto costitutivo del regime pensionistico interessato possono essere invocate per eludere tali requisiti. 38. Per quanto riguarda tali requisiti, secondo giurisprudenza costante, il principio della certezza del diritto osta in generale a che un atto di esecuzione del diritto dell’Unione abbia effetto retroattivo. È solo in casi eccezionali che ciò può avvenire diversamente, quando lo richieda un’esigenza imperativa di interesse generale e quando il legittimo affidamento delle persone interessate sia debitamente rispettato (v., in tal senso, sentenza del 26 aprile 2005, «Goed Wonen», C-376/02, EU:C:2005:251, punti 33 e 34 nonché giurisprudenza citata). 39. A questo principio si aggiungono i requisiti, derivanti più specificamente dall’articolo 119 del Trattato CE, che sono imposti ai responsabili di un regime pensionistico non appena venga constatata una discriminazione contraria a tale disposizione.
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dell’Avvocato generale98. In altri termini, i principi di uguaglianza e non discriminazione – lungi dall’uniformare al livello deteriore delle categorie svantaggiate – ne garantiscono il diritto alla parificazione che, all’evidenza, non può che essere al livello – di maggiore favore – delle categorie avvantaggiate. 7.10. Ne risulta, quindi, palesemente fugato il rischio che la questione di legittimità costituzionale in relazione al principio di uguaglianza – per la prospettata diversità di trattamento, in dipendenza esclusiva della data di assunzione o di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato – possa «costruire un cavallo di Troia e fornire l’assist perfetto per togliere le tutele dell’articolo 18» anche ai vecchi assunti99.
40. Quanto all’obbligo di accordare alle persone della categoria svantaggiata, finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, gli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata, la Corte ha già dichiarato che tale obbligo trova la propria giustificazione, in particolare, nel collegamento dell’articolo 119 del Trattato CE all’obiettivo della parificazione delle condizioni di lavoro nel senso del progresso, il quale risulta dal preambolo di tale Trattato nonché dal suo articolo 117 (v., in tal senso, sentenze dell’8 aprile 1976, Defrenne, 43/75, EU:C:1976:56, punti 10, 11 e 15, nonché del 28 settembre 1994, Avdel Systems, C-408/92, EU:C:1994:349, punti 15 e 17). 41. Orbene, sarebbe contrario a tale obiettivo nonché al principio della certezza del diritto e ai requisiti di cui ai punti 17, 24 e 34 della presente sentenza, consentire ai responsabili del regime pensionistico di cui trattasi di eliminare le discriminazioni contrarie all’articolo 119 del Trattato CE adottando una misura che uniforma retroattivamente l’ENP degli affiliati a tale regime al livello dell’ENP delle persone della categoria precedentemente svantaggiata. Infatti, ammettere tale soluzione esonererebbe i responsabili dall’obbligo di procedere, una volta accertata la discriminazione, alla sua immediata e completa eliminazione. Inoltre, essa violerebbe l’obbligo di concedere alle persone della categoria precedentemente svantaggiata il beneficio dell’ENP delle persone della categoria precedentemente avvantaggiata per quanto riguarda i diritti pensionistici relativi ai periodi di impiego tra la data di pronuncia della sentenza del 17 maggio 1990, Barber (C-262/88, EU:C:1990:209), e la data di adozione delle misure che ripristinano la parità di trattamento, nonché il divieto di abolire, per il passato, i vantaggi di queste ultime persone. Infine, essa creerebbe incertezze circa la portata dei diritti degli affiliati, contrarie al principio della certezza del diritto, fino all’adozione di tali misure. 42. Tali considerazioni restano valide nel caso in cui gli affiliati al regime pensionistico in questione siano stati informati che, per ripristinare la parità di trattamento, l’ENP degli affiliati a tale regime pensionistico sarà uniformata al livello dell’ENP delle persone della categoria precedentemente svantaggiata, mediante un annuncio privo di effetto di modifica. 43. Ciò detto, come risulta dal punto 38 della presente sentenza, non si può escludere che misure dirette a porre fine a una discriminazione contraria al diritto dell’Unione possano, in via eccezionale, essere adottate con effetto retroattivo, a condizione che, oltre a rispettare il legittimo affidamento delle persone interessate, tali misure soddisfino effettivamente un’esigenza imperativa di interesse generale. In particolare, secondo una giurisprudenza costante, un rischio di grave alterazione dell’equilibrio finanziario del regime pensionistico interessato può costituire una siffatta esigenza imperativa di interesse generale (v., in tal senso, sentenze dell’11 gennaio 2007, ITC, C-208/05, EU:C:2007:16, punto 43, e del 7 marzo 2018, DW, C-651/16, EU:C:2018:162, punto 33). 44. Nel caso di specie, sebbene il giudice del rinvio affermi, nella decisione di rinvio, che l’importo finanziario di cui si discute nella controversia di cui trattasi nel procedimento principale è pari a 100 milioni di sterline (GBP), esso non fa tuttavia riferimento al fatto che l’armonizzazione retroattiva dell’ENP degli affiliati al regime pensionistico di cui trattasi nel procedimento principale al livello dell’ENP delle persone della categoria precedentemente svantaggiata era necessaria per evitare una grave violazione dell’equilibrio finanziario di tale regime pensionistico. Poiché il fascicolo della Corte non contiene altri elementi atti a dimostrare che tale misura ha effettivamente soddisfatto un’esigenza imperativa di interesse generale, sembra che non vi sia una giustificazione oggettiva, il che dev’essere tuttavia verificato dal giudice del rinvio». 98 Dalle conclusioni dell’Avvocato generale, nella stessa causa C-171/18, si legge infatti testualmente (al § 64): «64. È peraltro incontestato che, alla data della sentenza Barber (C. giust., 17 maggio 1990, in causa C 262/88, EU:C:1990:209), l’ENP per i lavoratori di sesso femminile che erano membri del Safeway Pension Trust era 60 anni. Secondo quanto previsto dalla giurisprudenza della Corte, poiché il principio della parità di retribuzione costituisce un principio fondamentale dell’Unione, «il senso e la portata di quest’ultimo non possono quindi essere determinati in funzione di un criterio formale legato a sua volta a norme o prassi degli Stati membri. La necessità di garantire un’applicazione uniforme del Trattato in tutta la Comunità implica che [l’articolo 157] sia interpretato autonomamente rispetto a queste norme o a queste prassi» (Sentenza del 28 settembre 1994, Beune (C7/93, EU:C:1994:350, punto 28)». 99 Così, testualmente, Tiraboschi, intervista a Lettera 43, quotidiano online indipendente, 5 gennaio 2015, che denuncia un nuovo
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8. Note conclusive. 8.1. In principio, è la configurazione della Comunità (ed ora dell’Unione) europea – proposta dalla Corte di giustizia (fin dalla remota sentenza del 5 febbraio 1963, van Gend & Loos, in causa C-26/62) – come «ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini». Coerente ne risulta – come è stato anticipato – l’interazione con il nostro ordinamento nazionale, anche per quanto riguarda la materia – che ci occupa – dei licenziamenti collettivi. 8.2. Intanto le norme eurounitarie – come pure è stato anticipato – trovano applicazione indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri. Le stesse norme eurounitarie, poi, prevalgono – sulle norme confliggenti di qualsiasi fonte interna – in forme diverse, a seconda che siano dotate o meno di efficacia diretta. Nel primo caso, infatti, si applicano in luogo delle norme interne confliggenti. Nel secondo caso, invece, impongono l’interpretazione conforme delle stesse norme interne100.
apartheid ed – in relazione alla questione di costituzionalità, minacciata dai sindacati – non sembra svolgere alcuna contestazione, ma prospetta, appunto, il rischio che possa «costruire un cavallo di Troia e fornire l’assist perfetto» per togliere le «tutele dell’articolo 18» anche ai vecchi assunti. Vedi, altresì: Giubboni, Il contratto a tutele crescenti e la Costituzione, in Eticaeconomia, 16 febbraio 2015, laddove denuncia che «solo un’idea piccola di disuguaglianza, (……), neutralizzata e svuotata da una formalistica e rinunciataria deferenza verso la discrezionalità illimitata delle scelte politiche del legislatore, potrebbe (…) giustificare (che sia) la data di assunzione (…) a determinare – a parità di tutte le altre condizioni – una decisiva differenziazione dello statuto protettivo dei lavoratori subordinati (…)», ma prospetta – contestualmente – che «potrebbe mettere in discussione la tenuta complessiva del disegno del Jobs Act (e), proprio per questo, (…), difficilmente riuscirà ad aprire varchi nella linea di prudentissima deferenza alle scelte del legislatore ordinario da tempo consolidatasi nella giurisprudenza costituzionale»; Id., Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in WP D’Antona, It, n. 246/2015. V. anche Mariucci, Renzi e l’itinerario regressivo della legge sul lavoro, in Insight, marzo 2015, laddove si legge: «Ma fino a quando l’effetto sostitutivo non verrà completato si registrerà una vistosa differenziazione di trattamento tra quanti sono già titolari di un contratto di lavoro e tutti coloro che verranno assunti dopo l’entrata in vigore della nuova disciplina. Accadrà quindi che vi saranno due tipi di lavoratori, occupati nella stessa impresa, con la stessa qualifica e le medesime mansioni, ma con un trattamento differente su un istituto cruciale del rapporto di lavoro come quello relativo ai limiti del potere di licenziamento: il che significa che se licenziati per la medesima fattispecie gli uni potranno ottenere, in assenza di giustificato motivo, la reintegrazione del rapporto, mentre per gli altri il licenziamento ingiustificato verrà solo monetizzato. C’è da chiedersi in quale strana accezione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza possa trovare fondamento una disparità così macroscopica di trattamento, la cui legittimità dovrebbe essere argomentata sulla base del fatto che uno dei due lavoratori a suo tempo, e magari anni prima, era stato assunto con lo “speciale” “contratto a tutele crescenti”. Di questo si dovrà occupare evidentemente la Corte Costituzionale. Per l’intanto si può tranquillamente affermare, che si tratta di una differenza di trattamento “ingiusta”: “questo sarebbe ingiusto”, aveva risposto infatti lo stesso presidente del Consiglio a chi gli chiedeva, qualche tempo fa, se l’art.18 sarebbe stato modificato e/o abrogato solo per i nuovi assunti (intervista a La Repubblica del 30 settembre 2014)». In senso contrario, vedi Miscione, Tutele crescenti: un’ipotesi di rinnovamento del diritto del lavoro, in dplonline, 2015, n. 12, 741 ss., spec. 746 ss. 100 Vedi, per tutti, De Luca, Il lavoro il lavoro, appunto, nel diritto comunitario (ora eurounitario) e l’ordinamento italiano: più di) trent’anni dopo, cit., spec. § 2.1. ss.
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Michele De Luca
Coerente risulta la conformazione progressiva – al diritto dell’Unione europea101 – della nostra disciplina nazionale in materia, appunto, di licenziamenti collettivi. 8.3. In principio, è una storica sentenza della Corte di giustizia102 di condanna dell’Italia – per così dire – ed una successiva103, che ne accerta e dichiara la mancata esecuzione. Ad esse si conforma – come è stato anticipato – il nostro ordinamento nazionale, introducendone la disciplina giuridica dei licenziamenti collettivi – in coerenza con il diritto dell’Unione – nella fonte legale104 imposta dalla stessa Corte. 8.4. La efficacia diretta del principio di indisponibilità del tipo contrattuale di lavoro subordinato, costituisce il fondamento giuridico dell’inclusione dei dirigenti, che ne erano esclusi nel nostro ordinamento – tra i destinatari delle garanzie contro i licenziamenti collettivi105 – ma rappresenta, tuttavia, il criterio selettivo dei lavoratori, subordinati appunto, che risultano parimenti garantiti106. 8.5. Del pari dotati di efficacia diretta – all’esito della (eventuale) pronuncia di accoglimento delle relative questioni pregiudiziali (e di legittimità costituzionale) attualmente pendenti – risultano i principi di uguaglianza dinanzi alla legge, di non discriminazione e di tutela in caso di licenziamento ingiustificato, dettati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 20, 21 e 30) nell’ambito di applicazione, tuttavia, di fonti eurounitarie diverse dalla Carta107. Coerentemente, andrebbero applicati in luogo delle disposizioni interne confliggenti. Ed ai lavoratori – che ne risultino discriminati, in dipendenza della data di assunzione o di conversione del contratto a termine – sarebbe di conseguenza garantito, per quanto si è detto, il diritto alla parificazione – che, all’evidenza, non può che essere – al livello, di miglior favore, dei lavoratori avvantaggiati.
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Quale risulta, essenzialmente, dalla successione nel tempo di: Dir. 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di licenziamenti collettivi, Dir. 92/56/CEE del Consiglio, del 24 giugno del 1992, di modifica della Direttiva 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975; Dir. 98/59/CE del Consiglio del 20 luglio 1998 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, codificazione della dir. 75/129/CEE del Consiglio, del 17 febbraio 1975, cit. 102 C. giust., 8 giugno 1982, C-91/81, cit. 103 C. giust., 6 novembre 1985, C-131/84, cit. 104 Vedi § 2. 105 C. giust., 13 febbraio 2014, C-596/12, cit. 106 Vedi § 5.2. 107 Siccome stabilito, per quanto si è dello, dalla giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia.
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Raffaele Galardi
Appunti sulla crisi (della crisi?) della subordinazione Sommario :
1. Il social-tipo nel vecchio e nel nuovo. – 2. Chi sono i lavoratori subordinati attenuati. – 3. La subordinazione non si attenua. – 4. Fatti e misfatti nella vicenda dei ciclofattorini. – 5. Il problema qualificatorio dell’art. 2. – 6. Il cortocircuito della l. n. 128/2019. – 7. Spunti conclusivi.
Sinossi. Nel saggio si valorizza l’idea della subordinazione come fattispecie flessibile ed aperta. L’A. analizza criticamente quelle ricostruzioni che legano la subordinazione (e la sua crisi) a presunti social-tipi di lavoratore. Ricostruiti i nessi tra potere di direzione e potere di organizzazione, il saggio ripercorre le più recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali per concludere nel senso della persistente attualità della subordinazione sia come fattispecie che come disciplina. Abstract. The essay highlights the idea of subordination as a flexible and open case. The Author critically analyzes those reconstructions that link subordination (and its crisis) to alleged social types of workers. Once reconstructed the connections between the direction power and the power of organization, the essay traces the most recent legislative and case law developments to conclude supporting the persistent actuality of subordination both as a case model and as a discipline. Parole
chiave:
Subordinazione; social-tipo; collaborazioni.
1. Il social-tipo nel vecchio e nel nuovo. Ci sono temi che non tramontano mai nel dibattito giuslavoristico. Quello della crisi della subordinazione è un evergreen. Ad ogni modifica rilevante dei sistemi economici e produttivi nella riflessione giuslavoristica ha fatto capolino il j’accuse alla fattispecie codicistica, incapace di intercettare i nuovi bisogni di tutela delle persone
Raffaele Galardi
che lavorano. Per attrare il nuovo è da tempo che circolano ulteriori modelli descrittivi1 (il lavoro sans phrase, il lavoro coordinato, il lavoro economicamente dipendente, la zona grigia) variamente estesi e capaci di inglobare chi la subordinazione non era in grado di attrarre. Per alcuni la subordinazione è una categoria del novecento2, a rischio di definitiva estinzione per la rivoluzione tecnologica in atto. Il modello del lavoratore subordinato – si ritiene – sarebbe incompatibile con la instabilità, la frammentarietà e la discontinuità del lavoro imposte dalle infrastrutture tecnologiche3. Non mancano voci contrarie che anzi continuano a rilevare la centralità del lavoro subordinato, anche nella lettura dei più recenti fenomeni socio-economici. Significativo è il rilievo dei tre promotori del recente Manifesto per un Diritto del lavoro sostenibile secondo i quali è «giunto il momento di trarre dall’esperienza alcuni insegnamenti di saggezza. Il più importante è che, a dispetto di decine di convegni che ne hanno messo a nudo le incongruenze quando non l’obsolescenza, l’art. 2094 è sempre lì»4. L’affermazione fa il paio con quella di un’altra voce dottrinale che ha tributato alla subordinazione «una straordinaria aderenza alla trasformazione organizzativo-tecnologica in corso»5. A commento della radicalità di queste posizioni si è scritto correttamente che «hanno tutti potenzialmente ragione e potenzialmente torto perché la diversità di posizioni è data dal social tipo di lavoratore oggetto dell’analisi ricostruttiva di ciascun autore»6. Questo, a nostro avviso, è il punto nevralgico della questione: la rilevanza del socialtipo (o prototipo) di lavoratore subordinato. Tale profilo emerge con etichette diverse anche nella giurisprudenza che, come noto, ha creato due distinte nozioni7. Accanto ad una nozione tradizionale (statica, forte, ristretta) – contraddistinta da un peculiare modo di essere della etero-direzione che si
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Tra le ricostruzioni recenti più complete: Martelloni, Lavoro coordinato e subordinazione. L’interferenza delle collaborazioni a progetto, BUP, 2012; Pallini, Il lavoro economicamente dipendenti, Cedam, 2013. 2 Martone, La subordinazione: una categoria del Novecento, in Martone (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, in Persiani – F. Carinci (diretto da), Trattato di diritto del lavoro, vol. IV, Tomo I, Cedam, 2012, 3 ss. Secondo l’A. vi è una popolazione “nomade” o “innominata” tagliata fuori dai confini dell’art. 2094 c.c. 3 Tra i più recenti v. R. Pessi, Il diritto del lavoro e la Costituzione: identità e criticità, Cacucci, 2019, 509 ss., ove l’A. richiama anche le parole di Passaniti, Le radici del particolarismo giuslavoristico novecentesco, in DLRI, 2014, 67, che allude alla frattura dell’immagine ideal-tipica del lavoratore subordinato come immagine della crisi del diritto del lavoro. Sull’impatto della rivoluzione digitale v. Dagnino, Dalla fisica all’algoritmo: una prospettiva di analisi giuslavoristica, Adapt University Press, 2019, 46 ss.; Donini, Il lavoro attraverso piattaforme digitali, BUP, 2019. 4 Caruso, Del Punta, Treu, Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile, 2020, in www.csdle.lex.unict.it, 21. 5 Barbieri, Della subordinazione dei ciclofattorini, in LLI, 2019, 5, 2, 49. Sulla persistente attualità dell’art. 2094 c.c., tra i più recenti, Magnani, Subordinazione, eterorganizzazione e autonomia tra ambiguità normative e operazioni creative della dottrina, in DRI, 2020, 110-111; Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, in Labor, 2020, 1 ss.; Nogler, Gli spazi di lavoro nelle città tra innovazioni tecnologiche e “regressioni” interpretative, in Occhino (a cura di), Il lavoro e i suoi luoghi, Vita e Pensiero, 2018, 29 ss. 6 R. Pessi, op. cit., 391; Liso, La mobilità del lavoratore in azienda: il quadro legale, Franco Angeli, 1982, 37, che a proposito di uno dei dibattiti sulla subordinazione, ha efficacemente parlato di dialogo tra sordi. 7 Sulle subordinazioni v. F. Carinci, La subordinazione rivisitata alla luce dell’ultima legislazione: dalla “subordinazione” alle “subordinazioni”?, in ADL, 2018, 4-5, 961; Maio, Il lavoro per le piattaforme digitali tra qualificazione del rapporto e tutele, in ADL, 2019, 3, 586 ss.
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Appunti sulla crisi (della crisi?) della subordinazione
sostanzia in ordini specifici, direzione cogente e controllo costante8 – è comparsa un’altra subordinazione apparentemente innovativa ed evolutiva (allargata o attenuata o addirittura affievolita9) nella quale non è percepibile la etero-direzione e vengono valutati altri elementi, sussidiari o sintomatici, tra i quali spicca l’inserimento delle prestazioni lavorative nell’organizzazione datoriale10. L’incidenza del social-tipo (o prototipo) è stata rinfocolata nell’ultimo quinquennio11, da quando, con ritmo biennale (’15/’17/’19), il legislatore ha regolato le aree limitrofe alla subordinazione dapprima con l’introduzione dell’enigmatica nozione di lavoro eteroorganizzato, apparentemente differenziato dal lavoro etero-diretto, e con il contestuale superamento del lavoro a progetto, poi con l’interpretazione autentica del requisito del coordinamento delle co.co.co. e con il Jobs Act del lavoro autonomo ed, infine, con la modifica ulteriore della nozione di lavoro etero-organizzato e con le regole che stabiliscono livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgano attività di consegna di beni per conto altrui12. Nella riflessione su un concetto apparentemente nuovo (si pensi, ad esempio, al lavoro etero-organizzato) l’interprete d’istinto tende a rilevare le analogie o le differenze con quanto già presente nel sistema normativo13. E infatti nelle diverse ricostruzioni, pure opposte tra loro, sono apparse affermazioni che rieditano il social-tipo14: ad esempio, riconoscere che, a differenza della etero-direzione, la etero-organizzazione ex art. 2 d.lgs. n. 81/2015 (di seguito art. 2) non si sostanzi in ordini, direttive o comandi implica il confinamento della etero-direzione ad ordini direttive e comandi, con un risultato finale non diverso da quella che la giurisprudenza chiama subordinazione ristretta o forte. Ancora, e all’opposto, affermare che il legislatore abbia riconosciuto la nozione evolutiva della subordinazione perpetrata dalla giurisprudenza relega la fattispecie codicistica ad una antiquata e diversa nozione di subordinazione (ristretta o forte).
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C. cost., 7 maggio 2015, n. 76, in GCost, 2015, 3, 680, con note di F. Ghera e Fabozzi. Del Conte – Razzolini, La gig economy alla prova del giudice: la difficile reinterpretazione della fattispecie e degli indici denotativi, in DLRI, 2018, 3, 673 ss. 10 Tra le più recenti e relative al rapporto di lavoro dirigenziale v. Cass., 13 febbraio 2020, n. 3640. 11 Le diverse posizioni sono state schematizzate da Diamanti, Il lavoro etero-organizzato e le collaborazioni coordinate e continuative, in RIDL, 2015, 67 ss. e da Maio, op. cit., 592 ss. 12 Tra i contributi più recenti sulle collaborazioni etero-organizzate v. D’Ascola, La collaborazione organizzata cinque anni dopo, in LD, 2020, 1, 3 ss.; Nuzzo, Customer satisfaction e contratto di lavoro subordinato, in DLRI, 2020, 27 ss.; Pisani, Le nuove collaborazioni etero-organizzate, il lavoro tramite piattaforme digitali e gli indici presuntivi della subordinazione, in ADL, 2019, 6, 1191 ss.; Vidiri, La gig economy e le nuove forme di tutela del lavoro tra autonomia e subordinazione, in ADL, 2019, 4, 707 ss. Sulle evoluzioni del lavoro autonomo D. Garofalo, La ritrovata dignità del lavoro autonomo, in Labor, 2019, 5 e 6, 481 ss. e 601 ss. 13 Si consideri a solo titolo esemplificativo il rilancio in dottrina del tema della cd. doppia alienità del lavoro subordinato. Su cui, v., Barbieri, op. cit., 12 ss.; Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, cit., 11. 14 Ad esempio Caruso, Del Punta, Treu, Manifesto per un diritto del lavoro sostenibile, cit., 22, richiamano la «centralità dell’eterodirezione nella fattispecie, a esemplificare il sostrato tipicamente fordista della norma» (corsivo mio). Già prima D’Antona, La subordinazione e oltre. Una teoria giuridica per il lavoro che cambia, in Pedrazzoli (a cura di), Lavoro subordinato e dintorni. Comparazioni e prospettive, Il Mulino, 1989, 44, ha individuato nel dipendente stabile dell’impresa industriale medio grande il figurino empirico presente al legislatore del ’42. 9
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Nella trattazione che segue approfondiremo i temi per ora solo evocati. Saranno analizzate dapprima le forme attenuate di subordinazione e poi ci concentreremo sull’intenso dibattito sui ciclofattorini e, più in generale, sulle collaborazioni etero-organizzate.
2. Chi sono i lavoratori subordinati attenuati. Partendo da temi meno innovativi, può rivelarsi utile fare una rapida incursione in alcune vicende giurisprudenziali più recenti che gravitano nell’area giurisprudenziale della subordinazione attenuata. La subordinazione attenuata copre una vasta gamma di lavoratori che comprendono prestazioni di elevata natura professionale e di elevato contenuto specialistico (ad es. il dirigente d’azienda15, il giornalista) e, all’opposto, prestazioni estremamente elementari, ripetitive e predeterminate. Prima di interrogarci sui principi di diritto di quest’orientamento giurisprudenziale, è opportuno capire quali siano gli elementi su cui si fonda l’accertamento della subordinazione. Di seguito descriveremo alcuni casi di lavoratori che, all’esito del giudizio, sono stati qualificati come subordinati. Per la qualificazione dell’attività lavorativa di un collaboratore di uno studio professionale, la Cassazione16 ha precisato che «la sussistenza o meno della subordinazione dovesse essere verificata in relazione alla intensità della etero-organizzazione della prestazione, al fine di stabilire se l’organizzazione fosse limitata al coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio, oppure eccedesse le esigenze di coordinamento per dipendere direttamente e continuativamente dall’interesse dello stesso studio, responsabile nei confronti dei clienti di prestazioni assunte come proprie e non della sola assicurazione di prestazioni altrui». Il giudice ha valorizzato: a) il fatto che il collaboratore avesse rapporti con clienti non suoi ma del dominus; b) il fatto che svolgesse un’attività che non poteva esercitare in proprio perché privo del titolo di avvocato e di cui il dominus assumeva necessariamente la paternità; c) le direttive costanti provenienti dal titolare dello studio, in
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Con riferimento specifico al lavoro dirigenziale, per gli ampi margini di autonomia, si è affermato che: «il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente» (Cass., 15 maggio 2012, n. 7517. Di recente Cass., 13 febbraio 2020, n. 3640). Le direttive poi, oltre ad essere generali (Cass., 27 ottobre 2016, n. 21710, in FI, 2016, 12, I, 3829), possono anche essere dettate in via programmatica o impresse nella struttura aziendale (Cass., 23 aprile 2014, n. 9196). 16 Cass., 10 settembre 2019, n. 22634, in FI, 2019, I, 3912. V. pure Cass., 14 febbraio 2011, n. 3594, in FI, 2011, I, 2788, che ha escluso la subordinazione della lavoratrice perché, a dispetto di alcuni elementi riscontrati (osservanza di un orario di lavoro, localizzazione della prestazione lavorativa, periodicità del compenso) non era emerso un potere del datore di lavoro di improntare in termini vincolanti e continuativi le modalità della prestazione lavorativa ma un mero coordinamento dell’attività del professionista con quella dello studio: «ciascun professionista operava nell’ambito di un team, composto da neolaureati, commercialisti ed eventualmente avvocati ... L’incarico quindi veniva svolto in completa autonomia ed in assenza di indicazioni e direttive nonché controlli se non per il risultato della prestazione ... mancando qualsiasi prova del fatto che la … dovesse attenersi ad indicazioni circa i criteri (sia pure di massima) per l’elaborazione della consulenza; parimenti è dimostrato che vi fosse una verifica, durante l’espletamento dell’incarico, sulle modalità dell’espletamento medesimo».
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Appunti sulla crisi (della crisi?) della subordinazione
particolare nelle riunioni serali quotidiane in cui venivano esaminate tutte le pratiche trattate e dettate indicazioni sull’attività da svolgere il giorno seguente; d) la natura prevalente dell’attività rispetto ad un’altra attività di arbitro che il collaboratore svolgeva nel tempo libero; e) la sostanziale osservanza di un orario lavorativo imposto dalla stessa organizzazione dello studio; f) la natura delle mansioni svolte, di supporto a quelle dell’avvocato e nell’interesse dei clienti di quest’ultimo. Infine nel corso del giudizio è stata ritenuta irrilevante a fini qualificatori la circostanza che il compenso del collaboratore fosse parametrato in misura percentuale ai ricavi netti dello studio legale. Per una terminalista addetta alla ricezione di scommesse in un’agenzia ippica, la Cassazione17 ha confermato la sentenza di merito che aveva accertato la natura subordinata di un rapporto perché dall’istruttoria era emerso che: a) il lavoro degli addetti alla ricezione di scommesse si svolgeva nei locali dell’agenzia, secondo orari predeterminati e articolati in turni; b) i turni erano stabiliti dall’agenzia che predisponeva un calendario sulla scorta delle disponibilità individuali; c) le prestazioni venivano rese secondo un orario che i lavoratori, una volta accettato il turno, erano obbligati a rispettare; d) in caso di indisponibilità i lavoratori erano tenuti ad avvertire preventivamente il responsabile dell’agenzia; e) i lavoratori non avevano alcuna attrezzatura personale e non correvano alcun rischio economico, essendo il loro compenso comunque garantito; f) i lavoratori erano tenuti a norme di comportamento nello svolgimento dell’attività lavorativa ed erano sottoposti alla vigilanza e controllo da parte del responsabile dell’agenzia; g) le mansioni svolte non comportavano l’espletamento del potere direttivo in via continuativa, in quanto, una volta apprese le operazioni da compiere, dopo un periodo di iniziale addestramento, le stesse si rivelavano semplici e non esigevano un alto grado di professionalità. Per il responsabile di un call center decisive per la subordinazione sono risultate la presenza del lavoratore tutti i giorni in ufficio (con un orario di lavoro più lungo rispetto a quello degli altri operatori) e la circostanza che il lavoratore riferisse, anche in dettaglio, circa l’attività svolta e ricevesse direttive sulla chiusura del call center, sugli orari da rispettare, sulle strategie da seguire nell’attività di recupero. È stata invece ritenuta irrilevante l’assenza di un controllo quotidiano e costante da parte del datore di lavoro, «dovendosi considerare che, allorquando, come nella specie, il lavoratore assuma la responsabilità di una filiale o di una dipendenza, il potere datoriale di direzione ben può manifestarsi non in ordini e controlli continui e pervasivi bensì attraverso l’emanazione di indicazioni generali e programmatiche»18. Per i messi notificatori, il giudice di legittimità ha confermato le sentenze di merito che avevano accertato la natura subordinata del rapporto valorizzando l’emanazione di indicazioni di carattere programmatico de die in diem 19, costituendo indici rilevatori della
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Cass., 11 ottobre 2017, n. 23846. Nello stesso senso anche Cass., 13 febbraio 2018, n. 3457 che, richiamando altri precedenti di legittimità, ribadisce l’irrilevanza a fini qualificatori del fatto che il singolo lavoratore fosse libero di accettare o non accettare di lavorare, rilevando, invece, la circostanza che il rapporto, una volta accertato l’incarico, fosse stabilmente inserito nell’organizzazione datoriale. 18 Cass., 27 ottobre 2016, n. 21710, in FI, 2016, 12, I, 3289. 19 Cass., 16 novembre 2018, n. 29640.
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subordinazione la programmazione quotidiana e, quindi, la specificazione in concreto, da parte del datore, del lavoro dei collaboratori e l’inserimento delle prestazioni lavorative nell’organizzazione imprenditoriale. Le direttive programmatiche de die in diem sono pure state richiamate in una meno recente sentenza sulla prestazione di lavoro del fisioterapista20. In tal caso il potere direttivo è stato esercitato tramite la predisposizione datoriale dell’agenda degli impegni, l’attribuzione dei pazienti e la definizione del tipo di prestazione da eseguire, senza alcuna possibilità per il dipendente di discutere o rifiutare le direttive medesime. In un caso di un propagandista farmaceutico, il cui lavoro si svolgeva con margini di discrezionalità ma nell’ambito di direttive di ordine generale impartite dalla casa farmaceutica, la Corte di cassazione ha cassato la sentenza di appello che aveva escluso la natura subordinata del rapporto. Nella sentenza di legittimità si è affermato che: «il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro… diviene, con l’evolversi dei sistemi di organizzazione del lavoro verso una sempre più diffusa esteriorizzazione di interi settori del ciclo produttivo o di una serie di professionalità specifiche, sempre meno significativo della subordinazione, mentre, in riferimento a tali nuove realtà, assume valore di indice determinante della subordinazione l’assunzione per contratto dell’obbligazione di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative e di impiegarle, con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro e in funzione dei programmi cui è destinata la prestazione, per il perseguimento dei fini propri dell’impresa datrice di lavoro»21. Per degli insegnanti utili ai fini della qualificazione sono stati la retribuzione fissa, l’orario delle lezioni concordato ma obbligatorio, l’obbligo di avvertire in caso di assenza e di produrre per le malattie certificato medico, la firma del registro delle presenze, l’obbligo di seguire i programmi ministeriali e di partecipare alle attività complementari, quali consigli di classe, riunioni con i genitori, in date fissate dal preside, l’obbligatoria partecipazione ai moduli organizzativi del servizio scolastico22. In un’altra sentenza23, il giudice di legittimità ha cassato la sentenza di appello che aveva valorizzato, per l’autonomia del rapporto di lavoro, la libertà di insegnamento ed aveva invece ritenuto irrilevanti elementi quali l’obbligo di comunicare l’assenza per consentire la sostituzione in aula dei docenti, la partecipazione dei docenti ai consigli di classe o ai colloqui con i genitori, lo stabile inserimento nell’organizzazione aziendale con obbligo di osservare gli orari. Per un giornalista, la Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva valorizzato la circostanza che il giornalista avesse svolto per il giornale un lavoro «connotato dalla presenza in redazione di mattina e di pomeriggio, dall’utilizzazione di strutture aziendali (computer, anche seppure meno intensamente quelli collegati in rete, telefono ecc. ), dall’espletamento di compiti di cucina redazionale – anche di sistemazione e controllo degli articoli trasmessi dai corrispondenti esterni – con inserimento organico nella
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Cass., 9 aprile 2014, n. 8364, in FI, 2014, I, 1760. Cass., 6 luglio 2001, n. 9167, in RIDL, 2002, II, 272, con nota di Agostini. 22 Cass., 19 aprile 2010, n. 9252. 23 Cass., 30 gennaio 2014, n. 2056. 21
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redazione alla quale assicurava in alternativa con altra persona la presenza, comunicando eventuali assenze»24.
3. La subordinazione non si attenua. L’incursione giurisprudenziale, pur nella sua parzialità, mostra che in quelle fattispecie vi è stato un potere unilaterale del datore di lavoro, vincolante per il lavoratore, che si è espresso attraverso indicazioni generali, direttive giornaliere, programmazione quotidiana. Le fattispecie poi evidenziano che è rilevante, a fini qualificatori, il potere del datore di lavoro di organizzare la prestazione e le prestazioni (si pensi alla programmazione dei pazienti nel caso del fisioterapista, l’individuazione degli orari di apertura e chiusura e degli orari da far rispettare agli altri lavoratori nel caso dei call center, la programmazione didattica nel caso degli insegnanti). Però i principi di diritto di queste sentenze affermano qualcosa di diverso: per queste prestazioni di lavoro – si afferma – non è agevole apprezzare l’assoggettamento al potere direttivo del datore di lavoro. Ricorrente è la massima secondo cui: «l’elemento dell’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui si presenta in forma attenuata in quanto non agevolmente apprezzabile a causa dell’atteggiarsi del rapporto, sicché occorre fare riferimento a criteri complementari e sussidiari, come quelli della collaborazione, della continuità delle prestazioni, dell’osservanza di un orario determinato, del versamento a cadenze fisse di una retribuzione prestabilita, del coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo dato dal datore di lavoro, dell’assenza in capo al lavoratore di una sia pur minima struttura imprenditoriale»25. Le massime possono essere fuorvianti perché consegnano al lettore il convincimento che quei lavoratori possono rientrare nell’area della subordinazione solo se si abbandona una nozione rigida e forte della fattispecie ed invece si abbraccia una nozione evolutiva nella quale la etero-direzione scompare, si attenua. Il sottointeso, in tal caso, è che la etero-direzione (e la subordinazione) si identifichi in quello che in quelle sentenze (o meglio massime) non c’è e cioè in «… ordini specifici, inerenti alla particolare attività svolta e diversi dalle direttive d’indole generale, … una direzione assidua e cogente, … una vigilanza e … un controllo costanti, … un’ingerenza, idonea a svilire l’autonomia del lavoratore»26. Quest’ultima però è operazione esegetica con la quale non si opera la sussunzione entro una fattispecie neutra, ampia e flessibile, ma si richiama un peculiare modo di essere della subordinazione, un modello sociale di riferimento che è il dipendente della grande impresa fordista, per lo più operaio.
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Cass., 11 gennaio 2018, n. 508. Cass., 25 febbraio 2019, n. 5436. 26 C. cost., 7 maggio 2015, n. 76, cit. 25
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Questo ancoraggio è però erroneo. Vi sarebbero da svolgere considerazioni di tipo sociologico e storico27 ma il profilo di erroneità più evidente è quello giuridico, perché la fattispecie di cui all’art. 2094 c.c. ha una massima flessibilità espansiva interna che è testimoniata non solo dalla formula legislativa (che tiene insieme il lavoro manuale ed il lavoro intellettuale) ma anche dall’art. 2095 c.c. il quale, come noto, riconosce dei social-tipi che però vanno dall’operaio al dirigente d’azienda. In un insuperato contributo Napoli ci ha ricordato che «il valore dell’art. 2094, quale che sia la sua capacità qualificatoria, sta proprio nel fatto di prescindere dalle concrete determinazioni storiche da cui esso possa apparire condizionato… [esso] non presuppone alcun prototipo normativo, poiché tutti i tipi sociali di lavoro subordinato appaiono compatibili con la definizione formale, formulata necessariamente a un livello elevato di astrazione, in esso contenuta, così come avviene per tutte le definizioni contrattuali. In ogni caso, essa va letta in modo tale da esprimere il massimo di generalità»28. Non bisogna dunque minimizzare la flessibilità interna della fattispecie (che è massima). Tale flessibilità poi non può non riverberarsi sul potere che quel contratto attribuisce al creditore della prestazione di lavoro. Si tratta, come noto, di un potere unitario, complesso29, a struttura aperta, le cui modalità dipendono dal tipo di organizzazione produttiva e dalle professionalità dei lavoratori che siano destinatarie delle disposizioni datoriali30. Come per la subordinazione anche per la etero-direzione, il legislatore del ’42 non ha fornito particolari caratterizzazioni ma si è limitato solo a stabilire che le disposizioni datoriali possono avere una duplice funzione e riguardare l’esecuzione della prestazione e la sua disciplina (art. 2104, comma 2, c.c.)31.
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È erroneo da un punto di vista sociologico perché quello dell’operaio fordista è un modello oggi in forte declino e che non coincide con una larga parte di lavoratori con contratto di lavoro subordinato, e per i quali, cioè, non si discute della natura del rapporto. Analogamente Lazzari, Alla ricerca di tutele per i gig-workers, fra supplenza giurisprudenziale, regolazione sociale e tentativi di normazione eteronoma, in ADL, 2019, 3, 514; è erroneo da un punto di vista storico perché il modello fordista si è significativamente diffuso nel nostro ordinamento almeno vent’anni dopo l’entrata in vigore del Codice civile. Come ha ricordato puntualmente la dottrina (Mariucci, Subordinazione e itinerari della dottrina, in Pedrazzoli (a cura di), Lavoro subordinato e dintorni. Comparazioni e prospettive, Bologna, 1989, 70) l’operaio fordista «emerge come referente sociale della nostra legislazione, vale a dire come indicatore del prototipo del lavoratore occupato a tempo pieno e indeterminato in una impresa di medio-grandi dimensioni, soltanto nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori. Tutta la legislazione sviluppatasi tra il 1948 ed il 1970 riguarda infatti gli interventi in materia di collocamento, apprendistato, lavoro a domicilio, appalti di manodopera, lavoro a termine, oltre che di lavoro femminile. In questa legislazione non c’è il famoso “prototipo”». 28 Napoli, Contratto e rapporto di lavoro, oggi, in Aa.Vv., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, II, Giuffrè, 1995, 11031104. Di recente v. pure Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, cit., 6-7, il quale richiama pure le parole di Barassi, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Società editrice libraria, 1901, 29 sulla coesistenza tra l’operaio ed il direttore di banca; Nogler, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 267/2015, 18. 29 Perulli, Il potere direttivo dell’imprenditore, Giuffrè, 1992, 138 ss. 30 Grandi, Rapporto di lavoro, in ED, Giuffrè, 1987, 349. 31 Sulla rilevanza delle previsioni codicistiche in materia di potere direttivo o organizzativo, Nogler, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’“autorità del punto di vista giuridico”, cit., 21.
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Nel Codice civile si utilizza, col proverbiale linguaggio militaresco, il termine disposizione che rispecchia perfettamente la natura unilaterale del potere32. La etero-direzione non si esaurisce nelle disposizioni per l’esecuzione (o potere conformativo)33, le quali, comunque, non si estrinsecano di necessità in ordini specifici e puntuali. La etero-direzione è anche il potere unilaterale di predisporre delle regole che non sono strettamente finalizzate all’adempimento della prestazione e che assicurano l’organizzazione del lavoro, il contesto organizzato entro il quale la singola prestazione deve essere eseguita34 la quale deve essere appunto coordinabile35 o organizzabile36. Le funzioni della etero-direzione possono avere delle varianti nominalistiche (potere conformativo/potere direttivo in senso proprio, potere di specificazione/potere di organizzazione). Ricordiamo che in una delle più compiute trattazioni le funzioni del potere direttivo sono state ricostruite secondo la tripartizione potere di specificazione, potere di coordinamento organizzativo spaziale e temporale, potere di organizzazione interna37. Queste acquisizioni, in linea tendenziale scontate, sono in larga parte coincidenti con il risultato finale a cui giunge la giurisprudenza allorquando qualifica come subordinati i lavoratori “attenuati”. Le indicazioni generali, le direttive de diem in die, le direttive impresse nell’organizzazione, il coordinamento organizzativo, la predisposizione di orari e di obiettivi generali sono forme di estrinsecazione della etero-direzione. La correttezza del risultato finale cui giunge la giurisprudenza non esime da una minima emendatio: non ha senso richiamare l’attenuazione, l’allargamento o l’aggiornamento della subordinazione. La subordinazione non si attenua e può essere accertata anche attraverso funzioni diverse della etero-direzione che intercettino il potere del datore di organizzare globalmente la prestazione lavorativa coordinandola con quella degli altri lavoratori. Si badi bene però: questa funzione della etero-direzione non è innovativa né evoluta ma è congenita alla fattispecie codicistica38, sia per la ricomprensione di figure di lavoratori che non sono tradizionalmente assoggettate al potere conformativo (dirigente, quadro e
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Ancora Nogler, op. ult. cit., 22, secondo cui il termine disposizione si presta ad essere inteso come regola (richiamando Grandi, Riflessioni sul dovere di obbedienza nel rapporto di lavoro subordinato, in ADL, 2004, 3, 729, nt. 13): regola che, anche quando riguardi regole di condotta generale, trova comunque la sua fonte nell’art. 2104 c.c. L’A. ha ribadito la propria posizione in Id., Gli spazi di lavoro nelle città tra innovazioni tecnologiche e “regressioni” interpretative, cit., 33-34. 33 Grandi, op. cit., 349, ricorda che il potere determinativo (o di conformazione) non esaurisce il più ampio spettro di manifestazioni del potere direttivo: «potere di dirigere la prestazione non è soltanto la prerogativa di individuare il contenuto dell’attività di lavoro concretamente dovuta (o di modificarne unilateralmente il contenuto attraverso l’esercizio del jus variandi) ma anche quello di organizzare più globalmente la prestazione stessa nelle sue modalità tecniche, funzionali, disciplinari, di tempo e di luogo, non essendo ininfluente a questi fini, il contesto organizzativo in cui l’attività di lavoro si esplica». 34 V. Liso, op. cit., 56; Napoli, op. cit., 1134; più di recente, Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Giappichelli, 2004, 51; secondo Persiani, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, 1966, 201, la formula di cui all’art. 2104, comma 2, c.c. è un’endiadi anche se, come noto, la sua teoria, nel riconoscere la funzione organizzativa del potere direttivo, giunge alle medesime conclusioni operative. 35 Liso, op. cit., 59; l’espressione è stata utilizzata anche da Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, Cedam, 2002, 155. 36 L. Zoppoli, La corrispettività nel contratto di lavoro, Esi, 1991, 148. 37 R. Pessi, Contributo allo studio della fattispecie lavoro subordinato, Giuffrè, 1989, 52 ss. 38 Si esprime in questi termini Ferrante, Alienità dell’organizzazione produttiva e lavoro subordinato. A margine della questione dei ciclo-fattorini, in MGL, 2020, num. spec. 1, 82.
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almeno la fascia alta impiegatizia) sia per il suo chiaro riconoscimento nelle disposizioni per la disciplina del lavoro di cui all’art. 2104, comma 2, c.c. Infine, ricordiamo che la funzione organizzativa del potere direttivo emerge nel giudizio qualificatorio sulla subordinazione attenuata anche nella sua declinazione passiva, come inserimento nell’organizzazione o alienità dell’organizzazione39. L’inserimento nell’organizzazione è un concetto enigmatico40 nel significato, perché può essere fisico o anche solo funzionale, e nella sua funzione nel giudizio qualificatorio. Nella maggior parte delle sentenze è un elemento essenziale nella qualificazione che, o si affianca all’assoggettamento all’etero-direzione41 o si pone con esso in rapporto di consequenzialità logica42. Non mancano però indicazioni diverse che degradano l’inserimento nell’organizzazione ad indice sussidiario43 che, in tale veste, difficilmente si riesce a distinguere dal coordinamento tipico del lavoro parasubordinato44. Alcune delle più recenti evoluzioni normative, però, contribuiscono a risolvere l’enigma. L’interpretazione autentica del coordinamento (art. 409 c.p.c. come novellato dall’art. 15 d.lgs. n. 81/2017) ci consente di escludere che l’inserimento nell’organizzazione, se determinato unilateralmente da una sola delle parti, acceda al lavoro parasubordinato. La novella45 induce a rimeditare quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui «l’inserimento nella organizzazione aziendale e lo stesso utilizzo dei beni aziendali è tipico anche dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, di natura autonoma, sicché tali circostanze non hanno rilievo decisivo»46.
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V., ad esempio, Cass., 13 giugno 2017, n. 14660, che richiama la nota: «“doppia alienità” di risultato (per il cui conseguimento la prestazione è utilizzata”) e di organizzazione (in cui essa si inserisce, c.d. eterorganizzazione) che caratterizza tale rapporto di lavoro, già sul piano della qualificazione». Richiami alla doppia alienità, tra le più recenti, si hanno in Cass., sez. VI, 27 luglio 2019, n. 19657; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26813; in senso opposto v. Cass., 19 novembre 2018, n. 29761. 40 L. Spagnuolo Vigorita, Impresa, rapporto di lavoro, continuità (riflessioni sulla giurisprudenza), in RDC, 1969, 546-547. 41 Tra le più recenti, ad es., Trib. Roma, 18 maggio 2020, n. 2477, in www.iusexplorer.it, secondo cui: «in tema di qualificazione del rapporto di lavoro giornalistico la subordinazione ex art. 2094 c.c., intesa quale inserimento del lavoratore nell’ organizzazione aziendale e dal suo assoggettamento ai poteri direttivi e organizzativi nonché disciplinari del datore di lavoro, risulta attenuata…». 42 V. ad es., Cass., 21 febbraio 2019, n. 5178, secondo cui: «l’elemento che contraddistingue la subordinazione, al di là della qualificazione formale adottata dalle parti, è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva. Non è, altresì, decisiva ai fini della qualificazione la circostanza che la prestazione venga svolta autonomamente, potendo tale carattere conseguire al contenuto tecnico professionale della prestazione concordata». 43 Tra le più recenti Cass., 10 marzo 2020, n. 6758. 44 V., ad es., Cass., 25 febbraio 2019, n. 5436, che, nel caso di una biologa, ha escluso la natura subordinata del rapporto perché dall’istruttoria era emerso che, nonostante la predisposizione dei turni da parte della struttura, l’utilizzazione di strumentazione clinica di proprietà del laboratorio, la lavoratrice aveva la possibilità di non accettare il lavoro e di farsi sostituire discrezionalmente da altri sulla base dei rispettivi impegni. 45 Sebbene la norma sia utile non è innovativa se si considera tali caratteri sono stati pioneristicamente individuati da G. SantoroPassarelli, Il lavoro «parasubordinato», Franco Angeli, 1979, 66 ss. Di recente, Id., Sui lavoratori che operano mediante piattaforme anche digitali, sui riders e il ragionevole equilibrio della Cassazione 1663/2020, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 411/2020, 6. 46 Cass., 5 ottobre 2016, n. 19923; in termini, Cass., 11 gennaio 2018, n. 508; Cass., 15 maggio 2012, n. 7571; Cass., 19 aprile 2010, n. 9252; Cass., 21 aprile 2005, n. 8307 in FI, 2006, 9, I, 2451; Cass., 13 giugno 2003, n. 9492.
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Nel rapporto di lavoro subordinato, invece, le prestazioni sono inserite in un’organizzazione estranea (aliena) al lavoratore e predisposta unilateralmente dalla sua controparte contrattuale attraverso un potere (di direzione ma nella sua funzione organizzativa) che trova la sua fonte nel contratto di lavoro. In altri termini l’inserimento nell’organizzazione (o l’alienità dell’organizzazione) è il «riflesso strutturale»47 del potere unilaterale di direzione: il primo si colloca in rapporto di conseguenzialità logica e giuridica rispetto al secondo48. Tale conclusione è in linea con un parte della giurisprudenza secondo cui: «l’elemento che contraddistingue la subordinazione, al di là della qualificazione formale adottata dalle parti, è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva» (corsivi miei)49. Infine non avendo il potere direttivo una modalità di estrinsecazione predeterminata non si può pretendere di dare al suo effetto (o riflesso strutturale), e cioè l’inserimento nell’organizzazione, una determinata conformazione (ad esempio inserimento fisico). A seconda del tipo di professionalità e di organizzazione datoriale, l’inserimento nell’organizzazione può essere fisico o anche solo funzionale.
4. Fatti e misfatti nella vicenda dei ciclofattorini. E veniamo agli scossoni più recenti. Partiamo dalla celebre vicenda giudiziaria dei ciclofattorini50 che, come noto, si è intrecciata ed anzi ha avuto il merito di intercettare le varie soluzioni offerte dalla dottrina a commento della novella del 2015 in materia di collaborazioni etero-organizzate. Prima di affrontare questi ulteriori profili qualificatori, ancora una volta è utile ricostruire i fatti di causa. Le parti avevano sottoscritto un contratto di collaborazione coordinata e continuativa nel quale si prevedeva l’autonomia del ciclofattorino “fatto salvo il necessario coordinamento generale con l’attività della stessa committente”.
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Napoli, op. cit., 11. Si precisa che l’A. collegava l’inserimento nell’organizzazione alla dipendenza di cui all’art. 2094 c.c. Su questa linea pure Barbieri, op. cit., passim che rievoca la mengoniana doppia alienità e lucidamente ricorda (14) il pt. 844 della Relazione al Codice civile del ’42 da cui emerge il chiaro collegamento tra subordinazione e inserimento nell’organizzazione. 48 Non pare invece che l’inserimento nell’organizzazione possa integrare la dipendenza di cui all’art. 2094 c.c. La dipendenza, o meglio il lavoro alle dipendenze, è da intendersi in senso gerarchico, in linea con le altre indicazioni provenienti dal Codice civile (artt. 2086, 2104 c.c.). Sul tema v. convincentemente Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, cit., 52 ss. 49 Cass., 21 febbraio 2019, n. 5178, cit. 50 Cass., 24 gennaio 2020, n. 1663, in RIDL, 2020, II, 76 ss., con nota di Ichino; prima App. Torino, 4 febbraio 2019, n. 26, in RIDL, 2019, 2, 340 ss. con note di M.T. Carinci e Del Punta; Trib. Torino, 7 maggio 2018, n. 778, in Labor, 2018, 603, con nota di Gramano; Trib. Milano, 10 settembre 2018, n. 1853, ivi, 2019, 107, con nota di Forlivesi.
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La prestazione presupponeva il possesso di una bicicletta e di uno smartphone da parte del collaboratore a cui poi la committente forniva, dietro il versamento di una caparra, gli indumenti di lavoro, i dispositivi di sicurezza (casco, giubbotto e luci) e l’attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box). Il fattorino era libero di candidarsi per una specifica corsa. Una volta candidatosi, però, era tenuto ad effettuare (la sentenza di Cassazione, pt. 51, lo qualifica come obbligo) la consegna entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, con il rischio di addebito di una penale in caso di ritardo. Il compenso era parametrato alle ore di disponibilità. Il coordinamento generale della prestazione era effettuato da una piattaforma multimediale che era collegata ad un applicativo per smartphone, per il cui uso venivano fornite dalla committente apposite istruzioni. Le modalità di funzionamento sono chiaramente ricostruite dalla Corte di cassazione (pt. 10) nei termini che seguono: «la azienda pubblicava settimanalmente [n.d.a. sulla piattaforma multimediale] le fasce orarie (slot) con l’indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno. Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per le varie fasce orarie in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo. Raccolte le disponibilità, il responsabile della “flotta” confermava … ai singoli riders l’assegnazione del turno. Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all’orario di inizio di quest’ultimo in una delle tre zone di partenza predefinite …, attivare l’applicativo [n.d.a. installato sul proprio smartphone] inserendo le credenziali (nome dell’utilizzatore, user name, e parola d’ordine, password) per effettuare l’accesso (login) e avviare la geolocalizzazione (GPS). Il rider riceveva quindi sull’applicazione la notifica dell’ordine con l’indicazione dell’indirizzo del ristorante. Accettato l’ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite l’apposito comando dell’applicazione il buon esito della verifica. A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite l’applicazione, e doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna»51. Nella sentenza di primo grado e nella sua gemella del Tribunale di Milano era pure emerso che i ciclofattorini potessero ricevere delle telefonate di sollecito durante l’effettuazione della consegna perché la piattaforma informatica consentiva di vedere dove si trovava il rider in un determinato momento e di verificare se fosse in ritardo. In entrambe le sentenze di primo grado è poi apparso – ma solo al livello di dichiarazioni delle parti in giudizio – che alcune condotte dei ciclofattorini (insubordinazioni, lamentele o comportamenti non graditi) determinassero l’esclusione, temporanea o definitiva, dalla piattaforma informatica e, più in generale, dalla possibilità di lavorare52.
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Cass., 24 gennaio 2020, n. 1663, cit. La circostanza è emersa in maniera plateale nella vicenda Uber Italy di cui al decreto del Tribunale di Milano (Trib. Milano, Sez. Aut. Misure di Prevenzione, 28 maggio 2020, n. 9, in www.wikilabour.it). Nel provvedimento emerge la vincolatività dell’organizzazione della prestazione dei fattorini i quali, se non aderivano alle indicazioni orarie “raccomandate” dal committente, non potevano più lavorare (in un messaggio si scrive chiaramente “altrimenti arrivederci e grazie”). Emerge altresì il potere del committente di
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È utile a questo punto soffermarsi sulla qualificazione sia per l’inquadramento delle collaborazioni etero-organizzate sia per i nessi con le nozioni giurisprudenziali di subordinazione. In primo grado, il giudice torinese53 ha escluso la subordinazione muovendo da un richiamo alla cd. subordinazione forte («emanazione di ordini specifici, oltre che … esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo dell’esecuzione della prestazione lavorativa»). Tale nozione è stata ritenuta incompatibile con la circostanza che i ciclofattorini potessero dare la propria disponibilità a lavorare54. È stata poi esclusa la riconduzione entro le collaborazioni di cui all’art. 2 perché il giudice, aderendo alla ricostruzione dottrinale della norma apparente55, ha ritenuto che la novella del 2015 non avesse un contenuto capace di produrre nuovi effetti giuridici sul piano della disciplina applicabile. Anche il giudice d’appello ha escluso la natura subordinata del rapporto sulla base di argomentazioni identiche a quelle di primo grado56 ma diversa è stata la valutazione della fattispecie dell’art. 2. Secondo la Corte d’appello di Torino la «etero-organizzazione in capo al committente… viene così ad avere il potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa del collaboratore e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro. Pur senza “sconfinare” nell’esercizio del potere gerarchico, disciplinare (che è alla base della eterodirezione) (corsivo mio) la collaborazione è qualificabile come etero-organizzata quando è ravvisabile un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nella organizzazione produttiva del committente, in modo tale che la prestazione lavorativa finisce con l’essere strutturalmente legata a questa (l’organizzazione)». La eteroorganizzazione sarebbe una sorte di tertium genus tra subordinazione e collaborazione ex art. 409 c.p.c. e corrisponderebbe ad una integrazione funzionale del collaboratore del quale il committente fissa unilateralmente tempi e luoghi di lavoro. La Corte d’appello ha sussunto la fattispecie concreta entro la collaborazione ex art. 2 e ciò ha comportato non la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato ma l’applicazione ad un rapporto di lavoro autonomo di alcune delle discipline del lavoro subordinato. L’ultimo capitolo della saga è la celeberrima sentenza del 202057 con la quale la Cassazione ha rigettato il ricorso del committente, confermando la sentenza di appello58. Il Giudice di legittimità non ha potuto e non ha voluto pronunciarsi sulla qualificazione delle fattispecie.
disattivare gli account dei ciclofattorini che protestavano. Trib. Torino, 7 maggio 2018, n. 778, cit.; in termini anche Trib. Milano, 10 settembre 2018, n. 1853, cit. 54 Nella sentenza del Tribunale si afferma: «questa caratteristica del rapporto di lavoro intercorso tra le parti può essere considerata di per sé determinante ai fini di escludere la sottoposizione dei ricorrenti al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro perché è evidente che se il datore di lavoro non può pretendere dal lavoratore lo svolgimento della prestazione lavorativa non può neppure esercitare il potere direttivo e organizzativo». 55 Tosi, Autonomia, subordinazione e coordinazione, in Labor, 2017, 3, 251. 56 App. Torino, 4 febbraio 2019, n. 26, cit. Anche secondo il giudice di appello mancava la “obbligatorietà della prestazione”. Il Giudice di appello, nella motivazione, dichiara di non condividere quella giurisprudenza di legittimità che invece, in una fattispecie relativa alle agenzie ippiche, aveva ritenuto irrilevante a fini qualificatori la libertà di scelta del lavoratore sul quando lavorare. 57 Basti considerare che ad essa è stato dedicato un numero monografico straordinario del Massimario di giurisprudenza del lavoro. 58 Anche se in motivazione sono vari i profili di discontinuità rispetto alla sentenza di appello. 53
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Non ha potuto prendere posizione sulla qualificazione della attività controversa come subordinata perché essa non faceva parte più della materia del contendere. La questione avrebbe dovuto essere promossa dai fattorini i quali, però, erano sostanzialmente vittoriosi in appello e quindi non avevano interesse ad agire. La Suprema Corte ha dichiarato di non volersi pronunciare sul tanto atteso tema della qualificazione delle collaborazioni ex art. 2 (pt. 25) ed ha propugnato un approccio rimediale: allorquando una collaborazione (formalmente autonoma o parasubordinata o priva di contratto) si realizzi con l’«ingerenza funzionale predisposta da chi commissiona la prestazione» si applica la disciplina del lavoro subordinato59. Passando al setaccio la sentenza, è facile avvedersi che nonostante il dichiarato intento di non porsi il problema qualificatorio, esso riemerga, peraltro contraddittoriamente, in molti dei passaggi argomentativi. In primo luogo si evoca «una terra di mezzo dai confini labili» e «una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione» entro cui si collocano i collaboratori «evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica» e considerati meritevoli di una tutela omogenea a quella dei lavoratori subordinati (pt. 27)60. In alcuni passaggi argomentativi pare, poi, che la Cassazione presupponga una qualificazione delle collaborazioni in termini di rapporto di lavoro autonomo61. Depone in tal senso la chiara presa di posizione in favore della qualificazione dell’art. 2 come norma di disciplina (pp.tt. 25, 39). Posto che non sempre è chiaro cosa si voglia intendere con tale formula e con quella, alternativa, della norma di fattispecie62, non possiamo non ricordare che la autorevole dottrina che ha sostenuto tale opzione ha sempre propugnato la natura autonoma delle collaborazioni63. Depone in favore dell’autonomia anche un’altra affermazione che riguarda la parte della sentenza sulla disciplina del lavoro subordinato applicabile alle collaborazioni. La Cassazione, dopo aver correttamente precisato che l’art. 2 non contiene alcun elemento idoneo a selezionare la disciplina del lavoro subordinato applicabile (pt. 40), aggiunge l’inquietante precisazione secondo cui «non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie
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«Il massimo del pragmatismo», secondo Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, cit., 22. 60 La Cassazione emenda però la decisione di appello che aveva parlato di tertium genus, ritenendo non necessario tale inquadramento. Quale che sia la prospettazione di fondo, c’è un evidente equivoco tra i genera richiamati dai due giudici. La Corte d’appello aveva parlato delle collaborazioni come tertium genus tra subordinazione e lavoro parasubordinato. La Cassazione invece esclude che le collaborazioni siano un tertium genus tra subordinazione ed autonomia. Forse la Corte d’appello avrebbe dovuto più correttamente richiamare un quartum genus (subordinazione, autonomia, parasubordinazione e collaborazioni ex art. 2) ma comunque quest’area ci pare che descriva esattamente la terra di nessuno propugnata dalla Corte di cassazione. 61 Sul punto v. pure, tra i più recenti, Ichino, La stretta giurisprudenziale e legislativa sulle collaborazioni continuative, in RIDL, 2020, 1, 91. 62 Per una attenta ricostruzione D’Ascola, op. cit., 5 ss. 63 Ci si riferisce in particolare alla riflessione di Perulli. Tra gli ultimi scritti v. Id., Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 410/2020, passim. V. pure Del Punta, Sui riders e non solo: il rebus delle collaborazioni organizzate dal committente, in RIDL, 2019, II, 359 ss., a cui si deve la paternità delle formule norma di fattispecie e norma di disciplina.
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da regolare». Se può esservi una incompatibilità essenziale con la subordinazione, questa si può avere solo per un rapporto di lavoro autonomo o comunque non subordinato. In senso opposto, poi, vi sono alcuni passaggi che paiono rievocare i consueti canoni della qualificazione dei rapporti di lavoro presupponendo in definitiva la subordinazione. Il primo è relativo alla natura anti-elusiva dell’art. 2. Nella parte iniziale (pp.tt. 22, 23, 24) della pronuncia, la Cassazione ricorda che a fronte dell’abrogazione del lavoro a progetto e della riespansione della disciplina generale più ampia delle co.co.co., il legislatore, per prevenire abusi, ha disposto l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato con l’art. 2. I concetti di abuso o di frode in punto di qualificazione non possono non riguardare la fattispecie lavoro subordinato e quindi una norma anti-elusiva come quella di cui all’art. 2 serve a stoppare i rischi di fuga, appunto, della disciplina protettiva del lavoro subordinato64. In questa prospettiva l’art. 2 si pone in continuità con la previgente disciplina del lavoro a progetto anche se è una continuità parziale. Vi è continuità ad esempio con la previgente previsione dell’art. 69, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 che – come noto – disponeva la trasformazione (rectius qualificazione) in rapporto subordinato allorquando il giudice accertava che il rapporto di lavoro formalmente a progetto avesse configurato un rapporto di lavoro subordinato. Entrambe le ipotesi, infatti, attengono al profilo funzionale e cioè alle modalità concrete attraverso le quali si esplica l’attività lavoratore. Non pare vi sia continuità con l’art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276/2003 che prevedeva la presunzione assoluta di subordinazione in caso di mancanza del requisito formale del progetto ed indipendente dalle modalità concrete di svolgimento della prestazione. Un richiamo ai consueti canoni di qualificazione emerge poi dalla distinzione tra la fase genetica dell’accordo di collaborazione e la sua fase funzionale (pp.tt. 33, 52). Nella fase genetica secondo la Cassazione vi è l’autonomia del lavoratore per la sua mera facoltà di obbligarsi alla prestazione. Nella fase funzionale invece si manifesterebbe la eteroorganizzazione che giustifica l’applicazione della disciplina della subordinazione: ebbene la difformità tra quanto dichiarato dalle parti e quanto effettivamente realizzatosi è, come noto, il cuore del processo di qualificazione della subordinazione. Infine nel pt. 24 della sentenza si precisa che il legislatore «conscio degli esiti incerti delle controversie qualificatorie ai sensi dell’art. 2094 cod. civ, si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare la disciplina dettata per il rapporti di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi».
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V. G. Santoro-Passarelli, Sui lavoratori che operano mediante piattaforme anche digitali, sui riders e il ragionevole equilibrio della Cassazione 1663/2020, cit., 3.
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Possiamo non essere d’accordo sulla loro natura fattuale, è però innegabile che la ipostatizzazione legislativa di indici che la giurisprudenza utilizza per accertare la subordinazione presupponga che quelle prestazioni siano subordinate. Dunque tra il detto ed il non detto della sent. n. 1663/2020 emergono numerosi profili di incertezza che rendono la pronuncia di legittimità realmente interlocutoria65. Nei vari passaggi descritti, tutti gli interpreti che si sono schierati nelle contrapposte ricostruzioni sulle collaborazioni etero-organizzate possono rinvenire un frammento della loro verità (autonomia, subordinazione, zona grigia, approccio rimediale) di guisa che “hanno tutti ragione”. A nostro avviso invece la Corte di cassazione ha perso l’occasione di fornire un contributo al tema della qualificazione che è e resta ineludibile66, perché davanti ai giudici (e davanti agli interpreti) si presenteranno persone che lavorano in carne ed ossa e quelle attività dovranno essere qualificate per collegare alle fattispecie gli effetti giuridici previsti dall’ordinamento. È questo a nostro avviso il punto di maggiore tensione del tema che è perfettamente rappresentato dalla sentenza di legittimità che se da un lato riconosce che l’interprete non è autorizzato a selezionare la disciplina applicabile dall’altro non esclude che vi possano essere discipline del lavoro subordinato che siano ontologicamente incompatibili con le collaborazioni. Non è un caso, ad esempio, che una parte della dottrina per cd. autonomista escluda l’applicazione della disciplina previdenziale del lavoro subordinato67 o quella dei tipici poteri datoriali68.
5. Il problema qualificatorio dell’art. 2. La ineluttabilità della qualificazione impone dunque di misurarsi con il già ricco dibattito sul tema. Come noto, sulle collaborazioni etero-organizzate la dottrina si è polarizzata in due macro-orientamenti che rieditano la «grande dicotomia»69 del diritto del lavoro e che,
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Particolarmente critico è Romei, I rider in Cassazione: una sentenza ancora interlocutoria, in RIDL, 2020, I, 90 ss., il quale ricostruisce accuratamente il non detto della sentenza; evoca «ulteriori stanze al labirinto interpretativo» Santucci, Notazioni metodologiche sulla qualificazione giuridica del lavoro con le “piattaforme digitali”, in MGL, 2020, num. spec. 1, 220. 66 Voza, Il lavoro reso mediante piattaforme digitali tra qualificazione e regolazione, in Quaderni di RGL, n. 2/2017, 76; v. pure Barbieri, op. cit., 16 ss. 67 Persiani, Note sulla disciplina di alcune collaborazioni cordinate, in ADL, 2015, 6, 1265 ss.; Sandulli, Intervento, in Vallebona (a cura di), Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, Colloqui giuridici sul lavoro, MGL, suppl. al n. 12/2015, 119 ss. In chiave più problematica Filì, Le collaborazioni organizzate dal committente nel D.Lgs. n. 81/2015, in LG, 2015, 12, 1097. Di recente Cinelli – Parisella, “Ciclofattorini” e previdenza sociale dopo la legge n. 128/2019: riflessioni alla luce della recente giurisprudenza, in MGL, 2020, num. spec. 1, 59. 68 Ad es. Ichino, op. cit., 91, esclude l’applicazione dell’art. 2104 c.c.; simile è l’impostazione di Marazza, In difesa del lavoro autonomo (dopo la legge n. 128 del 2019), in RIDL, 2020, I, 63, nt. 10. V. pure M.T. Carinci, I contratti in cui è dedotta una attività di lavoro alla luce di Cass. 1663/2020, in RIDL, 2020, I, 56, esclude tutti i poteri datoriali. Sulle possibili esclusioni v. pure Maresca, Brevi cenni sulle collaborazioni eterorganizzate, ivi, 82 ss. 69 Lassandari, Oltre la “grande dicotomia”? La povertà tra subordinazione e autonomia, in LD, 2019, 81 ss.
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pur con qualche semplificazione, presuppongono una crisi della subordinazione, o di una sua certa variante (cd. subordinazione forte o ristretta). Rispetto all’ampia riflessione dottrinale, riteniamo opportuno sgombrare il campo da due questioni preliminari. La prima riguarda un ritorno a valutazioni socio-economiche nell’approccio esegetico all’art. 2. La Cassazione richiama espressamente la condizione di “debolezza” economica dei collaboratori (pt. 27 della sentenza) e pure la dottrina ha evocato un bisogno di protezione sociale di tali collaboratori70. Si tratta di affermazioni che, se hanno un indubbio valore descrittivo, sono estranee al testo normativo. A differenza di (vani) tentativi legislativi di afferrare condizioni reddituali del lavoratore (si pensi all’art. 69-bis d.lgs. n. 276/2003), la nozione di prestazioni le cui modalità siano organizzate dal committente non fa riferimento alla dipendenza, alla debolezza economica o allo stato di bisogno dei lavoratori, così come tali riferimenti non vi sono nell’art. 2094 c.c.71 di cui, peraltro, si intende estendere la disciplina. Aggiungiamo poi che il riferimento alla debolezza economica potrebbe rischiare di frustrare la vocazione protettiva dell’art. 2 escludendo posizioni di lavoratori (si pensi ad alcuni dei lavoratori subordinati attenuati, come il fisioterapista o il maestro) che invece potrebbero rientrarvi ove ci attestassimo al solo dato – giuridico – della etero-organizzazione. La seconda riguarda alcune caratteristiche del potere di organizzazione ex art. 2 che una parte della dottrina riconduce ad un condizionamento di fatto del committente «esterno al contratto fra lavoratore e committente»72 o altra ricollega a modalità organizzative estrinseche della prestazione e della sua esecuzione73. Non pare che dalla pur criticabile formula legislativa sia possibile trarre indicazioni di tal guisa. La legge non individua più un particolare oggetto (intrinseco o estrinseco) della etero-organizzazione74. Essa può aver ad oggetto i tempi, il luogo, uno solo di essi. Ma l’«ingerenza funzionale dell’organizzazione» può riguardare altri profili. Si pensi ad esempio al caso prima descritto degli insegnanti per i quali l’inserimento nell’organizzazione è stato rinvenuto con riguardo alla firma del registro delle presenze, all’obbligo di seguire i programmi ministeriali e di partecipare alle attività complementari, quali consigli di classe,
70
V. pure Perulli, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 272/2015, 13. 71 Si tratta di una notazione tendenzialmente condivisa per la indiscutibile inclusione del dirigente d’azienda nell’art. 2094 c.c. Per tutti, Mengoni, Contratto di lavoro e impresa, in Napoli (a cura di), Il contratto di lavoro, Vita e Pensiero, 2004, 34. 72 M.T. Carinci, I contratti in cui è dedotta una attività di lavoro alla luce di Cass. 1663/2020, cit., 52. Ma v. pure Ead., Il lavoro eterorganizzato si fa strada… sulle ruote dei riders di Foodora, in RIDL, 2019, II, 352. Nel primo scritto l’A. richiama a conforto il pt. 32 di Cass., 24 gennaio 2020, n. 1663, cit., ove tuttavia ci pare che l’aggettivo esterno venga predicato in rapporto alla unilateralità del potere organizzativo. Sulla rilevanza esterna v. pure Maresca, Brevi cenni sulle collaborazioni eterorganizzate, cit., 79. 73 Perulli, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., 28. 74 Ci riferiamo, come noto, al rompicapo relativo alla formula «anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro» contenuta nell’originaria formulazione dell’art. 2 e poi eliminata dal d.l. n. 101/2019, conv. con modificazioni, con la l. n. 128/2019. Ricostruisce accuratamente il dibattito D’Ascola, op. cit., 13 ss.
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riunioni con i genitori, in date fissate dal preside75. Con la differenza, ovviamente, che per gli insegnanti è stata accertata la natura subordinata delle prestazioni. Né dalla legge è possibile trarre lo spostamento all’esterno del contratto della eteroorganizzazione intesa come il «semplice fatto che il lavoratore abbia adattato nel tempo la propria attività di lavoro autonomo alla mutevole organizzazione del committente»76. Una tale ricostruzione rischia di includere entro il perimetro di quella che viene definita fattispecie «trans-tipica»77 prestazioni di lavoro genuinamente autonomo (si pensi ad es. al commercialista aziendale, al consulente del lavoro, al legale, all’idraulico etc.) per le quali il coordinamento con i tempi ed i luoghi del committente non è giuridicamente vincolante. Chiarito che non vi sono limitazioni socio-economiche e oggettive della etero-organizzazione, occorre ancora verificare se tale nozione (che da una parte della dottrina è associata al lavoro autonomo) sia diversa dalla funzione organizzativa del potere direttivo riconosciuto al datore di lavoro78. Facendo tesoro dei risultati già acquisiti (neutralità e flessibilità espansiva interna della fattispecie di cui all’art. 2094 c.c., natura aperta del potere direttivo che include non solo la funzione conformativa ma anche quella organizzativa, i.e. le disposizioni per la disciplina di cui all’art. 2104 c.c.), la risposta non può che essere negativa. Chi distingue le due nozioni, sostiene che la etero-organizzazione sia una facoltà più generica e meno pervasiva della etero-direzione, con una funzione non conformativa nel senso che la prestazione del collaboratore «non è assoggettata all’altrui sfera di comando»79 nella stessa misura di quanto avviene per la subordinazione. Il reciproco di tale affermazione dovrebbe essere che la etero-direzione ha una funzione conformativa, è più pervasiva e il lavoratore subordinato è assoggettato all’altrui sfera di comando in misura maggiore rispetto al collaboratore. Queste affermazioni sono sicuramente vere e corrette se vengono riferite a particolari figure di lavoratore subordinato, a prototipi o social-tipi, presi a modello di riferimento della fattispecie. Si appannano però se si assume la fattispecie dell’art. 2094 c.c. nella sua massima ampiezza e flessibilità o se, ancora più banalmente, si confrontano con quei lavoratori subordinati (attenuati) prima descritti. Quello che il nuovo propone, la etero-organizzazione, sia essa una facoltà di fissazione di modalità organizzative della prestazione che non si estrinsechino in ordini o direttive o una facoltà unilaterale di disporre la ingerenza funzionale nell’organizzazione, coincide senza scarti con la funzione organizzativa del potere direttivo del datore di lavoro80.
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Cass., 19 aprile 2010, n. 9252, cit. Secondo M.T. Carinci, I contratti in cui è dedotta una attività di lavoro alla luce di Cass. 1663/2020, cit., 54. 77 Ivi, 50. 78 Particolarmente indicativo ci pare il pensiero di Persiani, Note sulla disciplina di alcune collaborazioni cordinate, in ADL, 2015, 6, 1257-1258, il quale, dopo aver ritenuto irrilevante la distinzione, ha precisato che la eterorganizzazione «altro non è che un aspetto dell’ “eterodirezione” o, al più, quest’ultima è una specificazione della prima». De Luca Tamajo, La sentenza della Corte d’Appello di Torino sul caso Foodora. Ai confini tra autonomia e subordinazione, in LDE, 2019, 1, 6, ha definito «impalpabile» la differenza tra art. 2 e art. 2094 c.c. 79 Perulli, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, cit., 28. 80 Tra i tanti, Cester, Intervento, in Vallebona (a cura di), Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, Colloqui giuridici sul 76
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Né bisogna dimenticare che tale conclusione è avvalorata dall’art. 29 d.lgs. n. 276/2003 che, come noto, collega all’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori uno degli indici di genuinità dell’appalto81. La conclusione non muterebbe ove si volesse invertire il rapporto tra genere e specie per ritenere che non sia il potere organizzativo una species del potere direttivo ma quest’ultimo una specificazione di un più ampio potere organizzativo del datore di lavoro82.
6. Il cortocircuito della l. 128/2019. Fino alla entrata in vigore della l. n. 128/2019, le conclusioni raggiunte sulla sostanziale equivalenza tra etero-direzione ed etero-organizzazione avrebbero fatto propendere per la tesi della natura subordinata delle collaborazioni ex art. 2. La previsione dell’art. 2 non sarebbe stata inutile ed anzi avrebbe agevolato gli interpreti in due ambiti. Avrebbe messo un argine alla discrezionalità giurisprudenziale ed alle sue diverse, opposte e talvolta escludenti nozioni di subordinazione83. Il riconoscimento della funzione anche solo organizzativa del potere direttivo attraverso l’art. 2 – funzione che comunque è congenita alla fattispecie lavoro subordinato – avrebbe legittimato definitivamente la subordinazione attenuata. L’art. 2 poi avrebbe potuto essere utile per la positivizzazione dell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione84. La formulazione letterale dell’art. 2, allorquando menziona
lavoro, MGL, supplemento al n. 12/2015, 28 ss.; Ferrante, Intervento, ivi, 37; G. Ferraro, Collaborazioni organizzate dal committente, in RIDL, 2016, I, 53 ss.; Mazzotta, Lo strano caso delle collaborazioni organizzate dal committente, in Labor, 2016, 1, 9 ss. 81 Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, cit., 13. Di recente, v. pure Magnani, Subordinazione, eterorganizzazione e autonomia tra ambiguità normative e operazioni creative della dottrina, cit., 111. 82 V. in tal senso Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, cit., 11 il quale riconosce che «il potere di organizzazione è più ampio ed onnicomprensivo rispetto a quello di mera direzione della prestazione: c’è quand’anche manchi o sia ridotto ai minimi termini il potere di direzione». La questione, che non ha effetti sul tema oggetto di riflessione, sposta semmai i termini del problema su cosa debba intendersi per potere di organizzazione e se esso rappresenti un prius rispetto al contratto. Sul tema v., tra i più recenti, Carabelli, Organizzazione del lavoro e professionalità: una riflessione su contratto e posttaylorismo, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 5/2003, 80; Nogler, Contratto di lavoro e organizzazione al tempo del postfordismo, in ADL, 2014, 887 ss.; V. pure le critiche di Gragnoli, La riduzione del personale fra licenziamenti individuali e collettivi, Cedam, 2006, 15 ss. 83 Ancora una volta è indicativa la vicenda dei ciclofattorini per i quali, nei giudizi di merito, è stata esclusa la qualificazione ex art. 2094 c.c. sulla base di una nozione forte di subordinazione. La fattispecie concreta avrebbe potuto essere ricondotta alla subordinazione attenuata. Molte sono le assonanze tra la vicenda dei ciclofattorini e quella della terminalista addetta alla ricezione di scommesse in un’agenzia ippica (Cass., 11 ottobre 2017, n. 23846; Cass., 13 febbraio 2018, n. 3457). Anche in quest’ultimo caso la lavoratrice era libera di scegliere quando accettare il turno, ma una volta accettato, era tenuta al rispetto di regole stringenti fissate unilateralmente dalla controparte contrattuale. 84 Diamanti, Il lavoro etero-organizzato e le collaborazioni coordinate e continuative, cit., 120; G. Santoro-Passarelli, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, n. 278/2015, 16. V. pure Del Punta, op. cit., 363, il quale pure ritiene che l’inserimento nell’organizzazione sia stato positivizzato con l’art. 2 anche se, muovendo dalla premessa logica e giuridica secondo cui le collaborazioni etero-organizzate rappresentino una ipotesi di parasubordinazione qualificata, conclude che l’inserimento nell’organizzazione «sia stato trasportato fuori dalla fattispecie dell’art. 2094, potendo d’ora in poi funzionare, quindi, soltanto come fattore attrattivo della disciplina».
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prestazioni le cui modalità siano organizzate unilateralmente avrebbe potuto confermare che l’inserimento costituisce il riflesso strutturale del potere unilaterale, di organizzazione e di direzione. Con la l. n. 128/2019, ed in particolare con la sostituzione dell’avverbio esclusivamente con prevalentemente riferito alla personalità della prestazione del collaboratore, la conclusione dovrebbe essere modificata perché il lavoro subordinato – come noto – non tollera che la prestazione sia solo in prevalenza personale85. L’utilizzo del condizionale è d’obbligo per diverse ragioni. La conclusione per la subordinazione potrebbe ancora valere nel caso in cui le modalità concrete dei rapporti controversi militino nel senso della esclusiva personalità della prestazione. Residua poi qualche dubbio sulla reale esistenza di una volontà legislativa di allargare le maglie della disciplina del lavoro subordinato anche al genuino lavoro etero-organizzato prevalentemente personale. Dobbiamo ricordare che il legislatore non ha certo brillato nell’intervento del 201986. Oltre alla sostituzione dell’avverbio, ricordiamo che nell’art. 2, comma 1 è stata introdotta una previsione lapalissiana con la quale si riconosce grosso modo che si ha etero-organizzazione anche quando il committente si avvalga di una piattaforma («anche» sic!) digitale. Vi è poi il rompicapo del lavoro occasionale dei ciclofattorini (artt. 47-bis e ss. d.lgs. n. 81/2015), qualificato come autonomo anche se si offre una definizione di piattaforma digitale (art. 47-bis, comma 2, d.lgs. n. 81/2015) che è essenzialmente etero-organizzazione, o forse etero-direzione, ammesso che vi sia una differenza. È indubbio che le modifiche del 2019 siano state condizionate dalla volontà politica di risolvere il problema dei rider evitando che per il possesso di strumenti di lavoro di proprietà dei lavoratori (telefono, bici, auto) si potesse escludere la personalità esclusiva della prestazione prevista dal previgente art. 287 ma l’intervento legislativo topico mostra ancora una volta quanto sia pericoloso maneggiare i concetti giuslavoristici fondamentali sulla base di una figura socialmente definita di lavoratore da proteggere perché oggi ci troviamo di fronte ad una nuova fattispecie che potrebbe consentire l’estensione della (disciplina della) subordinazione a prestatori che non solo abbiano una minima proprietà dei mezzi di produzione ma che possano avvalersi di lavoro altrui. Non è mancato chi ha così rilevato come la protezione del lavoro subordinato si estenderà anche a collaboratori che abbiano uno o due dipendenti: «con il che si istituisce una nuova eccezione di non poco conto al divieto di interposizione»88.
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Perulli, Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, cit., 41; v. anche Mazzotta, L’inafferrabile etero-direzione: a proposito di ciclofattorini e modelli contrattuali, cit., 22; G. Santoro-Passarelli, Sui lavoratori che operano mediante piattaforme anche digitali, sui riders e il ragionevole equilibrio della Cassazione 1663/2020, cit., 4. 86 Magnani, Subordinazione, eterorganizzazione e autonomia tra ambiguità normative e operazioni creative della dottrina, cit., 110, parla di «legge malfatta». 87 V., in termini, Barbieri, op. cit., 43; D’Ascola, op. cit., 20. 88 Ichino, op. cit., 94.
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Al netto dunque della intenzione del legislatore, se si vuole ammettere la natura autonoma delle collaborazioni ex art. 2 (o forse non subordinata), si deve anche riconoscere che esistono almeno tre cortocircuiti sistematici. Il primo è legato alla estrema difficoltà di conciliare la etero-organizzazione, intesa quale funzione del potere direttivo datoriale (che è tipica della subordinazione), con una prestazione di lavoro autonomo/parasubordinato89. Il secondo è legato alla difficoltà di conciliare la etero-organizzazione con la non più equivoca previsione dell’art. 409 c.c. e quindi con la consensualità del coordinamento e l’auto-organizzazione del collaboratore. Se le collaborazioni ex art. 2 sono autonome (o parasubordinate qualificate90), nel nostro ordinamento dunque esiste un’area tra lavoro subordinato ed autonomo nell’ambito della quale vi è un sotto-tipo eccezionale perché ha caratteri opposti al tipo normativo di riferimento (etero-organizzazione vs auto-organizzazione; eteronomia della disciplina applicabile vs autonomia). I caratteri del sotto-tipo eccezionale coincidono con quelli del tipo lavoro subordinato. Il terzo riguarda la conciliabilità della prevalente personalità della prestazione con l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato conseguente dall’art. 2. Se la prevalente personalità consentisse al collaboratore di avvalersi in minima parte di propri dipendenti nello svolgimento della prestazione avremmo una situazione paradossale nella quale il collaboratore per la stessa attività cumulerebbe la posizione di dipendente del committente (almeno da un punto di vista degli effetti) e la posizione di datore di lavoro. Situazione paradossale perché, con riferimento al collaboratore, l’ordinamento non tollera la cumulabilità di posizioni giuridiche tra loro alternative91 e perché, con riferimento al dipendente del collaboratore, vi sarebbe il cul-de-sac del divieto di interposizione: il committente potrebbe correre il rischio della doppia subordinazione, del collaboratore ai sensi dell’art. 2 e del dipendente del collaboratore ai sensi degli artt. 29 d.lgs. n. 276/2003 e 38 d.lgs. n. 81/2015. Questi cortocircuiti ci pare che rendano molto difficile prendere una posizione definitiva sul problema qualificatorio. Rileviamo peraltro che una parte della dottrina ha fornito una lettura restrittiva della locuzione prevalentemente personale. Si ritiene che la formula – che è diversa dal lavoro prevalentemente proprio del contratto d’opera (2222 c.c.) – vada limitata solo alla organizzazione dei mezzi e non possa essere estesa anche alla collaborazione di altre persone92.
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Al cortocircuito allude Perulli, Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, cit., 41, pur seguendo una ricostruzione divergente. 90 Del Punta, op. cit., 362. 91 Si pensi alla tradizionale questione del cumulo tra lavoro subordinato e rapporto di amministrazione. V., per tutti, Montuschi, Socio, amministratore di società e rapporto di lavoro subordinato, in Dir. ec., 1963, 495 ss. 92 Barbieri, op. cit., 44; D’Ascola, op. cit., 19; Martino, La riforma delle collaborazioni etero-organizzate e le nuove tutele per i riders, in LDE, 2019, 5. Riverso, Cambiare si può. Nuovi diritti per i collaboratori, in QG, 2019, http://www.questionegiustizia.it/articolo/ cambiare-si-puo-nuovi-diritti-per-i-collaboratori_15-11-2019.php., 4. Per vero la proprietà di minimi strumenti di lavoro da parte del lavoratore non è di ostacolo al riconoscimento della natura subordinata del rapporto anche a prescindere dalla previsione dell’art. 2. Lo conferma a nostro avviso proprio la vicenda dei riders nella quale è stato applicato l’art. 2, nella versione anteriore al 2019 e quindi quando prevedeva la natura esclusivamente personale della prestazione, nonostante fosse pacifico che i fattorini avessero la proprietà della bici e dello smartphone.
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L’interpretazione è apprezzabile nella misura in cui aiuta il giudice a non escludere che la proprietà di alcuni strumenti (minimi) da parte del lavoratore sia di ostacolo all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato93. Proponiamo due esempi tratti da recenti vicende giurisprudenziali. Il primo riguarda il caso di quattro piastrellisti che svolgevano un’attività rigorosamente coordinata nel tempo (tutti i giorni), funzionalmente connessa all’organizzazione aziendale della committente che oltre a consegnare i materiali per la posa (piastrelle e colla), dava ai quattro le direttive necessarie. In una delle sentenze di merito si legge che «gli artigiani in pratica erano i piastrellisti fissi… e lavoravano all’interno del cantiere, coordinati dal capo cantiere». Di contro era emerso dall’istruttoria che i piastrellisti disponessero di un’attrezzatura minima (flessibile, taglierina, martello, mazzette, miscelatore) per svolgere la prestazione nei cantieri della committente. Il secondo riguarda un idraulico che lavorava per un’impresa di costruzioni, senza una propria organizzazione autonoma ed anzi era inserito nell’organizzazione dell’impresa stessa che lo pagava con cadenze fisse ed organizzava la sua prestazione nel tempo e nel luogo. Dall’istruttoria di causa però era emerso che a volte il lavoratore comprava a sue spese del materiale idraulico che gli serviva e non era stato provato in giudizio che il committente provvedesse al rimborso di tali spese. Il primo dei due casi, anteriore all’entrata in vigore dell’art. 2, è stato risolto dai giudici con la previgente disciplina del lavoro a progetto utilizzata come grimaldello per ottenere l’effetto dell’applicazione della disciplina del lavoro subordinato (qualificazione del lavoro come parasubordinato ma senza la previsione del progetto e quindi con l’effetto previsto dall’art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276/2003) 94. Il secondo dei due casi, successivo all’entrata in vigore dell’art. 2, è stato risolto proprio grazie all’applicazione ufficiosa della disciplina sulle collaborazioni etero-organizzate ed il giudice ha attribuito al lavoratore quelle stesse utilità che erano state chieste ex art. 2094 c.c. 95. L’ultima soluzione ci mostra quale possa essere la funzione dell’art. 2, comma 1. Possiamo evocare la presunzione assoluta96 o la norma-scivolo97, la sostanza non cambia: l’art. 2 agevola l’operazione qualificatoria del giudice98. Questa indiscutibile utilità dell’art 2 per il giudice non deve però essere annullata di interpretazioni che snaturino la portata complessiva della riforma.
93
In tal senso la previsione non è differente dall’art. 69, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 che, come noto, riconosceva la “trasformazione” del rapporto a progetto qualora avesse configurato in concreto un rapporto di lavoro subordinato o nel caso in cui l’attività svolta dal collaboratore fosse stata svolta con modalità analoghe a quelle dei lavoratori dipendenti del committente. Anche nel lavoro a progetto la prestazione poteva essere, almeno in astratto, prevalentemente personale. 94 Cass., 26 maggio 2020, n. 9783. 95 Trib. Roma, 19 novembre 2019, n. 10269, in MGL, 2019, 249 ss., con nota di Iervolino. Il testo della sentenza, non pubblicata per esteso, mi è stata gentilmente inviata dall’Autore. 96 Nogler, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’«autorità del punto di vista giuridico», cit., 16. 97 Del Punta, op. cit., 364. 98 Agevola ma non modifica l’operazione. L’effetto finale nei due esempi citati avrebbe potuto essere raggiunto seguendo l’itinerario qualificatorio normale e tenendo conto della descritta flessibilità interna della fattispecie lavoro subordinato.
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Appunti sulla crisi (della crisi?) della subordinazione
Se esistono argomenti a favore delle opposte tesi sulla natura delle collaborazioni, vi è però un dato normativo chiaro (forse l’unico) nell’art. 2 ed è il seguente: «si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato». A fronte di un’indicazione così chiara l’interprete non è autorizzato a selezionare la disciplina applicabile. È indubbio che un ruolo importante ha e potrà avere la contrattazione collettiva cui l’art. 2, comma 2, a cui il legislatore ha affidato il compito – formalmente in deroga all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato – di prevedere «discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del settore». .Vi è stata di recente una significativa valorizzazione da parte della dottrina del ruolo della contrattazione collettiva in materia99. Effettivamente la contrattazione collettiva potrebbe consentire il passaggio dell’art. 2 dalla patologia alla fisiologia. La previsione potrebbe cioè trascendere la sua attuale e indiscutibile dimensione processuale-giudiziale – perché appare arduo stipulare contratti di collaborazione ex art. 2, comma 1 – e diventare finalmente un collettore di nuove figure sociali per le quali modulare il trattamento economico e normativo tenendo conto delle specificità e delle esigenze dei relativi settori100. A dispetto della formulazione letterale, che sembrerebbe consentire la paralizzazione dell’applicazione della intera disciplina del lavoro subordinato («la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione») a nostro avviso l’ampiezza della delega alla contrattazione collettiva va certamente limitata alla luce del principio della cd. indisponibilità del tipo contrattuale101. Rispetto a tale ultimo tema, è utile svolgere due brevissime riflessioni. Nel noto passaggio argomentativo della sent. n. 121/1993, la Consulta ha precisato «che non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principî, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato» (corsivo mio). Il vincolo proveniente dalla indisponibilità del tipo riguarda non il tipo in sé ma il tipo perché collegato ad una serie di norme inderogabili che servono per dare attuazione ai principî, alle garanzie ed ai diritti dettati dalla Costituzione.
99
Tra i più recenti, Magnani, Subordinazione, eterorganizzazione e autonomia tra ambiguità normative e operazioni creative della dottrina, cit., 113-114 ss.; Maresca, La disciplina del lavoro subordinato applicabile alle collaborazioni etero-organizzate, in DRI, 2020, 1, 148-149; Bellocchi, Chi governa le collaborazioni organizzate dal committente?, in MGL, 2020, num. spec. 1, 42. 100 Una previsione in tal senso era già prevista dall’art. 69, comma 2, d.lgs. n. 276/2003 per le prestazioni di elevata professionalità. Per certi versi un antesignano è l’art. 2095, comma 2, c.c. nella parte in cui delega la contrattazione collettiva a fissare dei requisiti di appartenenza alle categorie legali in relazione a ciascun ramo di produzione ed alla particolare struttura dell’impresa. La contrattazione collettiva attraverso l’individuazione dei requisiti di appartenenza alle categorie di dirigente, quadro e alla fascia impiegatizia ha modulato la disciplina del lavoro subordinato ad es. in materia di orario di lavoro (art. 17 d.lgs. n. 66/2003), di contratto a tempo determinato (art. 29 d.lgs. n. 81/2015) e di recesso (art. 10 l. n. 604/1966). 101 C. cost., 29 marzo 1993, n. 121, in FI, I, 2432; C. cost., 31 marzo 1994, n. 115, in FI, 1994, I, 2645; C. cost., 7 maggio 2015, n. 76, cit. Su tali rischi, v., di recente, Albi, Fra qualificazione del rapporto di lavoro e disciplina applicabile: l’ordine normativo che non c’è, in MGL, 2020, num. spec. 1, 17.
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Raffaele Galardi
Per usare il neologismo ormai diffuso in materia l’indisponibilità del tipo non è necessariamente legata alla fattispecie ma è connessa anche alla disciplina del lavoro subordinato. Se è così, si può sostenere che il vincolo dell’indisponibilità del tipo operi anche nell’art. 2 perché il legislatore ha previsto l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, e ciò vale a prescindere dalla natura autonoma o subordinata della collaborazione102. Tale conclusione non implica automaticamente l’incostituzionalità dell’art. 2, comma 2, perché tale valutazione dipende o può dipendere dall’uso che i contraenti collettivi – con rappresentatività qualificata – fanno della delega. Non possiamo in questa sede approfondire il tema ma ove la contrattazione collettiva selezionasse, nell’ambito della disciplina del lavoro subordinato, alcune delle tutele generali (orario, retribuzione, salute e sicurezza) alla luce di specifiche esigenze produttive ed organizzative di un dato settore potrebbe non porsi il tema della indisponibilità del tipo contrattuale.
7. Spunti conclusivi. È dunque in crisi la subordinazione? La risposta è doppiamente negativa e riguarda sia la fattispecie che la disciplina. Non è in crisi la fattispecie lavoro subordinato. Se abbandoniamo il suo sovrastrutturale ancoraggio a presunti prototipi o a particolari modi di essere della subordinazione (e della etero-direzione), la previsione dell’art. 2094 c.c. resiste ed anzi è ancora attuale in ragione della sua straordinaria versatilità. Ce lo dimostra il dibattito sulle collaborazioni. Quale che sia l’esito finale sulla loro collocazione sistematica – ed ammesso che si possa ottenere un risultato appagante – esistono solidi argomenti che consentono di spiegare il nuovo attraverso il vecchio art. 2094 c.c. Non è poi in crisi la disciplina del lavoro subordinato. Essa infatti è stata estesa senza particolari limitazioni alle collaborazioni. Alcuni contenuti della disciplina del lavoro subordinato ed alcune delle sue tecniche normative, si pensi in particolare alla parziale regolazione eteronoma di tali rapporti, sono stati esportati anche nel lavoro autonomo e nel lavoro autonomo occasionale dei ciclofattorini: la disciplina del lavoro subordinato è ancora la protagonista del diritto del lavoro tanto da colonizzare territori diversi e nuovi. Sarà forse in crisi la crisi103 della subordinazione?
102
Lo rileva pure Magnani, Autonomia, subordinazione, coordinazione nel d.lgs. n. 81/2015, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT, n. 294/2016, 12. 103 L’interrogativo retorico è stato proposto da Gaeta, Lavoro a distanza e subordinazione, Esi, 1993, 201; adde Marazza, Saggio sull’organizzazione del lavoro, cit., 38.
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Cesare Pinelli
Recensione al volume di Gino Giugni, Idee per il lavoro, a cura di Silvana Sciarra, Laterza, 2020, pp. 101 Sinossi. In omaggio a Gino Giugni, l’autore recensisce l’ultimo volume che raccoglie i suoi scritti, curati da Silvana Sciarra, calati nel dibattito contemporaneo. Abstract. As homage to the jurist Gino Giugni, the author reviews the latest work that collects his writings (editor Silvana Sciarra) that have entered the contemporary discussion. Parole
chiave:
Gino Giugni – Statuto dei lavoratori – Diritto del lavoro – Parti sociali.
Il volume raccoglie saggi di Gino Giugni (1927-2009), secondo un percorso che va da uno studio giovanile su esperienze corporative e post-corporative nei rapporti collettivi di lavoro (1956) a quello sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali (1991). L’intento è di mostrare la perdurante utilità del suo pensiero sul lavoro, come risulta dalla felice formulazione del titolo e come viene esplicitato da Silvana Sciarra nel saggio introduttivo. Della odierna ridefinizione del significato del lavoro è sicuramente parte la tendenza a far leva sugli strumenti tecnologici per desertificare il paesaggio del pluralismo, con un ritorno alla figura del lavoratore isolato, e perciò indifeso, anteriore all’affermazione del diritto del lavoro. Ci si può chiedere allora se i princìpi di una “Repubblica democratica fondata sul lavoro” siano destinati ad essere vanificati, o possano invece venire rideclinati in un diverso vocabolario. A chi auspichi il secondo esito l’ispirazione e il metodo di ricerca di Giugni appaiono fondamentali, perché incentrati su una continua spregiudicata analisi dei cambiamenti di fatto delle relazioni industriali, e su soluzioni fondate sull’equilibrio più favorevole alla parte debole del rapporto di lavoro, e che del pluralismo sindacale non possono mai fare a meno. La sua attenzione «per il lavoratore come persona, attivo nelle associazioni libere e, anche per quella via, titolare di diritti, primo fra tutti quello alla dignità» (XVII) di cui parla Sciarra lascia intravedere una pista essenziale per orientarci nel mondo nuovo in cui siamo immersi. Ciò vale peraltro non solo all’interno dell’impresa, ma anche nella più vasta realtà sociale e istituzionale. Che sono poi le due grandi e correlate coordinate lungo le quali si mosse
Cesare Pinelli
Giugni, sia pure con una maggiore propensione per la prima nei decenni che precedono lo Statuto dei lavoratori e in vista della sua approvazione, e per la seconda coordinata nel periodo successivo, significativamente caratterizzato dall’impegno scientifico e politico a favore della concertazione sociale. Stiamo parlando di una vicenda che non si limita a investire un certo ambito disciplinare, ma che coinvolge i valori della convivenza e con essa della democrazia costituzionale. Il che corrisponde del resto alla convinzione di Giugni che «il diritto del lavoro percorre in senso orizzontale quasi tutte le divisioni tradizionali della scienza giuridica, configurando così un diritto internazionale del lavoro, pubblico e privato, un diritto penale, un diritto processuale del lavoro»1. Questa trasversalità trova una fondamentale conferma nella visione del contratto collettivo come «un istituto con tratti irriducibili sia alle fonti come categorizzate dal diritto pubblico moderno, sia al contratto come definito dalle codificazioni. La persistente difficoltà di costruzione giuridica può pertanto in parte essere imputata alla pervicace tendenza delle scuole giuridiche tradizionali a elevare le proprie definizioni dei meccanismi normativi a essenze, a cui debbono ricondursi per necessità logica tutte le forme dell’esperienza giuridica. Tale vizio di metodo rende ovviamente ardita più del necessario la definizione di un istituto che è stato generato da rapporti sociali del tutto specifici rispetto alla struttura statuale che produce la legge, così come ai rapporti prevalentemente mercantili su cui si fonda la vicenda storica del contratto»2. Egli andava così ben oltre la celebre definizione carneluttiana del contratto collettivo di lavoro come avente il corpo del contratto e l’anima della legge, nella misura in cui ne riconduceva l’affermazione giuridica all’emergere di “rapporti sociali del tutto specifici” rispetto alla struttura statuale come ai rapporti mercantili. Non diceva espressamente, ma lasciava piuttosto al lettore concludere, che l’accettazione di una tale specificità avrebbe compromesso la stessa identità delle “scuole giuridiche tradizionali”, di diritto pubblico e di diritto privato, e la conseguente consolidata versione della partizione fra l’uno e l’altro. D’altra parte, è un fatto che, come osserva Sciarra, la contrattazione collettiva sia riuscita «nelle fasi più brillanti della sua evoluzione, ad anticipare la legge, dissodando per il legislatore il terreno del consenso sociale e suggerendo soluzioni reali, sperimentate nelle prassi aziendali», dalla contrattazione interconfederale che ispirò la legge sui licenziamenti individuali al rinnovo dell’accordo dei metalmeccanici stipulato alla vigilia dello Statuto dei lavoratori (XLVI). La considerazione è importante anche per una adeguata comprensione del pensiero e dell’opera di Giugni. Nel 1956 egli spiega la «retrocessione delle organizzazioni operaie dalle posizioni, relativamente avanzate, conquistate nell’immediato dopoguerra», con il fatto che la loro azione «è stata insufficiente, o si è avvalsa di strumenti non adeguati, proprio nella cellula fondamentale dell’organismo produttivo del paese: l’azienda. È qui, infatti, che l’iniziativa operaia non è riuscita a stabilizzare e a consolidare rapporti capaci di mantenere un margine di resistenza di fronte alle alterne vicende politiche» (17, corsivi
1 2
Giugni, Diritto del lavoro, in EGT, 1979, 8. Giugni, Diritto del lavoro, in EGT, 1979, 12.
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Recensione al volume di Gino Giugni, Idee per il lavoro
di chi scrive), così esprimendo fiducia in quello strumento contrattuale che doveva ancora mostrare la sua capacità di resistere “alle alterne vicende politiche”: per una via e per ragioni ovviamente diverse da quelle della Costituzione. Una simile fiducia, riferita alla concertazione, gli farà più tardi dire che le interpretazioni della Corte costituzionale e della dottrina volte a conferire al sindacato un ruolo meramente complementare e informale rispetto ai procedimenti formali di decisione costituzionalmente prescritti «non si avvedono che è proprio lo strumento legislativo, e i suoi caratteri della generalità e della stabilità, a non essere più sufficiente a dettare una disciplina soddisfacente ed effettiva degli interessi dei singoli e, soprattutto, dei gruppi. L’attuazione dei valori costituzionali nelle società complesse deve continuamente ricercare i mezzi più adeguati a tutela delle mutevoli condizioni di vita delle diverse categorie di soggetti deboli. La concertazione, del resto, è una operazione di ampio respiro, che comprende vari impegni di tipo non solo trilaterale, ma anche bilaterale, tra loro tuttavia indissolubilmente connessi. Essa, quindi, non comporta l’esproprio delle prerogative del parlamento, al massimo essa costituisce un vantaggio per le istituzioni politiche che possono contare, nello svolgimento delle proprie funzioni, su un vasto consenso sociale consacrato in un patto formale»3. Ecco, se c’è una frase da mandare a memoria oggi è proprio quella sulla ricerca dei «mezzi più adeguati a tutela delle mutevoli condizioni di vita delle diverse categorie di soggetti deboli» quale indicazione imprescindibile per attuare i valori costituzionali nelle società complesse. Il che equivale a combinare fra loro due elementi che fanno parte integrante del lascito di Giugni. Da una parte l’approccio non assolutistico ma consequenzialistico nell’interpretazione dei diritti fondamentali, dall’altra una politica riformista che persegua coerentemente l’obiettivo della loro massima valorizzazione possibile nelle condizioni date. Nel 1989, dopo aver notato il ravvicinamento del rapporto di lavoro subordinato alla tradizionale concezione del pubblico impiego anzitutto in termini di stabilità, ne desumeva «la emarginazione di tutta una serie di forme di erogazione del lavoro, a termine, a brevi periodi, a tempo ridotto come pure il disfavore verso i rapporti plurimi o verso il volontariato o le forme di erogazione di lavoro estranee al tipo di lavoro subordinato», e considerava «avventato presentare il diritto del lavoro italiano come una razionale espressione di cultura industriale tesa a controllare i processi economici in ragione di chiari valori sociali. Non c’è dubbio, al contrario, che esso ha alcuni contenuti di elevata irrazionalità economica, non di rado consuma ricchezza più di quanto non agevoli a produrne, tende troppo spesso a risolvere i problemi con operazioni di puro e semplice trasferimento di oneri, sullo stato, sui datori di lavoro, su determinate categorie di lavoratori a vantaggio di altre. Tali fenomeni appaiono nel modo più vistoso nel campo della previdenza sociale»4. L’attenzione alle conseguenze effettive di una certa soluzione o di un certo tipo di tutela ai fini del perseguimento dei valori costituzionali è sempre prevalsa in Giugni su una
3 4
Giugni, La lunga marcia della concertazione, Il Mulino, 2003, 54. Giugni, Lavoro legge contratti, Il Mulino, 1989, 308.
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Cesare Pinelli
visione assolutistica degli stessi, che non di rado finisce così con l’essere scambiato con lo strumento adottato per raggiungerli. Dalla pagina che ho ora riportato, traspare infatti una critica al Welfare italiano che rimane interna alla costellazione dei nostri valori costituzionali e diventa perciò tanto più credibile, lungo una linea che ritroviamo in Massimo Severo Giannini e in Giuliano Amato. La stessa impostazione poteva investire riforme proprie. Vi sono riformatori bravissimi, ma altrettanto affezionati alle loro creature, leggi o proposte che siano, anche quando in sede di attuazione o per altre ragioni mostrino problemi. Giugni era invece un padre spregiudicato. Seguiva passo passo cosa accadeva alla sua creatura, e quando lo reputava necessario era implacabile nel proporne revisioni. Nel dibattito sulla fiducia al primo Governo Berlusconi prende la parola in qualità di Ministro del lavoro uscente, ma anche di «voce appartenente al coro della grande tradizione socialista europea, di cui rivendico qui meriti e attualità», per dire «come difficilmente riusciremmo a copiare l’Europa e a partecipare al grande disegno di unità se non tenessimo conto delle grandi trasformazioni del vivere sociale indotte da quasi un secolo di lotte sindacali, di legislazione e di riformismo sociale. Ma non abbiamo comunque durezze di conservazione in proposito. Per quel che mi riguarda – inserisco solo una nota autobiografica – non ho atteso 10 anni dalla sua emanazione per proporre io stesso revisioni e adattamenti allo Statuto dei lavoratori, un testo che pure, come risaputo, è stato costruito, con enfasi di cui non sono mai stato partecipe, come mia creatura. Mi preoccupa invece il fatto che di questa esperienza fecondata e vissuta in Europa lei non abbia tenuto conto, laddove si è insistentemente richiamato ai valori del liberalismo. Valori ormai condivisi dalla generalità ma che, presi da soli, non sono adeguati a rendere conto dei princìpi di uno Stato e di una costruzione sovranazionale moderna, come si va affermando nel nostro mondo europeo occidentale»5. Chi abbia aderito a quella cultura politica, che era tutt’uno con un metodo di ricerca e una prassi riformatrice, non dimenticherà le conseguenze rovinose del suo abbandono per l’Italia. Ma la lezione di Gino Giugni non va consegnata per questo alla storia giuridica e politica. Al contrario, come il libro mostra bene, rimane per ogni aspetto food for thought.
5
Giugni, Intervento alla Camera dei deputati (19 maggio 1994), in La memoria di un riformista, Il Mulino, 2007, 247-248.
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Giurisprudenza commentata
Giurisprudenza Corte di C assazione , sentenza 15 febbraio 2020, n. 707 – Pres. Nobile – Est. Cicirello – P.M. Celeste (concl. diff.) – Aurora Domus Cooperativa Sociale Onlus (Avv.ti Romanelli e Ziveri) c. G.L. (Avv.ti Rapisarda e Scarica). Cassa con rinvio App. Bologna, sent. n. 1124/2017 Lavoro (rapporto di ) – Socio lavoratore di cooperativa – Esclusione e licenziamento – Illegittimità – Natura del rinvio all’art. 18 st. lav. – Rinvio mobile.
In caso di accertata illegittimità del licenziamento e di contestuale esclusione del socio lavoratore di cooperativa è applicabile la tutela di cui all’art. 18 st. lav. nel testo vigente all’epoca del licenziamento, e non all’epoca del rinvio, in quanto il rinvio operato a tale disposizione è mobile.
Svolgimento del processo. «– Omissis.» 1. La Corte d’appello di Bologna, con sentenza n. 1124/2017 depositata il 31/10/2017, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, per quanto qui rileva, ha accertato l’illegittimità del licenziamento disciplinare e della contestuale delibera di esclusione di G.L., operatrice socio-sanitaria della cooperativa sociale Onlus Aurora Domus, disponendone la reintegra e la riammissione quale socia, e condannando la cooperativa al pagamento di una indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 18 comma IV, legge n. 300/70, commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione. La Corte di merito, applicando la giurisprudenza di questa corte, ha ritenuto che dalla illegittimità della delibera di esclusione della socia lavoratrice, fondata esclusivamente su ragioni disciplinari, derivasse l’applicazione dell’art 18 dello statuto dei lavoratori. 2. Avverso tale sentenza, ha proposto ricorso per cassazione, la cooperativa sociale Onlus Aurora Domus, affidato ad un unico motivo, esclusivamente con riguardo alla parte in cui ha condannato la cooperativa alla indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione; «– Omissis.». Motivi della decisione. – 2.1. Con l’unico motivo di ricorso la cooperativa ricorrente ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., chiedendone l’annullamento parziale, per violazione e/o erronea applicazione dell’art. 2 L. n. 142/01, dell’art. 18 St. Lav., come modificato dall’art. 1 commi 42 e seguenti della L. n. 92/2012. Avrebbe errato, infatti, nella prospettazione difensiva, il giudice territoriale allorché, dopo aver ritenuto applicabile la tutela di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in ragione della ritenuta illegittimità del licenziamento e della delibera di esclusione fondata solo sulle ragioni disciplinari, ha applicato la tutela risar-
citoria prevista dall’art. 18 cit. nel testo previgente alla legge n. 92/2012, e non in quello in vigore all’epoca del licenziamento, che stabiliva che la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto e che - se applicato- nel caso di specie avrebbe comportato la condanna al massimo a 12 mensilità invece che a 33 (quante erano quelle tra la data del licenziamento, del 8.12.2014 e la data in cui la lavoratrice ha esercitato l’opzione di cui all’art. 18 c. 4 dello Statuto, rinunciando alla reintegra in favore del pagamento dell’indennità sostitutiva). «– Omissis.». 3.1. Il ricorso è fondato. La giurisprudenza di questa corte ha da tempo chiarito che la L. n. 142 del 2001, recante disposizioni in tema di revisione della legislazione in materia cooperativistica, ha definitivamente ratificato la possibilità di rendere compatibili, anche nelle cooperative di lavoro, mutualità e scambio, ridimensionando la portata di una concezione puramente associativa del fenomeno cooperativo. Ciò in quanto il legislatore ha previsto testualmente che “il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali” (così l’art. 1, comma 3, come modificato dalla L. n. 30 del 2003, art. 9, che ha fornito al lavoro cooperativo una nuova configurazione giuridica, con l’introduzione, in favore dei soci, di un complesso di tutele minime ed inderogabili.). È allora evidente che il rinvio operato alla normativa dello statuto dei lavoratori (e, in parte qua, dell’art. 18 cit.) non può essere considerato un rinvio materiale, poiché in caso di modifica della normativa dello statuto dei lavoratori, rispetto a quella vigente all’e-
Giurisprudenza
poca di entrata in vigore della norma di rinvio (l’art. 2 cit.), ciò introdurrebbe un ingiustificato elemento di disparità di trattamento tra tutti i lavoratori, assoggettati alla disciplina dell’art.18 di volta in volta ratione temporis applicabile, ed i lavoratori di società cooperative, rispetto a quali si dovrebbe cristallizzare il testo dell’art. 18 vigente nell’anno 2001. Tal interpretazione, irragionevolmente in contrasto con la ratio legis della normativa specifica, che ha inteso equiparare la posizione dei lavoratori soci di cooperative agli altri lavoratori, introdurrebbe un regime di tutela differenziato non previsto dalla norma (e favorevole, nel caso di specie, ai medesimi lavoratori soci di cooperativa), e non pare neppure sostenuta dalla corte territoriale che si è limitata ad applicare quella tutela senza soffermarsi sulla ragione di tale scelta. La sentenza impugnata deve pertanto essere cassata, nella parte in cui condanna la cooperativa al pagamento di una indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 18 comma IV, legge n. 300/70, commisurata all’ultima
retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, affinché altra sezione della Corte di Appello di Bologna, in applicazione del testo dell’art. 18 comma 3 dello Stat. Lav. vigente all’epoca dei fatti, individui la misura del risarcimento da riconoscere alla lavoratrice, tenendo conto che, in ogni caso, la misura dell’indennità risarcitoria non può essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, conformemente al seguente principio di diritto: “In tema di società cooperativa di produzione e lavoro, l’art. 2 della l. n. 142 del 2001, esclude l’applicazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori nell’ipotesi ove, con il rapporto di lavoro, venga a cessare anche quello associativo, sicché l’accertata illegittimità della delibera di esclusione del socio, con conseguente ripristino del rapporto associativo, determina l’applicabilità della tutela di cui all’art. 18 nel testo vigente all’epoca del licenziamento”. «– Omissis.».
Il socio lavoratore di cooperativa, un lavoratore come tutti gli altri: in caso di illegittimità dell’esclusione e del licenziamento si applica l’art. 18 nel testo vigente all’epoca del licenziamento Sommario :
1. Il caso. – 2. Retroscena: antefatti in materia di licenziamento del socio lavoratore di cooperativa. – 2.1. Disciplina legislativa del 2001. – 2.2. Riforma del 2003. – 2.3. Intervento delle Sezioni Unite del 2017. – 3. La decisione. – 4. Osservazioni conclusive.
Sinossi. Il commento prende le mosse dalla descrizione del caso concreto avente ad oggetto il licenziamento di una socia lavoratrice di cooperativa per poi delineare l’evoluzione normativa e giurisprudenziale della disciplina in materia. Infine, la nota si sofferma sulla decisione della Suprema Corte, la quale afferma che il rinvio operato dall’art. 2, comma 1, l. n. 142/2001 all’art. 18 st. lav. è mobile e, dunque, al socio lavoratore illegittimamente licenziato ed escluso è applicabile l’art. 18 nel testo vigente all’epoca del licenziamento, ossia come modificato dalla l. n. 92/2012.
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Eugenia Fiorelli
Abstract. The comment begins from the description of the actual case concerning the dismissal of a working partner in a cooperative and it describes the regulatory and jurisprudential change of the law at issue. Finally, the comment pauses on the decision of the Supreme Court, which states that the postponement from art. 2, paragraph 1, l. n. 142/2001 to art. 18 Workers’ Statute of Rights is movable and, therefore, to the working partner unlawfully dismissed and expulsed art. 18 is applied in the regulation law in force at the time of dismissal, that is as modified by l. n. 92/2012.
1. Il caso. Con la sentenza in epigrafe la Corte di Cassazione si pronuncia sulla natura mobile del rinvio all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori contenuto nella disciplina del licenziamento del socio lavoratore di cooperativa di lavoro. Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Bologna aveva accertato l’illegittimità del licenziamento disciplinare e della contestuale delibera di esclusione della socia lavoratrice, risalenti entrambi all’8 dicembre 2014, e da tale illegittimità aveva fatto derivare l’applicazione dell’art. 18 st. lav. Nel disporre la reintegra e la riammissione quale socia di G. L., la Corte di merito, in applicazione dell’art. 18 st. lav. nel testo previgente alla legge 28 giugno 2012, n. 92, aveva condannato la cooperativa al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione. La cooperativa ha poi proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza del giudice territoriale proprio nella parte in cui aveva applicato la tutela risarcitoria prevista dall’art. 18 st. lav. nel testo precedente alle modifiche apportate dalla Riforma del 2012, e non in quello vigente all’epoca del licenziamento. La Corte di Cassazione, infine, con la decisione de qua, ha accolto il ricorso affermando che «l’accertata illegittimità della delibera di esclusione del socio, con conseguente ripristino del rapporto associativo, determina l’applicabilità della tutela di cui all’art. 18 nel testo vigente all’epoca del licenziamento.» (corsivo mio).
2. Retroscena: antefatti in materia di licenziamento del socio lavoratore di cooperativa.
La sentenza in commento offre l’occasione per riepilogare la disciplina delle cooperative di lavoro con riferimento alla fase estintiva del rapporto di lavoro tra cooperativa e socio lavoratore, notoriamente connotato da elementi di specialità. Più precisamente in questa sede interessa analizzare il profilo del licenziamento del socio lavoratore e quello delle tutele conseguenti in caso di illegittimità dello stesso, introducendo una importante precisazione fornita dalla decisione de qua rispetto al quadro tracciato fino ad oggi dalla normativa in materia e dalla relativa elaborazione giurisprudenziale, i cui passaggi
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fondamentali sono costituiti dalla legge 3 aprile 2001, n. 142, dall’articolo 9 della legge 14 febbraio 2003, n. 30 e dalla sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 20 novembre 2017, n. 27436.
1.1. Disciplina legislativa del 2001. In un quadro fino ad allora frammentato in diverse posizioni giurisprudenziali e dottrinali e aperture settoriali del legislatore1, la legge 3 aprile 2001, n. 142, rubricata «Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore», costituisce la prima normativa generale ed organica in materia di socio lavoratore di cooperativa. L’obiettivo del legislatore del 2001 è quello di applicare la disciplina lavoristica, notoriamente protettiva, ai soci lavoratori e quindi affermare una condizione di formale parità tra questi e gli altri lavoratori2. A tal fine, con la legge n. 142/2001, dovendo scegliere la natura e la disciplina applicabile al lavoro del socio di cooperativa, si è preferita la soluzione del cumulo in capo allo stesso del rapporto societario e di quello lavorativo3. Tale opzione ha dato avvio ad una vivace opera di coordinamento delle rispettive regolamentazioni4 e, in questo contesto, la disciplina estintiva dei rapporti rappresenta uno dei profili più problematici5. Anzitutto, l’art. 1, comma 3, della legge n. 142/2001 prevedeva che «il socio lavoratore stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro» (corsivo mio), sancendo un collegamento negoziale tra i due rapporti, associativo e di lavoro6. Al tipo di rapporto concretamente instaurato, alternativamente «in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma»,
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Le principali fonti riguardanti le cooperative consistevano nelle seguenti: il d.lgs.c.p.s. 14 dicembre 1947, n. 1577, rubricato «Provvedimenti per la cooperazione»; la l. 23 ottobre 1960, n. 1369, rubricata «Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e di servizi» il cui art. 1 estende il divieto anche alle cooperative; la l. 27 febbraio 1985, n. 49 rubricata «Provvedimenti per il credito alla cooperazione e misure urgenti a salvaguardia dei livelli di occupazione»; la l. 8 novembre 1991, n. 381, rubricata «Disciplina delle cooperative sociali» e la l. 19 luglio 1993, n. 236, rubricata «Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione», il cui art. 8, comma 2 estende la normativa sulla cassa integrazione straordinaria e sui licenziamenti collettivi alle cooperative di lavoro. In tale quadro normativo risultava particolarmente controversa la ricostruzione della figura giuridica del socio lavoratore e la conseguente individuazione delle regole ad esso applicabili. Tra i vari orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, quello prevalente escludeva che il socio di una cooperativa di lavoro potesse considerarsi anche lavoratore subordinato (cd. tesi monista), mentre un orientamento minoritario, su cui v. Biagi, Cooperative e rapporti di lavoro, Franco Angeli, 1983, assumeva l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato in capo ai soci non alternativo a quello sociale, bensì a latere di quest’ultimo (cd. tesi dualista). V. Meliadò, Il lavoro nelle cooperative: tempo di svolte, in RIDL, 2001, 1, 25 ss. e Mariani, Cooperativa di lavoro (voce), in Enc Dir, agg. I, 1997, 457 ss. 2 Palladini, Il lavoro nelle cooperative oltre il rapporto mutualistico, Cedam, 2006, 39 ss. 3 Optando così per la cd. tesi dualista (v. nota 1). 4 Già all’indomani dell’approvazione della legge n. 142/2001 erano consistenti le divergenze sulla portata e i contenuti della stessa; v. per una rapida rassegna di alcune tra le prime interpretazioni Imberti, Il socio lavoratore di cooperativa, Giuffrè, 2012, 2 ss. 5 L’esclusione del socio lavoratore dalla società ed il contestuale o conseguente recesso dal rapporto di lavoro rappresenta infatti uno degli aspetti della disciplina del lavoro nelle cooperative più controversi fra quelli emersi nelle aule giudiziarie (cfr. Costantini, L’esclusione del socio lavoratore dalla cooperativa. Note a margine, in LD, 1, 2012, 99 s.). 6 Vi è un generale consenso sulla sussistenza del nesso negoziale tra i rapporti associativo e di lavoro, ma non sulla portata di tale nesso: secondo alcuni esso esplica i propri effetti in senso unidirezionale, con la prevalenza del rapporto associativo, secondo altri è reciproco; v. anche per riferimenti Zoli, Lavoro nelle cooperative, Diritto on line – Treccani, 2014.
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si applicano tutte le norme e le regole previste per quel rapporto, «in quanto compatibili con la posizione del socio lavoratore» (così ancora l’art. 1, comma 3). Ne consegue quindi che, come successivamente previsto dall’art. 2, comma 1, legge n. 142/2001, ai soci che instaurano un rapporto di lavoro subordinato con la cooperativa si applica lo Statuto dei lavoratori, peraltro con una rilevante eccezione, e cioè «con esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo». Tale eccezione – la cui ratio è quella di non imporre nel contesto sociolavorativo la presenza del socio escluso7 – non solo attenua considerevolmente gli effetti dell’estensione, ma pone anche problemi interpretativi notevoli per le loro conseguenze sul piano pratico8. In sostanza il socio illegittimamente licenziato potrà aspirare ad essere reintegrato nel posto di lavoro in applicazione dell’art. 18 st. lav. (fatti salvi i requisiti dimensionali della cooperativa) soltanto nel caso in cui non sia cessato, oltre al rapporto di lavoro, anche quello associativo o, comunque, nel caso in cui sia illegittimo non soltanto il licenziamento ma anche l’estromissione dalla società. In tale ultima ipotesi l’omessa impugnativa della delibera di esclusione impedisce l’operatività della tutela reintegratoria nel posto di lavoro.
1.2. Riforma del 2003. Il testo originario della legge n. 142/2001 è stato poi oggetto di alcune modifiche da parte dell’art. 9 della legge 14 febbraio 2003, n. 30, rubricata «Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro». In particolare ai nostri fini ciò che rileva consiste nella soppressione delle parole «e distinto» nell’art. 1, comma 3, legge n. 142/20019. Tale eliminazione ha accentuato la dipendenza del rapporto di lavoro da quello associativo – nel senso che il primo risulta accessorio al secondo, che assume invece maggiore centralità – e in definitiva ha incrementato i profili di specialità del contratto di lavoro del socio di cooperativa10. La prevalenza del rapporto associativo su quello lavorativo emerge chiaramente anche da un’altra modifica apportata dall’art. 9 della legge n. 30/2003, in forza della quale il nuovo art. 5, comma 2, legge n. 142/2001 dispone che con l’estinzione del rapporto associativo si estingue anche il rapporto di lavoro11. Ciò posto, è opportuno altresì constatare che l’art. 2, comma 1, legge n. 142/2001 è invece rimasto invariato nella parte in cui dispone che non vada applicato l’art. 18 st. lav.
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Cfr. Dalfino, In tema di rimedi e tutele processuali del socio lavoratore di cooperativa escluso e licenziato, in FI, 2018, I, 3677 ss. Su cui v. Spolverato, L’estensione ai soci lavoratori dello Statuto dei Lavoratori: in particolare, la questione dell’applicabilità dell’art. 18 nel caso di licenziamento del socio, in Garofalo, Miscione (a cura di), La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, 2002, 74. 9 Oggi l’art. 1, comma 2, della legge n. 142/2001 dispone che «Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma […]» (corsivo mio). 10 De Angelis, Spunti in tema di lavoro cooperativo dopo la l. 14 febbraio 2003 n. 30, in FI, 2003, V, 154 ss. 11 Sul nuovo art. 5, comma 2, v. Meliadò, Nuove incertezze per il lavoro cooperativo, in FI, 2003, V, 134 ss. 8
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ogni volta che venga a cessare, con il rapporto di lavoro, anche quello associativo. Lo stesso art. 2, comma 1, peraltro, sia detto per inciso, è stato modificato nella parte relativa all’applicabilità dello Statuto dei lavoratori, che adesso stabilisce che il titolo III dello Statuto trova applicazione compatibilmente con lo stato di socio lavoratore, secondo quanto determinato dagli accordi collettivi. Dal coordinamento del nuovo articolo 5, comma 2, prima parte con l’(invariato) articolo 2, comma 1, prima parte della legge n. 142/2001 il rapporto associativo esce quindi rafforzato rispetto a quello lavorativo12, in quanto in sostanza dal combinato disposto delle norme in questione emerge che a) gravi inadempimenti delle obbligazioni che derivano dal contratto associativo sono in ogni caso rilevanti sul piano del rapporto di lavoro, b) la tutela reintegratoria è inapplicabile poiché altrimenti verrebbe reinserito come lavoratore un soggetto che ha contravvenuto le regole di partecipazione alla cooperativa13. Naturalmente la tutela reintegratoria torna comunque applicabile in caso di risoluzione del solo rapporto di lavoro o di illegittimità sia del licenziamento che dell’estromissione dalla cooperativa.
1.3. Intervento delle Sezioni Unite del 2017. Come da più parti rilevato la Riforma del 2003 ha lasciato irrisolti alcuni problemi14, tra cui quello concernente l’individuazione delle tutele applicabili al socio lavoratore licenziato ed escluso dalla società cooperativa il quale però non abbia impugnato la delibera di esclusione15. A tale specifica questione hanno peraltro dato risposta le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 27436 del 20 novembre 201716 che, dopo aver riconosciuto i tratti della unidirezionalità del collegamento negoziale tra rapporto associativo e rapporto di lavoro, con prevalenza del primo rispetto al secondo, hanno affermato che il socio lavoratore escluso e licenziato può contestare la legittimità del licenziamento anche senza impugnare la delibera di esclusione e che tuttavia, nel caso in cui venga accertata la illegittimità del recesso, egli può ottenere soltanto la tutela risarcitoria prevista dall’art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604. In altre parole, nel caso in cui l’ex socio lavoratore ambisca ad essere reintegrato nel posto di lavoro, deve impugnare tempestivamente anche la delibera di esclusione dalla cooperativa.
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V. Cester, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa: una controriforma? (Prime osservazioni sull’art. 9 della legge 14 febbraio 2003, n. 30), in Studi in onore di Giorgio Ghezzi, vol. I, Cedam, 2005, 580 s. 13 Cfr. Ferluga, La tutela del socio lavoratore tra profili giuslavoristici e societari, Giuffrè, 2005, 108. 14 Come hanno notato ad es. D’Ascola, Quando la forma è sostanza… La Cassazione alza la voce sul licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, in Labor, 2016, 131 s. e Imberti, Canti e controcanti nella giurisprudenza della Cassazione in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, in DRI, 2016, 3, 828, il quale addirittura propugna un nuovo intervento legislativo che sciolga questo «groviglio normativo». 15 Per una ricognizione degli orientamenti giurisprudenziali precedenti a Cass., sez. un., 20 novembre 2017, n. 27436, v. Piglialarmi, Esclusione e licenziamento del socio lavoratore: le Sezioni Unite mettono le cose in ordine, in Boll. Adapt, n. 3/2018. 16 Reperibile in Banca Dati DeJure e su cui v. i commenti di Dalfino, op. cit. e di Falsone, L’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: le sezioni unite fanno discutere ma non dirimono i contrasti, in Labor, 2018, 3, 325 ss.
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3. La decisione. La pronuncia in esame consente di soffermarci su un altro problema rimasto aperto, ossia sulla natura del rinvio all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori di cui all’art. 2, comma 1, legge n. 142/2001. Prima di affrontare tale specifica questione la Suprema Corte ripercorre succintamente quanto già chiarito in precedenza dalla stessa giurisprudenza di legittimità e, dunque, riferisce che l’art. 1, comma 3, legge n. 142/2001 (come modificato dall’art. 9 della legge n. 30/2003, che ha introdotto, come viene sottolineato nella sentenza annotata, «un complesso di tutele minime ed inderogabili» in favore dei soci) ha definitivamente ammesso la compatibilità, nelle cooperative di lavoro, di mutualità e scambio, ridimensionando la concezione puramente associativa del fenomeno corporativo. In particolare la Corte di Cassazione individua la ratio legis della normativa specifica nell’intenzione di equiparare la posizione dei soci lavoratori di cooperativa a quella degli altri lavoratori. Alla luce di quanto esposto, i giudici di legittimità prendono quindi posizione sulla peculiare questione oggetto della censura proposta dalla cooperativa nei confronti della sentenza impugnata e, cioè, sulla natura del rinvio all’art. 18 st. lav. In altri termini, rispondono alla domanda se, in caso di accertata illegittimità della delibera di esclusione del socio con conseguente ripristino del rapporto associativo, va applicata la tutela di cui all’art. 18 nel testo vigente all’epoca del rinvio (e cioè previgente alla legge n. 92/2012) oppure nel testo vigente all’epoca del licenziamento (e cioè successivo alla legge n. 92/2012). Nel primo caso si tratterebbe di un rinvio materiale, che si ha quando la legge rinvia proprio e solo alle disposizioni richiamate, che diventano parte dell’atto rinviante così come si trovano scritte nel momento del rinvio (e dunque tutte le successive modificazioni delle disposizioni richiamate non toccano l’atto rinviante). Se così fosse, a fronte della accertata illegittimità della esclusione e del licenziamento, a tutela dei lavoratori di cooperativa si dovrebbe applicare l’art. 18 st. lav. nel testo vigente nel 2001. Nel secondo caso, invece, si tratterebbe di un rinvio mobile, ravvisabile quando la legge rinvia ad un’altra norma riferendosi alla fonte e quindi anche a tutte le successive modificazioni della norma richiamata. Se così fosse, i lavoratori di società cooperative illegittimamente esclusi e licenziati sarebbero assoggettati alla disciplina dell’art. 18 st. lav. di volta in volta ratione temporis applicabile. La Suprema Corte, dunque, ipotizza che il rinvio operato all’art. 18 st. lav. sia un rinvio materiale, per poi rilevare che, se così fosse, la modifica del testo dell’art. 18 rispetto a quello vigente all’epoca dell’entrata in vigore della norma di rinvio avrebbe introdotto un ingiustificato elemento di disparità di trattamento tra i lavoratori di società di cooperative e tutti gli altri lavoratori. I giudici di legittimità infatti rilevano che tale interpretazione introdurrebbe un regime di tutela differenziato che contrasterebbe con la individuata ratio legis della legge n. 142/2001. Pertanto, infine, la pronuncia in esame, a differenza di quanto riconosciuto dalla Corte territoriale e sulla base di una lineare argomentazione giuridica e di una buona dose di buonsenso, rileva la natura mobile del rinvio operato dall’art. 2, comma 1, della legge n. 142/2001 all’art. 18 st. lav.
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4. Osservazioni conclusive. Volendo delineare qualche osservazione conclusiva, si deve constatare che le stringate ma coerenti argomentazioni della Corte e la conseguente decisione sono del tutto condivisibili. La linearità della vicenda lascia peraltro spazio ad una piccola postilla finale concernente la astratta possibilità di rilevare che la decisone de qua si pone in (apparente) contraddizione con la decisione data dallo stesso giudice di legittimità in altra occasione. In particolare ci si riferisce alla sentenza n. 11868 del 09 giugno 2016 della Corte di Cassazione17 che ha ritenuto applicabile al pubblico impiego il ‘vecchio’ art. 18 st. lav., come scolpito nel testo precedente alle modifiche realizzate dalla Riforma del 201218. Rinviando ad altre e più opportune sedi specifiche riflessioni in merito alla decisione richiamata19, qui interessa constatare che le due decisioni sono difficilmente comparabili. A prescindere, infatti, dalla condivisione o meno, nel merito, della soluzione adottata dalla sentenza n. 11868/2016, preme evidenziare che, trattando quest’ultima di pubblico impiego, rilevano delle questioni delle quali è invece scevra la decisione in commento20. È evidente pertanto la impossibilità di operare qualsivoglia paragone tra le due decisioni in quanto adottate nell’ambito di due differenti materie: sebbene entrambe abbiano ad oggetto il rinvio all’articolo 18 st. lav., questo è realizzato ad opera di due diverse normative. Eugenia Fiorelli
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Reperibile in Banca Dati DeJure. Sulla specifica questione, comunque, la Cassazione si è pronunciata più volte offrendo differenti soluzioni. Si segnala, in particolare, Cass., 26 novembre 2015, n. 24157, anch’essa reperibile in Banca Dati DeJure, che ha affermato invece l’applicabilità ai pubblici dipendenti del riformato art. 18, individuando peraltro quale unica forma di tutela quella cd. reintegratoria forte in ragione della qualificazione dell’illegittimo licenziamento come contrario a norme imperative. 19 Che può essere, ed è stata, più o meno condivisa: v. ad es. Puccetti, Il nuovo articolo 18 si applica al pubblico impiego, anzi no, in LPA, 2015, 6, 949 ss.; Romeo, Contrasti giurisprudenziali e distonico quadro normativo: il caso del licenziamento disciplinare nel pubblico impiego, in ADL, 2016, 4-5, 725 ss.; Boscati, Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e lavoro pubblico contrattualizzato nella mutevole giurisprudenza della Corte di Cassazione, in DRI, 2016, 4, 1140 ss. 20 Semplificando, una riflessione sulla possibilità di applicare o meno il novellato art. 18 st. lav. nel pubblico impiego implica una necessaria opera di coordinamento di diversi riferimenti normativi quali, in particolare, l’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, che dispone il rinvio alla disciplina privatistica, l’art. 51, d.lgs. n. 165/2001, che stabilisce l’applicazione dello Statuto dei lavoratori (a prescindere dal numero dei dipendenti), e l’art. 1, comma 7 e 8, d.lgs. n. 92/2012, che opera un rinvio ad un successivo intervento di armonizzazione salve le disposizioni che la stessa legge espressamente riferisce al pubblico impiego. 18
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Giurisprudenza Corte di Cassazione , sentenza 16 gennaio 2020, n. 823; Pres. Di Cerbo – Est. Patti – P.M. Sanlorenzo (concl. rig.) – Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia. (Avv.ti M. Marazza, D. De Feo, M. Marazza) c. R. D’I. (Avv. G.R. Sorrentino). Conferma App. Roma, sent, n. 896/2018. Licenziamenti – Tutele crescenti – Ambito di applicazione – Contratto a tempo determinato convertito dopo il 7 marzo 2015 – Inapplicabilità.
Ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati prima del 7 marzo 2015 e convertiti a tempo indeterminato dopo tale data per nullità del termine inizialmente apposto non si applica la disciplina contenuta all’interno del d.lgs. n. 23/2015, in quanto riservata ai “nuovi assunti”.
«Svolgimento del processo. – Con sentenza 28 febbraio 2018, la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo proposto dalla Fondazione Accademia Nazionale di Santa Cecilia avverso la sentenza di primo grado, di rigetto della sua opposizione all’ordinanza, ai sensi dell’art. 1, quarantanovesimo comma I. 92/2012, di accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato il 26 maggio 2016 a (omissis) per giusta causa, con le conseguenti condanne della Fondazione alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 18, quarto comma I. 300/1970, come novellato dalla I. 92/2012. Al (omissis) era stato contestato di non avere dichiarato l’esistenza di un contestuale rapporto di lavoro subordinato con la Banda dell’Esercito alle dipendenze del Ministero della Difesa, in occasione della riassunzione in servizio con mansioni di “tromba” nell’orchestra determinata da una precedente sentenza della medesima Corte d’appello n. 2685/2016, la quale aveva dichiarato la conversione a tempo indeterminato del rapporto per effetto dell’illegittimità di contratti a termine pregressi tra il lavoratore e la Fondazione. A motivo della decisione, la Corte territoriale, in argomentata condivisione del percorso motivazionale del Tribunale diffusamente riportato, ribadiva: a) l’inapplicabilità dell’art. 1, secondo comma, dlg. 23/2015 alla conversione giudiziale del rapporto di lavoro temporaneo per nullità del termine, anche in base ad interpretazione costituzionalmente orientata; b) l’insussistenza del fatto contestato per mancanza di rilevanza disciplinare e di disvalore giuridico e sociale, per la natura di violazione meramente formale del fatto addebitato (poiché il lavoratore, a seguito di pubblicazione della sentenza di conversione della Corte d’appello in data 17 maggio 2016 e di ricevimento, il 18 maggio successivo, del telegramma della Fondazione di ripresa del servizio, aveva lo stesso 18 maggio immediatamente rassegnato le dimissioni con
effetto, secondo la regola vigente nel pubblico impiego, dall’accettazione della P.A. il 24 maggio 2016, con imputazione del periodo dal 19 al 24 maggio a licenza ordinaria), avendo così reso la prestazione lavorativa in favore della sola Fondazione; c) la natura di falso innocuo del comportamento addebitato al lavoratore, in assenza di alcuna offensività; d) l’insussistenza della violazione degli interessi tutelati dal divieto di cumulo di impieghi stabilito dall’art. 9, primo e secondo comma d.lg. 498/1992, di plurima retribuzione a carico del bilancio dello Stato (non essendo in tale condizione la Fondazione Accademia Santa Cecilia) e di esclusività del rapporto di lavoro, a garanzia della non concorrenza del lavoratore presso altri datori e di massima diligenza nella prestazione lavorativa (concretamente osservate da (omissis) per le ragioni accertate); e) la coerente applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18, quarto comma, I. 300/1970, come novellato dalla I. 92/2012, in ragione dell’inoperatività della disciplina introdotta dal d.Ig. 23/2015 e dell’irrilevanza disciplinare del fatto contestato. Con atto notificato il 27 aprile 2018, la Fondazione ricorreva per cassazione con quattro motivi, cui il lavoratore resisteva con controricorso; entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. Motivi della decisione – Omissis 2. Ciò premesso, con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1, secondo comma, d.lg. 23/2015, per la ravvisata inapplicabilità del nuovo regime del cd. “contratto a tutele crescenti” alla conversione giudiziale del rapporto di lavoro a tempo determinato, per ritenuta nullità del termine, successiva, come nel caso di specie, alla data di sua entrata in vigore. A dire del ricorrente dovendosi fare riferimento, per la corretta individuazione della disciplina applicabile ratione temporis, al momento di
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emissione della sentenza di conversione e non della stipulazione dell’originario contratto di lavoro, secondo un’interpretazione in sede di legittimità già adottata in riferimento all’applicazione dell’art. 32, quinto comma I. 183/2010 ed avuto anche riguardo all’ipotesi di conversione dell’apprendistato (qualora ritenuto illegittimo il recesso ad nutum al termine del periodo di formazione) in rapporto a tempo indeterminato, rispetto alla quale un tale rapporto sussiste fin dall’origine; con erroneità della supposta interpretazione costituzionalmente orientata della Corte di merito, in assenza di un eccesso di delega del decreto legislativo rispetto alla legge delega (per il riferimento dell’art. 1, settimo comma, lett. c I. 183/2014 soltanto alle “nuove assunzioni”) e della paventata irragionevolezza per disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost., qualora sia adottata la patrocinata diversa interpretazione di applicabilità dell’art. 1, secondo comma d.lg. 23/2015. 3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, sull’assunto dell’operatività nel caso della disciplina del d. Ig. 23/2015, la violazione e falsa applicazione dell’art. 11 di detto decreto legislativo, il quale esclude il rito speciale previsto per l’impugnativa dei licenziamenti dalla cd. “legge Fornero”. 4. Essi sono congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione e sono infondati. 4.1. Giunge all’esame di questa Corte la questione dell’interpretazione dell’art. 1, secondo comma d. Ig. 23/2015. Come noto, con la previsione contenuta nell’art. 1, settimo comma, lett. c) I. 183/2014 (in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in particolare di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro) si delegava il Governo a prevedere, “per le nuove assunzioni”, l’istituzione di un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, secondo la dichiarata finalità legislativa di “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione”. In attuazione della delega, con il d.lg. 23/2015, è stato definito il campo applicativo per “i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto” (art. 1, primo comma), ossia dal 7 marzo 2015. Il successivo comma (secondo) dell’art. 1, sottoposto allo scrutinio della Corte in funzione nomofilattica, recita: “Le disposizioni di cui al presente decreto si applicano anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del presente decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato”. 4.2. Parte ricorrente sostiene che, in virtù di tale disposizione, si applichi il nuovo decreto anche alle ipotesi di contratti originariamente stipulati a tempo
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determinato prima dell’entrata in vigore di esso ma convertiti a tempo indeterminato mediante pronuncia giudiziale successiva al 7 marzo 2015. L’assunto non può essere condiviso. 4.3. E’ certo che il Governo potesse adottare una innovativa disciplina di tutela per i licenziamenti illegittimi esclusivamente in esecuzione di una delega parlamentare che la prevedeva, come detto, “per i nuovi assunti”. Giova pure rammentare come, in funzione incentivante di tali nuove assunzioni “al fine di promuovere forme di occupazione stabile”, siano stati introdotti dalla legge di stabilità per l’anno 2015 sgravi contributivi, per un periodo massimo di trentasei mesi (art. 1, comma 118 I. 190/2014). Orbene, i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo, con rapporto di lavoro giudizialmente convertito a tempo indeterminato solo successivamente a tale decreto in alcun modo possono essere considerati “nuovi assunti”. 4.4. Infatti occorre ribadire che, in tema di contratti di lavoro a tempo determinato, la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore, ha natura dichiarativa e non costitutiva. Da tale affermazione consegue quella del coerente effetto ex tunc della conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato operata a decorrere dalla illegittima stipulazione del contratto a termine (Cass. 26 marzo 2019, n. 8385). Con tale pronuncia questa Corte ha quindi ritenuto definitivamente fugati dalla sentenza della Corte costituzionale 8 luglio 2014, n. 226 (di infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, quinto comma I. 183/2010, come interpretato autenticamente dalla legge n. 92/2012, in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione alla clausola 8.3 dell’Accordo Quadro europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE) i dubbi interpretativi insorti in ordine alla locuzione “ricostituzione del rapporto di lavoro”, secondo i quali il legislatore avrebbe accreditato la tesi secondo cui la conversione del rapporto operasse ex nunc e non ex tunc (p.to 8 in motivazione Cass. n. 8385/2019 cit.). 4.5. Pertanto, sulla base di una corretta lettura tecnico-giuridica dell’espressione “conversione”, utilizzata in dottrina ed in giurisprudenza per descrivere il meccanismo secondo cui la nullità della clausola di apposizione del termine non comporta la nullità dell’intero contratto, in ossequio al principio di conservazione del negozio giuridico, ma la sua elisione a norma dell’art. 1419, secondo comma c.c., con la conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato (Cass. 17 gennaio 2013, n. 1148; Cass. 15 maggio 2018, n. 11830), occorre
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operare un’interpretazione della norma in esame che sia rigorosamente circoscritta alle ipotesi tassativamente stabilite, al fine di assicurare il rispetto dei limiti della delega: diversamente prospettandosi un vizio di illegittimità costituzionale per eccesso, in violazione degli artt. 76 e 77 Cost. 4.6. Cade allora opportuno richiamare la qualificazione dell’eccesso di delega alla stregua di “figura comprensiva della mancanza, anche parziale, di delegazione ... uso del potere normativo da parte del Governo oltre il termine fissato, ovvero in contrasto con i predeterminati criteri direttivi o per uno scopo estraneo a quello per cui la funzione legislativa fu delegata” (Corte cost. 26 gennaio 1957, n. 3). E così pure come, secondo la giurisprudenza costituzionale, “il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante, richied”(a) “un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l’uno, relativo alla norma che determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega”, nel senso che “il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge-delega ed i relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte de/legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della medesima”; l’altro, relativo alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi”, nel senso che “la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega” alla luce del”/a ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente”, non ostando “l’art. 76 Cost. ... all’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, poiché deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo ... nella fisiologica attività di riempimento che lega í due livelli normativi (Corte cost. 11 aprile 2008, n. 98) 4.7. Il rispetto del suddetto limite esige allora siccome doverosa, quando sia possibile senza prospettare una questione di illegittimità costituzionale, un’interpretazione costituzionalmente orientata (Corte cost. 22 febbraio 2017, n. 58): nel senso che “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali” (Corte cost. 22 ottobre 1996, n. 356); così che “eventuali residue incertezze di lettura sono destinate a dissolversi una volta che si sia adottato, quale canone ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale che impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente
possibili, per quella che rende la disposizione conforme a Costituzione” (Corte cost. 14 novembre 2003, n. 198, richiamata da Cass. 17 luglio 2015, n. 15083). 4.8. Inoltre, deve essere pure sottolineato come la diversa interpretazione, secondo la quale la conversione in esame sarebbe soggetta al nuovo regime introdotto dal c.d. Jobs act, comporterebbe un’evidente quanto irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori egualmente assunti a tempo determinato prima della sua introduzione ma con la conversione del rapporto, per nullità del termine, in uno a tempo indeterminato in base a sentenze emesse tuttavia, per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà, talune prima, altre dopo tale data. Ed infatti, lavoratori nelle stesse condizioni temporali di assunzione (a tempo determinato) e di conversione del rapporto di lavoro subordinato (a tempo indeterminato, per nullità del termine) sarebbero soggetti a regimi di tutela sensibilmente diversi: quelli “convertiti” prima del 7 marzo 2015, al regime cd. Fornero; quelli “convertiti” dopo, al regime del c.d. Jobs act. Né una tale situazione sarebbe imputabile ad una mera successione di leggi nel tempo, comportanti diversi regimi di trattamento in dipendenza di scelte del legislatore, ma piuttosto ad un criterio di applicazione di un regime che può essere letto in modo uniforme, reso invece disparitario da un’operazione dell’interprete neppure corretta, per le ragioni innanzi dette. Sicché, la disomogeneità di trattamento non sarebbe giustificabile con il richiamo del noto principio, consolidato nella giurisprudenza della Corte costituzionale (recentemente richiamato anche dalla sentenza 8 novembre 2018, n. 194, al p.to 6. del Considerato in diritto), secondo cui “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” (Corte cost. 13 novembre 2014, n. 254, al p.to 3. del Considerato in diritto, con richiamo delle ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008), posto che spetta “alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme” (Corte cost. 23 maggio 2018, n. 104, al p.to 7.1. del Considerato in diritto, con richiamo delle sentenze n. 273 del 2011 e n. 94 del 2009). 4.9. Alla luce dei superiori chiarimenti ermeneutici, al fine di ascrivere alla disposizione in discorso un significato né pleonastico, né tanto meno irrilevante nella sua portata precettiva, occorre allora individuare quelle ipotesi di contratti a termine stipulati prima dell’entrata in vigore del dlg. 23/2015 che si convertano in contratti a tempo indeterminato dopo tale data, in una corretta equiparazione alle nuove assunzioni non lesiva del principio di parità di trattamento.
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Tra esse sicuramente rientrano quelle di conversione volontaria (idest: trasformazione, ma il termine “conversione” è impiegato anche in riferimento al contratto nullo: art. 1424 c.c.), per effetto di una manifestazione di volontà delle parti successiva all’entrata in vigore del decreto, con effetto novativo. Ma anche le ipotesi di conversione giudiziale di contratti a termine stipulati anteriormente al d.lg. 23/2015 ma che producano i loro effetti di conversione dopo la sua entrata in vigore, perché successivo è il vizio che li colpisce, quali: a) la continuazione del rapporto di lavoro oltre trenta giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a sei mesi) ovvero oltre cinquanta giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi dell’art. 5, secondo comma d.lg. 368/2001 (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1058, in riferimento al previgente termine di venti, anziché di trenta giorni), qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015 (da essa considerandosi “il contratto ... a tempo indeterminato”); b) la riassunzione entro dieci giorni dalla scadenza del primo contratto a termine (qualora di durata inferiore a sei mesi) ovvero entro venti giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi dell’art. 5, terzo comma d.lg. 368/2001, qualora il secondo contratto (che “si considera a tempo indeterminato’) sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015; c) il superamento “per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti” nel “rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore ... complessivamente” dei “trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinno-
vi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro”, sicché “i/ rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato” (art. 5, comma 4bis), qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015 (Cass. s.u. 31 maggio 2016, n. 11374, p.ti da 54 a 59 in motivazione, ad illustrazione delle suddette ipotesi ed in particolare di quest’ultima, debitamente differenziata, proprio in merito alla diversa decorrenza rispetto a quella di successione di contratti a termine senza soluzione di continuità, prevista dall’art. 5, quarto comma d.lg. 368/2001, per escluderne il contrasto con la clausola n. 5 dell’Accordo Quadro, recepito nella Direttiva n. 1999/70/CE). 4.10. Si può allora concludere che la conversione a tempo indeterminato del contratto a termine stipulato tra le parti (in data 27 novembre 1999, secondo l’indicazione al p.to 3.1. di pg. 3 del ricorso, diversa da quella del 1° dicembre 2011, invece indicata a pg. 1 della memoria finale della stessa ricorrente: con incongruenza comunque irrilevante per l’anteriorità in ogni caso della data di conversione al 7 marzo 2015), per effetto della sua nullità accertata con sentenza 5 maggio 2016 della Corte d’appello di Roma, si configura come un patto modificativo (avente ad oggetto la clausola relativa al termine finale) di un rapporto di lavoro già instaurato e convertito prima dell’entrata in vigore del clig. 23/2015, con la conseguente inapplicabilità del suo regime di tutela. 4.11. Le ragioni argomentative svolte illustrano la corretta, in quanto naturale, applicabilità del regime, oltre che di tutela stabilito dall’art. 1 I. 92/2012, anche del rito processuale cd. Fornero. Omissis»
Ai rapporti a termine convertiti dopo il 7 marzo 2015 si applicano le “tutele crescenti”? Sommario : 1. Il caso – 2. L’ambito di applicazione del contratto a tutele crescenti
– 3. Segue: l’esclusione dei contratti a termine stipulati prima del 7 marzo 2015 convertiti in data successiva per nullità del termine – 4. Segue: il (residuo) contenuto precettivo dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 – 5. Questioni vecchie e nuove in tema di “conversione” del contratto a termine – 6. Conclusioni.
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Sinossi. Il contributo analizza la recente sentenza della Corte di cassazione n. 823/2020 che ha escluso dal campo di applicazione delle tutele crescenti i contratti a tempo determinato stipulati prima del 7 marzo 2015 e convertiti a tempo indeterminato in data successiva per nullità del termine. Dopo aver esaminato le questioni giuridiche di maggior rilievo, il commento si conclude con una riflessione sugli esiti dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 fornita dalla Suprema Corte. Abstract. The commentary analyses the recent judgment of the Court of Cassation no. 823/2020. The judgement states that the “increasing safeguards” discipline does not apply to fixed-term contract stipulated before 7 march 2015 in the specific case of annulment of the term. After examining the most important legal issues, the commentary concludes with some observations on the constitutionally oriented interpretation of art. 1, paragraph 2, of the legislative decree no. 23/2015 provided by the Supreme Court.
1. Il caso. La sentenza oggetto del presente commento si segnala per aver contribuito a chiarire il campo di applicazione della nuova disciplina del contratto a tutele crescenti, avuto particolare riguardo all’ipotesi della conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine, avvenuta giudizialmente a seguito di declaratoria della nullità del termine inizialmente apposto. La questione giuridica sottoposta al vaglio dei Giudici della Suprema Corte muove da un caso particolarmente articolato. Il lavoratore di una nota fondazione musicale era stato riammesso in servizio dalla datrice di lavoro in seguito ad una pronuncia giudiziale che aveva dichiarato la conversione a tempo indeterminato del precedente rapporto intercorso, per effetto dell’illegittimità dei contratti a termine pregressi, sottoscritti tra il lavoratore e l’istituzione musicale. In seguito alla riammissione in servizio, la fondazione aveva licenziato il dipendente, contestandogli di non aver dichiarato l’esistenza di un contestuale rapporto di lavoro subordinato con un altro ente. Il lavoratore aveva così impugnato il licenziamento con il rito c.d. Fornero, ritenendo pacifica l’applicazione del regime delineato dalla l. n. 92/2012 sia sul piano sostanziale, sia su quello processuale. Sia in primo che in secondo grado, il licenziamento veniva dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto contestato, a fronte dell’assenza di rilievo disciplinare, di disvalore giuridico e sociale e di offensività della condotta addebitata. Per l’effetto il lavoratore veniva reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18, c. 4, st. lav. La fondazione musicale ricorreva per Cassazione, deducendo quattro motivi di ricorso. Il principale verteva attorno alla violazione e falsa applicazione del secondo comma dell’art. 1 d.lgs. n. 23/2015, per la ravvisata inapplicabilità del nuovo regime del contratto a tutele crescenti alla conversione giudiziale del rapporto di lavoro a tempo determinato per nullità del termine rilevata successivamente al 7 marzo 2015. Secondo la prospettazione della fondazione, la corretta individuazione della disciplina ratione temporis applicabile
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avrebbe dovuto agganciarsi al momento della pronuncia giudiziale di conversione del rapporto e non già al momento della stipulazione del contratto di lavoro. Per le ragioni che di seguito verranno analizzate, la Corte di Cassazione ha confermato l’orientamento della corte territoriale, concludendo per l’applicazione della disciplina contenuta all’art. 18 st. lav. Il Collegio ha altresì confermato l’applicazione dell’art. 18, comma 4, st. lav. nella parte in cui prevede la reintegrazione nel posto di lavoro per insussistenza del fatto contestato.
2. L’ambito di applicazione del contratto a tutele crescenti. Fin dalla data di entrata in vigore della disciplina del contratto a tutele crescenti, le antinomie e le ambiguità contenute nel d.lgs. 4 marzo 2015 n. 23 hanno alimentato un fervente dibattito in dottrina e giurisprudenza, conducendo in alcuni casi a ben note censure di legittimità costituzionale1. Per quanto interessa ai fini della nostra indagine, occorre focalizzare l’attenzione sul solo art. 1, che disciplina il campo di applicazione delle tutele crescenti2. Ai sensi del primo comma, il regime di tutele delineato dal decreto 23/2015 è applicabile solo ad operai, impiegati e quadri, assunti a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, con esclusione dei dirigenti, destinatari del regime di recedibilità ad nutum3. Come rilevato in dottrina, l’individuazione di un criterio di “gradualità temporale” è stato il frutto di un inevitabile compromesso tra forze politiche e sociali4, comportando una evidente disparità di trattamento, giustificata sul piano costituzionale dal principio secondo cui «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche»5. Il secondo comma dell’art. 1 estende il campo di applicazione delle tutele crescenti anche alle ipotesi di «conversione, successiv[e] all’entrata in vigore del presente decreto,
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Si pensi, in particolare, alla sentenza n. 194 del 2018 della Corte Costituzionale che ha dichiarato incostituzionale il meccanismo delle tutele crescenti in base all’anzianità di servizio, generando un fervente dibattito in dottrina: sul punto cfr. Ballestrero, La Corte Costituzionale censura il d.lgs. n. 23/2015: ma crescono davvero le tutele?, in LD, 2019, 2, 243 ss.; Persiani, La sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018: parturiunt montes, in ADL, 1, 125 ss; M.T. Carinci, La Corte costituzionale ridisegna le tutele del licenziamento ingiustificato nel jobs act: una pronuncia destinata ad avere un impatto di sistema, in RIDL, 2018, II, 1061 ss.; Speziale, La sentenza n. 194 del 2018 della Corte Costituzionale sul contratto a tutele crescenti, in Andreoni, Fassina (a cura di), La sentenza della Corte Costituzionale sul contratto a tutele crescenti: quali orizzonti?, Seminari della Consulta Giuridica della CGIL, 2019, n. 2, 43 ss.; L. Zoppoli, Il licenziamento “de-costituzionalizzato”: con la sentenza n. 194/2018 la Consulta argina, ma non architetta, in DRI, 2019, 1, 277 e ss.; per una sintesi di tale dibattito v. Dagnino, La sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018: il dibattito dottrinale, in DRI, 2019, 2, 654 ss. Sul punto si consideri, inoltre, la recente pronuncia della Corte Costituzionale, resa nota mediante un comunicato ufficiale del 25 giugno 2020, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 d.lgs. n. 23 del 2015. 2 Per una rassegna dei termini del dibattito intorno all’art. 1 d.lgs. n. 23/2015 si rinvia a Falsone, Commento sub art. 1 d.lgs. 23/2015, in De Luca Tamajo, Mazzotta (diretto da), Commentario breve alle leggi sul lavoro, 6a ed., Cedam, 2018. 3 Per essi è comunque fatta salva l’applicazione dell’art. 18, commi 1-3, st. lav. o di ulteriori tutele previste dai contratti collettivi. 4 Cfr. Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP D’Antona, It., n. 273/2015, 16. 5 Principio già espresso da C. cost., 13 novembre 2014, n. 254, ribadito in C. cost., 8 novembre 2018, n. 194 (entrambe in Leggi d’Italia banca dati on line); quest’ultima pronuncia ha ulteriormente precisato che spetta «alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme».
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di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato». Nel commentare tale disposizione, la dottrina ne ha evidenziato l’incompletezza, oltre alla scarsa chiarezza e imprecisione6. In particolare, molto si è discusso sul significato del termine “conversione”7 non essendo chiaro se debba essere inteso nel senso di trasformazione giudiziale o negoziata dalle parti8. Sul punto, la sentenza in commento sembra fornire, con i dovuti distinguo, una definizione ampia di conversione, ricomprendendovi sia l’ipotesi di conversione giudiziale, sia quella volontaria. Come accennato, il secondo comma sembra per certi versi incompleto, non avendo contemplato altre ipotesi di conversione, oltre a quelle dei rapporti a tempo determinato e di apprendistato: si pensi, in special modo, alle ipotesi di trasformazione di rapporti di lavoro autonomo o di co.co.co, oppure ai casi di somministrazione illecita o appalto irregolare. Sul punto la dottrina si è divisa tra chi ha ritenuto che a tali rapporti possa pacificamente applicarsi il regime di tutele antecedente rispetto a quello introdotto dal d.lgs. n. 23/20159 e chi, invece, non ha escluso la possibilità di applicare la disciplina delle tutele crescenti alle ipotesi di conversione successive al 7 marzo 201510. Il terzo ed ultimo comma dell’art. 1 cit. estende l’applicazione del decreto anche ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, in caso di superamento da parte del datore di lavoro della soglia occupazionale di cui all’art. 18, commi 8 e 9, st. lav., superamento avvenuto in ragione di nuove assunzioni. Anche tale previsione ha destato non poche perplessità, tanto da indurre la dottrina a prospettare un vizio di legittimità costituzionale per eccesso di delega11. La decisione de qua si innesta proprio su una delle numerose questioni poste dall’ambiguo testo del decreto 23 citato e costituisce, ad avviso della scrivente, un importante tassello nella corretta individuazione del campo di applicazione delle tutele crescenti.
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L’imprecisione è stata segnalata con particolare riguardo alla fattispecie dell’apprendistato: è stato osservato, infatti, che il contratto di apprendistato sarebbe già di per sé un contratto a tempo indeterminato. Sul punto cfr. Maresca, Assunzione e conversione in regime di tutele crescenti, in GLav., 20 marzo 2015, n.12, 1. 7 Sul punto cfr. Magnani, Correzioni e persistenti aporie del regime sanzionatorio dei licenziamenti: il cd. contratto a tutele crescenti, in WP D’Antona.it, n. 256/2015, 7-8. 8 Sul punto cfr. Gentile, L’ambito di applicazione della nuova disciplina, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi, Giappichelli, 2015, 61; già all’indomani dell’entrata in vigore del decreto, parte della dottrina propendeva per una interpretazione estensiva del termine conversione, ricomprendendovi anche le ipotesi di trasformazione volontaria: in tal senso cfr. Maresca, op. cit., 2; ipotizzava tale lettura anche Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel jobs act, in ADL, 2015, 2, 310 ss.; in senso contrario, invece, Tiraboschi, Conversione o semplice trasformazione dei contratti per l’applicazione delle cosiddette tutele crescenti?, in DRI, 2015, 518 ss., il quale rilevava che tale interpretazione estensiva del termine conversione ponesse problemi di compatibilità con i principi e i criteri direttivi della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183, che riservavano il regime del tutele crescenti unicamente alle nuove assunzioni. 9 Boscati, Il campo di applicazione del D.lgs. 23/2015 e il nodo del pubblico impiego, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “jobs act”, Cedam, 2016, 123. 10 In tal senso D. Garofalo, Il campo di applicazione, in Ghera, D. Garofalo, Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs act 2, Cacucci, 2015, 62. Per quanto concerne la trasformazione di collaborazioni a progetto o l’assunzione di lavoratori somministrati Maresca, op. cit., afferma che in «queste ipotesi si realizza una nuova assunzione con estinzione del precedente rapporto contrattuale e, quindi, le tutele crescenti risulteranno applicabili in ragione della previsione generale dell’art. 1, comma 1, senza che rilevi in alcun modo il comma 2». 11 Tremolada, Il campo di applicazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in F. Carinci, Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, Adapt e-book series n. 46/2015, 13 ss; Giubboni, Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, in WP D’Antona.it, n. 246/2015, 14.
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Giurisprudenza
3. Segue: l’esclusione dei contratti a termine stipulati prima del 7 marzo 2015 convertiti in data successiva per nullità del termine.
Per i motivi che a breve saranno illustrati, la decisione in commento giunge a fornire una lettura costituzionalmente orientata del secondo comma dell’art. 1 d.lgs. n. 23/2015. Il principale problema interpretativo nasceva dal fatto che, a fronte della delega contenuta all’art. 1, comma 7, lett. c), l. n. 183/2014, la normativa tracciata dal d.lgs. 23/2015 era destinata ad essere applicata solo ai “nuovi assunti”. Ci si è chiesti, pertanto, se all’interno del campo di applicazione del contratto a tutele crescenti possano essere ricompresi anche i rapporti di lavoro a termine stipulati prima del 7 marzo 2015 ma giudizialmente convertiti in rapporti a tempo indeterminato dopo tale data. Nel rispondere a tale quesito, la sentenza de qua ha proposto una interpretazione parzialmente riduttiva del secondo comma dell’art. 1 d.lgs. n. 23/201512, fondata sul rigoroso rispetto della delega contenuta nella legge n. 183/2014 e su una corretta lettura tecnicogiuridica della nozione di conversione. Le argomentazioni addotte dalla Corte a sostegno di una lettura costituzionalmente orientata della regola richiamata si fondano proprio sui principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, che impongono all’interprete di adottare, tra più soluzioni astrattamente possibili, quella che rende la disposizione conforme a Costituzione13. Secondo la Cassazione, l’unica lettura dell’art. 1, comma 2, cit. conforme a Costituzione è quella che esclude dal campo di applicazione delle tutele crescenti i rapporti a termine stipulati prima del 7 marzo 2015 e convertiti giudizialmente dopo tale data a fronte dell’accertamento della nullità del termine inizialmente pattuito. Tale soluzione è preferita per due ordini di ragioni. In primo luogo, perché ricomprendendo nelle nuove assunzioni i contratti a tempo determinato stipulati prima del 7 marzo 2015 e successivamente convertiti giudizialmente per nullità del termine si incorrerebbe, secondo la Cassazione, in un eccesso di delega e, dunque, nella palese violazione degli articoli 76 e 77 Cost. In secondo luogo, perché, diversamente opinando, si violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto l’applicazione delle tutele crescenti alle ipotesi di conversione per nullità del termine comporterebbe un’evidente e irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori assunti a termine prima del 7 marzo 2015 e i cui rispettivi contratti di lavoro siano trasformati a tempo indeterminato sulla base di sentenze emesse in data antecedente o successiva a quella di entrata in vigore del decreto «per mero accidente indipendente dalle rispettive volontà».
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A tal fine, la Suprema Corte richiama alcune importanti pronunce in tema di eccesso di delega. Tra queste: C. cost., 26 gennaio 1957, n. 3; C. cost., 11 aprile 2008, n. 98, entrambe in Leggi d’Italia banca dati on line. 13 C. cost., 22 febbraio 2017, n. 58; C. cost., 14 novembre 2003, n. 198; C. cost., 22 ottobre 1996, n. 356, disponibili sul sito www. cortecostituzionale.it.
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Peraltro, non si potrebbe neppure ricorrere al principio secondo cui è possibile applicare alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, un trattamento differenziato14, giacché il compito di delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme spetta alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza15. In conclusione, la Corte finisce per salvare il testo dell’art. 1 cit. da una possibile censura di incostituzionalità proprio attraverso una sua lettura conforme ai principi costituzionali.
4. Segue: il (residuo) contenuto precettivo dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015.
A ben vedere, però, l’interpretazione dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 restituitaci dalla sentenza qui commentata non svuota di contenuto la disposizione in esame, avendo la Corte compiuto l’ulteriore sforzo di individuare le ipotesi di contratti a termine, stipulati prima del 7 marzo 2015, ai quali, per effetto della conversione intervenuta successivamente a tale data, si applica la disciplina delle tutele crescenti16. Tra tali ipotesi vengono fatti rientrare sia i casi di trasformazione volontaria sia tre tipologie di conversione giudiziale che producono i loro effetti dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015 perché successivo a tale data è il vizio – diverso dalla nullità del termine – che colpisce i rapporti a tempo determinato sottoposti al sindacato del giudice. Secondo la Corte, la disciplina delle tutele crescenti si applica ai contratti a termine stipulati prima del 7 marzo 2015 ma con scadenza successiva a tale data, quando vi sia continuazione di fatto del rapporto di lavoro oltre trenta giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a sei mesi) oppure oltre cinquanta giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi). In secondo luogo, la disciplina di cui al d.lgs. n. 23/2015 si applica nel caso in cui tra il lavoratore e il datore di lavoro siano intercorsi due contratti a termine, di cui il primo stipulato prima del 7 marzo 2015 e il secondo stipulato successivamente a tale data senza il rispetto del periodo minimo previsto dall’art. 5, comma 3, d.lgs. n. 368/2001. Pertanto, affinché il secondo contratto sia considerato a tempo indeterminato, la riassunzione del lavoratore deve avvenire entro dieci giorni dalla scadenza del primo contratto a termine,
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C. cost., 13 novembre 2014, n. 254, in Leggi d’Italia banca dati on line; tale principio è ribadito anche da C. cost. 8 novembre 2018, n. 194, cit. 15 C. cost., 23 maggio 2018, n. 104, in Leggi d’Italia banca dati on line; tale pronuncia al punto 7.1 dei motivi della decisione afferma «nei rapporti di durata il trattamento differenziato, riservato a una determinata categoria di soggetti in momenti diversi nel tempo, non contrasta con il principio di eguaglianza. Spetta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme e, da questa angolazione, il fluire del tempo può rappresentare un apprezzabile criterio distintivo nella disciplina delle situazioni giuridiche». 16 Per una lettura combinata della disciplina del contratto a termine introdotta nel 2015 e della disciplina del contratto a tempo indeterminato si rinvia ad Albi, Il rapporto tra contratto a tempo determinato e contratto a tempo indeterminato nella legislazione più recente, in DLRI, 2015, 4, 625 ss.
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se questi aveva durata inferiore a sei mesi, ovvero entro venti giorni in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi. L’ultima ipotesi prevista dalla Cassazione è quella dei contratti a termine stipulati prima del 7 marzo 2015 che vengano trasformati a tempo indeterminato per effetto del superamento, successivo al 7 marzo 2015, del periodo massimo di trentasei mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi, avvenuto attraverso una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti. Tale effetto si produce, ai sensi dell’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. n. 368/2001, indipendentemente dai periodi di interruzione intercorsi tra un contratto e l’altro. A ben vedere, la casistica esaminata, riferendosi a contratti a termine stipulati prima del 7 marzo 2015, rinvia alla specifica disciplina ratione temporis applicata, contenuta all’interno del d.lgs. n. 368/2001. Così operando la Cassazione ha fatto chiarezza sul residuo contenuto precettivo – in tema di contratti a termine – del secondo comma dell’art. 1 cit., lasciando, tuttavia, insoluti i dubbi ermeneutici emersi in relazione ai contratti di apprendistato e a tutte le altre ipotesi non ricomprese all’interno di tale comma, non avendo la Corte, nel presente provvedimento, preso posizione sul tema.
5. Questioni vecchie e nuove in tema di “conversione” del contratto a termine.
La chiave di volta che consente la lettura proposta della disposizione in argomento deve però essere rintracciata non solo nel richiamo ai principi costituzionali che innervano l’intero testo della sentenza, ma anche nella corretta interpretazione, sul piano tecnicogiuridico, della nozione di “conversione”. Come già precisato, fin dalla data di emanazione del contratto a tutele crescenti, molte autorevoli voci hanno messo in luce le insidie nascoste dietro l’utilizzo del termine “conversione”, inserito all’interno del secondo comma dell’art. 1 cit.. È di tutta evidenza che tale termine non possa essere sic et simpliciter assimilato all’istituto civilistico disciplinato dall’art. 1424 c.c. che regola la conversione del contratto nullo17. A ben vedere, con riguardo al contratto a tempo determinato, la nullità del termine non comporta la nullità dell’intero contratto. Non a caso – precisa la Cassazione – l’espressione “conversione” viene utilizzata per indicare il meccanismo mediante il quale la nullità della clausola di apposizione del termine comporta solo la sua elisione, a norma dell’art. 1419, comma 2, c. c., con la conseguente trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato in virtù del principio di conservazione del negozio giuridico18.
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Per una analisi dettagliata dell’istituto si rinvia a Paladini, Renda, Minussi, Manuale di diritto civile, Cedam, 2019, 1600 ss. In tal senso anche Cass., 15 maggio 2018, n. 11830, in Leggi d’Italia banca dati on line, ove si afferma che «la mancanza di ragioni
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Al termine del proprio iter argomentativo, la decisione giunge a sostenere che la conversione a tempo indeterminato del contratto a termine, per effetto della sua nullità (parziale) accertata con sentenza successiva al 7 marzo 2015, si configura come un “patto modificativo”, avente ad oggetto la clausola relativa al termine finale, di un rapporto di lavoro già instaurato e convertito prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n 23/2015, con la conseguente inapplicabilità del suo regime di tutela. A fronte di quanto rappresentato, l’espressione conversione sembrerebbe assumere, in ambito lavoristico, un carattere polisenso19, oscillando tra fenomeni di conversione (lato sensu intesa) volontaria e fenomeni di conversione giudiziale. Sul punto, occorre ricordare che tra i due fenomeni intercorre una netta differenza: se nel primo caso (conversione volontaria) la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato promana dalla manifestazione della libera volontà delle parti, nella seconda ipotesi l’effetto novativo discende dall’accertamento di un vizio che incide sulla legittimità del rapporto a termine20. Sull’ampiezza della nozione di conversione, contenuta all’interno dell’art. 1, comma 2, cit. si registrano orientamenti contrastanti della giurisprudenza di merito. Secondo il Tribunale di Roma non è possibile attribuire al termine conversione un significato ampio, dovendo dunque escludersi da tale nozione «tutte le ipotesi di semplice trasformazione, di fatto o con manifestazione esplicita di volontà, del rapporto stipulato in data antecedente il 7.3.2015, intervenuta in modo che questo semplicemente prosegua, senza interruzione, oltre tale data»21. Di diverso avviso, invece, il Tribunale di Parma che ha ritenuto che la conversione debba essere intesa come «trasformazione/prosecuzione di tipo negoziale del rapporto a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, ossia per accordo tra le parti del contratto medesimo», dovendosi escludere la conversione operata in sede giudiziale per i motivi tassativamente previsti dalla legge in quanto essa «determina la costituzione di un rapporto a tempo indeterminato con efficacia ex tunc, ossia sin dalla data di sottoscrizione del contratto a tempo determinato»22.
giustifìcatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro non comporta la nullità dell’intero contratto ex art. 1419 c.c., comma 1, ma la mera sostituzione della clausola nulla ex art. 1419, comma 2, con conseguente trasformazione del rapporto a tempo indeterminato e ciò anche in mancanza di una norma che espressamente stabilisca le conseguenze di tale omissione». 19 Come correttamente rilevato da Ratti, Considerazioni critiche sul concetto di “conversione” nel discrimine temporale del regime a tutele crescenti, in RIDL, 2019, 1, 73 ss., «l’utilizzo dell’espressione “conversione” è entrato da tempo nei dicta e nelle argomentazioni della giurisprudenza, anche di legittimità: in ipotesi di illegittima apposizione di un termine al contratto di lavoro e in caso di somministrazione irregolare; per determinare le conseguenze della mancata “conversione” di un contratto flessibile nel pubblico impiego (art. 36, d.lgs. n. 165/2001) ; per identificare il comune accordo fra le parti di un contratto di lavoro part-time per la modifica del regime orario ; per sanzionare il mancato adempimento dell’obbligo formativo nel contratto di apprendistato; infine, per contrassegnare il potere del giudice di modificare la causale del licenziamento individuale». 20 Per quanto concerne la conversione giudiziale alcuni autori parlano di “trasformazione sanzionatoria” (v. Tremolada, ibidem). 21 Così Trib. Roma, 6 agosto 2018, n. 75870, in RIDL, 2019, 1, 73 ss., con nota di Ratti. Il Tribunale in tale pronuncia ha testualmente stabilito che «non può condividersi la interpretazione che, ad una prima lettura, potrebbe sembrare la più lineare – quella che interpreta il termine “conversione” in senso lato, ricomprendente tutte le ipotesi in cui un contratto a tempo determinato venga trasformato in contratto a tempo indeterminato –, in quanto cosi si finirebbe per ricomprendere anche ipotesi che indubitabilmente andrebbero riportate, come genesi, ad epoca precedente al 7.3.2015 e che comunque la legge delega n.183 2014 non aveva previsto (v. art.1, comma 7, Iett.C)» 22 Così Trib. Parma, 18 febbraio 2019, n. 383 in DeJure banca dati on line.
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A fronte dei due opposti orientamenti emersi nella giurisprudenza di merito appena esaminati, la sentenza in commento si pone in posizione intermedia, adottando una accezione di conversione che ricomprende al contempo l’ipotesi volontaria e giudiziale. Il tema in discorso si lega a doppio filo con quello dell’efficacia della pronuncia che accerta giudizialmente la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. La sentenza in commento attribuisce pacificamente efficacia dichiarativa al provvedimento che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e che ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, con il conseguente effetto ex tunc della conversione, decorrente dalla data di illegittima stipulazione del contratto a termine23. Diversamente, la conversione giudiziale dei rapporti a termine legittimamente sorti prima del 7 marzo 2015, ma colpiti da un vizio in data successiva al “fatidico” 7 marzo, determinerebbe l’applicazione del d.lgs. n. 23/2015. Tuttavia, occorre notare che la decisione in commento nulla precisa in merito all’efficacia della pronuncia che trasforma tali contratti in rapporti a tempo indeterminato. Ci si chiede, allora, se tali provvedimenti possano acquisire natura costitutiva, con effetti ex nunc, decorrenti dalla data in cui il vizio è sorto. A fronte di tali considerazioni, è possibile ipotizzare una riapertura, tra gli studiosi di diritto del lavoro, del dibattito attorno al tema dell’efficacia della sentenza di conversione del rapporto a termine. Tale questione non è nuova al mondo dei giuslavoristi, in quanto nel regime previgente, l’art. 32, comma 5, l. n. 183/201024 era stato interpretato dalla dottrina prevalente nel senso che la conversione del rapporto avrebbe operato «in modo speciale rispetto al diritto comune, assegnando alla nullità effetti solo ex nunc dal momento della sentenza che la dichiara[va]»25. È bene precisare che tale interpretazione era stata incoraggiata da una norma di interpretazione autentica dell’art. 32, comma 5, cit. sulla quale ha anche avuto modo di pronunciarsi la Consulta, ritenendo infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione alla clausola 8.3 dell’Accordo Quadro europeo sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/ CE26.
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In tal senso Cass., 26 marzo 2019, n. 8385, in Leggi d’Italia banca dati on line. Norma che delineava il regime delle tutele applicabili in caso di illegittimità del termine apposto ad un contratto di lavoro e che è stata poi abrogata ad opera dell’art. 55, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 81/2015. Il suo contenuto è stato sostanzialmente trasposto nell’art. 28 d.lgs. n. 81/2015. 25 Così Menghini, L’apposizione del termine, in Persiani, F. Carinci (diretto da), Contratto di lavoro e organizzazione, I, Cedam, 2012, 318 ss.; in senso analogo Vallebona, L’indennità per il termine illegittimo, in M. Miscione, D. Garofalo (a cura di), Il Collegato Lavoro 2010. Commentario alla Legge n. 183/2010, Wolters Kluwer, 2011, 415 ss. 26 C. cost., 8 luglio 2014, n. 226, in GCost., 2014, 4, con nota di Emiliani. 24
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6. Conclusioni. La sentenza in commento si segnala, in conclusione, per aver contribuito a chiarire l’ambito di applicazione del contratto a tutele crescenti, utilizzando la Costituzione come principale parametro di interpretazione27. Le argomentazioni addotte dalla Corte accreditano la tesi di quanti avevano prospettato una lettura del secondo comma dell’art. 1 cit. analoga a quella fornita dalla sentenza in commento, vale a dire limitata alle ipotesi di conversione volontaria o avvenuta giudizialmente dopo il 7 marzo 2015 a causa di irregolarità compiute dopo la riforma28. Tuttavia, gli esiti a cui perviene la soluzione elaborata dalla Corte insinuano il dubbio che non possano comunque essere considerati nuovi assunti i lavoratori, il cui rapporto a termine è sorto prima del 7 marzo 2015 e i cui contratti siano stati convertiti volontariamente o giudizialmente dopo tale data a fronte di un vizio emerso, appunto, dopo il 7 marzo 2015. In tali ipotesi, infatti, il rapporto di lavoro intercorrente tra lavoratore e datore di lavoro costituisce un unicum il cui punto di inizio è rappresentato proprio dalla stipulazione del contratto a termine avvenuta, in ogni caso, prima del 7 marzo 2015. Caterina Pareo
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Sull’importanza, per gli studiosi del diritto del lavoro, del ricorso ai principi costituzionali si rinvia ad Albi, La Costituzione come argomento, in LD, 2014, 2-3, 519 ss. 28 Afferma Tremolada, op. cit., che «quanto alla trasformazione sanzionatoria, pare che il comma 2, art. 1, riguardi solo quella i cui effetti si producano dopo l’entrata in vigore del decreto perché l’irregolarità che la ha determinata si è verificata vigente quest’ultimo, escludendosi quindi i casi in cui l’eventuale pronuncia del giudice in ordine alla conversione sia intervenuta in vigenza del decreto ma a causa di irregolarità compiute prima della riforma. Pertanto il regime delle tutele crescenti dovrebbe applicarsi, ad esempio, nel caso di conversione del contratto a termine dovuta al fatto che ne sia stata concordata la sesta proroga dopo l’entrata in vigore del decreto, mentre si applicherebbero i regimi preesistenti nel caso in cui tale proroga fosse stata disposta in precedenza o in caso di nullità del termine originariamente apposto al contratto».
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Giurisprudenza Corte di C assazione , ordinanza 16 gennaio 2020, n. 810; Pres. Berrino – Est. Arienzo – Agenzia per lo Sviluppo dell’Empolese Valdelsa s.p.a. (avv. Bechi) c. S.A. Cassa con rinvio App. Firenze, sent. n. 238/2015. Contratto collettivo – Applicabilità dell’art. 2070 c.c. – Esclusione – Libertà di scelta datoriale – Limiti – Art. 36 Cost.
Nell’ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dall’imprenditore, il lavoratore non può pretendere l’applicazione di un contratto collettivo diverso se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente che tale disciplina sia il riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato.
«Svolgimento del processo. – La Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 16.4.2015, respingeva il gravame proposto dall’Agenzia per lo Sviluppo dell’Empolese Valdelsa s.p.a. avverso la pronunzia del Tribunale della stessa città che aveva condannato la società a corrispondere ad S.A. le maggiori competenze retributive in ragione del riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in luogo di prestazioni a tempo determinato ed a progetto, dell’accertato svolgimento di mansioni ulteriori rispetto a quelle di mero docente, e della considerazione in via parametrica delle tariffe retributive corrispondenti al quinto livello professionale del c.c.n.l. per il settore della formazione professionale, diverso dal c.c.n.l. scuole private applicato dalla società; la Corte riteneva che le mansioni svolte dalla S. rientrassero nelle qualifiche della declaratoria del livello professionale del diverso c.c.n.l. che contemplava quelle di coordinatore, formatore, tutor, orientatore, differenti da quelle di esclusiva docenza, e che l’assunzione a parametro di qualifiche contemplate in contratto collettivo diverso da quello applicato in azienda non violasse il principio, sancito a livello giurisprudenziale, secondo cui, per tale operazione, doveva essere prima provata la violazione del precetto dell’art. 36 Cost; in particolare, il giudice del gravame rilevava che il c.c.n.l. applicato in azienda non fosse coerente, quanto all’inquadramento a fini retributivi del personale, con le mansioni svolte dalla S., per la quale la retribuzione era individuata a livello collettivo in relazione ad una prestazione ordinaria di diciotto ore di insegnamento, ed osservava che le mansioni svolte non si attagliassero a quelle di docenza previste dal c.c.n.l. collettivo applicato in azienda, con la conseguente liceità del richiamo alla tariffa retributiva prevista dal differente c.c.n.l. per il settore della formazione professionale, in
corrispondenza del sesto livello, nei sensi individuati dal Tribunale; di tale decisione domanda la cassazione la società, affidando l’impugnazione a due motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c; Omissis. Ragioni dell’ordinanza. – Con il primo motivo, la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost., artt. 2070, 2103 e 2967 c.c., artt. 1, 5 e 29 c.c.n.l. 5/5/2003 Aninsei, assumendo che la Corte territoriale abbia sovvertito i principi dottrinari e giurisprudenziali (Cass. 2665/97) con riferimento all’ordinamento intersindacale, principi riaffermati da Cass. 16340/2009, secondo cui l’art. 2070 c.c., non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune ed il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, con la possibilità solo eventuale di avere riguardo a tale disciplina come termine di riferimento della retribuzione ex art. 36 Cost; deduce la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto dal contratto applicato ed assume che la Corte territoriale, pur richiamando i principi affermati da ultimo da Cass. 26742/2014, se ne sia poi discostata, in quanto il potere giudiziale di sostituzione della clausola prevedente la retribuzione, sulla base dell’art. 36 Cost., è subordinato alla dimostrazione, da parte del lavoratore, che la retribuzione corrisposta non sia sufficiente a garantire a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, ciò che non era avvenuto nella specie; rileva che entrambi i contratti collettivi disciplinavano il corpus normativo ed economico delle aziende ed istituzioni private operanti nel settore della scuola privata e nella formazione e che, peraltro, anche nel contratto di assunzione del 3.9.2007 e nel contratto
Giurisprudenza
individuale di lavoro del 20.10.2012 le parti avevano aderito al c.c.n.l. Aninsei, sicché, in base ai richiamati principi, non poteva disattendersi il regime di libera scelta operata da parte dei soggetti negoziali, potendo l’art. 36 Cost., essere invocato solo qualora non sia applicato al rapporto individuale di lavoro alcun c.c.n. l., ovvero nell’ipotesi che il c.c.n.l. applicato sia palesemente difforme rispetto al settore merceologico della prestazione di lavoro eseguita; osserva che se, come evidenziato dalla Corte, l’inquadramento della S. non fosse stato riscontrato come coerente rispetto alle mansioni effettivamente svolte, per essere state le stesse diverse da quelle della mera attività di docenza scolastica, la domanda avrebbe dovuto necessariamente consistere in quella diretta all’inquadramento in diversa superiore qualifica, invocandosi l’art. 2103 c.c.; con il secondo motivo, l’Agenzia lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697 c.c., artt. 115, 116 e 414 c.p.c., censurando in diritto l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la società non avrebbe contestato la domanda avversaria circa il preteso inquadramento nel 5 liv. c.c.n.l. formazione professionale; i motivi vanno trattati congiuntamente per l’evidente connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto; va, in primo luogo, evidenziato che l’inquadramento in un livello contrattuale, in quanto frutto di una valutazione comparativa, non può costituire oggetto di contestazione o non contestazione, riferendosi l’onere di contestazione alle allegazioni delle parti in sede di definizione dei fatti controversi; tanto premesso, l’attività svolta dalla S. è stata ritenuta incontestatamente quella di “coordinamento organizzativo e didattico, tutoraggio, amministrazione e progettazione nell’ambito dei progetti formativi che la società elaborava e gestiva per conto di enti pubblici che finanziavano i diversi progetti” e le mansioni predette sono state valutate dal giudice del gravame come non coerenti con quelle di docenza e con il livello retributivo previsto dal c.c.n.l. applicato in azienda; tuttavia, la verifica della congruità dell’inquadramento professionale in base al contratto collettivo applicato in azienda con le mansioni svolte si pone su un piano distinto rispetto a quello oggetto della presente controversia, e contravviene al principio di diritto secondo il quale, “nell’ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comu-
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ne proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dall’imprenditore, il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato” (cfr., tra le tante, Cass. 26.11.2015 n. 24160, Cass. 18.12.2014 n. 26742, Cass. 13.7.2009 n. 16340, Cass. 29.7.2000 n. 10002): l’applicazione di tale principio presuppone, invero, la sussistenza di una corrispondenza e congruità dell’inquadramento attribuito rispetto alle mansioni, potendo porsi solo a valle di ciò una questione di non conformità, rispetto al parametro costituzionale dell’art. 36, del trattamento economico previsto dal contratto applicato in azienda, riferito a settore merceologico non corrispondente a quello dell’attività svolta; il procedimento seguito dalla Corte territoriale è stato, invece, caratterizzato da un doppio passaggio, perché prima è stato ritenuto che l’attività di docenza non fosse stata svolta in concreto e poi, rispetto all’individuazione delle mansioni effettivamente svolte, è stato posto richiamo alla tariffa retributiva, quale parametro ex art. 36 Cost., prevista per altra figura professionale da diverso contratto non applicato in azienda; anche il principio dell’onere della prova gravante sul lavoratore è stato di riflesso applicato ad una fattispecie che non corrispondeva a quella asseritamente presa a riferimento, ritenendosi coerente alle mansioni il livello sesto del c.c.n.l. per il settore della formazione, diverso anche dal 5^ rivendicato; tanto è sufficiente per ritenere la fondatezza dei motivi di ricorso, cui consegue la cassazione della sentenza impugnata ed il rinvio alla Corte designata in dispositivo per una nuova valutazione conforme ai principi richiamati; Il giudice del rinvio dovrà provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. – La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità. Omissis.»
Alessia Matteoni
La scelta del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro Sommario :
1. Il caso. – 2. Breve introduzione storica. – 3. Il dibattito sull’applicabilità dell’art. 2070 c.c. – 4. L’intervento delle Sezioni Unite. – 5. La decisione della Suprema Corte.
Sinossi. Il contributo, dopo una breve introduzione storica sull’evoluzione del nostro ordinamento sindacale, ripercorre il dibattito giurisprudenziale e dottrinale sull’applicabilità dell’art. 2070 c.c. sino ad arrivare alla soluzione offerta dalle Sezioni Unite – cui aderisce anche la sentenza qui commentata – secondo cui il primo comma dell’art. 2070 c.c. (in base al quale l’appartenenza alla categoria professionale, ai fini dell’applicazione del contratto collettivo, si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune. Abstract. The contribution, after a brief historical introduction on the evolution of our union system, retraces the jurisprudential and doctrinal debate on applicability of art. 2070 c.c. until the solution offered by the Supreme Court – to which the judgment here commented also adheres – according to which the first paragraph of art. 2070 c.c. (which establishes that membership of the professional category, for the purposes of applying the collective agreement, is determined according to the activity usually carried out by the entrepreneur) does not operate with regard to collective bargaining under ordinary law.
1. Il caso. La vicenda prende avvio con l’impugnazione da parte di un’agenzia formativa della sentenza di primo grado con la quale il Tribunale di Firenze, dopo aver riconosciuto la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra la società ed una sua dipendente, ed aver accertato lo svolgimento da parte di quest’ultima di mansioni ulteriori rispetto a quelle di mera docenza, aveva condannato l’agenzia a corrisponderle le maggiori competenze retributive assumendo quale parametro di riferimento le tariffe previste dal c.c.n.l. per il settore della formazione professionale, diverso dal c.c.n.l. scuole private applicato dalla società stessa. La Corte di appello di Firenze nel respingere il gravame ha ritenuto che il c.c.n.l. applicato dalla società non fosse coerente, quanto all’inquadramento a fini retributivi, con le mansioni svolte dalla lavoratrice, con la conseguente liceità del richiamo alla tariffa retributiva prevista dal diverso c.c.n.l. per il settore della formazione professionale in corri-
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spondenza del sesto livello, che contemplava le mansioni di coordinatore, formatore, tutor, orientatore, differenti da quelle di esclusiva docenza. La Corte territoriale ha inoltre affermato che l’assunzione a parametro di qualifiche contemplate in un contratto collettivo diverso da quello applicato in azienda non violasse il principio secondo cui, per tale operazione, doveva essere prima provata la violazione del precetto di cui all’art. 36 Cost. Nel ricorrere avanti alla Suprema Corte il lavoratore ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost., artt. 2070, 2103 c.c., artt. 1, 5 e 29 c.c.n.l. 5/5/2003 Aninsei, assumendo che la Corte territoriale avesse sovvertito i principi dottrinari e giurisprudenziali con riferimento all’ordinamento intersindacale secondo cui l’art. 2070 c.c. non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune ed il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, con la possibilità solo eventuale di avere riguardo a tale disciplina come termine di riferimento della retribuzione ex art. 36 Cost.
2. Breve introduzione storica. Il nostro ordinamento sindacale si è evoluto sulle basi di un sistema corporativo di matrice fascista nel quale non si è mai posto il problema dell’applicabilità di un dato contratto collettivo o di un altro: la relazione tra contrattazione e settore merceologico era biunivoca1. La legge 3 aprile 1926 n. 563 sulla «disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro» stabiliva che le associazioni sindacali legalmente riconosciute dei datori di lavoro e dei lavoratori avessero personalità giuridica e rappresentassero legalmente tutti i soggetti della categoria per cui erano state costituite, «vi siano o non vi siano iscritti», nell’ambito della circoscrizione territoriale dove operavano (art. 5). I contratti collettivi da esse stipulati avevano effetto verso tutti i soggetti rappresentati (art. 10, primo comma). Tali contratti avevano dunque efficacia erga omnes e quindi anche verso soggetti, datori o prestatori di lavoro, che non si fossero volontariamente iscritti alle associazioni di categoria. In virtù dell’art. 2070, primo comma, c.c. era l’attività economica esercitata dall’imprenditore a determinare l’applicazione del contratto collettivo proprio della relativa categoria professionale. Soppresso l’ordinamento corporativo, la Costituzione è intervenuta a scardinare i pilastri su cui tale sistema legislativo si reggeva: con l’art. 39 Cost. è stata sancita la libertà di organizzazione sindacale.
1
Per un approfondimento delle vicende che hanno caratterizzato il periodo corporativo, si veda F. Santoro Passarelli, Norme corporative, autonomia collettiva, autonomia individuale, in Id., Saggi di diritto civile, I, Jovene 1961, 245 ss.
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Come è stato osservato in dottrina, con l’art. 39 Cost. si è voluto rispondere alla preoccupazione dei padri costituenti di difendere la libertà dei sindacati dallo Stato e disincentivare qualsiasi possibilità di interferenza esterna2. E proprio tali ragioni sono anche alla base dell’inattuazione della seconda parte dello stesso art. 39 Cost. che prevede al secondo comma l’eventuale imposizione dell’obbligo di registrazione dei sindacati ad opera della legge ordinaria e al terzo comma la legittimazione dei medesimi, se registrati, di stipulare contratti collettivi «con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce»3. I contratti collettivi sono dunque oggi sottoposti alle regole civilistiche dell’autonomia privata: la loro efficacia è limitata a quanti con l’iscrizione alle associazioni sindacali hanno a queste conferito la rappresentanza dei propri interessi e a coloro che hanno liberamente scelto di applicarli alle proprie relazioni.
3. Il dibattito sull’applicabilità dell’art. 2070 c.c. Nell’attuale sistema di libertà sindacale, la mera corrispondenza tra l’attività esercitata dall’imprenditore e quella cui si riferisce il contratto collettivo di diritto comune non è sufficiente all’insorgere dell’obbligo di doverne dare applicazione. È in tale situazione che si è posto il problema dell’individuazione di eventuali limiti alla libertà del datore di scegliere la disciplina collettiva di diritto comune da applicare ai propri dipendenti4. Per rispondere a tale quesito occorre stabilire se l’art. 2070 c.c. sia compatibile con l’ordinamento giuridico repubblicano vigente. Secondo la giurisprudenza tradizionale, benché non possa più accogliersi una nozione ontologica di categoria professionale, come avveniva nell’ordinamento corporativo, l’art. 2070 c.c. troverebbe comunque applicazione in quanto il principio costituzionale della libertà sindacale non esclude che l’appartenenza ad una determinata categoria debba in ogni caso essere determinata sulla base dell’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore, il quale non potrebbe pretendere di sottoporre la disciplina dei rapporti di lavoro a contratti collettivi relativi a settori diversi, che nulla hanno a che vedere con il tipo di attività effettivamente svolta5.
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Paone, Scelta del contratto da applicare al rapporto di lavoro: criticità in DPL, 2017, 44, 2678. Cfr. Mazzotta, Diritto sindacale, Giappichelli, 2017, 98 ss. 3 V. Cass., sez. un., 26 marzo 1997, n. 2665 consultabile in GC, 5, 1997, 1199 con nota di Pera e in GI, 1998, 5, con nota di Marazza. 4 Vallebona, Veri e falsi limiti alla libertà del datore di scegliere il contratto collettivo in RIDL, 1990, II, 62. Cfr. Manganiello, La Sezione Lavoro riapre il contrasto sull’inapplicabilità dell’art. 2070 c.c. al contratto collettivo di diritto comune, ivi, 2001, 3, 396 il quale ha affermato che «il nodo del problema affrontato ripetutamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sin dall’immediato dopoguerra, può essere così sintetizzato: un datore di lavoro può applicare ai propri dipendenti un contratto collettivo diverso da quello astrattamente applicabile in virtù dell’attività effettivamente esercitata?». 5 Ex multis: Cass., 6 novembre 1995, n. 11554; Cass., 7 novembre 1991, n. 11867; Cass., 8 luglio 1988, n. 4528; Cass., 1° giugno 1988, n. 3712; Cass., 10 novembre 1987, n. 8289; Cass., 5 novembre 1986, n. 6470 tutte in Banca Dati on line DeJure.
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La dottrina prevalente ha invece ritenuto che il principio di appartenenza alla categoria imprenditoriale di cui all’art. 2070 c.c. deve ritenersi superato dal principio di libertà ed autodeterminazione sindacale, in virtù del quale il contratto collettivo di diritto comune è applicabile esclusivamente ai datori iscritti all’associazione sindacale stipulante6. In particolare si è osservato che non vi è dubbio che l’art. 2070 c.c. è in aperto contrasto con la concezione «morfologica» di categoria professionale. «Se infatti, sono le parti collettive e quelle individuali che organizzandosi delimitano i confini della categoria, non può negarsi che qualsiasi contratto individuale di lavoro può essere dalle parti liberamente sottoposto alla regolamentazione di un qualsiasi contratto collettivo»7. Successivamente, un orientamento giurisprudenziale maggiormente sensibile all’impostazione dottrinale ha riconosciuto la progressiva obsolescenza del rilievo assegnato alla nozione di categoria di cui all’art. 2070 c.c. arrivando ad affermare che all’individuazione del contratto collettivo “post corporativo” si deve pervenire in forza dell’iscrizione volontaria dei datori all’associazione sindacale stipulante o, in difetto di iscrizione, in virtù dell’adesione esplicita al contratto ovvero dell’accettazione implicita dello stesso8. Nell’ordinamento attuale quindi le categorie professionali avrebbero rilevanza giuridica non in base a classificazioni autoritative ma in base alla spontanea organizzazione sindacale ed alle scelte dell’autonomia privata. Alla stregua di tale orientamento il primo comma dell’art. 2070 c.c. conserverebbe una sua residua operatività per le ipotesi in cui l’imprenditore che svolga diverse attività economiche sia iscritto alle rispettive associazioni sindacali ed occorra individuare il contratto collettivo applicabile al personale addetto alle singole attività9. Tale orientamento giurisprudenziale ha inoltre precisato che il rilievo assegnato all’elemento volontaristico non comporta un’esposizione del lavoratore ad eventuali arbitri, considerato che comunque la disciplina pertinente alla categoria merceologica trovava applicazione come parametro per la determinazione della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.10.
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Consonni, Il concetto di “categoria professionale”: contraddizioni ed ipotesi applicative nell’attuale sistema di relazioni industriali in DRI, 2, 2017, 496 ss.; Pera, La contrattazione collettiva di diritto comune e l’art. 2070 c.c., in GC, 5, 1997, 1120; Papaleoni, Un inopinato revirement in materia di criteri applicativi del contratto collettivo, in RIDL, 1996, II, 477 ss.; Marazza, Le Sezioni unite sui criteri di applicazione del contratto collettivo di diritto comune e retribuzione proporzionata e sufficiente, in GI, 1998, 5; Pinto, Il nuovo orientamento della cassazione in ordine all’art. 2070 c.c., in RIDL, 1994, II, 291 ss.; Tullini, L’ambito residuo (o surrettizio) di applicazione dell’art. 2070 c.c.., ivi, 1993, II, 692 ss.; Caro, L’art. 2070 c.c. ed i contratti collettivi di diritto comune, ivi, 1992, II, 532; Angelini, Individuazione del contratto collettivo applicabile e rilevanza del principio di parità di trattamento, ivi, 1991, II, 506; Vallebona, op. cit., 62 ss. Diamanti, Scorporazione di società, trasferimento d’azienda e contrattazione collettiva in RIDL, 1986, II, 812. 7 Manganiello, op. cit., 397. 8 V. Cass., 9 giugno 1993, n. 6412 in RIDL, 1994, II, 291 con nota di Pinto; Cass., 26 gennaio 1993, n. 928; Cass., 22 genn. 1992, n.695 tutte in Banca Dati on line DeJure; Cass., 30 gennaio 1992, n. 976 in RIDL, 1992, con nota di Pinto. 9 Oltreché per quelli che erano i contratti collettivi di cui alla legge n. 741 del 1959 e per quelli a cui atti di legge operavano un rinvio ricettizio. 10 Cfr. Cass., 6 novembre 1990, n. 10654 in Banca Dati on line DeJure; Cass., 30 gennaio 1992, n. 976, cit.; Cass., 4 febbraio 1989, n. 701 in RIDL, 1990, II, 61 con nota di Vallebona.
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4. L’intervento delle Sezioni Unite. La Sezioni Unite della Cassazione, cercando di ricondurre ad unità la dicotomia venutasi a creare11, con la sentenza n. 2665 del 26 febbraio 199712, hanno stabilito che «dal principio della libertà sindacale, tutelato non soltanto dal richiamato art. 39 Cost. ma anche dal precedente art. 2 poiché il sindacato rientra fra le “formazioni sociali” ivi previste, deriva l’impossibilità di applicare un contratto collettivo di diritto privato, vale a dire non imposto erga omnes, a persone che non vi abbiano direttamente o indirettamente aderito e che vi sarebbero assoggettate in base a definizioni o delimitazioni autoritative delle categorie professionali. Nessuna norma impone oggi la categoria professionale quale strumento coattivo di organizzazione dei datori e dei prestatori di lavoro». Le Suprema Corte ha quindi affermato che la tesi secondo cui attraverso l’art. 2070 c.c. il contratto collettivo può esplicare efficacia verso soggetti non contraenti o non aderenti, si pone al di fuori della regola generale di inefficacia dell’atto di autonomia privata verso terzi di cui all’art. 1372, secondo comma, c.c., producendo in questo modo anche una frattura sistematica nell’ordinamento lavoristico. Dopo aver escluso la natura pubblicistica dell’art. 2070 c.c. – «asserita senza alcuna base normativa» – la Cassazione ha inoltre precisato che l’eventualità che al rapporto individuale di lavoro si applichi un contratto del tutto innaturale rispetto alle oggettive caratteristiche dell’impresa, non comporta la lesione di diritti fondamentali del lavoratore in quanto il contratto collettivo di categoria (pur se non voluto e perciò di per sé inapplicabile) deve essere preso in considerazione dal giudice ogni qualvolta il contratto collettivo concretamente applicato al rapporto di lavoro preveda una retribuzione non proporzionata alla quantità e alla qualità della prestazione lavorativa, in aperto contrasto con l’art. 36, primo comma, Cost. 13. La giurisprudenza ha infatti utilizzato ed utilizza i parametri retributivi contenuti nei contratti collettivi del settore di riferimento anche quando il lavoratore non è iscritto all’associazione stipulante, al fine di stabilire la retribuzione spettante ai sensi dell’art. 36 Cost14. Occorre tuttavia precisare che l’art. 36, comma 1, Cost. non può essere applicato d’ufficio ma deve essere invocato dal lavoratore e che il riferimento al contratto collettivo di categoria non si risolve in una meccanica trasposizione delle sue clausole alla disciplina del rapporto, ma ha solo un valore orientativo15 e non serve comunque a realizzare un’assoluta parità di trattamento fra lavoratori che svolgono la stessa attività economica16.
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Consonni, op. cit., 501. Cass., sez. un., 26 marzo 1997, n. 2665, cit. 13 Cass., 26 gennaio 1993, n. 928 in RIDL, 1999, II, 692 con nota di Tullini.; Cass., 1° giugno 1988 n. 3712; Cass., 21 gennaio 1985 n. 237 (massima) disponibili in Banca Dati on line DeJure. 14 Cfr. Cass., 8 aprile 1980, n. 2254; Cass., 15 dicembre 1979, n. 6526 (massime) consultabili in Banca Dati on line DeJure. 15 L’adeguamento retributivo comporta di fatto un apprezzamento riservato al giudice del merito: Cfr. Cass., 12 febbraio 1990, n. 997; Cass., 27 gennaio 1989, n. 513 in Banca on line Dati DeJure. 16 V. Cass., 13 febbraio 1990, n. 1042 in Banca Dati on line DeJure. Sul principio della parità di trattamento v. Brollo, La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e trasferimento. Art. 2103 c.c., in Comm Sch, Giuffrè, 1997, 59 ss. 12
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Una parte della dottrina ha messo in luce che in tal modo, seppur con l’elasticità che caratterizza il giudizio ex art. 36 Cost., finisce per operare nell’ordinamento un principio analogo a quello fissato nel primo comma dell’art. 2070 c.c. per l’applicazione dei contratti collettivi corporativi «secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore». «L’effetto dell’applicazione di una determinata disciplina, che prima derivava ineluttabilmente dall’appartenenza dell’imprenditore ad una categoria ontologica predeterminata, può verificarsi oggi per il tramite dell’apprezzamento discrezionale del magistrato circa la idoneità dell’uno, anziché dell’altro contratto collettivo [...] a fungere da “indicatore” della equa retribuzione per un certo rapporto»17. In proposito si è osservato che, così facendo, il giudice non applica l’art. 2070 c.c. ma, in attuazione di una norma direttamente precettiva (art. 36 Cost.), determina liberamente la retribuzione «sufficiente», tenendo presente quanto previsto dal contratto collettivo della categoria cui ritiene assimilabile l’attività svolta dal datore di lavoro. Il criterio di scelta può coincidere con quello previsto dall’art. 2070 c.c. ma «dalla coincidenza non si debbono trarre conseguenze ulteriori, perché comunque non si tratta di applicare un contratto collettivo secondo i criteri previsti dalla normativa, ma di rinvenire un parametro ragionevole di determinazione quantitativa della retribuzione». Né può considerarsi violato il principio della libertà sindacale in quanto nessuno pretende di sostituirsi alla volontà contrattuale, se non nei limiti di quanto imposto dall’ordinamento18.
5. La decisione della Suprema Corte. Nel caso affrontato dalla decisione in commento, le parti nel contratto individuale di lavoro avevano aderito al c.c.n.l. scuole private (c.c.n.l. Aninsei). I giudici di merito tuttavia con una singolare operazione, dopo aver accertato lo svolgimento da parte della lavoratrice di mansioni di “coordinamento organizzativo e didattico, tutoraggio, amministrazione e progettazione”, accogliendo le richieste della stessa, avevano condannato l’agenzia formativa a corrisponderle le maggiori competenze retributive assumendo quale parametro di riferimento le tariffe del c.c.n.l. per il settore della formazione. La Suprema Corte ha innanzitutto evidenziato che la verifica della congruità dell’inquadramento professionale con le mansioni svolte si pone su un piano distinto rispetto alla determinazione della retribuzione sulla base del contratto collettivo ritenuto applicabile al rapporto di lavoro ed in attuazione del principio stabilito dalla Sezioni Unite del 199519
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Vallebona, op. cit., 62-63. Diamanti, op. cit., 813. 19 E ribadito dalla successiva giurisprudenza: Cass., sez. un., 26 marzo 1997, n. 2665, cit; Cass., 26 novembre 2015, n. 24160, Cass., 18 dicembre 2014, n. 26742; Cass., 13 luglio 2009, n. 16340; Cass., 5 maggio 2004, n. 8565; Cass., 29 luglio 2000, n. 10002 in Banca Dati on line DeJure. 18
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secondo cui il primo comma dell’art. 2070 c.c. (in base al quale l’appartenenza alla categoria professionale si determina secondo l’attività effettivamente esercitata dall’imprenditore) non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune, ha affermato che «nell’ipotesi di contratto di lavoro regolato dal contratto collettivo di diritto comune proprio di un settore non corrispondente a quello dell’attività svolta dall’imprenditore, il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto collettivo diverso, se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato». Il lavoratore dunque, stante la sussistenza di una corrispondenza e congruità dell’inquadramento attribuito rispetto alle mansioni svolte20, qualora ritenga che il trattamento economico previsto dal contratto applicato in azienda – riferito a settore merceologico non corrispondente a quello dell’attività svolta – non sia sufficiente a garantire a sé ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa, può eventualmente richiamare la disciplina del diverso contratto collettivo come termine di riferimento della retribuzione ex art. 36 Cost. ma non può pretendere l’applicazione del diverso contratto collettivo. È ormai chiaro che è il principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost. a dettare le regole del gioco21: il datore di lavoro – salvo il limite di cui all’art. 36 Cost. – è libero di scegliere il c.c.n.l. meglio confacente alla propria realtà organizzativa e aziendale, ritenuto più idoneo a disciplinare i propri interessi. Allo stesso modo al datore di lavoro non può essere imposto uno specifico contratto collettivo, a meno che non vi sia vincolato per affiliazione sindacale o per ricezione volontaria. Alessia Matteoni
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Tale situazione rappresenta quindi il presupposto per valutare la conformità o meno del trattamento economico previsto dal contratto applicato in azienda rispetto al parametro costituzionale dell’art. 36 Cost. 21 Consonni, op. cit., 503.
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Giurisprudenza Tribunale di M ilano, sentenza 24 dicembre 2019, n. 2843; Giud. Ravazzoni – S.S. (avv. L. Franceschinis) c. Rete Ferroviaria Italiana S.P.A. (avv. P. Tosi). Licenziamenti – Disabilità – Inidoneità fisica sopravvenuta – Obbligo di adozione di accomodamenti ragionevoli – Obbligo di repêchage – Nullità.
Il licenziamento del lavoratore per inidoneità fisica sopravvenuta derivante da causa di disabilità è nullo ai sensi dell’art. 2, comma 4, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in ragione del mancato assolvimento dell’obbligo a carico del datore di lavoro di adottare gli «accomodamenti ragionevoli», comportanti anche il mutamento del contesto lavorativo al fine di garantire e preservare lo svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti disabili, in applicazione dell’art. 3, comma 3-bis, d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, come modificato dal d.l. 28 giugno 2013, n. 76, di recepimento dell’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE. Omissis. Fatti di causa Con ricorso ex art. 414 c.p.c., depositato telematicamente al Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, in data 19 luglio 2019, il ricorrente S.S. ha convenuto in giudizio la società RFI S.p.A. Omissis. Si è ritualmente costituita in giudizio la società convenuta, contestando in fatto e in diritto le domande avversarie e chiedendo il rigetto del ricorso. Omissis. S.S. è stato assunto alle dipendenze della società convenuta in data 1 novembre 2015 nell’ambito del Presidio territoriale di Protezione Ambientale di Milano con mansioni di Operatore Specializzato Attività di Supporto di livello D3 CCNL Mobilità – Attività Ferroviarie. In data 23.11.2018, a seguito di visita di idoneità, il ricorrente è stato dichiarato “temporaneamente non idoneo al lavoro notturno e a presenziamento varchi per sei mesi” ed è stato successivamente assegnato in via provvisoria allo svolgimento di attività di supporto a quelle d’ufficio presso la sede di Milano del Presidio Territoriale di Protezione aziendale. In data 21.5.2019, il ricorrente è stato nuovamente sottoposto a visita medica presso l’Unità Sanitaria Territoriale di Milano ed è stato dichiarato “non idoneo al lavoro notturno...non idoneo al controllo varchi in via definitiva” e tale giudizio non è stato oggetto di impugnazione. Con lettera del 4 luglio 2019, consegnata a mani in data 5 luglio 2019, la società ha comunicato al ricorrente il licenziamento per impossibilità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1463 c.c. e art. 3 della l. 604/1966 in quanto “l’inidoneità definitiva al controllo varchi... non consente la sua proficua utilizzazione” e “all’in-
terno dell’Azienda non si ravvedono possibilità di sua diversa assegnazione lavorativa”. Con il presente ricorso (omissis) viene poi censurato il difetto di giustificazione del licenziamento per motivo consistente nella disabilità fisica del lavoratore ai sensi dell’art 2, comma 4, D.lgs. 23/2015, da ravvisarsi nelle sue condizioni di salute (ipertensione e cefalea); il ricorrente richiama, infine, l’obbligo di ricollocazione dei lavoratori divenuti inidonei alle mansioni di cui al CCNL applicato (art. 15) ma desumibile anche dalla l. n. 68/1999 (art. 1, comma7, e art. 42) e dalla normativa eurocomunitaria in materia di ragionevoli accomodamenti (Direttiva Europea 2000/78 attuata con il d.l. n.76/2013, convertito in legge 9 agosto 2013 n. 99). In diritto Il ricorso è fondato e merita accoglimento per le seguenti motivazioni. Il ricorrente richiama l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 2, comma 4, D.lgs. 23/2015 che prevede: “La disciplina di cui al presente articolo trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68”. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che è stata approvata a nome della Comunità europea dalla decisione 2010/48/CE del Consiglio, del 26 novembre 2009, all’art. 1 statuisce quanto segue: «Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
Giurisprudenza
La Corte di Giustizia Europea nella causa C - 312/11 promossa dalla Commissione Europea proprio contro la Repubblica italiana e relativa all’inadempimento all’articolo 5 della direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 ha affermato che: “se è vero che la nozione di «handicap» non è definita nella stessa direttiva 2000/78, la Corte ha tuttavia già dichiarato, ai punti 38 e 39 della sentenza dell’11 aprile 2013, HK Danmark (C-335/11 e C-337/11, non ancora pubblicata nella Raccolta), che, alla luce della Convenzione dell’ONU, tale nozione deve essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Di conseguenza, l’espressione «disabile» utilizzata nell’articolo 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretata come comprendente tutte le persone affette da una disabilità corrispondente alla definizione enunciata nel punto precedente”. Sicché, sotto un profilo di ordine generale, se deve escludersi che possa essere richiamata la nozione di disabilità non appena si manifesti una qualunque malattia, di disabilità può invece parlarsi ogniqualvolta la malattia sia di lunga durata e abbia l’attitudine a incidere negativamente sulla vita professionale del lavoratore. Ebbene, nel caso in esame, è documentalmente provato che il ricorrente soffra di ipertensione arteriosa e che tale condizione abbia determinato il giudizio di inidoneità al lavoro notturno e di inidoneità definitiva alla mansione di addetto ai varchi. Si tratta di una condizione che senz’altro presenta le caratteristiche indicate dalla Corte di Giustizia, essendo una malattia di lunga durata con caratteristiche tali da impedire il normale svolgersi delle mansioni lavorative. Accertata dunque la condizione del ricorrente, occorre passare alla verifica degli obblighi che gravano sul datore di lavoro con riferimento a tale categoria di soggetti. Con riferimento ai lavoratori disabili, la Direttiva 2000/78 all’art. 5 prevede che: “Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili». Nel nostro ordinamento, l’art. 42 D.lgs. 81/2008 rubricato “Provvedimenti in caso di inidoneità alla
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mansione specifica”, prevede che: “Il datore di lavoro, anche in considerazione di quanto disposto dalla legge 12 marzo 1999, n. 68, in relazione ai giudizi di cui all’articolo 41, comma 6, attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”. Infine, l’articolo 3, comma 3 bis, D.lgs. 216/2003 come modificato dal DL 76/13 ha espressamente previsto che: “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori.” La Convenzione delle Nazioni Unite, già citata, all’art. 2 comma 4 prevede che “per “accomodamento ragionevole” si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Dalla lettura combinata delle richiamate disposizioni, deve concludersi che il datore di lavoro abbia uno stringente obbligo di adottare provvedimenti di natura organizzativa al fine di mutare il contesto lavorativo in funzione delle esigenze del lavoratore disabile ed eventualmente valutare ed eventualmente individuare, nell’ambito della propria organizzazione lavorativa, mansioni che il lavoratore disabile (nell’accezione, giova ancora una volta ribadirlo, sopra evidenziata) possa utilmente disimpegnare, fermo restando che tale obbligo non può arrivare a comportare lo stravolgimento del contesto organizzativo. Gli accomodamenti ragionevoli che il datore è tenuto a porre in essere per garantire e preservare lo svolgimento dell’attività lavorativa dei dipendenti disabili debbono trovare, infatti, equo contemperamento con le necessità organizzative aziendali. Sul punto, il giudicante condivide le osservazioni già svolte da questo Tribunale in una fattispecie analoga in cui ha chiarito che: “Tale profilo (che può senza dubbio essere ricondotto, nell’ordinamento interno, al principio di cui all’articolo 41 Costituzione) viene individuato nel limite dell’onere sproporzionato. In concreto, è evidente, pertanto, che il contesto aziendale, il numero di dipendenti e l’articolazione della prestazione e le concrete modalità di svolgimento della stessa rappresentino elementi da ponderare adeguatamente nel valutare se il datore di lavoro abbia o meno
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adempiuto ai propri obblighi. Tanto maggiore e articolato sarà il contesto organizzativo tanto più stringente, deve ritenersi, saranno gli obblighi che possono pretendersi dal datore di lavoro stesso” (Trib Milano, est. Perillo, sent. n. 2159/2017). Ebbene, nel caso di specie può darsi per pacifico e non contestato che S. - in forza delle proprie condizioni di salute nonché delle limitazioni disposte dal medico competente in occasione della visita medica del 21.5.2019 - non potesse più svolgere la mansione di addetto ai varchi. Può altresì darsi per pacifico e non contestato che il lavoratore fosse invece parzialmente idoneo alla mansione specifica di “Operatore attività di supporto”, come risulta dalla documentazione relativa alla visita di idoneità del 21.5.2019. La società non ha minimamente dato atto di aver posto in essere i ragionevoli accomodamenti al fine di consentire al ricorrente lo svolgimento di attività lavorativa (omissis). Tuttavia, nel caso di lavoratori disabili, il datore di lavoro è tenuto non ad un semplice obbligo di repechage, come la difesa della società vorrebbe sostenere, ma ad un ben più gravoso onere nei termini sopra indicati. Nel caso in esame, la difesa della società non ha neppure allegato le motivazioni per le quali l’inidoneità al controllo varchi determinerebbe l’assoluta inutilizzabilità della prestazione del ricorrente come “operatore attività di supporto”, limitandosi genericamente ed apoditticamente ad affermare che “per lo svolgimento delle mansioni di Operatore Specializzato Attività di Supporto (Addetto alla Gestione dei Flussi Passeggeri) l’idoneità al controllo dei varchi è requisito necessario e imprescindibile” (punto 16 memoria). Inoltre, il datore di lavoro non ha neppure allegato il tentativo di adottare i ragionevoli accomodamenti al fine di consentire al ricorrente il mantenimento del posto di lavoro. Del resto, gli obblighi del datore in tal senso possono altresì desumersi dal Contratto Integrativo FS del 2016 (omissis).
La disposizione richiamata dunque pone una serie di stringenti obblighi in capo al datore di lavoro e in nessun caso prevede la possibilità di licenziamento in ragione dell’inidoneità alle mansioni. Nello specifico, il datore è tenuto a porre in essere le seguenti attività: - individuare soluzioni di impiego conformi con la ridotta capacità lavorativa del medesimo anche in figure professionali diverse del medesimo livello professionale rispetto a quello di appartenenza; - utilizzare temporaneamente il lavoratore in una delle figure professionali del livello professionale inferiore per la quale sia riconosciuto idoneo, finché non sarà possibile utilizzarlo con cambio di figura professionale per la quale è idoneo; - utilizzare il lavoratore in altra figura professionale del livello professionale di appartenenza o del livello inferiore per la quale conservi l’idoneità; - consentire al lavoratore di acquisire le abilitazioni e le conoscenze tecnico professionali necessarie per la sua proficua utilizzazione È pacifico in causa che la società non abbia posto in essere nessuna di queste misure. Per tutti i motivi sopra esposti, il licenziamento per cui è causa deve essere dichiarato nullo ai sensi dell’art. 2, comma 4, D.lgs. 23/2015 e RFI spa va condannata alla reintegra del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione utile ai fini del TFR (€ 1.725,46) per i mesi dal licenziamento alla reintegra, in ogni caso in misura non inferiore a 5 mensilità, dedotto quanto eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per il medesimo periodo, oltre interessi legali e rivalutazione dal dovuto al saldo. Omissis. P.Q.M. Il giudice, definitivamente pronunciando, così decide: 1. accerta il difetto di giustificazione, ai sensi dell’art 2 co. 4 del d.lgs 23/2015, del licenziamento intimato al ricorrente con lettera in data 4.7.2019, Omissis.
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Il licenziamento per disabilità sopravvenuta: i nuovi limiti al potere di recesso datoriale alla luce degli «accomodamenti ragionevoli» Sommario :
1. Premessa. – 2. L’evoluzione della nozione di disabilità nel diritto sovranazionale e la sua capacità d’includere la malattia, se grave e duratura. – 3. L’obbligo di repêchage “rafforzato” alla luce degli «accomodamenti ragionevoli». – 4. Il licenziamento per inidoneità psicofisica sopravvenuta: una fattispecie residuale nell’impianto del Jobs Act.
Sinossi. Dopo aver analizzato l’evoluzione che ha subìto la nozione di disabilità alla luce della giurisprudenza comunitaria, il commento delinea i limiti al potere di recesso datoriale in tema d’inidoneità psicofisica sopravvenuta, ampliati dal recepimento della direttiva 2000/78/CE, che impone al datore di lavoro di adottare «ragionevoli accomodamenti». Abstract. After a brief analysis of the concept of disability - and of its evolution within the field of European Jurisprudence -, the commentary moves on to outline the legal boundaries to the employer’s power of withdrawal with regard to the psychophysical unfitness. Such limits have been recently extended by the transposition of Directive 2000/78/CE, which requires the employer to adopt «reasonable accommodation».
1. Premessa. La discussa questione del bilanciamento tra libertà d’impresa e tutela del lavoratore in materia di licenziamento assume particolare rilevanza nella sentenza in commento, per il recepimento della normativa comunitaria che ha rafforzato l’obbligo di repêchage in capo al datore di lavoro, il quale a fronte della particolare condizione di fragilità cui è esposto il lavoratore disabile, deve adottare provvedimenti di natura organizzativa al fine di consentirgli lo svolgimento dell’attività lavorativa. Il Tribunale di Milano, chiamato a decidere sul caso di un lavoratore che a seguito di visita medica era dichiarato inidoneo a svolgere le sue mansioni lavorative e conseguentemente licenziato per tale ragione, ha dichiarato tale licenziamento nullo per violazione dell’obbligo di adottare «accomodamenti ragionevoli» e condannato il datore di lavoro alla reintegrazione e al risarcimento del danno.
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2. L’evoluzione della nozione di disabilità nel diritto
sovranazionale e la sua capacità d’includere la malattia, se grave e duratura. Il Tribunale affronta in primo luogo la questione della riconducibilità della malattia alla nozione di disabilità, allo scopo di qualificare il licenziamento per inidoneità sopravvenuta a causa di malattia (ipertensione e cefalea), irrogato dalla società, come licenziamento per disabilità, ai sensi dell’art. 2, comma 4, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23. Il giudice, adottando come punto di partenza la nozione di disabilità prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite, mostra di condividere il risultato del percorso condotto dalla Corte di Giustizia, all’esito del quale, in mancanza di un’univoca definizione di disabilità a livello comunitario, recepisce quella ampia prevista dall’art. 1 della citata Convenzione. L’inizio di tale percorso è segnato dalla pronuncia Chacón Navas1, con la quale i giudici di Lussemburgo chiamati ad interrogarsi, per la prima volta, sulla riconducibilità della nozione di malattia a quella di disabilità2, rispondono negativamente, affermando che «la direttiva 2000/78 non contiene alcuna indicazione che lasci intendere che i lavoratori sono tutelati in base al divieto di discriminazione fondata sull’handicap appena si manifesta una qualunque malattia»3 e altresì sottolineano come l’utilizzo del termine di “handicap” nell’art. 1 della citata direttiva e non, invece, quello di “malattia” impedisce l’assimilazione tra i due, ragione per cui escludono che a quest’ultima possa estendersi in via analogica la tutela contro la discriminazione fondata sulla disabilità4. Su tale punto, la Corte di Giustizia, con la decisone HK Danmark5, supera la precedente posizione, includendo la malattia nella nozione di «handicap» quando «curabile o incurabile, comporta una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori e se tale limitazione è di lunga durata»6. L’ampia nozione, improntata sul modello bio-psico-sociale7 e mutuata da quella di «persona con disabilità»
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C. giust., 11 luglio 2006, causa C-13/05, Sonia Chacón Navas, in https://curia.europa.eu. La Corte di Giustizia definisce la disabilità come il «limite che deriva, in particolare, da minorazioni fìsiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale». C. giust., 11 luglio 2006, causa C-13/05, Sonia Chacón Navas, cit., 46. Fernández Martínez, Malattie croniche e licenziamento del lavoratore: una prospettiva comparata, in DRI, 2015, III, 754. C. giust., 11 aprile 2013, causa C-335/11 e C-337/11, HK Danmark, in https://curia.europa.eu. C. giust., 11 aprile 2013, causa C-335/11 e C-337/11, HK Danmark, cit., 41. È interessante sottolineare che una parte della dottrina, tra cui Fernández Martínez, L’evoluzione del concetto giuridico di disabilità: verso un’inclusione delle malattie croniche? in DRI, 2017, I, 79 ha ipotizzato la creazione di una terza categoria concettuale da parte della Corte di Giustizia «la malattia cronica, che si differenzia sia dalla malattia in senso stretto sia dalla disabilità, e per la quale sarebbe necessario offrire tutele ad hoc». Il richiamo alla Convenzione ONU e in particolare alla lett. e) del suo Preambolo, che descrive la disabilità come «un concetto in evoluzione» e come «il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri», evidenzia il cambio di prospettiva intrapreso dalla Corte di Giustizia, sottolineato da Cadonna, La lunga storia del concetto di disabilità nell’ordinamento dell’Unione europea, in http://www.foroeuropa.it, come il passaggio «da una visione incentrata precipuamente sulla “minorazione”, ossia su ciò che manca, sull’infermità, sul “danno”, ad un approccio di tipo relazionale, che valuta il rapporto tra la menomazione
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contenuta nell’art. 1 della Convenzione ONU, esprime una concezione di disabilità intesa in termini non (solo) “statici”, ma (anche) “dinamici”, perché determinata «non esclusivamente secondo parametri dati ed oggettivi, funzionali all’accertamento ed alla misurazione della menomazione in sé, ma anche sulla base della relazione tra il soggetto affetto dalla menomazione ed il contesto circostante»8. Ponendo lo sguardo sulla normativa interna, si colgono diverse definizioni di disabilità9, più restrittive di quella elaborata dalla Corte di Giustizia10, accolta invece, dalla giurisprudenza nazionale. Infatti, quest’ultima, a partire da un caso di una lavoratrice affetta da una patologia molto grave, ha statuito come la malattia sofferta dalla medesima abbia «inequivocabilmente assunto il contenuto di un handicap»11. All’interno dell’orientamento di merito appena citato, confermato da quello di legittimità12, si inserisce la sentenza in commento, che sebbene escluda che «possa essere richiamata la nozione di disabilità non appena si manifesti una qualunque malattia», riscontra nella menomazione che affligge il lavoratore il carattere duraturo e l’attitudine ad incidere negativamente sulla vita professionale e la qualifica, pertanto, come disabilità.
e le “barriere di diversa natura”, quando tale interazione produce l’effetto di ostacolare “la piena ed effettiva partecipazione nella società” delle persone con disabilità». A tal proposito, è opportuno precisare come nel 2002 l’Organizzazione mondiale della sanità ha adottato un nuovo modello di classificazione, International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF), che concepisce il funzionamento di un individuo come una relazione complessa fra la condizione di salute e i fattori contestuali (cioè i fattori ambientali e personali), recepita in seguito dalla Convenzione ONU e grazie all’intervento della Corte di Giustizia, anche a livello europeo. Cfr. Venchiarutti, La disabilità secondo la corte di Giustizia: il modello bio-psico-sociale diventa “europeo”? in https://www. diritticomparati.it. 8 Agliata, La Corte di giustizia torna a pronunciarsi sulle nozioni di “handicap” e “soluzioni ragionevoli” ai sensi della direttiva 2000/78/CE, in DRI, I, 2014, 264. 9 Si evidenziano in particolare quelle presenti nella l. 5 febbraio 1992, n. 104 «Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate», che all’art. 3, comma 1, stabilisce che «E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione» e nella l. 12 marzo 1999, n. 68 «Norme per il diritto al lavoro dei disabili», che circoscrivendo il suo campo di applicazione nell’art. 1, comma 1, si riferisce ai “disabili” come « a) alle persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e ai portatori di handicap intellettivo, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45 per cento, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile in conformità alla tabella indicativa delle percentuali di invalidità per minorazioni e malattie invalidanti approvata, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 23 novembre 1988, n. 509, dal Ministero della sanità sulla base della classificazione internazionale delle menomazioni elaborata dalla Organizzazione mondiale della sanità (nonché alle persone nelle condizioni di cui all’articolo 1, comma 1, della legge 12 giugno 1984, n. 222); b) alle persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33 per cento, accertata dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (INAIL) in base alle disposizioni vigenti; c) alle persone non vedenti o sordomute, di cui alle leggi 27 maggio 1970, n. 382, e successive modificazioni, e 26 maggio 1970, n. 381, e successive modificazioni; d) alle persone invalide di guerra, invalide civili di guerra e invalide per servizio con minorazioni ascritte dalla prima all’ottava categoria di cui alle tabelle annesse al testo unico delle norme in materia di pensioni di guerra, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915, e successive modificazioni». Si rileva come tali definizioni risentano ancora molto del modello medico di disabilità, inteso come «sinonimo di menomazione», v. Innesti, La nozione di disabilità nel contesto italiano e internazionale, in Boll. Adapt, n. 20/2014 che la descrive come «una perdita o anomalia strutturale o funzionale che afferisce al fisico, alla mente, ai sensi». 10 Fernández Martínez, L’evoluzione del concetto giuridico di disabilità: verso un’inclusione delle malattie croniche?, cit., 82. 11 V. Trib. Milano, 11 febbraio 2013, in https://dejure.it. 12 V. Cass., 21 maggio 2019, n. 13649; Cass., 28 ottobre 2019, n. 27502; Cass., 19 marzo 2018, n. 6798 reperibili in https://dejure.it.
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3. L’obbligo di repêchage “rafforzato” alla luce degli «accomodamenti ragionevoli».
Il giudice, ricondotta la malattia del lavoratore al licenziamento per disabilità ex art. 2, comma 4, d.lgs. n. 23/2015, procede nel verificare il rispetto - da parte del datore di lavoro - dei presupposti giustificativi che legittimano la risoluzione del rapporto lavorativo. L’esito di tale operazione – la pronuncia di nullità del licenziamento intimato al lavoratore per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) e per giustificato motivo oggettivo (art. 3, l. 15 luglio 1966, n. 604) – si fonda sul recepimento dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha edificato in capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare «soluzioni ragionevoli», complicando così il quadro regolativo in materia di inidoneità psicofisica sopravvenuta. Come noto, l’iniziale orientamento giurisprudenziale assimilava la sopravvenuta inidoneità psicofisica alla disciplina civilistica dell’impossibilità sopravvenuta13, distinguendo i casi in cui l’inidoneità alla mansione fosse totale o parziale. Ciò comportava nel primo caso (art. 1463 c.c.), un’impossibilità definitiva della prestazione, che consentiva l’estinzione automatica del rapporto; nel secondo caso (art. 1464 c.c.), una riduzione della capacità lavorativa, che legittimava il recesso datoriale solo in mancanza di un «interesse apprezzabile all’adempimento parziale»14. In un secondo tempo, la giurisprudenza prevalente ricondusse tale disciplina a quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, escludendo tuttavia l’applicazione della regola del repêchage15. Solo in seguito, grazie all’intervento delle Sezioni Unite16 è stato riconosciuto in capo al datore di lavoro, quale limite generale al recesso per inidoneità sopravvenuta, l’obbligo di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni compatibili (equivalenti o inferiori) con le sue residue capacità lavorative17. L’estensione dell’obbligo di ricollocazione al licenziamento per inidoneità sopravvenuta non comportava, tuttavia, il dovere di «creare un posto ad hoc per il lavoratore inidoneo, ma solo l’obbligo di cercare una soluzione alternativa al licenziamento»18, confermando il principio, condiviso in giurisprudenza, dell’insindacabilità dell’assetto or-
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Per un approfondimento sul tema v. Schiavone, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, in RIDL, 2010, I, 153 ss. Ex plurimis Cass., 6 novembre 1996, n. 9684, in RIDL, 1997, II, 612. 15 Appartengono all’orientamento giurisprudenziale che sottrae l’obbligo di repêchage al licenziamento per inidoneità sopravvenuta ex plurimis Cass., 18 marzo 1995, n. 3174, in GC Mass., 1995, 639. 16 Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755, in RIDL, 1999, II, 179, con nota di Pera, che afferma «La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato (artt.1 e 3 l. n. 604 del 1966 e 1463, 1464 cod. civ.), non è ravvisabile nella sola ineseguibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altra attività riconducibile - alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede - alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore». Sul tema v. Ludovico, L’evoluzione della giurisprudenza in materia di sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, in DRI, 2001, I, 117 ss. 17 V. Cass., 22 agosto 2003, n. 12362; Cass., 15 novembre 2002, n. 16141; Cass., 2 agosto 2001, n. 10574; Cass., 5 agosto 2000, n. 10339, reperibili in https://dejure.it. 18 Lai, Recenti sviluppi in tema di inidoneità sopravvenuta, in RIDL, 2018, III, 39, secondo il quale «la conseguenza di tale impostazione è stata quindi che il lavoratore divenuto inidoneo alla mansione a lui attribuita, se non esistono altre mansioni, anche inferiori disponibili, può essere licenziato». 14
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ganizzativo aziendale19. Tale opzione «è stata giustificata dalla considerazione che nel bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti (artt. 4, 32, 36 e 41 Cost.) non poteva pretendersi che il datore di lavoro, per ricollocare il dipendente non più fisicamente idoneo, procedesse a modifiche di scelte organizzative riservate all’ambito della sua piena discrezionalità in quanto espressione della libertà di impresa tutelata dall’art. 41 Cost.»20. In seguito, l’orientamento giurisprudenziale consacrato dalle Sezioni Unite è stato recepito sul piano normativo in più disposizioni di legge, complicando l’indagine giudiziale volta a individuare i presupposti giustificativi che legittimano il recesso per disabilità sopravvenuta21. La prima delle disposizioni che merita considerazione è la legge per il diritto al lavoro dei disabili, che codifica in un principio generale l’obbligo di «garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell’assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità»22 attraverso l’adibizione a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori23; principio che trova un esplicito riconoscimento nell’art. 42, comma 1, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in materia di inidoneità alla mansione specifica. A completare il quadro normativo – ed è questo il punto di maggior interesse di cui tiene conto il Tribunale di Milano – è intervenuto il criterio delle «soluzioni ragionevoli», impiegato dall’art. 5, Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, che prescrive in capo al datore di lavoro il dovere di prendere «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete» al fine di garantire l’eguaglianza sostanziale dei lavoratori disabili. Il legislatore italiano, condannato dalla Corte di Giustizia24 per non aver recepito nell’ordinamento nazionale tale precetto, lo inseriva nel comma 3 bis dell’art. 3, d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, come modificato dal d.l. 28 giugno 2013, n. 7625 estendendo così i limiti al potere
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Cfr. Cass., 6 dicembre 2017, n. 29250, in www.cortedicassazione.it; Cass., 23 aprile 2010, n. 9700, in ADL, 2011, II, 146, con nota di Corso; Cass., 13 ottobre 2009, n. 21710; Cass., 19 agosto 2009, n. 18387; Cass., 24 maggio 2005, n. 10914 reperibili in https://dejure.it. 20 Cass., 28 ottobre 2019, n. 27502, in www.cortedicassazione.it. 21 Giubboni, Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero e il Jobs Act, in WP D’Antona, It., n. 261/2015, 4. 22 Art. 1, comma 7, l. 12 marzo 1999, n. 68. 23 Anche l’art. 4, comma 4, l. 12 marzo 1999, n. 68 dispone che «l’infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza». Il quadro normativo è integrato dall’art. 10, comma 3, che riguarda la sopravvenuta inidoneità psicofisica del disabile obbligatoriamente assunto. 24 C. giust., 4 luglio 2013, causa C-312/11, Commissione europea, in http://curia.europa.eu condanna l’Italia non solo per la mancata rispondenza tra la nozione di “handicap” contenuta nella disciplina italiana e quella comunitaria, mutuata dalla Convenzione dell’ONU, ma anche per l’omessa trasposizione dell’obbligo generale di adottare “soluzioni ragionevoli”, sancito nell’art. 5, della dir. 2000/78/CE. 25 Art. 3, comma 3 bis, d.lgs. n. 216/2003 «Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».
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di recesso datoriale, che impongono oggi al datore di lavoro l’obbligo di adottare gli «accomodamenti ragionevoli». Per accomodamenti ragionevoli, in particolare nella Convenzione s’intendono «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali»26. La lettura combinata delle disposizioni sopra citate, dunque, delinea un obbligo di repêchage «qualificato e rafforzato»27, in quanto il datore di lavoro, per scongiurare l’extrema ratio del licenziamento, non solo è tenuto a vagliare la disponibilità di mansioni equivalenti o inferiori per ricollocare il lavoratore divenuto inidoneo, ma è anche tenuto ad attuare quegli «accomodamenti ragionevoli», che possono comportare la modifica dell’assetto organizzativo aziendale - purché non implicanti oneri finanziari sproporzionati - al fine di tutelare la conservazione del posto per il lavoratore divenuto disabile28. L’evidente estensione dell’obbligo di repêchage, che impone dunque una «collaborazione operosa» da parte del datore di lavoro, chiama in causa «il potere direttivo nella sua dimensione più ampia, cioè riferito all’intera organizzazione, più che al singolo rapporto di lavoro»29, infrangendo il tradizionale dogma giurisprudenziale della “intangibilità dell’organizzazione aziendale”, espressione della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost.30. L’interpretazione dottrinale appena esaminata ha trovato sostegno nella giurisprudenza maggioritaria, che afferma in molteplici pronunce31 la necessità di verificare la possibilità di adattamenti organizzativi ai fini della legittimità del licenziamento per inidoneità fisica o psichica, ribadendo il limite nel mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa stessa. La sentenza in esame aderisce a questo orientamento, dichiarando nullo il licenziamento non solo per la violazione dell’obbligo secondo il quale, il datore è tenuto a verificare la
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Art. 2 della Convenzione Onu. Si rileva come la formulazione dei «ragionevoli adattamenti» sia per Agliata, op. cit., 268 «piuttosto generica», in quanto non individua le azioni concrete che il datore di lavoro ha l’obbligo di adottare. Nello stesso ordine di idee Casale, Malattia, inidoneità psicofisica e handicap nella novella del 2012 sui licenziamenti, in ADL, 2014, 409. Di contrario avviso è Giubboni, Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero e il Jobs Act, cit., 9 secondo il quale la nozione di ragionevoli accomodamenti permette di includere «la non predeterminabile varietà delle esigenze di protezione», potendo quindi comprendere «oltre ad interventi di natura materiale o strutturale (dalla sostituzione dei macchinari alla introduzione di ausili o modifiche ergonomiche, sino alla ristrutturazione edile degli ambienti di lavoro), il trasferimento del lavoratore, il suo distacco, la riduzione o la riarticolazione dell’orario di lavoro, ad esempio con diversa distribuzione dell’impegno lavorativo nel contratto a tempo parziale, o ancora la rotazione o la esclusione da turni non più sostenibili, come anche - senza alcun dubbio - la redistribuzione delle mansioni, inevitabilmente coinvolgente anche altre posizioni lavorative insistenti sul medesimo contesto organizzativo aziendale». 27 Giubboni, Disabilità, sopravvenuta inidoneità, licenziamento, in RGL, 2016, III, 638. 28 Secondo Giubboni, Il licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione dopo la legge Fornero e il Jobs Act, cit., 13-14 «la prova dell’impraticabilità degli adattamenti necessari, ovvero della loro irragionevolezza e sproporzione finanziaria, dovrà peraltro essere fornita dal datore di lavoro in termini concreti e rigorosi, tenendo conto, quindi, di tutte le soluzioni effettivamente disponibili […] tutti i concreti accorgimenti o adattamenti che siano stati prospettati come possibili, praticabili e ragionevoli dal lavoratore controinteressato in sede di ricorso introduttivo». 29 Voza, Sopravvenuta inidoneità psicofisica e licenziamento del lavoratore nel puzzle normativo delle ultime riforme, in ADL, 2015, 779. 30 Per approfondire il tema v. Nogler, La disciplina dei licenziamenti individuali nell’epoca del bilanciamento tra “principi” costituzionali, in GDLRI, 2007, IV, 617. 31 Cfr. Cass., 12 novembre 2019, n. 29289, in https://dejure.it; Cass., 19 marzo 2018, n. 6798, in RIDL, 2019, 2, II, 145 e Cass., 26 ottobre 2018, n. 27243, in RIDL, 2019, 2, II, 146, con nota di Aimo. Di indirizzo contrario v. Cass., 6 dicembre 2017, n. 29250; Cass., 10 marzo 2015, n. 4757 entrambe in https://dejure.it.
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presenza di posizioni alternative ove ricollocare il lavoratore divenuto inidoneo, ma anche di quello - ben più gravoso - dei «ragionevoli accomodamenti», che impongono al datore di porre in essere tutte le misure necessarie al fine di consentire al lavoratore lo svolgimento di attività lavorativa. Peraltro, aggiunge il giudice, che l’illegittimità del licenziamento è avvalorata alla luce del contratto integrativo aziendale, che tra gli obblighi sopra esposti, stabiliva quello di trasmettere nuove competenze al lavoratore al fine di reimpiegarlo in altra figura professionale.
4. Il licenziamento per inidoneità psicofisica sopravvenuta: una fattispecie residuale nell’impianto del Jobs Act.
La pronuncia in esame, riconducendo la fattispecie concreta alla disabilità, non affronta le problematiche inerenti al licenziamento per inidoneità psicofisica sopravvenuta, emerse con l’introduzione dell’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 23/2015 - disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti - che, omettendo di regolare i licenziamenti per motivi oggettivi non economici, nulla dispone per il licenziamento per inidoneità psicofisica. Infatti, la formulazione consacrata nell’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 23/2015 per il licenziamento di cui sia accertato «il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68» è notevolmente diversa rispetto a quella prevista per il licenziamento per inidoneità fisica o psichica regolata dall’art. 18, comma 7, st. lav., come riformato dalla l. 92/201232. A tal proposito, si evidenzia il mutamento della terminologia adottata nella disposizione legislativa, che sostituisce il termine inidoneità con quello di “disabilità” ed elimina il riferimento “oggettivo” al difetto di giustificazione. La rimarcata differenza lessicale solleva, quindi, la questione se i due termini - inidoneità33 e disabilità - possano dare luogo a fattispecie distinte o se, in virtù del recepimento dell’ampia nozione di handicap in materia antidiscriminatoria - potenzialmente capace di
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Si rileva che la formulazione finale dell’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 23/2015 è mutata anche in relazione all’iniziale versione dello schema del decreto attuativo trasmesso dal Governo alle Camere per i pareri obbligatori, che aveva qualificato la fattispecie utilizzando il tradizionale termine di inidoneità e l’aveva collocata nell’art. 3 del d.lgs. n. 23/2015 relativo alla tutela reintegratoria attenuata. La ragione di tale modifica si riconduce al parere sullo schema di decreto elaborato dalla Commissione Lavoro del Senato, che aveva dichiarato di ritenere «opportuno che la disposizione attualmente collocata nel comma 3 dell’articolo 3» venisse riposizionata «ratione materiae nel contesto dell’articolo 2, dedicato appunto ai casi di nullità del licenziamento e in particolare di quello di carattere discriminatorio». 33 Se pacifica è l’equiparazione dei termini “disabile” e “portatore di handicap”, discussa è l’assimilazione delle fattispecie “inidoneità” e “disabilità”. Per quanto concerne la distinzione tra “inidoneità” e “malattia” si v. Topo, Il licenziamento del lavoratore malato e del lavoratore disabile, in GI, 2014, II, 438, che afferma: «mentre la malattia ha carattere temporaneo e determina l’impossibilità della prestazione, la sopravvenuta inidoneità ha carattere permanente o durata indeterminata e indeterminabile, e non comporta l’impossibilità totale della prestazione, dando luogo ad un’ipotesi di risoluzione del contratto di lavoro a prescindere dal superamento del periodo di comporto».
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ricomprendere anche le ipotesi di inidoneità alla mansione -, possano dare vita ad un’unica fattispecie, quella prevista dall’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 23/2015. La dottrina è divisa sul punto, un primo orientamento le distingue, ritenendo esistente «un ambito (più o meno ristretto) nel quale il difetto di giustificazione del licenziamento intimato per sopravvenuta inidoneità psicofisica essendo diversa dalla “disabilità” non darà luogo ad una discriminazione per handicap»34 (corsivo dell’A.). A sostegno di tale tesi, si propongono gli esempi dell’acrobata di circo che, per sopravvenute ragioni psichiche o fisiche, diventa inidoneo solo alle proprie mansioni e del lavoratore divenuto allergico a una sostanza impiegata nella propria specifica mansione. In entrambi i casi, i lavoratori, capaci di svolgere qualunque altra attività lavorativa - in ragione dell’assenza di una duratura menomazione che impedisca loro di partecipare alla vita professionale -, non possono essere considerati disabili ai sensi della normativa antidiscriminatoria35. Diversamente, un’altra dottrina, considera le espressioni “inidoneità” e “disabilità”, contenute rispettivamente nell’art. 18, comma 7, st. lav. e nell’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 23/2015, come sinonimi, alla luce dell’identico rinvio, che entrambe le disposizioni operano, in via parimenti esemplificativa alla normativa sui disabili (artt. 4, comma 4 e 10, comma 3, l. 12 marzo 1999, n. 68), che - essendo preceduta dalla congiunzione “anche” - non consente di riferire la fattispecie alle sole ipotesi di licenziamento di lavoratori avviati obbligatoriamente secondo la legge n. 68/199936. La questione così delineata comporta importanti riflessi applicativi, anzitutto a partire dalle tutele applicabili in tema di licenziamento. Infatti, ricondurre un caso alla fattispecie ex art. 2, comma 4, d.lgs. n. 23/2015 comporta l’applicazione della tutela reintegratoria piena, viceversa qualificarlo come mera inidoneità specifica alle mansioni – in accoglimento del primo orientamento – implica l’attribuzione della sola tutela indennitaria37. Tale profilo assume una maggiore rilevanza in virtù della nuova collocazione topografica della disciplina dell’art. 2, comma 4, che viene traslata dall’area di applicazione della tutela reintegratoria attenuata (art. 3) a quella della reintegrazione assistita da effetti risarcitori pieni, al pari dei licenziamenti discriminatori e nulli (disciplinati dall’art. 2). L’identità dei rimedi applicabili tanto al licenziamento discriminatorio, quanto a quello intimato per «difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità» ha indotto la dottrina ad interrogarsi sulla possibile riqualificazione di quest’ultimo in licenziamento discriminatorio per handicap. Secondo alcuni autori, l’assimilazione della fattispecie regolata dal comma 4, dell’art. 2 al licenziamento discriminatorio diventa “imprescindibile”38
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Voza, op.cit., 780. Nello stesso ordine di idee Lai, op. cit., 37 ss. Ibidem. 36 Giubboni, Disabilità, sopravvenuta inidoneità, licenziamento, cit., 625. A condividere la tesi che considera la disabilità non in senso tecnico, ma come sinonimo di inidoneità v. Imberti, Il licenziamento individuale ingiustificato irrogato per motivi oggettivi non economici, in M.T. Carinci, Tursi (a cura di), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Giappichelli, 2015, 137 secondo cui rientra nella fattispecie ex art. 2, comma 4, il licenziamento «motivato per una (presunta) sopravvenuta “non abilità” per lo svolgimento del lavoro». 37 Voza, op. cit., 784 afferma che «il legislatore abbia inteso riservare la tutela reale forte alla vera e propria disabilità, attraverso un’espressione volutamente selettiva, che non include la mera inidoneità (o ‘inabilità’ che dir si voglia) alla mansione specifica, conseguentemente relegando l’illegittimo licenziamento ad essa collegato alla tutela meramente indennitaria». 38 Pasqualetto, Il licenziamento discriminatorio e nullo nel “passaggio” dall’art. 18. Stat. lav. all’art. 2, d.lgs. n. 23/2015, in F. Carinci e 35
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alla luce della l. 10 dicembre 2014, n. 183, che ammette la tutela reintegratoria solo per i licenziamenti discriminatori o nulli, escludendola per quelli ingiustificati39; altri, invece, nel valutare il licenziamento per inidoneità (rectius disabilità) come un’autonoma ipotesi di ingiustificatezza, vi riscontrano solo un’intensificazione della tutela disposta rispetto a quella reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18, comma 7, st. lav.40. Si precisa, tuttavia, che la dottrina, seppur non all’unanimità, sembra concorde - limitando le implicazioni derivanti dalla nuova formulazione dell’art. 2, comma 4 - nel considerare discriminatorio il rifiuto del datore di lavoro di predisporre gli «accomodamenti ragionevoli» al fine di preservare il rapporto di lavoro con il disabile41. Anche la giurisprudenza sul punto è spaccata a metà: una parte continua a considerare tale licenziamento ingiustificato42, un’altra, invece, sembra incominciare a ricondurlo a quello discriminatorio43. Si osserva, tuttavia, che la problematica della qualificazione del licenziamento ex art. 2, comma 4 ai fini delle tutele applicabili, seppur presenti importanti risvolti pratici in ordine al regime dell’onere della prova44 e manifesti anche profili di interesse sul piano sistematico – come si ha avuto modo di accennare – può essere ridimensionata, in quanto i motivi addotti a sostegno del recesso – esemplificabili nell’insussistenza della disabilità/ inidoneità, nella violazione dell’obbligo di repêchage o di quello degli «accomodamenti ragionevoli» - che possono determinare un licenziamento sia ingiustificato che discriminatorio, danno luogo alla stessa sanzione: la reintegrazione piena45, di cui ne è un esempio la sentenza in epigrafe. La pronuncia in esame, infatti, applicando la sanzione prevista dall’art. 2, comma 4, supera la questione sopra delineata e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione con effetti risarcitori pieni.
Cester (a cura di), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, Adapt University Press, 2015, 69. Cfr. Bellocchi, Interventi: La nullità del licenziamento nel decreto legislativo n. 23/2015, in DRI, 2018, I, 165-166 secondo il quale la scelta terminologica presente nell’art. 2, comma 4 «realizza una netta, inequivoca e definitiva saldatura con il diritto antidiscriminatorio di derivazione europea», ragione per cui «il licenziamento illegittimo del disabile è sempre nullo e discriminatorio». 40 Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, in WP D’Antona, It., n. 273/2015, 42. Nello stesso ordine di idee Giubboni, Disabilità, sopravvenuta inidoneità, licenziamento, cit., 641 e Voza, op. cit., 783, il quale ipotizza che «il legislatore abbia inteso riservare la tutela reale forte alla vera e propria disabilità, attraverso un’espressione volutamente selettiva» in modo da escludere la mera inidoneità alla mansione specifica e ricondurla alla fattispecie del licenziamento ingiustificato, applicando dunque la tutela meramente indennitaria. Cfr. Lai, Recenti sviluppi in tema di inidoneità sopravvenuta, in RIDL, 2018, III, 45-46. 41 In questo senso v. Voza, op. cit., 780; Giubboni, Disabilità, sopravvenuta inidoneità, licenziamento, cit., 641, nota 42 e Digennaro, Il licenziamento del lavoratore disabile tra modifiche normative e riscontri giurisprudenziali, LG, 2015, VIII-IX, 866. 42 Si v. Cass., 26 ottobre 2018, n. 27243; Cass., 19 dicembre 2019, n. 34132; Cass., 21 maggio 2019, n.13649; Cass., 19 marzo 2018, n. 6798; Cass., 12 dicembre 2018, n. 32158; Cass., 22 ottobre 2018, n. 26675 reperibili in https://dejure.it. 43 V. Trib. Pisa, 16 aprile 2015; Trib. Roma, 8 maggio 2018; Trib. Asti, 23 luglio 2018; App. Trento, 2018, n. 11. Si v. Izzi, Il licenziamento discriminatorio secondo la più virtuosa giurisprudenza nazionale, in LG, 2016, XIII-IX, 748 ss. 44 Digennaro, op. cit., 859, che afferma come per il licenziamento discriminatorio «il ricorrente potrà limitarsi a fornire in giudizio elementi di fatto dai quali si possa presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spettando, invece al datore di lavoro di provare l’insussistenza della discriminazione». 45 Secondo la tesi sostenuta da Voza, op. cit., 783, residua dunque solo un ambito, quello del licenziamento per mera inidoneità sopravvenuta alle mansioni specifiche che, non sussumibile nella fattispecie prevista dall’art. 2, comma 4, d.lgs. 23/2015, rimane escluso dall’applicazione della reintegrazione piena. Resta ad ogni modo impregiudicata la possibilità di dimostrare la natura discriminatoria del licenziamento, nel qual caso prevarrebbe la sanzione più forte. 39
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In conclusione, nell’intricato puzzle normativo in cui il legislatore si è inserito, non regolando il licenziamento per inidoneità - sostituito (secondo alcuni) da quello per disabilità - si auspica una soluzione interpretativa chiara e condivisa, che forse solo la giurisprudenza sarà in grado di fornire. Nell’attesa di ciò, si ritiene apprezzabile la scelta operata dalla sentenza in commento di condividere quell’orientamento giurisprudenziale, che supera il “limite dogmatico” secondo cui l’organizzazione aziendale esistente viene assunta come «una sorta di dato “ontologico” non modificabile in quanto protetto dallo scudo della libertà di iniziativa economica privata ai sensi dell’art. 41, comma 1, Cost.»46, rideterminando il bilanciamento tra gli interessi coinvolti a favore del lavoratore disabile e adottando, a parere di chi scrive, una decisione più giusta. Silvia Magagnoli
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Giubboni, Disabilità, sopravvenuta inidoneità, licenziamento, cit., 639.
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Giurisprudenza Tribunale di Firenze , sentenza 26 settembre 2019, n. 724; Est. Davia – S. D. G. (avv. Biagini e Ventura) c. Poste Italiane S.p.A. (avv. Pessi e Sarti). Lavoro (rapporto) – Contratto a tempo determinato – Proroghe e rinnovi per esigenze permanenti o durevoli – Frode alla legge – Sussistenza.
È nulla per frode alla legge la clausola appositiva del termine al rapporto di lavoro stipulata per soddisfare esigenze stabili e durevoli, in presenza delle quali, ai sensi dell’art. 1 d.lgs. n. 368/2001 e dell’art. 19 d.lgs. n. 81/2015, si deve ricorrere esclusivamente a contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato. – Omissis. È pacifico in atti che – Omissis. abbia lavorato per – Omissis. in forza di un primo contratto di lavoro a tempo determinato sottoscritto ai sensi dell’art 1 comma 1 Dlvo 368/01 con validità dal 11 febbraio 2015 al 30/6/2015, prorogato fino al 31 agosto 2015, poi al 31/10/2015, quindi al 31.1.2016, ancora al 31.03.2016 ed infine al 30.06.2016, con qualifica di impiegato liv. E. con mansioni di portalettere junior. Ha inoltre stipulato, questa volta ai sensi dell’art 19 dlvo 81/15, un secondo contratto a tempo determinato con medesimo inquadramento e mansioni dal 12.10.2016 al 31.01.2017. Validità dei contratti e delle proroghe. Il ricorrente nel presente giudizio assume la nullità del termine apposto a ciascun contratto e alle relative proroghe: a) perché egli avrebbe iniziato la prestazione antecedentemente alla stipula del primo contratto essendo stato chiamato a svolgere una prova di guida del motomezzo aziendale in data 2 febbraio 2015; b) perché egli sarebbe stato chiamato a sostituire lavoratori in sciopero sulla base della c.d. flessibilità operativa pattuita in contratto; c) per assenza della corretta valutazione dei rischi; d) per contrasto con la normativa europea del contratto a causale e delle relative proroghe; e) per frode alla legge per avere – Omissis. assunto il ricorrente per soddisfare esigenze stabili e durevoli; f) per mancata indicazione del luogo di svolgimento della prestazione; g) per violazione del limite percentuale. Il Tribunale ritiene fondata la dedotta nullità della successione di contratti perché stipulati per soddisfare esigenze stabilì e durevoli. In via preliminare si osserva che secondo la normativa interna (art. 1 d.lgs. 368/01 e art. 19 d.lgs. 81/15) “Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”. L’interpretazione della suddetta norma, da effettuarsi alla luce dei principi stabiliti nella direttiva
comunitaria CE 70/99 in materia di lavoro a tempo determinato, implica che il contratto a tempo determinato costituisca una mera eccezione, ammissibile esclusivamente per soddisfare esigenze transitorie e in quanto tali non soddisfabili con un contratto di durata indefinita. A tali conclusioni si giunge sulla base delle seguenti considerazioni. Il preambolo dell’Accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato stipulato in data 18.3.1999 - la cui attuazione costituisce lo “scopo” della direttiva 28.6.1999 n. 1999/70/CE del Consiglio - al punto 6 precisa che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro e contribuiscono alla qualità della vita dei lavoratori interessati e a migliorare il rendimento”. Il successivo punto 8 afferma che “I contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori, occupazioni e attività atta a soddisfare sia i datori di lavoro sia i lavoratori”. La clausola n. 1 (“Obiettivo”) dell’accordo prevede: “L’obiettivo del presente accordo quadro è: ... b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato” clausola n. 5 (“Misure di prevenzione degli abusi”) dispone: “1. Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a: a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti; b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi; c) Il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
Giurisprudenza
Tali principi stati interpretati dalla Corte Europea nel senso che “come risulta dal secondo comma del preambolo dell’accordo quadro, così come dai punti 6 e 8 delle considerazioni generali di detto accordo quadro, il beneficio della stabilità del rapporto di lavoro è considerato un elemento assolutamente rilevante per la tutela dei lavoratori, laddove è solo in determinate circostanze che contratti di lavoro a tempo determinato possono soddisfare le esigenze sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori” (sentenze del 4 luglio 2006, Adeneler e a., C-212/04, EU:C:2006:443, punto 62). La Corte anche chiarito che: “La clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri, per prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure che essa elenca, quando il loro diritto interno non contenga norme giuridiche equivalenti. Le misure così elencate nel punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola, in numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive che giustificano il rinnovo di tali contratti o rapporti di lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi” (così tra le altre sentenze del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., C-378/07, EU:C:2009:250, punti 74 e 151; del 26 gennaio 2012, Kùcùk, G-586/10, EU:C:2012:39, punto 26) precisando comunque che “Gli Stati membri dispongono di un’ampia discrezionalità per l’attuazione della clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, dal momento che essi hanno la scelta di far ricorso a una o più fra le misure enunciate nel punto 1, lettere da a) a c), di detta clausola, oppure a norme giuridiche equivalenti già esistenti, e ciò tenendo conto delle esigenze di settori e/o di categorie specifici di lavoratori” (sentenze 15 aprile 2008, Impact, C-268/06, EU:C:2008:223, punto 71; del 23 aprile 2009, Angelidaki e a., EU:C:2009:250, C-378/07, punti 81 e 93; del 10.3.2011 Deutsche Lufthansa, C-109/09, EU:C:2011:129, punto 35; del 17 settembre 2014). La Corte ha ribadito, in più occasioni comunque che la misura scelta dallo Stato membro, quale che essa sia, deve costituire “una misura adeguata per prevenire e, se del caso, punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”(sentenze del 7 settembre 2006, Vassallo, C-180/04, EU:C:2006:518, punto 41, del 23 aprile 2009, Angelidaki e a. C-378/07, EU:C:2009:250, punto 164) e ha giudicato come non rispettose della direttiva le legislazioni degli stati nazionali in tutti i casi in cui ha rilevato che le stesse consentivano l’utilizzo del contratto a termine per soddisfare esigenze permanenti e durevoli. Ciò è avvenuto più volte nelle ipotesi in cui lo Stato membro aveva scelto di adottare la misura prevista dalla clausola 5, punto 1, lett. a) dell’accordo quadro (ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei
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suddetti contratti o rapporti). Il rinnovo di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato al fine di soddisfare esigenze che, di fatto, hanno un carattere non già provvisorio, ma, al contrario, permanente e durevole, non è giustificato ai sensi della clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro. Infatti, un utilizzo siffatto dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato è direttamente in contrasto con la premessa sulla quale si fonda tale accordo quadro, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro, anche se i contratti di lavoro a tempo determinato rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori o per determinate occupazioni e attività” (sentenza del 26 gennaio 2012, Kùcùk, C-586/10, EU:C:2012:39, punti 36 e 37) Ma il criterio dell’attitudine ad evitare l’utilizzo del contratto a termine per soddisfare esigenze durevoli è stato utilizzato quale metro per valutare l’adeguatezza di una normativa nazionale anche con riguardo a legislazioni che avevano utilizzato la misura prevista dalla clausola 5, punto 1, lett. b) dell’accordo quadro (la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi). Ciò è avvenuto nella decisione del 17 settembre 2014, Fiamingo e a., C-362/13, EU:C:2014:2044 nella quale la Corte di giustizia ha ritenuto che una normativa nazionale “la quale prevede una norma imperativa ai sensi della quale, quando un lavoratore è stato ininterrottamente alle dipendenze dello stesso datore di lavoro, in forza di diversi contratti di lavoro a tempo determinato, per un tempo superiore a un anno, questi contratti sono trasformati in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato” è “tale da contenere una misura di legge equivalente alla misura preventiva contro il ricorso abusivo di una successione di contratti di lavoro a tempo determinato enunciata nella clausola 5, punto 1, lettera b), dell’accordo quadro, relativa alla durata massima totale di siffatti contratti” (punti 69 e 70); ciò anche se considera “ininterrotti” e, conseguentemente, “successivi”, solo i contratti di lavoro a tempo determinato separati da un intervallo inferiore o pari a 60 giorni in quanto “un siffatto intervallo può essere considerato, in generale, sufficiente per interrompere qualsiasi rapporto di lavoro esistente. Sembra infatti difficile per un datore di lavoro, che abbia esigenze permanenti e durature, aggirare la tutela concessa dall’accordo quadro contro gli abusi facendo decorrere, alla fine di ciascun contratto di lavoro a tempo determinato, un termine di circa due mesi” (punto 71). In definitiva l’utilizzo dei rapporti di lavoro subordinato per esigenze non provvisorie, ma, al contrario, permanenti e durevoli è stato giudicato incompatibile con i principi sanciti dall’Accordo quadro “tuttavia, come osservato dall’avvocato generale ai paragrafi 106 e 107 delle sue conclusioni, la circostanza per cui le disposizioni della normativa nazionale oggetto del pro-
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cedimento principale menzionate al punto 101 della presente sentenza forniscono una giustificazione per il rinnovo dei suddetti contratti o rapporti nei casi in cui, in realtà, le esigenze a cui essi rispondono hanno di fatto un carattere non già provvisorio, ma, ai contrario, “permanente e durevole”, si porrebbe in contrasto con l’obiettivo perseguito dalla clausola in questione, la quale mira a prevenire in modo effettivo l’utilizzo abusivo di contratti o rapporti lavoro a tempo determinato successivi. (v., per analogia, sentenza Adeneler e a., cit., punto 88, nonché ordinanza Vassilakisea., cit., punto 110). 104 Infatti, un tale utilizzo dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato sarebbe incompatibile con la premessa sulla quale si fonda l’accordo quadro, vale a dire il fatto che i contratti di lavoro a tempo indeterminato costituiscono la forma comune dei rapporti di lavoro, mentre i contratti di lavoro a tempo determinata rappresentano una caratteristica dell’impiego in alcuni settori o per determinate occupazioni e attività, come si evince dai punti 6 e 8 delle considerazioni generali dell’accordo quadro stesso (v. le precitate sentenze Adeneler e a., punto 61, e Impact, punto 86, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punto 82). Così testualmente sent CGUE Angelidaki punti 102 - 103 e 104). Ne consegue dunque che in ossequio agli inderogabili principi comunitari sopra richiamati le norme interne devono essere interpretate nel senso che: - l’art. 1 d.lgs. 368/01 prima e l’art. 19 d.lgs. 81/15, impongono che esigenze stabili e durevoli di occupazione debbano essere soddisfatte esclusivamente tramite contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato essendo, in tal caso vietato l’utilizzo del contratto a tempo determinato; - la sottoscrizione di uno o più contratti a tempo determinato per soddisfare esigenze stabili e durevoli costituisce un abuso compiuto in violazione di tale divieto; - Il suddetto abuso comporta la nullità della clausola appositiva del termine ai sensi dell’art. 1418 c.c.; - l’onere della prova dell’abuso è integralmente a carico di colui che l’allega. Ciò chiarito in generale si osserva che nel caso di specie parte ricorrente ha documentato che, nelle sedi a cui è stato assegnato durante la vigenza dei contratti di cui si discute, il soddisfacimento delle ordinarie esigenze del servizio di recapito necessitava della copertura almeno dell’111% del complessivo organico
provinciale (cfr. pag. 11 accordo sindacale 27 luglio 2010 in atti). Ha anche dimostrato che nelle suddette sedi la copertura di organico durante la vigenza dei contratti a termine da lui stipulati era del 99% (cfr allegazioni effettuate a pag. 11 del ricorso non oggetto di specifica contestazione). Tali dati specifici appaiono sufficienti per dedurre che il ricorrente, in quanto addetto al servizio di recapito, sia stato utilizzato per sopperire alle dimostrate carenze di organico e quindi per soddisfare esigenze stabili e durevoli. La suddetta deduzione appare rafforzata dalla constatazione che parte convenuta, pur prendendo atto delle affermazioni di controparte, non ha allegato che il lavoratore sia stato assunto per particolari e specifiche esigenze transitorie, limitandosi ad affermare che la - legittima - acausalità formale del contratto non le imponeva di individuare le suddette esigenze. Ne consegue la nullità delle clausole appositive dei termini finali ai contratti impugnati che vengono convertiti in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Al ricorrente spetta, ai sensi dell’art. 28 co. 2 d.lgs. 81/2015, anche il diritto alla corresponsione di un’indennità risarcitoria, al fine di ristorare il pregiudizio subito in relazione al periodo compreso tra la cessazione dell’ultima proroga e la data odierna, commisurata - in ragione dell’elevato numero di lavoratori alle dipendenze della convenuta e del tempo trascorso tra quella data e la data odierna in cui è stata pronunciata la conversione - in 10 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto – Omissis. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza disattesa o assorbita, così dispone: dichiara la nullità, delle clausole appositive dei termini finali ai contratti impugnati e, conseguentemente, ne dispone la conversione in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data odierna; condanna la convenuta a corrispondere, in favore del ricorrente l’indennità risarcitoria ex art. 28 co. 2 d.lgs. 15.06.2015, n.81, commisurata in 10 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto; rigetta per il resto, il ricorso – Omissis.
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La configurabilità della frode alla legge nel caso di stipulazione di contratti a termine in regime di a-causalità Sommario :
1. La decisione commentata. – 2. Il difficile equilibrio tra flessibilità e stabilità dell’occupazione. – 3. Il regime di a-causalità del contratto a termine alla prova del diritto europeo. – 4. Disapplicazione, interpretazione conforme e frode alla legge.
Sinossi. Il contributo analizza una recente sentenza del Tribunale di Firenze che ha dichiarato nulla l’apposizione del termine al contratto di lavoro in assenza di particolari e specifiche esigenze transitorie, pur in vigenza del regime di a-causalità del contratto a tempo determinato. Ciò in forza del principio, che il giudice avrebbe ricavato anche esaminando la giurisprudenza della Corte di Giustizia sul tema, per cui a fronte di esigenze stabili e durevoli sia necessario il ricorso al rapporto di lavoro a tempo indeterminato: la normativa nazionale deve essere interpretata, allora, nel senso che il contratto a termine stipulato per far fronte ad esigenze non temporanee è nullo per frode alla legge. Abstract. The following case-note analyzes a recent judgment of the Court of Florence which declared the affixing of the term to the employment contract null and void in the absence of particular and specific transitional needs, even in accordance with the a-causality regime of the fixed-term contract. This is based on the principle, which the judge would have obtained also by examining the jurisprudence of the Court of Justice on the subject, so that in the face of stable and lasting needs it is necessary to enter into a permanent employment relationship: the national legislation must be interpreted, then, in the sense that the forward contract entered into to meet non-temporary needs is void for fraud of the law.
1. La decisione commentata. La pronuncia in esame non è sicuramente passata inosservata: infatti, già all’indomani della sua emanazione non sono mancati commenti critici legati all’originalità della soluzione adottata. Al di là del merito di tale soluzione, sul quale ci si pronuncerà delle pagine che seguono, la sentenza va comunque segnalata sicuramente per il tentativo di ricostruzione della giurisprudenza della Corte di Giustizia UE in tema di contratto a termine e per aver costretto a interrogarsi sull’efficacia della disciplina nazionale nell’evitare il ricorso abusivo al lavoro a tempo determinato.
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Non si può fare a meno di osservare, infatti, come oggetto della causa siano stati due contratti a termine stipulati dal medesimo soggetto, la cui successione, proprio perché arrivata a toccare uno dei limiti legali, potrebbe collocarsi ai confini dell’abuso del ricorso agli stessi. Il lavoratore ricorrente, infatti, per circa un anno e mezzo di lavoro è stato titolare di due diversi contratti a tempo determinato per le medesime mansioni e inquadramento, di cui uno prorogato ben cinque volte: il primo, stipulato in vigenza della l. 16 maggio 2014, n. 78, aveva una durata iniziale di 4 mesi e, dopo aver toccato, appunto, il numero massimo di proroghe consentite dalla legge, era arrivato ad una durata complessiva di 16 mesi; il secondo, invece, stipulato trascorsi 3 mesi dalla scadenza del precedente, in vigenza questa volta del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, aveva una durata di 3 mesi. Si può comprendere che, su queste premesse, e alla luce dei principi europei sul contratto a termine, il giudice di Firenze si sia domandato se, pur in presenza di un regime di a-causalità e di una successione di contratti a tempo determinato, dovessero sempre ricorrere delle «particolari e specifiche esigenze transitorie» alla base della successione stessa, in assenza delle quali, di conseguenza, quei contratti avrebbero in realtà fatto fronte ad esigenze stabili e durevoli e, quindi, sarebbero stati da convertire in rapporti a tempo indeterminato1. Nel dettaglio, infatti, il ricorrente aveva chiesto l’accertamento della nullità del termine apposto ai contratti e delle relative proroghe proprio perché in contrasto con la normativa europea in argomento, la quale, da un lato, al punto 6 dei considerando dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato del 18 marzo 1999, recepito poi nella direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999, ha chiarito che “i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune dei rapporti di lavoro” e, dall’altro lato, nella clausola n. 5 del medesimo Accordo, ha stabilito l’obbligo per gli Stati di introdurre una o più misure per contrastare l’abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, corrispondenti, come è noto, alla presenza di ragioni obiettive, alla durata massima totale e al numero massimo di rinnovi. Nel caso in esame, dunque, il giudice ha ricavato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE sul tema la necessità di valutare sempre l’adeguatezza della normativa nazionale ad evitare il ricorso al contratto a termine per soddisfare esigenze durevoli, a prescindere dal rispetto delle misure indicate dalla direttiva 99/70. In altre parole, dovrebbe sempre potersi verificare che un contratto a tempo determinato, benché legittimo e rispettoso dei limiti previsti dalla legge, non sia stato stipulato per esigenze non provvisorie. Nel caso specifico, allora, il lavoratore sarebbe riuscito nella prova, dimostrando come la sua prestazione fosse stata utilizzata per sopperire a conclamate carenze di organico e, quindi, per esigenze stabili, mentre, di converso, il datore si sarebbe limitato ad affermare la legittimità dei requisiti formali di quei contratti secondo la normativa nazionale vigente. Di conseguenza, il Tribunale di Firenze ha constatato l’utilizzo abusivo del rapporto di lavoro a tempo determinato ed ha dichiarato nulla l’apposizione del termine ai due
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Costituisce un precedente alla presente sentenza Trib. Trento, 4 dicembre 2018, in Labor, 2019, IV, 429, con nota di P. Gaudio.
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contratti ex art. 1418 c.c., per frode alla legge, con conseguente conversione del rapporto dalla data dell’emanazione della sentenza, visto che «l’art. 1 d.lgs. 368/01 prima e l’art. 19 d.lgs. 81/15, impongono che esigenze stabili e durevoli di occupazione debbano essere soddisfatte esclusivamente tramite contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato essendo, in tal caso vietato l’utilizzo del contratto a tempo determinato». Come anticipato, quindi, pur essendo costruita, se così si può dire, sulle fondamenta consolidate della giurisprudenza europea sul contratto a termine, questa pronuncia apre uno scenario inedito, in cui il giudice sarebbe sempre chiamato alla verifica della temporaneità delle ragioni poste alla base dell’apposizione del termine al contratto di lavoro, anche nel caso in cui la normativa nazionale non richieda la presenza di specifiche causali, ma utilizzi una o più delle altre misure previste dalla direttiva 99/70. È innegabile come tale risultato presupponga un ampio potere discrezionale del giudice, che potrebbe far esplodere il contenzioso sia perché sarebbe difficile per i datori di lavoro fornire la prova della temporaneità delle ragioni ex post, anche a distanza di anni, sia per la difficoltà di interpretare il concetto stesso di “temporaneità” in modo uniforme2. Ma vediamo nel dettaglio le singole questioni.
2. Il difficile equilibrio tra flessibilità e stabilità dell’occupazione.
La disciplina del lavoro a termine in Italia è sempre stata caratterizzata da una forte stratificazione, derivante da una continua ricerca di un giusto equilibrio tra le esigenze di stabilità dell’impiego e di maggiore flessibilità richiesta dalle imprese3. Tale stratificazione è evidente anche nel caso in esame: come abbiamo detto, il ricorrente è stato titolare di due diversi contratti di lavoro nell’arco di appena 18 mesi, nel corso dei quali si sono succedute due discipline formalmente diverse. Ora, cercando di ricostruire i passaggi principali di tale evoluzione normativa4, nel nostro ordinamento il principio per cui il lavoro a termine costituisce un’eccezione rispetto alla regola dell’utilizzo del rapporto a tempo pieno e indeterminato aveva trovato già attuazione con la l. 18 aprile 1962, n. 230, mentre il d.lgs. 368/2001, nel recepire la direttiva 99/705, ha segnato il passaggio da un sistema incentrato su causali tassativamente prede-
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Tale problema si era posto anche nella vigenza delle causali ex d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368: cfr. Speziale, La nuova legge sul contratto a termine, in DLRI, 2001, I, 368 e Del Punta, La sfuggente temporaneità: note accorpate sul lavoro a termine e lavoro interinale, in DRI, 2002, IV, 543. 3 Cfr. L. Zoppoli, Il “riordino” dei modelli di rapporto di lavoro tra articolazione tipologica e flessibilizzazione funzionale, WP D’Antona, It., n. 213/2014. 4 Per una trattazione completa sul punto cfr., amplius, Bollani, Lavoro a termine, somministrazione e contrattazione collettiva in deroga, Cedam, 2013; Del Punta, Romei (a cura di), I rapporti di lavoro a termine, Giuffrè, 2013 e Saracini, Contratto a termine e stabilità dell’impiego, Esi, 2013. 5 Cfr., amplius, Zappalà, Riforma del contratto a termine e obblighi comunitari: come si attua la direttiva travisandola, in DML, 3, 2001, 1; De Luca, Direttiva comunitaria in materia di lavoro a tempo determinato: attuazione nei paesi dell’Unione europea, in FI, 2002,
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terminate ad un sistema di causali generali6: il legislatore italiano, infatti, dopo il 2001 ha previsto l’apposizione del termine solo “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”, in mancanza delle quali doveva conseguire la sanzione della nullità del termine e la conversione del contratto in rapporto a tempo indeterminato. In seguito, la disciplina si è evoluta nel senso di liberalizzare ancora di più il ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato: la l. 28 giugno 2012, n. 92 ha introdotto, infatti, da un lato, il c.d. contratto a termine a-causale, se non altro con riferimento al primo rapporto a tempo determinato, e, dall’altro lato, forme di restrizione alla reiterazione dei contratti a termine con lo stesso lavoratore7. Il momento di massima liberalizzazione, però, si è avuto con la l. 16 maggio 2014, n. 78, di conversione del d.l. 20 marzo 2014, n. 34, il c.d. Decreto Poletti: secondo tale disciplina, infatti, non era più necessaria una causale giustificatrice per apporre il termine al contratto di lavoro, mentre le uniche misure previste per evitarne l’abuso erano il limite massimo di durata di 36 mesi, nonché la previsione di un tetto percentuale, pari al 20%, di impiego di lavoratori a termine rispetto alla totalità dell’organico aziendale. A ciò doveva aggiungersi, inoltre, l’ulteriore previsione di un tetto massimo di cinque proroghe del contratto nell’arco dei 36 mesi e la fissazione di un periodo di stacco tra un contratto e l’altro nel caso di stipulazione di due successivi rapporti di lavoro a termine. Ebbene, con questa normativa, quasi integralmente trasposta nel d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, può considerarsi compiuto il passaggio nel nostro ordinamento al regime di acausalità piena del contratto a termine8 – almeno fino a poco prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla l. 9 agosto 2018, n. 96, di conversione del c.d. Decreto Dignità – i cui unici limiti erano costituiti dalla durata massima del rapporto, dal un numero massimo di proroghe possibili del medesimo contratto, dal limite quantitativo di rapporti a termine in azienda e dal c.d. periodo di stop and go tra la scadenza di un contratto e l’avvio di un nuovo rapporto a tempo determinato. Tale passaggio, anzi, ha segnato un vero e proprio «mutamento del paradigma regolativo»9, che ha coinvolto anche l’esercizio della funzione di controllo sul ricorso a tale tipo di flessibilità: detto in altri termini, se prima la legittimità o meno dello strappo alla regola della stabilità del rapporto di lavoro era verificabile tramite la presenza di particolari ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive, ora tale legittimità deriverebbe
V, 93. Inoltre, benché nella prima formulazione il d.lgs. 368/2001 non contenesse un esplicito riferimento al rapporto tra regola ed eccezione tra rapporto a tempo indeterminato e a termine, la giurisprudenza ne aveva ribadito l’esistenza anche all’indomani della riforma del 2001: cfr. Cass., 21 maggio 2002, n. 7468, in LPO, 2002, 1521 e Cass., 2 dicembre 2002, n. 17070, in LPO, 2003, 313. 6 Pera, Sulla nuova disciplina del contratto a termine e sul regime sanzionatorio del licenziamento ingiustificato, in RIDL, 2002, I, 16. 7 Cfr. i primi commenti di quella riforma: Magnani, Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Giuffrè, 2012 e Speziale, La riforma del contratto a termine nella legge 28 giugno 2012, n. 92, in WP D’Antona, It., n. 153/2012. 8 Cfr., tra i tanti, Romei, La nuova disciplina del lavoro subordinato a termine, in DLRI, 2014, IV, 675; Zilio Grandi, Sferrazza, Il lavoro a termine verso la liberalizzazione?, in ADL, 2014, IV-V, 919 e Magnani, La disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato: novità e implicazioni sistematiche, in WP D’Antona, It., n. 212/2012. 9 Perulli, Il contratto a tutele crescenti e la Naspi. Un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro?, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Contratto a tutele crescenti e Naspi. Decreti legislativi 4 marzo 2015, n. 22 e n. 23, Giappichelli, 2015, 5 e Alessi, Il lavoro a tempo determinato dopo il d.lgs. 81/2015, in Zilio Grandi, Biasi (a cura di), Commentario breve alla riforma “Jobs Act”, Cedam, 2015, 20.
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soltanto dal semplice rispetto dei limiti numerici, senza alcun sindacato sulla temporaneità delle ragioni sottese all’apposizione del termine10. Sul punto, qualcuno ha addirittura parlato di un vero e proprio ritorno al regime dell’art. 2097 c.c.11, secondo il quale il termine doveva risultare dalla specialità del rapporto o da atto scritto, visto che gli unici vincoli all’apposizione del termine sarebbero di natura formale e numerici. Per la verità, aspetto su cui insiste, come vedremo, la sentenza in esame, non ci sarebbe alcuno spazio per sindacare la ricorrenza di una ragione oggettiva all’apposizione del termine, né di un’esigenza di tipo organizzativo o produttivo, tanto da potersi quasi parlare di una presunzione legale – assoluta12 – di temporaneità delle ragioni in caso di formale rispetto delle norme di legge. In altre parole, ancora, il regime di a-causalità del contratto a termine porterebbe a pensare che una certa dose di flessibilità sia funzionale alle esigenze dell’impresa, visto che una volta rispettati i vincoli numeri, sarebbe indifferente il ricorso al rapporto di lavoro a tempo indeterminato o determinato13.
3. Il regime di a-causalità del contratto a termine alla prova del diritto europeo.
Alla luce di questa evoluzione è corretto chiedersi, a questo punto, se quel principio cardine per il nostro ordinamento della stabilità del rapporto, fatto proprio anche dal diritto eurounitario, sia rispettato anche in assenza di causali giustificatrici all’apposizione del termine: detto in altre parole, occorre verificare che il ricorso al lavoro a termine rimanga un’eccezione e che non ci siano abusi nella reiterazione di tale tipologia di rapporto di lavoro alla luce della disciplina antecedente al c.d. Decreto Dignità. In argomento, si può richiamare l’orientamento giurisprudenziale sorto in occasione del particolare contenzioso nel settore delle poste ed in vigenza del regime speciale dell’art. 2, comma 1 e 1-bis del d.lgs. n. 368/2001, secondo il quale in presenza dei requisiti numerici e temporali non sarebbe necessario indicare le ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che giustificano l’apposizione del termine, visto che in quel caso la valutazione in ordine alla sussistenza della giustificazione sarebbe stata fatta ex ante dal legislatore14.
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Ivi, 21. De Michele, Diritto comunitario e diritto nazionale a confronto sulla flessibilità in entrata nelle modifiche introdotte dalla legge n. 78/2014, in F. Carinci, Zilio Grandi (a cura di), La politica del lavoro del Governo Renzi. Atto I, in ADAPT e-Book, 2014, 42. 12 Alessi, Il sistema “acausale” di apposizione del termine e di ricorso alla somministrazione: come cambia il controllo sulla flessibilità, in DLRI, 2015, 583. 13 Cfr. Bollani, op. cit., 98. 14 Cfr. Cass., sez. un., 31 maggio 2016, n. 11374, in DRI, 2016, IV, 1103, con nota di Alessi, nonché, Id., Flessibilità del lavoro e potere organizzativo, Giappichelli, 2012, 64.
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Insomma, saremmo di fronte ad una oggettivazione delle esigenze tecnico-produttive effettuata una volta per tutte dalla legge15, operazione la cui legittimità ha trovato conferma, tra l’altro, anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia16: la Corte ha, infatti, chiarito che «rientra nel potere discrezionale di cui godono gli Stati membri ai sensi della clausola 5, n. 1 dell’accordo quadro ricorrere, al fine di garantire l’effettiva prevenzione dell’utilizzo abusivo di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, ad una o più tra le misure enunciate in tale clausola»17. In altri termini, la direttiva non impone l’obbligo delle causali giustificatrici né per il primo contratto a termine tra le parti, né per quelli successivi al primo, visto che le misure previste dalla clausola n. 5 dell’Accordo quadro su citato devono essere intese non solo come alternative tra loro18, ma anche come perfettamente equivalenti, di modo che lo Stato possa scegliere liberamente quale adottare per meglio attuare la direttiva nel proprio ordinamento19. Uno Stato membro, infatti, potrebbe preferire l’introduzione di misure limitative alla durata massima dei contratti o al numero di rinnovi, oppure, ancora, la conservazione di norme equivalenti già in vigore, purché idonee a garantire l’effetto utile della direttiva20. Ebbene, questi argomenti sono stati alla base di chi ha giudicato conforme alla disciplina europea, ed alla relativa giurisprudenza, il regime di a-causalità del contratto a termine, proprio perché il limite di durata massima ed il contingentamento, da un lato, uniti alle sanzioni previste in caso delle relative violazioni, dall’altro lato, conferirebbero alla disciplina sufficiente effettività e dissuasività21. Ulteriori argomenti a suffragio di questa tesi, inoltre, si potrebbero trovare analizzando la normativa italiana alla luce dei precedenti già esaminati dalla Corte di Giustizia. Nel dettaglio, le norme contenute nel d.lgs. n. 81/2015 sono diverse da quelle censurate nel caso Adelener, ai sensi delle quali sarebbe stato sufficiente stipulare un nuovo contratto dopo 20 giorni lavorativi dalla scadenza del precedente per aggirare il limite massimo di durata22: secondo la disciplina nazionale sul computo dei limiti massimi di durata, infatti, nei 36 mesi devono essere computati tutti i rapporti a termine stipulati da un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di mansioni analoghe, indipendentemente dai periodi di interruzione. Lo stesso discorso vale, a maggior ragione, per quanto riguarda le
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Marazza, Commento all’art. 2, in G. Santoro Passarelli (a cura di), Commentario al d.lgs. n. 368/2001, in NLCC, 2002, 54. In argomento cfr., amplius, Leccese, La compatibilità della nuova disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato con la direttiva n. 99/70, in M.G. Garofalo (a cura di), Studi in memoria di Mario Giovanni Garofalo, Cacucci, 2015, 517. 17 C. giust., 23 aprile 2009, causa C-378/07, Angelidaki, in DL, 2009, II, 38, con nota di Peruzzi. 18 Cfr. C. giust., 4 settembre 2006, causa C-212/04, Adelener, in RIDL, 2006, IV, 714, con nota di Nannipieri. Tra l’altro, si ritiene che non possa invocarsi neanche l’argomento della clausola di non regresso, in quanto la Corte di Giustizia ha affermato, altresì, che «una reformatio in pejus della protezione offerta dalla legislazione nazionale ai lavoratori del settore dei contratti a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata dall’accordo quadro quando non sia in alcun modo collegata all’applicazione di esso»: cfr. C. giust., 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold, in RIDL, 2006, II, 250, con nota di Bonardi e, in dottrina, Fiorillo, Il contratto di lavoro a tempo determinato, in Fiorillo, Perulli (a cura di), Tipologie contrattuali e disciplina delle mansioni, Giappichelli, 2016, 170. 19 Così, C. giust., 15 aprile 2008, causa C-268/06, Impact, in DRI, 2008, II, 854, con nota di Cosio. 20 C. giust., 23 aprile 2009, causa C-378/07, Angelidaki, punto 194 e C. giust., 4 settembre 2006, causa C-212/04, Adelener, punto 101. 21 Fiorillo, Il contratto di lavoro a tempo determinato, cit., 168. Nello stesso senso, anche Magnani, op. cit., 4. 22 C. giust., 4 settembre 2006, causa C-212/04, Adelener, cit. 16
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considerazioni svolte nella sentenza Fiamingo, secondo la quale dovevano considerarsi ininterrotti due contratti a termine separati da un periodo non superiore a 60 giorni23. Tra l’altro, se proprio si vuole ripercorrere la giurisprudenza europea in materia, come ha fatto il giudice fiorentino, occorre anche ricordare come sia pacifico che la clausola 5 non sia incondizionata e sufficientemente precisa da poter essere direttamente invocata innanzi al giudice nazionale, residuando unicamente la possibilità dell’interpretazione conforme in modo da assicurare il risultato immaginato dalla direttiva24. Ma qui si apre un problema che merita una trattazione specifica.
4. Disapplicazione, interpretazione conforme e frode alla legge.
Quello dell’interpretazione conforme è probabilmente l’aspetto più problematico della sentenza che si sta commentando: sembra, infatti, che il giudice, per arrivare alla dichiarazione di nullità per frode alla legge, abbia reputato necessario reinterpretare i principi europei in tema di contratto a termine, in un apparente tentativo di interpretazione conforme della direttiva 99/70. Cerchiamo, quindi, di ricostruirne i passaggi. Appurato, come abbiamo visto, la conformità delle misure di limitazione all’apposizione del termine al contratto di lavoro contenute nel c.d. Decreto Poletti, prima, e Jobs Act, poi, rispetto al diritto europeo, occorre interrogarsi se quella disciplina sia comunque idonea a garantire l’efficacia dei principi della direttiva 99/70, vale a dire che il ricorso al contratto a termine e la successione tra contratti non avvenga per soddisfare esigenze stabili e durevoli. In questo caso saremmo di fronte, infatti, ad un utilizzo abusivo del contratto a termine, come tale contrastante con l’Accordo quadro sul lavoro a termine. Ebbene, la mancanza di efficacia diretta delle disposizioni della direttiva 99/70, come detto, preclude al giudice la possibilità di disapplicare il diritto interno eventualmente in contrasto con le norme europee25. In caso contrario, non potendo il giudice nazionale applicare direttamente le disposizioni della direttiva, non resterà altro da fare che interpretare il diritto nazionale in modo conforme alla disciplina europea26. Nel dettaglio, quindi, «il giudice nazionale deve, tra i metodi di interpretazione in vigore nel suo sistema giuridico, dare la precedenza al metodo che gli consente di dare alla disposizione del diritto nazionale di cui trattasi un significato compatibile con la direttiva»27,
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C. giust., 3 luglio 2014, causa C-362/13, Fiamingo, in RIDL, 2015, I, 291, con nota di Ales. C. giust., 15 aprile 2008, causa C-268/06, Impact, 79 e C. giust., 23 aprile 2009, causa C-378/07, Angelidaki, 496. Cfr. altresì la nota C. giust., 29 novembre 1991, cause C-6/90 e C-9/90, Francovich, in FI, 1992, IV, 145, con nota di Ponzanelli. 25 Cfr. in modo analogo C. giust., 10 marzo 2011, causa C-109/09, Kumpan, in RIDL, 2012, II, 528, con nota di Diamanti. 26 Diamanti, Reiterazione dei contratti a termine in ragione dell’età e diritto comunitario. Interpretazione conforme e disapplicazione, in RIDL, 2012, II, 540. 27 Conclusioni dell’avv. Gen. Van Gerven, punto 8, a C. giust., 13 novembre 1990, causa C-106/89, Maleasing, in FI, 1992, IV, 173. 24
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restando aperta la via, in caso di incompatibilità assoluta tra norma sovranazionale e nazionale, della responsabilità risarcitoria dello Stato membro inadempiente28. Tra l’altro, la Corte di Giustizia ha chiarito non solo come l’obbligo di interpretazione conforme sussista solo a partire dalla scadenza del termine di attuazione della direttiva rilevante per il caso concreto29, ma anche come da tale operazione non debba derivare la sostituzione del giudice al legislatore, attraverso interpretazioni contra legem del diritto nazionale, essendo sempre validi i principi generali del diritto, quali la certezza e l’irretroattività30. Ebbene, nella sentenza in commento, in ogni caso, tali limiti all’interpretazione conforme non sembrano essere stati rispettati, e forse si utilizza, in ultima istanza, l’istituto della frode alla legge non casualmente: il giudice, infatti, non solo sembra ricavare l’esistenza di esigenze stabili dalla semplice reiterazione, consentita dalla legge, di contratti a termine, con una valutazione esclusivamente ex post, ma pare muoversi con anche con eccessiva forza creativa. Tra le righe della motivazione, infatti, sembra potersi leggere una sorta di idea dell’immancabilità di una causale del contratto a termine, nonostante quanto detto sull’alternatività delle misure di cui al punto 5 dell’Accordo quadro, vale a dire la presenza di particolari e specifiche esigenze transitorie31. Sul punto, sembra che il rispetto dei limiti quantitativi e di durata di cui alla legge non costituisca più una presunzione assoluta di temporaneità delle esigenze, secondo una di quelle interpretazioni dottrinarie di cui sopra, ma rappresenti, piuttosto, una presunzione relativa, superabile tramite una prova contraria. Questa operazione del giudice di merito appare, quindi, andare oltre i limiti dell’interpretazione conforme: se da una parte il giudizio di conformità solo ex post è lesivo della certezza del diritto, dall’altra parte la configurazione di una causale intrinsecamente inerente, per così dire, all’apposizione del termine appare una vera e propria abrogazione del sistema a-causale del contratto a tempo determinato, proprio perché reintroduce, di fatto, una causale. In questo caso, infatti, «l’elasticità interpretativa deve arrestarsi di fronte ad una norma che non può essere modificata, se non dal legislatore, e che quindi potrà essere soltanto eventualmente disapplicata in presenza di un contrasto con i principi propri del diritto comunitario»32. Tuttavia, prima di analizzare dettagliatamente la questione della frode alla legge, occorre chiarire che il giudice non avrebbe potuto neanche ricorrere alla disapplicazione, pur alla luce delle modifiche in tema apportate a seguito della sentenza Mangold33, che ha
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C. giust., 29 novembre 1991, cause C-6/90 e C-9/90, Francovich, cit. C. giust., 4 settembre 2006, causa C-212/04, Adelener, cit., punto 115. 30 Ivi, punto 110. 31 Tra l’altro, bisogna ricordare come la Corte di giustizia abbia sostenuto che «l’esigenza temporanea di personale sostitutivo, prevista da una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale, può, in linea di principio, costituire una ragione obiettiva ai sensi di detta clausola. Il solo fatto che un datore di lavoro sia obbligato a ricorrere a sostituzioni temporanee in modo ricorrente, se non addirittura permanente, e che si possa provvedere a tali sostituzioni anche attraverso l’assunzione di dipendenti in forza di contratti di lavoro a tempo indeterminato non comporta l’assenza di una ragione obiettiva in base alla clausola 5, punto 1, lettera a), dell’accordo quadro CTD, né l’esistenza di un abuso ai sensi di tale clausola». Così C. giust., 26 gennaio 2012, causa C-586/10, Kücük, in RIDL, 2012, III, 747, con nota di Riccobono. 32 Diamanti, op. cit., 546. 33 C. giust., 22 novembre 2005, causa C-144/04, Mangold, cit. 29
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permesso la disapplicazione della norma nazionale in contrasto con una direttiva priva di efficacia diretta, ma comunque espressione di un principio giuridico che trovi fondamento nelle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Tale è, ad esempio, il principio di discriminazione per età, che costituisce, appunto, un principio generale dedotto dal diritto dell’Unione: in questo caso il giudice nazionale avrebbe la facoltà di sottoporre la questione pregiudiziale sull’interpretazione di quel principio, disapplicando al contempo la normativa nazionale reputata in contrasto con lo stesso34. Ebbene, nel caso in esame si potrebbe anche ipotizzare che il giudice di merito abbia cercato di rilevare come il principio della stabilità del rapporto ed il divieto di abuso del contratto a termine siano principi generali del diritto europeo35, in modo da aprirsi la strada alla disapplicazione delle norme nazionali reputate in contrasto con quei principi. I dubbi che si esprimono in relazione a questo passaggio interpretativo riguardano proprio la correttezza di tale argomentazione: la Corte di giustizia, infatti, su questo punto si è espressa solo con riferimento al principio di non discriminazione, mentre, di converso, rimane la critica che tale operazione amplierebbe non solo la portata giuridica delle direttive, ma anche lo stesso ruolo del giudice nazionale in tale «comunitarizzazione»36 dell’ordinamento. Dunque, alla luce delle considerazioni appena esposte, non sorprende come il Tribunale di Firenze nel caso in esame non abbia potuto né disapplicare né, a ben vedere, ricorrere alla sola interpretazione conforme: questa potrebbe essere la ragione per cui il giudice avrebbe dedicato ampio spazio a ricostruire il principio secondo il quale, a fronte di esigenze stabili, si debba necessariamente ricorrere al contratto a termine indeterminato, con la conseguente nullità per frode alla legge ex art. 1344 c.c. di tutti i contratti a termine stipulati, anche in modo reiterato, per esigenze non transitorie. Scendendo, però, nel dettaglio della questione, anche tale ultimo sforzo non appare esente da critiche37. È noto, infatti, che in caso di frode alla legge le parti fanno tipicamente ricorso a un negozio giuridico al fine di eludere l’applicazione di una norma imperativa; un’elusione che può avvenire anche utilizzando più volte lo stesso strumento contrattuale «alterandone alcuni elementi, ovvero collegandoli tra loro, in guisa da conseguire effetti diversi da quelli espressamente previsti»38. Tuttavia, bisogna al contempo precisare che «qualora il negozio ipotizzato venga posto in essere nell’ambito della sfera che gli è propria, esso appare oggettivamente inidoneo a trascendere i limiti effettuali che gli sono imposti dalla legge». In altre parole, si deve evitare che l’agere contra legem venga identificato con l’agere in fraudem legis, al fine di preservare uno spazio di applicazione all’art. 1344 c.c.39: tale potrebbe essere, dunque, il
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C. giust., 19 gennaio 2010, causa C-555/07, Kucukdeveci, in FI, 2011, IV, 150, con nota di Militello. Per la verità, la Corte sembra aver escluso tale opzione nella successiva C. giust., 24 giugno 2010, causa C- 98/09, Sorge, in FI, 2010, IV, 542, con nota di Perrino. Cfr., inoltre, Diamanti, op. cit., 545. 36 Piccone, Sciarra, Principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, obbligo di interpretazione conforme, politiche occupazionali, in FI, 2006, IV, 341. 37 Cfr. Cass., sez. un., 31 maggio 2016, n. 11374, cit. e Aimo, Il lavoro a termine tra modello europeo e regole nazionali, Giappichelli, 2017, 232. 38 Giacobbe, Frode alla legge, in Enc. dir., XVIII, Giuffrè, 1969, 73. 39 Cfr. Marongiu, Scuto, Levi, voce Frode, in EGT, www.treccani.it. 35
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caso del ricorso reiterato ai contratti a tempo determinato che, finché rispettoso dei limiti di legge predisposti proprio per evitare la precarizzazione del lavoro, non sarebbe idoneo a fondare un abuso di tali contratti. La Cassazione, allora, esaminando la questione con riferimento al contratto a termine, ha chiarito che quelli che potevano essere casi di frode alla legge sono diventati, con le ultime riforme, veri e propri casi di violazione della legge: in altre parole, o si superano i limiti quantitativi facendo scattare la sanzione legale, o si rispettano quei limiti, senza però cadere nella frode alla legge40. E non si vede come potrebbe essere altrimenti, visto che può comunque apparire una forzatura consentire ad un datore di lavoro una determinata gestione dei rapporti a termine e sanzionare ex post proprio un comportamento perfettamente in linea con la normativa. Certo, permangono degli spazi di ricorso a tale istituto tutte le volte in cui si configuri un utilizzo fraudolento di norme che escludono dal computo alcuni tipi contrattuali o che consentono l’utilizzo del lavoratore in mansioni diverse, non rilevanti ai fini della successione dei contratti a termine, ma non pare essere questo il caso41. In conclusione, come si è cercato di evidenziare, la sentenza del Tribunale di Firenze pone troppi punti interrogativi non solo sulla soluzione adottata, ma anche sugli argomenti a sostegno di tale soluzione: non si può non osservare, infatti, come, se tale interpretazione della normativa europea fosse corretta, qualsiasi contratto a-causale potrebbe essere invalidato da un giudice sulla base di una valutazione ex post ed ampiamente discrezionale, col rischio non solo di un contenzioso seriale su tali tipologie di contratti a termine, ma anche di una disomogeneità nelle decisioni in tema di temporaneità delle esigenze. Tra l’altro, proprio a voler seguire il ragionamento del giudice, non si comprende neanche perché la nullità per frode alla legge non comporti la conversione del contratto fin dal primo giorno di instaurazione del rapporto di lavoro, e non soltanto dalla data della sentenza. Per di più tutto questo potrebbe valere astrattamente anche per il regime introdotto dal c.d. Decreto Dignità, con riferimento quantomeno al primo contratto a-causale: anche in questo caso, l’apposizione del termine non sarebbe salva nel caso in cui il giudice rilevi l’esistenza di esigenze stabili che avrebbero dovuto essere quindi soddisfatte con un contratto a tempo indeterminato. Il che non impedisce, comunque, di apprezzare lo sforzo di ricostruzione di una sorta di frode alla legge “europea”, per così dire, anche se è da ritenere che tale istituto non possa essere usato per svuotare di significato gli stessi spazi di libertà che la direttiva 99/70 consente nell’attuazione dei suoi principi. Francesco Gadaleta
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Cass., sez. un., 30 giugno 2016, 13376 e 13375, inedite. Per un caso di successione tra somministrazione e contratto a termine, cfr. Cass., 28 marzo 2018, n. 7702, in GD, XVII, 13. In dottrina, cfr. Bolego, Autonomia negoziale e frode alla legge nel diritto del lavoro, Cedam, 2011, 142 e M.T. Carinci, Il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro? Contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato versus contratto di lavoro subordinato a termine, somministrazione di lavoro e lavoro accessorio, in RGL, 2016, I, 323.
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