Diritto della banca e del mercato finanziario 1/2009

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Saggi

ISSN 1722-8360

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

1/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

di particolare interesse in questo fascicolo

• Crisi dei mercati finanziari: banche, autorità di vigilanza • Revocatoria delle rimesse • Il caso Lehman • Sintesi di giurisprudenza

gennaio-marzo

Pacini Editore

1/2009 anno xxiii

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Diritto della banca e del mercato finanziario

gennaio-marzo

Pacini Editore

1/2009 anno XXIII



Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

Comitato di direzione Carlo Angelici, Franco Belli, Mario Bussoletti, Gino Cavalli, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimieri, Alessandro Nigro, Mario Porzio, Niccolò Salanitro, Vittorio Santoro, Luigi Carlo Ubertazzi. Comitato di redazione Sido Bonfatti, Antonella Brozzetti, Vincenzo Caridi, Ciro G. Corvese, Giovanni Falcone, Elisabetta Massone, Francesco Mazzini, Filippo Parrella, Gennaro Rotondo. Segreteria di redazione Daniele Vattermoli Direttore responsabile Alessandro Nigro La sede della rivista è presso la Segreteria del Ce.Di.B. Via dei Crociferi, 44 - 00187 Roma L’amministrazione è presso: Pacini Editore SpA Via Gherardesca - 56121 Ospedaletto - Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it - info@pacinieditore.it

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Comunicato A partire da questo fascicolo, la rivista Diritto della banca e del mercato finanziario viene pubblicata dalla Pacini Editore di Pisa. Si tratta del secondo cambiamento in pochi anni ed il Ce.di.b. e la Direzione si scusano per i disagi ed i disguidi che questo possa aver determinato. Il Centro Studi, l’Editore e la Direzione sono lieti del nuovo rapporto di collaborazione e confidano che gli abbonati e gli altri lettori continueranno ad assicurare il loro sostegno.



SOMMARIO 1/2009

PARTE PRIMA Saggi Crisi finanziaria, banche, derivati, di Alessandro Nigro...

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Coordinamento e collaborazione delle funzioni di vigilanza nello scenario della crisi dei mercati finanziari, di Sandro Amorosino.................................................................

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Le regole di comportamento dei “creditori” nella direttiva 2008/48/Ce in materia di credito al consumo, di Matteo De Poli..................................................................................

» 33

Law & Economics dei c.d. “Fondi Sovrani” d’investimento nell’ordinamento comunitario e nazionale, di Simone Mezzacapo............................................................

» 55

Commenti Revocatoria delle rimesse in conto corrente - Trib. Monza, 3 settembre 2008; Trib. Milano, 27 marzo 2008..................

» 91

La revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente fra insipienza del legislatore e fantasia dei giudici, di Alessandro Nigro...................................................................

» 103

Rassegne Sintesi di giurisprudenza (I trimestre 2008) ......................

» 111


PARTE SECONDA Documenti e informazioni La crisi del gruppo Lehman – Richiesta della Lehman di ammissione alla procedura di Reorganization; richiesta della Lehman di accettazione dei termini e delle condizioni della vendita di assets; ordinanza della Corte fallimentare di accettazione..............................................................

pag. 3

Chapter 11 e tutela dei creditori (note a margine del caso Lehman Brothers), di Daniele Vattermoli............................

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Norme

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redazionali..................................................................


PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, rassegne, miti e realtĂ



SAGGI

Crisi finanziaria, banche, derivati

1. La crisi epocale che ha colpito le economie a livello mondiale e che mostra di avere tuttora il suo epicentro nei sistemi bancari sembra ben lontana da una qualche conclusione: è quindi troppo presto per tracciare bilanci di sorta. Quel che credo si possa dire è che questa crisi, sul versante dell’economia finanziaria – che in tutti i paese avanzati è, si ricordi, soggetta a meccanismi di regolazione articolati e talvolta assai penetranti – sempre più si rivela come il frutto di un autentico e generalizzato “fallimento”: del mercato in quanto tale, ma anche delle regole, dei soggetti regolati, dei regolatori. È il frutto di un fallimento del mercato – o di una certa idea del mercato – che si è dimostrato strumento totalmente inidoneo a governare, assorbire e compensare comportamenti anomali e devianti; mi sembra significativo quanto si legge in un recente intervento del direttore generale della Banca d’Italia: “L’idea che segmenti non regolamentati del mercato potessero favorire l’innovazione finanziaria e aumentare le pressioni competitive e l’efficienza dei soggetti vigilati senza pregiudizio per la stabilità si è rivelata fallace” (Saccomanni, Nuove regole e mercati finanziari, in Bancaria, 2009, p. 31). Di un fallimento delle regole, che pur se numerose e pervasive si sono dimostrate non in grado di prevenire quei comportamenti o limitarne le conseguenze (per esempio, con opportune misure in ordine all’utilizzazione di veicoli fuori bilancio o alla valutazione e quantificazione dei rischi). Di un fallimento dei soggetti regolati (banche come altre istituzioni finanziarie), che hanno dimostrato, sottostimando e in genere mal valutando i rischi di liquidità connessi a certi titoli o prodotti in cui hanno investito i loro attivi, di non saper neppure fare bene il loro mestiere. Di un fallimento, infine, dei regolatori che, pur se dotati in genere di poteri vastissimi,

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Saggi

hanno mostrato di essere stati colti assolutamente di sorpresa dalla crisi e, con ciò, di non essere stati in grado di prevedere le conseguenze devastanti che un certo modo di fare finanza avrebbe determinato; basta al riguardo ricordare quanto ha rilevato il Financial stability forum nel suo rapporto del 2008, a proposito della “crescita di esposizioni non regolamentate, eccessiva assunzione del rischio e carente gestione del rischio di liquidità”: “Le autorità pubbliche, pur avendo riconosciuto alcune delle vulnerabilità sottostanti nel settore finanziario, hanno mancato di prendere misure efficaci di contrasto, in parte perché hanno forse sovrastimato la forza e la solidità del sistema finanziario”. Un siffatto fallimento generalizzato ha prodotto – come era inevitabile – un crollo della fiducia altrettanto generalizzato, della fiducia cioè di tutti rispetto a tutto: sino ad arrivare al punto che – come è noto – le banche, in più di un momento, hanno chiaramente mostrato di non aver più nemmeno fiducia le une nelle altre. Tutto questo sta portando a far affiorare, se pur lentamente, la consapevolezza che, al di là delle indispensabili misure di emergenza, occorra ripensare e ridisegnare l’intero assetto di governo delle attività finanziarie in genere e dell’attività bancaria in specie, rivederne e modificarne tutte le regole, alla luce proprio di quello che la crisi ci è venuta e ci viene insegnando. In questa prospettiva, mi spingerei ad affermare che già da ora possono trarsi da quel che è accaduto alcuni insegnamenti o, se si preferiscono termini meno impegnativi, motivi di riflessione. E fra tali insegnamenti o motivi di riflessione tre mi parrebbero particolarmente importanti.

2. Il primo insegnamento che si può – anzi: si dovrebbe – trarre dalla crisi è che le banche non sono imprese come tutte le altre. Lo si è sempre saputo, per la verità: solo che nei tempi più recenti, sotto la suggestione o il mito del “mercato” ai cui principi anche l’attività bancaria dovrebbe sempre piegarsi, lo si è dimenticato. Per rimanere all’ambito domestico, tutti ricorderanno l’enfasi della formula “banca-impresa” (in contrapposizione alla formula “banca-funzione pubblica”) che ha segnato i dibattiti che hanno preceduto e preparato, in Italia, l’emanazione del testo unico bancario del 1993 e che ha trovato poi consacrazione nella (in sé superflua) proclamazione contenuta nell’ultimo periodo del co. 1 dell’art. 10 di quel testo unico, per il quale “Essa [l’attività bancaria] ha carattere di impresa”. Le vicende della crisi hanno riportato alla (dura) realtà. La rapidità con cui i governi sono intervenuti per cercare di porre rimedio alle crisi delle

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banche, trovando immediato appoggio, per quel che riguarda i governi europei, anche nelle autorità comunitarie, l’imponenza dei mezzi finanziari messi a disposizione, la incisività delle misure adottate, che sono arrivate o stanno arrivando in molti paesi – dagli U.S.A. all’Inghilterra, dall’Olanda alla Germania – fino a forme di nazionalizzazione esplicite o implicite, hanno dimostrato, sul campo per così dire, la profonda verità della vecchia (e a torto talvolta vituperata) formula dell’art. 1 l. banc. del 1936-1938, secondo la quale “la raccolta del risparmio fra il pubblico sotto ogni forma e l’esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico…”. Una formula rivelatasi vera rispetto ad entrambe le componenti dell’attività bancaria, ma, oggi, vera soprattutto rispetto alla componente erogazione del credito. Sempre più chiaramente, infatti, le misure di intervento sulle e per le banche paiono disposte non solo e non tanto per tutelare il risparmio che ad esse affluisce quanto soprattutto per preservare la funzione creditizia, proprio al cui malfunzionamento è da attribuire la propagazione della crisi dal settore finanziario alla c.d. economia reale. È significativo, sotto questo aspetto, che negli USA si cominci a parlare dell’attività delle banche come “servizio pubblico”. Così come è significativo che se, per un verso, siano state talora previste garanzie statali per le passività bancarie, per altro verso, certi aiuti alla “ripatrimonializzazione” delle banche siano stati subordinati – talvolta addirittura a livello legislativo – a precisi impegni in termini di assistenza creditizia alle imprese o a talune categorie di imprese. Mi riferisco qui ovviamente, per restare ancora una volta all’ambito domestico, ai c.d. “Tremonti bonds”, regolati dall’art. 12 del d. l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, dove si prevede che il Ministero dell’economia sottoscriva i bonds emessi dalle banche a condizione (co. 4) “che l’operazione sia funzionale al perseguimento delle finalità indicate al comma 1”, fra cui preminente la finalità di “assicurare un adeguato flusso di finanziamenti all’economia” e (co. 5) subordinatamente “all’assunzione da parte dell’emittente degli impegni definiti in un apposito protocollo d’intenti con il Ministero… in ordine al livello e alle condizioni del credito da assicurare alle piccole e medie imprese e alle famiglie, alle modalità con le quali garantire adeguati livelli di liquidità ai creditori delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, anche attraverso lo sconto di crediti certi”. Tutto questo, naturalmente, non vuol dire che si debba necessariamente percorrere o ripercorrere la strada della banca “pubblica”: una strada, peraltro, che non può e non deve essere “demonizzata” da nessun punto di vista; e che, soprattutto, non può e non deve essere “demonizzata” proprio da chi, come ho detto prima e come dirò anche più avanti, ha dimostrato di non essere capace, da privato, di fare il proprio mestiere.

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Vuol semplicemente dire che l’attività bancaria ha sì carattere di impresa, ma di impresa sui generis; che ogni equiparazione fra imprese bancarie ed imprese di diverso genere è un non senso; che è un non senso anche l’equiparazione fra imprese bancarie e imprese finanziarie di altro tipo; che le imprese bancarie necessitano di un corpus di regole particolari che salvaguardino proprio l’interesse pubblico implicato dalla loro attività. È il caso di aggiungere, su questo terreno, che il nostro ordinamento si è già dotato in effetti – nel quadro delle misure di emergenza – di uno strumento che può portare ad una forma, sia pur blanda, di “nazionalizzazione”. Nel d. l. 9 ottobre 2008, n. 155, conv. dalla l. 4 dicembre 2008, n. 190, con il quale si è autorizzato il Ministero dell’economia a sottoscrivere o garantire aumenti di capitale deliberati, nel quadro di un programma di stabilizzazione e rafforzamento della durata minima di 3 anni, da banche italiane che presentino una situazione di inadeguatezza patrimoniale, si è stabilito all’art. 2: che in presenza di una situazione di grave crisi di banche e di gruppi bancari, anche di liquidità, si applicano le procedure di amministrazione straordinaria, di gestione provvisoria e di liquidazione coatta previste dal t.u.b. (del che, per la verità, nessuno avrebbe avuto ragione di dubitare); che il Ministero può sottoscrivere o garantire aumenti di capitale anche di banche sottoposte a quelle procedure; ed infine (è questo il punto) che “spetta in via esclusiva ai commissari straordinari, sentito il comitato di sorveglianza, deliberare le operazioni sul capitale cui partecipa il Ministero dell’economia e delle finanze”. Questo significa che, in una situazione di grave crisi di liquidità, è possibile sottoporre la banca ad amministrazione straordinaria e far deliberare ai commissari straordinari – tagliando fuori l’assemblea – da un lato un programma di stabilizzazione e rafforzamento di almeno tre anni e dall’altro un aumento di capitale destinato ad essere sottoscritto dal Ministero. È vero che le azioni sottoscritte dal Ministero sono azioni privilegiate prive del diritto di voto: ma la presenza del Ministero nella compagine sociale non resta fatto irrilevante (l’art. 1, al co. 3-bis, prevede la fissazione delle “modalità con cui il Ministero… esercita, in qualità di azionista, gli ulteriori diritti connessi alle azioni”; e, al co. 4, che, fino alla cessione delle azioni, sono soggette ad approvazione del Ministero le variazioni sostanziali al programma di stabilizzazione e rafforzamento).

3. Quanto appena detto ha molti corollari. Uno mi parrebbe di particolare rilievo e costituisce il secondo insegnamento o motivo di riflessione: le banche non possono essere lasciate libere di fare tutto ciò che ritengano opportuno nel loro interesse, in nome della “autonomia imprenditoriale”.

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Non credo che sia accettabile – e forse addirittura concepibile – che intere economie vengano poste in pericolo sol perché le banche di quei paesi hanno ingolfato se stesse ed il sistema con mutui ad alto rischio e con titoli “tossici”; direi che questo sia addirittura immorale. Del pari, non credo che sia accettabile – e forse addirittura concepibile – che interi settori essenziali della vita civile vengano privati di risorse pubbliche solo per “ripatrimonializzare” quelle banche. D’altra parte, è tragico che proprio le banche, le quali dovrebbero avere nel loro codice genetico la gestione ed il controllo del rischio, siano cadute vittime di un inadeguato controllo dei rischi assunti (con ciò dimostrando appunto di non saper fare il proprio mestiere): un controllo tanto inadeguato che ancora oggi – ed è questa la fonte dei problemi più gravi – non sono in grado, a quanto sembra, di valutare appieno il grado di “tossicità” dei loro assets. Né, ovviamente, può costituire una scusante – anzi, è semmai una aggravante – il fatto che oggi, a quanto si dice, nessuno sarebbe in grado di attestare il valore dei c.d. troubled assets. Tutto questo, in una prospettiva futura, non dovrebbe più ripetersi; ed occorre fare in modo, con misure appropriate, che non si ripeta più. Ha detto di recente il Governatore della Banca d’Italia che le banche debbono tornare a concentrarsi sul loro oggetto tipico, cioè l’attività di raccolta del risparmio e di erogazione del credito. Credo che sia la linea maestra, da percorrere però a tutti i livelli – interno come comunitario – con estrema decisione e con interventi drastici. Quindi, in particolare: – separando rigorosamente l’attività bancaria e l’attività di intermediazione finanziaria, da riservare a soggetti distinti dalle banche e con esse non collegate; – limitando o addirittura precludendo alle banche la traslazione, ad altri soggetti, del rischio di credito, la cui gestione deve rimanere, in principio, alle banche stesse (la cessione del rischio, come è ormai assodato, fa venir meno l’incentivo a monitorare l’attività del debitore e ad intervenire tempestivamente per contenere o limitare i rischi); – ponendo rigorose regole agli investimenti delle banche, che debbono ricavare profitti dall’attività tipica e non dalla gestione (rivelatasi oggi “fallimentare”) di strumenti finanziari. Il problema, a quest’ultimo riguardo, non è tanto quello di apprestare strumenti per valutare e limitare il grado di leverage e di migliorare la quantità e qualità delle informazioni al mercato. È invece quello di impedire che le banche investano in quelle che il Financial stability forum ha definito come “attività finanziarie complesse, opache, spesso illiquide e prive di un prezzo di mercato”.

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4. Il terzo insegnamento o motivo di riflessione riguarda i titoli “tossici” e specificamente i derivati. Sempre il Governatore della Banca d’Italia ha detto di recente che occorre, per recuperare la fiducia nel mercato e nelle banche, convincere i risparmiatori-investitori del fatto che ci sono, sul mercato appunto, molti titoli pienamente “affidabili” nei quali investire. Credo che il discorso vada esattamente rovesciato: occorre convincere i risparmiatoriinvestitori che sul mercato vi sono solo titoli “affidabili” (non nel senso, ovviamente, di titoli privi di rischio, ma di titoli che non espongano a rischi imprevedibili e incontrollabili). E questo è possibile solo se vengano introdotti meccanismi obbligatori di classificazione, tipizzazione e selezione degli strumenti finanziari. A questo proposito ricordo che la MIFID non prevede alcun meccanismo del genere e questo – ho sempre ritenuto e continuo a ritenere – concreta una autentica lacuna. Una autentica lacuna, che, innanzi tutto, non è facilmente giustificabile: in un sistema che contempla (opportunamente) la classificazione dei clienti non si comprende perché non si sia contemplata anche, quanto meno, una classificazione degli strumenti finanziari. Si tratta, poi, di una lacuna, sempre a mio modo di vedere, assai grave. A mio avviso infatti, e l’ho detto altre volte, le esigenze di tutela, in generale, sia degli investitori sia del mercato richiedono ormai interventi regolatori proprio sull’oggetto dei servizi di investimento, vuoi in termini, appunto, di tipizzazione e classificazione dei titoli e degli strumenti finanziari, vuoi anche e soprattutto in termini di selezione dei titoli e degli strumenti che possano essere oggetto di rapporti con gli investitori. Ancora una volta confesso di non riuscire a comprendere perché, anche a livello comunitario, non si possano immettere sul mercato, per esempio, automobili che non siano di un tipo omologato e si possano invece liberamente vendere e comprare, oltre agli strumenti finanziari tipici, anche strumenti finanziari atipici quali che ne siano la struttura ed i rischi. Il discorso riguarda, naturalmente, in particolare i derivati, la cui estrema pericolosità per tutti mi parrebbe ormai indiscutibile (ricordo che in passato li si è definiti “armi di distruzione di massa” e oggi li si definisce “mostri simboli della finanza deviata”). Nessuno dubita, ovviamente, dell’utilità dei derivati come strumenti di copertura dei rischi: il punto è che ormai i derivati sono normalmente utilizzati come strumento meramente speculativo. Ed allora si tratta di stabilire se un mercato finanziario che voglia essere integro ed affidabile possa tollerare la utilizzazione e circolazione senza limitazioni di simili strumenti. Credo che la risposta non possa che essere negativa e mi pare di poter aggiungere che sempre più sembra diffondersi un convincimento in questo senso.

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Non solo. È il caso di sottolineare che già si sono avuti interventi nella direzione qui indicata. Merita di essere segnalata, innanzi tutto, l’iniziativa assunta nel 2003 dall’ISVAP, con il divieto di indicizzare direttamente o indirettamente le polizze index linked a titoli connessi ad operazioni di cartolarizzazione ed ai derivati del credito (misura che, a quanto risulta, ha portato a limitare l’esposizione di quelle polizze a circa 278 milioni di euro a fronte di quella calcolata in circa 7,6 miliardi di euro che si sarebbe determinata in sua assenza). In secondo luogo, l’iniziativa della Consob che con comunicazione del 2 marzo 2009 ha dettato una specifica disciplina, in termini di particolari obblighi di trasparenza e di correttezza a carico dell’intermediario, per i contratti di investimento aventi ad oggetto prodotti finanziari illiquidi e, specificamente, derivati. E, in terzo luogo, l’iniziativa del nostro legislatore. L’art. 62 del d. l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. dalla l. 6 agosto 2008, n. 133, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la competitività ecc., ha infatti stabilito testualmente, al co. 1: “alle regioni, alle province autonome di Trento e Bolzano e agli enti locali è fatto divieto di stipulare fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al co. 2, e comunque per il periodo di un anno decorrente dalla data di entrata in vigore del presente decreto, contratti relativi agli strumenti finanziari derivati previsti dall’art. 1, co. 3, d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58…”; e, al co. 2, “Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentite la Banca d’Italia e la Consob, con regolamento… individua la tipologia degli strumenti finanziari derivati che i soggetti di cui al co. 1 possono stipulare e stabilisce i criteri e le condizioni per la conclusione delle relative operazioni”. La disposizione si spiega alla luce delle vicende recenti che hanno visto gli enti locali pesantemente esposti nei confronti delle banche a seguito di operazioni su derivati – sembra che oltre metà del debito complessivo dei Comuni e delle Provincie riguardi proprio i derivati –, i cui rischi tali enti avevano evidentemente non compreso o sottovalutato; e, quindi, in chiave di tutela dell’interesse pubblico connesso alla gestione delle finanze locali. Però l’esigenza di protezione (potrebbe dirsi: contro se stessi) di cui quella disposizione è espressione si riscontra puntualmente, io credo, anche nei riguardi degli investitori non enti pubblici locali, i quali, come gli investitori enti pubblici locali, non possono essere esposti senza limiti a rischi non identificabili a priori. Mi parrebbe, allora, non irragionevole l’estensione a tutti gli investitori non professionisti di meccanismi di selezione del tipo di quello previsto dall’art. 62. E, forse, addirittura l’estensione anche alle banche, in relazione alla necessità di salvaguardarne, per le ragioni prima illustrate, la stabilità patrimoniale.

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Certo, non ignoro che si tratta di una strada incoerente rispetto alla logica che ispira la normativa MIFID. Ma credo che anche questa logica meriti di essere ripensata a fondo: una tutela preventiva «forte» sembra ormai, alla luce proprio della crisi, indispensabile passaggio per la tutela dell’integrità del mercato, costituendo lo strumento più adeguato per cogliere nella sua interezza l’obiettivo della fiducia nel mercato. L’accentuazione del grado di “amministrativizzazione” del settore che dalle misure proposte indubbiamente deriverebbe mi sembra il male minore, visto peraltro che le normative vigenti vedono già l’attribuzione di vastissimi poteri alle autorità di vigilanza. Posso concludere ricordando che non a caso l’ultimo vertice del G20, del novembre 2008, ha assunto un preciso impegno: quello di far sì che tutti i mercati finanziari, i prodotti e i partecipanti siano regolati o soggetti a supervisione appropriata.

Alessandro Nigro

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Coordinamento e collaborazione delle funzioni di vigilanza nello scenario della crisi dei mercati finanziari

Sommario: 1. Notazioni introduttive: la collaborazione ed il coordinamento. – 2. Le funzioni di vigilanza e le crisi dei mercati finanziari. – 3. Fattispecie recenti di coordinamento in funzione anticrisi finanziarie. – 4. I diversi gradi (e forme) della collaborazione.

1. Notazioni introduttive: la collaborazione ed il coordinamento. L’aggravarsi e diffondersi della crisi dei mercati finanziari sta imponendo il rapido rafforzamento delle misure di coordinamento e collaborazione a scala interna, europea ed internazionale. Quali siano gli effetti della crisi è in parte noto, in parte ancora imprevedibile. Più agevole è la messa a fuoco delle locuzioni che sono al centro di queste brevi riflessioni: il coordinamento e la collaborazione. Si tratta di due nozioni giuridiche distinte. Il coordinamento è una formula organizzatoria 1 che modula i rapporti tra figure soggettive, il più delle volte equiordinate (ad esempio: Banca d’Italia e CONSOB), in funzione della definizione di un disegno di coordinamento, il quale è in sostanza un programma di azioni coordinate. Può prevedere l’istituzionalizzazione di organismi di coordinamento, il più delle volte denominati Comitati o Commissioni. In una accezione più lata indica la messa a punto di indirizzi comu-

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Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1993, I.

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Saggi

ni 2, per la cui attuazione è indispensabile la convergenza delle condotte dei soggetti che si coordinano. La collaborazione è, invece, un principio dell’azione amministrativa, che si declina, in termini giuridici, in un obbligo generale di cooperazione, ma non dà luogo ad un rapporto organizzatorio. La collaborazione può concretarsi in patti, intese, accordi di programma e accordi operativi, via via più specifici, lungo un asse che va dai patti politici, agli atti di indirizzo, ai programmi complessi, all’organizzazione di attività di comune interesse, a convenzioni contenenti obbligazioni patrimoniali. Abbiamo, dunque, fattispecie di coordinamento e fattispecie di collaborazione. Naturalmente tutti i casi di coordinamento realizzato presuppongono la collaborazione. Viceversa la collaborazione non presuppone un rapporto di coordinamento, né necessariamente inerisce ad esso.

2. Le funzioni di vigilanza e le crisi dei mercati finanziari. Il coordinamento e la collaborazione sono funzionali alle azioni di vigilanza pubbliche sui mercati finanziari, specie – è ovvio – nelle crisi finanziarie. Si privilegia qui il profilo oggettivo (le funzioni) lasciando apparentemente in ombra quello soggettivo (i soggetti sono le Autorità indipendenti nazionali, ma anche organismi internazionali – come il F.S.F. – o quelli dell’Unione Europea, o i governi nazionali), volendo sottolineare la centralità della funzione di vigilanza; funzione che – relativamente al nostro tema – è quella del krisys management 3: la prevenzione e, ove occorra, la gestione delle crisi dei mercati finanziari. È una funzione – si ricorda – che entrò a far parte delle “costituzioni economiche” materiali dopo il 1929: un compito indefettibile degli stati contemporanei, è il controllo e contrasto delle crisi economico-finanziarie. Nella Costituzione italiana è funzione sottesa all’art. 47 (tutela del risparmio). Nel mondo attuale, della tecnofinanza globalizzata e dello spazio

2 M. Nigro, I rapporti tra coordinamento e indirizzo in L’amministrazione della società complessa. In ricordo di V. Bachelet, a cura di G. Amato e Marongiu, Bologna, 1982. 3 Di Plinio, Diritto pubblico dell’economia, Milano, 1998.

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Sandro Amorosino

giuridico globale 4, le crisi finanziarie sono – come mostra la crisi attuale – ad origine locale, ma ad impatto globale. La risposta dei pubblici poteri deve essere a scala più ampia possibile, multilivelli e soprattutto multiforme sotto il profilo giuridico. Non vi è, infatti, solo la collaborazione, più o meno istituzionalizzata e procedimentalizzata, tra Autorità indipendenti – che è sia orizzontale (tra autorità nazionali), sia verticale, “a canne d’organo”, in sede internazionale, tra le autorità finanziarie di settore (Comitato di Basilea, IOSCO, CESR, IAIS, etc.). Vi è anche il coordinamento di indirizzi – al contempo politici e tecnici – a livello internazionale o europeo, inteso nel senso di prefigurazione concordata di condotte future coerenti, per fronteggiare fenomeni a scala transcontinentale o continentale. Questi indirizzi possono qualificarsi come atti programmatici in quanto tutti coloro che su di essi convergono si impegnano ad adottare una serie predeterminata di misure regolatorie, nel senso ampio dell’espressione 5, cioè sia ad adottare che ad implementare regole di comportamento uniformi, sia dei regulators che dei soggetti regolati.

3. Fattispecie recenti di coordinamento in funzione anticrisi finanziarie. Per ancorare il discorso all’attualità è opportuno scendere dal cielo dei verba generalia e fare subito due esempi recenti di fattispecie di coordinamento, che sono tra loro legati – come subito si capirà – da un evidente nesso funzionale. Il primo attiene alla sfera nazionale, il secondo a quella internazionale. A scala nazionale, nella riunione del Cicr del 7 marzo 2008, è stato sottoscritto tra Ministero dell’Economia, Banca d’Italia, Consob ed Isvap un protocollo d’intesa per la cooperazione in materia di stabilità finanziaria che prevede “lo scambio tra le Autorità di informazioni e valutazioni per la salvaguardia della stabilità del sistema finanziario italiano, la prevenzione e la gestione delle crisi finanziarie con potenziali effetti di natura sistemica”. Nel protocollo è prevista l’istituzione del Comita-

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Irti, Norma e luoghi, Roma-Bari, 2006. V. Rangone, Le programmazioni economiche, Bologna, 2007.

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to per la salvaguardia della stabilità finanziaria, presieduto dal Ministro dell’Economia e composto dal Governatore della Banca d’Italia e dai Presidenti della Consob e dell’Isvap. La creazione del Comitato, in termini giuridici, consegue all’individuazione e connotazione di una specifica funzione pubblica di contingenza 6 – la tutela della stabilità finanziaria sistemica – e rappresenta l’istituzionalizzazione di essa, mediante la creazione di una struttura organizzatoria apposita per il coordinamento. Si tratta di una struttura leggera e di vertice, nella quale la presenza, accanto alle autorità tecniche indipendenti, del Ministro dell’Economia, testimonia che la funzione di stabilità dei mercati finanziari è insieme – inscindibilmente – politica e tecnica, in quanto si pone su un crinale che ha – per così dire – ricadute su ambedue i versanti: quello delle misure da adottarsi dal governo e quello delle attività di vigilanza in senso proprio. In sintesi: una struttura di coordinamento tecnico-politico. Come si vede la realtà si fa beffe delle teorizzazioni della rigida separazione (“chinese walls”) tra le due sfere, che non esiste in nessuna parte del mondo. Il secondo esempio riguarda la sfera internazionale e scaturisce dal “Rapporto Draghi”, presentato nell’aprile 2008 al Financial Stability Forum, e fatto proprio da questo organismo tecnico di supporto del “G7 economico” (costituito dai ministri dell’economia e dai governatori delle banche centrali) 7. È sufficiente il richiamo ad alcune teste di capitolo delle “raccomandazioni” contenute nel Rapporto per aver chiaro che esso è un atto programmatico in senso proprio 8. Per fare solo qualche esempio, sotto il titolo “Rafforzamento della vigilanza prudenziale sul patrimonio, sulla liquidità e sulla gestione del rischio” sono formulati “impegni”: – per il Comitato di Basilea di rafforzare il trattamento prudenziale previsto da Basilea II per gli strumenti di credito strutturato, mediante l’ado-

Luhmann, Sociologia del diritto, Bari, 1977, I. Il rapporto del FSF, con il titolo “Rafforzare la solidità dei mercati e degli intermediari”, è consultabile sul sito www.fsforum.org. Su di esso v. le riflessioni di Onado, Le autorità di vigilanza nelle crisi finanziarie, relazione al Convegno L’ordinamento finanziario dopo le crisi, organizzato a Napoli, l’8 maggio 2008, dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Atti in corso di pubblicazione. 8 Giannini, Diritto pubblico dell’economia, Bologna, 1995. 6 7

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zione di una serie di misure, i cui oggetti sono minutamente elencati; – e, “a cascata”, per le autorità nazionali di vigilanza, di adeguarsi alle nuove misure di Basilea e di valutare rigorosamente la compliance delle banche con il quadro regolamentare 9. Analoghi interventi di vigilanza sulla gestione dei rischi, compresi quelli relativi ai “veicoli fuori bilancio”, sono affidati alle autorità di vigilanza sulle banche e sulle imprese di investimento (nel nostro Paese: Banca d’Italia e Consob). In questa sede interessa sottolineare la struttura “a cascata”, un po’ come nei fuochi d’artificio, del Rapporto, il quale delinea un complesso ed articolato programma di attività necessitate, da porsi in opera, in progressione, da parte di numerose istituzioni pubbliche, internazionali e nazionali, per adeguare le regole tecniche di vigilanza e per “stringere i bulloni” dell’attività operativa di vigilanza. In sintesi: è un atto programmatico, risultante di un’attività di coordinamento a scala internazionale, che si sostanzia nella formulazione di puntuali indirizzi operativi. L’endiade “indirizzo & coordinamento” si declina qui – come accade sovente – nel senso che l’indirizzo è la risultante dell’avvenuto coordinamento. È di immediata evidenza che il Comitato italiano per la stabilità finanziaria, istituito nel marzo 2008, è destinato ad essere l’interfaccia, in sede nazionale, degli indirizzi formulati dal FSF. Il Comitato dovrà coordinare: a) la recezione e “riversamento” nelle diverse, e complementari, regolazioni nazionali di settore dei più “stringenti” principi internazionali – formulati, ad esempio, dal Comitato di Basilea; b) l’adozione delle misure nazionali, complementari a quelle “derivate” dagli organismi internazionali di settore (ad esempio: l’Isvap dovrà rafforzare il quadro regolamentare e prudenziale per i monoline insurers con riferimento ai prodotti di credito strutturato). È da chiedersi, a questo punto, quale sia il grado di cogenza delle “raccomandazioni” del FSF. È qui da notare una diversità rispetto al (problema del)la cogenza delle “regole” (ma anche delle semplici “raccomandazioni”) comunitarie.

9 Sulla compliance v., da ultimo, Alberici, L’attività di “compliance” nel contesto MiFID - Banca d’Italia, relazione al Convegno L’attuazione della Direttiva MiFID, organizzato dall’Università di Siena, a Montepulciano, il 17-19 aprile 2008 e, con numerosi spunti critici, A. Nigro, nella Relazione di sintesi del Convegno (Atti in corso di pubblicazione).

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Nei tre testi di raccolta delle norme sui mercati finanziari – il t.u.b., il t.u.f. ed il Codice delle Assicurazioni private – esistono, com’è noto, delle norme aperte, o “di scorrimento”, che impongono alle Autorità di settore di uniformarsi alle regole ed agli indirizzi comunitari, anche in forma di raccomandazioni, ed anche futuri, nonché agli acquis della giurisprudenza comunitaria 10. Viceversa le “raccomandazioni” del FSF determinano per le autorità nazionali (non solo indipendenti, ma anche governative) un vincolo di comportamento che nasce dal fatto stesso di partecipare alla rete 11 di organismi “finanziari” internazionali, tecnico-politici o strettamente tecnici, nell’ambito dei quali si elaborano le strategie comuni. E, come in ogni “governo a rete”, che è per definizione paritario, è indispensabile che ogni “nodo” della rete stessa si faccia “propagatore” (in termini giuridici: attuatore) degli indirizzi concordati. La “sanzione” per eventuali inadempienze è indiretta, ma duplice e consiste: a) nell’indebolimento del ruolo del “sistema finanziario - Paese” sulla scena internazionale; b) nell’esposizione ai maggiori rischi di instabilità finanziaria, dovuti alla mancata adozione delle misure più rigorose; mancata adozione che crea un “buco nella rete”, nel quale potrebbero “infilarsi” soggetti propensi a comportamenti opportunistici. È da notare – peraltro – che, almeno tra i paesi della UE, in materia di regolazione dei mercati finanziari forse non trovano molto campo di applicazione le teorie sulla concorrenza tra ordinamenti giuridici 12. Eventuali defaillances regolatorie puntuali – per rimanere al nostro tema: in materia di prevenzione/controllo delle crisi finanziarie – non determinano, infatti, di per sé un afflusso di operatori di mercato “più avventurosi”, perché il tessuto regolatorio complessivo è comunque fitto ed omogeneo agli standards internazionali e le autorità di vigilanza sono mediamente efficienti. Tornando al Rapporto del FSF si può forse parlare di una sorta di soft law, che fonda la sua forza sul dovere di leale cooperazione nell’ambito della rete internazionale di istituzioni preposte alla stabilità finanziaria dei mercati di una parte consistente del mondo sviluppato 13.

10 Tra i primi in tema Predieri, Commento all’art. 6 in Commentario al T.U.B., a cura di Capriglione, Padova, 1994. 11 In tema v. S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Roma-Bari, 2006, II. 12 Zoppini (a cura di), La concorrenza tra ordinamenti giuridici, Roma-Bari, 2004. 13 In materia v., limitatamente al diritto dell’U.E., De Minico, Soft law in Il Diritto, Enc. Giur., XV, Milano, 2007, e, più in generale, Ferrarese, Diritto sconfinato, Roma-Bari, 2006.

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4. I diversi gradi (e forme) della collaborazione. Veniamo, rapidamente, al versante della collaborazione, la quale – come principio generale – può avere vari gradi: concretarsi in cooperazione operativa permanente, o dare luogo ad intese o accordi di vario oggetto e contenuto (frutto di una collaborazione avviata e – al contempo – recanti impegni specifici sugli obiettivi e sui modi della collaborazione concordata per il futuro). In qualche caso, come subito si dirà, le norme primarie e secondarie si spingono sino a configurare fattispecie di atti congiunti o di accordi (in senso atecnico), che presuppongono una stretta collaborazione. Schematizzando al massimo abbiamo, dunque: I) le prassi di collaborazione ordinaria, permanente e sistematica, inerente alla vigilanza operativa, le quali consistono essenzialmente: nello scambio reciproco di informazioni tra le Autorità di vigilanza finanziarie e nella consultazione su singoli casi o situazioni, ma anche in iniziative di studio comuni per approfondire un problema (ad esempio lo studio redatto dalla Banca d’Italia e dall’Isvap, nel 2004, sul trasferimento del rischio); II) la sottoscrizione volontaria di accordi o intese aventi il contenuto di atti di organizzazione dell’attività di vigilanza, sia regolamentare che operativa; III) l’adozione di atti a base convenzionale specificamente imposti dalle norme (per fare due esempi recenti: il regolamento congiunto Banca d’Italia Consob di cui all’art. 6, co. 2 bis, e il protocollo d’intesa di cui all’art. 5, co. 5 bis, del t.u.f., introdotti, ambedue, dal d.lgs. n. 164/2007). Il primo livello – quello della collaborazione operativa – è riconducibile direttamente alle norme di principio – di contenuto analogo – di cui rispettivamente all’art. 7, co. 5, del t.u.b. 14, all’articolo 4, co. 1, del t.u.f. 15 e all’art. 10, co. 4, del Codice delle assicurazioni 16. Data la genericità degli enunciati dei due Testi Unici e del Codice delle assicurazioni alcuni degli studiosi citati hanno variamente tentato

Sul quale v., per tutti, Stammati, Commento all’art. 7 in Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Belli, Contento, Patroni Griffi, Porzio e Santoro, I, Bologna, 2003. 15 Su cui v., per tutti, Montedoro, Commento all’art. 4 in Commentario al Testo Unico delle disposizioni in tema di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998. 16 Sul quale v., da ultimo, Longo e Scalise, Commento all’art. 10 in Il Codice delle assicurazioni private, a cura di Capriglione, I, Padova, 2007. 14

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di specificare ed articolare in quali forme si può concretare il dovere di collaborazione operativa. Qualche autore (Montedoro) nega che la collaborazione abbia “una dignità giuridica autonoma dalla nozione di coordinamento e di ausiliarietà”. Questa impostazione non sembra condivisibile perché – come s’è visto – non tutte le forme di collaborazione sono riconducibili al coordinamento e l’ausiliarietà è concetto – coniato da M.S. Giannini – che presuppone un ausiliante ed un ausiliato, ciò che non si riscontra nei rapporti tra le autorità di vigilanza. Soprattutto non risponde all’evoluzione dei mercati finanziari, sempre più interconnessi e caratterizzati da figure soggettive miste, quali i conglomerati finanziari 17, i quali impongono una vigilanza consolidata intersettoriale 18. Un altro studioso (Stammati) individua due modelli collaborativi, l’uno a struttura consensuale e paritaria, l’altro a struttura unilaterale ed autoritaria (un’Autorità può chiedere informazioni ad un’altra che è tenuta a fornirle). Anche qui – tuttavia – è di immediata evidenza che si tratta di una modellistica astratta, la quale non tiene conto che a collaborare bisogna essere almeno in due e, dunque, la “collaborazione coatta amministrativa” è categoria sconosciuta alla scienza dell’amministrazione, perché – specie in uno Stato “arcipelago” (Predieri), com’è ormai il nostro – nulla si impone ex autoritate. Più realistico appare l’approccio, intersettoriale ed evolutivo, di chi 19 rileva che “negli anni più recenti si è sviluppata la tendenza a realizzare, oltre ad una collaborazione di carattere meramente informativo, anche un vero e proprio coordinamento nell’azione delle diverse autorità, responsabili della vigilanza per profili diversi ma molto spesso intrecciati tra di loro”. Se ci si chiede cosa abbia determinato questa “espansione” delle prassi collaborative, alla già rilevata, crescente, integrazione dei tre mercati finanziari, si deve aggiungere anche il mutamento di attitudine dei vertici della Banca d’Italia e della Consob (l’Isvap essendo stata sempre più “disponibile”), anche a seguito di una qualche attenuazione della storica “egemonia” della prima.

In tema v. Brozzetti, I conglomerati finanziari, Siena, 2006. V. ancora Brozzetti, Assetti organizzativi e vigilanza consolidata nel settore bancario, dell’intermediazione finanziaria e dei servizi di investimento, Siena, 2007. 19 Capolino, Le autorità in AA.VV., Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Galanti, Padova, 2008. In senso analogo v. Vella, Le autorità di vigilanza: non è solo questione di architetture, in Dir. banc., 2007, I, p. 196 ss. 17 18

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La collaborazione del primo tipo – pur istituzionalizzata nella prassi  20 e “fluidificata” di recente da una mutata attitudine dei vertici delle autorità – resta tuttavia un continuum puntiforme, nel senso che è sostanziata da uno scambio di informazioni, e da incontri, per valutare insieme casi di singoli intermediari, assicurazioni o banche, oppure specifici oggetti (ad esempio: un tipo di derivato). Il passaggio al “secondo livello” è avvenuto negli anni più recenti, quando le autorità finanziarie si sono trovate ad affrontare problemi complessi che debordavano dalle competenze di ciascuna. Anche qui due soli esempi: quando dalla vigilanza consolidata (ad es. di un gruppo assicurativo) si deve passare alla vigilanza di un conglomerato; oppure quando ci si trova di fronte ad un prodotto assicurativo/finanziario. Nei due esempi fatti le tradizionali delimitazioni delle competenze sono: – o inadeguate, e quindi disfunzionali (nel caso dei conglomerati); – oppure dai confini mobili, quindi da tracciare volta per volta (nel caso dei prodotti assicurativi-finanziari). Nel caso dei prodotti assicurativi/finanziari è stato il legislatore a “spostare” e “segnare” il confine: – prima, con la legge n. 262/2005, estendendo la competenza della Consob (ma restava una sorta di “terra di nessuno”, nella quale erano incerti i parametri per distinguere i prodotti prevalentemente assicurativi da quelli prevalentemente finanziari) 21; – poi, con il d.lgs. n. 303/2006, “tagliando la testa al toro” ed attraendo nella competenza della Consob tutti gli strumenti caratterizzati da una struttura finanziaria. Nel caso dei conglomerati, invece, il problema della vigilanza è stato affrontato mediante un accordo volontario, denominato protocollo d’intesa, tra Banca d’Italia ed Isvap. Questo passaggio al secondo “stadio” è stato “accompagnato” da alcune norme. L’art. 21 della legge sulla tutela del risparmio (n. 262/2005) e, prima, il d.lgs. 2005 n. 142 (di attuazione della direttiva 2002/87/CE sulla vigilan-

Sulla quale è rimasto insuperato Piga, Prassi amministrativa in Enc. dir., XXIV, Milano, 1985. 21 In questa fase intermedia v. lo sforzo ricostruttivo di Alpa, I prodotti assicurativi finanziari, in Il nuovo codice delle assicurazioni, a cura di Amorosino e Desiderio, Milano, 2007. 20

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za supplementare), hanno posto le basi normative per gli sviluppi della collaborazione in forme organizzatorie rafforzate, tanto che si parla ora 22 di “forme di coordinamento più organizzate e stabili, lasciando libere le autorità di individuarne le modalità”. Queste forme organizzatorie vanno dalla stipula di protocolli d’intesa, alla creazione di comitati, alla individuazione, per alcune funzioni in comune, di un lead regulator (in italiano: un’autorità coordinante), che può mutare, di volta in volta, a seconda della caratterizzazione prevalente del conglomerato su cui vigilare. È da sottolineare che il ricorso, su base volontaria, a questi moduli convenzionali, da parte di due o più autorità, è sempre stato legittimo, in forza del principio di collaborazione sancito nel t.u.b. nel t.u.f. e nel Codice delle assicurazioni e – ancora “a monte” – in forza del principio generale per cui le amministrazioni pubbliche possono sempre stipulare accordi (art. 15 l. n. 241/1990) 23. È da chiedersi, allora, se vi sia stato e quale sia stato l’intento del legislatore nell’“evocare” questi moduli convenzionali, nella legge sulla tutela del risparmio. È stato, palesemente, un intento promozionale della collaborazione (come a dire: «ricordatevi che in tutti i casi in cui è necessario è bene che procediate mediante “concordamenti strutturati”»). In questa sede non rileva che nella prassi, prima, e nella normazione di settore, poi, la locuzione più spesso usata sia quella di protocollo d’intesa, invece di quella di accordo. Al di là del (diverso) nomen juris usato si tratta di accordi in senso proprio, i quali – come subito si dirà – possono avere oggetti variegati o anche multipli. In qualche caso – poi – la stipula dell’accordo (in forma di protocollo d’intesa) è non solo consentita o “incoraggiata”, ma è anche imposta dalle norme, primarie o secondarie. Ciò incide sulla genesi, ma non sulla struttura giuridica della fattispecie. Parafrasando una nota formula di Gertude Stein: “una rosa è una rosa è una rosa”, ai fini della connotazione giuridica “un accordo è un accordo”.

Capolino, Le autorità, cit. Sui quali v., da ultimo, Satta, Accordi in Dizionario di diritto amministrativo, a cura di Clarich e Fonderico, Milano, 2007, e Pascucci, Accordi tra pubbliche amministrazioni, in La nuova disciplina dell’azione amministrativa, a cura di Tomei, Padova, 2005. 22 23

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E agli accordi tra soggetti pubblici sono sempre sottesi un rapporto ed una funzione organizzatoria. Ma in presenza di queste connotazioni organizzatorie dalla collaborazione, così qualificata giuridicamente, si “ripassa” nel campo delle forme di coordinamento, il quale è strumentale all’ottimale organizzazione e, quindi, al miglior esercizio della funzione di vigilanza (nel nostro caso: vigilanza “anti-crisi”). Questa sottolineatura del trascolorare di queste fattispecie dalla collaborazione al coordinamento non è un’agudeza da giuristi ispano-siculi del ’600, ma ha una precisa utilità pratica. Serve – cioè – a spiegare l’ampiezza e la varietà di contenuti che – come s’è visto – essi possono avere. Veniamo, infine, al terzo livello: gli accordi o concordamenti imposti dalle norme delegate più recenti (2007). Abbiamo qui, in primo luogo, concordamenti sostanziali sul contenuto di atti di regolamentazione generale. È il caso del Regolamento congiunto della Banca d’Italia e della Consob, ai sensi dell’articolo 6, co. 2 bis, del t.u.f., in tema di obblighi dei soggetti abilitati. In questo caso l’accordo sostanziale, sul merito delle regole da porre, è stato il presupposto – implicito ma indispensabile – dell’emanazione del regolamento congiunto, che è stato lo strumento mediante il quale l’accordo sostanziale ha trovato formalizzazione, nell’ordinamento di settore. È da sottolineare che contenuti regolatorî possono avere anche i protocolli d’intesa, almeno nella parte in cui da essi sono desumibili regole tecniche di comportamento che le autorità accordatesi applicheranno agli operatori del settore. Il più delle volte, tuttavia, gli accordi hanno essenzialmente la funzione, organizzatoria in senso stretto, di dettare alle autorità che li sottoscrivono le regole condivise sul come dovrà essere organizzata la loro attività “in comune”. Un caso di accordo organizzativo obbligatorio è il protocollo d’intesa tra Banca d’Italia e Consob ai sensi dell’art. 5, co. 5 bis, del t.u.f., in tema di vigilanza sugli intermediari (2007), che disciplina sia le procedure che modulano la collaborazione, sia la casistica degli “oggetti” di comune interesse. Poiché il protocollo d’intesa prevede una puntuale ripartizione di compiti tra le due autorità, qualche studioso si è interrogato sulla legittimità del fatto che, mediante un atto convenzionale, si possa – in ipotesi – derogare alla suddivisione di competenze nella materia de qua, sancita da norme primarie. Naturalmente in linea di principio la deroga non è consentita. Si tratta – tuttavia – di verificare in concreto se la normazione primaria contiene, o meno, una ripartizione di competenze tanto puntuale

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e minuziosa da non poter essere in alcun modo modificata da un atto convenzionale. È agevole rilevare che il t.u.b., il t.u.f. ed il Codice delle Assicurazioni contengono più principi di ripartizione delle funzioni che normative specifiche e che anche laddove disciplinano singoli oggetti (ad esempio: in tema di imprese di investimento) le disposizioni attengono più all’assegnazione della funzione di vigilanza (ad esempio: alla Consob) che alle modalità operative di esercizio della funzione stessa. In questo quadro residua per le Autorità finanziarie un ampio spazio per organizzare lo svolgimento delle funzioni e quindi anche per concordare tra loro le modalità operative ritenute più idonee per l’assolvimento in modo ottimale dei rispettivi compiti, che sono fortemente intrecciati.

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Le regole di comportamento dei “creditori” nella direttiva 2008/48/Ce in materia di credito al consumo *

Sommario: 1. Premessa. – 2. Una questione preliminare: l’ipotesi d’intervento nell’operazione creditizia di un intermediario ed i destinatari delle regole di comportamento. – 3. Gli obblighi gravanti sui creditori nella fase anteriore e posteriore alla conclusione del contratto. Premessa. – 4. Gli obblighi connessi alla scelta di promuovere la conclusione di contratti di credito. – 5. Gli obblighi di informazione precontrattuale (in senso stretto). Profili generali. – 6. Continua. Gli obblighi di informazione precontrattuale. Profili speciali. – 7. L’obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore. – 8. Le conseguenze della violazione degli obblighi posti in capo al creditore. – 9. Conclusioni e rilievi critici.

1. Premessa. Prima di passare ad affrontare il tema che mi è stato riservato, quello degli obblighi dei c.d. “creditori” – ossia, dei concedenti credito al consumo, come preferisco chiamarli, o, stando all’art. 3 Definizioni, lett. b), le persone fisiche o giuridiche che concedano o s’impegnino a concedere un credito nell’esercizio di un’attività commerciale professionale – nella fase anteriore ed in quella posteriore alla conclusione del contratto secondo la Direttiva 2008/48 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori ed abrogante la direttiva 87/102/CEE; prima di passare al tema a me assegnato, dicevo, ritengo opportuno segnalare come il legislatore comunitario abbia

* Testo, con qualche adattamento, della relazione tenuta il 12 dicembre 2008 all’Università degli Studi di Ferrara, Facoltà di Giurisprudenza, nell’ambito del Convegno su “La nuova disciplina comunitaria del credito al consumo: la direttiva 2008/48/ Ce”.

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anche in quest’occasione assunto come congrua alla disciplina dettata un modello d’operazione contrattuale che vedrà concluso il proprio iter formativo attraverso l’adesione del consumatore ad un regolamento contrattuale unilateralmente predisposto dal concedente credito. Questo non significa, ovviamente, che un’operazione di credito al consumo non possa fondarsi sulla trattativa tradizionale, con formazione congiunta del testo da parte delle due parti. Non è a ciò che ha pensato, però, il legislatore. Il need of protection posto alla base di tale direttiva mi pare consista, dunque, proprio in quanto ho appena rilevato, ossia nella circostanza che – non partecipando alla fase di formazione del regolamento contrattuale – il consumatore ne subisca passivamente la determinazione. Tornerò sul punto nel corso della mia relazione non tanto per dimostrare la fondatezza di quest’assunto – né nuova, del resto, né particolarmente originale – quanto per segnalare perché, a mio avviso, l’ipertrofica considerazione di questa circostanza abbia portato il legislatore comunitario a trascurare altri aspetti del need of protection del consumatore. Chiudo questa premessa segnalando come il legislatore, invece, sia stato indifferente al modo di chiusura dell’iter formativo del contratto: esso potrà avvenire, infatti, sia mediante la sottoscrizione “tradizionale” di un modulo o di un formulario contrattuale redatto su un “supporto cartaceo” (arg. dall’art. 10, co. 1), sia in modo diverso, in altre parole mediante le più moderne tecniche di comunicazione a distanza (arg. dall’art. 5, co. 3).

2. Una questione preliminare: l’ipotesi d’intervento nell’operazione creditizia di un intermediario ed i destinatari delle regole di comportamento. Dobbiamo chiederci, preliminarmente, se gli obblighi posti in capo al concedente credito e che a breve esamineremo, ricadano in capo anche all’intermediario che abbia partecipato all’operazione contrattuale, agevolandone la conclusione ed invero, la Direttiva prende in considerazione la possibilità d’intervento nell’operazione di un intermediario. Questi, denominato “intermediario del credito”, è definito alla lettera f) dell’art. 3 come la “persona fisica o giuridica che non agisce come creditore e che, nell’esercizio della propria attività commerciale o professionale, dietro versamento di un compenso, che può essere costituito da una somma di denaro e da qualsiasi altro vantaggio economico pattuito, i) presenta o propone contratti

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di credito ai consumatori; ii) assiste i consumatori svolgendo attività preparatorie alla conclusione di contratti di credito diverse da quelle di cui al punto i); oppure iii) conclude contratti di credito con i consumatori in nome e per conto del creditore”. In sede di recepimento della Direttiva ritengo che tale categoria andrà a confluire in quella dei mediatori creditizi, ossia di quei soggetti che – iscritti in un apposito albo presso il Ministero dell’Economia – svolgono l’attività, a loro riservata, di mediazione e di consulenza nella concessione di finanziamenti da parte di banche o di intermediari finanziari (art. 16, co. 1 e 4, della l. 7-03-1996, n. 108). Ci si deve chiedere, ora, se le regole di comportamento poste in capo al creditore (ad es.: artt. 5 e 6) ricadano anche in capo a codesti soggetti (intermediari). Il legislatore comunitario ha usato una formula ambigua: destinatario dei puntuali obblighi di comportamento è il creditore e, “se del caso” (art. 5, co. 1 e 6; art. 6;), l’intermediario del credito. L’oscurità della condizione sparisce però con la lettura dell’art. 7 (Deroghe agli obblighi di informazione precontrattuale), che dispone che i citati obblighi informativi di cui agli artt. 6 e 7 non si applicano ai fornitori di merci o prestatori che agiscono come intermediari del credito a titolo meramente accessorio, non essendo questo lo scopo principale della loro attività imprenditoriale. Questa deroga si collega al rilievo contenuto nel Considerando n. 24 ove si rileva l’inopportunità di accollare obblighi d’informazione a coloro per i quali l’attività d’intermediazione creditizia non sia “lo scopo principale della loro attività commerciale o professionale”; la ragione di tale convinzione, si continua, sta nel fatto che il consumatore riceverà ugualmente un sufficiente livello di tutela dal fatto che il concedente credito “ha la responsabilità di assicurare che il consumatore riceva la completa informazione precontrattuale” (Considerando cit.). L’intermediario, è destinatario, però, di altri ed autonomi obblighi: ai sensi dell’art. 21, infatti, egli dovrà: a) indicare, sia nella pubblicità che nei documenti destinati ai consumatori, l’ampiezza dei suoi poteri, dichiarando, in particolare, se egli lavori a titolo esclusivo con uno o più creditori oppure a titolo di mediatore indipendente; b) informare il consumatore, prima della conclusione del contratto di credito ed in forma scritta o in ogni modo su supporto durevole, del compenso che dovrà essergli eventualmente versato. Quanto alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto, da parte dell’intermediario, degli obblighi postigli in capo, conformemente ad una scelta che supera gli angusti confini di questa specifica problemati-

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ca, nulla ci dice la Direttiva, rimettendo la soluzione di tale problema al legislatore nazionale 1.

3. Gli obblighi gravanti su creditori nella fase anteriore e posteriore alla conclusione del contratto. Premessa. Impostata e risolta la questione preliminare della titolarità esclusiva in capo al creditore delle regole di comportamento spetta ora passare ad individuare gli obblighi gravanti sui creditori nella fase anteriore ed in quella posteriore alla conclusione del contratto. Tali obblighi sono contenuti, rispettivamente, nel Capo II (Informazioni e pratiche preliminari alla conclusione dei contratti di credito) e nel Capo IV (Informazioni e diritti riguardanti i contratti di credito) della Direttiva. Il Capo II si compone di cinque articoli (4-8) tutti fortemente incentrati sulla cooperazione informativa tra il concedente credito ed il consumatore ma non tutti collocabili nella fase di naturale svolgimento dell’obbligo di informazione precontrattuale, quella delle trattative2. Invero, come vedremo a breve, un obbligo d’informazione investe già l’eventuale fase promozionale dell’offerta di credito al consumo. Queste “informazioni e pratiche preliminari alla conclusione dei contratti di credito” consistono: (a) nell’obbligo di corredare con particolari informazioni gli eventuali annunci e messaggi pubblicitari che menzionino anche l’aspetto del costo del credito (art. 4); (b) nell’obbligo di fornire talune informazioni al consumatore con cui si sia iniziata una trattativa (artt. 5 e 6). Ad esso va associato il diritto del

1 Cosa che ha suscitato la giusta critica di G. De Cristofaro, La nuova disciplina comunitaria del credito al consumo: la direttiva 2008/48/CE e l’armonizzazione “completa” delle disposizioni nazionali concernenti “taluni aspetti” dei contratti di credito ai consumatori”, in Riv. dir. civ., 2008, II, 265, che ha parlato di una “sbandierata natura ‘complementare’ dell’armonizzazione perseguita dalla direttiva” e che ha messo in luce il rischio di una proliferazione di soluzioni diverse da Stato a Stato. 2 Ribadisco anche in questa occasione la definizione che ebbi a dare della trattativa – in quel caso studiata quale fattispecie al cui verificarsi non si sarebbe svolto il giudizio di vessatorietà di una clausola contenuta in un contratto con un consumatore (disposizione che ora è contenuta all’ art. 34, co. 4, c.cons.) – ossia non già come momento di discussione sui contenuti del futuro testo contrattuale ma come luogo di circolazione delle informazioni e di rimozione delle oscurità: De Poli, Libero mercato e controllo legale nei contratti del consumatore, in Riv. dir. civ., 1999, p. 769 ss.

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concedente il credito di fornire informazioni aggiuntive e l’obbligo, sempre posto in capo al concedente il credito, di fornire chiarimenti specifici, ossia correlati alle specifiche esigenze del consumatore (art. 5, ult. co.); (c) nell’obbligo di valutare il merito creditizio del consumatore “sulla base di informazioni adeguate” (art. 8) ed in quello di informare il consumatore – la cui richiesta di credito sia stata respinta in conseguenza di notizie sul suo merito creditizio tratte da una banca dati – sul risultato di tale consultazione e sugli estremi della banca dati consultata (art. 9); (d) nell’obbligo di predisporre un documento contrattuale redigendolo su supporto cartaceo o su altro supporto durevole e corredandolo delle informazioni prescritte dall’art. 10 (art. 10); (e) nell’obbligo di informare il consumatore del compenso da versare all’intermediario del credito, se coinvolto (art. 21, lett. b). Il trattamento della fase informativa precontrattuale si traduce, in sostanza, nella previsione delle informazioni che devono essere fornite al consumatore: la tecnica è quella della previsione analitica di dati o di informazioni da fornire. L’effetto evidente è quello di regolare puntualmente ed in modo standardizzato il comportamento dei destinatari della disciplina, a tutela della loro certezza. Il cuneo nel quale inserire una valutazione personalizzata potrà essere il dovere di “assistenza” di cui all’art. 5, co. 6. Tra gli obblighi relativi alla fase successiva alla conclusione del contratto, tacendo di quello avente ad oggetto la traditio del documento contrattuale (resa obbligatoria dal disposto del co. 2 dell’art. 10 Informazioni da inserire nei contratti di credito), si notano: (f) quello di inviare al consumatore che ne faccia espressa richiesta un estratto contenente una tabella di ammortamento del debito (art. 10, co. 2, lett. i). Il concedente credito sarà tenuto ad adempiere tale obbligo solo quando il contratto concluso abbia previsto un piano di ammortamento del debito ed una scadenza determinata. Il secondo paragrafo della lett. i) descrive dettagliatamente il contenuto di tale tabella prevedendo, altresì, l’obbligo, in capo al creditore di mettere in guardia il consumatore intorno al fatto che “i dati della tabella sono validi solo fino alla modifica successiva del tasso debitore” 3;

3 In un tentativo di catalogare le varie forme espressive di ciò che genericamente chiamiamo obbligo di informazione precontrattuale (De Poli, Asimmetrie informative e rapporti contrattuali, Padova, 2002, 100, n. 251) ho creduto di dover assegnare autonomia alla messa in guardia, da intendersi come l’attività comunicativa che enfatizzi talune particolare circostanze o conseguenze (generalmente dannose o pericolose) che da un comportamento possano derivare. Al tempo avevo rinvenuto esempi di tale modalità

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(g) quello di informarlo di ogni eventuale modifica del tasso debitore, prima dell’entrata in vigore di tale modifica (art. 11). L’art. 11 parla di “modifica”: ciò sembrerebbe far deporre nel senso che tale modifica sia dovuta sia nel caso di esercizio di ius variandi sul tasso, sia nel caso di adattamento automatico. Una capillare disciplina dell’obbligo di informazione all’interno dei contratti di credito con concessione di scoperto è prevista, poi, all’art. 12. Concentrerò la mia attenzione sui doveri e sugli obblighi della fase precontrattuale.

4. Gli obblighi connessi alla scelta di promuovere la conclusione di contratti di credito. Ciò che d’ora in avanti chiamerò anche flusso informativo o dorsale informativa (in quest’ultimo caso per segnalare quella componente della disciplina facente leva sull’obbligo di fornire informazioni) prende le mossa dall’art. 4 ove viene fornita la disciplina del momento promozionale dell’attività dell’impresa concedente credito al consumo. Come dirò meglio nella parte finale di questo mio intervento, con l’art. 4 ora in esame si assiste all’ennesima dimostrazione – nelle discipline a tutela della parte debole – della maggiore latitudine dell’operazione contrattuale rispetto al contratto. Laddove, nella visione codicistica, questo è sussunto ad oggetto di disciplina a partire dalle trattative, procedendo poi attraverso la formazione dello stesso e concludendo con la fase di svolgimento del programma contrattuale, nelle discipline genericamente consumeristiche il punto d’attacco della disciplina è collocato in un momento antecedente alla nascita di un contatto serio ed affidante (ossia, la trattativa). Giova, infatti, al legislatore, porre in capo all’impresa doveri non entranti a far parte

comunicativa, ex multis, nell’art. 3 del d. Lgs. 17 marzo 1995, p. 115, (Sicurezza generale dei prodotti), ove si dispone che il produttore debba adottare misure adeguate in relazione alle caratteristiche del prodotto per consentire l’individuazione dei pericoli connessi all’uso, “come la marcatura del prodotto o della partita di prodotti”; e nell’art. 6, co. 3, lett. d), del d. lgs. ora citato, ove si dispone la possibilità dell’Amministrazione Pubblica di far apporre sul prodotto commercializzato “adeguate avvertenze sui rischi che esso può presentare”.

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direttamente del ciclo precontrattuale (si pensi a quello di mettere a disposizione in ogni locale aperto al pubblico le informazioni relative ai costi delle operazioni bancarie: art. 116 d. lgs. 1° settembre 1993, n. 285) ma collegati allo stesso indirettamente in forme e “tecnicalità” di volta in volta diverse (per continuare sulla scia ora tracciata, vietando alla banca di regolare il rapporto contrattuale con condizioni più sfavorevoli per il cliente di quelle indicate nelle informazioni pubblicizzate: art. 117 d. lgs. cit.). L’art. 4 è, dunque, schietta disciplina dell’attività d’impresa, non già del rapporto contrattuale. Ciò non toglie, però, che l’effetto che tale disposizione mira a realizzare non produca ricadute positive su una delle condizioni fondamentali per l’assunzione di una scelta negoziale razionale, e cioè la consapevolezza delle caratteristiche dell’impegno contrattuale che il consumatore va ad assumersi. Ai sensi dell’art. 4, qualsiasi “pubblicità” relativa a contratti di credito la quale indichi “un tasso d’interesse o qualunque altro dato numerico riguardante il costo del credito per il consumatore” dovrà contenere talune informazioni (cdd. “di base”) indicate nell’art. 4, co. 2, ossia importo del tasso debitore ed importo totale del credito; TAEG; durata del contratto di credito; prezzo in contanti della merce o del servizio (solo quando il credito sia fornito sotto forma di dilazione di pagamento per una data merce o un dato servizio). Tali informazioni debbono essere date “in forma chiara, concisa e graficamente evidenziata”, oltre che“con l’impiego di un esempio rappresentativo”. Noto, anzitutto, che manca un’espressa definizione del concetto di “pubblicità”: essa andrà dunque intesa coerentemente alla definizione maggiormente prossima ratione materiae, ossia come ogni “messaggio, in qualsiasi modo diffuso, avente lo scopo di promuovere la vendita di prodotti e la prestazione di servizi” (Istr. Vigilanza, Titolo X, Capitolo I, Sezioni I e II). Ciò detto, osservo come il contenuto precettivo dell’art. 4 non sia d’immediata comprensione o, comunque, che esso vada individuato con attenzione. Esso non consiste, come potrebbe apparire ad una prima e superficiale analisi, nell’imporre al concedente credito particolari obblighi informativi. L’intento del legislatore, infatti, non è quello di colmare lacune conoscitive ma quello di prevenire l’inganno. Ingannevole è, allora, la mera indicazione di un tasso d’interesse o di “qualunque altro dato numerico riguardante il costo del credito per il consumatore”; l’ingannevolezza è data dall’incompletezza del dato reso pubblico rispetto al tipico bisogno informativo del consumatore, cui interessa conoscere il costo complessivo del denaro prestatogli. Ecco

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perché ogni qual volta il messaggio pubblicitario conterrà un dato numerico afferente al costo del denaro, esso dovrà contenere anche tutti gli altri ritenuti co-essenziali per l’assunzione di una scelta negoziale consapevole e razionale. La disposizione si fa apprezzare anche per altra ragione: la prescrizione di una classica regola di trasparenza, l’utilizzo di “un esempio rappresentativo” quale strumento di agevolazione della comprensione.

5. Gli obblighi di informazione precontrattuale (in senso stretto). Profili generali. Possiamo distinguere – a puri fini classificatori, però, senza assegnare a tale distinzione alcun rilievo in punto di interpretazione degli stessi – tali obblighi in (a) generali, ossia riguardanti la generalità dei contratti di credito (previsti fondamentalmente, nell’art. 5) (b) specifici, ossia riguardanti (i) talune tipologie contrattuali (previsti all’interno dell’art. 6, riguardante gli Obblighi di informazione precontrattuale relativi ad alcuni contratti di credito sotto forma di concessione di scoperto e ad alcuni contratti di credito specifici); (i) talune modalità di conclusione del contratto (previste dall’art. 5, co. 2, che disciplina il caso di comunicazioni mediante telefonia vocale; ed all’art. 5, co. 3, che prende in considerazione il caso del contratto concluso mediante un mezzo di comunicazione a distanza “che non consente di fornire le informazioni di cui al paragrafo 1”). Stando alla ripartizione della materia poc’anzi fatta possiamo ora affermare che, quanto alla disciplina generale, ai sensi dell’art. 5, il consumatore: a) deve ricevere le informazioni che risultino “necessarie per raffrontare le varie offerte al fine di prendere una decisione con cognizione di causa in merito alla conclusione di un contratto di credito” (art. 5, co. 1); tale valutazione di indispensabilità dovrà tenere conto sia delle condizioni dell’offerta di credito del creditore sia, “se del caso, delle preferenze espresse e delle informazioni fornite dal consumatore”. Quanto alla scelta del consumatore, il legislatore auspica che essa possa avvenire dopo un raffronto tra le varie offerte (art. 5, co. 1) ma le disposizioni che fa seguire non appaiono indirizzate con grande rigore a garantire la comparabilità dei dati. Essa richiede l’omogeneità, se non l’identità, dei dati fatti oggetto dell’informazione obbligatoria: omogeneità dei dati, che il legislatore cerca di garantire, su ciò non vi è dubbio alcuno, attraverso l’imposizione al concedente credito

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dell’obbligo di fornire al consumatore le informazioni precontrattuali dettagliate in un modulo standard, quello relativo alle “Informazioni europee di base relative al credito ai consumatori” (art. 5, co. 1), ma che poi mi pare “corrompa” ammettendo che il creditore fornisca al consumatore informazioni aggiuntive, riversabili in un modulo da allegare a quello standard. È mia convinzione che sarebbe stato meglio prevedere che le informazioni precontrattuali scritte fossero a numero chiuso, dunque solo quelle ritenute doverose dal legislatore, ciò sia per non intaccare la comparabilità delle varie offerte sia per evitare il rischio di “annacquamento” di quelle considerate necessarie dal legislatore. Rischio di “annacquamento” o di overloading informativo, che è peraltro ben noto al legislatore, visto che tenta di regolarlo proprio attraverso l’art. 5, co. 1, ultimo paragrafo. Sul punto si veda infra; b) tali informazioni devono essere fornite al consumatore su un supporto cartaceo o su altro supporto durevole e “mediante il modulo” (id est: mediante la consegna del modulo) “relativo alle ‘Informazioni europee di base relative al credito ai consumatori’ riportate nell’allegato II”. Nulla si prescrive qui quanto alle modalità grafiche di tale modulo: omissione da un lato grave e dall’altro singolare, una volta preso atto che, invece, all’art. 6, co. 1, ultimo paragrafo, si è prescritto che tutte le informazioni “abbiano la stessa evidenza grafica”. Altrettanto era stato fatto all’art. 4, co. 2, con riferimento alla pubblicità. Il legislatore nazionale dovrà dunque porre rimedio a ciò che appare null’altro che una dimenticanza. c) Il modulo poco fa citato si compone di cinque paragrafi, ciascuno dei quali contenente le informazioni da fornire, in taluni casi anche con il corredo di brevi note esplicative: (a) il primo paragrafo ha per oggetto “identità e contatti del creditore/intermediario del credito” e si compone di informazioni solo in parte obbligatorie 4; (b) il secondo, la “descrizione della caratteristiche principali del prodotto di credito”: tipo di credito; importo totale dello stesso; modalità attraverso le quali ottenere il denaro e giorno in cui lo si otterrà; durata del contratto di credito; pagamenti rateali e loro ordine di imputa-

Facoltativi sono, infatti, il numero di telefono, l’indirizzo di posta elettronica, il numero di fax, l’indirizzo web del creditore e dell’intermediario del credito. La scelta di considerare facoltativa l’informazione su questi dati va però fortemente criticata perché rende più complesso l’esercizio di taluni diritti contrattuali del consumatore, in primis quello di ottenere informazioni concrete e puntuali sulle modalità di esercitare gli stessi. 4

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zione; importo totale del capitale preso in prestito ecc.; (c) il terzo paragrafo è intitolato “Costi del credito” ed ivi verranno riportate le informazioni in ordine al tasso di interesse passivo; il TAEG; la necessità, per ottenere il credito o per godere delle condizioni offerte, di sottoscrivere assicurazioni a garanzia del credito o altri contratti aventi ad oggetto servizi accessori; gli eventuali altri costi connessi; (d) il quarto paragrafo è intitolato “Altri importanti aspetti legali” e conterrà le informazioni in ordine alla titolarità, in capo al creditore, del diritto di recesso, del diritto di rimborsare anticipatamente il credito, del diritto di essere immediatamente e gratuitamente informato del risultato della consultazione di una banca dati, risultato posto alla base del rifiuto della domanda di credito, del diritto di ricevere una bozza del contratto di credito; oltre a quelle relative al diritto del creditore di ottenere un indennizzo in caso di rimborso anticipato; (e) l’ultimo, il quinto, intitolato “Informazioni supplementari in caso di commercializzazione a distanza di servizi finanziari” conterrà informazioni riguardanti il creditore; il contratto di credito; i meccanismi extragiudiziali di reclamo e di ricorso e le relative modalità di accesso ai medesimi. Ai sensi dell’ultima parte dell’art. 5 co. 1, il livello “minimo” di adeguatezza informativa richiesto da questa disposizione verrà raggiunto una volta che il creditore abbia fornito al consumatore le informazioni sopra citate. Ciò non significa in alcun modo che il concedente credito si debba per ciò solo ritenere assolto da ogni altro obbligo di procacciare la conoscenza del consumatore: le informazioni “di base”, infatti, assolvono il solo compito di garantire al consumatore la comparabilità delle varie offerte. d) Prima di abbandonare la trattazione di questo particolare profilo del momento informativo precontrattuale richiamo l’attenzione su un punto che, nella costruzione del mio ragionamento finale, riveste particolare importanza. Se ci soffermiamo intorno alla natura delle informazioni da fornire, ci accorgiamo che buona parte di queste non ha per loro oggetto fatti storici (del presente o del passato) bensì regole contrattuali o – meglio - parti del futuro contenuto contrattuale (e, dunque, future regole contrattuali). Tali sono infatti quelle di

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cui alle lettere a) 5, c) 6, d) 7, f) 8, g) 9, h) 10, i) 11, j) 12, l) 13; n) 14; p) 15 dell’art. 5. Fatti storici sono, invece, quelli di cui alle lettere b)  16; e)  17; m)  18; o)  19; q)  20; r)  21 dello stesso articolo. Buona parte di questi dati

“Il tipo di credito”. “L’importo totale del credito e le condizioni di prelievo”. 7 “La durata del contratto di credito”. 8 “Il tasso debitore, le condizioni che ne disciplinano l’applicazione e, se disponibile, ogni indice o tasso di riferimento applicabile al tasso debitore iniziale, nonché i periodi, le condizioni e la procedura di modifica del tasso debitore. Qualora si applichino tassi debitori diversi in circostanze diverse, le suddette informazioni in merito a tutti i tassi applicabili”. 9 “Il tasso annuo effettivo globale e l’importo totale che il consumatore è tenuto a pagare, illustrati mediante un esempio rappresentativo che deve riportare tutte le ipotesi utilizzate per il calcolo di tale tasso; ove il consumatore abbia indicato al creditore uno o più elementi del credito che preferisce, quali la durata del contratto di credito e l’importo totale del credito, il creditore deve tenerne conto; se un contratto di credito prevede diverse modalità di prelievo con spese o tassi debitori diversi e il creditore si avvale dell’ipotesi di cui all’allegato I, parte II, lettera b), egli indica che altri meccanismi di prelievo per detto tipo di contratto di credito possono comportare tassi annui effettivi globali più elevati”. 10 “L’importo, il numero e la periodicità dei pagamenti che il consumatore deve effettuare e, se del caso, l’ordine della distribuzione dei pagamenti ai vari saldi restanti dovuti a diversi tassi debitori ai fini del rimborso”. 11 “Se del caso, le spese di gestione di uno o più conti su cui sono registrate le operazioni di pagamento e i prelievi, a meno che l’apertura del conto sia facoltativa, le spese relative all’utilizzazione di un mezzo di pagamento che permette di effettuare pagamenti e prelievi, eventuali altre spese derivanti dal contratto di credito, nonché le condizioni alle quali tali spese possono essere modificate”. 12 “Se del caso, l’esistenza di spese che il consumatore è tenuto a pagare al notaio all’atto della conclusione del contratto di credito”. 13 “Il tasso degli interessi in caso di ritardi di pagamento, le modalità di modifica dello stesso e, se applicabili, le penali per inadempimento”. 14 “Se del caso, le garanzie richieste”. 15 “Il diritto al rimborso anticipato e, se del caso, le informazioni sul diritto del creditore a ottenere un indennizzo e le relative modalità di calcolo a norma dell’articolo 16”. 16 “L’indennità e l’indirizzo geografico del creditore, nonché, se del caso, l’indennità e l’indirizzo geografico dell’intermediario del credito”. 17 “In caso di credito sotto forma di dilazione di pagamento per una merce o un servizio specifici e dei contratti di credito collegati, tale merce o servizio e il relativo prezzo in contanti”. 18 “Un avvertimento relativo alle conseguenze dei mancati pagamenti”. 19 “L’esistenza o l’assenza del diritto di recesso”. 20 “Il diritto del consumatore a essere informato immediatamente e gratuitamente, in conformità dell’articolo 9, paragrafo 2, del risultato della consultazione di una banca dati ai fini della valutazione del merito creditizio”. 21 “Il diritto del consumatore a ricevere gratuitamente, su richiesta, copia della bozza 5 6

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consiste in diritti di fonte legale: l’esistenza o l’assenza del diritto di recesso (sub lett. o, con riferimento alla previsione dell’art. 14, Diritto di recesso); il diritto di ricevere le informazioni sulla banca dati da cui il creditore ha tratto le informazioni che lo hanno portato a rifiutare il credito (sub lett. q, con riferimento alla previsione dell’art. 8, Obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore); il diritto di ricevere copia della bozza di contratto (sub lett. r, con riferimento alla previsione dell’art. 5, co. 4, Informazioni precontrattuali). Rimango ancora convinto dell’utilità di tenere ben distinte – tra le forme dell’agire comunicativo precontrattuale – l’attività comunicativa di fatti storici del presente o del passato (informazione in senso stretto) e l’attività comunicativa della propria, attuale, volontà di produrre effetti giuridici (partecipazione); l’affermazione ho comprato da quella compro  22. La prima – da sussumere quale contenuto di obblighi – procaccia conoscenze attraverso atti rappresentativi di realtà esterni ad essi (sub specie di dichiarazioni di scienza), permettendo ad un soggetto diverso dall’agente di rimuovere il proprio stato di ignoranza riguardo a fatti esteriori del presente o del passato; la seconda, invece, è quell’attività espressiva di una volontà dell’agente (nel caso specifico, di impegnarsi), di una volontà, come si è detto, diretta al futuro e, in questa sua qualità, si struttura quale dichiarazione di volontà e si configura più propriamente come onere. Di un’attività, però, espressiva solo di sé stessa, e non di fatti esterni ad essa. A differenza di quanto poi accade per la manifestazione di volontà, la comunicazione di stampo esclusivamente informativo non si inserisce all’interno di un procedimento, quello formativo del contratto, con il fine di condizionarne la realizzazione degli effetti tipici: sta, sì, dentro quella fase, ma vi sta con un ruolo autonomo, che è quello di incrementare la componente psichica che starà eventualmente alla base della scelta negoziale. Rilevo che, se l’imposizione di un obbligo di informazione sulla titolarità di un diritto di fonte legale tradisce la convinzione, da parte del legislatore, dell’inidoneità comunicativa degli strumenti di

del contratto di credito. Questa disposizione non si applica se il creditore, al momento della richiesta, non intende procedere alla conclusione del contratto di credito con il consumatore”. 22 Per stare all’illuminante esemplificazione carneluttiana: Carnelutti, La prova civile. Parte generale. Il concetto giuridico della prova, Milano, 1992, 124. Mi sono intrattenuto sull’opportunità di tenere ferma questa distinzione anche quando il legislatore sembra averla accantonata in De Poli, Asimmetrie, cit., 151 ss.

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diffusione del diritto positivo, l’enfasi sul regolamento contrattuale anziché sui fatti storici mette in chiara luce, lo si è notato poco fa, l’implicita convinzione che il regolamento contrattuale sia qualcosa di esclusiva pertinenza di una delle due parti. e) Le informazioni di cui ho appena parlato devono essere rese “in tempo utile prima della conclusione del contratto” o prima di essere il consumatore vincolato altrimenti da un’offerta di credito. Tale condizione affonda le sue radici in quanto dichiarato al Considerando n. 19, secondo cui “Affinché i consumatori possano prendere le loro decisioni con piena cognizione di causa, è opportuno che ricevano informazioni adeguate, che il consumatore possa portare con sé ed esaminare, circa le condizioni e il costo del credito e le loro obbligazioni”. Tale disposizione punta ad impedire il realizzarsi del cd. effetto sorpresa proponendosi, in ultima analisi, di evitare che il consumatore venga invitato a sottoscrivere il contratto subito dopo la consegna del modulo contenente le informazioni. Si comprende bene, infatti, che in tal modo l’obbligo informativo verrebbe eluso e che il suo adempimento non realizzerebbe lo scopo cui è diretto, ossia quello di garantire una scelta contrattuale consapevole; f) il creditore potrà, come già detto, fornire informazioni aggiuntive ma il quommodo di tale surplus informativo non sarà libero. Invero, ai sensi dell’art. 5, co. 2, dette informazioni andranno fornite “in un documento distinto” che potrà essere allegato al modulo. Tale disposizione – sulla cui effettiva utilità ho già espresso alcune riserve - mette in chiara luce la preoccupazione del legislatore comunitario di uno snaturamento della funzione informativa del modulo conseguente ad un sovraccaricamento dello stesso, ponendosi dunque quale baluardo contro l’overloading informativo; g) i soggetti concedenti credito (e, se del caso, intermediari del credito) dovranno fornire altresì, oltre alle informazioni sopra indicate, gli adeguati chiarimenti che si rendano necessari ad assistere il consumatore nella sua opera di valutazione dell’adeguatezza del contratto, in funzione delle sue esigenze finanziarie e della sua situazione finanziaria. Spetterà agli Stati membri il compito di “adattare le modalità e la portata di tale assistenza” nonché di stabilire chi, tra creditore ed intermediario, la fornirà. Fin d’ora si può però affermare che: i) non di mera informazione (intesa nel senso di trasmissione di dati) si tratterà ma di vera e propria illustrazione-spiegazione; e che ii) essa non sarà standardizzata (come quella di cui al co. 1 dell’art. 5) ma individualizzata, ossia calata nel contesto della specifica trattativa. Il punto non può essere revocato in dubbio in considerazione dell’espresso

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riferimento alle esigenze ed alla situazione finanziaria “sua”, ossia del consumatore trattante 23.

6. Continua. Gli obblighi di informazione precontrattuale. Profili speciali. Come già messo in luce, una disciplina speciale è prevista per le seguenti tipologie contrattuali: a) concessione di scoperto 24; b) contratti di credito stipulati da organizzazioni di tipo “cooperativo” (art. 2, co. 5); c) contratti di conversione del credito, ossia quei contratti “che prevedono che il creditore e il consumatore stabiliscano di comune accordo le modalità del pagamento dilazionato o del rimborso, in caso di inadempimento del consumatore già in relazione al contratto di credito iniziale, nel caso in cui: a) tali accordi offrano maggiori probabilità di evitare procedimenti giudiziali relativi al suddetto inadempimento; e b) il consumatore non sia in tal modo sottoposto a condizioni meno favorevoli di quelle del contratto di credito iniziale”. In tali casi, le informazioni da rendere saranno quelle indicate all’art. 6, il cui contenuto è lievemente diverso dall’art. 5. Anche questa volta potranno essere rese mediante la consegna di un modulo, il cui contenuto è riprodotto all’Allegato III della direttiva. Rileva solo segnalare due ultimi aspetti: a) la possibilità per gli Stati, ex art. 6, co. 2, di decidere che, nel caso di contratto di scoperto in conto corrente, non sia necessario fornire il TAEG 25; b) la mancata ri-

Del resto, è anche chiarito al Considerando n. 27. Si sostanziano in quei contratti di credito grazie ai quali il consumatore acquista il diritto di poter disporre – per volontà espressa e non tacita – di credito bancario (v. all’art. 3, lett. d). Si tratta, per diritto italiano, dell’apertura di credito bancario. Si differenziano dai cdd. “sconfinamenti” che, secondo quanto si legge all’art. 3, lett. e), si sostanziano nello “scoperto tacitamente accettato in forza del quale il creditore mette a disposizione del consumatore fondi che eccedono il saldo del conto corrente di quest’ultimo”. 25 Già l’art. 2, co. 1, lett. e), della dir. 87/102/CEE, prevedeva che la disciplina non si applicasse al credito concesso da un istituto di credito o da un istituto finanziario sotto forma di apertura di credito in conto corrente, diversi dai conti coperti da una carta di credito: il legislatore interno, con l’art. 126 t.u.b., ha fatto oggetto di un regime speciale le aperture di credito in conto corrente non connesse all’uso di una carta di credito concesse da una banca o da un intermediario finanziario ad un consumatore, prevedendo 23 24

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produzione ed il mancato richiamo, nell’art. 6, del dovere del creditore di fornire al consumatore gli adeguati chiarimenti, prescritti invece, in via generale, nell’art. 5, co. 6. Dimenticanza che andrà sanata perché non vi è alcuna ragione per attribuire tutele diverse a soggetti che, pur coinvolti in vicende contrattuali diverse, hanno lo stesso need of protection.

7. L’obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore. Questo è uno degli aspetti più complessi ed indecifrabili della Direttiva. Lo tratterò con grande rapidità perché so che sarà fatto specifico oggetto di una comunicazione finale. Preceduto dall’affermazione (Considerando n. 26) secondo cui “In un mercato creditizio in espansione… è importante che i creditori non concedano prestiti in modo irresponsabile o non emettano crediti senza preliminare valutazione del merito creditizio, e gli Stati membri dovrebbero effettuare la necessaria vigilanza per evitare tale comportamento e dovrebbero determinare i mezzi necessari per sanzionare i creditori quando ciò si verificasse… i creditori dovrebbero avere la responsabilità di verificare individualmente il merito creditizio dei consumatori”, l’art. 8 prescrive agli Stati membri di provvedere affinché “prima della conclusione del contratto di credito”, il creditore valuti il merito creditizio del consumatore “sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando la banca dati pertinente” (in Italia, i cdd. SIC, sistemi di informazioni creditizie, o centrali rischi private). Ad essere precisi, di “obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore” parla dunque la sola rubrica dell’art. 8, mentre il disposto del co. 1 sfuma la portata precettiva della disposizione nei termini che abbiamo appena esaminato. Il contenuto e la natura di questo presunto obbligo, o dovere, devono essere a mio avviso valutati combinando la lettura del co. 1 con quella del co. 2 dello stesso articolo 8, nonché con quella dell’intero art. 9 (Accesso alle banche dati), che è disposizione contenuta non più nel Capo

che, in luogo del TAEG, siano indicati il “tasso di interesse annuo e il dettaglio analitico degli oneri applicabili dal momento della conclusione del contratto, nonché le condizioni che possono determinare la modifica durante l’esecuzione del contratto…”

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II ma nel Capo III ma che ugualmente va raccordata, per le ragioni che ora illustrerò, con quella precedente. Il co. 2 dell’art. 8 pone in capo al creditore da un lato, l’obbligo di aggiornare le informazioni finanziarie di cui dispone riguardo al consumatore, ogni qualvolta le parti abbiano deciso di modificare l’importo totale del credito dopo la conclusione del contratto; dall’altro, di valutare il merito creditizio del medesimo “prima di procedere ad un aumento significativo dell’importo totale del credito”. L’art. 9, invece, dopo aver disposto al co. 1 la libertà di accesso dei creditori degli altri Stati membri alle banche dati utilizzate nel proprio territorio, stabilisce al suo co. 2 che, se l’accesso ad una di queste banche dati abbia dato origine al rifiuto di concedere credito, spetti al creditore di informare immediatamente e gratuitamente il richiedente del risultato della consultazione presso la banca dati, comunicandogli altresì gli estremi della banca dati consultata. Ora, a me sembra che il co. 1 dell’art. 8 né imponga un obbligo di verifica del merito creditizio (che ogni ordinamento prevede già puntualmente ed espressamente o quale espressione concreta del precetto di gestione sana e prudente) né imponga che esso debba avvenire previa una necessaria consultazione di una banca dati (prioritaria essendo la valutazione sulla base delle informazioni fornite dal richiedente il credito), ma imponga solo un dovere, in capo al creditore, di controllare diligentemente la qualità dei dati posti a fondamento della propria decisione di rifiutare la domanda di credito, in particolar modo quella componente dell’adeguatezza 26 che è l’essere esse aggiornate. Meglio ancora: considerando che la consultazione di una banca dati può condurre sia al rifiuto della domanda di credito sia alla concessione ma a condizioni più gravose di quelle originariamente prospettate, e considerando altresì che l’articolo 9, co. 2, si riferisce solo all’ipotesi di rifiuto, tenderei a circoscrivere la portata precettiva della Direttiva, in merito a questo aspetto, ai due soli seguenti profili: a) la valutazione del merito creditizio è sì atto discrezionale ma non fino al punto di legittimare scelte arbitrarie ed immotivate: dette scelte, in particolare, dovranno riflettere le informazioni adeguate poste alla base delle stesse, inibendo la concessione di credito ogni qualvolta adeguate informazioni depongano

26 Adeguate sono, in via generale ed ispirandoci al dettato dell’art. 11 del d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196, le informazioni trattate in modo lecito e secondo correttezza; esatte e aggiornate; pertinenti, complete e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattate.

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nel senso della scarsa capacità restitutiva del consumatore, non nel senso di imporre la concessione di credito, però, quando esse depongano nel senso di un alto merito creditizio; b) se il rifiuto della domanda di credito si sarà basato sui risultati di una consultazione di una banca dati, il creditore dovrà esplicitare al consumatore tale ragione e dovrà indicargli gli estremi della banca dati consultata. Sulla base di ciò mi sembra, per rispondere così agli interrogativi sollevati dalla dottrina che per prima ha affrontato la materia 27, che: a) la concessione di credito che non sia stata preceduta da una valutazione del merito creditizio non costituisca fonte di responsabilità alcuna (di tipo civilistico) in capo al creditore. Se questi rivestirà la natura di banca o d’intermediario finanziario, il suo eventuale reiterato comportamento si porrà in contrasto con il canone di sana e prudente gestione, potendo essere sanzionato dalla Banca d’Italia; b) conclusioni analoghe dovranno dirsi per il caso di una verifica del merito creditizio conclusasi negativamente ma ugualmente seguita dalla concessione di credito: di ciò il creditore imputet sibi. Non mi pare neppure configurabile un caso di “pratica commerciale sleale”, nemmeno quando venga accertata la attitudine del comportamento del creditore, di “falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore” (art. 20, co. 2, cod. cons.) e ciò perché nessuno potrà conoscere la capacità di rimborso del consumatore meglio dello stesso. È esclusa in radice, dunque, l’idoneità concreta di incisione determinante sulle scelte economiche del consumatore; c) costituirà, invece, una probabile fattispecie di responsabilità precontrattuale per rottura ingiustificata dalle trattative quello del rifiuto di concedere credito espressamente ed esclusivamente motivata da rilievi sul merito creditizio fondati su informazioni inadeguate.

8. Le conseguenze della violazione degli obblighi posti in capo al creditore. Come già anticipato, nulla dispone la Direttiva sul punto delle conseguenze della violazione degli obblighi ivi sanciti se non imporre agli Stati membri di stabilire “le norme relative alle sanzioni applicabili in

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G. De Cristofaro, La nuova disciplina, cit., 274.

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caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate a norma della presente direttiva” e prendere “tutti i provvedimenti necessari per garantirne l’attuazione”, aggiungendo poi che “Le sanzioni previste devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive” (art. 23). Se la disciplina risultante dal recepimento della Direttiva verrà collocata, come riterrei corretto fare, all’interno del t.u.b., troverà ad accoglierla un sistema che si caratterizza per la sua inderogabilità (se non in melius per il consumatore: art. 127, co. 1, d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385), che prevede alcune ipotesi di nullità del contratto ma che nulla dispone in ordine alla violazione degli obblighi informativi precontrattuali. La linea di tendenza, dopo le note decisioni delle SS. UU. della Cassazione nn. 26724 e 26725 del 19 dicembre 2007 28, è nel senso di riconoscere valenza puramente risarcitoria alle violazioni di regole di comportamento (ferma la possibilità che si traducano anche in vizi del consenso, in tal modo legittimando l’esercizio dell’azione di annullamento del contratto), tali essendo di certo quelle attraverso le quali si dispongono obblighi di informazione precontrattuale o, comunque, regole di comportamento precontrattuale. Invero, nulla ci autorizza, ad oggi, ad attribuire carattere imperativoproibitivo ai precetti contenuti negli artt. 5 e 6: né una formulazione letterale che declini quei precetti (non tanto in chiave di regola di comportamento precontrattuale quanto) in termini di divieto di concludere il contratto in assenza delle prescritte informazioni, ossia di schietta ed inderogabile proibitività 29; né una contiguità o una riferibilità ad una previsione di nullità testuale. Molto più semplice è, invece, il trattamento della violazione degli obblighi informativi contrattuali, cui si ritiene discenda il diritto di chiedere l’adempimento dell’obbligo, il risarcimento del danno o, se del caso, la risoluzione del contratto.

Pubblicate in: n. 26724 in Giur. comm., 2008, 604: n. 2672 in Giur. comm., 2008/2, 344; Giust. civ., 2008, 2775. 29 Va ricordato però che la violazione di un divieto di concludere il contratto ben si può conciliare con un trattamento invalidatorio di tipo diverso da quello della nullità, come ci insegnano i casi di annullabilità del contratto per dolo e per violenza morale. 28

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9. Conclusioni e rilievi critici. Da quanto detto fin qui possiamo trarre le seguenti conclusioni: a) la Direttiva tratta l’aspetto della conoscenza del consumatore avendo riguardo sia all’impatto che l’irrobustimento della stessa può avere sul mercato, rendendolo più competitivo attraverso l’accrescimento della possibilità dei consumatori di paragonare le offerte (Considerando n. 18 e art. 4); sia all’impatto che essa può avere sulla consapevolezza della singola scelta negoziale (Considerando n. 19 e artt. 5 e 6). Se ciò è vero, essa contiene sia una disciplina dell’attività d’impresa (art. 4); sia una disciplina della contrattazione (artt. 5 e 6). Prevalente mi pare, però, il fine di tutelare la parte debole del rapporto, seppure in un contesto di dichiarata attenzione verso la possibilità che la disciplina privatistica funga altresì da stimolo alla concorrenza tra i vari operatori di questo segmento del mercato creditizio. Ricavo tale prevalenza di finalità dal fatto che tale normativa, sia che vada a collocarsi nel codice al consumo sia che finisca all’interno del d. lgs. 385/93, vedrà garantita la sua imperatività da una nullità dei patti in contrasto con essa meramente relativa, non già assoluta. La relatività della nullità ci lascia supporre che l’interesse del legislatore sia più proteggere che dirigere o organizzare il mercato. Il che non significa che un corpo disciplinare non possa proteggere e, nel contempo, irrobustire la competitività di un mercato; b) se prendiamo in considerazione il trattamento fatto dal legislatore alla conoscenza quale mezzo di rafforzamento (non solo della consapevolezza del consumatore ma anche) della competitività del mercato del credito al consumo, ci accorgiamo di come il legislatore abbia puntato ad accrescere il gioco concorrenziale più sui profili di costo dell’operazione che su quelli disciplinari della stessa: ne è un indizio la portata quasi esclusiva, tra le informazioni pubblicitarie da fornire ex art. 4, delle componenti di costo economico dell’operazione. Se così è e se riflettiamo sul fatto che Banca d’Italia, a partire dal provvedimento del dicembre 1994 reso nella sua qualità di Autorità antitrust 30, ha assegnato effetti positivi alla standardizzazione della parte disciplinare del contenuto dei contratti bancari, servendo essa a stimolare l’attenzione sulla sola parte economica (momento su cui sollecitare il gioco concorrenziale), si potrebbe prendere in conside-

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Pubblicato in Dir. banc., 1995, 85.

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razione l’utilità di una riflessione sull’attribuzione all’Autorità che vigilerà sull’attività di credito al consumo – se consentito, alla luce degli strettissimi margini operativi lasciati al legislatore nazionale da quello comunitario – di un potere connotativo simile a quello conferito alla Banca d’Italia dall’art. 118, co. 8, t.u.b. quanto ai titoli ed ai contratti bancari. Penso, dunque, non già alla possibilità di una sorta di amministrativizzazione del contenuto disciplinare del contratto di credito al consumo quanto ad una modulazione “coatta” di quella parte del contenuto all’interno di una rosa di ipotesi predeterminate dall’Autorità e facenti leva su diversi livelli di tutela del creditore (da massimo a minimo); a tali ipotesi dovrebbe essere associato un nome evocativo del grado di tutela. L’utilizzo, da parte del concedente il credito, di uno di quei nomi per veicolare un contenuto disciplinare diverso da quello associatovi, dovrebbe essere considerata causa di nullità del contratto. Vi sarebbe di certo una parziale compressione dell’autonomia contrattuale ma l’asimmetria informativa verrebbe colmata in modo, a mio avviso, molto efficace salvaguardando nel contempo in modo apprezzabile ampi spazi (alludo alla parte economica del contratto) di libertà di competere; c) se prendiamo in considerazione, invece, l’informazione come mezzo di procacciamento della conoscenza, e quest’ultima come il presupposto di scelte individuali consapevoli e razionali, dall’esame di quanto è stato fatto oggetto di un obbligo di informazione, ne traiamo la convinzione che il legislatore abbia individuato l’area di maggiore asimmetria informativa nel regolamento contrattuale, da intendersi come quello derivante strettamente ex contractu ma, anche, ex lege. Ne è prova quanto abbiamo già detto in precedenza. L’enfasi sul regolamento contrattuale quale oggetto di obblighi informativi in capo al creditore tradisce la convinzione del legislatore comunitario: i) che esso (regolamento) sia un fatto di pertinenza del creditore e per tale ragione esso debba essere divulgato alla controparte; ii) che il fatto che il contratto discenda da un accordo non sia garanzia sufficiente dell’acquisizione consapevole, da parte del consumatore, del contenuto regolamentare dell’accordo stesso, rendendosi necessaria, pertanto, una piena cooperazione informativa del creditore. Ciò che era tradizionalmente oggetto di un onere viene ora a diventare il contenuto di un obbligo. L’obbligo d’informazione precontrattuale conquista così parte del territorio dell’onere di partecipazione della volontà contrattuale e, dunque, della fase di formazione del contratto; d) è molto blanda la disciplina relativa alle modalità espressive di tale generale obbligo informativo. Molto evidente è, ad esempio, la

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mancata previsione di una clausola generale di “chiarezza e comprensibilità” o di “chiarezza e completezza” o di “adeguatezza” dell’informazione o altra simile (all’art. 10 si usa la formula “in modo chiaro e conciso”) a quelle ora citate. Si sottrae al rilievo critico ora formulato la disciplina dell’obbligo di informazione in ordine al TAEG. In linea con l’approccio tradizionale sul punto, anche questa volta il legislatore non si è limitato a prescrivere l’obbligo di comunicare il TAEG, imponendo che esso venga altresì illustrato mediante un esempio (art. 5, co. 1, lett. g, da leggersi in connessione con quanto affermato al Considerando n. 19); e) quanto alla tipologia delle informazioni da fornire, rilevo che l’ipertrofica considerazione degli obblighi informativi aventi ad oggetto il regolamento contrattuale finisce, giocoforza, per lasciare scoperto il fronte dei fatti e delle circostanze che, tanto quanto il regolamento contrattuale, potrebbero – se conosciute – irrobustire la scelta negoziale del consumatore. Mi riferisco, in particolare, alla palese sottovalutazione dei dati attinenti alle caratteristiche (ad es.: di moralità professionale; di limpidezza e correttezza del comportamento ecc.) del creditore, ossia a tutto ciò che forma la sua reputazione di affidabilità. Il silenzio sul punto (ossia: l’assenza di obblighi informativi aventi per oggetto tali o simili fatti storici) è grave: stiamo assistendo in questi anni alla più grave perdita di fiducia verso gli intermediari finanziari. La possibilità di conoscere il modo “storico” dell’intermediario di relazionarsi con la propria clientela sarebbe un dato fondamentale per la decisione del consumatore. Esso dovrebbe essere reso in chiave di doverosità, non già di libertà. Solo in tal modo quel dato potrebbe entrare in gioco quale componente della comparazione delle varie offerte; f) manca la previsione di un “legame” tra le informazioni che il creditore ha reso in fase precontrattuale ai sensi degli artt. 5 o 6 e quelle che devono essere inserite nei contratti di credito ai sensi dell’art. 10. Non vi è alcuna garanzia, allora, che tali ultime informazioni non siano diverse (e peggiorative per il cliente) di quelle fornitegli in fase precontrattuale. Nel diritto italiano vigente, alle operazioni di credito al consumo si applica il codice del consumo per quanto riguarda i seguenti aspetti: i) l’individuazione del soggetto competente (il CICR) ad adeguare la normativa nazionale alla direttiva 98/7/CE (art. 40); ii) la determinazione dei poteri del CICR di apportare modifiche alla precedente disciplina ministeriale in materia di TAEG (art. 41); iii) le possibilità, in capo al consumatore, di agire contro il finanziatore nel caso di inadempimento del fornitore del bene o del servizio (art. 42).

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Ai sensi dell’art. 43, la restante disciplina del credito al consumo andrà recepita dal d. lgs. 385/93. Troverà dunque applicazione l’art. 116 t.u.b. (Pubblicità) ma l’art. 124 t.u.b. (Contratti) non riproduce né richiama la previsione contenuta nell’art. 117 (Contratti), co. 6, t.u.b. secondo cui “Sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali…che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati”. Il considerando n. 25 afferma che “Gli Stati membri possono disciplinare l’eventuale carattere vincolante delle informazioni fornite al consumatore prima della conclusione del contratto di credito ed il periodo durante il quale il creditore è vincolato”. Se il legislatore italiano non regolerà questo aspetto, il cliente potrà vedersi sottoposta una proposta contrattuale diversa e più svantaggiosa da quella illustratagli in sede di trattativa. g) Andrebbe regolata con grande attenzione la facoltà del creditore di fornire al consumatore informazioni aggiuntive. Quando l’informazione fuoriesce dall’ambito della doverosità per entrare in quello della libertà tende giocoforza ad assumere connotati latamente promozionali perché quella parte di flusso informativo tenderà a richiamare l’attenzione del consumatore sui soli pregi e sulle sole qualità dell’offerta creditizia, rimanendo inevitabilmente silente sui limiti della stessa.

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Law & Economics dei c.d. “Fondi Sovrani” d’investimento nell’ordinamento comunitario e nazionale. Sommario: 1. La figura soggettiva rilevante dal punto di vista giuridico. – 1.1. …segue: il carattere della “sovranità”. – 1.2. …segue: la qualificazione dei “Fondi Sovrani” nell’ambito dell’ordinamento finanziario. – 2. Gli impieghi dei “Fondi Sovrani” e reazioni (neo)protezionistiche verso i liberi movimenti di capitali. 2.1. …segue: il rilievo giuridico degli “interessi nazionali” alla luce delle disposizioni del Trattato CE e di alcune previsioni antitrust. – 3. Strumenti di “regolamentazione indiretta” ai sensi delle disposizioni nazionali in tema di acquisto di partecipazioni societarie. – 3.1. …segue: l’acquisto di partecipazioni in imprese operanti nel settore finanziario.

1. La figura soggettiva rilevante dal punto di vista giuridico. Sempre maggiore è l’attenzione da qualche tempo rivolta alle questioni politiche, giuridiche e finanziare sollevate dall’“avvento”, ma meglio sarebbe dire dalla crescente importanza, nello scenario internazionale dei c.d. “Fondi di ricchezza sovrani” (“Sovereign Wealth Funds”), ovvero “Fondi Sovrani” d’investimento, entrati nel novero dei principali investitori in attività e strumenti finanziari a livello globale 1. Nonostante

1 Secondo alcune stime il valore degli attivi gestiti (asset under management) dai 15 principali “Fondi sovrani” rappresenta circa il doppio di quello gestito da hedge funds, ma “solo” un settimo di quello gestito da fondi d’investimento, un sesto di quello gestito da fondi pensione e circa la metà di quello delle “riserve ufficiali” a livello globale: cfr. Economiesuisse, I fondi sovrani - Sovereign Wealth Funds (SWF), Dossier politica, n. 8 del 7 maggio 2008, p. 1 s.; Fondo Monetario Internazionale, Sovereign Wealth Funds - A Work Agenda, approved by Allen and Caruna, 29 febbraio 2008, p. 6; Banca Centrale Europea, Financial Stability Review, Dicembre 2007, p. 21 s.; Johnson, The Rise of Sovereign Wealth Funds, in Finance and Development, Quarterly Magazine del Fondo Monetario Internazionale, Vol. 44, n. 3.

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la mancanza di dati ufficiali, il valore delle attività complessivamente gestite (asset under management) da “Fondi Sovrani” avrebbe superato i 3 trilioni di dollari e circa “tre quarti del totale di tali attività sarebbero gestiti da fondi facenti capo a soli cinque paesi (Emirati Arabi, Norvegia, Singapore, Kuwait e Cina)” 2. Inoltre, le risorse gestite dai “Fondi Sovrani” sono stimate in costante e considerevole crescita (ad esempio, secondo alcune stime “tra sette otto anni i fondi sovrani varranno quanto l’intera Wall Street” 3, i.e. quanto l’indice S&P500 sulla Borsa di Wall Street), sicché le scelte d’investimento da questi operate sono destinate ad assumere sempre maggiore rilievo nelle dinamiche dei mercati finanziari globali 4. Il fenomeno, tuttavia, non è a ben vedere del tutto nuovo: basti pensare che due dei maggiori “Fondi Sovrani” attualmente operativi sono stati, in realtà, istituiti già più di 25 anni orsono 5. Al riguardo appare subito necessario evidenziare che la modernamente invalsa espressione “Fondo Sovrano” risulta priva – quanto meno prima facie – di un preciso valore nozionale idoneo a consentirne una precisa ed agevole sistemazione sul piano giuridico, essendo piuttosto riassuntiva di una multiforme realtà fenomenica, non solo dal punto di vista giuridico ma anche di quello economico-finanziario. Ciò premesso, l’espressione “Fondo Sovrano”, non altrimenti circostanziata, rappresenta un’utile “sintesi verbale” generalmente utilizzata per indicare le variegate, e per certi versi innovative, figure di “veicoli d’investimento” sempre più diffusamente istituiti da parte dei governi di alcuni dei paesi con un significativo surplus della bilancia dei pagamenti, essenzialmente al fine di provvedere ad una più efficiente (rectius più remunerativa) gestione di parte delle risorse

2 Cfr. Banca d’Italia, Relazione Annuale, 31 maggio 2008, Roma, p. 30; Ifsl, Sovereign Wealth Funds 2008, a cura di M. Maslakovic, Aprile 2008, p. 1 ss. 3 Siniscalco, Governi alle porte. Crisi del credito e fondi sovrani, in Mercato Concorrenza Regole, n. 1/2008, pp. 81 e 84. 4 Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America, Report to Congress on International Economic and Exchange Rate Policies, 2007, Appendice 3, p. 3. Secondo le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale entro l’anno 2012 il valore complessivo delle attività sull’estero gestite da Autorità monetarie e governative potrebbe arrivare a circa $ 12.000 miliardi, Fondo Monetario Internazionale, Global Financial Stability Report - Financial Market Turbulence: Causes, Consequences, and Policies, Ottobre 2007, p. 45; State Street, Sovereign Wealth Funds, Assessing the Impact, Vol. III, Issue 2, 2008, p. 23 ss. 5 La Government of Singapore Investment Corporation Pte Ltd (GIC) è stata istituita nel 1981, mentre l’ADIA (Abu Dhabi Investment Authority) già dal 1976.

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rivenienti dal rapido e considerevole accumulo di attività in valuta estera da parte del settore pubblico degli stessi paesi  6 (accumulo che soprattutto da parte di alcune economie asiatiche ed esportatrici di petrolio “prosegue da vari anni a ritmi senza precedenti” 7). In particolare, secondo quanto autorevolmente rilevato 8, il crescente sviluppo del fenomeno dei “Fondi Sovrani” deriverebbe proprio dall’accumulazione da parte dei suddetti paesi di un ammontare di attività in valuta estera significativamente e stabilmente in eccesso rispetto a quello ritenuto adeguato per realizzare eventuali interventi sul mercato dei cambi e/o legati all’andamento della bilancia dei pagamenti da parte delle rispettive Autorità monetarie 9. Considerato che la detenzione di “riserve ufficiali” da parte delle Autorità monetarie di un paese presenta dei costi legati all’esigenza di dover impiegare tali riserve esclusivamente in attività, in larga parte titoli di stato, con elevati requisiti di liquidità e sicurezza (e quindi penalizzate, ad esempio, dal punto di vista dei rendimenti 10), si evidenzia, infatti, che laddove un paese “abbia accumulato risorse al di sopra di quelle che possono essere quantificate come necessarie a far fronte ai bisogni di breve termine, le autorità governative possono decidere di gestire separatamente le cosiddette “riserve in ec-

Cfr. Fondo Monetario Internazionale, Global Financial Stability Report, cit., p. 45. Mohanty e Turner, Accumulo di riserve valutarie nei mercati emergenti: implicazioni sul piano interno, in Rassegna trimestrale BRI, Settembre 2006, p. 43; Banca Centrale Europea, Rapporto Annuale, 2007, p. 178. Secondo alcune rilevazioni, “la crescita delle riserve è stata particolarmente significativa in Cina, le cui attività in valuta estera hanno superato di gran lunga i 1000 miliardi di dollari statunitensi”, Banca Centrale Europea, Rapporto Annuale, 2007, p. 178. 8 Cfr. Banca Centrale Europea, Rapporto Annuale, cit., p. 178; Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America, Report to Congress, cit., p. 1. 9 Tipicamente, in caso di avanzo della bilancia dei pagamenti, l’accumulo di riserve può servire a contrastare o ritardare l’apprezzamento della valuta nazionale; mentre in situazioni di disavanzo le riserve ufficiali in valuta estera possono essere impiegate sul mercato per contenere le spinte al ribasso sul tasso di cambio, sul punto cfr. Santini, Banca Centrale Europea, in Enc. Scienze. Soc. Treccani, IX, 2001, p. 19; Banca d’Italia, Relazione Annuale, 31 maggio 2008, Roma, p. 30. Secondo alcune stime i paesi asiatici ed esportatori di petrolio emergenti deterrebbero un ammontare di attività di riserva in valuta estera in “eccesso” pari nel suo complesso a circa il 60% (circa 3.000 miliardi di dollari) delle attività di riserva stesse, cfr. Banca Centrale Europea, The Impact of Sovereign Wealth Funds on Global Financial Markets, (a cura di Beck e Fidora), Occasional Paper, n. 91/2008, p. 14. 10 Banca Centrale Europea, Review of the international role of the euro, Giugno 2007, p. 43. 6 7

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cesso”, facendole confluire”, ad esempio, in “Fondi Sovrani”  11. Sicché, in definitiva, questi ultimi possono essere considerati come uno strumento giuridico–istituzionale funzionale alla gestione, anche attraverso impieghi relativamente più rischiosi e/o meno liquidi rispetto a quelli tipici delle “riserve ufficiali” di un paese, di parte delle attività in valuta estera accumulate in eccesso rispetto a quelle necessarie per esigenze di politica del cambio mercato e/o legati all’andamento della bilancia dei pagamenti, al fine di conseguire dalle stesse maggiori rendimenti nonché perseguire una più ampia gamma d’interessi pubblici (come indicato di seguito al par. 2.1). Ne consegue che, come evidenziato, il recente sviluppo dei “Fondi Sovrani” rappresenta in sostanza uno dei prodotti dei rilevanti squilibri macroeconomici globali ed in particolare degli ampi squilibri nelle posizioni di parte corrente delle bilance dei pagamenti a livello mondiale 12, squilibri che in estrema sintesi “derivano dal fatto che l’Asia consuma troppo poco, che gli Stati Uniti consumano troppo e risparmiano troppo poco, che l’Europa non investe abbastanza. Il tutto variamente determinato da variabili economiche e demografiche” 13. 1.1. …segue : il carattere della “sovranità”. Dalle considerazioni sopra svolte emerge che, al fine di individuare degli indici utili a stabilire se l’espressione “Fondo Sovrano” abbia un utile valore nozionale di rilievo giuridico, particolare importanza debba essere ascritta al carattere della “sovranità”, ed alle relative implicazioni nel processo d’imputazione di atti, fatti, effetti e risultati giuridicamente rilevanti. Premesso che nel contesto in esame il termine “Fondo” vale ad identificare genericamente un veicolo per la gestione di un insieme di attività sull’estero, titoli e non, denominate (tipicamente) in valuta diversa da quella del paese di riferimento, l’aggettivo “sovrano” (o meglio, governativo) sembra, infatti, attribuire a tale insieme di attività un’ulteriore e specifica qualificazione, idonea in particolare a distinguerlo anche dal punto di vista giuridico da altre figure simili, quali ad esempio le “riserve

ISAE, Ruolo e prospettive dei fondi sovrani, in Nota mensile, Novembre-Dicembre 2007, p. iii). 12 Bank of England, Sovereign wealth funds and global imbalances, Quarterly Bulletin, 2008 Q2, p. 196 ss. 13 Siniscalco, Governi alle porte, cit., p. 80. 11

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ufficiali” in valuta estera del paese stesso. Il carattere della “sovranità” si manifesta ad esempio: i) nella fase di creazione della “provvista” (un “Fondo Sovrano” gestisce, di norma, risorse pubbliche che il governo del paese “sponsor” decide liberamente, in sede politica, di “conferire” al “Fondo”, distogliendole magari da quelle altrimenti a disposizione delle relative Autorità monetarie o dei fondi pensionistici pubblici); ii) nella fase di gestione del “Fondo” (le scelte strategiche d’investimento e di “asset allocation” sono influenzate direttamente o indirettamente dal potere politico-governativo del paese “sponsor”, libero in quanto tale nella scelta dei fini pubblici da perseguire e del profilo rischio/rendimento desiderato); iii) nella fase d’impiego dei proventi degli investimenti effettuati dal “Fondo” (i quali sono destinati al soddisfacimento dei diversi fini ed interessi pubblici perseguiti dal paese “sponsor”, secondo quanto definito nella c.d. “spending rule” o “fiscal rule” 14 del “Fondo” stesso). In ultima analisi ciò che appare contraddistinguere i “Fondi Sovrani” da altri veicoli d’investimento e investitori istituzionali sarebbe, come rilevato anche dalla Commissione Europea 15, proprio la circostanza che questi gestiscono per conto, ovvero nell’esclusivo o preminente interesse, dei paesi di riferimento (sponsor countries) un insieme di risorse e attività ad essi conferiti da parte dei governi dei paesi stessi 16, secondo linee d’indirizzo definite da questi ultimi, al fine del perseguimento di una variegata gamma d’interessi pubblici diversi da quelli direttamente collegati alla conduzione della politica monetaria e del cambio, alla “regolazione” degli squilibri della bilancia dei pagamenti o all’amministrazione di fondi pensionistici pubblici. Risulta in particolare

State Street, Sovereign Wealth Funds, cit., p. 18. Cfr. Commissione Europea, Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, “A common European approach to Sovereign Wealth Funds”, COM (2008) 115 final, del 27.2.2008, par. 2.1. 16 Con riferimento a tale aspetto è stato rilevato che un “Fondo Sovrano” è ben diverso da un tradizionale fondo d’investimento e debba piuttosto esser riguardato come “un patrimonio di natura “pubblica” in quanto posseduto da uno stato (da cui il termine Sovereign), alimentato non già da sottoscrittori ma dagli esuberi di bilancio, dalle riserve valutarie della banca centrale, da altri averi facenti capo ad enti pubblici, come quelli che presiedono allo sfruttamento ed all’esportazione di materie prime, petrolio, ecc., oppure talvolta dagli assets di fondi pensione pubblici. Il Sovereign Fund effettua investimenti come una qualunque istituzione finanziaria internazionale, ma con un’ottica un po’ speciale”, Associazione Svizzera dei Gestori di Patrimoni, Sovereign Funds, in Corriere del Ticino del 03.01.2008, p. 2. 14

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che un “Fondo Sovrano” non è per sua natura costituito e gestito in modo del tutto autonomo da Autorità o soggetti in posizione di piena indipendenza dal potere politico-amministrativo del relativo Paese, anzi la sua costituzione e amministrazione sono di norma disciplinate da leggi speciali e/o appositi atti e provvedimenti amministrativi e la sua attività è sottoposta, più o meno direttamente, ai poteri d’indirizzo del governo o comunque a forme d’influenza o dominanza pubblica. Al riguardo, dalla prima indagine condotta su base volontaria tra i membri dall’International Working Group of Sovereign Wealth Funds (IWG) – quale analisi di supporto al fine dell’adozione un insieme di best practices e principi di self-regulation per i “Fondi Sovrani” (i.e. “Generally Accepted Practices and Principles” – GAPP) – è emerso che la forma giuridica e la base legale dei relativi “Fondi Sovrani” varia da paese a paese. Ciò posto, nel 50% dei casi è stato indicato che i “Fondi Sovrani” sono stati costituiti quali soggetti giuridici separati dallo Stato o dalla banca centrale nazionale, con personalità giuridica propria attribuita dalle specifiche leggi istitutive oppure ai sensi delle disposizioni del diritto societario nazionale relative alle società private, mentre nel restante 50% dei casi è stato evidenziato che questi rappresentano essenzialmente dei “patrimoni separati” 17 (“pool of assets”) di norma “controllati” dal Ministero delle Finanze del paese “sponsor” e gestiti a livello operativo dalla relativa banca centrale o da un’agenzia statale sulla base di un “management agreement” (anche la maggior parte di questa seconda categoria di “Fondi Sovrani” risulta essere stata costituita ai sensi di apposite leggi istitutive, tuttavia alcuni di essi sono stati costituiti ai sensi delle disposizioni sul bilancio dello Stato ovvero di quelle relative allo status e al funzionamento della banca centrale nazionale) 18.

17 Nel richiamare un aspetto caratteristico delle operazioni di cartolarizzazione, con l’espressione “patrimonio separato” si fa anche qui riferimento ad “un fenomeno di distacco di una massa patrimoniale da un patrimonio originario o comunque di enucleazione all’interno di un patrimonio di un coacervo di rapporti. Tale massa o coacervo di rapporti costituisce una unità particolare, dotata di propria destinazione e di una sorte giuridica che è più o meno indipendente da quella della massa di provenienza e più strettamente connessa con la destinazione impressale. In concreto la qualificazione di una massa di beni quale patrimonio separato discende dal riscontro della riferibilità ad essa di un regime [giuridico] particolare e diverso rispetto a quello applicabile al patrimonio generale dal quale la massa è distaccata”, Troiano, Le operazioni di cartolarizzazione, Padova, 2003, p. 133 s. 18 International Working Group of Sovereign Wealth Funds (IWG), Sovereign Wealth Funds, Current Institutional and Operational Practices, prepared by the IWG Secretariat

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Ne risulta una cornice ordinamentale alla luce della quale, sotto taluni profili, i “Fondi Sovrani” possono essere sostanzialmente qualificati come una particolare figura soggettiva 19 utilizzata per l’esercizio del “potere monetario” nell’era dei mercati finanziari globalizzati, figura tra l’altro caratterizzata dal fatto che l’insieme di attività “di pertinenza” di questo particolare “veicolo d’investimento” pubblico costituisce un complesso giuridicamente unificato d’interessi e di rapporti che s’imputano (eventualmente anche solo dal punto di vista dei risultati) al relativo Stato (persona) per il tramite dei suoi apparati amministrativi o di figure soggettive diverse dalle relative Autorità monetarie (nonché dagli enti preposti alla gestione dei fondi pensionistici pubblici). Si può così giungere a ritenere che un “Fondo Sovrano” ben potrebbe essere considerato – a seconda dei casi – come un particolare e innovativo tipo di “organo” dello Stato ovvero di ente pubblico ausiliario o strumentale, a seconda del grado di autarchia/autonomia organizzatoria in concreto conferita per la cura degli interessi pubblici rilevanti, aspetti questi che rinviano ai modelli organizzativi conosciuti nell’ambito della nostra pubblica amministrazione che contemplano sia le ipotesi degli “organi dello Stato dotati di personalità giuridica”, degli organi–impresa, della titolarità di un organo dello Stato da parte di una persona giuridica, sia il fenomeno degli enti “parastatali” e della “privatizzazione” (a volte solo formale) degli enti pubblici economici. Proprio l’aspetto (rectius il rischio) della possibile dominanza, direzione o influenza pubblica sui “Fondi Sovrani” – e quindi di riflesso il “timore” di strumentalizzazione a fini politici (e non invece meramente economici e commerciali) delle loro scelte d’investimento e di asset allocation da parte dei governi che li hanno istituiti (o le cui “attività in valuta estera” sono da questi gestiti) – risulta essere alla base dell’acceso dibattito sviluppatosi in ambito internazionale con riferimento alla crescente importanza di tali “veicoli d’investimento” (dei) sovrani nelle dinamiche dell’economia globale e alle possibili misure preannunciate

in collaboration with the Members of the IWG, 15 Settembre 2008, p. 5. 19 Avendo riguardo alla “dose di soggettività che l’ordinamento conferisce o riconosce ad una struttura organizzativa pubblica”, dal punto di vista giuridico per “figura soggettiva” s’intende un “centro di riferimento per imputazioni di atti, effetti o risultati giuridicamente rilevanti”. In particolare, la figura soggettiva “è il risultato di una qualificazione operata dalla norma di organizzazione, che riconosce o conferisce ad una struttura organizzatoria l’attitudine a divenire centro di una specifica imputazione giuridica”: B. Cavallo, Teoria e prassi della pubblica amministrazione, Milano, 2005, p. 99 s.

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in diversi ordinamenti per limitarne o regolamentarne l’operatività, per motivi di “ordine pubblico economico” o al fine di difendere i c.d. “interessi nazionali”. Come rilevato al riguardo anche da parte delle istituzioni comunitarie, in diversi Stati Membri (attuali o potenziali) destinatari degli investimenti dei “Fondi Sovrani” si ritiene, ad esempio, che debbano essere evitati i rischi connessi al fatto che le policies d’investimento e l’attività di questi ultimi possano risultare influenzate/distorte da finalità di natura strettamente “politica” o “strategica”, dovendo invece essere assicurata (anche attraverso eventuali strumenti di supervision e di enforcement) la loro compatibilità con principi e obiettivi di economicità ed efficienza nonché di equa concorrenza tra tali organismi (di indubbia promanazione pubblica) e gli investitori privati 20. Ne consegue che, per quanto riguarda la valutazione degli effetti e delle implicazioni del fenomeno dei “Fondi Sovrani” a livello di “mercato comune” e di “unione economica e monetaria”, e al fine della definizione di eventuali misure di regolamentazione dello stesso, utili riferimenti potrebbero essere ad esempio tratti, mutatis mutandis, dai principi e istituti giuridici già elaborati nell’ambito dell’ordinamento comunitario per tutelare il libero funzionamento dei meccanismi allocativi del mercato (ossia il modello di “economia di mercato aperta e in libera concorrenza” previsto dall’art. 4 Trattato CE) da possibili interventi distorsivi da parte dei pubblici poteri, ascrivibili in questo caso al possibile perseguimento da parte di uno “Stato imprenditore” (straniero) di finalità squisitamente politiche o extraeconomiche attraverso lo strumento dei “Fondi Sovrani”. Ad esempio, in caso di operazioni di acquisto di partecipazioni in imprese, al fine di valutare alla luce dell’acquis comunitario se l’effettuazione delle operazioni stesse da parte di “Fondi Sovrani” sia ispirata, almeno in linea di principio, da obiettivi di massimizzazione del profitto (al pari di un qualsiasi investitore privato) oppure sia da ritenere essenzialmente influenzata da finalità di “nazionalizzazione cross-border”, di pubblico interesse o comunque da indicazioni a connotazione politica provenienti dai “poteri sovrani” dei relativi paesi (tipicamente extra-europei), si potrebbe fare tra l’altro riferimento, considerata l’affinità delle relative problematiche 21, al c.d. criterio dell’“investitore privato in un’economia

20 Cfr. Communication from the Commission […] “A common European approach to Sovereign Wealth Funds”, cit., par. 2.3. 21 Nonostante finora non siano state riscontrate significative market failures nel mercato dei capitali in relazione agli investimenti effettuati da “Fondi Sovrani” è stato evi-

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di mercato” (market economy private investor test) elaborato dalla Commissione Europea nel diverso ambito dell’enforcement delle disposizioni del Trattato CE in materia di “aiuti di stato” 22. 1.2. …segue: la qualificazione dei “Fondi Sovrani” nell’ambito dell’ordinamento finanziario. Per quanto riguarda la caratterizzazione in termini di “fondo” e le questioni attinenti alla più precisa qualificazione dei particolari “veicoli d’investimento” in esame nell’ambito dell’ordinamento comunitario e nazionale, si è dell’avviso che dal punto di vista giuridico e finanziario un “Fondo Sovrano” sia, in linea di principio, qualcosa di ben diverso da un vero e proprio “fondo”, rectius da un “organismo d’investimento collettivo” che ai sensi delle disposizioni comunitarie in materia può assumere, secondo quanto previsto nel diritto positivo degli Stati Membri, la forma contrattuale di “fondo comune d’investimento” 23 (gestito da

denziato che “è certo possibile che un fondo per motivi diversi sfrutti la disponibilità di risorse a fini distorsivi e realizzi ad esempio un aiuto di stato cross-border”, Siniscalco, Governi alle porte, cit., p. 84. 22 L’idea su cui si basa il criterio di valutazione in parola è che (nella logica della disciplina comunitaria sugli “aiuti di Stato”) quando lo “Stato” assume la veste d’imprenditore dovrebbe comportarsi, di norma, come un imprenditore privato. Ad esempio, secondo quanto osservato dalla stessa Commissione Europea, nel caso di partecipazione pubblica al capitale di un’impresa l’applicazione del test dell’“investitore privato in un’economia di mercato” mira a stabilire se tale partecipazione “sia mirata ad ottenere un profitto, e di conseguenza sia stata acquisita dallo Stato o da una holding pubblica alle stesse condizioni in cui l’avrebbe acquisita un investitore privato, o se invece sia ispirata da motivi di interesse pubblico generale, cosicché l’acquisizione deve essere considerata una forma di intervento dello Stato nella sua veste di autorità pubblica. In caso di conferimento di capitale pubblico in un’impresa, si deve valutare se un investitore privato agirebbe nello stesso modo. In particolare, la prova è soddisfatta laddove si possa prevedere che il capitale investito produrrà una normale remunerazione degli investimenti, sotto forma di dividendi o di plusvalenze di capitale” (Commissione UE, XXX Relazione sulla politica di concorrenza, 2000, p. 98, par. 304). Sebbene originariamente elaborato con riferimento alle imprese operanti nel settore manifatturiero tale criterio è stato poi uniformemente applicato dalla Commissione in tutti gli altri settori economici, per un’illustrazione dei principali leading cases in cui sono state coinvolte istituzioni creditizie si rinvia a Delfino, Credit Institutions and State Aids in EC Law, in Diritto bancario comunitario, a cura di Alpa e Capriglione, Torino, 2002, p. 473 ss. 23 Ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. j), del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (recante il “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria” – in seguito, t.u.f.) un “fondo comune di investimento” è un patrimonio autonomo, privo di personalità giuridica,

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una società di gestione) o di “trust” (c.d. “unit trust”) oppure la forma statutaria della “società di investimento” 24. In considerazione delle caratteristiche sopra evidenziate un “Fondo Sovrano” non appare, ad esempio, assimilabile ad “un patrimonio “privato” costituito da una banca o da un’altra istituzione finanziaria con il contributo di molti sottoscrittori, allo scopo di effettuare investimenti “ad hoc” sui mercati, ripartendo poi il risultato dell’impiego fra le varie quote parti sottoscritte” 25. Nell’ambito della cornice regolamentare comunitaria e nazionale in materia di servizi, attività, mercati e intermediari mobiliari e finanziari, le attività di gestione di “Fondi Sovrani” (siano essi costituiti quali “pool of assets” o quali soggetti dotati di personalità giuridica propria) appaiono piuttosto riconducibili – almeno in prima approssimazione e salva la verifica caso per caso delle caratteristiche dell’attività effettivamente svolta – a quelle esercitate dagli “intermediari finanziari” non bancari 26 (di cui al Titolo V del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 “Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia” – in seguito, t.u.b.), dalle “società finanziarie” (di cui all’art. 59, co. 1, lett. b), del t.u.b.) ovvero dalle “imprese d’investimento” (cfr. art. 4, co. 1, n. 1, della c.d.

suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti, gestito in monte (il patrimonio del fondo, sia aperto che chiuso, può essere raccolto mediante una o più emissioni di quote). Al riguardo, è stato sottolineato come detta nozione “conferisca rango legislativo alla locuzione (in vero anodina per i non addetti ai lavori) di “gestione in monte”, sostituendola a quella di gestione collettiva, ed utilizzi l’espressione atecnica di “pertinenza”, anziché quella di “proprietà”, con riferimento all’imputabilità del patrimonio collettivo ai partecipanti del fondo”: M. Sepe, Il risparmio gestito, Bari, 2000, p. 177 s. La determinazione dei criteri generali cui devono uniformarsi i fondi comuni di investimento nonché la definizione della disciplina di alcuni significativi aspetti dell’operatività dei fondi stessi sono stati invece devoluti, ai sensi degli artt. 36 e 37 del t.u.f., alla potestà regolamentare del Ministro dell’Economia e delle Finanze, della Banca d’Italia e della Consob, sul punto: cfr. F. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, Torino, 2004, p. 168. 24 Cfr. Direttiva del Consiglio 85/611/CEE, del 20 dicembre 1985 concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di taluni organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari (O.I.C.V.M.), in GUCE L 375 del 31.12.1985, p. 3. 25 Associazione Svizzera dei Gestori di Patrimoni, cit., p. 1. 26 Il riferimento qui volutamene operato alle attività e non ai soggetti deriva dalla confusione indotta dalla genericità della terminologia utilizzata dal legislatore al fine di individuare gli intermediari in parola, e quindi dall’evidenza secondo cui deve ritenersi “che sono intermediari finanziari esclusivamente i soggetti iscritti nell’elenco generale previsto dall’art. 106 del t.u.b. e che sia, almeno giuridicamente, errato l’utilizzo generico del termine volto a ricomprendere operatori diversi”, Criscuolo, Gli intermediari finanziari non bancari. Attività, regole e controlli, Bari, 2003, p. 82.

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direttiva “MiFID” 27 e art. 1, co. 1, lett. h), del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, “Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria” 28 – in seguito, t.u.f.). Considerata la tipica “localizzazione” dei principali “Fondi Sovrani”, giova al riguardo rilevare che l’esercizio nel territorio della Repubblica da parte di soggetti aventi sede legale all’estero delle particolari attività finanziarie (“assunzione di partecipazioni”, “concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, “prestazione di servizi di pagamento” e “intermediazione in cambi”) riservate agli “intermediari finanziari” non bancari iscritti nell’“elenco generale” di cui all’art. 106 del t.u.b. è disciplinato dal Ministro dell’economia e delle finanze, che si deve ritenere agisca in subjecta materia non nella sua veste di organo politico, bensì nella sua qualità di Autorità creditizia ai sensi dell’art. 3 del t.u.b. Tuttavia, le disposizioni di cui al Titolo V del t.u.b., e quindi anche la disciplina ministeriale per i soggetti esteri, non trovano applicazione per quei soggetti già sottoposti, in base alla legge, a forme di vigilanza sostanzialmente equivalenti sull’attività finanziaria svolta. Equivalenza che, ex art. 114 del t.u.b., viene valutata dallo stesso Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia. Ciò premesso, la gestione di un “Fondo Sovrano” appare in massima parte riconducibile nell’ambito dei “servizi e delle attività d’investimento” di cui all’Allegato I, Sezione A, della “MiFID” e all’art. 1, co. 5, t.u.f. (con esclusione della “gestione di sistemi multilaterali di negoziazione”) e tra questi principalmente, anche se non esclusivamente, a quello di gestione su base individuale di portafogli d’investimento per conto terzi (c.d. “gestione

Direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica le direttive 85/611/CEE e 93/6/ CEE del Consiglio e la direttiva 2000/12/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 93/22/CEE del Consiglio (in GUCE L 145 del 30.4.2004, pag. 1). La citata disposizione stabilisce che ai fini della Direttiva per “impresa di investimento” si intende “qualsiasi persona giuridica la cui occupazione o attività abituale consiste nel prestare uno o più servizi di investimento a terzi e/o nell’effettuare una o più attività di investimento a titolo professionale”; ciò posto gli Stati Membri nel rispetto delle condizioni indicate dalla Direttiva stessa possono includere nella definizione di “impresa di investimento” anche soggetti diversi dalle persone giuridiche. 28 Sulle nozioni di servizi e d’impresa d’investimento: cfr. ex multis Pellegrini, Le imprese di investimento, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, Padova, 2005, II, p. 489 ss.; Parrella, L’intermediazione finanziaria e la gestione collettiva del risparmio, in Manuale di diritto dei mercati finanziari, a cura di Amorosino e Rabitti Bedogni, Milano, 2004, p. 80 ss.; F. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare, cit., p. 69 ss. 27

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di portafogli”) 29. Servizio questo che si distingue dalla “gestione in monte” 30 – caratteristica invece dei “fondi comuni” – in quanto nella “gestione di portafogli” un intermediario specializzato viene incaricato, nell’ambito di un mandato conferito da un soggetto terzo, di formulare le scelte d’investimento relative ad un dato portafoglio, nonché di compiere le attività di gestione necessarie per rendere operative le scelte così formulate. Gli elementi caratterizzanti della “gestione di portafogli” risultano in particolare “costituiti dalla destinazione necessariamente a terzi del servizio, dalla finalità di valorizzazione del patrimonio affidato all’intermediario, dall’attribuzione all’intermediario stesso di uno spazio di discrezionalità nella scelta delle operazioni da eseguire per conto della clientela, dalla natura dei beni oggetto del servizio e dalla personalizzazione del rapporto con il cliente” 31. Al riguardo, giova rilevare che, secondo l’orientamento recentemente assunto dal Fondo Monetario Internazionale, nell’ambito delle categorie soggettive definite per la compilazione della bilancia dei pagamenti di un paese, laddove un “Fondo Sovrano” (rectius uno “special purpose government fund”) sia classificabile come “financial corporation” o “quasicorporation” (es. i Fondi sovrani costituiti quale “pool of assets”) e quindi non come entità appartenente alla “pubblica amministrazione”, stante la natura giuridica e finanziaria delle sue passività questo non sarebbe da considerare come un “fondo d’investimento” in senso proprio, ma risulterebbe più verosimilmente classificabile come una “captive financial institution” 32, in quanto è un’entità che non ha passività

Ai fini dell’individuazione del contenuto del servizio in parola è ritenuta sempre necessaria una dose anche minima di “discrezionalità” da parte del gestore. In particolare, pur essendo ammessa la possibilità d’intervento diretto dal parte del cliente attraverso ordini vincolanti per il gestore, il sevizio non può esaurirsi nella mera esecuzione degli ordini del cliente stesso. Si rileva che “anche le cosiddette gestioni con preventivo assenso [… da parte del cliente delle singole operazioni d’investimento…] appaiono ammissibili nell’attuale sistema normativo, a condizione però che l’investimento sia scelto e proposto al cliente dal gestore” e sia inoltre da quest’ultimo eseguito: Petagna, Strumenti finanziari e servizi di investimento. Profili generali, in Il mercato finanziario, a cura di Rispoli, Farina e Rotondo, Milano, 2005, p. 118. 30 Sulla definizione giuridica di “gestione in monte”: cfr. Rabitti Bedogni, Commento sub art. 33, in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998, p. 350 ss.; F. Annunziata, Fondi comuni di investimento e forme di gestione collettiva del risparmio, in L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 269 ss. 31 M. Sepe, Il risparmio gestito, cit., p. 121. 32 Cfr. Fondo Monetario Internazionale, Balance of Payments and International Investment Position Manual, bozza della VI edizione (BPM6), Marzo, 2008, par. 4.70. 29

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nei confronti del pubblico, ma essenzialmente solo nei confronti dello Stato che l’ha istituito e/o di cui gestisce le risorse, e che presta servizi e attività finanziarie in via esclusiva o comunque prevalente a favore del medesimo Stato “sponsor”. Le caratteristiche da ultimo evidenziate potrebbero indurre a ritenere in alcune circostanze che l’attività di taluni “Fondi Sovrani”, laddove non “destinata al mercato” (come nel caso di operatività esclusiva nei confronti dello Stato “sponsor”), non presenterebbe necessariamente carattere d’impresa secondo le indicazioni rivenibili all’art. 2082 c.c. 33, ovvero potrebbe essere ricondotta alla particolare (e peraltro controversa) fattispecie della c.d. “impresa per conto proprio” 34. La questione non è meramente dottrinale, ma assume specifica rilevanza anche in considerazione del fatto che “il diritto comunitario, legislativo e giurisprudenziale, ha mostrato di prediligere una nozione funzionale d’impresa piuttosto che una definizione univoca ed attenta agli aspetti strutturali, […] limitandosi a regolare l’attività di impresa in relazione a specifici scopi” 35. Tra tali scopi, per quanto qui d’interesse, rilevano ad esempio quelli attinenti alla tutela della concorrenza propri del diritto antitrust comunitario

33 Come autorevolmente rilevato “la destinazione al mercato è, di regola, indispensabile perché l’attività produttiva assuma il carattere dell’attività di impresa; ma è indispensabile non in sé considerata, come specifico estremo del concetto di imprenditore, bensì perché [...in sua mancanza...] non è possibile riconoscere nell’attività produttiva una attività economica. [...] Ma può accadere che il soggetto, o i soggetti, che intraprendono la produzione per conto proprio diano vita ad una autonoma organizzazione, separata dalla gestione del loro restante patrimonio, e che la produzione sia attuata da questa autonoma organizzazione con modalità corrispondenti al modo di produzione tipico della produzione per il mercato”, come nel caso delle cooperative o “degli stabilimenti costituiti dallo Stato o da altri enti pubblici per produrre beni o per fornire servizi ad altri settori dell’amministrazione statale o dell’ente pubblico cui appartengono” e assoggettati al criterio della economicità, Galgano, Il concetto di imprenditore e di imprenditore commerciale, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, II, Padova, 1978, p. 65. 34 Cfr. Bigiavi, La professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, p. 103 ss. Sulla destinazione al mercato (anche solo parziale o potenziale) dell’attività e dei prodotti/servizi quale presupposto necessario della professionalità dell’attività economica esercitata, e quindi sulla difficile configurabilità di una “impresa per conto proprio” cfr. ex multis Buonocore, L’impresa, in Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, II, Torino, 2002, p. 147 ss.; Ferri, Manuale di diritto commerciale, a cura di Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2006, p. 35 (il quale nel rilevare che “non è impresa l’attività economica organizzata per il soddisfacimento dei propri bisogni” ritiene “assolutamente inammissibile parlare di impresa per conto proprio”). 35 Castronovo e Mazzamuto, Manuale di diritto privato europeo, Vol. III (Impresa Lavoro), Milano, 2007, p. 6.

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(e nazionale), nell’ambito del quale – in linea con il predetto approccio funzionale 36 – la nozione d’impresa è decisamente più ampia e non completamente sovrapponibile con quella risultante dal dettato dell’art. 2082 c.c. 37, sicché nell’ambito dell’ordinamento comunitario (nonché dell’enforcement delle norme antitrust nazionali, che ai sensi dell’art. 1, comma 4 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 s’interpretano “in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”) i “Fondi Sovrani” ben potrebbero essere caratterizzati quali “imprese” al solo fine di ricomprenderli nell’ambito di applicazione delle regole di concorrenza 38 (soprattutto di quelle che “regolano” i fenomeni di concentrazioni tra imprese) 39, le quali in virtù del c.d. “principio di applicazione extraterritoriale” delle regole stesse possono “applicarsi anche ad imprese non aventi sede nell’Unione europea, quando comunque esse svolgano la loro attività anche nel territorio di questa (Ceg 25 novembre 1971 C-22/71; Ceg 27 settembre 1988 C-89/85)” 40 oppure, nonostante alcune posizioni discordanti sul punto, quando i loro comportamenti provochino sensibili effetti restrittivi nel mercato comune (c.d. “dottrina degli effetti”) 41.

In particolare si rileva che la nozione d’impresa comunitaria “prescinde da una precisa categorizzazione giuridico-formale del concetto, dando invece preminente rilievo alla natura economica dell’attività svolta”, segnando “l’irrilevanza di un’individuazione del soggetto in termini formali, condotta in base agli elementi tradizionalmente caratterizzanti la capacità di un’impresa”, Di Via, L’impresa, in Trattato di diritto privato europeo, a cura di Lipari, II, Padova, 2003, p. 83. 37 Sul punto cfr. M. Antonucci, La nozione di impresa nella giurisprudenza comunitaria ed italiana, in Il Consiglio di Stato, 2003, fasc. 3, p. 569 ss. 38 Si rileva al riguardo che “pur rivolgendosi sotto il profilo soggettivo a quanti svolgono attività d’impresa e formulando precetti che hanno come destinatari le sole imprese (o le associazioni fra le medesime), [...la disciplina comunitaria della concorrenza...] non contiene una norma specifica da cui poter trarre la precisa definizione dell’impresa e che ne delinei i tratti peculiari”, Cassottana e Nuzzo, Lezioni di diritto commerciale comunitario, Torino, 2006, p. 267. In senso conforme: Pappalardo, Il diritto comunitario della concorrenza. Profili sostanziali, Torino, 2007, p. 54. 39 Ai sensi dell’art. 3, comma 1, del Regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio del 20 gennaio 2004 “relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese”, si ha una concentrazione quando si produce una modifica duratura del controllo a seguito della fusione di due o più imprese precedentemente indipendenti o parti di imprese, oppure dell’acquisizione del controllo diretto o indiretto dell’insieme o di parti di una o più altre imprese, sia tramite acquisto di partecipazioni nel capitale o di elementi del patrimonio, sia tramite contratto o qualsiasi altro mezzo, da parte di una o più persone che già detengono il controllo di almeno un’altra impresa, o da parte di una o più imprese. 40 Castronovo e Mazzamuto, Manuale di diritto privato europeo, cit., p. 23. 41 Pappalardo, Il diritto comunitario della concorrenza, cit., p. 66 ss. 36

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2. Gli impieghi dei “Fondi Sovrani” e reazioni (neo)protezionistiche verso i liberi movimenti di capitali. Nonostante la tendenziale opacità informativa delle politiche d’investimento e della composizione dei portafogli dei “Fondi Sovrani”, risulta che questi adottino tipicamente (soprattutto i c.d. savings o heritage funds) 42 un orizzonte temporale di lungo periodo nella gestione dei loro assets, contribuendo così alla stabilizzazione e all’ampliamento dell’ammontare di risorse finanziarie disponibili a livello sistemico per investimenti in assets rischiosi (es. titoli azionari o di paesi emergenti) secondo un’ottica non necessariamente speculativa di tipo “hit and run”. Aspetto questo particolarmente positivo soprattutto nell’attuale situazione congiunturale dei mercati finanziari globali caratterizzata da una diffusa crisi di liquidità e da una marcata tensione sotto il profilo della patrimonializzazione degli intermediari (ritenute in larga parte il frutto di una politica monetaria troppo espansiva, nonché di “un’ondata di innovazione finanziaria e cattiva regolamentazione […] che ha portato a caricare di debito ogni attivo in grado di sopportarlo e a spalmare (o forse nascondere) il rischio in ogni recesso del sistema: banche, intermediari non bancari, investitori” 43). Al riguardo, i dati e le informazioni disponibili evidenziano, ad esempio, l’importante e positivo ruolo stabilizzatore assunto dai “Fondi Sovrani” collegati a governi di paesi asiatici e del Medio Oriente, nella loro qualità d’investitori “istituzionali” tendenzialmente di lungo periodo 44, nelle operazioni di ricapitalizza-

42 La funzione primaria di tali Fondi è quella di realizzare una diversificazione delle fonti di reddito, sostituendo attività non rinnovabili (quali le risorse naturali) con un portafoglio più diversificato di attività, anche al fine di prevenire o mitigare gli effetti del c.d. “Dutch disease” o “malattia olandese” (cfr. Fondo Monetario Internazionale, Sovereign Wealth Funds, cit., p. 5 s.) Ad esempio, nell’area del mediterraneo, grazie alle risorse derivanti dalle esportazioni di petrolio sia la Libia che l’Algeria hanno istituito dei “Fondi Sovrani”, rispettivamente nel 1995, Oil reserve Fund, e nel 2000, Fonds de régulation des recettes (cfr. Banca Centrale Europea, Occasional Paper No 69, Agosto 2007, p. 19). In Russia l’“oil stabilisation fund”, operativo già dal gennaio 2004, dovrebbe essere affiancato da un “future generation fund” (cfr. Banca Centrale Europea, Review of the international role of the euro, cit., p. 43). Altri “Fondi Sovrani” che risultano istituiti per assolvere a finalità di risparmio intergenerazionale sono il Fondo pensione governativo Norvegese e l’Abu Dhabi Investment Authority (ADIA) degli Emirati Arabi Uniti (cfr. Banca Centrale Europea, Financial Stability Review, Dicembre 2007, p. 21). 43 Siniscalco, Governi alle porte, cit., p. 77. 44 Cfr. Banca Centrale Europea, Financial Stability Review, cit., p. 22.

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zione di alcuni “colossi bancari” statunitensi ed europei 45 travolti dalle “recenti turbolenze sui mercati monetari e del credito” 46 e dalle perdite associate ad esposizioni connesse con prodotti di credito strutturato, mutui subprime statunitensi 47 e interventi a sostegno di entità (conduits e structured investment vehicles) ad essi collegate. Ciò posto, sebbene non ci siano chiare evidenze al riguardo, una significativa fonte di pregiudizio e di preoccupazione nei confronti dei “Fondi Sovrani” è rappresentata, come anticipato, dal fatto che questi potrebbero acquisire “partecipazioni rilevanti” o altre forme d’interessenze finanziarie in imprese straniere, non in base a considerazioni di tipo puramente economico o commerciale, ma allo scopo “politico” di consentire all’investitore effettivo (i.e. i governi dei paesi di cui gestiscono le risorse) di esercitare un’influenza notevole o dominante nell’ambito di “settori sensibili” o d’interesse strategico di altri Stati (es. difesa nazionale, trasporti, fonti di energia, telecomunicazioni e public utilities in genere) 48. Con riferimento a tale ultimo aspetto, non è mancato, ad esempio, chi ha rilevato che, stante il non indifferente impatto “geopolitico” degli investimenti dei “Fondi Sovrani” (derivante dalla loro natura pubblica/ sovrana), bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che affrontare le questioni derivanti dallo sviluppo degli stessi “Fondi Sovrani” potrebbe richiedere di allontanarsi “from the conventional liberal orthodoxy concerning global trade and investment flows” 49. In effetti, le reazioni dei principali paesi occidentali a fronte dell’incremento del numero e della dimensione dei “Fondi Sovrani”, oltre a sconfessare in qualche misura l’opinione secondo cui pecunia non olet, sembrerebbe confermare quanto preconizzato da John Maynard Keynes in un celebre saggio a supporto dell’autarchia economica delle nazioni 50, nonché l’idea che

Al riguardo, si stima che nel 2007 questi avrebbero “investito un totale di 55 miliardi di dollari in istituzioni finanziarie di paesi avanzati”, Banca d’Italia, Bollettino economico, n. 51/2008, p. 10. 46 Banca d’Italia, Le recenti turbolenze nei mercati monetari e del credito, in Bollettino economico, n. 50, ottobre 2007, p. 9 ss. 47 Cfr. Delli Gatti, Verga e Hamaui, La congiuntura monetaria internazionale e i condizionamenti della crisi dei mutui americani, in Associazione per lo sviluppo degli studi di banca e borsa, Quaderno n. 240. 48 Banca Centrale Europea, Financial Stability Review, cit., p. 23. 49 Garten, “We need rules for sovereign funds”, in Financial Times, 8 agosto 2007. 50 Nell’evidenziare l’inadeguatezza del modello economico mondiale emerso nel corso del 19° secolo, in quello scritto Keynes rilevava che “the policy of an increased 45

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in ultima istanza “international cash flows are always political” 51. Ciò induce a ritenere che attualmente, non solo con riferimento al fenomeno dei “Fondi Sovrani” ma anche a livello più generale, sia probabilmente in corso una fase di riflessione sugli stessi elementi costitutivi di un sistema di mercato e di apertura degli scambi commerciali e dei flussi di capitali, in particolare “la libertà, che ne caratterizza l’essenza, viene riguardata come possibile fattore di turbamento e di squilibrio” 52. La segnalata diffidenza e le preoccupazioni nei confronti dell’attività di questi “veicoli d’investimento” (dei) sovrani, alimentate anche dalla loro scarsa trasparenza informativa, non hanno mancato, infatti, d’indurre alcuni Stati Membri ad introdurre (es. la Grecia) o ad annunciare l’introduzione (es. la Francia e la Germania 53) di specifiche misure (neo)protezionistiche o altre forme di scrutinio (se non anche di veto) da parte di Autorità pubbliche in relazione ad operazioni di acquisto da parte di “Fondi Sovrani” di “partecipazioni rilevanti” o del controllo di imprese strategiche o di rilevanza nazionale, con possibili effetti avversi sull’efficienza dei mercati, nonché potenzialmente incompatibili con i principi del Trattato CE sulla libera circolazione dei capitali e sulla parità concorrenziale tra imprese. Del tutto opposta, invece, la posizione

national self-sufficiency is to be considered, not as an ideal in itself, but as directed to the creation of an environment in which other ideals can be safely and conveniently pursued”. L’economista si era, infatti, convinto che l’autonomia privata potesse portare ad un effettivo benessere solo in presenza di tassi d’interesse a livello internazionale estremamente bassi e che una condizione di internazionalizzazione economica, libera circolazione dei capitali e delle risorse finanziarie nonché di libera circolazione delle merci, non consentisse alle sole forze di mercato di ridurre i tassi d’interesse fino ad un livello adeguato. Pertanto, lo stesso suggeriva di abbandonare obiettivi di uniformità del sistema economico mondiale, in quanto “we all need to be as free as possible of interference from economic changes elsewhere, in order to make our own favourite experiments towards the ideal social republic of the future; and that a deliberate movement towards greater national self-sufficiency and economic isolation will make our task easier, in so far as it can be accomplished without excessive economic cost”, Keynes, National Self-Sufficiency, The Yale Review, Vol. XXII, n. 4, 1933, p. 755 ss. 51 Gilson e Milhaupt, Sovereign Wealth Funds and Corporate Governance: A minimalist Response to the New Merchantilism, in Stanford University Law and Economics Olin Paper No 355 and Columbia University Law and Economics Olin Paper No 328, p. 1. 52 Capriglione, Etica della finanza e finanza etica, Roma-Bari, 1997, p. 6. 53 In particolare, “in Germania circola l’idea di una regolamentazione che permetta di ostacolare gli investimenti del 25% e oltre se questi minacciano la sicurezza nazionale”, Economiesuisse, cit., p. 3.

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promossa dall’OECD 54 e dalla Commissione Europea, nonché quella assunta dal Regno Unito il cui primo ministro, nel manifestare un atteggiamento di grande apertura agli investimenti dei “Fondi Sovrani”, ha dichiarato che il paese “is open for business”. Problematiche queste del tutto affini, e in parte coincidenti, a quelle già evidenziatesi in relazione alle norme sulla golden share adottate in diversi Stati Membri nell’ambito dei processi di privatizzazione delle rispettive imprese pubbliche 55 per “proteggere” i propri “campioni nazionali” (rectius per mantenerli sotto l’influenza pubblica, riservando tipicamente agli apparati burocratici governativi la titolarità di “poteri speciali” 56), norme che la Corte di Giustizia Europea ha solitamente giudicato incompatibili con il divieto di restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati Membri, nonché tra Stati Membri e paesi terzi, di cui agli artt. 56 e ss. del Trattato CE, come avvenuto ad esempio con riferimento a taluni

Cfr. Oecd, “Sovereign Wealth Funds And Recipient Country Policies”, Investment Committee Report, 4 Aprile 2008. 55 Per quanto riguarda l’esperienza italiana sul punto si rinvia a: Ammannati, Le privatizzazioni delle imprese pubbliche in Italia, Milano, 1995. 56 Al riguardo, è stato rilevato che in Italia la particolare disciplina giuridica applicabile alle società d’interesse nazionale ai sensi dell’art. 2451 c.c. (circa la gestione sociale, la trasferibilità delle azioni, il diritto di voto e la nomina degli esponenti aziendali) legittima, seppure “implicitamente, che sia previsto un qualche organo vigilante su di esse (che – si badi – non devono essere necessariamente in pubblico comando), viceversa sono sicuramente fuori dall’area tipica della vigilanza le società assoggettate ai poteri speciali del ministero dell’Economia, in quanto operanti in settori considerati strategici per l’indipendenza (ad. esempio: energetica) del Paese. I poteri speciali sono infatti volti a condizionare preventivamente i mutamenti della governance, del ceto sociale o della stessa identità o esistenza delle società di diritto speciale, ma non incidono sulla loro operatività, che non viene assoggettata a verifiche di legittimità o di merito”: Amorosino, Tipologie e funzioni delle vigilanze, in Le vigilanze economiche. Regole e gli effetti, a cura di Bani e Giusti, Padova, 2004, p. 31. Sul rapporto tra privatizzazione delle imprese pubbliche ed i “poteri speciali” ritenuti dallo Stato nelle società privatizzate attraverso il meccanismo della “golden share”: cfr. ex multis, Clarich e Pisaneschi. Privatizzazioni, in Dig. disc. pubbl., 2000, p. 432 ss.; Garofoli, Golden share e authorities nella transizione dalla gestione pubblica alla regolamentazione dei servizi pubblici, in Riv. it. dir. pubb. com., 1998, p. 159 ss. 54

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aspetti delle discipline della golden share adottate in Italia 57, Francia 58, Spagna 59, Regno Unito 60, Olanda 61 e Germania 62. Con specifico riferimento alla nozione giuridica rilevante del concetto di “movimenti di capitali”, giova qui richiamare – per la sua utilità anche con riferimento all’operatività dei “Fondi Sovrani” – l’approdo ermeneutico già raggiunto dalla stessa Corte di Giustizia, secondo la quale costituiscono “movimenti di capitali ai sensi dell’art. 56, n. 1, [del Trattato] CE, in particolare, gli investimenti diretti sotto forma di partecipazione ad un’impresa attraverso un possesso di azioni che consenta di partecipare effettivamente alla sua gestione e al suo controllo (investimenti c.d. «diretti»), nonché l’acquisto dei titoli sul mercato dei capitali effettuato

In particolare, nell’ambito del processo di privatizzazione di importanti imprese pubbliche (es. Eni s.p.A., Telecom Italia s.p.A.), lo Stato italiano (rectius il Ministro dell’Economia e delle Finanze d’intesa con il Ministro delle attività produttive) si era riservato la titolarità di “poteri speciali” ai sensi del D.L. 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474 (recante norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni) e successivamente modificato dall’ 4 della legge 24 dicembre 2003, n. 350, anche in esito alla sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia delle Comunità Europea (cfr. sentenza del 23 maggio 2000, causa C-58/99, Commissione contro Repubblica Italiana, in Raccolta, 2000, I-3811). In particolare, con la legge n. 350/2003 la precedente procedura di autorizzazione è stata sostituita con un meno restrittivo “diritto di opposizione” ed è stato inoltre previsto che l’esercizio dei “poteri speciali” dello Stato sia limitato ai soli casi in cui vi sia un pregiudizio per gli “interessi fondamentali” dello Stato stesso ed avvenga comunque secondo i criteri definiti con DPCM. Al riguardo, l’art. 1 del DPCM del 10 giugno 2004 (in GURI n. 139 del 16 Giugno 2004) dispone che i suddetti “diritti speciali” possano essere esercitati solo laddove “ricorrano rilevanti e imprescindibili motivi di “interesse generale”, in particolare con riferimento all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica e alla difesa, in forma e misura idonee e proporzionali alla tutela di detti interessi, anche mediante l’eventuale previsione di opportuni limiti temporali, fermo restando il rispetto dei principi dell’ordinamento interno e comunitario, e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione”. 58 Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 4 giugno 2002, causa C483/99, Commissione contro Francia, in Raccolta, 2002, I-4781. 59 Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 13 maggio 2003, causa C463/00, Commissione contro Regno di Spagna, in Raccolta, 2003, I-4581. 60 Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza 13 maggio 2003, causa C98/01, Commissione contro Regno Unito, in Raccolta, 2003, I-4641. 61 Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 28 settembre 2006, cause riunite C-282/04 e C-283/04, Commissione contro Regno dei Paesi Bassi, in Raccolta, 2006, I-9141. 62 Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 23 ottobre 2007, causa C112/05, Commissione contro Repubblica Federale di Germania, in Raccolta, 2007, I-8995. 57

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soltanto per realizzare un investimento finanziario, senza intenzione di influenzare la gestione dell’impresa (investimenti c.d. «di portafoglio»)”  63. In tale contesto, la Corte ha inoltre ritenuto che “devono ritenersi «restrizioni», ai sensi dell’art. 56, n. 1, [del Trattato] CE, i provvedimenti nazionali che possono impedire o limitare l’acquisto di azioni nelle imprese interessate o che possono dissuadere gli investitori di altri Stati membri dall’investire nel capitale delle stesse” 64. Con specifico riferimento all’approccio delle istituzioni comunitarie al fenomeno dei “Fondi Sovrani”, l’orientamento prevalente è innanzitutto quello di evitare l’introduzione di misure unilaterali da parte dei singoli Stati Membri, evitando per quanto possibile l’adozione di misure di regolamentazione dell’attività dei “Fondi Sovrani” o l’imposizione di limitazioni ai flussi di capitali da questi apportati all’interno del “mercato comune” (ad esempio basate su motivazioni di “ordine pubblico o di pubblica sicurezza”  65), a favore invece di opzioni di policies armonizzate a livello europeo volte ad incrementare la disclosure, la prevedibilità e la responsabilità delle scelte d’investimento degli stessi “Fondi Sovrani” (intesa quest’ultima nel senso di rispetto dell’altrui interesse e più in generale dell’interesse comune dei partecipanti al mercato), tramite strumenti di soft law (guide lines, codici di condotta o best practices) e autoregolamentazione 66 o comunque interventi di light regulation caratterizzati da un approccio market friendly. In linea con l’ispirazione di fondo di molte proposte di riforma dei mercati finanziari e del commercio internazionale, appare pertanto emergere anche in quest’ambito una crescente tensione verso l’affermazione di un’“etica del mercato globale”, ossia di un canone di comportamento volto, tra l’altro, a coniugare l’efficienza delle transazioni economico–finanziarie con principi di buona fede e correttezza 67, regola questa che

Cfr. le citate sentenze “Commissione contro Regno dei Paesi Bassi”, punto 19; “Commissione contro Francia”, punti 36 e 37; “Commissione contro Regno Unito”, punti 39 e 40. 64 Cfr. le citate sentenze “Commissione contro Regno dei Paesi Bassi”, punto 20; “Commissione contro Francia”, punto 41. 65 Sul punto: cfr. Lotti, L’ordine pubblico internazionale, Milano, 2005, p. 260 ss. 66 In generale sul tema dell’autoregolamentazione quale sistema di regole deontologiche dei partecipanti al mercato, v. Capriglione, Amministrazione e autoregolamentazione del mercato finanziario, in Riv. dir. civ., 1996, II, p. 9 ss. 67 Risulta in particolare che “le proposte di riforma “etica” dei mercati finanziari condividono questa impostazione di fondo per un migliore impiego della risorsa capitale, scoraggiando e rendendo più onerosi gli investimenti puramente speculativi disancorati completamente dall’economia reale”, G. Di Gaspare, Globalizzazione, mercati finanziari 63

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“proiettata in un contesto internazionale, postula nell’azione dei singoli Stati trasparenza delle condotte e rispetto delle controparti, realizzati in una cornice operativa che si qualifica per la professionalità degli intermediari” 68 coinvolti. Si delinea in altre parole un’esigenza di “correttezza economica”, concetto che, nel coniugare il principio di correttezza con quello dell’autonomia privata nei rapporti giuridici di mercato 69, prescinde dal relativismo di considerazioni metagiuridiche e implica invece l’adesione ad un canone di comportamento “coerente con il sistema economico” modellato dall’ordine giuridico e dall’acquis comunitario. Ne consegue che anche con riferimento alle questioni che qui ci occupano, “il modello normativo cui fare riferimento per qualificare il comportamento imprenditoriale [… dovrebbe essere innanzitutto…] rinvenuto nei principi generali dell’ordinamento in materia di buon funzionamento dei mercati, […anche…] attraverso un collegamento sistematico tra disciplina […] antitrust e disciplina della concorrenza sleale” 70. Al riguardo, si è dell’opinione che, al di là delle questioni attinenti all’ambito della “diplomazia economica”, stante la multiforme natura giuridica dei “Fondi Sovrani” e la dimensione transnazionale e “interordinamentale” delle operazioni in cui questi assumono la veste di controparte, al momento il più appropriato modello di regolamentazione loro applicabile possa essere individuato in un modello di c.d. “regolamentazione indiretta” (ispirato a quello proposto per gli hedge funds 71) in cui norme

ed investimenti in beni pubblici: spunti per un dibattito in corso, p. 11 s., in www.amministrazioneincammino.luiss.it. 68 Capriglione, Etica della finanza mercato globalizzazione, Bari, 2004, p. 154. 69 Ad esempio, nell’ambito della disciplina regolamentare in materia di partecipazioni al capitale delle banche e delle società finanziarie capogruppo (cfr. Titolo II - Capitolo 1 delle Istruzioni di Vigilanza per le banche di cui alla Circolare della Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999) si dispone che la valutazione da parte della Banca d’Italia della qualità dei soggetti che intendono detenere, anche indirettamente, partecipazioni rilevanti nelle banche o nelle capogruppo, è condotta sulla base di criteri generali che fanno riferimento anche alla “correttezza nelle relazioni di affari”. 70 Scaglione, Correttezza economica e autonomia privata, Perugia, 2007, p. 144. 71 Nel luglio 2007 i ministri finanziari dei paesi del G-8 hanno approvato, ad esempio, una posizione comune che avalla un approccio “light” ed “indiretto” alla regolazione e supervisione degli hedge funds secondo le linee guida ed i principi promossi in materia dal Financial Stability Forum. Tra questi rilevano, ad esempio, quelli secondo cui: le Autorità di vigilanza dovrebbero intervenire innanzitutto sugli intermediari da esse vigilati affinché questi operino un’adeguata valutazione del “rischio di controparte” quando operano con hedge funds; gli stessi intermediari dovrebbero incrementare la propria stabilità anche a fronte dei rischi di liquidità; dovrebbero essere pubblicati dati aggregati sull’esposizione

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di eteroregolazione convivono con strumenti di autoregolamentazione 72, secondo un approccio a doppio livello di matrice anglosassone di selfregulation within a statutory framework 73, già sperimentato sia in Italia sia in Europa nella regolamentazione dei mercati e degli intermediari finanziari 74. In particolare, piuttosto che definire un complesso di norme direttamente applicabile ai “Fondi Sovrani”, con tutti i problemi (giuridici e politici) relativi al loro effettivo ed efficace enforcement, si potrebbe, invece, focalizzare l’attività di supervisione sulla fase dell’integrazione (integration) dei capitali dei “Fondi Sovrani” nell’economia e nei mercati comunitari, ossia sulle modalità di esecuzione da parte degli stessi “Fondi Sovrani” delle transazioni finanziarie in contropartita con, o per il tramite di, “soggetti regolamentati” (es. intermediari finanziari, mercati regolamentati, sistemi di pagamento, depositari centrali, controparti centrali e altri operatori del post–trading) o comunque soggetti sottoposti nei rispettivi ordinamenti a forme di regolamentazione e vigilanza della loro attività. In altre parole, il focus dell’eventuale etero/autoregolamentazione e supervisione in materia, o meglio il suo ambito di applicazione, potreb-

verso hedge funds dei principali intermediari finanziari; dovrebbe essere rafforzata la disciplina di mercato attraverso un’adeguata disclosure della composizione dei portafogli e del profilo di rischio degli hedge funds: cfr. G-8, Growth and Responsibility in the World Economy, Summit Declaration of 7 June 2007, Heiligendamm, p. 3; Financial Stability Forum, The FSF Recommendations and Concerns Raised by Highly Leveraged Institutions (HLIs): An Assessment (11 Marzo 2002); Progress in Implementing the Recommendations of the FSF. Update Report on Highly Leveraged Institutions (15 Ottobre 2007). 72 Per un’analisi del ruolo dell’autoregolamentazione nell’ambito della disciplina dei mercati creditizi e finanziari, con particolare riferimento alla sua capacità di rafforzare l’efficacia della regolamentazione e supervisione pubblica cui tali mercati sono diffusamente sottoposti: cfr. Brescia Morra, Verso un sistema bancario e finanziario europeo? Le fonti del diritto finanziario in Europa e il ruolo della autoregolamentazione, in Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi, Quaderni di Ricerche, n. 44/2003. 73 M. Sepe, I mercati, Bari, 2003, p. 55. Sul sistema delle fonti nell’ordinamento finanziario italiano cfr. Amorosino, Principi “costituzionali”, poteri pubblici e fonti normative in tema di mercati finanziari, in Manuale di diritto del mercato finanziario, a cura di Amorosino, 2008. p. 3 ss.; Capriglione, Fonti normative, in L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 3 ss. 74 Sul modello di vigilanza sui mercati mobiliari adottato in Italia, ed in particolare sullo specifico modello di riparto di attribuzioni e competenze tra l’autorità pubblicistica di riferimento (la Consob) e gli organismi privati di regolazione, organizzazione e gestione dei mercati: cfr. D’Alberti, Pubblico e privato nella disciplina dei mercati mobiliari. Proposte di revisione del sistema italiano, in Consob, Quaderni di finanza, n. 12/1995; Amorosino, Poteri amministrativi e intraprese finanziarie, Torino, 1999.

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be essere spostato dal soggetto “Fondo Sovrano”, per ricadere invece sulle sue controparti contrattuali e sull’oggetto delle transazioni cui questi partecipano, nonché sugli effetti di quest’ultime nell’ambito del “mercato comune”. 2.1. …segue: il rilievo giuridico degli “interessi nazionali” alla luce delle disposizioni del Trattato CE e di alcune previsioni antitrust. L’approccio “regolatorio” sopra suggerito avrebbe il pregio di risultare compatibile con le linee di policy in corso di definizione da parte delle istituzioni comunitarie in risposta alle possibili sfide e problematiche derivanti dallo sviluppo dei “Fondi Sovrani”, e al pericolo (più attuale) di reazioni (neo)protezionistiche da parte degli Stati Membri nei confronti dell’attività di tali particolari “veicoli d’investimento” di risorse statuali. In particolare, in un sistema economico mondiale sempre più globalizzato, l’adesione da parte degli Stati Membri ai consolidati principi accolti nel Trattato CE di un’“economia di mercato aperta” (anche agli “investimenti diretti” e di “portafoglio”) e della “libera circolazione dei capitali” rappresenta un elemento di vantaggio per la Comunità, la quale dovrà pertanto assicurare attraverso appropriate politiche e interventi, anche normativi, che i suoi mercati rimangano “open for investment” 75. Ciò posto, le regole sul commercio internazionale definite a livello intergovernativo in ambito di World Trade Organization (WTO)  76 e di Organization for Economic and co-operation and development (OECD) 77, nonché gli accordi in materia di politica commerciale sottoscritti dalla Commissione Europea (ai sensi degli artt. 133 e ss. e degli artt. 300 e ss.

75 Cfr. Communication from the Commission […] “A common European approach to Sovereign Wealth Funds”, cit., par. 1. 76 Sul regime giuridico definito dagli accordi conclusi in sede WTO: cfr. Andenas e Ortino, Wto law and process, British Institute of International and Comparative Law, Londra, 2005. 77 I principali strumenti giuridici dell’OECD in materia di investimenti sono rappresentati dal Code of Liberalisation of Capital Movements del 1961 e dalla Declaration on International Investment and Multinational Enterprises del 1976, come modificata nel 2000. Questi prevedono, in estrema sintesi, procedure di notifica e sorveglianza multilaterale sotto la supervisione del Governing Council della stessa OECD alla luce, tra gli altri, di principi di non discriminazione tra investitori domestici e stranieri, di trasparenza e accessibilità delle informazioni relative ad investimenti stranieri, di progressiva liberalizzazione, di astensione dall’introdurre nuove restrizioni e di progressiva liberalizzazione anche su base unilaterale: cfr. Oecd, “Sovereign Wealth Funds And Recipient Country Policies”, cit., p. 3.

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del Trattato CE) 78, contemplano eccezioni e deroghe ai relativi obblighi e divieti per motivi di “ordine pubblico” o di “pubblica sicurezza”. Inoltre, anche il richiamato divieto di restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti tra Stati Membri e paesi terzi, di cui all’art. 56 del Trattato CE, non è in realtà assoluto. Ai sensi del Trattato CE è previsto, infatti, che il Consiglio UE, sulla base di una decisione assunta a maggioranza qualificata su proposta della Commissione Europea, possa sottoporre a vincoli o condizioni la libertà dei movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti, anche in relazione a investimenti diretti (inclusi gli investimenti in proprietà immobiliari, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari). Laddove, invece, il Consiglio UE intenda imporre una vera propria restrizione a tali “investimenti diretti”, adottando misure “che comportino un regresso della legislazione comunitaria per quanto riguarda la liberalizzazione dei movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti”, è necessario che le relative decisioni siano assunte all’unanimità (art. 57, par. 2, del Trattato CE). Posto quanto sopra, nell’effettuazione d’investimenti nell’ambito del “mercato comune” e nello svolgimento della loro attività nel territorio degli Stati Membri, i “Fondi Sovrani” sono comunque soggetti in linea di principio alle diverse norme degli ordinamenti nazionali e comunitario cui sarebbe sottoposto ogni altro investitore. Tra le disposizioni astrattamente idonee a consentire forme di controllo o di limitazione degli investimenti dei “Fondi Sovrani” rilevano, ad esempio, quelle in materia di tutela della concorrenza, nell’applicazione delle quali specifico rilievo giuridico è pure riconosciuto ad eventuali motivazioni di “ordine pubblico” 79, “pubblica sicurezza” o comunque “d’in-

Per un’analisi delle interrelazioni tra regime degli accordi in sede WTO e politiche commerciali della Comunità Europea cfr. Ortino, Basic Legal Instruments for the Liberalisation of Trade: a Comparative Analysis of EC and WTO Law, Oxford, 2004. 79 D’altronde, le norme appartenenti al corpus del diritto antitrust risultano, tra l’altro, fra quelle che maggiormente hanno contribuito alla costruzione del mercato unico e quindi alla emersione di una nozione di “ordine pubblico economico comunitario”, al riguardo si rileva che “le regole finalizzate a garantire la libertà della concorrenza hanno assunto sicuramente un ruolo determinante, riconoscibile nel loro carattere cogente e nella funzione assolutamente fondamentale al raggiungimento degli obiettivi originari del Trattato e delle istituzioni comunitarie”: cfr. Angelini, Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea. I principi fondamentali nelle relazioni interordinamentali, Padova, 2007, p. 192. 78

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teresse nazionale”. In particolare, con riferimento allo scrutinio preventivo delle operazioni di “concentrazione” (fattispecie cui sono ricondotte ai fini antitrust le operazioni di fusione di due o più imprese precedentemente indipendenti o parti d’imprese, nonché l’acquisizione del controllo diretto o indiretto dell’insieme o di parti di una o più altre imprese, sia tramite acquisto di partecipazioni nel capitale o di elementi del patrimonio, sia tramite contratto o qualsiasi altro mezzo) il Regolamento CE n. 139/2004  80 consente agli Stati Membri di adottare provvedimenti per tutelare “interessi legittimi” diversi da quelli presi in considerazione dal Regolamento stesso, purché comunque compatibili con i principi generali e le altre disposizioni del diritto comunitario. Ciò posto, eventuali provvedimenti degli Stati Membri diretti a tutelare interessi diversi dalla “sicurezza pubblica”, dalla “pluralità dei mezzi di informazione” e da quelli presidiati dalle “norme prudenziali” (ad esempio quelle in ambito bancario e finanziario) devono essere preventivamente comunicati dallo Stato Membro interessato alla Commissione Europea, al fine dell’esame da parte di quest’ultima della loro compatibilità con i principi e le disposizioni dell’ordinamento comunitario (cfr. art. 21 del Regolamento stesso). Con riferimento, ad esempio, al possibile rilievo d’interessi prettamente “nazionali”, l’art. 25 della legge antitrust italiana (legge 10 ottobre 1990, n. 287), nell’attribuire al Governo speciali poteri in materia di controllo preventivo delle operazioni di concentrazione, non solo dispone che il Consiglio dei Ministri possa stabilire, in linea generale e preventiva, criteri in base ai quali autorizzare in via eccezionale – per rilevanti “interessi generali dell’economia nazionale” nell’ambito dell’integrazione europea – operazioni di concentrazione altrimenti vietate, ma sopratutto stabilisce che in caso di operazioni cui partecipano enti o imprese (ad esempio “Fondi Sovrani”) di Stati che non tutelano l’indipendenza degli enti o delle imprese con norme di effetto equivalente a quello della stessa legge 287/1990 o applicano disposizioni discriminatorie o impongono clausole aventi effetti analoghi nei confronti di acquisizioni da parte d’imprese o enti italiani, il Presidente del Consiglio dei Ministri può vietare l’operazione per “ragioni essenziali di economia nazionale”. Al di là di ciò, in linea di principio gli Stati Membri rimangono liberi, nel rispetto tuttavia di alcuni vincoli e condizioni, di adottare norme, prov-

80 Regolamento CE n. 139/2004 del Consiglio del 20 gennaio 2004 relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese (“Regolamento comunitario sulle concentrazioni”), in GUCE L 24 del 29.1.2004, p. 1 ss.

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vedimenti o atti giuridici che si risolvano in una limitazione o in una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei capitali. Ai sensi del Trattato CE (art. 58) il divieto di restrizioni ai movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti non impedisce, ad esempio, agli Stati membri di applicare (in ossequio ai principi generali di proporzionalità rispetto ai fini e di non discriminazione) disposizioni nazionali che: 1) operano una differenziazione dal punto di vista del trattamento tributario tra contribuenti “che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale”; 2) sono volte ad impedire violazioni od elusioni delle norme nazionali, in particolare nel settore fiscale e della vigilanza prudenziale sulle istituzioni finanziarie; 3) stabiliscono procedure per la dichiarazione dei movimenti di capitali a scopo d’informazione amministrativa o statistica; 4) adottano misure giustificate da motivi di ordine pubblico  81 o di pubblica sicurezza; 5) impongono restrizioni in materia di diritto di stabilimento di persone fisiche e giuridiche, compatibili con le disposizioni di cui agli artt. 43-48 del Trattato CE. Ciò posto, il consolidato orientamento della Corte di giustizia è che la possibilità di derogare al principio della libertà di movimento dei capitali debba essere inteso in senso restrittivo; sicché, come indicato con riferimento alla controversa fattispecie della golden share, eventuali esigenze di “pubblica sicurezza” possono essere invocate ad esempio “solamente in caso di minaccia effettiva ed abbastanza grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività” 82. Legittime restrizioni nazionali ai movimenti di capitali, applicabili in linea di principio anche ai “Fondi Sovrani”, potrebbero risultare anche: 1) da eventuali speciali regimi di proprietà esistenti negli Stati Membri (art. 295 del Trattato CE); 2) dall’esigenza di tutelare informazioni la cui divulgazione sia considerata da uno Stato Membro contraria agli interessi essenziali della propria “sicurezza nazionale”; 3) da misure ritenute necessarie da uno Stato Membro per finalità militari e di “difesa nazionale”, ossia per tutelare interessi essenziali che si riferiscano, ad esempio, alla produzione o al commercio di armi, munizioni e materiale bellico (art. 296 del Trattato CE). Infine, singoli Stati Membri potrebbero disporre unilateralmente, ai sensi dell’art. 60 del Trattato CE, divieti e

81 Sul nozione di “ordine pubblico comunitario” come “ordine pubblico economico” cfr. Angelini, Ordine pubblico, cit., p. 166 ss. 82 Sentenza della Corte di Giustizia del 4 giugno 2002, causa C-503/99, Commissione contro Regno del Belgio, in Raccolta, 2002, I-04809, par. 47.

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limitazioni nei confronti di uno o più paesi terzi per quanto concerne i movimenti di capitali e i pagamenti (con effetti quindi anche nei confronti dei relativi “Fondi Sovrani”), in tutti quei casi in cui fosse ritenuta necessaria – ai sensi delle disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune dell’Unione – un’azione della Comunità per interrompere o ridurre parzialmente o totalmente le relazioni economiche con i medesimi paesi terzi, ed il Consiglio non avesse ancora provveduto ad adottare nei confronti di tali paesi le eventuali misure urgenti in materia di movimenti di capitali e di pagamenti.

3. Strumenti di “regolamentazione indiretta” ai sensi delle disposizioni nazionali in tema di acquisto di partecipazioni societarie. Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, pur non esistendo disposizioni specificatamente applicabili ai soli “Fondi Sovrani” in quanto tali, esiste tuttavia un quadro normativo in linea di principio applicabile alle operazioni in cui questi si pongono in veste di controparte. Le relative disposizioni, stante la sfuggente o comunque eterogenea natura giuridica dei “Fondi Sovrani” e l’evidenziata dimensione transnazionale della loro operatività, possono rappresentare un primo utile punto di riferimento di un sistema di “regolamentazione indiretta” del fenomeno degli stessi “Fondi sovrani” funzionale, almeno in prima battuta, a porre rimedio alla market failure rappresentata dalla loro scarsa “trasparenza” (termine questo di cui è stata lamentata la “natura polisensa” nelle diverse branche del diritto) 83 e soprattutto dal conseguente clima di sospetto e diffidenza rispetto ai reali obiettivi dei loro investimenti. Ad esempio, con riferimento ad operazioni di acquisto di “partecipazioni”, la relativa disciplina giuridica varia in funzione dell’entità della

83 Nonostante il termine “trasparenza” risulti ormai ampiamente utilizzato, se non abusato, in sede normativa, giurisprudenziale e amministrativa, sia nell’ordinamento nazionale che in quello comunitario e internazionale, è stato evidenziato che mancherebbe in realtà una precisa ed univoca individuazione del suo significato e del suo ruolo (Alpa, La trasparenza dei contratti bancari, Bari, 2003, p. 3). Ciò posto, nell’ambito delle questioni che qui ci occupano, una regolamentazione di trasparenza dovrebbe, tra l’altro, sostanziarsi in una “disciplina volta ad assicurare concorrenzialità al mercato bancario e finanziario e, quindi, efficienza nello svolgimento dei servizi resi dagli intermediari che in essi operano”, Condemi, Rapporti bancari e “Decreti” di liberalizzazione dei mercati: talune riflessioni a margine, in Mondo Bancario, n. 6/2007, p. 57.

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partecipazione, delle caratteristiche del soggetto partecipato (es. società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati, società italiane emittenti strumenti finanziari diffusi fra il pubblico in misura rilevante o imprese operanti nel settore finanziario), ed in alcuni casi (come ad esempio nell’ambito del settore finanziario) anche in base alla natura del soggetto partecipante, spaziando dall’imposizione di meri oneri informativi e di disclosure, alla subordinazione dell’operazione al rilascio di un’autorizzazione da parte dell’Autorità competente. Nel caso di società con azioni non quotate in mercati regolamentati, in linea di principio le operazioni di acquisto di partecipazioni non sono sottoposte a particolari limitazioni, vincoli o oneri, salvo – per quanto qui d’interesse – quello di dover indicare l’identità dei soci nel “libro dei soci” (cfr. art. 2421, co. 1, n. 1, c.c.) e depositare l’elenco degli stessi per l’iscrizione nel Registro delle Imprese (ex art. 2435, co. 2, c.c.). Nel caso invece di società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione Europea sono previste nella disciplina di settore alcune ipotesi di obbligo di comunicazione delle “partecipazioni rilevanti” 84. In particolare, ai sensi dell’art. 120 del t.u.f. chiunque intenda acquisire in tali società una partecipazione in misura superiore al due per cento del capitale è soggetto, a pena di sospensione della possibilità di esercizio del relativo diritto di voto, all’obbligo di darne comunicazione alla società partecipata e alla Consob. Al riguardo, in ottica de jure condendo, stante la segnalata impossibilità o comunque difficoltà nel sottoporre efficacemente i “Fondi Sovrani” di paesi terzi alle norme e agli obblighi previsti dall’ordinamento italiano, rileva una disposizione la cui applicazione potrebbe essere estesa, mutatis mutandis, nei loro confronti, quale parte del modello di “regolamentazione indiretta” cui si faceva sopra riferimento. Il comma 6 dell’art. 120 del t.u.f. dispone, infatti, “un’inversione dell’obbligo di comunicazione” delle “partecipazioni rilevanti” di cui al co. 2 dello stesso

84 La relativa disciplina trae la sua ratio dall’intento di ridurre le asimmetrie informative in materia di assetti proprietari, che potrebbero incidere negativamente sia sull’efficienza allocativa dei mercati degli strumenti finanziari, sia alterare la normale dialettica tra gli organi sociali, riducendo le possibilità di controllo sugli amministratori e sugli effetti dell’attività di controllo e coordinamento nell’ambito dei Gruppi. La disciplina è infatti considerata “come diretta a realizzare la trasparenza nella gestione sociale rendendo “intelligibili” i soggetti economici che promuovono le iniziative imprenditoriali e dirigono le scelte economiche”, Rotondo, Assetti proprietari delle società quotate, in Il mercato finanziario, cit., p. 288.

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articolo, stabilendo che questo “non si applica alle partecipazioni detenute, per il tramite di società controllate, dal Ministero dell’economia e delle finanze”, dovendo in questo caso i relativi obblighi di comunicazione essere adempiuti da parte delle stesse società controllate. Un apposito regime pubblicitario è previsto inoltre, ex art. 122 del t.u.f., per i c.d. “patti parasociali” in qualunque forma stipulati, “aventi per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano” 85, nonché per l’ulteriore categoria di patti 86, in qualunque forma stipulati: a) che istituiscono obblighi di preventiva consultazione per l’esercizio del diritto di voto nelle società con azioni quotate e nelle società che le controllano; b) che pongono limiti al trasferimento delle relative azioni o di strumenti finanziari che attribuiscono diritti di acquisto o di sottoscrizione delle stesse; c) che prevedono l’acquisto delle azioni o degli strumenti finanziari indicati alla precedente lettera b); d) aventi per oggetto o per effetto l’esercizio anche congiunto di un’influenza dominante su tali società; e) volti a favorire o a contrastare il conseguimento degli obiettivi di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio, ivi inclusi gli impegni a non aderire ad un’offerta. L’inosservanza dei relativi obblighi (di comunicazione dei patti alla Consob, di pubblicazione per estratto sulla stampa quotidiana e di deposito presso il Registro delle Imprese del luogo ove la società ha la sede legale) è punita con la nullità dei patti stessi e il divieto di esercizio del diritto di voto inerente alle azioni quotate per le quali gli obblighi non sono stati adempiuti. In ambito civilistico, differenti oneri pubblicitari (comunicazione alla società e dichiarazione in apertura di ogni assemblea) sono imposti invece dagli artt. 2341–bis e 2341–ter c.c. per quei “patti parasociali”, in qualunque forma stipulati, finalizzati a stabilizzare gli assetti proprietari o il governo di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. L’inosservanza dei relativi adempimenti è punita in questo caso

85 Rientrano, ad esempio, in tale fattispecie “i sindacati di voto in senso stretto, ossia quei patti il cui oggetto è costituito dalla regolamentazione delle modalità di esercizio del diritto di voto nelle assemblee, di modo che le parti assumono diritti e obblighi aventi a oggetto la futura manifestazione del voto”, Tucci, Patti parasociali e governance nel mercato finanziario, Bari, 2005, p. 53. 86 Come rilevato le diverse tipologie di patti appartenenti a questa categoria si distinguono dall’altra categoria di patti “perché pur essendo relativi al diritto di voto in assemblea non ne regolano però l’esercizio, ovvero perché aventi oggetto del tutto diverso dal diritto di voto”, A. Tucci, Patti parasociali, cit., p. 56.

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con il divieto di esercizio del diritto di voto da parte dei possessori delle azioni cui si riferisce il patto e la possibilità d’impugnare ex art. 2377 c.c. le deliberazioni assembleari adottate con il loro voto determinante, ma non anche con la nullità dei patti in esame 87. Atteso che secondo alcune stime i sette “Fondi Sovrani” considerati meno trasparenti (ossia quelli che non pubblicano alcuna informazione sulla loro dimensione, sulla composizione per valuta dei loro investimenti e sulla loro asset allocation) deterrebbero circa la metà di tutti gli assets detenuti dai “Fondi Sovrani” nel loro complesso 88, per quanto qui d’interesse rilevano inoltre le norme di cui alla Sezione VI–bis del Capo 2 del Titolo III, del t.u.f. ed i relativi obblighi informativi e di disclosure rafforzati in tema di “rapporti con società estere aventi sede legale in Stati che non garantiscono la trasparenza societaria”. Le relative disposizioni si applicano alle società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati o emittenti strumenti finanziari diffusi fra il pubblico in misura rilevante (“società italiane rilevanti”), le quali siano collegate a o siano controllate da società aventi sede legale in Stati i cui ordinamenti non garantiscono la trasparenza della costituzione, della situazione patrimoniale e finanziaria e della gestione delle stesse società estere (art. 165– ter, t.u.f.). Le nozioni di controllo e di collegamento a tal fine rilevanti sono rispettivamente quelle di cui all’art. 93 del t.u.f. ed all’art. 2359, co. 3, c.c., mentre gli “Stati che non garantiscono la trasparenza societaria” rilevanti ai sensi della norma (“Stati non trasparenti”) sono individuati con decreti del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sulla base dei criteri elencati al terzo comma dello stesso art. 165–ter, t.u.f. Nella sostanza, il regime di trasparenza informativa e di disclosure rafforzata così definito impone che il bilancio delle “società italiane rilevanti” debba essere corredato da un’apposita relazione degli amministratori avente ad oggetto gli specifici aspetti indicati agli artt. 165–quinquies e 165–sexies del t.u.f., sottoscritta altresì dal Direttore Generale e dal

Come evidenziato, infatti, si deve “ritenere che, in mancanza di una disposizione espressa che tanto disponga, non si determini per le società diffuse, così come per tutte le società diverse da quelle sottoposte alla disciplina del t.u.f in tema di patti parasociali, la nullità dell’intesa”, Blandini, Società quotate e società diffuse, Le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, in Tratt. dir. civ. del cons. naz. del notariato, diretto da Perlingieri, V, 10, Napoli, 2005, p. 372. 88 Cfr. BCE, An Update on sovereign wealth funds, DG International and European Relations, 6 marzo 2008, p. 1. 87

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“Dirigente preposto” alla redazione dei documenti contabili, a cui deve essere allegato anche un parere espresso dall’Organo di controllo della società stessa. In particolare, la relazione degli amministratori (e il parere espresso dall’Organo di controllo della “società italiana rilevante”) deve fornire, a seconda dei casi, adeguate informazioni circa i rapporti intercorrenti fra la “società italiana rilevante” e le società aventi sede legale in uno degli “Stati non trasparenti” ad essa collegata, oppure fra la “società italiana rilevante” (o le società italiane che hanno ottenuto rilevanti concessioni di credito) e la società avente sede legale in uno degli “Stati non trasparenti” controllante (nonché le società da essa controllate o ad essa collegate o sottoposte a comune controllo), con particolare riguardo alle reciproche situazioni debitorie e creditorie, nonché alle operazioni compiute tra loro nel corso dell’esercizio cui il bilancio si riferisce, compresa la prestazione di garanzie per gli strumenti finanziari emessi in Italia o all’estero dai predetti soggetti. Nei confronti di tali società alla Consob sono attribuiti i penetranti poteri di vigilanza previsti dagli articoli 114 e 115 del t.u.f., i quali possono in questa sede essere esercitati per le finalità indicate dall’articolo 91 del t.u.f. stesso. Al fine di accertare l’osservanza da parte delle “società italiane rilevanti” dei particolari obblighi di disclosure rafforzata sopra richiamati, alla Consob è attribuito inoltre il potere/dovere di esercitare i medesimi poteri di vigilanza anche nei riguardi delle società estere, previo consenso delle competenti autorità straniere, o di chiedere l’assistenza o la collaborazione di queste ultime, anche sulla base di appositi accordi di cooperazione e Memorandum of Understanding. 3.1. …segue: l’acquisto di partecipazioni in imprese operanti nel settore finanziario. Per quanto riguarda le partecipazioni in imprese operanti nel settore bancario 89 e finanziario e quelle da queste detenute in altre imprese, si è detto che la disciplina italiana di riferimento prevede un complesso e articolato regime di oneri, limiti e divieti – differenziato in funzione sia della natura dell’attività svolta dal soggetto partecipato sia di quella svolta dal soggetto partecipante (i.e. svolgimento o meno di attività

89 Cfr. M. Sepe, Nuovo diritto societario e partecipazioni al capitale delle banche, in, Nuovo diritto societario ed intermediazione bancaria e finanziaria, a cura di Capriglione, Padova, 2003, p. 81 ss.

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d’impresa in misura rilevante nel settore bancario o finanziario) – che, al di là degli obiettivi di trasparenza e disclosure informativa, contempla ipotesi di subordinazione dell’operazione al rilascio di un’apposita autorizzazione da parte dell’Autorità competente. Senza voler indugiare in questa sede in una dettagliata analisi della relativa cornice normativa, e dei principi di c.d. “separatezza” tra imprese bancarie e finanziarie e imprese operanti in misura rilevante in altri settori 90, preme evidenziare che l’eventuale partecipazione di “Fondi Sovrani” – soggetti che in base alle considerazioni sopra svolte e alla natura dell’attività esercitata potrebbero comunque essere ricondotti tra quelli operanti in misura rilevante nel settore bancario o finanziario – al capitale di banche, SIM, SGR, SICAV risulterebbe soggetta alle disposizioni di vigilanza prudenziale sui c.d. “assetti proprietari” di tali intermediari recate dal t.u.f. (cfr. artt. 15-17), dal t.u.b. (cfr. artt. 19-24) e dalla relativa normativa secondaria di attuazione. In particolare, nell’ambito della disciplina di settore, al ricorrere di particolari circostanze la Banca d’Italia è chiamata a valutare preventivamente le operazioni di acquisto/incremento di partecipazioni al capitale degli intermediari vigilati sopra richiamati, al fine di verificare (unicamente) se il potenziale acquirente sia idoneo ad assicurare una “sana e prudente gestione” degli stessi 91, nonché a consentire l’“effettivo esercizio della vigilanza”, profilo quest’ultimo di particolare rilievo nei casi in cui il “potenziale acquirente” appartenga alla categoria dei “Fondi Sovrani”, i quali sono tipicamente incorporati in paesi terzi, al di fuori quindi dell’ordinamento nazionale e comunitario. Al riguardo giova rilevare che mentre per le SIM, le SGR e le SICAV il requisito dell’assenza di ostacoli all’esercizio delle funzioni di vigilanza è previsto a livello legislativo dall’art. 15 del t.u.f., per gli intermediari bancari questo risulta, invece, dalla declinazione del principio di “sana e prudente gestione” operata dalla Banca d’Italia nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza regolamentare 92.

90 Sul punto si rinvia a: Pellegrini, La separatezza banca-industria, in L’ordinamento finanziario italiano, cit., II, p. 425 ss. In particolare, sui principi ispiratori della disciplina comunitaria concernente le “partecipazioni qualificate” delle banche in imprese diverse da quelle bancarie e finanziarie, tra cui quello c.d. di “separatezza a valle”, si rinvia a: Troiano, Partecipazione qualificata al di fuori del campo finanziario, in Diritto bancario comunitario, cit., p. 305 ss. 91 Al riguardo: cfr. Brescia Morra, Le forme della vigilanza, in Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Capriglione, Bari, 2003, p. 110. 92 In particolare, secondo quanto indicato nelle “Istruzioni di vigilanza per le banche”

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Avute presenti la natura e le caratteristiche dei “Fondi Sovrani”, in aggiunta alle valutazioni di competenza delle Autorità di vigilanza attinenti alla “sana e prudente gestione” dei soggetti dalle stesse vigilati (espressione queste di una discrezionalità di natura tecnica), specifica rilevanza assume in materia anche il possibile scrutinio di natura “politica” delle operazioni di acquisto: 1) di partecipazioni rilevanti in una banca; 2) di azioni o quote di banche che comporti una partecipazione superiore al 5 per cento del capitale della banca rappresentato da azioni o quote con diritto di voto; 3) del controllo di una società che detiene tali partecipazioni. Infatti, ai sensi, del comma 8 dell’art. 19 del t.u.b., laddove a tali operazioni partecipino soggetti appartenenti a Stati extracomunitari che non assicurano condizioni di reciprocità 93, il Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’Economia e delle Finanze (che si deve ritenere in questa sede agisca nella sua veste di “Autorità creditizia”, cfr. art. 3 del t.u.b.), può vietare l’autorizzazione delle operazioni stesse. Per quanto riguarda i possibili vincoli o limitazioni alla partecipazione dei “Fondi Sovrani” di paesi extracomunitari al capitale di banche e intermediari finanziari aventi sede negli Stati Membri, non può mancare in chiusura di questa analisi un seppure breve accenno al fatto che il Parlamento Europeo ed il Consiglio hanno recentemente adottato una direttiva (2007/44/CE) 94 volta a modificare il quadro

laddove una banca entri a far parte di un gruppo non avente la qualifica di gruppo bancario, nell’ambito dei controlli sugli assetti proprietari a fini di sana e prudente gestione la Banca d’Italia verifica anche che “l’assetto del gruppo non risulti di ostacolo allo svolgimento dei controlli di vigilanza”. Nel caso in cui al gruppo appartengano società insediate all’estero, viene inoltre verificato se “la localizzazione delle stesse o le attività svolte in quei paesi siano tali da consentire l’esercizio di un’efficace azione di vigilanza” (cfr. Titolo II - Capitolo 1, Sezione I, par. 5.2 della Circolare della Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999). 93 Nell’ambito della crescente internazionalizzazione ed apertura del sistema bancario e finanziario europeo alle relazioni con i paesi terzi, sono previste (cfr. 19° considerando della direttiva 2000/12/CE, ora 20° considerando della direttiva 2006/48/CE) ipotesi di coinvolgimento della Commissione Europea nella gestione delle relazioni con tali paesi, attraverso accordi tra questi e la Comunità basati sul principio della “reciprocità di trattamento”. Principio questo che in subjecta materia risulta “sostitutivo dell’altro principio (del mutuo riconoscimento) che, com’è noto, presiede alle relazioni tra Stati comunitari (e per certi versi integrativo del medesimo ove si abbia riferimento ad un sistema di compiuta internazionalizzazione dell’ordinamento finanziario)”, Capriglione, Relazione con le imprese bancarie di paesi terzi, in Diritto bancario comunitario, cit., p. 182. 94 Direttiva 2007/44/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 settembre 2007 che modifica la direttiva 92/49/CEE del Consiglio e le direttive 2002/83/CE, 2004/39/CE, 2005/68/CE e 2006/48/CE, in GUCE L 247 del 21.9.2007, p. 1 ss.

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giuridico di riferimento in materia di regole procedurali e criteri per la valutazione prudenziale, da parte dalle Autorità competenti dei diversi Stati Membri, di operazioni di acquisizione e incremento di partecipazioni in banche e altre imprese operanti nel settore finanziario. L’obiettivo di policy perseguito in questo caso dalla Comunità risulta essere quello di agevolare il migliore funzionamento del mercato unico, ed in particolare del mercato del controllo societario, nonché “conservare i suoi mercati finanziari aperti al resto del mondo, contribuendo così a migliorare la liberalizzazione dei mercati finanziari globali nei paesi terzi. [… Si ritiene, infatti, che sarebbe…] vantaggioso per tutti gli operatori del mercato conseguire un accesso equivalente agli investimenti su scala mondiale” (cfr. considerando n. 14 della direttiva 2007/44/CE). A tal fine la menzionata direttiva, oltre a recare disposizioni volte a migliorare le modalità di esercizio dei poteri di vigilanza prudenziale nella valutazione delle operazioni in parola (dal punto di vista della chiarezza, trasparenza, correttezza e prevedibilità dei procedimenti condotti dalle Autorità competenti), mira soprattutto ad evitare il possibile esercizio di tali poteri per finalità “protezionistiche” o in contrasto con il principio del level playing field. Vengono così espressamente indicati i profili che le Autorità competenti degli Stati Membri devono valutare nell’esercizio delle loro funzioni di vigilanza prudenziale in subjecta materia. Tra questi alcun rilievo possono legittimamente assumere aspetti attinenti alle “necessità economiche del mercato” o alla nazionalità delle controparti in quanto tale, potendo e dovendo invece essere tenuti in debito conto unicamente profili legati alla “qualità del candidato acquirente” e alla “solidità finanziaria del progetto” di acquisizione, da valutare questi sulla base dei criteri pure ivi esplicitati. Ciò posto, secondo le indicazioni della direttiva, al profilo della valutazione della “reputazione” del candidato acquirente, che presuppone la verifica della sua integrità e della sua competenza professionale, potrebbe essere comunque riservato un peso differente in funzione della “nazionalità” della relativa persona fisica o giuridica; in particolare, un rilievo minore laddove l’acquirente sia un soggetto autorizzato e sottoposto a vigilanza all’interno dell’Unione europea, un’importanza decisamente maggiore se invece il candidato acquirente è un soggetto non regolamentato/vigilato. La “nazionalità” del candidato acquirente può, inoltre, assumere specifico rilievo giuridico nell’ambito delle valutazioni volte a verificare che il Gruppo di cui l’impresa bancaria, finanziaria o assicurativa comunitaria diventerà parte “disponga di una struttura che permetta di esercitare

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Simone Mezzacapo

una vigilanza efficace, di scambiare effettivamente informazioni tra le autorità competenti e di determinare la ripartizione delle responsabilità” tra le stesse 95. Considerazioni attinenti alla nazionalità delle parti o alla provenienza delle risorse finanziarie impiegate possono altresì assumere specifica rilevanza per finalità di prevenzione del riciclaggio dei proventi di attività criminose, compreso il finanziamento del terrorismo (si pensi, ad esempio, al caso di coinvolgimento di soggetti residenti nei paesi e territori “non collaborativi” censiti dal Gruppo di azione finanziaria internazionale – GAFI). Nella valutazione della “qualità del candidato acquirente” e della “solidità finanziaria” del progetto di acquisizione, la direttiva in parola indica, infatti, tra i criteri rilevanti anche quello dell’esistenza di rischi (rectius, ragionevoli motivi di sospetto) che, in relazione alla prevista acquisizione, sia in corso o abbia avuto luogo un’operazione o un tentativo di riciclaggio di proventi di attività illecite o di finanziamento del terrorismo (ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2005/60/CE)  96 o che il progetto di acquisizione potrebbe aumentarne il rischio.

Elenco dei principali “Fondi Sovrani”: NOME Abu Dhabi Investment Authority Government of Singapore Investment Corporation Government Pension Fund of Norway Saudi Arabia – varie holdings

AUM in % del PIL 2007

Asset Under Management (USDbn)

Paese “Sponsor”

Anno di costituzione

875

Emirati Arabi Uniti

1976

Commodity 673.1%

330

Singapore

1981

Non-Comm. 205.0%

301

Norvegia

1990

Commodity

78.8%

300

Arabia Saudita

***

Commodity

78.5%

Fonte di ricchezza

segue

95 Sul rilievo giuridico dei profili organizzativi dei gruppi, anche con riferimento agli aspetti di vigilanza prudenziale: cfr. Troiano, Tipologie soggettive bancarie e organizzazione di gruppo, in L’ordinamento finanziario italiano, cit., II, p. 391 ss.; nonché dello stesso autore, Il gruppo bancario e il nuovo diritto societario: profili di responsabilità della holding, in Nuovo diritto societario ed intermediazione bancaria e finanziaria, a cura di Capriglione, Padova, 2003, p. 135 ss. 96 Direttiva 2005/60/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 26 ottobre 2005 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo.

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Saggi

continua

NOME Kuwait Investment Authority Stabilisation Fund (e National Welfare Fund) China Investment Corporation Hong Kong Monetary Authority Invest. Portfolio Temasek Holdings Investment Corporation of Dubai Qatar Investment Authority Libyan Arab Foreign Investment Company Revenue Regulation Fund Australian Future Fund Kazakhstan National Fund National Pensions Reserve Fund Brunei Investment Agency Korea Investment Corporation Alaska Permanent Fund Khazanah National Alberta’s Heritage Fund Altri TOTALE

Asset Under Management (USDbn)

Anno di costituzione

265

Kuwait

1953

Commodity 259.8%

225

Russia

2004

Commodity

17.5%

200

Cina

2007

Non-Comm.

6.1%

173

Cina

1998

Non-Comm.

83.2%

Singapore Emirati 82 Arabi Uniti

1974

Non-Comm.

83.3%

2006

Commodity

63.1%

60

Qatar

2005

Commodity 142.8%

50

Libia

1981

Commodity

86.2%

47 44

Algeria Australia

2000 2004

Commodity Non-Comm.

34.9% 5.3%

38 Kazakhstan

2000

Commodity

36.6%

31

Irlanda

2001

Non-Comm.

12.2%

30

Brunei

1983

Commodity 250.0%

2005

Non-Comm.

3.1%

1976 1993 1976 ***

Commodity Non-Comm. Commodity ***

70.8% 14.4% 1.2% ***

134

30 29 26 16 168 3454

Korea del Sud USA Malesia Canada ***

Fonte di ricchezza

AUM in % del PIL 2007

Paese “Sponsor”

Fonte: IFSL, (2008 and 2009), Sovereign Wealth Funds 2008 and 2009; Standard Chartered, (2007), State Capitalism: The rise of sovereign wealth funds; World Bank, (2008), World Development Indicators database, World Bank, September 2008.

Simone Mezzacapo

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COMMENTI

Revocatoria delle rimesse in conto corrente

I TRIBUNALE DI MONZA, Sezione III civile, sentenza 3 settembre 2008; G.U. Paluchowski; Fall. IC. S.r.l. c. Ba. Po. S.p.a. Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Presupposti – Riduzione durevole dell’esposizione della banca – Estremi – Fattispecie (L. fall. art. 67, co. 3, lett. b) Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario - Revocabilità – Presupposti – Riduzione consistente dell’esposizione della banca – Estremi – Fattispecie (L. fall., art. 67, co. 3, lett. b) Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario- Revocabilità – Distinzione fra conto passivo e conto scoperto – Irrilevanza (L. fall., art. 67, co. 3, lett. b)

Ai fini della revocatoria, ha carattere durevole la rimessa che permanga sul conto corrente bancario per un apprezzabile periodo di tempo (nella specie, sono state ritenute durevoli le rimesse periodiche costituenti rate di un piano di rientro ed effettuate su un conto “congelato”). (1) Ai fini della revocatoria, è consistente la rimessa di importo rilevante rispetto all’entità dell’indebitamento (nella specie, sono state ritenute consistenti le rimesse periodiche che comportavano una riduzione del 7% dell’indebitamento). (2) Le rimesse sul conto corrente bancario sono revocabili indipendentemente dalla circostanza che siano affluite su conto scoperto o su conto passivo. (3)

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Commenti

II TRIBUNALE DI MILANO, Sezione II civile, sentenza 27 marzo 2008; G.U. Vitiello; Fall. P.A.E. c. Ba. Po. s.c.r.l. Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Rimesse su conto scoperto – Necessità (L. fall., art. 67, co. 3, lett. b) Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Presupposti – Riduzione consistente dell’esposizione della banca – Estremi – Fattispecie (L. fall. art. 67, co. 3, lett. b) Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Riduzione durevole dell’esposizione debitoria – Estremi – Fattispecie (L. fall. art. 67, co. 3, lett. b)

Le rimesse su conto corrente bancario sono revocabili solo se affluite su conto scoperto. (4) Ai fini della revocatoria la consistenza della rimessa va verificata alla luce sia dell’entità massima dell’esposizione debitoria sia dell’entità media dei movimenti del conto sia dell’ammontare del debito nel momento in cui essa è effettuata (nella specie, la soglia di consistenza è stata individuata nel 10% della differenza fra l’esposizione massima nel periodo sospetto e l’esposizione finale). (5) Ai fini della revocatoria, ha carattere durevole la rimessa il cui effetto solutorio presenti una apprezzabile stabilità nel tempo, da valutare anche con riguardo alla frequenza delle movimentazioni del conto (nella specie, il «periodo di stabilità» è stato determinato in 10 giorni). (6)

I Svolgimento del processo – Il fallimento della IC. S.r.l. con atto di citazione notificato il 1 marzo 2007, conveniva in giudizio la Ba.Po. S.p.A. al fine di sentire dichiarare l’inefficacia dei pagamenti eseguiti in suo favore sul conto corrente (omissis) acceso presso la filiale di Cologno

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Monzese nei sei mesi antecedenti il fallimento dichiarato con sentenza 19 - 26/04/2006, ammontanti ad Euro 44.783,36. Reputava che i pagamenti fossero avvenuti con la consapevolezza dello stato d’insolvenza in cui versava la debitrice, poiché eseguiti in presenza di protesti, azioni giudiziarie promosse nei confronti della fallita,


Tribunale di Monza

andamento del conto esclusivamente a rientro, circostanza che rendeva le rimesse revocabili perché consistenti e durevoli. Concludeva chiedendo la dichiarazione di inefficacia e revoca dei pagamenti eseguiti per Euro 44.783,36, oltre interessi dalla domanda al saldo. Si costituiva la Banca negando, in principalità, di avere conosciuto lo stato d’insolvenza visto che le azioni monitorie riferite erano inconoscibili, come pure erano sconosciuti gli atti di precetto, i protesti venivano definiti non significativi perché modesti, inoltre negava che le rimesse fossero revocabili sotto il profilo oggettivo, posto che non erano consistenti, né durevoli. Concludeva chiedendo l’accertamento della carenza dei presupposti dell’art. 67 per promuovere l’azione ed il suo rigetto. Il giudice, dato atto che non erano state svolte istanze istruttorie, fissava l’udienza di precisazione delle conclusioni. Le parti tentavano di raggiungere un accordo, ma non era possibile, così precisavano le conclusioni all’udienza del 6/03/2008. Successivamente a tale incombente la controversia era fissata per la decisione con i termini di legge per il deposito degli scritti difensivi. Motivi della decisione – Si deve premettere che la controversia introdotta dal Fallimento IC. S.r.l. è sottoposta al regime sostanziale della revocatoria riformata dal decreto legge n. 35 del 2005, ma sotto il profilo processuale, essendo il fallimento stato dichiarato nell’aprile del 2006, prima della entrata in vigore della riforma n. 5 del 2006 (16/07/2006), ha seguito il rito ordinario e va decisa, come le revocatorie

pregresse, dal giudice monocratico, con procedimento civile ordinario e sentenza. La declaratoria di inefficacia nei confronti della massa delle rimesse consistenti e durevoli, affluite sul conto (omissis) acceso presso la filiale di Cologno Monzese della Ba.Po. S.p.A. introdotta dal fallimento postula, oltre ad una serie di atti solutori, compiuti nel periodo sospetto di sei mesi antecedente il fallimento (dichiarato il 19 - 26/04/2006), anche l’esistenza della c.d. scientia decoctionis. La sussistenza dell’elemento soggettivo dell’azione è presupposto indefettibile, quindi esso va accertato prima di analizzare se tra le operazioni segnalate vi sono effettivamente rimesse consistenti e durevoli che hanno prodotto il loro effetto solutorio. Sul punto va detto che la curatela ha fornito alcuni elementi indiziari, atti ad integrare delle presunzioni semplici di conoscenza (rectius conoscibilità) dello stato d’insolvenza. In merito alla prova della scientia in capo alla Banca (cfr. Cass. 28/04/1995, n. 4718 e Cass. 28/05/1997 n. 4731) la giurisprudenza ha infatti costantemente affermato che la conoscenza deve essere effettiva e la prova non può avere come oggetto la mera conoscibilità della crisi in cui si dibatteva il proprio debitore (cfr. Cass. 07/07/1999 n. 7064). La scientia, intesa quale stato soggettivo del terzo, può essere fornita tramite elementi indiziari sempre che consentano di ritenere che il terzo, applicandosi con comune diligenza, non avrebbe potuto non avvedersi dello stato di dissesto economico del debitore (cfr. Cass. 23/01/1997, n. 699). Tale prova può essere fornita per presunzioni, ma le stesse debbono essere sostenute da elementi gravi precisi e concordan-

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ti, come ogni presunzione semplice (cfr. tra le molte Cass. 28/04/1998, n. 4318). Nel caso in esame è pacifico che essi sono molteplici, i più significativi sono ancora una volta i protesti, cui la fallita è stata sottoposta sin dall’aprile 2005 (cfr. certificato doc. 7, che ne evidenzia moltissimi). Benché la banca affermi la loro non significatività, perché modesti, si deve osservare che alcuni di essi sono stati elevati ad istanza della stessa banca convenuta che non li ha onorati ed in proposito il doc. 8 ne mostra ben 5 (il 17/06/2005 per 2.733,00 Euro, il 3/08/2005, per la medesima somma, così pure 2/09/2005, il 4/10/2005 ed il 3/11/2005 per la stessa somma). Tutti i protesti sono stati elevati per titoli che erano stati domiciliati presso la Ba.Po., convenuta, come attestano i verbali di elevazione del protesto redatti dal notaio Qu., ciò sta a significare che dal giugno del 2005 la banca non aveva più fiducia nel cliente e non pagava in presenza di conto scoperto (l’espressione “mancano disposizioni” riportata sul protesto, infatti, secondo l’id quod plerumque accidit, viene utilizzata proprio di fronte all’assenza di fondi e alla carenza di volontà della banca di far fronte al debito in situazione di incapienza del conto). Si conviene con la difesa della banca che i decreti ingiuntivi emessi dal giudice di pace di Verona non avrebbero potuto essere conosciuti, così pure gran parte dei precetti, atti non conoscibili se non si è presenti alla loro notifica, non sussistendo alcuna raccolta o rubrica pubblica che li evidenzi. Diversamente deve concludersi per i decreti ingiuntivi emessi ed i pignoramenti eseguiti dinanzi al

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Tribunale di Monza, poiché esistono e sono disponibili al pubblico le rubriche delle esecuzioni e dei pignoramenti, così pure dei decreti ingiuntivi. Di regola tale documentazione non è consultata dai fornitori e dagli istituti di credito, ma risulta comprensibile, invece, che ci si rivolga a tali indagini, che di routine eseguono anche le società specializzate di cui si servono spesso le banche, quando sorgono dubbi sulla solvibilità del cliente. Nel caso in esame i dubbi dovevano essere in realtà certezze in quanto la società fallenda si era fatta pluriprotestare per importi non ingenti ed aveva il conto costantemente scoperto (segno della sua incapacità di far fronte ai debiti contratti). Da ultimo occorre esaminare l’andamento del conto (omissis), che dall’ottobre 2005 è in fase di rientro come emerge dalla dicitura del doc. 3, pag. 1 quarto estratto conto trimestrale del 2005 dove, dopo il versamento del garante del 3/10/2005, di 20.000 Euro, compaiono versamenti per ordine e conto di IC. “come da piano di rientro programmato”. Sembra innegabile che, dopo i primi protesti, il conto sia stato messo a rientro e, benché non chiuso, sia stato congelato al fine di ricevere solo pagamenti a rientro (per mesi infatti non vi è stato alcun prelievo), mentre a latere è stato aperto altro conto (i cui estratti sono stati prodotti) che operava solo su basi attive. Alla luce di questi elementi si deve affermare la assoluta consapevolezza specifica della banca in ordine alla crisi irreversibile in cui si dibatteva il suo cliente IC., quindi la sussistenza della scientia decoctionis. Passando all’aspetto oggettivo


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della revocabilità delle rimesse, questo decidente reputa che l’andamento del conto descritto ed evidenziato dal doc. 3 nella sua completezza, dimostri anche la sussistenza della durevolezza delle rimesse affluite sul conto, elemento che, unitamente alla consistenza, determina la sottrazione al generale regime di non revocabilità delle rimesse in conto corrente, stabilito dalla riforma introdotta dal decreto legge n. 35 del 2005 c.d. competitività. La legge del 2005, infatti, afferma che la singola rimessa in sé non è più oggetto di revoca a meno che non abbia in modo “consistente e durevole” ridotto l’esposizione. Uno dei requisiti richiesti in astratto perché la rimessa sia considerata un pagamento e perciò revocabile, è infatti che abbia un effetto durevole (espressione che semanticamente si può tradurre con non istantaneo, persistente e/o stabile). Questo aggettivo, come quello di cui si dirà poi, consistente, lascia invero l’interprete perplesso. Occorre infatti chiedersi quale è la portata del termine durevole in una ipotesi in cui il periodo sospetto (cioè il suo orizzonte temporale naturale) è di soli sei mesi. Si deve ritenere, innanzitutto, che durevole sia certamente la rimessa dopo la quale il conto non opera più, ad esempio perché interviene il fallimento. Durevole indubbiamente esprime la certezza che la rimessa non rappresenta una semplice variazione oscillatoria del conto passivo, dovuta ad eventi contingenti e involontari (ad esempio un ritardo nell’accredito di rimesse in corso di cui la banca ha già notizia od addirittura il bene fondi,

per cui eroga il credito oltre il limite in modo occasionale, contingente e assolutamente temporaneo). Inoltre certamente significa non istantaneo, non coevo, non contestuale, né formalmente, né logicamente. Esprime una diversità evidente rispetto al termine permanente (con il quale si reputa che non possa coincidere se non eccezionalmente), ma presuppone il decorso di un apprezzabile periodo di tempo (come potrebbe essere per le rate periodiche di un piano di rientro). Se vi sono altre operazioni di addebito e di accredito, dopo quella oggetto di revoca, appare opportuno domandarsi quale è il limite di durata ipotizzabile tra una rimessa e l’altra, oppure se la durevolezza non sia connessa necessariamente al congelamento della operatività del conto, di fatto o di diritto che sia. Del resto se la volontà è quella di colpire le eccezioni, intese come anomalie di funzionamento, il dipanarsi ordinario del conto potrebbe non integrare sempre la fattispecie. Conseguentemente un conto congelato, come quello in esame, sul quale affluiscono solo le rate del piano di rientro, che vi permangono, è certamente caratterizzato da rimesse “durevoli”, è anomalo nel suo funzionamento che non è quello fisiologico di ogni conto corrente e presenta, perciò, i requisiti per integrare l’eccezione alla esenzione del terzo comma dell’art. 67 l.f. Se per comprendere il significato del termine durevole si propone nuovamente un problema ermeneutico, non vi è dubbio che nel caso in esame esso va risolto in favore della sussistenza della caratteristica che consente la revocabilità.

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L’altra caratteristica della rimessa revocabile deve essere la consistenza. L’uso dell’aggettivo consistente (il cui significato si potrebbe riassumere con rilevante, non trascurabile) fa sì che possa ritenersi revocabile astrattamente solo il versamento di entità apprezzabile. Poiché appare fondamentale stabilire i parametri di riferimento della valutazione di consistenza, si aprono due possibili scenari, la scelta cioè di un parametro assoluto, avulso dal rapporto con la esposizione globale, oppure di un parametro di relatività che abbia quale riferimento quantitativo globale la esposizione e, probabilmente, anche l’ammontare dei fidi concessi. Il tentativo di decontestualizzare il versamento, adottando un parametro assoluto, non sembra ragionevolmente condivisibile. La consistenza non può che essere logicamente proporzionata alla esposizione esistente ed alla capacità percentuale di soddisfo che rappresenta sul totale del debito. Perciò si può affermare che, se l’affidamento e lo scoperto sono di 5.000,00 Euro, rappresenta una rimessa consistente anche quella di 400,00 Euro, benché in termini assoluti non lo sia affatto. Mentre se l’affidamento è di 500.000,00 Euro e lo scoperto è equivalente, la rimessa pur di 15.000 Euro probabilmente non lo è perché rappresenta una percentuale trascurabile della esposizione. È ben vero che l’adozione di un parametro relativo rischia di lasciare fuori dalla operatività dell’azione anche versamenti di una certa importanza, in caso di esposizioni rilevanti, ma non sembra accettabile l’adozione del concetto di consistenza in termini assoluti. D’altra parte sembra ragionevole, oltre che

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razionale, che tra i parametri da adottare vi debba e possa essere anche la precedente condotta delle parti in ordine all’entità delle rimesse effettuate, per cui anche il versamento di una somma più elevata di quelle che per singola operazione transitavano di regola sul conto può apparire dotato di consistenza avendo quale riferimento relativo appunto il pregresso uso del conto. Non va nascosto che vi è anche una interpretazione in cui il senso globale della disposizione citata si lumeggia solo con una lettura, in “combinato disposto” quasi, del 67 lettera b e del 70, cosicché la consistenza sarebbe in definitiva identificabile con la differenza fra il massimo scoperto e l’esposizione iniziale. Nel caso in esame le rate del piano di rientro sono da ritenersi consistenti in termini relativi con riferimento alla entità dell’indebitamento, circa 150.000 Euro iniziali, via via riducentisi, rispetto ai quali il cliente rientrava ogni volta di 10.000 o 12.000 Euro mensilmente, comportando ogni volta una riduzione del 7%, percentuale crescente, ed una riduzione dell’indebitamento totale del 30% circa al termine dei pagamenti. Affermata la sussistenza delle due condizioni perché si realizzi l’eccezione alla esenzione da revocatoria delle rimesse si deve appurare se il legislatore abbia voluto che in ogni caso la rimessa revocabile debba avere anche le caratteristiche che la giurisprudenza le ha cucito addosso in venticinque anni di elaborazione, per giungere alla sua revoca. Va precisato sul punto che una convincente argomentazione favorevole prende le mosse dalla considerazione che, essendo il termine rimessa usato dal 67 comma 3 atecnico e


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generico, mentre il 67 comma 2 ammette la revoca di pagamenti, occorre in ogni caso individuare quando la rimessa è pagamento ed a tal fine non si può prescindere dalla disamina della esistenza del conto scoperto o passivo. In realtà però sembra preferibile affermare che la norma individua quali rimesse sono revocabili, e quindi quali rimesse sono pagamenti, fornendo una lettura diversa da quella che la giurisprudenza ne ha dato fino ad ora. Perciò non sembra obbligatorio il recupero della giurisprudenza precedente. Nel caso in esame, in ogni caso, essendo il conto scoperto ed a rientro non vi sarebbero dubbi nemmeno alla luce della precedente giurisprudenza, in ordine alla natura solutoria di ciascuna delle rimesse oggetto della presente azione revocatoria. Il fallimento ha opportunamente ridotto la domanda rispetto alle effettive rimesse ritenute contabilmente revocabili (pari ad Euro 57.500,00) poiché la differenza fra il massimo scoperto nei 6 mesi, di Euro 157.375,15 ed il saldo al momento della insinuazione (Euro 114.560,14) ha evidenziato una sorta di differenza di cd. massimo scoperto pari ad Euro 44.783,36 (per altro vi erano in ogni caso alcune rimesse di importo modesto, non consistenti, che andavano scartate, due da 2.500,00 Euro per 5.000 Euro globali). Conseguentemente si deve pronunciare la revoca delle rimesse eseguite nei sei mesi precedenti al fallimento IC. S.r.l., dichiarato il 26/04/2006, nei limiti di Euro 44.783,36, effettivo rientro eseguito e calcolato ai sensi dell’art. 70 l.f. Data la natura costitutiva dell’azione esperita dal Fallimento IC., la dichiarazione di inefficacia relativa dei

pagamenti sino all’ammontare della somma indicata, va accompagnata dalla condanna alla restituzione di Euro 44.783,36 in favore del fallimento, oltre interessi legali a far tempo dal 1/3/2007, data di notifica dell’atto introduttivo del presente giudizio (cfr. Cass. 14/03/2000, n. 2909 e Cass. 19/10/1998, n. 10350). (Omissis)

II Svolgimento del processo – Con atto di citazione notificato il 24.07.06, il Fallimento Pizzi Angelo Emilio ha convenuto in giudizio Banca (omissis) chiedendo la revoca ai sensi dell’art. 67, co. 3, lett. b) l. fall. delle rimesse affluite sul conto corrente bancario n. 10680 nel periodo compreso tra il 06.06.05 ed il 06.12.05, data di deposito della sentenza di fallimento di Angelo Emilio Pizzi, intervenuto quale conseguenza automatica del fallimento della Pizzi Felice & C. s.n.c. L’attore, ritenuto che l’art. 70, co. 3, l. fall. costituisca canone di interpretazione autentica dell’art 67, co. 3, lett. b) l. fall., ha sostenuto che la natura solutoria delle rimesse intervenute nel periodo sospetto e la consistenza e la durevolezza della diminuzione dell’esposizione debitoria del fallito siano dimostrate dalla differenza esistente tra il massimo scoperto registrato nel periodo esaminato ed il saldo finale del conto, differenza pari all’importo di euro 13.503,80, oggetto della domanda restitutoria. La convenuta si è costituita in giudizio all’udienza del 23.01.07, rilevando la mancanza dei presupposti oggettivi dell’azione: la consistenza delle rimesse e la capacità delle stesse di

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diminuire durevolmente l’esposizione debitoria del fallito, nonché la carenza del requisito soggettivo che, in ogni caso, avrebbe dovuto essere riferito alla società poi fallita e non al socio illimitatamente responsabile. L’attore, con memoria ex art. 183, co. 6, n. 1 c.p.c., ha quindi dedotto la conoscenza, da parte della convenuta, dello stato di insolvenza anche della Pizzi Felice & C. s.n.c. La causa è stata ritenuta matura per la decisione sulla base dei documenti prodotti e le parti hanno quindi precisato le conclusioni così come da fogli allegati. Motivi della decisione – Secondo la prospettazione della banca convenuta, il riferimento della conoscenza della banca all’insolvenza della società, e non soltanto a quella del socio, integra una modifica della domanda, irritualmente effettuata dall’attore nella memoria depositata ai sensi dell’art. 183, co. 6, n. 1 c.p.c. La convenuta sostiene inoltre l’inammissibilità delle produzioni documentali effettuate dal fallimento attore con la predetta memoria e con quella depositata ex art. 183, co. 6, n. 3 c.p.c. Quanto al primo profilo, va detto che l’introduzione del tema della scientia riferita alla società, e non più soltanto al socio, integra una modificazione delle argomentazioni poste a fondamento della pretesa, o meglio delle allegazioni dei fatti posti a fondamento della domanda e non certo una mutatio libelli (neppure, per la verità, una emendatio libelli); di qui la considerazione che la modifica sia ritualmente avvenuta in sede di memoria depositata ai sensi dell’art. 183, co. 6, n. 1 c.p.c. e che sarebbe potuta interve-

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nire anche in un momento successivo del procedimento. Quanto invece alla prospettata inammissibilità delle produzioni documentali effettuate dall’attore con la prima delle memorie di cui all’art 183 c.p.c, essa non sussiste. Le norme codicistiche, infatti, impongono alle parti termini finali, aventi carattere perentorio, per la definizione del thema probandum, ma in nessun modo proibiscono di anticipare le produzioni documentali, con ciò non realizzandosi alcuna violazione del principio del contraddittorio che, al contrario, viene maggiormente garantito da un’anticipata discovery. Quanto invece alla produzione, da parte dell’attore, dei documenti contraddistinti dai numeri 9), 10) e 11), produzione effettuata con memoria ex art. 183, co. 6, n. 3 c.p.c. va rilevato quanto segue. La produzione della visura storica della Pizzi Felice & C s.n.c. (doc. 9 dell’attore) è da considerarsi tempestiva, in quanto tesa a dimostrare che, contrariamente a quanto dedotto dalla convenuta con memoria depositata ai sensi dell’art. 183, co. 6, n. 2, tutti i protesti di cui al documento 8) di parte attrice, malgrado la loro intestazione, in parte alla Pizzi Felice & C s.n.c. e in parte alla Autotrasporti Pizzi Felice & C s.n.c., fossero riferibili allo stesso soggetto giuridico. Le produzioni dell’estratto del conto corrente n. 9872 intestato alla Pizzi Felice & C s.n.c. (doc. 10 dell’attore) e delle copie dei decreti ingiuntivi e dei precetti notificati alla società (doc. 11 dell’attore) sono invece da considerarsi tardive. Tali documenti dimostrerebbero infatti la conoscenza da parte della banca convenuta dello stato di insolvenza


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della società; la necessità di provare tale circostanza sorge, però, semplicemente, dalla necessità di provare la fondatezza della domanda; deve pertanto escludersi che nel caso in esame operi la norma di cui all’art. 183, co. 6, n. 3 c.p.c. Non potrà tenersi conto, quindi, dei documenti prodotti dal fallimento sub nn. 10) e 11). Passando all’esame del merito della controversia si rileva preliminarmente che, poiché il fallimento di Angelo Emilio Pizzi è stato dichiarato con sentenza depositata in data 06.12.05 (doc. 3 dell’attore), la revocatoria delle rimesse bancarie affluite sul conto corrente di cui si discute è regolata dagli artt. 67 e 70 l. fall., così come modificati dal D.L. 35/05, poi convertito in legge dalla l. 80/05, applicabile alle procedure concorsuali aperte dopo il 16.03.05. A norma dell’art. 67 l.fall., pertanto, affinché le rimesse in conto corrente bancario siano revocabili devono cumulativamente sussistere i seguenti requisiti: 1) devono essere intervenute nei sei mesi antecedenti la declaratoria di fallimento; 2) devono aver avuto natura solutoria; 3) devono aver ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca; 4) devono essere accompagnate dalla scientia decoctionis da parte dell’accipiens. Nella compresenza di tutti i suddetti requisiti, l’obbligo della banca di restituire quanto percepito dal fallito subisce un’ulteriore limitazione a norma dell’art. 70, u. co., l. fall, secondo

cui, nel caso in cui la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario, l’istituto di credito non può essere chiamato a restituire una somma maggiore di quella risultante dalla differenza fra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese e l’ammontare residuo delle stesse alla data in cui si è aperta la procedura concorsuale. L’art. 70 l.fall., quindi, pone un limite agli obblighi restitutori della banca, che non interferisce con i requisiti necessari, a monte, affinché vi sia la revocabilità delle rimesse in conto corrente effettuate dal fallito. Ciò premesso e venendo alla fattispecie in esame, posto che la natura solutoria delle rimesse discende dal fatto, non contestato, che le stesse siano intervenute a conto corrente scoperto, non essendo quest’ultimo assistito da un contratto di apertura di credito, la valutazione di fondatezza della domanda dipende anzitutto dalla possibilità di ritenere che alcune delle rimesse abbiano avuto l’effetto di ridurre l’esposizione debitoria in modo consistente e durevole. Per stabilire quale sia la soglia oltre la quale la restituzione alla banca può dirsi consistente, deve escludersi che sia possibile riferirsi ad un criterio quantitativo assoluto, che prescinda cioè dagli elementi caratterizzanti la fattispecie concreta: l’inefficacia di un atto pregiudizievole per la massa dei creditori va necessariamente fatta dipendere dalla sua idoneità a ledere l’interesse tutelato, il che si verificherà in tutti quei casi in cui la lesione della par condicio potrà essere ritenuta apprezzabile e non trascurabile. L’intento del legislatore è infatti quello di escludere dall’ambito di ap-

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plicazione dell’istituto della revocatoria quelle operazioni che, per il loro peso, non paiono idonee a depauperare il patrimonio del fallito in maniera significativa. È allora evidente che l’unità di misura debba essere relativizzata, condizionata quindi sia dall’entità massima dell’esposizione debitoria del conto corrente, sia dall’entità media dei versamenti in entrata e delle uscite dal conto, sia infine dall’ammontare del debito nel momento in cui la singola rimessa è stata effettuata. Diversamente, non si terrebbe conto del principio di ragionevolezza e di uguaglianza, e si finirebbe per trattare in maniera equivalente delle fattispecie molto diverse tra loro. Se così è, la consistenza del pagamento va individuata ricorrendo ad un parametro espresso in termini percentuali. Tale parametro può essere individuato nel dieci per cento, con il conseguente e successivo problema dell’individuazione del criterio cui riferire il parametro stesso. Nell’individuazione del polo comparativo di tale parametro, in mancanza di indicazione alcuna da parte del legislatore, va fatto ricorso al criterio dell’importo massimo revocabile, individuato dall’art. 70, ult. co., l. fall, nella differenza tra la massima esposizione debitoria raggiunta dal fallito nel periodo cd. sospetto e quella riscontrata al momento di apertura del concorso. Poiché nel caso in esame tale somma è pari a poco più di euro tredicimilacinquecento, ne discende che vanno considerate rimesse con effetto restitutorio consistente quelle superiori ad euro 1.350,00. Venendo al requisito della durevo-

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lezza della diminuzione dell’esposizione debitoria del fallito, va premesso che non paiono sostenibili né la tesi che finisce per ravvisarlo nella sola ipotesi in cui la rimessa non sia seguita da ulteriori operazioni di addebito in conto corrente, né quella che individua il requisito in negativo, rispetto all’ipotesi della rimessa cd. bilanciata (identificabile ricorrendo ai principi elaborati dalla giurisprudenza sotto il vigore della passata disciplina). Infatti la prima interpretazione finirebbe per limitare la sfera di applicazione della norma al solo caso in cui il versamento integri un (integrale o parziale) definitivo rientro, quando invece tale tesi non è fondata su alcun indice normativo e non v’è dubbio che, se tale fosse stato l’intento del legislatore, l’esplicitazione della regola sarebbe stata doverosa. La seconda delle due viste tesi non tiene invece conto che dalla previsione del requisito della durevolezza deve derivare, necessariamente, pena l’inutilità della sua introduzione, che ci sia un quid pluris rispetto all’assenza del bilanciamento delle operazioni sul conto corrente. Tale elemento in più va quindi individuato nell’apprezzabile stabilità, nel tempo, dell’effetto solutorio. Nell’interpretazione del significato dell’aggettivo durevole, quindi, va cercato un punto di equilibrio, tra le viste due impostazioni teoriche, che sfocia nel concetto di stabilità nel tempo dell’effetto solutorio e si risolve nel ritenere che soltanto il versamento (con effetto riduttivo consistente) che non venga compensato da successivi prelevamenti (non necessariamente di importo corrispondente, ma anche superiore, o inferiore ma non tale da


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ridurre il ripianamento al di sotto dell’individuata soglia di “consistenza”), sia caratterizzato dalla durevole riduzione dell’esposizione debitoria prevista dalla disciplina scaturita dalla riforma. Nella determinazione del periodo successivo rilevante ai detti fini, deve essere fatto ricorso, necessariamente, ad un criterio relativo e non assoluto, dipendente dalla valutazione della frequenza delle movimentazioni del conto. È infatti innegabile che lo stesso periodo possa avere una rilevanza diversa se riferito ad un conto caratterizzato da un’intensa movimentazione o piuttosto ad un conto con movimentazioni occasionali. Ne deriva che qualche giorno di stabilità sarà sufficiente solo in presenza di un conto con rimesse e prelevamenti infragiornalieri, non nelle altre ipotesi. Nel caso in esame la frequenza delle movimentazioni del conto corrente riscontrabile dall’estratto prodotto induce a ritenere equa una quantificazione del “periodo di stabilità” in giorni dieci. Ne consegue che soltanto le rimesse non seguite per tale periodo da prelevamenti di entità superiore, equivalente, o inferiore ma in misura tale da far scendere la rimessa sotto il limite della consistenza, potranno considerarsi caratterizzate dal requisito della durevolezza dell’effetto. Dall’applicazione combinata dei due criteri, così come interpretati, al caso in esame, deriva che le rimesse inefficaci ex art. 67 sono soltanto le seguenti: quella di euro 3.000, in data 5.9.05; quella di euro 1.560, in data 9.9.05; quella di euro 6.800, con un saldo debitorio pari ad euro 6.762,19, a tale importo dovendosi limitare l’ef-

ficacia solutoria della rimessa, in data 30.9.05; quella di euro 1.681,56, in data 19.10.05; quella di euro 2.578,73 in data 7.11.05. L’ammontare complessivo delle rimesse in conto corrente bancario assistite dai presupposti oggettivi che ne giustificano la pronuncia di inefficacia ai sensi dell’art 67, co. 3, lett. b) l.fall. è, quindi, pari ad € 15.582,48. In applicazione di quanto stabilito dall’art. 70, co. 3, l. fall., la conseguente condanna della banca convenuta alla restituzione alla massa dei creditori deve essere limitata alla somma di € 13.503,80, pari alla differenza tra l’ammontare massimo dell’esposizione debitoria (€ 13.503,80 in data 05.09.05), e l’ammontare residuo della stessa che, alla data dell’apertura del concorso, era pari a zero, avendo il conto corrente, in quel momento, un saldo positivo. Venendo alla scientia decoctionis, va detto che la fattispecie in esame si caratterizza per la certa configurabilità dell’elemento soggettivo. Banca (omissis) ha correttamente sostenuto la necessità di dimostrare la conoscenza dello stato di insolvenza non di Angelo Emilio Pizzi, bensì della società Pizzi Felice & C s.n.c. Secondo condivisibile giurisprudenza, infatti, “ai fini della revocatoria fallimentare degli atti compiuti dal socio illimitatamente responsabile di una società di persone, dichiarato fallito per effetto del fallimento sociale, la scientia decoctionis va riscontrata con riferimento all’insolvenza della società, considerato che è quest’ultima insolvenza a determinare il fallimento del socio come conseguenza automatica della sua illimitata responsabilità per i debiti sociali, indipendentemente

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dalla sussistenza, o meno, di un suo stato di insolvenza personale” (Cass., 4705/06, conforme, tra le altre, a Cass., 17180/03). Sono quindi irrilevanti i protesti pubblicati nei confronti di Angelo Emilio Pizzi, nonché il decreto ingiuntivo emesso nei confronti dello stesso (docc. 6 e 7 dell’attore), parimenti non possono essere prese in considerazione, ai fini della valutazione circa la sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie, le modalità di movimentazione del conto corrente n. 10680 intestato a Angelo Emilio Pizzi (doc. 4 dell’attore). Dimostrano, tuttavia, pienamente la conoscenza da parte della convenuta dello stato di insolvenza della Pizzi Felice & C s.n.c. i numerosi protesti contro quest’ultima elevati e pubblicati (doc. 8 dell’attore). È documentalmente provato, infatti, che nel periodo che va dal 17.04.02 al 15.06.05 furono elevati nei confronti della società poi fallita quarantaquattro protesti per assegni e cambiali rimaste impagate e che di questi ben quattordici furono levati nel 2005. In proposito a nulla rileva il fatto che l’intestazione di alcuni dei precetti non corrisponda perfettamente alla ragione sociale della società. Un operatore del settore bancario non può, infatti, ignorare che l’intestazione del protesto dipende da ciò

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che è scritto ed è possibile leggere sul titolo di credito; ne consegue la possibilità che un’imprecisione nell’intestazione del titolo generi una discrasia nella pubblicazione del protesto. È notorio, tuttavia, che a tale inconveniente sia possibile rimediare utilizzando il criterio della partita Iva della società. Nel caso in esame è facile notare l’oggettiva somiglianza fra le denominazioni utilizzate (“Autotrasporti Pizzi Felice”, “Autotrasporti Pizzi Felice & C s.n.c”, oltre a quella corretta “Pizzi Felice & C s.n.c.”), ma anche il costante utilizzo della stessa partita IVA, riferibile esclusivamente alla Pizzi Felice & C s.n.c. (doc. 6 dell’attore). L’elevato numero dei protesti, il fatto che gli stessi siano stati levati lungo un considerevole arco temporale, la circostanza - incontroversa - che la società fallita fosse anch’essa titolare di un conto corrente presso la banca convenuta, che quindi aveva interesse a verificarne periodicamente la solidità finanziaria, dimostrano la conoscenza da parte di Banca (omissis) dello stato di insolvenza della Pizzi Felice & C s.n.c., dal cui fallimento è dipeso il fallimento del socio illimitatamente responsabile Angelo Emilio Pizzi. Per le ragioni esposte, va dichiarata l’inefficacia delle rimesse nei limiti della complessiva somma di euro 13.503,80. (Omissis)


Alessandro Nigro

(1-6) La revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente fra insipienza del legislatore e fantasia dei giudici 1. L’art. 67, co. 3, lett. b) l. fall. (nel testo risultante dal d.l. n. 35 del 2005) stabilisce che non sono soggette all’azione revocatoria «le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purché non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca»; l’art. 70, co. 3 della stessa legge (nel testo risultante dal d.l. n. 35 del 2005 come modificato dal d. lgs. n. 169 del 2007) a sua volta stabilisce: «Qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di posizioni passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario… il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato di insolvenza e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso». La dottrina ha da subito evidenziato l’autentico groviglio di nodi problematici – vecchi e nuovi – che tali disposizioni prospettano 1: taluni dei quali nodi sono apparsi da subito di soluzione difficilissima, se non addirittura impossibile (almeno a voler rispettare canoni di ragionevolezza e plausibilità). Conferma di tutto questo – se ne fosse bisogno – viene ora dalle sentenze qui pubblicate 2, le prime in materia, a quanto risulta. Due sentenze in cui sono affrontati molti dei più rilevanti nodi a cui si accennava; che – al di là della bontà o meno dei risultati a cui pervengono – sicuramente meritano apprezzamento per lo sforzo in esse profuso;

1 La letteratura in argomento è ormai molto vasta. Ci si può limitare a ricordare in questa sede, fra gli altri, A. Nigro, Riforma della legge fallimentare e revocatoria delle rimesse in conto corrente, in Dir. banc., 2005, I, p. 341 ss.; Guglielmucci, La nuova normativa sulla revocatoria delle rimesse in conto corrente, in Dir. fall., 2005, I, p. 805 ss.; Bussoletti, La nuova revocatoria fallimentare delle rimesse bancarie, in Dir. banc., 2006, I, p. 401 ss.; Cavalli, Considerazioni sulla revocatoria delle rimesse in conto corrente bancario dopo la riforma dell’art. 67 l. fall., in Banca, borsa, tit. cred., 2006, I, p. 1 ss.; e, fra i contributi più recenti, Abriani e Quagliotti, An e quantum della «novissima» revocatoria delle rimesse bancarie, in Fallimento, 2008, p. 377 ss.; Jorio, in Ambrosini, Cavalli e Jorio, Il fallimento, in Tratt. dir. comm. diretto da Cottino, Padova, 2009, p. 428 ss. 2 La sentenza del Tribunale di Milano è pubblicata anche in Foro it., 2008, I, 1947, con osservazioni di Fabiani, ed in Fallimento, 2008, 1213, con nota di Arato, I primi orientamenti sulla revocatoria delle rimesse bancarie dopo la riforma della legge fallimentare.

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e dalle quali, soprattutto, emerge intero il pesante disagio di chi è posto di fronte alla necessità (non più di interpretare in chiave teorica, ma) di applicare in termini concreti norme così contorte nella formulazione ed oscure nella loro portata. 2. Il Tribunale di Milano ha preliminarmente precisato che, in base al nuovo art. 67, le rimesse in conto corrente bancario sono revocabili solo quando abbiano avuto natura solutoria; ed ha ravvisato tale natura nella specie, posto che le rimesse di cui si chiedeva la revoca erano intervenute su conto corrente scoperto, in quanto non assistito da un contratto di apertura di credito. Così ragionando, il giudice milanese ha evidentemente ritenuto – peraltro senza alcuna motivazione sul punto – tuttora operante la tradizionale distinzione fra rimesse aventi carattere ripristinatorio, in quanto affluite su un conto corrente assistito da apertura di credito e semplicemente passivo, e quindi non revocabili, e rimesse aventi carattere solutorio, in quanto affluite su un conto non assistito da apertura di credito e scoperto, e quindi revocabili 3. Il punto è discusso. L’opinione dominante – accolta, sembrerebbe, dal Tribunale di Monza – è comunque nel senso che tale distinzione sia stata completamente superata dalla nuova disciplina: e questa opinione 4 merita adesione 5. Nel momento, infatti, in cui si adotta come criterio di discriminazione tra rimesse revocabili e rimesse non revocabili l’aver esse ridotto in maniera consistente e durevole oppure no l’esposizione debitoria verso la banca e si assume, d’altra parte, come parametro di riferimento l’ammontare massimo di tale esposizione nel c.d. periodo sospetto, non vi è più spazio per il diverso criterio, basato sulla esistenza o meno di un’apertura di credito (o di altro negozio di concessione di credito). Certo, seguendo questa linea il risultato viene ed essere quello di rendere revocabili rimesse che nel vecchio sistema non lo sarebbero state: ma è un prezzo inevitabile a fronte di un cambiamento completo di regime.

Distinzione sulla quale, come è noto, la giurisprudenza si era assestata a partire dal 1982 e che tuttora ispira le pronunzie rese con riferimento a vicende governate dalla normativa ante riforma: cfr., da ultimo, Cass., 9 novembre 2007, n. 23393 e Cass., 6 novembre 2007, n. 23107, entrambe in Foro it., 2008, I, 1946, con le già citate osservazioni di Fabiani. 4 Difesa da ultimo da Arato, I primi orientamenti, cit., p. 1220 s., ove ulteriori riferimenti. 5 V. già A. Nigro, Riforma della legge fallimentare, cit., p. 347 s. 3

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3. La parte cruciale quanto più interessante delle due sentenze è naturalmente quella riguardante il tema, spinoso, dell’individuazione dei requisiti della “consistenza” e della “durevolezza” della riduzione della esposizione debitoria. A. Quanto al primo, il Tribunale di Milano: – ha escluso che per l’individuazione della soglia oltre la quale la restituzione alla banca sia da giudicare consistente possa utilizzarsi un criterio quantitativo assoluto, che prescinda dagli elementi caratterizzanti la fattispecie concreta; – ha affermato che l’unità di misura deve essere relativizzata, «condizionata quindi sia dall’entità massima dell’esposizione debitoria del conto corrente, sia dall’entità media dei versamenti in entrata e delle uscite dal conto sia infine dall’ammontare del debito nel momento in cui la singola rimessa è stata effettuata» e, in relazione a ciò, deve essere fissata in un parametro espresso in termini percentuali, che nella specie è stato individuato nel dieci per cento; – ha applicato tale parametro («in mancanza di indicazione alcuna da parte del legislatore») all’importo massimo revocabile individuato dall’art. 70, co. 3, nella differenza tra la massima esposizione debitoria raggiunta dal fallito nel periodo c.d. sospetto e quella riscontrata al momento della apertura del concorso, pervenendo nel caso concreto alla fissazione di una soglia di “consistenza” pari ad €. 1.350,00. Da parte sua, il Tribunale di Monza: – ha ugualmente escluso che, per verificare se la riduzione è “consistente” (da intendere, si precisa, come “rilevante”, “non trascurabile”), si possa adottare un parametro assoluto (ritenuto non ragionevole); – ha affermato che la consistenza «non può che essere logicamente proporzionata alla esposizione esistente ed alla capacità percentuale di soddisfo che rappresenta sul totale del credito», aggiungendo essere «ragionevole, oltre che razionale, che tra i parametri da adottare vi debba e vi possa essere anche la precedente condotta delle parti in ordine all’entità delle rimesse effettuate, per cui anche il versamento di una somma più elevata di quelle che per singola operazione transitavano di regola sul conto, può apparire dotata di consistenza avendo quale riferimento relativo appunto il pregresso uso del conto»; – ha ritenuto sussistente nel caso concreto il requisito della consistenza, posto in particolare che le rimesse (nella specie: rate di un piano di rientro) comportavano ogni volta «una riduzione del 7%, percentuale crescente». Queste costruzioni, prive come sono di qualsiasi appiglio normativo, nascono e si sviluppano sotto il segno – palesemente – della più

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totale arbitrarietà. È arbitraria l’idea che non possa fissarsi un criterio di consistenza assoluto; è arbitraria la scelta degli elementi ai quali ancorare il criterio di consistenza (esposizione esistente, esposizione massima, ecc.); è arbitrario, nella sentenza monzese, il richiamo alla “precedente condotta delle parti” (intrinsecamente privo, va aggiunto, di qualsivoglia plausibilità); è arbitraria, nella sentenza milanese, la individuazione del parametro del 10% (non si sa, oltretutto, come correlata nella specie, agli elementi di cui pure si afferma essere necessario tener conto); è arbitraria, sempre in quella sentenza, l’applicazione di tale parametro all’importo massimo revocabile; è arbitraria, nella sentenza monzese, la valutazione come consistente di un “rientro” del 7%; e così via. Ma la responsabilità di questa arbitrarietà – occorre sottolinearlo – non è del giudice: è (solo) del legislatore, il quale ha fissato un criterio, quello appunto della consistenza, che, oltre ad essere intrinsecamente assurdo, è assolutamente inafferrabile 6. E dinanzi ad un criterio inafferrabile è inevitabile che si aprano larghi (anzi: larghissimi) spazi alla fantasia ed alla creatività del giudice 7: con quali benefici per la certezza del diritto è facile comprendere. 4. Un certo (pur se minore) tasso di arbitrarietà connota anche l’itinerario argomentativo seguito nelle sentenze qui commentate con riferimento al requisito della “durevolezza” della diminuzione dell’esposizione debitoria del fallito. Il Tribunale di Milano ha ritenuto non condivisibile, al riguardo, né la tesi che in sostanza identifica “durevole” con “definitivo” 8, né la tesi che – all’opposto - individua la durevolezza in ciò che la rimessa non sia stata immediatamente riutilizzata dal correntista o da esso destinata ad impieghi concordati con la banca 9; ed ha affermato che la durevolezza si ha nel caso della «apprezzabile stabilità, nel tempo, dell’effetto

Così Jorio, in Ambrosini, Cavalli e Jorio, Il fallimento, cit., p. 433. Come era stato, del resto, facile preconizzare: v. A. Nigro, Riforma della legge fallimentare, cit., p. 350. 8 Tesi sostenuta fra i primi, per esempio, da Gio. Tarzia, Le esenzioni (vecchie e nuove) dall’azione revocatoria fallimentare nella recente riforma, in Fallimento, 2005, p. 841; Silvestrini, La nuova disciplina della revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario, id., 2005, 847. 9 Tesi per la quale sia consentito il rinvio ad A. Nigro, Riforma della legge fallimentare, cit., p. 349 s. 6 7

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solutorio». Tale “apprezzabile stabilità”, a sua volta, andrebbe determinata con criterio relativo, dipendente dalla valutazione della frequenza delle movimentazioni del conto: nella specie, è stata ritenuta “equa” una quantificazione del periodo di stabilità in dieci giorni. Il Tribunale di Monza si è collocato in una prospettiva in parte analoga. Infatti, ha ritenuto che il termine durevole esprima «una diversità evidente rispetto al termine permanente (con il quale si reputa che non possa coincidere se non eccezionalmente), ma presuppone il decorso di un apprezzabile periodo di tempo». Con una affermazione di principio che, peraltro, sembrerebbe smentita dalla seconda parte della motivazione, dove, con riferimento all’ipotesi (che è poi quella rispetto alla quale sorgono i problemi) che dopo la rimessa vengono effettuate altre operazioni di addebito e di accredito pone, senza rispondervi, l’interrogativo se «la durevolezza non sia connessa necessariamente al congelamento della operatività del conto, di fatto o di diritto» (come era stato nella fattispecie decisa). Anche qui: è arbitrario il criterio dell’“apprezzabile stabilità” (che il giudice di Milano cerca di giustificare con l’affermata, ma non dimostrata, necessità di un quid pluris rispetto all’assenza del bilanciamento delle operazioni); è arbitrario, nella sentenza milanese, il riferimento alla frequenza delle operazioni; è arbitraria, nella stessa sentenza, la fissazione di un periodo di stabilità di dieci giorni; e così via. Va ripetuto, naturalmente, il discorso fatto prima. La responsabilità è ancora una volta del legislatore: il criterio della “durevolezza”, pur se non assurdo e certamente non inafferrabile, è sicuramente di impressionante vaghezza e tale da lasciare, anch’esso, ampi spazi alla fantasia ed alla creatività del giudice. 5. Come è noto, uno dei più rilevanti nodi problematici che la nuova disciplina della revocatoria delle rimesse in conto corrente prospetta concerne il coordinamento fra le due disposizioni riportate all’inizio: un problema che nasce perché i due criteri da tali disposizioni previsti, ove valutati indipendentemente l’uno dall’altro, parrebbero rispondere a logiche diverse (basandosi quello dell’art. 70 su di una considerazione complessiva del rapporto in cui gli atti estintivi si inseriscono e quello dell’art. 67 su di una considerazione atomistica delle singole rimesse) e, ove applicati indipendentemente l’uno dall’altro, parrebbero poter portare ad esiti diversi. Nella versione del 2005, l’art. 70 non faceva alcun riferimento esplicito al tema delle rimesse. Questo aveva portato a prospettare diverse tesi, fra le quali quella – che a chi scrive era apparsa la meno insoddisfacen-

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te 10 – secondo la quale fra le due norme sarebbe intercorso un rapporto fra genus (l’art. 70) e species (l’art. 67), con conseguente applicabilità alla revocatoria delle rimesse solo della seconda delle due norme. Oggi, dopo il decreto correttivo del 2007, l’unica ricostruzione possibile del rapporto fra le due disposizioni parrebbe essere quella che attribuisce all’art. 70 la funzione di delimitare l’ambito di operatività dell’art. 67, lett. b), sul piano degli effetti, scindendo dunque il piano della pronuncia di revoca (che riguarderebbe tutte le rimesse che abbiano determinato una riduzione consistente e durevole dell’esposizione debitoria) e quello dell’obbligazione restitutoria (da circoscrivere entro il limite della differenza). Ed è questa la ricostruzione 11 accolta da entrambe le sentenza qui commentate. Si tratta, però, di una ricostruzione che – come già prospettato da chi scrive in altra occasione 12 – solleva non poche perplessità. Infatti, innanzi tutto, essa comporta una forzatura del tenore letterale dell’art. 70, il quale pone sì un limite alla obbligazione restitutoria, ma un limite che è al tempo stesso massimo e minimo, nel senso che l’obbligazione restitutoria, per quella norma, ha ad oggetto non già al massimo l’importo della differenza, bensì proprio quell’importo. In secondo luogo, essa introduce una scissione fra pronunzia di inefficacia e obbligazione restitutoria che non ha precedenti nel nostro sistema e che non sembra con esso compatibile. In terzo luogo, essa rischia di determinare difficoltà insormontabili nell’ipotesi (che è poi l’ipotesi nella quale, secondo quella ricostruzione, l’art. 70 entrerebbe in giuoco) in cui la somma delle rimesse revocabili ai sensi dell’art. 67 lett. b) superi il limite della differenza: non si saprebbe infatti come l’importo restituito (ragguagliato a quel limite) dovrebbe essere imputato alle singole rimesse. È il caso di ricordare, per concludere sul punto, che è stata affacciata, nel quadro dei tentativi di dare un significato plausibile ai requisiti della consistenza e durevolezza e al tempo stesso risolvere il problema da ultimo considerato, una proposta interpretativa – menzionata anche nella sentenza del Tribunale di Monza – secondo cui la locuzione «consistente e durevole» dovrebbe essere letta come un’endiadi (la consistenza

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Cfr. A. Nigro, Riforma della legge fallimentare, cit., p. 352 s. Prospettata già, prima del decreto correttivo, da Gio. Tarzia, Le esenzioni, cit., p.

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A. Nigro, Riforma della legge fallimentare, cit., p. 352.


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sarebbe, precisamente, un rafforzativo della durevolezza) e la riduzione consistente e durevole sarebbe, proprio, quella pari alla differenza individuata dall’art. 70 13. Con questa interpretazione molti dubbi ed incertezze, su vari piani, sicuramente cadrebbero 14. Si tratta, però, di un’interpretazione che conduce, a ben vedere, ad “azzerare” completamente l’art. 67, co. 3, lett. b). Perché, se la riduzione consistente e durevole è necessariamente destinata a coincidere con la differenza fra l’esposizione massima nel periodo sospetto e l’esposizione finale, oggetto della revoca viene allora ed essere direttamente e semplicemente quella differenza, diventando inutile la previsione stessa dei requisiti della consistenza e della durevolezza delle singole rimesse in quanto superflua ogni verifica in concreto, e rimessa per rimessa, di quei requisiti. Francamente non sembra, questo, un esito accettabile. 6. Chi scrive è ben consapevole, naturalmente, che compito della dottrina non è demolire ma costruire e che non basta formulare critiche al legislatore, ma occorre anche avanzare proposte, appunto, costruttive. È da dubitare però – alla luce anche di quanto precede – che dall’autentico guazzabuglio creato in materia dal nostro legislatore si riesca ad uscire (ad uscire dignitosamente) con ipotesi interpretative. Ed è da ritenere, conseguentemente, che l’unica proposta costruttiva seria sia quella di invocare un intervento, non del legislatore (verrebbe quasi a dire: ce ne guardi Iddio!), ma della Corte Costituzionale. Ve ne sono, a parere di chi scrive, gli estremi. Basta in particolare considerare, da un lato, l’irragionevolezza del sistema derivante dal “combinato disposto” dell’art. 67 e dell’art. 70. E, dall’altro, la assurdità della previsione del requisito della “consistenza”. Il Tribunale di Milano ha osservato, riguardo a quest’ultima previsione, che la inefficacia di un atto può essere legata a casi in cui la lesione della par condicio potrà essere ritenuta apprezzabile e non trascurabile e che, nella specie, l’intento del legislatore è stato quello di escludere dalla revocatoria quelle operazioni che non paiono idonee a depauperare il patrimonio del fallito in maniera significativa.

13 Per questa ricostruzione v., da ultimo, Jorio, in Ambrosini, Cavalli e Jorio, Il fallimento, cit., p. 435; Arato, I primi orientamenti, cit., p. 1219 s. (in entrambi tutti gli opportuni riferimenti). 14 E si vedano i puntuali rilievi di Arato, op. loc. cit.

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Tutto ciò può essere anche vero. Resta il fatto che con riferimento a nessuna altra tipologia di atto suscettibile di revocatoria la legge fallimentare adotta criteri di ordine puramente quantitativo per discriminare fra atti revocabili ed atti non revocabili. In particolare, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili – nella cui categoria le rimesse bancarie debbono ricondursi – sono soggetti alla revocatoria ex art. 67, co. 2, indipendentemente dalla loro entità, vuoi considerata in termini assoluti vuoi considerata in termini relativi (con riferimento, per esempio, alla massa complessiva dei debiti). La violazione, dell’art. 3 Cost. sembra allora indiscutibile.

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Sintesi di giurisprudenza (I trimestre 2008)

Indice delle materie: I. Assicurazioni: A) Intermediazione assicurativa. – B) Contratto di assicurazione in genere. – C) Assicurazione contro i danni. – D) Assicurazione obbligatoria R.C. Auto. II. Banca: A) L’impresa bancaria: profili generali. – B) Le operazioni bancarie in conto corrente. – C) I depositi bancari. – D) Contratto autonomo di garanzia. – E) Le garanzie. – F) Titoli di credito bancari. – G) I crediti speciali. III. Borsa e mercato mobiliare: A) Servizi e attività di investimento. – B) Appello al pubblico risparmio.

∗ Sessantaseiesima puntata (le precedenti sono pubblicate in Dir. banc., 1990, I, pp. 350 e 551; 1991, I, pp. 160, 459 e 597; 1992, I, pp. 111, 253, 397 e 581; 1993, I, pp. 112, 264, 471 e 594; 1994, I, pp. 125, 255, 383 e 506; 1995, I, pp. 157, 286, 443 e 601; 1996, I, pp. 109, 265, 403 e 554; 1997, I, pp. 129, 318, 478 e 645; 1998, I, pp. 91, 277 e 637; 1999, I, pp. 171, 290, 411 e 545; 2000, I, pp. 143, 331, 516 e 671; 2001, I, pp. 89, 229 e 383; 2002, I, pp. 145, 327 e 629; 2003, I, pp. 141, 315 e 471; 2004, I, pp. 321, 447 e 657; 2005, I, pp. 109 e 301; 2006, I, pp. 169 e 533; 2007, I, pp. 163, 343 e 583; 2008, I, pp. 153, 363, 549 e 745). Questa sintesi intende offrire una prima informazione sulle sentenze relative alle materie di interesse della rivista, depositate o edite nel periodo di riferimento. Hanno collaborato: Ranieri Razzante (§§ 1-31); Alessandro Benocci (§§ 32-34); Elisabetta Massone (§§ 35-37); Gennaro Rotondo (§ 38); Agostino Clemente e Dario Martorano (§ 39); Luciano Santone (§ 40); Dario Martorano (§§ 41-44); Stefano Boatto (§§ 45-46); Vincenzo Caridi (§§ 47-49).

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Rassegne

I. ASSICURAZIONI Sommario: A) Intermediazione assicurativa. – 1. Intermediazione assicurativa. Danno da intesa anticoncorrenziale. Prova del danno. – 2. Impresa di assicurazione. Liquidazione coatta amministrativa. Rinnovo del contratto. – 3. Surrogazione dell’assicuratore. Obbligo del risarcimento del danno. Effetti della surrogazione. – 4. Impresa di assicurazione. Intese anticoncorrenziali. Art. 2033 c.c. e responsabilità aquiliana. Prova del danno. – 5. Società di assicurazione. Riserve matematiche del ramo vita. Accantonamenti. – 6. – Impresa di assicurazione. Contributi dovuti alla cassa di previdenza degli agenti dalla compagnia assicuratrice. Somme depositate dalla cassa presso l’impresa assicuratrice. Liquidazione coatta amministrativa del depositario. Privilegio ex art. 2751-bis n. 3 c.c. – B) Contratto di assicurazione in genere. – 7. – Contratto di assicurazione. Clausole di polizza. Condizioni generali. Art. 1370 c.c. – 8. – Contratto di assicurazione. Pagamento del premio. Copertura assicurativa. Art. 1901 c.c. – 9. – Contratto di assicurazione. Art. 1892, comma 1, c.c. Prova delle dichiarazioni false o reticenti. – 10. – Contratto di assicurazione. Risoluzione del contratto. Artt. 1453 e 1458, comma 1 c.c. – 11. – Contratto di assicurazione. Azione del danneggiato. Spese processuali. Art. 1917, comma 3, c.c. – 12. Contratto di assicurazione. Termine di prescrizione. Art. 2952, comma 3, c.c. – 13. – Assicurazione per conto di chi spetta. Danni alla merce trasportata. Art. 1510 c.c. – 14. – Contratto di assicurazione. Fallimento del beneficiario. Art. 46, comma 1, n. 5 legge fallimentare. – B.1) Assicurazioni sociali. – 15. Assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia. Società cooperative. Svolgimento del rapporto di lavoro. – 16. – Assicurazioni sociali. Azione di regresso del datore di lavoro. Danni subiti dal lavoratore. – 17. – Assicurazione obbligatoria. Esercizio di pluralità di attività autonome. – 18. Assicurazione della responsabilità civile. Infortunio sul lavoro. Terzi danneggiati. – 19. Assicurazione obbligatoria. Accertamento della c.d. quota esclusiva. Giurisdizione del G.O. – 20. Assicurazioni sociali. Fondo per l’indennità di anzianità. Risoluzione legale del contratto. – 21. Lavoratori autonomi. Tutela assicurativa. Indennizzabilità dell’infortunio. – C) Assicurazione contro i danni. – 22. Assicurazione contro i danni. Limiti della garanzia assicurativa. Caso fortuito e forza maggiore. – 23. Assicurazione contro i danni. Pagamento dell’indennizzo. Obbligo dell’assicuratore. Competenza territoriale. – 24. Assicurazione contro gli infortuni. Liquidazione del debito indennitario. Debito di valore e debito di valuta. – 25. Assicurazione contro i danni. Copertura assicurativa. Clausole limitative del rischio. Danni conseguenti a fatti accidentali. – D) Assicurazione obbligatoria R.C. Auto. – 26. Responsabilità civile da circolazione stradale. Proposizione della domanda. Fondo di garanzia per le vittime della strada. – 27. Controversie relative alla circolazione di autoveicoli. Impugnazione della sentenza. Rapporto tra la causa instaurata contro il conducente e quella instaurata contro il proprietario del veicolo. Integrazione del contraddittorio. – 28. Responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti. Giudizio promosso dal danneggiato nei confronti del danneggiante assicurato. Intervento dell’impresa assicuratrice ai sensi dell’art. 106 c.p.c. ovvero ai sensi dell’art. 107 c.p.c. – 29. Responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti. Fondo di garanzia per le vittime della strada. Veicolo o natante non identificato. Prova del sinistro. – 30. Responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti. Azione per il risarcimento del danno. Assolvimento dell’onere previsto dall’art. 22 della legge n. 990/69. Artt. 1334 e 1335 c.c. – 31. Responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti. Azione diretta del danneggiato.

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Sintesi di giurisprudenza

A) INTERMEDIAZIONE ASSICURATIVA 1. Intermediazione assicurativa. Danno da intesa anticoncorrenziale. Prova del danno. App. Napoli, 11 gennaio 2008 (in Massima redazionale, 2008) ha stabilito che in materia di risarcimento del danno da intesa anticoncorrenziale tra Compagnie di Assicurazione, la prova del danno fa carico alla parte attrice, atteso che non esiste un danno in re ipsa. Tale prova, però, può essere data anche con presunzioni e non è richiesta la produzione della polizza relativa all’anno precedente al fine di dimostrare l’aumento del premio. 2. Impresa di assicurazione. Liquidazione coatta amministrativa. Rinnovo del contratto. Per Cass., 30 gennaio 2008, n. 2102 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) il decreto ministeriale di messa in liquidazione coatta amministrativa di una società di assicurazione per la responsabilità civile non incide sul tacito rinnovo del contratto, intervenuto anteriormente all’instaurazione della procedura concorsuale. Da ciò deriva che il sinistro avvenuto dopo la pubblicazione dello stesso decreto ministeriale non è escluso dalla copertura assicurativa; pertanto, come stabilito dall’art. 8 della legge n. 39/77, i rischi derivanti dalla circolazione del veicolo sono coperti fino alla successiva scadenza del contratto (o del periodo per il quale è stato pagato il premio) ed il divieto di rinnovo, sancito dal previgente art. 16 della legge n. 990/69 non opera se il vincolo contrattuale sia sorto quando la società era in bonis. 3. Surrogazione dell’assicuratore. Obbligo del risarcimento del danno. Effetti della surrogazione. App. Roma, 7 febbraio 2008 (in Massima redazionale, 2008), ha affermato che la surrogazione, sia essa legale o convenzionale, determina la successione dell’assicuratore nel credito dell’assicurato e del beneficiario verso il responsabile di un danno che è, quindi, obbligato al risarcimento nei confronti dell’assicuratore, nei limiti della somma da questo versata all’avente diritto. Pertanto, per effetto della surrogazione, l’originario rapporto obbligatorio avente ad oggetto il risarcimento del danno si scinde in due diversi rapporti che hanno sorte propria e rimangono reciprocamente indifferenti: l’uno, avente la stessa natura del rapporto originario, riguarda il dovere del terzo responsabile di corrispondere il risarcimento del danno all’assicurato o al beneficiario nella misura eccedente le indennità a costoro già corrisposte dall’assicuratore, l’altro riguarda il dovere del terzo responsabile di rivalere l’assicuratore delle indennità corrisposte in forza del contratto di assicurazione.

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4. Impresa di assicurazione. Intese anticoncorrenziali. Art. 2033 c.c. e responsabilità aquiliana. Prova del danno. App. Napoli, 12 febbraio 2008 (in Massima redazionale, 2008), ha affermato che nell’ipotesi di intese anticoncorrenziali stipulate tra Compagnie di Assicurazione, l’azione riconosciuta all’assicurato non è quella di restituzione di somme indebitamente pagate, ai sensi dell’art. 2033 c.c. – ove viene in rilievo la figura dell’accipiens, bensì quella di azione di risarcimento del danno da responsabilità aquiliana, cagionato dall’alterazione della concorrenzialità del mercato. In tal caso il danno patito dal consumatore-assicurato ricomprende anche le quote del “sovrapprezzo” che, in ultima analisi, non siano confluite nelle casse della compagnia contraente. In sintesi, cospirazione anticompetitiva (condotta preparatoria) e aumento di polizza (condotta finale) cagionano un danno al consumatore finale consistente nel maggior esborso, comprensivo anche della quota di c.d. imposte ed oneri vari, della quale non si avvantaggia la compagnia danneggiante. La Corte di Appello ha, altresì, ritenuto che la pratica di scambio di informazioni, ancorché ritenuta vietata dal Consiglio di Stato, perché potenzialmente disturbatrice della normale e tranquilla competitività tra le imprese di assicurazione, non può essere utilizzata sic et simpliciter quale fatto noto idoneo a rendere, solo per questo, certa la maggiorazione del premio di assicurazione pagato dall’assicurato. Il relativo accertamento presuntivo, infatti, non deve lasciare spazio a dubbi rilevanti, e, dunque, laddove l’assicurato ritenga di aver patito la maggiorazione del premio, la circostanza dovrebbe profilarsi sulla base di dati di comune esperienza. 5. Società di assicurazione. Riserve matematiche del ramo vita. Accantonamenti. Per Cass., 22 febbraio 2008, n. 4611 (in Fisco on line, 2008), le somme accantonate ex lege dalle società di assicurazione per costituire o integrare le riserve matematiche del ramo vita, utilizzando in parte i premi e in parte gli interessi prodotti dagli investimenti obbligatori in titoli (esenti da imposta sul reddito), costituiscono un accantonamento sui generis (qualificabile come fondo rischi), e rispondono all’esigenza di rinviare agli esercizi successivi, e quindi detrarre via via dal reddito, i proventi conseguiti anticipatamente e vincolati a premi futuri da erogare agli assicurati. Ne consegue che tali somme costituiscono componenti negative del reddito deducibili interamente nei singoli esercizi in cui vengono contabilizzate fino al limite massimo ammesso dalla legge, indipendentemente dalla loro composizione. Tali accantonamenti non possono essere equiparati ai costi o agli altri oneri concorrenti alla formazione del reddito che, in quanto non esclusivamente afferenti i ri-

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cavi imponibili, sono deducibili, ai sensi degli articoli 74, co. 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 e 75, co. 5, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 nelle proporzioni previste dai corrispondenti articoli 58 d.P.R. n. 597/1973 e 63 d.P.R. n. 917/1986 (cd. pro rata). 6. Impresa di assicurazione. Contributi dovuti alla cassa di previdenza degli agenti dalla compagnia assicuratrice. Somme depositate dalla cassa presso l’impresa assicuratrice. Liquidazione coatta amministrativa del depositario. Privilegio ex art. 2751-bis n. 3 c.c. Per Cass., 12 febbraio 2008, n. 3380 (in Mass. Giur. It., 2008; CED Cassazione, 2008) in materia di privilegio generale sui mobili per le provvigioni ed indennità derivanti dal rapporto di agenzia, l’art. 2751-bis n. 3 c.c. trova applicazione solo nei rapporti tra l’agente ed il preponente. Da ciò deriva che la predetta causa di prelazione non spetta alla cassa di previdenza degli agenti creditrice in proprio verso la impresa di assicurazione, nella specie messa in liquidazione coatta amministrativa, per i contributi lasciati in deposito presso la seconda ma dovuti da questa alla prima, non realizzando tale credito le fattispecie dell’indennità di fine rapporto prevista dall’art. 1751 c.c., nè le forme sostitutive previste dalla contrattazione collettiva, che presuppongono la cessazione del contratto di agenzia tra preponente ed agente. B) CONTRATTO DI ASSICURAZIONE IN GENERE 7. Contratto di assicurazione. Clausole di polizza. Condizioni generali. Art. 1370 c.c. La Suprema Corte, con sentenza 17 gennaio 2008, n. 866 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) ha stabilito che le clausole di polizza, che delimitino il rischio assicurato, ove inserite in condizioni generali su modulo predisposto dall’assicuratore, sono soggette al criterio ermeneutico posto dall’art. 1370 c.c. e, pertanto, nel dubbio, devono essere intese in senso sfavorevole all’assicuratore medesimo. 8. Contratto di assicurazione. Pagamento del premio. Copertura assicurativa. Art. 1901 c.c. La Suprema Corte, con sentenza 31 gennaio 2008, n. 2390 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) ha affermato che nel contratto di assicurazione, il mancato pagamento dell’intero premio comporta in ogni caso la sospensione della copertura assicurativa ai sensi dell’art. 1901 c.c.; non opera, infatti, come momento perfezionativo del contratto il criterio dell’incontro delle volontà di

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entrambi i contraenti stabilito dagli art. 1326 e 1335 c.c., bensì l’esatto adempimento all’obbligo di versamento del premio. 9. Contratto di assicurazione. Art. 1892, co. 1, c.c. Prova delle dichiarazioni false o reticenti. Trib. Benevento, 19 febbraio 2008 (in Massima redazionale, 2008) ha ritenuto che ai fini dell’annullamento del contratto di assicurazione previsto dall’art. 1892, co. 1, c.c., sia necessaria la prova non solo del fatto che l’assicurato abbia reso delle dichiarazioni false o reticenti – relative a circostanze tali che l’assicuratore non avrebbe dato il suo consenso o non lo avrebbe dato alle medesime condizioni se avesse conosciuto il vero stato delle cose – ma anche che ciò abbia fatto con dolo o colpa grave e che le stesse siano state determinanti per la formazione del consenso dell’assicuratore. 10. Contratto di assicurazione. Risoluzione del contratto. Artt. 1453 e 1458, co. 1 c.c. Con sentenza del 20 febbraio 2008 (in Massima redazionale, 2008) il Tribunale di Bari ha stabilito che al contratto di assicurazione, essendo lo stesso un contratto a prestazioni corrispettive, di durata e ad esecuzione continuata, in caso di risoluzione la disciplina applicabile va desunta dagli artt. 1453 e 1458, co. 1, c.c. In particolare, per esso non opera la retroattività della pronuncia costitutiva di risoluzione, ma è invece ammessa la risoluzione parziale, che riverbera i suoi effetti sulle prestazioni da eseguirsi successivamente alla pronuncia, non già su quelle fin lì eseguite. Ne deriva la possibilità, per la parte non inadempiente, in deroga all’art. 1453, co. 2, c.c., di proporre domanda di risoluzione contestualmente a quella di condanna all’adempimento rivolta ad ottenere il pagamento di quanto secondo il contratto sarebbe spettato all’attore come corrispettivo delle prestazioni sin lì effettuate. 11. Contratto di assicurazione. Azione del danneggiato. Spese processuali. Art. 1917, co. 3, c.c. Con sentenza del 3 marzo 2008 (in Massima redazionale, 2008) il Tribunale di Genova ha stabilito che le spese processuali sostenute dall’assicurato per resistere all’azione del danneggiato, inquadrabili all’interno del rapporto tra assicurato e danneggiante, possono essere trasferite all’interno del rapporto tra assicurato e assicuratore in applicazione dei patti dedotti nel contratto di assicurazione, mancando i quali trova applicazione il disposto dell’art. 1917, co. 3, c.c. 12. Contratto di assicurazione. Termine di prescrizione. Art. 2952, comma 3, c.c. Trib. Genova, 6 marzo 2008 (in Massima redazionale, 2008), ha stabilito che il momento iniziale di decorrenza del termine di

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prescrizione dei diritti derivanti dal contratto di assicurazione, previsto dall’art. 2952, co. 3, c.c., con norma speciale rispetto alla regola generale fissata dall’art. 2935 c.c., va individuato in quello in cui si verifica l’evento dannoso coperto dalla garanzia assicurativa, ovvero nel momento in cui l’evento lesivo o morboso si traduca o si evidenzi in uno dei fatti coperti dalla garanzia assicurativa (es. l’invalidità permanente) o, quando il diritto all’indennizzo assicurativo sia eziologicamente collegato alla sussistenza di uno stato di invalidità permanente, dal giorno in cui tale stato di invalidità è venuto ad esistere; tale momento coincide con la data dell’infortunio, solo quando l’invalidità si è manifestata immediatamente. 13. Assicurazione per conto di chi spetta. Danni alla merce trasportata. Art. 1510 c.c. La Suprema Corte, con sentenza 28 marzo 2008, n. 8063 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008; Danno e Resp., 2008, 7, 829) ha stabilito che nell’assicurazione contro i rischi di danni alla merce trasportata, stipulata per conto di chi spetta, la persona legittimata a domandare l’indennizzo è il destinatario se il trasporto viene affidato dal venditore ad un vettore o ad uno spedizioniere, perché in tal caso per effetto della consegna delle merce alla persona incaricata del trasporto si trasferisce in capo al destinatario il rischio del perimento di essa, ai sensi dell’art. 1510 c.c. Qualora, invece, il venditore provveda da sé a trasportare la merce al domicilio del compratore, non può trovare applicazione la disciplina di cui al citato art. 1510, con la conseguenza che, in caso di perimento della merce durante il trasporto e prima della consegna al compratore, legittimato a domandare il pagamento dell’indennizzo assicurativo è il venditore. 14. Contratto di assicurazione. Fallimento del beneficiario. Art. 46, co. 1, n. 5 l.fall.. Per Cass., 31 marzo 2008, n. 8271 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008; Fallimento, 2008, 6, 717; Corr. giur., 2008, 10, 1405 con nota di Rolfi; Fallimento, 2008, 11, 1278 con nota di Finardi; Obbl. e Contr. on line, 2008 con nota di Rubino; Giur. it., 2008, 7, 1699 con nota di Spiotta) in tema di contratto di assicurazione sulla vita, alla dichiarazione di fallimento del beneficiario non consegue lo scioglimento del contratto, né il curatore - al pari di quanto previsto per le c.d. somme dovute, di regola già impignorabili secondo l’art. 1923 c.c. – può agire contro il terzo assicuratore per ottenere il valore di riscatto della relativa polizza stipulata dal fallito quand’era in bonis. Tale cespite, infatti, non rientra tra i beni compresi nell’attivo fallimentare ai sensi dell’art. 46, co. 1, n. 5 l. fall., considerata la funzione previdenziale ricono-

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scibile al predetto contratto, non circoscritta alle sole somme corrisposte a titolo di indennizzo o risarcimento. B.1) ASSICURAZIONI SOCIALI 15. Assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia. Società cooperative. Svolgimento del rapporto di lavoro. Per Cass., 9 gennaio 2008, n. 222 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008), le società cooperative sono tenute a versare i contributi per l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia per tutti i soci lavoratori, sia in caso di esistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro instaurato tra la società ed il socio, sia nell’ipotesi in cui l’attività lavorativa sia conforme alle previsioni del patto sociale e sia svolta in corrispondenza con le finalità istituzionali della società; ciò già ai sensi dell’art. 2, co. 3, del r.d. n. 1422 del 1924, da reputarsi tuttora vigente in forza dell’art. 40 r.d.l. n. 1827 del 1935, convertito nella legge n. 1155 del 1936. 16. Assicurazioni sociali. Azione di regresso del datore di lavoro. Danni subiti dal lavoratore. La Suprema Corte, con sentenza 10 gennaio 2008, n. 255 (in Danno e Resp., 2008, 3, 336) ha stabilito che in materia di azione di regresso, il datore di lavoro è estraneo al rapporto tra l’infortunato e l’istituto assicuratore pubblico e non può contestarne il fondamento; tuttavia, il datore di lavoro è tenuto al pagamento nei confronti dell’INAIL solo entro i limiti dei principi che informano la responsabilità civile per il danno subito dal lavoratore. Da ciò deriva che il giudice del merito deve calcolare il predetto danno civilistico (ai sensi dell’art. 2056 c.c. e art. 1223 c.c.), anche in relazione alla percentuale riconosciuta dal consulente tecnico d’ufficio, che costituisce il limite massimo del diritto di regresso dell’INAIL, senza entrare nel merito della valutazione effettuata dall’Istituto a mezzo dei suoi sanitari ai fini del danno infortunistico, stabilendo, quindi, se l’importo richiesto dall’Istituto rientri o meno nel predetto limite. 17. Assicurazione obbligatoria. Esercizio di pluralità di attività autonome. Abitualità e prevalenza di una attività. Per Cass., 17 gennaio 2008, n. 854 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008; Prat. Lavoro, 2008, 15, 733; Lavoro nella Giur., 2008, 5, 525; Dir. e Pratica Lav., 2008, 34, 2015) al fine di evitare la duplicazione di rapporti assicurativi e di risolvere la pluralità di attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria, l’art. 29 della legge n. 160/75, come sostituito dall’art. 1, co. 203 della legge n. 662/96, prevede un unico

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rapporto assicurativo con riferimento alla attività alla quale il soggetto dedica personalmente la sua opera professionale in misura prevalente. Da ciò deriva che colui che nell’ambito di una società a responsabilità limitata svolga attività di socio amministratore e di socio lavoratore ha l’obbligo di chiedere l’iscrizione nella gestione competente in relazione all’attività svolta con carattere di abitualità e prevalenza, fermo restando l’onere dell’INPS di decidere sull’iscrizione all’assicurazione corrispondente all’attività prevalente, essendo incompatibile la coesistenza delle due corrispondenti iscrizioni per uno stesso soggetto. 18. Assicurazione della responsabilità civile. Infortunio sul lavoro. Terzi danneggiati. App. Bologna, 24 gennaio 2008 (in Massima redazionale, 2008), ha stabilito che i familiari del lavoratore deceduto per infortunio sul lavoro, quali terzi danneggiati, sono totalmente estranei al rapporto di assicurazione esistente tra il datore di lavoro e l’assicuratore della responsabilità civile del medesimo. Ne consegue che gli stessi, non essendo titolari di azione diretta nei confronti dell’assicuratore, non hanno alcuna legittimazione ad impugnare la statuizione con cui il tribunale ha rigettato la domanda di garanzia proposta dal datore di lavoro assicurato. 19. Assicurazione obbligatoria. Accertamento della c.d. quota esclusiva. Giurisdizione del G.O. Cons. Stato, 29 gennaio 2008, n. 235 (in Massima redazionale, 2008) ha stabilito che la controversia avente ad oggetto l’accertamento della c.d. quota esclusiva (non soggetta ad assorbimento) della pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria, quindi non vertente sulla determinazione della pensione integrativa, poiché fondata sul rapporto di assicurazione obbligatoria, va devoluta alla giurisdizione del Giudice ordinario. 20. Assicurazioni sociali. Fondo per l’indennità di anzianità. Risoluzione legale del contratto. Per Cass., 13 febbraio 2008, n. 3508 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) con riferimento ai contratti di assicurazione stipulati dal datore di lavoro a favore dei propri dipendenti ai sensi dell’art. 4 r.d.l. n. 5 del 1942 (convertito nella legge n. 1251/42), previsti in alternativa al versamento dei contributi al fondo per l’indennità di anzianità degli impiegati, la soppressione del fondo medesimo - in virtù dell’art. 4, settimo e ottavo comma legge n. 297/82 - ha comportato la risoluzione legale del contratto di assicurazione, con il conseguente obbligo dell’assicuratore di restituire al datore di lavoro le riserve matematiche nette - da accantonare e rivalutare quali componenti del t.f.r.

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da erogare alla data di cessazione del rapporto - e non i premi riscossi, atteso che, nei contratti a prestazioni continuativa o periodica, l’efficacia ex tunc della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite. 21. Lavoratori autonomi. Tutela assicurativa. Indennizzabilità dell’infortunio. Per Cass., 14 febbraio 2008, n. 3770 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) in materia di indennizzabilità dell’infortunio occorso a lavoratore autonomo, la tutela assicurativa non riguarda quella parte di attività non attinente al momento lavorativo-esecutivo, bensì a quello organizzativo-imprenditoriale dell’attività economica dell’azienda. Da ciò deriva che l’estensione della tutela agli infortuni in itinere può riguardare gli spostamenti del lavoratore al fine di acquistare i beni direttamente necessari per la produzione, ma non anche quelli finalizzati all’acquisto o alla consegna di beni necessari per l’organizzazione amministrativa e contabile. C) ASSICURAZIONE CONTRO I DANNI 22. Assicurazione contro i danni. Limiti della garanzia assicurativa. Caso fortuito e forza maggiore. App. Genova, 11 gennaio 2008 (in Massima redazionale, 2008), ha affermato che il contratto di assicurazione della responsabilità civile, che preveda esser la garanzia limitata ai danni derivati da fatti accidentali, è correttamente interpretato nel senso che la garanzia assicurativa opera anche nell’ipotesi di fatti colposi. L’assicurazione della responsabilità civile, infatti, non può riguardare i fatti meramente accidentali, cioè dovuti a caso fortuito o forza maggiore, dai quali non sorge responsabilità, ma, per la sua stessa denominazione, importa necessariamente che il fatto dannoso per il quale l’assicurazione è stipulata deve essere colposo, coprendo, con la sola eccezione dei fatti dolosi, ogni responsabilità. 23. Assicurazione contro i danni. Pagamento dell’indennizzo. Obbligo dell’assicuratore. Competenza territoriale. App. Napoli, 22 gennaio 2008 (in Massima redazionale, 2008) ha ritenuto che in materia di assicurazione contro i danni, l’obbligo dell’assicuratore di pagare l’indennizzo trova titolo costitutivo nel contratto di assicurazione. Pertanto, al fine della determinazione della competenza territoriale in una controversia vertente sulla spettanza di detto indennizzo, il luogo in cui è sorta l’obbligazione dedotta in giudizio, secondo la previsione dell’art. 20 c.p.c., è il luogo della stipulazione del contratto.

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24. Assicurazione contro gli infortuni. Liquidazione del debito indennitario. Debito di valore e debito di valuta. Cass., 12 febbraio 2008, n. 3268 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008; Nuova giur. civ. comm., 2008, 9, 1, 1015 nota di Del Grosso; Giur. it., 2008, 7, 1642) ha stabilito che nell’assicurazione contro gli infortuni, il debito indennitario, quando è previsto un procedimento di liquidazione convenzionale per il tramite di una perizia contrattuale, si connota come debito di valore dal momento del sinistro al verificarsi della liquidazione e solo successivamente a tale momento diventa obbligazione di valuta. Ne consegue che la somma riconosciuta a titolo di indennizzo deve essere rivalutata al momento della liquidazione e che, qualora il danneggiato assicurato alleghi e dimostri che il conseguimento della somma al netto della rivalutazione al momento del sinistro gli avrebbe consentito, tramite il reimpiego immediato, una redditività maggiore rispetto al valore della rivalutazione monetaria, può essere riconosciuto il danno da lucro cessante per il mancato conseguimento della differenza mediante i cosiddetti interessi compensativi, senza che rilevino la mancanza di liquidità della somma fino all’esito della perizia contrattuale, l’inadempimento dell’assicuratore al dovere di collaborare all’espletamento della perizia e, infine, la mancata costituzione in mora dell’assicuratore medesimo. 25. Assicurazione contro i danni. Copertura assicurativa. Clausole limitative del rischio. Danni conseguenti a fatti accidentali. Con sentenza 28 febbraio 2008, n. 5273 (in CED Cassazione, 2008) la Suprema Corte ha affermato che l’assicurazione della responsabilità civile non può concernere fatti meramente accidentali, dovuti cioè a caso fortuito o forza maggiore, dato che da questi non può sorgere responsabilità, ma importa necessariamente, per la sua stessa denominazione e natura, l’estensione anche a fatti colposi, con la sola eccezione di quelli dolosi, restando escluso, in mancanza di espresse clausole limitative del rischio, che la garanzia assicurativa non copra alcune forme di colpa. Da ciò deriva che la clausola di un contratto di assicurazione che preveda la copertura del rischio per danni conseguenti a fatti accidentali va correttamente interpretata nel senso che essa si riferisca semplicemente alla condotta colposa in contrapposizione ai fatti dolosi. D) ASSICURAZIONE OBBLIGATORIA RC AUTO 26. Responsabilità civile da circolazione stradale. Proposizione della domanda. Fondo di garanzia per le vittime della strada. La Suprema

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Corte, con sentenza 11 gennaio 2008, n. 393 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) ha stabilito che nel giudizio in cui si propone una domanda di responsabilità civile da circolazione stradale, l’indicazione, da parte di uno dei convenuti citati come responsabili del danno, del doversi imputare la responsabilità esclusiva o parziale al conducente di veicolo rimasto sconosciuto, implica che la successiva citazione in tale giudizio del Fondo di garanzia per le vittime della strada, autorizzata dal giudice e fatta dall’attore, sia da considerare come chiamata in causa di un terzo ad istanza di parte, soggetta al relativo regime. 27. Controversie relative alla circolazione di autoveicoli. Impugnazione della sentenza. Rapporto tra la causa instaurata contro il conducente e quella instaurata contro il proprietario del veicolo. Integrazione del contraddittorio. Per Cass., 11 gennaio 2008, n. 406 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) nella fase di impugnazione delle sentenze emesse in controversie aventi ad oggetto richiesta di risarcimento danni derivanti dalla circolazione di autoveicoli, promosse dal danneggiato soccombente sia contro il conducente sia contro il proprietario, rispettivamente ai sensi del primo e terzo comma dell’art. 2054 c.c., tra la causa proposta contro il conducente e quella proposta contro il proprietario, anche se non è configurabile un rapporto di inscindibilità, può esistere un rapporto di dipendenza tra le stesse. Da ciò deriva che, in tali ipotesi, in mancanza della dimostrazione dell’avvenuta impugnazione rivolta contro entrambe le parti indicate, il giudice di appello deve disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti della parte della causa pregiudiziale dipendente. 28. Responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti. Giudizio promosso dal danneggiato nei confronti del danneggiante assicurato. Intervento dell’impresa assicuratrice ai sensi dell’art. 106 c.p.c. ovvero ai sensi dell’art. 107 c.p.c. Per Cass., 22 febbraio 2008, n. 4593 (in CED Cassazione, 2008) poichè nella particolare disciplina dell’assicurazione obbligatoria di cui alla legge n. 990/69 la stretta connessione del rapporto risarcitorio e del rapporto assicurativo comporta una situazione di comunanza di cause, nel giudizio di risarcimento danni da incidente stradale promosso dal danneggiato nei confronti del danneggiante-assicurato, così come deve riconoscersi al giudice di primo grado, in applicazione dell’articolo 107 c.p.c. il potere di ordinare l’intervento dell’impresa assicuratrice, sia al fine di un’eventuale estensione nei suoi confronti della domanda attrice, sia in relazione all’eventuale pretesa del convenuto di trasferire a suo carico le conseguenze della

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propria soccombenza verso il danneggiato, così deve ritenersi altrettanto giustificato l’esercizio del potere discrezionale del giudice di autorizzare la parte a chiamare in causa il terzo assicuratore ai sensi dell’art. 106 c.p.c. 29. Responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti. Fondo di garanzia per le vittime della strada. Veicolo o natante non identificato. Prova del sinistro. Trib. Benevento, 22 febbraio 2008 (in Massima redazionale, 2008) ha ritenuto che in materia di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti, il danneggiato che promuova richiesta di risarcimento nei confronti del fondo di garanzia per le vittime della strada, sul presupposto che il sinistro sia stato cagionato da veicolo o natante non identificato, ha l’onere di provare sia che il sinistro si è verificato per condotta dolosa o colposa del conducente di un altro veicolo o natante, sia che questo è rimasto sconosciuto; in particolare, a tal fine è sufficiente dimostrare che, dopo la denuncia dell’incidente alle competenti autorità di polizia, le indagini compiute da queste o disposte dall’autorità giudiziaria, per l’identificazione del veicolo o natante investitore, abbiano avuto esito negativo, senza che possa addebitarsi al danneggiato l’onere di ulteriori indagini articolate e complesse. 30. Responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti. Azione per il risarcimento del danno. Assolvimento dell’onere previsto dall’art. 22 della legge n. 990/69. Artt. 1334 e 1335 c.c. La Suprema Corte, con sentenza 10 marzo 2008, n. 6824 (in CED Cassazione, 2008) ha stabilito che la richiesta di risarcimento del danno da r.c.a. ad un’impresa designata in funzione dell’esercizio dell’azione di cui all’art. 19, co. 1, lett. b), della legge n. 990/69, quale atto giuridico in senso stretto avente natura unilaterale recettizia, è da ritenere soggetta, nel silenzio del legislatore nell’art. 22 della suddetta legge, alla disciplina di cui agli artt. 1334 e 1335 c.c. Da ciò deriva che una richiesta inviata all’ufficio sinistri di detta impresa, che sarebbe territorialmente competente per la liquidazione dei sinistri relativi a contratti assicurativi direttamente da essa stipulati – in quanto ex art. 1335 c.c. è da considerarsi pervenuta ad un luogo che si deve considerare indirizzo di tale impresa, essendo nel suo dominio – è da reputarsi idonea a produrre gli effetti di cui all’art. 22 della legge n. 990/69 e a svolgere, dunque, efficacia interruttiva della prescrizione, in difetto di allegazione e prova, da parte dell’impresa, di essere stata nell’impossibilità di averne notizia senza colpa.

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31. Responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli o dei natanti. Azione diretta del danneggiato. Per Cass., 31 marzo 2008, n. 8305 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) ai fini dell’applicabilità delle norme sull’assicurazione obbligatoria degli autoveicoli (ed in particolare di quelle sull’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore del responsabile) deve considerarsi in circolazione il veicolo fermo sulla pubblica via per operazioni di carico o scarico.

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II. BANCA

Sommario: A) L’impresa bancaria: profili generali. – 32. Vigilanza informativa. Segnalazione alla Centrale dei Rischi e contestazione giudiziale del correntista. – 33. Responsabilità della banca. Responsabilità civile nella prestazione di servizi di investimento. – 34. Sanzioni amministrative. Responsabilità del sindaco per omessa vigilanza e omessa comunicazione alla Banca d’Italia. – B) Le operazioni bancarie in conto corrente. – 35. Conto corrente bancario. – 35.1. Estratto conto: approvazione tacita. – 35.2. Apertura di credito in conto corrente. – 36. Interessi. – 36.1. Capitalizzazione trimestrale. – 37. Profili fallimentari. – 37.1. Conoscenza dello stato di insolvenza. – 37.2. Revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente. – 37.3. Saldi. – 37.4. Onere della prova. – 37.5. Profili processuali. – C) I depositi bancari. – 38. Pegno di libretto di deposito al portatore. – D) Contratto autonomo di garanzia. – 39. Contratto autonomo di garanzia. Caratteristiche. – E) Le garanzie. – 40. Fideiussione. – 40.1 Natura. – 40.2 Fideiussione omnibus. – 40.3 Fideiussione e polizza fideiussoria. – 40.4 Fideiussione e cofideiussione. – F) Titoli di credito bancari. – 41. Pagamento con “assegno di traenza” in luogo dei contanti. Efficacia liberatoria nei confronti del creditore. Rifiuto del creditore solo per giustificato motivo. – 42. Assegno bancario non munito della clausola di non trasferibilità; obbligo di accertamento della continuità delle girate a carico della banca trattaria; prova del pagamento. – 43. Assegno con data di emissione marchianamente erronea; validità; pagamento “a vista”. – 44. Assegno postdatato; nullità del patto per contrarietà a norme imperative; esigibilità immediata del pagamento da parte del creditore. – G) I crediti speciali. – 45. Mutuo di scopo e risoluzione del contratto collegato. – 46. Credito fondiario. – 46.1. Credito fondiario finalizzato all’estinzione di passività pregresse e fallimento del debitore sovvenuto. – 46.2. Credito fondiario e natura del privilegio accordato in fase esecutiva all’istituto erogante.

A) L’IMPRESA BANCARIA: PROFILI GENERALI 32. Vigilanza informativa. Segnalazione alla Centrale dei Rischi e contestazione giudiziale del correntista. Trib. Salerno, 15 gennaio 2008 (in Il Merito, 2008, 27 e in Redazione Giuffrè, 2008) si occupa di un caso nel quale un correntista ha contestato giudizialmente l’ammontare di un credito in via di segnalazione alla Centrale dei rischi. Il giudice di merito ha stabilito che tale contestazione non impedisce alla banca di segnalare il credito ritenuto rilevante. In caso di contestazione giudiziale di un credito segnalato alla Centrale di rischi, la segnalazione opera sino a quando non risulti accertato giudizialmente e definitivamente che il credito è inesistente ovvero di ammontare tale da non essere passibile di segnalazione. D’altra parte, la sentenza in commento premette che la segnalazione alla Centrale di rischi non è oggetto di una facoltà, ma di un espresso obbligo giuridico, la cui violazione espone la banca inadem-

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piente alle sanzioni amministrative previste dall’art. 144 t.u.b.. In particolare, il giudice di merito ribadisce che l’art. 51 t.u.b. impone alle banche di inviare alla Banca d’Italia le segnalazioni periodiche secondo le modalità e nei termini da essa stabiliti e richiama la circolare n. 139/1991 della Banca d’Italia, contenente le istruzioni per gli intermediari creditizi in materia di segnalazioni alla Centrale dei rischi. La circolare obbliga le banche ad effettuare in favore della Banca d’Italia una segnalazione mensile avente per oggetto le posizioni di rischio di ciascun cliente e, in sostanziale contropartita, impone alla Banca d’Italia di comunicare alle banche, per ogni nominativo ricevuto, la posizione globale di rischio nei confronti dell’intero sistema creditizio: le posizioni di rischio oggetto di segnalazione si identificano sostanzialmente con quei crediti vantati dalla banca verso il cliente che superino i cc.dd. limiti di censimento indicati dalle stesse istruzioni della Banca d’Italia. L’obbligo di segnalazione a carico della banca nasce quindi nel momento in cui la banca accerta che il credito verso il cliente ha superato tali limiti. Non è necessario che tale accertamento venga effettuato da un soggetto terzo né è necessario che tale accertamento debba avvenire giudizialmente. 33. Responsabilità della banca. Responsabilità civile nella prestazione di servizi di investimento. Come è noto, una banca (o un’impresa di investimento) che presta nei confronti del pubblico servizi di investimento aventi per oggetto strumenti finanziari è soggetta agli obblighi di condotta (informativi e di adeguatezza) di cui agli artt. 21 ss. t.u.f. e 26 ss. regolamento Consob n. 11522/1998. Nelle operazioni di investimento di questo tipo, possono essere distinti tre momenti rispettivamente rappresentati (i) dal contratto normativo tra banca e cliente, (ii) dall’ordine di acquisto di strumenti finanziari conferito dal cliente alla banca e (iii) dal contratto di acquisto di strumenti finanziari tra banca e fornitore di strumenti finanziari e dalla contestuale girata degli strumenti finanziari a favore del cliente. In presenza di una violazione degli obblighi informativi e di adeguatezza de quibus, si tratta di verificare quale sia il rimedio contrattuale previsto dall’ordinamento giuridico a tutela del cliente. Correttamente, Trib. Milano, 22 gennaio 2008 (in Giustizia a Milano, 2008, 2, 10 e in Redazione Giuffrè, 2008) rigetta la tesi di una delle parti secondo cui gli obblighi di condotta in commento dovevano essere qualificati come obblighi contrattuali del contratto di acquisto degli strumenti finanziari; dunque, la violazione di tali obblighi non può costituire inadempimento del contratto di acquisto degli strumenti finanziari né può quindi costituire fondamento per l’accoglimento della sua domanda di risoluzione, che il giudice di merito ha infatti puntualmente respinto. Il medesimo giudice, invece, assume una

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determinazione all’interno del dibattito che vede, da un lato, la tesi secondo cui gli obblighi di condotta costituiscono obblighi contrattuali del contratto normativo e, dall’altro lato, la tesi secondo cui, sul presupposto che l’ordine di acquisto di strumenti finanziari conferito dal cliente alla banca deve essere configurato come una proposta a concludere un contratto di mandato ad acquistare strumenti finanziari, quegli obblighi andrebbero qualificati come obblighi precontrattuali del contratto di mandato tra banca e cliente, eseguito mediante conclusione del contratto di acquisto di strumenti finanziari tra banca e fornitore. All’interno di questo complesso dibattito, il Tribunale di Milano aderisce alla prima posizione, asserendo che la violazione degli obblighi di condotta costituisce inadempimento alle obbligazioni nascenti per legge dal contratto normativo e che, a sua volta, tale inadempimento dà luogo ad una responsabilità contrattuale risarcitoria della banca per i danni che sono conseguiti al cliente dall’investimento posto in essere. 34. Sanzioni amministrative. Responsabilità del sindaco per omessa vigilanza e omessa comunicazione alla Banca d’Italia. Cass., 28 febbraio 2008, n. 5239 (in Rep. Foro it., 2008, voce Banca, credito e risparmio, n. 39 e in Mass. Giust. civ., 2008, 373) si pronuncia in materia di sanzioni amministrative pecuniarie applicabili ai sensi degli artt. 144 e 145 t.u.b. nell’ipotesi in cui un componente di un organo di controllo interno di un intermediario (collegio sindacale in caso di sistema tradizionale, consiglio di sorveglianza in caso di sistema dualistico e comitato di controllo sulla gestione in caso di sistema monistico) si renda autore della violazione dell’obbligo di ispezionare e controllare e di riferire all’organo di vigilanza. In tale materia, la Suprema Corte premette l’applicabilità dell’art. 3 della l. n. 689/1981 per affermare che gli illeciti amministrativi sono sanzionabili solo se riconducibili alla responsabilità personale del soggetto che ne risulta autore, con esclusione di qualsiasi attribuibilità a titolo di responsabilità oggettiva. In particolare, gli illeciti amministrativi sono previsti dalla legge come ipotesi dolose o colpose. Ai fini dell’applicazione della sanzione, è dunque necessario che il soggetto agente abbia preveduto e voluto l’evento dannoso come conseguenza della propria condotta ovvero è necessario che il soggetto agente non abbia voluto l’evento dannoso, ma lo abbia preveduto, e che l’evento dannoso sia stato comunque conseguenza della sua condotta per essere, la stessa, stata posta in essere con inosservanza dei doveri di diligenza, prudenza e perizia ovvero di doveri posti da leggi, regolamenti e discipline, in ogni caso di natura precauzionale e volti ad impedire eventi lesivi involontari connessi allo svolgimento di attività lecite ma pericolose. Nel

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caso di specie, un componente di un collegio sindacale di un intermediario finanziario ha presentato ricorso avverso una sentenza della Corte di Appello di Roma, la quale aveva a sua volta rigettato il reclamo del ricorrente avverso il decreto ministeriale di irrogazione di una sanzione amministrativa per omessa vigilanza e omessa comunicazione alla Banca d’Italia. Con il principale motivo di gravame, il ricorrente sosteneva che la sanzione era stata irrogata a prescindere dall’accertamento del necessario elemento psicologico richiesto dalla legge e, quindi, che era stata irrogata a titolo di responsabilità oggettiva. Il ricorrente sosteneva infatti che la sanzione era stata applicata nonostante che lo stesso fosse stato impossibilitato a svolgere i normali controlli a causa del comportamento ostativo degli amministratori. La Corte condivide con il ricorrente la circostanza che l’illecito amministrativo contestato richiede l’accertamento dell’elemento psicologico del dolo o della colpa, ma rigetta il ricorso nella parte in cui il ricorrente sostiene di non aver in alcun modo aderito psicologicamente al fatto illecito commesso. Dalle affermazioni e dalle prove intervenute nel processo, è infatti risultato che l’omissione era cosciente e volontaria (e quindi dolosa) ovvero, se non volontaria, quantomeno cosciente e inosservante di doveri sociali e giuridici di natura precauzionale (e quindi colposa). B) LE OPERAZIONI BANCARIE IN CONTO CORRENTE 35. Conto corrente bancario. 35.1. Estratto conto: approvazione tacita. Trib. Brindisi 4 dicembre 2006 (in Foro it, 2007, I, 1947 unitamente a Trib. Roma, 12 gennaio 2007 di cui v. infra par. 36.1, con nota di redazione) ha confermato l’orientamento della giurisprudenza secondo il quale l’approvazione tacita dell’estratto conto ex art. 1832 c.c. non sana la nullità della capitalizzazione degli interessi trimestrali a meno di una intervenuta convenzione anatocistica successiva allo scadere degli interessi stessi. 35.2. Apertura di credito in conto corrente. Trib. Pescara, 23 marzo 2006 (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 203, con commento di Capurro, In tema di clausola attributiva dello ius variandi) ha dichiarato nulla la clausola che consente ad una banca, nell’ambito di un contratto di apertura di credito bancario, di modificare unilateralmente il tasso di interesse (anche mediante variazione del prime rate al quale il tasso è convenzionalmente ragguagliato) in quanto, tale comportamento, viole-

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rebbe i principi di determinatezza e determinabilità propri dell’oggetto del contratto richiesti dall’art. 1346 c.c. 36. Interessi. 36.1. Capitalizzazione trimestrale. Trib. Roma, 12 gennaio 2007 e Trib. Torino, 5 ottobre 2007 (entrambe, in Foro it. la prima unitamente a Trib. Brindisi, 4 dicembre 2006, per il quale v. supra par. 35.1, la seconda, 2008, I, 646 con ampia nota di Palmieri) hanno stabilito che la dichiarazione di nullità delle clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari non consente alla banca il passaggio automatico ad alcuna altra forma di capitalizzazione. I giudici romani hanno altresì sostenuto la disapplicazione delle norme transitorie dettate dalla delibera del CICR con le quali venivano stabilite le modalità per la disciplina dell’anatocismo, conseguentemente, ritenendo che per i contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera stessa del 9 febbraio 2000 ed ancora aperti dopo il 1 luglio 2000 (data entro la quale le banche avrebbero dovuto adeguarsi al nuovo regime), la possibilità di applicare la capitalizzazione è subordinata alla prova che la stessa banca deve dare di aver ottemperato agli obblighi formali richiesti dal CICR e, dunque, alla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale delle modifiche contrattuali per adeguamento alla nuova normativa ed alla comunicazione al cliente dell’avvenuta pubblicazione. Trib. Napoli 5 luglio 2006 (in Dir. fall., 2008, II, 177, con commento di Malagrida, La capitalizzazione degli interessi e l’anatocismo bancario: usi normativi e usi negoziali) è conforme all’ormai consolidato orientamento secondo il quale è illegittima l’applicazione da parte di una banca dell’anatocismo in quanto in contrasto con l’art. 1283 c.c. con conseguente nullità della clausola che prevede il calcolo degli interessi sugli interessi su di un conto corrente con saldo debitore poiché è da escludere che tale prassi costituisca un uso normativo. 37. Profili fallimentari. 37.1. Conoscenza dello stato di insolvenza. Cass., 15 dicembre 2006, n. 26935 (in Foro it., 2007, 1138 con ampia nota di Fabiani, insieme a Cass., 6 dicembre 2006, n. 26171, Cass., 15 dicembre 2006, n. 26933 e Cass., 6 settembre 2006, n. 19136 che affrontano problematiche non inerenti questa rubrica) nel confermare che è onere della curatela dimostrare l’effettiva e non potenziale conoscenza dello stato d’insolvenza del debitore ha altresì ribadito il principio, valido anche in sede diversa da

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quella bancaria, secondo il quale la stessa conoscenza può essere provata anche attraverso la concordanza di elementi indiziari purché idonei a fornire la prova per presunzioni della conoscenza effettiva. Conformemente, Trib. Catania, 8 febbraio 2007 (in Dir. fall., 2008, II, 153, con ampia nota di V. Piccinini) ha ritenuto nel caso di specie che gli indici risultanti dai bilanci sono elemento indiziario sufficiente a provare da soli la conoscenza dello stato di insolvenza. 37.2. Revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente. Trib. Napoli, 11 gennaio 2006 (in Giur. comm., 2007, II, 889 con commento di Bregoli, Una modesta proposta per l’applicazione immediata dell’art. 70, 3° comma, l. fall.) aderisce all’orientamento minoritario della giurisprudenza di merito – vale ricordare App. Firenze 28 gennaio 2004, di cui si è dato conto in precedenti puntate di questa rassegna - secondo il quale sono revocabili le rimesse effettuate su di un conto corrente “scoperto” (o per mancanza di fido o per superamento dei limiti dello stesso) solo nei limiti della differenza tra il massimo scoperto raggiunto nel periodo sospetto ed il saldo finale alla data di chiusura dello stesso avvenuta a seguito della dichiarazione di fallimento. Trib. Catania, 8 febbraio 2007 di cui si è già dato conto per altro verso supra, ha aderito all’orientamento ancora maggioritario della giurisprudenza secondo il quale sono revocabili le rimesse effettuate su di un conto corrente che hanno natura solutoria e non ripristinatoria della provvista precisando conseguentemente che sono revocabili sia le rimesse effettuate su di un conto corrente “scoperto” (per mancanza o superamento del fido) sia quelle effettuate in un momento successivo a quello di chiusura del conto o revoca del fido. 37.3. Saldi. Cass., 6 dicembre 2006, n. 26171, conforme all’orientamento prevalente della giurisprudenza ha confermato che il saldo di riferimento ai fini dell’azione revocatoria delle rimesse in conto corrente è il “saldo disponibile” coincidente con quello “per valuta” nell’ipotesi di versamento di assegni circolari. 37.4. Onere della prova. Cass., 6 dicembre 2006, n. 26171 di cui per altro verso si è dato conto nel paragrafo che precede, ha altresì aderito al principio secondo il quale nell’ipotesi di più operazioni di segno opposto effettuate nella stessa giornata in cui appaia uno scoperto di conto, è onere del fallimento provare la cronologia dei movimenti sulla base di prove specifiche in difetto delle quali si considereranno effettuati prima gli accrediti e poi gli addebiti.

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37.5. Profili processuali. Trib. Catania, 8 febbraio 2007, di cui si è già dato conto per diversi aspetti supra, non ha ritenuto applicabili alle procedure fallimentari già aperte alla data di entrata in vigore della riforma fallimentare del 7 marzo 2005, nemmeno in via interpretativa, gli artt. 67 e e 70 l. fall. nuova formulazione alle quali infatti verrà applicato il vecchio art. 67 l.fall. C) I DEPOSITI BANCARI 38. Pegno di libretto di deposito al portatore. Cass., 15 febbraio 2008, n. 3794 (inedita) (Del.Me. s.r.l. c. Intesa San Paolo s.p.a., già Banca Commerciale Italiana s.p.a.) ha affermato che il pegno di un libretto di deposito bancario al portatore, costituito a favore della banca depositaria che lo ha emesso, si configura come pegno irregolare soltanto allorché sia conferita espressamente alla banca la facoltà di disporre del relativo diritto; l’attribuzione di tale facoltà, peraltro, non fa venire meno la finalità di garanzia del pegno, almeno nella fase della costituzione, verificandosi la funzione solutoria soltanto nella successiva fase di escussione della garanzia, sia pure attraverso un meccanismo semplificato di “autosoddisfazione”, che sottrae il creditore alla necessità di procedere in via esecutiva salvo l’obbligo di restituire l’eccedenza (la decisione cassa con rinvio, App. Bari, 28 gennaio 2002). D) CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA 39. Contratto autonomo di garanzia. Caratteristiche. Secondo la prima sezione civile della suprema corte di Cassazione (sentenza n. 903 del 17 gennaio 2008, in Mass. Giur. it, 2008), l’elemento caratterizzante del contratto autonomo di garanzia che lo differenzia dalla fideiussione è l’assenza dell’accessorietà della garanzia rispetto all’obbligazione principale, secondo una relazione di autonomia che le parti debbono aver posto allorché risulti esclusa la facoltà del garante di opporre al creditore le eccezioni spettanti al debitore principale, in deroga alla regola di cui all’art. 1945 c.c., compresa l’estinzione del rapporto. Nel caso sottoposto al vaglio della suprema corte è stata ritenuta corretta l’interpretazione della corte territoriale secondo cui era stata negata la decisività dell’impiego di formule come “a semplice richiesta” o “a prima richiesta del creditore”. Più precisamente la polizza cauzionale in oggetto prevedeva, tra l’altro, che il pagamento da parte della società assicuratrice della somma

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garantita sarebbe dovuto avvenire entro trenta giorni dalla richiesta del comune beneficiario e per l’importo dal predetto determinato con suo autonomo ed unilaterale accertamento, sulla base della contabilità dell’appalto; ne ha dedotto che la menzionata previsione integrasse una clausola di pagamento “a semplice richiesta”, diretta a creare una disponibilità monetaria a favore del comune, in virtù di un suo unilaterale comportamento, pure se materialmente una simile locuzione non era trascritta in contratto. E) LE GARANZIE 40. Fideiussione. 40.1 Natura. A parere di Cass., Sez. Un., 5 febbraio 2008, n. 2655 (in Mass. Foro it., 2008, 125) l’obbligazione fideiussoria e quella principale presenterebbero proprie individualità vuoi sotto il profilo soggettivo, vuoi sotto quello oggettivo con il che anche la disciplina normativa applicabile (avuto in particolare riguardo ai profili di giurisdizione) rimarrebbe distinta. 40.2 Fideiussione omnibus. La clausola di reviviscenza della garanzia in caso di revoca del pagamento effettuato dall’obbligato principale, prevista all’interno di un contratto di fideiussione omnibus, non è affetta da nullità, in quanto non gli è applicabile l’interpretazione estensiva della previsione di cui all’art. 1341, co. 2, c.c. che ha carattere tassativo, né ricorre un’identità di fattispecie con quella disciplinata dalla norma citata al fine di invocare una possibile interpretazione analogica della previsione in parola (Cass., 8 febbraio 2008, n. 3011, in Mass. Foro it., 2008). Del pari, risulta pienamente valida, a parere di Cass., 21 febbraio 2008, n. 4446 (in Mass. Foro it., 2008), la clausola solve et repete, inserita in un contratto con le formule “senza riserva alcuna” ovvero “dietro semplice richiesta”, con la quale è prevista per il garante l’impossibilità di poter opporre eccezioni che attengono alla validità del contratto dal quale deriva l’obbligazione garantita, in quanto tale assetto risponde all’autonomia contrattuale delle parti. 40.3 Fideiussione e polizza fideiussoria. Nel periodo di riferimento Cass., 3 gennaio 2008, n. 2377 (in Mass. Foro it., 2008), ha riconosciuta nella polizza fideiussoria natura indennitaria e non satisfattiva in quanto, essendo carente dei requisiti della identità della prestazione con l’obbli-

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gazione garantita, del vincolo di solidarietà e dell’accessorietà, sarebbe viceversa caratterizzata esclusivamente dell’obbligo di indennizzare o risarcire il creditore insoddisfatto. Non deve essere qualificata in termini di polizza fideiussoria, ma viceversa di contratto autonomo di garanzia, la polizza che contenga una clausola di pagamento “a prima richiesta” che non consente al debitore principale di opporre al garante, nell’esercizio della sua azione di regresso, eccezione di merito finalizzate a paralizzare quest’ultima (così Trib. Milano, 31 agosto e 8 settembre 2006, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 98). 40.4 Fideiussione e cofideiussione. Qualora all’esito della propria escussione un fideiussorie esperisca azione di regresso nei confronti di un cofideiussore per la ripetizione dei versamenti da quello già effettuati ed il secondo richieda di essere garantito dal debitore principale, anche ai sensi di cui all’art. 1953 c.c., questo secondo rapporto risulta autonomo rispetto al primo e, pertanto, non si configura un’ipotesi di litisconsorzio necessario (Cass., 5 febbraio 2008, n. 2747, in Mass. Foro it., 2008). F) TITOLI DI CREDITO BANCARI 41. Pagamento con “assegno di traenza” in luogo dei contanti. Efficacia liberatoria nei confronti del creditore. Rifiuto del creditore solo per giustificato motivo. Con sentenza n. 6291 del 10 marzo 2008 la terza sezione civile della Suprema Corte (in Nuova giur. civ., 2008, I, 1193, con nota di Vomero) ha affrontato la questione relativa alla legittimità o meno del rifiuto del creditore di ricevere il pagamento da parte del debitore a mezzo “assegno di traenza”. Richiamando il principio dettato dalle Sezioni Unite con sentenza n. 14712 del 26 giugno 2007, la Cassazione ha ribadito che l’“assegno di traenza” (la cui peculiarità sta nel fatto che può di fatto assolvere ad una funzione corrispondente a quella del bonifico a mezzo banca benché riconducibile al genus dell’assegno bancario) è quello che una banca invia a taluno autorizzandolo a sottoscriverlo “per traenza” sulla banca stessa, e che ha come caratteristica quello di risultare su un modulo appositamente predisposto con previsione di pagamento in favore del traente medesimo o di altro eventuale soggetto indicato come beneficiario. La predisposizione e l’invio dell’assegno al previsto traente presuppongono, evidentemente, l’esistenza presso la banca di

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una provvista (è indifferente a tal fine che essa sia fornita all’origine dalla banca stessa o da terzi) di cui il traente potrà disporre in favore proprio o di altro eventuale beneficiario indicato come prenditore del titolo. Dopo aver affermato – in linea di principio – che l’adempimento dell’obbligazione pecuniaria va inteso non come atto materiale di consegna della moneta contante, bensì come prestazione diretta all’estinzione del debito nella quale le parti debbono collaborare osservando un comportamento da valutare per il creditore secondo la regola della correttezza e per il debitore secondo la regola della diligenza (facendo così propri i principi dettati dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 26617 del 18 dicembre 2007) nella sentenza in commento viene affermato che le sopradescritte caratteristiche dell’assegno di traenza, che si sostanziano quindi nella precostituzione della provvista: “integrano senz’altro un sistema che assicura al creditore la disponibilità della somma dovuta, sicché il pagamento effettuato con tale mezzo può essere rifiutato dal creditore solo per giustificato motivo, fermo il punto che l’effetto liberatorio per il debitore si verifica quando il creditore acquista concretamente la disponibilità giuridica della somma di denaro, ricadendo sul debitore il rischio dell’inconvertibilità dell’assegno”. 42. Assegno bancario non munito della clausola di non trasferibilità; obbligo di accertamento della continuità delle girate a carico della banca trattaria; prova del pagamento. Secondo Cass., 11 febbraio 2008, n. 3187 (in Giur. it., 2008, 1150, con nota di Cottino, e in Foro it., 2008, I, 3663 con nota di richiami di Sabbatini) nel caso di assegno bancario non munito di clausola di non trasferibilità l’accertamento della continuità delle girate – e in suo difetto l’insorgere della responsabilità (di natura in senso lato contrattuale) della banca – fa carico alla banca trattaria e non alla banca girataria per l’incasso, sulla quale non grava alcuno specifico obbligo in ordine a detta verifica. Infatti il mancato controllo della regolare continuità delle girate, ai sensi dell’art. 38 del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, si riferisce alla sola banca trattaria, cui la predetta norma impone uno specifico obbligo operante sul piano contrattuale con il traente, e non si estende alla diversa banca che non paghi il titolo ma si limiti, in qualità di girataria per l’incasso, a curarne la riscossione. Secondo la corte la sostituzione della banca presentatrice a quella trattaria riguarda esclusivamente il pagamento dell’assegno e non si estende alla verifica della legittimità del titolo, la quale si esaurisce con la presentazione dell’assegno nella stanza di compensazione ove il titolo potrebbe e dovrebbe essere esaminato dalla banca trattaria, salva la responsabilità

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a titolo extracontrattuale della banca girataria per l’incasso nei confronti del traente, in solido con la banca trattaria, tutte le volte in cui, con il suo comportamento colposo o doloso, abbia determinato o concorso a determinare il prodursi del danno consistito nell’indebito pagamento di un assegno a soggetto non legittimato. La corte, inoltre, andando al di là dei confini della fattispecie dedotta in giudizio, individua due casi in cui una responsabilità della banca girataria per l’incasso di assegno trasferibile potrebbe ipotizzarsi: (i) il mancato accertamento dei poteri del presentatore ed (ii) il pagamento curato dalla banca nell’ambito di accordi interbancari che abbiano escluso l’utilizzo della stanza di compensazione. Secondo la corte, in quest’ultima ipotesi (argomentando però in maniera tale da ricoprire anche la prima ipotesi) la banca girataria sarebbe passibile di responsabilità di natura contrattuale per violazione dell’obbligo di natura professionale da lei assunto nei confronti della trattaria. La corte, infine, precisa che ove una responsabilità sia configurabile essa non può essere ripartita pro quota, ma ha natura solidale ai sensi dell’art. 2055 c.c., salvo le azioni di regresso tra le banche coinvolte (Cass. n. 27378 del 12 dicembre 2005). 43. Assegno con data di emissione marchianamente erronea; validità; pagamento “a vista”. Secondo Trib. Tivoli, 15 maggio 2007 (in Giur. it., 2008, 376) deve considerarsi postdatato, e pertanto validamente emesso e pagabile a vista, l’assegno bancario che rechi una data di emissione manifestamente erronea (nel caso di specie l’assegno recava quale data di emissione l’anno 20001 anziché 2001). 44. Assegno postdatato; nullità del patto per contrarietà a norme imperative; esigibilità immediata del pagamento da parte del creditore. Con la sentenza del 22 gennaio 2008 (inedita), il Tribunale di Monza ha affermato che ai sensi dell’art. 31 del R.D. 21 dicembre 1933, n. 1736, la post-datazione non comporta di per sé la nullità dell’assegno bancario ma soltanto la nullità del relativo patto per contrarietà a norme imperative poste a tutela della buona fede e della regolare circolazione dei titoli di credito. Ciò consente al creditore la possibilità di esigere immediatamente il suo pagamento. Di conseguenza l’assegno bancario postdatato, al pari di quello regolarmente datato, deve considerarsi venuto ad esistenza come titolo di credito e mezzo di pagamento al momento stesso della sua emissione, che si identifica con il distacco dalla sfera giuridica del traente ed il passaggio nella disponibilità del prenditore, e non con quello della data fittizia ad esso apposta.

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G) I CREDITI SPECIALI 45. Mutuo di scopo e risoluzione del contratto collegato. Elemento costitutivo della fattispecie di mutuo di scopo è, tra gli altri, il collegamento negoziale sussistente tra il contratto di finanziamento ed il contratto avente ad oggetto, mediante l’impiego della provvista garantita dal primo, l’acquisto di un bene. Tale relazione determina una interdipendenza di tipo funzionale idonea a giustificare la trasmissione reciproca degli effetti di un contratto sull’altro. Tali proposizioni, ribadite più recentemente da Cass., 8 luglio 2004, n. 12567 (in Giur. it., 2005, 1406, con nota di Vitelli), e 24 maggio 2003, n. 8253 (in Riv. notariato, 2004, 201, con nota di Scaramuzzino), costituiscono la premessa in base alla quale Trib. Roma, 21 gennaio 2008 (inedita), ha potuto affermare i principi di diritto in forza dei quali a) la risoluzione del contratto di compravendita, funzionalmente collegato ad un mutuo (e per ciò stesso di scopo), determina la risoluzione del contratto di finanziamento medesimo; b) il mutuante è legittimato a dirigere le pretese aventi ad oggetto la restituzione delle somme mutuate solo nei confronti del terzo venditore, soggetto che in concreto beneficia della concessione del mutuo. In questo senso si esprimono le recenti pronunce rese da Trib. Firenze, 28 febbraio 2005 e App. Milano, 13 ottobre 2004, in Giur. banc. 2005, par. 1.5 ove ulteriori riferimenti. 46. Credito fondiario. 46.1. Credito fondiario finalizzato all’estinzione di passività pregresse e fallimento del debitore sovvenuto. Con sentenza resa in data 18 febbario 2008 (in Fallimento, 2008, 611), Trib. Bari si pronuncia sulla nota fattispecie costituita dall’impiego della provvista, originata da un contratto di mutuo fondiario, da parte di un istituto di credito all’estinzione di un pregresso rapporto obbligatorio chirografario intercorrente tra lo stesso istituto mutuante ed il soggetto mutuatario, in seguito dichiarato fallito. Il Tribunale adito mentre respinge l’eccezione formulata dalla procedura tendente a far valere la simulazione del mutuo fondiario «in quanto realmente voluto dalle parti», accoglie la lettura di una tale sequenza di atti come idonea ad integrare la fattispecie di cui all’art. 67, co. 1, n. 2 l. fall. in quanto «vero e proprio procedimento indiretto […] [avente ad oggetto: nds] la sostituzione del precedente credito chirografario con un credito munito di causa di prelazione» e finalizzato «a garantire il mutuante dal rischio della dichiarazione di fallimento del mutuatario». Il giudice di prime cure può così concludere che «[l]a descritta sequenza di atti, pro-

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vocando un’alterazione della “par condicio creditorum”, è suscettibile di revocatoria ai sensi dell’art. 67, co. 1, l. fall., in quanto atto solutorio anormale intervenuto nel periodo sospetto». La sentenza in esame si adegua all’indirizzo seguito dalla Cassazione anche nelle recenti sentenze 18 gennaio 2006 (ove si afferma che «[è] ius receptum che nei casi in cui il danaro non sia uno strumento di immediata e diretta soluzione, ma un mezzo indiretto di pagamento, perché effetto terminale di altri negozi, deve ravvisarsi una anormalità di pagamento e, per escludere la revoca, non è sufficiente verificare che il debito pecuniario scaduto ed esigibile sia stato estinto con danaro, ma che la sua corresponsione non sia avvenuta al termine di un processo satisfattivo non usuale alla stregua delle ordinarie transazioni commerciali (Cass. 17540/2003; 4069/2003; 8703/1998; 9520/1997; 10347/1996; 2706/1995; 5193/1991)», 6 novembre 2006, 23669 (in Fallimento, 2007, 651) e 1 ottobre 2007, n. 20622 (in Fallimento, 2008, 95; ma si veda anche www.ilcaso.it). Si vedano, tuttavia, le persuasive argomentazioni offerte da Trib. Napoli, 12 maggio 2005 (in Fallimento, 2006, 72 e ss., con nota di Patti, Revocabilità dell’uso distorto del credito fondiario e in Giur. banc., 2007, par. 1.4.2.), ove si afferma che la revocabilità di un atto ai sensi dell’art. 67, co. 1, n. 2 l. fall. presuppone che l’estinzione del debito (verso il mutuante) «avvenga attraverso un bene entrato a far parte del patrimonio del fallito e fuoriuscitone con l’operazione anomala e comporta come sua necessaria conseguenza la condanna del creditore alla restituzione di una somma corrispondente al debito estinto con il mezzo anormale». Inoltre, prosegue il giudice di prime cure, è pur sempre necessario, ai fini della revocabilità, che l’operazione così eseguita leda la par condicio. Si tratta di requisiti, a giudizio del Tribunale di Napoli, non sussistenti «nel caso di mutuo [fondiario] erogato dalla banca per sanare le pregresse attività del correntista» poiché in tale ipotesi «l’estinzione del debito avviene con provvista messa a disposizione del debitore dalla stessa creditrice, sicché, sotto questo profilo, non ricorre alcuna violazione della par condicio; la lesione può invece rinvenirsi nel fatto che attraverso l’intera operazione la banca sostituisce al credito non garantito un credito garantito, acquisendo una prelazione che in precedenza non aveva». E nello stesso senso si esclude del pari che l’operazione rivesta il carattere dell’anomalia. Ciò in quanto mentre «il negozio indiretto è strumento per il perseguimento di un fine che va oltre quello desumibile dal tipo legale» e che «tale fine ulteriore incide sulla causa del contratto, nel senso che la sua causa concreta risulta incompatibile con quella tipica prevista», nel caso di specie, invece, il mutuo fondiario soddisfa uno scopo del tutto assorbito dalla sua stessa causa.

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46.2. Credito fondiario e natura del privilegio accordato in fase esecutiva all’istituto erogante. App. Torino, 5 settembre 2007 (in Fallimento, 2008, 186 e ss. con nota di Nardecchia, Il difficile rapporto tra credito fondiario e fallimento: irrisolte incertezze interpretative e recenti novità legislative), si pronuncia sulla natura del privilegio assegnato al creditore fondiario dall’art. 42 R.D. 16 luglio 1905, n. 646, in specie applicabile ratione temporis. La curatela del fallimento propone appello contro la sentenza con cui il giudice di primo grado aveva escluso la domanda di intervento nell’ambito di una procedura esecutiva iniziata dall’istituto di credito, in forza di mutuo fondiario, avverso il mutuatario in seguito dichiarato fallito. In particolare, la curatela contestava il rigetto della domanda affermando che il privilegio accordato al creditore fondiario in sede esecutiva, così come previsto dal R.D. 646/1905, ha natura meramente processuale, idoneo a derogare solo la disposizione di cui all’art. 51 l.fall. non anche invece quella di cui al successivo art. 52. Il rigetto della domanda, questa la tesi dell’appellante, finiva in concreto per assicurare al privilegio una illegittima natura sostanziale in spregio all’obbligo per tutti i creditori, indistintamente, di rispettare il concorso e quindi la “par condicio creditorum”. Va aggiunto che la curatela chiedeva, con la stessa domanda di intervento, la distribuzione in su favore almeno di una somma pari ai crediti della procedura concorsuale collocabili in prededuzione, e, in particolare, di un importo idoneo a coprire il proprio compenso, da qualificare in cifra compresa nel campo di variazione tra il minimo ed il massimo liquidabile. Il Collegio affronta dapprima la questione pregiudiziale attinente la natura del privilegio accordato dalla disciplina in materia di mutuo fondiario affermando, in linea con l’orientamento offerto dalla Cassazione nelle sentenze 23572/2004, 314/98, 11234/90, che «la ratio del principio di resistenza dell’esecuzione fondiaria rispetto al fallimento, risiede tutta e soltanto […] nella volontà del legislatore di consentire un’anticipazione di cassa in favore dell’istituto mutuante, ed in tal senso è affermazione comune […] che l’art. 42 R.D. n. 646/1905 attui una deroga alla regola posta dall’art. 51 l. fall. Ma se tale, e non altra, è la giustificazione posta a base della scelta legislativa, nel sistema dell’esecuzione fondiaria deve ritenersi implicitamente positivizzata un’ulteriore deroga, quella della stabilità degli effetti della distribuzione, quale si desume da varie norme (artt. 512 c.p.c.; art. 2919, seconda parte, c.c.; art. 617 c.p.c.)». Sulla base di tali premesse il Collegio può concludere nel senso che «il coordinamento fra le due procedure è, in realtà, assicurato in maniera esaustiva dal carattere processuale del privilegio fondiario, che da solo, attraverso la soppressione dell’effetto della stabilità, fa salva la (eventualmente di-

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versa) graduazione sostanziale che è […] appannaggio del fallimento in base all’art. 52 l.fall. Infatti, ad un privilegio processuale non può che conseguire una distribuzione anch’essa avente soltanto effetti processuali, coerenti con la menzionata volontà legislativa». Per il Corte, quindi, il provvedimento col quale il giudice dell’esecuzione assegna l’intero ricavato all’istituto procedente nonostante il fallimento e a causa della piana applicazione dell’art. 42 T.U. 1905, non opera alcuna graduazione tecnicamente intesa, perché non conosce dei privilegi sostanziali esaminandone gli elementi costitutivi in punto di fatto, ma si limita ad applicare una norma di puro rito. La distribuzione che ne consegue può avere natura meramente provvisoria senza che alcun rilievo abbia l’ipotetica diversa opinione espressa dallo stesso giudice dell’esecuzione. Quanto alla richiesta della curatela avente ad oggetto specifici crediti concorsuali, la Corte ritiene che per questo tramite l’interveniente mira ad ottenere un accertamento sulla collocazione dei rispettivi privilegi intesi in senso sostanziale e che per ciò stesso, in assenza di ogni controindicazione a che ciò segua le regole fissate dalla procedura individuale, la domanda deve integrare i requisiti dell’intervento nell’espropriazione immobiliare come stabiliti dall’art. 563 c.p.c. (versione precedente alla modifica introdotta dal d.l. 30/2005 convertito in legge dalla l. 80/2005) coincidenti con la certezza e la liquidità del credito (non anche la sua esigibilità, a differenza dell’esecuzione mobiliare e presso terzi)». Accertato che i crediti posti a fondamento della domanda non integrano tali requisiti, la Corte rigetta l’appello e conferma la sentenza di primo grado. Da ultimo, sulla natura processuale del privilegio qui esaminato, si veda la recente pronuncia resa da Trib. Macerata, 26 gennaio 2008 (inedita), conforme a Trib. Venezia, 3 febbraio 2004 (in Foro padano, 2005, I, 203, con nota di Lorcet, e in Giur. banc., 2007, par. 1.7).

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III. BORSA E MERCATO MOBILIARE

Sommario: A) Servizi e attività di investimento. – 47. Svolgimento dei servizi e delle attività. – 47.1. Natura dei «criteri generali» di comportamento e conseguenze della loro violazione. – 47.2. Obblighi informativi. – 47.3. Adeguatezza dell’operazione. – 47.4. Forma dei contratti. – 47.5. Operatore qualificato – 47.6. Consegna dei documenti relativi al servizio di investimento. – 48. Offerta fuori sede. – 48.1. Responsabilità solidale dell’intermediario per illecito del promotore. – B) Appello al pubblico risparmio. – 49. Offerta pubblica di acquisto. – 49.1. OPA obbligatoria. Presupposti. – 49.2. Violazione dell’obbligo di OPA totalitaria e risarcimento del danno. – 49.3. OPA obbligatoria residuale. Mancata ricostituzione del flottante e risarcibilità del danno.

A) SERVIZI E ATTIVITÀ DI INVESTIMENTO 47. Svolgimento dei servizi e delle attività 47.1. Natura dei «criteri generali» di comportamento e conseguenze della loro violazione. a) Tib. Ferrara, 28 settembre 2007 (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, p. 105 ss., con nota di Pellegrini, La responsabilità dell’intermediario per “solidarietà creditoria” in un orientamento giurisprudenziale in tema di prestazione di servizi finanziari), conformandosi all’orientamento ormai largamente maggioritario anche tra i giudici di merito, ha respinto la domanda di nullità, ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., di un ordine di acquisto di obbligazioni argentine proposta da due investitori che lamentavano la violazione da parte dell’intermediario degli obblighi informativi di cui all’art. 21 t.u.f. e agli artt. 28 e 29 del reg. “Intermediari” all’epoca vigente. Dopo aver precisato che per aversi la nullità virtuale di cui all’art. 1418, co. 1, c.c. è necessario (a) che si sia in presenza di una norma imperativa, (b) che sia il contratto in quanto tale a violare le norma imperative e (c) che non sussistano disposizioni legislative in senso contrario, il tribunale ha rilevato che, pur ricorrendo il primo requisito, stante la indubbia natura imperative delle norme attraverso le quali la disciplina di rango primario e secondario del mercato finanziario prescrive la condotta alla quale gli intermediari debbono attenersi nella prestazione dei servizi di investimento, nel caso de quo, difettava invece certamente il secondo dei requisiti sopra citati. Argomentando dalla distinzione, operata dalla dottrina penalistica, tra «reati contratto», nei quali la violazione della norma imperativa penale

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penetra la struttura del contratto, e «reati in contratto», nei quali invece la violazione della norma imperativa è estranea alla fattispecie contrattuale, il collegio ha sostenuto che non ogni violazione di norme imperative è fonte di nullità del contratto, tale sanzione conseguendo – nel caso delle norme imperative penali e, dunque, a maggior ragione nel caso delle norme imperative civili - soltanto a quelle violazioni poste in essere mediante la stipulazione del contratto, e non anche invece a quelle violazioni di norme imperative realizzate in occasione della stipulazione del contratto. Dopo aver rintracciato conferme alla soluzione proposta sia nell’esigenza di certezza del diritto sia nel principio di conservazione del contratto, i giudici ferraresi, che - va ricordato – si sono pronunciati prima della presa di posizione in argomento dalle sezioni unite della Cassazione (la questione è stata rimessa a alle sezioni unite da Cass., ord. 16 febbraio 2007, n. 3683, in Foro it., 2007, I, 2094 ss. ed è stata poi risolta da Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724, sulla quale v. infra), hanno correttamente precisato che le conclusioni cui essi sono giunti non sono in alcun modo intaccate dall’esistenza nell’ordinamento delle cc.dd. «nullità di protezione», le quali, benché sanzionino violazioni estranee alla struttura del contratto, sono pur sempre nullità testuali, ossia positivamente previste dal legislatore, non legittimando dunque alcuna interpretazione estensiva del dettato dell’art. 1418, co. 1, c.c. Nel periodo in rassegna, benché sulla base di una motivazione che si limita al richiamo di Cass. n. 19025 del 2005, la domanda di nullità (virtuale) di un ordine di acquisto di strumenti finanziari fondata sull’inadempimento dell’intermediario agli obblighi informativi previsti dalla disciplina primaria e secondaria del mercato finanziario è stata rigettata anche da Trib. Livorno, 27 giugno 2006 (in Giur. comm., II, 2008, 389 ss., con nota di R. Bruno, L’esperienza dell’investitore e l’informazione “adeguata” e “necessaria”). In termini, v. anche Trib. Mantova, 15 novembre 2007 (in Il caso.it, I, 1170). b) Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724 (in Dir. banc., II, 2008, 691 ss., con nota di Mazzini, L’ambito applicativo della nullità virtuale e gli obblighi di astensione dell’intermediario nella sentenza delle Sezioni Unite; in Giur. comm., II, 2008, 604 ss., con nota di F. Bruno e Rozzi, Le Sezioni Unite sciolgono i dubbi sugli effetti della violazione degli obblighi di informazione; in Società, 4/2008, 449 ss., con nota di V. Scogniamiglio), interessata da Cass., (ord.) 16 febbraio 2007, n. 3683, della questione relativa alle conseguenze della violazione della disciplina sullo svolgimento dei servizi di investimento (e segnatamente di quelle norme che prevedono un obbligo informativo in capo all’intermediario),

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ha affermato il principio di diritto secondo il quale la violazione della citata disciplina comporta responsabilità precontrattuale o contrattuale a seconda che avvenga nella fase precedente o coincidente con la formazione del contratto o invece nella fase di esecuzione del medesimo, precisando che, in difetto di una espressa previsione di legge, la violazione di una norma di comportamento non può mai dare luogo a nullità del contratto o dei singoli ordini ex art. 1418, co.1, c.c. Negando l’esistenza di un vero e proprio contrasto in seno alla giurisprudenza della Corte in argomento, le Sezioni unite hanno ravvisato l’unico vero precedente in materia in Cass. 19024/2005, cit., della quale hanno in particolare condiviso l’impostazione di fondo, ispirata alla tradizionale bipartizione tra regole di comportamento e regole che attengono alla struttura e al contenuto del contratto. Muovendo dal così detto principio di non interferenza, la sentenza in rassegna ha rigetta, alla stregua di ognuno dei tre commi dell’art. 1418 c.c., la tesi dell’esistenza di un collegamento necessario tra l’imperatività delle norme in questione e nullità del contratto in caso di loro violazione. In particolare, criticando la tesi della nullità virtuale ex art. 1418, co. 1, c.c., i supremi giudici affermano che, benché a livello legislativo si registri la tendenza a spostare le violazioni dei principi generali della correttezza e della buon fede sul terreno della validità del contratto, come aveva rilevato l’ordinanza di rimessione, ciò non basta, tanto più alla luce della sempre più accentuata asistematicità dell’ordinamento positivo, a fondare un’applicazione generalizzata di previsioni che, come quelle relative alle nullità di protezione, sono ab origine connotate da un accentuato grado di specialità. Né, assume rilievo nella prospettiva della sentenza in rassegna, l’ampio panorama giurisprudenziale in cui la Suprema Corte ha utilizzato l’art. 1418, co. 1, c.c. per dichiarare la nullità di contratti in relazione alla violazione di regole non attinenti né alla struttura né al contenuto del contratto (come è, ad esempio, accaduto in Cass. 7 marzo 2001, n. 3272, ove la nullità del contratto di investimento fu pronunciata in relazione alla mancanza di autorizzazione allo svolgimento del servizio di investimento dell’intermediario). Sebbene, infatti, in questi casi presupposto della pronuncia di nullità sia stato il comportamento di uno dei contraenti, tale comportamento non ha mai riguardato la fase prenegoziale o esecutiva del contratto, attenendo piuttosto al momento genetico del negozio del quale ha determinato la nascita nonostante un vero e proprio divieto legale di stipulare. Pertanto, si tratta di una giurisprudenza che null’altro dimostra se non che l’ambito di applicazione dell’art. 1418, co. 1, c.c. è ben più ampio delle violazioni della struttura e del contenuto del contratto in quanto tale. Infine, come argomentazione

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di chiusura, la sentenza richiama la circostanza che la disciplina dell’intermediazione finanziaria non presenta indici normativi o sistematici che possano far ritenere che il legislatore abbia voluto far conseguire la sanzione della nullità alla violazione di ogni regola di comportamento, notando, anzi, che la disciplina positiva, prevedendo specifiche ipotesi positive di nullità (appunto, di protezione) proprio con riferimento a violazioni di regole diverse da quelle comportamentali (v. in particolare, l’abrogato art. 6 della l. n. 1 del 1991 e l’attuale art. 23 t.u.f., in tema di nullità per vizio di forma), depone in senso esattamente contrario. 47.1.2. Obblighi informativi. a) Trib. Livorno, 27 giugno 2006, cit., ha affermato che l’ampiezza degli obblighi informativi gravanti sull’intermediario - segnatamente di quelli discendenti dall’allora vigente art. 28, reg. “Intermediari” n. 11522/98 – deve essere valutata in relazione alle concrete caratteristiche soggettive dell’investitore, le quali possono desumersi sia dalla sua esperienza in materia di investimenti sia dalle caratteristiche e dalla quantità delle operazioni dal medesimo compiute sui titoli in questione. Alla stregua di tale impostazione, come già sostenuto da Trib. Vicenza, 23 maggio 2003, espressamente richiamata nella sentenza in rassegna, i giudici toscani riconoscono una sorta di proporzionalità inversa tra il rigore con il quale la necessità e l’adeguatezza dell’informazione dovuta dall’intermediario deve essere valutata e l’effettiva capacità dell’investitore di apprezzare i rischi connessi alla specifica operazione di investimento. Facendo applicazione di questo principio il tribunale, dopo aver escluso, sulla scorta di Cass., n. 19025 del 2005, la configurabilità nel caso di specie di una nullità virtuale ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c., ha rigettato la domanda di un investitore che pretendeva di essere risarcito dei danni (consistenti dell’azzeramento del valore del proprio investimento in obbligazioni argentine) sofferti quale effetto dell’inadempimento da parte dell’intermediario agli obblighi informativi previsti dalla normativa primaria e secondaria in tema di prestazione dei servizi di investimento. Nel caso di specie, l’esperienza dell’investitore è stata desunta dal concreto andamento - precedente e successivo all’esecuzione dell’ordine di acquisto oggetto di giudizio - del rapporto tra le parti. Nel corso del giudizio la banca aveva infatti provato che l’investitore, durante tutto il rapporto ed anche dopo l’acquisto delle obbligazioni per cui era causa, si era reso a più riprese acquirente non solo di obbligazioni argentine, ma anche di titoli altrettanto rischiosi, quali obbligazioni brasiliane e venezuelane, nell’ambito di operazioni rimaste tuttavia incontestate. Sulla

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base di questi rilievi il tribunale, da un lato, ha affermato la sufficienza e l’adeguatezza dell’informazione ricevuta dall’investitore, in quanto quest’ultimo al momento dell’ordine in contestazione, data la sua pregressa esperienza, era certamente a conoscenza delle caratteristiche e dei rischi dello specifico investimento prescelto, e, dall’altro, ha in ogni caso rilevato il difetto del nesso causale tra il danno lamentato e l’asserito inadempimento dell’intermediario, non potendo essere escluso, alla luce degli investimenti posti in essere dall’attore anche dopo l’esecuzione dell’ordine in contestazione, che in presenza di una informazione più dettagliata egli non avrebbe comunque proceduto all’acquisto di obbligazioni argentine. b) Trib. Ferrara, 28 settembre 2007, cit., giudicando un caso per molti versi simile a quello deciso da Trib. Livorno, 27 giugno 2006, appena sintetizzata, nel quale veniva contestato all’intermediario di essere rimasto inadempiente agli obblighi informativi previsti nel t.u.f. e nel reg. “Intermediari”, dopo aver respinto la domanda di nullità proposta in via principale, ha accolto la subordinata domanda di risarcimento danni, riconoscendo il contestato inadempimento dell’intermediario pur in presenza della sottoscrizione da parte degli investitori della dichiarazione circa l’inadeguatezza dell’investimento e nonostante risultasse agli atti l’esecuzione da parte dei medesimi investitori di altre operazioni speculative. Entrambe le circostanze, sono apparse al collegio, contrariamente a Trib. Livorno, 27 giugno 2006, cit., inidonee tanto a far ritenere assolti gli obblighi informativi gravanti sull’intermediario quanto ad attenuare il rigore con il quale il tribunale è tenuto a valutare l’adempimento di questi ultimi. 47.1.3. Adeguatezza dell’operazione. a) Trib. Foggia, 13 novembre 2007 (in Il caso - Foglio di giurisprudenza mantovana, www.ilcaso.it, I, 1086) ha dichiarato l’idoneità dell’avvertimento «operazione non adeguata» posta sull’ordine di acquisto e sottoscritta dall’investitore al fine di soddisfare le prescrizione (all’epoca contenute nell’art. 29, reg. “Intermediari”) in ordine alle operazioni non adeguate per tipologia. b) Trib. Napoli, 5 marzo 2008 (in Il caso - Foglio di giurisprudenza mantovana, www.ilcaso.it, I, 1399) ha dichiarato la risoluzione di alcune operazioni di investimento in titoli del debito emessi dalla Repubblica Argentina effettuate nel dicembre del 1999, giudicando inadeguate tali operazioni in quanto effettuate dall’intermediario senza aver previamente acquisito dall’investitore informazioni circa il profilo di rischio e l’esperienza finanziaria. Tale circostanza, secondo il tribunale partenopeo, oltre a costituire una autonoma violazione della disciplina positiva

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di rango primario e secondario (segnatamente della disposizione all’epoca dettata dall’art. 28 reg. “Intermediari”), avrebbe dovuto indurre la banca ad assegnare all’investitore un profilo di rischio basso, segnalando su tale presupposto l’inadeguatezza dell’operazione, in effetti adatta solo ad investitori con profilo di rischio speculativo, e contemporaneamente rifiutandosi di dare ad essa esecuzione, se non dietro specifico e informato consenso. Nessun rilievo ha invece riconosciuto il Tribunale, come aveva chiesto la difesa della banca convenuta, all’attività di investimento posta in essere dal medesimo investitore successivamente alle operazioni in discorso. E ciò sulla scorta del principio secondo cui la valutazione di adeguatezza deve farsi alla luce degli elementi esistenti alla data dell’ordine. 47.1.4. Forma dei contratti. a) Trib. Novara, 18 gennaio 2007 (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 57 ss., con nota di Lemma, L’ «operatore qualificato» nelle operazioni in derivati) ha rigettato la domanda di nullità di alcuni contratti di swap fondata sulla mancanza del un contratto-quadro, ritenendo sufficienti, al fine di soddisfare il requisito formale di cui all’art. 23, t.u.f., i contratti stipulati tra le parti in occasione delle singole operazioni di swap. Pur condividendo la giurisprudenza secondo la quale la prescrizione di forma scritta di cui all’art. 23, co. 1, t.u.f. si riferisce al solo contratto quadro e non anche ai singoli ordini, il tribunale ha rilevato come nel caso di specie le singole operazioni di swap, in luogo di realizzarsi sulla base di meri ordini presupponenti un contratto a monte, costituivano il momento esecutivo di altrettanti contratti, tutti idonei, per requisiti formali e per contenuto, a dettare la disciplina delle operazioni di interest rate swap che le parti avessero deciso di porre in essere. Sicché, benché non fosse riscontrabile la conclusione tra le parti di un vero e proprio contratto-quadro relativo alla prestazione dei servizi di investimento, il tribunale ha concluso che la concreta fattispecie negoziale portata al suo esame deve ritenersi rispettosa della ratio sulla quale riposa la prescrizione di cui all’art. 23, co. 1, t.u.f., potendosi al più rilevare un eccesso di forma scritta, dal quale tuttavia non discende alcun vizio sui singoli contratti di swap. 47.1.5. Operatore qualificato. Trib. Novara, 18 gennaio 2007, cit., discostandosi da un orientamento affermatosi nella giurisprudenza di merito (v., tra le altre, Trib. Milano, 6 aprile 2005, in Il caso - Foglio di giurisprudenza mantovana, www.ilcaso.it) ha affermato l’insufficienza della dichiarazione, resa dall’investitore ai sensi dell’art. 31, reg. Consob “Intermediari”, attestante la qualità di operatore qualificato al fine di

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escludere o limitare gli obblighi informativi e di protezione della controparte contrattuale gravanti sull’intermediario ai sensi del t.u.f. e del reg. Consob “Intermediari”. Secondo il tribunale la portata e l’operatività di tali obblighi non può infatti dipendere dal giudizio che l’investitore abbia delle proprie competenze in materia finanziaria e dunque dal conseguente bisogno di protezione che egli ritenga di avere, ma solo da una oggettiva valutazione condotta alla stregua delle effettive qualità ed esperienza dell’investitore. In questo senso deporrebbe, secondo i giudici novaresi, la norma di fonte primaria alla quale l’art. 31 del reg. “Intermediari” da attuazione, e cioè l’art. 6, co. 2, t.u.f., alla stregua della quale la Consob può ritenersi autorizzata a stabilire standards di comportamento differenziati in capo agli intermediari solo se tale differenziazione sia basata, appunto, sulla effettiva «qualità ed esperienza professionale degli investitori». Sicché una previsione che facesse dipendere l’applicazione di uno statuto di protezione dell’investitore non dalle sua qualità ed esperienza obiettive, ma da una autovalutazione del medesimo investitore, determinando l’individuazione di due categorie di operatori qualificati all’interno dell’art. 31 reg. “Intermediari”, difetterebbe del necessario presupposto legislativo. Di talché, concludono i giudici, se non corroborata da elementi di positivo e obiettivo riscontro, quella dichiarazione rimane senza effetti. 47.1.6. Consegna dei documenti relativi al servizio di investimento. Trib. Nocera Inferiore, 31 luglio 2006 (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 117 ss., con nota di richiami di Maimeri) ha accolto il ricorso ex art. 19, d.lgs. n. del 2003 presentato da un investitore nei confronti della banca intermediaria al fine di ottenere dalla medesima la consegna: a) di un esemplare dell’ordine di acquisto delle obbligazioni argentine a suo tempo impartito; b) di una copia del contratto quadro di ricezione e trasmissione ordini; c) del documento sui rischi finanziari dell’operazione. Il giudice unico ha individuato la fonte normativa del diritto dell’investitore alla consegna della citata documentazione nell’art. 23, co. 1, t.u.f., ove si prevede che i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento non solo debbano essere stipulati per iscritto, ma debbano altresì essere consegnati ai clienti, nonché nelle norme regolamentari, all’epoca contenute negli artt. 30 e 28 del reg. Consob “Intermediari”, nelle quali l’obbligo di consegna viene specificato, attraverso la previsione della sua estensione alle registrazioni degli ordini impartiti telefonicamente e al documento sui rischi generali dell’investimento in strumenti finanziari.

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48. Offerte fuori sede 48.1. Responsabilità solidale dell’intermediario per illecito del promotore. Cass., 7 aprile 2006, n. 8229 (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 137 ss., con nota di richiami di De Santis) ha confermato la sentenza di appello con la quale una Società di intermediazione mobiliare, sulla base dell’art. 5, co. 4, della l. n. 1/1991, applicabile alla fattispecie ratione temporis, era stata condannata a risarcire un investitore dei danni a quest’ultimo causati da un promotore finanziario della medesima s.i.m., il quale, in un caso anche dopo la cessazione del rapporto con l’intermediario, aveva distratto a proprio favore le somme di danaro che gli erano state consegnate per essere investite. Nel confutare le censure mosse dalla ricorrente, la Corte, da un lato, ha negato che l’irregolarità dei versamenti operati dall’investitore, avvenuti a mezzo titoli al portatore, fosse idonea ad assumere rilievo causale nella produzione del danno e dunque ad escludere o limitare il risarcimento, ai sensi dell’art. 1227, co. 2, c.c., e, dall’altro, ha escluso la rilevanza della non attualità del rapporto di preposizione. Sul primo versante i giudici di legittimità osservano come la prescrizioni regolamentari disattese nel caso di specie, le quali impongono che la consegna al promotore di somme di danaro da investire debba avvenire in forme idonee a prevenirne l’appropriazione indebita (uso di titoli di credito intestati all’intermediario non trasferibili o titoli di credito nominativi intestati al cliente e girati all’intermediario), trovano in effetti la propria ratio, al pari della norma che sancisce la responsabilità solidale dell’intermediario per il fatto illecito (anche penale) del promotore, nell’esigenza di apprestare per i destinatari di offerte fuori sede una più ampia tutela rispetta a quella che sarebbe assicurata loro dal diritto comune. Ne discende, secondo la Corte, che quelle formalità, come del resto è testualmente previsto dalla disciplina positiva, costituiscono il contenuto di una regola di comportamento che grava sul solo promotore e che pertanto non può mai, neppure per effetto di specifiche previsioni contrattuali, risolversi in un aggravio della posizione dell’investitore, pena la vanificazione della finalità di tutela della previsione legale. Benché dunque la Corte non escluda in principio che l’investitore possa con il proprio comportamento contrario a buona fede concorrere alla produzione del danno, con le conseguenza di cui all’art. 1227, co. 2, c.c., essa chiaramente rigetta la tesi, sostenuta dalla società di intermediazione nel proprio ricorso, secondo la quale il nesso di causalità tra condotta del promotore e danno si sarebbe spezzato o quantomeno attenuato a cagione delle modalità di consegna delle somme di danaro da parte dell’investitore.

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Quanto poi alla non attualità del rapporto di preposizione tra intermediario e promotore, la Corte, facendo applicazione dei principi dell’apparenza del diritto, come detto, ha negato che tale circostanza possa assumere rilevanza ai fini del riconoscimento della responsabilità solidale del primo per il fatto illecito del secondo tutte le volte che, come nel caso di specie, il rapporto di preposizione appaia invece attuale per effetto del contegno colposo, anche se solo omissivo, dell’intermediario. Su questa base nella sentenza viene riconosciuta la correttezza del ragionamento giuridico sotteso alla decisione della Corte d’appello, secondo il quale dell’illecito posto in essere da un ex promotore può essere chiamato a rispondere l’intermediario che con il proprio colposo comportamento, consistito nel non aver avvisato dell’interruzione del rapporto con detto promotore i clienti che con quest’ultimo avevano rapporti, abbia alimentato l’affidamento dell’investitore circa l’attualità del legame di preposizione. Infine, rigettando anche il terzo motivo del ricorso, i giudici di legittimità hanno confermato la correttezza della determinazione del quantum debeatur, affermando, in linea con un orientamento emerso nella giurisprudenza di merito (Trib. Milano, 2 maggio 1996, in Resp. Civ. e prev., 1997, 1235, con nota di Annunziata) che il danno va quantificato avendo presente il risultato economico che avrebbe avuto l’investimento richiesto dall’investitore se fosse stato effettuato. B) APPELLO AL PUBBLICO RISPARMIO 49. Offerta pubblica di acquisto 49.1. OPA obbligatoria totalitaria. Presupposti. CONSOB, Comunicazione n. DEM/7091047, 11 ottobre 2007 (in Giur. comm., 2008, II, 1004 ss., con nota di Cincotti, OPA obbligatoria e operazioni di prestito titoli) ha negato l’applicabilità della disciplina dell’OPA obbligatoria, e segnatamente la ricorrenza dell’obbligo di procedere ad una offerta pubblica di acquisto ex art. 106, co. 1, t.u.f., nel caso in cui il superamento della soglia del 30% della partecipazione costituisca l’esito dell’esercizio di una opzione di prestito titoli (c.d. lending option) concessa, nell’ambito di una IPO, al c.d. global coordinator per il caso di c.d. overallotment. Dopo averne fornito la nozione, descrivendolo come il contratto con il quale un prestatore (lender) trasferisce in proprietà ad un prestatario (borrower) una certa quantità di una data specie di titoli per

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ricevere poi dal medesimo soggetto il tandundem eiusdem generis (al quale nel caso di prestito oneroso si aggiunge un corrispettivo), il presidente della Consob ha qualificato il prestito titoli, confermando un orientamento già emerso nella Comunicazione n. 4073976 del 6 agosto 2004 e condiviso dalla prevalente dottrina, come un contratto atipico assimilabile al mutuo. Ha poi evidenziato l’indifferenza, ai fini dell’applicabilità della disciplina sull’OPA obbligatoria, della onerosità o meno del prestito, dal momento che anche in caso di prestito oneroso il corrispettivo non sarebbe a carico del soggetto che supera la soglia del 30% del capitale, ma solo al prestatario collocatore. Il Presidente ha quindi giustificato l’inapplicabilità della disciplina sull’OPA obbligatoria sulla base della circostanza che in casi come quello in esame la diminuzione della partecipazione al di sotto della soglia del 30% e poi il risuperamento della medesima per effetto della restituzione dei titoli costituiscono momenti di una unitaria figura negoziale, la unica causa è costituita dalla necessità di stabilizzare il corso dei titoli. La Comunicazione si chiude, poi, con la comprensibile precisazione secondo la quale se non vi è esatta coincidenza tra la partecipazione iniziale e la partecipazione finale del lender, se cioè tra la data del prestito e quella della restituzione sono intervenuti acquisti idonei a accrescere la partecipazione di quest’ultimo, i presupposti di applicazione della disciplina dell’OPA obbligatoria riemergono determinando la nascita dell’obbligo di una offerta pubblica di acquisto. 49.2. Violazione dell’obbligo di OPA totalitaria e risarcimento del danno. Trib. Milano, 21 maggio 2007 (in Società, 2/2008, 205 ss., con nota di Rizzini Bisinelli) ha fatto discendere dalla violazione dell’obbligo di lanciare l’OPA totalitaria la responsabilità risarcitoria dell’autore della violazione nei confronti dei soci di minoranza. Secondo il tribunale milanese infatti ad essere violato è in tal caso un obbligo legale (art. 1173 c.c.) che fa parte integrante del contenuto del contratto sociale e che pertanto è assistito dal rimedio (contrattuale) del risarcimento del danno. 49.3. OPA obbligatoria residuale. Mancata ricostituzione del flottante e risarcibilità del danno. Trib. Milano, 30 marzo 2007 (in Società, 1/2008, 71 ss., con nota di Gusso) ha rigettato la domanda di risarcimento danni proposta dai soci di minoranza di una società fatta oggetto di una offerta pubblica di acquisto totalitaria sulla base della mancata ricostituzione del flottante nei termini di legge. Secondo il giudice milanese, in caso di superamento della soglia di partecipazione rilevante, mentre sussiste un diritto – che trova causa nel contratto

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sociale – dei soci di minoranza a vedere acquistati i propri titoli di partecipazione al corrispettivo prestabilito, la cui violazione può eventualmente generare anche un obbligo di risarcimento (seppure limitato al solo danno prevedibile), la ricostituzione del flottante risponde solo ad un interesse del mercato, con la conseguenza che della sua mancata realizzazione non può dolersi il socio, la cui posizione, quantomeno nel breve termine, verrebbe anzi pregiudicata da un punto di vista economico da ulteriori vendite sul mercato.

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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni



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La crisi del gruppo Lehman Il 15 settembre 2008 la Lehman Brothers Holdings Inc. ha richiesto ed ottenuto, dalla Bankruptcy Court for the Southern District of New York, l’ammissione alla procedura di Reorganization, disciplinata dal Chapter 11 del Bankruptcy Code. Dopo tale ammissione, altre 18 controllate del gruppo sono state sottoposte alla riorganizzazione in regime di administrative consolidation (gestione unitaria di tutte le procedure da parte di un solo giudice). Data l’entità della crisi (il più grande fallimento della storia americana, con passivo dichiarato pari a 613 miliardi di dollari) ed i riflessi che, attesa l’operatività su scala mondiale della Lehman, ha avuto – e tuttora sta avendo – il dissesto, anche rispetto al nostro sistema finanziario, pare interessante pubblicare alcuni atti e documenti – non tutti, evidentemente, dato lo spazio a disposizione – relativi alla procedura ancora in corso, ai quali fa seguito il saggio di approfondimento di D. Vattermoli, Chapter 11 e tutela dei creditori (note a margine del caso Lehman). In particolare, vengono qui di seguito pubblicati: (I) la richiesta di ammissione alla procedura di Reorganization; (II) la richiesta alla corte, da parte del debitore, di accettazione dei termini e delle condizioni della vendita di alcuni assets della Lehman Brothers (e di alcune controllate) a favore della Barclays Capital Inc. e di fissazione dell’udienza pubblica per il perfezionamento della vendita; (III) ordinanza della corte fallimentare che accetta i termini e le condizioni della vendita a favore della Barclays e fissa la data d’udienza per eventuali offerte migliorative. Per quel che concerne gli altri atti e documenti della procedura (contratto di vendita Lehman/Barclays; contratto di vendita Lehman/NBSH Acquisition; ordinanza della corte che dichiara la nullità di pieno diritto di tutte le operazioni di acquisto delle azioni Lehman effettuate dopo il 14 ottobre 2008; ecc.), gli stessi possono essere consultati sul sito http:// chapter11.epiqsystems.com/clientdefault.aspx?pk=de7ced2b-52e7-417292e1-9ec425933bd0&l=1 [nota redazionale].

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Chapter 11 e tutela dei creditori (note a margine del caso Lehman Brothers)

Sommario: 1. Premessa. – 2. Chapter 11 e tutela dei creditori: impostazione dell’analisi. – 3. Tutela di classe. Absolute priority rule; residual owner e new value doctrine. – 4. Tutela individuale. Best interest of creditors test. – 5. Posizione dei creditori della Lehman Brothers alla luce dei risultati raggiunti.

1. Premessa. Il 15 settembre 2008 la Lehman Brothers Holdings Inc. ha presentato domanda di ammissione al Chapter 11 del Bankruptcy Code (11 U.S.C.), dando così il passo alla più grande (dal punto di vista del totale del passivo) procedura di Bankruptcy che la storia degli Stati Uniti abbia mai conosciuto. Inoltre, a seguito della sottoposizione della Lehman Brothers Holdings Inc. al Chapter 11, altre 18 controllate facenti parte del gruppo hanno richiesto l’assoggettamento alla procedura di Reorganization 1. Le origini e le cause della crisi sono state già ampiamente analizzate per essere riproposte in questa sede, essendo universalmente ricondotte – almeno in buona sostanza –, per un verso, alla “crisi” dei mutui subprime, che per effetto della successiva cartolarizzazione dei crediti vantati dagli istituti mutuanti e dell’introduzione di “parti” dei titoli ge-

1 Va detto che, dal punto di vista procedurale, le imprese sono state sottoposte al regime della c.d. administrative consolidation (su cui v. Berry, Consolidation in Bankruptcy, in 50 Am. Bankr. L.J., 1976, p. 343 ss.): ovvero, tutte le procedure che concernono il gruppo Lehman vengono gestite unitariamente da un solo giudice [Rule 1015(b), Bankruptcy Rules]. Non si è invece proceduto a quella che in America viene chiamata Substantive Consolidation (su cui v., per tutti, Amera e Kolod, Substantive Consolidation: Getting Back to Basics, in 14 ABI L. Rev., 2006, 1 ss.), ovvero la riunione in un’unica massa attiva e in un’unica massa passiva di tutte le consistenze, attive e passive, delle imprese del gruppo, con elisione delle poste derivanti dai rapporti infragruppo. Dal punto di vista patrimoniale, dunque, le procedure permangono distinte (ciò che, com’è noto, avviene nel nostro ordinamento, nell’ambito, ad esempio, della crisi del gruppo bancario e del gruppo in amministrazione straordinaria, ex artt. 80 ss. d.lgs. n. 270/1999).

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nerati dalla cartolarizzazione in strumenti finanziari complessi, hanno intossicato, come un virus maligno, il sistema americano, in primis, e, a catena, l’intero sistema finanziario mondiale; e, per altro verso, alla, a dir poco, disinvolta operatività nel settore dei derivati, evidenziando – e questo, in prospettiva, è sicuramente l’aspetto più rilevante – l’inefficacia e l’inefficienza delle regole che disciplinano il mercato dei capitali (non è un caso che da tutte le parti si stia ripensando funditus all’impianto complessivo del sistema, con la conseguente – e tipica, in ogni periodo di crisi – ondata di ri-regulation). Si è detto che il caso Lehman rappresenta il più grande crack della storia americana. Dal file of petition (cioè, la domanda di ammissione alla procedura) emergono infatti i seguenti dati: - totale attività = 639 miliardi di dollari - totale passività = 613 miliardi di dollari Le passività, dal punto di vista oggettivo, risultano distribuite tra secured debts (crediti privilegiati) e unsecured debts (crediti chirografari), divisi a loro volta in senior, ordinari e junior. Le quote di partecipazione al capitale proprio sono rappresentate da preferred stocks (ne vengono elencate ben 11 categorie) e common stocks. Dal punto di vista soggettivo, i creditori che vantano crediti (non privilegiati) di maggiore importo sono banche ed altri istituti finanziari 2. L’assoggettamento volontario delle società del gruppo Lehman al Chapter 11 ha determinato per i creditori un primo effetto importante: quello che gli americani chiamano automatic stay (§ 362), ossia il blocco delle azioni esecutive individuali 3. L’apertura della procedura impedi-

Tra essi, va sottolineata la posizione della Citibank e dalla Bank of New York, che, nella qualità di trustees dei detentori di Senior Notes emesse dalla Lehman, vantano crediti per un importo pari a circa 138 miliardi di dollari. 3 Va aggiunto che, nell’ambito della procedura Lehman, la Corte, con ordinanza del 5 novembre 2008, ha dichiarato la nullità di pieno diritto – sulla base, appunto, del principio dell’automatic stay – di tutte le operazioni di vendita aventi ad oggetto le azioni della società debitrice poste in essere successivamente al 14 ottobre 2008. La restrizione è giustificata dai benefici fiscali derivanti dalle perdite subite che, secondo il ragionamento della Corte, appartengono al patrimonio del debitore: «1. Lehman’s consolidated net operating loss tax carryforwards (“NOLs”) and certain other tax attributes (together with NOLs, the “Tax Attributes”) are property of the Debtors’ estates and are protected by the automatic stay prescribed in section 362 of the Bankruptcy Code; 2. Unrestricted trading of certain equity interests in LBHI during the pendency of the bankruptcy could severely limit the Debtors’ ability to utilize the Tax Attributes for purposes of title 26 of the United States Code (the “Tax Code”), as set forth in the Motion; 3. The notification procedures 2

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sce, inoltre, il pagamento volontario delle passività pregresse, salvo che ciò risulti funzionale al buon esito del piano di riorganizzazione (c.d. doctrine of necessity) 4 o sia collegato al normale svolgimento di contratti in corso di esecuzione al momento dell’apertura della procedura 5. Il piano di riorganizzazione, ad oggi non ancora presentato, indicherà poi i termini e le modalità in cui avverrà il soddisfacimento degli aventi diritto sul patrimonio della Lehman. Peraltro, la dimensione “mondiale” di tale crisi sembra rappresentare un’occasione propizia per verificare, in un contesto più generale, lo stadio di evoluzione della procedura di Reorganization, analizzata proprio nell’ottica della tutela degli interessi dei creditori: ciò consentirà, in un momento successivo, di formulare alcune ipotesi circa il contenuto del piano di riorganizzazione della Lehman Brothers Holdings Inc. e, conseguentemente, l’impatto che tale dissesto potrà avere nei confronti dei soggetti che ne sono coinvolti.

and restrictions on transfers of LBHI’s common stock, certain classes of preferred stock and options to acquire such stock are necessary and proper to preserve the Tax Attributes and are therefore in the best interests of the Debtors, their estates, and their creditors; and 4. The relief requested in the Motion is authorized under sections 105(a) and 362 of the Bankruptcy Code». 4 Va detto che i contorni della doctrine of necessity sono assai incerti, essendo rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice la valutazione circa l’indispensabilità o meno del pagamento ai fini della riorganizzazione: e così, si sono registrati dei casi in cui il giudice ha autorizzato il pagamento dei salari pregressi dei lavoratori subordinati [a volte sotto la minaccia di uno sciopero: e v., ad esempio, In re Structurlite Plastics Corp., in 86 Bankr. 922 (Southern District of Ohio, 1988)], ed altri, invece, in cui tale autorizzazione è stata negata [e v., sempre ad esempio, In re FCX, Inc., in 60 Bankr. 405 (Eastern District on North Carolina, 1986)]. 5 Il semplice assoggettamento al Chapter 11 non determina l’interruzione dell’attività di impresa. L’amministrazione del patrimonio resta normalmente, come è accaduto nel caso Lehman, in capo agli organi della società debitrice (debtor-in-possession: § 1107), i quali hanno un periodo di tempo (120 giorni, estendibile fino ad un massimo di 18 mesi dall’ammissione alla procedura) nel quale possono presentare, in via esclusiva, un piano di riorganizzazione; scaduto questo termine, qualsiasi altro interessato può presentare un piano (§ 1121). A sorvegliare l’operato del debitore provvede l’U.S. Trustee (una sorta di “curatore pubblico”), che nomina, altresì, il Comitato dei creditori. I membri del Comitato (di norma, sette) sono scelti tra i creditori non privilegiati che vantano i crediti di maggior importo (§ 1102). La scelta dei non privilegiati dipende dal fatto che essi sono i soggetti che, nella maggioranza dei casi, sono i diretti interessati all’andamento della procedura concorsuale; sono, cioè, i c.d. residual owners (sul punto si tornerà più diffusamente infra, § 3).

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2. Chapter 11 e tutela dei creditori: impostazione dell’analisi. A. In uno scritto di alcuni anni fa, due dei massimi esperti in Bankruptcy Law, i professori D.G. Baird e R.K. Rasmussen, affermavano che: «Corporate reorganizations have all but disappeared. Giant corporations make headlines when they file for Chapter 11, but they are no longer using it to rescue a firm from imminent failure. Many use Chapter 11 merely to sell their assets and divide up the proceeds» 6. Gli autori mostravano come colossi del calibro, ad esempio, della TWA o della Enron 7 avevano utilizzato la procedura di Reorganization per facilitare la vendita del proprio attivo ad un prezzo comprensivo del c.d. going concern value, non già al fine di “risanare” l’impresa in crisi: obiettivo, quest’ultimo, avuto in mente dal Congresso degli Stati Uniti al momento dell’introduzione, nell’emandando Bankruptcy Code del 1978, della procedura di Reorganization. La procedura disciplinata dal Chapter 11 – che ha preso il posto che la equity receivership occupava nel XIX secolo 8 – era stata infatti pensata, in principio, per consentire la salvaguardia ed il risanamento dell’impresa in crisi, qualora la stessa presentasse un consistente going concern value; gli organi della stessa non fossero riusciti, attraverso i meccanismi privati di ristrutturazione dei debiti o operazioni di nuova finanza, a farla uscire dalla condizione di financial distress; non vi fossero le condizioni di mercato per una vendita dell’impresa a terzi a prezzo di funzionamento 9. In tale scenario, la liquidazione dell’attivo dell’impresa in crisi in seno alla procedura – pur ammessa dal § 1123(b)(4), che contempla i c.d. “liquidating plans” – non rappresenta, dunque, una soluzione conforme all’obiettivo prioritario avuto di mira (almeno in origine) dal Chapter 11: d’altra parte, l’ordinamento americano prevede una procedura ad hoc per la liquidazione, disciplinata dal Chapter 7 del Bankruptcy Code.

Baird e Rasmussen, The End of Bankruptcy, in 55 Stan. L. Rev., 2002, p. 751. Su tale procedura, degli stessi autori, può leggersi Four (or Five) Easy Lessons from Enron, in 55 Vand. L. Rev., 2002, p. 108 ss. 8 Sull’evoluzione della disciplina delle procedure di risanamento (si parla al plurale in quanto, nel vigore del Bankruptcy Act erano previste due procedure distinte, una per le public companies, ex Chapter X, ed una per le close o private companies, ex Chapter XI) nell’ordinamento americano cfr., per tutti, R.A. Peeples, Staying In: Close Corporations And The Absolute Priority Rule, in 63 Am. Bankr. L.J., 1989, p. 65 ss. 9 Sono queste le tre condizioni che tradizionalmente vengono richiamate per giustificare la presenza nell’ordinamento della procedura di Reorganization. Sul punto cfr., per tutti, Adler, Baird e T.H. Jackson, Banckruptcy. Cases, Problems, and Materials4, New York, 2007, p. 667. 6 7

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Nonostante parte – altrettanto importante – della dottrina abbia contestato i risultati a cui sono giunti gli autori sopra citati 10, lo studio empirico dei casi di Reorganization che negli ultimi anni hanno interessato le grandi imprese americane non lascia dubbi in proposito: la procedura di riorganizzazione ha in effetti cambiato pelle divenendo, secondo una felice espressione, «a branch of the law governing mergers and acquisitions» 11. Conferma in tal senso può trarsi da un successivo articolo degli stessi Baird e Rasmussen 12 – in replica alle osservazioni formulate al loro precedente scritto da LoPucki – che, analizzando i dati contenuti nella Bankruptcy Research Data, hanno vagliato uno ad uno i casi di large business in crisi che hanno chiuso la procedura di Reorganization nel 2002. a) Su 93 casi analizzati emerge che 52 si sono chiusi con una cessione a terzi, diretta o indiretta, degli assets dell’impresa in crisi. In particolare, 45 hanno visto il trasferimento diretto degli attivi ad un terzo; mentre 7 si sono chiusi con la cessione, non già dei beni, quanto delle quote di capitale dell’impresa “risanata”. Spesso, in queste ultime ipotesi, sono stati gli stessi secured creditors a rendersi cessionari delle quote di capitale dell’impresa debitrice, per poi rivendere il pacchetto di controllo ad imprese concorrenti, previo ricambio del precedente consiglio di amministrazione 13. b) Dei restanti casi, 26 si sono chiusi con la conferma, da parte della corte fallimentare, di accordi già conclusi prima dell’inizio della procedura (taluni senza alcuna modifica; altri con cambi marginali delle condizioni originarie). Di questi, tre erano dei veri e propri prepackaged plans; nei restanti casi il piano è stato formalizzato all’interno della procedura, sulla scorta, comunque, di accordi intercorsi antecedentemente. Sommando i casi in cui si è avuta una cessione degli attivi a terzi e quelli in cui la corte fallimentare si è limitata a confermare accordi già con-

10 LoPucki, The Nature of the Bankruptcy Firm: A response to Baird and Rasmussen’s The End of Bankruptcy, in 56 Stan. L. Rev., 2003, p. 645 ss. 11 Adler, Baird e T.H. Jackson, Banckruptcy, cit., p. 669 12 Baird e Rasmussen, Chapter 11 at Twilight, Reply, in 56 Stan. L. Rev., 2003, p. 673 ss. 13 Particolarmente illustrative sono le parole, riportate da Baird e Rasmussen, del senior creditor della Derby Cycle che aveva di fatto preconfezionato il reorganization plan della medesima: «Bankruptcy can be a tool to get a transaction done… This was a situation where it made a lot of sense for a lot of reasons to file for bankruptcy. But the primary reason was speed – we were just able to do the transaction a lot more quickly».

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clusi al momento dell’inizio della Reorganization si raggiunge la quota dell’84% del totale delle procedure analizzate. c) Nei casi in cui né vi erano accordi precedenti l’inizio della procedura né si è proceduto ad una vendita all’interno della stessa, l’analisi dimostra come in realtà la Reorganization non ha sortito alcun effetto benefico per le imprese debitrici, in particolare non ha consentito il mantenimento del going-concern value. Alcune imprese, infatti, sono uscite dalla procedura fortemente ridimensionate, perdendo nel corso della stessa gran parte del valore d’avviamento; altre, semplicemente, non presentavano alcun valore d’avviamento da preservare. In alcuni casi, ancora, si è proceduto ad una vendita parziale degli assets, abbinata ad una contrazione dell’attività di impresa e ad una trasformazione dei crediti in capitale (oltre alla misura tipica del ricambio del consiglio di amministrazione). d) L’unico caso in cui sembrava che si fossero verificate tutte le condizioni per un vero e proprio risanamento è quello che ha riguardato l’impresa manifatturiera Pillowtex, uscita della Reorganization nel 2002 con la stessa compagine azionaria e, “grosso modo”, la stessa composizione dell’attivo. Ma i fatti successivi hanno dimostrato, in realtà, come la Pillowtex non avesse alcun valore d’avviamento da preservare e come, quindi, la procedura non avesse fatto altro che posticipare l’inevitabile: già nel corso del 2003, infatti, la stessa impresa richiese di nuovo l’assoggettamento al Chapter 11, conclusosi questa volta con una vendita atomistica (piecemeal) dell’attivo. B. I risultati che possono estrarsi dall’analisi dei casi di Reorganization che negli ultimi anni hanno coinvolto le grandi imprese americane possono così sintetizzarsi: il risanamento in senso stretto dell’impresa, inteso come il riacquisto della capacità di adempiere regolarmente conservando il valore d’avviamento, non è più l’obiettivo prioritario della procedura ex Chapter 11; il c.d. going concern value viene più proficuamente conservato attraverso la cessione a terzi, diretta o indiretta, degli assets dell’impresa in crisi  14; la “gestione” della procedura, seppure

14 Per quel che concerne la definizione di “going-concern surplus”, sembra che Baird, nel lavoro con Rasmussen, abbia (giustamente, a parere di chi scrive) cambiato idea rispetto a quanto dallo stesso A. affermato in un precedente saggio, scritto con T.H. Jackson (Corporate Reorganizations and the Treatment of Diverse Ownership Interests: A Comment on Adequate Protection of Secured Creditors in Bankruptcy, in 51 U. Chi. L. Rev., 1984, p. 97). Nel lavoro da ultimo citato, infatti, gli autori sostenevano che il “going-concern surplus” derivasse quasi esclusivamente dalle abilità imprenditoriali dei

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formalmente rimessa nelle mani degli organi della società (debtor in possession), è in fatto esercitata dai creditori – e tra essi, in particolare, da quelli privilegiati o che, comunque, occupano la posizione “senior” rispetto alle altre categorie di creditori – o in virtù dei poteri ad essi riconosciuti dalla legge nell’ambito della procedura o in forza di accordi conclusi con il debitore prima dell’inizio della Reorganization 15. C. In questo scenario risulta interessante verificare, da un lato, quali strumenti hanno a disposizione le varie categorie di creditori per ottenere il massimo soddisfacimento delle loro ragioni all’interno della procedura e, dall’altro, quando e a quali condizioni è consentito ai precedenti titolari di quote di capitale di rimanere soci della società “risanata”. L’analisi, quindi, verterà sui rapporti intercorrenti tra le varie classi di creditori e tra queste ed i soci della società in crisi 16. Per semplificare l’indagine immaginiamo l’esistenza di tre sole classi di “interessati”: senior creditors (comprensivi dei privilegiati e dei beneficiari di accordi di postergazione); junior creditors (classe nella quale confluiscono i chirografari ed i

vecchi azionisti, ed era conseguentemente dato dalla differenza tra il prezzo ricavabile dalla vendita a terzi dell’impresa ed il valore che quest’ultima avrebbe avuto se lasciata nelle mani dell’originario imprenditore. Tale ricostruzione sembra in realtà inaccettabile, dimenticando completamente quello che da noi viene definito “avviamento oggettivo”, che rappresenta, anche in America, il bene intangibile di maggior peso economico nelle operazioni di vendita di imprese sottoposte al Chapter 11. 15 Oltre agli autori citati in precedenza, evidenzia l’evoluzione della procedura – nella direzione esposta nel testo – anche Skeel, Creditors’ Ball: The “New” New Corporate Governance in Chapter 11, in 152 U. Pa. L. Rev., 2003, p. 917 ss., secondo il quale «The endless negotiations and mind-numbingly bureaucratic process that seemed to characterize bankruptcy in the 1980s have been replaced by transactions that look more like the market for corporate control. Whereas the debtor and its manager seemed to dominate bankruptcy only a few years ago, Chapter 11 now has a distinctively creditor-oriented cast. Chapter 11 no longer functions like an anti-takeover device for managers; it has become, instead, the most important new frontier in the market for corporate control, complete with asset sales and faster cases» (p. 918). 16 In un recente studio empirico (Bris, Ravid e Sverdlove, The Effect of APR Violations on the Seniority and Timing of Debt Issuance, in Am. Law & Econ. Ass. Ann. Meeting, Paper n. 5, febbraio 2008) è emerso che la previsione di possibili contrasti tra le varie categorie di creditori in caso di Bankruptcy influenza le scelte della società (in bonis) al momento dell’emissione di nuovi titoli di debito. In particolare, dall’analisi risulta che: la maggior parte delle società sono portate ad emettere titoli di debito col medesimo livello di priorità; esiste una relazione proporzionale diretta tra i costi legati ai conflitti tra classi di creditori e l’emissione di titoli junior; infine, le società che emettono titoli junior sono di dimensioni ridotte rispetto a quelle che emettono titoli senior, mentre quelle che emettono entrambe le tipologie di titoli sono di dimensioni “intermedie”.

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subordinati) ed equityholders (in cui sono compresi i titolari sia di preferred sia di common stocks) 17. Come si vedrà, la disciplina contenuta nel Chapter 11 del Bankruptcy Code riconosce a coloro, siano essi creditori o soci, che vantano dei “diritti” sull’impresa in crisi una doppia tutela: una definibile di classe, azionabile soltanto quando la classe di appartenenza abbia espresso voto negativo in ordine al piano di “risanamento” presentato; ed una individuale, esercitabile, cioè, anche nel caso in cui la classe di appartenenza abbia accettato il piano. Non è ovviamente questa la sede per ripercorrere analiticamente tutte le norme “a garanzia” dei soggetti coinvolti: ai fini che qui specificamente interessano sarà sufficiente soffermare l’attenzione, per quel che concerne la tutela di classe, sulla c.d. absolute priority rule; e, con riguardo alla tutela individuale, sul c.d. best interest of creditors test 18.

3. Tutela di classe. Absolute priority rule; residual owner e new value doctrine. Il piano presentato dal debtor in possession (o, scaduto il periodo di “esclusiva”, da qualsiasi altro interessato) ottiene la confirmation da parte della corte fallimentare quando tutte le classi in cui sono suddivisi i creditori accettano la proposta; oppure, attraverso il mec-

17 È appena il caso di sottolineare come questa suddivisione sia del tutto convenzionale, non rispettando affatto l’ordine gerarchico tra gli aventi diritto sul patrimonio del debitore: i privilegiati (recte: coloro che vantano una causa di prelazione) godono di un diritto esclusivo sul bene oggetto della garanzia; i senior creditors di norma non godono di alcuna causa di prelazione – e, dunque, sotto questo aspetto rientrano nella macrocategoria dei chirografari – ma hanno il diritto di essere soddisfatti prima di altre categorie di creditori (tipicamente, gli altri creditori chirografari); e gli equityholders, a loro volta, possono presentare al loro interno categorie di soggetti con diritti diversi in caso di liquidazione o di apertura di una procedura concorsuale a carico della società (basti pensare al caso Lehman, in cui, come detto, è dato rinvenire 11 tipologie di preferred stocks). 18 L’analisi non affronta, dunque, altri aspetti che pure sono di estrema importanza, anche e proprio ai fini della tutela degli interessi patrimoniali in giuoco; tra questi, particolare rilevanza assumono le regole in tema di formazione delle classi [§ 1122(a)] chiamate ad approvare il piano di risanamento presentato (sul punto può qui rinviarsi a Blair, Classification of Unsecured Claims In Chapter 11 Reorganization, in 58 Am. Bankr. L.J., 1984, p. 197 ss.).

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canismo del c.d. cram-down 19. Affinché il giudice possa procedere al cram-down è tra l’altro necessario, per un verso, che il piano presentato non discrimini i creditori in maniera illegittima (unfairly), e sia al tempo stesso “fair and equitable”, e, per altro verso, abbia ottenuto il consenso di almeno una classe di creditori c.d. impaired (ossia, non soddisfatti al 100%) 20. A. Tra le condizioni poste positivamente dalla norma [§ 1129(b)(2)(B)(ii), relativa al trattamento dei crediti non privilegiati 21], affinché un piano possa essere considerato fair and equitable, v’è quella in base alla quale [o i creditori appartenenti alla classe dissenziente ricevono l’intero ammontare del credito ammesso alla procedura (ipotesi decisamente rara), oppure] i titolari di crediti o quote di capitale proprio che occupano, rispetto agli appartenenti alla classe dissenziente, una posizione subordinata nell’ordine gerarchico di distribuzione non ricevano alcunché. Ciò significa, dal punto di vista teorico, che se il valore dell’impresa non è tale da coprire per intero l’ammontare dei crediti vantati dai senior creditors, nessun soddisfacimento può essere previsto per i junior creditors né, tanto meno, per gli equityholders, salvo vi sia un consenso espresso (attraverso l’accettazione del piano) da parte dei primi.

19 Sul quale cfr., per tutti, Klee, All You Ever Wanted To Know About Cram Down Under the Bankruptcy Code, in 53 Am. Bankr. L.J., 1979, p. 133 ss. 20 Nell’ipotesi in cui il debitore presenti un piano che preveda un soddisfacimento pari a 0 per una determinata classe di creditori o di titolari di quote di capitale, questi ultimi sono esonerati dal voto, in quanto, come stabilisce il § 1126(g), si presume che essi non accettino la proposta; così come, specularmente, non debbono partecipare alla votazione i creditori soddisfatti per l’intero, in quanto si presume che essi aderiscano alla proposta [§ 1126(f)]. In tali ipotesi, dunque, il voto (contrario o a favore) è presunto: ciò che, peraltro, condiziona soltanto relativamente la successiva confirmation del piano. Nel diritto nordamericano, infatti, non è richiesta a tal fine alcuna maggioranza dei crediti ammessi al voto, né che la maggioranza si raggiunga all’interno del maggior numero di classi (come invece richiesto nel nostro ordinamento). Le uniche condizioni necessarie essendo, come detto, la natura fair and equitable del piano e l’approvazione dello stesso da almeno una classe di creditori impaired (per l’approvazione si richiede il voto favorevole della maggioranza per numero dei creditori che rappresenti, altresì, i 2/3 del totale dei crediti di cui si compone la classe). 21 Per i secured creditors la norma [§ 1129(b)(2)(A)] fa riferimento al valore del bene o diritto (lien) sul quale cade la garanzia, ma la protezione risulta sostanzialmente equivalente a quella prevista per i chirografari. Per i titolari di quote di capitale il § 1129(b)(2)(C)(ii) riproduce il meccanismo di difesa stabilito dal § 1129(b)(2)(B)(ii).

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È questa la c.d. absolute priority rule (d’ora in avanti, APR) 22. La regola tenta dunque di replicare, all’interno della procedura di riorganizzazione, il meccanismo di distribuzione della massa attiva utilizzato in caso di liquidazione (ex Chapter 7) dell’impresa in crisi [§ 724(b)]: meccanismo che – come da noi – tiene conto, da un lato, delle cause legittime di prelazione e, dall’altro, degli accordi di subordinazione e nel quale i creditori di pari rango vengono soddisfatti secondo la regola della proporzionalità. Posto, dunque, che il sistema si fonda sull’APR ci si deve chiedere come mai nella pratica si registrano molti casi in cui tale regola non venga rispettata 23; casi, cioè, in cui a fronte di un soddisfacimento solo parziale dei senior creditors v’è il riconoscimento di un qualche diritto a favore dei junior creditors o, addirittura, dei vecchi azionisti 24. a) Tradizionalmente, le cause che portano ad una deviazione dall’APR vengono rinvenute: nella scarsa competenza dei giudici fallimentari, incapaci di tutelare adeguatamente l’ordine delle cause di priorità; nel fatto che il piano è – almeno formalmente – redatto dal management dell’impresa in crisi, il quale, in quanto espressione dei vecchi azionisti, tende a mantenere “porzioni” di valore dell’impresa in crisi in capo a questi ultimi ed a scapito dei creditori; nel comportamento dei junior creditors, che attraverso la minaccia di ostruzionismo, attuabile mediante la richiesta di procedure di valutazione lente e costose, riescono ad ottenere una qualche forma di soddisfacimento, altrimenti non raggiungibile 25.

Georgakopoulos, New Value, After LaSalle, in 20 Bankr. Dev. J, 2003, p. 4 «The effect of the rule is to block plans that would violate the satisfaction of creditors by rank of seniority»; e, dunque, «Creditors can attack distributions of value to claimants junior to them» (p. 6). Indicazioni circa l’origine dell’APR possono trarsi da R.A. Peeples, Staying In, cit., p. 72 ss. 23 Deviazioni dall’APR si registrano sin da tempi remoti: e v., per tutti, Bonbright e Bergman, Two Rival Theories of Priority Rights of Security Holders in a Corporate Reorganization, in 28 Colum. L. Rev., 1928, p. 127 ss. Tali autori aderiscono alla c.d. relative priority doctrine, ritenendo legittime le deviazioni dall’APR, qualora esse siano il frutto di negoziazioni tra le varie classi di creditori legate all’incertezza nella valutazione dell’impresa in crisi (sul punto si tornerà comunque infra). 24 In uno studio empirico di qualche anno fa è emerso che la deviazione dall’APR riguardava ben il 77% dei casi analizzati: cfr. Eberhart, Moore e Roenfeldt, Security Pricing and Deviations from the Absolute Priority Rule in Bankruptcy Proceedings, in 45 J. Fin., 1990, p. 1457 ss. (risultati sostanzialmente confermati dallo studio di Weiss, Bankruptcy Resolution: Direct Costs and Violation of Priority Claims, in 27 J. Fin. Econ., 1990, p. 285 ss.). 25 In argomento cfr., per tutti, il fondamentale saggio di Schwartz, A Contract Theory Approach to Business Bankruptcy, in 107 Yale L.J., 1998, p. 1807 ss. 22

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Tali spiegazioni, peraltro, non sembrano, oggi, del tutto persuasive. In primo luogo, come si è visto in precedenza, i giudici fallimentari risultano attualmente tutt’altro che restii a consentire la vendita degli assets dell’impresa in crisi, pur di rispettare (e far rispettare) l’ordine di priorità tra gli aventi diritto; in secondo luogo, pur in presenza del debtor in possession (DIP), il management espressione dei vecchi azionisti è assai spesso sostituito ancor prima dell’inizio della procedura di Reorganization, mentre i detentori di quote di capitale sono di norma tagliati fuori dai “giuochi”; infine, i titolari di posizioni junior ben difficilmente riescono a ricoprire un ruolo strategico all’interno della procedura 26. b) Assai più convincente – almeno nella maggioranza dei casi relativi ad imprese di grandi dimensioni – è invece la giustificazione fondata sull’incertezza del valore dell’impresa al momento in cui la stessa è sottoposta alla procedura ex Chapter 11. In particolare: qualora il valore dell’impresa fosse assolutamente certo e vi fosse un mercato abbastanza ampio da consentire una vendita (anche sotto forma di cessione ai creditori) rapida ed a prezzo di funzionamento della stessa, è chiaro come nessuno degli aventi diritto sarebbe disposto (o avrebbe incentivi) a rinunciare, seppure in minima parte, al proprio grado di preferenza  27. E così, ad esempio, se il valore dell’impresa fosse inferiore o uguale all’importo dei crediti vantati dai senior creditors, nessun margine di trattativa avrebbero i junior creditors e gli equityholders; se, viceversa, il valore fosse maggiore, ma tale da non coprire interamente i creditori di rango più basso, gli unici a venire completamente estromessi dalle previsioni di soddisfacimento contenute nel piano sarebbero i vecchi azionisti  28. Ma quando il valore

26 Baird e Bernstein, Absolute Priority, Valuation Uncertainly, and the Reorganization Bargain, in 115 Yale L.J., 2006, p. 1930 ss. 27 Sul punto cfr., per tutti, Frost, Running the Asylum: Governance Problems in Bankruptcy Reorganizations, in 34 Ariz. L. Rev., 1992, p. 115, nt. 11, per il quale «If the value of the business assets were readily ascertainable, there would be no need for a judicially supervised reorganization process. New claims to the assets could be generated automatically by an application of the absolute priority rule. It is therefore the vagaries of business valuation that create the need for the reorganization process». Quanto affermato dall’A. appare, tuttavia, decisamente eccessivo, dimenticando, a tacer d’altro, gli effetti in ordine alla conservazione e, eventualmente, all’incremento – attraverso le azioni revocatorie – del patrimonio del debitore prodotti dall’apertura della procedura concorsuale. 28 Quanto affermato vale per l’ipotesi, qui in considerazione, di impresa di grandi

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dell’impresa è incerto, le cose cambiano (recte, potrebbero cambiare). b1) Il primo, importante, effetto prodotto dall’incertezza in ordine al valore dell’impresa concerne l’esatta individuazione dei c.d. residual owners. «The dollar that is won or lost because of good or bad negotiating by definition is felt by the residual owner» 29. Il residual owner è dunque colui che, nell’ambito del procedimento di Reorganization, subisce gli effetti, positivi o negativi, prodotti dalle scelte strategiche compiute dal soggetto incaricato di “risanare” l’impresa. Se, ad esempio, un creditore vanta un credito assistito da garanzia reale e tale garanzia è sicuramente sufficiente a soddisfare per intero il proprio credito, egli non è certamente il residual owner (qualsiasi cosa accadrà nel corso della procedura, infatti, verrà senz’altro soddisfatto al 100%); ancora – e all’opposto, si direbbe –, se è sicuro che gli assets (comprensivi dell’avviamento) dell’impresa in crisi non hanno un valore tale da consentire il soddisfacimento completo dei creditori ammessi al passivo, è da escludere che residual owners possano considerarsi i titolari di quote di capitale (in nessun

dimensioni. Le cose, infatti, potrebbero cambiare qualora ad essere sottoposta a procedura sia una piccola impresa (una close corporation, per intenderci). In questa ipotesi, infatti, non è raro che l’azionista-manager sia il soggetto che meglio di ogni altro conosce l’attività esercitata dall’impresa in crisi; ciò che consente a quest’ultimo di apportare un surplus all’impresa risanata, tale da incentivare i senior creditors a rinunciare ad una quota di quanto a loro spettante pur di farlo rimanere nella compagine societaria una volta chiusa la procedura (sul punto cfr., tra gli altri, Bebchuk e Picker, Bankruptcy Rules, Managerial Entrechment, and Firm-Specific Human Capital, in J.M. Olin Law & Econ. Working Paper, n. 16/2003, scaricabile dal sito http://www.law.uchicago.edu/Lawecon/ WkngPprs_01-25/16.Bebchuk-Picker.pdf). Non è un caso, d’altra parte, che nel 1952 il Congresso emendò la section 366 del Bankruptcy Act eliminando il riferimento alla natura “fair and equitable” del piano – costantemente interpretata come la fonte dell’APR – proposto nell’ambito del Chapter XI (quello cioè applicabile alle close corporations), in base alla considerazione che sarebbe stato nell’interesse dei creditori consentire agli azionisti-manager di rimanere nella compagine della società risanata, pur a scapito dell’APR. Sulle carattersitiche proprie delle close corporations v. il pioniero saggio di Israels, The Second Cow of Corporate Existence: Problems of Deadlock and Dissolution, in 19 U. Chi. L. Rev., 1952, p. 778 ss.; e sul tema specifico dell’applicazione ad esse dell’APR, R.A. Peeples, Stayng In, cit., p. 75 ss. e Coogan, Confirmation of a Plan Under the Bankruptcy Code, in 32 Case W. Res. L. Rev., 1982, p. 301 ss. Vedremo poi, nel prosieguo dell’analisi, a quali condizioni è possibile escludere, nell’esempio fatto, i junior creditors da ogni forma di soddisfacimento in presenza del riconoscimento di un qualche “valore” ai vecchi azionisti. 29 Così Baird e T.H. Jackson, Bargaining After the Fall and the Contours of the Absolute Priority Rule, in 55 U. Chi. L. Rev., 1988, p. 761.

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caso, infatti, anche qualora si raggiungesse il massimo dei risultati possibili nel corso della procedura di risanamento, essi potrebbero ricevere alcunché). Se, infine, riprendendo l’esempio fatto in precedenza, il valore dell’impresa riesce a coprire solo in parte i senior creditors, allora è a questi ultimi che va riconosciuta la qualifica di residual owners 30. Individuare chi, nell’ambito della procedura, ricopre tale ruolo è estremamente importante, in quanto è nell’interesse di tale soggetto che il management deve (o dovrebbe) operare 31, secondo la tradizionale visione della Reorganization dell’impresa in crisi quale forma di «going concern sale of the business to its creditors in exchange for their claims» 32.

Può anche dirsi che i residual owners sono «persons whose interests are identical with those of the firm as a whole»: così LoPucki, The Myth of the Residual Owner: An empirical Study, UCLA School of Law, Law & Economics Res. Papers, n. 3/11, aprile 2003, p. 2. Per tale motivo, si è scritto, «The logic is that any action that helps the residual claimant will increase the value of all claims against the enterprise» (Janger, Predicting When the Uniform Law Process Will Fail: Article 9, Capture, and the Race to the Bottom, in 83 Iowa L. Rev., 1998, p. 592). Di norma, questi ultimi coincidono con gli unsecured creditors: anche la legge sembra dare per scontato che siano essi i residual claimants, come testimonia la norma (§ 1102) in tema di composizione del Comitato dei creditori (su cui vedi retro, § 1). Sul punto cfr. l’insuperabile, almeno per molti aspetti, studio di T.H. Jackson, The Logic and Limits of Bankruptcy Law, Cambridge, 1986, p. 168. 31 Anche in caso di debtor-in-possession e nell’ipotesi (rara) in cui il management dell’impresa in crisi non sia cambiato per effetto (o prima) dell’apertura della procedura, e sia dunque espressione dei vecchi azionisti. Pongono in evidenzia questo cambio (shift) del referente soggettivo dei doveri fiduciari degli amministratori, in giurisprudenza, Federal Deposit Ins. Corp. v. Sea Pines Co., 692 F.2d, p. 976-977 (4th cir. 1982), per la quale «When the corporation becomes insolvent, the fiduciary duty of the directors shifts from the stockholders to the creditors» e In re Calton Crescent, 173 F.2d, p. 951 (2d Cir. 1949), ove si evidenzia come «an insolvent holds his property in trust for his creditors» (entrambe citate da Baird e T.H. Jackson, Bargaining After the Fall, cit., p. 762, nt. 58). In ultima analisi, ciò che effettivamente determina questo “cambio” è proprio la perdita, dovuta all’insolvenza, del ruolo di residual claimant ricoperto dai soci quando la società è in bonis: sul punto cfr., da ultimo, Kandestin, The Duty to Creditors in Near-Insolvent Firms: Eliminating the “Near-Insolvency” Distinction, in 60 Vand. L. Rev., 2007, p. 1235 ss.: «insolvency causes the shareholder to lose his status as a residual claimant, since it is now the creditors who bear any risk of loss». 32 Baird e Bernstein, Absolute Priority, cit., p. 1937. Tra i primi a rappresentare la procedura di Reorganization quale forma di “forced sale”, in virtù della quale «an investor “sells” his claim and receives in return a share of the reorganized company», Clark, The Interdisciplinary Study of Legal Evolution, in 90 Yale L.J., 1981, p. 1250. Naturalmente questa visione della Reorganization parte dal convincimento – che a chi scrive sembra 30

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Orbene, l’incertezza del valore dell’impresa determina (o può determinare) la presenza di più potenziali residual owners, collocati in differenti classi di aventi diritto sul patrimonio dell’impresa 33; con la conseguenza che, come è stato efficacemente detto, la teoria in ordine alla Corporate Governance dell’impresa in Reorganization che ruota intorno a questa figura “collapses” 34. b2) L’incertezza circa la valutazione dell’impresa può poi spingere i creditori di rango più elevato ad accontentarsi di un soddisfacimento inferiore rispetto a quello ad essi teoricamente assicurato dall’applicazione, nel caso concreto, dell’APR a favore dei junior creditors, anche qualora questi ultimi sarebbero, secondo le stime operate dai senior, esclusi da ogni forma di soddisfacimento (out-of-the-money). Affinché ciò avvenga i creditori di rango più basso debbono adottare ogni tattica che consenta di ritardare, all’interno della procedura, il momento della valutazione a valori di mercato dell’impresa (day of reckoning): un’asta competitiva per ottenere il controllo dell’impresa o il trasferimento degli assets a ridosso dell’apertura della Reorganization lascerebbe infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, poco spazio ad un soddisfacimento, pur parziale, dei junior creditors. D’altra parte, mentre l’eventualità che nel corso della procedura l’impresa incrementi il proprio valore giuoca (o può giuocare, a seconda del volume dell’incremento) a tutto vantaggio dei creditori di rango più basso, l’eventualità che, all’opposto, tale valore decrementi ridonda a svantaggio dei soli senior creditors, che

del tutto condivisibile – che tale procedura (così come, in verità, tutte le procedure concorsuali) debba essere orientata al massimo soddisfacimento dei creditori. La dottrina, quasi unanime, americana condivide questa visione, anche se, va detto, esistono importanti eccezioni (cfr., per tutti, Warren, Bankruptcy Policymaking in a Imperfect World, in 92 Mich. L. Rev., 1993, p. 354 ss., secondo la quale: «Bankruptcy policy also takes into account the distributional impact of a Business failure on parties who are not creditors and who have no formal legal rights to the assets of the business. Business closings affect employees who will lose jobs, taxing authorities that will lose ratable property, suppliers that will lose customers, nearby property owners who will lose beneficial neighbors, and current customers who must go elsewhere. Congress was acutely aware of the wider effect of a business failure on the surrounding community and it adopted the 1978 Bankruptcy Code specifically to ameliorate those harmful effects»). 33 Triantis, A Theory of the Regulation of Debtor-in-Possession Financing, in 46 Vand. L. Rev., 1993, p. 915: «the identification of the residual owner in a multi-layered hierarchical capital structure depends on a costly and often ambiguous valuation of the firm». 34 Così LoPucki, The Myth of the Residual Owner, cit., p. 2, il quale pone in evidenzia, sulla base di uno studio empirico, l’estrema difficoltà di individuare il residual owner in caso di crisi di imprese di grandi dimensioni.

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dunque ne sopportano il rischio. Come visto, peraltro, l’evoluzione che negli ultimi anni ha subito la procedura di Reorganization ha portato, per un verso, ad un sensibile aumento dei casi di going concern sales in tempi relativamente brevi e, per altro verso, a mere conferme, da parte del giudice fallimentare, di accordi intercorsi prima dell’inizio del concorso; ciò che, riguardato sotto l’ottica che ora qui interessa, può essere considerato come un vulnus alle aspettative dei junior creditors. b3) Resta, tuttavia, l’incertezza della valutazione di una grande impresa. Sono tante e tali le variabili che entrano in giuoco che si è giunti a definire tali valutazioni come nulla più di “congetture basate su stime” («a guess compounded by an estimate») 35; e quando manca un test di mercato (come quello offerto, ad esempio, da un’asta pubblica), la valutazione del giudice può variare, anche sensibilmente, da quella prospettata dalle varie categorie di creditori, con ciò aprendo il campo alla negoziazione tra le stesse. Negoziazioni che – sotto la minaccia di una sottostima dell’impresa da parte degli esperti nominati dal giudice fallimentare, che consentirebbe ad un terzo di acquisire il controllo della stessa ad un prezzo non sufficiente a coprire integralmente i creditori di rango più elevato; o, all’opposto e soprattutto, di una sovrastima che, in caso di mancanza di acquirenti, porterebbe ad una distribuzione (ritenuta eccessiva dai senior creditors) delle azioni della società “risanata” anche a favore dei junior creditors – possono portare, anche in virtù delle incertezze, di cui si è già dato conto, legate all’individuazione del residual owner, ad un soddisfacimento parziale di entrambe le categorie di creditori 36.

Baird e Bernstein, Absolute Priority, cit., p. 1942. Gli autori riportano (p. 1943) anche una frase di Black (Noise, in 41 J. Fin., 1986, p. 533), secondo il quale «all estimates of value are noisy». 36 Su tutti questi punti v. Baird e Bernstein, Absolute Priority, cit., p. 1945-1952. Tra i vari accordi che possono intercorrere tra le diverse categorie di creditori, particolarmente interessante sembra quello basato sul c.d. Forced sale Model (peraltro ampiamente conosciuto nel diritto societario). I senior creditors “offrono” il 100% del capitale della società debitrice ai junior creditors ad un prezzo pari all’intero ammontare dei crediti da essi vantati ad ammessi alla procedura: se questi ultimi pensano che l’impresa valga più di quel valore, allora potranno soddisfare integralmente i creditori di rango più elevato e divenire titolari esclusivi dell’impresa; se, invece, pensano che l’impresa valga meno, allora usciranno dalla procedura senza ricevere alcunché (come sarebbe accaduto applicando l’APR). Tale procedura, che prende il nome di “Texas Shootout”, ha il proprio limite in ciò, che presuppone la disponibilità, da parte dei junior creditors, del capitale sufficiente per esercitare l’opzione di acquisto (il che, in pratica, è scarsamente 35

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Il contenuto degli accordi può, ovviamente, essere il più vario: ultimamente sembra peraltro affermarsi, nella pratica, il meccanismo attraverso il quale ai senior creditors vengono attribuite delle convertible preferred stocks, mentre ai junior creditors vengono assegnate le common stocks della società risanata. In tali accordi viene solitamente previsto un termine fisso entro il quale o la società rimborsa il valore delle preferred stocks ai senior creditors (valore di norma pari all’importo dei crediti ammessi alla procedura più una quota a titolo di rischio sopportato), oppure scatta la conversione, con conseguente cambio nel controllo della società ed esclusione di diritto dei junior 37. B. Da quanto detto risulta, quindi, che: a) quando il valore dell’impresa è certo, il rispetto dell’APR, attraverso la cessione diretta o indiretta degli assets del debitore, non ammette – di norma – alcuna deviazione; b) in caso di valore incerto dell’impresa (dipendente, essenzialmente, dalla “volatilità” dei futuri ed eventuali flussi di cassa generati dall’impresa risanata), le negoziazioni tra le diverse classi di creditori possono portare ad un risultato non rispettoso dell’APR, ma in ogni caso ritenuto conveniente per gli interessati. C. La pratica ha peraltro registrato casi in cui le deviazioni dall’APR non derivano dal riconoscimento di un qualche valore in capo ai junior creditors, che anzi vengono “estromessi” (froze out) dalle negoziazioni, ma dalla possibilità offerta ai vecchi azionisti di rimanere nella compagine della società risanata. È infatti possibile che i vecchi azionisti siano gli unici soggetti disposti a voler (re)investire nell’impresa caduta in stato di crisi 38; oppure, è possibile che i manager-azionisti abbiano competenze e conoscenze tali che il loro mantenimento nella compagine societaria sia ritenuto opportuno o conveniente dai senior creditors 39. Il problema a questo punto è quello di verificare in quali ipotesi e rispettando quali condizioni sia possibile “saltare” una classe di aventi diritto e attribuire dei vantaggi patrimoniali a soggetti che, rispetto ai primi, occupano un rango più basso nell’ordine di preferenza fissato dalla legge. a) La premessa dalla quale occorre partire è che situazioni di questo tipo possono verificarsi solo quando è certo che il valore dell’impresa sia

probabile). 37 Baird e Bernstein, Absolute Priority, cit., p. 1964 s. 38 Come avvenuto nel caso Kansas City Ry. v. Cent. Union Tr. Co., in 271 U.S. 445 (1926). 39 Ipotesi che, come detto, si verifica assai più spesso in caso di dissesti di piccolemedie imprese.

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insufficiente a soddisfare per intero i senior creditors. In caso contrario, infatti, nessuna negoziazione potrebbe legittimamente portare all’estromissione dei junior creditors a favore degli equityholders, a ciò ostando l’esistenza, appunto, dell’APR. Ora, se la premessa è rispettata, dovrebbe risultare del tutto conforme alla legge che i senior creditors – qualunque fosse la ragione che li spinga a tale decisione – rinuncino ad una parte dei propri diritti sull’impresa in crisi a tutto vantaggio dei vecchi azionisti (o di qualunque altro soggetto da essi scelto). In tali ipotesi, infatti, i primi sono i residual owners dell’impresa, la “disponibilità” della quale dovrebbe dunque essere esclusivamente nelle loro mani. Il piano potrebbe quindi essere conformato in maniera tale da attribuire una percentuale di soddisfacimento ai creditori di rango più elevato e, al contempo, riconoscere un qualche valore ai vecchi azionisti; la reazione dei junior creditors non potrebbe comunque costituire un ostacolo alla confirmation del piano, che dovrebbe essere considerato, almeno sotto questo aspetto, “fair and equitable”. b) Contro tale ricostruzione si è però schierata una parte della giurisprudenza che, a partire dalla ormai risalente sentenza resa – nel vigore del Bankruptcy Act del 1898 – dalla Supreme Court nel caso Northern Pacific Railway v. Boyd 40, ha affermato che qualunque accordo concluso nell’ambito di una procedura di risanamento deve comunque prendere in considerazione i diritti vantati dai c.d. “intermediate creditors” 41. In realtà, la sentenza Boyd, pur se volta a ribadire l’importanza del rispetto dell’APR in ambito concorsuale, sembra poggiare su di un vero e proprio equivoco. L’equivoco è dato da ciò, che la Corte Suprema parte dal presupposto che i vecchi azionisti godono di alcuni privilegi, riconosciuti loro, in definitiva, dai senior creditors, in virtù dalla posizione dagli stessi ricoperta prima dell’apertura della procedura, e dato che aperto il concorso l’ordine delle priorità degli aventi diritto sull’impresa non può mutare – a ciò ostando, appunto, l’APR – la conseguenza che ne trae la Corte è che senza l’assenso espresso dei junior creditors, nessun “valore” può essere riconosciuto agli equityholders. Il fatto è, però, che nel caso in cui i senior creditors siano i residual owners dell’impresa in

In 228 U.S. 482 (1913). Per un’esauriente analisi della sentenza resa nel caso Boyd cfr. per tutti, Baird e T.H. Jackson, Bargaining After the Fall, cit., p. 744 ss.; indicazioni possono trarsi anche da Georgakopoulos, New Value, cit., p. 5, nt. 15. 40 41

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crisi, nessuno potrebbe impedire a questi ultimi di riservarsi la titolarità esclusiva degli assets o delle quote di capitale della società debitrice e, chiusa la procedura, cedere parte delle azioni a terzi, ivi inclusi i vecchi azionisti; ma se questo è vero, allora non dovrebbe esserci alcun ostacolo a che tale distribuzione avvenga direttamente all’interno del reorganization plan. c) Per eludere l’applicazione della regola sancita nel caso Boyd, la pratica ha escogitato un meccanismo – utilizzato sino alle soglie del nuovo millennio – che comunque ha consentito ai vecchi manager-azionisti di rimanere nella compagine della società risanata, nonostante un soddisfacimento parziale o addirittura nullo dei junior creditors. In virtù di accordi intercorsi con i senior creditors (ma anche in assenza di qualsivoglia accordo) 42, il debtor in possession presentava un piano nel quale gli equityholders, a fronte di nuovi versamenti, risultavano, una volta chiusa la procedura, titolari di quote di capitale della società risanata. Piani così congegnati, nonostante l’opposizione degli intermediate creditors, ottenevano, previa verifica della natura fair and equitable degli stessi, la confirmation da parte dei giudici fallimentari (c.d. new value doctrine o exception) 43. A tal fine, veniva richiesto che i soci acquisissero la nuova partecipazione apportando “money or (…) money’s worth, reasonably equivalent” al valore delle quote ricevute e, soprattutto, che la presenza dei soci originari nella società risanata fosse “substantial and necessary for a successful reorganization” 44. Il punto nevralgico della questione risiedeva in ciò, che il valore delle azioni acquisite tramite i nuovi conferimenti dagli originari equityholders veniva fissato unilateralmente all’interno del piano, «at the lowest price that the debtor could persuade the bankruptcy court to approve» 45.

42 È ovvio, peraltro, che pur in mancanza di un precedente accordo, gli azionisti di maggioranza della società in crisi che presentano un “new value plan” debbono poter contare sull’appoggio e sulla fiducia di almeno una classe di creditori impaired (il cui assenso, come detto, rappresenta la condicio sine qua non per il cram-down). 43 La dottrina della “new value exception” ha preso le mosse dalla sentenza resa dalla Suprema Corte nel caso Case v. Los Angeles Lumber Products Co., Ltd [in 308 U.S. 106 (1939)]. 44 Sull’importanza del requisito della contribuzione in denaro, cfr. Blum e Kaplan, The Absolute Priority Doctrine in Corporate Reorganizations, in 41 U. Chi. L. Rev., 1974, p. 651 ss.; sull’interpretazione giurisprudenziale dei termini “new”, “substantial”, “necessary”, “reasonably equivalent” e “money or money’s worth”, cfr. R.A. Peeples, Staying In, cit., p. 78 ss. 45 Adler e G.G. Triantis, The Aftermath of North LaSalle Street, in 70 U. Cin. L. Rev., 2002, p. 1226.

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d) Così come congegnata, la new value doctrine (o exception) non ha tuttavia resistito all’esame che – alla luce dell’APR – ne ha fatto la Suprema Corte nel caso Bank of America National Trust and Saving Association v. 203 North LaSalle Street Partnership 46. La Corte, dopo aver evidenziato l’inadeguatezza dei giudici fallimentari – dovuta alle scarse informazioni in loro possesso – a valutare la congruità del prezzo offerto dagli originari equityholders per l’acquisto delle azioni (o quote) della società risanata, ha affermato che la fissazione del prezzo di acquisto da parte del debtor in possession, nel momento in cui egli ha la legittimazione esclusiva alla presentazione del piano, viola il § 1129(b)2(B)(ii) – la norma che, come detto, fissa l’APR – se non accompagnata da un test di mercato 47. In altre parole e specificando: nel caso in cui un piano preveda il mantenimento di quote di capitale in capo ai vecchi azionisti in virtù di nuovi versamenti da questi effettuati, in presenza di una classe di creditori dissenziente, il cram-down può essere imposto soltanto qualora «a reasonable opportunity to purchase the new equity interest were available to other investors» 48. Per la Corte statunitense è dunque indi-

In 526 U.S. 434 (1999). Sul punto cfr. Georgakopoulos, New Value, cit., p. 1 «After laSalle, new value plans must meet a market test». Va qui sottolineato che la Corte sembra aver preso ispirazione proprio da un articolo dell’A. ultimo citato (Georgakopoulos, New Value, Fresh Start, in 3 Stan. J. L. Bus. & Fin., 1997, p. 125, richiamato dalla stessa sentenza a p. 446 del repertorio). 48 Anche in tale circostanza, come nel caso Boyd, possono avanzarsi delle critiche alla sentenza resa dalla Suprema Corte, non tanto per il risultato finale al quale essa approda – ossia, la necessità del market test ai fini dell’attribuzione delle quote di capitale della società risanata – quanto al ragionamento che ne è alla base. La Corte, infatti, pone a fondamento della propria decisione un’interpretazione poco plausibile delle parole “on account of” contenute nel § 1129(b)(2)(B)(ii). Mentre, infatti, l’interpretazione letterale e sistematica di questa frase dovrebbe condurre ad assegnarle il senso di “in pagamento di” o “in soddisfazione di” o “in cambio di” (così interpretata la norma quindi esclude che in presenza di una classe di creditori dissenziente si possa procedere al cram down quando ai vecchi soci è riconosciuto nel piano un qualche diritto economicamente valutabile), la Corte le assegna invece il senso di “in virtù di” (because of), così dando prevalenza alla posizione assunta dagli equityholders in seno alla procedura (è, dunque, la legittimazione esclusiva alla proposizione del piano che, secondo il ragionamento della Corte, impedisce la fissazione unilaterale del prezzo di acquisto delle azioni). «If the price to be paid for the equity interest is the best obtainable, old equity does not need the protection of exclusiveness (unless to trump an equal offer from someone else); if it is not the best, there is no apparent reason for giving old equity a bargain. There is no reason, that is, unless the very purpose of the whole transaction is, at least in part, to do old equity a favor. And that, of course, is to say that old equity would obtain its opportu46 47

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spensabile, in tali casi, che si apra un’asta competitiva per la fissazione del prezzo delle azioni della società risanata 49. Come è stato evidenziato in dottrina, il test di mercato non solo giuoca in direzione del rispetto dell’APR, consentendo, altresì, di evitare che i managers esternalizzino, a danno dei creditori titolari di posizioni senior, i costi di una riorganizzazione inefficiente 50. D’altra parte, il market test sarebbe consigliabile anche in ipotesi in cui il piano preveda la distribuzione di azioni a favore sia dei creditori sia dei vecchi azionisti, senza alcun nuovo apporto di questi ultimi, sulla base di una sovrastima del valore dell’impresa; oppure, ancora, in caso di accordo tra junior creditors ed equityholders, per verificare se la quota assegnata ai creditori privilegiati sia almeno pari al valore del bene o diritto oggetto della garanzia, come richiesto dal § 1129(b)(2)(A) 51.

nity, and the resulting benefit, because of old equity’s prior interest within the meaning of subsection (b)(2)(B)(ii). Hence it is that the exclusiveness of the opportunity, with its protection against the market’s scrutiny of the purchase price by means of competing bids or even competing plan proposals, renders the partners’ right a property interest extended “on account of” the old equity position and therefore subject to an unpaid senior creditor class’s objection» [in 526 U.S. 456 (1999)]. Per una critica all’impostazione assunta dalla Corte (ma non al risultato da essa raggiunto) cfr., per tutti, Adler e G.G. Triantis, The Aftermath, cit., p. 1229 ss. 49 In dottrina sono stati proposti vari “meccanismi” o “modelli”, basati su test di mercato e rispettosi dell’APR, ai fini della valutazione dell’impresa. Tra questi, particolarmente interessanti appaiono quelli elaborati da Adler e Ayres, A Dilution Mechanism for Valuing Corporations in Bankruptcy, in 111 Yale L. J., 2001-2002, p. 83 ss. (che sviluppano un precedente modello elaborato da Daines e Hanson, The Corporate Law Paradox: The Case for Restructuring Corporate Law, in 102 Yale L.J., 1992, p. 577 ss., che, a loro volta, riprendono le idee di Easterbrook e Fischel, The Economic Structure of Corporate Law, Cambridge, 1991) e da Bebchuk, A New Approach to Corporate Reorganization, in 101 Harvard L. Rev., 1988, p. 775 ss. 50 Adler e G.G. Triantis, The Aftermath, cit., p. 1239. In un altro scritto Adler (The Law of Last Resort, in 55 Vand. L. Rev., 2002, p. 1691), evidenzia come i titolari di posizioni junior (siano essi creditori o detentori di quote di capitale) spingano per la riorganizzazione, pur sapendo che l’impresa non è viable, in quanto «distributions in reorganizations tend to take the form of new claims or interests, which a judge may mistakenly value in favor of the juniors, while distributions in liquidations tend to be in cash, the value of which cannot be mistaken». 51 Nonostante i vantaggi, in termini di efficienza, legati all’adozione di un test di mercato ai fini della verifica della rispondenza del piano all’APR – bilanciati in parte, va detto, dai costi legati alla procedura competitiva (ciò che sconsiglia di adottare tale meccanismo in caso di crisi di modeste dimensioni) – alcune sentenze successive delle corti distrettuali hanno disatteso la regola enunciata nel caso North LaSalle, in dipendenza del fatto che la Suprema Corte ha ancorato la propria decisione sull’interpretazione di una

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4. Tutela individuale. Best interest of creditors test. L’analisi svolta nel paragrafo precedente ha evidenziato le tensioni che possono sorgere, per effetto dell’assoggettamento di un’impresa al Chapter 11, tra le varie categorie o classi di creditori (e/o soci), nonché le regole poste dall’ordinamento a garanzia del rispetto delle cause di preferenza – prima fra tutte l’APR – e le condizioni ed i limiti entro cui è possibile derogarle. La soluzione dei conflitti interclasse non esaurisce, tuttavia, la questione legata alla tutela degli interessi individuali degli aventi diritto sul patrimonio del debitore. È ben possibile, infatti, che un piano di riorganizzazione accettato da tutte le classi dei creditori risulti dannoso per un singolo creditore dissenziente: in tal caso, com’è evidente, il singolo creditore (o socio) – indipendentemente dal fatto che il piano rispetti o meno l’APR – non potrà invocare la tutela offerta dal § 1129(b), in quanto tale disposizione è dettata ai fini del cram-down, ai fini, cioè, di imporre ad una determinata classe dissenziente le condizioni poste dal piano. In tali circostanze soccorre il § 1129(a)(7)(A), ai sensi del quale, ai fini della confirmation del piano, il giudice deve verificare, in presenza di classi di creditori impaired, che «each holder of a claim or interest of such class: (i) has accepted the plan; or (ii) will receive or retain under the plan on account of such claim or interest property of a value, as of the effective date of the plan, that is not less than the amount that such holder would so receive or retain if the debtor were liquidated under chapter 7 of this title on such date…» 52.

frase specifica (“on account of”) contenuta nel § 1129(b)(2)(B)(ii). Così, ad esempio, la regola non è stata ritenuta applicabile In re Zenith Electronics Corp, dove il piano prevedeva l’acquisto delle nuove azioni della società riorganizzata da parte di un soggetto, composto da un creditore e dall’ex socio di controllo, ad un prezzo unilateralmente determinato, mentre nessun valore veniva distribuito ai vecchi azionisti di minoranza. Questi ultimi si opposero alla confirmation del piano chiedendo il market test e richiamando, a tal fine, proprio la regola sancita nel caso North LaSalle. Orbene, la Corte disattese la richiesta in base alla considerazione che quest’ultima regola era stata formulata con riferimento alla lesione dei diritti degli unsecured creditors; mentre nel caso specifico nessuna classe di creditori aveva espresso voto negativo sul piano, dovendosi dunque applicare la norma ex § 1129(b)(2)(C). Facile e corretta la critica formulata da Adler e G.G. Triantis, The Aftermath, cit., p. 1241, secondo i quali «it is hard to see why a potential violation of absolute priority on behalf of a creditor is less important to address than a potential violation on behalf of a shareholder». 52 Ulteriori requisiti per l’approvazione del piano (nell’ipotesi che tutte le classi ab-

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La disposizione introduce quello che viene definito il “best interest of creditors test”, dal quale si evince che i creditori hanno un vero e proprio diritto individuale, indisponibile dalla maggioranza di classe, ad essere soddisfatti almeno nella misura rinveniente dalla procedura di Liquidation 53. La tutela offerta dal best interest, va subito avvertito, non sempre si rivela efficace. In primo luogo, la stessa non si “attiva” in caso di cessioni operate fuori dal piano (ciò che è avvenuto, come vedremo, proprio nel caso Lehman), dato che i termini di riferimento sono, da un lato, il risultato ottenibile dalla Liquidation e, dall’altro, quello previsto dalle clausole, appunto, del piano di riorganizzazione 54.

biano accettato il piano e non sia quindi necessario procedere al cram-down) sono, tra gli altri: che il piano sia stato proposto «in good faith and not by any means forbidden by law» [§ 1129(a)(3)]; che il piano sia fattibile (c.d. feasibility test), e che dunque non si traduca in un’anticamera della liquidazione o di un ulteriore intervento di risanamento, salvo che ciò sia espressamente previsto nel piano [§ 1129(a)(11)]; che siano soddisfatti per intero i c.d. priority claims [§ 1129(a)(9)]. 53 La soluzione accolta dall’ordinamento nordamericano – e seguita da molti altri ordinamenti – è senz’altro condivisibile: se è vero, infatti, che l’introduzione della regola della maggioranza risponde all’esigenza di superare i problemi tipici delle azioni collettive, in nessun caso essa può essere impiegata per sottrarre valore ai creditori, imponendo ad essi una “composizione” dei rapporti patrimoniali antieconomica rispetto all’alternativa offerta dall’esecuzione forzata – seppure per mezzo degli organi della procedura, quale conseguenza dell’automatic stay – su una frazione degli assets dell’impresa in crisi; frazione (la cui entità dipende dalla composizione della massa attiva e della massa passiva) di cui essi, per effetto dell’insolvenza del debitore, diventano “titolari economici”. Risulta del tutto implicita, quindi, la critica alle leggi di riforma che hanno interessato il nostro ordinamento concorsuale, le quali, nel desiderio di avvicinare la disciplina della soluzione concordataria della crisi a quella propria del Chapter 11 (di ciò è testimonianza, tra l’altro, la possibilità di suddivisione in classi dei creditori), hanno generato un sistema del tutto caotico, confondendo la tutela di classe con quella individuale, con la conseguenza – a parere di chi scrive, assurda – che in Italia il creditore dissenziente che voglia opporsi all’omologazione del concordato adducendo la non convenienza della proposta rispetto all’ipotesi liquidatoria può farlo (recte: sembrerebbe poterlo fare) solo nel caso in cui la classe di appartenenza abbia espresso voto negativo (art. 129, co. 5 l.fall.). Per una diversa interpretazione della norma da ultimo citata sia consentito rinviare, da ultimo, a A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna, 2009, p. 284 s., secondo i quali, l’opposizione basata sulla convenienza del concordato rispetto alla liquidazione e successiva ripartizione dell’attivo può essere proposta da qualsiasi creditore dissenziente. 54 È stato fatto giustamente notare come la comparazione da parte della corte fallimentare debba avvenire confrontando «the present value of payments under reorganiza-

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In secondo luogo, per raggiungere il risultato desiderato il creditore dissenziente deve dimostrare che la riorganizzazione è, rispetto ad esso, antieconomica: ma per fare ciò è necessario dotarsi di stime e valutazioni – sulle cui componenti, peraltro, non v’è affatto omogeneità di vedute 55 – che solo alcuni creditori (quelli più “forti”) sono disposti a pagare (in dipendenza, altresì, dell’ammontare della “perdita” prevista) 56. In terzo luogo, infine, la comparazione in termini di efficienza economica delle due procedure viene effettuata al momento della presentazione del piano, che può avvenire anche molto tempo dopo l’ammissione al Chapter 11 (il periodo di esclusiva, come già accennato, può essere proprogato fino a 18 mesi), con la possibilità che in quel momento la massa attiva abbia perso gran parte del suo valore di liquidazione.

5. Posizione dei creditori della Lehman Brothers alla luce dei risultati raggiunti. L’analisi dell’evoluzione della procedura di Reorganization e lo studio dei casi di large corporations sottoposte al Chapter 11 negli ultimi anni, offrono le basi per tentare di formulare alcune ipotesi in ordine al futuro piano della Lehman Brothers Holdings Inc. Preliminarmente occorre però ripercorrere, seppur brevemente, i fatti che, ad oggi (gennaio 2009), si sono succeduti nel corso della procedura a far data dal 15 settembre 2008. A. Ad appena 2 giorni dalla sottoposizione della Lehman alla procedura di Reorganization (il 17 settembre) viene presentata, dallo stesso

tion to the present value of payments under liquidation»: così Klee, Adjusting Chapter 11: Fine Tuning the Plan Process, in 69 Am. Bankr. L.J., 1995, p. 551. 55 In particolare, il punto più controverso concerne il tasso di attualizzazione da impiegare per i pagamenti previsti nel piano di riorganizzazione. Secondo una recente sentenza della Suprema Corte [Till et ux. v. SCS Credit Corp., 541 U.S.C. 466 (2004)], tale tasso deve dipendere, oltreché dalla mancata disponibilità immediata di denaro da parte dei creditori, dalla possibile svalutazione del dollaro e, soprattutto, dal rischio del mancato pagamento alle scadenze pattuite. Al tema dell’individuazione del saggio di sconto da applicare in tali situazioni è dedicato il lavoro di Fisher e Martel, Does it Matter How Bankruptcy Judges Evaluate the Creditors’ Best-Interests Test?, in 81 Am. Bankr. L.J., 2007, 497 ss. 56 Con la conseguenza che il creditore sarà portato ad accettare una proposta antieconomica, qualora la differenza tra valore di liquidazione e valore di riorganizzazione del proprio credito sia inferiore ai costi, definibili genericamente, di stima.

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debitore, una richiesta alla corte fallimentare di fissare una data d’udienza per la vendita di determinati assets dell’impresa e di approvare la procedura di vendita, secondo le indicazioni presenti nella stessa richiesta. A tal fine, viene allegato il contratto di cessione (datato 16 settembre) concluso tra la Lehman Brothers Holding Inc. (ed alcune controllate, in particolare la Lehman Brothers Inc.) e la Barclays Capital Inc. B. Alla richiesta di fissazione dell’udienza è seguita l’ordinanza della corte fallimentare, che ha approvato l’operazione compiuta dalla Lehman, fissando l’udienza al 19 settembre; non essendo pervenute, in quella sede, offerte concorrenti in rialzo, la cessione si è perfezionata il 22 settembre 57. C. Tutto era stato dunque già preparato prima dell’esplosione della crisi. Dalla situazione così creatasi – propiziata anche dal periodo di panico che in quel momento attraversava il sistema bancario americano – la Barclays ha tratto un indubbio vantaggio, in quanto: per i beni materiali, l’acquisto è avvenuto libero da ogni peso o gravame (free and clear of liens); per quanto riguarda i contratti in corso di esecuzione (executory contracts and unexpired leases), la Barclays è subentrata soltanto in alcuni di essi, essenzialmente quelli funzionali allo svolgimento del ramo dell’attività di impresa oggetto di trasferimento (Capital Markets negli USA e nel Canada; Investment Banking businesses; equity cash trading, brokerage, dealing, trading and advisory businesses: ossia circa il 75% del business totale della Lehman Brothers Inc.) 58. Il tutto – ed è questo l’aspetto che più conta – senza alcuna stima o valutazione da parte di soggetti indipendenti e senza il controllo del mercato, non potendo certo considerarsi come procedura “competitiva” l’udienza per

57 È interessante notare come, a garanzia del buon esito dell’operazione, la Barclays avesse posto come condizione per la conclusione dell’accordo una clausola che prevedeva il risarcimento dei danni patiti dalla stessa Barclays per effetto dell’eventuale mancato perfezionamento del contratto di vendita dovuto alla presentazione di offerte migliori: risarcimento forfetariamente fissato in ben 100 milioni di dollari, più 25 milioni per rimborso spese legali (clausola accettata dalla corte: il che significa che la procedura avrebbe accettato solo offerte superiori a quella presentata dalla Barclays di oltre, appunto, 125 milioni di dollari). Sull’entità e l’incidenza delle spese legali sul costo complessivo della procedura di Reorganization cfr., da ultimo, Lubben, Corporate Reorganization & Professional Fees, in 82 Am. Bankr. L.J., 2008, p. 77 ss. 58 In argomento va detto che nel contratto di cessione originario è prevista una clausola che consente alla Barclays di decidere in un secondo momento in quali contratti in corso di esecuzione subentrare. Dal perfezionamento della vendita ad oggi la Barclays ha già esercitato varie volte tale facoltà.

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l’asta pubblica fissata a due giorni dalla richiesta e a quattro dall’apertura della Reorganization. In punto di rapporti pendenti, va sottolineato come la Barclays abbia, per un verso, escluso il 50% di ogni posizione correlata alle operazioni immobiliari (real estate mortgage Securities) e, per la parte assunta, trattenuto dal prezzo fissato per la vendita 250 milioni di dollari (come forma di garanzia); e, per altro verso e soprattutto, escluso dall’oggetto della cessione tutte le posizioni correlate ad operazioni su e con derivati (eccezion fatta per gli exchange traded derivatives). Le obbligazioni della Lehman, comprese quelle connesse a contratti di garanzia, assunte dalla Barclays sono dunque soltanto una parte del totale (e, se si vuole, quelle decisamente più sane): per il creditore occorre dunque verificare caso per caso se, ed eventualmente in quali limiti, la propria posizione rientra tra quelle trasferite 59. D. Dal contratto di cessione alla Barclays è rimasto fuori – in parte – il ramo Investment Management Division (IMD Business) della Lehman Brothers Inc., oggetto anch’esso di trasferimento fuori dal piano. Ed infatti: il 29 settembre la Lehman Holdings (ed alcune controllate dalla stessa) ha concluso un accordo con la IMD Parent LLC, per un prezzo stimato pari a circa 2.15 miliardi di dollari. Alla procedura di vendita, svoltasi il 3 dicembre 2008, è peraltro risultata vincitrice la NBSH Acquisition, LLC. E. Questo in sintesi quel che è avvenuto durante il primo periodo di procedura. Di riorganizzazione, dunque, neanche l’ombra, confermandosi così quel trend di cui si è detto in principio (e che, per inciso, sembra essere stato imboccato anche da noi, nell’ambito della procedura di amministrazione straordinaria, con il caso Alitalia). Naturalmente, anche in questa occasione il giudice ha operato tenendo in considerazione il miglior interesse per gli aventi diritto e, in particolare, per i creditori, ritenendo, secondo un convincimento che può dirsi ormai consolidato, che «for large firms, the cost of Chapter 11 reorganization is small relative to the costs of other types of sales» 60.

Il prezzo di cessione è stato così fissato: circa 1.7 miliardi di dollari in contanti; assunzione di specifiche responsabilità ed obbligazioni che gravavano sulla Lehman (liabilities), correlate alle attività ed ai contratti nei quali è subentrata la Barclays; assunzione delle obbligazioni di impresa nascenti dopo l’assoggettamento al Chapter 11 e relative, ovviamente, agli assets trasferiti; accollo dei costi, stimati in circa 2.5 miliardi di dollari, relativi ai dipendenti della Lehman Brothers Inc., che sono rimasti al loro posto per un periodo di 3 mesi (dal 1 ottobre al 31 dicembre 2008). 60 Così Baird, The Importance of Priority, in 82 Cornell L. Rev., 1997, p. 1431, ri59

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Ciò che però qui stupisce, è che la liquidazione di parte della Lehman Holdings (e delle sue controllate, in primis la Lehman Brothers Inc.) si è consumata prima ed al di fuori del piano di riorganizzazione: non si è in presenza, cioè, di un c.d. “liquidating plan” di cui fa menzione il § 1123(b)(4). Verrebbe dunque da chiedersi come mai non vi sia stata la conversione della procedura in Liquidation. Sul punto, va detto che alcuni giudici fallimentari, in casi analoghi, si sono in effetti rifiutati di procedere alle vendite fuori dal piano di riorganizzazione ed hanno optato per la conversione 61; la giurisprudenza dominante, tuttavia, è propensa a ritenere lecita questa forma di cessione ed esclude la necessità – e, in alcune circostanze, l’opportunità – di procedere alla conversione. In particolare, è stato evidenziato come l’apertura della liquidazione in sostituzione della reorganization comporti dei costi aggiuntivi, non giustificati da alcuna ragione oggettiva, come, ad esempio, quello derivante dal compenso dovuto all’organo amministrativo concorsuale (Trustee) 62. Nel caso specifico, poi, non va dimenticato che il gruppo Lehman è in regime di administrative consolidation, che consente risparmi di spese e di tempi, nonché una maggiore efficienza nelle operazioni di cessione. F. A questo punto sorge un interrogativo: come dovrà essere strutturato il piano, dato che manca buona parte dell’entità da riorganizzare? a) È probabile che il piano, a parte “collocare” (anche, ad esempio, mediante la cessione diretta a favore dei secured creditors) ciò che residua dalle vendite già concluse, verrà strutturato come un programma di ripartizione del ricavato della liquidazione già avvenuta. Per fare questo,

prendendo un concetto espresso da Weiss, Bankruptcy Resolution, cit., p. 288 s., il quale evidenzia, altresì, come i costi della procedura di Reorganization coprono circa il 5% del valore dell’impresa (per le imprese di grandi dimensioni; la percentuale sale significativamente in caso di imprese di piccole-medie dimensoni). Va aggiunto che Baird è tra i più accaniti sostenitori dell’eliminazione della procedura di Reorganization per le grandi imprese, ritenendo più conveniente per gli interessati la via della cessione, al prezzo di mercato, degli assets dell’impresa in crisi. 61 Cfr. la giurisprudenza citata in Epling, Proposal for Equality of Treatment for Claims in Chapter 7 and Claims in a Liquidating Chapter 11 Case, in 4 Bankr. Dev. J., 1987, p. 401, nt. 10 e 11. 62 Cfr. Epling, op. loc. ult. cit. Va tuttavia osservato, in via generale, che al momento dell’apertura della procedura la comparazione fra Liquidation e Reorganization non può che essere approssimativa, atteso che, come evidenziato da attenta dottrina, «In a Chapter 7 proceeding the sale is real; in a Chapter 11 proceeding the sale is hipothetical» (così Baird, The Uneasy Case for Corporate Reorganizations, in 15 J. Legal Stud., 1986, p. 127).

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il debitore dovrà in ogni caso procedere ad una classificazione dei creditori, suddividendoli in base al grado di preferenza nel soddisfacimento dei crediti [o, ma in questo caso l’operazione si presenta più complessa, individuando altri elementi di somiglianza per far confluire in un’unica classe i creditori, appunto, “simili”: § 1122(a)]. Avremo così i creditori che vantano cause legittime di prelazione, da un lato; creditori chirografari, dall’altro; e titolari di quote di capitale, dall’altro ancora. All’interno di queste macrocategorie avremo poi creditori senior e creditori junior (ovvero subordinati); così come, all’interno degli azionisti, avremo quelli privilegiati e quelli ordinari. b) Quanto al soddisfacimento. Premesso che i dati a disposizione non sono ovviamente sufficienti a fornire una rappresentazione precisa della situazione del gruppo Lehman, può comunque affermarsi che la vendita di una quota consistente della massa attiva a ridosso dell’apertura della procedura e fuori dal piano comporta che: a) il valore di ciò che residua dell’impresa è di più agevole determinazione, salvo verificare se effettivamente vi sia ancora, al termine della procedura, la Lehman Brothers Holdings Inc. “risanata” 63; b) conseguentemente, lo spazio per possibili negoziazioni tra le varie categorie di interessati risulta alquanto ridimensionato; c) nessun incentivo, poi, sembra sussistere in ordine alla permanenza dei manager-azionisti in seno alla Lehman (di ciò che, eventualmente, di essa dovesse rimanere) “riorganizzata”. In sintesi, tutto lascia presumere che non vi saranno deviazioni dall’APR. c) Tentando di tradurre in termini numerici quanto sin qui osservato e sulla base dei dati a disposizione sembra possibile affermare che: – ai titolari di quote di capitale (siano esse azioni privilegiate o, e a maggior ragione, azioni ordinarie) non verrà distribuito alcunché; – stessa sorte, presumibilmente, toccherà ai creditori chirografari subordinati: invero, l’importo delle somme rivenienti dalle vendite sin qui concluse e, soprattutto, l’enorme ammontare di senior notes emesse lasciano presagire un futuro per i titolari di detti titoli tutt’altro che roseo;

63 È cioè possibile che al termine della procedura la Lehman scompaia, oppure segua in vita, seppure totalmente cambiata nelle sue caratteristiche essenziali, com’è accaduto, in passato, alla Viatel, ammessa al Chapter 11 quale impresa multinazionale di comunicazioni a lunga distanza, con sede amministrativa in New York e con più di 2000 dipendenti, ed uscita dalla procedura con soli 73 dipendenti, sede in Inghilterra ed operatività limitata alla vendita di fibre ottiche (sul punto cfr. Baird e Rasmussen, Chapter 11 a Twilight, cit., p. 680).

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– l’attivo sembra sufficiente a coprire per intero i secured claims e, in proporzione, i chirografari (ivi inclusi i titolari, tra essi, di posizioni senior, che beneficeranno anche dei “riparti” spettanti ai detentori di subordinated bonds); il soddisfacimento potrà avvenire in denaro, oppure attraverso l’assegnazione di nuovi titoli di debito o di azioni della società “risanata”. G. Rimane da stabilire cosa accade alle garanzie prestate dalla Lehman Brothers Holdings (specialmente quelle relazionate ai titoli emessi dalle società controllate europee), per le quali non vi sia stato il subingresso di uno degli acquirenti di cui si è detto in precedenza. A tal fine è necessario distinguere a seconda che la garanzia sia a prima richiesta oppure necessita, per poter essere attivata, la previa escussione del debitore garantito. Nel primo caso è evidente che la semplice richiesta trasformi in liquido ed esigibile il credito nei confronti della Lehman, con la conseguente possibilità di essere ammessi al passivo per l’importo corrispondente (ad oggi, non risulta ancora stato fissato il termine ultimo per la richiesta di ammissione al passivo della procedura). Nel secondo caso, che è quello che più interessa, va detto che la prestazione di garanzia non rappresenta – sinché non si verifichi l’evento che determina l’attivazione della stessa – una passività attuale per la Lehman: ciò significa che il creditore beneficiario della garanzia potrà presentare domanda di ammissione al passivo “ordinaria”, se il debitore è divenuto nel frattempo insolvente (come è accaduto per la controllata olandese), o quale creditore sottoposto a condizione sospensiva (contingent claim), qualora non sia ancora scaduta l’obbligazione principale, ed essere soddisfatto una volta che la condizione si sia verificata (sempre che il piano preveda una qualche forma di soddisfacimento per la classe di creditori alla quale appertengono i titolari di dette garanzie). H. Quanto sin qui esposto non ha nulla a che vedere, ovviamente, con le eventuali azioni di responsabilità che potrebbero colpire la Lehman o, più proficuamente, le società di rating o gli intermediari che hanno proceduto al collocamento, per le false, o colpevolmente errate, informazioni rilasciate al mercato in epoca antecedente l’apertura della procedura, aventi ad oggetto i titoli emessi dalla Lehman stessa o quelli per i quali quest’ultima abbia rilasciato garanzia 64.

64 Sul punto va osservato come la crisi della Lehman fosse tutt’altro che sconosciuta negli ambienti finanziari; e ciò ben prima della richiesta di assoggettamento al Chapter 11. Per convincersene è sufficiente leggere l’articolo di Cohan, intitolato, non a caso, Is

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Si è detto che le azioni più proficue sarebbero, ove ve ne fossero i presupposti, quelle contro le società di rating o gli intermediari, in quanto – oltre al fatto che la Lehman è insolvente – nel sistema concorsuale nordamericano esiste una regola, contenuta nel § 510(b), ai sensi della quale, nel caso in cui un’operazione di acquisto/vendita 65 di titoli sia viziata dalla condotta contra legem dell’emittente (caso classico, per rilascio di false o inesatte o reticenti informazioni), il credito per il risarcimento dei danni patiti dall’investitore assume, nella procedura a cui è sottoposta la società emittente, una posizione subordinata 66. In particolare, la disposizione determina la collocazione del credito per danni (o al rimborso) derivante dall’operazione illecita al rango immediatamente inferiore a quello proprio dello strumento finanziario oggetto dell’acquisto (o della vendita). Così, ad esempio, se oggetto di acquisto fossero state obbligazioni del debitore non garantite, il credito dell’acquirente per i danni procurati dalla successiva dichiarazione di invalidità o di inefficacia dell’operazione di collocamento potrebbe trovare soddisfazione all’interno del concorso soltanto dopo l’integrale pagamento sia dei creditori privilegiati sia dei titolari di crediti di rango uguale a quello

Lehman Brothers next?, datato 15 marzo 2008 e disponibile sul sito http://www.bloggingstocks.com/2008/03/15/is-lehman-brothers-next/. In questo articolo viene evidenziato come la crisi della Bear Stearns non fosse un caso isolato, e che – anche sulla base di notizie pubblicate dall’agenzia Reuter – proprio la Lehman Brothers potesse essere la prossima vittima dell’ondata di crisi. In particolare, oltre a riportare “rumori” degli ambienti finanziari, veniva segnalato come “the cost of protecting Lehman’s obligations against default for five years surged to 465 basis points, or $465,000 a year per $10 million protected, from $400,000 the day before”. Che il rischio di default fosse elevato non era dunque un mistero. 65 Di norma, le operazioni che danno luogo a crediti risarcitori sono quelle di vendita di azioni proprie da parte della società poi sottoposta a procedura, nelle quali il prezzo risulta alterato dalle false informazioni rese dalla stessa società emittente. È peraltro possibile che il credito per danni possa derivare da un’operazione di (ri)acquisto di azioni proprie da parte della società: «if a shareholder sells shares back to the corporation while the corporation fraudulently depresses the price, the fraud claim arising from the sale will be subordinated» (così, Georgakopoulos, Strange Subordinations: Correcting Bankruptcy’s § 510(b), in 16 Bankr. Dev. J., 1999-2000, p. 102). 66 § 510(b): «For the purpose of distribution under this title, a claim arising from rescission of a purchase or sale of a security of the debtor or of an affiliate of the debtor, for damages arising from the purchase or sale of such a security, or for reimbursement or contribution allowed under section 502 on account of such claim, shall be subordinated to all claims or interests that are senior to or equal the claim or interest represented by such security, except that if such security is common stock, such claim has the same priority as common stock».

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riconosciuto ai portatori di obbligazioni della stessa specie. L’eccezione al sistema così delineato è rappresentata dalle operazioni che hanno ad oggetto azioni ordinarie: in tale ipotesi, infatti, il credito per danni derivanti dal mancato perfezionamento dell’operazione viene posto dalla legge sullo stesso piano dei titolari di azioni comuni, di talché l’eventuale residuo attivo, una volta soddisfatti per intero tutti i creditori, dovrebbe essere distribuito, proporzionalmente, tra gli azionisti ed i titolari dei crediti ex § 510(b) 67. I. Concludendo, ciò che più colpisce della “gestione” del caso Lehman è la formidabile accelerazione impressa alla procedura dal management dell’impresa in crisi e dal giudice (basti pensare che il grosso della liquidazione si è perfezionato a distanza di soli 7 giorni dall’apertura della procedura) 68: accelerazione che, per un verso, ha senz’altro prodotto

67 La giustificazione che viene data alla disposizione qui in considerazione è che se si consentisse al titolare di strumenti finanziari di insinuare il suo credito (per danni o al rimborso) come un qualunque altro creditore ordinario, si permetterebbe allo stesso di partecipare al concorso in una situazione di minore rischio rispetto a quella che ha assunto contrattando con la società emittente. D’altra parte, si sostiene, i rischi connessi ad un’eventuale dichiarazione di invalidità (o di inefficacia) delle operazioni di collocamento di strumenti finanziari e le conseguenze, in punto di crediti per danni subiti, non debbono gravare sui creditori ordinari, giacché queste operazioni sono rivolte ai titolari di strumenti finanziari, non “monitorati” dai primi. Sul punto cfr. Slain e Kripke, The Interface Between Securities Regulation and Bankruptcy - Allocating the Risk of Illegal Securities Issuance Between Securityholders and the Issuer’s Creditors, in 48 N. Y. L. Rev., 1973, p. 261 ss. L’assunto dal quale partono i due autori – il cui saggio ha ispirato la redazione del § 510(b) – è che la posizione di chi acquista azioni della società in crisi non può, in un secondo momento e per effetto di una pronunzia del giudice – che accerta, ad esempio, che il prezzo di acquisto era “gonfiato” per via di errate informazioni rilasciate dallo stesso debitore poi sottoposto a procedura concorsuale – essere la stessa dei creditori ordinari, in quanto «Allowing equityholders to become creditors gives them the best of both worlds: a claim to the upside and participation with creditors in the downside. If the firm performs well, the increase of its value benefits shareholders exclusively. If the firm fails, shareholders receive fraud claims with which they still get a portion of the value of the failed firm, sharing with the creditors». La norma non ha peraltro mancato di sollevare critiche, anche feroci, da parte della dottrina nordamericana, specialmente con riferimento, da un lato, alle operazioni aventi ad oggetto strumenti finanziari emessi dalle società controllate, dall’altro, agli acquisti effettuati dai c.d. “innocent passive investors” e, dall’altro ancora, alle operazioni di (ri)acquisto da parte della società debitrice. Sul punto cfr. Georgakopoulos, Strange Subordinations, cit., p. 94 s. e 113; Davis, The Status of Defrauded Securityholders in Corporate Bankruptcy, in Duke L.J., 1983, p. 4 ss.; Stark, Reexamining the Subordination of Investor Fraud Claims in Bankruptcy: A critical Study of In re Granite Partners, L.P., in 72 Am. Bankr. L.J., 1998, p. 497 ss. 68 Che il fattore “tempo” sia stato determinante ai fini della cessione a favore della

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effetti positivi (continuazione dei rapporti in corso da parte di soggetti “solventi”; mantenimento temporaneo dei posti di lavoro; contenimento dell’effetto sfiducia; ecc.), ma dall’altro, sembra aver ridotto sensibilmente le garanzie previste dall’ordinamento a favore degli aventi diritto sul patrimonio del debitore, posti nell’impossibilità oggettiva anche solo di organizzarsi per tutelare al meglio le proprie ragioni 69. Il risultato di questa corsa ai “saldi di fine stagione” della Lehman è che, per un verso, sono state tagliate fuori tutte le possibili negoziazioni tra le varie categorie di creditori, comprese quelle volte a tentare il risanamento in senso stretto dell’impresa, ciò che, d’altra parte, fa dubitare dell’effettiva consistenza della massa attiva (dichiarata pari a poco meno di 640 miliardi di dollari); e, per altro verso, è stata “sterilizzata” (almeno per la porzione di attivo ceduta) sia la tutela di classe sia quella individuale, entrambe ancorate alla presentazione del piano. Certo, si potrebbe dire che il mantenimento della fiducia nel mercato finanziario americano ed internazionale può giustificare – giustificazione che, infatti, emerge tra le righe dell’ordinanza della corte che ha accettato i termini della cessione a favore della Barclays – anche “manipolazioni” funzionali delle procedure concorsuali; se, però, tali manipolazioni si risolvono in una sottrazione di valore economico ai creditori (nella specie, essenzialmente investitori), allora è evidente come le stesse possano in un secondo momento trasformarsi in un autentico boomerang, anche e proprio ai fini della salvaguardia del “bene” fiducia.

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Barclays emerge chiaramente dall’ordinanza della corte del 19 settembre, nella quale si legge «The Sale must be approved and consummated promptly in order to preserve the viability of the businesses subject to the sale as going concers, to maximize the value of the estates. Time is of the essence in consummating the Sale» (punto U). 69 Basti pensare al tempo strettissimo (2 giorni) che è intercorso tra la richiesta e la fissazione dell’udienza per l’asta pubblica in cui si è proceduto all’aggiudicazione degli assets a favore della Barclays. Tempi così ridotti da non consentire nemmeno il rispetto dei termini ordinari di notificazione: eccezione, quest’ultima, giustificata dalla corte «in light of the exigent circumstances of these cases and the wasting nature of the Sellers’ assets».

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I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c. c. - art. 2332, co.1, c. c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c. c. codice di commercio c. comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c. p. c. codice penale c. p. codice di procedura penale c. p. p. decreto d. decreto legislativo d. lgs. decreto legge d. l. decreto legge luogotenenziale d. l. luog. decreto ministeriale d. m. decreto del Presidente della Repubblica d. P. R. disposizioni sulla legge in generale d. prel. disposizioni di attuazione disp. att. disposizioni transitorie disp. trans. legge fallimentare l. fall.

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Norme redazionali

legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l. camb. t. u. t. u. b. t. u. f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall.

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Diritto e giurisprudenza Dir. e giur. Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm. Rivista del notariato Riv. not. Rivista della cooperazione Riv. coop. Rivista di diritto civile Riv. dir. civ. Rivista del diritto commerciale Riv. dir. comm. Rivista di diritto internazionale Riv. dir. internaz. Rivista di diritto privato Riv. dir. priv. Rivista di diritto processuale Riv. dir. proc. Rivista di diritto pubblico Riv. dir. pubbl. Rivista italiana del leasing Riv. it. leasing Rivista delle società Riv. soc. Rivista giuridica sarda Riv. giur. sarda Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Riv. trim. dir. proc. civ. Vita notarile Vita not.

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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze e, successivamente, gli estratti.

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Finito di stampare nel mese di Aprile 2009 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300 www.pacinieditore.it


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