ISSN 1722-8360
di particolare interesse in questo fascicolo Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009
Diritto della banca e del mercato finanziario
1/2011
Saggi
• La trasparenza nelle operazioni bancarie • Venture capital e drag along • Responsabilità degli esperti “attestatori“ • Tutela internazionale degli investimenti • Sintesi di giurisprudenza
gennaio-febbraio
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gennaio-febbraio
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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro.
Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria
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SOMMARIO 1/2011
PARTE PRIMA Saggi Linee di tendenza delle nuove discipline di trasparenza. Dalla trasparenza alla “consulenza”?, di Alessandro Nigro
pag. 11
Fra “mercato” e “società”: a proposito di venture capital e drag-along , di Carlo Angelici
» 23
La responsabilità civile degli “esperti attestatori” nell’ambito dei “piani”, degli “accordi” e dei Concordati, di Alberto Bregoli
» 73
Il ruolo della politica e del diritto nel processo di riforma della struttura europea di supervisione finanziaria, di Leonardo Giani
» 101.
Commenti Arbitrato ICSID e intermediazione finanziaria - Lodo 19 maggio 2010
» 143
La c.d. clean hands doctrine. Il rispetto del principio di legalità da parte degli investitori come condizione necessaria per la tutela internazionale degli investimenti, di Domenico Di Pietro
» 157
Rapporti finanziari ed assicurativi e reato ex art. 648-ter c.p. – Cass. pen., 4 febbraio 2010, n. 4800, n. 12247
» 173
Reimpiego e riciclaggio: due diverse fattispecie?, di Ranieri Razzante
pag. 181
Rassegne Sintesi di giurisprudenza (I trimestre 2010)
» 187
PARTE SECONDA Legislazione Agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi
» 3
Le nuove regole per agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi introdotte dal d.lgs. n. 141/2010: primi appunti di Franco Belli – Ciro G. Corvese
» 11
PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, rassegne, miti e realtĂ
SAGGI
Linee di tendenza delle nuove discipline di trasparenza. Dalla trasparenza alla “consulenza”? * 1. Interpretando in modo lato il titolo della relazione che mi è stata affidata, cercherò di individuare le linee di tendenza di cui le nuove normative (il d.lgs. n. 11/2010; il d.lgs. n. 141/2010; le istruzioni di vigilanza del luglio 2009, modificate nel 2010) sono espressione. Preciso subito che non è un compito agevole: la materia della trasparenza è complessa e quelle che abbiamo ormai di fronte sono a loro volta normative particolarmente complesse. A me sembra, comunque, che le più significative linee emergenti da tali normative siano le seguenti: –– il potenziamento del ruolo assegnato, nel sistema, alla trasparenza; –– la “segmentazione” o “specializzazione” degli obblighi di trasparenza in relazione al tipo di rapporti ed al tipo di clienti; –– l’ampliamento dell’ambito della trasparenza. Naturalmente, è possibile individuarne altre. Per esempio: la tendenza alla standardizzazione del disciplinare non economico delle operazioni bancarie, con conseguente spinta alla concentrazione della concorrenza sul terreno dei prezzi e delle condizioni economiche. Quelle che ho prima indicato mi sembrano, però, le linee più significative ed anche le più nuove. 2. Sul primo profilo. a. Certamente rilevante, come è pacifico, è il ruolo che la trasparenza può oggi assumere in termini di recupero di quella fiducia della clientela nelle banche che le vicende degli ultimi anni, da ultimo la crisi finanziaria, hanno pesantemente incrinato: ed anche in questo può essere ritrovata la ragione della rinnovata attenzione del legislatore per la materia.
*
Relazione al Convegno “Nuove regole per le relazioni tra banche e clienti. Oltre la trasparenza?” (San Miniato, 22-23 ottobre 2010).
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Quello che ora mi interessa, però, è un altro aspetto: e precisamente il ruolo della trasparenza nell’assetto della vigilanza sull’attività creditizia. Debbo a questo punto aprire una parentesi. Sono sempre stato e tuttora resto convinto che la materia della trasparenza nelle relazioni negoziali (in qualunque senso la si intenda) è materia in cui la legge, come tale, è perfettamente in grado di soddisfare direttamente e compiutamente le esigenze di tutela che ne sono alla base, vuoi con prescrizioni analitiche vuoi con il ricorso a clausole generali; è materia cioè che, a differenza di altre, non ha bisogno della “mediazione” di autorità amministrative e di normative secondarie. L’intervento dell’autorità amministrativa può trovare giustificazione solo, eventualmente, sul piano della verifica del rispetto della legge e su quello delle conseguenti sanzioni, sempre che di sanzioni amministrative, oltre alle sanzioni negoziali, vi sia necessità. Come tutti sappiamo, l’ordinamento – dopo aver inizialmente seguito, con la legge del 1992, proprio la linea appena indicata – si è mosso in senso diverso, attribuendo amplissime competenze in materia all’autorità amministrativa. E non solo nel nostro campo, ma anche, per esempio, nel contiguo campo dell’intermediazione finanziaria, nel quale, anzi, le prescrizioni di legge in tema di trasparenza sono particolarmente scarne e le regole fondamentali sono contenute appunto nella normativa secondaria. Del che, ovviamente, non posso che prendere atto. b. Detto questo, rilevo che una delle obiezioni mosse – anche da me – all’assetto dato dal t.u.b. alla disciplina in materia di trasparenza era che l’affidamento di così ampi poteri in tale materia alla Banca d’Italia potesse finire con il “trasporto” in essa di tutte le finalità proprie dell’attività di vigilanza, fra cui preminente appariva la finalità della stabilità, con la conseguenza allora di poter arrivare anche ad una vera e propria subordinazione della trasparenza alla, appunto, stabilità. L’esperienza applicativa, soprattutto degli ultimi anni, ha dimostrato che si trattava di una preoccupazione infondata. Ma è importante che oggi si siano formalmente rimossi i motivi stessi che l’avevano suscitata. Il nuovo art. 127, come riformulato dal citato d.lgs. n. 141/2010, stabilisce infatti che “Le Autorità creditizie esercitano i poteri previsti dal presente titolo avendo riguardo, oltre che alle finalità indicate nell’articolo 5, alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela. A questi fini possono essere dettate anche disposizioni in materia di organizzazione e controlli interni”. Questo significa che la tutela della trasparenza e della correttezza entra a far parte a pieno titolo del ventaglio delle finalità della vigilanza, integrando
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l’elenco dell’art. 5 ed in posizione distinta dalle altre e paritaria rispetto ad esse. È il caso di ricordare che già nei contigui campi dell’intermediazione finanziaria, per un verso, e dell’attività assicurativa, per altro verso, si era registrato un analogo inserimento della trasparenza e correttezza fra le finalità della vigilanza. L’art. 5, co. 3, del t.u.f. attribuisce alla Consob la competenza per quanto riguarda la trasparenza e la correttezza degli intermediari; l’art. 3 cod. ass. include la trasparenza e correttezza dei comportamenti fra gli scopi della vigilanza sull’attività assicurativa al pari della sana e prudente gestione delle imprese di assicurazioni. c. È possibile sviluppare ulteriormente il discorso. Tradizionalmente alla trasparenza si assegna un ruolo sia di protezione di chi contratta con l’impresa sia d’innalzamento del tasso di concorrenzialità del mercato. Orbene, l’aver collocato ora la tutela della trasparenza in posizione distinta rispetto alla tutela dell’efficienza e competitività del mercato bancario potrebbe intendersi nel senso di uno “sganciamento” fra i due obiettivi e quindi nel senso dell’assunzione della tutela della trasparenza (e correttezza) in funzione esclusivamente della protezione della clientela in quanto tale. Il che, però, fa (o farebbe) riemergere la questione alla quale accennavo all’inizio: se l’obiettivo è puramente e semplicemente la tutela dei clienti delle banche, c’è effettivamente bisogno della “mediazione” di un’autorità amministrativa? 3. Sul secondo profilo. a. Le nuove normative si caratterizzano per il fatto di disegnare non un regime omogeneo di trasparenza, bensì un articolatissimo complesso di regimi e “sottoregimi” differenziati. Una prima, radicale, distinzione è quella che corre fra le discipline di trasparenza rispettivamente delle operazioni bancarie in genere, del credito al consumo e dei servizi di pagamento. Ricordo che, prima degli ultimi interventi normativi, la disciplina di trasparenza delle operazioni bancarie in genere, contenuta nel capo I del tit. VI, costituiva la disciplina generale anche delle operazioni di credito al consumo, essendo destinata ad applicarsi per gli aspetti non espressamente regolati dalla disciplina specifica di quelle operazioni. Dopo gli ultimi interventi normativi, la situazione è radicalmente mutata: le disposizioni del capo I, infatti, per espressa previsione dell’art. 115, co. 3 t.u.b., come riformulato dal d.lgs. n. 141/2010, non si applicano né ai contratti di credito al consumo né ai servizi di pagamento, se non espressamente richiamate. E la disciplina generale è circoscritta a quella – abbastanza scarna, anche se importante – contenuta nel capo III.
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I tre regimi, dunque, sono ormai tendenzialmente autonomi. b. La disciplina di trasparenza nei rapporti bancari – a differenza di quella nel mercato finanziario – non aveva finora visto una differenziazione in relazione alla tipologia dei clienti, salvo ovviamente quella, sussistente fin dall’origine, fra consumatore e non consumatore. Le nuove istruzioni di vigilanza del 2009 – sulla falsariga proprio di quanto era stato stabilito per il mercato finanziario in sede di attuazione della MIFID – hanno delineato quattro sottoinsiemi di clienti (in senso lato). In posizione distinta si collocano i soggetti che non rientrano nella definizione di clienti (in senso stretto), cioè banche, società finanziarie, ecc. – corrispondono, in pratica, alle controparti qualificate del sistema Mifid – che restano sottratti all’applicazione dell’intera normativa: alle relazioni con questi soggetti si applica il diritto comune dei contratti. Gli altri tre sottoinsiemi disegnano quello che è stato giustamente definito come un sistema di cerchi concentrici: il più ampio comprende tutti i clienti; quello intermedio comprende i c.d. clienti al dettaglio, categoria che abbraccia i consumatori, le persone fisiche che svolgono attività professionale o artigianale, gli enti senza fini di lucro, le imprese di minori dimensioni; quello più ristretto comprende i consumatori. Anche qui le distinzioni rilevano in punto di disciplina, traducendosi nella previsione di differenti “statuti” informativi. Analoga segmentazione può aversi per i servizi di pagamento. In base all’art. 126-bis, co. 3 t.u.b., infatti, le parti possono accordarsi nel senso che le prescrizioni di trasparenza relative a tali servizi non si applichino o si applichino parzialmente, se l’utilizzatore non è un consumatore o una microimpresa. c. Nell’ambito di ciascuno dei tre regimi, differenziazioni di disciplina – ma questa non è una novità – sussistono anche in relazione alle caratteristiche dei servizi. Con riferimento alle operazioni bancarie in generale, per esempio, particolare disciplina è dettata, dalla legge, per i contratti di durata; o dalle istruzioni di vigilanza per i rapporti regolati in conto corrente e così via. d. Il risultato è, dunque, quello di un sistema assai articolato e non sempre agevolmente ricostruibile in tutte le sue componenti, che può tradursi – come è stato correttamente segnalato – in complicazioni operative per le banche, fonte di gravosi oneri. A mio avviso, peraltro, la strada della “personalizzazione” dello statuto di trasparenza in relazione alle diverse caratteristiche della clientela e del servizio, quindi al diverso livello di need of protection, sia una strada corretta, in relazione al principio di proporzionalità (espressamente richiamato, del resto, nelle istruzioni) ma anche al principio di economicità.
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Piuttosto, ho qualche dubbio sull’opportunità della rigida distinzione dei tre regimi, che non credo potesse ritenersi imposta in relazione a ciò che le direttive comunitarie in materia di credito al consumo e di servizi di pagamento siano di armonizzazione massima. Ho qualche dubbio per i problemi e le difficoltà che possono derivarne, in relazione al fatto, da un lato, che essi vengono, quanto a destinatari e ad ambiti di applicazione, a sovrapporsi largamente (e già sono state evidenziate dalla dottrina, per esempio, le difficoltà di ricostruzione della disciplina applicabile nel caso di servizi di pagamento regolati in conto corrente o commercializzati unitamente ad un conto corrente) e, dall’altro, contengono regole la cui difformità non è facilmente spiegabile (per esempio, non si comprende perché solo nel regime di trasparenza dei servizi di pagamento e non anche negli altri sia previsto a carico del fornitore del servizio l’onere di dimostrare che si è attenuto agli obblighi di trasparenza). Problemi e difficoltà – è il caso di rammentarlo – che furono sperimentati all’epoca della coesistenza delle due leggi del 1992 e che il t.u.b., nella versione originaria, aveva lodevolmente cercato di superare. Su questo piano, mi sembra meritevole di consensi la linea prospettata dalla Banca d’Italia nelle istruzioni del marzo 2010, là dove si è chiaramente sottolineato l’obiettivo di rendere la disciplina di trasparenza dei servizi di pagamento quanto più possibile omogenea rispetto alla disciplina di trasparenza prevista per la generalità delle operazioni bancarie. e. Ancora con riferimento al profilo di cui ci stiamo occupando, vale a dire quello dell’“adeguamento” della disciplina della trasparenza alle effettive esigenze (informative e di riequilibrio) delle controparti delle banche, meritano di essere segnalate due cose. - La prima è che comincia ad avvertirsi sempre più nitidamente la necessità di evitare l’eccesso di informazioni, che poi si traduce in disinformazione. Di qui, per esempio, le semplificazioni operate dalle istruzioni di vigilanza del 2009 e l’insistenza di queste sulla chiarezza e semplicità delle informazioni (con un mutamento di impostazione – mi pare di poter dire – rispetto alle istruzioni del 2003, che avevano portato ad un sovraccarico di documenti). Di qui, con riferimento alle informazioni precontrattuali nel credito al consumo, le puntigliose precisazioni, sia nella direttiva sia nella normativa nazionale di attuazione, in ordine alla distinzione fra le informazioni necessarie, che sono specificate nella direttiva medesima e debbono essere contenute in un apposito modulo denominato “Informazioni europee di base relative al credito ai consumatori”, e le informazioni aggiuntive (facoltative) che debbono essere contenute in un documento diverso.
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Stando alla Relazione al d.lgs. n. 141/2010, spia di questa consapevolezza sembrerebbe potersi rinvenire oggi anche nella modifica dell’art. 119 t.u.b., relativo alle comunicazioni periodiche alla clientela. Il testo originario prevedeva l’obbligo di fornire al cliente almeno una volta all’anno una “comunicazione completa e chiara in merito allo svolgimento del rapporto”. Il nuovo testo prevede l’obbligo di fornire una “comunicazione chiara in merito allo svolgimento del rapporto”, con l’eliminazione quindi dell’aggettivo “completa”. La modifica è spiegata, nella ricordata relazione, con l’esigenza di rimettere alla normativa secondaria l’indicazione del contenuto della comunicazione nell’ottica di evitare – si dice testualmente – “che l’eccesso di informazioni su punti non essenziali pregiudichi l’obiettivo di fornire alla clientela comunicazioni semplici e chiare”. Si tratta di una spiegazione che non convince affatto e che anzi rischia di ingenerare pericolosi equivoci. La trasparenza richiede sempre, di per sé, la completezza dell’informazione: un’informazione incompleta è di per sé inadeguata e quindi inidonea a realizzare gli obiettivi della trasparenza. Malamente dunque è stato posto un problema di completezza/incompletezza: esisteva ed esiste, invece, solo un problema di specificazione dei dati che la comunicazione periodica deve contenere per assicurarne la completezza senza cadere nella sovrabbondanza. - La seconda cosa da segnalare è che è rimasta tuttora irrisolta la questione del significato da attribuire, nella disciplina di cui ci stiamo occupando, al termine “condizioni”. Il dubbio è noto: si tratta di stabilire se quel termine debba essere inteso, in mancanza di specificazioni, in senso ampio, nel senso cioè di clausola contrattuale in genere, o in senso ristretto, nel senso cioè di clausola a contenuto economico. Ed è un dubbio la cui soluzione ha implicazioni di notevole rilievo, incidendo sulla portata da assegnare allo ius variandi o alla regola della nullità del rinvio agli usi. Personalmente sono sempre stato convinto che il termine “condizioni” nella normativa sulla trasparenza bancaria dovesse e debba essere inteso nel senso di clausole a contenuto economico; e sulla stessa linea mi pare che si sia collocata la dottrina prevalente. Non avrebbe guastato, però, una esplicita presa di posizione sul punto da parte del legislatore del 2010. 4. Sul terzo profilo a. Le discipline di trasparenza hanno assai spesso un oggetto complesso e, comunque, un oggetto complesso ha sempre avuto, ab origine, la disciplina di trasparenza in campo bancario. “Trasparenza”, di per sé, significa informazione completa ed adeguata; ma essa sempre più spesso è stata estesa a comprendere, nelle relazioni contrattuali, anche il
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“riequilibrio” delle posizioni reciproche delle parti (si parla, al riguardo, di trasparenza in senso stretto e di trasparenza in senso lato). Questa duplicità di oggetto ha contraddistinto le leggi del 1992 ed ha contraddistinto, e continua a contraddistinguere, la disciplina contenuta nel t.u.b., che accomuna prescrizioni concernenti propriamente l’informazione e prescrizioni concernenti il riequilibrio (fra le tante: quelle in materia di ius variandi, di anatocismo, di valute, ecc.). Talché, noto per inciso, il termine “trasparenza” usato nella rubrica del tit. V ed oggi riferito – dopo le modifiche del 2010 – non alle sole condizioni ma anche al rapporto nel suo complesso deve essere inteso appunto in senso lato. b. Quello che deve segnalarsi è che la disciplina di trasparenza nella materia che qui interessa sembra oggi tendere ad una estensione ulteriore del suo oggetto arrivando a comprendere, fra gli obblighi posti a carico delle banche, anche un obbligo di “assistenza” del cliente nelle scelte, un obbligo che potrebbe anche arrivare ad essere definito di consulenza. Di una simile tendenza potrebbero considerarsi espressione: - in materia di credito al consumo, la previsione dell’art. 124, co. 5, a norma della quale il finanziatore ha l’obbligo di fornire al consumatore chiarimenti adeguati in modo egli possa valutare se il contratto di credito proposto sia adatto alle sue esigenze ed alla sua situazione finanziaria; - sempre in materia di credito al consumo, la c.d. verifica del merito creditizio, di cui all’art. 124-bis; - in materia di operazioni bancarie in genere, la previsione delle istruzioni di vigilanza del 2009 (sez. XI, par. 2) secondo la quale le procedure interne debbono includere “accorgimenti atti a far sì che… il cliente non sia indirizzato verso prodotti evidentemente inadatti rispetto alle proprie esigenze finanziarie”; gli intermediari debbono valutare “l’introduzione di strumenti anche informatici, che consentano di verificare la coerenza tra il profilo del cliente e i prodotti allo stesso offerti”; gli intermediari, ancora, debbono adottare forme di remunerazione e valutazione dei propri dipendenti che “non costituiscano un incentivo a commercializzare prodotti non adeguati rispetto alle esigenze finanziarie dei clienti” (previsioni analoghe, posso aggiungere, sono contenute nel provvedimento B.I. 10 novembre 2009, in materia di cessione del quinto dello stipendio; e nel provvedimento B.I. 20 aprile 2010 in materia di credito revolving concesso con carte di credito). c. Per la verità, non è sempre facile apprezzare la reale portata di queste previsioni. Non tanto di quella dell’art. 124, co. 5, che – considerata insieme con la previsione del precedente co. 1 – mi parrebbe chiarissima nel senso, appunto, che l’intermediario, dovendo fornire le
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informazioni atte a consentire al consumatore di valutare se il contratto proposto sia adatto alle sue esigenze ed alla sua situazione finanziaria, deve in sostanza aiutare il consumatore a scegliere fra le diverse offerte sul mercato; quanto delle altre due. - Cominciamo dall’art. 124-bis. Tale articolo stabilisce che “Prima della conclusione del contratto di credito, il finanziatore valuta il merito creditizio del consumatore sulla base di informazioni adeguate, se del caso fornite dal consumatore stesso e, ove necessario, ottenute consultando una banca dati pertinente” e che, nell’ipotesi di modifica in aumento dell’importo totale del credito, “il finanziatore aggiorna le informazioni finanziarie di cui dispone riguardo al consumatore e valuta il merito creditizio del medesimo prima di procedere ad un aumento significativo dell’importo totale del credito”. Ad una prima lettura, la disposizione sembrerebbe costituire semplice, quanto, superflua formalizzazione di una regola di comportamento che caratterizza da sempre l’attività degli intermediari creditizi. Le cose non stanno però così. La disposizione riproduce pressoché testualmente l’art. 8 della direttiva comunitaria. Questo articolo – il quale ha rappresentato il frutto di un dibattito vivace che ha ruotato intorno alla nozione di “credito responsabile” – è stato oggetto di letture diverse, alcune delle quali fortemente riduttive (per esempio: si è sostenuto, detto in estrema sintesi, che l’obbligo del finanziatore avrebbe ad oggetto l’adeguatezza delle informazioni da richiedere e da fornire, non l’adeguatezza del prodotto). A me sembra che il senso dell’art. 8 emerga, in realtà, nitidamente dal considerando 26 della medesima direttiva, nel quale si dice: “In un mercato creditizio in espansione… è importante che i creditori non concedano credito in modo irresponsabile o non emettano crediti senza preliminare valutazione del merito creditizio, e gli Stati membri dovrebbero effettuare la necessaria vigilanza per evitare tale comportamento e dovrebbero determinare i mezzi necessari per sanzionare i creditori qualora ciò si verificasse… I creditori dovrebbero avere la responsabilità di verificare individualmente il merito creditizio dei consumatori”. L’obiettivo che il legislatore, comunitario prima e nazionale poi, vuole conseguire risulta a questo punto evidente: imponendo al finanziatore l’obbligo di valutare il merito creditizio, e di valutarlo individualmente, sia al momento della conclusione del contratto sia nel corso di questo, si mira a far sì che la misura del finanziamento non ecceda la capacità di restituzione da parte del finanziato, innescando meccanismi di sovraindebitamento; a far sì, in altri termini, che il finanziamento sia, anche sotto questo specifico profilo, adatto alla situazione del consumatore (è
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in questo senso che va intesa l’espressione, prima ricordata ed ormai entrata nel linguaggio comune, “credito responsabile”). Per questo aspetto, insomma, la previsione dell’art. 124-bis si coordina perfettamente – mi parrebbe – con la già ricordata previsione dell’art. 124, co. 5. La disposizione che stiamo esaminando prospetta, naturalmente, molti interrogativi, alcuni dei quali di rilevanza cruciale. Un primo interrogativo è se il finanziatore sia vincolato nelle sue scelte all’esito della valutazione del merito creditizio e, in particolare, se abbia l’obbligo di non concedere il finanziamento ove la valutazione del merito di credito sia negativa: sarei orientato, almeno per quest’ultimo specifico quesito, a rispondere affermativamente. Ancor più cruciale è un secondo interrogativo: la violazione dell’obbligo (o degli obblighi) sancito (sanciti) nell’art. 124-bis rileva solo sul terreno delle sanzioni amministrative o anche sul piano del rapporto con il consumatore? In altri termini: il consumatore può agire in responsabilità nei confronti del finanziatore ove quest’ultimo abbia concesso un finanziamento “non adatto” alla capacità di restituzione del finanziato, omettendo del tutto di valutare il merito creditizio oppure disattendendo l’esito di tale valutazione? La risposta è tutt’altro che agevole ed in argomento si sono già profilati orientamenti diversi. Non ho la possibilità in questa sede di procedere ai necessari approfondimenti. Mi limito a ricordare che il problema è analogo a quello che si pone nell’ambito della nota tematica della “responsabilità per concessione abusiva di credito”, dove si discute se tale responsabilità sia configurabile anche nei confronti appunto della stessa impresa beneficiaria del credito. In quel contesto si tende ad escluderlo, rilevando che la concessione di credito viene normalmente richiesta dallo stesso debitore, il quale pertanto, in principio ed in generale, non avrebbe certo titolo per dolersi successivamente del pregiudizio che possa essergliene eventualmente derivato. Non è sicuro, però, che questa risposta possa valere anche nel nostro caso. Qui la legge impone al finanziatore un preciso obbligo di “aiutare” il consumatore ad effettuare scelte coerenti con la propria situazione finanziaria attuale e prospettica: l’inosservanza di questo obbligo, certamente posto a tutela dell’interesse del consumatore, potrebbe ritenersi di per sé fonte di responsabilità risarcitoria, il comportamento del consumatore potendo allora assumere rilevanza solo nei termini di cui all’art. 1227 c.c. - Passiamo alle istruzioni di vigilanza. In queste istruzioni, come ho detto, si stabilisce che le procedure interne debbono includere “accorgimenti atti a far sì che… il cliente non sia indirizzato verso prodotti evidentemente inadatti rispetto alle proprie esigenze finanziarie” e che gli intermediari debbono valutare “l’introduzione di strumenti anche
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informatici, che consentano di verificare la coerenza tra il profilo del cliente e i prodotti allo stesso offerti” ed evitare di incentivare la commercializzazione di “prodotti non adeguati rispetto alle esigenze finanziarie dei clienti”. Al di là della cautela di tali formulazioni, non sembra possibile dubitare che queste prescrizioni introducano, nel tessuto delle relazioni banca-cliente, un obbligo di verifica, da parte della banca, dal contenuto assai simile, se non identico, a quello posto a carico degli intermediari finanziari: parlare di prodotti inadatti (o non adeguati) rispetto alle esigenze finanziarie del cliente o di coerenza fra il profilo del cliente ed i prodotti allo stesso offerti significa parlare di qualcosa di molto simile all’adeguatezza che gli intermediari finanziari debbono valutare ai sensi, oggi, dell’art. 40 reg. Consob. Né la “somiglianza” fra i due tipi di verifiche o valutazioni è attenuata da ciò che non sia espressamente previsto un obbligo per la banca di assumere dal cliente informazioni specifiche a quei fini: a parte che tale obbligo potrebbe tranquillamente ritenersi implicito, le relazioni banca-cliente, per la loro stessa natura, presuppongono sempre o implicano flussi di informazioni dal secondo alla prima idonei a consentire simili verifiche. Il problema, di nuovo, è se queste prescrizioni, che s’inseriscono nella disciplina dell’organizzazione della banca, rilevino solo sul piano dei rapporti con l’autorità di vigilanza o anche sul piano delle relazioni con i clienti. Credo che la risposta debba essere in questo secondo senso. Ricordo qui quanto ho avuto occasione, altra volta, di rilevare con riguardo proprio alla disciplina degli intermediari finanziari. E cioè che anche gli obblighi organizzativi sono suscettibili di assumere rilevanza esterna, nel senso che la controparte di un intermediario finanziario, come di una banca, ha la possibilità, io credo, non soltanto di contestare il comportamento tenuto dall’intermediario o dalla banca nello specifico rapporto, ma anche di contestare e far sindacare da un giudice il modo in cui, a livello interno, l’intermediario o la banca si siano operativamente organizzati. Mi pare dunque sicuro – e di sicura rilevanza – l’“ampliamento” del territorio della trasparenza: non più solo l’informazione ed il riequilibrio, ma anche l’assistenza o, se si preferisce, la consulenza. È un ampliamento che potrebbe essere ricondotto – come del resto la trasparenza in senso stretto – alla regola generale della correttezza (che certamente può includere anche obblighi di protezione della controparte); è un ampliamento che altri settori hanno già conosciuto: mi riferisco, ovviamente, al settore finanziario; è un ampliamento, infine, che potrà far emergere nuovi, delicati profili di responsabilità delle banche, rispetto ai quali è agevole prevedere il riproporsi dei noti problemi agitati in tema di responsabilità degli intermediari finanziari.
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5. Le considerazioni appena svolte in punto di possibile emersione di nuovi e delicati profili di responsabilità delle banche sollecitano un altro ordine di riflessioni. Anche le normative che stiamo considerando – come, prima, le normative in materia di servizi di investimento – sono contrassegnate dal pressoché totale disinteresse per i rimedi privatistici alle violazioni degli obblighi posti da quelle normative: di rado sono precisate le conseguenze, in termini civilistici, della violazione degli obblighi imposti agli intermediari; men che meno è delineato il regime di responsabilità dei medesimi. Sia il legislatore comunitario che quello nazionale continuano dunque ad affidare il c.d. enforcement alle sanzioni amministrative (che infatti il d.lgs. n. 141/2010 ha affinato e rafforzato), limitandosi per il resto ad incentivare procedure per la risoluzione extragiudiziale delle controversie. Si tratta di una lacuna, a mio avviso, assai grave. Da un lato, il particolare regime fatto alle relazioni contrattuali banche-clienti esige un appropriato completamento in termini appunto di rimedi privatistici e, specificamente, di responsabilità risarcitoria: un completamento che è condizione di efficienza di quel regime e non può essere, o non può essere completamente, assicurato dal diritto comune (come l’esperienza in materia di servizi di investimento ha dimostrato). Dall’altro, rimettere alle sanzioni amministrative il ruolo di anello di chiusura del sistema significa accentuare ulteriormente la già rilevante concentrazione delle tutele in capo all’autorità di vigilanza. Senza considerare, poi, che la mancanza di linee guida comunitarie su questo aspetto rischia di far riemergere quelle disomogeneità di posizioni e di trattamenti nei singoli ordinamenti che le normative comunitarie intendono invece superare. 6. Mi avvio rapidamente alla conclusione Le normative che abbiamo preso in considerazione certamente tendono in principio, nella loro globalità, alla valorizzazione della consapevolezza del cliente: gli obblighi informativi posti a carico della banca mirano proprio a consentire al cliente scelte, appunto, consapevoli, soprattutto quando si tratti di consumatori. E questa linea non può, in generale, che essere condivisa. Queste normative, però, in più punti tradiscono una visione, al fondo, “paternalistica”: così è da dire, specificamente, quanto alla previsione di obblighi di assistenza o, se si preferisce, di consulenza; ma anche quanto alla concentrazione delle tutele in capo all’autorità di vigilanza. E tutto questo rischia di costituire un incentivo, in realtà, alla deresponsabilizzazione dei clienti. Non so se ciò sia inevitabile. Credo, però, che – come altra volta ho sottolineato – si debba compiere il massimo sforzo per potenziare la
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spinta delle banche e dei loro clienti verso una maggiore cultura della correttezza e dell’autoresponsabilità, come criteri o esigenze che debbono essere soddisfatti spontaneamente, senza tutele di sorta. Un ruolo importante, sotto questo aspetto, può naturalmente svolgere l’educazione finanziaria dei cittadini: e ricordo a quest’ultimo proposito che nel considerando 26 della direttiva sul credito al consumo, già prima ricordato, fra le misure che gli stati membri dovrebbero adottare per promuovere “pratiche responsabili” nel rapporto di credito è espressamente menzionata proprio “l’educazione dei consumatori”; che pendono in Parlamento proposte di legge in materia; che c’è stato un protocollo di intesa al riguardo, sottoscritto nel giugno 2010 dalle Autorità indipendenti (Banca d’Italia, ISVAP, ecc.). Ma, forse, occorrerebbe pensare anche a qualcos’altro.
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Fra “mercato” e “società”: a proposito di venture capital e drag-along * 1. Noto è il ruolo centrale nelle vicende di venture capital, e più ampiamente di private equity 1, del momento della liquidazione dell’investimento, quello che ci stiamo abituando a chiamare exit. Contribuisce a ciò una serie di fattori, che può essere qui sufficiente ricordare in modo del tutto sommario. Il venture capitalist per un verso opera ponendosi come finalità precipua quella del conseguimento di un guadagno di capitale, il c.d. return on equity, ed interviene in contesti nei quali, almeno nella fase iniziale, trattandosi per lo più dello start up d’imprese caratterizzate da un alto tasso d’innovatività ovvero di operazioni di risanamento, anche in via di prognosi è esclusa l’eventualità della realizzazione e distribuzione di utili; per un altro verso ha esigenze strutturali e di mercato di nuovamente disporre,
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Destinato agli Scritti in ricordo di Pier Giusto Jaeger. Sento il dovere di ringraziare in limine due giovani studiosi, Alessandra Stabilini e Matteo Trapani, della scuola dell’amico cui queste pagine sono dedicate, per avermi fatto accostare alla tematica qui esaminata, che mi era in precedenza ignota, e per averla con me amichevolmente discussa. Segnalo quindi, per chi fosse interessato ad un ulteriore approfondimento dell’argomento, il paper da essi presentato nella giornata romana del 30 gennaio 2010 organizzata dall’associazione Orizzonti del diritto commerciale, con il titolo Clausole di drag-along e limiti dell’autonomia privata nelle società chiuse, e ora pubblicato in Riv. dir. comm., 2010, I, p. 949. 1 Per questo aspetto terminologico cfr. per tutti, rilevando che le due formule vengono per lo più utilizzate come interscambiabili, anche se a rigore l’espressione venture capital dovrebbe segnalare l’ipotesi più ristrette in cui si tratta di vicende di start-up, di recente Draxler, Private Equity Exit. Strategie und Vertragsgestaltung, Wien-New York, 2010, p. 3; e da noi Szego, Il venture capital come strumento per lo sviluppo delle piccole e medie imprese: un’analisi di adeguatezza dell’ordinamento italiano, in Banca d’Italia. Quaderni di ricerca giuridica della consulenza legale, n. 55, Giugno 2002, p. 15; cfr. anche, oltre ai lavori di seguito segnalati, la sintetica descrizione dell’operazione in Bratton, Corporate Finance. Cases and Materials, New York, 2003, p. 468 ss.
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dopo un arco temporale non eccessivamente ampio, del capitale investito. In particolare, per quanto concerne il secondo aspetto, la sua attività si articola tipicamente in una pluralità di fasi: che iniziano con la raccolta dei capitali presso gli investitori, il loro investimento nell’impresa prescelta, il ricavo di un capital gain mediante la sua liquidazione. E l’ultima fase è essenziale, poiché è quella che consente di retrocedere il ricavato agli investitori e, soddisfacendo gli interessi di questi ultimi, di creare quel grado di confidenza che può indurli a investire nuovamente tramite il medesimo venture capitalist: fase essenziale, inoltre, poiché in grado di segnalare al mercato i risultati raggiunti e determinare così la propria posizione in esso 2. D’altra parte, in sede di avvio dell’operazione non è possibile una precisa definizione delle modalità e della tempistica della liquidazione dell’investimento: esse, in effetti, dipendono sia dalla situazione generale del mercato, per esempio per quanto riguarda la scelta tra la tecnica del going public ovvero del trade sale, sia dall’andamento concreto dell’impresa interessata dall’operazione. Sicché, e non credo vi sia bisogno di soffermarsi sul punto, inevitabilmente si delinea una situazione corrispondente a quella del «contratto incompleto»: con la conseguente esigenza di meccanismi per la sua governance, di criteri cioè e in definitiva dell’attribuzione di «poteri decisionali» per la scelta in concreto della soluzione da adottare 3. Questa esigenza presenta inoltre, in tal caso, caratteristiche specifiche che valgono a ulteriormente sottolinearla. Ciò avviene soprattutto
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Cfr., per una sintesi di questi aspetti, Gordon Smith, The Exit Structure of Venture Capital, in UCLA Law Review, 53 (2005), p. 315 (a p. 316 e 345); v. pure, segnalando l’importanza per l’intera operazione del momento dell’exit, Aghion-Bolton-Tirole, Exit Options in Corporate Finance: Liquidity versus Incentives, in Review of Finance, 8 (2004), p. 327; Dubocage-Rivaud-Danset, Le capital-risque, Paris, 2006, p. 20; B. Szego, Il venture, cit., p. 26 s.; e, sottolineando il suo ruolo per il reputation market, Gilson, Engineering a Venture Capital Market: Lessons from the American Experience, in Stanford Law Review, 55 (2003), p. 1067 (a p. 1085 ss.). 3 E non interessa qui, naturalmente, discutere della questione, soprattutto teorica, se questa esigenza di un residual power, per l’evenienze in cui il contratto, a seguito della sua «incompletezza», non sia in grado di disciplinare ex ante, debba e/o possa essere configurata come attribuzione di property rights: cfr. comunque, per una prima informazione sul punto, oltre ovviamente a Hart, Firms, Contracts and Financial Structures, Clarendon Press, Oxford, 1995, spec. p. 29 ss., la sintesi e discussione in Barzel, Economic Analysis of Property Rights, Cambridge University Press, Cambridge, 1997, p. 13 ss. e, in termini più analitici, p. 75 ss. Interessa soltanto sottolineare che nella vicenda di venture capital risultano per certi aspetti esasperati i problemi tipici di ogni financial contract: quelli caratterizzati da una situazione di «uncertainty, information asymmetry, and opportunism in the form of agency costs»: così ancora Gilson, Engineering, cit., p. 1076 s.
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nell’ipotesi, del resto quella di gran lunga più praticata nel mercato europeo, in cui per la liquidazione dell’investimento si utilizza la tecnica del trade sale, la cessione cioè della partecipazione ad altro operatore industriale 4: in tal caso, infatti, al fine di poter compiutamente estrarre il valore dell’impresa, la c.d. portfolio company, è opportuno, ma in realtà sostanzialmente necessario, poter trasferire all’acquirente almeno il suo controllo; e in tal caso, allora, emerge con chiarezza la potenziale divergenza d’interessi fra il venture capitalist e il suo partner industriale 5. Si tratta in primo luogo, per esprimerci in estrema sintesi, del loro diverso orizzonte temporale, che per l’uno è definito dal significato finanziario della vicenda e per l’altro da quello appunto industriale. Si tratta inoltre della circostanza che il partner industriale, poiché professionalmente interessato agli esiti non solo monetari della portfolio company, potrebbe essere in grado di ricavarne anche ulteriori benefici, potremmo dire «benefici privati» 6. Ed è fin d’ora evidente che questa «incompletezza» del contratto e questa (almeno potenziale) divergenza d’interessi implicano, in certo modo per definizione, l’eventualità di comportamenti opportunistici: con il pericolo, qualora non s’individuino regole di governance in grado di circoscriverli, che essi rappresentino in una valutazione ex ante un costo tale da indurre ad astenersi dall’operazione e così da provocare una perdita dei risultati in termini di efficienza che se ne potrebbero attendere.
4 Per tale constatazione e per una rassegna delle differenti possibili strategie di exit, cfr. di recente Draxler, Private, cit., p. 95 ss.; v. pure, tra gli altri, Dubocage-Rivaud-Danset, Le capital-risque, cit., p. 72; Lazar, Vertragsgestaltung und Vertragsverhandlung. Die Regelung des sogenannten Exit, und zwar primär des VC-Gebers, aber auch der Initiatoren (der VC-Interessenten) und der Milestones, Nordestedt, 2009, p. 12; e Winkler, Rechtsfragen der Venture Capital Finanzierung, Berlin, 2004, p. 27. 5 Una divergenza di interessi, che se si vuole possiamo descrivere come fonte di un agency problem, che si presenta in termini particolarmente marcati e più incisivi di quanto rilevabile in altri rapporti di collaborazione di durata: ciò per la spiccata asimmetria informativa fra partner industriale, colui la cui idea tecnologica e/o imprenditoriale è all’origine dell’operazione, ed il venture capitalist; ed inoltre in quanto la disomogeneità delle posizioni di partenza delle due parti e la intrinseca differenza tra prospettive imprenditoriali ed altre finanziarie già ex ante delineano una situazione di conflitto: e v. per tutti, per una sintetica descrizione sul piano tecnico di tali aspetti Cherif, Le capital-risque, Paris, 2008, p. 103 ss. Sicché risulta a priori insufficiente affidarsi alla tecnica in via generale prevista dagli ordinamenti per i problemi del «contratto incompleto», quella che utilizza clausole generali come i principi di correttezza, buona fede ed altri paragonabili; ed appare necessario elaborare specifiche soluzioni contrattuali come quelle cui qui si vuole accennare. 6 Entrambi gli aspetti sono stati da tempo individuati: v. per tutti Draxler, Private, cit., p. 5; e Gordon Smith, The Exit, cit., p. 318.
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Tali comportamenti «opportunistici» corrispondono sostanzialmente a profili da tempo individuati e che, nell’ipotesi del venture capital, sono in certo modo esasperati. Essa infatti, poiché ab origine volta al conseguimento di un capital gain mediante il successivo trasferimento del controllo dell’impresa, implica inevitabilmente i problemi che si pongono quando tale trasferimento concerne un’impresa societaria; richiede perciò la predisposizione ex ante di strumenti (se si vuol dire: di governance) per risolverli. Sono temi già ben conosciuti in sede generale, al punto da potersi considerare banale il loro richiamo. Si tratta per un verso della constatazione che chi ha il «potere» di trasferire ad altri il controllo di una società è in grado anche di trasferire i «benefici privati» che vi si connettono e così di estrarre un corrispettivo che comprende pure la possibilità di comportamenti opportunistici i cui costi si pongono in definitiva a carico degli altri soci. E si tratta, per un altro verso, della constatazione che i soci diversi dal titolare di quel «potere» possono adottare comportamenti di holdouts o freeridings: così in sostanza incidendo, almeno dal punto di vista quantitativo, sui vantaggi attesi dall’acquirente e in tal modo sulla convenienza e sulla praticabilità stessa dell’operazione 7. Entrambi gli aspetti sono stati ampiamente approfonditi nel contesto delle società quotate e per entrambi, con riferimento a tale contesto, interviene il legislatore. Ad essi provvedono, per quanto concerne il primo, la disciplina dell’opa obbligatoria e inoltre, in termini ancora più specifici, regole come quella posta dall’art. 108 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58; e, con riferimento al secondo, soluzioni tipo quella prevista nell’art. 111 del medesimo decreto. Soluzioni le quali in definitiva condividono la caratteristica di utilizzare parametri desunti da vicende di mercato (coerentemente del resto con quel contesto) e che si distinguono in quanto, volendo utilizzare una nota caratterizzazione, la prima si pone in termini di property rule e la seconda di liability rule 8.
7 I due profili, in effetti presenti in ogni analisi del tema, sono di recente soprattutto sottolineati da Sáez LacaveBeramejo Gutiérrez, Inversiones especificas, oportunismus y contrato de sociedad, (2007), in www.indret.com, p. 8, ove si caratterizza il primo come rischio di espropriazione, in grado di pregiudicare gli investimenti specifici del partner, ed il secondo come rischio di estorsione o hold-up. 8 Intendo dire che con l’art. 108, t.u.f., si attribuisce al socio di minoranza un «diritto» di pretendere l’altrui prestazione; mentre con l’art. 111 al socio di maggioranza è attribuito il «potere» di incidere sulla, ed in sostanza di appropriarsi della, posizione giuridica della minoranza mediante la prestazione di un indennizzo. E v., per una ricostruzione dell’intera vicenda dello squeeze-out in una prospettiva di Aufopferungsrecht,
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Molto minore è stato l’interesse per questi temi nel contesto delle società «chiuse» 9, quello in effetti proprio delle operazioni di venture capital. Ad essi si tenta allora di provvedere elaborando apposite tecniche di tipo contrattuale. Ed è significativo che con tali tecniche ci si muova su un piano di sostanziale simmetria con quelle legislative appena accennate. Per il primo ordine di problemi è stata così elaborata una clausola di c.d. tag-along, con la quale cioè si riconosce al socio che non prende l’iniziativa di trasferire il controllo il diritto di partecipare all’operazione vendendo alle stesse condizioni anche la propria partecipazione; per il secondo la clausola di c.d. drag-along, che attribuisce a chi negozia il controllo il potere di vendere, di nuovo alle stesse condizioni, pure le partecipazioni degli altri soci. In entrambe le situazioni, sia in quelle considerate nel t.u.f. sia in quelle che qui si propone di esaminare, obiettivo è ridurre il potenziale opportunistico implicito nell’operazione di trasferimento del controllo: il pericolo di opportunismo di chi detiene il relativo potere e, correlativamente, quello di chi può utilizzarla come occasione per estrarne benefici non proporzionali alla propria partecipazione e così aumentare i costi dell’operazione medesima. Il confronto tra le due soluzioni, quella legislativa e quella perseguita con le clausole contrattuali accennate, potrebbe indurre, a seconda se in una prospettiva giuspolitica oppure di interpretazione del diritto positivo, a valutazioni simmetriche: da un lato traendo dalla prassi contrattuale conferma del ruolo che la legge svolge per le società quotate, un’attività di «mimesi» dei
inserendola cioè tra le ipotesi, come quelle che si pongono in tema di licenze obbligatorie o di essential facilities, in cui ad un soggetto è consentito un Eingriff nell’altrui posizione giuridica, Klöhn, Das System der aktien- und umwandlungsrechtlichen Abfindungsansprüche, Tübingen, 2009, p. 160 ss.; cfr. pure, di recente proponendo la diffusa osservazione che il ruolo dello squeeze-out, la tecnica confrontabile con quella contrattuale del drag-along che qui si vuole esaminare, è in particolare impedire un free-riding per opera della minoranza e di limitarne le possibilità di utilizzazione opportunistica del proprio Expressungspotential, Schilling, Der Ausschluss von Mindeheitsaktionären, Wiesbaden, 2006, p. 162 ss. e p. 250 ss.; cfr. anche, da un punto di vista tecnico-economico, l’analisi di U. Rathausky, Squeeze-out in Deutschland. Empirischökonomische Analyse im Spannungsfeld zwischen Unternehmenswert und Minderheitsaktionärspartizipation, Baden-Baden, 2008, p. 73 ss.; e, per una precisazione delle differenze concettuali fra i due temi, spesso in effetti identificati, del holdout e del freeriding, Cohen, Holdouts, in The New Palgrave Dictionary of Economics and the Law, London, 1998, p. 236 ss. 9 Cfr. però l’apprezzabile tentativo di Stella Richter jr., “Trasferimento del controllo” e rapporti tra soci, Milano, 1996, spec. p. 231 ss.
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risultati cui potrebbe pervenire il contratto in assenza di costi di transazione, integrando in tal modo un contratto che tali costi rendono necessariamente «incompleto»; dall’altro l’individuazione di un’ipotesi in cui i privati adattano regole presenti nella legge a contesti diversi da quelli per cui sono state dettate e, per così dire, sopperiscono al deficit informativo del legislatore 10. 2. Si comprende d’altra parte perché, dal punto di vista del giurista positivo, l’attenzione si sia soprattutto volta alla clausola di drag-along: essa infatti, poiché attribuisce un «potere» concernente la disponibilità di partecipazioni altrui, un potere che potrebbe sembrare di «esproprio», pone immediatamente la questione della sua giustificazione. Ci si chiede se, come e a quali condizioni possa essere validamente attribuito (e poi esercitato) quel «potere»: la scelta di autonomia privata cioè che, riferendosi al nostro contesto del venture capital, vuole risolvere ex ante la segnalata divergenza d’interessi tra il venture capitalist e il partner industriale attribuendo al primo il potere di scelta del momento in cui concludere, e per entrambe le parti, la vicenda, quindi anche in un momento che potrebbe non essere conveniente per il secondo 11, e così di «trascinare» nella dismissione anche la sua partecipazione.
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Potendosi così evocare il tema generalissimo della ricerca dei migliori rapporti tra intervento del legislatore e soluzioni di autonomia privata e, in definitiva, dei limiti che entrambi incontrano sul piano della «efficienza»: e v. per tutti il recente esame della questione, che in definitiva coinvolge il senso dell’economia liberale, in Bechtold, Die Grenzen zwingenden Vertragsrechts, Tübingen, 2010, spec., con riferimento a aspetti qui di più immediato interesse, p. 121 ss. e p. 157 ss. 11 Problemi certamente minori pone la clausola di tag-along, la quale attribuisce al socio, fondamentalmente di minoranza, una tutela nei confronti del rischio di scelte «opportuniste» di altro socio, soprattutto ovviamente quello di maggioranza, in sede di vendita della propria partecipazione, il rischio in sostanza di essere «espropriato» di parte del valore del proprio investimento, e gli attribuisce perciò il diritto di partecipare all’operazione di vendita. Una questione che potrebbe risultarne è se ed in che senso il vincolo che viene in tal modo imposto di non alienare senza garantire la partecipazione dell’altro socio possa essere inteso come limite alla circolazione delle azioni e così, per esempio, sottoposto alle discipline dell’art. 2341 bis c.c. e dell’art. 122, t.u.f. Un tema, invero, privo di reale rilevanza applicativa per quanto concerne il secondo, se non altro in quanto quel tipo di clausola è estranea alla prassi delle società quotate, ove del resto la disciplina dell’opa obbligatoria ne esclude l’esigenza: v. comunque, per tale qualificazione, Picciau, in La disciplina delle società quotate. Commentario a cura di Marchetti e Bianchi, I, Milano, 1999, p. 862. Ed un problema che presenta invece non trascurabili profili di delicatezza con riferimento alla norma codicistica: e v. per tutti l’attenta analisi di C. d’Alessandro, Patti di «co-vendita» (tag along e drag along), in Riv. dir. civ., 2010, I, 373 (p. 388 ss.).
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In termini analitici la questione potrebbe articolarsi in almeno due aspetti: quello generalissimo riguardante l’interrogativo se e in che senso l’autonomia privata può estendere e adattare ad altri contesti soluzioni come quella legislativa del ricordato art. 111, t.u.f. 12; e quello, di più immediata rilevanza applicativa, se le modalità con cui in concreto avviene quel «trascinamento», la circostanza in particolare che esso richiede identiche condizioni per il trasferimento di tutte le partecipazioni, non pongano specifiche esigenze di tutela per il socio che verrebbe «trascinato». E credo significativo, se non altro come indice di un generale atteggiamento, che soprattutto al secondo aspetto sia volta recentemente l’attenzione della giurisprudenza 13 e della letteratura giuridica 14. Della clausola drag-along è stata soprattutto considerata la portata di attribuire un «potere» il quale riguarda non soltanto il momento della vendita, ma anche la determinazione del prezzo (e più in generale le condizioni dell’operazione 15), che necessariamente deve essere lo stesso per l’intera partecipazione e che pertanto risulta dall’accordo con il terzo senza alcuna partecipazione del socio che viene «trascinato». E ci si è chiesto,
12 Si avrà anche in seguito occasione di accennare alle differenze qualitative, ed in effetti alla vera e propria non comparabilità, in particolare in termini di tutela di diritto costituzionale, tra l’ipotesi in cui la legge conferisce ad un privato il potere di «espropriare» un altro e quella nella quale tale potere è attribuito convenzionalmente con contratto: se non altro in quanto, nella seconda ipotesi, la ricerca di un equilibrio tra gli interessi dei soggetti coinvolti non necessariamente è un compito dell’ordinamento, ma può spontaneamente essere affidata all’autonomia delle parti; e v. fin d’ora, proprio discutendo il nostro specifico tema, gli spunti di Becker, Die Zulässigkeit von Hinauskündigunsklauseln nach freien Ermessen im Gesellschaftsvertrag. Zugleich eine Besprechung von Russian Roulette, Texan Shoot Out-und Drag-along-Klauseln, Frankfurt am Main, 2010, p. 112 ss. 13 Ciò è avvenuto di recente in occasione di un caso giudiziario, cui si deve l’emersione del problema anche in dottrina, quello affrontato, in sede cautelare, dal Trib. Milano, 1 aprile 2008, in Giur. comm., 2009, II, 1029, con nota di Fabbrini, Validità delle clausole statutarie di drag along; e in Società, 2008, 1373, con commento di Di Bitonto; e poi dal Lodo arbitrale, 29 luglio 2008, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 493, con nota di Giampaolino, Clausola di co-vendita (drag-along) e “equa valorizzazione” dell’azione. 14 Mi riferisco soprattutto all’approfondito saggio, prima ricordato, di Stabilini e Trapani, cui adde De Luca, Validità delle clausole di trascinamento (“drag-along”), in Banca, borsa, tit. cred., 2009, I, 174; e C. d’Alessandro, Patti di «co-vendita», cit. 15 Merita in proposito di essere segnalato che il caso giudiziario ricordato a nt. 13 si caratterizzava in effetti per la circostanza che tra le condizioni pattuite con il terzo per il trasferimento delle azioni vi era anche quella di una rinuncia a proporre azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori: un profilo istintivamente in grado di giustificare il sospetto di un abuso (e v. in particolare Lodo arbitrale, (nt. 13), 519).
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specificamente riguardo a questo secondo aspetto, se e quali possano essere i mezzi di tutela per prevenire o reprimere abusi in suo danno, in definitiva per assicurargli un adeguato corrispettivo per la perdita della sua partecipazione 16. Già così, se non m’inganno, diviene evidente che alla base del tema si pone, almeno per implicito, l’assunto che esso presenti caratteristiche in grado di distinguerlo rispetto a quanto consueto nelle operazioni di scambio: ove in via di principio l’ordinamento non richiede che il prezzo sia necessariamente «adeguato», e ove è certamente possibile che sia attribuito ad altri il potere di determinarlo e che tale determinazione sia efficace salvo il limite generale dell’«abuso» 17. In effetti, nessun dubbio potrebbe porsi riguardo a un patto analogo in altri contesti: quando per esempio, nel caso di una comunione, si convenga di attribuire a uno dei comproprietari il potere di vendere a terzi anche la quota degli altri, e così l’intero bene, a un prezzo per tutti omogeneo 18. Non saprei in tal caso ravvisare un’esigenza di tutela preventiva, sul piano della validità del patto, e credo che essa possa porsi solo in sede successiva, riguardo cioè alle modalità della sua esecuzione, per esempio in applicazione del principio generale di buona fede e di quelli più specifici adeguati alla concreta fattispecie. Se così è, come mi sembra certo, non è difficile ravvisare all’origine stessa del modo in cui è ora discussa la clausola in questione la sensazione che la sua analisi non si possa esaurire nell’applicazione dei principi vigenti in tema di operazioni contrattuali di scambio, ma richieda
16 Il che, a ben guardare, evidenzia due temi centrali per la comprensione della vicenda: se ed in che senso si giustifica, nella fattispecie considerata, un’esigenza di «adeguatezza» del corrispettivo, in via di principio in effetti assente nelle operazioni negoziali di scambio; e se, proponendosi l’obiettivo di impedire «abusi», strategia più corretta sia quella preventiva, che per il loro pericolo commina l’invalidità della clausola, ma allora ne preclude anche i possibili benefici in termini di efficienza, ovvero l’altra repressiva, che interviene quando un abuso si è concretamente attuato. 17 Non credo vi sia bisogno di soffermarsi a sottolineare che in via di principio l’ordinamento non esclude l’eventualità che ad altri sia convenzionalmente attribuito il potere di determinare le condizioni per l’alienazione di un diritto. Basta pensare alle ipotesi dell’art. 1349 c.c. ed a quella stessa del mandato, con o senza rappresentanza (e v., per una qualificazione nel secondo senso della nostra fattispecie, il Lodo arbitrale, (nt. 13), 510 ss.): ipotesi nelle quali, significativamente rispetto a quanto accennato nella nota precedente, non vi è questione di validità, bensì di repressione degli eventuali abusi. 18 Per questo esempio, a mio parere del tutto convincente, cfr. ancora Lodo arbitrale, (nt. 13), p. 507; e, riprendendolo, De Luca, Validità, cit., p. 177.
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la considerazione di un quid pluris. Una sensazione che credo meriti di essere criticamente esaminata e discussa. 3. Neppure è forse difficile comprendere ove possa in ipotesi essere individuato questo quid pluris: nella circostanza, evidente sul piano empirico, ma della cui rilevanza giuridica deve naturalmente discutersi, che oggetto dell’operazione non è semplicemente un «bene», bensì una partecipazione sociale: sicché suo risultato non è soltanto la variazione della composizione del patrimonio del socio «trascinato» (rispetto alla quale potrebbe porsi il solo problema della «giustificazione» di un’eventuale perdita 19), ma anche la cessazione della partecipazione medesima, se si vuol dire la perdita della qualità di socio. È ciò, se ben intendo, che dovrebbe giustificare un’impostazione del problema in termini non coincidenti con le prospettive generali per le operazioni contrattuali di scambio: la questione, cioè, se in non siano applicabili anche i principi del diritto societario, e in particolare gli strumenti di tutela del socio nell’ipotesi in cui può trovarsi a dover subire la perdita della sua posizione nella società 20. Il tema s’inserisce così in un più ampio dibattito: se e come esigenze dell’assetto d’interessi che l’ordinamento vuole caratterizzi la società, ad essa specifiche, possano e debbano riflettersi anche sulla valutazione di vicende che in primo luogo riguardano, come indubbiamente il patto in questione, rapporti interindividuali fra soci. Un nuovo capitolo, che si aggiunge a quelli già noti ove si pone l’interrogativo se e come le regole proprie del diritto societario, e l’esigenze di tutela cui esse s’ispirano, possano e/o debbano applicarsi pure alle operazioni negoziali tra i soci:
19 Vorrei ancora segnalare, collegandomi a quanto accennato a nt. 16, che le due strategie ivi delineate si distinguono, da un punto di vista tecnico-giuridico, in quanto l’una volge l’attenzione al profilo della causa genetica dell’operazione, perciò ponendo l’alternativa tra validità e invalidità, e l’altra al momento della esecuzione e degli eventuali abusi che con essa si verifichino 20 In effetti, potrebbe forse essere spontanea la sensazione che sul tema influisca, almeno in senso psicologico, il diffuso assunto che l’ordinamento riconosce una sorta di tutela assoluta ad un «diritto» alla conservazione della posizione di socio: il che peraltro risulta sempre più smentito dal diritto scritto (come per alcuni profili avremo occasione anche qui di constatare) e in ogni caso ancora non spiega se ciò debba intendersi esclusivamente sul piano dei rapporti endosocietari, in definitiva come limite ai poteri della maggioranza (coerentemente del resto con le finalità perseguite con tale assunto); oppure possa estendersi, ma allora, ritengo, sulla base di specifica argomentazione, anche alle vicende con cui i soci negoziano la propria partecipazione.
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la questione, cioè, se tale applicazione debba predicarsi in ogni caso nel quale viene coinvolta la partecipazione sociale, oppure essere circoscritta alle ipotesi ove assume rilievo (quello che io chiamerei) il significato organizzativo della società 21. 4. Il tema, da questo punto di vista generalissimo (al limite di un’insopportabile genericità), coinvolge argomenti di amplissima portata dogmatica: la delimitazione dei confini tra la dimensione dello «scambio» e quella della «società» e, con più diretto riferimento al modo in cui siamo abituati a impostare i problemi applicativi, tra la sfera del «parasociale» e del «sociale». Non è però certamente questa la sede per proporre un discorso che da tali argomenti prenda le mosse. Tanto più in pagine dedicate ad uno Studioso il quale, pienamente consapevole della dogmatica giuridica e della sua storia, non ha mai nascosto la propria insofferenza per indagini che volessero assumere come punto di partenza e/o di arrivo la dogmatica in quanto tale. Senza dubbio preferibile mi sembra una strategia analitica la quale muova dai dati tecnici, di diritto scritto, sulla cui base la questione applicativa è stata impostata: salvo poi, nei limiti del possibile, verificarne il ruolo ai fini di una più ampia prospettiva. Mi riferisco in particolare alla discussione se, ricercando una disciplina per la clausola di drag-along, debba ritenersi necessario, ai fini della sua validità, che siano rispettati, in sede di determinazione del prezzo di vendita, i criteri di valutazione previsti dalla legge nel caso di recesso 22: quei criteri che l’art. 2437 sexies c.c. richiama per l’ipotesi del riscatto e
21 Un tipo di problemi, del resto ormai ben noto, che si pone tra l’altro quando, con riferimento a vicende contrattuali con la società e/o altri soci, ci si interroga se e quale rilevanza a fini applicativi possa assumere il riconoscimento in concreto a loro fondamento di una causa societatis: e v., per un primo approccio al tema, il mio Note in tema di rapporti contrattuali tra soci e società, in Giur. comm., 1991, I, p. 681. 22 A tali criteri sembra riferirsi la massima n. 88 del Consiglio Notarile di Milano il 22 novembre 2005, secondo cui «si reputano legittime le clausole statutarie che prevedono, in caso di vendita di partecipazioni in s.p.a. o in s.r.l., il diritto e/o l’obbligo dei soci diversi dall’alienante di vendere contestualmente, a loro volta, le partecipazioni possedute; queste clausole, tuttavia, restano soggette alle disposizioni relative ai limiti alla circolazione delle partecipazioni, proprie dei rispettivi tipi sociali (s.p.a. o s.r.l.) e – ove prevedano l’obbligo di vendita – devono essere compatibili con il principio di una equa valorizzazione della partecipazione obbligatoriamente dismessa»; e v. pure l’esplicito riferimento in Trib. Milano, 1 aprile 2008, (nt. 13).
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che, in virtù di ciò, potrebbero ritenersi corrispondere a un’esigenza di portata generale, quindi presente anche nella nostra ipotesi, per l’eventualità che il socio sia soggetto all’altrui «potere» di sottrargli la partecipazione. Si presuppone in tal modo un duplice passaggio logico-argomentativo: la dimostrazione cioè che il richiamo della disciplina del recesso per opera di quella in tema di riscatto implica anche un richiamo della sua portata imperativa; e che la soluzione così dedotta per il riscatto merita di essere applicata inoltre al patto di drag-along. Ed entrambi i passaggi non possono esaurirsi su un piano meramente esegetico, ma richiedono una considerazione sostanziale degli assetti d’interesse a confronto, se si vuol dire una loro caratterizzazione tipologica. Ciò, per quanto riguarda il primo, direttamente risulta dallo stesso art. 2437 sexies c.c., quando richiama le disposizioni in tema di recesso «in quanto compatibili» ed espressamente pone così l’esigenza di un confronto degli interessi rilevanti nelle due fattispecie 23. Ma non è meno necessario per quanto riguarda il secondo passaggio logico-argomentativo, poiché evidentemente esso richiede che sulla base di un confronto fra la vicenda del riscatto e quella del patto di drag-along si possa ravvisare, almeno per il profilo in questione, un’omogeneità in grado di giustificare l’estensione al secondo delle soluzioni affermate per la prima. Necessaria è pertanto una ricerca delle ragioni che vogliono l’imperatività delle regole, e per quanto ci riguarda soprattutto quelle sui criteri di valutazione, in materia di recesso: ciò al fine di verificare se e quando tali ragioni siano ravvisabili anche in tema di azioni riscattabili e poi pure riguardo al patto di drag-along. 5. Quali potrebbero essere dunque le ragioni dell’imperatività della disciplina del recesso espressamente disposta dall’ultimo comma dell’art. 2437 c.c. 24? Come spiegare questa scelta dell’ordinamento, che potrebbe apparire «paternalistica»? Perché il legislatore ha ritenuto non
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Segnala fra gli altri questo dato letterale De Luca, Validità, cit., p. 182. Se il discorso potesse esaurirsi mediante una mera esegesi dei diritto scritto, potrebbe del resto essere significativo osservare che in effetti a tale disposizione l’art. 2437 sexies c. c. formalmente non rinvia: e v. lo spunto di Galletti, in Il nuovo diritto delle società. Commentario a cura di Maffei Alberti, II, Padova, 2005, p. 1638. Sicché ancora più necessario diviene, per chi vuole verificare l’imperatività oppure no nel caso di riscatto dei criteri di valutazione previsti per il recesso, un’analisi ed un confronto degli interessi rilevanti nelle due fattispecie. 24
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adeguato il principio generale dell’economia liberale che vuole una determinazione del prezzo mediante contrattazioni sul mercato, e neppure adeguata una soluzione imperniata sulla tecnica che si è voluto chiamare Regelungsauftrag 25? Se si vuol dire, ed io direi, in che senso nella visuale politica del legislatore le fattispecie per cui è previsto il diritto di recesso individuano ipotesi di fallimento del mercato e giustificano perciò un intervento di questo tipo 26? La risposta mi sembra agevole: in quanto si tratta di vicende caratterizzate da situazioni di potere, nelle quali quindi, in certo modo per definizione, il mercato non opera. La prospettiva non è per tali vicende quella del mercato, bensì della gerarchia 27.
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E v., per tutti, l’ampia analisi di tale tecnica normativa, che non vuole limitare l’autonomia privata imponendo specifiche soluzioni, ma impone che il contratto contenga soluzioni per i problemi individuati dal legislatore, C.H. Beier, Der Regelungsauftrag als Gesetzgebungsinstrument im Gesellschaftsrecht, Köln-Berlin-Bonn-München, 2002; cfr. anche, considerando analiticamente le diverse tecniche del opt in, opt out e della MenuRegelung, e loro forme miste, nel contesto della disciplina del take-over, Bechtold, Die Grenzen, cit., p. 121 ss. 26 Mi riferisco, ovviamente, e non credo siano necessarie particolari indicazioni sul punto, alla diffusa sensazione che in un sistema di economia liberale, ove si presuppone che gli obiettivi della «efficienza» (ed in definitiva della «giustizia») siano in principio raggiungibili con la libera contrattazione nel mercato, l’intervento imperativo del legislatore presuppone l’individuazione di specifiche circostanze che impediscono il conseguimento di tali obiettivi, ciò che appunto si usa ora denominare «fallimento del mercato». Si dovrebbe in realtà aggiungere, ma il profilo non interessa direttamente nella presente sede, che il tipo e la qualità dell’intervento legislativo dipendono dal modo in cui quelle circostanze vengono individuate, per esempio se in «costi di transazione» oppure in «esternalità»; e dipendono inoltre, su un piano ancora più generale, dal modello di comportamento umano che si assume e dagli ostacoli che esso si ritenga può porre per quegli obiettivi: e v. ancora, da ultimo, impostando in tal modo l’alternativa fra l’adozione di un Sozialmodell, orientato a porre norme materiali imperative, ed un Informationsmodell, in cui non vengono prescritte soluzioni, bensì obblighi informativi, Bechtold, Die Grenzen, cit. p. 13 ss. e p. 53 ss. 27 Dato il carattere assolutamente generico del richiamo di tali formule (in buona parte, devo riconoscere, impressionistico), non credo necessario soffermarmi in una loro analisi tecnica: il che richiederebbe un’attenta considerazione non soltanto delle loro origini nel pensiero di Coase e poi sviluppo in Williamson, ma anche dei loro rapporti con gli orientamenti, che pur da Coase medesimo hanno tratto origine, i quali si sono successivamente mossi nella direzione di una nexus-of-contracts theory e/o, sottolineando le caratteristiche dei «contratti incompleti», del ruolo integrativo dei property rights. Interessa qui soltanto segnalare, in termini appunto generici, che il contesto nel quale
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Mi limito in proposito a poche e sintetiche osservazioni, in buona parte apodittiche 28. Noto è in particolare che l’evoluzione della disciplina del diritto di recesso è avvenuta parallelamente allo svolgersi della dialettica unanimitàmaggioranza: nel senso che il progressivo affermarsi del principio maggioritario, e la sostituzione di situazioni di potere all’originaria esigenza di un consenso di tutti gli interessati, allora di negoziazioni tra essi, ha spesso trovato una sorta di contemperamento nel riconoscimento ai singoli di tale diritto. Non più cioè l’esigenza di un consenso positivo dei singoli per il compimento dell’operazione, ma la possibilità, in certo modo a contenuto negativo, di sottrarsi individualmente alle sue conseguenze mediante tecniche che ci siamo abituati a chiamare di exit 29. Significativo è del resto, per quanto concerne il nostro diritto scritto, che il riconoscimento del diritto di recesso è servito anche al fine di evidenziare il più ampio spazio riconosciuto all’operatività del principio maggioritario: come per esempio avvenuto con le fattispecie considerate nell’art. 2437, co. 1, lett. d, e secondo comma, lett. b, c. c., fattispecie in cui appunto, prima della riforma, si discuteva del potere oppure no della maggioranza di realizzarle 30. In termini fattuali, inoltre, la disciplina del diritto di recesso s’inserisce, e in modo decisivo, nel processo decisionale richiesto per le materie individuate dall’art. 2437 c.c. La determinazione del valore di recesso
si afferma il diritto di recesso è caratterizzato da situazioni di «potere», nelle quali allora, in certo modo per definizione, si supera la generale esigenza di una negoziazione per definire i rapporti fra privati (ed un «potere» che, a ben guardare, trova la sua ragion d’essere proprio nel fine di superarla): con la conseguenza che il riconoscimento di tale diritto può servire, nei casi in cui il legislatore e/o le parti lo ritengano necessario, a reintrodurre in forme diverse quell’esigenza. 28 E mi permetto di rinviare, per qualche ulteriore considerazione in argomento, al mio La riforma delle società di capitali, Padova, 2006, p. 85 ss.; e, per una più ampia valutazione dell’argomento, alle attente ricostruzioni critiche dei diversi orientamenti, con prospettive poi differenti, in Ventoruzzo, I criteri di valutazione delle azioni in caso di recesso del socio, in Riv. soc., 2005, 309; Frigeni, Partecipazione in società di capitali e diritto al disinvestimento, Milano, 2009, p. 105 ss.; Maugeri, Partecipazione sociale e attività di impresa, Milano, 2010, p. 185 ss. 29 Ancora utile, pur se antecedente alla riforma del 2003, può essere l’attenta ricostruzione dell’evoluzione storica in Pacchi Pesucci, Autotutela dell’azionista e interesse dell’organizzazione, Milano, 1993, p. 169 ss. 30 E v., considerando criticamente lo specifico argomento, Frigeni, Partecipazione, cit., p. 107 (ma in ogni caso riconoscendo l’origine storica del diritto di recesso nel passaggio da una regola di unanimità al principio maggioritario: cfr. p. 18 s.).
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deve infatti precedere l’adozione della decisione, in modo da consentire a ogni socio una scelta consapevole in sede di esercizio del potere di voice, non soltanto di quello successivo ed eventuale di exit; mentre espressamente si riconosce l’eventualità che con successiva revoca della delibera che l’aveva legittimato sia tolta efficacia alle dichiarazioni di recesso già intervenute 31. In sostanza: funzione empirica del diritto di recesso è in certo modo di bilanciare il «potere» riconosciuto alla maggioranza: ad essa può imporre un ulteriore costo e così, riflettendosi sui suoi calcoli di convenienza, indurla a una negoziazione della quale altrimenti, trovandosi in una situazione di «potere», potrebbe non avvertire l’esigenza. Una tecnica, se si vuol dire, per reintrodurre una logica di mercato in contesti caratterizzati da una prospettiva di «gerarchia» 32. Né è difficile comprendere la necessità, perché tale funzione possa essere effettivamente svolta, che la determinazione del valore di recesso sia sottratta al potere della maggioranza, allora avvenga secondo criteri definiti imperativamente dalla legge 33.
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Potrebbe essere interessante ricordare che tale eventualità era stata già ammessa, in via interpretativa, da Scialoja, Studi sul diritto di recesso nelle società per azioni, in Saggi di vario diritto, II, Roma, 1928, p. 395. 32 Cfr. pure, per l’individuazione di un «meccanismo di (ri)attivazione del negoziato fra i soci in occasione di singole scelte aziendali o societarie», Di Cataldo, Il recesso del socio di società per azioni, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, III, Torino, 2007, p. 225; e, per spunti in definitiva analoghi nel diritto tedesco, Schlinder, Das Austrittsrecht in Kapitalgesellschaften, München, 1999, p. 10 ss.; e soprattutto, sottolineando gli ostacoli che il principio maggioritario pone per una corretta negoziazione endosocietaria, se non altro a causa di un endowment effect, ed il ruolo del diritto di recesso al fine di debiasing through law, L. Klöhn, Das System, cit., p. 31 ss. 33 Cfr. ancora, individuando una funzione del diritto di recesso in quella di condizionare le scelte del management, Ruffner, Die ökonomische Grundlagen eines Rechts der Publikumsgesellschaft, Zürich, 2000, p. 196; e, tra gli altri, Godon, Les obligations des associés, Paris, 1999, p. 112 s. È chiaro d’altra parte che gli spunti nel testo si limitano a quanto necessario agli specifici fini qui in rilievo e certo non sono in grado di esaurire il tema. Esso vogliono soltanto sottolineare una conseguenza operativa, che a me pare di particolare importanza, del riconoscimento del diritto di recesso; non esauriscono certamente l’argomento e non affrontano, tra l’altro, problemi come quello concernente la selezione, per opera della legge e/o dello statuto, tra ipotesi in cui riconoscerlo e negarlo: il che, evidentemente, proprio in quanto si pone in termini dialettici con il principio maggioritario, implica la ricerca di un delicato equilibrio: e v. per tutti, di recente ricercando i fattori da cui questo equilibrio può risultare, quali in definitiva il ruolo essenziale di tale principio e l’utilizzabilità di altri
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6. Merita forse rendere maggiormente espliciti due aspetti presenti nei cenni che precedono. In primo luogo, e in termini generalissimi, segnalerei che il discorso qui svolto assume una nozione di «potere» che potrebbe essere definita giuridico-economica e non soltanto economica. Intendo dire, e il tema è ben noto, che in una prospettiva esclusivamente economica si potrebbe persino dubitare che abbia un senso discorrere in termini di «potere»: come avviene nelle manifestazioni più estreme della nexus-of contracts theory 34, le quali tendono a escludere che sia economicamente riconoscibile e isolabile un power of fiat e, per esempio, ritengono non si possa distinguere tra il «potere» di licenziare un lavoratore subordinato e quello di non compiere più acquisti presso il negoziante che non ci ha soddisfatto 35. Dal mio punto di vista, invece, law matters e non può prescindersi dalla circostanza che nel primo caso, come anche nel nostro del diritto di recesso, ci si muove in un ambiente caratterizzato dalla presenza di regole specifiche per l’esercizio in effetti di un «potere», regole che allora chiamerei organizzative 36.
meccanismi di tutela, Klöhn, Das System, cit., p. 221 ss.; cfr. anche, per un altro aspetto, contestando il diffuso orientamento legislativo volto a limitare il diritto di recesso in caso di società quotata, la c.d. stock market exception, e rilevando che in effetti solo il suo esercizio, e non la vendita in borsa consente di sottrarsi all’influenza che sulla quotazione può avere l’annuncio dell’operazione, proprio quella dalle cui conseguenze ci si vorrebbe sottrarre con il recesso, il rilievo nel lavoro appena ricordato di Ruffner, a p. 198. 34 La quale del resto, è il caso di sottolinearlo, utilizza una nozione di «contratto» del tutto atecnica, in senso soltanto economico, e non giuridico, al fine in ultima analisi soltanto di evidenziare il significato volontario delle vicende in considerazione: e v. tra gli altri, per questo diffuso rilievo, Bainbridge, Mergers and Acquisitions, New York, 2003, p. 30. 35 Parafraso così la notissima affermazione, alla base dell’orientamento cui si accenna, di Alchian-Demsetz, Production, Information Costs and Economic Organization, anche in Alchian, Economic Forces at Work, Indianapolis, 1977, p. 74, secondo cui: «The firm … has no power of fiat, no authority, no disciplinary action any different from ordinary market contracting between any two people… He can fire or sue, just as I can fire any grocer by stopping purchases from him or sue him for delivering faulty products». E v. pure, per tutti, la discussione sul punto in Marchetti, La “Nexus of contracts” theory. Teorie e visioni del diritto societario, Milano, 2000, p. 9 ss. 36 Il giurista non può fare a meno di osservare, cioè, che l’exit in cui consiste l’esercizio del diritto di recesso interviene all’interno di un rapporto caratterizzato da un preesistente vincolo e, come in definitiva il licenziamento del lavoratore subordinato, da un lato serve a renderlo nel caso concreto inoperante, dall’altro richiede, in certo modo per definizione, specifici presupposti; mentre la possibilità di scegliere un diverso fornitore, che pur economicamente può essere intesa come una forma di exit, si realizza invece,
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È appunto un ambiente del genere, un contesto di questo tipo, che a mio parere caratterizza la disciplina del diritto di recesso. Ove si tratta d’ipotesi in cui gli strumenti contrattuali del mercato risultano inadeguati (e allora, se si vuol dire, ne determinano il «fallimento») non soltanto in una considerazione ex ante, per la necessaria «incompletezza» del contratto, ma anche ex post: poiché, poi, a essi si sostituisce una situazione formale, e non soltanto economicamente rilevante, di «potere» la quale, per il suo potenziale opportunistico, può impedire una negoziazione efficiente 37. In questo senso il diritto di recesso serve a indurre alla negoziazione, e così alla ricerca di soluzioni efficienti, pure in un contesto nel quale per essa potrebbero mancare adeguati incentivi. Né credo di dire in tal modo cosa particolarmente nuova o originale. Vorrei soltanto aggiungere, a conferma di una prospettiva che del «potere» valorizza il significato (non solo economico, ma anche) «formale», che essa trova corrispondenza in importanti dati di diritto comparato. Mi riferisco in particolare alla disciplina tedesca dei Konzerne e alla differente soluzione che essa dispone con riferimento agli Unternehmensverträge previsti nel § 291 e nel § 292 del Aktiengesetz del 1965: ove, pur in vicende che da un punto di vista economico potrebbero considerarsi largamente equivalenti, agli azionisti «esterni» si riconosce nel primo caso (quello di un Beherrschungsvertrag o di un Gewinnabführungsvertrag) e si nega nel secondo (cfr. il § 305) un Abfindungsrecht. Il che appunto viene per lo più spiegato sottolineando la valenza organizzativa delle prime ipotesi e quella soltanto obbligatoria, in termini di scambio, delle seconde 38.
in via di principio, in un contesto di libertà e nel suo presupposto. 37 Il che spiega, e possono richiamarsi gli spunti accennati a nt. 32, la delicatezza della questione: in quanto, se il diritto di recesso può essere strumento per ridurre il potenziale opportunistico del «potere» cui si contrappone, rappresenta esso stesso una forma di «potere» e ugualmente presenta il pericolo di una sua utilizzazione opportunistica; il problema, in definitiva, della ricerca del punto di equilibrio cui si allude a nt. 33. 38 V. in argomento, per tutti, Klöhn, Das System, cit., p. 213 ss., che pone appunto alla base di questo diverso trattamento normativo la differenza tra le diverse prospettive del Austauschvertrag e del Organisationsvertrag. Significativo è del resto che queste prospettive siano state utilizzate anche per distinguere il regime applicabile al diritto di recesso in ipotesi di incerti confini: così, in tema di società cooperativa e con riferimento ai rapporti di scambio con soci, chiedendosi se tale regime dovesse essere quello del AGB-Gesetz, dettato in principio per le operazioni di scambio, oppure del diritto societario, Bundesgerichtshof, 8 febbraio 1988, in NJW,
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7. La portata imperativa della disciplina del diritto di recesso si spiega quindi soprattutto poiché definisce un importante aspetto dei processi decisionali della società, se si vuol dire un meccanismo di governance (non tanto del rapporto intercorrente tra i soci, quanto) della sua attività: un meccanismo, inoltre, il quale mira a creare incentivi per una negoziazione in un contesto ove, in quanto caratterizzato da una situazione di «potere», in effetti sono ridotti o assenti. Se così è, ci si deve ora chiedere, proseguendo nell’itinerario prima delineato, quale può essere il senso del richiamo che l’art. 2437 sexies c.c. fa di tale disciplina per l’ipotesi di «azioni o categorie di azioni per le quali lo statuto prevede un potere di riscatto da parte della società o dei soci» 39. A tal fine, penso, si deve muovere dal dato letterale secondo cui quella disciplina non è in effetti richiamata per ogni ipotesi in cui sia previsto un «riscatto» di azioni, ma soltanto quando la previsione è contenuta nello statuto della società: non quindi, ed è questo il punto da sottolineare, quando si pone e si esaurisce sul piano dei rapporti contrattuali tra i soci 40. Mi sembra certo, perciò, che il «riscatto» cui si riferisce la disposizione debba caratterizzarsi per il suo significato interno all’assetto d’interessi societario; e che, per esempio, non avrebbe senso applicarla quando un socio contrattualmente conferisca ad altri un potere di call sulle sue azioni. Il che, ovviamente, significa che nel secondo caso l’ordinamento non ravvisa esigenze di tutela ulteriori rispetto a ogni altra eventualità in cui il privato dispone dei propri interessi, se si vuol dire il problema della «causa». La regola posta dall’art. 2437 sexies c.c. non persegue allora una tutela
1988, 1729; e v. pure, con analoga prospettiva discutendo di una Kündigungsklausel, Bundesgerichtshof, 11 novembre 1991, in WM, 1992, 99. 39 Ma si deve tener conto anche, riterrei, della disposizione dell’art. 2473 bis c.c., la quale, in tema di società a responsabilità limitata, detta una disciplina sostanzialmente analoga nell’ipotesi in cui l’atto costitutivo preveda «specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del socio»; e v., valorizzando il ruolo di questa disposizione anche per l’interpretazione dell’art. 2437 sexies c.c., Centonze, Riflessioni sulla disciplina del riscatto azionario da parte della società, in Banca, borsa, tit. cred., 2005, I, 50. 40 E v. in particolare, sottolineando questo aspetto, Perrino, Le tecniche di esclusione del socio dalla società, Milano, 1997, p. 338 ss.; cfr. invece, con diversi accenti e soprattutto valorizzando un possibile ruolo costruttivo dell’art. 1504 c.c., in un contesto concettuale quindi diverso da quello dei «poteri» endosocietari, Calvosa, La clausola di riscatto nella società per azioni, Milano, 1995, spec. p. 152 ss.
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assoluta degli interessi patrimoniali dell’azionista, ma li considera, ed esclusivamente, nel quadro dell’assetto d’interessi societario: se si vuol dire, riprendendo una gloriosa terminologia, considera il suo interesse uti socius e non quello uti singulus; e non si applica perciò quando se ne dispone nella seconda veste. Perciò, credo, il «riscatto» di cui si parla deve assumere un senso in quel quadro e, allora, può spiegarsi soltanto alla luce di esigenze oggettive della società: nel senso che rappresenta uno strumento per la loro soddisfazione e non per la realizzazione di programmi negoziali che all’assetto organizzativo sociale sono rimasti esterni, rilevando perciò soltanto sul piano dei rapporti interindividuali fra i soci (ed eventualmente con terzi). Una conferma di ciò trarrei anche dalla circostanza che, proprio per il profilo qui rilevante, quello cioè concernente la valorizzazione delle partecipazioni azionarie, l’ordinamento s’ispira a un’omogeneità di criteri non soltanto tra «riscatto» e recesso, ma anche con le vicende concernenti limitazioni alla circolazione delle azioni: in effetti la disciplina dell’art. 2437 ter c.c. è ugualmente utilizzata nell’art. 2437 sexies c.c. e nell’art. 2355 bis c.c. 41. Il che, per un giurista di diritto positivo, non può non significare un’omogeneità anche di tematiche 42.
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Un’utilizzazione che risulta ancora più significativa, valendo ad indicare un orientamento generale del sistema, se si riflette che anche per la società a responsabilità limitata la disciplina del recesso, ed in particolare i criteri valutativi della partecipazione, vengono utilizzati in tema di limitazioni della circolazione e di esclusione del socio: cfr. gli artt. 2469, 2473 e 2473 bis c.c. 42 Sembra chiaro infatti, da un punto di vista metodologico, che un’identità di disciplina non può non significare che nella visuale dell’ordinamento, dal punto di vista cioè degli interessi per esso rilevanti, viene ravvisata una omogeneità di fattispecie: nel senso, almeno, della loro partecipazione alla stessa area tematica. Mentre, in termini più concreti, sono evidenti nel diritto positivo i rapporti di possibile concorrenza, ed in alcuni casi di reciproca esclusione, tra possibilità (anche effettuali, come per esempio si evidenziano nella distinzione tra società quotate e non quotate) di negoziazione sul mercato e attribuzione del diritto di recesso: come evidenziato, tra l’altro, da disposizioni come l’art. 2437, terzo e quarto comma, e l’art. 2437-quinquies c.c.; e come evidenziato dalla discussione in altri ordinamenti se la possibilità di negoziare la partecipazione è motivo sufficiente per escludere la regola generale che nei rapporti di durata consente un Austritt aus wichtigem Grund (e cfr. l’ampia analisi di H. Schindler, Das Austrittsrecht, cit., p. 17 ss. e p. 80 ss.); oppure dall’altra se è giustificato il trattamento omogeneo che il § 327a, Aktiengesetz, detta in tema di squeeze-out a prescindere dalla quotazione in borsa (e v. per tutti S. Schöpper, Ausschluss von Minderheitsaktionären in Deutschland und den USA, Berlin, 2007, p. 89 ss.).
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E in effetti, a ben considerare, un «riscatto» può assumere un senso propriamente statutario (e giustificarsi nella prospettiva della società, non degli interessi individuali dei soci) in quanto rappresenti uno strumento per assicurare che il socio possieda le caratteristiche (appunto statutariamente definite) in considerazione delle quali si giustifica la sua partecipazione alla società. E in questo senso, spiegandosi la segnalata omogeneità di disciplina, svolge un ruolo in buona parte assimilabile a quello cui mirano le clausole limitative della circolazione. Intendo dire che la previsione di un potere di «riscatto» assume un significato funzionale largamente coincidente con quello tipico di tali clausole (ed è perciò che, come segnalato, le discipline in parte coincidono): con la differenza, però, che il primo non opera in via preventiva, al momento dell’acquisto della partecipazione, ma successiva, e allora essenzialmente nelle ipotesi in cui i requisiti richiesti per la partecipazione azionaria siano venuti meno. E intendo dire che, se così è, la relativa clausola presuppone una definizione statutaria di tali requisiti e non può esaurirsi in un riferimento al mero arbitrio della società (in concreto, allora, della maggioranza) 43. Troverei del resto una conferma di ciò in un altro dato letterale: l’art. 2437 sexies c.c. fa riferimento «alle azioni o categorie di azioni per le quali lo statuto prevede un potere di riscatto». Il che, se non m’inganno, significa che tale «potere», pur quando richiede per il suo esercizio
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Per questa esigenza, in effetti esplicita nell’art. 2473 bis c.c., ma letteralmente non affermata nell’art. 2437 sexies c.c., cfr. soprattutto Centonze, Riflessioni, cit., spec. p. 52 ss.; e gli spunti di Paciello, in Società di capitali. Commentario a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, II, Napoli, 2004, p. 1145 ss. Osserverei d’altra parte che può essere questo un profilo in grado di ulteriormente illustrare i rapporti tra limitazioni della circolazione e riscatto. Credo in effetti comprensibile, alla luce di quanto fin qui osservato, che tra le limitazioni della circolazione possa annoverarsi pure quella di un «mero» gradimento, senza quindi la preventiva indicazione dei motivi in grado di giustificare un rifiuto del placet; mentre tale indicazione deve ritenersi necessaria, se non m’inganno, per il riscatto. Nel primo caso, a ben guardare, si tratta di uno strumento preventivo per la tutela dell’interesse sociale: con la conseguenza che non rileva l’interesse dell’acquirente, ma solo quello del socio che intende alienare le azioni; il quale è appunto tutelato consentendogli comunque l’alienazione delle azioni. In questo caso, cioè, viene pregiudicato soltanto l’interesse a liberamente scegliere l’acquirente, ed è concepibile che esso receda nei confronti di quello della società. Nel secondo caso, invece, quello del riscatto, lo strumento è successivo: nel senso che si traduce nella perdita della posizione di socio, essendo allora ragionevole richiedere che siano predeterminate le circostanze in cui ciò può avvenire. L’exit, se si vuol dire, non avviene per iniziativa del socio, ma gli è imposto.
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la considerazione di vicende personali del socio, è direttamente e oggettivamente riferito alle azioni, le quali anche qui, come caratteristico del tipo della società azionaria, si pongono come un prius rispetto al socio. Con la conseguenza, evidenziata dalla formula normativa riportata, che il risultato di dare in tal modo rilevanza a quelle vicende personali può essere raggiunto soltanto riferendo la clausola a tutte le azioni oppure a una loro categoria, eventualmente creata ad hoc 44. E osserverei anche che con tale prospettiva, l’unica a mio parere in grado di spiegare il segnalato parallelismo con la disciplina dell’art. 2355 bis c.c., si giustifica pure l’efficacia «reale» della clausola statutaria di riscatto: nello stesso modo, in effetti, in cui deve giustificarsi quella delle clausole limitative della circolazione, poiché si tratta dei requisiti richiesti perché la titolarità della partecipazione assuma rilevanza nell’organizzazione societaria e per la sua attività 45. 8. La disciplina dell’art. 2437 sexies c.c. evidenzia così l’esigenza di distinguere tra un riscatto statutario e un altro che si pone sul piano dei meri rapporti interindividuali fra i soci. Dimostra in particolare, se non m’inganno, che la vicenda, come a ben guardare anche quella del recesso ed in definitiva l’altra prevista dall’art. 2355 bis, co. 2, c.c., richiede di essere diversamente valutata a seconda se si presenta come un aspetto del sistema dei «poteri» societari oppure nel quadro dell’autonomia privata individuale dei soci 46.
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Incidentalmente osserverei anche che questi rilievi, se condivisi, non potrebbero non condurre ad un’incompatibilità tra clausole statutarie di riscatto e quotazione in borsa. In effetti se a tale soluzione si giunge con riferimento alle clausole limitative della circolazione (ma io preferirei parlare di una incompatibilità tra negoziazione in borsa e applicazione di tali clausole: e rinvio, per un’illustrazione del punto, al mio La circolazione della partecipazione azionaria, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, II, 1, Torino, 1991, p. 185 ss.); e se ciò deve spiegarsi per una contraddittorietà tra la funzione di quelle clausole, di introdurre elementi «personalistici» nella società, ed il carattere necessariamente «anonimo» delle negoziazioni in borsa, sembra inevitabile che anche le clausole di riscatto, poiché svolgono analoga funzione, siano assoggettate al medesimo trattamento. 45 E per questo motivo modifico la diversa opinione, espressa quando ancora mancava un riconoscimento legislativo della possibilità di un riscatto propriamente «statutario», nel mio lavoro ricordato nella nota precede, p. 208. 46 A tutte le ipotesi cui si accenna è comune, infatti, il profilo del «potere»: riguardo al recesso, in quanto partecipa ai processi decisionali della società; per il riscatto, che anche formalmente si presenta come tale; e nel quadro del secondo comma dell’art. 2355 bis c.c., come evidenziato dal suo riferimento ad un «mero gradimento» di organi sociali,
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Ciò significa in termini generalissimi, e per un profilo la cui portata pare evidente riguardo allo specifico tema qui considerato, che le vicende della partecipazione assumono un diverso significato quando si svolgono all’interno della società, del suo assetto organizzativo, ovvero al suo esterno, nel mercato. E ne deriva la sensazione che diversi sono nelle due ipotesi i limiti della libertà contrattuale: nel primo caso deve tenersi conto anche delle specifiche esigenze del diritto societario, non soltanto di quelle generali in tema di attività negoziale dei privati 47. 9. Questa distinzione di piani, se si vuol dire tra società e mercato, si rivela anche in altri, e significativi, aspetti della disciplina vigente e caratterizza, a mio parere, il sistema: il differente significato, in termini giuridico-formali, delle prospettive che l’analisi economica caratterizza come «mercato» e «gerarchia». Essa mi sembra esplicita nella previsione con l’art. 2346, co. 4, c.c. della possibilità di un’assegnazione di azioni non proporzionale al con-
ed allora alla centralità per la caratterizzazione della fattispecie di un problema di equilibri interni della società: e v., per un tentativo di approfondire quest’ultimo aspetto il mio lavoro, La circolazione, cit., p. 157 ss. Agevole è del resto osservare che, sul piano empirico, le tre vicende a confronto (quelle corrispondenti agli artt. 2355 bis, 2437 e 2437 sexies c.c.) possono condurre ad esiti analoghi, l’acquisto delle azioni da parte di altri soci. Ed è pure fuori questione che allo stesso risultato potrebbe pervenirsi, pur in fattispecie che giustificherebbero l’applicazione di tali norme, anche prescindendone e tramite un’operazione negoziata di vendita: che per esempio, pur quando spetterebbe il diritto di recesso, non lo si eserciti e si vendano le azioni ad altri soci: in questo caso, credo indubbio, liberamente negoziandone le condizioni. 47 Il rilievo formulato nella nota che precede, in effetti del tutto ovvio, mostra in definitiva che il senso operativo delle regole cui si accenna è duplice, a seconda se considerate per la loro portata nell’organizzazione societaria oppure sul piano delle vicende interindividuali di scambio: dal primo punto di vista, partecipano al sistema dei «poteri» interni a tale organizzazione, ed in questo caso richiedono di essere valutati secondo i criteri oggettivi che le sono propri; dal secondo punto di vista, rappresentano uno dei fattori, se si vuol dire un bargaining chip, di cui le parti possono tener conto nella loro eventuale scelta di procedere ad una negoziazione; la quale poi, direi altrettanto ovviamente, si può liberamente svolgere secondo i principi che governano l’autonomia contrattuale. Sicché la imperatività di quelle disposizioni, se certamente esclude la possibilità di prescinderne nella definizione degli assetti organizzativi della società, altrettanto certamente non impedisce che nel caso concreto, verificandosi le relative fattispecie, le parti interessate possano, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, adottare soluzioni anche diverse: una prospettiva, aggiungerei, largamente comune a gran parte del «diritti» del socio: e v., per un qualche approfondimento del punto, il mio Soci e minoranze nelle società non quotate, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, 2000, spec. p. 95 ss.
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ferimento. L’ipotesi implica, evidentemente, l’eventualità di un arricchimento di un socio nei confronti dell’altro e pone perciò l’esigenza di una sua giustificazione causale. Significativo è però che il tema non rilevi di per sé ai fini di una valutazione dell’operazione societaria e debba essere impostato sul diverso piano, diremmo «parasociale», dei rapporti interindividuali, in definitiva di scambio, tra i soci interessati: qui diviene inevitabile ricercare quella giustificazione 48. Si tratta, in effetti, di un tema tutt’altro che nuovo. Non lo è, a ben guardare, in punto di diritto scritto: poiché quella non proporzionalità fra diritti sociali e conferimento è una possibilità già presente nelle società di persone a seguito del valore solo presuntivo della soluzione di cui al primo comma dell’art. 2263 c.c.; sicché, sotto quest’aspetto, la nuova regola potrebbe dirsi aver soltanto generalizzato, estendendola e adattandola alle società di capitali, un’eventualità preesistente 49. Neppure lo è, in termini più ampi, nella cultura giuridica: basta pensare, per convincersi di ciò, alla plurisecolare discussione in merito ad una figura come quella della societas donationis causa 50.
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Intendo dire che l’ipotesi considerata impone di distinguere due aspetti: quello della costituzione della società e quello dell’assegnazione delle azioni ai soci. E che sul secondo piano, ove può porsi un problema di arricchimento dell’uno a carico dell’altro e quindi della sua giustificazione causale, la prospettiva è quella di considerarlo questione estranea all’esigenze della società ed in definitiva riguardante soltanto i rapporti interindividuali fra i soci: e v., per un qualche approfondimento sul punto, il mio lavoro, La riforma, cit., p. 76 s.; cui adde le importanti precisazioni di P. Ferro-Luzzi, La «diversa assegnazione delle azioni» (art. 2346, co. 4, c.c.), in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, cit., spec. p. 584 s. 49 La differenza tra le due ipotesi a confronto, quelle degli artt. 2263 e 2346 c.c., largamente si riduce, in effetti, fin quasi a scomparire, se si abbandona la ricorrente prospettazione secondo cui le azioni rappresenterebbero un bene, che viene attribuito dalla società al socio quale «corrispettivo» del suo conferimento, e si prende atto trattarsi in primo luogo di una tecnica per la misurazione dei suoi diritti nella società, un aspetto, e tra i principali, che caratterizza il modello organizzativo della società per azioni: e v. per tutti Sciuto-Spada, Il tipo della società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, cit., p. 31 ss. Il che non esclude l’eventualità che esse, a seguito dei criteri oggettivi con cui sono definite, possano anche essere pensate come cose; ma ciò, osserverei, essenzialmente nell’ambito di vicende esterne alla società, ai fini in ultima analisi della loro negoziazione. Si potrebbe allora incidentalmente osservare che anche in ciò risiede, al vertice, la ragione del trattamento particolare del riscatto statutario e della sua differenza rispetto alle vicende di scambio (volontario o coattivo, non importa): in quanto esso, per il suo significato endosocietario, non significa tanto l’appropriazione da parte della società o di altro socio di un bene del titolare, quanto una modifica dell’«assegnazione originaria». 50 Rinvio per tutti all’approfondita indagine, di Hingst, Die societas leonina in der
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Il ricordo di tale discussione può essere sufficiente a mostrare quanto sia risalente, direi essenziale e inevitabile, l’esigenza di distinguere tra i problemi che si pongono ai fini della valutazione dell’assetto d’interessi societario, in quanto tale considerato e nella sua oggettività, e quelli che riguardano i rapporti tra i soci uti singuli, allora esterni alla società e da giudicare mediante parametri diversi 51. 10. Un’altra area tematica in grado di illustrare queste prospettive generali è certamente quella concernente la portata del divieto di patto leonino contenuto nel nostro art. 2265 c.c.: se non altro poiché per un verso pare coinvolgere una considerazione dell’assetto d’interessi societario nella sua globalità e oggettività, per un altro potrebbe sembrare riguardare problemi relativi ai rapporti interindividuali fra i soci, se si vuol dire l’esigenza che siano «equamente» definiti 52. Naturalmente non è questa la sede per una compiuta analisi del tema: la cui complessità è evidenziata non soltanto dalla lunga e per molti aspetti ambigua storia di quel divieto, ma anche dal coinvolgimento con esso della nozione stessa di società e del suo significato nell’ordinamento 53.
europäischen Privatrechtsgeschichte, Berlin, 2003, spec., per l’aspetto ora segnalato, a p. 219 ss. e p. 308 ss. 51 Si potrebbe per esempio ricordare, senza ovviamente alcuna pretesa di approfondire il punto, delicatissimo come mostrato dalla sua stessa storia secolare, la formulazione del Allgemeines Landrecht für die Preußischen Staaten del 1974, in I, 17, 245: «Ein Abkommen, wodurch einem der Gesellschafter aller Schade, und dem andern aller Vortheil allein angewiesen wird, ist nach den Regeln von Schenkungen zu beurtheilen». 52 Per convincersi del punto, al di là di quella che a me pare la sua intrinseca evidenza, può essere forse sufficiente ricordare il significativo, anche per gli sviluppi successivi, intervento di Sraffa, Patto leonino e nullità del contratto sociale, in Riv. dir. comm., 1915, I, 956, il quale distingueva tra la regola in tema di utili, da ritenere oggettivamente necessaria per una qualificazione in termini di società, e quella concernente le perdite, con funzione fondamentalmente antiusuraria e quindi da intendere non più su quel piano oggettivo, bensì su quello dei rapporti fra i soci; e ne traeva allora la conseguenza della possibilità di disapplicare la seconda regola sulla base dell’individuazione di un intento di donare e configurando così la fattispecie come «società mista con donazione». 53 Quanto il tema sia delicato e sfuggente già si comprende considerando non soltanto l’ambiguità del passaggio terminologico da «società leonina» a «patto leonino», spesso in effetti non adeguatamente avvertita (ma che potrebbe già risultare da un confronto dei moderni testi legislativi con il notissimo patto di Ulpiano, D. 17, 2, 29, 2: e v. l’ampia analisi di Hingst, Die societas, cit., p. 35 ss. e p. 83 ss.), ma anche la circostanza che i due aspetti disciplinati in disposizioni come il nostro art. 2265 c.c. (o anche nei suoi antecedenti storici rappresentati dall’art. 1719 c.c. del 1865 e dall’originario art. 1855
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Mi limito a segnalare un suo aspetto di specifico interesse per il problema qui in esame e che del resto sembra ora assumere un ruolo centrale nella discussione sulle possibilità applicative dell’art. 2265 c.c.: quando ci s’interroga sul suo eventuale significato riguardo a pattuizioni con cui viene assunto un impegno di acquisto e/o vendita delle partecipazioni a un prezzo predeterminato 54. In proposito può essere sufficiente osservare che si pone così, di nuovo, la questione se l’analisi deve essere circoscritta ad una considerazione oggettiva dell’assetto d’interessi societario e del modo in cui, appunto oggettivamente, ne risulta configurata la partecipazione oppure deve estendersi anche alle negoziazioni che intervengono tra i soci e che, almeno formalmente, non tanto definiscono i contenuti della partecipazione, quanto ne dispongono. Centrale è in definitiva la questione se e in che limiti a una distinzione del genere possa riconoscersi un senso.
code civil del 1804, ora ripreso, ma con significative modificazioni, nell’art. 1844-1, al. 2, vigente), la partecipazione agli utili e quella alle perdite, assumono una diversa portata nella configurazione della fenomenologia societaria (ed ciò che, come noto, si poneva a fondamento della posizione di Sraffa ricordata nella nota che precede, ed ancora ripresa da Autori come Ferri, Le società, Torino, 1987, p. 27 s.): il che, almeno da un punto di vista logico, pone se non altro il problema se ed in che modo considerarli unitariamente. Mentre, si può incidentalmente osservare, in termini ancora differenti si pone il problema in altri ordinamenti che, come quello tedesco, nessuno di essi formalmente inserisce nella definizione generale della società, e in cui deve discutersi allora se ed in che senso l’esigenza di uno «scopo comune» può implicare l’uno, l’altro o entrambi: e v., oltre alle trattazioni generali di Nitschke, Das Recht der Personengesellschaften in Deutschland und Frankreich, Berlin, 2001, spec. p. 31 ss.; e Peglow, Le contrat de société en droit allemand et en droit français comparés, Paris, 2003, spec. p. 187 ss.; la recente analisi comparatistica in Frase, “Leoninische Vereinbarungen” und Ergebnisbeteiligungspflicht im deutschen und italienischen Gesellschaftsrecht, Frankfurt am Main, 2010, spec. p. 78 ss.; cfr. pure, per ricordare alcune rilevanti posizioni in argomento, Ballerstedt, Der gemeinsame Zweck als Grundbegriff des Rechts der Personengesellschaften, in JZ, 1963, spec. p. 255; e Schulze-Osterloh, Der gemeinsame Zweck der Personengesellschaften, Berlin, 1973, spec. p. 22 ss.; e l’analoga discussione nel diritto svizzero in Furrer, Der gemeinsame Zweck als Grundbegriff und Abgrenzungskriterium im Recht der einfachen Gesellschaft, Zürich, 1996, spec. p. 81 ss.; e Frei, Societas leonina, Basel, spec. p. 76 ss. 54 Tale tema interessa, nella presente sede, non soltanto perché attualmente quello di maggiore rilevanza concreta nell’interpretazione dell’art. 2265 c.c., ma anche in quanto, a ben guardare, presenta significativi elementi di contiguità con le vicende in cui si colloca la clausola di drag-along: se non altro in quanto si tratta, in entrambi i casi, di ipotesi in cui la funzione della partecipazione sociale è essenzialmente finanziaria, e si pone allora il problema se ed in che limiti le parti possano congegnarne le concrete caratteristiche in modi coerenti con tale funzione.
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Ne risulta immediatamente, già con questa prospettazione, il coinvolgimento di un tema di vertice: quello se abbia un senso distinguere l’esercizio dell’autonomia privata quando conforma, direi organizza, la partecipazione sociale e quando di essa dispone 55; e se, per quanto in particolare qui interessa, diversi debbano essere i limiti che nei due casi pone l’ordinamento. Appunto in questa direzione si sono mossi i due ordinamenti nei quali, a seguito del significato funzionale ivi assegnato alla società, il tema del patto leonino assume un particolare rilievo: mi riferisco, ovviamente, a quello francese e italiano, ove alla «divisione degli utili» è espressamente conferito un ruolo causale. Per quanto concerne il primo, quello francese, l’evoluzione giurisprudenziale è pervenuta a ritenere che non violi il divieto di patto leonino la clausola con cui si assume l’impegno ad acquistare la partecipazione di altro socio ad un prezzo prefissato: tale clausola, si osserva, «n’avait pour objet que d’assurer, moyennant un prix librement convenue, la transmission de droits sociaux entre associés et qu’elle était sans incidence sur la participation aux bénéfices et la contribution aux pertes dans les rapports sociaux» 56. A tale esito giurisprudenziale si è pervenuti, in effetti, dopo molte incertezze ed un lungo travaglio 57. Interessa qui segnalare, ed il profilo può assumere immediata rilevanza ai nostri specifici fini, che il tema
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Mi riferisco così, evidentemente, ad una prospettiva che nella sua moderna formulazione può farsi risalire a Bekker e che individua una fondamentale distinzione fra le due operazioni di Verfügung e Zwecksetzung: cfr. in particolare il saggio Zur Lehre von Rechtssubjekt, in Jherings Jahrbücher, 1873, 12, spec. p. 61 ss.; cfr. pure, per un cenno di inquadramento storico, il mio Discorsi di diritto societario, in Negozianti e imprenditori. 200 anni dal Code de commerce, Milano, 2008, spec. p. 150 s.; e soprattutto, per un suo approfondimento e utilizzazione, Spada, La tipicità delle società, 1974, spec. p. 127 ss. 56 Così Cass. com., 16 novembre 2004, in Rev. sociétés, 2005, 593, con nota di Le Nabasque, Clause de prix insérée dans les promesses d’achat de droits sociaux: l’interrogation continue; e vedila pure in Le droit des sociétés pour 2005, Paris, 2005, p. 518 s., con Observations di Couret; cfr. anche, con accenti in parte diversi, il rilievo che «ces conventions ne faisaient qu’organiser, moyennant un prix librement debattu et dans des conditions assurant l’équilibre des droits respectifs des parties, la rétrocession des actions litigeuses sans incidence sur la participation aux bénéfices et la contribution aux pertes dans les rapports sociaux», in Cass. com., 22 febbraio 2005, in Rev. soc., 2005, 595. 57 Segnalato del resto dalla circostanza che un diverso atteggiamento sul punto si è manifestato nella giurisprudenza della Chambre Civile e di quella Commerciale: e v. per tutti la rassegna analitica di Soumrani, Le portage d’actions, Paris, 1996, p. 450 ss.
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espressamente si caratterizza per una dialettica tra i principi del diritto societario e quello che, nelle vicende di scambio, riconosce la libertà dei privati di determinare il prezzo 58. Perciò, bisogna sottolineare, la soluzione non può spiegarsi in termini soltanto formali, per la collocazione del patto in un accordo «parasociale» 59 ovvero per il suo riguardare soltanto rapporti fra i soci e non con la società 60. Centrale è invece il profilo funzionale: nel senso che del patto occorre verificare in concreto la giustificazione causale, il suo ruolo cioè e la sua plausibilità nella vicenda di scambio cui afferisce 61. E mi sembra evidente, in questa prospettiva, la coincidenza di temi con quelli segnalati a proposito dell’«assegnazione non proporzionale di azioni»: ove ugualmente i rapporti interindividuali fra soci possono caratterizzarsi in termini diversi da quelli cui condurrebbe il diritto societario, ma ove, altrettanto ugualmente, ciò deve risultare «giustificato» alla luce di una loro considerazione funzionale; una «giustificazione» da ricercare allora, in definitiva, sul piano delle ragioni di scambio tra essi intercorrenti 62.
58 E v., sottolineando appunto tale libertà, la non applicabilità quindi del divieto di clausola leonina «s’agissant d’une convention, même entre associés, dont l’objet n’est autre, sauf fraude, que d’assurer moyennant un prix librement convenu, la transmission de droits sociaux» la sentenza che ha inaugurato l’orientamento giurisprudenziale cui si accenna: quella della Cass. com., 20 maggio 1986, nel caso Bowater, in Rev. soc., 1986, 587. 59 Così invece, ma in una fattispecie nella quale in effetti si trattava di un accordo con un terzo, Cass. com., 15 giugno 1982, in Rev. soc., 1983, 329, con nota di Guyon. 60 Cfr. invece, in termini letteralmente non condivisibili, l’osservazione di Guyon, Traité des contrats. Les sociétés, Paris, 1999: «La prohibition du pacte léonin ne s’applique que dans les relations de la société avec les associés et non dans celles des associés entre eux»; v. pure, in termini non dissimili, Godon, Les obligations des associés, Paris, 1999, p. 186 s. 61 Questo è il senso, se non m’inganno, della frequente osservazione secondo cui quell’orientamento giurisprudenziale non esclude la nullità della clausola la cui finalità sia quella, evidentemente da accertare nel caso concreto e in una considerazione globale dell’assetto d’interessi, di eludere il divieto legislativo di patto leonino: v. tra gli altri Soumrani, Le portage, cit., p. 482; e Merle, Droit commercial. Sociétés commerciales, Paris, p. 68. Nella stessa prospettiva, del resto, mi sembra possa essere intesa l’altra affermazione di Guyon, Traité, cit., p. 300, quando segnala che «il n’existe qu’un lien indirect entre la distribution des bénéfices, ou le partage des pertes, domaine de la clause léonine, et la fixation à l’avance du prix de cession de droits sociaux»: nel senso, se non m’inganno, dell’esigenza di distinguere quando la vicenda di scambio possiede una propria autonomia causale, ed allora soltanto «indirettamente» si riflette sulla vicenda societaria, ed invece, mancando tale autonomia, a questa vicenda direttamente si volge ed essa vuole conformare. 62 E v. ancora, in tema di promessa di acquisto ad un prezzo garantito e segnalando la centralità dell’indagine sulla «meritevolezza» del patto, Germain, in Ripert-Roblot, Traité
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Né sorprende, dato il comune approccio sul punto dei due ordinamenti, che in questa stessa direzione si sia orientata l’interpretazione dell’art. 2265 c.c.: anche se, giova avvertire, con maggiori incertezze da parte della dottrina e con più limitati interventi giurisprudenziali. Il tema specifico, quello dei rapporti tra divieto del patto leonino e assunzione dell’impegno di riacquisto delle partecipazioni ad un prezzo predeterminato, risulta infatti affrontato dalla nostra Cassazione, in tempi relativamente recenti, in un unico caso 63. E la soluzione, essendo quell’impegno contenuto in un patto «parasociale», si è sostanzialmente imperniata su due proposizioni: la sua nullità, quando debba ritenersi destinato a svolgere una funzione elusiva dell’art. 2265 c.c.; la sua possibile validità, quando invece persegue un’autonoma funzione meritevole di tutela 64. Non mancano certamente voci discordanti 65. Merita però di essere segnalato che l’opinione, la quale a me pare ora prevalente, largamente riprende i temi presenti nel dibattito nell’ordinamento francese ed evidenzia prospettive qui di immediato rilievo. Si sottolinea infatti, da un punto di vista formale, che il divieto di patto leonino non si applica ad accordi che riguardano la parte uti singulus e non uti socius 66. E si osserva, in termini ben più sostanziali, che tale divieto non è violato quando in effetti non si tratta di sottrarsi al rischio connesso con la partecipazione sociale, bensì di trasferirlo ad altri 67.
de droit commercial. I. 1. Les sociétés commerciales, Paris, 2009, p. 38. 63 Mi riferisco a Cass., 24 ottobre 1994, n. 8927, in Giur. comm., 1995, II, 478, con nota di Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino. 64 Cfr. pure, in termini sostanzialmente analoghi, Trib. Cagliari, 19 giugno 2000, in Riv. giur. sarda, 2001, 471; e Trib. Napoli, 10 dicembre 2009, in Foro it., 2010, I, 1355; v. anche, ma con riferimento ad una fattispecie particolare, Cass., 7 luglio 1997, n. 6105. 65 E v. soprattutto Abbriani, Il divieto del patto leonino, Milano, 1994, p. 138 ss.; e, prima ancora, Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contratto e impresa, 1988, p. 771. 66 Cfr. già, osservando che il divieto, allora contenuto nell’art. 1719 c.c. del 1865, «colpisce il cosiddetto patto leonino soltanto nei riflessi della società e dei soci come contrario all’essenza stessa del contratto sociale, laddove nella specie il patto per cui è causa non solo era estraneo a tale contratto, ma non poneva neppure in essere una obbligazione dei soci come tali», Cass., 30 maggio 1941, in Riv. dir. comm., 1942, II, 305, con nota critica di Lordi, Patto leonino: garanzia dei soci che esonerano un altro socio dalle perdite; cfr. pure, riprendendo l’argomento, Piazza, La causa mista credito società, in Contratto e impresa, 1987, p. 803 (a p. 810); e Leozappa, Le partecipazioni a scopo di finanziamento, in Riv. dir. comm., 1998, I, spec. 269. 67 Così Carrière, Le operazioni di portage azionario, Milano, 2008, p. 245 ss.; e soprat-
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È quest’ultimo, nella prospettiva qui adottata, il rilievo decisivo. Nel senso che l’esigenze proprie del diritto societario, quella in particolare che il relativo assetto d’interessi sia congegnato secondo i criteri oggettivi che lo caratterizzano nel sistema 68, non escludono in quanto tali che le posizioni giuridiche del socio siano oggetto di negoziazione; e non escludono che, in tal caso, la valutazione dell’ordinamento avvenga secondo i criteri generali in tema di negoziazioni nel mercato, soprattutto quello che richiede una «giustificazione causale». Che così sia mi pare dimostrato dalla sicura possibilità di operazioni, come una vendita di azioni scaglionata nel tempo a prezzo prefissato per tutte le tranches 69 (ed in definitiva lo stesso riporto 70), che possono condurre, per quanto riguarda l’attribuzione ultima dei rischi societari tra le parti, a risultati sostanzialmente equivalenti all’ipotesi qui considerata. Ma mi pare anche dimostrato da soluzioni di diritto scritto come quella recente della record date per l’esercizio dei diritti sociali ed in particolare di quello di voto: che in effetti, a ben guardare, distinguono nettamente tra la posizione di socio (rectius: quella che consente l’esercizio dei diritti sociali) per la società e la posizione che risulta da negoziazioni nel mercato; salvo poi, ovviamente, la necessità di regolare i rapporti inter partes secondo modalità coerenti con tali negoziazioni 71.
tutto Barcellona, Clausole di put & call a prezzo predefinito: fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, ed. provv., Milano, 2004, spec. p. 62 ss.; cfr. pure, distinguendo tra disciplina convenzionale della partecipazione agli utili e alle perdite, cui sola sarebbe applicabile il divieto di patto leonino, e disciplina convenzionale della circolazione della partecipazione, Sbisà, Circolazione delle azioni e divieto di patto leonino, in Contratto e impresa, 1987, spec. p. 819. 68 Alludo in tal modo alla lettura oggi prevalente del divieto dell’art. 2265 c.c., secondo la quale, superata l’originaria prospettiva antiusuraria e ricondotti ad unità i profili della partecipazione agli utili ed alle perdite, il senso della norma dovrebbe soprattutto cogliersi nell’esigenza di un equilibrio tra interesse e potere nella società: v. per tutti Abbriani, Il divieto, cit., p. 38 ss.; e la chiara sintesi in Marasà, Le società. Società in generale, Milano, 2000, p. 228 s.; cfr. anche, in certo modo estremizzando tale prospettiva e ritenendo perciò che il divieto possa non essere applicabile quando venga esclusa la posizione di potere del socio interessato dalla vicenda, Minervini, Partecipazioni, cit., p. 779. 69 Questa è del resto la fattispecie all’origine degli orientamenti giurisprudenziali francesi cui si è fatto cenno: v. per tutti Merle, Droit commercial, cit., p. 68. 70 E v. il richiamo del punto in E. Barcellona, Clausole, cit., p. 50 ss. 71 Mi riferisco alla soluzione ora adottata, a seguito del d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 27, nell’art. 83 sexies del t.u.f., il quale, per le società quotate, rende irrilevante ai fini della legittimazione all’esercizio del diritto di voto i trasferimenti avvenuti nel periodo intercor-
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11. È ora il momento di abbandonare queste considerazioni di ordine generale e tornare alla nostra clausola di drag-along. Prima però vorrei proporre una brevissima ultima osservazione a mio parere in grado ulteriormente precisare il contesto in cui credo il tema debba essere affrontato. Risulta infatti dai precedenti spunti l’esigenza di distinguere nettamente tra vicende, che pur entrambe riguardano la partecipazione azionaria, nella società e nel mercato: l’esigenza di utilizzare per esse differenti parametri valutativi. Con la conseguenza, per quanto qui interessa, che alle seconde non sono direttamente applicabili le regole specifiche del diritto societario: come quelle degli artt. 2265 o 2437 sexies c.c. 72. Ma qual’è il senso, ci si potrebbe chiedere, di un approccio il quale considera diversamente quelle vicende e ciò pur quando sono in grado
rente fra la data della comunicazione ad opera dell’intermediario e quella dell’assemblea; non solo quindi rende esplicita la distinzione di piani tra negoziazione delle azioni e loro rilevanza per l’organizzazione societaria, ma inoltre, espressamente riconoscendo l’eventualità che legittimato all’esercizio del diritto di voto sia soggetto diverso da chi ha acquistato sul mercato la partecipazione, pone inevitabilmente il problema dei criteri sulla cui base regolarne i rapporti inter partes. E non avrei dubbi che a questo secondo fine, quando per esempio si tratta di valutare su questo piano il modo in cui concretamente il voto è stato esercitato dal legittimato (ma non titolare), decisivo sia l’accertamento se e quali impegni le parti possano ritenersi aver assunto al riguardo: ciò allo scopo, naturalmente, di verificare eventuali inadempimenti e rimanendo comunque impregiudicata la validità del voto espresso. E v., per una prospettiva generale che mi pare ora confermata e rafforzata da questo recente intervento legislativo, le considerazioni nel mio, Note preliminari sulla legittimazione nei titoli azionari, in Riv. dir. comm., 1983, I, 35. 72 Pare evidente del resto che la seconda disposizione non può comunque riguardare una vendita con patto di riscatto ai sensi dell’art. 1500 c.c.: ciò è reso esplicito, come già accennato, dal riferimento nel medesimo art. 2437 sexies c.c. ad una previsione statutaria, quindi, diremmo, rilevante sul piano organizzativo della società e non su quello di negoziazioni inter partes. Ed è perciò, aggiungerei incidentalmente, che la sicura possibilità di una vendita di azioni con patto di riscatto non potrebbe di per sé, per converso, essere in grado di giustificare quella previsione statutaria: cfr. però Calvosa, La clausola, cit., spec. p. 165 ss.; e v. pure, in una prospettiva più vicina a quella qui preferita, Id., L’emissione di azioni riscattabili come tecnica di finanziamento, in Riv. dir. comm., 2006, I, 198 ss. Diversi sono in effetti, a me sembra, i limiti dell’autonomia privata in sede di organizzazione della società e delle partecipazioni sociali ed in sede di loro negoziazione. Ciò naturalmente non esclude, giova precisare, ogni possibile rilevanza dei primi anche nella seconda sede; ma una rilevanza in effetti indiretta, nel senso che può condurre a considerare negativamente la negoziazione il cui fine sia quello di eluderli, non tanto quindi applicandoli direttamente, bensì utilizzandoli per valutare la causa in concreto della negoziazione medesima (un profilo, come si è visto, segnalato dalla giurisprudenza francese in tema di patto leonino).
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di condurre a risultati economicamente equivalenti 73? La risposta mi sembra possa rinvenirsi in un altro rilievo prima formulato: che law matters. Intendo dire che da tempo, dagli studi di Coase e poi Williamson, si è acquisita la consapevolezza che le attività economiche possono svolgersi alternativamente con gli strumenti del «mercato» e della «gerarchia» e che essi sono in via di principio in grado di condurre a risultati economicamente equivalenti. Essi però si differenziano per le tecniche giuridiche utilizzate ed implicano la sottoposizione a diversi criteri valutativi. Così, per limitarmi al più facile esempio, è possibile avvalersi dell’altrui attività lavorativa sia instaurando un rapporto di lavoro subordinato sia mediante una delle possibili configurazioni del contratto d’opera. E tale scelta, consentita dall’ordinamento, viene rimessa all’autonomia dei privati, derivandone poi l’applicazione di differenti principi, salvo naturalmente il caso della frode. Lo stesso avviene, a mio parere, in tema di partecipazione sociale: il cui significato economico può essere definito dalle parti sia con riferimento al suo ruolo nella società, nel contesto dei poteri (se si vuol dire del sistema «gerarchico») da cui risulta, sia considerandola (e soprattutto considerando le singole posizioni giuridiche di cui si compone) come oggetto di negoziazione nel mercato. Ma può avvenire soltanto nel rispetto di una serie di limiti, quelli risultanti dalle specifiche caratteristiche dello strumento utilizzato o che si vuole utilizzare. Per esempio: non mi pare possibile che «nella società», nel suo statuto, si prevedano vicende di scambio tra i soci, in particolare operazioni di attribuzione patrimoniale non conseguenti allo svolgimento dell’attività sociale ed ai meccanismi mediante i quali i soci possono partecipare ai suoi risultati 74. E correlativamente: una negoziazione «nel mercato» fra
73 Noto è del resto come sia questo soprattutto l’argomento con cui viene criticata la linea di pensiero sopra illustrata in tema di applicazione del divieto di patto leonino: così per tutti Abbriani, Il divieto, cit., p. 140 ss.; e v. già Oppo, Contratti parasociali, Milano, 1942, p. 106 ss. 74 Il profilo, che ovviamente richiederebbe un ben più lungo discorso, può essere forse evidenziato limitandosi a segnalare due dati (che a me paiono) in buona parte scontati: da un punto di vista tecnico, che è sicura l’inammissibilità di clausole statutarie le quali prevedano attribuzioni patrimoniali della società ai soci che, come potrebbe essere la corresponsione di interessi, non seguano i tipici procedimenti a tal fini previsti, in definitiva quelli per la distribuzione di utili o la riduzione del capitale; e che, da un punto di vista teorico, anche da ciò è possibile trarre la sensazione che lo schema del diritto soggettivo sia in definitiva estraneo all’assetto organizzativo societario e possa assumere rilevanza soltanto quando ci si pone al di fuori di esso: e v., naturalmente, la
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soci, che invece in certo modo per definizione si traduce in attribuzioni patrimoniali tra essi, richiede ovviamente una giustificazione causale ulteriore e diversa rispetto a quella risultante dal rapporto di società 75. Non stupisce in definitiva che, al di là dell’eventuale omogeneità di risultati economici, vi siano esiti giuridici possibili «nel mercato», ma non «nella società» 76; e, per converso, si abbiano soluzioni praticabili «nella società», ma non «nel mercato» 77. E non vi è forse bisogno, a questo punto, di aggiungere che tale distinzione tra «società» e «mercato» trova la sua forma giuridica in quella che la nostra terminologia contrassegna come tra sociale e parasociale. Una distinzione che inoltre, ai fini tecnico-applicativi e sulla base di un’opinione che mi sembra sia andata diffondendosi, trova nelle società di capitali il suo principale indice di riconoscibilità nel dato meglio in grado di conferire certezza, l’iscrizione nel registro delle imprese 78. 12. A questo punto, accogliendo queste prospettive generali, non sembra difficile trarre alcune conclusioni in merito al nostro specifico problema. Non pare infatti opinabile che la clausola di drag-along, in quanto inserita in un accordo parasociale, sia soggetta ai criteri valutativi che riguardano le operazioni di «mercato», in primo luogo al principio della libera determinazione del prezzo, non a quelli che determinano il regime della «società» e dei poteri ad essa interni. Non vi è spazio quindi, se non m’inganno, per affermare un’esigenza di «equa valorizzazione» della par-
decisiva indagine di Ferro-Luzzi, I contratti associativi, Milano, 1971, spec. p. 128 ss. 75 E potrebbe essere sufficiente a tal fine limitarsi a ricordare non soltanto quanto prima accennato in tema di «assegnazione non proporzionale di azioni», ma anche i dubbi e le perplessità che le vicende societarie pongono in tema di applicazione di strumenti come la rescissione o la risoluzione, e che, ovviamente, non avrebbero senso con riferimento a negoziazioni pur fra soci e pur aventi per oggetto partecipazioni. 76 Si pensi, per limitarsi ad un facile esempio, alla discussione stessa in materia di sindacati di voto, che evidentemente non sono ipotizzabili in sede statutaria, ma che ormai vengono riconosciuti validi sul piano dei rapporti inter partes: ciò, a volte, anche ricercandone la «causa»: e v. il significativo intervento in proposito di Libonati, Sindacato di voto e gestione dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1991, I, 97. 77 Persino troppo facile è ricordare qui la possibilità, mediante la soluzione statutaria, di assegnare «efficacia reale» a regole convenzionali in tema di circolazione della partecipazione. 78 Per un primo approfondimento del senso di questa soluzione (non solo) tecnica, mi permetto rinviare al mio, Le basi contrattuali della società per azioni, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, cit., spec. p. 137 ss.
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tecipazione ed allora per applicare, in via diretta o analogica, le regole in tema di recesso o riscatto: regole che in effetti, come più volte osservato, riguardano essenzialmente l’esercizio di poteri endosocietari, se si vuol dire nella prospettiva non del «mercato», bensì della «gerarchia». È la disciplina negoziale in definitiva, non quella societaria, che può assumere rilievo per la valutazione della clausola: sia se ci si volesse interrogare, con risposta che penso agevolmente positiva, in merito alla sua idoneità a soddisfare il generale requisito della determinabilità dell’oggetto del contratto 79; sia quando ci deve chiedere, ed evidentemente valutando il caso concreto, se e quando la pretesa alla sua esecuzione può ritenersi coerente con i principi di buona fede e correttezza 80. L’applicazione in sostanza dei principi in tema di scambio, ed in primo luogo di quello che riconosce il ruolo dell’autonomia privata nel determinarne le condizioni. Né credo che a quella supposta esigenza di «equa valorizzazione» si possa pervenire, come pur a volte si è tentato, richiamando un principio di rango costituzionale di tutela della proprietà e configurando la nostra clausola come attributiva di una sorta di potere di «esproprio» 81. A questo richiamo non saprei dare, in effetti, se non un significato soltanto retorico: se non altro in quanto non è in grado, di per sé, di spiegare perché questa tutela nei confronti dell’attribuzione di un potere convenzionale di «esproprio», che certamente non opera in via generale nelle vicende di circolazione dei beni, dovrebbe operare nel nostro caso 82.
79 Mi sembra infatti che la circostanza essere la determinazione del prezzo il risultato di una negoziazione con il terzo escluda in via di principio, e salvo ovviamente il problema di abusi, per esempio in caso di collusione tra il terzo e la parte che esercita il diritto di «trascinamento», la possibilità di discorrere di una indeterminabilità ai sensi dell’art. 1346 c. c.; escluda cioè che il problema possa essere impostato ex ante, mediante un discorso in termini di invalidità, e richieda invece una considerazione ex post, reagendo agli eventuali abusi. Cfr. comunque, per un riesame della questione generale, Barenghi, Determinabilità e determinazione unilaterale nel contratto, Napoli, 2005, spec. p. 135 ss; e, riguardo al tema specifico, C. d’Alessandro, op. cit., p. 385. 80 In questo senso mi pare del resto orientata l’opinione prevalente nella letteratura che si è occupata del nostro specifico problema: v. per tutti, oltre al saggio più volte ricordato di Stabilini e Trapani ed al Lodo arbitrale, (nt. 13), spec. p. 506, la posizione assunta da De Luca, Validità, spec. p. 178; e Badini Confalonieri, I patti parasociali, in Le nuove s.p.a., diretto da O. Cagnasso e L. Panzani, Bologna, 2010, p. 315. 81 Mi riferisco così ad una prospettazione del tema avanzata dal Trib. Milano, 1 aprile 2008, (nt. 13). 82 Può ricordarsi in proposito, del resto, quanto osservato a nt. 18 e testo corrispon-
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Si tratta di nuovo, a ben guardare, della questione se la titolarità della partecipazione azionaria meriti una tutela diversa ed ulteriore, questa volta considerata nella prospettiva della «proprietà», rispetto a quella riconoscibile riguardo agli altri beni in sede di loro negoziazione nel mercato. Una questione che allora nulla in realtà aggiunge a quella già esaminata relativa ai rapporti tra disciplina della «società» e del «mercato». Aggiungerei anzi, da questo punto di vista, che le caratteristiche stesse della «proprietà azionaria» rendono il discorso meno plausibile di quanto potrebbe altrove avvenire. Il punto è stato soprattutto affrontato nella giurisprudenza tedesca, con una ricca serie di decisioni che hanno affrontato temi come quelli concernenti l’introduzione legislativa della Mitbestimmung 83, la previsione di diverse forme di squeeze-out 84 e discipline le quali limitano la possibilità di impugnative 85 e/o riducono la
dente; e v. pure, essendo sostanzialmente analogo, C. d’Alessandro, op. cit., p. 409 ss. 83 Mi riferisco, naturalmente, alle decisioni del Bundesverfassungsgericht, 7 maggio 1969, in BVerfGE, 25, 371, e soprattutto del 1 marzo 1979, in BVerfGE, 50, 290 (pubblicata anche in Giur. comm., 1979, II, 945, con mia nota). 84 Questa è l’area tematica oggi più ricca. Essa è stata inaugurata con la notissima decisione nel caso Feldmühle, ove il Bundesverfassungsgericht (con sentenza del 7 agosto 1962, in BVerfGE, 262) ha ammesso la costituzionalità della possibilità di una trasformazione realizzata mediante trasferimento dell’intero patrimonio sociale e riconoscimento alla minoranza solo di una Abfindung; poi è proseguita, con riferimento alla disciplina del § 305, Aktiengesetz, in tema di Abfindung nei rapporti di gruppo, con il Bundesverfassungsgericht, 27 gennaio 1999; ed ancora con le decisioni, altrettanto note e discusse, nei casi DAT-Altana (Bundesverfassungsgericht, 27 aprile 1999, in BVerfGE, 100, 289), Moto Meter (Bundesverfassungsgericht, 23 agosto 2000); e, più di recente, con riferimento allo squeeze-out previsto a partire dal 2002 nel § 327a, Aktiengesetz (ove si prevede la possibilità che, con delibera adottata su proposta di chi possiede il 95% delle azioni, venga disposto a suo favore il trasferimento delle residue azioni), con quella del Bundesverfassungsgericht, 30 maggio 2007, 390/04. 85 V., riconoscendo la costituzionalità del § 246, Abs. 2, Nr. 2, Aktiengesetz, quando applica le regole del Freigabenverfahren, quelle cioè secondo cui l’impugnativa di deliberazioni concernenti modificazioni del capitale o un Unternehmensvertrag non ne impedisce l’iscrizione quando proposta da chi possiede azioni per un valore inferiore a mille euro, con la conseguenza della loro definitiva efficacia e della riduzione della pretesa del socio dissenziente al solo risarcimento del danno, le due sentenze del Oberlandesgericht Hamburg del 11 dicembre 2009, in AG, 2010, 214. Osserverei peraltro, in via del tutto incidentale, come anche questi orientamenti (insieme a quelli ricordati nella nota che segue) meriterebbero di essere oggetto di meditazione nel quadro della discussione concernente la compatibilità con i principi di regole le quali, come quelle negli artt. 2377 e 2504 quater c.c., limitano appunto la legittimazione
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tutela del socio a compensazioni monetarie 86. Non è naturalmente possibile esaminare qui funditu tale complesso di temi; il che del resto richiederebbe un’adeguata analisi del sistema costituzionale tedesco. Mi limito perciò a segnalare alcuni aspetti che potrebbero essere utili ai nostri specifici fini. In particolare, e soprattutto, deve essere sottolineata la caratterizzazione della «proprietà azionaria» come gesellschaftsrechtlich vermitteltes Eigentum 87: una «proprietà», cioè, che non si definisce mediante il riferimento ad un modello ideale, in certo modo pregiuridico, di rapporto tra il soggetto ed un bene, bensì necessariamente per il tramite del diritto societario. Il che per un verso rende opinabile la possibilità di riconoscere un significato realmente tecnico a quella «proprietà» 88, per
all’impugnativa e sostanzialmente la sostituiscono con una tutela soltanto risarcitoria: e v., in termini generali, Wallenhorst, Schranken des Anfechtungsbefugnis von Aktionären, Frankfurt am Main, 1996, spec. p. 123 ss.; Vollmann, Minderheitenschutz im aktienrechtlichen Beschlussmängelrecht, Frankfurt am Main, 1997, spec. p. 73 ss.; Baums, Empfiehlt sich eine Neuregelung des aktienrechtlichen Anfechtungs – und Organhaftungsrechts, insbesondere der Klagemöglichkeiten von Aktionären? Gutachten F zum 63. Deutschen Juristentag, München, 2000, spec. p. 98 ss.; Reichert, Aktionärsrecht und Anlegerschutz, in Corporate Governance, hrgb. von Hommelhoff - Lutter - Schmidt - Schön, Heidelberg, 2002, p. 172 ss.; e più di recente Hüffer, Ausgleichsanspruch und Spruchverfahren statt Anfechtungsklage beim Verschmelzungs – oder Kapitalerhöhungsbeschluss des erwerbenden Rechtsträgers, in ZHR, 2008, 172, p. 8. 86 V. già Bundesgerichtshof, 25 settembre 1989, in WM, 1989, 1765, con riferimento alla regola, allora prevista nel § 340a, Aktiengesetz, secondo cui la contestazione della correttezza del rapporto di cambio in una fusione può condurre soltanto ad un Ausgleich; e da ultimo, in relazione alla regola secondo cui l’impugnativa di una delibera di squeeze-out ai sensi del § 327a, Aktiengesetz, non può basarsi sulla sola inadeguatezza della Abfindung, potendosi in tal caso richiedere esclusivamente il suo adeguamento tramite il Spruchverfahren (così il § 327f, Aktiengesetz), Bundesverfassungsgericht, 9 dicembre 2009, in AG, 2010, 170 (ed in proposito l’ampio commento di Schockenhoff, Rückabwicklung des Squeeze-out?, in AG, 2010, p. 436); e di recente, discutendosi la tipologia in cui deve ritenersi salva la possibilità di un’impugnativa per Rechtsmissbrauch, Oberlandesgericht Frankfurt, 26 agosto 2009, in AG, 2010, 368; cfr. anche, in un caso particolare (ove il raggiungimento della dimensione quantitativa di partecipazione richiesta dal § 327a, Aktiengesetz, per lo squeeze-out era stato ottenuto mediante un prestito dei titoli ed ove ugualmente si è esclusa un’impugnativa per Rechtsmissbrauch, consentendosi allora soltanto la contestazione della Abfindung), Bundesgerichtshof, 16 marzo 2009, II ZR 302/06, e l’ampio commento di Rieder, (Kein) Rechtsmissbrauch beim Squeeze-out, in ZGR, 2009, p. 981. 87 Così già, adottando una formulazione poi spesso ripresa, la decisione nel caso Feldmühle, (nt. 84), Rdn. 54. 88 Il punto è ben noto e ci si può quindi limitare a ricordare la discussione, in sede di analisi critica dell’impostazione di Berle e Means, in Hessen, The Modern Corporation
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un altro si riflette decisamente sul senso di una ricerca della sua tutela costituzionale. Ne deriva infatti, dal secondo punto di vista, che il tema della distinzione, decisiva per una valutazione a questi fini, tra misure di Enteignung e soluzioni normative che operano come Inhalts- und Schrankenbestimmung si atteggia diversamente rispetto a quanto avviene altrove 89. La necessaria mediazione del diritto societario nella definizione in concreto della «proprietà azionaria» potrebbe, a ben guardare, logicamente condurre ad intendere ogni sua regola sul secondo piano 90. Deve in particolare osservarsi che il «diritto societario» da cui consegue concretamente quella definizione risulta in effetti, anche nella prospettiva di una tutela costituzionale del «proprietario», da una duplice
and Private Property: A Reappraisal, in Journal of Law & Economics, 1983, 26, p. 273 (e v. pure il commento di Rosenberg e la replica di Means, ivi, rispettivamente a p. 291 ss. e p. 297 ss.); ma v. anche le considerazioni spesso trascurate dello stesso Berle, The American Economic Repubblic, New York, 1963, spec. p. 24 ss e p. 36 ss. D’altra parte, è appena il caso di osservare che la questione di una tutela costituzionale della «proprietà azionaria» certamente non è condizionata dalla possibilità di individuare una situazione giuridica corrispondente a quella da noi disciplinata nel libro terzo del codice civile, potendo comprendere anche altre vicende caratterizzate dal potere individuale ed autonomo di godere e disporre di beni della vita, potremmo dire di property e non necessariamente di ownership: e v. infatti, per esempio, discutendo un problema particolare e chiedendosi se e in che senso pongano su questo piano esigenze di tutela ipotesi nelle quali si riducono le possibilità effettuali di disposizione di elementi del proprio patrimonio, Funke, Minderheitenschutz im Aktienrecht beim “kalten Delisting”, Berlin, 2005, spec. p. 60 ss. 89 E v., espressamente qualificando nel secondo senso la regola del § 327a, Aktiengesetz, la decisione del Bundesverfassungsgericht, 30 maggio 2007, 390/04, (nt. 84), Rdn. 19; cfr. pure, in tema di mutue assicuratrici e discutendo della possibilità di cessione coattiva del portafoglio, Bundesverfassungsgericht, 26 luglio 2005, Rdn. 202; e in dottrina, tra gli altri, Haberkamp, Ausschluss von Minderheitsaktionären (“Squeeze-out”), Nordestedt, 2005, p. 12; Klöhn, Das System, cit., p. 81; e soprattutto Mülbert - L. Leuschner, Die verfassungsrechtlichen Vorgaben der Art. 14 GG und Art. 2 Abs. 1 GG für die Gesellschafterstellung – wo bleibt die Privatautonomie?, in ZHR, 2006, 170, p. 615. Superfluo è forse precisare che in tal modo non intendo certamente escludere la portata generale di tale distinzione: si pensi soltanto all’ovvia esigenza, ai fini di una valutazione di costituzionalità, di intendere sul secondo piano, e non come ipotesi di «esproprio», discipline come quella dell’acquisto a non domino o dell’usucapione (traggo l’esempio da Mülbert - L. Leuschner, Die verfassungsrechtlichen, cit., p. 625). Intendo soltanto dire che il significato per così dire «artificiale» della «proprietà azionaria» sposta i confini tra le due prospettive e modifica in termini decisivi il problema di costituzionalità cui si accenna. 90 E v. gli spunti di Jünemann, Die angemessene Gegenleistung nach § 31 Abs. 1 WpÜG im Lichte des Verfassungsrechts, Berlin, 2008, p. 89 e p. 132 ss.
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fonte normativa, la legge e l’autonomia privata, che congiuntamente stabiliscono lo statuto organizzativo della società e così pure la portata della «proprietà» del socio 91. Sicché anche alla luce di ciò deve impostarsi il problema di costituzionalità cui si accenna. Ne consegue, se non m’inganno, che quando si tratta di valutare a tali fini misure legislative il problema è in definitiva di loro coerenza funzionale con il sistema: di coerenza cioè con la funzione generale che in esso svolge l’istituto della società e di coerenza, inoltre, con la sua funzione individuale per il «proprietario» delle azioni. Perciò può assumere un ruolo, dal primo punto di vista, la prospettiva dell’esercizio dell’impresa e delle sue specifiche esigenze, che possono essere in grado di giustificare il sacrificio di interessi individuali del socio 92; e perciò assume un ruolo, dal secondo punto di vista, la caratterizzazione dell’azionista soprattutto come investitore e quindi la concentrazione della sua tutela soprattutto nella salvaguardia del valore economico dell’investimento 93.
91 E per un’analisi del senso generale di questa vicenda (del resto chiaramente evidenziata nell’art. 2377 c.c.), la confluenza di regole legali e regole statutarie nel determinare l’assetto organizzativo della società, il suo concreto statuto, mi permetto rinviare ai cenni nel mio, Le basi contrattuali, cit., spec. p. 124 ss. 92 Ed è questo un profilo che, ovviamente, ha assunto importanza soprattutto nelle Mitbestimmungsurteile (nt. 83). 93 Cfr. appunto, osservando che per i piccoli azionisti «stellt die Aktie typischerweise eher eine Kapitalanlage als eine unternehmerische Beteiligung dar», dovendosi allora ritenersi giustificata una mera compensazione economica nel caso di squeeze-out, Bundesverfassungsgericht, 30 maggio 2007, 390/04, (nt. 84), Rdn. 23; v. pure, riprendendo questa valutazione nel diritto svizzero, con riferimento alla disciplina dell’art. 8, Abs. 2, Fusionsgesetz, ove si prevede una fusione che attribuisca ai soci solo una Abfindung, Mauerhofer, Squeeze-Out Merger. Die zwangsweise Abfindungsfusion nach Art. 8 Abs. 2 Fusionsgesetz, Bern, 2009, p. 73 ss. Perciò la valutazione di costituzionalità delle misure legislative che introducono la possibilità, in vario modo, di «escludere» i soci di minoranza ovvero di incidere sulla dimensione della loro partecipazione essenzialmente s’impernia sui criteri dettati per tale compensazione e sulla loro adeguatezza, con una discussione, deve aggiungersi, che tende soprattutto a puntualizzarsi sul ruolo a tal fine della quotazione in borsa: cfr. in particolare le decisioni nei casi DAT-Altana, (nt. 84), Rdn. 56 ss.; e quella più recente del Bundesverfassungsgericht, 30 maggio 2007, 1267/06, Rdn. 16; v. pure, in termini generali per l’affermazione dell’esigenza di una angemessene Abfindung pure nel caso della übertragende Auflösung prevista in origine dal § 361, Aktiengesetz, ed ora nel § 179a, la decisione nel caso Moto Meter, (nt. 84), Rdn. 19 ss.; ed in dottrina, per valutazioni tendenzialmente nello stesso senso, tra gli altri, Schöpper, Ausschluss, cit., p. 48 ss.; Huber, Das aktienrechtliche Squeeze-Out. Verfahren im Überblick, Nordestadt, 2009, p. 10 ss.;
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Inevitabilmente diverso è l’approccio quando si tratta di valutare scelte di autonomia privata. Il tema in tal caso non si limita alla questione generale della c.d. Drittwirkung delle norme costituzionali 94; pone inoltre l’esigenza di prendere atto che da un lato all’autonomia privata è riconosciuto uno spazio di competenza nel modellare e disporre della «proprietà azionaria»; e che dall’altro essa, neppure in tale sede, non è costituzionalmente vincolata a specifiche funzioni. Il problema allora non è più quello di una tutela della «proprietà», come situazione giuridica oggettivamente intesa, ma quello generale dei limiti dell’autonomia privata. Limiti che possono anche derivare da esigenze di ordine costituzionale, per esempio deducendo dal principio
cfr. anche, per un’analisi tecnica delle implicazioni conseguenti ai diversi criteri valutativi, in particolare sui rapporti tra il valore delle sinergie che la maggioranza si attende dall’operazione di squeeze-out e la tendenza a valutare la società secondo un principio di stand-alone, e sul ruolo che può svolgere in proposito il prezzo di borsa, Rathausky, Squeeze-out, cit., p. 111 ss. e p. 149 ss.; e, discutendo di recente in merito ai criteri utilizzati dal § 39a, Abs. 3, Satz 3, WpÜG, in tema di squeeze-out a seguito di opa, Posdziech, Zur Rechtsnatur der Angemessenheitsvermutung beim übernahmerechtlichen SqueezeOut, in WM, 2010, p. 787; v. pure l’articolata analisi della questione nella decisione del Oberlandesgericht Stuttgart, 18 dicembre 2009, in WM, 2010, p. 654 (in un’ipotesi di definizione della Barabfindung a seguito di delisting); e, nella nostra letteratura, soprattutto l’ampio esame di Ventoruzzo, I criteri, cit. p. 380 ss. e p. 401 ss. Forse è superfluo aggiungere due ulteriori considerazioni. Queste prospettive da un lato corrispondono a (ed esprimono) una più ampia evoluzione, quella intesa a valutare sempre di più la posizione dell’azionista in quanto investitore, concentrandone allora la tutela soprattutto con riferimento ai significati economici dell’operazione: e cfr., in una prospettiva estrema, soprattutto basata su una valorizzazione del § 255, Abs. 2, Aktiengesetz, Mülbert, Aktiengesellschaft, Unternehmensgruppe und Kapitalmarkt, München, 1996, spec. p. 259 ss. e p. 303 ss.; v., con riferimento a questo specifico aspetto, i rilievi di Bayer, Kapitalerhöhungen mit Bezugsrechtsausschluß und Vermögensschutz der Aktionäre nach § 255 Abs. 2 AktG, in ZHR, 1999, 163, p. 505; ed in termini generali le osservazioni di Henssler - Wiedemann, Die Aktiengesellschaft im System des deutschen Gesellschaftsrecht, in Aktienrecht im Wandel, II, hrgb. Hadding e Habersack, Tübingen, 2007, p. 20 ss. Esse dall’altro non escludono, direi naturalmente, che l’inevitabile spazio di discrezionalità del legislatore nel definire i criteri per la compensazione economica degli azionisti di minoranza gli consente anche di perseguire ulteriori interessi di portata generale, per esempio adottando una politica di incentivo o disincentivo delle tendenze verso la concentrazione imprenditoriale: e v. per tutti le osservazioni di Körner, Die angemessene Gegenleistung für Vorzugs - und Stammaktien nach dem WpÜG, Frankfurt am Main, 2006, p. 91 e p. 157 ss.; e, in termini generali, Schilling, Der Ausschluss von Minderheitsaktionären, Wiesbaden, 2006, p. 93 ss. 94 E v., per una chiara analisi critica del tema, Canaris, Grundrechte und Privatrecht, Berlin-New York, 1999, spec. p. 33 ss.
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di solidarietà vincoli idonei ad ovviare a situazioni di gestörte Vertragsparität 95; ma che comunque, come gli altri limiti derivanti dalla legge ordinaria, fondamentalmente si collocano sul piano della disciplina della libertà negoziale. Se così è, mi sembra possibile osservare che la prospettiva della «proprietà» nulla aggiunga alle precedenti considerazioni. Il problema resta quello se e come la specificità dell’oggetto, la partecipazione azionaria, giustifica l’imposizione di limiti ulteriori e specifici alla libertà generale dei privati in sede di negoziazione; se e come quelli che indubbiamente si incontrano quando si definiscono gli assetti organizzativi della società si riflettono anche sulle possibilità di negoziare nel mercato. Confermerei allora la precedente conclusione che, per quanto concerne il nostro specifico problema, la clausola di drag-along, la risposta debba essere negativo. In quanto tale clausola non soltanto rappresenta una vicenda appunto di negoziazione, ma in tale profilo in effetti esaurisce la sua portata e, in termini più concreti, neppure indirettamente modifica l’equilibrio di poteri in cui l’organizzazione della società consiste 96: se non altro in quanto, trattandosi di una co-vendita, la vicenda necessariamente coinvolge in modo omogeneo le parti e non ne altera quindi i reciproci rapporti nella società 97.
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E v., in questo senso, Mülbert-Leuschner, Die verfassungsrechtlichen, cit., p. 651 ss. Superfluo mi sembra peraltro precisare che non si vuole qui certamente negare in via generale l’eventualità che vicende (in senso lato) di negoziazione della partecipazione assumano rilevanza anche per la valutazione dell’assetto societario e possano quindi richiedere di essere valutate pure alla luce dei suoi principi e regole: basta pensare non solo ai tanti interventi normativi che tale rilevanza riconoscono ai patti parasociali (e v., per un primo approccio sul punto, la recente analisi di Macrì, Patti parasociali e attività sociale, Torino, 2007, spec. p. 41 ss.), ma anche alla disciplina molte volte dettata per ipotesi (a ben guardare pur esse forme di negoziazione extrasocietaria) di intestazione fiduciaria o fittizia. 97 Il punto può essere anche illustrato sulla base di un confronto fra la nostra fattispecie e l’orientamento giurisprudenziale che in Germania tende ad escludere la validità di Hinauskündigungsklauseln nach freien Ermessen, le clausole cioè che consentono di escludere un socio senza motivazione e senza in particolare la sussistenza di una giusta causa predefinita: una invalidità la quale dovrebbe soprattutto giustificarsi per lo squilibrio che ne deriva nei rapporti fra i soci (v. la sintesi del dibattito sul punto in Ulmer - Schäfer, Gesellschaft bürgerlichen Rechts und Partnerschaftsgesellschaft, München, 2009, p. 553 ss.; e l’analitica rassegna di giurisprudenza in Becker, Die Zulässigkeit, cit., p. 31 ss.), in particolare la possibile utilizzazione del potere di esclusione come strumento di pressione, e che opererebbe sia nel caso di clausola statutaria sia in quello di patto parasociale (così, chiaramente, Bundesgerichtshof, 9 luglio 1990, in BGHZ, 112, 96
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13. Le conclusioni fin qui raggiunte si spiegano per una considera-
107). Una soluzione, osserverei incidentalmente, che esprime una prospettiva per certi aspetti simmetrica a quella di cui si è prima discorso in tema di recesso: nel senso che il potere per un socio di recedere può rappresentare un bargaining chip ed un incentivo quindi ad avviare negoziazioni endosocietarie; mentre il potere di escludere altri può, al contrario, eliminare la necessità di tali negoziazioni e rappresentare in ogni caso un elemento potenzialmente in grado di alterarne l’esito. E perciò, osserverei ancora, quell’invalidità si esclude quando la ragione della esclusione non risiede in un mero arbitrio e può ritenersi giustificata alla luce del complessivo rapporto tra le parti, se si vuol dire, ed io direi, è essa stessa il risultato di una negoziazione: e v. soprattutto, ragionando di tale «giustificazione», le due decisioni in pari data del Bundesgerichtshof, 19 settembre 2005, in BGHZ, 164, 98 (in tema di c.d. Managermodell), e in BGHZ, 164, 107 (sul c.d. Mitarbeitermodell). In questo contesto il tema posto da clausole come quella di drag-along può essere logicamente impostato in differenti modi. È possibile ritenere che, essendo le sue conseguenze dal punto di vista individuale del socio soggetto a «trascinamento» in buona parte omogenee a quelle di un’esclusione, la perdita in definitiva della partecipazione sociale, sia necessario valutarla alla luce delle prospettive in tema di Hinauskündigunsklauseln: con l’alternativa, allora, di considerarla invalida, poiché riferita auf freien Ermessen (così, sostanzialmente, Draxler, Private Equity, cit., p. 133 ss.), oppure giustificata alla luce della complessiva vicenda negoziale (v. in particolare Martinius - Stubert, Venture-Capital-Verträge und das Verbot der Hinauskündigung, in Betriebs-Berater, 2006, p. 1977; e D. Lazar, Vertragsgestaltung, cit., p. 13 s.). Il che però, qualora si voglia adottare la seconda soluzione, implica un approccio volto sostanzialmente a superare la distinzione tra rapporti endosocietari e negoziali tra i soci: e ciò non solo nel senso consueto per cui la valutazione dei secondi può a volte richiedere un’analisi della loro incidenza sui primi, ma anche in quello che la legittimità oppure no del modo in cui sono definiti gli assetti organizzativi della società potrebbe conseguire anche agli assetti negoziali, alla società allora esterni, instaurati fra le parti; un approccio in sostanza il quale andrebbe ben oltre a quello secondo il quale la validità del patto parasociale può anche dipendere dalle sue conseguenze per l’organizzazione sociale, e giungerebbe a postulare l’eventualità che la validità di una clausola statutaria dipenda dal modo in cui sono congegnati i rapporti parasociali. Ma è anche possibile, e riterrei preferibile, sottolineare la circostanza che in effetti la clausola di drag-along non pone i problemi di cui si preoccupa il segnalato orientamento giurisprudenziale e, in particolare, non può essere equiparata ad un’ipotesi di esclusione. La circostanza in particolare che il suo esito è l’alienazione dell’intera partecipazione sociale, anche di quella del socio cui compete il potere di «trascinamento», per un verso implica un’omogeneità di conseguenze per tutti i soci, ed allora quanto meno ne riduce la portata come mezzo di pressione nei confronti degli altri soci al fine di alterare i rapporti endosocietari (e v. tale rilevo in Winkler, Rechtsfragen, cit., p. 214 ss.), per un altro verso assume il significato, dal punto di vista stesso del socio «trascinato», non tanto di un’esclusione, quanto di una liquidazione della società (così soprattutto Becker, op. cit., p. 140 s.); e del resto, aggiungerei, la tecnica del trade sale, quella per cui è predisposta la clausola di drag-along, non è che una delle possibili soluzioni a tal fine, come le altre, ivi compresa la stessa liquidazione, utilizzabili al fine di conseguire il
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zione del drag-along come vicenda che non attiene al momento dell’organizzazione della partecipazione sociale, bensì a quello della sua negoziazione nel mercato. Ci si potrebbe allora chiedere se e in che senso potrebbero modificarsi qualora la clausola fosse formalmente inserita nello statuto della società e rivelasse così l’aspirazione delle parti a conferirle un significato anche «sociale» nell’assetto organizzativo della società. Per la verità, mi sia permesso osservare preliminarmente, l’inserimento formale della clausola nello statuto sembra a volte quasi il risultato, piuttosto che di un razionale calcolo costi-benefici, della ricerca di una sorta di status symbol: quale deriva dalla sensazione di una sua particolare «sacralità», se non altro per la forma solenne e la pubblicità, ed inoltre dalla sensazione di una qualche sua maggiore «forza» rispetto agli impegni assunti con patti parasociali. Dal mio punto di vista, invece, è necessario superare questo approccio, che non esito a definire impressionistico, e muovere dalla constatazione che la scelta fra clausola statutaria e patto parasociale, quando possibile, non tanto riguarda l’intensità dei loro effetti, in una dimensione di tipo quantitativo, quanto concerne una loro differenza qualitativa; e che su questo piano, essenzialmente, debbono intendersi le consuete formulazioni che distinguono tra efficacia «reale» ed «obbligatoria»98.
capital gain perseguito con l’operazione di venture capital. Se così è, e se si considera che la decisione di messa in liquidazione di una società è in certo modo per definizione arbitraria, nel senso che non richiede specifiche giustificazioni, ma è soltanto sindacabile nell’ipotesi in cui concretamente sia ravvisabile un abuso (e v. in giurisprudenza, oltre alla notissima Cass., 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur. comm., 1996, II, 329, App. Milano, 6 maggio 1955, in Giur. it., 1956, I, 1, 447; Trib. Ascoli Piceno, 25 marzo 1980, in Giur. comm., 1980, II, 949; Cass., 29 maggio 1986, n. 3628, in Giust. civ., 1986, I, 2093; e App. Roma, 4 giugno 1990, in Foro it., 1990, I, 2949; per un analogo approccio nella giurisprudenza tedesca, la ugualmente nota decisione nel caso Linotype, Bundesgerichtshof, 1 febbraio 1988, in NJW, 1988, 1579, e la sentenza in sede di rinvio del Oberlandesgericht Frankfurt, 19 febbraio 1991, in ZIP, 1991, 208; cui adde Bundesgerichtshof, 28 gennaio 1980, in NJW, 1980, 1278; Landgericht Stuttgart, 22 gennaio 1993, in ZIP, 1993, 514; e Oberlandesgericht Stuttgart, 21 dicembre 1993, in AG, 1994, 411) non è forse azzardato ritenere che non sarebbe coerente con il sistema una tutela preventiva tramite l’invalidità della nostra clausola, ma soltanto una successiva nell’eventualità appunto di un abuso nella sua esecuzione. 98 Formule, specialmente la prima, di cui altrove ho già avuto occasione di denunciare l’ambiguità (v. il mio, La circolazione, cit., p. 191 s.), specie in quanto, evocando la distinzione tra diritti reali e pretese obbligatorie, inducono, per la forza stessa del linguaggio, a riferirsi alla radicata tradizione culturale che ai primi riconosce un più intenso
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Del resto, se si trattasse della «forza» dell’impegno, non si potrebbe trascurare che quello assunto con una clausola statutaria è in via di principio suscettibile di modifica a maggioranza; mentre, nel caso di patto parasociale, sarebbe ovviamente a tal fine necessario un consenso unanime 99. Ma può essere opportuna, al di là di queste necessarie considerazioni di sistema, una pur breve analitica valutazione dei singoli aspetti che potrebbero o sembrerebbero aver portata operativa. Ci si potrebbe in primo luogo chiedere quale senso potrebbe assumere, specificamente con riferimento alla clausola di drag-along, quel discorso in termini di opponibilità nel quale spesso s’individua uno dei significati centrali della efficacia «reale» delle clausole statutarie. Discorso a mio pare concettualmente impreciso, se non altro per la logica differenza che deve ravvisarsi tra «efficacia» e «opponibilità» 100, ma che richiederebbe comunque un chiarimento dell’«opponibilità» di che cosa si tratta e nei confronti di chi. La formula della «opponibilità» evoca un effetti la possibilità di affermare la rilevanza di un fatto nei confronti di chi rispetto ad esso è terzo e trarne anche nei suoi confronti conseguenze giuridiche; mentre si tratta, con la nostra clausola, di un impegno che in primo luogo è assunto dai soci e pare destinato a rilevare soprattutto (e ci si deve chiedere se non esclusivamente) nei loro rapporti reciproci. Quale potrebbe essere allora il significato di tale formula in grado di aggiungersi al valore vincolante dell’impegno inter partes che ad esso preesiste?
valore: ciò che a me pare un equivoco, superabile solo prendendo atto che quell’efficacia «reale» null’altro rappresenta che un’espressione, necessariamente imprecisa, per esprimere il valore organizzativo dello statuto societario, qualitativamente diverso allora dagli impegni che si pongono sul piano dei rapporti interindividuali. 99 Né deve trascurarsi, sotto un altro profilo, che il riconoscimento di un effettivo significato statutario della clausola aprirebbe quanto meno la strada per l’eventualità che essa sia introdotta con deliberazione assembleare a maggioranza. 100 Intendo dire che, imperniando in tal modo il discorso sul piano della pubblicità e del suo ruolo appunto di rendere «opponibili» fatti e conseguenti situazioni giuridiche, non si può dimenticare che ciò può avvenire solo nel presupposto che essi siano a ciò strutturalmente e funzionalmente idonei: in concreto che la pubblicità non è in grado di assegnare rilevanza erga omnes a vicende prive delle necessarie caratteristiche sostanziali. E così, per quanto concerne i nostri temi, che l’«opponibilità» delle clausole statutarie presuppone il loro significato organizzativo, operando in tal senso la pubblicità al fine di rendere «opponibile» l’efficacia «reale» che da tale significato consegue.
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Una possibile risposta potrebbe essere intendere a questi fini come «terzi» i successivi acquirenti delle partecipazioni azionarie, richiamando allora la linea di pensiero che caratterizza le clausole propriamente statutarie per la loro idoneità a «vincolare» impersonalmente tutti coloro che si trovino nella posizione di socio, siano essi le parti originarie del contratto sociale oppure loro aventi causa 101. Non credo però che ci si possa muovere in questa direzione, ed avanzerei al riguardo due osservazioni: da un punto di vista generale, che il valore «vincolante» per i successivi acquirenti delle clausole propriamente statutarie non si spiega per un fenomeno di «opponibilità» a terzi, bensì, in certo modo al contrario, per il loro valore organizzativo e per la circostanza che chi è socio non può (qualunque sia la ragione per cui lo è diventato) considerarsi «terzo» rispetto all’organizzazione societaria 102; e, da un punto di vista specifico alla nostra questione, che si tratterebbe di un «vincolo» consistente in un obbligo di fare (quello di partecipare alla vendita, quando sussistono le condizioni per il «trascinamento») ovvero in una soggezione all’altrui potere di «covendita». Merita forse di soffermarsi su quest’ultimo aspetto, che potrebbe avere rilevanti implicazioni applicative. Si può forse dare per acquisito che tra le ragioni della scelta di conferire forma statutaria alla clausola di drag-along possa esservi quella di renderla impersonale e così impegnativa per tutti i soci, al di là degli originari contraenti: del resto tale formula presuppone una redazione appunto impersonale della clausola
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E v., per questo orientamento, soprattutto Rescio, La distinzione del sociale dal parasociale (sulle c.d. clausole statutarie parasociali), in Riv. soc., 1991, 596. Un orientamento che, penso, coglie certamente nel segno sottolineando un’importante caratteristica delle regole «sociali» nella società per azioni, quella di porsi su un piano oggettivo a prescindere dalla situazione «personale» del singolo; ma che, a mio parere, trascura la necessità, essenziale a fini applicativi, di distinguere tra il profilo della fattispecie e quello della disciplina. Intendo dire che il profilo dell’«efficacia» appartiene, comunque definito, alla seconda sfera (e ciò tanto più quando può coinvolgere soggetti diversi dalle parti) e non può quindi essere in grado di definire la prima (e l’a. è infatti costretto a ricercarla, ed in definitiva esaurirla, nell’intento delle parti, rinunciando così a soddisfare l’esigenza, a mio parere imprescindibile, di criteri oggettivi: e v. in particolare p. 640). 102 Per una più ampia illustrazione di questa prospettiva, e per un tentativo di mostrarne le sue implicazioni in merito ai rapporti tra circolazione della partecipazione azionaria e principi del diritto cartolare, mi permetto ancora rinviare al mio lavoro, La circolazione, cit., spec. p. 131 ss. e p. 230 ss.; cfr. pure, per una valutazione critica, i rilievi di F. d’Alessandro, Un nuovo libro sui titoli azionari, ora in Scritti di Floriano d’Alessandro, II, Milano, 1997, spec. p. 659 ss.
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stessa. Ma proprio perciò, guardando al suo contenuto, possono sorgere importanti dubbi in merito alla sua validità. Deve infatti considerarsi che in tal caso la clausola, a causa della sua stessa formulazione impersonale e del suo inserimento nello statuto, deve essere valutata (direi: richiede di essere valutata) alla luce dei principi propri del diritto societario; ed entra allora in diretta collisione con quello secondo cui nelle società di capitali è in via generale esclusa la possibilità di obbligazioni dei soci ulteriori rispetto a quella concernente il conferimento 103. Si rifletta su questo punto, penso coerente con tutto quanto fin qui osservato. Nulla impedisce, ovviamente, che i soci assumano con negoziazioni «parasociali» obblighi diversi ed aggiuntivi rispetto a quello di conferimento; l’esigenze di tipicità dell’organizzazione societaria impediscono però che ciò avvenga in sede «sociale»: in quanto ne risulterebbe appunto alterato il modello organizzativo. Da ciò, a mio parere, la sensazione che l’opzione statutaria per la clausola di drag-along potrebbe, se considerata nella prospettiva accennata, non tanto darle maggiore «forza», quanto persino pregiudicarne la validità 104. Aggiungerei, da questo punto di vista, che se realmente si trattasse di un obbligo (e correlativo potere) di «trascinamento», se realmente fosse possibile intenderlo sul piano dell’organizzazione societaria, diverrebbero veramente labili i confini rispetto all’ipotesi del riscatto. Potrebbe anzi ritenersi che la stessa scelta delle parti di assegnare rilievo statutario alla vicenda implica quella di assoggettarla ai principi appunto del diritto societario: principi che, presupponendo situazioni di «potere», muovono da una prospettiva diversa da quella degli scambi nel mercato e non necessariamente, come dimostrano appunto la disciplina del recesso e del riscatto, si esauriscono nella libertà contrattuale.
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E per un esplicito spunto in tal senso, con riferimento al nostro tema, v. Winkler, Rechtsfragen, cit., p. 203 e p. 217. 104 Osserverei anzi, ma il punto richiederebbe ben altro approfondimento, che nel nostro caso potrebbe essere opinabile pure l’utilizzabilità della tecnica che ci siamo abituati a denominare «conversione della clausola statutaria in patto parasociale»: in quanto non si tratta qui, come per lo più accade nelle ipotesi cui così si allude, di regole pattizie contenutisticamente estranee all’organizzazione sociale, ma di una regola in diretto contrasto con i suoi principi. La sensazione è in sostanza che possa trattarsi di una vicenda analoga a quella in tema di patto leonino: che a certe condizioni può essere valido in sede «parasociale», ma che è sicuramente invalido quando inserito nello statuto, senza possibilità, se non m’inganno, di siffatta «conversione».
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Per un altro verso non penso che, proseguendo in questa rassegna degli ipotetici significati «reali» della clausola, sarebbe possibile considerare l’eventualità che essa sia in grado di attribuire al terzo, da intendere in questo caso come il compratore nella vicenda di covendita, una pretesa nei confronti del socio soggetto al «trascinamento». Anche a tale ipotetica configurazione si oppongono, mi sembra, rilevanti ostacoli. In realtà la efficacia «reale» dello statuto, se si vuol dire la sua «opponibilità» nei confronti dei terzi, non implica di per sé che essi possano dedurne pretese in senso tecnico nei confronti della società e tanto meno, aggiungerei, nei confronti dei singoli soci 105. Significa soltanto che il terzo, il quale entra in rapporto con la struttura organizzativa della società, necessariamente subisce le conseguenze del modo in cui essa è oggettivamente congegnata. Ciò del resto mi sembra confermato, al di là di ogni discorso generale, dal modo stesso in cui la legge ha disciplinato le clausole statutarie di mero gradimento. Un modo che esplicitamente nega tutela all’interesse del terzo all’acquisto e quindi una sua pretesa positiva in tal senso 106.
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Mi riferisco in tal modo ad una questione che in sede generale mi pare estremamente delicata e complessa, e devo perciò limitarmi ad una sola e semplice osservazione, forse qui sufficiente: che in effetti, se è estranea allo statuto e con esso incompatibile la funzione di costituire diritti ed obblighi in senso tecnico fra i soci, forse a maggior ragione ugualmente si deve ritenere con riferimento alla posizione dei terzi; i quali allora possono assumere diritti o obblighi nei confronti della società e/o dei soci soltanto sulla base di operazioni contrattuali cui partecipano: e v. per tutti, fondamentalmente in questo senso, Ulmer, Begründung von Rechten für Dritte in der Satzung einer GmbH?, in Festschrift für Winfried Werner, Berlin-New York, 1984, p. 911; cfr. anche, proponendo analogo rilievo con riferimento al nostro specifico problema, il Lodo arbitrale, (nt. 13), p. 509; e, adottando invece la configurazione qui criticata, Trib. Milano, (nt. 13). 106 Credo evidente, infatti, che la soluzione ora adottata con l’art. 2355 bis c.c. rappresenti, dal punto di vista politico, una chiara scelta nel senso di individuare l’interesse meritevole di tutela in quello individuale del socio a poter negoziare la propria partecipazione, e non dei terzi, ed in definitiva del mercato, a tale oggettiva negoziabilità; e, dal punto di vista tecnico, nell’adozione di soluzioni volte appunto ad assicurare comunque il diritto di exit del primo (e significativamente, come prima accennato, utilizzando criteri dettati per le altre forme di exit, il recesso e il riscatto), negando invece rilevanza all’interesse del terzo acquirente, pienamente subordinato al «gradimento», anche «mero», dell’organo sociale competente: e v. per tutti, evidenziando questi aspetti politici e tecnici nella precedente discussione, Castellano, Fine della clausola di gradimento?, in Giur. comm., 1978, II, 639; Denozza, Sopravvivenza (ma entro quali limiti?) delle clausole di gradimento, idem, 1979, II, p. 10; ed il mio, Fine dell’atto di gradimento?, in Giust. civ., 1983, I, p. 2066.
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In definitiva, in ipotesi come quella qui considerata, l’eventualità di una tutela «reale» (ma allora sarebbe meglio dire: in forma specifica) del terzo acquirente prescinde del tutto dalla collocazione statutaria della clausola e richiede l’utilizzazione di meccanismi come soprattutto quello previsto nell’art. 2932 c.c., giustificandola per esempio con una ricostruzione della clausola come contratto a favore di terzo ovvero come conferente un potere di rappresentanza al socio che si trovi in condizione di «trascinare» l’altro 107. Un meccanismo il quale però, ed è questo il punto da sottolineare nella presente sede, pare largamente estraneo agli assetti organizzativi della società ed in effetti si caratterizza essenzialmente come momento della disciplina degli scambi nel mercato 108. Aggiungerei che un discorso largamente analogo deve farsi con riferimento alla stessa pretesa del socio con potere di «trascinamento». Nel senso che plausibilmente possono ipotizzarsi evenienze in cui sia utilizzabile lo strumento di tutela dell’art. 2932 c.c.; ma che a ciò nulla in effetti aggiunge la collocazione statutaria della clausola. Forse anche molto toglie: nel senso che rende «sociale» un obbligo a contrarre altrimenti «parasociale» ed allora lo assoggetta alla disciplina specifica dei rapporti sociali; il che, come accennato, potrebbe condurre alla sua invalidità, se si sottolinea la inammissibilità di obbligazioni ulteriori a quella di conferimento, ovvero all’applicazione di regole, come quelle in tema di recesso e riscatto, dettate per le vicende endosocietarie di dismissione della partecipazione 109.
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E v., segnalando l’uso di questa tecnica, Winkler, Rechtsfragen, cit., p. 209. Il che, se non m’inganno, potrebbe evidenziare come un’efficacia «reale» ben più incisiva, ed in effetti giuridicamente più sicura, sia nel nostro caso ottenibile mediante una procura irrevocabile a vendere: con uno strumento, appunto, tipico delle vicende di scambio ed esterno rispetto ai temi dell’assetto organizzativo della società; e v. pure lo spunto di C. d’Alessandro, op. cit., p. 380 s. 108 Anche questo è un aspetto che certamente meriterebbe un ben maggiore approfondimento. Segnalo soltanto, traendone conferma per quanto osservato nel testo, che non (mi) risulta darsi casi in cui si sia discusso dell’applicazione dell’art. 2932 c.c. con riferimento a rapporti propriamente «sociali»; mentre si discute, in certo modo al contrario, della possibilità di avvalersi di tale meccanismo quando si tratta, come per esempio in tema di sindacati di voto, di attribuire rilevanza «sociale» ad obbligazioni «parasociali». 109 Intendo dire che anche quelle ipotesi possono intendersi, ed in gran parte sono dallo stesso legislatore intese, come forme di negoziazione della partecipazione. Esse però si caratterizzano per la circostanza che non avvengono nel mercato, bensì all’interno della società e sono quindi sottoposte alle sue specifiche regole. Sicché, se tali regole non possono in principio impedire che le parti scelgano invece la strada di una negoziazione di mercato (per esempio, invece di esercitare il diritto di recesso ovvero il
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Deve infine considerarsi un ulteriore possibile modo di assegnare un senso alla collocazione statutaria della clausola di drag-along ed alla sua supposta efficacia «reale»: quello, spesso prospettato, di intenderla come clausola limitativa della circolazione 110. Ciò potrebbe spiegare la sua rilevanza in termini omogenei per i soci e per i terzi, segnalando cioè che tale clausola, così intesa ed in quanto come le altre consentite dall’art. 2355 bis c.c. volta a definire le condizioni per l’acquisto della partecipazione ed in concreto per l’esercizio dei relativi diritti, contribuisce pur essa a caratterizzare (non tanto rapporti interindividuali fra i soci, quanto) l’assetto organizzativo della società. Si tratterebbe in sostanza, volendo perseguire tale strada, del tentativo di ricondurre il fondamento e il senso della ricercata efficacia «reale» della clausola alla caratteristica tipica ed esclusiva delle regole statutarie, quella di conformare l’organizzazione societaria. Un approccio a mio parere metodologicamente corretto, ma che nel nostro caso specifico apre il fianco a dubbi (per me) di rilevante portata 111. Penso infatti corretto, da un punto di vista metodologico, che il senso della efficacia «reale» delle clausole limitative della circolazione sia ricercato sul piano organizzativo della società, non su quello di una caratterizzazione delle pretese, se si vuol dire dei «diritti», dei soci e/o dei terzi. Se così è, però, ne deriva la conseguenza applicativa che esse operano non tanto sul piano nella negoziazione di tali diritti, quanto definendo le condizioni, appunto organizzative, sulla cui base tale negoziazione può assumere rilevanza nella società 112; con l’ulteriore conseguenza, concretamente operativa, che è soprattutto compito degli organi sociali verificarne l’osservanza. Ritengo così, per un aspetto che credo di particolare evidenza, che la clausola statutaria di prelazione non implichi, in quanto tale, l’attribuzio-
potere di riscatto, decidano di operare mediante una compravendita) e le rendano così inapplicabili, a tale risultato non è forse possibile pervenire quando esse, mediante una collocazione statutaria della clausola, decidono di inserire la vicenda sul piano «sociale». Ciò, se non altro, risulterebbe contraddittorio con questa stessa decisione. 110 Così, tra gli altri, Picciau, La disciplina, cit., p. 862 s.; v. pure lo spunto del Trib. Milano, 31 marzo 2008, in Società, 2008, 1375; ed i rilievi critici di Sáez Lacave - Beramejo Gutiérrez, Inversiones, cit., p. 23 s; cfr. anche l’accurata analisi in C. d’Alessandro, op. cit., p. 388 ss. 111 Traggo spunto per i cenni nel testo dall’accurata analisi dell’argomento, pur con differenti conclusioni, nel segnalato saggio di Stabilini e Trapani. 112 E per tale prospettiva mi permetto ancora rinviare al mio lavoro, (nt. 44), p. 151 ss.
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ne ai soci di una pretesa «reale» all’acquisto della partecipazione, ma la previsione di un procedimento necessario affinché le sue negoziazioni rilevino per l’organizzazione societaria e consentano un valido esercizio dei diritti sociali 113: sicché in caso di sua inosservanza ne risulta, in concreto, il potere-dovere dei competenti organi sociali di impedirlo 114. Ma, bisogna chiedersi, potrebbe qualcosa di simile predicarsi per la nostra clausola di drag-along? Credo lecito dubitarne. Deve osservarsi infatti che in tal caso il mancato rispetto della clausola non si tradurrebbe nell’impedimento all’esercizio dei diritti sociali da parte di un acquirente, poiché il suo acquisto non è avvenuto coerentemente con i meccanismi richiesti dallo statuto organizzativo della società, ma inciderebbe sulla posizione di chi è socio, non avendo adempiuto ad un obbligo statutario di alienazione: ad egli sarebbe impedito l’esercizio di tali diritti, in sostanza una loro sospensione. Ed è in ciò che vedo una serie di difficoltà, forse insormontabili. In primo luogo osserverei, da un punto di vista generale e in certo modo formale, che in tal modo le regole concernenti la disciplina statutaria della circolazione azionaria (rectius: i procedimenti perché tale circolazione, che per definizione avviene nel mercato, acquisti rilevanza nella società) verrebbero estese ad una vicenda in buona parte diversa: quando il socio, che ovviamente è già nella società, non adempie ad un proprio obbligo (supposto) statutario. La circostanza che tale obbligo abbia come contenuto l’alienazione della partecipazione non è forse sufficiente per giustificare un’analogia tra le due ipotesi. In termini più concreti mi sembra che il cuore del problema risieda nell’interrogativo, che prescinde da una qualificazione della vicenda in termini di «limitazione della circolazione», se è consentito all’autonomia statutaria prevedere ipotesi di sospensione dell’esercizio dei diritti sociali ulteriori rispetto a quelle individuate dalla legge 115. Se si riflette allora che tali ipotesi sono essenzialmente quelle dell’inadempimento dell’ob-
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Aggiungerei incidentalmente che la distinzione in termini generali tra i due piani, quello della negoziazione e quello della sua rilevanza nella sede organizzativa della società, può ritenersi ora ulteriormente sottolineata dal sistema del record date: il quale, in certo modo per definizione, individua un periodo temporale nel quale le negoziazioni della partecipazione sono senza dubbio pienamente valide ed efficaci nel mercato, ma non possono consentire l’esercizio dei diritti sociali. 114 Cfr. ancora il mio lavoro, La circolazione, cit., p. 194 ss. 115 Correttamente perciò, al di là della qualificazione della clausola, questo aspetto viene segnalato e posto al centro della discussione nel saggio di Stabilini e trapani.
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bligo di conferire ovvero di specifici obblighi di legge, appare più che plausibile nutrire forti dubbi. Intendo dire che la soluzione richiederebbe di poter qualificare l’obbligo di alienazione del socio soggetto a «trascinamento» come una vera e propria obbligazione «sociale». Ed intendo dire, considerando l’altra faccia della medaglia, che quella sospensione non potrebbe in ogni caso essere prevista per inadempimenti che non riguardano la società in quanto tale, bensì soltanto rapporti interindividuali fra i soci. Il che però, a ben guardare, incontra il fondamentale ostacolo consistente nel principio che esclude per le società di capitali obbligazioni ulteriori a quella di conferimento. Ciò del resto mi sembra confermato dall’ipotesi che a tale principio fa eccezione: quella delle prestazioni accessorie prevista dall’art. 2345 c.c. Essa individua l’eventualità di obblighi ulteriori al conferimento, ma chiaramente presuppone che siano funzionali all’attività sociale, ed in questo senso consente sia di sottoporne la disciplina ad un principio di diritto societario come quello di maggioranza 116 sia di prevedere «particolari sanzioni per il caso di inadempimento», tra cui annovererei certamente anche quella della sospensione dell’esercizio dei diritti sociali. Se così è, potrebbe apparire logico dedurne a contrario che ciò non sia possibile in mancanza di tali condizioni; e naturale sarebbe l’osservazione che quella funzionalità per lo svolgimento dell’attività sociale solo artificiosamente potrebbe essere ravvisata negli obblighi previsti dalla clausola di drag-along. Essi sono in realtà funzionali, ed esclusivamente, alla vicenda finanziaria in cui s’inseriscono e da cui derivano (lo si ribadisce: sul piano della negoziazione fra le parti) la loro giustificazione causale. 14. In definitiva, e concluderei così queste mie riflessioni, la clausola di drag-along mi sembra debba essere valutata per il significato dell’operazione di mercato in cui s’inserisce, un’operazione in quanto tale estranea alla società e ai principi che presiedono alla sua organizzazione. Con la duplice conseguenza che l’indagine sulla sua validità deve
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Per un tentativo di comprendere la rilevanza sistematica di questa possibilità offerta dal terzo comma dell’art. 2345 c.c. all’autonomia statutaria, mi permetto rinviare al mio, La costituzione della società per azioni, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, XVI, 2, Torino, 1985, p. 256 ss.; e v. pure il recente riesame del tema in Bertolotti, Società con prestazioni accessorie, Milano, 2008, p. 144 ss.
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essere compiuta in base alle regole concernenti le operazioni di mercato; e che rilevanti dubbi possono nutrirsi quando si tenta di «trasfigurarla» inserendola nell’assetto organizzativo della società. Potrebbe così trattarsi, riterrei, di un’ipotesi di regola pattizia valida in quanto «parasociale», ma che, qualora invece proposta in termini «sociali», in concreto con la redazione di una clausola statutaria, non tanto acquisisce una più intensa efficacia, quanto effettivamente può vanificarla 117.
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117 E v. lo spunto, in questo senso, di Szego, Il venture, cit., p. 50 s.; cfr. anche, con riferimento specifico alla configurazione della clausola, inserita nello statuto, come limitativa della circolazione, i rilievi di Sàez Lacave - Beremejo Gutiérrez, Inversiones, cit., p. 26.
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La responsabilità civile degli “esperti attestatori” nell’ambito dei “piani”, degli “accordi” e dei concordati * Sommario: 1. Introduzione. – 2. La figura del professionista attestatore. – 3. Attestazione e revisione certificativa. – 4. La figura professionale del decreto correttivo: il ruolo dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. – 5. La prestazione dedotta: l’attestazione della ragionevolezza, fattibilità, attuabilità del piano. – 6. Spunti dal dibattito sulla responsabilità dei revisori. – 7. Natura contrattuale della responsabilità del professionista. – 8. I riflessi della natura contrattuale: la prescrizione dell’azione di danni. – 9. Segue: la prova dei presupposti della responsabilità (inadempimento e danno risarcibile). – 10. Segue: l’oggetto della prova per il danneggiato e per il danneggiante. – 11. Segue: ancora sull’oggetto della prova dell’evento dannoso. – 12. L’entità e la prova del danno risarcibile.
1. Introduzione. Il tema della responsabilità del professionista attestatore sembra scontare una “drammatizzazione”, dipendente, non tanto da una speciale problematicità intrinseca al tipo di attività professionale svolta, quanto piuttosto dalla “sovraesposizione” che la figura ha finito per assumere dopo le innovazioni legislative dirette a modernizzare gli strumenti di soluzione delle crisi d’impresa 1. Strumenti, sempre più improntati ad
* Relazione al Convegno “Le procedure di composizione negoziale delle crisi di impresa: opportunità e responsabilità” (Reggio Emilia, 8 ottobre 2010), corredata da note essenziali. 1 Ricorre frequentemente, in giurisprudenza, l’affermazione enfatica che l’attività di attestazione del professionista «ricade sotto la sua responsabilità» o «comporta l’assunzione di responsabilità»: così, da ultimo, Trib. Milano, 11 febbraio 2010; Trib. Milano, 25 marzo 2010; Trib. Roma, 20 maggio 2010; le sentenze si leggono in dejure.giuffre. it. Con riferimento al concordato preventivo, parlava di «motivata assunzione di responsabilità propria in ordine al risultato», a proposito del giudizio dell’esperto, già Trib. Torino, 17 novembre 2005, in Fallimento, 2006, 691.
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una filosofia e ad una logica di stampo privatistico, che affidano ad un patto negoziale tra debitore e creditori il progetto di soluzione della crisi, ma ancora influenzati dall’ispirazione e preoccupazione pubblicistiche che, in passato, hanno animato le procedure concorsuali; preoccupazione ed ispirazione che, ancor oggi, pretendono, per la tutela del pubblico delle imprese e dei creditori, che su quel progetto intervenga un controllo di legalità e di convenienza affidato al giudice, aperto all’ulteriore controllo, nel pubblico interesse, del p.m. In questo quadro, nel contrasto tra le opposte tesi, che assegnano ai soli creditori o anche al Tribunale la verifica di convenienza, per così dire nel merito, delle procedure in questione 2, l’esperto professionista rischia di vedere caricata la sua figura professionale di un ruolo di “garanzia della convenienza della procedura”, che forse non gli spetta e che certamente non corrisponde all’attività professionale che egli è chiamato a svolgere. La sua, infatti, è attività di verifica e di certificazione tecnica dei presupposti di fattibilità e attuabilità delle proposte del debitore, che ha funzione di informazione per i soggetti e gli organi coinvolti nella procedura (creditori, commissario, Tribunale); soltanto a questi, però, è riservata la decisione sull’approvazione e sull’adesione alla proposta dell’imprenditore. Dunque, parliamo di un’attività professionale in senso proprio, sottoposta alle normali regole della responsabilità civile. Per le considerazioni che precedono, si potrebbe essere indotti a supporre che la cennata “drammatizzazione” di questa particolare responsabilità professionale sia una delle conseguenze del perdurante equivoco sui ruoli degli organi delle procedure alternative al fallimento e specialmente su quello spettante, dopo la riforma, all’autorità giudiziaria. Ribadito ancora che ci troviamo di fronte ad un’ipotesi di responsabilità professionale, cioè di responsabilità per lo svolgimento dell’attività di un professionista intellettuale ad alto contenuto tecnico, ricordiamo che le questioni sulla responsabilità civile (cioè sulla sanzione privata, consistente nel pagamento di una somma di denaro per risarcire il danno provocato) comportano la risposta ad alcune domande, sul fondamento e sulla funzione della responsabilità, sulla legittimazione a chiedere il risarcimento e sulla quantificazione del danno. Le domande sono strettamente connesse e le risposte consentono di precisare quale sia l’attività privata che viene sottoposta a controllo
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Per cenni sul punto, v. Traversa, «Privatizzazione dell’interesse» e ruolo dell’autorità giudiziaria, in Giur. merito, 2009, p. 160 ss.
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di legalità e con quali modalità debba essere svolta; consentono inoltre di determinare gli interessi privati per la cui soddisfazione quell’attività viene svolta. In ragione della sanzione, applicata in caso di mancata soddisfazione degli interessi protetti, chi compie quell’attività sarà indotto, in via preventiva, a non sbagliare ed a comportarsi al meglio nello svolgimento del suo compito. Anche quando ragioniamo della responsabilità del “professionista attestatore” (la figura “professionale” introdotta nella nuova legge fallimentare, con particolare riguardo alle c.d. procedure di composizione della crisi) ci muoviamo all’interno di questo quadro tematico. Occorrerà dunque esaminare l’attività professionale svolta da questa figura e valutare gli interessi che essa intende soddisfare, per potere enunciare qualche ipotesi di responsabilità quando lo svolgimento dell’attività non riesca a soddisfare coloro nel cui interesse essa era stata autorizzata e programmata. Crediamo perciò che, solo riportando l’indagine sui meccanismi di funzionamento del fenomeno giuridico della responsabilità civile, si riesca a collocare in una più corretta prospettiva il rischio effettivo, implicato dall’attività che la legge richiede al nostro professionistaattestatore, contribuendo così, forse, ad attenuarlo e stemperarlo. 2. La figura del professionista attestatore. Cominciamo, innanzitutto, a vedere chi sono i nostri “presunti responsabili”: a che proposito compaiono nella legge fallimentare e quale attività viene loro richiesta. Il “professionista” della cui responsabilità civile ci occupiamo, e che chiamiamo “professionista o esperto attestatore” ricorre, con specifico riferimento al concordato preventivo, nella previsione contenuta nell’art. 161, co. 3. Qui, sulla premessa che il ricorso per l’ammissione al concordato preventivo deve essere accompagnato da «a) una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa; b) uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione; c) l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore; d) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili», si dispone che «il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lettera d), che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo».
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Troviamo figure professionali analoghe in altre norme della legge fallimentare: – nell’art. 67, co. 3, lett. d), secondo il quale non sono revocabili «gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria e la cui ragionevolezza sia attestata da un professionista iscritto nei revisori contabili e che abbia i requisiti previsti dall’art. 28, lettere a) e b) ai sensi dell’art. 2501-bis, quarto comma, del codice civile»; – nell’art. 182 bis, co. 1, secondo cui «l’imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando la documentazione di cui all’articolo 161, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lettera d), sull’attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei». Lo stesso professionista compare ancora nel co. 6 dell’art. 182 bis. Com’è noto, infatti, l’articolo in esame è stato modificato dall’art. 48, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, che ha aggiunto al testo definito dal c.d. decreto correttivo del 2007 i commi da 6 a 9, introducendo la possibilità di “anticipare” gli effetti dell’accordo di ristrutturazione al momento del deposito della proposta di accordo, accompagnata dall’“autocertificazione” dell’imprenditore e da una «dichiarazione del professionista avente i requisiti di cui all’art. 67, 3° comma, lett. d), circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare». Sottolineiamo fin d’ora la differenza terminologica tra la “dichiarazione del professionista circa la idoneità della proposta…” e la “relazione sull’attuabilità dell’accordo”, richiesta dal 1° comma dell’art. 182 bis. Ma su ciò torneremo più avanti, quando esamineremo più precisamente la prestazione del professionista attestatore.
3. Attestazione e revisione certificativa. L’attività del professionista attestatore può essere in prima approssimazione definita di “certificazione”, intendendosi genericamente come “certificativa” quell’attività di controllo o di revisione, destinata per legge
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o per volontà del committente a permettere ai terzi di conoscere la situazione patrimoniale e gestionale dell’impresa interessata, e non operata ad uso meramente interno 3. La descrizione dell’incarico affidato dalla legge al predetto professionista, infatti, non può non richiamare i tipi dell’attività di revisione contabile, definita in dottrina come l’attività diretta ad effettuare un «controllo della regolarità formale e sostanziale della contabilizzazione dei fatti di gestione e del bilancio di un altro soggetto, rilasciandone attestazione» 4. La valutazione di “fattibilità del piano concordatario” affidata dalla legge all’“attestatore” richiama poi il contenuto della relazione degli esperti di cui all’art. 2501 sexies, che, ai sensi dell’art. 2501 bis, c.c. (dettato in caso di fusione con indebitamento), devono attestare la ragionevolezza delle indicazioni contenute nel progetto di fusione. Poiché tali esperti sono revisori contabili o società di revisione, si conferma così la qualifica dell’attività in esame come quella della “revisione certificativa”, attività caratteristica dei professionisti “revisori”. Si aggiunga che, oltre al contenuto delle relazioni dei predetti professionisti, indicato dalla legge, anche la prescritta iscrizione nell’albo dei revisori dei conti rimanda, già in apertura del discorso, all’attività di revisione e, in particolare, di revisione certificativa, come attività professionale di riferimento (ne seguirà l’ovvio richiamo, per i relativi riflessi nel campo della responsabilità civile, ai temi ed ai problemi che hanno recentemente animato la materia della responsabilità dei revisori e delle società di revisione). In questi ridotti e semplificati termini, quindi, ripetiamo che l’attività dei professionisti in questione è di revisione e di certificazione: in particolare, sempre in prima approssimazione, essa ha per oggetto la verifica della ragionevolezza dell’idoneità del c.d. piano di risanamento a consentire il risultato e ad assicurare il riequilibrio finanziario, la verifica della veridicità dei dati aziendali esposti nel progetto di concordato e della
Così Conte, Responsabilità della società di revisione in caso di revisione volontaria nell’ambito di una due diligence, in Giur. comm., 2000, II, p. 445 s.; Marazzi, Note in tema di contratto per persona da nominare e di responsabilità delle società di revisione contabile, Nota a Cass. 18 luglio 2002, n. 10403, in Giur. it., 2003, 674. 4 Così Rossi, Spunti sulla nuova disciplina della revisione contabile, in Società, 1999, p. 1034 ss. 3
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fattibilità del progetto stesso, il controllo sull’attuabilità dell’accordo di ristrutturazione e sulla sua idoneità ad assicurare il pagamento regolare di tutti i creditori.
4. La figura professionale del decreto correttivo: il ruolo dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. È merito del decreto correttivo di avere definito la figura del professionista attestatore, consentendo l’esatta identificazione del tipo professionale abilitato 5. Come abbiamo visto, il perno normativo dell’operazione di identificazione è costituito dall’art. 67, co. 3, lett. d). Infatti, in sede di concordato preventivo (art. 160, co. 2; art. 161, co. 3), come in quello fallimentare (art. 124, co. 3), ed a proposito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti dell’art. 182 bis, il soggetto di riferimento dell’attestazione è sempre il “professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lett. d)”: disposizione, questa (dettata in occasione della introduzione della irrevocabilità di atti compiuti in esecuzione dei “piani di risanamento”), che assume, quindi, valore definitorio dei requisiti del “professionista” in esame. I tratti identificativi del tipo o figura professionale, che deve essere «iscritto nel registro dei revisori contabili», si completano con l’ulteriore richiamo che l’art. 67 fa alle lett. a) e b) dell’art. 28, che richiedono l’abilitazione alla professione di avvocato, dottore commercialista, ragioniere e ragioniere commercialista (utilizzata personalmente o nell’ambito di studi professionali associati o di società tra professionisti). I requisiti soggettivi, e più in generale la qualifica di professionista– revisore contabile dell’attestatore in esame, sono una novità del decreto correttivo che, rispetto alla previsione del testo della riforma della legge
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Sui requisiti soggettivi (e sul contenuto dell’attività) del professionista attestatore è intervenuto più volte L. Mandrioli, I piani di risanamento e di ristrutturazione ed il ruolo del professionista, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Bonfatti, Milano, 2005, p. 218 ss.; ID., Il piano di ristrutturazione nel concordato preventivo tra profili giuridici ed aspetti aziendalistici, in Fallimento, 2005, p. 1337 ss.; ID., Le relazioni attestative del professionista, NDS, 2006, p. 37 ss.; ID., Il concordato preventivo, La riforma organica delle procedure concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008, p. 696 ss. Sul tema v. ora Celentano, I requisiti del professionista che attesta i piani concordatari, in Fallimento, 2010, p. 824 ss.
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fallimentare, contribuisce a definire il ruolo assegnato dalla legge alla figura. Più che alla soluzione di questioni formali, come quelle relative alla nomina ed all’investitura 6, crediamo che la definizione della figura professionale operata dal decreto correttivo aiuti piuttosto a determinare il ruolo del professionista e l’attività a lui richiesta e, conseguentemente, l’oggetto della prestazione attesa. Così gettando le basi per stabilire i profili di un’eventuale responsabilità civile. Il ruolo del professionista si precisa ancor meglio se si confronta il precedente con il nuovo assetto degli strumenti negoziali di soluzione delle crisi di impresa: improntato, il vecchio impianto – riferito quanto meno al concordato – ad un controllo giudiziario anche di convenienza; mentre il nuovo assetto si caratterizza per il controllo giudiziario depotenziato sulla convenienza, lasciando alla volontà della maggioranza dei creditori la parola definitiva sul punto, ma pretendendo che ai creditori venga fornita un’informazione precisa e completa sulla situazione di crisi, accompagnata da una valutazione professionalmente competente sulla congruità della proposta per superarla 7. Nella fase istruttoria delle procedure di sistemazione delle crisi d’im-
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Per la nomina del professionista da parte del debitore, v. Perugini, Il “professionista” nel concordato preventivo, in il Fallimento, 2009, p. 902; anche la Circolare n. 3/IR 23.06.2008 del Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti e Esperti Contabili affida la nomina all’imprenditore individuale o collettivo. Per il regime intermedio (tra riforma e decreto correttivo) si è espressa a favore della nomina affidata alla discrezione del debitore Cass., 29 ottobre 2009, n. 22927, in il Fallimento, 2010, 822. Con speciale riguardo al professionista attestatore dei piani di risanamento, concordano per la nomina affidata al debitore Trib. Milano, 10 marzo 2009; Trib. Mantova, 31 marzo 2009; Trib. Bologna, 15 aprile 2009; Trib. Treviso, 20 aprile 2009, tutti in Dir. fall., 2010, II, 125 ss. Per la nomina da parte del Presidente del Tribunale competente in caso di s.p.a. si erano pronunciati, tra gli altri, Bonfatti, in La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, a cura di Bonfatti e Censoni, Padova, 2006, p. 274; L. Mandrioli, Le relazioni, cit., p. 42 s. 7 Com’è noto il tema dei limiti del sindacato del Tribunale, soprattutto sulla domanda di concordato preventivo, è oggetto di un dibattito aperto; nella giurisprudenza di merito è prevalente l’orientamento favorevole ad un controllo intenso e sostanziale: tra le più recenti, Trib. Milano, 11 febbraio 2010 (decr.), Pres. Rel. Lamanna; Trib. Roma, 20 maggio 2010 (decr.), Giud. Rel. Miccio, entrambe in dejure.giuffre.it; Trib. Piacenza, 1° luglio 2008 (decr.), Pres. Est. Bersani, in www.ilcaso.it; Trib. Milano, 9 febbraio 2007 (decr.), Pres. Rel. Quatraro, in il Fallimento, 2007, p. 1218 ss. Ma v. ora sul punto Cass., 25 ottobre 2010, n. 21860, in Foro it., 2011, I, 105, con nota di Fabiani, ricca di riferimenti e richiami.
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presa, quindi, il professionista di cui ci occupiamo riveste un ruolo cruciale. Nell’incarico che ricopre risaltano: a) la finalità di controllo dell’attività che egli è chiamato a svolgere; b) in particolare, la finalità di controllo sui progetti del debitore, nell’interesse di soggetti diversi da questo, a protezione quindi di interessi confliggenti – potenzialmente – con quelli del debitore: quindi la estraneità o terzietà dell’attività esercitata, rispetto alla soddisfazione degli interessi dell’impresa committente; c) conseguentemente, la particolare affidabilità assegnata dalla legge alla certificazione o attestazione, che dovrebbe sostituire la competenza giurisdizionale ed accompagna con una forte presunzione di veridicità e corrispondenza al reale i risultati dell’attività svolta 8. Il ruolo del professionista attestatore, insomma, è quello di “garante” per i creditori della serietà della proposta concordataria, del piano di risanamento, dell’accordo di ristrutturazione. Questa funzione di “garanzia” assume un rilievo ancora più accentuato, quando l’attestazione interviene in ambiti che non prevedono un controllo giudiziario (come accade per i c.d. “piani di risanamento” dell’art. 67, lett. d), o nei quali si determina una “anticipazione” degli effetti di successivi controlli giudiziari (come accade nell’ipotesi prevista dal co. 6 dell’art. 182 bis, l.fall.). In quest’ultimo caso la differenza di terminologia potrebbe indurre a
8 Il ruolo cruciale del professionista attestatore, di “garante” per i creditori della serietà della proposta concordataria, è ultimamente sottolineato da Zorzi, La redazione della relazione giurata del professionista ex art. 160, l.fall., in il Fallimento, 2010, p. 518 ss.; Fortunato, La responsabilità civile del professionista nei piani di sistemazione delle crisi d’impresa, in il Fallimento, 2009, p. 889 ss.; Perugini, Il «professionista», cit., p. 901 ss.; e già da Patti, Quale professionista per le nuove soluzioni delle crisi d’impresa: alternative al fallimento, in Fallimento, 2008, p. 1067 ss.; Jachia, “Nuova” prima lettura del concordato preventivo, in www.ilcaso.it, sez. II, Dottrina, doc. n. 73, p. 26; e prima Ferro, Il nuovo concordato preventivo: la privatizzazione delle procedure riorganizzative nelle prime esperienze, in Giur. merito, 2006, p. 664, spec. p. 676 ss. La sostanziale analogia tra l’attività del nostro professionista e quella dei revisori contabili sembra implicata, ancorchè inespressa, negli interventi degli autori citati. La richiamano espressamente Zorzi, Il finanziamento alle imprese in crisi e le soluzioni stragiudiziali (piani attestati e accordi di ristrutturazione), in Giur. comm., 2009, I, p. 1236 ss.; Riva, Redigere e attestare i dati prospettici nei piani di risanamento, negli accordi di ristrutturazione e nei concordati preventivi. Criticità e riferimenti ai principi di revisione, in Riv. dott. comm., 2009, p. 575 ss.; e, seppure di sfuggita, Trib. Milano, 11 febbraio 2010, cit.; Trib. Piacenza, 1° luglio 2008, cit.; Galletti, Art 161, in Il nuovo diritto fallimentare, a cura di Jorio e Fabiani, Bologna, 2007, p. 2330.
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ritenere che il contenuto della dichiarazione del professionista sia meno ampio e meno rigoroso di quello della relazione, di cui al primo comma dell’art. 182 bis. E, tuttavia, il comune obiettivo di “attestare” circa la «idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori», unitamente all’esigenza di evitare un uso improprio dell’“anticipazione” consentita dalla norma, porterebbero a concludere che l’attività del professionista attestatore sia la medesima, in entrambe le ipotesi.
5. La prestazione dedotta: l’attestazione della ragionevolezza, fattibilità, attuabilità del piano. La individuazione del ruolo del professionista in esame permette quindi di determinare anche la prestazione dedotta nell’attività o compito che la legge gli assegna 9, perché l’individuazione di un “ruolo professionale” equivale ad individuare dei doveri, assegnati dalla legge a chi impersona quel “ruolo”. Ci consente così di tentare di segnare i margini dell’adempimento (inadempimento) dell’obbligazione (prestazione), che a loro volta dettano i termini della eventuale responsabilità civile. A proposito di questa, anticipiamo che ci sembra preferibile, per quanto detto sopra, qualificare la responsabilità di natura (se non di fonte) contrattuale, perché essa sembra conseguente alla violazione di un obbligo preesistente, ancorché derivante dalla legge. Le considerazioni sopra svolte, infatti, mi parrebbero risolutive per concludere che l’eventuale danno procurato nell’esercizio dell’attività affidata al professionista dalla legge, soprattutto per la protezione dell’interesse di terzi, oltre che dello stesso committente, sarebbe conseguenza dell’inadempimento di specifiche obbligazioni nascenti e create dalla legge (spesso denominate dai commentatori “doveri di protezione” 10), obbligazioni intercorrenti tra il professionista-debitore ed i soggetti protetti-creditori; e non conseguenza di una lesione occasionale e fortuita, le cui ricadute pregiudizievoli, giudicate ingiuste, debbono essere poste a carico del danneggiante e non debbono rimanere a carico del danneg-
9 Da ultimo, sulla prestazione del professionista, v. Zorzi, Il finanziamento, cit., p. 1246 ss.; Riva, Redigere, cit., p. 578 ss. In giurisprudenza, v. Trib. Roma, 20 maggio 2010, cit.; Trib. Milano, 11 febbraio 2010, cit. 10 In tal senso, espressamente, da ultimo, Fortunato, La responsabilità, cit., p. 894.
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giato in base ad un giudizio ex post condotto alla stregua della clausola generale dell’art. 2043, c.c. Ricordato che è d’obbligo, in proposito, rievocare il dibattito sulla responsabilità dei revisori e delle società di revisione 11, si può dunque anticipare che, per quel che riguarda le regole della responsabilità (prescrizione, onere della prova, ampiezza della responsabilità), a mio parere dovrebbero trovare applicazione quelle di diritto comune degli artt. 1218, 1223 segg., c.c. (con rilevanti implicazioni anche per quel che riguarda il nesso di causalità e il quantum del danno risarcibile). Per il piano di risanamento dei debiti e di riequilibrio finanziario dell’art. 67, co. 3, lett. d), la prestazione del professionista consiste nell’attestarne la ragionevolezza ai sensi dell’art. 2501 bis, co. 4, c.c. In relazione al piano del concordato preventivo ed alla documentazione di supporto, al professionista è affidato il compito di redigere una relazione, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano medesimo (art. 161, co. 3). La relazione del professionista, che accompagna la domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti dell’art. 182 bis, attesta invece l’attuabilità dell’accordo stesso, con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei. L’oggetto dell’attestazione, e quindi il contenuto e l’obiettivo dell’incarico, vengono dunque indicati, letteralmente, in modo differente, in ciascuno dei tre casi. Pur tuttavia sembra condivisibile l’opinione che ritiene che il compito del professionista sia sostanzialmente il medesimo 12. Attestare la fattibilità del piano di superamento della crisi o l’attuabilità di un programma di ristrutturazione dei debiti equivale ad attestare la
11 Basterà ricordare Alpa, Deterrence e responsabilità: il caso delle società di revisione, in Resp. civ. e prev., 2007, p. 2245 ss.; Presti, La responsabilità del revisore, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, I, p. 160 ss.; e, in giurisprudenza, Cass. 18 luglio 2002, n. 10403, che ha confermato App. Milano, 7 luglio 1998, in Società, 1998, p. 1171, con nota favorevole di Salafia. Cass. 10403/2002 sposa la qualifica “extracontrattuale” della responsabilità verso soggetti diversi dal committente. La sentenza si legge, tra l’altro, in Giur. it., 2003, con nota di Marazzi; e in Giur. comm., 2003, II, p. 449, con nota di Di Marcello; ibidem, con nota di Lomonaco. V. ora sul tema Rondinelli, Per un ripensamento della responsabilità civile dei revisori, in Giur. comm., 2010, I, p. 629 ss. 12 V. da ultimo Fortunato, La responsabilità, cit., p. 890 s.; e già Bonfatti, La riforma, cit., p. 272 s.; Id., Le disposizioni correttive ed integrative della riforma della legge fallimentare, Padova, 2008, p. 101 s.; L. Mandrioli, I piani di risanamento e di ristrutturazione in NDS, 2006, p. 19 ss.; Bellucci, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Riv. dir. comm., 2008, I, p. 483 ss., spec. p. 486.
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ragionevolezza del piano di risanamento (e lo conferma il rinvio espresso all’attestazione di ragionevolezza prevista dall’art. 2501 bis, co. 4, c.c., che viene riferita alle risorse finanziarie previste per fare fronte all’indebitamento della società risultante dalla fusione). L’attestazione della ragionevolezza o fattibilità, sia del programma di risanamento dei debiti e di riequilibrio finanziario, sia del piano concordatario, come anche del programma concordato di ristrutturazione dei debiti, comporta sostanzialmente il medesimo lavoro. Essa presuppone a sua volta la verifica e il controllo della veridicità, legittimità e correttezza dei dati e valori sui quali quel piano o quel programma è costruito. Si tratta di verifica e controllo, che implicano anche che tutti i dati ed i valori necessari per effettuarli (la verifica ed il controllo) siano stati forniti: verifica e controllo, dunque, che sono innanzitutto di completezza (che è una componente della “veridicità”) delle informazioni e dei dati, che costituiscono la base su cui il piano o il programma sono elaborati. Si tratta di un ampio potere-dovere di controllo che trova, per il revisore contabile, delle precise conferme normative (per es. art. 2409 ter, ult. co.): in particolare, per il professionista attestatore, il rinvio espresso all’art. 2501 bis, contenuto nell’art. 67, co. 3, lett. d), costituisce un testuale riscontro dell’ampiezza del potere-dovere in esame. Sull’ampiezza e sul rigore dell’attività di controllo ed attestazione del professionista sono concordi tutti i commentatori e la più recente giurisprudenza 13. In particolare, per quanto attiene al “professionista attestatore”, si ritiene che, lungi dal limitarsi ad attestare la conformità dei dati alle risultanze delle scritture contabili, debba controllarne appunto la veridicità, vale a dire che si tratti di dati reali. Il suo compito consiste quindi nel verificare, sia l’esistenza delle attività dell’impresa (beni mobili, immobi-
13 Trib. Roma, 20 maggio 2010, cit.,; Trib. Milano, 11 febbraio 2010, cit.; Trib. Piacenza, 23 giugno 2009, cit.; Trib. Bologna, 17 febbraio 2009, confermato da App. Bologna, 15 giugno 2009, in www. il caso.it. Oltre alla dottrina e giurisprudenza citate nella nota 9, segnala l’ampiezza dei poteri-doveri spettanti al professionista attestatore e la corrispondente responsabilità che ne deriva Fortunato, La responsabilità, cit., p. 891 ss., che sottolinea come l’attestazione debba essere preceduta da una relazione che illustri i criteri seguiti e motivi le conclusioni raggiunte (su cui v. anche Riva, Redigere, cit., p. 575 s.); e già Ambrosini, Art. 182 bis, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, p. 2547 ss.; Galletti, I piani di risanamento e di ristrutturazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, p. 1195 ss., spec. p. 1210 ss.
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li, crediti, ecc.) elencate nella domanda di concordato ed il loro effettivo valore, sia l’entità dell’esposizione debitoria e la correttezza della qualificazione dei crediti come chirografari o privilegiati operata dal debitore. È dubbio che nell’espletamento di tale compito si possa procedere con metodo a campione, ma è chiaro che, ove si ammetta questa possibilità, il campione utilizzato debba essere altamente rappresentativo. La relazione (ritenuta necessaria dagli interpreti) deve dar conto del processo metodologico seguito ai fini di addivenire al giudizio formulato dall’esperto 14. Il giudizio dell’esperto, quindi, «deve articolarsi in diverse fasi (ispettivo-ricognitiva, valutativa della regolarità, comminatoria, con pubblica esplicitazione del giudizio espresso) e deve consentire la ricostruzione dei controlli effettuati» 15. Quanto al profilo della verifica circa la fattibilità del piano, la legge sembra richiedere che nella relazione siano compiutamente illustrate e motivate le valutazioni che il professionista, a seguito del predetto controllo sulla veridicità dei dati aziendali, è chiamato a formulare riguardo alle concrete prospettive di successo del piano, specie con riferimento alle modalità e ai tempi del pagamento dei creditori 16. Tale verifica, dato che la relazione sulla situazione patrimoniale ed economico-finanziaria dell’impresa non può mai essere aggiornata alla data esatta di presentazione della domanda di concordato, richiederà che l’esperto tenga conto anche delle ulteriori perdite medio tempore maturate, giacché questa informazione – com’è stato rilevato in dottrina – «non solo impinge sul risultato gestionale negativo e quindi sul patrimonio netto ma anche sul passivo sociale e più in generale sulla fattibilità del piano» 17. Per la giurisprudenza, l’attestazione del professionista deve
14 È per questo che in giurisprudenza si parla di «motivata assunzione di responsabilità propria in ordine al risultato»: cfr. Trib. Torino, 17 novembre 2005, in il Fallimento, 2006, p. 691. 15 Così Trib. Piacenza, 23 giugno 2009, in www.ilcaso.it. E vedi anche le sentenze citate supra, nota 1. Sul contenuto della relazione, con riguardo al concordato preventivo, v. anche Ambrosini, La domanda di concordato e i provvedimenti del Tribunale, in AA.VV., Il concordato preventivo e la transazione fiscale, Bologna, 2009, p. 51 ss. 16 Sui limiti delle valutazioni prognostiche del professionista attestatore si rinvia alle considerazioni svolte, da ultimo, da Fortunato, La responsabilità, cit., p. 892; e da Perugini, Il professionista, cit., p. 906. 17 Abbate, Relazione dell’esperto e adempimenti del commissario giudiziale, in AA.VV., La riforma della legge fallimentare. Atti e documenti del corso organizzato dagli ordini professionali di Torino, Torino, 2007, p. 292, citato da Ambrosini, La domanda, cit., p. 53.
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porre in evidenza «gli estremi di coerenza con le cause e le circostanze del dissesto individuate, la valutazione comparata di possibili ipotesi alternative, l’indicazione di obiettivi e risorse che permettano all’impresa il recupero di una condizione di equilibrio per i piani di risanamento e, per le liquidazioni, gli elementi di certezza che ne concretizzano nel tempo i valori dedotti a fondamento della indicata soddisfazione del ceto creditorio» 18. Quello dell’esperto attestatore è dunque, com’è chiaro, un compito alquanto delicato, per il quale non è peregrino proporsi il tema della responsabilità per danni: natura, regolamento e limiti.
6. Spunti dal dibattito sulla responsabilità dei revisori. Proviamo a dare qualche risposta traendo spunto anche dallo sviluppo del dibattito sulla responsabilità dei revisori contabili e delle società di revisione (cui l’attività dei nostri professionisti è accostabile); dibattito, in cui il campo è stato soprattutto occupato dalle questioni sui limiti della responsabilità e sui criteri da applicare nel giudizio di responsabilità 19. In proposito ci permettiamo di ribadire che il carattere contrattuale della responsabilità dei professionisti in esame, indipendentemente dalla fonte contrattuale dell’incarico, dovrebbe risultare, oltre che dai principi fondamentali del sistema della responsabilità, anche da plurimi segnali normativi. Crediamo invece che il ricorso alla distinzione tra “obbligazioni di mezzi e di risultato” non sia di alcuna utilità per l’impostazione del problema. La distinzione viene sempre in ballo quando si richiede l’applicazione, come nel caso, dell’art. 2236, all’attività del professionista intellettuale, che viene etichettata, dalla tradizione, come obbligazione di mezzi e non di risultato 20. Lasciando stare le formulette, ricordiamo che, secondo un’interpretazione, ormai fatta propria anche dalla giuri-
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Così Trib. Bologna, 17 febbraio 2009, in www.ilcaso.it. Sul punto rinviamo alla dottrina ed alla giurisprudenza (essenziali) richiamate alla nota 11. 20 Sulla qualificazione in termini di obbligazione di mezzi dell’attività del professionista intellettuale, con riguardo anche al significato dell’art. 2236 c.c., v. da ultimo Delli Priscoli, Professionista intellettuale e obbligazioni di mezzi, in Riv. dir. comm., 2010, I, p. 345 ss., spec. p. 371 ss. 19
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sprudenza, l’art. 2236 c.c. non fa altro che precisare che il livello qualitativo della perizia professionale (che tiene posto della diligenza secondo l’art. 1176, co. 2, c.c.) si deve commisurare al continuo divenire e progredire della tecnica propria dell’arte o professione implicata. La norma dell’art. 2236, così, va intesa nel senso che il professionista, di fronte a un problema che presenta particolari difficoltà, deve agire con una cura ed una competenza ad esse corrispondenti; perciò la colpa grave dell’art. 2236 non è altro che la colpa, pura e semplice, valutata tenendo conto della speciale difficoltà della prestazione 21 (per il professionista la colpa è l’imperizia o incompetenza tecnica, ovvero la non consapevolezza della propria imperizia). Ancora in premessa, segnaliamo che il pregiudizio, causalmente riconducibile all’attività dell’attestatore, è, per quanto attiene agli interessi protetti, di ambito ben più limitato di quello del risarcimento al quale sono esposti, in primo luogo gli amministratori e poi l’organo di controllo di legittimità e di correttezza, interno alle società di capitali, o l’incaricato esterno del controllo contabile. Riflettiamo sul fatto che le attività degli organi di controllo societari sono dirette a proteggere la conservazione e il buon uso del patrimonio sociale e del capitale sociale, per le società, i soci, i creditori ed i terzi. Per i programmi concordatari, di risanamento e di ristrutturazione, invece, i certificatori, innanzitutto, non garantiscono in proprio, né percentuali di soddisfazione, né valori economici; e sono responsabili della “veridicità” e della “correttezza della valutazione di dati”, che si inseriscono o in una prospettiva di liquidazione concorsuale (esposta all’incertezza dell’ambiente e del clima economico creato dalla crisi aziendale irreversibile), ovvero in una prospettiva di risanamento dell’impresa, da attuare nel quadro della crisi economica generale, e quindi esposto anch’esso ad una grande incertezza per l’intervento di fattori la cui variabilità è incontrollabile. L’oggetto della “protezione” demandata ai “professionisti del controllo”, nei due casi, quindi, è ben diverso.
21 Cattaneo, La responsabilità del professionista, Milano, 1958, p. 72 ss.; Cian, “Lata culpa dolo aequiparatur”, in Riv. dir. civ., 1963, I, p. 175 ss.; Giacobbe, Voce: Professioni intellettuali, in Enc. Dir., XXXVI, Milano, 1987, p. 1082 ss. Nella norma, dunque, si deve rinvenire un’ulteriore precisazione del principio di cui all’art. 1176, co. 2, c.c. E in giurisprudenza si è affermato che la relazione fra l’art. 1176 e l’art. 2236 è d’integrazione e di complementarietà, non di specialità: Cass., 15 gennaio 2001, n. 499; Cass. 18 maggio 1988, n. 3463.
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7. Natura contrattuale della responsabilità del professionista. È venuto il momento di provare ad avanzare qualche conclusione sulla responsabilità specifica del nostro professionista 22, ovviamente provvisoria e senza alcuna pretesa di completezza. La responsabilità del professionista deriva dall’inadempimento di obbligazioni che gli sono imposte dalla legge, che ne istituisce la figura e ne definisce l’incarico e il ruolo; obbligazioni che dovranno essere adempiute mediante prestazioni, il cui contenuto verrà di volta in volta precisato dai criteri indicati dalla legge, integrati da quelli, generali o speciali, che disciplinano l’esercizio dell’arte o professione. Si tratta quindi di responsabilità contrattuale, e non extracontrattuale: facendo corretta applicazione dei termini e delle categorie del diritto privato in tema di responsabilità, che basano la distinzione, non sulla fonte (contrattuale o meno) dell’obbligazione, ma sulla preesistenza dell’obbligazione tra danneggiante e danneggiato (stiamo quindi parlando di responsabilità contrattuale nel senso di responsabilità di natura contrattuale, secondo le categorie istituzionali del diritto privato). Per attività del tutto analoghe a quelle dei professionisti di cui ci occupiamo, come abbiamo visto, di tale natura risultano precise conferme normative. Se ne trovano nell’art. 2409 sexies, co. 1, relativo ad attività di controllo e revisione contabile, in cui la responsabilità per danni “nei confronti della società, dei soci e dei terzi” viene espressamente ricondotta all’inadempimento dei doveri del “danneggiante”. Nell’art. 2501 sexies, co. 6 (relativo all’attività dell’esperto-revisore contabile, coinvolto nella fusione a seguito di acquisizione con indebitamento), nonché nell’art. 2343, co. 2 (richiamato dall’art. 2465 per la s.r.l.), relativo all’attività dell’esperto-stimatore (nell’attività dell’attestatore è ricompresa anche quella di controllo delle stime), in cui si precisa espressamente che dall’attività svolta può derivare una responsabilità per i “danni causati alla società, ai soci ed ai terzi” (ed ora anche dall’art. 2343 ter). La ripetizione della medesima formula in tutte le norme richiamate suggerisce che la responsabilità per danni trovi un medesimo titolo e presupponga una medesima natura in tutti i casi regolati: si tratta cioè,
22 Per cenni relativi ai legittimati all’azione di risarcimento ed al quantum del danno risarcibile, v. L. Mandrioli, Le relazioni, cit., p. 40 s.; Ferro, Il nuovo concordato, cit., p. 681 s.; Galletti, I piani, cit., p. 1211 ss.; ID., Art. 161, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, cit., p. 2331 s.; Ambrosini, Art. 182 bis, in op. ult. cit., p. 2548.
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sempre, di responsabilità per inadempimento di doveri-obbligazioni preesistenti nei confronti di tutti i soggetti nominati (la società, i soci, i terzi, segnatamente i terzi creditori) e quindi di quella responsabilità che si chiama contrattuale. Anche in mancanza di espresse previsioni normative, tuttavia, non dovrebbe essere difficile trarre la conclusione che il conferimento dell’incarico al nostro professionista (da chiunque provenga formalmente la sua designazione) provoca la nascita di obbligazioni di comportamento anche nei confronti di soggetti diversi dal committente (segnatamente nei confronti dei terzi creditori), atteso l’indiscusso ruolo di “garante” dei terzi (già messo in luce), che lo scopo e il contenuto dell’incarico professionale comportano. Per quanto già detto 23, crediamo infatti che non si possa seriamente dubitare della funzione di controllo sul debitore e quindi del carattere di autonomia e di indipendenza da questo dell’attività del professionista. Quando ribadiamo che la responsabilità è imputata al professionista a titolo contrattuale, intendiamo soltanto a titolo contrattuale, perché ci sembra francamente inafferrabile la matrice extracontrattuale della pretesa responsabilità ed assolutamente evanescenti i presunti diritti alla “libertà contrattuale” o all’“integrità del patrimonio” 24, che l’attività del professionista lederebbe, se essa configurasse l’atto illecito di stampo aquiliano, previsto dalla clausola generale dell’art. 2043 c.c. Non sembra, quindi, condivisibile l’affermazione ancora ricorrente secondo la quale il professionista attestatore assumerebbe responsabilità di natura contrattuale verso il proponente-committente e di natura extracontrattuale nei confronti dei creditori e dei terzi interessati 25. La duplicazione di natura della responsabilità si lascia criticare per illogicità, quando espone lo stesso soggetto a due diverse responsabilità per un medesimo comportamento. È poi evidente l’incoerenza funzionale dell’applicazione allo stesso soggetto, per un medesimo comportamento illecito, della medesima sanzione in termini di responsabilità, modulandola secondo differenti criteri, sia per l’accertamento della sussistenza, che per la determinazione del quantum risarcibile, con riguardo ai soggetti destinatari della medesima prestazione dovuta.
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Supra, par. 4. Richiamati da Alpa, Deterrence e responsabilità, cit., p. 2245. 25 Per tutti, da ultimo, in giurisprudenza, Trib. Milano, 25 marzo 2010, in dejure. giuffre.it. 24
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Ci sia consentito, infine, di non condividere l’assunto di certa giurisprudenza, secondo cui al professionista attestatore «è estensibile la responsabilità prevista dall’art. 64 cod. proc. civ., richiamato dall’art. 2501 sexies, comma 6, cod. civ.» 26. Infatti «l’estensione» è inutile, dato che il titolo di responsabilità discende dall’affidamento dei compiti inerenti all’attività di attestazione operato dalla legge; essa, inoltre, è impropria, perché la responsabilità civile dell’art. 64 c.p.c. è prevista per la figura del consulente tecnico, che è un ausiliario del giudice nel processo, e determina un obbligo di risarcimento del danno causato alle parti processuali. Il nostro professionista, invece, non può essere certamente qualificato come ausiliario processuale del giudice, ed i soggetti potenzialmente danneggiati dalla sua attività non sono sicuramente qualificabili come parti processuali.
8. I riflessi della natura contrattuale: la prescrizione dell’azione di danni. I riflessi pratici dell’attribuzione della natura contrattuale alla responsabilità del professionista ci sembrano notevoli e interessanti. Non tanto sul versante della prescrizione dell’azione di responsabilità, quanto su quelli, ben più tormentati, dell’onere della prova e dell’entità del danno risarcibile. Quanto alla prescrizione ci sembra che il suo termine non sia influenzato in modo significativo dalla scelta della natura contrattuale della responsabilità. Se è vero, infatti, che la prescrizione dell’azione per il risarcimento del danno aquiliano è ordinariamente quinquennale, mentre quella per il risarcimento del danno da inadempimento sconta il maggior termine decennale, è anche vero che, in materia di rapporti societari in genere e di azione di responsabilità promossa contro gli amministratori, i sindaci e i revisori contabili, il termine di prescrizione è quinquennale (cfr. artt. 2949, 2393, co. 4, 2395, co. 2, 2407, co. 3, per i sindaci, 2409 sexies, co. 3, c.c., per i revisori contabili). Normalmente il termine di prescrizione delle azioni di danno nei confronti dei gestori e dei controllori delle società viene fatto decorrere dalla cessazione dell’incarico; in particolare la responsabilità dei revisori
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Così Trib. Bologna, 15 aprile 2009, in Dir. fall., 2010, II, 127, con riferimento al professionista attestatore del piano di risanamento dell’art. 67, co. 3, lett. d).
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contabili per i danni provocati alla società, ai soci e ai terzi “dall’inadempimento ai loro doveri” si prescrive “nel termine di cinque anni dalla cessazione dell’incarico” (cfr. art. 2409 sexies, co. 3). Alla luce di questi rilievi mi sembra che, come anticipato, la qualificazione dell’azione di danni non abbia speciali riflessi sul termine di prescrizione, che sarebbe comunque quinquennale (potrebbe risentirne soltanto il momento della decorrenza, da individuarsi, rispettivamente, nella cessazione dell’incarico ovvero nel verificarsi del danno).
9. Segue: la prova dei presupposti della responsabilità (inadempimento e danno risarcibile). Venendo invece all’onere della prova e specificamente alla prova dell’esistenza dei presupposti della responsabilità, le implicazioni della scelta della natura, contrattuale o extracontrattuale, sembrano più importanti. Come noto, nel caso di responsabilità contrattuale, il preteso danneggiante (in quanto debitore tenuto alla realizzazione dell’interesse del creditore con l’esecuzione di una prestazione esatta e, quindi, per definizione, satisfattiva e non dannosa) è presunto responsabile, una volta che il creditore abbia dimostrato che la prestazione, in concreto, non ha prodotto l’effetto satisfattivo ma, anzi, gli ha procurato danno. Come noto, altresì, il danneggiante può liberarsi dalla responsabilità e, quindi, dall’obbligo di risarcire i danni, solo attraverso una difficile prova. Tale prova liberatoria, con grande semplificazione e approssimazione, consiste, per le obbligazioni di fare (come sono quelle implicate dai servizi e dalle professioni), nella dimostrazione che la mancata soddisfazione del creditore è indipendente dal modo e dalla qualità della prestazione fornita con il servizio o con l’attività professionale. In particolare la difficoltà della prova consiste nel fatto che il debitoredanneggiante deve positivamente individuare la causa che ha determinato l’insuccesso o, per così dire, il fallimento del servizio prestato. Non è sufficiente per il debitore trincerarsi dietro un generico “non ho colpa e ho bene operato”, ma occorre che egli dimostri, innanzitutto, che l’insuccesso o il fallimento è dipeso da un elemento determinante e ben individuato. Occorre poi che dimostri che, nonostante l’utilizzo di tutta la perizia professionale che lo “stato di avanzamento” tecnico dell’arte o della professione consigliano in relazione alla specialità del caso concreto, l’elemento individuato come causa efficiente dell’insuccesso è intervenuto senza che fosse possibile prevederlo ed evitarlo, malgrado
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l’impiego dell’abilità e competenza tecnica, adeguate alle difficoltà del caso. Dunque il rischio del debitore della prestazione di fare, e specialmente del professionista, è duplice. In primo luogo è quello di non riuscire ad individuare la causa determinante dell’insuccesso; in secondo luogo, superato questo ostacolo (che finisce per mettere a carico del professionista la responsabilità per danni causati da fatti ignoti), c’è anche il rischio di non riuscire a dimostrare che il fatto che ha provocato l’insoddisfazione del creditore non era prevedibile o evitabile con l’applicazione di una buona qualità tecnico-professionale, adeguata al caso concreto.
10. Segue: l’oggetto della prova per il danneggiato e per il danneggiante. Su queste premesse generali dobbiamo chiederci quale sia il contenuto della prova liberatoria del nostro professionista e quale sia invece il presupposto della responsabilità del medesimo, che deve essere provato dal creditore danneggiato: la società, i soci e i terzi, soprattutto creditori. Crediamo di dovere subito escludere che l’ipotesi di responsabilità contrattuale possa discendere automaticamente dall’insuccesso del progetto proposto dall’imprenditore-debitore, ovvero, per quel che riguarda le attività di stima e di prognosi della attuazione del progetto, dalla non corrispondenza dei numeri e dei valori stimati e pronosticati con quelli poi concretamente realizzatisi (con particolare riguardo alla lesione dell’interesse dei creditori per lo scostamento della previsione dalla realtà). Il successo dei piani proposti, infatti, non costituisce oggetto delle prestazioni richieste e dovute dal professionista (ricordiamo che, con una semplificazione che speriamo ci verrà perdonata, abbiamo assunto come modello della prestazione dovuta dal professionista “attestatore” quella dell’esperto-revisore dell’art. 2501 bis, co. 4). Ma è il risultato di un processo a formazione progressiva, che prevede il concorso di numerosi elementi e soggetti differenti. Mentre le prestazioni del professionista consistono nella attestazione della ragionevole fattibilità e attuabilità di un progetto economico-giuridico, e, in particolare, nell’attestazione della correttezza e congruità dei dati economico giuridici, che sostanziano il progetto (e possono comportare anche l’attribuzione di valori a beni, ad impianti, risorse e mezzi coinvolti nel progetto). Tali prestazioni svolgono, nel processo che porta alla realizzazione del piano, un ruolo limitato
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alla fase istruttoria e, indipendentemente dai termini usati per indicare il contenuto dell’opera del professionista, non vi è dubbio che esse si traducano in un’attività di contenuto e carattere tecnico. Lo conferma la considerazione dei diversi requisiti che contraddistinguono tale attività. Essa è svolta da un professionista qualificato, nell’ambito di un incarico che ha funzione di controllo e garanzia per la protezione di interessi anche di terzi (e quindi funzione di controllo e garanzia nell’interesse, per così dire, generale), che presuppone una specifica ed adeguata competenza tecnica specialistica. Si tratta quindi di attività che si deve svolgere secondo le regole tecniche imposte dalla legge o dalla singola arte o professione coinvolte (e quelle della revisione “certificativa” sono sicuramente preponderanti); di attività, che, a loro volta, sono suscettibili di verifica del corretto impiego delle regole tecniche applicate, attesa l’importanza della prestazione tecnica commissionata. Per assolvere alla funzione di controllo, al professionista competono, evidentemente, tutti i poteri che gli consentono di svolgere in modo esatto la prestazione richiestagli (arg. dall’indicazione normativa dell’art. 2501 sexies, co. 5, secondo cui l’esperto-revisore «ha diritto di ottenere… tutte le informazioni e i documenti utili e di procedere ad ogni necessaria verifica») 27. Il chiarimento sul carattere tecnico dell’attività del nostro professionista ci permette di concludere che l’insuccesso del progetto attestato o lo scostamento dai valori stimati costituiscono solo l’occasione e il presupposto di fatto, che consentono l’apertura di una fase di controllo sull’esattezza della prestazione dell’esperto stimatore o attestatore, e quindi l’apertura di un processo di responsabilità. Ma la condizione giuridica necessaria, perché il preteso danneggiato possa agire in responsabilità, è che egli fornisca la prova della connessione e della relazione causale tra l’insuccesso del programma e l’attività tecnico-professionale prestata dal professionista nella fase istruttoria di un processo a formazione progressiva, alla cui realizzazione, lo ripetiamo, concorrono svariati elementi e soggetti (l’insuccesso deve derivare dall’inadempimento della prestazione dovuta). Il professionista, quindi, potrà essere chiamato in responsabilità soltanto per inesattezze o mancanze della sua prestazione, che è esclusivamente di carattere tecnico-professionale. Nell’accusa di responsabilità,
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V. supra par. 5.
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inoltre, deve essere esplicitato che la mancanza tecnica del professionista ha quanto meno contribuito a formare la “causa efficiente” dell’insuccesso dell’operazione e quindi dell’insoddisfazione e danno del creditore. E crediamo che spetti a chi si pretende danneggiato la prova che il danno preteso è riconducibile alla materia sulla quale ha operato il professionista. Solo a questo punto sul professionista incomberà la prova liberatoria, consistente, innanzitutto, nella dimostrazione che la causa efficiente dell’evento dannoso non è da ricondurre nell’ambito dell’attività a lui richiesta, e cioè nell’ambito della prestazione da lui dovuta: ribaltando così il presupposto della sua responsabilità. Se questa dimostrazione non fosse possibile, in tutto o in parte, il professionista potrebbe cercare l’esonero da responsabilità dimostrando l’imprevedibilità o l’inevitabilità dell’evento dannoso.
11. Segue: ancora sull’oggetto della prova dell’evento dannoso. Tralasciamo, evidentemente, il caso di inadempimento doloso: di collusione, cioè, tra l’imprenditore fraudolento e il certificatore corrotto o comunque infedele ai doveri del suo incarico, che non “vede con i propri occhi” ed avalla “pienamente ed acriticamente” il progetto concordatario dell’imprenditore. Abbiamo detto che il controllo e l’attestazione tecnica di fattibilità comportano la previa verifica dell’effettività, della veridicità e della correttezza, secondo i criteri tecnici consigliati dalla specifica arte o professione, di tutti i dati quantitativi e dei valori che costituiscono la base dell’attestazione di fattibilità. Abbiamo anche detto 28 che l’attestazione della fattibilità del programma di sistemazione della crisi d’impresa ha come indispensabile presupposto che tutti i dati ed i valori necessari per la verifica ed il controllo siano stati forniti: la prima attività di controllo del nostro professionista sarà quindi diretta alla verifica della completezza (che è una componente della “veridicità”) delle informazioni e dei dati su cui il piano o il programma sono stati elaborati; come detto, l’ampiezza dei poteri di verifica del revisore-attestatore, che si estende tendenzialmente alla totalità, è sancita dalla norma dell’art. 2501 sexies, co. 5, che attribuisce
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Supra par. 5.
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all’esperto «il diritto (rectius il potere) di ottenere… tutte le informazioni e i documenti utili e di procedere ad ogni necessaria verifica». All’ampiezza dei poteri attribuiti al professionista fa riscontro l’ampiezza dei corrispondenti doveri. Ne consegue che, una volta che si sia instaurata la relazione di causalità tra il preteso danno e l’ambito dell’attività di verifica e controllo affidata al professionista, egli si potrà liberare soltanto dimostrando che gli elementi, che hanno determinato il danno, non sono stati controllati o sono stati diversamente valutati, in quanto era imprevedibile ed inesigibile il loro controllo e la loro valutazione. Tutto ciò che si doveva o poteva controllare e valutare, secondo prudenza e perizia (cioè competenza e abilità tecnica adeguata al caso), in relazione alla specificità del singolo incarico, deve essere stato controllato e valutato alla stregua dei criteri imposti dalla legge e dall’arte. In conclusione, e con tutte le approssimazioni e riserve del caso, il professionista “attestatore”, una volta che la causa del danno sia stata ricondotta nell’ambito della sua attività di verifica e controllo, è presunto responsabile, e per liberarsi dalla responsabilità dovrà provare che la causa del danno consiste in elementi incontrollabili, perché imprevedibili, in quanto estranei al campo tecnico coinvolto dalla sua specialità professionale. L’imprevedibilità (che è un limite generale alla responsabilità, insito nella inesigibilità dello sforzo e dell’abilità tecnica che si può pretendere dal debitore) segna forse la soglia della responsabilità del professionista anche quando sia chiamato a valutazioni o stime. Pure questa attività ha carattere squisitamente tecnico e si muove nel rispetto di regole imposte dalla legge e dalla professione e, forse, anche dall’arte dell’estimo. I requisiti professionali e il ruolo attribuito al professionista dalla legge fallimentare, anche quando valuta e stima, non dovrebbero lasciare dubbi su ciò. Anche il richiamo dell’art. 2343, co. 2, alla necessità dell’indicazione dei “criteri di valutazione seguiti” nella stima (che il nostro professionista nella sua attività, che comporti valutazioni, dovrebbe avere presente) suggerisce la responsabilità per dette attività. Ebbene, quando la valutazione prognostica di realizzo o la stima si riveli erronea, o nella veridicità, completezza e correttezza dei dati obiettivi che identificano l’oggetto della valutazione, ovvero nell’attribuzione del “valore di realizzo” (naturalmente oltre i limiti di tollerabilità stabiliti dalle stesse regole della professione e anche dell’arte dell’estimo), si dovrà concludere che il professionista valutatore sarà irresponsabile, soltanto se dimostri che l’errore di valutazione dipende da imprevedibili movimenti di variabili incontrollabili del “mercato” interessato.
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Con riferimento all’evento dannoso, che si pretende conseguenza dell’inadempimento dei doveri dell’esperto attestatore, abbiamo detto che la responsabilità suppone il raggiungimento della prova del nesso di causalità tra il comportamento doloso o colposo dell’esperto ed il prodursi dell’evento dannoso: suppone cioè la prova positiva che l’evento dannoso ha avuto come causa o concausa efficiente il comportamento doloso o colposo del professionista. Se ravvisiamo normalmente l’evento dannoso con l’insuccesso della procedura e cioè con il fallimento seguito alla verifica che la procedura, approvata grazie alla valutazione o attestazione positiva dell’esperto, non si può attuare, crediamo che siano inevitabili alcune considerazioni sulla difficoltà di ravvisare nel comportamento del professionista la sola causa efficiente dell’evento dannoso, perché nel rapporto di causalità tra l’opera del nostro esperto e l’insuccesso (in cui abbiamo ravvisato l’evento dannoso) si inseriscono altri interventi, di altri protagonisti delle procedure. Quanto meno per le procedure, che contemplano la presenza di organi di controllo (giudiziali e non), non si potrebbe escludere quindi l’ipotesi del concorso di questi (con la difficoltà di determinare le percentuali di responsabilità concorrenti); e ricordiamo anche che lo stesso creditore, soprattutto se soggetto qualificato, che abbia espresso parere positivo o abbia partecipato all’accordo, potrebbe essere forse accusato di colpevole negligenza, che potrebbe andare a diminuire la responsabilità del professionista. Ripetiamo che, tra l’attività del professionista e ciò che abbiamo definito come “evento dannoso”, spesso s’inseriscono i controlli e le verifiche di altri protagonisti necessari delle procedure di sistemazione della crisi: il commissario giudiziale e il Tribunale (fanno forse eccezione le ipotesi di attestazione nei casi dell’art. 67, co. 3, lett. d), e dell’art. 182 bis, co. 6). È quindi evidente che non sarebbe facile enucleare, nel concorso di più concause, la percentuale di responsabilità da attribuire al professionista. Si osserva in dottrina che se si ritiene che il sindacato giudiziario sul piano o sul programma attestato valuti nel merito l’operato del professionista, «la relazione dell’esperto diventa uno dei possibili elementi di convincimento del Tribunale soggetta al suo giudizio. Gli effetti del piano sarebbero allora riconducibili di per sé al giudizio omologatorio e potrebbe ritenersi interrotto il nesso di causalità fra il comportamento colposo dell’esperto e il danno lamentato dall’imprenditore-curatore, dal creditore o dal terzo» 29.
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Così Fortunato, La responsabilità, cit., p. 895
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Osserviamo ancora che, se l’illecito del professionista è “svelato” dai controlli successivi, per esempio in fase di omologazione, la sua attività dovrebbe rimanere improduttiva di danni e, quindi, la responsabilità puramente teorica: un progetto non omologato, perché i dati attestati non risultano veridici, non può fondare un obbligo di risarcimento per “danno tentato”.
12. L’entità e la prova del danno risarcibile. Sul piano della determinazione e dell’entità del danno risarcibile la qualificazione della responsabilità, come contrattuale, potrebbe offrire occasioni favorevoli per il professionista. Come si ricorderà, infatti, al pari che in quella extracontrattuale (art. 2056 c.c.), nella responsabilità contrattuale è onere del danneggiato, che pretende il risarcimento, dimostrare che l’entità dei danni pretesi corrisponde a quella dei danni provocati dallo specifico inadempimento denunciato: secondo un rapporto di “causalità adeguata” si risarciscono i danni che sono conseguenza “immediata e diretta”, cioè che seguono normalmente a quello specifico inadempimento (cfr. art. 1223 c.c.). Tali danni debbono, innanzitutto, essere effettivi: debbono cioè consistere in conseguenze economiche pregiudizievoli, che non si sarebbero verificate, con i caratteri della ordinarietà, se l’inadempimento non vi fosse stato; e che, invece, nel caso, si sono concretamente verificate; e la prova della effettività del danno e del quantum del danno incombe a colui che si pretende danneggiato. Occorre a questo punto chiedersi quale potrebbe essere, in concreto, il pregiudizio conseguente all’evento dannoso sopradescritto. Proviamo quindi a fare qualche riflessione, naturalmente con tutte le riserve, sulla concreta consistenza di questi danni. Si deve preliminarmente chiarire che, se quella del professionista è un’attività di “garanzia”, soprattutto per i creditori, l’affermazione si deve intendere in senso politico-economico. Certamente il professionista attestatore non garantisce “in senso giuridico”, né i risultati quantitativi, né il programma che li dovrebbe attuare, proposti e promessi dal debitore. Né quando attesta, negli accordi di ristrutturazione, il regolare pagamento dei creditori dissenzienti, garantisce in senso giuridico che tale pagamento avverrà comunque. La sua funzione, come abbiamo detto, è una funzione informativa, che presuppone la correttezza, la completezza e la veridicità dei dati su cui si basa. Se questi dati si rivelano sbagliati o falsi, non vi è una
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“responsabilità” per garanzia giuridica dello scostamento tra la prospettazione asseverata e la realtà. Occorre ancora sottolineare qui un’importante differenza con i criteri di computo del danno in caso di responsabilità per omissioni, negligenza ed imperizia dei sindaci. Come noto, infatti, l’orientamento dominante tende a porre a carico dei sindaci, in responsabilità, la differenza tra l’attivo ed il passivo patrimoniale della società controllata. Ma, mentre i sindaci sono responsabili per non avere impedito agli amministratori di compiere atti illeciti, che hanno determinato come danno per la società appunto quella differenza tra attivo e passivo patrimoniale (supponiamo che i sindaci non abbiano rilevato delle scorrette appostazioni di bilancio che hanno sopravvalutato l’attivo o sottovalutato il passivo: es. crediti inesigibili appostati come esigibili, immobilizzazioni valutate in contrasto con i criteri di legge); il professionista, invece, con una valutazione scorretta o falsa, violerà sì l’obbligo di informazione veritiera, ma non determina un’alterazione del patrimonio del debitore, tale da tradursi in una perdita ulteriore, che non si sia già verificata. Inganna i creditori, ma non sottrae e non aggiunge nulla allo stato di fatto effettivo. Stato di fatto effettivo, che è l’unico al quale il creditore può rivolgere le sue aspettative di soddisfazione, che non cambiano a seconda che siano realizzate nell’ambito di un concordato o in quello di un fallimento. Su queste premesse, e ricordato che il danno è risarcibile solo se dovuto all’inadempimento inescusabile del nostro professionista, l’incidente, che potrebbe esporre più frequentemente l’attestatore a rischio di responsabilità in caso di concordato, dovrebbe essere quello di un’attestazione gravemente erronea, che abbia portato, grazie alla sua carica di affidamento, all’omologazione del concordato, poi sfociato in fallimento: in seguito alla verifica attuata (in sede di reclamo contro l’omologazione o in ipotesi di annullamento) del travisamento o dell’inconsistenza dei dati e del progetto, falsamente attestati o non riscontrati per errore inescusabile. Di primo acchito, si potrebbe immaginare che il “danno” subito dai creditori consista nella differenza tra quanto promesso dal concordato e quanto effettivamente i creditori otterranno dal fallimento. Ma, in realtà, di questo “danno”, nessuno era garante in senso giuridico, né il debitore, né l’attestatore. Perché, indipendentemente dalla correttezza dell’attestazione, i creditori potranno soddisfarsi soltanto con ciò che si realizzerà con la liquidazione del patrimonio del debitore. E se l’aspettativa dei creditori era maggiore, la loro delusione non si traduce
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in danno risarcibile, causalmente determinato dalla errata valutazione del patrimonio. L’errata informazione non può costituire la fonte di un danno risarcibile. Voglio dire che i creditori delusi non potrebbero vantare, né un danno effettivamente subito, né un danno causalmente dipendente dal comportamento dell’attestatore, infedele o imperito, e conseguentemente chiederne il risarcimento all’attestatore medesimo. L’attestatore non ne sarebbe, quindi, responsabile. Egli forse sarebbe responsabile del maggior aggravio di spese per il concordato inutilmente omologato e per il minor realizzo, dovuto al prolungamento di un tentativo di concordato, di cui non v’erano i presupposti. Per gli accordi di ristrutturazione ed i piani di risanamento, in letteratura si parla genericamente di una responsabilità nei confronti dell’imprenditore danneggiato dall’inadempimento o dal cattivo adempimento dell’incarico (senza migliori precisazioni) e di una responsabilità (normalmente definita extracontrattuale) verso la massa dei creditori, e, come esempi, si portano quello di aver causato un ritardo nella dichiarazione di fallimento o quello di avere fatto scadere i termini per proporre azioni revocatorie 30. Anche in questi casi il pregiudizio risentito dal singolo creditore per il fallimento successivo all’inutile approvazione di una procedura alternativa potrebbe consistere soltanto nella perdita di tempo e nella perdita di chances per iniziative individuali non intraprese, e nei relativi aggravi di costi. Aggiungiamo che, in caso di fallimento del piano di risanamento di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), il danno derivante dalla pretesa perdita di azioni revocatorie è ancora più indefinito. Infatti il vantaggio del recupero di un bene o dell’inefficacia di una causa di prelazione, ottenuto con l’azione revocatoria, si ripartisce sull’intero ceto creditorio ed è il risultato dell’esperimento di un’azione giudiziaria affidata alla curatela che, come ogni azione, è di esito incerto. Possiamo quindi, forse, concludere che, anche se risultasse integrato il nesso di causalità tra il comportamento colpevole del professionista ed il danno-evento, i danni-conseguenza, immediati e diretti ex art. 1223, c.c., che potrebbero essere vantati nei confronti del professionista dai
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Sul punto, v. da ultimo, Perugini, Il professionista, cit., p. 909, dove ulteriori richiami.
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singoli appartenenti alle diverse categorie di interessati, non sarebbero di facile individuazione. Le responsabilità dell’attestatore, almeno quelle civilistiche, potrebbero così, alla prova dei fatti, ridimensionarsi significativamente. Ricordo infine che, a differenza della responsabilità extracontrattuale, nella responsabilità contrattuale non si risarciscono i danni “imprevedibili”, a meno che l’inadempimento sia doloso. Tralasciando il problema di quale sia il momento a cui riferire la valutazione di prevedibilità (il momento in cui la prestazione è sorta; il momento in cui la prestazione è eseguita e attesa), non v’è dubbio che il limite quantitativo posto all’entità del danno risarcibile dal criterio della prevedibilità renda intrinseca alla categoria della responsabilità contrattuale la qualità di responsabilità limitata e controllata. In altre parole il legislatore intende offrire a colui che svolge un’attività socialmente utile la protezione di una limitazione dei costi e rischi economici passivi che ne possono derivare. Provando a tirare qualche conclusione, del tutto approssimativa e suscettibile di approfondimento, la responsabilità del professionista, in quanto contrattuale, è una responsabilità che sottopone anche chi si pretende danneggiato a prove non agevoli, che rappresentano altrettanti controlli di meritevolezza del risarcimento: a) una prima prova deve superare il controllo che il danno di cui si pretende il risarcimento trovi la sua causa adeguata nell’inadempimento denunciato e che il danno consista in un pregiudizio patrimoniale effettivamente subito, da quantificare in una determinata somma di denaro; b) una seconda prova deve superare il controllo di una giusta proporzione tra il danno di cui si chiede il risarcimento e il rischio che, ragionevolmente, l’ambiente socio-economico interessato dalla prestazione può addossare a chi la esegue. Quanto precede introduce con nettezza l’idea che la responsabilità di cui ci occupiamo debba essere misurabile preventivamente ed in ogni caso debba essere sopportabile e, in qualche modo, debba essere correlata ai vantaggi, più che del singolo professionista, della categoria professionale che, nell’interesse generale, si carica degli onori ed oneri della tipica attività professionale in questione 31. Anche perché la “misu-
31 In Presti, La responsabilità, cit., p. 166 ss., si trova una completa informazione sulle tecniche adottate, o in via di adozione, nell’ordinamento statunitense ed in quelli europei, per limitare la responsabilità dei revisori contabili.
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rabilità” della responsabilità è la premessa indispensabile per consentire al professionista di svolgere la sua (importante) opera nelle migliori condizioni, al riparo della copertura di un’adeguata assicurazione della responsabilità professionale.
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Il ruolo della politica e del diritto nel processo di riforma della struttura europea di supervisione finanziaria Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’evoluzione dell’industria finanziaria. – 3. I fallimenti bancari nella crisi finanziaria. – 4. L’evidente necessità di una riforma complessiva del sistema. – 5. I caratteri della supervisione a livello nazionale. – 6. Una struttura di transizione a livello europeo: il Lead Supervisor Model. – 7. I caratteri della supervisione a livello europeo. – 8. Il Sistema europeo di vigilanza finanziaria e possibili percorsi alternativi. – 9. Il Rapporto De Larosière e la futura struttura di supervisione. – 10. I limiti giuridici alle varie soluzioni. – 10.1. I limiti ai poteri delle autorità comunitarie. – 10.1.1. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. – 10.1.2. Il libro bianco della Commissione europea. – 10.1.3. La comunicazione della Commissione europea. – 10.2. I limiti al coinvolgimento della Banca centrale europea. – 11. Gli ultimi sviluppi. – 11.1. I poteri delle autorità comunitarie nei regolamenti recentemente entrati in vigore. – 11.2. Il coinvolgimento della Banca centrale europea nei regolamenti recentemente entrati in vigore. – 12. Alcune riflessioni conclusive.
1. Introduzione. La regolamentazione finanziaria, insieme alla struttura delle istituzioni incaricate di vigilare sull’ordinato svolgimento delle operazioni di mercato, da sempre si evolvono in risposta alle crisi economiche 1. Tuttavia, spesso con grande anticipo, la dottrina identifica correttamente le
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«As financial market turmoil spreads across the globe, regulators, supervisors, policymakers, and the public at large have been questioning the effectiveness of financial supervision and whether changes to existing supervisory models are needed. Such a reassessment process is not a new phenomenon. History has shown that financial market disruptions have often been followed by regulatory reforms» (Group of 30, The Structure of Financial Supervision – Approaches and Challenges in Global Marketplace, Washington D.C., 2008, 18, disponibile sul sito www.group30.org). A conferma di come questo principio abbia validità generale, con specifico riferimento agli Stati Uniti si veda Spong, Banking Regulation, Kansas City, 2000, p. 5 e p. 15.
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criticità del sistema e propone adeguate soluzioni. Sembra quindi lecito chiedersi perché il legislatore, invece di rafforzare per tempo le fondamenta del sistema, il più delle volte finisca per agire solo a cedimento avvenuto. La ragione, invero, è molto semplice e risiede nel fatto che il legislatore è un soggetto politico 2. In altre parole, é necessario tenere a mente che tutte le riforme legislative comportano una modifica delle posizioni giuridiche esistenti, con la conseguente carica di scontenti: tanto coloro che si ritrovano svantaggiati a fronte della riforma, quanto coloro che, più semplicemente, restano confusi dal cambiamento senza capirne le ragioni. Il buon giurista, cui preme soprattutto la complessiva efficienza del sistema, non è particolarmente sensibile a simili inquietudini. Il buon politico, invece, pur avendo parimenti a cuore l’efficienza del sistema, ha anche l’interesse a non accrescere lo scontento dei suoi concittadini (se non altro perché questi ultimi, eleggendolo, gli hanno affidato esattamente il mandato opposto). Di conseguenza, in presenza di un sistema che (con tanti o pochi difetti) sostanzialmente funziona, la classe politica manca degli incentivi per procedere al suo cambiamento. Solo quando i difetti diventano talmente superiori ai benefici da avere reali ripercussioni negative sulla vita dei cittadini, anche se il sistema funziona ancora, cresce la domanda di cambiamento e si forma il necessario consenso politico per realizzarlo. Il caso estremo in cui i difetti arrivano a superare i benefici si verifica quando il sistema smette di funzionare. Tale circostanza, appunto, si manifesta a fronte di una crisi finanziaria. La crisi finanziaria cominciata nell’agosto del 2007, secondo voci autorevoli 3, ha creato un clima politico favorevole per procedere alla riforma della struttura di supervisione finanziaria a livello comunitario. Tale riforma, tuttavia, ha dovuto essere realizzata per via legislativa, ossia attraverso gli strumenti forniti dal diritto. Il presente lavoro, pertanto, si
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Sono numerosi e autorevoli gli interventi dottrinali che si sono occupati del rilevante influsso esercitato dalla politica sull’evoluzione del diritto. Si vedano ad esempio, in generale, Roe, The Political Roots of American Corporate Finance, in Journal of Applied Corporate Finance, 1997, 9, p. 8, oppure, in particolare, Masciandaro, Central Banks and Single Financial Authorities: Economics, Politics and Law, in Handbook of Central Banking and Financial Authorities in Europe, a cura di Masciandaro, Cheltenham, 2005, p. 67. 3 Si vedano Carosio, Oltre la crisi. Regole, vigilanza, infrastrutture, in Banc., 2009, 6, p. 12; Saccomanni, Le nuove regole e le proposte del Gruppo de Larosiére, in Banc., 2009, 6, p. 63.
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propone di studiare le interazioni tra le logiche della politica e le ragioni del diritto all’interno di tale processo di riforma, al fine di evidenziare le rispettive influenze riguardo alla realizzazione delle proposte avanzate negli ultimi anni in relazione alla materia in questione. In particolare, nel perseguire il proposito appena enunciato, sembra corretto procedere come segue. Anzitutto, conviene riepilogare alcuni eventi occorsi negli ultimi anni in ambito finanziario, al fine di individuare i fattori che hanno determinato la necessità di riformare il sistema di vigilanza. Successivamente, pare opportuno descrivere brevemente i caratteri fondamentali dei sistemi di supervisione esistenti nei diversi Stati membri, al fine di introdurre alcuni concetti importanti in relazione alla materia oggetto di indagine. Quindi, per definire specificamente l’argomento oggetto di analisi, sembra necessario procedere in due fasi. Da un lato, bisogna descrivere l’evoluzione ed i caratteri del sistema di supervisione operante a livello comunitario. Dall’altro lato, è necessario illustrare le opzioni e le proposte di riforma avanzate negli ultimi anni, sottolineando le criticità che queste presentavano da un punto di vista giuridico. Infine, alla luce delle analisi svolte nei precedenti paragrafi e dopo aver descritto i tratti salienti dei provvedimenti recentemente adottati in merito alla riforma della struttura europea di supervisione finanziaria 4, sarà possibile svolgere alcune riflessioni riguardo all’interazione tra logiche politiche e giuridiche nella loro elaborazione.
4 Si tratta del Regolamento (UE) n. 1092/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativo alla vigilanza macroprudenziale del sistema finanziario nell’Unione europea e che istituisce il Comitato europeo per il rischio sistemico; del Regolamento (UE) n. 1093/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità bancaria europea); del Regolamento (UE) n. 1094/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali); del Regolamento (UE) n. 1095/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati); della Direttiva 2010/78/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, recante modifica delle direttive 98/26/CE, 2002/87/CE, 2003/6/CE, 2003/41/CE, 2003/71/ CE, 2004/39/CE, 2004/109/CE, 2005/60/CE, 2006/48/CE, 2006/49/CE e 2009/65/CE e del Regolamento (UE) n. 1096/2010 del Consiglio, del 17 novembre 2010, che conferisce alla Banca centrale europea compiti specifici riguardanti il funzionamento del Comitato europeo per il rischio sistemico.
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2. L’evoluzione dell’industria finanziaria. Nel corso degli ultimi decenni l’industria finanziaria ha subito importanti cambiamenti. Un autore già citato 5, in un saggio pubblicato alcuni anni prima della crisi, individuava tre principali evoluzioni. In primo luogo, l’offuscamento dei tradizionali confini tra i diversi settori e la conseguente integrazione tra mercati diversi (i.e. bancari, finanziari e assicurativi). In secondo luogo, la formazione di gruppi conglomerali di grandi dimensioni, cui è conseguita una notevole concentrazione del mercato. In terzo luogo, lo sviluppo di innovazioni finanziarie e la diffusione di metodi per diversificare il rischio attraverso la commercializzazione di strumenti finanziari altamente sofisticati. La formazione di gruppi transnazionali, tra le tre evoluzioni appena segnalate, è quella su cui ci si vuole maggiormente soffermare in questa sede. Infatti, sebbene tutte le evoluzioni sopra citate abbiano contribuito congiuntamente a determinare la crisi 6, sembra corretto affermare che, in particolare, la necessità di ripensare la struttura della supervisione finanziaria sia emersa proprio in relazione al fallimento di certe grandi istituzioni finanziarie multinazionali 7. Premesso questo, sembra opportuno descrivere brevemente i fattori all’origine della formazione di gruppi finanziari multinazionali, nonché le peculiari implicazioni del fallimento di un istituto bancario, prima di tracciare un quadro dei fallimenti occorsi durante la recente crisi. In relazione al primo aspetto, stando all’opinione di alcuni autori, la globalizzazione ha rappresentato un importante fattore alla base della formazione di gruppi finanziari transnazionali 8. In proposito, merita precisare che, in origine, la globalizzazione si è manifestata in un forte incremento degli scambi commerciali a livello in-
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Masciandaro, Central Banks, cit., p. 69. Si veda l’efficace ricostruzione offerta in Russo, Commissione europea, aiuti di Stato alle banche e diritto societario: una difficile convivenza, in Banca, impresa, soc., 2009, 381. 7 Si considerino, per esempio, i casi di Northern Rock (descritto in Russo, La crisi di Northern Rock: un recente esempio di «regulatory failure», in Banca, impresa, soc., 2009, p. 241) e Lehman Brothers (richiamato in Mattei Gentili, Crisi finanziarie e autorità di controllo, in Dir. banc., 2009, p. 518). 8 «International mergers between financial institutions, it may seem, are one feature of the globalization of financial markets» (Buch e DeLong, Cross-border bank mergers: What lures the rare animal, in Journal of Banking & Finance, 2004, p. 2081). 6
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ternazionale. A tale sviluppo commerciale é conseguito un altrettanto significativo aumento delle operazioni finanziarie tra istituzioni di diversa nazionalità. In sostanza, si può dire che la globalizzazione ha comportato un ampliamento dei tradizionali confini geografici dei mercati e una maggiore familiarità tra gli operatori. Più precisamente, sembra corretto ricondurre proprio alla combinazione di questi due elementi (ossia l’ampliamento dei confini geografici e l’accresciuta familiarità tra gli operatori) gran parte della responsabilità per il parallelo aumento delle concentrazioni tra istituzioni di diversa nazionalità, con la conseguente formazione di gruppi aventi dimensioni tali da oltrepassare i confini nazionali 9. In relazione al secondo aspetto, secondo alcuni autori, le peculiarità del fallimento delle banche e delle altre istituzioni finanziarie possono essere ricondotte alla posizione centrale che esse occupano all’interno di ogni economia e alla loro interdipendenza reciproca 10. In proposito conviene precisare che le banche e le altre istituzioni finanziarie svolgono un ruolo particolare all’interno di ogni nazione, offrendo prestazioni che sono fondamentali per il funzionamento di un sistema economico (tra cui la redistribuzione del risparmio attraverso la fornitura di credito al sistema produttivo e l’esecuzione dei pagamenti). Inoltre, tali istituti svolgono anche un ruolo importante nella trasmissione della politica monetaria. Di conseguenza, le banche e gli altri istituti finanziari possono essere visti come anelli di una catena che, se spezzata, rischia di provocare il crollo di un sistema economico o, quantomeno, rilevanti ripercussioni negative come strozzature creditizie, svendite di attività strategiche ed effetti di traboccamento (i cosiddetti “spillovers”) sul mercato interbancario. Per questi motivi, si determina la necessità di assoggettare le banche e le altre istituzioni finanziarie a speciali procedure concorsuali.
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Questi gruppi finanziari, nonché le operazioni da questi poste in essere, sono efficacemente identificate dalla dottrina anglosassone con l’aggettivo cross-border, termine che in italiano può essere tradotto con la meno evocativa qualifica di “transnazionali”. Si vedano, in generale, Carletti, Hartmann e Spagnolo, Bank Mergers, Competition, and Liquidity, in Journal of Money, Credit and Banking, 2007, p. 1067; Blank e Buch, The Euro and CrossBorder Banking: Evidence from Bilateral Data, in Comparative Economic Studies, 2007, p. 389; Buch e DeLong, Cross-border, cit.; Cybo-Ottone e Murgia, Mergers and shareholder wealth in European banking, in Journal of Banking & Finance, 2000, p. 831. 10 Si vedano, per esempio, Hüpkes, Insolvency: Why a Special Regime for Banks?, in Current Developments in Monetary and Financial Law, 2003, p. 47; Mayes, Who pays for bank insolvency?, in Journal of International Money and Finance, 2004, p. 515.
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3. I fallimenti bancari nella crisi finanziaria. Alla luce di quanto appena affermato, sembra opportuno richiamare brevemente alcuni dissesti verificatisi nel settore bancario, al fine di mostrare uno spaccato degli eventi che, durante la crisi, hanno concorso a rivelare le inadeguatezze dei tradizionali meccanismi di supervisione finanziaria 11. Agli albori della crisi, il primo caso a destare scalpore è stato quello della Banca inglese Northern Rock. Questo caso in verità ha interessato una banca priva di una rilevante presenza internazionale, ma di dimensioni sufficientemente grandi da provocare conseguenze sistemiche in caso di collasso 12. Dato che le implicazioni sistemiche avrebbero avuto impatto su una grande economia come quella inglese, il dissesto in questione ha immediatamente suscitato allarme. Oltre a ciò, il caso ha avuto anche notevoli ricadute psicologiche, dal momento che Northern Rock é stata oggetto di una corsa agli sportelli, avvenimento che non si verificava nel Regno Unito dal 1878 13. Quanto riepilogato finora spiega il perché Northern Rock abbia ricevuto attenzione speciale, anche da parte della dottrina 14. A quello di Northern Rock sono seguiti i casi di Giltnir, Landsbanki e Kaupthing 15. I dissesti in questione però s’inseriscono nel più ampio contesto della crisi che ha travolto l’intero sistema finanziario islandese e, pertanto, non possono essere analizzati disgiuntamente da questa. Tuttavia, hanno fornito un primo esempio delle implicazioni sistemiche del fallimento di intermediari con una pur limitata presenza ed esposizione finanziaria internazionale.
11 In proposito, pare opportuno segnalare due recenti studi contenenti analisi di respiro più ampio rispetto allo scarno riepilogo di eventi offerto in questa sede: Onado, La crisi finanziaria internazionale: le lezioni per i regolatori, in Banc., impr., soc., 2009, p. 5; Messori, Perché è necessaria una nuova regolamentazione, in Banc., impr., soc., 2009, p. 329. 12 Si veda il quinto rapporto della sessione 2007/2008 del Treasury Committee presso la House of Commons, intitolato “The Run on the Rock”, pubblicato nel gennaio 2008 e disponibile sul sito http://www.publications.parliament.uk, p. 10 ss. 13 Si veda il quinto rapporto della sessione 2007/2008 del Treasury Committee presso la House of Commons, intitolato The Run on the Rock, cit. 14 Si vedano Lastra, Northern Rock, UK bank insolvency and cross-border bank insolvency, in Journal of Banking Regulation, 2008, p. 165; Campbell, The run on the Rock and its consequences, in Journal of Banking Regulation, 2008, p. 61; Russo, La crisi, cit. 15 Si tratta dei tre maggiori gruppi bancari allora presenti in Islanda.
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Ai casi appena citati ne sono seguiti, purtroppo, parecchi altri. In ordine temporale, solo per menzionare quelli di maggiori dimensioni, vale la pena ricordare: il salvataggio di Bear Stearns nel marzo 2008, il fallimento di Lehman Brothers e il salvataggio di AIG in America fra il settembre e l’ottobre 2008, i salvataggi di Dexia e Fortis in Europa all’incirca nello stesso periodo, la truffa Madoff scoperta nel dicembre di quello stesso anno e, infine, i più recenti salvataggi di Hypo Real Estate and IKB in Germania. Ognuno degli episodi sopra citati meriterebbe di essere spiegato approfonditamente. Tuttavia, dal momento che una simile trattazione andrebbe oltre lo scopo del presente lavoro, come accennato sopra, essi sono solo elencati al fine di fornire un quadro sintetico degli eventi. In proposito, tuttavia, bisogna rammentare che la crisi non si é ovviamente limitata a coinvolgere i grandi operatori. Al contrario, essa si è riversata sull’intero sistema bancario 16.
4. L’evidente necessità di una riforma complessiva del sistema. Come anticipato all’inizio di questo lavoro, ogni cambiamento radicale di un sistema presuppone la formazione di un ampio consenso politico, condizione indispensabile per adottare delle riforme legislative che vanno a influire profondamente su posizioni giuridiche preesistenti. La ricostruzione dei recenti sviluppi dell’industria finanziaria offerta nel precedente paragrafo, per quanto sintetica e, di conseguenza, necessariamente incompleta, ha mostrato che quel processo evolutivo ha creato condizioni che hanno favorito un’ampia e rapida diffusione della crisi iniziata nel 2007. In particolare, come già accennato, la crisi sembra aver avuto due effetti principali: da un lato, ha evidenziato le limitazioni proprie dell’attuale sistema di vigilanza finanziaria; dall’altro, ha determinato una forte domanda di riforma complessiva del sistema.
16 A solo titolo di esempio, si consideri che, negli Stati Uniti d’America, dall’agosto 2007 (data cui si riconduce l’emersione della crisi) alla fine del maggio 2009, la Federal Deposit Insurance Corporation è stata incaricata della liquidazione di ben sessantatre banche commerciali [questi dati sono disponibili sul sito dell’ente che gestisce il sistema di garanzia dei depositi negli Stati Uniti d’America, ovvero la Federal Deposit Insurance Corporation (www.fdic.gov)].
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Volendo approfondire il primo effetto, anzitutto sembra opportuno rammentare che molti rapporti elaborati in seno a importanti consessi contengono approfondite e attente riflessioni circa quelle limitazioni del sistema che hanno contribuito a determinare la crisi 17. Inoltre, alcuni tra i principali protagonisti dell’establishment finanziario mondiale hanno espresso le proprie opinioni in proposito 18. Tra questi, un autorevole intervento sembra coniugare concisione e lucidità, identificando le principali carenze del sistema di supervisione finanziaria in vigore a livello comunitario al tempo della crisi 19. Più precisamente, dopo aver rammentato che il sistema europeo, basato su una serie di direttive e su meccanismi di cooperazione concepiti parecchi anni or sono, non ha funzionato come ci si sarebbe aspettati, l’intervento sopra citato individuava tre principali problemi specificamente relativi alla supervisione finanziaria. In primo luogo, la crisi ha sottolineato il fatto che a fronte di un singolo mercato europeo persisteva un grande margine di discrezionalità nel recepimento delle direttive comunitarie da parte dei singoli Stati membri. Dal momento che questa discrezionalità poteva essere usata dai legislatori nazionali per promuovere i propri centri finanziari rispetto ad altri, essa si rivelava funzionale allo sviluppo di una competizione idonea a diminuire il livello di prudenza delle regole e a rendere il sistema complessivamente più fragile. In secondo luogo, la crisi ha evidenziato che la competizione tra centri finanziari e tra diverse istituzioni costituiva un ostacolo alla effettiva
17 Si vedano, ad esempio, il Rapporto de Larosiére (pubblicato il 25 febbraio 2009 e disponibile sul sito www.ec.europa.eu) e la Turner Review (pubblicata il 18 marzo 2009 e disponibile sul sito www.fsa.gov.uk). 18 Si vedano, Bernanke, Lessons of the Financial Crisis for Banking Supervision, discorso pronunciato alla conferenza su Bank Structure and Competition, tenuta presso la Federal Riserve Bank di Chicago il 7 maggio 2009 (disponibile all’indirizzo http://www. federalreserve.gov/newsevents/speech/bernanke20090507a.htm) e, riguardo alla situazione europea, Trichet, Macroeconomic policies, imbalances and the need to avoid going back to the status quo ante, discorso pronunciato all’annuale incontro congiunto con il Parlamento europeo tenuto il 16 febbraio 2009 (disponibile all’indirizzo http://www.ecb. europa.eu/press/key/date/2009/html/sp090216_1.en.html). 19 Bini Smaghi, Regulation and supervisory architecture: Is the EU on the right path?, discorso pronunciato all’incontro della commissione per gli affari economici e monetari del Parlamento europeo coi parlamenti nazionali su Financial crisis: Where does Europe stand?, tenutosi a Bruxelles il 12 febbraio 2009 (disponibile all’indirizzo http://www/ecb. europa.eu/press/key/date/2009/html/sp090212.en.html).
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cooperazione tra le autorità nazionali di supervisione. In particolare, questa competizione riduceva gli incentivi allo scambio di informazioni, che a sua volta riduceva l’effettività della cooperazione. In terzo luogo, la crisi ha mostrato che sia riguardo alla prevenzione che alla soluzione di un dissesto finanziario, le attività svolte da banche centrali e autorità di supervisione devono essere strettamente collegate, poiché quando non lo sono lo scambio di informazioni è più complesso e, di conseguenza, le operazioni più lente e meno efficaci. Dai tre principali problemi sopra menzionati emergeva una evidente necessità di riforma complessiva del sistema di supervisione finanziaria operante a livello europeo.
5. I caratteri della supervisione a livello nazionale. La supervisione sui mercati e sulle istituzioni finanziarie si realizza tradizionalmente attraverso due attività principali. Da un lato, la supervisione si sostanzia nella vigilanza prudenziale, cioè in un’attività di monitoraggio degli istituti finanziari volta a raccogliere informazioni necessarie a comprendere in anticipo che può verificarsi una crisi (tanto quella di singoli istituti finanziari quanto quella del sistema finanziario nel suo complesso) in modo da poter approntare tempestivamente le opportune contromisure. Dall’altro lato, la supervisione si sostanzia nella tutela di investitori e consumatori. Premesso quanto sopra, i sistemi di supervisione differiscono notevolmente da un paese all’altro. Ovviamente è impossibile fornire una descrizione dettagliata di ogni singolo sistema; soprattutto adesso, dal momento che, in seguito alla crisi, molti paesi stanno riformando i propri sistemi di supervisione. Tuttavia, è possibile descrivere i diversi modelli a cui ogni singolo sistema di vigilanza può essere ricondotto. Più precisamente, la dottrina ha individuato quattro diversi approcci alla supervisione 20.
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Si fa riferimento alle informazioni riportate nel documento elaborato dal Group of 30 (Group of 30, The Structure, cit., p. 23 ss.) perché tale organismo riunisce alcuni tra i maggiori esperti del mondo e, quindi, si ritiene che possa essere considerato più affidabile di qualsiasi studio condotto da uno solo di essi. In ogni caso, preme sottolineare che anche altri illustri studiosi riportano classificazioni che sono in linea con quella elaborata dal documento del Group of 30 (si veda, ad esempio, Wymeersch, The Structure of Financial Supervision in Europe – About single, twin peaks and multiple financial supervisors, 2006, disponibile su www.ssrn.com).
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In primo luogo, l’approccio “istituzionale” (o “tradizionale”) è quello secondo il quale la veste giuridica dell’impresa determina il tipo di supervisore cui la medesima è sottoposta per quanto riguarda sia la vigilanza prudenziale che la tutela dei consumatori. Questo approccio implica quindi che siano istituite una pluralità di autorità incaricate di vigilare su diversi settori. In proposito, è possibile ritenere che questo approccio sia quello più soggetto a cambiamenti alla luce delle recenti evoluzioni, soprattutto a causa dell’offuscamento dei classici confini tra i differenti settori e la conseguente integrazione tra mercati diversi. L’approccio istituzionale è, ad esempio, quello adottato in Cina. In secondo luogo, l’approccio “funzionale” è quello in base al quale il regime di supervisione è determinato dal tipo di attività in cui l’impresa è impegnata, a prescindere dalla sua veste giuridica. Ogni diversa attività ha il suo specifico supervisore e un’impresa che svolge più attività sarà sottoposta alla vigilanza congiunta di più supervisori allo stesso tempo. L’approccio funzionale è adottato in molti paesi tra cui, ad esempio, Francia, Spagna, Brasile e Italia. In terzo luogo, l’approccio “integrato” prevede che ci sia un singolo supervisore universale che conduce sia la vigilanza prudenziale che la tutela dei consumatori su tutti i settori e con riferimento a tutte le attività finanziarie che un’impresa può esercitare. L’approccio integrato è adottato in un ampio numero di paesi come, ad esempio, Singapore, Giappone, Svizzera, Germania e Canada. Tuttavia, questo approccio ha ricevuto crescente attenzione e popolarità dopo l’istituzione nel Regno Unito della Financial Services Authority, che tuttora ne costituisce la più visibile e completa manifestazione. In quarto luogo, l’approccio “a due picchi” prevede che ci siano solo due autorità di supervisione che svolgono la vigilanza per obiettivi, ovvero una svolge la supervisione prudenziale, mentre l’altra si occupa della tutela dei consumatori. L’approccio a due picchi, ad esempio, è quello adottato in Olanda e Australia. In ognuna delle strutture di supervisione finanziaria descritte sopra, la banca centrale nazionale può essere più o meno coinvolta nella vigilanza sui mercati e sugli intermediari finanziari.
6. Una struttura di transizione a livello europeo: il Lead Supervisor Model. I sistemi di supervisione finanziaria esistenti a livello nazionale sono concepiti per operare all’interno del Paese in cui sono stati istituiti e,
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pertanto, non sono in grado di tenere sotto controllo grandi istituzioni finanziarie di dimensione sopranazionale. In assenza di un’efficace direzione europea, a questo stato di cose conseguivano costi eccessivi e limitata efficienza, tanto per le autorità di supervisione quanto per le istituzioni finanziarie, oltre a squilibri nelle dinamiche competitive potenzialmente idonei ad alterare la concorrenza. Di fronte a tale realtà, la European Financial Services Round Table, un’organizzazione operante a livello comunitario e solitamente indicata con l’acronimo EFR 21, ha concepito il Lead Supervisor Model. Più precisamente, nel giugno del 2005 l’EFR ha pubblicato un rapporto intitolato On the Lead Supervisor Model and the Future of Financial Supervision in the EU. Successivamente, il 16 giugno 2008, la medesima EFR ha reso pubbliche le sue risposte alla consultazione promossa dalla Commissione europea sui potenziali cambiamenti da apportare alla Capital Requirements Directive 22 e alle procedure di co-decisione e di comitatologia. Da queste risposte emergeva ancora più chiaramente la struttura del Lead Supervisor Model. Sostanzialmente, il citato modello prevedeva che dovessero essere istituiti dei collegi all’interno dei quali si sarebbero dovute riunire le autorità coinvolte nella supervisione delle istituzioni finanziarie operanti al livello comunitario. In caso di crisi di un ente finanziario, il collegio avrebbe rappresentato il fulcro intorno al quale avrebbero dovuto ruotare le attività delle autorità di supervisione. All’interno dei collegi sopra menzionati, era previsto un ruolo particolare per il cosiddetto lead supervisor (i.e. l’autorità di supervisione competente per la capogruppo). Quest’ultimo, infatti, avrebbe dovuto avere il compito di presiedere il collegio comprendente tutte le autorità all’interno delle cui giurisdizioni l’istituto finanziario svolge operazioni consistenti.
21 L’European Financial Services Round Table (EFR) è stata costituita nel 2001 come organizzazione no-profit di diritto belga. L’organizzazione ha sede a Bruxelles e i suoi membri sono i presidenti e gli amministratori di alcune tra i maggiori istituti di credito e compagnie assicurative d’Europa. La missione dell’European Financial Services Round Table è di rappresentare le esigenze dell’industria di fronte alle istituzioni comunitarie per quel che riguarda argomenti relativi alla regolamentazione dei servizi finanziari. 22 Si veda, in particolare, la Direttiva 2006/48/EC, più la proposta della Commissione europea [COM (2008) 602 final, 1 ottobre 2008, disponibile all’indirizzo http://eur-lex. europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2008:0602:FIN:EN:PDF].
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In altre parole, il collegio di supervisori avrebbe dovuto funzionare come un forum in cui tutti i supervisori coinvolti avrebbero potuto condividere informazioni rilevanti riguardo al gruppo in questione e il lead supervisor come singolo punto di contatto per l’istituzione finanziaria sottoposta a supervisione nonché la sola autorità di riferimento per tutti gli aspetti di supervisione prudenziale, sia a livello di gruppo che a livello delle sue componenti. Inoltre, il lead supervisor avrebbe dovuto coordinare tutti gli obblighi di comunicazione e le ispezioni in loco. Il modello prevedeva anche che un sistema di mediazione dei conflitti fosse previsto presso il CEBS 23, nel caso sorgessero disaccordi tra il lead supervisor e gli altri membri del collegio. Oltre a questo, al CEBS era affidato il compito di assicurare una conforme interpretazione ed implementazione della legislazione comunitaria, al fine di promuovere una cultura comune a livello europeo nell’ambito della supervisione e assicurare adeguate dinamiche competitive. Infine, per questi scopi, il modello prevedeva che i comitati Lamfalussy avrebbero dovuto essere ulteriormente sviluppati, così da consentire loro di assumere decisioni a maggioranza qualificata, accompagnate da prassi improntate a una logica di comply or explain 24. Tuttavia, secondo l’EFR, la funzione del lead supervisor non si sarebbe dovuta limitare alla sola supervisione. Le autorità riunite nel collegio infatti, insieme alle banche centrali, ai sistemi di assicurazione dei depositi e ministeri delle Finanze dei Paesi in cui le istituzioni incontrano difficoltà, svolgono anche un ruolo importante nella gestione della crisi. Perciò, il lead supervisor avrebbe dovuto avere, in particolare, una funzione di coordinamento. Per quanto riguarda lo svolgimento delle operazioni di prestito di ultima istanza sotto il regime del Lead Supervisor Model, invece, l’EFR raccomandava che la banca centrale del Paese la cui autorità di supervisione svolge il ruolo di lead supervisor ne fosse responsabile e avesse
23
L’acronimo CEBS indica il Committee of European Banking Supervision (tradotto letteralmente, Comitato per la supervisione bancaria europea). Il CEBS era uno dei tre comitati istituiti nell’ambito del cosiddetto “processo Lamfalussy” (comunemente noti come “comitati Lamfalussy” o comitati di terzo livello). Una spiegazione più precisa del menzionato processo sarà fornita nel prossimo paragrafo. 24 L’espressione “comply or explain” può essere letteralmente tradotta come “ubbidire o spiegare”. In pratica si tratta di una logica in base alla quale é possibile non attenersi alle regole, ma i comportamenti che si discostano da queste devono essere debitamente motivati.
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l’ultima parola riguardo alla decisione di attivare o meno le sopra menzionate operazioni. Nel 2006 le raccomandazioni contenute nel Lead Supervisor Model sono state introdotte (pur se molto parzialmente) nella Capital Requirements Directive 25. In ogni caso, l’EFR considerava il Lead Supervisor Model solo come una soluzione di medio periodo. Il documento del 2005, infatti, considerava anche altre opzioni nel lungo periodo, guardando con particolare favore allo sviluppo di un Sistema europeo di vigilanza finanziaria, guidato da un’autorità centrale (l’Autorità europea di vigilanza finanziaria) e costruito sul modello del Sistema europeo delle banche centrali e della Banca centrale europea.
7. I caratteri della supervisione a livello europeo. Un apprezzato autore descrive efficacemente i caratteri della supervisione finanziaria a livello europeo come fondata su tre elementi: il principio dello home country control, l’osservanza di alcune regole di base e il mutuo riconoscimento dei provvedimenti emessi nei diversi Stati membri. In proposito, sembra di poter dire che questi caratteri di base, salvo quanto si dirà in seguito circa il ruolo delle autorità di vigilanza, sono stati mantenuti dai provvedimenti di riforma recentemente adottati 26. In sostanza, ogni istituzione finanziaria è sottoposta al regime in vigore nel suo paese di origine sia per quanto riguarda l’autorizzazione a svolgere la propria attività che la supervisione sulla medesima. In base a questo sistema, un istituto finanziario può allargare la propria attività ad ogni parte dell’Unione europea, tramite l’apertura di filiali o l’offerta di servizi direttamente negli altri Stati, senza essere soggetto ad un regime di vigilanza diverso per ogni Stato in cui opera 27.
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Si vedano in particolare gli articoli 129, 130 e 131 della Direttiva 2006/48/EC. Più precisamente, sembra corretto dire che i regolamenti recentemente adottati, tramite il conferimento di specifici poteri alle nuove autorità, mirano a rafforzare i meccanismi preesistenti (a conferma di ciò, si vedano ad esempio, oltre ai regolamenti stessi, le modifiche apportate alla Capital Requirements Directive dall’articolo 9 della Direttiva 78/2010/EU). 27 Si veda Schoenmaker, Central Banks and Financial Authorities in Europe: What Prospects?, Handbook of Central Banking and Financial Authorities in Europe, a cura di Masciandaro, Cheltenham, 2005, p. 409. 26
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In pratica, il principale strumento attraverso cui le istituzioni europee interagiscono con istituti finanziari di dimensioni continentali è rappresentato dai supervisory colleges (collegi di supervisione). Detti collegi sono istituiti per ogni istituzione finanziaria che opera in più di uno Stato membro tramite una o più filiali o società controllate. Ogni collegio è presieduto dallo home supervisor della capogruppo (ossia l’autorità di vigilanza dello Stato membro ove ha sede la società capogruppo) ed è composto dai rappresentanti delle autorità di supervisione di tutti i paesi in cui il gruppo opera tramite una filiale o una società controllata 28. I collegi così composti operano sulla base di obbligatori accordi scritti stipulati appositamente tra le autorità di vigilanza coinvolte al fine di consentire a quella dello Stato membro in cui ha sede la capogruppo di svolgere la vigilanza consolidata sull’intero gruppo 29. Per questa ragione, lo home supervisor viene anche definito consolidating supervisor (che è in sostanza un sinonimo di lead supervisor). La collaborazione tra i diversi collegi di supervisori si basa su Memoranda of Understanding (sovente indicati con l’acronimo MoUs), cioè accordi bilaterali aventi fondamentalmente ad oggetto lo scambio di informazioni e il coordinamento tra le autorità di diversi Stati. I MoUs hanno lo scopo di contribuire alla stabilità finanziaria e alla gestione delle crisi. A tal fine i MoUs sono anche previsti dalla Capital Requirements Directive che, nell’armonizzare la struttura della cooperazione tra l’autorità del paese di provenienza (home country supervisor) e quelle del paese in cui l’istituto finanziario svolge la sua attività (host country supervisor), richiede alle autorità competenti di stipulare appositi accordi scritti (ovvero i MoUs) per assicurare il coordinamento e la cooperazione in relazione alla supervisione sui gruppi bancari. Tuttavia, è interessante sottolineare che i MoUs non hanno natura vincolante e non sono quindi idonei a fondare alcuna pretesa giuridica da parte dei soggetti che li stipulano 30.
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Per maggiori informazioni circa il numero, la presenza e la composizione dei collegi si rinvia a Sarcinelli, La riforma dell’architettura di vigilanza europea, in Banc., 2009, p. 26. 29 Lannoo, Concrete Steps towards More Integrated Financial Oversight: The EU’s Policy Response to the Crisis, in CEPS Task Force Report, 1 December 2008, p. 31. 30 Un primo MoU é stato stipulato dal Comitato per la vigilanza bancaria (Banking Supervision Committee) istituito presso la Banca centrale europea nel 2003 e stabiliva i principi e le procedure per le autorità competenti in relazione alla gestione di una crisi. L’ambito di applicazione di questo MoU é stato esteso nel 2005 per includere
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Il sistema appena descritto è poi collegato al processo Lamfalussy. Anche in questo caso, sembra di poter dire che i provvedimenti di riforma recentemente adottati non abbiano del tutto abolito il processo Lamfalussy, modificando solo quelle parti che la crisi aveva dimostrato essere inadeguate (i.e. la cooperazione al terzo livello) 31. Il processo Lamfalussy è il metodo concepito per sviluppare ed attuare la regolamentazione in materia di integrazione dei mercati finanziari in ambito comunitario. Questo processo, concepito da un comitato di saggi istituito dall’ECOFIN (i.e. Consiglio dei ministri dell’Economia e delle Finanze dell’Unione europea) il 17 luglio 2000 e descritto nel rapporto pubblicato il 15 febbraio 2001, è strutturato in quattro livelli. Ciascun livello costituisce una fase del processo di regolamentazione che, brevemente, può essere descritto come segue. Al primo livello sono assunti, tramite la procedura di codecisione 32, i principi che stabiliscono i valori basilari di un nuovo atto legislativo. Al secondo livello, i comitati settoriali istituiti nell’ambito della procedura di comitatologia 33, insieme alle autorità nazionali di vigilanza,
anche i ministeri delle Finanze e di recente è stato nuovamente migliorato. A livello pratico, tuttavia, secondo un autore la crisi ha dimostrato l’inefficacia dei MoUs in più di un’occasione. Ad esempio, il caso Northern Rock ha evidenziato quanto sia difficile funzionare per i MoUs anche a livello nazionale. A livello internazionale, inoltre, le scarse informazioni tuttora disponibili riguardo al caso di Fortis indicano la scarsa efficacia dei MoUs (si veda Lannoo, Concrete Steps, cit., p. 33). In generale, si veda anche Sarcinelli, La riforma, cit., p. 26. 31 Si veda in proposito il considerando 2 dei tre regolamenti istitutivi delle nuove autorità di vigilanza (ove si menzionano le raccomandazioni della Commissione europea circa il “seguito” della procedura Lamfalussy), nonché il discorso pronunciato dallo stesso Alexandre Lamfalussy alla Conference of Finance Chairs tenutasi a Bruxelles il 20 e 21 settembre 2010, disponibile sul sito dedicato alle attività parlamentari della presidenza belga dell’Unione europea (http://www.parlement-eu2010.be/pdf/20-21seppresentation-Alexandre-Lamfalussy.pdf). 32 Si tratta di una procedura prevista nella versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. L’articolo 294 (altra versione dell’articolo 251 del Trattato che istituisce la Comunità europea) conferisce al Parlamento europeo il potere di adottare una serie di atti congiuntamente con il Consiglio dell’Unione europea. Prevede una, due o tre letture e si traduce in un maggior numero di contatti tra i due co-legislatori, ovvero il Parlamento e il Consiglio, moltiplicando anche i contatti con la Commissione europea. 33 Si tratta di una procedura stabilita all’articolo 202 del Trattato che istituisce la Comunità europea (ora sostituito dall’articolo 16, paragrafo 1, del Trattato sull’Unione europea e dagli articoli 290 e 291 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) ove si prevedeva che la Commissione desse esecuzione alla normativa comunitaria e che, nel
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assistevano la Commissione europea nella implementazione dei principi concordati al primo livello. In proposito, bisogna precisare che le modalità di implementazione di quanto concordato al primo livello sono cambiate in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona; adesso l’articolo 290 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede infatti che il Consiglio e il Parlamento europeo possono delegare alla Commissione europea il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali di un atto legislativo. Inoltre, è opportuno rammentare che la recente riforma della struttura europea di supervisione finanziaria ha trasformato i comitati Lamfalussy nelle nuove autorità di vigilanza. Il terzo livello consisteva in una cooperazione rafforzata diretta dai cosiddetti comitati Lamfalussy 34 (ora le nuove autorità comunitarie di vigilanza) ed intesa a promuovere la convergenza tra l’operato delle autorità nazionali per assicurare una trasposizione coerente e conforme delle nuove regole in tutta l’Unione europea. Al quarto livello, le istituzioni comunitarie sono incaricate di attuare e controllare l’applicazione della legislazione sviluppata.
8. Il Sistema europeo di vigilanza finanziaria e possibili percorsi alternativi. La crisi ha determinato la percezione abbastanza diffusa che, al fine di rimediare alle lacune del sistema, nel riformare una struttura in grado di affrontare efficacemente le future sfide in materia di supervisione finanziaria, il legislatore comunitario fosse chiamato ad assumere iniziative radicali 35.
farlo, la Commissione fosse assistita da un comitato, che operava nell’osservanza di una procedura comunemente nota appunto come «comitatologia». 34 I comitati Lamfalussy erano istituiti in tre ambiti specifici. Oltre al già citato CEBS (Committee of European Banking Supervision, ovvero Comitato per la supervisione bancaria europea), istituito per il settore bancario, esistevano il CESR (Committee of European Securities Regulation, ovvero Comitato per la regolamentazione europea dei titoli), istituito per il settore finanziario, e il CEIOPS (Committee of European Insurance and Occupational Pensions Supervisors, ovvero Comitato dei supervisori europei sulle assicurazioni e le pensioni da lavoro), istituito per il settore assicurativo. 35 Lannoo, Concrete, cit., p. 36.
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In effetti, con le innovazioni adottate negli ultimi anni in seguito alle proposte basate sullo schema Lamfalussy, erano stati raggiunti i limiti di ciò che si poteva fare rimanendo all’interno del quadro normativo esistente al tempo della crisi, in particolare per quanto riguarda i soggetti operanti su scala transfrontaliera. Alla luce di quanto appena riportato, già alcuni anni prima della crisi iniziata nel 2007, la dottrina aveva elaborato un modello basato sull’esempio Sistema europeo delle banche centrali 36. In particolare, si tratta del già menzionato Sistema europeo di vigilanza finanziaria, concepito come un’organizzazione in grado di mettere insieme e coordinare tutte le autorità nazionali di supervisione, mantenendo al tempo stesso la loro pluralità a livello operativo. In proposito, per quanto non tutti i contributi della dottrina si spingano a definire nel dettaglio i caratteri nel citato modello, sembra corretto ritenere che, qualora avesse voluto ricalcare fedelmente l’esempio del Sistema europeo delle banche centrali, esso sarebbe dovuto ruotare intorno a un’autorità centrale (come è la Banca centrale europea all’interno del sistema preso a modello). In questo caso, tale autorità centrale sarebbe stata la già citata Autorità europea di vigilanza finanziaria. In altre parole, sulla falsariga di quanto avviene nella Banca centrale europea, questa autorità avrebbe riunito i vertici dei diversi organismi di vigilanza nazionali per assumere le decisioni di maggiore rilevanza (o di rilevanza comunitaria) e avrebbe lasciato l’implementazione di queste decisioni, nonché l’assunzione delle decisioni di rilevanza non comunitaria, a livello dei singoli Stati membri. Un modello caratterizzato dagli elementi appena illustrati era sicuramente affascinante e teoricamente foriero di efficienti risultati. Tuttavia, fin dal suo concepimento è apparso chiaro che la sua effettiva realizzazione avrebbe comportato notevoli difficoltà. In primo luogo, infatti, esso avrebbe assunto la configurazione propria della britannica Financial Services Authority che, come è stato evidenziato in un precedente paragrafo, non è il modello prevalente (pertanto il raccordo con quei sistemi nazionali articolati sull’esistenza di più autorità avrebbe potuto rivelarsi problematico). In secondo luogo, inoltre, qualora si fosse voluta costituire un’autorità centrale effettivamente indipendente, sarebbe stata richiesta una
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Si veda, ad esempio, Schoenmaker, Central Banks, cit., p. 398 ss.
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modifica dei Trattati 37, con tempi conseguentemente lunghi ed esiti incerti; condizioni quindi incompatibili con la necessità di rispondere tempestivamente alla crisi. In terzo luogo, infine, la stessa indipendenza di una simile autorità era oggetto di discussione. Infatti, se l’indipendenza dell’organo che decide in materia di politica monetaria (come nel caso della Banca centrale europea) è comunemente ritenuta fondamentale, il grado di indipendenza che deve avere l’ente incaricato di svolgere compiti in materia di supervisione finanziaria è molto più controverso 38. In considerazione delle problematicità accennate, alcuni scenari alternativi potevano essere pensati (prima che la Commissione europea desse l’incarico a un gruppo di esperti di elaborare una serie di proposte volte a riformare la struttura della supervisione a livello europeo) 39. Un primo possibile scenario alternativo sarebbe stato quello di trasformare i comitati Lamfalussy in agenzie comunitarie. Una simile soluzione non sarebbe stata di breve periodo, dal momento che avrebbe implicato la creazione di strutture permanenti, e allo stesso tempo non avrebbe richiesto tempi lunghi, dal momento che per la creazione di agenzie non è necessaria una modifica dei Trattati 40. Tuttavia non avrebbe avuto grossi effetti positivi. Al contrario, stando all’opinione di alcuni studiosi, tale trasformazione avrebbe sollevato più problemi di quanti sarebbe stata in grado di risolverne 41. Infatti, attribuire maggiori poteri ai comitati senza preoccuparsi di uniformare opportunamente la struttura ed i poteri delle autorità nazionali avrebbe
37 Si vedano Avgerinos, EU Financial Market Supervision Revisited: The European Securities Regulator, in Jean Monnet Working Paper No. 7/03, 2003, p. 14; Zadra, Per una riforma organica dell’architettura di vigilanza europea: le proposte dell’ABI, in Banc., 2009, p. 7. 38 Un’autorevole esperta, in un documento elaborato per l’incontro tenuto il 30 marzo 2009 nell’ambito del dialogo monetario tra la Commissione per gli affari economici e monetari del Parlamento europeo e la Banca centrale europea, ha sostenuto che la supervisione sui mercati finanziari è un’attività intrinsecamente politica, incompatibile quindi con un grado di indipendenza tale da escludere la soggezione al controllo di un organo politico, come ad esempio la Commissione o il Parlamento europeo (si veda Siebert, What role should the ECB play in financial market supervision?, disponibile, insieme ad altri studi prodotti in relazione all’incontro sopra menzionato, all’indirizzo http://www.europarl. europa.eu/activities/committees/editoDisplay.do?language=IT&menuId=2060&id=2&body =ECON). Considerazioni analoghe si ritrovano in Zadra, Per una riforma, cit., p. 7. 39 Si veda Lannoo, Concrete Steps, cit., p. 40 ss. 40 Si veda Avgerinos, EU Financial Market, cit., p. 15. 41 Si veda Lannoo, Concrete Steps, cit., p. 40.
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finito solo per amplificare (o almeno per non modificare) i problemi di coordinamento già esistenti. Più precisamente, una mera trasformazione dei comitati Lamfalussy avrebbe unicamente aggiunto altre tre agenzie comunitarie alle ventotto già esistenti senza alcuna logica apparente (se non quella di voler dare a tutti i costi l’impressione di aver realizzato qualcosa). In questa prospettiva, tale progetto avrebbe costituito solo un rapido espediente. Al contrario, era opinione diffusa che la supervisione finanziaria fosse un tema da affrontare con una logica intesa ad elaborare un rimedio organico alle varie imperfezioni rivelate dalla crisi. In altre parole, l’ideazione di una simile soluzione richiedeva un processo politico appropriato, invece che una strategia frettolosa risultante solo nell’istituzione di nuovi enti senza che, a monte di tali istituzioni, ci fosse stata una riflessione sufficientemente approfondita 42. Un secondo possibile scenario alternativo sarebbe stato quello di attribuire maggiori poteri in materia di supervisione finanziaria alla Banca centrale europea. A prima vista questa opzione sarebbe stata di rapida attivazione e, allo stesso tempo, avrebbe avuto il merito di coinvolgere un ente già operativo. Ciò nonostante, come già accennato nel quarto paragrafo, il coinvolgimento di una banca centrale nella supervisione non è comune ovunque e non sempre viene ritenuto positivo. In proposito, la dottrina ha individuato numerosi vantaggi e svantaggi di tale coinvolgimento. Da un lato, infatti, è possibile trovare numerosi riferimenti in dottrina circa i legami tra la politica monetaria e quella prudenziale, le cui possibili sinergie costituirebbero prove a favore del coinvolgimento di una banca centrale nella supervisione finanziaria 43. Oltre a ciò, alcuni autori ritengono che sussistano delle economie di scala nell’affidare ad una banca centrale un ruolo nella supervisione e che quest’ultima sia una posizione tale consentirgli di reclutare più facilmente il personale necessario 44.
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Si veda, ancora, Lannoo, Concrete Steps, cit., p. 40. Si vedano Masciandaro, Central Banks, cit., p. 83; Borio e Shim, What can (macroprudential policy do to support monetary policy?, in BIS Working Paper N. 242, 2007; Nier, Financial Stability Frameworks and the Role of Central Banks: Lessons from the Crisis, in IMF Working Paper WP/09/70, 2009; Borio, The macroprudential approach to regulation and supervision: where do we stand?, in Towards a new framework for financial stability, a cura di Mayes, Pringle, Taylor, London, 2009, p. 432. 44 Si veda Llewellyn, Integrated Agencies and Role of Central Banks, in Handbook of Central Banking and Financial Authorities in Europe, a cura di Masciandaro, Cheltenham, 2005, p. 130 ss. 43
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Dall’altro lato, altrettanto numerosi autori sostengono che il coinvolgimento di una banca centrale nella supervisione comporterebbe un’eccessiva concentrazione di potere che potrebbe risultare nel rischio di comportamenti determinati dall’azzardo morale e in notevoli conflitti di interesse tra la funzione di politica monetaria e quella di supervisione finanziaria 45. Inoltre, con specifico riferimento a un possibile coinvolgimento della Banca centrale europea, veniva evidenziato che, dal momento che questa istituzione mancava di esperienza e non avrebbe avuto il tempo di acquisirla, avrebbe corso un rischio di cattura da parte delle autorità nazionali. Più precisamente, un’eventuale cattura avrebbe potuto portare la Banca centrale a fare affidamento su informazioni sbagliate e, sulla base di queste, favorire un accesso alla liquidità eccessivo, tale da compromettere il suo primario obiettivo, ovvero il mantenimento della stabilità dei prezzi 46.
9. Il Rapporto de Larosière e la futura struttura di supervisione. Di fronte ai problemi posti dalla crisi finanziaria iniziata nel 2007 e alle difficoltà nello sviluppo di una soluzione, la Commissione europea ha istituito un gruppo di esperti di alto livello, incaricandolo di elaborare una serie di raccomandazioni per riformare la struttura della supervisione a livello europeo. La presidenza del gruppo di esperti di alto livello è stata affidata a Jacques de Larosière, già governatore della Banque de France e direttore della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, perciò è divenuto comune riferirsi al gruppo come al “Gruppo de Larosière” e al rapporto da quest’ultimo redatto come al “Rapporto de Larosière” 47. La prima riunione del gruppo di esperti di alto livello è avvenuta il 12 novembre 2008 e il 25 febbraio 2009 è stato reso pubblico il Rapporto, che ha tracciato le linee su cui è stata sviluppata la riforma recentemente entrata in vigore.
45 Si vedano Llewellyn, Integrated Agencies, cit., p. 130 ss.; Zadra, Per una riforma, cit., p. 7. 46 Si veda Eijffinger, The European Central Bank and Financial Supervision, in Handbook, cit., p. 465 ss. 47 Tutte le informazioni fornite in merito sono rintracciabili nei documenti disponibili all’indirizzo http://ec.europa.eu/internal_market/finances/committees/index_en.htm.
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Fin da adesso, riguardo all’influenza che la politica avrebbe giocato nella predisposizione di questo Rapporto, è interessante segnalare che un influente studioso, in un lavoro presentato per l’incontro che si è tenuto il 30 marzo 2009 nell’ambito del dialogo monetario tra la Commissione per gli affari economici e monetari del Parlamento europeo e la Banca centrale europea, ha sostenuto che le principali raccomandazioni del Rapporto de Larosiére rappresentano il risultato di un compromesso politico tra la Commissione europea, la Banca centrale europea, le banche centrali e le autorità di supervisione nazionali e i ministeri delle Finanze dei vari Stati membri 48. Premesso, quindi, che la politica sembra aver giocato un ruolo importante nell’elaborazione del Rapporto de Larosière, pare opportuno procedere analizzandone brevemente i contenuti. Il Rapporto distingueva tra due diversi aspetti della supervisione prudenziale. Da una parte, il Rapporto definiva la supervisione micro-prudenziale come l’attività di vigilanza volta limitare l’insolvenza di singole istituzioni finanziarie, tutelando così i clienti dell’istituzione in questione. Dall’altra parte, il Rapporto definiva la supervisione macro-prudenziale come un’attività di vigilanza intesa a limitare le possibilità di crisi del sistema nel suo complesso al fine di salvaguardare un’intera economia dal rischio di significative perdite. Per quanto riguarda il primo aspetto, il Rapporto de Larosière proponeva di procedere in due fasi. In una prima fase, dal 2009 al 2010, gli Stati membri avrebbero dovuto approvare una serie di riforme intese a migliorare la qualità della supervisione finanziaria e ad armonizzare le competenze delle autorità nazionali. I comitati Lamfalussy avrebbero dovuto intensificare i loro sforzi in relazione all’addestramento e allo scambio del personale. Infine, la Commissione europea, in accordo coi comitati Lamfalussy, avrebbe dovuto esaminare il grado di indipendenza delle autorità e l’Unione europea avrebbe dovuto sviluppare un complesso di regole, poteri di vigilanza e regimi sanzionatori più armonizzato.
48 Si veda Eijffinger, What role for the ECB on financial market supervision?, disponibile, oltre ad altre relazioni relative all’incontro sopra menzionato, all’indirizzo http:// www.europarl.europa.eu/activities/committees/editoDisplay.do?language=IT&menuId=2 060&id=2&body=ECON.
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In una seconda fase, dal 2011 al 2012, i comitati Lamfalussy avrebbero dovuto essere trasformati in tre agenzie comunitarie: un’autorità bancaria europea, un’autorità assicurativa europea e un’autorità europea degli strumenti finanziari. Ognuna di queste tre autorità comunitarie avrebbe dovuto essere guidata da un consiglio comprendente i capi delle autorità di vigilanza nazionali. I presidenti e i direttori generali delle autorità comunitarie avrebbero dovuto essere soggetti impiegati a tempo pieno e con adeguati livelli di competenza e indipendenza. La nomina dei presidenti di queste tre autorità comunitarie avrebbe dovuto essere confermata dalla Commissione europea, dal Parlamento europeo e dal Consiglio; l’incarico avrebbe dovuto avere la durata di otto anni. L’insieme delle tre autorità comunitarie avrebbe costituito il Sistema europeo di vigilanza finanziaria. Le tre autorità comunitarie, oltre ai compiti svolti dai comitati Lamfalussy, avrebbero dovuto essere incaricate di esercitare le seguenti attività: mediazione giuridicamente vincolante tra le autorità nazionali, adozione di regolamenti in materia di supervisione, adozione di decisioni giuridicamente vincolanti applicabili a singole istituzioni, supervisione e coordinamento dell’attività dei collegi di supervisori, autorizzazione e supervisione di specifiche istituzioni paneuropee (e.g. agenzie di rating), cooperazione con il Consiglio europeo per il rischio sistemico per assicurare un’adeguata supervisione macro-prudenziale, coordinamento in situazioni di crisi. Per quanto riguarda il secondo aspetto, il Rapporto de Larosiére suggeriva la costituzione di un ente denominato Consiglio europeo per il rischio sistemico. Questo ente avrebbe dovuto essere istituito sotto gli auspici e con il supporto logistico della Banca centrale europea, inoltre avrebbe dovuto essere presieduto dal presidente di quest’ultima. Più precisamente, per quanto riguarda la sua composizione, il Consiglio europeo per il rischio sistemico avrebbe dovuto essere formato dai membri del consiglio generale della Banca centrale europea, dai presidenti delle tre autorità comunitarie e da membri della Commissione europea. Infine, il Rapporto prevedeva che, in caso di problemi relativi ai mercati finanziari o assicurativi, i rappresentanti delle rispettive autorità competenti avrebbero dovuto prendere parte alle discussioni, se diversi dai governatori delle banche centrali. Il Consiglio europeo per il rischio sistemico avrebbe dovuto avere il compito di decidere la politica di supervisione macro-prudenziale, di individuare e trasmettere avvisi di rischi macro-prudenziali o sistemici, nonché quello di comparare gli sviluppi macroeconomici e prudenziali, fornendo indicazioni sugli stessi. A quest’attività sarebbe dovuto seguire
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un esame dei rischi segnalati e, laddove fosse ritenuto necessario, adeguate iniziative avrebbero dovuto essere prese dalle rispettive autorità competenti nei singoli Stati membri. Nel quadro disegnato dal Rapporto de Larosiére, le autorità di vigilanza nazionali avrebbero seguitato a svolgere la supervisione finanziaria delle istituzioni finanziarie sottoposte alla loro giurisdizione.
10. I limiti giuridici alle varie soluzioni. La creazione di agenzie comunitarie ed il coinvolgimento della Banca centrale europea nella vigilanza finanziaria, come già accennato nell’ottavo paragrafo, presentavano alcuni problemi di ordine politico ed economico. Tuttavia, l’attuazione delle proposte avanzate dal Rapporto de Larosiére si scontrava anche alcune limitazioni di ordine strettamente giuridico. Queste limitazioni sono prescritte dall’ordinamento comunitario in termini generali e riguardano tanto la realizzazione delle raccomandazioni in materia di supervisione micro-prudenziale quanto quelle in materia di supervisione macro-prudenziale. Infatti, in relazione al primo aspetto, i limiti riguardano la vastità dei poteri che possono essere assegnati ad autorità istituite come agenzie comunitarie; in relazione al secondo, i limiti riguardano il livello di coinvolgimento della Banca centrale europea in un sistema di supervisione. 10.1. I limiti ai poteri delle autorità comunitarie. La possibilità di attribuire poteri ad autorità comunitarie spetta alla Commissione europea e si sostanzia in una delegazione di poteri da parte di quest’ultima. In proposito, è anzitutto utile ricordare quanto affermato in un autorevole volume di diritto comunitario 49, secondo cui è necessario sottolineare la distinzione esistente tra la possibilità di delegare poteri e la possibilità di impartire agli Stati membri delle indicazioni su come esercitare i propri poteri. Il secondo caso è molto comune: una forma di atti comunitari (la direttiva) è stata concepita esattamente a questo proposito. La delegazione di poteri, al contrario, è relativamente rara. La materia in questione, nel corso degli anni, è stata oggetto di approfondita riflessione che, come ci si accinge a riferire, ha coinvolto
49
Hartley, The Foundations of European Community Law, Oxford, 1994, p. 125.
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sia la Corte di giustizia delle Comunità europee (ora Corte di giustizia dell’Unione europea) che la Commissione europea. 10.1.1. La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Il contributo della Corte di giustizia sul tema della delegazione di poteri da parte della Commissione europea è costituito, come noto, dalla “dottrina Meroni”. La dottrina Meroni è stata formulata sulla base di una sentenza pronunciata dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nel 1958 50. Secondo l’opinione di un autorevole studioso di diritto comunitario, il caso in relazione al quale è stata pronunciata la citata sentenza era relativo al Trattato CECA. Tuttavia, oggi la dottrina in questione è comunemente considerata una valida regola interpretativa da applicarsi, mutatis mutandis, a tutti i Trattati e costituisce una rigida barriera alla delegazione di poteri legislativi a istituzioni o enti non nominati all’interno dei Trattati 51. In sostanza, nel ragionamento della Corte, la Commissione europea potrebbe validamente delegare ad altri organi alcuni poteri in materia di regolamentazione, ma una simile delegazione dovrebbe uniformarsi a certe rigorose condizioni. In particolare, le condizioni principali stabilite dalla dottrina Meroni possono essere riepilogate come segue. In primo luogo, la Commissione non potrebbe delegare poteri più ampi di quelli di cui gode. In secondo luogo, la Commissione potrebbe delegare solo poteri strettamente esecutivi. In terzo luogo, la Commissione non potrebbe delegare alcun potere discrezionale. In quarto luogo, l’esercizio dei poteri delegati non potrebbe essere esentato dalle condizioni a cui sarebbe soggetto se fosse esercitato direttamente dalla Commissione stessa, in particolare dall’obbligo di dichiarare i motivi e consentire il controllo giudiziario delle decisioni. In quinto luogo, i poteri delegati dovrebbero rimanere soggetti alle condizioni stabilite dalla Commissione per il loro esercizio e ad una continua supervisione.
50
Meroni v. High Authority, Case 9/56, [1958], ECR 133. Si veda Majone, Dilemmas of European Integration – The Ambiguities and Pitfalls of Integration by Stealth, Oxford, 2005, p. 88. 51
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In sesto luogo, la delegazione non dovrebbe esser idonea ad alterare l’equilibrio dei poteri fra le istituzioni comunitarie 52. 10.1.2. Il libro bianco della Commissione europea. Molti anni dopo la prima enunciazione della dottrina Meroni, il 25 luglio 2001, la Commissione europea ha pubblicato un libro bianco genericamente dedicato alla governance comunitaria 53. Secondo questo documento, alle agenzie europee dovrebbe essere accordato il potere di prendere decisioni individuali in applicazione di misure legislative di carattere generale. Inoltre, dovrebbe essere concesso alle agenzie di operare con un certo grado di indipendenza e all’interno di un chiaro contesto normativo. Infine, il regolamento che istituisce ogni agenzia dovrebbe precisare i limiti dei loro poteri e le loro responsabilità. In particolare, il libro bianco precisa che i Trattati consentono che alcune funzioni siano direttamente attribuite alle agenzie. Tuttavia, queste attribuzioni dovrebbero essere accordate in modo da rispettare l’equilibrio dei poteri tra le istituzioni comunitarie e non confondere i rispettivi ruoli e poteri delle medesime. Questo implica il rispetto delle seguenti condizioni. In primo luogo, alle agenzie dovrebbe essere concesso il potere di assumere decisioni individuali, ma non regolamenti di applicazione generale. In particolare, alle agenzie potrebbe essere affidato il potere di emanare regolamenti solo in settori in cui predomina l’interesse pubblico e che richiedono particolari conoscenze tecniche (come, ad esempio, la sicurezza aerea). In secondo luogo, alle agenzie non dovrebbero essere affidate competenze legislative in ambiti per cui i Trattati prevedono il diretto interessamento della Commissione (come, ad esempio, in materia di diritto della concorrenza). In terzo luogo, alle agenzie non dovrebbe essere affidata alcuna competenza legislativa in relazione a settori in cui sarebbe richiesto loro di mediare tra conflitti di interesse, esercitare discrezionalità politica o svolgere complesse valutazioni economiche. In quarto luogo, le agenzie dovrebbero essere soggette ad un efficace sistema di supervisione e controllo.
52 Si veda Lenaerts, Regulating the regulatory process: “delegation of powers” within the European Community, in European Law Review, 1993, p. 23. 53 Si veda la COM (2001) 428 final, 25 luglio 2001, disponibile all’indirizzo http://eurlex.europa.eu/LexUriServ/site/en/com/2001/com2001_0428en01.pdf.
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10.1.3. La comunicazione della Commissione europea. Un anno e mezzo dopo la pubblicazione del libro bianco, in data 11 dicembre 2002, la Commissione ha diffuso una comunicazione dedicata specificatamente al quadro normativo relativo alle agenzie europee di regolamentazione (ossia quelle che finora sono state definite solo come agenzie europee) 54. In base a detta comunicazione, esistono vari organi decentralizzati che possono essere definiti come agenzie europee. In particolare, la comunicazione precisa che tutte queste agenzie hanno certe caratteristiche formali in comune. Più esattamente, tutte le agenzie esistenti sono state create con regolamento al fine di svolgere compiti accuratamente definiti nei loro atti costitutivi, tutte le agenzie hanno personalità giuridica e, infine, tutte godono di un certo livello di autonomia organizzativa e finanziaria. In ogni caso, le loro differenze (in termini di strutture interne, relazioni con le istituzioni, responsabilità e poteri) di gran lunga superano le analogie. Pertanto, la comunicazione conclude che non esiste un singolo modello di agenzia europea. Premesso questo, tuttavia, la comunicazione individua due tipi di agenzie: le agenzie esecutive e le agenzie di regolamentazione. Le agenzie esecutive sono incaricate di funzioni semplicemente organizzative (ad esempio, fornire assistenza alla Commissione per l’implementazione dei programmi comunitari di sostegno finanziario) e sono soggette a un’attenta vigilanza da parte della Commissione stessa. Le agenzie di regolamentazione sono invece pensate per essere coinvolte più attivamente in compiti direttivi attraverso l’emanazione di regole intese a disciplinare un certo settore. La maggioranza di queste sono concepite per aiutare a rendere la regolamentazione comunitaria più coerente attraverso la combinazione e gestione a livello comunitario di attività originariamente oggetto della competenza degli Stati membri. Più precisamente, in relazione alle responsabilità e ai poteri delle agenzie di regolamentazione, la comunicazione distingue tra tre tipi. In primo luogo, quelle la cui funzione è principalmente di fornire assistenza con pareri e raccomandazioni che vanno a costituire le basi tecnico-scientifiche per le decisioni della Commissione (e.g. l’Agenzia europea per la valutazione dei prodotti medicinali).
54 Si veda la comunicazione della Commissione intitolata “The operating framework for the European Regulatory Agencies”, COM (2002) 718 final, 11 dicembre 2002, disponibile all’indirizzo http://ec.europa.eu/governance/docs/comm_agence_en.pdf.
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In secondo luogo, quelle la cui primaria funzione è di fornire assistenza in forma di ispezioni e rapporti intesi a consentire alla Commissione di svolgere il ruolo di custode del diritto comunitario (e.g. l’Agenzia europea per la sicurezza marittima). In terzo luogo, quelle cui è attribuito il potere di adottare decisioni vincolanti su terzi (e.g. l’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno, l’Ufficio comunitario delle varietà vegetali e l’Agenzia europea per la sicurezza aerea). La comunicazione della Commissione sottolinea che le agenzie devono avere effettiva e autentica autonomia nella loro organizzazione e funzionamento interni affinché il loro contributo possa essere efficace e affidabile. Pertanto, ogni agenzia deve avere personalità giuridica. Tuttavia, in considerazione di questa autonomia, le agenzie di regolamentazione devono anche essere responsabili verso le istituzioni, gli operatori coinvolti e più in generale verso i cittadini. La comunicazione prevede che il lavoro delle agenzie debba svolgersi in accordo con i principi su cui si fonda l’Unione europea (cosa che implica il rispetto dell’equilibrio dei poteri fra le istituzioni comunitarie). In particolare, deve essere preservata l’unità e l’integrità dell’azione esecutiva a livello europeo quale esclusiva competenza della Commissione di assumersi la responsabilità per il soddisfacente esercizio generale della suddetta azione. Ovviamente, questa previsione incide in modo profondo sull’ampiezza dei poteri e delle responsabilità che possono essere delegate alle agenzie di regolamentazione e sulle relazioni tra agenzie e la Commissione. In generale, la comunicazione prevede inoltre che alle agenzie di regolamentazione possano essere affidate solo funzioni di assistenza, come l’elaborazione di pareri o studi sulla base dei quali la Commissione può preparare proposte di legge o assumere specifiche decisioni, lo svolgimento di controlli e ispezioni di certi soggetti, così che la Commissione possa meglio adempiere al suo ruolo di custode del diritto comunitario, e ogni altra funzione di assistenza che può essere utile allo svolgimento delle varie politiche comunitarie. Tale assistenza può anche riguardare effetti stranieri di certe politiche, nella misura in cui queste agenzie prendono parte ad attività di cooperazione internazionale, senza interferire però con l’esclusiva responsabilità della Commissione in questo settore. Infine, comunque, la comunicazione della Commissione ribadisce che, sotto certe condizioni, può anche essere concesso alle agenzie di avere alcuni propri poteri di decisione. In ogni caso però, è importante sottolineare che il principio su cui si fonda attualmente l’ordinamento
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giuridico comunitario impone limiti all’entità di simili poteri. A questo proposito, come già anticipato nel libro bianco, le agenzie potrebbero, ad esempio, avere il potere di assumere decisioni vincolanti in relazione a casi individuali relativi a specifici settori del diritto comunitario, ma non regole di generale applicazione, sebbene la loro attività di decisione possa risultare nella codificazione di principi. 10.2. I limiti al coinvolgimento della Banca centrale europea. Il fondamento giuridico per un possibile coinvolgimento della Banca centrale europea nella supervisione finanziaria è rintracciabile nell’articolo 127, comma 6, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (nuova versione dell’articolo 105, comma 6, del Trattato che istituisce la Comunità europea). La suddetta disposizione prevede che «Il Consiglio, deliberando all’unanimità mediante regolamenti secondo una procedura legislativa speciale, previa consultazione del Parlamento europeo e della Banca centrale europea, può affidare alla Banca centrale europea compiti specifici in merito alle politiche che riguardano la vigilanza prudenziale degli enti creditizi e delle altre istituzioni finanziarie, escluse le imprese di assicurazione». La norma appena riferita considera principalmente la supervisione sul settore creditizio, infatti, le imprese assicurative sono esplicitamente escluse dalla norma in esame. Inoltre, per la precisione, la norma prevede la possibilità di affidare alla Banca centrale europea soltanto delle mansioni specifiche relative alla supervisione sul settore bancario. Questi elementi spingono a ritenere che la disposizione in questione soffra di troppe limitazioni affinché possa essere impiegata come base normativa su cui fondare una soluzione di lungo periodo. Per di più rimangono molti dubbi in relazione all’entità dei poteri di supervisione finanziaria attribuibili alla Banca centrale europea, dal momento che il suo atto costitutivo la vincola all’esclusivo incarico di mantenere la stabilità di prezzi e che è proprio l’esclusività di un simile incarico a giustificare l’elevato grado di indipendenza di cui gode che, come già accennato, sarebbe difficilmente conciliabile con l’attività di vigilanza. In questa linea di pensiero si colloca anche parte della dottrina. Ad esempio, in un articolo elaborato per l’incontro svoltosi il 30 marzo 2009 nell’ambito del dialogo monetario tra la Commissione per gli affari economici e monetari del Parlamento europeo e la Banca centrale euro-
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pea 55, una stimata esperta ha spiegato che il maggior ostacolo a che la Banca centrale europea possa assumere la funzione di supervisore finanziario consiste proprio nel fatto che essa è probabilmente la banca centrale con il maggior grado di indipendenza al mondo. Infatti, stando all’articolo, nessun governo o agenzia governativa, tanto nazionale che internazionale, ha il potere di influire significativamente sulle decisioni della Banca centrale europea. A dimostrazione di quanto sopra affermato, l’articolo segnalato riferisce che i membri del consiglio esecutivo della Banca centrale europea, nonché i governatori delle banche centrali dell’eurozona (che compongono il consiglio direttivo di tale istituzione comunitaria) non possono essere sollevati dal proprio incarico se non per gravi inadempienze. Inoltre, la Banca centrale europea può essere ritenuta più che operativamente indipendente, dal momento che ha addirittura il potere di definire la stabilità dei prezzi. L’autrice riferisce che il potere di definire la stabilità dei prezzi è inusuale tra le moderne banche centrali. Ad esempio, infatti, l’autrice afferma che è il governo a decidere il target di inflazione per la Banca d’Inghilterra e la Banca di Norvegia e che le banche centrali di Canada e Nuova Zelanda, pur non trovandosi nelle condizioni di vederselo imposto, devono concordarlo con il governo. Per questi motivi, secondo l’articolo sopra richiamato, l’indipendenza della Banca centrale europea si configura come talmente ampia da risolversi, di fatto, in un’assoluta assenza di controllo sulla medesima. L’autrice riferisce che la Banca centrale europea, nel difendere la propria indipendenza, sostiene che questa è consona al mantenimento della stabilità dei prezzi e che tale asserzione è supportata da un’ampia letteratura teorica e dall’evidenza empirica. L’autrice conferma che tale asserzione è corretta, tuttavia ribadisce che la supervisione finanziaria intesa a mantenere la stabilità sui mercati è un’attività intrinsecamente e inevitabilmente politica, dal momento che può implicare l’impiego di finanze pubbliche da immettere all’occorrenza sul mercato e quindi non è coerente con un’assenza di controllo. Pertanto, conclude l’autrice, se alla Banca centrale europea fossero affidati poteri rilevanti in materia di vigilanza finanziaria, la sua natura dovrebbe inevitabilmente mutare, dal momento che quantomeno i funzionari impiegati nella supervisione prudenziale dovrebbero essere
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Si veda Siebert, What role, cit., p. 3.
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assoggettati a un effettivo regime di controllo da parte di istituzioni politiche per quanto riguarda la loro attività.
11. Gli ultimi sviluppi. In data 27 maggio 2009 la Commissione europea ha emanato una comunicazione che spiegava come sarebbero state realizzate le raccomandazioni contenute nel Rapporto de Larosiére in relazione alla nuova struttura di supervisione finanziaria a livello comunitario 56. Senza voler entrare nei dettagli, si può dire che, in sostanza, con l’anzidetta comunicazione la Commissione europea si impegnava a mettere in pratica rigorosamente le raccomandazioni del Rapporto de Larosiére, stabilendo l’istituzione di tre autorità comunitarie, che avrebbero costituito il Sistema europeo di vigilanza finanziaria (preposto alla supervisione micro-prudenziale), e di un Consiglio europeo per il rischio sistemico, incaricato di svolgere la vigilanza macro-prudenziale. In proposito, nella comunicazione, la Commissione europea affermava di voler presentare una proposta di regolamento nell’autunno del 2009, cui sarebbe seguita una discussione con le parti interessate e, infine, una tempestiva adozione al fine di avere le nuove strutture operative entro la fine del 2010. In breve, la citata comunicazione stabiliva che le tre autorità che avrebbero dovuto formare il nuovo Sistema europeo di vigilanza finanziaria sarebbero stati enti dotati di personalità giuridica, mentre il Consiglio europeo per il rischio sistemico sarebbe stato un soggetto privo di personalità giuridica. Tuttavia, la comunicazione prevedeva che queste istituzioni avrebbero dovuto essere tutte costituite in base all’articolo 95 del Trattato che istituisce la Comunità europea (ossia l’articolo 114, nella versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), vale a dire la norma che presiede al ravvicinamento delle legislazioni (norma che la Corte di giustizia delle Comunità europee ha giudicato adeguata come base normativa per la creazione di enti comunitari preposti all’implementazione di processi di armonizzazione legislativa 57).
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Si veda la comunicazione della Commissione europea intitolata “European financial supervision”, COM (2009) 252 final, 27 maggio 2009, disponibile all’indirizzo http:// ec.europa.eu/internal_market/finances/committees/index_en.htm#communication. 57 La disposizione in questione prevede che «Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato
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Per quanto riguarda il coinvolgimento della Banca centrale europea e delle banche centrali nazionali, la comunicazione prevedeva che il Consiglio europeo per il rischio sistemico avrebbe dovuto essere composto, inter alia, dai ventisette governatori delle banche centrali nazionali e dal vice-presidente della Banca centrale europea. Inoltre, la comunicazione prevedeva poi che il suddetto Consiglio avrebbe dovuto essere presieduto dal presidente della Banca centrale europea. Infine, la comunicazione in questione dichiarava espressamente che la base normativa scelta per la costituzione degli enti sopra menzionati non pregiudicava la possibilità di attribuire alla Banca centrale europea ulteriori funzioni, purché nel rispetto delle funzioni del Consiglio europeo per il rischio sistemico, in base all’articolo 105, comma 6, del Trattato che istituisce la Comunità europea. Il 9 giugno 2009, il Consiglio che riunisce i ministri dell’Economia e delle Finanze dell’Unione europea (ECOFIN) ha accolto, pur se con alcune modifiche, le raccomandazioni del Rapporto de Larosiére 58. In seguito, nella riunione del 19 giugno 2009, il Consiglio europeo ha approvato, anche stavolta con alcune modifiche 59, la comunicazione presentata dalla Commissione europea in data 27 maggio 2009 e le conclusioni dell’ECOFIN del 9 giugno 2009 60. Finalmente, il 23 settembre 2009 la Commissione ha pubblicato un pacchetto di proposte legislative concernenti la riforma della struttura di supervisione finanziaria a livello europeo. Le proposte, dopo essere state
economico e sociale, adottano le misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno». Per la pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee, si veda il caso CJCE, C-217/04. 58 Tra le modifiche si segnala, ad esempio, il cambio del nome dell’ente di supervisione macro-prudenziale che, in inglese, passa da European Systemic Risk Council a European Systemic Risk Board (ossia da Consiglio europeo per il rischio sistemico a Comitato europeo per il rischio sistemico) e il cambio del nome di alcune delle autorità di vigilanza micro-prudenziale. Le conclusioni del Consiglio sono disponibili all’indirizzo http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/ecofin/108392.pdf. 59 Ad esempio, cambia la procedura di nomina del presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico. Se, infatti, la comunicazione della Commissione prevedeva che la presidenza fosse invariabilmente affidata al presidente della Banca centrale europea, le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo prevedono che il presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico debba essere nominato dai membri del consiglio generale della Banca centrale europea. 60 Le conclusioni della Presidenza del Consiglio europeo sono disponibili all’indirizzo http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/it/ec/108645.pdf.
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significativamente emendate, sono state approvate nel novembre 2010 e pubblicate sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 15 dicembre 2010, entrando in vigore il giorno successivo. Il pacchetto si compone di cinque atti legislativi: un regolamento relativo alla vigilanza macro-prudenziale e alla istituzione del Comitato europeo per il rischio sistemico (o CERS) 61; tre regolamenti aventi ad oggetto l’istituzione delle tre autorità di vigilanza micro-prudenziale 62, chiamate Autorità bancaria europea (European Banking Authority o EBA), Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (European Insurance and Occupational Pensions Authority o EIOPA) e Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (European Securities and Markets Authority o ESMA), e la Direttiva 2010/78/ UE 63. Inoltre, il Consiglio ha emanato, quale atto non legislativo, un regolamento che conferisce alla Banca centrale europea alcuni compiti specifici relativi al funzionamento del Comitato europeo per il rischio sistemico 64. I regolamenti appena citati delineano nel dettaglio le caratteristiche del nuovo sistema di supervisione finanziaria istituito a livello comunitario. Una descrizione analitica di tali provvedimenti andrebbe oltre i fini del presente lavoro. In questa sede pare sufficiente limitarsi a descrivere succintamente quanto previsto riguardo ai due aspetti la cui realizzazione sembra scontrarsi con i maggiori ostacoli di ordine giuridico 65.
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Regolamento (UE) n. 1092/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, relativo alla vigilanza macroprudenziale del sistema finanziario nell’Unione europea e che istituisce il Comitato europeo per il rischio sistemico. 62 Regolamento (UE) n. 1093/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità bancaria europea); Regolamento (UE) n. 1094/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali); Regolamento (UE) n. 1095/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati). 63 Direttiva 2010/78/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, recante modifica delle direttive 98/26/CE, 2002/87/CE, 2003/6/CE, 2003/41/CE, 2003/71/CE, 2004/39/CE, 2004/109/CE, 2005/60/CE, 2006/48/CE, 2006/49/CE e 2009/65/ CE. 64 Regolamento (UE) n. 1096/2010 del Consiglio, del 17 novembre 2010, che conferisce alla Banca centrale europea compiti specifici riguardanti il funzionamento del Comitato europeo per il rischio sistemico. 65 Come spiegato nel precendente paragrafo, rispetto alla realizzazione di un sistema di vigilanza micro-prudenziale, i maggiori ostacoli riguardano la vastità dei poteri che
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11.1. I poteri delle autorità comunitarie nei regolamenti recentemente entrati in vigore. Con riferimento ai poteri che, nei regolamenti, sono attribuiti alle nuove autorità di supervisione micro-prudenziale, merita anzitutto precisare che è sufficiente fornire una sola descrizione. Infatti, i tre regolamenti (non solo per quanto riguarda i poteri e le funzioni attribuite alle autorità) sono sostanzialmente identici. In particolare, in tutti e tre i regolamenti, le funzioni e i poteri attribuiti alle autorità sono disciplinati al secondo capitolo, ossia agli articoli da 8 a 39. Più precisamente, gli articoli 8 e 9 di ogni regolamento descrivono funzioni e poteri delle autorità in generale, mentre i successivi articoli li chiariscono nel dettaglio. Ai sensi dell’articolo 8 di ogni regolamento, i principali compiti delle autorità comunitarie sono: contribuire allo sviluppo di norme e prassi comuni in materia di regolamentazione e vigilanza; contribuire a una coerente applicazione della legislazione comunitaria; facilitare la delega di funzioni tra autorità di vigilanza; cooperare con il Comitato europeo per il rischio sistemico (CERS); svolgere analisi dell’attività svolta dalle varie autorità nazionali al fine di rafforzare la coerenza dei risultati della supervisione; monitorare e analizzare gli sviluppi del mercato nell’area di propria competenza; contribuire al funzionamento dei collegi di supervisori; svolgere ogni altro incarico affidato dalla legislazione comunitaria. In relazione allo svolgimento di ciascuna delle funzioni sopra elencate, a ciascuna autorità viene attribuito, inter alia, il potere di: redigere norme tecniche di regolamentazione e di attuazione; emanare linee guida e raccomandazioni; assumere decisioni individuali relative sia ad autorità nazionali che ad istituzioni finanziarie; inviare pareri al Parlamento europeo, al Consiglio e alla Commissione europea. Inoltre, l’articolo 9 di ogni regolamento attribuisce alle autorità specifici compiti relativi alla protezione dei consumatori e alle attività finanziarie. In proposito, pare particolarmente interessante analizzare l’effettiva forza cogente dei poteri attribuiti alle tre nuove autorità comunitarie. A tal fine, meritano di essere riferite cinque previsioni contenute nei tre regolamenti in esame.
possono essere assegnati ad autorità istituite come agenzie comunitarie; in materia di supervisione macro-prudenziale, invece, i maggiori ostacoli si pongono in relazione al coinvolgimento della Banca centrale europea nel nuovo sistema di vigilanza.
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In primo luogo, gli articoli 10 e 15 di ogni regolamento prevedono un meccanismo in base al quale, nell’ambito di una delega concessa ai sensi dell’articolo 290 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea o nell’ambito dell’attuazione di atti giuridicamente vincolanti ai sensi dell’articolo 291, ciascuna autorità comunitaria possa elaborare norme tecniche di regolamentazione e di attuazione, in tal caso debba inviarle alla Commissione europea per approvazione e, se la Commissione le approva, debba tradurle in regolamenti o decisioni da pubblicare sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea. In secondo luogo, riguardo alle linee guida e alle raccomandazioni emanate dalle autorità comunitarie al fine di promuovere l’uniformità e la coerenza nelle prassi di supervisione e nell’applicazione del diritto comunitario da parte delle autorità nazionali, ognuno dei tre regolamenti prevede, all’articolo 16, un sistema basato sulla logica del comply or explain. In terzo luogo, l’articolo 17 di ogni regolamento prevede che le autorità comunitarie possano svolgere indagini, se informate della mancata o errata applicazione della normativa comunitaria da parte di un’autorità nazionale. In tal caso l’autorità comunitaria, se rileva delle scorrettezze, deve inviare all’autorità nazionale una raccomandazione in cui spiega come procedere per rimuovere tali scorrettezze. Se l’autorità nazionale non si adegua a questa raccomandazione, l’autorità comunitaria deve informare la Commissione europea, che può emanare parere formale con cui richiede all’autorità nazionale di attenersi al diritto comunitario. Nel caso in cui l’autorità nazionale non rispetti neanche il parere della Commissione, qualora si renda necessario agire tempestivamente per assicurare l’ordinato funzionamento del sistema finanziario, l’autorità comunitaria può scavalcare l’autorità nazionale e indirizzare decisioni a singole istituzioni finanziarie operanti nella giurisdizione dell’autorità nazionale, pur senza pregiudicare i poteri della Commissione ai sensi dell’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. In quarto luogo, l’articolo 18 di ogni regolamento prevede che, nel caso in cui si verifichino eventi tali da compromettere seriamente l’ordinato funzionamento dei mercati o la stabilità del sistema finanziario nel suo complesso, il Consiglio (di sua iniziativa o su richiesta dell’autorità comunitaria), in consultazione con la Commissione e con il Comitato europeo per il rischio sistemico può inviare all’autorità comunitaria una decisione in cui dichiara l’esistenza di una situazione di emergenza. A fronte di tale decisione, l’autorità comunitaria può assumere a sua volta una decisione con cui chiede a un’autorità nazionale di prendere deter-
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minate iniziative al fine di rimuovere i rischi di instabilità finanziaria. Se l’autorità nazionale non ottempera alla citata decisione, pur senza pregiudicare i poteri della Commissione europea ai sensi dell’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, l’autorità comunitaria può indirizzare decisioni alle singole istituzioni finanziarie operanti nella giurisdizione dell’autorità nazionale. In quinto luogo, lo stesso sistema è previsto all’articolo 19 di ogni regolamento qualora insorga una controversia tra due autorità nazionali in relazione a temi su cui sono tenute alla cooperazione. In tal caso, infatti, l’autorità comunitaria deve svolgere il ruolo di conciliatore, stabilendo un limite temporale per il conseguimento di un accordo. Qualora, decorso il termine, non sia stato ancora raggiunto un accordo, l’autorità comunitaria può prendere una decisione richiedendo ad un’autorità nazionale di assumere determinate iniziative. Se l’autorità nazionale non ottempera alla suddetta decisione, l’autorità comunitaria può indirizzare decisioni alle singole istituzioni finanziarie operanti nella giurisdizione dell’autorità nazionale. Riguardo alle decisioni che le nuove autorità possono prendere ai sensi dei sopra descritti articoli 17, 18 e 19, gli articoli 38 e 39 di ogni regolamento prevedono rispettivamente delle salvaguardie (soprattutto intese a preservare le competenze in materia di bilancio degli Stati membri) e delle cautele procedurali (aventi essenzialmente ad oggetto obblighi informativi posti a carico delle autorità comunitarie). Inoltre, gli articoli 60 e 61 di ogni regolamento prevedono mezzi di ricorso contro le decisioni assunte ai sensi degli articoli 17, 18 e 19. 11.2. Il coinvolgimento della Banca centrale europea nei regolamenti recentemente entrati in vigore. Con riferimento al coinvolgimento della Banca centrale europea nel nuovo sistema di supervisione macro-prudenziale serve fare una breve premessa. In primo luogo, è necessario precisare che occorre prendere in considerazione due documenti differenti: il regolamento n. 1092/2010 relativo all’istituzione del Comitato europeo per il rischio sistemico e il regolamento 1096/2010, ove si prevede l’affidamento alla Banca centrale europea di alcune competenze relative al funzionamento di tale organo di vigilanza. Inoltre, sembra corretto ritenere che, all’interno di questi due atti, debbano essere principalmente prese in considerazione le disposizioni dedicate alla struttura organizzativa del nuovo Comitato europeo per il rischio sistemico, con particolare attenzione al ruolo affidato alla Banca centrale europea.
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In proposito, merita anzitutto notare che, al considerando 24 del regolamento n. 1092/2010, si riconosce che la Banca centrale europea e le banche centrali nazionali, in virtù della loro esperienza e delle funzioni che già svolgono in materia di stabilità finanziaria, debbano avere un ruolo guida nel nuovo sistema di vigilanza macro-prudenziale. In seguito, l’articolo 4 del regolamento n. 1092/2010 stabilisce che il Comitato europeo per il rischio sistemico debba essere dotato di un consiglio generale, di uno steering committee (ossia un comitato direttivo), di un segretariato, di un comitato scientifico consultivo e di un comitato tecnico consultivo. In particolare, il regolamento prevede che al primo organo sia affidato il compito di prendere le decisioni necessarie a garantire lo svolgimento dei compiti affidati al Comitato e che debba essere composto, oltre ad alcuni membri senza diritto di voto, dai seguenti componenti con diritto di voto: il presidente e il vice-presidente della Banca centrale europea, i governatori delle banche centrali degli Stati membri, un membro della Commissione europea, i presidenti delle tre nuove autorità di vigilanza micro-prudenziale, il presidente e i due vice-presidenti del comitato scientifico consultivo e il presidente del comitato tecnico consultivo. Il regolamento prevede invece che il secondo organo abbia il compito di procurare assistenza nel processo decisionale del consiglio generale e che debba essere composto dai seguenti membri: il presidente e il vice-presidente del Comitato, quattro membri del consiglio generale che siano anche componenti del consiglio generale della Banca centrale europea, un membro della Commissione, i presidenti delle tre nuove autorità di supervisione micro-prudenziale, il presidente del Comitato economico e finanziario dell’Unione europea, il presidente del comitato scientifico consultivo e il presidente del comitato tecnico consultivo. Inoltre, il regolamento prevede che il terzo organo abbia il compito di fornire supporto analitico, statistico, amministrativo e logistico, sotto la direzione del presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico e dello steering committee. In proposito, l’articolo 3 del regolamento n. 1096/2010 prevede che alla Banca centrale europea spetti di ospitare il segretariato (nel linguaggio del regolamento, “fornisce le risorse umane e finanziarie”) e di nominarne il capo in consultazione con il consiglio generale del Comitato europeo per il rischio sistemico. Infine, l’articolo 5 del regolamento n. 1092/2010 stabilisce anche l’elezione di un presidente e di un vice-presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico. Più precisamente, la disposizione sopra menzionata prevede che, per i primi 5 anni, il presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico sia il presidente della Banca centrale europea
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e il vice-presidente sia eletto per un periodo di cinque anni dai soli (e tra i soli) membri del consiglio generale della Banca centrale europea. Al presidente e vice-presidente, così nominati, è affidato il compito di dirigere le riunioni del consiglio generale che, ai sensi dell’articolo 9 del regolamento n. 1092/2010, sono convocate dal presidente stesso. Il presidente, ai sensi dell’articolo 10, dispone anche del voto decisivo in caso di parità. Oltre a questo, il regolamento stabilisce che al presidente spetti il compito di coordinare le attività dello steering committee, nonché di rappresentare esternamente il Comitato europeo per il rischio sistemico.
12. Alcune riflessioni conclusive. In base a quanto riferito, si può affermare che i caratteri fondamentali della nuova struttura di vigilanza finanziaria che opererà a livello europeo sono ormai delineati. Sulla spinta della crisi, quindi, la politica sembra aver effettivamente trovato un accordo, nei limiti posti dall’ordinamento giuridico, per una soluzione certamente importante. Tuttavia, merita rammentare che, già nel corso del processo che ha condotto alla formulazione delle proposte di regolamento, alcuni autori avevano espresso il parere che le soluzioni che si stavano profilando fossero più il frutto di un compromesso politico che di una genuina riflessione 66. Più recentemente, altri autori hanno ribadito questa opinione 67. In particolare, il quesito che sembra porsi nella mente degli autori sopra citati è se tali soluzioni di compromesso siano in grado di eliminare i difetti evidenziati dalla crisi o se sarebbero state opportune scelte più coraggiose. Lo scopo del presente lavoro non è quello di rispondere al suddetto quesito ma solo, come annunciato all’inizio, di evidenziare le rispettive influenze della politica e del diritto in relazione alla riforma della struttura europea di supervisione finanziaria. Pertanto, alla luce dell’analisi condotta finora, sembra interessante concludere il presente lavoro svolgendo alcune brevi riflessioni circa il fatto che le soluzioni adottate siano o meno frutto di un compromesso.
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Si veda, per esempio, Eijffinger, What role, cit. Si veda, per esempio, Onado, La supervisione finanziaria europea dopo il rapporto de Larosière: siamo sulla strada giusta?, in Banc., 2009, p. 8. 67
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In merito alle soluzioni adottate in materia di supervisione microprudenziale, sembra di poter dire che un compromesso effettivamente è rilevabile. In particolare, un compromesso sta nel meccanismo adottato per dotare le nuove autorità di poteri decisionali senza, al tempo stesso, violare il principio di unità dell’azione esecutiva, in quanto esclusiva competenza della Commissione europea. Questo meccanismo, come già sottolineato nei precedenti paragrafi, prevede che, nei casi in cui è necessario agire rapidamente per garantire il corretto funzionamento del sistema finanziario, l’autorità comunitaria può scavalcare l’autorità nazionale e indirizzare decisioni direttamente a singole istituzioni finanziarie operanti nella giurisdizione dell’autorità nazionale. In questo meccanismo si può rintracciare un compromesso per le seguenti ragioni. Da un lato, il meccanismo preserva l’unità dell’azione esecutiva, poiché l’intervento diretto da parte dell’autorità comunitaria è possibile solo in seguito al fallimento di un precedente tentativo della Commissione europea e fatti salvi i poteri a questa attribuiti dall’articolo 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Dall’altro lato tuttavia, l’insuccesso o l’inattività della Commissione conferiscono automaticamente un potere di intervento diretto all’autorità comunitaria (pur se temperato da quanto previsto agli articoli 38, 39, 60 e 61 di ogni regolamento). Più precisamente, sembra corretto affermare che questo meccanismo realizza un compromesso tecnicamente legittimo, ma che in pratica forza gli estremi di quanto consentito. Infatti, è pur vero che alcune autorità comunitarie, ad esempio l’Agenzia europea per la sicurezza aerea 68, già dispongono di poteri di intervento diretto. Tuttavia, come già specificato in precedenza, bisogna tener conto che i soggetti operanti sul mercato finanziario sono altamente interdipendenti. Di conseguenza, le decisioni che agiscono su singoli operatori finanziari, a differenza di quelle che possono agire su singoli operatori aereonautici, sono idonee a riflettersi sul mercato nel suo complesso. Perciò, pare corretto ritenere che le decisioni indirizzate dalle autorità comunitarie a singole istituzioni finan-
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L’articolo 18, lett. d), del Regolamento CE n. 216/2008 prevede che l’Agenzia comunitaria per la sicurezza aerea, ove necessario, possa prendere le appropriate decisioni per l’applicazione degli articoli 20, 21, 22, 23, 54 e 55. Si tratta di decisioni relative alle certificazioni concernenti: aeronavigabilità, piloti, operazioni di volo, operatori di paesi terzi, ispezioni e indagini.
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ziarie finiranno per avere impatto sul sistema intero, rivelandosi quindi decisioni di portata generale o, quantomeno, decisioni con profonde conseguenze su tutto il mercato. La previsione di alcune cautele (articoli 38 e 39 di ogni regolamento) e della possibilità di ricorso (articoli 60 e 61 di ogni regolamento) non muta questa conclusione. Infatti, in un mondo in cui semplici rumors riescono ad influenzare il mercato, è lecito supporre che la decisione di un’autorità comunitaria (per quanto soggetta a gravame) abbia effetti non minori. Piuttosto, dato questo contesto, le previsioni di alcune cautele e della possibilità di ricorso altro non sembrano che ulteriori indizi del compromesso sottostante l’elaborazione della nuova struttura di vigilanza finanziaria a livello micro-prudenziale. In altre parole, pare lecito supporre che tali previsioni siano state introdotte anche allo scopo di rendere le soluzioni adottate tecnicamente compatibili con i limiti giuridici ai poteri che possono essere attribuiti alle autorità comunitarie (si vedano i precedenti paragrafi). Anche riguardo alle soluzioni adottate in tema di vigilanza macroprudenziale sembra possibile rilevare l’esistenza di un compromesso. In questo caso il compromesso sta nell’aver superato gli ostacoli giuridici all’attribuzione diretta della supervisione macro-prudenziale alla Banca centrale europea con l’istituzione di un ente formalmente distinto. In altre parole, sembra corretto ritenere che la supervisione macroprudenziale sia stata affidata a un ente formalmente autonomo, ma sostanzialmente dominato dalla Banca centrale europea. A sostegno di questa interpretazione emergono numerosi elementi. In primo luogo, i regolamenti non prevedono che il Comitato europeo per il rischio sistemico abbia personalità giuridica, a conferma della intenzione di non voler attribuire rilievo autonomo a questo ente. In secondo luogo, è previsto che il segretariato sia ospitato presso la Banca centrale europea. In proposito, bisogna notare che il segretariato è di fatto l’organo fondamentale per il funzionamento del Comitato, dal momento che i regolamenti gli affidano il compito di fornire supporto analitico, statistico, amministrativo e logistico. Di conseguenza questa previsione implica che, per funzionare, il Comitato europeo per il rischio sistemico non potrà fare a meno della Banca centrale europea. In terzo luogo, è previsto che spetterà proprio alla Banca centrale europea la nomina del capo del suddetto segretariato e che la facoltà di impartire istruzioni al capo del segretariato spetterà al presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico (ossia, almeno per i primi cinque anni, il presidente della Banca centrale europea) e allo steering
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committee (a sua volta presieduto dal presidente del Comitato, ossia il presidente della Banca centrale europea). Vale appena la pena notare, poiché di palese evidenza, che questa previsione subordina completamente il segretariato alla Banca centrale europea. In quarto luogo, è previsto che nel consiglio generale del Comitato europeo per il rischio sistemico, su trentasette membri con diritto di voto, ben ventinove siano membri del consiglio generale della Banca centrale europea. Da questa previsione si evince chiaramente che, in pratica, le decisioni del consiglio generale del Comitato europeo per il rischio sistemico altro non saranno che l’espressione degli orientamenti propri del consiglio generale della Banca centrale europea. In quinto luogo, è previsto che il presidente del Comitato europeo per il rischio sistemico sia il presidente della Banca centrale europea e il vice-presidente sia nominato dai soli (e tra i soli) membri del consiglio generale della Banca centrale europea. Perciò, considerato che al presidente spetta, inter alia, il voto decisivo in caso di parità, il coordinamento dello steering committee e la rappresentenza dell’ente, si ritiene che tale previsione confermi l’assoggettamento del Comitato europeo per il rischio sistemico alla Banca centrale europea. Gli elementi appena illustrati sembrano sufficienti ad allontanare ogni dubbio riguardo al fatto che il Comitato europeo per il rischio sistemico, in pratica, sarà poco più di una mera emanazione della Banca centrale europea. Di conseguenza, la sua costituzione non sembra altro che un escamotage per evitare la diretta attribuzione alla Banca centrale europea della funzione di supervisione macro-prudenziale. In conclusione, alla luce dei compromessi sopra evidenziati, sembra opportuno svolgere alcune ultime riflessioni circa la loro riconducibilità a logiche politiche ovvero giuridiche. Nel caso delle soluzioni adottate in materia di vigilanza micro-prudenziale, il compromesso raggiunto riguardo ai poteri delle autorità pare rispondere a una logica giuridica. Infatti, esso serve a superare dei limiti giuridici posti dall’ordinamento comunitario evitando una modifica dei Trattati, la cui implementazione avrebbe richiesto tempi incompatibili con la necessità di agire velocemente. Al contrario, nel caso delle soluzioni adottate in materia di vigilanza macro-prudenziale, il compromesso raggiunto circa il coinvolgimento della Banca centrale europea non sembra rispondere ad una logica giuridica. Infatti, i limiti giuridici imposti dall’ordinamento comunitario riguardo al coinvolgimento della Banca centrale europea sono intesi a tutelarne l’indipendenza e ad evitare possibili conflitti di interesse. Tali esigenze però, come spiegato in un paragrafo precedente, ovviamente
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si pongono solo nel caso in cui vengano affidati alla Banca centrale europea poteri rilevanti in materia di vigilanza finanziaria. In base ai regolamenti recentemente entrati in vigore, il Comitato europeo per il rischio sistemico non è dotato di alcun potere vincolante e, fin dal suo concepimento, è stato considerato come un organismo idoneo ad influire per la sua autorevolezza morale, più che per l’autorità ad esso attribuita 69. Nessun limite giuridico pare quindi idoneo ad impedire la diretta attribuzione alla Banca centrale europea di una funzione di vigilanza macro-prudenziale così concepita. Di conseguenza, viene da pensare che, forse, la mancata attribuzione diretta della vigilanza macroprudenziale alla Banca centrale europea potrebbe essere stata dettata più da motivi politici che giuridici.
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Al punto 6.2 dell’explanatory memorandum della proposta di regolamento della Commissione europea si legge: «The ESRB will not have any binding powers to impose measures on Member States or national authorities. It has been conceived as a “reputational” body with a high level composition that should influence the actions of policy makers and supervisors by means of its moral authority». 69
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Arbitrato ICSID e intermediazione finanziaria INTERNATIONAL CENTRE FOR SETTLEMENT OF INVESTMENT DISPUTES, lodo 19 maggio 2010; Pres. Morelli Rico; Case No. ARB(AF) /07/3, Alasdair Ross Anderson ed altri c. Republic of Costa Rica. Arbitrato ICSID – Giurisdizione – Attività di intermediazione finanziaria svolta senza autorizzazione – Insussistenza.
Condizione di applicabilità della Convenzione ICSID e dell’Accordo Bilaterale, e quindi della sussistenza della giurisdizione del relativo Collegio Arbitrale, è che gli attori abbiano eseguito l’investimento oggetto della domanda di arbitrato nel rispetto della normativa dello Stato ospite (nel caso di specie il Collegio arbitrale ha negato la propria giurisdizione in quanto la società presso la quale erano stati effettuati i depositi svolgeva l’attività di intermediazione finanziaria senza la necessaria autorizzazione della preposta Autorità e, pertanto, ai suddetti depositi non poteva essere attribuita la qualifica di “investimenti”). (1)
(Omissis). – I. Procedural Background. – 1. The procedural background of this proceeding has been long and somewhat convoluted and therefore will only be summarized in its essence. 2. On May 10, 2004, a large number of individuals and companies from several different nationalities submitted a single Request for Arbitration (the “Request”) to the International Centre for Settlement of Investment Disputes (“ICSID” or
“the Centre”) against the Republic of Costa Rica (“the Respondent” or “Costa Rica”), alleging violations of their rights under at least ten different bilateral investment treaties. The Request included an application for approval by the ICSID Secretary-General of access to the Additional Facility (AF) under Article 4 of the ICSID Additional Facility Rules. Upon receipt of the Request, the Centre requested additional information and sought clarifications regarding a seri-
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es of errors and defects contained in the Request for Arbitration. 3. Ultimately, on March 27, 2007, after significant revisions, the Secretary-General of ICSID registered the Request for Arbitration, as amended and supplemented, by one hundred thirty seven (137) individual nationals of Canada (hereinafter “the Claimants,” as listed in Appendix A to the present Award) against the Republic of Costa Rica, pursuant to Article 4(2) of the ICSID Arbitration (Additional Facility) Rules (the “Arbitration (AF) Rules”). On the same day, the Secretary-General dispatched the Notice of Registration to the parties and transmitted a copy of the Request for Arbitration and its supplemental letters to the Republic of Costa Rica. The Centre invited the Claimants to submit additional copies of the Request for Arbitration, reflecting the amendments and clarifications made subsequent to May 10, 2004. The case was registered as ICSID Case No. ARB(AF)/07/3 with the formal heading of Alasdair Ross Anderson et al. v. Republic of Costa Rica. 4. Pursuant to Article 5(e) of the Arbitration (AF) Rules, the SecretaryGeneral invited the parties to proceed as soon as possible to constitute the Arbitral Tribunal. The Claimants appointed Professor Jeswald W. Salacuse, an American national, as arbitrator, and the Respondent appointed Professor Professor Raúl E. Vinuesa, a national of Argentina, as arbitrator. Pursuant to Articles 6 and 10 of the Arbitration (AF) Rules, the Chairman of the ICSID Administrative Council appointed Dr. Sandra Morelli Rico, a Colombian national, as President of the Tribunal.
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5. By letter of May 2, 2008, the Acting Secretary-General of ICSID notified the parties that all three arbitrators had accepted their appointments and that, in accordance with Article 13(1) of the Arbitration (AF) Rules, the Tribunal was deemed to have been constituted and the proceeding to have begun on that date. On the same date, the parties were also informed that Ms. Natalí Sequeira would serve as Secretary of the Arbitral Tribunal. A first session was subsequently scheduled between the Tribunal and the parties to discuss preliminary procedural matters. 6. In response to the Secretary-General’s request dated March 27, 2007, the Claimants filed on May 14, 2008 a Revised Request for Arbitration reflecting the amendments and clarifications to their original Request for Arbitration, along with various supporting documents. 7. On June 27, 2008, the Tribunal held its first session with the parties at the seat of the Centre in Washington, D.C. During the session, the parties confirmed their agreement that the Tribunal had been properly constituted in accordance with Articles 6 and 13 of the Arbitration (AF) Rules and that they did not have any objections in this respect. During the session the parties also agreed on a number of procedural matters reflected in written minutes signed by the President and the Secretary of the Tribunal. In particular, these matters concerned: i) the applicable arbitration rules for the proceeding; ii) the representation of the parties; iii) the apportionment of the procedural costs and the advance payments to the Centre; iv) the fees and expenses of the members of the
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Tribunal; v) the place of arbitration; vi) the procedural languages; vii) the records of the hearings; viii) the means of communication and copies of the instruments; ix) the presence and quorum for meetings of the Tribunal; x) the decisions of the Tribunal by correspondence or any other form of communication; xi) the delegation of power to set time limits and sign procedural orders on behalf of the Tribunal; xii) the phases of the proceeding (written and oral); xiii) number, sequence and schedule of written pleadings; xiv) the production of evidence and witnesses’ testimony (written and oral); xv) dates and nature of subsequent sessions; and xvi) publication of the award and the decisions related to the proceeding. 8. During the first session, the parties agreed that since the Respondent intended to raise jurisdictional objections, the Tribunal would deal with the question of jurisdiction as preliminary matter. The schedule of pleadings on jurisdictional objections was agreed as follows: Respondent’s Memorial on Jurisdiction: September 26, 2008; Claimants’ Counter-Memorial on Jurisdiction: December 23, 2008; Respondent’s Reply on Jurisdiction: February 27, 2009; Claimants’ Rejoinder on Jurisdiction: April 27, 2009. In addition, the parties proposed that the Hearing on Jurisdiction be held between August 3 and 7, 2009. 9. During the course of the first session, the counsel for the Respondent, Dr. Stanimir A. Alexandrov, expressed the Respondent’s intention to submit a request for provisional measures on costs. On this point, the President stated that in the event such request was formally submitted it would be dealt
with pursuant to Article 46 of the Arbitration (AF) Rules and it would determine the schedule for the other party to submit observations. On July 8, 2008 the Respondent filed a Request for Provisional measures whereby it requested that: i) the Tribunal order the Claimants to post a bank guarantee (or an escrow account deposit administered by ICSID) equivalent to the ICSID administrative fees that the Respondent might incur during the course of the proceedings on jurisdiction; and ii) that the Tribunal order Claimants to represent that they agree to be held jointly and severally liable for any amounts that the Tribunal may award to cover Respondent’s legal fees and expenses. The Claimants’ submitted their observations on the Request for Provisional Measures on August 6, 2008. The Tribunal issued a Decision on Provisional Measures on November 5, 2008. The Tribunal concluded that i) the facts presented by the Respondent did not constitute an urgent situation that risked irreparable harm to the Respondent’s rights; ii) the Respondent had only a mere expectation and not a right with respect to an eventual award of costs; iii) the request to order the Claimants to be held joint and severally liable for the payment of any costs eventually awarded to the Respondent is not in the nature of a provisional measure to preserve existing rights; and iv) a Tribunal’s decision in this respect might constitute a prejudgment on the responsibility of individual parties. Therefore, pursuant to Article 46 of the Arbitration (AF) Rules, the Tribunal denied Respondent’s Request for Provisional Measures. 10. As agreed during the first session, the Respondent filed a Memorial
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on Objections to Jurisdiction and Admissibility on September 26, 2008. By letter of December 18, 2008, the parties agreed to an extension for the filing of the Claimants Counter-Memorial on Jurisdiction and Admissibility. According to the revised schedule, the subsequent jurisdictional pleadings were submitted as follows: Claimants Counter-Memorial on Jurisdiction and Admissibility, on January 13, 2009; Respondent’s Reply on Jurisdiction and Admissibility, on April 10, 2009, and the Claimants’ Rejoinder on Jurisdiction and Admissibility on June 10, 2009. By letters of June 8, 2009 the parties agreed to a five day extension for the presentation of the Claimants’ Rejoinder on Jurisdiction and Admissibility, which was submitted on June 15, 2009. 11. The hearing on jurisdiction was held as scheduled, from August 3 through August 6, 2009, at the seat of the Centre in Washington D.C. Messrs. Robert Wisner and W. Brad Hanna of the law firm McMillan LLP and Natacha Leclerc of the law firm Cain Lamarre Casgrain Wells s.e.n.c.r.l., were present at the hearing on behalf of the Claimants. Messrs. Stanimir Alexandrov, Patricio Grané, Marinn F. Carlson, and Joshua Robbins of Sidley Austin LLP; Messrs. Esteban Agüero Guier, Mónica Fernández Fonseca, Luis Adolfo Fernández and José Carlos Quirce of the Costa Rican Government as well as Mr. Alan Thompson Chacón, Respondent’s legal expert, were present at the hearing on behalf of the Respondent. During the hearing the Tribunal heard the oral examination of the following Claimants’ witnesses: Messrs. Patricia Lucie Fleming, Maurice Wilfrid Laframboise, Norman
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Albert Barr, and Charles Bergeron, all of whom were also Claimants in this proceeding. The following Respondent’s witnesses were also examined: Messrs. Sandra Castro Mora, Walter Espinoza, Elizabeth Flores Calvo and Marietta Herrera Cantillo, all of whom were officials of different Costa Rican state agencies and powers. 12. The Respondent objected to the presence in the hearing room of those Claimants who were to appear also as witnesses prior to providing their oral testimony, on the grounds that Article 39(2) of the Arbitration (AF) Rules referred to the attendance of witnesses only during their testimony, unless otherwise agreed by the parties. The Claimants’ counsel strongly objected to the exclusion of any Claimant from the hearing room. They argued that Article 39(2) Arbitration (AF) Rules explicitly gives parties the right to attend the hearing and that a party does not lose its rights simply by being a witness. Moreover, the Claimants argued that to deny a party the right to be present at a hearing in which his or her rights were at stake and to assist counsel in presenting that party’s case would constitute a denial of due process. 13. On that point, the Tribunal decided by majority to allow those Claimants who were to testify as witnesses to attend the entire hearing on jurisdiction. Thereafter, the parties informed the Tribunal that they had agreed that the four Claimants scheduled to testify as witnesses would remain in the hearing room until Respondent’s witnesses had offered their testimony. When the time came for the four Claimants to testify, they were to leave the hearing room, and
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each testifying Claimant would then be permitted to stay in the hearing room only after that Claimant had testified. 14. The hearing on jurisdiction proceeded to its conclusion on the basis of this agreement. Costa Rica’s witnesses namely, Ms. Marietta Cantillo, Mr. Walter Espinosa and Ms. Sandra Castro Mora testified and were cross-examined. Thereafter Claimants Wilfrid Laframboise, Patricia Lucie Fleming, Maurice Norman Albert Barr, and Charles Bergeron testified and were cross-examined. II. The facts of this case. – 15. This dispute concerns the situation in which the Claimants, 137 individual nationals of Canada, assert separate and distinct claims against Costa Rica for injuries to their alleged individual investments as a result of various breaches of domestic and international law, in particular the Agreement between the Government of the Republic of Costa Rica and the Government of Canada for the Protection and Promotion of Investment, signed on March 18, 1998, in force since September 29, 1999 (hereinafter referred to as “the BIT” or “the Canada-Costa Rica BIT”). Costa Rica is a Contracting Party to the Convention on the Settlement of Investment Disputes between States and Nationals of Other States, signed in Washington in 1965 (the “ICSID Convention”). As Canada is not a Party to the ICSID Convention, Schedule C of the Rules Governing the Additional Facility for the Administration of Proceedings (hereinafter referred to as “Additional Facility,”) shall apply as provided by Article XII 4(b) of the BIT.
16. In particular, Claimants alleged that Costa Rica, by failing to provide proper vigilance and governmental regulatory supervision over the national financial system, had injured their investments in violation of the BIT provisions regarding full protection and security, fair and equitable treatment, due process of law, and protection against expropriation. 17. Luis Enrique Villalobos Camacho and his brother Osvaldo Villalobos Camacho (hereinafter the “Villalobos brothers” or the “brothers”) at the time of the incidents giving rise to this case were Costa Rican nationals engaged in various business activities in Costa Rica. In particular, they owned and operated a currency exchange, known first as Casa de Cambio Hermanos Villalobos (“the Villallobos Brothers Money Exchange”) and later renamed Casa de Cambio Ofinter S.A. (“Ofinter”). From at least 1998 until Ofinter’s collapse in 2002, the Superintendencia General de Entidades Financieras (SUGEF), the Costa Rican governmental financial regulatory agency under the supervision of the Central Bank of Costa Rica, had licensed Ofinter to engage in the money exchange business and regularly included it in the list of authorized money exchanges, which it published periodically for purposes of informing the public. Ofinter had offices in downtown San Jose, the capital city of Costa Rica, and in the San Pedro Mall. 18. Sometime prior to 1996, the Villalobos brothers developed and instituted a scheme whereby individuals and companies would place funds with the brothers in return for a high interest rate on their deposits, as
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well as the repayment of the principal amount under stipulated conditions. The office in which these transactions were carried out was located in the San Pedro Mall, adjacent to Ofinter’s money exchange business, with a separate entrance from the money exchange business. The Villalobos brothers did not openly undertake a public solicitation of funds, nor did they explain to their clients how they would use the funds raised. Instead, they conducted this part of their business on a highly confidential basis and would accept contributions only from persons introduced to them through recommendations from acquaintances. 19. Individuals or companies placing funds in the scheme were required to make an initial minimum payment of US$ 10,000. The minimum period of deposit for amounts up to US$ 99,000 was six months and twelve months for deposits of more than US$ 100,000. Interest was credited monthly to depositors’ accounts and they were entitled to withdraw interest on a monthly basis. In order to withdraw three or more months’ worth of interest, a depositor had to provide the brothers at least a two-week written notice. All withdrawals of principal required at least one month’s written notice. The Villalobos brothers promised to pay those depositing funds with them a minimum of 3% per month or a total of 36% interest per year. Some persons withdrew their interest regularly when paid and others left the interest to accumulate in their accounts with the brothers. Depositors who were willing to forego monthly withdrawals were promised a rate of 2.8%
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per month, compounded, which was equivalent to an annual interest rate of 39.29%. 20. Although Claimants argued that the deposits made with the Villalobos constituted a form of participation in an enterprise according to Article I(g) ii of the BIT, evidence on the record shows that deposits with the Villalobos brothers under the above scheme were structured as personal loans to Luis Enrique Villalobos. After filling out a deposit form, depositors made payments of their deposits in one of three ways: 1) in cash delivered to a Villalobos brother or a Villalobos employee at the office in the San Pedro Mall; 2) by check, usually made out to Luis Enrique Villalobos, to Ofinter, to their brokerage account, or to another of their related entities; or 3) by wire transfer to one of their bank accounts in Costa Rica, the United States, or another country. 21. In return, as evidence of the transaction and as a receipt of the depositors’ funds, the Villalobos brothers or an employee delivered to each depositor what some Claimants referred to as a “guarantee check” drawn on an account in the name of Luis Enrique Villalobos at the Banco Nacional de Costa Rica in the amount of the deposit made with the brothers. The checks were undated and the deposit form filled out by the depositors explained that the check was issued by Luis Enrique Villalobos, a physical person, responsible for the amount shown on the check. At same time, the Villalobos employee receiving the deposit made clear that the checks were not to be cashed and that the account on which they were drawn did not have sufficient funds to pay
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the amount indicated on the check. In fact, the account on which they were drawn remained inactive after 1997 and never had more than US$ 5,000. Often on the back of the check, a Villalobos employee would write information concerning the interest to be paid on the deposit. If a depositor wished to withdraw principal, he or she would present the guarantee check when requesting payment and surrender it upon payment. 22. Drawn by the high interest rates and the confidential nature of the scheme, more than 6,200 persons deposited a total of approximately US$ 405 million with the Villalobos brothers over the years of the scheme’s operation. Many of the depositors, like the Claimants in this case, were foreign nationals. They often deposited significant sums of money with what appears to be relatively little investigation and research, relying instead on the recommendations of friends and acquaintances who had previously deposited funds with the brothers and attested to the fact that the Villalobos brothers had regularly paid them the high interest rates promised. The Villalobos brothers provided minimal documentation to the persons depositing funds with them, and thereafter issued no periodic reports on the status of the funds received or the enterprises in which the funds were purportedly invested. Moreover, the Villalobos brothers made no reports to the tax or other governmental authorities of Costa Rica or any other government on their operations or on the income earned by depositors in the scheme. 23. It appears that agencies of the Costa Rican government inspected
the Villallobos currency exchange operation from time to time. It also appears that such agencies came to suspect that the Villalobos brothers were conducting other unauthorized activities in connection with the currency exchange. Although the authorities pursued such leads, they were unable to gather sufficient evidence to prove wrongdoing. One of the problems they encountered was that the depositors themselves refused to cooperate by revealing to the authorities the nature of their business transactions with the Villalobos brothers. 24. On June 5, 2002, the Costa Rican judicial authorities received a request for cooperation and legal assistance from the Department of Justice of Canada, which suspected that a criminal organization in Canada was using the Villalobos brothers scheme to launder money obtained from criminal activities. Pursuant to this request, Costa Rican law enforcement officials, having obtained a search warrant, raided the Villalobos offices and seized various documents and other items on July 4 and 5, 2002. The operation in the San Pedro Mall was closed as a result, but the Villalobos brothers moved their deposit business to another location in the same shopping mall, where despite public knowledge of the raid, certain persons, including the Claimant Norman Barr, continued to deposit funds with the brothers. After the raid, the Villalobos brothers issued other types of instruments to depositors instead of the so-called “guarantee checks” previously provided. 25. The Costa Rican government’s investigation after the raid revealed that the Villalobos brothers had been
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engaged in illegal financial intermediation and had operated a fraudulent Ponzi scheme whereby persons were induced to invest in the scheme by promises of a high return. Interest payments were financed not from the investment of such funds but from subsequent deposits by other persons. On November 27, 2002, the Costa Rican authorities ordered the arrest of the brothers, closed Ofinter, and seized the assets and accounts of the Villalobos brothers and their affiliated enterprises. On December 18, 2002, the Central Bank of Costa Rica formally cancelled Ofinter’s authorization to operate a currency exchange. 26. Although Osvaldo Villalobos Camacho was arrested and prosecuted for fraud and illegal financial intermediation, his brother Enrique Villalobos managed to escape capture and still remains a fugitive from justice at this time. Ultimately after a lengthy trial involving many witnesses and voluminous documentation, on May 16, 2007 the Trial Court of the First Circuit of San José found Osvaldo Villalobos Camacho guilty of aggravated fraud and illegal financial intermediation for his participation in operating the brothers’ financial scheme. The Trial Court sentenced him to eighteen years imprisonment for his criminal conduct. In their lengthy decision, the judges of the Trial Court concluded that the Villalobos brothers had put in place and operated a Ponzi scheme in which they had used funds received from depositors to pay other depositors and themselves, rather than to invest the funds so as to secure a return for use in paying investors. The judges noted that the brothers’ scheme was cloaked in secrecy
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and was designed to avoid notice by the public or detection by the governmental authorities. On June 2, 2008, a decision of the Supreme Court of Costa Rica upheld the conviction and prison sentence of Osvaldo Villalobos. 27. Since the clients who had provided funds to the brothers were considered victims of fraud, they were permitted under Costa Rican law to file a civil complaint for compensation in connection with the criminal case against Osvaldo Villalobos. At the Hearing on Jurisdiction in the present arbitration proceeding, the auxiliary attorney general of Costa Rica, who was the prosecutor in charge of the criminal prosecution against Osvaldo Villalobos, testified that only 300 persons chose to avail themselves of this procedure. It is not clear whether the reason for this limited participation was the desire of most depositors to avoid the scrutiny of governmental and tax authorities or their belief that such participation would be futile in terms of actually securing a repayment of the funds that they had deposited with the brothers. As with the collapse of any Ponzi scheme, relatively few assets remained under the control of the court to satisfy even this relatively small number of claimants who participated in the criminal proceeding. 28. The Claimants, considering that they have lost their deposits with the Villalbos brothers, commenced this arbitration against the Costa Rican government for compensation for their loss on the grounds that such loss had been caused by various actions or omissions of the government of Costa Rica in violation of the Canada-Costa Rica BIT.
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III. Respondent’s
objections to ju-
risdiction and admissibilit.
– 29. In response to the Claimants’ Request for Arbitration, the Respondent contends that ICSID and this Tribunal lack jurisdiction to hear this dispute. In support of its position, the Respondent advances five distinct jurisdictional objections, as well as an admissibility objection to Claimants’ claim on expropriation. 30. The Respondent’s first jurisdictional objection is that none of the deposits made by the Claimants with the Villalobos brothers constitute an “investment”, as that term is defined in Article I of the BIT. Therefore, the Claimants are not entitled to seek the protection of the BIT for the funds that they have allegedly lost as a result of their participation in the Villalobos scheme since a tribunal under Article XII of the BIT only has jurisdiction to hear disputes concerning “investments.” 31. The Respondent’s second jurisdictional objection is that certain of the Claimants are not “investors” for purposes of Article I(h) of the BIT, which grants standing to bring a claim against a BIT contracting state only to persons who are investors. 32. The Respondent’s third jurisdictional objection is that the Claimants’ claims arising out of the search and seizure of Villalobos assets by Costa Rica, which Claimants allege constituted an unlawful expropriation and denial of due process, are barred by Article XII(3)(d) of the BIT which provides that a Canadian investor may submit a claim against Costa Rica only if “no judgment has been rendered by a Costa Rican court regarding the measure that is alleged to be a breach of
this agreement.” Respondent contends that Costa Rican Courts have authorized and subsequently ratified the seizure of the Villalobos assets by the authorities of that country. 33. The Respondent’s fourth jurisdictional objection is that the majority of the claims in this case are untimely and therefore barred by either Article XII(3)(c) or Article XV of the BIT. 34. The Respondent’s fifth and final jurisdictional objection is that any claims of the Claimants based on alleged violations of international agreements other than the BIT or of Costa Rican law are not covered by the BIT and its dispute settlement provisions. 35. The Respondent also alleges that the Claimants’ claims of expropriation are inadmissible and premature since the necessary procedural requirements have not been fulfilled. IV. Claimants’
opposition to objec-
tions to jurisdiction and admissibility.
– 36. Claimants argue that the Tribunal has jurisdiction to entertain the present case on the basis that jurisdiction has to be determined on a prima facie standard and issues of admissibility should not be decided as a preliminary matter. 37. Claimants reject Respondent’s main objections to the jurisdiction of the Tribunal, arguing: (i) that they made an investment under Article I (g) of the BIT; (ii) that they are “investors” under Article I(h) of the BIT; (iii) that all claims are timely and complied with any necessary procedures under the BIT and (iv) that their claims are not barred by the procedural requirement of Article XII (3) (d) of the BIT.
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38. According to the Claimants, the funds provided to the Villalobos brothers are “investments” as they fall within the examples listed in Article I (g)(i)(vi) of the BIT and they meet the general definition of “investments” provided by that same Article I. They also argue that the said funds are not within the exceptions listed in Article I(g). They affirm that their investments were made in accordance with Costa Rican law and within the territory of Costa Rica. 39. In reference to objections ratione personae, Claimants argue that all Claimants are Canadian nationals, some of whom invested in Costa Rica indirectly through nonCanadian holding companies owned and controlled by them. They also maintain that Canadian successors of deceased investors have standing as investors under the BIT, and they assert no claims on behalf of prospective investors. 40. Concerning objections ratione temporis, Claimants considered that none of their claims are barred by Article XV which provides that “This Agreement shall apply to any investment made by an investor of one contracting Party in the territory of the other Contracting Party before or after the entry into force of this Agreement…”. 41. They also maintain that all of their claims were submitted within the limitation period provided by Article XII(3) and that all Claimants filed the notices required under Article XII(2) of the BIT. Claimants also argued that Article XII(2) is procedural in nature and not jurisdictional. They assert that obligations under Article XII (2) and Article XII (3) are independent.
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42. Finally, Claimants argue that their expropriation claims are admissible on the basis that at the time of submitting their Counter-Memorial on Jurisdiction and Admissibility, six and a half years had elapsed since Costa Rican authorities seized the assets of the Villalobos brothers without making these assets available to satisfy the claims of their creditors, including those of the Claimants. Claimants who participated in criminal proceedings against Osvaldo Villalobos have been unable to collect any of the seized assets. Thus, Claimants argue that the exhaustion of Costa Rican legal proceedings by those Claimants who did not participate in such criminal proceedings would be futile. V. The tribunal’s analysis and con– 43. At the outset, it should be noted that each of the five jurisdictional objections advanced by the Respondent would, if established, have differing potential effects on this case. A finding by the Tribunal in support of the first jurisdictional objection would constitute a complete bar to the entire case advanced by all 137 Claimants, since each of them must establish that they have an “investment”, as that term is defined by the BIT, in order to bring an arbitration against Costa Rica. On the other hand, a finding by this Tribunal in support of any or all of the other four jurisdictional objections would have the result that this Tribunal would lack jurisdiction only with respect to certain Claimants or certain issues that they advance. In view of the importance and all-encompassing nature of the Respondent’s first jurisdictional objection, the Tribunal will address that objection first. clusions.
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44. For the Tribunal to have jurisdiction in this case, each of the Claimants, under Article XII(2) has the burden to demonstrate, inter alia that he or she is “an investor” as defined in Article I(h) of the BIT. An “investor” under Article I(h) of the BIT means: “(i) any natural person possessing the citizenship of one Contracting Party who is not also a citizen or the other Contracting Party; or (ii) any enterprise as defined by paragraph (b) of this Article, incorporated or duly constituted in accordance with the applicable laws of one Contracting Party; who owns or controls an investment made in the territory of the other Contracting Party”. 45. Thus, in addition to their nationality, the Canadian Claimants must demonstrate that they own or control an “investment,” as that term is defined in the BIT, in the territory of Costa Rica. 46. Article I(g) of the CanadaCosta Rica BIT states: “‘investment’ means any kind of asset owned or controlled either directly, or indirectly through an enterprise or natural person of a third State, by an investor of one Contracting Party in the territory of the other Contracting Party in accordance with the latter’s laws…”. It then provides that “investment” includes, “though not exclusively”, six listed categories of assets, including (i) movable and immovable property and related property rights; (ii) shares, stocks, bonds and debentures or any other form of participation in an enterprise; (iii) money, claims to money, and claims to performance under contract having a financial value; (iv) goodwill; (v) intellectual property rights; and (vi) rights conferred by
law or under contract, to undertake any economic and commercial activity, including any rights to search for, cultivate, extract, or exploit natural resources. Article I(g) also stipulates that certain types of assets are not included within the meaning of investment. These include “real estate or other property not acquired in the expectation or used for the purpose of economic benefit or other business purposes” and “claims to money that arise solely from: (i) commercial contracts for the sale of goods or services …; or (ii) the extension of credit in connection with a commercial transaction…”. 47. Thus, in order for this Tribunal to have jurisdiction over this dispute, the Claimants must, at a minimum, establish that their deposits and resulting legal relationship with the Villalobos brothers constituted “investments” as the term is defined by the Canada-Costa Rica BIT. To do that, they must show that their deposits had three characteristics: 1) that the deposits constituted “assets” under the BIT; 2) that the Claimants owned or controlled those assets in the territory of Costa Rica in accordance with Costa Rica law; and 3) that if the deposits satisfied these two characteristics they did not fall within those categories of assets that the BIT expressly excludes from the definition of investment. Thus, in order to find that the Claimants’ deposits and resulting relationships with the Villalobos brothers constituted an investment, the Tribunal at the outset must answer two basic questions in the affirmative: A) Did the Claimants’ deposits and resulting legal relationships with one or both of the Villalobos brothers
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constitute “assets” within the meaning of the BIT?; and B) If so, did the Claimants own or control those assets “in accordance with the laws of…” Costa Rica? A) Did the Claimants’ Deposits and Resulting Legal Relationships with either or both of the Villalobos brothers constitute “assets” under the BIT? – 48. The Canada-Costa Rica BIT does not define the meaning of the word “asset.” The French version of the BIT refers to “les avoirs de toute nature” and the official Spanish version refers to “cualquier tipo de activo”. The French word “avoirs” is usually translated into English as “asset” and the Spanish word “activo” is also translated in English as asset. In English, the ordinary meaning of the word “asset” is “anything of value” or a “valuable item that is owned.” The Oxford English Dictionary defines “asset” as “an item of value owned” and Webster’s Deluxe Unabridged Dictionary (2nd ed.) defines asset as “anything owned that has exchange value” or a “valuable or desirable thing to have”. 49. On the basis of these definitions, one can say that a Claimant’s deposit of funds resulting in an obligation of Enrique Villalobos to pay interest and principal was an asset since it constituted a thing of value owned by that Claimant. As a result of transferring their funds to Villalobos, the Claimants obtained a promise from Enrique Villalobos to repay the principal amount under certain conditions and further to pay the Claimants a specific amount of interest each month. That asset, embodied in an agreement with Villalobos, promised them a specific return each month ac-
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cording to a pre-determined interest rate and the right to the repayment of their principal deposit upon stated conditions including notice. In fact, many of the Claimants received and withdrew periodic payments of funds from their accounts with the Villalobos brothers. 50. That being so, it is clear to the Tribunal that the obligations of Enrique Villalobos to the Claimants as a result of their deposit of funds constituted “assets” owned by the Claimants within the meaning of the CanadaCosta Rica BIT. B) Did the Claimants Own and ConTheir Assets In Accordance with the Laws of Costa Rica? – 51. Under the BIT, not only must the Claimants demonstrate that they own the assets which they assert constitutes an investment, but they must also demonstrate that they own or control those assets in accordance with the laws of Costa Rica. The French text of the BIT requires that the investments be owned “en conformité avec les lois” and the Spanish version specifies that the asset must be owned “de acuerdo con la legislación”. 52. In interpreting the phrases “owned or controlled” and “in accordance with the …laws…,” it should first be emphasized that the BIT states this requirement in objective and categorical terms. Each Claimant must meet this requirement, regardless of his or her knowledge of the law or his or her intention to follow the law. Thus, the Claimants’ statements that they intended to follow the law or that they did not know the law are irrelevant to a determination of whether they actually owned or controlled their investtrol
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ments in accordance with the laws of Costa Rica. 53. Not all BITs contain a requirement that investments subject to treaty protection be “made” or “owned” in accordance with the law of the host country. The fact that the Contracting Parties to the Canada-Costa Rica BIT specifically included such a provision is a clear indication of the importance that they attached to the legality of investments made by investors of the other Party and their intention that their laws with respect to investments be strictly followed. The assurance of legality with respect to investment has important, indeed crucial, consequences for the public welfare and economic well-being of any country. 54. In order to prevent economic hardship to individual citizens and reduce the risk of financial crises, governments ordinarily seek to protect the savings of the public from fraud and other harms that can do significant injury not only to individuals but to the economy as a whole. They therefore seek to achieve this objective by regulating the actions of individuals and companies who would raise capital from the public or otherwise seek to serve as financial intermediaries. One means employed by Costa Rica to protect the public savings is the Organic Law of the Central Bank of Costa Rica, one of whose objectives, according to Article 2(d), is “to promote a stable, efficient, and competitive system of financial intermediation.” Toward this end, Article 116 of the Law provides that the only entities that may engage in financial intermediation in the country are those that are expressly authorized to do so by law. Furthermore, Article 157 makes
it a crime to engage in financial intermediation without authorization. 55. By actively seeking and accepting deposits from the Claimants and several thousand other persons, the Villalobos brothers were engaged in financial intermediation without authorization by the Central Bank or any other government body as required by law. The courts of Costa Rica after a lengthy and extensive legal process determined that Osvaldo Villalobos, because of his involvement in the scheme, committed aggravated fraud and illegal financial intermediation. In securing investments from the Claimants, the Villalobos brothers were thus clearly not acting in accordance with the laws of Costa Rica. The entire transaction between the Villalobos brothers and each Claimant was illegal because it violated the Organic Law of the Central Bank. If the transaction by which the Villalobos acquired the deposit was illegal, it follows that the acquisition by each Claimant of the asset resulting from that transaction was also not in accordance with the law of Costa Rica. Although the Claimants may not have committed a crime by entering into a transaction with the Villalobos, the fact that they gained ownership of the asset in violation of the Organic Law of the Central Bank means that their ownership was not in accordance with the laws of Costa Rica and that therefore each of their deposits and resulting relationships with Villalobos did not constitute an “investment” under the BIT. 56. Claimants’ counsel argued that in judging whether the Claimants’ deposits were owned in accordance with the laws of Costa Rica, this Tri-
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bunal should look only to whether the Claimants ownership rights in their claim to be paid the agreed-upon interest and principal were legal obligations under Costa Rican law. By accepting the deposits under the conditions outlined earlier in this decision, Enrique Villalobos clearly became subject to that legal obligation. However, this Tribunal believes that the approach suggested by Claimants’ counsel is too narrow and not a correct interpretation of the treaty language “owned … in accordance with the law” of Costa Rica. 57. The ordinary dictionary meaning of the verb “own” is “to have or hold a property” or “to have or possess a property”. In order to determine whether the ownership of a property is in accordance with the law of a particular country, one must of necessity examine how the possession or ownership of that property was acquired and in particular whether the process by which that possession or ownership was acquired complied with all of the prevailing laws. In the present case, it is clear that that the transaction by which the Claimants obtained ownership of their assets (i.e. their claim to be paid interest and principal by Enrique Villalobos) did not comply with the requirements of the Organic Law of the Central Bank of Costa Rica and that therefore the Claimants did not own their investment in accordance with the laws of Costa Rica. That being the case, the obligations of the Villalobos brother held by the Claimants do not constitute “investments” under the Canada-Costa Rica BIT and therefore this Tribunal lacks jurisdiction to hear the Claimants’ claims against Costa Rica under the BIT.
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58. The Tribunal’s interpretation of the words “owned in accordance with the laws” of Costa Rica reflects both sound public policy and sound investment practice. Costa Rica, indeed any country, has a fundamental interest in securing respect for its law. It clearly sought to secure that interest by requiring investments under the BIT to be owned and controlled according to law. At the same time, prudent investment practice requires that any investor exercise due diligence before committing funds to any particular investment proposal. An important element of such due diligence is for investors to assure themselves that their investments comply with the law. Such due diligence obligation is neither overly onerous nor unreasonable. Based on the evidence presented to the Tribunal, it is clear that the Claimants did not exercise the kind of due diligence that reasonable investors would have undertaken to assure themselves that their deposits with the Villalobos scheme were in accordance with the laws of Costa Rica. 59. On the basis of the foregoing analysis, the Tribunal concludes that the Respondent’s objection to jurisdiction on the ground that the Claimants did not own or control investments in accordance with the law of Costa Rica is established and that this Tribunal is therefore without jurisdiction to hear and decide the Claimants’ claims. 60. In view of the fact that the Tribunal’s decision on the Respondent’s first objection to jurisdiction is established and justifies a complete dismissal of the Claimants’ case, the Tribunal does not consider it neces-
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sary or appropriate to consider and decide upon the other objections to jurisdiction and admissibility raised by the Respondent. 61. For the reasons presented and pursuant to Article 45 of the Arbitration (AF) Rules, the Tribunal decides to accept the first objection to jurisdiction raised by the Respondent, and it therefore dismisses the Claimants’ Request for Arbitration on the ground that the Tribunal lacks jurisdiction “ratione materiae” to hear the dispute which it presents. Therefore and pursuant to Article 44 of the Arbitration (AF) Rules, the Tribunal declares the proceedings closed. (Omissis). – VII. Decision of the tri– 65. For reasons stated in the
bunal
foregoing paragraphs and pursuant to Article 45 of the Arbitration (AF) Rules, the Tribunal decides with unanimity that: a) the Respondent’s preliminary objection ratione materiae to the Tribunal’s jurisdiction must be accepted on grounds that the deposits made by the Claimants with the Villalobos brothers did not constitute an “investment” as that term is defined in Article I of the Canada-Costa Rica BIT; b) the Tribunal is accordingly without jurisdiction to entertain the dispute submitted to it either in part or in whole; and c) the Claimants’ Request for Arbitration is therefore dismissed in its entirety. (Omissis).
(1) La c.d. clean hands doctrine. Il rispetto del principio di legalità da parte degli investitori come condizione necessaria per la tutela internazionale degli investimenti Sommario: 1. Introduzione – 2. La controversia. – 3. I fatti di causa. – 4. Il procedimento: la questione sulla giurisdizione. – 5. L’identificazione dei beni coperti dalla tutela. – 6 Commento.
1. Introduzione. La decisione in commento è costituita da un lodo reso in un procedimento arbitrale regolato dalla cosiddetta “Additional Facility” della Convenzione per il Regolamento delle Controversie Relative agli Investimenti tra Stati e Cittadini di Altri Stati adottata a Washington il 18 marzo 1965. Tale Convenzione – anche descritta per brevità “Convenzione ICSID” o
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“Convenzione di Washington del 1965” 1 – è portatrice, tra le altre cose, di una serie di norme per la risoluzione, mediante una forma “speciale” di arbitrato internazionale, delle controversie relative agli investimenti effettuati da un investitore di uno Stato Contraente nel territorio di un altro Stato Contraente. La Convenzione ICSID è uno degli strumenti di diritto internazionale di maggior successo, essendo stata ratificata da 145 Stati. Come accennato sopra, la Convenzione prevede la possibilità di risolvere controversie relative a investimenti stranieri che normalmente non rientrerebbero nel suo ambito di applicazione mediante l’utilizzo della cosiddetta “Additional Facility” 2. È noto che la ratifica della Convenzione da parte di uno Stato Contraente non comporta, di per sé, l’accettazione della giurisdizione ICSID con riferimento a una determinata controversia. È necessario, a tal fine, uno specifico accordo arbitrale tra lo Stato parte della controversia, il cosiddetto “Stato ospite”, e un investitore straniero. In questo tipo di controversie, l’accordo arbitrale può prendere sia la forma tradizionale della clausola arbitrale, sia la forma peculiare, di cui diremo meglio oltre, della “offerta irrevocabile di arbitrato” da parte dello Stato ospite contenuta in un accordo bilaterale per la protezione degli investimenti. Nella decisione che si segnala, l’accordo arbitrale era contenuto, come vedremo, in uno di detti accordi bilaterali. 2. La controversia. La controversia in esame aveva ad oggetto un’azione proposta da 137 cittadini canadesi in relazione all’asserito inadempimento, da parte della Repubblica di Costa Rica, degli obblighi di cui all’Accordo Bilaterale per la protezione degli investimenti stranieri (Bilateral Investment Treaty o BIT) sottoscritto tra Canada e Costa Rica in data 18 marzo 1998. Come ben noto, in tali BITs, ciascuno Stato Contraente si impe-
1 L’Italia ha sottoscritto la Convenzione in data 19 novembre 1965, ha depositato la ratifica in data 29 marzo 1971 e ha dato esecuzione con legge 10 marzo 1970, n. 1093 in G.U. n. 8 del 12 gennaio 1971. 2 Giardina, Il centro ICSID; Schreuer The ICSID Convention: A Commentary, Cambridge, 2009; Weiler, a cura di, International Investment Law and Arbitration: Leading Cases from the ICSID, Nafta, Bilateral Treaties and Customary International Law, Cameron May, 2005.
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gna a fornire ai cittadini e alle persone giuridiche dell’altro Stato Contraente, una serie di garanzie di natura processuale e sostanziale volta a proteggere gli investimenti da qualsiasi illecita condotta governativa nello “Stato ospite” (anche di natura omissiva). Ovviamente è necessario che da tale condotta consegua un danno al valore, o al godimento dell’investimento. I BITs pertanto conferiscono agli investitori esteri la possibilità di iniziare un arbitrato internazionale contro lo Stato in cui hanno effettuato il proprio investimento per il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento degli obblighi di diritto internazionale da quest’ultimo assunti nel BIT. Per godere della protezione offerta dai BITs non è necessaria l’esistenza di un contratto tra l’investitore estero e il cosiddetto Stato ospite. Né è necessaria la sottoscrizione di uno specifico compromesso arbitrale con tale Stato al fine di conferire la necessaria competenza giurisdizionale al collegio arbitrale. Uno degli aspetti peculiari della maggior parte di questi BITs è, infatti, l’offerta generale ed irrevocabile da parte degli Stati Contraenti di risolvere, mediante arbitrato internazionale, le controversie che dovessero insorgere tra questi e gli investitori dell’altro Stato Contraente. La maggior parte dei BITs, inoltre, fornisce all’investitore estero la scelta alternativa di diverse forme di arbitrato per la risoluzione della relativa controversia. Le due opzioni più diffuse sono appunto il cosiddetto arbitrato ICSID e una forma di arbitrato più “tradizionale” quale l’arbitrato ad hoc ai sensi delle norme arbitrali redatte dall’UNCITRAL oppure una forma di arbitrato amministrato. Nel nostro caso, il BIT sottoscritto tra Canada e Costa Rica prevedeva il ricorso all’arbitrato ICSID. Peraltro, poiché il Canada al momento della sottoscrizione del BIT non aveva ancora sottoscritto la Convenzione ICSID, la forma di arbitrato era quella di cui alla cosiddetta Additional Facility 3. 3. I fatti di causa. Alla metà degli anni ’90, i fratelli di nazionalità costaricana, Luis Enrique Villalobos Camacho e Osvaldo Villalobos Camacho controllavano le attività della società di cambio operante in Costa Rica denominata “Casa
3 Il Canada ha sottoscritto la Convenzione ICSID nel dicembre 2006 ma non ne ha ancora effettuato la ratifica. La Convenzione ICSID pertanto non ha ancora acquistato efficacia nei confronti del Canada.
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de Cambio Hermanos Villalobos”. In seguito, tale società veniva rinominata “Casa de Cambio Ofinter S.A.” (d’ora in avanti, per brevità, “Ofinter”). Fino al momento del collasso finanziario della Ofinter, verificatosi nel 2002, l’autorità regolamentare per le attività finanziarie di Costa Rica (Superintendencia General de Entitades Financieras – SUGEF) aveva regolarmente autorizzato la Ofinter a svolgere l’attività di cambio valutario. Mediante la Ofinter, i fratelli Villalobos, parallelamente all’attività di cambio, avevano sviluppato uno schema finanziario per la raccolta di fondi in relazione ai quali veniva offerta una redditività, in termini di interessi, ben al di sopra della media di mercato. Infatti, la Ofinter assicurava il pagamento di un interesse mensile del 3% pari, quindi, a un tasso di interesse annuale del 36%. È interessante notare che, al momento dell’effettuazione del deposito, i depositanti ricevevano dalla Ofinter un “assegno a garanzia” emesso dai fratelli Villalobos e tratto su di un conto personale di questi presso il Banco Nacional de Costa Rica per un importo pari a quello versato dal depositante. L’“assegno a garanzia” non recava la data di emissione e – stando a quanto emerso nel corso delle varie vicende giudiziarie che hanno caratterizzato tale vicenda – i depositanti erano informati del fatto che il conto sul quale l’assegno era stato tratto non aveva la provvista necessaria per assicurarne il pagamento. Le favorevoli condizioni offerte dalla Ofinter attraevano un numero considerevole di depositanti. Circa 6,200 investitori, la maggior parte dei quali stranieri, aderirono alla raccolta fondi della Ofinter. Complessivamente i depositi arrivarono a oltre 400 milioni di dollari statunitensi. Saltuariamente la SUGEF e altre agenzie di controllo di Costa Rica si interessarono alle attività della Ofinter. Sembra peraltro che in nessuna di queste investigazioni si arrivò a identificare reati o irregolarità delle norme finanziarie interne. Questo almeno fino al 2002, quando le autorità giudiziarie del Costa Rica ricevevano una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da parte delle omologhe autorità canadesi. Nella richiesta di assistenza si indicava che una organizzazione criminale canadese aveva depositato ingenti somme presso la Ofinter al fine di riciclare all’estero i proventi della propria attività criminale in Canada. Da tale richiesta scaturiva un’approfondita indagine da parte delle autorità di Costa Rica che portava al sequestro dei beni della Ofinter e all’emissione di un ordine di arresto nei confronti dei fratelli Villalobos. Le investigazioni delle autorità costaricane chiarirono che le attività di raccolta fondi della Ofinter altro non erano che una frode finanziaria meglio conosciuta come “schema Ponzi”. Lo schema Ponzi, come noto,
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prevede la raccolta di fondi attraverso la promessa di ingenti tassi di interesse sui capitali depositati. L’interesse pagato su tali somme, peraltro, non è connesso ad alcun investimento effettuato dall’ente di raccolta. L’interesse, almeno all’inizio dello “schema”, viene, infatti, pagato utilizzando i depositi raccolti successivamente. In seguito alle vicende giudiziarie scaturite da tali indagini, Osvaldo Villalobos veniva dichiarato colpevole di truffa aggravata e intermediazione finanziaria illecita con la conseguente condanna a diciotto anni di reclusione. Il fratello Luis Villalobos, invece, riusciva a sottrarsi al mandato di arresto. Per quanto riguarda le vittime di tale operazione finanziaria illecita, la legge costaricana prevedeva la possibilità di richiedere tutela, anche risarcitoria, nelle forme previste dalla legge locale. È interessante notare, peraltro, che solo 300 dei 6.200 investitori decisero di usufruire di tale forma di tutela offerta dalla legge costaricana. Circa 137 cittadini canadesi, invece, intraprendevano la strada della tutela giudiziaria di diritto pubblico internazionale ai sensi del BIT Canada-Costa Rica. Nel marzo 2007, 137 investitori canadesi formalizzavano la propria richiesta di arbitrato contro il Costa Rica presso la Segreteria Generale ICSID. Nel relativo procedimento arbitrale, gli attori lamentavano che la Repubblica di Costa Rica aveva mancato di svolgere le necessarie funzioni di controllo all’interno del proprio sistema finanziario. Tale mancanza avrebbe sostanziato la violazione di alcuni obblighi specifici imposti agli Stati Contraenti nel BIT Canada-Costa Rica, quali il cosiddetto “full protection and security”, “fair and equitable treatment”, “due process” e, infine, “protection against expropriation”. 4. Il procedimento: la questione sulla giurisdizione. La Repubblica di Costa Rica si costituiva in giudizio eccependo la carenza di giurisdizione “rationae personae” e “rationae materiae” del Collegio Arbitrale poiché agli attori non si poteva riconoscere lo status di investitore né le pretese in relazione alle quali si richiedeva tutela rientravano nella definizione di investimento ai sensi del BIT CanadaCosta Rica. A tal riguardo, al fine di poter validamente radicare la giurisdizione del Collegio Arbitrale ai sensi del BIT, le parti attrici dovevano provare: (i) di godere dello status di “investitore” ai sensi dell’Articolo XII(2) e Articolo I(h) del BIT e
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(ii) di possedere o controllare un investimento effettuato nella Repubblica della Costa Rica. La versione in lingua inglese del BIT, all’Articolo I(g) chiariva che per investimento doveva intendersi: “any kind of asset owned or controlled either directly, or indirectly through an enterprise or natural person of a third State, by an investor of one Contracting Party in the territory of the other Contracting Party in accordance with the latter’s laws…”. Il BIT conteneva altresì un elenco illustrativo, e quindi non esaustivo, di sei diverse categorie di “assets” che rientravano nella definizione di investimento: (i) movable and immovable property and related property rights; (ii) shares, stocks, bonds and debentures or any other form of participation in an enterprise; (iii) money, claims to money, and claims to performance under contract having a financial value; (iv) goodwill; (v) intellectual property rights; and (vi) rights conferred by law or under contract, to undertake any economic and commercial activity, including any rights to search for, cultivate, extract, or exploit natural resources. L’articolo I(g) prevedeva, inoltre, alcune espresse esclusioni dalla definizione di investimento. Tra queste rientravano: - “real estate or other property not acquired in the expectation or used for the purpose of economic benefit or other business purposes” e - “claims to money that arise solely from: (i) commercial contracts for the sale of goods or services; or (ii) the extension of credit in connection with a commercial transaction…”. Pertanto, al fine di ottenere la protezione di cui al BIT, gli attori dovevano provare (i) che i depositi da loro effettuati presso la Ofinter potevano considerarsi beni tutelati ai sensi del BIT, (ii) che gli attori possedevano o controllavano detti assets nel territorio di Costa Rica ai sensi della legge costaricana e, infine, (iii) che l’investimento non rientrava tra le materie espressamente escluse dalla protezione del BIT. 5. L’identificazione dei beni coperti dalla tutela. La prima questione analizzata dal Collegio aveva, quindi, necessariamente ad oggetto l’identificazione dei beni assoggettabili alla tutela del BIT. Tale attività era resa poco agevole dal fatto che il BIT non conteneva alcuna definizione che potesse chiaramente e inequivoca-
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bilmente ricomprendere i versamenti effettuati dai 137 cittadini canadesi. La versione in lingua francese del BIT faceva semplicemente riferimento a “les avoirs de toute nature” mentre la versione in lingua spagnola prevedeva la frase “cualquier tipo de activo”. Il Collegio osservava che il termine francese “avoirs” è normalmente tradotto in inglese con il termine “asset”. Lo stesso valeva per il termine spagnolo “activo”. Il Collegio osservava allora che nella lingua inglese il termine “asset” è solitamente tradotto come “anything of value” ovvero come “valuable item that is owned.” Tale ampia definizione consentiva al Collegio di affermare che i depositi effettuati dagli attori presso la Ofinter costituivano degli “asset” ai fini dell’applicazione del BIT, dal momento che non si poteva dubitare del fatto che l’obbligazione della Ofinter di restituire la somma capitale insieme agli interessi maturati su di essa costituisse un “valore” per gli attori. Il Collegio passava quindi ad analizzare la seconda questione e cioè se la titolarità o il controllo su tali assets fosse stata acquisita nel rispetto delle norme della legge di Costa Rica. Il Collegio Arbitrale osservava a proposito che la versione in lingua francese del BIT richiedeva che l’investimento fosse “en conformité avec les lois”. Di pari tenore la versione in lingua spagnola del BIT dove si usava l’espressione “de acuerdo con la legislación”. Il Collegio osservava a proposito che tali espressioni erano state usate in termini categorici. Pertanto, la tutela offerta dal BIT doveva necessariamente considerarsi condizionata dall’effettivo rispetto di determinati requisiti di legge. Tale obbligo, inoltre, doveva considerarsi assolutamente svincolato dall’effettiva conoscenza dei requisiti di legge da parte dell’investitore o dalla effettiva volontà di effettuare l’investimento in conformità alle leggi degli Stati contraenti. Nel rafforzare tale concetto, il Collegio osservava che non tutti i BITs contengono una pattuizione che limiti la tutela di cui sono portatori agli investimenti effettuati in conformità alle leggi dello Stato ospite 4. Il fatto che Canada e Costa Rica avessero inserito tale specifica pattuizione nel loro BIT era considerato come segno evidente della volontà degli Stati contraenti affinché le loro leggi interne fossero osservate e che la tutela del BIT fosse necessariamente subordinata al rispetto di tali leggi da parte degli investitori.
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Si veda il § 53 della decisione.
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Una delle leggi più importanti adottate dal Costa Rica per la regolamentazione delle attività finanziarie era la cosiddetta “Legge Organica” della Banca Centrale della Costa Rica 5. Come era stato accertato anche nei giudizi penali instaurati nei confronti dei fratelli Villalobos, l’attività di intermediazione finanziaria da questi svolta era stava effettuata in assenza di autorizzazione da parte della Banca Centrale della Costa Rica. Le corti della Costa Rica, infatti, avevano accertato, in esito ad un lungo e, a quanto pare, scrupoloso procedimento giudiziario, che i fratelli Villalobos, mediante la Ofinter, avevano commesso i reati di frode aggravata e intermediazione finanziaria illegale. Il Collegio Arbitrale osservava quindi che, se l’intera operazione finanziaria architettata dalla Ofinter era da considerarsi illegale, ogni singolo deposito di fondi, e la conseguente acquisizione dello status di investimento, non poteva ritenersi, mutuando le parole del Collegio, “in accordance with the law of Costa Rica”. Il Collegio chiariva, in tal senso, che l’aspetto rilevante, ai fini della decisione, non era tanto se gli investitori avessero o meno commesso un reato ai sensi della legge di Costa Rica. Quello che rilevava era che l’intera operazione fosse stata effettuata attraverso il deposito di fondi presso un soggetto non autorizzato allo svolgimento di quella attività. Pertanto, ai depositi effettuati presso la Ofinter non poteva riconoscersi, al meno ai fini dell’applicazione del BIT, lo status di “investimento”. Per tale motivo il Collegio Arbitrale dichiarava la propria carenza di giurisdizione. 6. Commento. La decisione in commento offre degli interessanti spunti di riflessione in merito agli effettivi diritti scaturenti dai BITs a tutela degli investimenti effettuati da parte di investitori stranieri 6.
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Ley Orgánica del Banco Central de Costa Rica No. 7558. Su tale materia si vedano Bernardini, Le prime esperienze arbitrali del Centro internazionale per il regolamento delle controversie relative agli investimenti, in Riv. dir. internaz., 1981, pp. 29-40; Bernardini, Investment protection under bilateral investment treaties and investment contracts, in The Journal of World Investment & Trade, 2001, pp. 235-247; Broches, The convention on the settlement of investment disputes: some observations on jurisdiction, in Columbia Journal of Transnational Law, 1966, pp. 263-268; Broches, Bilateral investment protection treaties and arbitration of investment disputes, in: Schultsz J.C, 1982; Carlevaris, Nazionalità dell’investitore e competenza dei tribunali 6
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La decisione, infatti, si colloca all’interno del dibattito concernente l’applicazione del principio secondo il quale ogni forma di tutela di diritto internazionale debba necessariamente essere condizionata alla legalità dell’investimento. In più di un’occasione, infatti, alcuni tribunali internazionali si sono dovuti confrontare con richieste di tutela relative a investimenti i cui profili di legalità lasciavano qualche dubbio. La questione, ovviamente, non è limitata al quesito se l’investimento sia stato effettuato in contravvenzione di norme bancarie amministrative o regolamentari ma si estende a ipotesi di irregolarità ben più gravi. Sono noti, infatti, i casi di investimenti effettuati in relazione ad attività penalmente rilevanti. Si pensi, ad esempio, all’ipotesi di investimento effettuato in relazione a una concessione o a una licenza ottenuta attraverso la sottoscrizione di un rapporto di consulenza o agenzia che altro non è se non una modalità per la commissione del reato di concussione o di corruzione di pubblici funzionari. La decisione in Anderson v Costa Rica, in questo senso, si pone in contrasto con un certo orientamento, verificatosi negli ultimi anni, tendente ad applicare le norme del relativo BIT in assenza di un approfondito ragionamento in tema di meritevolezza della tutela. La giurisprudenza ICSID e, più in generale, quella arbitrale, in merito di tutela degli investimenti ai sensi dei BITs, sembrerebbe quindi iniziare a muoversi verso una posizione volta ad adottare un atteggiamento più accorto e consapevole circa le questioni di applicazione delle norme di diritto, internazionale e interno 7. L’indirizzo precedente, cioè quello volto a favorire un riconoscimento quasi illimitato della tutela, ha coinciso con il fenomenale aumento dei traffici internazionali e quindi degli accordi bilaterali dai quali, inevitabilmente, sono scaturite molte controversie. Come si diceva, peraltro, il
arbitrali ICSID (Lodo arbitrale dell’International Centre for Settlement of Investment Disputes, case n. ARB0218, 29 aprile 2004), in Dir. comm. int., 2005 pp. 359-400; Giardina, Le “Guidelines”della Banca Mondiale sugli investimenti stranieri, in Diritto del commercio internazionale. Testi di base e note introduttive, a cura di Giardina e Tosato, Milano, 1996, p. 459; Mauro, Nuove questioni in tema di arbitrato fra Stato ed investitore straniero nella recente giurisprudenza dei tribunali ICSID, in Riv. dir. internaz., 2006, pp. 67-108; Sacerdoti, Investment arbitration under ICSID and UNCITRAL. Rules: prerequisites, applicable law, review of awards, in ICSID Review, 2004, 19, p. 1. 7 Si veda in tal senso la recente decisione del Comitato Ad Hoc ICSID nel caso Sempra v Argentina in tema di individuazione delle norme di diritto internazionale applicabili: Sempra Energy International v. Argentine Republic (ICSID Case No. ARB/02/16) decisione del 29 giugno 2010 in esito al procedimento per l’annullamento del lodo.
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periodo più recente ha registrato un certo ripensamento sulla questione relativa alla meritevolezza della tutela nel campo degli investimenti esteri e un sostanziale ritorno a un certo rigore di giudizio soprattutto in tema di legittimazione attiva ed effettiva ampiezza della tutela. Si ritiene che tale rigore avesse già caratterizzato la prima fase della breve storia della tutela degli investimenti stranieri. Cioè la fase che potrebbe paradossalmente definirsi come la “preistoria” della pur breve esperienza della tutela moderna degli investimenti esteri. Tale fase coincide con il periodo di tempo che va dal secondo dopoguerra agli anni ’80. Nel caso AMCO Asia della metà degli anni ’80, per esempio, il Comitato ad hoc ICSID aveva annullato un lodo arbitrale a causa della mancata applicazione della legge indonesiana, che conferiva lo status di investimento esclusivamente agli investimenti che erano stati registrati presso il competente ufficio indonesiano. Eccezion fatta per questa ed altre isolate decisioni, il tema della necessità di applicazione della legge dello Stato ospite è un tema che spesso in passato non ha ricevuto l’importanza che merita e che, in ogni caso, viene richiesta dalle norme della Convenzione ICSID stessa. Basti considerare in proposito l’impostazione generale e le norme positive contenute all’interno dell’Articolo 42 della Convenzione ICSID in tema di legge applicabile 8. La decisione in Anderson v Costa Rica ha correttamente adottato una rigorosa linea interpretativa del BIT e della tutela di cui tale strumento di diritto internazionale è portatore, ponendo l’accento sulla conformità dell’investimento alla legge dello Stato ospite. Di particolare interesse, in tal senso, la disquisizione volta a giustificare e, in parte, a elogiare la subordinazione della tutela alla assenza di contrasto con le leggi dello Stato ospite. Il Collegio descrive tale prassi come il riflesso di una saggia e consapevole politica di protezione non solo degli investimenti ma anche, e forse soprattutto, dell’integrità del sistema finanziario interno. In tema di generale protezione dell’integrità del sistema giuridico-finanziario, il lodo arbitrale offre anche uno spunto di particolare rilevanza in questo difficile momento di diffusa crisi economica e finanziaria mondiale. Il Collegio, infatti, ha riflettuto sul fatto che l’esistenza di norme per la tutela dell’integrità del sistema finanziario, e il rispetto di tali norme da parte delle istituzioni e dei cittadini,
8 Di Pietro, Applicable Law under Article 42 of the ICSID Convention, in International Investment Law and Arbitration: Leading Cases from the ICSID, Nafta, Bilateral Treaties and Customary International Law, a cura di Weiler, Cameron May, 2005.
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rappresentano un passaggio fondamentale per la tutela non solo degli individui ma anche del sistema economico finanziario complessivo 9. In questa ottica, il Collegio Arbitrale osserva che qualsiasi investitore, nazionale o straniero, prima di effettuare l’investimento presso la Ofinter avrebbe dovuto svolgere, personalmente o mediante l’ausilio di consulenti o intermediari indipendenti, una cosiddetta “due diligence” sulla legittimazione della Ofinter a esercitare l’attività di intermediazione finanziaria e in genere di raccolta del credito. In tal senso, il Collegio chiarisce anche, forse anticipando qualche rilievo critico, che l’effettuazione di questo tipo di valutazione non sarebbe stata irragionevole né particolarmente onerosa da effettuarsi. Data l’ampiezza e la generale portata delle statuizioni del Collegio Arbitrale, ci si chiede se – in assenza della specifica pattuizione volta a limitare la tutela del BIT Canada-Costa Rica a investimenti effettuati in ossequio alla legge dello Stato ospite – lo stesso Collegio Arbitrale avrebbe comunque potuto adottare una simile decisione. In altre parole, ci si chiede se alla stessa conclusione si sarebbe potuti arrivare semplicemente applicando le norme di ordine pubblico del diritto internazionale consuetudinario. Si potrebbe infatti sostenere che il diritto pubblico internazionale, comunque, non consentirebbe l’accesso alla tutela giurisdizionale in presenza di un investimento che sia caratterizzato da qualche elemento di illiceità diverso dalla semplice irregolarità amministrativa. Si ritiene, infatti, che la tutela sia subordinata al generale principio di legalità dal quale viene fatta scaturire la cosiddetta “clean hands doctrine”. In altre parole, si ritiene che la tutela sia subordinata all’assenza di qualsiasi elemento di illiceità nella condotta della parte che richiede la tutela di diritto internazionale. L’illiceità alla quale si fa riferimento può afferire, sia all’ottenimento della qualifica di investitore, sia alla modalità di creazione o effettuazione dell’investimento. Il principio clean hands doctrine – che ha trovato un momento di importante sviluppo nel famoso caso Nicaragua v. Stati Uniti d’America 10 – sembrerebbe aver trovato applicazione anche nel campo della tutela degli investimenti stranieri.
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Al § 54. Military and Paramilitary Activities (Nicaragua vs United States of America) I.C.J. Reports 1986 – 27.6.1986, I.C.J. Reports 1986, p. 14 con giudizio dissenziente di Judge Schwebel nel quale si è offerta la seguente descrizione del principio in esame: “Under the clean hands doctrine, a person who has acted wrongly, either morally or legally – that is, who has ‘unclean hands’ – will not be helped by a court when complaining about the actions of someone else. 10
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In questo senso, nella decisione Phoenix Action Ltd. v. The Czech Republic 11, il Collegio Arbitrale ha espresso un’interessante osservazione in riferimento all’interpretazione della Convenzione ICSID. Il Tribunale ha preso in considerazione lo scopo a cui il meccanismo di protezione internazionale degli investimenti, tramite l’arbitrato ICSID, è indirizzato. La Convenzione è, infatti, volta a proteggere gli investimenti che siano conformi al sistema legale dello Stato ospite e che siano stati compiuti in buona fede. È necessario, dunque, impedire che i BITs mediante il rinvio all’arbitrato ICSID finiscano per fornire una tutela contraria ai principi ispiratori della Convenzione ICSID. Il Collegio Arbitrale ha affermato che la conformità degli investimenti alla legge nazionale è un requisito implicito, che va sempre preso in considerazione, anche in assenza di esplicita statuizione nel BIT 12. Contrariamente alla decisione Phoenix, nel recente caso Saba Fakes v. Turkey 13 è stato adottato un differente approccio, che sembra riconfermare la tendenza già menzionata di interpretare in maniera molto ampia l’ambito di applicazione della tutela degli investimenti stranieri, prescindendo, quindi, da qualsiasi analisi sulla meritevolezza di essi. Il Tribunale ha rilevato che, nel caso Phoenix, sono stati aggiunti due requisiti al concetto di investimento, non contemplati nella definizione contenuta nella Convenzione ICSID: che l’investimento sia stato fatto in buona fede e che sia conforme alla legge dello Stato ospite. Nella opinione del Collegio Arbitrale nel caso Saba Fakes, i requisiti necessari e contemporaneamente sufficienti a definire un investimento nell’ambito della Convenzione ICSID sono l’esistenza di un valore economico, una determinata durata ed un elemento di rischio 14. In linea con l’approccio
11 Phoenix Action Ltd. v. The Czech Republic, ICSID Case No. ARB/06/5, decisione del 15 aprile 2009. 12 Il Collegio dichiarò che: “The purpose of the international mechanism of protection of investment through ICSID arbitration cannot be to protect investments made in violation of the laws of the host State. The protection of foreign investments made in accordance with the laws of the host State or investments not made in good faith, obtained for example through misrepresentations, concealments or corruption, or amounting to an abuse of the international ICSID arbitration system. In other words, the purpose of international protection is to protect legal and bona fide investments (…). And it is the Tribunal’s view that this condition – the conformity of the establishment of the investment with the national laws – is implicit even when not expressly stated in the relevant BIT”. 13 Saba Fakes v. Republic of Turkey, ICSID Case No. ARB/07/20, decisione del 14 luglio 2010. 14 Il Tribunale ha affermato che: “The criteria of (i) contribution, (ii) a certain dura-
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minimalistico intrapreso, il Tribunale ha dichiarato che i principi di buona fede e di legalità degli investimenti non possono essere incorporati nel testo della Convenzione senza una forzatura della lettera della stessa. Al contrario, gli Stati sono liberi di inserire o meno dei requisiti di legalità per gli investimenti tramite i BITs 15. Dove, però, nel BIT nulla è specificato, bisognerebbe riconoscere la tutela a prescindere da valutazioni di meritevolezza dell’investimento in questione. La decisione in Saba Fakes è una chiara reazione all’orientamento intrapreso in Phoenix volto ad introdurre il requisito della legalità dell’investimento anche dove non sia esplicitamente richiesto dai BITs. Il principio che un investimento debba essere conforme alla legge dello Stato ospite era stato, invece, precedentemente condiviso dal Collegio Arbitrale in Fraport v. The Philippines 16. Il Tribunale in quel caso dichiarò la propria carenza di giurisdizione in considerazione del fatto che un investimento, per essere ricompreso tra quelli tutelati, avrebbe dovuto rispettare il requisito di conformità alla legge delle Filippine. Nello specifico, a differenza del caso Anderson, gli investitori erano consapevoli della violazione di legge, l’investimento era quindi intenzionalmente illegale. Lo stesso orientamento è anche riscontrabile nella decisione resa nel procedimento Inceysa v. El Salvador 17, basata sulla clausola “in accordante with law” riscontrabile nel BIT. Il Tribunale in quel caso ha
tion, and (iii) an element of risk, are both necessary and sufficient to define an investment within the framework of the ICSID Convention”. 15 Il Tribunale ha asserito che: “Likewise, the principles of good faith and legality cannot be incorporated into the definition of Article 25(1) of the ICSID Convention without doing violence to the language of the ICSID Convention: an investment might be “legal” or “illegal” made in “good faith” or not, it nonetheless remains an investment. (…) While a treaty should be interpreted and applied in good faith, this is a general requirement under treaty law, from which an additional criterion of “good faith” for the definition of investments, which was not contemplated by the text of the ICSID Convention, cannot be derived. (…) As far as the legality of investments is concerned, this question does not relate to the definition of “investment” provided in Article 25(1) the ICSID Convention and in Article 1(b) of the BIT. In the Tribunal’s opinion, while the ICSID Convention remains neutral on this issue, bilateral investment treaties are at liberty to condition their application and the whole protection they afford, including consent to arbitration, to a legality requirement of one form or another”. 16 Fraport AG Frankfurt Airport Services Worldwide v. Republic of the Philippines, ICSID Case No. ARB/03/25, decisione del 16 agosto 2007. 17 Inceysa Vallisoletana S.L. v. Republic of El Salvador, ICSID Case No. ARB/03/26, decisione del 2 agosto 2006.
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stabilito che la giurisdizione di un arbitrato ICSID non si estende agli investimenti fraudolenti ed illegali. Gli investimenti che non rispettano il generale obbligo di buona fede non possono quindi giovare del sistema di protezione dei BITs 18. Un ulteriore esempio di questa tendenza può riscontrarsi nel caso World Duty Free v. Kenya 19. Il Collegio Arbitrale ha in primo luogo esaminato il concetto di corruzione con riferimento all’ordine pubblico internazionale, “international public policy”, ed ai sistemi giuridici inglese e keniano che nel caso dovevano essere presi in considerazione. In seguito ha dichiarato che la continuazione del procedimento era impossibile in quanto sarebbe stata contraria all’“international public policy”. Recentemente, nel caso ICSID TSA Spectrum v. Argentina 20 si è ribadito il principio secondo il quale, in ipotesi di investimento effettuato in violazione di norme fondamentali di legge, il tribunale arbitrale al quale sia stata rivolta una richiesta di tutela ha l’obbligo di accertare l’illiceità e respingere la domanda. Nel caso TSA Spectrum l’investitore aveva effettuato il proprio investimento in connessione ad alcuni reati quali la frode e la corruzione. In presenza di casi di illiceità così evidente non sembra che si possa dubitare del fatto che la tutela debba essere negata. Meno agevole sarebbe la risposta nell’ipotesi in cui, come nel caso Anderson, la condotta dell’investitore non si possa immediatamente configurare quale attività contraria ai principi generali, o fondamentali, dell’ordinamento. Non è chiaro, infatti, quale sia il livello di “scrutinio” che un collegio arbitrale debba adottare al fine di verificare la liceità dell’investimento e quindi la meritevolezza della tutela. Nel caso Anderson, ad esempio, il Collegio Arbitrale stesso aveva commentato che alcuni investitori non avevano commesso alcun reato nel compiere il proprio investimento in Costa Rica. L’unica censura sollevabile nel caso di alcuni di quegli investitori era, infatti, rappresentata dal non aver effettuato la necessaria “due di-
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Il Tribunale affermò che: “By falsifying the facts, Inceysa violated the principle of good faith from the time it made its investment and, therefore, it did not make it in accordance with Salvadorian law. Faced with this situation, this Tribunal can only declare its incompetence to hear Inceysa’s complaint, since its investment cannot benefit from the protection of the BIT”. 19 World Duty Free Company Limited v. The Republic of Kenya, ICSID Case No. ARB/00/7, decisione del 4 ottobre 2006. 20 TSA Spectrum De Argentina S.A. v. Argentine Republic, ICSID Case No. ARB/05/5, decisione del 19 dicembre 2008.
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ligence” al fine di verificare lo status della Ofinter e quindi la regolarità dell’investimento. Non si può quindi escludere che – nel caso in cui il BIT Canada-Costa Rica non avesse specificamente richiesto, ai fini del riconoscimento della tutela, che l’investimento fosse stato effettuato ai sensi della legge dello Stato ospite – il Collegio Arbitrale avrebbe potuto decidere diversamente almeno con riferimento a quegli investitori. Le decisioni menzionate rispecchiano la recente tendenza volta ad applicare le norme della Convenzione ICSID e dei BITs solamente a tutela di investimenti che siano conformi alla legge dello Stato ospite. Il rischio collegato al precedente opposto orientamento, ripreso nel caso Saba Fakes, è che, attraverso la tutela dei summenzionati strumenti internazionali, si finisca per regolarizzare e tutelare investimenti non meritevoli di tale tutela perché in qualche modo connessi ad attività illecite.
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Rapporti finanziari ed assicurativi e reato ex art. 648-ter c.p. CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, Sezione II penale, sentenza 4 febbraio 2010, n. 4800; Pres. Bardovagni; Rel. Esposito; M. ed altri Rapporti finanziari ed assicurativi – Impiego di denaro, beni e utilità di provenienza illecita – Condotte di ricettazione o riciclaggio – Configurabilità del reato ex art. 648-ter c.p. – Realizzazione di tutte le condotte in un contesto unitario finalizzato all’impiego – Necessità – Fattispecie (Cod. pen., art. 648, 648-bis, 648-ter)
Nell’ipotesi in cui siano realizzate da un medesimo soggetto sia condotte idonee ad integrare il reato di ricettazione ex art. 648 c.p. o di riciclaggio ex art. 648-bis c.p. sia condotte consistenti nell’impiego (nella specie, con la stipula di contratti di assicurazione, con l’acquisto di quote di fondi comuni di investimento, ecc.) di denaro, beni e utilità di provenienza illecita idonee quindi ad integrare il reato ex art. 648-ter, quest’ultima disposizione – in relazione alla clausola di sussidiarietà in essa contenuta – può trovare applicazione solo quando le condotte siano state tenute in un contesto unitario finalizzato sin dall’inizio all’impiego. (1)
(Omissis) Svolgimento del processo Con sentenza emessa il 22/3/2004, il G.U.P. del Tribunale di Messina – concesse le attenuanti generiche a tutti gli imputati e ritenuta la continuazione per M.A. – condannava quest’ultima alla pena di anni due e mesi otto di reclusione ed Euro 4.000,00 di multa, Z.C. alla pena di anni due e mesi otto di reclusione e P.G. alla pena di anni due e mesi due di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa, oltre che al
risarcimento dei danni – da liquidarsi in separata sede – e alla rifusione delle spese processuali in favore della costituita parte civile, con la confisca dei beni sottoposti a sequestro preventivo. Il fatto contestato a Z.C. e ritenuto dal primo Giudice (capo “M”: art. 110 e art. 216, co. 1, l.fall.) veniva individuato nell’avere – nella sua qualità di titolare dell’impresa individuale fittizia M.C.I. – in concorso con l’imprendito-
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re occulto P.G., distratto complessivamente la somma di L. 6.861.600.000 dalle casse della impresa, fallita il 18/10/2000, al fine di recare pregiudizio all’Amministrazione Finanziaria, in relazione ai crediti d’imposta. M.A. veniva imputata di due ipotesi di reato di cui all’art. 648-bis c.p. e art. 648-ter c.p., per avere sostituito il denaro ricevuto da P.G. – provento di una serie di frodi fiscali – acquistando in prima persona due fabbricati ed una imbarcazione al prezzo complessivo di L. 516.000.000, una polizza di assicurazione Bayerische Vita s.p.a. del valore di L. 400 milioni, quote di fondi comuni di investimento per complessivi L. 200 milioni e come amministratore unico e socia della C.M.S.I. s.r.l., tre immobili dell’importo di L. 605 milioni (capo “P”); nonché, per avere impiegato nell’attività economica svolta dalla C.M.S.I. s.r.l., denaro ricevuto da P.G., sempre proveniente dai reati di frode fiscale, acquistando sei veicoli utilizzati dall’impresa (capo “Q”). Il reato contestato a P.G. e ritenuto dal primo Giudice, individuava altra ipotesi di riciclaggio, per avere effettuato acquisti di numerosi automezzi funzionale all’operatività della Trans Race s.r.l. da lui costituita, per un importo complessivo di circa 800 milioni, con denaro proveniente dai reati di frode fiscale, bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere, commessi dal 1996 al 18/10/2000 dal fratello P.G., così compiendo operazioni tali da ostacolare la individuazione della provenienza delittuosa del denaro, investito in quella società. La Corte di Appello di Messina, con sentenza del 10/10/2007, confermava la decisione di I grado impugnata dagli imputati.
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Ricorrono in Cassazione M.A. e P.G. deducendo i seguenti motivi: 1. Violazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) – Insussistenza del reato di cui al capo “P” – Contraddittorietà processuale – Travisamento – Difetto ed illogicità di motivazione. Invoca la difesa la verifica della corrispondenza della decisione a quo ai dati probatori acquisiti e, in particolare, alla informativa della Polizia Valutaria del 13/10/2000 e alla perizia prodotta agli atti da cui emerge che la Corte di Appello ha effettuato un vero e proprio travisamento della prova. Come è noto, il reato di riciclaggio è ascrivibile a colui che “sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. È in altri termini necessario che l’agente ponga concretamente in essere una attività tendente a “ripulire” il denaro sporco. Nel caso di specie, per come puntualmente rilevato nella memoria difensiva prodotta all’udienza del 10/10/2007, vero è che tutte le operazioni commerciali e finanziarie, ivi incluse le fideiussioni e le movimentazioni di capitale sui conti correnti accesi presso la Banca di Romagna – filiale di Ravenna e intestati alla M. erano effettuate al di là delle apparenze unicamente e personalmente da P.G. Richiama la difesa le dichiarazioni testimoniali di C.T., R.M., T.R., B.G., i quali hanno, in particolare, chiarito che il medesimo P.G. era una sorta di “cliente di riguardo” alla luce delle rilevanti operazioni bancarie che
Corte Suprema di Cassazione
andava svolgendo presso il predetto istituto di credito al punto che gli si consentiva di agire indisturbatamente attraverso continui e cospicui prelievi, versamenti e movimentazioni similari in assenza di qualsivoglia formale titolo giustificativo e senza lasciare traccia. Osserva la difesa che se era il P.G. che si occupava della “gestione” dei conti correnti “fittiziamente” intestati alla M.A., se i vari dipendenti e fornitori avevano rapporti unicamente con lui, se dunque era verosimilmente sempre il P.G. ad operare gli investimenti e gli acquisti per poi vantarsene, (cfr. SIT B.G. del 14/7/2000: “… inoltre sempre come atteggiamento esibizionistico mi diceva di possedere una barca che aveva acquistato per la somma di L. 400 milioni”), non si riesce davvero a comprendere il motivo per cui la M. debba essere ritenuta responsabile del delitto di cui all’art. 648-bis c.p. Ciò posto – dal momento che tutte le incriminate attività in qualche misura volte ad incidere sul compendio criminoso ipotizzato nei vari capi di imputazione separando ogni possibile collegamento, ossia: l’acquisto dei due fabbricati e della imbarcazione per 516 milioni di lire; la sottoscrizione della polizza BAYERISCHE VITA per 400 milioni di lire, giusto assegno del 22/10/1999; l’acquisto dei fondi comuni di investimento ROMAGEST per circa 200 milioni di lire del 31/10/2000; l’acquisto di tre immobili per 605 milioni di lire – risulterebbero per tabulas, secondo gli stessi organi della Pubblica Accusa, essere state compiute dal P.G. – che avrebbe utilizzato il denaro proveniente dalle frodi fiscali e prelevato anche dai conti correnti già menzionati – non può che concludersi, già seguendo tale
opinabile ricostruzione, per la totale estraneità della M. ai fatti contestati al capo “P”). Non vi è, in definitiva, per stessa ammissione dei militari operanti e del P.M., prova alcuna che la M. abbia mai arrecato un contributo materiale o morale alla realizzazione del riciclaggio commesso materialmente dall’imputato di procedimento connesso non essendo sufficiente ai fini della integrazione della condotta incriminata ex art. 648-bis c.p. la semplice intestazione dei “beni ripuliti” o l’essere convivente del malfattore e persona poco esperta (… la M. non è stata peraltro chiamata a rispondere sul piano dell’art. 40 c.p., ma come vera e propria autrice del riciclaggio). Ma, secondo la difesa, vi è di più. Dalla relazione tecnica prodotta in primo grado dalla difesa si evince che non è stata nemmeno raggiunta la prova del reimpiego di capitali “illeciti” negli investimenti e acquisti di immobili sopra ricordati dalla C.M.S.I., di cui la M. era legale rappresentante. Né vi è la prova che la C.M.S.I. – società operativa a tutti gli effetti – non fosse in grado di acquisire in modo assolutamente legittimo ingenti capitali da reinvestire attraverso fondi comuni, polizze assicurative, acquisto di beni di lusso. La Corte d’Appello di Messina ha reso in ordine all’“animus” che avrebbe animato la M. una motivazione solo apparente, atteso che la partecipazione alla stipula degli atti notarili (… non delle operazioni bancarie: cfr. SIT sopra richiamate), la conoscenza della qualità di fallito del compagno e la sua impossibilità di svolgere attività imprenditoriale lecita, sono elementi da cui non è oggettivamente possibile
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desumere l’elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice. 2. Violazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) – Insussistenza del reato di cui al capo “Q” – Contraddittorietà processuale – Travisamento violazione del ne bis in idem sostanziale – Difetto ed illogicità della motivazione. Per come evidenziato nella memoria difensiva agli atti, seguendo una interpretazione letterale e sistematica, il G.U.P. giungeva a condannare la ricorrente per il reimpiego di capitali illeciti provenienti anche dal reato di riciclaggio contestato al capo “P” in palese violazione della clausola contenuta nell’art. 648-ter “fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648-bis c.p.” La Corte di Appello di Messina per superare l’“impasse” nel confermare le statuizioni del primo Giudice ha concluso che “analoghe considerazioni s’impongono in relazione al capo “Q”, la cui sussistenza va sganciata dal capo “P” riferentesi a fatto diverso. Vale a dire la caratteristica peculiare del capo “Q” rispetto al precedente è che il denaro del P. di illecita provenienza è stato utilizzato per l’acquisto di sei veicoli utilizzati nell’attività produttiva”. È allora evidente – secondo i ricorrenti – la fallacia di tale ragionamento e la violazione dell’art. 648-ter c.p. La norma incriminatrice de qua “assolve ad una funzione di difesa residuale, in quanto non è applicabile a fatti già incriminabili facendo ricorso alle rispettive fattispecie di ricettazione e riciclaggio”. In buona sostanza o l’agente è un riciclatore o provvede al reimpiego dei proventi frutto di reato: tertium non datur.
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Rappresenta, inoltre, la difesa che la fattispecie contemplata dall’art. 648ter presuppone un impiego in attività economico-finanziarie. Tale non è certamente, avuto riguardo anche all’oggetto sociale della C.M.S.I., l’acquisto di autoveicoli che non risultano essere stati utilizzati nell’attività produttiva. La motivazione sul punto della sentenza impugnato è davvero, sempre secondo la difesa, manifestamente illogica e contraddittoria. Precisa, sul punto, la difesa che la clausola di esclusione, con la quale esordisce l’art. 648-ter (“fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648-bis”), non consente di annoverare tra i potenziali soggetti attivi, oltre ai concorrenti nel delitto di origine dei proventi delittuosi (il c.d. delitto presupposto), coloro che li abbiano ricettati o riciclati; per questi il successivo impiego è un postfatto non punibile. Ogni diversa interpretazione si pone in contrasto con il principio del “ne bis in idem” sostanziale. Richiama sul punto giurisprudenza di giudici di merito (Tribunale Bustarsizio 12/4/1994; Tribunale Lecce 6/2003) 3. Violazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e) – Insussistenza del reato di cui al capo “S” – Contraddittorietà processuale – Travisamento violazione del ne bis in idem sostanziale – Difetto ed illogicità di motivazione. Ritiene la difesa che anche per il P.G. la Corte di Appello di Messina sia incorsa in un travisamento della prova e nella violazione della legge penale. Per come evidenziato dai Giudici di prime cure, l’unico ruolo ricoperto dal ricorrente P. nella vicenda è stato quello di essere un mero intestatario
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fittizio della ditta di cui al capo “S” condotta, che certamente non può “ex se” essere sussunta nell’alveo dei comportamenti incriminati dall’art. 648-bis c.p. Richiama, sul punto, la difesa le dichiarazioni – del tutto ignorate dalla Corte di merito – dell’imputato di reato connesso di P.N. L’aver ignorato tali risultanze determinava il vizio di motivazione anche in punto di dolo poiché la consapevolezza indicata in sentenza non integra l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice contestata. Ribadisce, peraltro, la difesa i motivi già rappresentati nell’atto di appello circa la ricorrenza della attenuante ex art. 648-bis. c.p. immotivatamente negata al P.G. Chiedono, pertanto, i ricorrenti l’annullamento della sentenza impugnata in tutti i suoi capi senza rinvio; in via subordinata l’annullamento della decisione impugnata con il rinvio degli atti alla Corte di Appello competente per territorio. Motivi della decisione I ricorsi degli imputati sono infondati e vanno, quindi, rigettati. I giudici di merito hanno, invero, adeguatamente motivato in ordine al giudizio di responsabilità valutando in maniera logica e convincente le risultanze probatorie che sono state poste, poi, a base di tale giudizio. Già il Giudice di I grado, con ampia motivazione, ha considerato che sussistessero gli elementi per ritenere gli appellanti responsabili dei reati sopra indicati; in particolare, quanto a Z.C. (non ricorrente), riteneva che fosse provato dagli accertamenti bancari che la stessa – titolare della M.C.I.,
dichiarata fallita il 18/10/2000 avesse effettuato sul conto a lei intestato presso la Banca di Romagna – Filiale di Ravenna, prelievi di contante per L. 6.861.600.000 a fronte di accrediti per bonifici o assegni delle imprese clienti per L. 8.211.229.932 e di debiti per emolumenti agli operai corrisposti per L. 1.086.224.091. Evidenziava il Giudice di I grado che – poiché la Z. si rivelava insolvibile con l’erario – il considerevole quantitativo di contante prelevato dai conti, poteva spiegarsi solo in un’ottica di azione preordinata alla successiva insolvenza, essendo state poste tutte le operazioni in un breve arco temporale ed avendo cessato l’attività d’impresa, nonostante la produzione di copiosi utili. Quanto a M.A. il Giudice di I grado riteneva che entrambe le fattispecie criminose ascritte (capo “P” e “Q”) dovessero ritenersi sussistenti, essendo rimasto provato che il suo compagno, P.G., da un lato accumulava utili, distraendoli dalle imprese fittiziamente intestate, facendone confluire i benefici nella C.M.S.I. (effettivamente operante e dotata di beni produttivi), di cui era Amministratrice Unica la M., semplice bidella di scuola materna e titolare di un reddito annuo non superiore a L. 15 milioni, ma ciò nonostante acquirente fin dal 1996 di beni immobili e di consumo per centinaia di milioni, evidentemente derivanti dal reinvestimento dei proventi dell’attività criminale del compagno. Quanto a P.G., il Tribunale riteneva la responsabilità per l’episodio di riciclaggio ascrittogli, nel presupposto che fosse rimasto provato che sul conto intestato alla Trans Race, di cui era Amministratore Unico, fosse-
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ro confluiti tutti i capitali del fratello. Allo stesso modo, la Corte territoriale, con esaustiva motivazione – ancorata a precise risultanze processuali correttamente valutate – non solo ha disatteso, con puntuali e convincenti argomentazioni, le doglianze difensive, quanto è pervenuta ad una conferma del giudizio di responsabilità sia della M. che del P.G. in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti: si legge, infatti, nella sentenza di II grado: “Quanto all’appello proposto da P.G. e da M.A., entrambi imputati di differenti ipotesi di riciclaggio, ne rileva la Corte la totale infondatezza. Al P. – come già esposto – è stato contestato al capo “S” di avere consentito al fratello G. di investire i proventi illeciti delle sue attività nella società Trans Race, di cui egli fittiziamente assumeva la qualità di Amministratore Unico: società che, formalmente gestiva un’officina meccanica di riparazione, preparazione ed elaborazione di veicoli di competizione sportiva, nell’ambito della quale risultano essere stati acquistati numerosi automezzi per l’importo complessivo di L. 800 milioni. È pacifico che il volume di affari riconducibile a tale società non giustificasse minimamente gli acquisti, che la società sostanzialmente serviva a P.G. di portare avanti i suoi loschi affari, reinvestendo i proventi dei diversi reati posti in essere, tra cui la bancarotta fraudolenta, le evasioni fiscali, ecc. di cui P.G. non poteva non essere a conoscenza, dal momento che sapeva bene che il fratello – dichiarato fallito – non poteva certo investire proventi di attività imprenditoriali lecite, a lui non consentile a cagione del suo status. L’entità degli investimenti nella società Trans Race, poi, esclude che l’imputato pos-
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sa essersi rappresentato forme attenuate di evasione fiscale da parte del fratello – ai fini dell’invocata attenuante di cui all’art. 648-bis c.p., co. 3 – sicché anche le ragioni subordinate del gravame vanno rigettate, apparendo la pena irrogata in maniera equilibrata e proporzionata alla gravità del fatto, che non giustifica una più favorevole comparazione delle circostanze attenuanti”. “Analoghe considerazioni si impongono quanto alle doglianze avanzate da M.A., compagna convivente di P.G.: costei amministratore unico della C.M.S.I. s.r.l. – unica società effettivamente operante nel settore e dotata di beni produttivi – sebbene rivestisse la qualità di bidella, con un reddito annuo quindi pari a circa quindici milioni, proprio in coincidenza con l’avvio della attività fraudolente della Saa. lm.Co. di P.S., risulta avere effettuato acquisti di beni immobili e di consumo per un valore ingentissimo, assolutamente sproporzionato rispetto alle scarne entrate personali e ai profitti dell’attività imprenditoriale a lei apparentemente intestata. In particolare è risultato accertato che l’imputata nel periodo compreso tra il 19/6/1998 ed il 18/4/2000 ha acquistato quale amministratore unico della C.M.S.I. s.r.l. tre immobili per il prezzo complessivo dichiarato di L. 605 milioni e personalmente: 1) due fabbricati ed una imbarcazione al prezzo complessivo dichiarato di L. 516 milioni; 2) quote del fondo “Prudente” per un controvalore di L. 79.970.000; 3) quote del fondo “Profilo Moderato” per il valore di L. 79.970.000; 4) quote del fondo “Profilo Attivo” per un controvalore di L. 39.970.963; 5) una polizza di assicurazione del valore di L. 400 milioni; 6)
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quote di fondi comuni di investimento per complessivi 200 milioni. L’assoluta sproporzione degli investimenti comprovano da un lato che l’imputata costituiva un ottimo canale utilizzato dal P. – per il reimpiego degli introiti provenienti dalla sua attività illecita e dall’altra la incontestabile consapevolezza dell’imputata delle operazioni (a meno di non volere prospettare che il P. la facesse fittiziamente comparire anche negli atti pubblici, con la complicità di notai e pubblici ufficiali): non può oggi l’imputata seriamente prospettare di non essersi resa conto del frenetico acquisto di beni di lusso direttamente effettuato per miliardi, né tantomeno di ignorare la provenienza delle somme reinvestite, dal momento che conosceva la qualità di fallito del compagno e la sua impossibilità di svolgere attività imprenditoriale lecita; il pieno Inserimento della M., poi, nei meccanismi illeciti creati da P.G., risultato comprovato dalla prestazione di fideiussione per L. 300.000.000 da parte della predetta, in data 26/6/1997, in favore della ditta di P.G.”. È facile constatare che si è in presenza di una ineccepibile valutazione di merito del tutto esente da vizi logico-giuridici. Le considerazioni finora svolte evidenziano, quindi, l’infondatezza del 1° e 3° motivo di ricorso. Parimenti infondato e il 2° motivo di ricorso con il quale si deduce la violazione dell’art. 648-ter c.p. La difesa, infatti, ritiene che sia stata violata la clausola contenuta nell’art. 648-ter c.p.: “fuori dei casi di concorso per reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648-bis c.p.”; ciò significa che la norma incriminatrice in questione assolve ad una funzione di
difesa residuale in quanto non è applicabile a fatti già incriminabili facendo ricorso alle rispettive fattispecie di ricettazione e riciclaggio. Osserva questa Corte che, com’è noto, l’art. 648-ter contiene una clausola di sussidiarietà, che prevede la non applicabilità della norma nei casi di concorso nel reato presupposto e nelle ipotesi in cui risultano realizzate fattispecie di ricettazione o di riciclaggio. Ne consegue che non solo il concorrente nel reato presupposto ed il ricettatore, ma anche il riciclatore andrebbe sempre esente da pena per il successivo impiego di denari di provenienza illecita. In sostanza, poiché la clausola di riserva fa prevalere le disposizioni previste dagli artt. 648 e 648-bis, il delitto di reimpiego è destinato sempre a soccombere di fronte a fatti di ricettazione o di riciclaggio. Non vi è dubbio che la clausola di sussidiarietà rispetto alla ricettazione ed al riciclaggio finisce, in sostanza, con il privare la fattispecie, in buona parte, di significato pratico, riducendone lo spazio applicativo. Risulta, infatti, molto difficile trovare uno spazio di autonomia per l’art. 648-ter c.p., sia rispetto all’art. 648-bis c.p., che all’art. 648 cp. Ed, invero, sembra alquanto difficile impiegare denaro di provenienza illecita senza ricettarlo, poiché in questi casi il reimpiego si atteggia come post factum non rilevante. Ritiene questa Corte di legittimità che il criterio volto a salvaguardare qualche spazio applicativo alla fattispecie sia quello di ipotizzare che i reati di cui agli artt. 648 e 648-bis prevalgano solo nel caso di successive azioni distinte, le prime di ricettazione o riciclaggio, le seconde di impiego,
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mentre si applica solo il delitto di cui all’art. 648-ter nel caso di una serie di condotte realizzate in un contesto univoco, sin dall’inizio finalizzato all’impiego. In tale contesto, la soluzione ermeneutica idonea a risolvere il problema del rapporto della fattispecie in questione con i delitti di ricettazione e/o di riciclaggio, appare quella che si fonda sulla distinzione tra unicità o pluralità di comportamenti e determinazioni volitive. Sono esclusi dalla punibilità ex art. 648-ter coloro che abbiano già commesso il delitto di riciclaggio (o di ricettazione) e che, successivamente, con determinazione autonoma (al di fuori, cioè, della iniziale ricezione o sostituzione del denaro) abbiano poi impiegato ciò che era frutto già di delitti a loro addebitato; sono, invece, punibili coloro che, con unicità di determinazione teleologica originaria, hanno sostituito (o ricevuto) denaro per impiegarlo in attività economiche o finanziarie. Il discrimine passa, dunque, attraverso il criterio della pluralità ovvero della unicità di azioni (e delle determinazioni volitive ad esse sottese). Nel primo caso il soggetto risponde di riciclaggio con esclusione del 648-ter, nel secondo soltanto di quest’ultimo, risultando in esso “assorbita” la precedente attività di sostituzione o di ricezione. In altri termini, se taluno sostituisce denaro di provenienza illecita con altro denaro o altre unità e, poi, impieghi i proventi derivanti da tale opera di ripulitura in attività economiche o finanziarie, risponderà del solo reato di cui all’art. 648-bis c.p. proprio in forza della clausola “fuori dei casi previsti dagli artt. 648 e 648-bis c.p.”. Se, invece, il denaro di provenien-
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za delittuosa venga direttamente impiegato in dette attività economiche o finanziarie ed esso venga, così, ripulito, il soggetto risponderà del reato di cui all’art. 648-ter c.p. Solo tenendo presente tale criterio che attiene all’elemento della condotta del reato, può condividersi il principio enunciato, con riguardo all’elemento psicologico, da questa Corte regolatrice, richiamato nella sentenza impugnata, secondo cui “le tre fattispecie di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p. sarebbero accomunati dalla provenienza dei beni da delitto, e si distinguerebbero invece sotto il profilo soggettivo per il fatto che la ricettazione richiede solo il dolo di profitto, mentre la seconda e la terza richiedono la specifica finalità di far perdere le tracce dell’origine illecita, con l’ulteriore peculiarità, quanto alla terza, che detta finalità dev’essere perseguita mediante l’impiego delle risorse in attività economiche o finanziarie; di conseguenza l’art. 648ter c.p. sarebbe in rapporto di specialità con l’art. 648-bis e questo, a sua volta, con l’art. 648 c.p. (Cass. 23/3/2000, n. 6534; Id. 10/1/2003, n. 18103). Conclusivamente, ritiene questa Corte di legittimità che non basta, ai fini della esatta soluzione della questione relativa al concorso tra le tre fattispecie, richiamare il solo elemento soggettivo, ma è necessario far riferimento ed applicare anche il criterio suindicato concernente l’elemento materiale del reato onde evitare interpretazioni che finiscano con l’abrogare implicitamente la clausola di sussidiarietà espressa, contenuta nell’art. 648ter c.p., operazione ermeneutica evidentemente non consentita.
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Applicando al caso di specie i su esposti principi, ne discende la fondatezza della decisione adottata dai Giudici di merito che hanno correttamente ritenuto essersi integrata la fattispecie prevista dall’art. 648-ter c.p. nell’unica azione posta in essere dalla M.A. che ha direttamente impiegato – senza operazioni o passaggi intermedi – il denaro di
illecita provenienza nell’acquisto di sei autoveicoli utilizzati nell’attività economica e produttiva svolta dalla s.r.l. C.M.S.I. effettivamente operante e dotata di beni produttivi, e della quale essa M. era l’amministratore unico. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. (Omissis)
(1) Reimpiego e riciclaggio: due diverse fattispecie? La pronuncia che qui si commenta presenta l’innegabile pregio di aver tentato di ritagliare degli spazi operativi autonomi 1 alla fattispecie di “impiego di denaro, beni o altra utilità di provenienza illecita” che, stante la clausola di sussidiarietà espressa, la quale prevede come uno stesso soggetto non possa essere punito per aver “reimpiegato” somme di denaro già precedentemente ricettate o riciclate, ha trovato ben pochi spazi applicativi 2. La fattispecie, generalmente definita “reimpiego” 3, è stata introdotta dall’art. 24 l. n. 55 del 1990 (e modificata nel 1991, parallelamente alla modifica del reato di riciclaggio, con l’estensione del novero dei reati pre-
1 In verità detta pronuncia è stata seguita da un’altra, di pari e conferente interesse, da parte della medesima Sezione, n. 35763, del 6 ottobre 2010 (in Leggi d’Italia – Banca dati professionale). Per una ricostruzione più ampia delle tre fattispecie che di seguito si esamineranno, ci permettiamo sin d’ora di rinviare al nostro Il riciclaggio nella giurisprudenza, Milano, 2011, in corso di pubblicazione. 2 Anche perché, in un periodo in cui è fervente il dibattito – politico e dottrinale – sulla necessità dell’introduzione del c.d. “autoriciclaggio”, la distinzione tra le fattispecie “storiche” in esame diviene sempre più sfumata. Sul punto, si veda, per tutti, Pennisi, Riciclaggio e autoriciclaggio: strumenti e metodi di contrasto, in Gnosis – Rivista Italiana di Intelligence, 2009, p. 63 e ss. 3 Si riporta il testo del primo comma dell’art. 648-ter c.p.: “Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648-bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, è punito con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da 1.032 euro a 15.593 euro…”. Sul punto, un recente commento di Amato, Il discrimine tra ricettazione, riciclaggio e reimpiego di capitai illeciti, in Gnosis – Rivista italiana di intelligence, 2010, p. 43 e ss.
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supposto), allo scopo di predisporre un ulteriore sbarramento contro l’immissione di capitali illeciti nei normali circuiti economici e finanziari 4. Le finalità che hanno ispirato il legislatore nella formulazione della nuova fattispecie possono di certo dirsi condivisibili, anche se, all’atto pratico, si è venuta a creare una nuova fattispecie i cui ambiti applicativi sono a dir poco esigui e sui quali, per forza di cose, vi sono pochissimi interventi giurisprudenziali. Partendo dalla prassi che vede le organizzazioni criminali produrre ricchezza tramite la commissione di reati aventi lo scopo “ultimo” di lavare i proventi così conseguiti, reimmettendoli nel sistema dell’economia legale e, infine, di reinvestire tali capitali in attività produttive anch’esse in larga parte legali, si è cercato di costruire una norma punitiva collimante 5. Se la punizione del secondo momento dell’agire criminale è affidata alla fattispecie di riciclaggio, il reimpiego vuole porsi a contrasto del terzo momento dell’attività della organizzazioni criminali: il reinvestimento dei capitali lavati in settori dell’economia legale 6. Se questo era l’intento del legislatore, può però dirsi, a ragion veduta, che il risultato si presenta quanto mai misero 7. Invero, come attenta dottrina ha avuto modo di sottolineare proprio in relazione a questa fattispecie, “l’impressione di una modernizzazione del diritto affidata all’aggiornamento del catalogo dei reati, oltre che
4 Fiandaca e Musco, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Bologna, 2007; Bosco e Sanarighi, Infiltrazione del crimine organizzato nell’economia legale, in Riv. G.d.F., 2000, 2353 e ss.; Capriglione, L’antiriciclaggio tra prevenzione sociale e disinquinamento del settore finanziario, in Banca, borsa, tit. cred., 1998, I, pp. 417-433. 5 Per una ricostruzione storica ci si consenta il rinvio a Razzante, La regolamentazione antiriciclaggio in Italia, Torino, 2006, con la bibliografia ivi citata. Per quella economico-sociale legata al fenomeno mafioso, tra i tanti, Vigna, Laudati e Dell’Osso, Sistema criminale ed economia, Padova, 2008; Fiandaca e Visconti, a cura di, Scenari di mafia, Torino, 2010; Nanula, La lotta alla mafia, Milano, 2009; Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008; Aleo, Sistema legale e criminalità organizzata, Milano, 2009; Di Brina e Picchio Forlati, a cura di, Normativa antiriciclaggio e contrasto della criminalità economica, Padova, 2002. 6 Trattasi delle tre fasi della immersion (collocamento), del laundering (occultamento della reale origine del denaro, il c.d. “lavaggio”), della integration (immissione nel circuito legale), di cui al nostro La regolamentazione antiriciclaggio in Italia, Torino, 2006, p. 8. 7 Mentre scriviamo è in discussione in Parlamento una proposta di legge di abolizione delle clausole di riserva degli articoli sopra citati, nonché una possibile eliminazione del 648-ter. Uno specifico studio di chi scrive, prodotto agli Atti della Commissione Parlamentare Antimafia, è in corso di esame presso la medesima.
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cedevole all’illusione legalista, si rivela ingannevole e fallace. La moltiplicazione dei tipi di reato, inutilmente intesa come panacea di tutti i mali, oltre a porre seri problemi di effettività (…), introduce l’ulteriore e drammatica problematica della esatta definizione della sfera di influenza di ciascuna ipotesi delittuosa (…) 8. Volendo procedere ad una breve disamina della norma, a primo acchito ci si accorge come, in una disposizione che ricalca lo schema del riciclaggio, si faccia riferimento a denaro, beni o altre utilità “provenienti da delitto”. Pertanto, stando alla lettera della legge, reati presupposto del reimpiego possono essere anche i delitti colposi 9. Questa estensione del novero dei reati presupposto, però, lungi dal garantire maggiori spazi di operatività, si rivela, come ha evidenziato la dottrina 10, un svista del legislatore, dalle ricadute pratiche nulle; essendo ben difficile configurare anche solo un’ipotesi di scuola di reinvestimento di capitali provenienti da delitto colposo. Come prima accennato, la clausola di sussidiarietà presente nell’incipit ne fa una norma speciale rispetto alle due fattispecie madri di ricettazione e riciclaggio. La giurisprudenza, infatti, quando ha dovuto analizzare tale reato non ha potuto esimersi dal farlo attraverso un costante paragone tra l’art. 648 ter c.p. e le due fattispecie precedenti, e per enucleare i rapporti tra le tre figure delittuose è ricorsa alla pregnante figura dei “cerchi concentrici”, riproposta in numerose massime. “Premesso che presupposto comune di tutte e tre le fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 648, 648 bis e 648 ter c.p. è quello costituito dalla provenienza da delitto del danaro o dell’altra utilità di cui l’agente è venuto a disporre, le dette fattispecie si distinguono, sotto il profilo soggettivo, per il fatto che la prima di esse richiede, oltre alla consapevolezza della suindicata provenienza (necessaria anche per altre), solo una generica finalità di profitto, mentre la seconda e la terza richiedono la specifica finalità di far perdere le tracce dell’origine illecita, con l’ulteriore peculiarità, quanto alla terza, che detta finalità dev’essere perseguita mediante l’impiego delle risorse in attività economiche o finanziarie. L’art. 648 ter è quindi in rapporto di specialità con l’art. 648 bis e questo lo è, a sua volta, con l’art. 648” 11.
8 Muscatiello, Riciclaggio e reinvestimento di denaro illecito: melius abundare quam deficere?, in Riciclaggio e reati connessi all’intermediazione mobiliare, a cura di Manna, Torino, 2000, p. 132 e ss. 9 Il 648-bis fa invece riferimento a “tutti i delitti non colposi”. 10 Fiandaca e Musco, Manuale di diritto penale. Parte speciale, cit. 11 Cass. pen., 23 marzo 2000, n. 6534, in Riv. pen., 2000, 790.
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Affermando tale principio di diritto la giurisprudenza di legittimità ha ancorato la regolamentazione dei confini tra le tre fattispecie sostanzialmente all’elemento volitivo del soggetto agente. Difatti, si risponderà di ricettazione allorquando si persegua una mera finalità di profitto, si risponderà di riciclaggio quando vi sia un volontà di “far perdere le tracce” della provenienza delittuosa del denaro, verrà infine in rilievo il reimpiego quando alla finalità di distruzione del “paper trail” 12 si aggiunga la consapevolezza che tale finalità viene perseguita mediante l’investimento del denaro sporco in attività produttive lecite. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4800 dell’11 novembre 2009, depositata il 4 febbraio 2010, ha sentito l’esigenza di chiarire i confini tra riciclaggio e reimpiego, aggiungendo al criterio fondato sull’indagine dell’elemento psicologico, il criterio dell’unicità-pluralità di azioni esecutive. É utile ribadirne i passaggi fondamentali. “Ritiene questa Corte di legittimità che il criterio volto a salvaguardare qualche spazio applicativo alla fattispecie sia quello di ipotizzare che i reati di cui agli artt. 648 e 648 bis prevalgano solo nel caso di successive azioni distinte, le prime di ricettazione o riciclaggio, le seconde di impiego, mentre si applica solo il delitto di cui all’art. 648 ter nel caso di una serie di condotte realizzate in un contesto univoco, sin dall’inizio finalizzato all’impiego. In tale contesto, la soluzione ermeneutica idonea a risolvere il problema del rapporto della fattispecie in questione con i delitti di ricettazione e/o di riciclaggio, appare quella che si fonda sulla distinzione tra unicità o pluralità di comportamenti e determinazioni volitive. Sono esclusi dalla punibilità ex art. 648-ter coloro che abbiano già commesso il delitto di riciclaggio (o di ricettazione) e che, successivamente, con determinazione autonoma (al di fuori, cioè, della iniziale ricezione o sostituzione del denaro) abbiano poi impiegato ciò che era frutto già di delitti a loro addebitati; sono, invece, punibili coloro che, con unicità di determinazione teleologica originaria, hanno sostituito (o ricevuto) denaro per impiegarlo in attività economiche o finanziarie. Il discrimine passa, dunque, attraverso il criterio della pluralità ovvero della unicità di azioni (e delle determinazioni volitive ad esse sottese). Nel primo caso
Sul significato di tale ultimo termine e sulla sua valenza “investigativa” si veda il nostro Il paper trail nella lotta al riciclaggio, in Gnosis – Rivista Italiana di Intelligence, 2010, p. 57 e ss; ancora, Roberti, Criminalità organizzata transnazionale e il tessuto bancario finanziario, in Riv. G.d.F., 2005. 12
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il soggetto risponde di riciclaggio con esclusione del 648-ter, nel secondo soltanto di quest’ultimo, risultando in esso ‘assorbita’ la precedente attività di sostituzione o di ricezione”. Nella motivazione della sentenza, si cerca di fornire esplicite indicazioni ai giudici di merito per facilitarli nel compito di individuare l’esatta fattispecie da applicare al caso concreto. “In altri termini, se taluno sostituisce denaro di provenienza illecita con altro denaro od altre unità e, poi, impieghi i proventi derivanti da tale opera di ripulitura in attività economiche o finanziarie, risponderà del solo reato di cui all’art. 648 bis c.p. proprio in forza della clausola “fuori dei casi previsti dagli artt. 648, 648 bis cp.”. Se, invece, il denaro di provenienza delittuosa venga direttamente impiegato in dette attività economiche o finanziarie ed esso venga, così, ripulito, il soggetto risponderà del reato di cui all’art. 648 ter c.p.”. Tale intervento giurisprudenziale risulta da un lato opportuno, perché evita che il discrimen tra le due fattispecie passi per il solo elemento psicologico; circostanza che rende sempre ardua l’indagine conoscitiva del giudice, che dovrebbe limitarsi a ricostruire la precisa finalità perseguita dall’agente; di contro, però, a parere di chi scrive, l’intervento giurisprudenziale che qui si commenta finisce per ridimensionare ulteriormente gli spazi operativi della fattispecie. Difatti, se fino a tale ultimo intervento della Cassazione, volendo interpretare in maniera particolarmente estensiva il principio di diritto fatto proprio dalle sentenze di legittimità, si poteva pervenire al riconoscimento di una penale responsabilità a titolo di reimpiego anche qualora vi fossero più azioni, poste in essere anche in differenti contesti spaziotemporali (alcune finalizzate a ripulire il denaro, altre a reinvestire in attività economiche il denaro così ripulito, purché si riconoscesse in capo all’agente un’unica finalità sottesa all’intero iter criminoso, consistente nell’obiettivo ultimo di reinvestire in attività economiche lecite il denaro proveniente da delitto), oggi si deve pervenire a conclusioni opposte. L’importanza data dalla S.C. all’unicità dell’azione, o meglio all’unicità del contesto entro cui l’azione si colloca, impone di concludere che se vi sono previe azioni di ripulitura del denaro, l’unica fattispecie a rilevare sarà quella di riciclaggio, con relativo assorbimento della norma sul reimpiego. In pratica, si potrà condannare per reimpiego solo qualora la ripulitura del denaro avvenga mediante l’investimento dello stesso in attività economiche produttive, e tale conclusione ci è suggerita proprio dalle parole spese dai giudici nella motivazione della sentenza in esame. Ma, come è facile intuire, la probabilità che la criminalità usi “direttamente” il denaro sporco in attività economiche lecite è talmente
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bassa che l’esempio qui operato si presta più a fungere da ipotesi di scuola. Di norma, infatti, la criminalità, soprattutto quella organizzata, preferisce, proprio per cercare di far perdere le tracce della provenienza delittuosa del denaro, procedere a reiterate operazioni finanziarie di ripulitura del denaro sporco e solo successivamente, una volta attuata la lecito-vestizione del denaro, investire lo stesso in attività economiche produttive che rappresentano la facciata legale delle imprese malavitose. Proprio come ha fatto il soggetto agente nella sentenza in epigrafe, che ha acquistato sei autoveicoli destinati all’attività economica con denaro riveniente da una frode fiscale 13. Pertanto, nella maggior parte delle ipotesi, le sole condotte punibili saranno quelle di riciclaggio, mentre la successiva condotta di reimpiego si presenterà come un mero post factum penalmente irrilevante.
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A tale proposito, è proprio sul rapporto con i reati fiscali quale presupposto fattuale del riciclaggio che il dibattito si fa annoso, fino a rischiare il tedio, circa la (paventata) esclusione delle fattispecie di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 dal novero dei delitti “non colposi” (e, a fortiori, anche colposi, come si vorrebbe dalla omissione dell’aggettivo nel 648-ter). In buona sostanza, siccome – secondo alcuni – dal “risparmio fiscale” derivante dal non versare imposte non inferirebbe una “provenienza” in senso tecnico (e fisico!) da delitto delle somme reinvestite, i delitti de quibus non potrebbero generare una responsabilità ex art. 648-ter, per l’appunto. Si vedano, tra gli altri, Caraccioli, L’emissione di fatture false non è menzionata dall’Ufficio italiano cambi come reatopresupposto della segnalazione antiriciclaggio, in Fisco, 2006, p. 4542, così come, dello stesso A., Indagini finanziarie, normativa antiriciclaggio e reati tributari, in Fisco, 2009, p. 1371. La nostra tesi, esattamente opposta, trova conferme nella dottrina maggioritaria. Per una efficace sintesi delle due rappresentazioni, Simoncini e Di Lorenzo, Il riciclaggio, in Riv. G.d.F, 2008, p. 396, con la dottrina ivi citata. Per una illuminante definizione del “risparmio d’imposta” (lecito, per cui, a contrariis, di quello illecito), si vedano, per tutti, Pollari e Lauria, Diritto punitivo e processuale tributario, Roma, 2006, p. 17 e ss. In giurisprudenza, da ultima, Cass. pen., 9 gennaio 2009, n. 511, in Leggi d’Italia – Banca dati professionale. Purtroppo non è possibile approfondire, se non in altra sede, questo argomento. Intanto, il Gafi ha pubblicato un documento di consultazione, nell’ottobre del 2010 (sito www.fatf.org), intitolato The review of the standards, nel quale (p. 10) invita a considerare i “tax crimes” come delitti presupposto (predicate offences) del riciclaggio. La tendenza ci pare irreversibile, qualora vi fossero ancora dubbi. 13
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Sintesi di giurisprudenza * (I trimestre 2010)
Indice delle materie: I. Banca: A) L’impresa bancaria: profili generali. – B) La crisi dell’impresa bancaria. – C) Le garanzie bancarie. – D) Contratto autonomo di garanzia. – E) I titoli di credito bancari. – F) Crediti speciali. II. Borsa e mercato mobiliare: A) Intermediazione mobiliare. – B) Emittenti.
I. BANCA Sommario: A) L’impresa bancaria: profili generali. – 1. Natura giuridica delle fondazioni di origine bancaria e diritto di accesso. – B) La crisi dell’impresa bancaria. – 2. Amministrazione straordinaria. – C) Le garanzie bancarie. – 3. Azioni esperibili dal fideiussore nei confronti del creditore. – 4. Fideiussione per obbligazioni future o condizionali. – D) Contratto autonomo di garanzia. – 5. Contratto autonomo di garanzia,
* Settantatreesima puntata (le precedenti sono pubblicate in Dir. banc., 1990, I, pp. 350 e 551; 1991, I, pp. 160, 459 e 597; 1992, I, pp. 111, 253, 397 e 581; 1993, I, pp. 112, 264, 471 e 594; 1994, I, pp. 125, 255, 383 e 506; 1995, I, pp. 157, 286, 443 e 601; 1996, I, pp. 109, 265, 403 e 554; 1997, I, pp. 129, 318, 478 e 645; 1998, I, pp. 91, 277 e 637; 1999, I, pp. 171, 290, 411 e 545; 2000, I, pp. 143, 331 516 e 671; 2001, I, pp. 89, 229 e 383; 2002, I, pp. 145, 327 e 629; 2003, I, pp. 141, 315 e 471; 2004, I, pp. 321, 447 e 657; 2005, I, pp. 109 e 301; 2006, I, pp. 169 e 533; 2007, I, pp. 163, 343 e 583; 2008, I, pp. 153; 363; 549 e 745; 2009, I, pp. 111; 333; 481; 667; 2010, I, pp. 147; 349; 759). Questa sintesi intende offrire una prima informazione sulle sentenze relative alle materie di interesse della rivista, depositate o edite nel periodo di riferimento. Hanno collaborato: Alessandro Benocci (§ 1); Cristina Campagna (§ 2); Dario Martorano (§§ 3, 4, 6, 7 e 8); Vincenzo Caridi (§ 5); Stefano Boatto (§§ 9 - 11); Luciano Santone (§§ 12 e 13).
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polizza fideiussoria e fideiussione “a prima richiesta”. – E) I titoli di credito bancari. – 6. Assegno circolare. Clausola di non trasferibilità. – 7. Assegno bancario. Avallo. – 8. Assegno bancario. Falsità delle sottoscrizioni. – F) Crediti speciali. – 9. Mutuo di scopo e collegamento negoziale. – 10. Credito fondiario. – 10.1. Credito fondiario e disciplina degli interessi di mora. – 10.2. Credito fondiario ed estinzione delle passività pregresse. – 11. Finanziamenti erogati da pubbliche amministrazioni e giurisdizione.
A) L’IMPRESA BANCARIA: PROFILI GENERALI 1. Natura giuridica delle fondazioni di origine bancaria e diritto di accesso. Cons. St., 3 marzo 2010, n. 1255 (in Publica 2010) si occupa della titolarità o meno in capo agli esponenti di una fondazione di origine bancaria del diritto di accesso disciplinato dalla l. n. 241/1990 e dal d.P.R. n. 184/2006. È necessaria una premessa. La disciplina in materia di cosiddette fondazioni di origine bancaria è il frutto di una stratificazione normativa che, partendo dal d.lgs. n. 356/1990, è passata dal d.l. n. 332/1994, conv. in l. n. 474/1994, fino ad arrivare alla legge delega n. 461/1998 e al successivo d.lgs. n. 153/1999. Con riferimento all’oggetto della rassegna, il d.lgs. n. 153/1999 dispone che le fondazioni bancarie sono persone giuridiche private senza fine di lucro e, come tali, sono dotate di piena autonomia statutaria, ma, dovendo perseguire esclusivamente scopi di utilità sociale, il decreto legislativo ne limita corrispondentemente quella autonomia, indicando alcuni criteri per la adeguata redazione degli statuti, alla cui adozione le fondazioni sono delegate. Agli statuti delle fondazioni e alla relativa libertà statutaria viene rimessa l’individuazione dei settori di specifico intervento, con obbligo, tuttavia, di annoverare tra essi almeno uno tra quelli qualificati dal legislatore come «rilevanti» (ricerca scientifica, istruzione, arte, cultura, ambiente, assistenza) e con obbligo, altresì, di destinare ai settori «rilevanti» almeno il 50% del reddito complessivo; nel rispetto di questi limiti, gli statuti delle fondazioni sono liberi di individuare anche «altri fini statutari» diversi da quelli «rilevanti» cui destinare risorse residue, ma sono ancora una volta obbligati ad annoverare, accanto ai settori rilevanti e a quelli statutari liberamente scelti, gli eventuali diversi settori «previsti da specifiche norme di legge» cui destinare risorse ulteriormente residue. In ogni caso, le finalità perseguite non possono essere lucrative e devono invece essere di c.d. utilità sociale. Il dato privatistico della natura giuridica delle fondazioni di origine bancaria è accentuato laddove la fondazione abbia dismesso ogni partecipazione di controllo solitario o congiunto, diretto o indiretto, nella società conferitaria dell’azienda bancaria e possa quindi qualificarsi come fondazione ex bancaria. Le fondazioni di origine
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bancaria che bancarie non possono più dirsi a causa della sopravvenuta cessazione di ogni collegamento con la società bancaria conferitaria rientrano a pieno titolo tra le persone giuridiche di diritto privato senza fini di lucro che, in accordo con la riforma delle persone giuridiche del libro I del codice civile introdotta dal d.P.R. n. 361/2000, sono da considerarsi sottoposte alla vigilanza dell’autorità prefettizia e non più alla vigilanza del MEF. Nel caso di specie, il giudice amministrativo si occupa di stabilire quale natura abbia una fondazione ex bancaria in modo da risolvere la controversia in ordine alla titolarità del diritto di accesso in capo ad un esponente della fondazione medesima. In particolare, la sentenza in commento riporta il caso di Tizio, socio di una fondazione ex bancaria, che ha inviato alla fondazione una richiesta di accesso ad alcuni atti amministrativi. Il fatto si radica tutto nel 2005: la fondazione de qua aveva già dismesso le proprie partecipazioni di controllo nella società conferitaria dell’azienda bancaria e la stratificazione normativa sopra indicata può dirsi completata. Sulla richiesta di accesso nasce un contenzioso che viene sottoposto all’attenzione del TAR, il quale riconosce a Tizio il diritto di accesso agli atti della fondazione per due ordini di motivi: in primo luogo, perché la l. n. 241/1990 riconoscerebbe il diritto di accesso nei confronti «delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestori di pubblici servizi» e dunque anche nei confronti di soggettività giuridiche aventi natura privata ma operanti normalmente secondo moduli tipicamente riconducibili all’alveo pubblicistico; in secondo luogo, perché le fondazioni di origine bancaria sarebbero espressamente qualificate come organismo di diritto pubblico dal c.d. Codice dei contratti recato dal d.lgs. n. 163/2006 e, come tali, sarebbero pienamente sussumibili nella categoria degli enti tenuti all’obbligo di trasparenza sotteso alla disciplina dell’accesso. La fondazione ricorre contro la sentenza del tribunale amministrativo regionale e il Consiglio di Stato accoglie il relativo appello per due ragioni. In primo luogo, il Consiglio di Stato contesta che il diritto di accesso debba essere riconosciuto sulla scorta del fatto che la fondazione bancaria, per quanto formalmente privata, sarebbe sostanzialmente riconducibile alla sfera pubblicistica: infatti, il Consiglio di Stato precisa che le finalità perseguite dalla fondazione di origine bancaria, per quanto qualificabili come finalità di utilità sociale, non devono essere confuse con finalità di pubblico interesse; come tali, le attività preordinate al loro perseguimento non devono essere considerate espletamento di funzioni pubbliche; ne segue che il diritto di accesso a Tizio non può essere legittimamente riconosciuto. In secondo luogo, il Consiglio di Stato contesta che il diritto di accesso debba essere riconosciuto perché la fondazione banca-
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ria sarebbe qualificabile come organismo di diritto pubblico dal d.lgs. n. 163/2006: infatti, il Consiglio di Stato sottolinea l’entrata in vigore dell’art. 1, co. 10-ter, d.l. n. 162/2008, conv. in l. n. 201/2008, a mente del quale «ai fini dell’applicazione della disciplina di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, non rientrano negli elenchi degli organismi e delle categorie di organismi di diritto pubblico gli enti di cui al decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153»; ai sensi della norma citata, quindi, non rientrano tra gli organismi di diritto pubblico proprio le fondazioni di origine bancaria; il tutto, però, a condizione che le stesse non usufruiscano di «finanziamenti pubblici o altri ausili pubblici»; al contrario di quanto rilevato dal giudice amministrativo di primo grado, quindi, è proprio la norma positiva a consentire l’esclusione della qualifica di organismo di diritto pubblico per le fondazioni di origine bancaria; e questa esclusione è a maggior ragione accertabile perché la fondazione appellante ha anche provato l’assenza di qualsivoglia finanziamento pubblico o ausilio pubblico all’esito dell’istruttoria, è infatti risultato che né lo Stato, né altri enti di diritto pubblico, esercitavano alcun controllo sulla gestione della fondazione, né è risultato che gli organi di amministrazione, direzione o controllo fossero costituiti da soggetti designati dalla mano pubblica. B) LA CRISI DELL’IMPRESA BANCARIA 2. Amministrazione straordinaria. TAR Lazio, 31 marzo 2010, n. 06189 (in Altalex Massimario, 03/2010, 47) è stato chiamato a pronunciarsi in merito alla questione relativa alla falsa applicazione dell’art. 70 t.u.b., alla violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.) e del principio di uguaglianza sollevata dal Banco di Credito Cooperativo di San Vincenzo La Costa. Nel caso di specie il Ministero dell’Economia e delle Finanze, su proposta della Banca d’Italia, con decreto n. 598 del 27 novembre 2009, ha disposto lo scioglimento degli organi di amministrazione e controllo del Banco di Credito Cooperativo di San Vincenzo La Costa e la sottoposizione dell’istituto alla procedura di amministrazione straordinaria, ai sensi dell’art. 70 t.u.b. La parte ricorrente ha impugnato il decreto, denunciando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 e 97 Cost. e dell’art. 70 t.u.b., in relazione alla mancanza del presupposto della gravità delle violazioni richiesto dalla norma. Il Collegio ha ritenuto che non vi è stata violazione del diritto di difesa, né del principio di uguaglianza, considerato che la posizione di supremazia che l’ordinamento assegna all’autorità pubblica nell’esercizio delle funzioni di vigilanza e
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della questione della crisi degli enti creditizi risponde a canoni di ragionevolezza e alla parità di trattamento (TAR Lazio, 7 febbraio 2005, n. 1087). Il Collegio ha ritenuto infondata la denuncia della parte ricorrente per falsa applicazione dell’art. 70 t.u.b., in quanto nel sistema della disciplina del credito l’osservanza delle disposizioni emanate dalla Banca d’Italia nell’esercizio delle funzioni di vigilanza informativa e regolamentare deve essere assicurata dagli organi di amministrazione e dai dirigenti degli istituti di credito (Cass., 9 dicembre 2004, n. 23012). Dagli atti di causa è risultato che la BCC di San Vincenzo La Costa si è resa autrice di irregolarità e di inosservanze alle istruzioni di vigilanza, tali da giustificare il provvedimento di commissariamento; l’istituto bancario già nel 1996 è stato oggetto di provvedimenti della Banca d’Italia che avevano imposto l’osservanza al limite del 15% del coefficiente di riserva e nell’anno 2006 la stessa BCC è stata sottoposta nuovamente ad ispezione dalla Banca d’Italia, all’esito della quale sono state riscontrate irregolarità tali da irrogare sanzioni pecuniarie al direttore, ai componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale. Il giudice amministrativo ha ritenuto che la proposta di commissariamento della Banca d’Italia si è basata quindi sugli accadimenti ispettivi degli anni pregressi, che hanno rilevato perduranti anomalie negli assetti organizzativi dell’istituto quali ampliamenti di fido a clienti già in difficoltà, carente istruttoria rispetto alla gestione del rischio ed alla capacità di rimborso dei clienti; la Banca d’Italia ha quindi valutato la situazione in termini di rischio eccessivo del credito, tenendo conto della violazione delle istruzioni di vigilanza e dell’inosservanza dei rilievi già effettuati nelle precedenti ispezioni. La parte ricorrente non ha contestato i presupposti di fatto alla base del provvedimento, ma ha sostenuto che la politica di mercato dell’istituto si è basata sul sostegno di attività imprenditoriali con vivaci dinamiche e buone potenzialità, continuando ad erogare credito a clienti in stato di crisi. Il TAR del Lazio ha respinto il ricorso poiché la valutazione della Banca d’Italia non è affetta da vizi di illogicità, irragionevolezza o travisamento dei presupposti di fatto (Cons. St., 5 marzo 2010, n. 1274). C) LE GARANZIE BANCARIE 3. Azioni esperibili dal fideiussore nei confronti del creditore. Nel periodo in rassegna si segnala Cass., 1 marzo 2010, n. 4830 (in Rep. Foro it., 2010, voce Fideiussione e mandato di credito [3070], n. 20), secondo la quale il fideiussore non può esercitare, nei confronti del creditore a
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favore del quale ha prestato garanzia, un diritto facente capo al debitore garantito, trattandosi di un diritto del tutto estraneo alla propria sfera giuridica (in applicazione di tale principio, la Suprema corte ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la legitimatio ad causam del fideiussore relativamente all’azione di risarcimento dei danni patiti dal debitore principale per effetto della violazione del dovere di buona fede del creditore). 4. Fideiussione per obbligazioni future o condizionali. Secondo Cass., 26 gennaio 2010, n. 1520 (in Foro it., 2010, I, 2137; in Giur. it., 2010, 1618, con nota di Petrazzini; in Riv. giur. sarda, 2010, 249, con nota di Corriasì) l’obbligo di indicazione dell’importo massimo garantito previsto per le fideiussioni per obbligazioni future o condizionali dall’art. 1938 c.c. (nel testo novellato dalla l. n. 154 del 1992) corrisponde ad un principio generale di garanzia e di ordine pubblico economico ed ha valenza generale, applicandosi anche alle garanzie atipiche (nel caso in esame la Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari che aveva ritenuto applicabile il principio alla lettera di patronage). D) CONTRATTO AUTONOMO DI GARANZIA 5. Contratto autonomo di garanzia, polizza fideiussoria e fideiussione “a prima richiesta”. Cass. S.U., 18 febbraio 2010, n. 3947 [in Foro it., 2010, I, 2799; Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, 425 ss., con nota di Nappi, Un tentativo (non convincente) di definitivamente chiarire la differenza tra fideiussione e Garantievertrag; in Giur. it., 2010, 2038 ss., con nota di Rocchio, Le garanzie autonome, e in particolare le polizze fideiussorie, viste dalle Sezioni unite; in Giust. civ., 2010, I, 2488, con nota di Pasciucco, Le polizze fideiussorie e un’occasione di riflessione sulle clausole di pagamento «a prima richiesta»], chiamata a chiarire la natura del contratto di assicurazione fideiussoria (anche detto, cauzione fideiussoria, assicurazione cauzionale o, più comunemente, polizza fideiussoria), ha avuto modo di precisare i tratti distintivi del contratto autonomo di garanzia (c.d. Garantievertrag) rispetto al tipico negozio fideiussorio, prendendo altresì posizione sulla questione delle conseguenze dell’inserimento nella convenzione fideiussoria di una clausola “a prima richiesta” o “senza eccezioni”. In particolare, la questione di cui le Sezioni Unite sono state investite riguardava la legittimità dell’interpretazione come Garantievertrag di una polizza fideiussoria, rilasciata in favore di una Pubblica Amministrazione a garanzia dell’esatto adempimento delle obbligazioni assunte con
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un contratto di appalto, stante la previsione, all’interno della polizza, del pagamento entro un breve termine dalla richiesta scritta del beneficiario, nonché dell’impegno del debitore a tenere indenne il garante in caso di escussione della garanzia senza possibilità di sollevare eccezione alcuna, e stante altresì la normativa pubblicistica applicabile, secondo la quale il rilascio della polizza fideiussoria era alternativa al rilascio di una cauzione. Il percorso argomentativo dei Supremi giudici parte dalla sottolineatura di alcune differenze strutturali e funzionali tra polizza fideiussoria e fideiussione ex art. 1936 ss. c.c., che in qualche modo costituiscono la cornice nella quale si colloca il contrasto giurisprudenziale che essi sono stati chiamati a risolvere. Quanto alla struttura, in particolare, viene rilevato che, a differenza della tipica convenzione fideiussoria, nella quale il negozio interviene, almeno di norma, tra garante e creditore e senza l’intervento del debitore, la polizza fideiussoria riproduce lo schema del contratto a favore di terzo, del quale sono parte il debitore, quale stipulante, il garante, quale promittente, e rispetto al quale il creditore, quale beneficiario, rimane terzo, sebbene dalla sua adesione discenda, ex art. 1411, co. 3, c.c., l’irrevocabilità e l’immodificabilità della garanzia, essendo egli il vero titolare dell’interesse economico sotteso all’operazione, che dunque, pur bilaterale da un punto di vista giuridico, da un punto di vista economico è sostanzialmente trilatera. Quanto alla funzione, invece, viene posto l’accento sulla necessaria onerosità della polizza fideiussoria, di contro alla possibile gratuità della fideiussione. Così delineato il contesto nel quale si colloca la questione controversa, la Corte si sofferma poi a descrivere i due principali orientamenti relativi alla natura giuridica della polizza fideiussoria, partendo da quello che considera quest’ultima un sottotipo della fideiussione codicistica, con la quale condividerebbe la causa, consistente nel garantire l’adempimento della prestazione dovuta al creditore, e dunque la disciplina, a meno di espresse deroghe pattizie (possibili, in particolare, con riferimento al rapporto tra debitore e assicuratore) a favore delle regole vigenti in tema di assicurazione (in questo senso, Cass., 7 luglio 2009, n. 15904, in Rep. Foro it., 2009, voce Fideiussione e mandato di credito, n. 18; Cass., 16 novembre 2007, n. 23786, in Rep. Foro it., voce Contratto in genere, n. 343; v. tuttavia, nel senso dell’applicabilità della disciplina sull’assicurazione, in particolare per quanto riguarda la prescrizione delle rate di premio, Cass. n. 14656/2002). Nel descrivere il secondo orientamento, la Corte sottolinea, invece, come, in alcune sentenze, la polizza fideiussoria sia considerata una garanzia atipica mediante la valorizzazione del fatto che, stante l’infungibilità dell’obbligazione garantita (in est: l’obbligazio-
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ne dell’appaltatore), a differenza della fideiussione, essa non riveste una funzione satisfattiva, bensì indennitaria. La polizza fideiussoria, secondo questa tesi, non mirerebbe a garantire l’adempimento dell’obbligazione principale, ma a tenere indenne il creditore dall’inadempimento di tale obbligazione, sganciando per tale via l’obbligazione del garante da quella del debitore, con il conseguente venir meno del rapporto di accessorietà dell’una rispetto all’altra, che invece caratterizza la fideiussione propriamente detta (tra le altre, Cass., 4 giugno 2009, n. 12871, in Rep. Foro it., 2009, voce Fideiussione e mandato di credito, n. 16; Cass., 21 maggio 2008, n. 13078, ivi, voce cit., n. 30). Dal che, sotto il profilo disciplinare, discenderebbe la possibilità di applicare ora la normativa in tema di fideiussione ora quella in tema di assicurazione a seconda delle caratteristiche tipologiche rintracciabili nella concreta trama contrattuale. Questo essendo il contrasto giurisprudenziale da risolvere, la Corte osserva come le segnalate problematiche interpretative rievochino quelle proprie del Garantievertrag. In effetti, pur essendovi diffuso consenso sul fatto che il contratto autonomo di garanzia si differenzi dalla fideiussione per la mancanza di accessorietà tra obbligazione del garante e obbligazione principale, rimane controverso, anche nella giurisprudenza della Cassazione, al ricorrere di quali elementi si possa sostenere di essere in presenza di una tale figura. In particolare, manca consenso su quale sia l’impatto generato dall’innesto in una convenzione di garanzia della clausola “a prima richiesta” o di clausole equivalenti. Ora, proprio su questo versante, la problematica del Garantievertrag assume rilievo anche in relazione alla questione della qualificazione della polizza fideiussoria. Quest’ultima figura contrattuale, infatti, alla luce della disciplina pubblicistica applicabile, si caratterizza proprio per la ricorrenza di clausole del tipo “a prima richiesta” e più in generale di elementi astrattamente idonei a parlare di garanzia atipica. Per essere più chiari, l’art. 75 del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 163 del 2006), dettando una disciplina di poco diversa da quella previgente ed applicabile ratione temporis al caso portato all’esame dalla Corte, stabilisce che l’impresa che intenda presentare un’offerta a fronte di un bando di gara o di un invito ad offrire deve produrre una garanzia, alternativamente, sotto forma di cauzione in contanti o in titoli di Stato ovvero sotto forma di fideiussione; e se sceglie la fideiussione quest’ultima deve espressamente prevedere tanto la rinuncia al beneficio della preventiva escussione del debitore principale, quanto la rinuncia all’eccezione di cui all’art. 1957, co. 2, c.c. quanto infine l’operatività della garanzia medesima entro quindici giorni, a semplice richiesta scritta della stazione appaltante.
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Proprio in relazione alla segnalata connessione tra le problematiche interpretative del Garantievertrag e quelle della polizza fideiussoria, la Corte, per un verso, precisa quale sia il discrimine tra il contratto autonomo di garanzia e la fideiussione, e, per altro verso, prende posizione sulle conseguenze che debbono farsi discendere dall’inserimento in una convenzione di garanzia di una clausola “a prima richiesta” o similari. Sul primo versante, i Supremi giudici sostengono che, ferma la possibilità che la convenzione fideiussoria sia resa atipica per effetto dell’inserimento di clausole tese a incidere sul pagamento da parte del garante, i tratti distintivi del negozio fideiussorio rispetto al contratto autonomo di garanzia (c.d. Garantievertrag) sono da ricercarsi sul versante delle possibilità di rivalsa del garante quando il beneficiario abbia indebitamente incassato il pagamento. Secondo la Suprema Corte, infatti, mentre, nella fideiussione, stante il rapporto di accessorietà che lega l’obbligazione del garante a quella del debitore principale, il primo potrà sempre agire nei confronti del beneficiario, nel contratto autonomo di garanzia, l’unica azione a disposizione del garante sarà nei confronti del debitore garantito, il quale sarà l’unico legittimato ad agire contro il beneficiario per far valere l’indebito incasso. Sul secondo versante, assumendo una posizione non esattamente in linea con la distinzione appena prospettata, il Supremo collegio respinge l’orientamento maggioritario, secondo il quale al di là delle clausole inserite nel contratto ciò che rileva è il profilo funzionale del negozio, che dunque sarebbe qualificabile come contratto autonomo di garanzia solo se finalizzato a tenere indenne il creditore dal rischio dell’inadempimento (cfr., tra le altre, Cass., 3 marzo 2009, n. 5044, in Rep. Foro it., 2009, voce Fideiussione e mandato di credito, n. 20), dichiarando invece di aderire all’orientamento secondo il quale l’inserimento di una clausola “a prima richiesta” o di una clausola a questa equivalente, essendo incompatibile con il principio di accessorietà che caratterizza la fideiussione, è di per sé sufficiente a determinare la migrazione dal tipo fideiussorio al Garantievertrag e conseguentemente a precludere al garante l’opponibilità di tutte le tipiche eccezioni fideiussorie (in questo senso si sono espresse, tra le altre, Cass., 17 gennaio 2008, n. 903, in Foro it., 2008, I, 1125; Cass., 27 giugno 2007, n. 14853, in Rep. Foro it., 2008, voce Fideiussione e mandato di credito, n. 15). Argomentazione questa che, a ben vedere, sarebbe stata sufficiente a risolvere anche e proprio il contrasto giurisprudenziale in ordine alla natura giuridica della polizza fideiussoria, e per risolverlo, in particolare, nel senso che la polizza fideiussoria ha natura di negozio atipico di garanzia, tanto più quando essa, come nel caso portato all’esame dei supremi giudici, è utilizzata per garantire l’obbligazione dell’appaltatore
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di opere pubbliche. Come si è detto, infatti, in questo caso la presenza di una clausola che prevede il pagamento a prima richiesta è imposta dalla legge. Ciò non di meno, nell’enunciazione del principio di diritto la Corte ha ritenuto di giustificare la natura di garanzia atipica della polizza fideiussoria stipulata per garantire le obbligazioni di un appaltatore sulla base dell’argomento funzionale in virtù del quale, in questo caso, stante l’infungibilità dell’obbligazione garantita, non vi è coincidenza tra quest’ultima e quella cui è tenuto il garante. E) TITOLI DI CREDITO BANCARI 6. Assegno circolare. Clausola di non trasferibilità. Nel periodo in rassegna si segnala Cass., 31 marzo 2010, n. 7949 (in Rep. Foro it., 2010, voce Titoli di credito [6710], n. 14), la quale ha ribadito che l’art. 43, co. 2, r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736 (applicabile anche all’assegno circolare in forza del richiamo contenuto nel successivo art. 86) – nel prevedere che la banca che abbia effettuato il pagamento dell’assegno “non trasferibile” in favore di persona diversa dal legittimato, non è liberata dalla propria obbligazione finché non paghi nuovamente l’importo dell’assegno all’ordinatario esattamente individuato (o al banchiere giratario per l’incasso), e ciò a prescindere dalla sussistenza dell’elemento della colpa nell’errore sulla identificazione del beneficiario – costituisce una deroga sia alla disciplina generale dettata dall’art. 1992 c.c. per il pagamento dei titoli di credito a legittimazione variabile, sia all’art. 1189 c.c. che, in tema di obbligazioni, dispone la liberazione del debitore adempiente in buona fede in favore del creditore apparente (conformi: Cass., 9 febbraio 1999, n. 1098; 12 marzo 2003, n. 3654; 13 maggio 2005, n. 10118; 25 agosto 2006, n. 18543; Cass. S.U., 26 giugno 2007, n. 14712). 7. Assegno bancario. Avallo. Secondo Cass., 31 marzo 2010, n. 5086 (in Rep. Foro it, 2010, voce Titoli di credito [6710], n. 10), la garanzia prestata dal terzo con la sottoscrizione per avallo di un assegno bancario non si estende automaticamente al rapporto causale intercorrente tra creditore e debitore principale. Ne consegue che la garanzia cessa nel caso di prescrizione dell’azione cartolare e non può essere invocata dal creditore che esercita l’azione causale. La garanzia si estende invece all’adempimento del debito portato dall’assegno o a quello risultante da un rapporto causale sottostante laddove, alla dichiarazione di avallo, si affianchi una promessa extracambiaria. In tale ipotesi l’esistenza di tale obbligazione fideiussoria non è desumibile, in via presuntiva, dalla sola
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dichiarazione di avallo, dovendo essere fornita la prova di una volontà espressamente diretta ad assumerla, in conformità di quanto previsto all’art. 1937 c.c. (Conformi: Cass., 15 febbraio 2005, n. 3031; Cass., 11 settembre 1997, n. 8990; Cass., 3 dicembre 1988, n. 6554). 8. Assegno bancario. Falsità delle sottoscrizioni. In materia di falsità delle sottoscrizioni apposte sugli assegni, Trib. Bologna, 25 gennaio 2010 (inedita), ha sostenuto che la banca trattaria alla quale sia presentato per l’incasso un assegno bancario, ha il dovere di onorarlo laddove l’eventuale irregolarità dei requisiti esteriori non sia rilevabile con la normale diligenza inerente all’attività bancaria e coincidente con la diligenza media. Ne consegue che gli impiegati di banca preposti al pagamento degli assegni, non sono tenuti a dotarsi di una solida competenza in materia grafologica, essendo tenuti a rilevare sul titolo pagato difformità morfologiche o strutturali della scrittura oppure cancellature visibilmente apparenti o accertabili con media capacità e normale buon senso. F) CREDITI SPECIALI 9. Mutuo di scopo e collegamento negoziale. Cass., 16 febbraio 2010, n. 3589 (in Contratti, 2010, 500 ss., con nota di Romeo, Mutuo di scopo, risoluzione del contratto di compravendita e restituzione della somma mutuata) si è pronunciata in merito agli effetti derivanti dalla risoluzione di un contratto di compravendita sul contratto di finanziamento per mezzo del quale veniva garantita la disponibilità al pagamento del prezzo. In particolare, una società finanziaria aveva accettato di concedere a due persone fisiche un finanziamento ciascuno, finanziamento in entrambi i casi destinato a soddisfare il pagamento del corrispettivo di due contratti di compravendita stipulati con una terza società venditrice. Gli acquirenti chiedevano ed ottenevano la risoluzione dei contratti di compravendita con la società venditrice e sospendevano il pagamento delle rate dei rispettivi finanziamenti. La società finanziaria, erogatrice dei finanziamenti, eccepiva il contenuto delle clausole di finanziamento secondo le quali anche in caso di risoluzione del contratto di compravendita collegato il mutuatario sarebbe rimasto obbligato al pagamento delle rate del mutuo. Tuttavia, confermando le sentenze rese in entrambi i giudizi di merito, la Cassazione afferma il principio di diritto in base al quale, esclusa la configurabilità di un contratto di credito al consumo (la cui disciplina è entrata in vigore successivamente alla conclusione
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dei contratti in questione), «nell’ipotesi di contratto di mutuo in cui sia previsto lo scopo del reimpiego della somma mutuata per l’acquisto di un determinato bene, il collegamento negoziale tra gli anzidetti contratti, per cui il mutuatario è obbligato all’utilizzazione della somma mutuata per la prevista acquisizione, comporta che della somma concessa in mutuo beneficia il venditore del bene, con la conseguenza che la risoluzione della compravendita del bene, che importa il venir meno dello stesso scopo del contratto di mutuo, legittima il mutuante a richiedere la restituzione della somma mutuata non al mutuatario, ma direttamente ed esclusivamente al venditore (Cass., n. 7773/2003, 5966/2001, 7118/1998, S.U. 474/1994). Ciò in quanto […] il collegamento tra più contratti tra loro interdipendenti per il raggiungimento di un fine ulteriore che supera i singoli effetti tipici di ciascun atto collegato, da luogo ad un unico regolamento di interessi, che assume una propria, diversa rilevanza causale (cfr., ex plurimis, Cass., n. 9447/2007) in relazione alla sintesi degli interessi (cd. causa concreta) che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (Cass., n. 10490/2006)». In questo senso si esprimono le recenti pronunce rese da Trib. Firenze, 28 febbraio 2005 e App. Milano, 13 ottobre 2004, in Giur. banc. 20052007, sezione Mutuo di scopo, ove ulteriori riferimenti e Trib. Roma, 21 gennaio 2008, in Giur. banc., 2007-2009, sezione Causa del mutuo di scopo.
10. Credito fondiario. 10.1. Credito fondiario e disciplina degli interessi di mora. Trib. Ascoli Piceno, 5 febbraio 2010 (in Giur. Merito, 2010, 1559) è intervenuto sulla questione concernente la disciplina cui ricondurre il calcolo degli interessi, in seguito ad esecuzione forzata individuale, il cui titolo sia costituito da un contratto di mutuo fondiario disciplinato dal r.d. 16 luglio 1905, n. 646. Il Tribunale marchigiano, conformemente a quanto di recente stabilito dalla Corte di Cassazione (Cass., 5 maggio 2009, n. 10297 in Rep. Foro it., 2009, voce Credito fondiario [1950], n. 1 e in Giur. banc., 2007-2009, §. 2.5.2.) afferma che, ricondotto il mutuo fondiario al r.d. 646/1905, il mancato pagamento di una rata di mutuo comporta l’obbligo di corrispondere gli interessi di mora sull’intera rata, inclusa la parte che rappresenta gli interessi di ammortamento, dovendosi attribuire prevalenza a tale normativa speciale rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 2855 c.c. che prevede rigorosi limiti quanto agli effetti dell’iscrizione ipotecaria sugli interessi dovuti.
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È noto, d’altra parte, come la prevalente giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Bergamo, 17 novembre 2005, in www.ilcaso.it e in Giur. banc. 2007-2009, sezione Credito fondiario ed esecuzione forzata; Trib. Milano, 9 settembre 2003, in Banca, borsa, tit. cred., 2005, II, 64; Trib. Napoli, 8 giugno 2001, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, II, 90) neghi all’art. 55 del r.d. 646/1905 la natura di norma speciale rispetto all’art. 2855 concludendo quindi per la prevalenza di quest’ultimo non solo, come sostenuto anche dalla cassazione suindicata, nell’ambito di una procedura concorsuale ma anche nell’ambito di una procedura esecutiva individuale. 10.2. Credito fondiario ed estinzione di passività pregresse. Trib. Latina, sez. distaccata di Terracina (consultabile su www.ilcaso.it), con sentenza resa in data 16 dicembre 2009, si pronuncia in merito alla validità di contratti di mutuo fondiario ove la provvista viene impiegata dalla banca mutuante al fine di estinguere debiti preesistenti dei mutuatari nei confronti della medesima banca. I mutuatari, realizzato che la banca successivamente all’accreditamento della disponibilità presso i relativi conti correnti aveva proceduto ad imputarla all’estinzione di debiti preesistenti verso il medesimo istituto, eccepivano, in particolare, che i contratti di mutuo fondiario erano simulati e/o nulli per difetto di causa con la conseguente inesistenza delle relative ipoteche. Il Tribunale, anzitutto, respinge l’eccezione sollevata dagli attori relativa alla mancata conclusione dei contratti di mutuo fondiario, eccezione asseritamente giustificata dal mancato conseguimento della disponibilità delle somme mutuate da parte dei mutuatari. Il Tribunale, seguendo il principio di diritto fissato da Cass., 12 ottobre 1992, n. 11116, ritiene sufficiente al perfezionamento del mutuo la giuridica disponibilità delle somme mutuate, condizione questa che si realizza anche con il solo accreditamento delle stesse presso il conto corrente del mutuatario. Il giudice di prime cure, inoltre, rigetta l’eccezione avente a oggetto la simulazione ritenendo, conformemente alla giurisprudenza di merito più recente, che le parti avevano dimostrato di voler concludere un contratto di mutuo fondiario non già un diverso negozio dissimulato. Il Tribunale, invece, accoglie l’eccezione fondata sull’invalidità del negozio, sembra, per illiceità della causa. Il giudice di prime cure infatti ritiene che un contratto di mutuo la cui unica funzione sarebbe quella di concedere al mutuatario una garanzia reale su un debito, di fatto, rimasto invariato, risulta privo della causa tipica, quella di finanziamento. Secondo il Tribunale, infatti, non vi sarebbe causa di finanziamento neppure nell’effetto coincidente con la trasformazione delle scadenze
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rispetto al precedente debito, rappresentando tale circostanza un elemento accessorio della fattispecie. Si tratta di una decisione sulla cui correttezza è lecito nutrire dubbi. Il Tribunale trae conforto per la tesi della nullità dalla giurisprudenza fallimentare espressasi con riguardo alle operazioni di ristrutturazione del debito verso imprese poi dichiarate fallite. Ma è agevole obiettare che quella giurisprudenza ha da tempo abbandonato la soluzione della nullità del contratto, non riuscendo ad identificare nell’operazione in esame il motivo di nullità; per ciò preferendo la soluzione, peraltro non esente da critiche, della qualificazione del negozio come mutuo ordinario da ricondurre alla disciplina dell’art. 67, co. 1, n. 2, l.fall. (in questo senso si esprime la giurisprudenza della Corte di Cassazione: cfr., ex multis, Cass., 1 ottobre 2007, n. 20622 in Giust. civ., 2008, I, 124 e ss. e in Il Fallimento, 2008, 95). Per un’illustrazione, ancorché schematica della questione, si veda Giur. banc., 2007-2009, sezione Credito fondiario e fallimento. Per una critica all’impostazione in parola, si veda, almeno, Bonfatti, Atti a titolo oneroso, pagamenti e garanzie, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da Fauceglia e Panzani, Torino, 2009, Vol. 1, p. 670 e ss. 11. Finanziamenti erogati da pubbliche amministrazioni e giurisdizione. Una società aveva ottenuto dal competente Consorzio per l’area di sviluppo industriale, riconducibile al Ministero delle Attività produttive, un finanziamento per la costruzione di uno stabilimento. A seguito del fallimento della società beneficiaria, sul presupposto della sopravvenuta impossibilità per quest’ultima a svolgere l’attività cui la legge riconosce la natura di requisito per la concessione del finanziamento, il Consorzio revocava il finanziamento. Il TAR respingeva il ricorso presentato dalla curatela. Sul ricorso avverso la pronuncia di primo grado si esprime il Cons. St., 11 gennaio 2010, n. 3 (in www.giustizia-amministrativa.it), il quale respinge il ricorso della curatela qualificando la materia come riconducibile alla giurisdizione ordinaria. Ciò in quanto, precisa il Consiglio di Stato, in materia di provvedimenti a contenuto revocatorio incidenti su contributi, finanziamenti e sovvenzioni erogate da Pubbliche Amministrazioni, si è formato un orientamento secondo il quale occorre tenere distinto il momento «statico» della concessione del contributo rispetto a quello «dinamico» individuabile nell’impiego del contributo medesimo. Secondo questo orientamento, spettano alla giurisdizione del giudice amministrativo questioni concernenti la revoca, la decadenza o il ritiro del contributo in quanto atti manifestanti il potere di autotutela amministrativa. Diversamente, spettano alla giurisdizione del giudice ordinario le questioni concernenti le modalità di utilizzazione del contributo
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e il rispetto degli impegni assunti essendo tali questioni riconducibili a posizioni di diritto soggettivo. A questa seconda ripartizione andrebbe pertanto ricondotta la questione sottoposta al Consiglio di Stato «essendo in contestazione il provvedimento con cui l’Amministrazione ha revocato il contributo a seguito ed in ragione del fallimento della società che ne aveva beneficiato, implicante la sopravvenuta impossibilità della stessa società di svolgere l’attività produttiva cui la legge riconnette la concessione del beneficio». Per una pronuncia conforme si veda Cons. St., 29 ottobre 2008, n. 5415, in Juris data, Archivio.
II. BORSA E MERCATO MOBILIARE Sommario: A) Intermediazione mobiliare. – 12. Servizi ed attività di investimento. – 12.1. Forma dei contratti. – 12.2. Operatore qualificato. – 12.3. Adeguatezza dell’operazione. – B) Emittenti. – 13. Offerta pubblica di acquisto obbligatoria.
A) INTERMEDIAZIONE MOBILIARE
12. Servizi ed attività di investimento. 12.1. Forma dei contratti. Hanno riconosciuto la forma scritta quale requisito di validità del contratto di acquisizione di valori mobiliari sia Trib. Perugia, 10 dicembre 2009 (massima redazionale banca dati PlurisCedam, 2010) sia Trib. Roma, 28 ottobre 2009 (ivi). Quest’ultima, inoltre, specifica che la forma in parola assume addirittura un rilievo anche maggiore del generale requisito di validità, in quanto è considerata quale requisito dell’operazione funzionale alla dimostrazione che il cliente è venuto a conoscenza dei rischi connessi all’operazione e li abbia accettati specificamente. Medesimo tenore delle precedenti pronunce assume anche Trib. Torino, 5 gennaio 2010 (in Nuova giur. civ. comm., 2010, 9, 1, 926, con nota di Maragno). Sotto il profilo processuale, il giudice piemontese ha avuto cura altresì di specificare che, al fine di adempiere all’onere probatorio, in caso di contestazione sull’esistenza del rapporto contrattuale, l’intermediario deve produrre il documento sottoscritto, non potendosi ammettere l’ordine di esibizione, rivolto al cliente, ex art. 210 c.p.c. giacché
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non vi è già in atti la prova dell’esistenza del rapporto e non si versa in tema di perdita incolpevole ai sensi dell’art. 2724, n. 3, c.c.. Né può essere considerata rilevante, a tal fine, la produzione di una dichiarazione unilaterale del cliente, con la quale questi ha ammesso di aver ricevuto copia del contratto sottoscritto dalla controparte, ovvero la produzione del contratto sottoscritto esclusivamente dal cliente. 12.2. Operatore qualificato. Al riguardo si segnalano le sole sentenze Trib. Torino, 23 novembre 2009 (in Giur. it., 2010, 3, 601, con nota di Cottino) e 30 novembre 2009 (in Contratto, 2010, 3, 283) a parere delle quali, per considerare un cliente alla stregua di “operatore qualificato”, è sufficiente che lo stesso, sia esso una società o più, in generale, una persona giuridica, abbia dichiarato per iscritto di disporre della competenza e della esperienza richieste in materia di negoziazioni di valori mobiliari. Ciò esonera l’intermediario dal compiere ulteriori verifiche, salvo che, dalla documentazione in atti, non emergano profili di discordanza tra la dichiarazione resa e la situazione reale. 12.3..Adeguatezza dell’operazione. Trib. Lecco, 12 gennaio 2010 (in massima redazione banca dati Pluris-Cedam, 2010) e Trib. Vicenza, 29 gennaio 2009 (in www.ilcaso.it, 2010) concordemente sostengono che l’asimmetria informativa in danno del cliente non inficia la validità del contratto sino ad integrare gli estremi della nullità (in quanto è elemento che incide sulla valutazione della convenienza o meno dell’operazione, ma non importa la mancanza del consenso), e costituisce solo un illecito contrattuale. In tal caso il cliente sarà esclusivamente legittimato alla richiesta di risarcimento del danno patito allorquando abbia acquistato, a sua insaputa, strumenti finanziari destinati al default, così perdendo il capitale investito. Sposa la medesima linea, ma appare appena più sfumata, la posizione di Trib. Lecco, 12 gennaio 2010 (in Redazione Giuffré, 2010), giacché giunge a riconoscere la possibilità che vengano integrate ipotesi di annullabilità laddove la carenza informativa sia imputabile a dolo ovvero dia luogo ad errore. Peraltro l’obbligo di fornire al cliente una informazione adeguata, nonostante il rifiuto opposto da questi di fornire informazioni, è sancito da Trib. Arezzo, 8 febbraio 2010 (in Redazione Giuffré, 2010). Da ultimo si segnala Trib. Bologna, 30 marzo 2010 (in massime redazione banca dati Pluris-Cedam, 2010) che riconosce la risoluzione degli atti negoziali (ordine ed esecuzione di esso) in virtù dei quali sono stati posti in essere quegli investimenti i cui profili di rischio non erano stati adeguatamente illustrati al cliente dall’intermediario.
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B) EMITTENTI 13. Offerta pubblica di acquisto obbligatoria. Sul punto Trib. Milano, 15 marzo 2010 (in Società, 2010, 6, 771 e Giur. it., 2010, 6, 1308, con nota di Cottino e Desana), ha cura di ricostruire i caratteri e, soprattutto, la natura dell’istituto. In particolare individua una natura contrattuale nell’obbligo di promuovere un’opa, una volta superata la soglia del 30%, alla quale corrisponde un diritto degli altri azionisti ad esserne destinatari. Di fatti, avuto riguardo al primo aspetto, il soggetto obbligato è azionista e, dunque, parte del contratto sociale: contratto che deve essere integrato dalla legge ai sensi dell’art. 1324 c.c. e, dunque, per le società quotate, dalle previsioni concernenti l’obbligo di promuovere l’offerta pubblica. Per quanto, invece, concerne la seconda prospettiva, il giudice meneghino osserva come il diritto degli altri azionisti sia disciplinato non soltanto nel contenuto, ma anche nelle forme, giacché la procedura individuata dal legislatore è funzionale all’espressione di una scelta negoziale effettivamente libera circa un’opportunità di disinvestimento tutelabile che consente, grazie alla fissazione del prezzo per legge, una monetizzazione della partecipazione di minoranza presumibilmente più conveniente rispetto alla vendita in borsa.
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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni
LEGISLAZIONE
Agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141 – Attuazione della direttiva 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori, nonché modifiche del titolo VI del testo unico bancario (decreto legislativo n. 385 del 1993) in merito alla disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario, degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi. (Omissis) TITOLO VI-BIS (*) Agenti
in attività finanziaria
e mediatori creditizi
Art. 128-quater Agenti in attività finanziaria 1. È agente in attività finanziaria il soggetto che promuove e conclude contratti relativi alla concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma o alla prestazione di servizi di pagamento, su mandato diretto di intermediari finanziari previsti dal titolo V, istituti di pagamento o istituti di moneta elettronica. Gli agenti in attività finanziaria possono svolgere esclusivamente l’attività indicata nel presente comma, nonché attività connesse o strumentali. 2. L’esercizio professionale nei confronti del pubblico dell’attività di agente in attività finanziaria è riservato ai soggetti iscritti in un apposito elenco tenuto dall’Organismo previsto dall’articolo 128-undecies. 3. Fermo restando la riserva di attività prevista dall’articolo 30 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e in deroga a quanto previsto al comma 1,
*
Il titolo VI-bis è stato successivamente modificato dall’art. 8 del d.lgs. 14 dicembre 2010, n. 218.
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gli agenti in attività finanziaria possono svolgere attività di promozione e collocamento di contratti relativi a prodotti bancari su mandato diretto di banche ed a prodotti di Bancoposta su mandato diretto di Poste Italiane S.p.A.; tale attività dà titolo all’iscrizione nell’elenco previsto al comma 2, nel rispetto dei requisiti di cui all’articolo 128-quinquies. 4. Gli agenti in attività finanziaria svolgono la loro attività su mandato di un solo intermediario o di più intermediari appartenenti al medesimo gruppo. Nel caso in cui l’intermediario offra solo alcuni specifici prodotti o servizi, è tuttavia consentito all’agente, al fine di offrire l’intera gamma di prodotti o servizi, di assumere due ulteriori mandati. 5. Il mandante risponde solidalmente dei danni causati dall’agente in attività finanziaria, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale. 6. Gli agenti che prestano esclusivamente i servizi di pagamento sono iscritti in una sezione speciale dell’elenco di cui al comma 2 quando ricorrono le condizioni e i requisiti stabiliti con regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, legge 23 agosto 1988, n. 400, dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia. I requisiti tengono conto del tipo di attività svolta. Ai soggetti iscritti nella sezione speciale non si applica il secondo periodo del comma 1 e il comma 4. 7. La riserva di attività prevista dal presente articolo non si applica agli agenti che prestano servizi di pagamento per conto di istituti di moneta elettronica o istituti di pagamento comunitari. 8. I soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 2 dell’articolo 109 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, regolarmente iscritti nel Registro unico degli intermediari assicurativi e riassicurativi, possono promuovere e concludere contratti relativi alla concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma o alla prestazione di servizi di pagamento su mandato diretto di banche, intermediari finanziari previsti dal titolo V, istituti di pagamento o istituti di moneta elettronica, compagnie di assicurazione, senza che sia loro richiesta l’iscrizione nell’elenco tenuto dall’Organismo di cui all’articolo 128-undecies. Essi sono tuttavia tenuti alla frequenza di un corso di aggiornamento professionale nelle materie rilevanti per l’esercizio dell’agenzia in attività finanziaria della durata complessiva di venti ore per biennio realizzato secondo gli standard definiti dall’Organismo di cui all’articolo 128-undecies. Art. 128-quinquies Requisiti per l’iscrizione nell’elenco degli agenti in attività finanziaria 1. L’iscrizione all’elenco di cui all’articolo 128-quater, comma 2, è subordinata al ricorrere dei seguenti requisiti: a) per le persone fisiche: cittadinanza italiana o di uno Stato dell’Unione europea ovvero di Stato diverso secondo le disposizioni dell’articolo 2 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
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sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e domicilio nel territorio della Repubblica; b) per i soggetti diversi dalle persone fisiche: sede legale e amministrativa o, per i soggetti comunitari, stabile organizzazione nel territorio della Repubblica; c) requisiti di onorabilità e professionalità, compreso il superamento di un apposito esame. Per i soggetti diversi dalle persone fisiche, i requisiti si applicano a coloro che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo e, limitatamente ai requisiti di onorabilità, anche a coloro che detengono il controllo; d) stipula di una polizza di assicurazione della responsabilità civile per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività derivanti da condotte proprie o di terzi del cui operato essi rispondono a norma di legge; e) per i soggetti diversi dalle persone fisiche sono inoltre richiesti un oggetto sociale conforme con quanto disposto dall’articolo 128-quater, comma 1, ed il rispetto di requisiti patrimoniali, organizzativi e di forma giuridica.. 2. La permanenza nell’elenco è subordinata, in aggiunta ai requisiti indicati al comma 1, all’esercizio effettivo dell’attività e all’aggiornamento professionale. Art. 128-sexies Mediatori creditizi 1. È mediatore creditizio il soggetto che mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza, banche o intermediari finanziari previsti dal titolo V con la potenziale clientela per la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma. 2. L’esercizio professionale nei confronti del pubblico dell’attività di mediatore creditizio è riservato ai soggetti iscritti in un apposito elenco tenuto dall’Organismo previsto dall’articolo 128-undecies. 3. Il mediatore creditizio può svolgere esclusivamente l’attività indicata al comma 1 nonché attività connesse o strumentali. 4. Il mediatore creditizio svolge la propria attività senza essere legato ad alcuna delle parti da rapporti che ne possano compromettere l’indipendenza. Art. 128-septies Requisiti per l’iscrizione nell’elenco dei mediatori creditizi 1. L’iscrizione nell’elenco di cui all’articolo 128-sexies, comma 2, è subordinata al ricorrere dei seguenti requisiti: a) forma di società per azioni, di società in accomandita per azioni, di società a responsabilità limitata o di società cooperativa; b) sede legale e amministrativa o, per i soggetti comunitari, stabile organizzazione nel territorio della Repubblica;
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c) oggetto sociale conforme con quanto previsto dall’articolo 128-sexies, comma 3, e rispetto dei requisiti di organizzazione; d) possesso da parte di coloro che detengono il controllo e dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo dei requisiti di onorabilità; e) possesso da parte dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo, di requisiti di professionalità, compreso il superamento di un apposito esame; f) stipula di una polizza di assicurazione della responsabilità civile, per i danni arrecati nell’esercizio dell’attività derivanti da condotte proprie o di terzi del cui operato essi rispondono a norma di legge. 2. La permanenza nell’elenco è subordinata, in aggiunta ai requisiti indicati al comma 1, all’esercizio effettivo dell’attività e all’aggiornamento professionale. Art. 128-octies Incompatibilità 1. È vietata la contestuale iscrizione nell’elenco degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi. 2. I collaboratori di agenti in attività finanziaria e di mediatori creditizi non possono svolgere contemporaneamente la propria attività a favore di più soggetti. Art. 128-novies Dipendenti e collaboratori 1. Gli agenti in attività finanziaria e i mediatori creditizi assicurano e verificano, anche attraverso l’adozione di adeguate procedure interne, che i propri dipendenti e collaboratori di cui si avvalgono per il contatto con il pubblico, rispettino le norme loro applicabili, possiedano i requisiti di onorabilità e professionalità indicati all’articolo 128-quinquies, lettera c), ad esclusione del superamento dell’apposito esame e all’articolo 128-septies, lettere d) ed e), ad esclusione del superamento dell’apposito esame, e curino l’aggiornamento professionale. Tali soggetti sono comunque tenuti a superare una prova valutativa i cui contenuti sono stabiliti dall’Organismo di cui all’articolo 128undecies. 2. Per il contatto con il pubblico, gli agenti in attività finanziaria che siano persone fisiche o costituiti in forma di società di persone si avvalgono di dipendenti o collaboratori iscritti nell’elenco di cui all’articolo 128-quater, comma 2. 3. I mediatori creditizi e gli agenti in attività finanziaria diversi da quelli indicati al comma 2 trasmettono all’Organismo di cui all’articolo 128-undecies l’elenco dei propri dipendenti e collaboratori.
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4. Gli agenti in attività finanziaria e i mediatori creditizi rispondono in solido dei danni causati nell’esercizio dell’attività dai dipendenti e collaboratori di cui essi si avvalgono, anche in relazione a condotte penalmente sanzionate. Art. 128-decies Disposizioni di trasparenza e poteri della Banca d’Italia 1. Agli agenti in attività finanziaria e ai mediatori creditizi si applicano, in quanto compatibili, le norme del Titolo VI. La Banca d’Italia può stabilire ulteriori regole per garantire la trasparenza e la correttezza nei rapporti con la clientela. 2. La Banca d’Italia esercita il controllo sui soggetti iscritti negli elenchi per verificare l’osservanza delle disposizioni di cui al comma 1 e della relativa disciplina di attuazione. A questo fine la Banca d’Italia può chiedere agli agenti in attività finanziaria e ai mediatori creditizi la comunicazione di dati e di notizie e la trasmissione di atti e di documenti, fissando i relativi termini, nonché effettuare ispezioni anche con la collaborazione della Guardia di Finanza, che agisce con i poteri ad essa attribuiti per l’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto e delle imposte sui redditi, utilizzando strutture e personale esistenti in modo da non determinare oneri aggiuntivi. Art. 128-undecies Organismo 1. È istituito un Organismo, avente personalità giuridica di diritto privato ed ordinato in forma di associazione, con autonomia organizzativa, statutaria e finanziaria competente per la gestione degli elenchi degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi. L’Organismo è dotato dei poteri sanzionatori necessari per lo svolgimento di tali compiti. 2. I componenti dell’Organismo sono nominati con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, su proposta della Banca d’Italia. 3. L’Organismo provvede all’iscrizione negli elenchi di cui all’articolo 128quater, comma 2, e all’articolo 128-sexies, comma 2, previa verifica dei requisiti previsti, e svolge ogni altra attività necessaria per la loro gestione; determina e riscuote i contributi e le altre somme dovute per l’iscrizione negli elenchi; svolge gli altri compiti previsti dalla legge. 4. L’Organismo verifica il rispetto da parte degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi della disciplina cui essi sono sottoposti; per lo svolgimento dei propri compiti, l’Organismo può effettuare ispezioni e può chiedere la comunicazione di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti, fissando i relativi termini.
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Art. 128-duodecies Disposizioni procedurali 1. Per il mancato pagamento dei contributi o altre somme dovute ai fini dell’iscrizione negli elenchi di cui agli articoli 128-quater, comma 2, e 128sexies, comma 2, per l’inosservanza degli obblighi di aggiornamento professionale, la violazione di norme legislative o amministrative che regolano l’attività di agenzia in attività finanziaria o di mediazione creditizia, la mancata comunicazione o trasmissione di informazioni o documenti richiesti, l’Organismo applica nei confronti degli iscritti: a) il richiamo scritto; b) la sospensione dall’esercizio dell’attività per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a un anno; c) la cancellazione dagli elenchi previsti dagli articoli 128-quater, comma 2 e 128-sexies, comma 2. 2. Per le violazioni previste dal comma 1, contestati gli addebiti agli interessati e valutate le deduzioni presentate entro trenta giorni, è applicata una delle misure di cui al comma 1, tenuto conto della rilevanza delle infrazioni accertate. La delibera di applicazione è pubblicata, per estratto, entro il termine di trenta giorni dalla data di notificazione, a cura e spese del soggetto interessato, su almeno due quotidiani a diffusione nazionale, di cui uno economico. 3. È disposta altresì la cancellazione dagli elenchi di cui agli articoli 128quater, comma 2, e 128-sexies, comma 2, nel caso previsto dall’articolo 144, comma 8, e nei seguenti casi: a) perdita di uno dei requisiti richiesti per l’esercizio dell’attività; b) inattività protrattasi per oltre un anno; c) cessazione dell’attività. 4. L’agente in attività finanziaria e il mediatore creditizio cancellati ai sensi del comma 1 possono richiedere una nuova iscrizione purché siano decorsi cinque anni dalla pubblicazione della cancellazione. 5. Fermo restando l’articolo 144, comma 8, in caso di necessità e urgenza, può essere disposta in via cautelare la sospensione dagli elenchi previsti dagli articoli 128-quater e 128-sexies per un periodo massimo di otto mesi, qualora sussistano precisi elementi che facciano presumere gravi violazioni di norme legislative o amministrative che regolano l’attività di agenzia in attività finanziaria o di mediazione creditizia. 6. Nei casi di ostacolo all’esercizio delle funzioni di controllo previste dal presente articolo, l’Organismo applica all’agente in attività finanziaria, al legale rappresentante della società di agenzia in attività finanziaria o al legale rappresentante della società di mediazione creditizia, nonché ai dipendenti, la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 2.065 a euro 129.110.
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Art. 128-terdecies Vigilanza della Banca d’Italia sull’Organismo 1. La Banca d’Italia vigila sull’Organismo secondo modalità, dalla stessa stabilite, improntate a criteri di proporzionalità ed economicità dell’azione di controllo e con la finalità di verificare l’adeguatezza delle procedure interne adottate dall’Organismo per lo svolgimento dei compiti a questo affidati. 2. Per le finalità indicate al comma 1, la Banca d’Italia può accedere al sistema informativo che gestisce gli elenchi in forma elettronica, richiedere all’Organismo la comunicazione periodica di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti con le modalità e nei termini dalla stessa stabiliti, effettuare ispezioni nonché richiedere l’esibizione dei documenti e il compimento degli atti ritenuti necessari presso l’Organismo, convocare i componenti dell’Organismo. 3. La Banca d’Italia informa il Ministro dell’Economia e delle Finanze delle eventuali carenze riscontrate nell’attività dell’Organismo e, in caso di grave inerzia o malfunzionamento dell’Organismo, può proporne lo scioglimento al Ministro dell’Economia e delle Finanze. 4. L’Organismo informa tempestivamente la Banca d’Italia degli atti e degli eventi di maggior rilievo relativi all’esercizio delle proprie funzioni e trasmette, entro il 31 gennaio di ogni anno, una relazione dettagliata sull’attività svolta nell’anno precedente e sul piano delle attività predisposto per l’anno in corso. Art. 128-quaterdecies Ristrutturazione dei crediti 1. Per l’attività di consulenza e gestione dei crediti a fini di ristrutturazione e recupero degli stessi, svolta successivamente alla costituzione dell’Organismo di cui all’articolo 128-undecies, le banche e gli intermediari finanziari possono avvalersi di agenti in attività finanziaria iscritti nell’elenco di cui all’articolo 128quater, comma 2.
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Le nuove regole per agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi introdotte dal d.lgs. n. 141/2010: primi appunti. Sommario: 1. Introduzione. – 2. Norme specifiche per gli agenti. – 2.1. Premessa. – 2.2. Gli agenti in attività finanziaria: le regole generali. – 2.3. I requisiti per l’iscrizione nell’elenco. – 3. Norme specifiche per i mediatori creditizi. – 3.1. Premessa. – 3.2. I mediatori creditizi: le regole generali. – 4. Norme comuni ad agenti e mediatori. – 4.1. Il regime delle incompatibilità. – 4.2. Segue. Dipendenti e collaboratori. – 4.3. Segue. L’estensione delle regole sulla trasparenza ed i poteri di controllo della Banca d’Italia. – 5. L’Organismo.
1. Introduzione. Gli agenti e i mediatori, cui è dedicato il nuovo Titolo, VI-bis, artt. 128-quater – 128-quaterdecies 1 t.u.b., com’è ben noto, non sono soggetti nuovi nel nostro ordinamento: gli agenti sono stati a suo tempo introdotti dalla legislazione antiriciclaggio, per la precisione dal d.lgs. 25 settembre 1999, n. 374, mentre i mediatori già li troviamo nella legge n. 108 del 7 marzo 1996 dettata a contrasto dell’usura. Ci sarebbe, quindi, da chiedersi, quali siano stati i motivi che hanno indotto il legislatore ad attendere così tanto a lungo per recuperare nella legge generale questi nuovi soggetti, premettendo però che già in un disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri del 6 luglio 2007 – contente “disposizioni in materia di credito al consumo e di vigilanza sulle assicurazioni private” – si ipotizzava una regolamentazione autonoma rispetto al testo unico bancario per i soggetti di cui si discute. Di primo acchito si può ipotizzare che, in via diretta o indiretta, questi
1 Il Titolo VI-bis del t.u.b. è stato aggiunto dall’art. 11 del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141 (in GU 4 settembre 2010, n. 212), successivamente modificato dall’art. 8 del d.lgs. 14 dicembre 2010, n. 218.
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motivi siano imputabili ad una forte opacità definitoria. Il testo unico non era apparso sin qui luogo idoneo alla loro regolamentazione in quanto tali soggetti non erano, e ad onor del vero non sono ancora oggi considerati, intermediari creditizi o finanziari; in questo senso sembra testimoniare il fatto che oggi la loro disciplina si colloca, come abbiamo detto, in un nuovo Titolo VI-bis t.u.b., che fa seguito al Titolo VI relativo alla trasparenza delle condizioni contrattuali e non invece, come forse ci si sarebbe potuti aspettare, ai Titoli V, V-bis e V-ter dedicati rispettivamente ai soggetti operanti nel settore finanziario, agli istituti di moneta elettronica e agli istituti di pagamento. A parte ciò, è anche opportuno, prima di entrare nel mezzo delle cose dando conto delle singole norme, notare qualche stranezza o perlomeno qualche dato che, a nostro avviso, può apparire incongruo. Riferiamoci in particolare agli agenti. L’art. 1, co. 1, lett. n), d.lgs. n. 374/1999 recita: “agenzia in attività finanziaria prevista dall’art. 106 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385......”. Orbene, andiamo a vedere l’art. 106 t.u.b. confrontando la norma vigente con quella vintage 1999, all’epoca da ultimo modificata dall’art. 20, co. 1, d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342 (peraltro influente rispetto alla nostra questione). Né nell’una né nell’altra v’è traccia alcuna di agenti o di agenzie; la differenza principale che sul fronte dei soggetti corre tra le due norme concerne gli istituti di pagamento che compaiono nella norma 1999 e che, in seguito, sono regolati, come abbiamo visto, al Titolo V-ter recentissimamente aggiunto (art. 33, d.lgs. n. 11/2010). Una minuzia? Forse si. Tuttavia da essa, se aderiamo ad una certa lettura “letterale”, ci si passi il bisticcio, della norma, si può evincere che il legislatore antiriclaggio del 1999, diciamo il legislatore d’emergenza, con il suo lapsus, in tutto e per tutto freudiano, pareva considerare gli agenti e le agenzie alla stregua degli altri soggetti operanti nel settore finanziario; soggetti le cui prime origini, non è forse superfluo rammentarlo risalgono, guarda caso, alla legislazione antiriclaggio (l. n. 157/1991). Ma a parte i lapsus e le minuzie il decreto in commento appare, almeno dal punto di vista che ci interessa, scritto coi piedi. Per rendersene conto basti pensare che il successivo art. 3 del decreto in questione prevede (o sembra prevedere) un elenco istituito presso l’UIC diverso da quello canonico dell’art. 106 del testo unico. Del resto le norme che seguono doppiano il testo unico, seppure a volte lo richiamino, su svariati fronti come, ad esempio, quello dei requisiti di professionalità ed onorabilità. Ma, forse, stiamo facendo una tempesta in un bicchier d’acqua; perché forse tutto ruota sulla omissione di una virgola. Proviamo a rileggere l’art. 1 cit. inserendo questa virgola: “agenzia in attività
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finanziaria, prevista dall’art. 106 […]”. Con questa seconda versione, che a noi sembra più corretta, le agenzie e gli agenti restano esterni rispetto allo svolgimento di attività finanziaria dei soggetti operanti nel settore: una cosa è l’attività di agenzia, altra sono le attività finanziarie elencate al primo comma dell’art. 106 (assunzione di partecipazioni, concessione di finanziamenti e intermediazione in cambi). Virgola o non virgola, ma soprattutto in un testo legislativo una virgola può non essere semplice “acqua da occhi”, rimane in ogni modo il fatto che la norma si riferisce alla attività finanziaria, concetto che è estraneo all’art. 106 del t.u.b. dove si parla, facendo uso del plurale, di “attività finanziarie”; resta dunque il fatto che una norma di legge, lo diciamo al costo di apparire iperpignoli, meriterebbe estensori più accorti e con altre capacità di scrittura. Rispetto ai mediatori, iscritti anch’essi in un apposito albo previsto dalla legge antiusura, basta dire che successivamente con l’art. 17, l. n. 262/2005, legge sul risparmio, ne veniva estesa l’operatività all’attività di mediazione e consulenza per recupero crediti; anche se, come vedremo, il nuovo testo in commento fa un passo indietro relegando l’attività dell’agente alla sola tipica attività di mediazione e consulenza per la concessione di finanziamenti (v. l’art. 128-quaterdecies, di cui ci occupiamo subito sotto). Si è accennato sopra ad una opacità definitoria rispetto ai soggetti di cui ci stiamo occupando. Proprio sul tema della definizione è intervenuto, però, ora l’art. 121, co. 1, lett. h) t.u.b. che così recita: il termine «“intermediario del credito” indica gli agenti in attività finanziaria, i mediatori creditizi o qualsiasi altro soggetto, diverso dal finanziatore, che nell’esercizio della propria attività commerciale o professionale svolge, a fronte di un compenso in danaro o di altro vantaggio economico oggetto di pattuizione e nel rispetto delle riserve di attività previste dal Titolo VI-bis, almeno una delle seguenti attività: 1) presentazione o proposta di contratti di credito ovvero altre attività preparatorie in vista della conclusione di tali contratti; 2) conclusione di contratti di credito per conto del finanziatore». È ovvio osservare che gli “intermediari del credito” (che non sono intermediari creditizi né finanziari) rappresentano una categoria per tanti aspetti aperta, in quanto comprensiva degli agenti in attività finanziaria, dei mediatori creditizi e di “qualsiasi altro soggetto (ovviamente) diverso dal finanziatore” che per motivi di attività commerciale o professionale svolga attività esterne e/o preparatorie (al contratto di finanziamento) o nell’interesse del finanziatore medesimo. Orbene, permetteteci un altro puntiglio: in un contesto così tanto delicato e fragile qual è quello dei rapporti bancari
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e finanziari (quale che sia il livello di bontà delle norme e del contesto economico, banca e finanza pattinano naturaliter su ghiaccio sottile) e che si snoda tutto sul filo della fiducia reciproca sarebbe certamente utile lasciare meno spazio alla fantasia e, dunque, all’incertezza. In buona sostanza, in questo campo più che altrove, è necessario tenere costantemente presente che le norme vengono scritte per regolare rapporti interprivati, sui quali in ogni caso finiscono per ricadere al di là della loro eventuale impostazione macroeconomica o, addirittura, d’ordine “pubblicistico”. Se, com’è da tutti riconosciuto, nei contratti bancari e finanziari il “cliente” rappresenta un “contraente debole”, il lessico – che è poi il primo specchio dei contenuti – deve essere il più chiaro e trasparente possibile. Soprattutto se, come nel caso di specie, siamo in una norma inserita nella disciplina del credito al consumo; e soprattutto in un periodo di crisi e caduta della fiducia nel quale di “casalinghe di Voghera” non in grado di distinguere le fini differenziazioni, sono piene le fosse. Gli artt. 128-undecies – 128-terdecies t.u.b. riguardano l’introduzione di un nuovo “Organismo” di diritto privato, assoggettato alla vigilanza della Banca d’Italia, competente in particolare nella gestione degli elenchi, nei quali debbono essere iscritti agenti e mediatori, e dotato di poteri sanzionatori. Infine l’art. 128-quaterdecies (peraltro già richiamato) determina, diciamo così, una riduzione dell’operatività dei mediatori, di fatto e di diritto slegati dall’intermediario (è superfluo dire che questa è una regola fondamentale della disciplina in consonanza con l’istituto della mediazione), ad oggettivo vantaggio del ruolo degli agenti. Fin qua le norme primarie. V’è da notare che, ed una volta tanto non spariamo sul pianista, il d.lgs. in commento, nella presente Appendice di aggiornamento, contestualmente determina le disposizioni di attuazione che si occupano di agenti, mediatori ed Organismo nel Capo II, artt. 1225. Va da sé che terremo conto anche di queste disposizioni, sebbene non in maniera dettagliata.
2. Norme specifiche per gli agenti. 2.1. Premessa. Diciamo subito che la materia non necessita di una premessa; alle questioni che ci sono parse di un certo rilievo generale abbiamo già accennato al paragrafo precedente. Basti dire che agli agenti sono de-
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dicati specificatamente gli artt. 128-quater e 128-quinquies, mentre gli artt. 128-octies ss. sono comuni agli agenti e ai mediatori 2. 2.2. Gli agenti in attivià finanziaria: le regole generali. Chi è un agente in attività finanziaria? Rectius: che cosa fa? Il primo comma dell’art. 128-quater risponde a questo interrogativo. L’attività dell’agente consiste nella promozione e conclusione di contratti di finanziamento, sotto qualsiasi forma, o di servizi di pagamento. Trattasi di un’attività esclusiva, dalla quale non è dato debordare, salvo more solito le attività connesse e strumentali 3. Alla perimetrazione esclusiva del campo delle possibili attività fa da pendant (nel secondo comma) la riserva di attività – esercitata professionalmente nei confronti del pubblico – a chi sia iscritto in un apposito elenco tenuto dall’Organismo già citato e che avremo modo di esaminare in seguito 4. È sufficiente per ora notare, esaminando il sesto comma
2 Circa il regime transitorio, l’art. 26 d.lgs. n. 141/2010 stabilisce che i soggetti già iscritti, alla data di entrata in vigore del presente decreto, nell’albo dei mediatori creditizi ai sensi dell’art. 16 della l. 7 marzo 1996, n. 108, o ai sensi dell’art. 17 della l. 28 dicembre 2005, n. 262, hanno sei mesi di tempo dalla costituzione dell’Organismo per chiedere l’iscrizione nei nuovi elenchi, previa presentazione della documentazione attestante il possesso dei requisiti richiesti per l’esercizio dell’attività ai sensi degli articoli 128-quater, comma 2 e 128-sexies, comma 2. I soggetti sopra indicati che hanno effettivamente svolto l’attività, per uno o più periodi di tempo complessivamente pari a tre anni nel quinquennio precedente la data di istanza di iscrizione nell’elenco, sono esonerati dal superamento della prova valutativa, a condizione che siano giudicati idonei sulla base di una valutazione dell’adeguatezza dell’esperienza professionale maturata. 3 In tema di attività, l’art. 12 d.lgs. n. 141/2010, che reca norme di attuazione dell’articolo 128-quater t.u.b., specifica che non costituisce esercizio di agenzia in attività finanziaria, né di mediazione creditizia, una serie di attività quali la promozione e il collocamento, da parte di fornitori di beni e servizi, di contratti di finanziamento unicamente per l’acquisto di propri beni e servizi sulla base di apposite convenzioni stipulate con le banche e gli intermediari finanziari (non essendo in tali contratti ricompresi quelli relativi al rilascio di carte revolving) e la promozione ed il collocamento, da parte di banche, intermediari finanziari, imprese di investimento, società di gestione del risparmio, SICAV, imprese assicurative, istituti di pagamento e Poste italiane s.p.a. di contratti relativi alla concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma. 4 L’art. 25 d.lgs. n. 141/2010 reca ulteriori integrazioni al testo unico bancario, inserendo, dopo l’articolo 140 t.u.b., un Capo IV-bis intitolato “Agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi”, contenente il nuovo articolo 140-bis, che sanziona l’esercizio abusivo nei confronti del pubblico dell’attività di agente in attività finanziaria ovvero di mediatore creditizio senza essere iscritto nell’apposito elenco. Ai sensi di tale disposizio-
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della norma, che gli agenti che prestino esclusivamente il servizio di pagamento vengono iscritti in una “sezione speciale” dell’elenco richiamato di cui sopra, qualora ricorrano le condizioni e i requisiti stabiliti con un regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze sentita la Banca d’Italia. Abbiamo detto or ora che l’agente può svolgere attività di promozione e conclusione di servizi di pagamento. Qualora tali servizi siano prestati per conto di istituti di moneta elettronica o istituti di pagamento comunitari “salta” la riserva di attività (co. 7). Potrebbe sorgere qualche dubbio di coerenza fra il dettato del primo comma e quello del settimo comma: quest’ultimo, come abbiamo visto, parla di prestazione di servizi di pagamento per conto…; mentre il primo comma parla di promozione e conclusione di contratti relativi alla prestazione di servizi di pagamento. Dunque la prestazione diretta (id est: l’offerta?), seppur “per conto di”, parrebbe esclusa dalle possibilità operative dell’agente in attività finanziaria qual è oggi. Di talché la fattispecie di cui al co. 7 sembrerebbe non riguardare gli agenti intesi in senso stretto e come definiti dalla norma precedente, bensì un’altra figura di agenzia sostanzialmente diversa. Tentiamo di sciogliere il nodo facendo riferimento al Titolo V-ter t.u.b. L’art. 114-septies (Albo degli istituti di pagamento) t.u.b. nella versione vigente prima del decreto in commento conteneva un co. 3 che così recitava: «Per la prestazione dei servizi di pagamento in Italia gli istituti di pagamento possono avvalersi (oltre agli altri soggetti autorizzati dall’art. 114-sexies: Banca centrale europea, banche centrali comunitarie, stato italiano, stati comunitari, ecc.) soltanto degli agenti in attività finanziaria, di cui al decreto legislativo 25 settembre 1999, n. 374». Questo terzo comma, che però si noti concerneva i servizi di pagamento in Italia, ora è stato abrogato 5; allora, il co. 7, di cui si è detto,
ne “1. Chiunque esercita professionalmente nei confronti del pubblico l’attività di agente in attività finanziaria senza essere iscritto nell’elenco di cui all’articolo 128-quater, comma 2, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa da euro 2.065 a euro 10.329. 2. Chiunque esercita professionalmente nei confronti del pubblico l’attività di mediatore creditizio senza essere iscritto nell’elenco di cui all’articolo 128-sexies, comma 2, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni e con la multa da euro 2.065 a euro 10.329”. 5 Comma abrogato dall’art. 28, co. 4, d.lgs. n. 141/2010. Con riferimento agli istituti di pagamento e agli istituti di moneta elettronica autorizzati in Italia l’abrogazione ha effetto a decorrere dalla data di entrata in vigore delle disposizioni di attuazione dell’art. 128quater, co. 6, t.u.b.
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assume valore di norma di recupero degli agenti già operanti sul fronte dei servizi di pagamento per conto di soggetti comunitari. Ciò giustifica la mancanza di riserva di attività. In conclusione, il co. 7 dell’art. 128-quater può essere forse interpretato nel senso che l’obbligo da parte dei soggetti indicati al co. 1, ed in particolare istituti di moneta elettronica ed istituti di pagamento, di avvalersi degli agenti in attività finanziaria iscritti nell’elenco di cui all’art. 128-undecies vale solo per gli Istituti autorizzati nel nostro paese qualora operino all’interno dei confini nazionali, ma non si applica né agli Istituti comunitari che operano in Italia in regime di libertà di stabilimento, né a quelli che vi operano in regime di libera prestazione di servizi. Si noti, infine, che tale previsione, anche se diretta ad evitare all’Italia una possibile procedura di infrazione 6, potrebbe tuttavia incentivare forme di arbitraggio regolamentare, volte ad aggirare le più rigide regole previste chez nous, avvantaggiando gli intermediari autorizzati in paesi comunitari che prevedono una legislazione più blanda in materia di agenzia. Il terzo comma della norma in commento prende in considerazione la fattispecie dell’offerta fuori sede materia, a suo tempo regolata dall’art. 30 t.u.f. (d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58), derogando a quanto disposto dal primo comma di quest’ultima norma viene contemplata anche per le banche e per Bancoposta la possibilità di avvalersi direttamente degli agenti in attività finanziarie per l’offerta dei rispettivi prodotti; attività che da titolo all’iscrizione nell’apposito elenco. È previsto, poi, che gli agenti in attività finanziaria, fatta eccezione per quelli che svolgono esclusivamente servizi di pagamento e perciò (come abbiamo detto sopra) sono iscritti nella sezione speciale dell’elenco, svolgano la loro attività su mandato di un solo intermediario o di una pluralità intermediari appartenenti al medesimo gruppo; tuttavia quando l’intermediario non offra l’intera gamma di prodotti o servizi, l’agente può assumere non più di «due ulteriori» mandati (co. 4). In tema di responsabilità, ai sensi del successivo co. 5, il mandante risponde
6 L’imposizione agli IP comunitari dell’obbligo di avvalersi di agenti in attività finanziaria allorché operano in Italia potrebbe risultare, alla luce della giurisprudenza comunitaria, in contrasto con i l’art. 49 del Trattato che richiede «la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essi si applichi indistintamente ai prestatori nazionali ed a quelli degli Stati membri, allorché essa sia tale da vietare o da ostacolare in altro modo le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro ove fornisce legittimamente servizi analoghi».
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solidalmente dei danni causati dall’agente, anche di quelli scaturenti da accertata responsabilità penale. Un’ulteriore novità destinata ad avere un impatto non trascurabile sull’articolazione della rete distributiva degli intermediari è rappresentata dalla possibilità di avvalersi degli agenti assicurativi e dei broker nelle attività di cui al primo comma 7. A tali soggetti non è richiesta l’iscrizione nell’elenco ma sono tenuti alla frequenza di un corso di aggiornamento professionale realizzato secondo standard determinati dall’Organismo. 2.3. I requisiti per l’iscrizione nell’elenco. L’art. 128-quinquies, co. 1, t.u.b. elenca i requisiti necessari per l’iscrizione nell’elenco degli agenti in attività finanziaria 8, tra i quali rileva, innanzitutto, per le persone fisiche la questione della cittadinanza variamente articolata e per i soggetti diversi, quella, anch’essa variamente articolata, relativa alla sede legale e amministrativa [lett. a) e b)]. Vengono poi richiamati: i requisiti di onorabilità e professionalità, compreso il superamento di un esame ad hoc [lett. c)]; la stipula di una polizza di assicurazione della responsabilità civile [lett. d)]; la conformità dell’oggetto sociale (ovviamente siamo dinanzi a soggetti diversi dalle persone fisiche) a quanto stabilito dalle norme nonché il rispetto di requisiti patrimoniali e di forma giuridica [lett. e)]. Il co. 2 subordina la permanenza nell’elenco sia all’effettivo esercizio dell’attività sia all’aggiornamento professionale richiesto.
3. Norme specifiche per i mediatori creditizi. 3.1. Premessa. Come già accennato nell’introduzione, prima della riforma in commento i confini dell’attività di mediazione creditizia ed i contorni della
7 Su tali figure professionali v. Artale, Commento sub art. 109, in Il codice delle assicurazioni private. Commentario al d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, a cura di Capriglione, Padova, 2007, p. 44; Cavaliere, Accesso all’attività di intermediazione, in Commentario al codice delle assicurazioni, a cura di Bin, Padova, 2006, p. 231. 8 Si vedano sul punto gli artt. 14, 15, 16 e 18 d.lgs. n. 141/2010 rispettivamente relativi alla professionalità, all’onorabilità, ai requisiti patrimoniale, con particolare riferimento alla polizza di assicurazione prevista, e a quelli tecnico-informatici.
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figura del mediatore creditizio trovavano il loro riferimento normativo nell’art. 16, l. 7 marzo 1996, n. 108 (recante Disposizioni in materia di usura) 9, nel d.P.R. 28 luglio 2000, n. 287, regolamento di attuazione dell’art. 16, cit., nel provvedimento Uic, 29 aprile 2005 e nell’art. 17, l. n. 262/2005. Sulla base di questa legislazione, mediatore creditizio era la persona fisica o giuridica cui era riservata l’attività di mediazione o consulenza nella concessione di finanziamenti da parte di banche o di intermediari finanziari (art. 16, co. 1, l. n. 108/1996), quando questa attività fosse svolta «professionalmente, anche se non a titolo esclusivo, ovvero abitualmente» [art. 2, co. 1, d.p.R. n. 287/200010]. Rispettate tali caratteristiche, il mediatore era tenuto ad iscriversi in un apposito albo facente capo all’Uic; il mediatore era altresì tenuto al rispetto dei requisiti di onorabilità. Anche i mediatori creditizi, al pari degli altri mediatori (v. art. 5, co. 1, l. 3 febbraio 1989, n. 39), godevano della esenzione dalla richiesta della licenza di cui all’art. 115 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, approvato nel lontano 1931. Va notato, in particolare che nella legislazione previgente i mediatori creditizi non soffrivano della esclusività dell’oggetto sociale 11 in quanto, ai sensi dell’art. 16, co. 5, della legge antiusura l’esercizio dell’attività di mediazione creditizia era compatibile con lo svolgimento di altre attività professionali 12 fatte salve, non c’è bisogno di specificare, le eventuali
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Per una disamina puntuale dell’articolo citato nel testo v. Mucciarelli, Commento sub art. 16 l. 7 marzo 1996, n. 108, in La legislazione penale, 1997, II, p. 588 cui adde Manzione., Usura e mediazione creditizia (Aspetti sostanziali e processuali), Milano, 1998, p. 119 ss. e Santoro, Introduzione, in Le società finanziarie, a cura di Santoro, Milano, 2000, p. 5. 10 Fa osservare giustamente Morera che con tale norma, senza dubbio “mal strutturata”, il legislatore non aveva alcuna intenzione di «operare un distinguo (…) tanto tra mediatori creditizi «professionali» e mediatori creditizi «abituali», quanto poi all’interno di quest’ultima «categoria» dovendosi allora concludere che – in ogni caso – a prescindere dalle altre attività esercitate, debbono ritenersi assoggettati alla disciplina de qua tutti coloro che svolgono attività di mediazione creditizia non saltuaria od occasionale» (Morera, Sulla figura del «mediatore creditizio», in Banca, borsa, tit. cred., 2003, I, p. 344). Sul punto v., anche, Capriglione., Evoluzione informatica e soggettività finanziaria nella definizione di alcune tipologie operative on line, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, p. 503. 11 V., in tal senso, Belli, Mazzini, Applicazione della legge antiusura: a che punto siamo, in Dir. banc., 1997, I, p. 383, spec. nt. 50. 12 L’unica decisione giurisprudenziale relativa alla incompatibilità fra l’attività di mediazione creditizia ed altra attività è T.A.R. Lazio (ord.), sez. III, 26 luglio 2001, n. 4724, in Foro it, Rep. 2002, voce Banca, credito e risparmio, n. 155 che si è espressa sulla
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riserve di attività. Essi dovevano svolgere la loro attività in piena autonomia ossia «senza essere legati ad alcuna delle parti da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza». Gli era fatto altresì divieto di «concludere contratti nonché effettuare, per conto di banche o di intermediari finanziari, l’erogazione di finanziamenti e ogni forma di pagamento o di incasso di denaro contante, di altri mezzi di pagamento o di altri titoli di credito» (art. 2, co. 2, d.P.R. n. 287/2000). In punto di disciplina particolare importanza rilevava l’estensione ai mediatori creditizi di tutta la normativa, in quanto compatibile, in tema di trasparenza bancaria, di credito al consumo e di antiriciclaggio (v. art. 16, co. 4, l. n. 108/1996) 13. Infine, la disciplina speciale in materia di mediazione creditizia aveva fatto venire meno per i soggetti svolgenti tale attività l’applicabilità della disciplina generale sulla mediazione dettata dalla l. n. 39/1989 e dal d.m. industria 21 dicembre 1990, n. 45214. Successivamente l’art. 17, l. n. 262/2005 ha inciso sull’ambito di operatività dei mediatori creditizi, fornendo loro la possibilità di realizzare anche la mediazione nella consulenza e nella gestione del recupero crediti purché questa attività fosse esercitata da banche e da intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 t.u.b. 15. 3.2. I mediatori creditizi: le regole generali. Ben diversa è ora la figura dei mediatori creditizi, di cui all’art. 128sexies t.u.b. della riforma in commento, sui quali viene per così dire a pesare l’introduzione degli agenti. Restando ferma la regola dell’indipen-
incompatibilità fra l’attività di agente per conto dei consorziati di un consorzio e l’esercizio dell’attività di mediazione creditizia. Per un commento a tale ordinanza v. Bani, La disciplina dell’attività di mediazione creditizia dettata dal d.P.R. 28 luglio 2000, n. 287: qual è la ratio in base alla quale il regolamento individua le categorie di soggetti a cui riservare l’attività?, in Mondo bancario, 2002, fasc. 2, p. 63 ss. 13 Osserva giustamente in merito Mucciarelli, Commento sub art. 16, cit., p. 590, che «ad essere richiamati sono (…) corpi normativi di cospicue proporzioni, nei quali sono presenti disposizioni fra loro eterogenee, il cui grado di affinità con la mediazione creditizia non sempre appare evidente: sicché l’impiego della clausola generica e contenutisticamente vuota “in quanto compatibili” non soccorre l’interprete molto più che una formula di stile». 14 Così Morera, Sulla figura, cit., p. 341 s.; contra Napolitano, Note minime in tema di mediazione creditizia, in Impresa, 2000, p. 1326. 15 Sul punto v. Corvese, Commento sub art. 17, in La tutela del risparmio, a cura di Nigro e Santoro, Torino, 2007, p. 309.
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denza (co. 4) 16, la norma in discorso, infatti, definisce quale “mediatore creditizio” il soggetto che, come attività esclusiva (co. 3) professionale e nei confronti del pubblico, svolge quella di mettere in relazione, anche attraverso la consulenza, banche o intermediari finanziari con la potenziale clientela per la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma (co. 1); mentre, come già anticipato, viene loro sottratta l’attività di consulenza e gestione del recupero crediti ora affidata agli agenti ai sensi del successivo art. 128-quaterdecies dedicato alla Ristrutturazione dei crediti. Come per gli agenti anche i mediatori devono essere iscritti in un apposito elenco tenuto dall’Organismo17 (co. 2). Quindi da un regime abbastanza elastico qual era quello previgente, si è passati ad un regime molto più determinato e rigido. Il tenore di questa norma e della successiva (art. 128-septies, Requisiti per l’iscrizione nell’elenco dei mediatori creditizi) appare intriso da un buon grado di diffidenza che, almeno a nostro avviso, può essere giusitificato. In questo senso si pensi, in primis, all’art. 13 delle disposizioni di attuazione ed, in particolare, al suo primo comma che di seguito riportiamo: «Ai mediatori creditizi è vietato concludere contratti, nonché effettuare, per conto di banche o di intermediari finanziari, l’erogazione di finanziamenti e ogni forma di pagamento o di incasso di denaro contante, di altri mezzi di pagamento o di titoli di credito. I mediatori creditizi possono raccogliere le richieste di finanziamento sottoscritte dai clienti, svolgere una prima istruttoria per conto dell’intermediario erogante e inoltrare tali richieste a quest’ultimo». Sulla linea di diffidenza si muove anche il citato art. 128-septies t.u.b. che, fra i requisiti cui è subordinata l’iscrizione nell’elenco richiede la forma societaria: «società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata o società cooperativa». La Relazione illustrativa precisa, fra l’altro, che tali requisiti sono “volti al fine di consentire l’esercizio dell’attività soltanto ai soggetti più affida-
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In argomento si v. anche l’art. 17, co. 3 e 4 delle disposizioni di attuazione: “3. Le società di mediazione creditizia non possono detenere, neppure indirettamente, partecipazioni in banche o intermediari finanziari. 4. Le banche e gli intermediari finanziari non possono detenere, nelle imprese o società che svolgono l’attività di mediazione creditizia, partecipazioni che rappresentano almeno il dieci per cento del capitale o che attribuiscono almeno il dieci per cento dei diritti di voto o che comunque consentono di esercitare un’influenza notevole”. 17 Per la sanzione in caso di esercizio abusivo dell’attività di mediazione creditizia v. supra nt. 3.
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bili, atteso che il mediatore creditizio opera in autonomia anche in assenza di legami contrattuali con intermediari vigilati che possano essere chiamati a rispondere del suo operato”.
4. Norme comuni ad agenti e mediatori. 4.1. Il regime delle incompatibilità. L’art. 128-octies t.u.b. vieta ora la contestuale iscrizione, fino ad oggi possibile, nell’elenco degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi (co. 1) 18. La regola dell’incompatibilità pesa altresì sui collaboratori, sia degli agenti che dei mediatori creditizi, che non possono assumere la figura dell’Arlecchino servitore di più padroni. Sempre in tema di incompatibilità è opportuno richiamare il primo e secondo comma del già citato art. 17 delle disposizioni di attuazione: «1. Fermo restando quanto previsto dall’articolo 128-octies del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il Ministro dell’Economia e delle Finanze può, con regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, individuare le ulteriori cause di incompatibilità con l’esercizio dell’attività di agente in attività finanziaria e di mediatore creditizio. 2. I dipendenti, gli agenti e i collaboratori di banche ed intermediari finanziari non possono svolgere attività di mediazione creditizia, né esercitare, neppure per interposta persona, attività di amministrazione, direzione o controllo nelle società di mediazione creditizia iscritte nell’elenco di cui all’articolo 128sexies, comma 2, ovvero, anche informalmente, attività di promozione di intermediari finanziari diversi da quello per il quale prestano la propria attività». 4.2. Segue. Dipendenti e collaboratori. L’art. 128-novies t.u.b. mira ad assicurare che i dipendenti e i collaboratori degli agenti e dei mediatori, che abbiano contatto con il pubblico: rispettino le norme loro applicabili, possiedano i prescritti requisiti
18 Sul punto v. De Carolis, La nuova disciplina dei mediatori creditizi e degli agenti in attività finanziaria nel disegno di legge di riforma delle disposizioni in materia di credito al consumo, in Mondo bancario, 2008, p. 16.
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di onorabilità e professionalità e curino l’aggiornamento professionale anche superando una prova valutativa determinata dall’Organismo (co. 1). Il successivo co. 2 riguarda gli agenti persone fisiche o costituiti in forma di società di persone che si debbono avvalere di dipendenti e collaboratori iscritti nell’elenco di cui al secondo comma dell’art. 128quater. Di converso i mediatori creditizi, che come sappiamo per i quali la forma societaria è forma necessaria, e gli agenti costituiti sub specie di società di capitali o cooperative debbono trasmettere all’Organismo, più volte evocato e di cui diremo fra breve, l’elenco dei dipendenti e dei collaboratori (co. 3). Infine il quarto comma prevede che sia gli agenti sia i mediatori rispondono in solido dei danni causati nell’esercizio dell’attività dai dipendenti e collaboratori di cui si essi si avvalgono, anche in relazione a condotte sanzionate penalmente. 4.3. Segue. L’estensione delle regole sulla trasparenza ed i poteri di controllo della Banca d’Italia. L’art. 128-decies t.u.b. dispone che agli agenti e ai mediatori si applicano, in quanto compatibili, le norme del Titolo VI, in materia di trasparenza delle operazioni e di poteri della Banca d’Italia (co. 1). La novità riguarda gli agenti che da questo punto di vista vengono equiparati ai mediatori, già sottoposti alle regole di trasparenza bancaria e finanziaria dalla legge antiusura. Il secondo comma della norma dota la Banca d’Italia di poteri e compiti di vigilanza informativa e di vigilanza ispettiva.
5. L’Organismo. Sia detto per inciso: “Organismo” è un termine che, in epoca recente, sembra aver acquistato molto credito nel linguaggio normativo, quasi ci sia una qualche ritrosia a far uso di termini un po’ meno generici, come “ente” o “commissione” o “autorità”. È pure vero che di autorità nel nostro ordinamento ce ne sono milioni di milioni ma, se si continua di questo passo, se ne avrà una proliferazione, benché mascherata sotto diversa denominazione. Ciò posto, e a parte ciò, si deve rilevare che, come recita l’art. 128undecies t.u.b., l’Organismo ha «personalità giuridica di diritto privato ed [è] ordinato in forma di associazione».
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La natura giuridica, pubblica o privata di un qualsiasi “organismo” del genere di quello di cui si tratta è sempre difficile da descrivere ed incasellare, più delle nuvole in movimento. Non è detto che quello che pensa e scrive il legislatore sia verità rivelata. Questa però, come ben si comprende, è una questione generale, certo importante, ma che va al di là di queste brevi note di commento. Del resto il legislatore primario è abbastanza reticente, si parla certo di autonomia organizzativa, statutaria e finanziaria ma, nel contempo si parla di poteri sanzionatori, necessari allo svolgimento dei compiti che la legge attribuisce all’organismo, compiti che si possono riassumere nella gestione degli elenchi degli agenti e dei mediatori (su questa materia v. artt. 21-24 delle disposizioni di attuazione) Come abbiamo detto, l’Organismo è un’associazione; i suoi componenti sono nominati, su proposta della Banca d’Italia, con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze. Insomma, tratti di tipo pubblicistico si sposano a tratti, certo prevalenti, di tipo privatistico; nulla di nuovo sotto il sole. Per saperne un po’ di più è necessario leggere gli artt. 19 e 20 delle disposizioni di attuazione, che parlano, rispettivamente, di composizione dell’Organismo e di contenuto della sua autonomia finanziaria. Per quanto concerne il primo punto, l’Organismo è composto, da un rappresentante del Ministero dell’Economia e delle Finanze e da tre a cinque membri, tra i quali è eletto il Presidente, scelti, secondo procedure che saranno definite dallo statuto, all’interno delle categorie degli agenti, dei mediatori, delle banche, degli intermediari finanziari, degli istituti di pagamento e degli istituti di moneta elettronica. La scelta ovviamente dovrà ricadere, se non fosse che fra il dire e il fare talvolta c’è di mezzo il mare, «tra persone dotate di comprovata competenza in materie finanziarie, economiche e giuridiche nonché di caratteristiche di indipendenza tale da assicurarne l’autonomia di giudizio». Lo statuto e i regolamenti interni (il tutto è soggetto ad approvazione ministeriale sentita la Banca d’Italia, co. 4), siamo sempre nell’art. 19, co. 3, devono, fra l’altro, contenere previsioni tese ad assicurare efficacia all’operatività dell’Organismo, nonché adottare meccanismi di controllo interno, un sistema di pubblicità, procedure funzionali alla «preventiva verifica di legittimità della propria attività», procedure a garanzia della riservatezza dell’informazione e procedure che consentano di fornire tempestivamente alla Banca d’Italia le informazioni richieste. Il successivo art. 20 disciplina il contenuto dell’autonomia finanziaria dell’Organismo, prevedendo che esso determina e riscuote i contributi
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e le altre somme dovute dagli iscritti e dai richiedenti l’iscrizione negli elenchi degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi, nella misura necessaria per garantire lo svolgimento delle proprie attività. Il provvedimento con cui l’Organismo ingiunge il pagamento dei contributi dovuti ha efficacia di titolo esecutivo (co. 3). L’art. 128-duodecies t.u.b. reca disposizioni procedurali per il caso del mancato pagamento dei contributi o altre somme dovute ai fini dell’iscrizione negli elenchi di cui agli articoli 128-quater e 128-quinquies, per l’inosservanza degli obblighi di aggiornamento professionale, la violazione di norme legislative o amministrative che regolano l’attività di agenzia in attività finanziaria o di mediazione creditizia, la mancata comunicazione o trasmissione di informazioni o documenti richiesti, stabilendosi l’applicazione nei confronti degli iscritti delle sanzioni del richiamo scritto, della sospensione dall’esercizio dell’attività per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a un anno, della cancellazione dagli elenchi. L’agente in attività finanziaria e il mediatore creditizio cancellati possono richiedere una nuova iscrizione purché siano decorsi cinque anni dalla pubblicazione della cancellazione. Infine, l’art. 128-terdecies t.u.b. prevede e disciplina la vigilanza della Banca d’Italia sull’Organismo, secondo modalità, dalla stessa stabilite, improntate a criteri di proporzionalità ed economicità dell’azione di controllo e con la finalità di verificare l’adeguatezza delle procedure interne adottate dall’Organismo per lo svolgimento dei compiti a questo affidati. A tali fini, la Banca d’Italia può accedere al sistema informativo che gestisce gli elenchi in forma elettronica, richiedere all’Organismo la comunicazione periodica di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti con le modalità e nei termini dalla stessa stabiliti, effettuare ispezioni nonché richiedere l’esibizione dei documenti e il compimento degli atti ritenuti necessari presso l’Organismo, convocare i componenti dell’Organismo. La Banca d’Italia informa il Ministro dell’Economia e delle Finanze delle eventuali carenze riscontrate nell’attività dell’Organismo e, in caso di grave inerzia o malfunzionamento dell’Organismo, può proporne lo scioglimento al Ministro dell’Economia e delle Finanze.
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NORME REDAZIONALI
I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)
II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …
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Norme redazionali
4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).
III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.
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Norme redazionali
legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 385) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)
l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.
2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.
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Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm. Rivista del notariato Riv. not. Rivista della cooperazione Riv. coop. Rivista di diritto civile Riv. dir. civ. Rivista del diritto commerciale Riv. dir. comm. Rivista di diritto internazionale Riv. dir. internaz. Rivista di diritto privato Riv. dir. priv. Rivista di diritto processuale Riv. dir. proc. Rivista di diritto pubblico Riv. dir. pubbl. Rivista italiana del leasing Riv. it. leasing Rivista delle società Riv. soc. Rivista giuridica sarda Riv. giur. sarda Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Riv. trim. dir. proc. civ. Vita notarile Vita not.
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Norme redazionali
4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesinger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, Torino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume
IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze e, successivamente, gli estratti.
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