ISSN 1722-8360
di particolare interesse in questo fascicolo
Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009
Diritto della banca e del mercato finanziario
1/2013
Saggi
• La remunerazione degli esponenti bancari • Gli intermediari finanziari non bancari • Sanzioni Consob e giurisdizione • La vicenda Cassa Depositi e prestiti
gennaio-marzo
1/2013 anno xxvii
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SAGGI
La remunerazione degli amministratori e degli alti dirigenti delle banche*1
I - Il problema. 1. «Un’assunzione di rischi eccessiva ed imprudente nel settore bancario ha portato al fallimento di singoli istituti finanziari e causato problemi sistemici negli Stati membri [dell’Unione europea] e nel mondo. Le cause di tale assunzione dei rischi sono molte e complesse, ma vi è accordo tra le autorità di vigilanza e gli organismi regolatori, tra cui il G20 e il comitato delle autorità europee di vigilanza bancaria (CEBS) [ora EBA], nel ritenere che l’inadeguatezza dei regimi remunerativi di alcuni istituti finanziari vi abbia contribuito». Non sono parole mie. Sono le parole con le quali esordisce la Direttiva 24 novembre 2010, n. 76, del Parlamento Europeo e del Consiglio: essa modifica direttive del 2006 per quanto riguarda molti aspetti, ma il suo oggetto preminente, come risulta dall’esordio, parrebbe essere costituito appunto dal tema delle politiche remunerative. Sono parole che mettono a fuoco il problema che – ormai da tempo – affligge (forse più correttamente: sembra affliggere) legislatori e regolatori di tutto il mondo: il problema di mettere a punto discipline le quali – uso sempre le parole della Direttiva – con riguardo alle «categorie di persone la cui attività professionale ha un impatto significativo sul profilo di rischio» degli enti creditizi, favoriscano «politiche e prassi remunerative in linea con una gestione efficace dei rischi» ovvero contrastino
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Relazione al Convegno di Catania del 21 settembre 2012 su «La governance delle società bancarie», dedicato alla memoria di Niccolò Salanitro
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«gli effetti potenzialmente negativi di regimi remunerativi mal concepiti sulla gestione sana dei rischi e sul controllo dell’assunzione dei rischi da parte di singole persone». La mia relazione è dedicata appunto all’esame del modo in cui, a livello comunitario ed a livello nazionale, si è finora ritenuto di dare soluzione a quel problema. 2. Prima però di procedere a tale esame vorrei indulgere in una piccola divagazione. In un mondo non dico ideale ma semplicemente “normale”, in un mondo governato da principi non dico di rigorosa razionalità ma almeno di ragionevolezza un tema come quello che mi è stato affidato dovrebbe considerarsi meritevole, in un convegno dedicato alla governance delle banche, al più di qualche rapidissimo accenno, data la sua sicura marginalità nel sistema: di un siffatto tema infatti, in un mondo ripeto semplicemente normale, l’ordinamento non avrebbe ragione di occuparsi, se non sotto il profilo, da un lato e per quanto riguarda gli amministratori, dell’individuazione dell’organo competente a fissare i compensi; e, dall’altro e per quanto riguarda i dirigenti, sotto i profili giuslavoristici (che è poi – ricordo - l’impostazione cui tuttora si ispira la disciplina contenuta nel nostro codice civile). Tanto più considerando che, in un simile mondo, alle banche – che non sono imprese come tutte le altre, visto che il costo della loro crisi, come l’esperienza che stiamo vivendo ogni giorno conferma, ricade sull’intera collettività – dovrebbe essere inibita in partenza l’adozione di moduli operativi che possano essere, in sé, fonte di rischi. Quello che noi viviamo, evidentemente, non è un mondo normale. Il tema delle remunerazioni dei managers delle banche, ma poi anche delle società quotate, e della loro «inadeguatezza», come pudicamente si esprime la Direttiva, ha sollecitato – almeno dalla fine del secolo scorso – notevole attenzione: ed è divenuto addirittura “scottante” con la crisi finanziaria scoppiata nel 2007. Da un lato, c’è stato addirittura chi ha rinvenuto proprio in quella «inadeguatezza» la causa prima di quella crisi (fra gli altri, politici come Gordon Brown; Obama; ecc.). Da altro lato, si sono moltiplicate le iniziative di regolamentazione della materia, a livello nazionale, sovranazionale e internazionale. Da altro lato ancora, le cronache giornalistiche hanno periodicamente rinfocolato la sensibilità sociale verso esempi eclatanti di «inadeguatezza» delle remunerazioni di amministratori e dirigenti, da ultimo facendo registrare episodi che hanno visto autentiche “rivolte” degli azionisti (di banche, ma anche di società quotate non bancarie) contro certe politiche di remunerazione adottate dalle loro società.
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Vi è da chiedersi come tutto questo sia potuto accadere. Non è possibile, ovviamente, dare una risposta sicura. Certamente vi è, alla base, l’avidità dei managers: ma questa, da sola, non basterebbe. Il fatto è che a questa avidità ha corrisposto l’inerzia e, diciamolo francamente, l’insipienza di legislatori e di regolatori. Ho già detto, altra volta, che la crisi finanziaria ha evidenziato una serie di fallimenti, dei mercati come dei loro protagonisti: i legislatori, i regolatori, i regolati. Uno dei campi in cui questo fallimento si è manifestato nella forma più evidente è quello che qui interessa: si è ritenuto, a tutti i livelli, che non ci fosse spazio né necessità di interventi regolatori e che certi regimi di remunerazione fossero indispensabili vuoi per assicurare il buon funzionamento del “mercato delle teste” vuoi per garantire il c.d. allineamento degli interessi dei managers a quelli della società (o meglio dei suoi azionisti). I guasti che sono stati prodotti da questa impostazione – frutto a ben vedere della stessa “cultura” che ha impedito, per esempio, un’adeguata disciplina dei derivati e del loro uso da parte delle banche - sono sotto gli occhi di tutti. C’è da aggiungere che la importanza, in sé certamente eccessiva, che il tema ha assunto nel dibattito sulla crisi finanziaria e sugli strumenti di soluzione ed in quello sulla governance delle banche appare – almeno agli spiriti maliziosi – dovuta in fondo all’intento di “distogliere” l’attenzione dal vero problema che la crisi ha posto. La crisi è dipesa dal fatto che le banche, le loro strutture di vertice si sono mostrate incapaci di valutare correttamente i rischi e dal fatto che i sistemi interni di controllo non hanno funzionato: il vero problema, allora, è quello di apprestare strumenti idonei ad assicurare che alle banche in quanto tali sia impedito, sempre e comunque, di assumere rischi eccessivi, indipendentemente dalle propensioni, aspirazioni o vantaggi dei loro amministratori e managers.
II - Le soluzioni del problema. 3. Ho detto all’inizio che, scatenatasi la crisi finanziaria, si sono moltiplicate le iniziative di regolamentazione della materia, a tutti i livelli. A livello internazionale, merita di essere ricordato l’intervento del Financial Stability Forum, poi Financial Stability Board, che, nell’aprile 2009, ha fissato una serie di “principi” o standards, ulteriormente sviluppati nel settembre 2009. Si è trattato di un intervento importante, perché – in quanto frutto di una concertazione appunto internazionale – ha fortemente influenzato, nel metodo e nel merito, le iniziative successive.
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A livello comunitario, vi è stato dapprima l’intervento della Commissione con la raccomandazione del 30 aprile 2009, n. 384; si è avuta successivamente l’adozione da parte del Parlamento europeo di una Risoluzione, del 7 luglio 2010, dedicata fra l’altro alle politiche retributive nel settore dei servizi finanziari, ed infine è intervenuta la emanazione della già ricordata Direttiva n. 76 del 2010. A tale Direttiva è stata data attuazione in Italia con le disposizioni della Banca d’Italia del 30 marzo 2011. A proposito di tali disposizioni va ricordato che (lodevolmente) le autorità creditizie italiane erano intervenute in materia nell’ottica della vigilanza prudenziale. Il Ministro dell’economia, con D.M. 5 agosto 2004, aveva disposto l’adozione, da parte delle banche, di assetti organizzativi in relazione ai quali – cito testualmente – «i meccanismi di remunerazione e incentivazione degli amministratori e del management non incoraggino scelte gestionali incoerenti con gli interessi aziendali e con la strategia di lungo periodo della banca». In attuazione di tale decreto, la Banca d’Italia aveva emanato, nel 2008 e poi nel 2009, apposite disposizioni, che prevedevano, fra l’altro, l’approvazione da parte dell’assemblea delle politiche di remunerazione e dei piani di stock options; la costituzione, all’interno dell’organo amministrativo, di un comitato retribuzioni, con compiti consultivi e talvolta di proposta; la necessità di equo bilanciamento fra parte fissa e parte variabile della remunerazione e l’allineamento della parte variabile della remunerazione ai risultati di lungo periodo; ecc. Per completare il quadro è il caso di aggiungere che la Commissione europea – la quale fin dal 2003 aveva fatto oggetto di attenzione i regimi remunerativi degli amministratori e dei dirigenti delle società quotate - è intervenuta, da ultimo, su tali regimi con la raccomandazione 30 aprile 2009, n. 385; che tale raccomandazione è stata attuata in Italia con il d.lgs. n. 259 del 2010, che ha introdotto nel TUF l’art. 123ter concernente la «relazione sulla remunerazione»; e che la disciplina attuale di quei regimi – fornita anche da un codice di autoregolamentazione – segue criteri largamente analoghi a quelli che più avanti si vedranno in dettaglio. 4. Nella materia che qui interessa, le autorità comunitarie deliberatamente si sono mosse secondo linee sintoniche con quelle che si erano andate fissando a livello internazionale, in particolare con quelle fissate dal FSB. Ciò risulta espressamente del resto dal “considerando” E della ricordata Risoluzione del Parlamento europeo del 7 luglio 2010, dove si precisa essere «essenziale adottare una strategia coordinata a livello internazionale, non solo per garantire condizioni omogenee, ma anche
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per garantire la competitività dell’Europa su scala mondiale e promuovere una concorrenza sostenibile ed equa tra i mercati». Così, fra le condizioni di esercizio dell’attività creditizia, la Direttiva espressamente colloca l’esistenza di «politiche e prassi remunerative, che riflettano e promuovano una sana ed efficace gestione del rischio» (art. 22, par. 1); e, nell’ambito dei “criteri tecnici relativi all’organizzazione e al trattamento del rischio” (all. V), delinea analiticamente i principi a cui in materia gli enti creditizi devono attenersi. Fondamentali parrebbero essere i principi seguenti: - la politica remunerativa deve promuovere una gestione sana ed efficace del rischio e non incoraggiare un’assunzione di rischio superiore al livello di rischio tollerato dall’ente creditizio (lett. a) ed essere in linea con la strategia aziendale, gli obiettivi, i valori e gli interessi a lungo termine dell’ente creditizio (lett. b); - quando la remunerazione è legata ai risultati, la valutazione dei medesimi deve essere effettuata in un quadro pluriennale, in modo da assicurare che il relativo processo sia basato su di una prospettiva di lungo termine (lett. h); - le componenti fisse e variabili della remunerazione complessiva devono essere adeguatamente bilanciate e la componente fissa rappresentare una parte sufficientemente alta della remunerazione complessiva per consentire l’attuazione di una politica flessibile in materia di componenti variabili, tra cui anche la possibilità di non corrispondere affatto la componente variabile (lett. l); - una parte sostanziale della componente variabile, ma in ogni caso almeno del 50%, deve essere composta da azioni o strumenti legati alle azioni del medesimo ente creditizio ovvero altri strumenti che riflettano in modo adeguato la qualità del credito dell’ente (lett. o); - una parte sostanziale, in ogni caso almeno del 40% della componente variabile, è differita su un periodo non inferiore a tre-cinque anni (lett. p); - la remunerazione variabile, compresa la parte differita, da un lato non deve essere tale da limitare la capacità dell’ente creditizio di rafforzare la propria base di capitale (lett. i) e, dall’altro, è corrisposta o attribuita solo se è sostenibile rispetto alla situazione finanziaria dell’ente creditizio nel suo insieme e giustificata alla luce dei risultati e, specificamente, la componente variabile deve essere ridotta in misura considerevole qualora i risultati dell’ente siano inferiori alle attese o negativi, anche con meccanismi di “malus” o di restituzione (lett. q). Sempre nella nuova sezione dell’allegato V si stabilisce che gli enti creditizi significativi per dimensione, organizzazione interna e natura,
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portata e complessità delle attività debbono istituire un comitato per le remunerazioni, composto da membri dell’organo di direzione che non svolgano alcuna funzione esecutiva, che deve provvedere, esprimendo un giudizio competente ed indipendente, alla preparazione delle decisioni in materia di remunerazione da adottarsi da parte del consiglio di amministrazione. Nella Direttiva, infine, si prevede: - che le autorità competenti devono avere il potere di imporre sanzioni finanziarie o non finanziarie o altre misure, per la violazione dell’obbligo di dotarsi di politiche remunerative coerenti con una gestione dei rischi sana ed efficace (considerando 15; art. 1, punto 4); - che le autorità competenti devono avere il potere di imporre misure qualitative e quantitative in relazione alle politiche remunerative, incluse, fra le prime, l’obbligo di ridurre i rischi anche apportando modifiche alle loro strutture remunerative o congelando gli elementi variabili della remunerazione (considerando 20); - che gli enti creditizi debbano mettere a disposizione di tutti gli interessati (azionisti, dipendenti e pubblico in generale) informazioni dettagliate sulle loro politiche remunerative e sulle loro prassi (considerando 21; all. XII come modificato dall’all. I). 5. Le disposizioni della Banca d’Italia seguono abbastanza fedelmente le indicazioni della Direttiva, riprendendo anche le linee (del resto coerenti) delle disposizioni del 2008-2009. Le novità più salienti (rispetto alle disposizioni precedenti) sono: la distinzione delle banche, in base al principio di proporzionalità, in tre gruppi, solo al primo dei quali la nuova disciplina si applica integralmente; la analitica regolamentazione della parte variabile della remunerazione; particolari previsioni in tema di politica pensionistica e di fine rapporto.
III – Notazioni sulla nuova disciplina. 6. Ad una considerazione complessiva la disciplina che si è fin qui delineata – una disciplina articolata, composta com’è sia da fonti primarie (Direttiva) che da fonti secondarie (istruzioni) sia da fonti di soft law (principi del FSB; linee guida del CESB-EBA) – si prospetta come particolarmente ricca di profili critici, tanto da far sorgere seri dubbi sulla sua effettiva idoneità a fornire efficienti rimedi alle “inadeguatezze” dei regimi remunerativi degli amministratori e managers delle banche.
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A. Si impongono due premesse. La prima. Il problema dei possibili effetti perversi dei regimi di remunerazione dei managers si è posto inizialmente con riferimento alle società con azioni quotate e come problema squisitamente di governance, da risolvere quindi in quell’ottica. Solo in un secondo momento ci si è resi conto che, con riguardo alle banche, quel problema andava e va affrontato anche (se non esclusivamente) in un’ottica di vigilanza prudenziale. Questo significa che, restando identici i termini del problema sia con riferimento alle società quotate sia con riferimento alle banche, non è affatto detto che anche le soluzioni debbano seguire linee identiche. Gli interessi coinvolti sono infatti diversi nei due casi: nel caso delle società quotate, entrano in giuoco gli interessi della società, dei soci e degli altri stakeholders; nel caso delle banche, entrano in giuoco anche gli interessi pubblici implicati dallo svolgimento dell’attività, appunto, bancaria, fra cui preminente quello alla stabilità dell’ente creditizio. La seconda. I provvedimenti comunitari e specificamente la Direttiva continuano a collocarsi – come del resto i principi del FSB - nella logica tradizionale che vede nei meccanismi remunerativi incentivanti un “correttivo” indispensabile per risolvere i problemi di agency: un “correttivo” di cui si tratterebbe soltanto di governare meglio la strutturazione ed il funzionamento. È una logica, però, che avrebbe meritato e meriterebbe di essere approfonditamente riconsiderata: se la soluzione ad un problema costituisce a sua volta un problema, si potrebbe forse arrivare a dire che non si tratta di una soluzione appropriata e che quindi è il caso di seguire altre strade. È certamente vero che il sistema delle remunerazioni degli amministratori (così come, del resto, il sistema delle responsabilità dei medesimi) non deve essere tale da indurre gli amministratori – gli amministratori in genere, ma poi, specificamente, gli amministratori delle banche - ad assumere atteggiamenti eccessivamente “conservativi”. Ma non si vede perché un sistema di remunerazioni basato esclusivamente su compensi fissi (adeguatamente alti) debba ritenersi di per sè tale da deprimere lo spirito di iniziativa degli amministratori. B. Fatte queste premesse – di cui si vedranno più avanti le ricadute – suscita qualche perplessità, innanzi tutto, la scelta di adottare, come strumento di disciplina in materia, standards di comportamento e di controllo anziché regole prescrittive specifiche. È una scelta che risale ai primi interventi del FSB e che da lì ha ispirato il legislatore comunitario: una scelta che presenta il vantaggio di disegnare una regolamentazione elastica adattabile alle situazioni concrete; ma che, lasciando ampi spazi alla discrezionalità e degli operatori e delle autorità di vigilanza, finisce
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con il dar vita ad una “rete” di protezione (contro gli “eccessi”) a maglie troppo larghe. C. Connessa in qualche modo con la scelta di cui si è appena detto è un’altra scelta che caratterizza la disciplina che stiamo considerando: quella di non prevedere limiti quantitativi ai compensi. È certamente vero che – come era stato sottolineato fin dal rapporto de Larosière – la “inadeguatezza” dei regimi di remunerazione nel settore finanziario è derivata e deriva soprattutto dalla struttura di tali regimi, dalla adozione di meccanismi incentivanti “inappropriati”; ma è anche vero che l’entità in assoluto delle remunerazioni può, in sé, determinare problemi anche gravi. Si tratta di problemi che lo stesso legislatore comunitario e la stessa autorità di vigilanza italiana mostrano di avere ben presenti, visto che l’uno (nel punto 11, lett. i, dell’all.) puntualizza che «la componente variabile complessiva della remunerazione non limita la capacità dell’ente creditizio di rafforzare la propria base di capitale» e l’altra (p. 13) precisa che «l’ammontare complessivo della componente variabile … deve essere sostenibile rispetto alla situazione finanziaria della banca e non deve limitare la sua capacità di mantenere o raggiungere un livello di patrimonializzazione adeguata ai rischi assunti». Si tende talvolta a ritenere che l’idea di limiti quantitativi debba essere a priori scartata in base al principio secondo il quale la determinazione dell’entità, in assoluto, dei compensi di amministratori e managers deve essere lasciata all’autonomia delle parti (società, da un lato, ed amministratori e managers, dall’altro). È evidente però che questa giustificazione, se ha una sua plausibilità nell’ottica di un problema di governance e quindi può risultare condivisibile con riferimento alle società con azioni quotate, nessuna plausibilità ha nell’ottica di un problema di vigilanza prudenziale e quindi non può essere utilizzata. È il caso di ricordare, da un lato, che la Section 956 del Dodd-Frank Act stabilisce esplicitamente la proibizione di trattamenti retributivi per gli amministatori e dipendenti di istituzioni finanziarie che contemplino compensi eccessivi. E, dall’altro, che quando si parla di limiti quantitativi non si intende far riferimento necessariamente a termini in cifre assolute: si può pensare a parametri riferiti, per esempio, al patrimonio di vigilanza della banca o, in un’ottica diversa, alle retribuzioni minime del personale (nella Risoluzione 7 luglio 2010 il Parlamento europeo ha espressamente affermato, al punto 18, di essere «del parere, non solo per motivi etici ma anche nell’interesse della giustizia sociale e della sostenibilità economica, che la differenza tra la remunerazione massima e quella minima all’interno di un’impresa o società debba essere ragionevole»).
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7. Si è fin qui parlato di profili critici che riguardano congiuntamente la normativa comunitaria e quella nazionale; altri profili critici riguardano solo quest’ultima. A. A livello nazionale, solleva qualche perplessità la scelta di dare attuazione alla Direttiva in via amministrativa anziché legislativa. La collocazione delle regole o degli standards fondamentali nella normativa primaria avrebbe dato ai medesimi maggiore forza; e, d’altra parte, tale scelta ha precluso la possibilità di introdurre apposite sanzioni per la violazione delle regole in materia. B. Un punto delicato, nella materia che qui interessa, è quello concernente la valutazione ex ante e la verifica ex post della adeguatezza dei sistemi di remunerazione ed incentivazione di quello che nelle disposizioni della Banca d’Italia viene definito il “personale più rilevante” e che comprende gli amministratori con incarichi esecutivi e gli alti dirigenti. Nelle disposizioni della Banca d’Italia il sistema è così disegnato: - secondo il punto 4.2 il c.d. “organo con funzione di supervisione strategica” (cioè, nel sistema tradizionale ed in quello monistico, il consiglio di amministrazione; nel sistema dualistico, eventualmente il consiglio di sorveglianza) in generale «adotta e riesamina.. la politica di remunerazione», nonché, in particolare, «definisce i sistemi di remunerazione e incentivazione delle categorie», appunto, del c.d. “personale più rilevante”; - secondo il punto 4.1. delle disposizioni, «Salvo quanto previsto per il sistema dualistico, lo statuto prevede che l’assemblea ordinaria, oltre a stabilire i compensi per gli organi dalla stessa nominati, approva: (i) le politiche di remunerazione a favore degli organi con funzione di supervisione, gestione, controllo e del personale; (ii) i piani basati su strumenti finanziari (es. stock options)»; - secondo lo stesso punto, all’assemblea deve essere inoltre assicurata un’informativa almeno annuale sulle modalità con cui sono state attuate le politiche di remunerazione (informativa ex post); - laddove sussista il Comitato remunerazioni – che è obbligatorio nelle banche di maggiori dimensioni e comunque nelle banche quotate; che deve essere costituito all’interno dell’organo con funzione di supervisione strategica; che deve essere composto da esponenti non esecutivi, la maggioranza dei quali indipendenti – è a questo che spetta il potere di proposta in materia di compensi degli esponenti aziendali e dei responsabili delle funzioni di controllo interno e compiti consultivi in materia di determinazione dei criteri per la remunerazione del restante personale.
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Questo assetto – che, per quanto riguarda gli amministratori con incarichi esecutivi, è da ritenere integri e completi il sistema dell’art. 2389 cod. civ., nel senso che viene attribuito sempre all’assemblea l’approvazione delle remunerazioni spettanti agli amministratori investiti di particolari cariche – risulta in sé abbastanza equilibrato, essendo idoneo ad evitare ogni problema di conflitto di interessi e ponendosi perfettamente in linea con la tendenza a valorizzare, in materia, i poteri dell’assemblea: risulta coerente insomma con canoni di buona governance. Tutto, però, resta affidato a scelte, valutazioni, controlli e verifiche interni. Manca qualsiasi previsione di specifici controlli da parte dell’autorità di vigilanza in funzione della verifica della sostenibilità, in concreto, dei sistemi di remunerazione e soprattutto di incentivazione; così come manca qualsiasi indicazione in ordine alla possibilità per la medesima autorità di imporre – secondo quanto contempla il considerando n. 20 della Direttiva – modifiche alle strutture remunerative o il congelamento degli elementi variabili della remunerazione, quando incompatibili con una gestione dei rischi efficace. Ricordo, a questo riguardo, che la Risoluzione 7 luglio 2010 del Parlamento europeo espressamente rilevava la necessità che le procedure in materia siano sottoposte a «controlli scrupolosi e dettagliati» da parte, appunto, dell’autorità di vigilanza (n. 12); e che la medesima autorità «debba avere il diritto di limitare la percentuale totale della remunerazione variabile al fine di rafforzare il capitale proprio». C. La Direttiva pone una particolare enfasi sul profilo delle sanzioni, pecuniarie e non, come strumento fondamentale di enforcement della regolamentazione della materia (v. considerando 15; art. 1, punto 4). Si è già detto che la scelta di dare attuazione alla normativa comunitaria in via amministrativa anziché legislativa ha precluso la possibilità di prevedere sanzioni pecuniarie specifiche per la violazione dell’obbligo di dotarsi di politiche remunerative coerenti con una gestione dei rischi sana ed efficace; sanzioni che avrebbero potuto essere costruite in modo da colpire anche i beneficiari dei trattamenti “inappropriati”: talché la violazione di quell’obbligo è destinata a rientrare nell’ambito di applicazione della disposizione generale dell’art. 144 T.U.B., che punisce, fra l’altro, l’inosservanza delle norme degli art. 53 e 67 del medesimo T.U. i quali riguardano proprio, fra l’altro, il «contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni» nonché «i sistemi «di remunerazione e incentivazione». Data appunto l’enfasi posta dalla Direttiva sul profilo sanzionatorio non avrebbe guastato, nella normativa di attuazione, un esplicito riferimento proprio a tale profilo.
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IV – Conclusioni. 8. È giunto il momento di trarre delle conclusioni. La sensazione che si trae dall’esame della normativa europea e di quella nazionale in materia di remunerazione degli amministratori e dei managers è quella di una disciplina nel suo complesso abbastanza “lasca”, direi volutamente “lasca”. Soprattutto la scelta di non mettere in discussione i sistemi di incentivazione e neppure di ridurne drasticamente l’incidenza, l’adozione della tecnica degli standards anziché di regole precettive precise, il deliberato rifiuto di adottare limiti quantitativi e – a livello nazionale – la mancata previsione di strumenti specifici di enforcement sono tutti indici – o indizi – di un preciso disegno di non incidere in modo decisivo sulle prassi retributive. Il che, poi, rafforza l’impressione di cui si è detto all’inizio: quella di una enfatizzazione strumentale del problema della “inappropriatezza” delle politiche retributive nelle banche. Se la gravità di tale problema fosse effettivamente stata quella che si è fatta apparire le misure avrebbero dovuto avere una portata costrittiva assai maggiore. Concludo veramente ricordando un episodio lontano nel tempo: quello risultante dai documenti pubblicati nella Rivista delle società nel 2009 e costituiti da alcune lettere con cui Beneduce, nel 1935, impose drastiche riduzioni degli emolumenti degli amministratori e dirigenti delle ex banche miste passate sotto il controllo dell’IRI (si trattava, va notato, di persone del calibro, per esempio, di Mattioli, nessuno dei quali, a quanto risulta, lasciò i propri incarichi a causa di quelle riduzioni). Non dico che ci si debba ispirare a quel lontano esempio. Ma forse – come è stato giustamente sottolineato da chi ha pubblicato quei documenti (Giuseppe Acerbi) – esso conferma come l’idea secondo la quale i dirigenti delle banche e delle grandi società in genere debbano ricevere altissimi compensi con meccanismi di incentivazione non debba e non possa essere assunta quale un assioma. Alessandro Nigro
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Gli incentivi alla composizione negoziale delle crisi d’impresa: uno sguardo d’insieme* I. I modelli delle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa. Sommario: 1. La disciplina della composizione negoziale delle crisi d’impresa. – 2. I modelli di procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa. A) I presupposti comuni. – 3. Segue. B) Gli incentivi al ricorso alle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa
1. La disciplina della composizione negoziale delle crisi d’impresa. La disciplina della composizione della crisi d’impresa era presa in considerazione dall’originaria legge fallimentare principalmente per regolare gli effetti della situazione di insolvenza, che corrispondeva ad una situazione di crisi irreversibile. Per essa era prevista una disciplina tesa (a sanzionare in vario modo l’imprenditore insolvente, nonché) a conseguire, principalmente, una liquidazione efficiente del patrimonio del fallito ed una ripartizione del ricavato attenta a rispettare il trattamento paritario dei creditori (salva la considerazione delle cause legittime di prelazione eventualmente esistenti). Il conseguimento di questi obiettivi era principalmente affidato alla procedura di fallimento: e il debitore poteva sottrarsi ai severi effetti ad essa conseguenti (attraverso la proposta di un “concordato preventivo”) solamente (i) a condizione di risultare meritevole del beneficio così perseguito; e soprattutto solamente (ii) a condizione di prospettare per i creditori una soluzione caratterizzata da una maggiore convenienza rispetto ai prevedibili risultati della procedu-
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Relazione al Convegno di Lanciano del 25-26 gennaio 2013 su «Le procedure di composizione negoziale delle crisi e del sovraindebitamento».
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ra fallimentare, e comunque superiore a un “minimo garantito” (rappresentato dal pagamento del cento per cento di tutti i crediti privilegiati e del quaranta per cento dei crediti chirografari). Nessun rilievo deve essere attribuito, nella prospettiva in cui ci siamo collocati (la crisi d’impresa), all’istituto codicistico della cessione dei beni ai creditori (artt. 1977 c.c.), per il carattere irrealistico della ipotesi di conseguire il consenso individuale di ogni creditore a concludere un “contratto” con il debitore comune, valido per tutte le pretese di ciascun creditore. Per la situazione invece della c.d. crisi reversibile dell’impresa la legge fallimentare originaria prevedeva soltanto – in pratica – la possibilità di ricorrere alla procedura di amministrazione controllata, rivelatasi nel corso del tempo inadeguata a favorire la ripresa di una impresa in “crisi”. L’unico effetto dell’amministrazione controllata funzionale a favorire la ripresa dell’impresa in crisi era rappresentato dalla moratoria coattiva nei confronti dei creditori anteriori all’apertura della procedura. La brevità del termine massimo di moratoria consentito (due anni); e la mancanza di possibili interventi sulla entità dell’indebitamento pregresso (la procedura non consentiva di prevedere “stralci” dell’indebitamento pregresso, ed addirittura disponeva soltanto la sospensione della esigibilità degli interessi, ma non della loro maturazione, che continuava a prodursi, per poi abbattersi d’un sol colpo sull’imprenditore nel momento di cessazione della procedura), avevano segnato l’insuccesso dell’istituto. Né migliore fortuna aveva registrato quella variante del concordato preventivo denominata “concordato con garanzia”, teoricamente compatibile con la prosecuzione dell’attività dell’impresa in crisi, qualora questa avesse reperito (circostanza assai improbabile) le risorse per garantire formalmente il pagamento integrale dei creditori privilegiati ed il pagamento di non meno del quaranta per cento dei creditori chirografari. A fronte di ciò, il ricorso a soluzioni extragiudiziali delle crisi d’impresa (ivi compreso il ricorso all’istituto della cessione dei beni ai creditori, quantunque espressamente previsto e disciplinato dalla legge) era fortemente osteggiato dalla presenza di una disciplina severissima circa gli effetti conseguenti al compimento di atti di disposizione da parte dell’imprenditore insolvente (le azioni revocatorie fallimentari); e di una disciplina non meno preoccupante circa la possibile rilevanza penale di atti e comportamenti che avessero anche soltanto ritardato la dichiarazione di fallimento (aggravando il dissesto) – reati di bancarotta (art. 217, co. 1, n. 4, l.fall.) –.
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Sido Bonfatti
L’attuale disciplina della crisi d’impresa è caratterizzata da un approccio sostanzialmente contrario. Viene largamente favorito il ricorso a procedure di composizione negoziale delle crisi, con la previsione di una serie (variabile) di incentivi; viene lasciato un largo spazio alla negoziazione “privata”, tra debitore e creditori, dei modi e dei termini della composizione dei loro contrastanti interessi; viene ridotto il ruolo dell’autorità giudiziaria in materia, vuoi ammettendo il ricorso a procedimenti di prevenzione / soluzione / sistemazione della crisi d’impresa extragiudiziali; vuoi ridimensionando il ruolo dell’autorità giudiziaria nell’ambito dei procedimenti giudiziali. Rimane ferma, peraltro, l’esigenza di perseguire il tentativo di prevenzione/ soluzione / sistemazione della crisi d’impresa attraverso il ricorso (soltanto) ad un modello procedimentale codificato. L’eventuale ricorso ad accordi “atipici” rispetto ai modelli disciplinati dalla legge fallimentare, ivi compreso quello offerto dal pur codificato modello della cessione dei beni ai creditori di cui agli artt. 1977 ss. c.c., continua ad esporre il debitore ed i suoi creditori ai severi regimi sanzionatori delle azioni revocatorie fallimentari e dei reati di bancarotta.
2. I modelli di procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa. A) I presupposti comuni. La legge fallimentare favorisce la conclusione di accordi tra l’imprenditore e i suoi creditori allo scopo di prevenire / superare / sistemare la situazione di crisi dell’impresa, alla condizione che tali tentativi siano perseguiti attraverso uno dei possibili modelli procedimentali appositamente ideati. Tali modelli sono rappresentati dai seguenti istituti: a) il “piano di risanamento attestato”, disciplinato essenzialmente dall’art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. (ma anche dall’art. 217-bis, dell’art. 236bis e dall’art. 88, co. 4, d.p.r. n. 917/1986); b) lo “accordo di ristrutturazione”, disciplinato (dall’art. 67, co. 3, lett. e) l.fall., ma) principalmente dagli artt. 182-bis ss l.fall (nonché dall’art. 217-bis dell’art. 236-bis, dall’art. 88, co. 4, d.p.r. n. 917/1986, e dall’art. 101, co. 5, d.p.r. cit); c) il “concordato preventivo”, disciplinato (dall’art. 67, co. 3, lett. e) l.fall. ma ) principalmente dagli artt. 160 ss. l.fall. (nonché dall’art. 217bis, dell’art. 236-bis, dagli artt. 88, co. 4, e 101, co. 5, d.p.r. n. 917/1986, e da diverse altre disposizioni sparse). Nella disciplina di questi istituti sono evidentemente previste cautele ritenute dal legislatore sufficienti a controbilanciare le eccezioni appor-
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tate al diritto comune delle obbligazioni e dei contratti per consentire al debitore in crisi di non subire le conseguenze tipiche del mancato o ritardato adempimento. Il minimo comune denominatore delle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa è rappresentato dalla esigenza di una attestazione professionale ed indipendente della veridicità dei dati contabili sottesi alla proposta dell’imprenditore di prevenzione / superamento /sistemazione della situazione di crisi, e della attuabilità di quanto prospettato per cogliere l’obiettivo perseguito. La disciplina di tale presupposto comune alle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa è oggi declinata con disposizioni di identico contenuto, ricavabili dal combinato disposto degli artt. 67, co. 3, lett. d) e 28, lett. a) e b), l.fall., a mente dei quali il “piano” sotteso alla proposta di prevenzione /superamento / sistemazione della situazione di crisi avanzata dall’imprenditore deve essere accompagnato da una attestazione avente le seguenti caratteristiche: (i) contenuto: la “veridicità dei dati aziendali” e la “fattibilità” (o “attuabilità”) del “piano” (o dell’accordo con i creditori); (ii) autore: un professionista designato dall’imprenditore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti per il curatore fallimentare – art. 28, lett. a) e b) l.fall. – e per i membri del collegio sindacale delle società di capitali – art. 2399 c.c. – dotato delle caratteristiche di indipendenza precisate dalla legge (art. 67, co. 3, lett. d) l.fall.).
3. Segue. B) Gli incentivi al ricorso alle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa. Il legislatore ha mostrato di essere consapevole di quanto sia marcata la resistenza dell’imprenditore a rendere pubblica la situazione di crisi dell’impresa ed a ricercarne la prevenzione / il superamento / la sistemazione attraverso “piani o “accordi” che garantiscano trasparenza e completezza informativa. Per superare tale resistenza la legge fallimentare prevede una serie di incentivi, applicabili ai tentativi di soluzione delle crisi perseguiti attraverso il ricorso ad uno dei modelli procedimentali menzionati, che – come visto – garantiscono quanto meno una verifica professionale ed indipendente della veridicità della situazione economico-patrimoniale – finanziaria di partenza, nonché della attuabilità degli interventi programmati.
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Tali incentivi sono rappresentati da: 1) “Esenzione” dall’azione revocatoria degli atti di esecuzione del “piano” sotteso al tentativo di prevenzione / superamento / sistemazione della situazione di crisi attraverso una delle procedure di composizione negoziale delle crisi poi citate; 2) “Esimente” da responsabilità penali connesse a reati di bancarotta per gli atti o i fatti posti in essere in esecuzione di un “piano” di cui alle procedure predette; 3) Agevolazione fiscale per il debitore, rappresentata dalla esenzione da imposizione fiscale della plusvalenza realizzata con l’eventuale “stralcio” dell’indebitamento pregresso ottenuto dai creditori; 4) Agevolazione fiscale per i creditori, rappresentata dal diritto di dedurre immediatamente dal reddito (con conseguente risparmio nel pagamento delle imposte) la perdita eventualmente prospettata dalla esecuzione del “piano”; 5) “Prededuzione” – cioè pagamento preferenziale rispetto agli altri creditori, e particolarmente rispetto ai creditori pregressi – dei finanziamenti erogati all’impresa in crisi per favorirne l’accesso alla procedura di composizione negoziale della crisi e per favorire l’esecuzione del “piano” ad essa connesso (con particolare riguardo all’ipotesi di esecuzione del “piano” attraverso la prosecuzione dell’attività aziendale); 6) Effetti protettivi per il debitore, rappresentati dalla inibizione ai creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari sui suoi beni, o di acquisire su di essi titoli di prelazione non concordati con il debitore stesso; 7) Anticipazione degli effetti protettivi ad un momento anteriore alla apertura della procedura di composizione della crisi, durante la fase delle trattative; 8) Possibilità di conseguire l’autorizzazione ad effettuare pagamenti oggettivamente “preferenziali”, se rivolti in favore di “fornitori strategici”; 9) Esenzione dall’applicazione della disciplina rivolta a garantire l’integrità del capitale sociale in relazione all’accesso alla procedura di composizione negoziale della crisi; 10) Rafforzamento della posizione contrattuale del debitore nei rapporti giuridici pendenti, attraverso l’introduzione delle facoltà di sciogliere i contratti comportanti effetti economici pregiudizievoli e di impedirne lo scioglimento per iniziativa della controparte “in bonis; 11) Effetto vincolante della maggioranza dei creditori sui creditori non aderenti al “piano”, comportante l’assoggettamento anche delle pretese dei creditori contrari alla proposta del debitore agli effetti della stessa, in quanto accettata dalla maggioranza.
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Non tutti gli incentivi sono però applicabili a tutte le procedure di composizione negoziale delle crisi disciplinate dalla legge fallimentare. Ad un maggior grado di presenza dell’autorità giudiziaria (“giurisdizionalizzazione”) corrisponde una maggiore intensità degli incentivi: di tal chè, essi sono massimi nel concordato preventivo (procedura nella quale l’Autorità giudiziaria interviene sia nel momento della apertura, sia durante il suo svolgimento, sia all’atto della omologazione dell’accordo eventualmente raggiunto con i creditori); sono minimi nel “piano di risanamento attestato” (procedura di carattere totalmente extragiudiziale, e distinta dai normali accordi stragiudiziali dalla sola presenza della attestazione professionale indipendente di cui si è detto); sono “medi” nello “accordo di ristrutturazione” (procedura nella quale l’autorità giudiziaria interviene solo dopo che l’accordo tra debitore e creditori è stato negoziato e raggiunto in sedi extragiudiziali, ai fini di una sua “convalida”, nel giudizio di omologazione).
II. Il “piano di risanamento attestato”. Sommario: 1. Struttura ed effetti del “piano di risanamento attestato”. – 2. La “esenzione” da revocatoria. – 3. La “esimente” penale. – 4. L’agevolazione fiscale per il debitore.
1. Struttura ed effetti del “Piano di risanamento attestato”. Il “piano di risanamento attestato” è disciplinato principalmente dall’art. 67 co. 3, lett. d) l.fall., integrato dalle disposizioni dell’art. 217bis, l.fall., dall’art. 230-bis, l.fall. e dell’art. 88, co. 4, d.P.R. n. 917/1986. Dalla disciplina riservatagli possiamo ricavare le seguenti caratteristiche. Presupposti oggettivi: esistenza di una situazione debitoria bisognosa di “risanamento” e di una situazione finanziaria bisognosa di “riequilibrio”. E’ pertanto discussa la legittimazione a ricorrere all’istituto da parte di una impresa avviata alla liquidazione. Presupposti soggettivi: testualmente la norma di riferimento si rivolge a favorire il risanamento “dell’impresa”. Dovrebbe pertanto potere accedere all’istituto solamente l’imprenditore. Non v’è alcuna ragione di ritenere che l’istituto sia riservato ai soli imprenditori soggetti al fallimento ai sensi dell’art. 1 l.fall. (onde vi potranno accedere tanto gli impren-
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ditori “minimi”, che non raggiungono le soglie di rilevanza fallimentare poste dall’art. 1 l.fall.; quanto l’imprenditore agricolo). Questione diversa è quella concernente l’interesse (giuridico, oltre che economico) dell’imprenditore non soggetto al fallimento ad avvalersi del “piano di risanamento attestato”: questione che può essere affrontata solo dopo la rassegna degli effetti connessi alla predisposizione ed alla attestazione del “piano”. Definizione: trattasi delle misure che l’imprenditore in crisi si propone di adottare per risanare la esposizione debitoria e per conseguire il riequilibrio della situazione finanziaria dell’impresa. Il “piano” non deve pertanto necessariamente derivare da un accordo con i creditori pregressi, come è – invece – per i due altri istituti dello ”accordo” ex art. 182-bis l.fall. e del concordato preventivo. Benché di massima anche il “piano” ex art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. si fonderà su un accordo con i creditori pregressi, esso potrebbe anche poggiare su: (i) un accordo con creditori nuovi - persuasi a finanziare il rilancio dell’impresa; (ii) un accordo con partners diversi dai creditori (nuovi soci; partners commerciali; acquirenti di assets o di rami d’azienda dell’impresa; ecc.); e (iii) iniziative “unilaterali” dell’imprenditore (come la sottroscrizione di un aumento di capitale; il conferimento di nuovi assets; ecc.). Incentivi: il ricorso all’istituto del “piano di risanamento attestato” è favorito dalla legge fallimentare prevedendo: 1) la “esenzione” dalla revocatoria degli atti di esecuzione del “piano”; 2) la “esimente” penale dai reati di bancarotta preferenziale e bancarotta semplice per aggravamento del dissesto (art. 217-bis, l.fall.); e 3) l’agevolazione fiscale per il debitore rappresentata dalla intassabilità della plusvalenza prodotta dall’eventuale “stralcio” ottenuto dai creditori. Non sono previsti altri incentivi per il “piano” ex art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. In particolare, nessuna ipotesi di prededuzione è prevista per i finanziamenti erogati per la sua predisposizione o la sua esecuzione. La prededuzione, infatti (cfr. ex art. 111 l.fall.), spetta ai creditori per i quali tale collocazione sia prevista da specifiche disposizioni di legge; oppure siano “sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali....”: ebbene, né sussistono disposizioni che qualifichino come prededucibili i crediti connessi ad un “piano di risanamento attestato”; né tale istituto ha natura di “procedura concorsuale” – essendo tali solamente quelle che prevedono, inter alia, l’inefficacia rispetto alla “massa” dei creditori concorrenti degli atti di disposizione compiuti dal debitore (o posti in essere nei confronti del suo patrimonio) con attitudine ad alterare lo status quo ante la apertura della “procedura”.
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Procedimento: non è previsto alcun procedimento standardizzato (se si escludono le caratteristiche soggettive ed oggettive della “attestazione”). La predisposizione del “piano”, e la conclusione degli eventuali accordi ad esso sottesi, possono avvenire in qualsiasi modo. Neppure è necessaria una qualche forma di pubblicità del “piano”: dalla recente previsione di una agevolazione fiscale per le sopravvenienze attive eventualmente derivanti dallo “stralcio” dei debiti pregressi, ove connesse ad un “piano” pubblicato nel registro delle imprese, si ricava che detta forma di pubblicità è possibile (e comporta l’agevolazione fiscale predetta), ma non necessaria – onde il “piano” può rimanere anche ignoto ai creditori –. In particolare, non è prevista alcuna “emersione” giudiziale del “piano”, che potrà intervenire solo allorché l’imprenditore venga assoggettato a fallimento; il curatore fallimentare promuova una azione revocatoria nei confronti di un atto di esecuzione del “piano” (ricorrendone i presupposti cronologici connessi all’entità del “periodo sospetto” di volta in volta interessato); ed il convenuto in revocatoria consideri opportuno e conveniente riesumare il “piano” per farne valere l’effetto esonerativo dalla soggezione a revocatoria dell’atto aggredito.
2. La “esenzione” da revocatoria. La formula utilizzata dall’art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. per la “esenzione” da revocatoria degli atti di esecuzione di un “piano” sembra più limitata di quella utilizzata per gli atti di esecuzione di un “accordo” o di un concordato preventivo – art. 67, co. 3, lett. e) -, perché fa salve le sole garanzie “costituite su beni del debitore”. La limitazione peraltro è solo apparente, perché dette garanzie sono tutte quelle, e solo quelle, di cui sarebbe lecito occuparsi (o preoccuparsi) in caso di fallimento dell’imprenditore che avesse predisposto un “piano attestato”, in quanto che la sottrazione alla revocatoria delle eventuali garanzie costituite su beni di terzi non necessiterebbe di una norma di “esenzione”, derivando dal semplice fatto che non è fallito il soggetto che ha costituito il vincolo di prelazione su un suo bene. Né dalla mancata previsione della corrispondente precisazione per gli atti di esecuzione di un “accordo” o di un “concordato” si potrebbe ricavare che nel fallimento del terzo datore di pegno o di ipoteca sarebbe irrevocabile la garanzia da questi concessa nell’interesse di un imprenditore protagonista di una delle due procedure menzionate, e non – invece – quella concessa nell’interesse di un terzo qualsiasi, e finanche
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di un terzo che avesse predisposto un “piano attestato”: dal momento che in tale prospettiva non si comprenderebbe perché sarebbero fatte salve solo le garanzie concesse dal fallito per debiti altrui di natura reale, e non anche le (ben più frequenti) garanzie personali (fideiussioni).
3. La “esimente” penale. Anche per l’incentivo rappresentato dalla (parziale) “esimente” da responsabilità penale si deve affermare l’equivalenza della sua portata in tutte e tre le procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa. La equiparazione tra le tre procedure deriva dalla semplice circostanza che unica è la norma (art. 217-bis l.fall.) che tale effetto “salvifico” prevede, tanto per i “piani attestati”, quanto per gli “accordi di ristrutturazione” e i concordati preventivi. Conseguentemente, comuni alle tre procedure di composizione delle crisi sono anche le incertezze interpretative che investono la effettività di tale “incentivo”. Infatti per un verso ci si interroga sulle conseguenze da ricavare dalla mancata riproduzione della “esimente” da responsabilità penale per i delitti commessi da soggetti diversi dal fallito, che generano evidentemente preoccupazioni di cui si farebbe volentieri a meno. Per un altro verso, poi, rimane tuttora incerta la risposta alla domanda se in ipotesi di sopravenuto fallimento il giudice penale possa assoggettare ad una nuova e personale valutazione la “ragionevolezza” dell’originario “piano” di risanamento e la “idoneità” dello stesso a conseguire i risultati prospettati, in funzione di giustificare la “disapplicazione” della “esimente” di cui si discute: incertezza, quest’ultima, tanto più grave quanto più soggetta a divergenze interpretative anche con riguardo alla circostanza se il dubbio sulla sindacabilità a posteriori della “ragionevolezza” ed “idoneità” del “piano” da parte dell’autorità giudiziaria penale presenti lo stesso spessore nei confronti delle procedure di composizione delle crisi fortemente giurisdizionalizzate (concordato preventivo); mediamente interessate dalla presenza dell’autorità giudiziaria (accordi di ristrutturazione); oppure totalmente extragiudiziali (piani di risanamento attestati).
4. La agevolazione fiscale per il debitore. L’art. 88, co. 4, d.p.r. n. 917/1986, come modificato da una recentissima innovazione, afferma che “in caso di … piano attestato ai sensi dell’art. 67, terzo comma, lettera d) .. pubblicato nel registro delle im-
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prese la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisce sopravvenienza attiva [tassabile] per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’art. 84”.
III. Gli accordi di ristrutturazione di debiti. Sommario: 1. Struttura ed effetti degli “accordi di ristrutturazione”. – 2. Le agevolazioni fiscali per i creditori. – 3. La “prededuzione” per i finanziamenti funzionali alla presentazione della domanda di omologazione dell’accordo od alla sua esecuzione. – 4. Segue. La prededuzione per i finanziamenti funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori. – 5. Effetti protettivi per il debitore –. 6. La anticipazione degli effetti protettivi alla fase delle “trattative”. – 7. La effettuazione di pagamenti oggettivamente “preferenziali” (in favore di “fornitori strategici”). – 8. La disapplicazione della disciplina mirante ad assicurare l’integrità del capitale sociale. – 9. La struttura del procedimento. – 10. La “transazione fiscale” e previdenziale (rinvio). – 11. Conclusioni.
1. Struttura ed effetti degli “accordi di ristrutturazione”. L’“accordo di ristrutturazione” è disciplinato principalmente dagli artt. 182-bis ss l.fall., integrati dall’art. 67, co. 3, lett. e) – in materia di “esenzione” dalla revocatoria -; dall’art. 217-bis – in materia di “esimente” penale -; dall’art. 230-bis, l.fall. e dagli artt. 88, co. 4, e 101, co. 5, d.p.r. n. 917/1986 – in materia di agevolazioni fiscali per il debitore e per i creditori-. Dalla disciplina riservata all’istituto possiamo ricavare le seguenti caratteristiche: Presupposti oggettivi: una situazione di “crisi” d’impresa (art. 182-bis, co. 1). Il presupposto oggettivo (lo stato di “crisi”) previsto per l’accesso all’istituto dello “accordo di ristrutturazione” è (apparentemente) lo stesso posto alla base dell’ammissibilità della domanda di concordato preventivo (art. 160, co. 1). Come per il concordato, anche per lo “accordo” si pone il problema di stabilire se sussistano o meno un livello massimo ed un livello minimo della situazione di “crisi”, al di sopra ed al di sotto dei quali il ricorso allo “accordo” (e al concordato) non sono consentiti. Nonostante la identità del tenore letterale, sul punto, degli artt. 182bis, co. 1, e 160, co. 1, non è certo che le risposte ai quesiti siano davvero identiche.
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Quanto al superamento di un “livello massimo” della crisi, che sfoci nello stato di insolvenza, la perdurante ammissibilità del ricorso al concordato preventivo è assicurata da una legge di interpretazione autentica (l. n. 98/2011, art. 23, co. 43, che ha introdotto l’art. 160, ult. co., l.fall., secondo il quale “ai fini del primo comma per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”): ma nulla di ciò è previsto – a rigore – per lo “accordo di ristrutturazione” (anche se la soluzione positiva appare quella preferibile). Per ciò che concerne invece la necessità di individuare un “livello minimo” dello stato di crisi, al di sotto del quale escludere l’ammissibilità del ricorso all’accordo di ristrutturazione (o al concordato preventivo), non sussistono indicazioni di carattere normativo, e la questione presenta aspetti di una qualche delicatezza. In particolare ci si deve interrogare se lo stato di crisi possa coincidere con le situazioni qualificabili “temporanea difficoltà di adempiere”, contemplate come presupposto di ammissibilità all’amministrazione controllata, oggi abrogata; nonché ricorrere anche in situazioni di regolarità gestionale, ma nelle quali sia individuabile ed adducibile un “pericolo di insolvenza”, non ancora attuale, ma oggettivamente prevedibile (e l’esempio che si può addurre è quello dell’impresa che avendo emesso un prestito obbligazionario, non ancora scaduto, sul presupposto che a scadenza sarebbe stato in parte rimborsato ed in parte rinnovato, debba constatare che sono venute meno le condizioni del programmato rinnovo, e che non sussisteranno dunque i presupposti economici e finanziari per un rimborso integrale). Alla prima domanda si deve rispondere senz’altro in modo positivo per il concordato preventivo, dovendosi constatare che in seguito alla abrogazione della procedura di amministrazione controllata il “nuovo concordato” tiene luogo, sotto il profilo qui considerato, di entrambe le procedure concorsuali minori precedenti: e non v’è ragione per escludere che identica soluzione debba valere anche per gli “Accordi di ristrutturazione”. Quanto alla seconda questione, occorre tenere presente che l’istituto del concordato preventivo comporta l’assunzione da parte dei creditori dell’imprenditore “in crisi” di decisioni approvate a maggioranza, con effetti vincolanti nei confronti dei creditori dissenzienti: per cui si può ben comprendere la ragione di una certa ritrosia ad allargare oltre il necessario il perimetro dell’ambito di applicazione dell’istituto, nel timore di vedere applicata una regola in qualche modo “espropriativa” dei diritti dei creditori di minoranza – nei limiti in cui (anche) di essi finiscono con il disporre i creditori di maggioranza -, anche in situazioni nelle quali
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non siano propriamente invocabili cause “di forza maggiore” (quali dovrebbero essere le situazioni di “crisi” dell’impresa); Gli effetti della adesione della maggioranza dei creditori alla proposta di “accordo di ristrutturazione” sui diritti dei creditori dissenzienti (o silenti) sono invece assai meno incisivi (sostanzialmente consistono nel rendere irrevocabili gli effetti degli atti di esecuzione dello “accordo”: art. 67, co. 3, lett. e) l. fall.): e teoricamente addirittura nulli laddove venga rispettata la condizione della “idoneità [dell’accordo] ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei” ad esso. Per tale ragione, l’ipotesi che per l’ammissione ad avvalersi degli effetti degli “accordi di ristrutturazione” sia richiesto un livello minimo di difficoltà dell’imprenditore inferiore a quello che si ritenesse di dovere individuare per l’ammissione al concordato preventivo, non può essere esclusa a priori, e rappresenta un interessante profilo dell’istituto, nella prospettiva di sottolinearne l’attitudine a soddisfare la universalmente avvertita esigenza della c.d. emersione anticipata delle situazioni di “crisi”; e di immaginare che l’imprenditore vi possa ricorrere anche nelle situazioni nelle quali sussiste solamente un pericolo di insolvenza. Presupposti soggettivi: in via preliminare vale per lo “accordo di ristrutturazione” quanto già osservato per il “piano di risanamento attestato”. La norma allude allo “imprenditore”, ma non esclude l’applicabilità dell’istituto anche ad imprese al di fuori del perimetro dei soggetti fallibili alla stregua dei criteri di cui all’art. 1 l.fall. In ogni caso, per quel che riguarda l’imprenditore agricolo, ogni dubbio è stato rimosso dalla previsione esplicita dell’ammissibilità del ricorso a tale istituto anche da parte sua (art. 23, co. 43, d.l.n. 98/2011). Definizione: trattasi di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, la cui attuabilità sia affermata dalla “attestazione” professionale ed indipendente di cui si è già detto, “con particolare riferimento alla sua [dell’accordo] idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei” entro 120 giorni dall’omologazione dell’accordo (o dalla scadenza del credito, se successiva). L’accordo di ristrutturazione, pertanto, ha effetti definitivamente vincolanti per i soli creditori aderenti, mentre non vincola (se non provvisoriamente: infra) i creditori non aderenti, che devono essere pagati “integralmente”. La originaria rigidità della previsione normativa (che pretendeva un pagamento dei creditori estranei “regolare”, quindi puntualmente alle rispettive scadenze) è oggi attenuata dalla previsione di
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una automatica dilazione (con interessi, si deve ritenere) di 120 giorni, decorrenti dall’omologazione dell’accordo per i crediti già scaduti, e dalla rispettiva scadenza per quelli di esigibilità successiva. Incentivi: il ricorso agli “accordi di ristrutturazione” è favorito dalla legge fallimentare attraverso: 1) la previsione di tutti gli incentivi già disposti per il ricorso al “piano di risanamento attestato”, con una identica portata (supra); e 2) la previsione di incentivi ulteriori, rappresentati da: 2.A.) agevolazioni fiscali anche per i creditori; 2.B.) “prededuzione” per i finanziamenti erogati per la presentazione della domanda di omologazione o per provvedere all’esecuzione dello “accordo”; 2.C.) Effetti protettivi per il debitore: 2.D.) Possibile anticipazione degli effetti protettivi alla fase delle “trattative”; 2.E.) Possibile autorizzazione ad effettuare pagamenti oggettivamente “preferenziali” in favore di “fornitori strategici”; 2.F.) Sospensione dell’applicabilità della disciplina a tutela dell’integrità del capitale sociale delle società di capitali. Procedimento: il procedimento di accordo di ristrutturazione può essere suddiviso in tre fasi “necessarie”, con una quarta fase solo possibile. La fase “possibile” è quella introdotta dalla c.d. “istanza di sospensione”, con la quale l’imprenditore chiede all’autorità giudiziaria di disporre la sospensione del diritto dei creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari, e di acquisire titoli di prelazione “coattivi” sui beni dell’imprenditore, quando ancora pendono soltanto “trattative” per la formazione dello accordo (art. 182-bis, co. 6). Le fasi “necessarie” sono rappresentate da: (i) negoziazione dell’accordo (totalmente stragiudiziale); (ii) omologazione dell’accordo (pronunciabile solo dall’autorità giudiziaria); e (iii) esecuzione dell’accordo (nuovamente di carattere stragiudiziale, non essendo prevista la nomina di alcun organo deputato a sorvegliare l’adempimento delle obbligazioni assunte dall’imprenditore con la stipulazione dell’accordo omologato).
2. Le agevolazioni fiscali per i creditori. L’art. 101, co. 5, d.p.r. n. 917/1986 consente di portare in deduzione dal reddito (con conseguente risparmio fiscale) “le perdite su crediti … se il debitore … ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis” della legge fallimentare: anche prima, si deve intendere, che la perdita sia divenuta altrimenti “certa e precisa” – e limitatamente ai creditori, si deve intendere, che abbiano aderito all’accordo –.
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3. La “prededuzione” per i finanziamenti funzionali alla presentazione della domanda di omologazione dell’Accordo od alla sua esecuzione. In materia di crediti cc.dd. “prededucibili” – cioè soddisfatti prima di ogni altro credito, fatti salvi soltanto i crediti assistiti da pegno ed ipoteca – occorre ricordare che ai sensi dell’art. 111 l.fall. meritano tale collocazione soltanto le pretese per le quali così dispone una specifica disposizione, oppure sorte “in occasione o in funzione delle procedure concorsuali …”. Il procedimento di “accordo di ristrutturazione” non è una “procedura concorsuale”, per lo stesse ragioni che hanno condotto ad escludere tale natura per il “piano di risanamento attestato” (supra). Sussistono peraltro per l’accordo di ristrutturazione disposizioni specifiche (art. 182-quater l.fall.) che attribuiscono carattere prededucibile a: (i) i finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di omologazione dell’Accordo, perché esso sia omologato; (ii) i finanziamenti effettuati in esecuzione dell’accordo (omologato); (iii) i finanziamenti-soci effettuati per l’una o per l’altro delle due funzioni (nei limiti dell’ottanta per cento per i soci già presenti nel capitale; in misura integrale per i soci divenuti tali in esecuzione dell’accordo).
4. Segue. La prededuzione per i finanziamenti funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori. L’art. 182-quinquies, co. 1, l.fall. prevede che il debitore che presenta [una domanda di concordato preventivo, definitiva o “con riserva”, oppure] una domanda di omologazione di un Accordo di Ristrutturazione (o una proposta c.d. di “pre-accordo” ex art. 182-bis, co. 6, l.fall.: infra, n. 6) possa chiedere al tribunale di essere autorizzato a contrarre finanziamenti, “prededucibili ai sensi dell’articolo 111”, se un professionista dotato dei “soliti” requisiti di cui all’art. 67, co. 3, lett. d) l.fall. attesta che essi “sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori”. Tale autorizzazione può riguardare anche finanziamenti “individuati soltanto per tipologia ed entità, e non ancora oggetto di trattative”: e può prevedere che essi siano assistiti da pegno od ipoteca. La rubrica della norma in commento annuncia “disposizioni in tema di finanziamenti e di continuità aziendale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione”.
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In linea di massima i finanziamenti di cui può essere richiesta l’autorizzazione al tribunale con l’effetto della collocazione in prededuzione, prima dell’omologazione dello “accordo”, saranno per l’appunto funzionali a sostenere la “continuità aziendale”, ma ciò non appare precisamente un vincolo normativo.
5. Effetti protettivi per il debitore. Secondo l’art. 182-bis, co. 3, l.fall. “dalla data della pubblicazione [della domanda di omologazione dell’accordo nel registro delle Imprese] e per sessanta giorni i creditori per titolo e causa anteriore a tale data non possono iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore, né acquisire titoli di prelazione se non concordati”. Con tale disposizione si protegge il patrimonio dell’imprenditore nei confronti di atti di aggressione dei creditori, durante il periodo prevedibilmente necessario per l’omologazione dell’accordo depositato. La norma richiede due precisazioni principali: a) la relativa “inutilità” della tutela così approntata per l’imprenditore, visto che, ad accordo (stipulato e) depositato, non v’è ragione di temere iniziative ostili né da parte dei creditori aderenti (per le obbligazioni di “moratoria” inevitabilmente assunte nell’ambito dell’accordo), né da parte dei creditori estranei (che stanno coltivando l’aspettativa di un soddisfacimento “integrale”, in caso di omologazione); b) per titoli di prelazione “non concordati” si devono intendere i titoli di prelazione coattivi, cioè le ipoteche giudiziali. È da escludere invece il divieto (e la conseguente inefficacia) degli atti costitutivi di titoli di prelazione volontari, siano o non siano essi coerenti con i contenuti dello accordo – che tutt’al più sarà esposto al rischio della risoluzione, ferma restando l’efficacia dei titoli di prelazione costituiti dall’imprenditore –.
6. La anticipazione degli effetti protettivi alla fase delle “trattative” Secondo l’art. 182-bis, co. 6, l.fall., “il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive [nonché del divieto di acquisire titoli di prelazione se non concordati] … può essere richiesto … anche nel corso delle trattative e prima della formalizzazione dell’Accordo …”. Alla denunciata “inutilità” della previsione di effetti protettivi successivi al deposito dell’accordo formalizzato si contrappone la estrema utilità della previsione della possibilità di anticiparne la produzione,
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con il deposito presso il Registro delle imprese di una sorta di “preaccordo”, seguito dalla “istanza di sospensione” alla quale si è già fatto cenno. L’istituto in commento viene denominato “istanza di sospensione” perché così lo qualifica la legge (art. 182-bis, co. 6). In realtà gli effetti protettivi ad esso connessi (divieto di inizio o prosecuzione di azioni esecutive e cautelari, nonché della acquisizione di titoli di prelazione “non concordati”) non si producono al momento in cui viene eventualmente accolta l’istanza di sospensione, ma si sono già prodotti con il deposito di un esemplare della stessa presso il Registro delle imprese. Il Tribunale, pertanto, può soltanto confermare la già prodottasi protezione del debitore nei confronti di atti di aggressione dei creditori (se accoglie l’istanza); oppure determinare la cessazione di tali effetti protettivi, se rigetta l’istanza. Il procedimento in questione si propone con ricorso depositato davanti al Tribunale fallimentare (quello stesso competente a disporre la omologazione dell’accordo, una volta che questo fosse effettivamente concluso e “formalizzato”), accompagnato da: (i) la documentazione prevista dall’art. 161 l.fall.; (ii) una “proposta di accordo” – che d’ora innanzi, per ragioni di comodità espositiva, denomineremo anche “pre-accordo” –; (iii) una dichiarazione dell’imprenditore “avente valore di autocertificazione”, attestante che sulla “proposta” sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento delle passività dell’impresa; e (iv) una dichiarazione di un “esperto” (munito dei soliti requisiti previsti per gli “attestatori” dei “piani di risanamento” e degli “accordi di ristrutturazione” – effettivamente “formalizzati” -), circa la idoneità della proposta, se accettata, ad “assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare”. Ognuno di tali documenti richiede un breve commento. Per ciò che concerne “la documentazione di cui all’articolo 161, primo e secondo comma”, l.fall., si tratta della stessa documentazione che l’imprenditore deve depositare presso il Tribunale fallimentare nell’ipotesi nella quale richiede l’ammissione alla procedura di concordato preventivo. Per ciò che concerne la “proposta di accordo”, è evidente che trattasi di ciò che l’imprenditore ha sottoposto ai creditori ai fini di superare (o di comporre) lo stato di crisi in cui versa l’impresa, e che i creditori stanno (ancora) esaminando.
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Il legislatore non precisa, né fa capire, quale grado di corrispondenza debba presentare il pre-accordo rispetto all’accordo definitivo, per produrre gli effetti che l’art. 182-bis, co. 4, l.fall. gli attribuisce. Si possono formulare al proposito alcune ipotesi, anche se non è detto che il quesito rivesta una effettiva importanza, potendosi dovere constatare che gli effetti in questione si producono comunque, anche se al pre-accordo segue un accordo definitivo tutto diverso, od addirittura nessun accordo definitivo (infra). E’ da escludere che il pre-accordo debba avere già raggiunto i contenuti di dettaglio dell’accordo definitivo, e debba quindi soltanto essere formalmente approvato dagli organi deliberativi dei creditori coinvolti (con particolare riguardo agli Istituti di credito). La relazione illustrativa dell’art. 48 d.l. n. 78/2010 spiega che l’obiettivo della norma è quello di “eliminare eventuali azioni di disturbo e consentire alle parti di fotografare con certezza i beni patrimoniali dell’impresa per determinare le misure concretamente realizzabili per la ristrutturazione dei debiti”: ne deriva che la disciplina in commento postula l’esistenza di “trattative” pervenute ad uno stadio abbastanza avanzato ma non necessariamente compiuto. Per converso, non basterebbe la semplice esistenza di un “progetto” di massima ideato dall’imprenditore, a qualificare l’iniziativa come una “proposta” sulla quale si sono avviate delle “trattative”. Il pre-accordo, quanto ai contenuti, deve essere sufficientemente precisato da consentire allo “esperto” di formulare un giudizio di attuabilità del “piano”, ove incontrasse la adesione dei destinatari, con speciale riguardo alla attitudine ad assicurare il regolare pagamento dei creditori non aderenti. Deve essere ammessa una “proposta” ancora formulata “per aggregati”, e così non necessariamente esplicativa di quali e quanti creditori dovrebbero risultare aderenti, ma sufficientemente circostanziata da esprimere l’indicazione dell’entità dell’indebitamento destinato al “consolidamento” e delle fonti finanziarie deputate ad assicurarne lo smobilizzo in uno con il regolamento puntuale ed integrale delle passività non consolidate. Per ciò che concerne la dichiarazione dell’imprenditore relativa alla pendenza di “trattative” sulla “proposta” di accordo, è evidente che il legislatore le ha attribuito la funzione di attestare la sussistenza di una certa qual probabilità che l’accordo venga poi effettivamente “formalizzato”, con la conseguente produzione (a seguito della pubblicazione nel Registro delle Imprese), di quegli “effetti protettivi”, che con il ricorso al Tribunale qui considerato si intendono, per l’appunto, anticipare.
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La norma attribuisce alla dichiarazione dell’imprenditore “valore di autocertificazione”: e si deve ritenere che l’effetto (e lo scopo) di tale precisazione sia costituito dalla applicabilità alla dichiarazione de qua della disciplina (sanzionatoria) prevista per le ipotesi nelle quali la legge consente all’interessato di dare la prova di una determinata circostanza, o di un determinato status, con una auto-certificazione, sostitutiva di riscontri esterni, con assunzione di responsabilità per la eventuale falsità delle circostanze attestate. Si deve allora ritenere che risulti applicabile alla dichiarazione dell’imprenditore circa la sussistenza di “trattative” (con creditori rappresentanti almeno il 60% delle passività dell’impresa) sulla proposta di conclusione di un accordo di ristrutturazione, la disciplina dettata dal d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, circa i presupposti e gli effetti della “dichiarazione sostitutiva di certificazione” (definita come “il documento, sottoscritto dall’interessato, prodotto in sostituzione … del documento rilasciato da una amministrazione pubblica avente funzione di ricognizione, riproduzione e partecipazione a terzi di stati, qualità personali, e fatti …comunque accertati da soggetti titolari di funzioni pubbliche”). L’art. 46 d.P.R. n. 445/2000 consente di comprovare con autodichiarazioni sostitutive – inter alia – la “situazione reddituale o economica” dell’interessato, “anche ai fini della concessione dei benefici di qualsiasi tipo previsti da leggi speciali”: e la attinenza al “beneficio” della sospensione delle azioni esecutive e cautelari promuovibili dai creditori è di una certa evidenza. In tale contesto, l’art. 75 dello stesso provvedimento dispone la “decadenza dai benefici eventualmente conseguiti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”, per l’ipotesi della scoperta della non veridicità della dichiarazione sostitutiva (il chè nel nostro contesto comporterebbe l’inefficacia del provvedimento del Tribunale che avesse disposta la sospensione delle “azioni aggressive” dei creditori); e l’art. 76 afferma che le dichiarazioni sostitutive in commento “sono considerate come fatte a pubblici ufficiali”, così evocando l’applicabilità alle dichiarazioni non veritiere dell’art. 483 c.p., che punisce con la reclusione fino a due anni chi attesti falsamente al pubblico ufficiale, in un atto [pubblico], fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Per ciò che concerne la “attestazione” dello esperto (dotato dei requisiti prescritti per gli “esperti attestatori” dei “piani” e degli “accordi” de quibus) circa l’idoneità della proposta ad assicurare il regolare pagamento di coloro ai quali non è diretta, per scelta dell’imprenditore, o per loro scelta (in quanto abbiano “negato la propria disponibilità a
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trattare”), pare evidente, innanzitutto, che anche in tale caso, come per la corrispondente ”attestazione” che accompagna gli “accordi di ristrutturazione” effettivamente formalizzati (art. 182-bis, co. 1), per “regolare pagamento” dei non aderenti si debba intendere: (i) il pagamento integrale dei loro crediti; e (ii) il pagamento puntuale alle scadenze della moratoria automatica di centoventi giorni (supra). A seguito del deposito del ricorso contenente l’istanza di sospensione delle azioni esecutive e cautelari dei creditori il Tribunale, “verificata la completezza della documentazione depositata”, fissa una udienza per l’audizione degli interessati, entro il termine di trenta giorni dal deposito della istanza di sospensione, “disponendo la comunicazione ai creditori della documentazione stessa”. “Nel corso dell’udienza” fissata a seguito del deposito della istanza di sospensione, il Tribunale verifica “la sussistenza dei presupposti per pervenire ad un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggioranze” richieste (sessanta per cento delle passività dell’imprenditore), nonché “delle condizioni per l’integrale pagamento dei creditori” non aderenti. Accertati i presupposti de quibus il Tribunale dispone il divieto di iniziare o proseguire le azioni esecutive e cautelari e di acquisire titoli di prelazione se non concordati; ed assegna un termine di non oltre sessanta giorni “per il deposito dell’accordo di ristrutturazione (definitivo) e della relazione (definitiva) redatta dal professionista” c.d. “attestatore”. L’importanza della previsione è però oggi fortemente ridimensionata dalla “concorrenza” della innovazione rappresentata dalla possibilità di depositare, con il conseguimento di identici (se non più incisivi) “effetti protettivi”, una domanda di ammissione al concordato preventivo “con riserva” (di successivo deposito della proposta di concordato e del “piano” ad esso sotteso), ai sensi dell’art. 161, co. 6, l.fall. Occorre infatti osservare che: (i) la domanda di ammissione al concordato preventivo “con riserva” può poi essere convertita in una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione (quello stesso magari già oggetto di “trattative” al momento del deposito della domanda di concordato “con riserva”); (ii) la domanda di ammissione “con riserva” non richiede la presenza di alcuna “autocertificazione” dell’imprenditore circa la pendenza di (concrete) trattative con i creditori, come richiede – invece – la “istanza di sospensione”; (iii) la domanda di ammissione “con riserva” non richiede la presenza di alcuna attestazione professionale e indipendente circa la idoneità della proposta ad assicurare il successo del “piano”, come richiede – invece – la “istanza di sospensione”.
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7. La effettuazione di pagamenti oggettivamente “preferenziali” (in favore di fornitori strategici”). Secondo l’art. 182-quinquies, co. 5, l.fall. il debitore che presenta una domanda di omologazione di un “accordo” (o deposita una proposta di “pre-accordo”) può chiedere al tribunale di essere autorizzato a pagare “crediti anche anteriori per prestazione di beni o servizi”. Tali pagamenti, in caso di successivo fallimento, “non sono soggetti all’azione revocatoria di cui all’articolo 67”. Nonostante il silenzio della norma, si deve ritenere che i pagamenti de quibus, quantunque oggettivamente “preferenziali”, non siano soltanto interessati dalla disposta “esenzione” dalla revocatoria fallimentare, ma anche dalla “esimente” dalla responsabilità penale normalmente connessa ai pagamenti cc.dd. “preferenziali” (art. 216, co. 3, l.fall.). La norma in commento richiama “i presupposti di cui al quarto comma”. Tale disposizione disciplina l’analogo fenomeno nell’ambito del concordato preventivo c.d. “con continuità aziendale”, per cui si deve ritenere che anche nell’ambito dell’Accordo di ristrutturazione il pagamento (fuori concorso) di crediti pregressi possa essere autorizzato solo in quanto funzionale a sostenere la continuità aziendale, e solo in presenza della attestazione professionale ed indipendente richiesta dalla disposizione richiamata, e volta ad asseverare che le prestazioni dei creditori favoriti, pure già rese, “sono essenziali per la prosecuzione dell’attività e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori”.
8. La disapplicazione della disciplina mirante ad assicurare l’integrità del capitale sociale. Secondo l’art. 182-sexies l.fall. dalla data del deposito della domanda di omologazione dello “accordo di ristrutturazione” (o della proposta di “pre-accordo”), e sino all’omologazione, non si applicano una serie di norme del codice civile, che dispongono lo scioglimento delle società di capitali in caso di perdita del capitale sociale o di riduzione sotto i limiti di legge. La norma si spiega con la considerazione dei possibili effetti di “ricapitalizzazione” conseguenti all’eventuale “stralcio” di una porzione dell’indebitamento pregresso.
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9. La struttura del procedimento. La fase dello “accordo di ristrutturazione” che conduce alla sua stipulazione con i creditori (rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti) ha carattere, come detto, del tutto stragiudiziale. Stipulato l’accordo, questo deve essere pubblicato presso il Registro delle Imprese (producendo da tale data “effetti protettivi” per sessanta giorni), e depositato presso la Cancelleria del Tribunale fallimentare, insieme alla “attestazione” ed ai documenti tipici della domanda di ammissione al concordato. Entro trenta giorni dalla pubblicazione i creditori possono proporre opposizione all’omologazione. Il Tribunale, decise le eventuali opposizioni, procede all’omologazione in camera di consiglio, con decreto motivato, che è reclamabile davanti alla Corte d’Appello entro quindici giorni dalla sua pubblicazione nel registro delle imprese.
10. La “transazione fiscale” e previdenziale (rinvio). La riforma della legge fallimentare ha introdotto nell’ordinamento concorsuale l’istituto della “transazione fiscale” (oggi estesa ai contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatoria), con l’obiettivo di favorire l’attuazione di programmi di prevenzione o di risoluzione delle crisi d’impresa anche attraverso la mitigazione degli effetti dell’indebitamento fiscale (e previdenziale). La disciplina di questo istituto presenta connotati di rilevante complessità tecnica, dovendo tenere conto dell’articolato sistema della esazione dei tributi e dei contributi previdenziali ed assistenziali. In questo contesto vengono dettate minuziose disposizioni, soprattutto procedimentali, concernenti la possibilità per l’imprenditore “in crisi” di “proporre il pagamento parziale o anche dilazionato dei tributi amministrati dalle agenzie fiscali … nonché dei contributi amministrati dagli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie”. L’imprenditore può fare ricorso all’istituto in commento o in occasione della presentazione di una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione, o in occasione di una domanda di ammissione al concordato preventivo. Rimandiamo pertanto alle Relazioni dedicate a tale procedura l’esame dei profili problematici della relativa disciplina.
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11. Conclusioni. L’esame della disciplina prevista dalla legge fallimentare per le procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa ci consente di pervenire alle seguenti, sintetiche conclusioni. Piano di risanamento attestato. Si presta in particolare a sostenere i “piani” di risanamento di una impresa perseguibili tramite un intervento diretto dell’imprenditore o dei soci, oppure tramite la collaborazione con un numero ristretto di interlocutori (per es. un numero ristretto di banche creditrici; o l’acquirente di assets dell’impresa; o un nuovo soggetto che entra nel capitale sociale). Può contare principalmente sull’incentivo della “blindatura” degli atti di esecuzione contro il rischio della revocatoria e contro il rischio penale. Nei limiti in cui si ritenga estensibile la prima “esenzione” anche all’azione revocatoria ordinaria; e considerata la recente introduzione dell’incentivo di carattere fiscale, deve essere riconosciuta non solo la legittimazione, ma anche l’interesse, a ricorrere all’istituto anche da parte di imprenditori non soggetti al fallimento ai sensi dell’art. 1 l.fall. In tale prospettiva l’istituto si sovrappone, per questa parte, alla procedura di insolvenza civile. Accordo di ristrutturazione. Si presta in particolare a sostenere i “piani” di ristrutturazione dell’indebitamento dell’impresa nelle situazioni nelle quali le passività sono sufficientemente concentrate in un numero non elevato di creditori (per es., le banche), così da rendere prevedibilmente agevole la realizzazione del presupposto della adesione di tanti creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento delle passività. Gli incentivi di cui può godere sono numerosi ed efficaci, ma rimane il profilo problematico legato alla esigenza che l’impresa possa disporre di (o possa conseguire attraverso il sostegno finanziario di terzi) una liquidità elevata, per poter fronteggiare l’obbligo di adempimento integrale dei creditori non aderenti (sia pure con la dilazione di centoventi giorni concessa dalla legge). Il numero e l’efficacia degli incentivi giustificano non solo la legittimazione (comunque esplicitamente riconosciuta per l’imprenditore agricolo) ma anche l’interesse a fare ricorso all’istituto anche da parte di imprenditori non soggetti al fallimento ex art. 1 l. fall. In tale prospettiva (anche) l’accordo di ristrutturazione si sovrappone all’istituto della insolvenza civile. Concordato preventivo. Si presta a sostenere qualsiasi “piano” di prevenzione / soluzione / sistemazione delle situazioni di crisi dell’impresa, per l’estrema duttilità degli strumenti utilizzabili. Rispetto ai “piani” ed agli “accordi” può contare sugli incentivi supplementari della legittima-
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zione ad incidere sui rapporti giuridici pendenti, imponendo alle controparti, di volta in volta, lo scioglimento dei contratti pregiudizievoli o il mantenimento dei contratti favorevoli; nonché – e soprattutto – sulla efficacia vincolante della adesione della maggioranza dei creditori (rectius: dei crediti) rispetto ai creditori dissenzienti. Si tratta inoltre dell’istituto che più di ogni altro si presta a favorire la emersione tempestiva della situazione di “crisi”, consentendo all’imprenditore di conseguire effetti protettivi in via anticipata, quando ancora il “piano” per il superamento della crisi non è ben delineato; la “proposta” da rivolgere ai creditori è ancora in elaborazione; e lo stesso sbocco della crisi – se in una domanda di concordato “definitivo” o nella proposta di un accordo di ristrutturazione dei debiti – è incerto (cfr. art. 161, co. 6, ult. parte, l.fall.). Il concordato preventivo sconta per converso un tasso di giurisdizionalizzazione molto elevato (la “invasività” degli organi della procedura è massima), ed è rigorosamente riservato agli imprenditori soggetti a fallimento (arg. ex. art. 1 l.fall.).
IV. Le procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento. Sommario: 1. Premessa. Crisi da “sovraindebitamento”, “insolvenza civile” e “crisi del consumatore”. – 2. La disciplina delle crisi da sovraindebitamento dalla legge n. 3/2012 alla legge n. 221/2012. – 3. L’accordo di composizione della crisi. – 4. Il piano del consumatore (“meritevole”). – 5. La liquidazione del patrimonio (del debitore “civile” sovraindebitato).
1. Premessa. Crisi da “sovraindebitamento”, “insolvenza civile” e “crisi del consumatore”. Come abbiamo avuto modo di sottolineare a più riprese, nel nostro ordinamento le procedure concorsuali (concordato preventivo; fallimento; liquidazione coatta amministrativa; amministrazioni straordinarie) sono rivolte a disciplinare esclusivamente le situazioni di “crisi” delle imprese commerciali “non piccole” (intendendo per tali quelle che superano una delle soglie dimensionali di cui all’art. 1 l.fall.): ed anche le procedure di composizione delle crisi non propriamente qualificabili “procedure concorsuali” (cioè il procedimento del “piano di risanamento attestato – art. 67, co. 3, lett. d), l.fall. –, e gli “accordi di ristrutturazione”
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– art. 182-bis l.fall. -) sono dedicate all’esclusiva disciplina delle “crisi” delle imprese commerciali (forse anche “piccole”), con la sola eccezione della possibilità di accesso (soltanto) all’istituto dell’accordo di ristrutturazione da parte (soltanto) dell’imprenditore agricolo (in virtù del disposto dell’art. 23, co. 43, d.l. n. 98/2011). Le situazioni rappresentate dalle “crisi” delle imprese agricole (con la ricordata eccezione dell’accessibilità all’accordo di ristrutturazione), delle imprese commerciali cc.dd. “sottosoglia”, e dei cc.dd. debitori civili (cioè soggetti che non esercitano attività d’impresa) sono rimaste sino ai nostri tempi prive di soluzioni alternative alla promozione, da parte dei singoli creditori, di azioni esecutive individuali per il recupero “disordinato” dei rispettivi crediti (nessun successo avendo avuto il pur risalente istituto della cessione dei beni ai creditori di cui all’art. 1977 c.c.). Identica lacuna, infine, si registra per quell’esempio particolare di “debitore civile” rappresentato dal c.d. “consumatore” (cioè dalla “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale e professionale eventualmente svolta”: art. 3, co. 1, lett. a) d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, “Codice del consumo”). A ciò hanno inteso porre rimedio, molto recentemente, la legge 27 gennaio 2012, n. 3, e successivamente il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito nella legge 17 dicembre 2012, n. 221), che ha apportato profonde modificazioni alla legge n. 3/2012. Tali disposizioni vengono soventemente riassunte con l’espressione (disciplina della) “insolvenza civile”: che costituisce una espressione utile per distinguerle dalle discipline delle situazioni di crisi dei soggetti presumibilmente più importanti (le imprese commerciali “non piccole”), ma al tempo stesso fornisce una rappresentazione imprecisa dell’ambito di applicazione che le interessa, dal momento che – come vedremo – le disposizioni della legge n. 3/2012 (come modificata dalla legge n. 221/2012) non si rivolgono solamente a disciplinare le situazioni di crisi riferibili al fenomeno della “insolvenza civile” (pur comprensivo anche delle situazioni di crisi dei “consumatori”), ma si estendono a disciplinare anche le situazioni di crisi di soggetti imprenditori (o perché di natura agricola, o perché “sottosoglia”).
2. La disciplina delle crisi da sovraindebitamento dalla legge n. 3/2012 alla legge n. 221/2012. La legge n. 3/2012 aveva inteso disciplinare le situazioni di crisi da “sovraindebitamento” nei seguenti termini essenziali:
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a) presupposti oggettivi: una “situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, nonché la definitiva incapacità del debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni”; b) presupposti soggettivi: non assoggettabilità del “debitore” (non necessariamente soltanto in veste di persona fisica) alle procedure previste dall’art. 1 l.fall. (concordato preventivo e fallimento) e mancato ricorso alla procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento nei tre anni precedenti; c) natura dell’istituto: accordo con i creditori rappresentanti almeno il 70 per cento dei crediti, omologato dal tribunale; d) procedimento: deposito presso il tribunale della proposta di accordo (con documentazione integrativa); fissazione di una “udienza di discussione” con tutti i creditori; discussione; disposizione da parte del tribunale del divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari o di acquisire titoli di prelazione non concordati; trasmissione dell’accettazione della proposta da parte dei singoli creditori; omologazione dell’accordo alla duplice condizione del raggiungimento della percentuale di adesione da parte di tanti creditori rappresentanti il 70 per cento dei crediti, e della “idoneità [dell’accordo] ad assicurare il pagamento dei creditori estranei”; e) effetti: quanto alla proposta di accordo depositata presso il tribunale, il conseguimento della disposizione giudiziale del divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari, o di acquisire titoli di prelazione non concordati, a seguito della discussione con i creditori svoltasi nel corso dell’udienza appositamente fissata; quanto alla omologa dell’accordo, “proroga” degli “effetti protettivi” già prodottisi per un periodo non superiore ad un anno (anche – e soprattutto – nei confronti dei creditori estranei); quanto ai coobbligati, ai fideiussori del debitore ed agli obbligati in via di regresso, era previsto che “l’accordo non pregiudica i diritti dei creditori nei [loro] confronti”. Oltre a ciò, la legge n. 3/2012 istituiva l’“Organismo di composizione della crisi”, al quale venivano affidate una serie di funzioni organizzative ed istruttorie per la predisposizione del “Piano” sotteso alla proposta di accordo del debitore, e per la esecuzione dello stesso. La disciplina in esame non ha avuto alcun successo: e le ragioni sono facilmente intuibili, quando si consideri che: a) mancava l’efficacia vincolante della maggioranza dei creditori aderenti (che pure fosse stata raggiunta) nei confronti dei creditori cc.dd. estranei: da cui conseguiva la prevedibile propensione dei creditori a rimanere “estranei” all’accordo, e comunque la necessità di preve-
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derne il pagamento integrale e sollecito (con l’unica agevolazione della “moratoria coatta” per un periodo non superiore a un anno); b) mancava un effetto “esdebitatorio” per il debitore, che pertanto era chiamato a dare esecuzione puntuale all’accordo nei confronti dei creditori aderenti, ed a continuare a dover pagare i creditori estranei in misura integrale; c) esponeva il debitore al prevedibile pericolo di essere aggredito immediatamente con azioni esecutive e cautelari e - soprattutto – colpito da ipoteche giudiziali, essendo rinviati gli eventuali effetti protettivi ad un momento (la celebrazione della “udienza di discussione”) nel quale i creditori erano già stati fortemente allarmati (a seguito della necessaria notifica della data di celebrazione dell’udienza) della intenzione del debitore di proteggere il proprio patrimonio dalle loro iniziative aggressive. Del tutto irrazionale risultava poi la previsione della salvezza dei diritti (residui) dei creditori nei confronti dei coobbligati e dei fideiussori del debitore: tale effetto, giustificato nell’ambito del concordato preventivo (art. 184, co. 1, l.fall.) per il carattere vincolante del concordato omologato nei confronti anche dei creditori dissenzienti (così che sarebbe risultato inammissibile privare il creditore non aderente, oltre che del libero esercizio dei diritti di credito nei confronti del debitore, anche di quello nei confronti dei coobbligati e garanti); risultava invece ingiustificato come effetto dell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento, che essendo vincolante solo per i creditori aderenti, pur avrebbe potuto comportare, stante il loro consenso alla definizione del rapporto obbligatori secondo quanto proposto dal debitore, insieme all’estinzione dell’obbligazione, anche l’estinzione delle “garanzie” verso terzi coobbligati o garanti. A fronte del totale insuccesso dell’istituto, la legge n. 221/2012 ha apportato profonde modifiche all’originaria disciplina di cui alla legge n. 3/2012. Nell’occasione, poi, il legislatore ha integrato la disciplina concernente l’accordo tra debitore e creditore per la sistemazione della crisi da sovraindebitamento (“accordo di composizione della crisi”) con una disciplina concernente il progetto unilaterale del “consumatore” di sistemazione della propria situazione di insolvenza (“piano del consumatore”), nonché – ancora – con la disciplina della liquidazione dei beni del debitore (“liquidazione del patrimonio”), per l’ipotesi nella quale il debitore non abbia potuto, o non abbia voluto, attivare il procedimento per il conseguimento dell’omologazione di un “accordo di composizione della crisi”.
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3. L’accordo di composizione della crisi. L’accordo di composizione della crisi rappresenta il primo e più importante strumento di sistemazione delle situazioni di “crisi” del c.d. “insolvente civile” – per come meglio infra identificato –. La disciplina dell’istituto è così sinteticamente riassumibile: a) presupposti oggettivi: sostanzialmente gli stessi già previsti dalla legge n. 3/2012 (supra), oggi esplicitamente previsti in via alternativa l’uno rispetto all’altro, e con la precisazione che lo squilibrio tra le obbligazioni assunte ed il patrimonio prontamente liquidabile deve determinare “la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni”; b) presupposti soggettivi: gli stessi già previsti dalla legge n. 3/2012 (supra), oggi identificati come i debitori non soggetti “a procedure concorsuali diverse da quelle regolate nel presente capo” – e quindi coincidenti con l’imprenditore agricolo, le imprese commerciali cc.dd. “sotto soglia”, i debitori civili, comprensivi del “consumatore” -. Il mancato ricorso ad una analoga procedura deve estendersi al quinquennio antecedente; c) natura dell’istituto: accordo con i creditori rappresentanti il sessanta per cento dei crediti, omologato dal tribunale. I creditori privilegiati di cui la proposta prevede l’integrale pagamento non sono computati ai fini del raggiungimento della maggioranza e non hanno diritto di voto. La mancata espressione del voto (da parte dei legittimati allo stesso) equivale alla adesione alla proposta del debitore (“silenzio – assenso”). La proposta del debitore può prevedere la ristrutturazione delle proprie passività in qualsiasi forma, anche suddividendo i creditori in “classi”, nonché prevedendo il soddisfacimento solo parziale dei creditori privilegiati, allorché ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione del patrimonio del debitore. In caso di “accordo con continuazione dell’attività dell’impresa” la proposta può prevedere “una moratoria sino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno ed ipoteca …”; d) procedimento: è analogo a quello già disciplinato dalla legge n. 3/2012 (supra): proposta del debitore depositata presso il tribunale; fissazione della “udienza di discussione” con i creditori; celebrazione della “udienza di discussione”; omologazione dell’accordo, alla duplice condizione dell’accertamento della adesione della maggioranza del 60 per cento dei crediti ammessi al voto e della idoneità del “piano” ad assicurare (l’esecuzione dell’accordo, compreso il pagamento dei creditori privilegiati in misura integrale ovverosia in misura non inferiore a quella che sarebbe risultata soddisfatta in sede di liquidazione, nonché) il pagamento
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integrale dei crediti impignorabili e dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione Europea, dell’IVA e delle ritenute operate e non versate; e) effetti: quanto alla proposta di accordo depositata presso il tribunale, la sospensione degli interessi e il conseguimento – “dispone”: art. 10, co. 2, lett. c) – della disposizione giudiziale, contestuale al decreto di fissazione della “udienza di discussione”, di divieto di inizio o prosecuzione di azioni esecutive e cautelari o di acquisizione di diritti di prelazione sul patrimonio del debitore (da parte dei creditori anteriori); inoltre “gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti senza l’autorizzazione del giudice sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori”; quanto alla omologa dell’accordo (i) l’effetto vincolante dell’accordo anche nei confronti dei creditori (anteriori) non aderenti; (ii) il divieto di promozione di azioni esecutive sui beni oggetto del “Piano” da parte dei creditori posteriori all’accordo; (iii) la “esenzione” dalla revocatoria di cui all’art. 67 l. fall. degli “atti , pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato”; (iv) il soddisfacimento in prededuzione, nell’eventuale fallimento consecutivo, dei crediti derivanti dai finanziamenti effettuati in esecuzione o in funzione dell’accordo omologato; (v) la “esimente” da responsabilità penale (connessa a fatti suscettibili di costituire i presupposti dei reati di bancarotta preferenziale e di bancarotta semplice per aggravamento del dissesto conseguente al ritardo della dichiarazione del fallimento) per gli atti di esecuzione dell’Accordo omologato; quanto ai coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso: sono analoghi agli effetti già disposti dalla legge n. 3/1012 (supra); quanto ai “pagamenti e atti dispositivi dei beni posti in essere in violazione dell’accordo”, sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori. Tra le modificazioni più importanti, come è evidente, si colloca pertanto la anticipazione degli “effetti protettivi” per il debitore al momento stesso della apertura della procedura, contestualmente alla fissazione della “udienza di discussione”; f) modificabilità: quando l’esecuzione dell’accordo diviene impossibile per ragioni non imputabili al debitore, quest’ultimo, con l’ausilio dell’Organismo di composizione della crisi, può modificare la proposta, applicandosi ad essa le stesse disposizioni già applicabili all’accordo.
4. Il piano del consumatore (“meritevole”). “Fermo restando il diritto di proporre ai creditori un accordo” di composizione della crisi, il “consumatore” (infra) può proporre ai cre-
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ditori un “piano” avente gli stessi contenuti della proposta di accordo (supra). La disciplina di questo istituto, del tutto innovativo, è così sinteticamente riassumibile: a) presupposti oggettivi: lo stato di “sovraindebitamento”, come già definito; b) presupposti soggettivi: i presupposti negativi già precisati (non soggezione a “procedure concorsuali” diverse; mancato ricorso ai procedimenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento nel quinquennio anteriore), nonché i presupposti positivi: (i) di essere qualificabile “consumatore”, intendendosi per tale, a questi fini, “il debitore persona fisica che ha assunto obbligazioni esclusivamente per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta” – dove è chiaro che la natura “civile” riguarda qui il titolo produttivo delle obbligazioni che hanno generato il sovraindebitamento, e non già il soggetto che lo ha assunto, che potrebbe essere anche un imprenditore o un professionista -; e (ii) di essere qualificabile “meritevole”, intendendosi per tale il consumatore di cui il giudice escluda che abbia “assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere”, e che non abbia “colposamente determinato il sovraindebitamento anche per mezzo di ricorso al credito non proporzionato alle proprie capacità patrimoniali”; c) natura dell’istituto: “piano” di ristrutturazione del sovraindebitamento costituito da atto unilaterale del “consumatore meritevole”, omologato dal tribunale; d) procedimento: analogo al procedimento di “accordo”, con esclusione della fase di espressione del voto da parte dei creditori, non prevista. L’omologazione del “piano” segue all’accertamento della “fattibilità” dello stesso e della “meritevolezza” del consumatore sovraindebitato; e) effetti: quanto al “piano” depositato presso il tribunale, la sospensione degli interessi e la possibilità che il tribunale sospenda i procedimenti di esecuzione forzata in corso; quanto alla omologa del “Piano”: (i) il divieto (per i creditori anteriori) di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari o di acquisire titoli di prelazione sul patrimonio del debitore; (ii) l’obbligatorietà del “Piano” omologato per tutti i creditori anteriori; (iii) il divieto per i creditori posteriori di procedere esecutivamente sui beni oggetto del “Piano”; (iv) la salvezza dei diritti dei creditori nei confronti dei coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso; (v) la inefficacia rispetto ai creditori anteriori dei pagamenti e degli atti dispositivi dei beni posti in essere in violazio-
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ne del “Piano”; (vi) la prededuzione dei crediti “sorti in occasione o in funzione” del Piano” del consumatore (art. 14 duodeciess, co. 2); f) Modificabilità: come per l’accordo di composizione della crisi (supra)
5. La liquidazione del patrimonio (del debitore “civile” sovraindebitato). “In alternativa alla proposta per la composizione della crisi” il debitore sovraindebitato può richiedere la liquidazione del suo patrimonio. Trattasi evidentemente di una procedura “residuale”, che il debitore può avere interesse ad attivare per conseguire una più efficace ed ordinata liquidazione dei suoi beni in funzione del soddisfacimento dei creditori, magari con la prospettiva di conservarne una parte più o meno consistente. La disciplina di questo istituto, anch’esso sostanzialmente nuovo per il nostro ordinamento, è così sinteticamente riassumibile: a) presupposto oggettivo: lo “stato di sovraindebitamento”, come già definito; b) presupposti soggettivi: i presupposti negativi della mancata soggezione ad altre “procedure concorsuali” e del mancato ricorso alle procedure di composizione delle situazioni di sovraindebitamento nel quinquennio precedente, nonché il presupposto positivo di essere qualificabile “debitore” – che dovrebbe ricomprendere anche il “consumatore” -; c) natura dell’istituto: procedura esecutiva rivolta alla liquidazione del patrimonio del debitore (con esclusione dei beni costituiti in fondo patrimoniale) ed alla soddisfazione dei suoi creditori con il relativo ricavato; d) procedimento: analogo al procedimento delineato per la conclusione dello “accordo di composizione della crisi”, con esclusione della fase della votazione (che non sussiste) e con la sostituzione del provvedimento giudiziale di omologa con il provvedimento di “apertura della liquidazione”. Con tale provvedimento viene nominato un liquidatore, che provvederà alla redazione dell’inventario; ad organizzare l’accertamento del passivo; a compiere gli atti di liquidazione (che comprendono anche i beni sopravvenuti nei quattro anni successivi, al netto delle passività incontrare per il loro acquisto e la loro conservazione); a ripartire il ricavato tra i creditori; e) effetti: quanto alla domanda di liquidazione, depositata presso il tribunale, la sospensione degli interessi, il conseguimento – “dispone”:
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art. 14-quinquies, co. 2, lett. b) – del divieto di inizio o prosecuzione di azioni esecutive e di acquisizione di diritti di prelazione sul patrimonio oggetto di liquidazione da parte dei creditori anteriori; quanto al provvedimento di apertura della liquidazione, il divieto per i creditori posteriori di procedere esecutivamente sui beni oggetto di liquidazione; la “prededuzione” dei crediti “sorti in occasione o in funzione della liquidazione”; possibile “esdebitazione” del debitore-persona fisica “meritevole” (essendo legata la “meritevolezza” ad alcuni fattori positivi – tra i quali: la cooperazione; lo svolgimento, nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione, di una attività produttiva di reddito adeguata rispetto alle competenze del debitore, o comunque la ricerca di una occupazione; il soddisfacimento almeno parziale dei creditori anteriori -; ed alla mancanza di alcuni fattori negativi – tra i quali: il rifiuto ingiustificato, nei quattro anni successivi al deposito della domanda, di proposte di impiego; l’avere beneficiato di altra “esdebitazione” negli otto anni precedenti; l’avere subito condanne penali per taluni reati specificati; l’avere provocato lo stato di sovraindebitamento con “un ricorso al credito colposo e sproporzionato rispetto alle sue capacità patrimoniali; l’avere posto in essere “atti in frode” nel quinquennio anteriore all’apertura della liquidazione o nel corso della stessa -. La “esdebitazione”, peraltro, non opera – tra gli altri – per i debiti derivanti da obblighi di mantenimento e alimentari e per i debiti da risarcimento dei danni per fatto illecito extracontrattuale (cioè i debiti verso i cc.dd. “creditori involontari”),
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Gli intermediari non bancari disciplinati dal Testo Unico Bancario: alcune considerazioni generali alla luce della disciplina “riformata” Sommario: 1. Linee comuni della disciplina degli intermediari disciplinati dal t.u.b. – 2. Gli intermediari del titolo V tra vecchio e nuovo regime normativo. – 3. Le ragioni e il contenuto della riforma del titolo V. - 4…e dei titoli V-bis e V-ter. – 5. La disciplina delle crisi degli intermediari del titolo V, V-bis e V-ter.
Linee comuni della disciplina degli intermediari disciplinati dal t.u.b. Dopo il susseguirsi di recenti interventi legislativi il testo unico bancario si presenta arricchito nel suo contenuto e di complessa lettura. Uno dei segmenti che ha subito maggiori innovazioni è quello che contiene le norme relative agli intermediari finanziari. Le note che seguono offrono un quadro ricostruttivo delle più rilevanti novità, anche alla luce dell’evoluzione storica che le ha contraddistinte. La disciplina contenuta nei titoli V, V-bis e V-ter del testo unico bancario, quali risultanti a seguito dei provvedimenti di riforma che li hanno interessati – vale a dire, in ordine temporale: il d.lgs. n. 11 del 2010, il d.lgs. n. 141 del 2010, il d.lgs. n. 230 del 2011, il d.lgs. n. 45 del 2012 e, da ultimo, il d.lgs. n. 169 del 20121 – pare presentare come tratto unificante la definizione di un genus rappresentato dagli “intermediari finanziari” e la tendenza della relativa disciplina ad omologarsi – pur mantenendo specifici tratti di differenziazione – a quella “archetipica” individuata nella normativa bancaria. Tali intermediari potranno essere, per comodità, identificati come intermediari del t.u.b.: non rientrano, quindi, in tale ge-
1.
L’art. 3 novella l’art. 7 del d.lgs. n. 141 del 2010, che a sua volta opera un’articolata riscrittura degli art. 107-113 del t.u.b., in materia di soggetti operanti nel settore finanziario.
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nus i soggetti che operano nel mercato mobiliare 2 - oggetto di disciplina nel t.u.f. - né quelli che operano nel settore assicurativo, disciplinati dal codice delle assicurazioni. Il processo di progressiva e tendenziale “assimilazione” alla normativa bancaria, peraltro, non ha seguito percorsi uniformi: nel caso degli IMEL (ora disciplinati all’interno del Titolo V-bis), ad esempio, l’accostamento è stato in passato “necessitato” dalla disciplina comunitaria, che li aveva qualificati enti creditizi; nel caso degli intermediari del Titolo V il processo di “assimilazione” parte da epoca più remota (potrebbe dirsi dalla emanazione stessa del testo unico); infine, quanto agli Istituti di Pagamento (disciplinati nel Titolo V-ter), tale processo è stato dovuto alla condivisione con le banche, in regime di riserva, della prestazione dei servizi di pagamento 3. La collocazione nel contesto del t.u.b., con la conseguente attrazione, seppure non completa, al regime delle banche, comporta da un punto di vista pratico che l’applicazione di un notevole numero di norme dettate per le banche venga estesa a tutti, o per lo meno a gran parte degli intermediari del t.u.b.: si rende così possibile individuare delle linee comuni nell’ambito di tale plesso normativo. Particolare valore assume, per esempio, l’estensione del regime di trasparenza delle condizioni contrattuali, dettato dal Titolo VI, capo I che, in virtù del co. 1 dell’art. 115, si applica alle banche e agli intermediari finanziari disciplinati dagli artt. 106-114 nel titolo V 4 e, per esplicito rinvio da
2
Sebbene possano essere autorizzati a prestare servizi di investimento. Fortemente critico nei confronti della “bancarizzazione” degli istituti di pagamento è il Merusi, Fra omissioni ed eccessi: la recezione della Direttiva comunitaria sui servizi di pagamento, in Riv. ital. dir. pubbl. comunitario, p. 1174, per il quale, sotto vari profili, l’attuazione nell’ordinamento italiano non appare conforme alle indicazioni della direttiva. 4. Si tratta di un regime non uniforme, in quanto per la prestazione dei servizi di pagamento (capo II bis ) e per le operazioni di credito al consumo (capo II) è previsto un regime di trasparenza differenziato. La disciplina di trasparenza di cui all’art. 115 t.u.b. ha assunto un valore residuale, applicandosi solo in assenza di specifiche discipline di settore. Così Spena, Trasparenza delle condizioni contrattuali, in Testo unico bancario, Commentario, Addenda di aggiornamento ai d.lgs. 141/2010 e 218/2010, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina, Milano, 2011, p. 36. Si veda ampiamente Nigro, Linee di tendenza nella disciplina di trasparenza, in Nuove regole per le relazioni tra banche clienti. Oltre la trasparenza, Torino, 2011, p. 29. In particolare per i servizi di pagamento Rispoli Farina, Commento all’art. 34, co. 1, lett b) del d. lgs. n. 11 del 2010, in Mancini, Rispoli Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi, Troiano, La nuova disciplina dei servizi di pagamento, Torino, 2011, p. 521 ss. 3.
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parte delle norme che li disciplinano, agli altri “nuovi intermediari” 5. Altrettanto dicasi per il sistema alternativo di soluzione delle controversie tra banche e clienti, rappresentato dall’ABF, la cui procedura è applicabile anche alle questioni sorte tra gli intermediari del t.u.b. e i clienti 6. Molte altre norme del t.u.b., che verranno più compiutamente esaminate nelle note che seguono, risultano applicabili in forza di rinvio. Detto questo con riferimento alla relazione tra disciplina degli intermediari del testo unico bancario e disciplina bancaria, ci si potrebbe ulteriormente domandare se nella prima si rinvengano elementi che consentano di individuare una linea di parentela anche con gli intermediari assicurativi e gli intermediari del mercato mobiliare. Tali tratti di continuità sono individuabili e distinguibili, ma proprio in virtù della circostanza che anche tali ultime tipologie di intermediari hanno subito un notevole “influsso” attrattivo della disciplina bancaria, quanto almeno alla regolamentazione dei soggetti. Per il settore del mercato mobiliare e assicurativo emergono infatti delle differenze che concernono gli atti e i mercati, ma dal punto di vista dei soggetti è possibile individuare dei principi e delle regole comuni (che a loro volta ricalcano, come si anticipava, la disciplina originariamente prevista per le banche). Si pensi alla circostanza che per tutti gli intermediari italiani7, in sostanza, ha assunto valore di principio generale la regola della preventiva autorizzazione amministrativa, subordinata alla presenza di condizioni prestabilite che presentano tra di loro tratti di notevole analogia; pur se l’autorizzazione assume il carattere di atto
5. Emblematico è il rinvio all’applicazione delle norme del Titolo VI, in quanto compatibili, operato dall’art. 114-undecies per gli Istituti di Pagamento. 6. I soggetti passivi della procedura instaurata davanti l’ABF, sono indicati nelle Disposizioni della Banca d’Italia, che vi ricomprendono le banche, gli intermediari finanziari iscritti nell’albo previsto dall’articolo 106 del t.u.b., i confidi iscritti nell’elenco previsto dall’articolo 112 del t.u.b., Poste Italiane S.p.A. in relazione all’attività di Bancoposta, le banche e gli intermediari esteri che svolgono in Italia nei confronti del pubblico operazioni e servizi disciplinati dal titolo VI del t.u.b., gli istituti di pagamento, gli intermediari finanziari iscritti negli elenchi previsti dagli artt. 106 e 107 del t.u.b. che operano nei confronti del pubblico, gli Imel e gli Istituti di Pagamento. V. Banca D’Italia, Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari., nonché il recente contributo di Carriero, Morfologia e funzioni dell’arbitro bancario e finanziario, in Foro It., 2012, V, p. 213 ss., ove ampia bibliografia. Per l’applicazione agli istituti di pagamento delle Alternative Dispute Risolution si veda Rispoli Farina, Commento all’ art. 40, in Mancini, Rispoli Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi, Troiano, a cura di, La nuova disciplina, cit., p. 709 ss. 7 Porzio, Le imprese bancarie, Torino, 2007, p. 45 s.
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dovuto, tuttavia l’autorità amministrativa, attraverso il canale dell’approvazione del Programma e la regola della «sana e prudente gestione», conserva ancora una certa discrezionalità. Altri elementi comuni sono rappresentati dalla presenza di particolari regole di comportamento, che ineriscono sia ai rapporti con i terzi, sia alla gestione economica finanziaria dell’impresa; dalla sottoposizione a vigilanza di pubbliche Autorità, variamente composta e articolata; da forme «parassicurative» a tutela degli investitori, da procedure di disciplina delle crisi diverse da quella fallimentare e ricollegabili, ancorché non coincidenti, con l’amministrazione straordinaria e alla liquidazione amministrativa, previste per le banche fin dalla legge del 1936. Nella disciplina del t.u.b., vigente fino alla recente riforma introdotta con il d.lgs. n.141 del 2010, i principi e le regole suenunziati non erano estendibili in via generale agli intermediari disciplinati dagli artt. 106 8, né agli Istituti di Pagamento, ancor prima dell’emanazione dei provvedimenti attuativi del d.lgs. n. 11 del 2010 9, né agli Imel. Alla luce delle nuove discipline ricordate all’inizio di tale contributo, il quadro è profondamente mutato, tanto da rendere doverosa la risposta all’interrogativo se possa individuarsi una linea di continuità che percorra la disciplina dei vari “segmenti” degli intermediari finanziari, divenuta via via più evidente nel tempo, o se sussistano ancora decisivi elementi di “discontinuità”, che il legislatore ha inteso confermare in relazione a specifiche esigenze e valutazioni, relativamente a singoli intermediari o “famiglie” di essi.
2. Gli intermediari del titolo V tra vecchio e nuovo regime normativo. La disciplina degli intermediari racchiusa nel nuovo Titolo V del t.u.b. rappresenta per alcuni versi un «ritorno al passato» e per altri un evidente segno dei mutamenti che la crisi finanziaria globale del 2008 ha indotto negli ordinamenti finanziari, comunitari, nazionali e d’oltreoceano10. Giova
8. Per i quali non si applicava né la “autorizzazione preventiva”, né il sistema assicurativo per il clienti, né speciali procedure per la crisi diverse dalla procedura fallimentare ordinaria. 9. Per i quali si veda Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza sugli Istituti di Pagamento. 10 Per uno sguardo generale v. Rispoli Farina, Rotondo, a cura di, Le crisi finanziarie, Milano, 2009. Si vedano i pregevoli saggi contenuti in Studi in onore di Capriglione, Padova, 2010 nonché in Principe, a cura di, Impresa bancaria e crisi dei mercati finan-
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allora ripercorrere alcuni tratti della storia del nostro sistema creditizio: il problema di sottoporre a una disciplina analoga a quella bancaria soggetti che si caratterizzavano per la «capacità di erogare credito» si era già posto all’attenzione dei redattori della prima fondamentale riforma del credito, costituita dalla legge bancaria del 193611, che intendevano porre in essere, attraverso il «comando unico» del credito un sistema di controlli su tutte le forme di finanziamento all’epoca vigenti. Fu il Comitato dei Ministri, nelle prime applicazioni della legge, in un’interpretazione ampia della formula «raccolta del risparmio sotto ogni forma e esercizio del credito», che delimitava l’ambito dei soggetti sottoposti ai pubblici controlli stabiliti dalla legge, ad estendere, con apposita delibera, alcuni poteri degli organi di controllo anche alle aziende che esercitavano il credito, senza raccogliere il risparmio, come le società finanziarie, che andavano tuttavia iscritte in un apposito Albo, diverso da quello delle “aziende di credito”12. La scelta suscitò non poche opposizioni e censure, tali da comportare l’abbandono del disegno di comprendere anche intermediari finanziari diversi dalle aziende di credito ordinario e dagli Istituti di credito speciale, nel sistema dei controlli previsti della legge bancaria13. Nei successivi anni ’50 ci si limitò – ma solo a fini fiscali – a dettare regole per le holding, e di seguito, con la l. 216/1974, di riforma del diritto
ziari, Napoli, 2010. Tra i recenti contributi della dottrina economica si vedano Palma, The revenge of the market on the rentiers: why neo-liberal reports of the end of history turned out to be premature, in Cambridge Journal of Economics, Special Issue on the Global Financial Crisis, 2009, 33 (4), pp. 829-866; Panico, Pinto, Puchet Anyul, Income distribution and the size of the financial sector: a Sraffian analysis, in Cambridge Journal of Economics, 2012, 36, pp. 1455-77; Schinasi e Truman, Reform of the global financial architecture, in Peterson Institute for International Economics, Working Paper Series, 2010, pp. 10-14; White, Lessons from the history of bank examination and supervision in the United States, in Gigliobianco e Toniolo, a cura di, Financial Market Regulation in the Wake of Financial Crises: The Historical Experience, 2009, pp. 1863-2008; Commissione Europea, Libro verde sistema bancario ombra; Savona, Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi, Rubettino, Soveria Mannelli, 2012, p. 49. 11. Su cui si rinvia al fondamentale contributo costituito dal volume Porzio, a cura di, La legge bancaria. Note e documenti sulla sua storia segreta, Bologna, 1981. Si sofferma sul “comando unico” Rispoli Farina, in Il controllo sull’attività creditizia. Dalla tutela del risparmio al dirigismo economico, ivi, pp. 83-121. 12 Si veda ampiamente Porzio, a cura di, La legge bancaria, cit, p. 23 ss. 13. Si veda Rispoli Farina, Gli intermediari finanziari e la Direttiva CEE 12 novembre 1977, relativa al coordinamento delle disposizioni riguardanti l’accesso all’attività degli enti creditizie al suo esercizio, in Mimola, Principe, Rispoli Farina, L’attuazione delle Direttive CEE in materia creditizia, Milano, 1983, pp. 397-402.
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societario, ad attribuire alla Consob compiti di informazione al pubblico e trasparenza del mercato anche nei confronti delle holding. Il progressivo incrementarsi dello svolgimento di attività finanziarie al di fuori del canale bancario, e lo sviluppo del cosiddetto «parabancario» non trovò adeguato riconoscimento normativo fino alla «legge antiriciclaggio» n. 197 del 1991 che, cogliendo l’occasione del rapporto tra lotta al riciclaggio e disciplina dell’intermediazione finanziaria, individuò in primo luogo una sorta di griglia ricognitiva di intermediari, attivi nell’intermediazione finanziaria, ma non sottoposti a disciplina, prescindendo dall’operatività o meno nei confronti del pubblico 14. La legge affiancò, ai compiti antiriciclaggio dell’Uic, poteri di controllo della Banca d’Italia. Si intervenne così, per la prima volta dopo i tentativi falliti nella prima applicazione della legge del ’36, su una larga fetta di attività finanziaria, non soggetta a disciplina, dando vita a un corpus organico di disposizioni che confluirà poi, con alcune modifiche, nel Testo unico del 1993, la cosiddetta «nuova legge bancaria». Parve allora che venisse a crearsi così un sistema di «vigilanza unitaria», seppure con strumenti non del tutto analoghi a quelli disposti per le banche 15, in un primo processo di «bancarizzazione» 16 soft degli intermediari finanziari, che vide il suo culmine nell’introduzione del principio della «esclusività dell’oggetto sociale» e della «riserva di attività», tipici della disciplina delle banche. L’art. 106, nella versione originaria, prevedeva, infatti, l’iscrizione in un apposito «elenco» di soggetti che svolgessero, nei confronti del pubblico, attività di «assunzione di partecipazioni, concessione di finanziamenti, servizi di pagamento, intermediazione nei cambi», sulla base di requisiti quasi analoghi a quelli previsti per le banche. Se iscritti in un elenco speciale, previsto dall’art. 107, a tali intermediari si applicava an-
14.
Si veda Antonucci, L’intermediazione finanziaria non bancaria nel d.lgs. 141/2010, in Rivista trimestrale di diritto dell’economia, 2011, n. 1, p. 29. 15. Si veda Porzio, Dall’ordinamento bancario all’ordinamento finanziario, in La nuova legge bancaria, a cura di Rispoli Farina, Napoli, 1995, p. 22. 16. Si vedano Antonucci, Gli intermediari finanziari residuali dalla legge antiriciclaggio al testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, in Rass. Ec., 1994, p. 248; Motti, Intermediari finanziari non bancari e industria dei pagamenti, in Studi sugli intermediari non bancari, a cura di Rispoli Farina, Napoli, 1998, p. 49; Troiano, I soggetti operanti nel settore finanziario, L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, Padova, 2010, II, p. 587; Rotondo, Commento all’art. 106, in Testo unico bancario. Commentario, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina, Santoro, Milano, 2010, p. 587.
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che la cosiddetta «vigilanza regolamentare, informativa ed ispettiva della Banca d’Italia», attuando così una pressoché totale equiparazione con le banche 17. Il sistema di regolamentazione, che emerge dal t.u.b. del 1993, basato su un elenco «generale» ed un elenco «speciale», nel quale vanno inseriti gli intermediari ad elevato rischio «sistemico», oscilla tra controlli meramente cartolari e controlli di tipo conformativo, di trasparenza della proprietà e di vigilanza regolamentare. In sezioni speciali, sono poi inseriti intermediari come le società di factoring, società per la cartolarizzazione 18, Confidi, società finanziarie per l’innovazione, pur permanendo la duplicità degli elenchi (generale e speciale). L’assetto di «vigilanza unitaria» che emergeva dal testo unico del 1993, non appariva peraltro soddisfacente dal punto di vista della disciplina introdotta 19: mentre per le banche la regolamentazione appariva completa, per gli intermediari finanziari si era ancora in una fase di passaggio, cosicché permaneva l’incertezza se si potesse parlare ormai di un ordinamento finanziario, o ancora di un ordinamento bancario, con la concessione di qualche norma per gli intermediari finanziari 20. L’assetto del Titolo V si è infatti mostrato via via inadeguato rispetto all’evoluzione dell’attività degli intermediari e al sopravvenire di nuovi soggetti. L’elenco generale dell’art. 106, ha subito un ampliamento eccessivo e ha compreso attività (riservate) estremamente eterogenee rendendo difficile l’utilizzo degli strumenti di tipo cartolare per i controlli. La soppressione dell’Uic, cui ha fatto seguito il trasferimento di competenze antiriciclaggio ad apposito Ufficio della Banca d’Italia – l’Unità di Informazione Finanziaria – ha visto confluire le funzioni antiriciclaggio 21 e la gestione degli elenchi, non più solo quello dell’art. 106, ma anche gli albi dei mediatori e degli agenti in attività finanziaria 22. Nel contempo la
17.
Ha avuto il ruolo di norma di chiusura l’art. 155 t.u.b., che ha inserito via via nella disciplina degli intermediari finanziari «bancari», altri soggetti. Trai primi le finanziarie di sviluppo della legge n. 317 del 1991 e le agenzie di prestito su pegno. Trattamento in parte differenziato per i Consorzi fidi, iscritti in una sezione speciale dell’elenco dell’art. 106 come i cambia valute, per opera del d.lgs. n. 342 del 1999. 18 Antonucci, L’intermediazione, cit., p. 29. 19 Porzio, Dall’ordinamento, cit., p. 23. 20. Porzio, Ibidem. Con riferimento all’ipotesi di configurare di un ordinamento «settoriale», composto da banche e dagli intermediari finanziari dell’art. 106. 21 Implementate dall’attuazione della Direttiva 2005/60. 22. Sull’evoluzione della disciplina si veda Criscuolo, Collaboratori esterni all’attività finanziaria, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, cit., p. 9 ss.
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crisi finanziaria ha imposto alle Autorità l’adozione di misure di rafforzamento della solidità degli intermediari finanziari, per evitare gli effetti di ritorno di rischio, connessi alle difficoltà di rimborso dei finanziamenti da parte dei beneficiari, imprenditori e famiglie 23.
3. Le ragioni e il contenuto della riforma del Titolo V. L’occasione della riforma è stata data dall’attuazione nell’ordinamento interno della direttiva 2008/48/CE in materia di credito al consumo. Nella legge comunitaria 2008 (l. 7 luglio 2009, n. 88), all’art. 33, è stata conferita la delega al Governo, tra l’altro, per introdurre una serie di modifiche ed integrazioni alla disciplina relativa ai soggetti operanti nel settore finanziario di cui al t.u.b., ai mediatori creditizi e agli agenti in attività finanziaria. In particolare, la lett. d) del co. 1 dell’art. 33 dispone una rimodulazione della disciplina di cui al Titolo V e all’art. 155 del t.u.b., prevedendo: 1) l’introduzione di strumenti di controllo più efficaci, modulati anche sulla base dell’attività svolta dall’intermediario; 2) la rideterminazione dei requisiti per l’iscrizione, al fine di consentire di operare con il pubblico soltanto a soggetti che assicurino affidabilità e correttezza dell’iniziativa imprenditoriale; 3) la previsione di sanzioni amministrative, pecuniarie ed accessorie, tra cui il divieto di intraprendere nuove operazioni, il potere di sospensione ed il rafforzamento del potere di cancellazione; 4) l’attribuzione di poteri sanzionatori e di intervento alla Banca d’Italia, in un’ottica di «semplificazione, trasparenza, celerità, economicità e efficacia dell’azione amministrativa e dei provvedimenti sanzionatori». Lo schema di decreto legislativo, recante attuazione della delega assegnata con l’art. 33, approvato in via definitiva il 30 luglio 2010, fu sottoposto al parere parlamentare e diede poi vita al decreto n. 141 del 13 agosto 2010 24.
Sulla nuova disciplina, introdotta dal d.lgs. n. 141/2010, prevista dagli artt. 128-quater e 128-quaterdecies t.u.b. si veda Belli, Corvese, Commento al titolo VI-bis, Agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi, in Testo unico bancario. Commentario, Addenda di aggiornamento, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina, Santoro, cit., pp. 125-134. 23 Antonucci, L’intermediazione, cit., p. 32. 24. Il decreto incide profondamente nella disciplina del t.u.b. Per un Commento si veda Testo Unico bancario. Commentario Addenda di aggiornamento, a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina, Santoro, cit. In particolare, sulle modifiche al titolo V
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Nel corso dei lavori preparatori al decreto n. 141 25, si è posto in particolar evidenza come il quadro legislativo relativo all’intermediazione finanziaria non bancaria, all’agenzia in attività finanziaria e alla mediazione creditizia, avesse mostrato lacune e criticità che ostacolavano il pieno conseguimento degli obiettivi. Si è sottolineato come l’iniziativa legislativa traesse sì origine dall’esigenza di attuare nel nostro ordinamento la nuova normativa europea che, approvata dopo un dibattito durato oltre cinque anni, ha introdotto significative novità nel relativo segmento di mercato, quali strumenti di tutela del consumatore incisivi, uniformi, di massima armonizzazione, ma cogliesse anche l’occasione per realizzare una riforma più ampia, che incidesse non solo sulla trasparenza e correttezza dei comportamenti con la clientela, ma anche sulla disciplina degli intermediari non bancari e dei loro canali distributivi. L’intervento è stato inquadrato dalle Autorità nel conseguimento degli obiettivi cui tende la regolamentazione finanziaria anche nel settore dell’intermediazione non bancaria, ovvero l’efficienza del sistema finanziario, la sua stabilità e integrità. Pertanto si è ritenuto fondamentale assicurare la presenza di operatori finanziari professionalmente idonei, patrimonialmente solidi e adeguati dal punto di vista organizzativo; predisporre la possibilità di canali distributivi diversificati, al fine di favorire anche la concorrenza nel settore, con l’ingresso di soggetti muniti di adeguate competenze e che presentano affidabilità dei comportamenti; essenziale è infine apparso statuire adeguate regole di tutela della clientela, assistite da un sistema di enforcement. Il plesso normativo degli artt. 106-114, così come risulta dalle modifiche imposte dal decreto 141/2010 e successive modifiche, si apre con una nuova versione dell’art. 106 (intitolato) “Albo degli intermediari finanziari”, che è dedicato all’enunciazione delle attività, il cui esercizio nei “confronti del pubblico” è riservato agli intermediari finanziari autorizzati, ai sensi del successivo art. 107 e iscritti in un apposito Albo, nonché ad elencare le altre attività che questi possono esercitare.
(Soggetti operanti nel settore finanziario) introdotte dall’art. 7 del decreto 141, v. il Commento di Greco, pp. 23-44. 25. Si veda in particolare Szego, Audizione del titolare della divisione normativa primaria. Normativa e politiche di vigilanza della Banca d’Italia, Senato della Repubblica, Roma, 7 luglio 2010, in htpp//www.bancaditalia.it/media/notizie/szego-080710.
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La nuova formulazione – che prevede, al primo comma, come oggetto di attività riservata, la “attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma” – ha suscitato non poche perplessità 26 per l’esclusione di attività precedentemente previste, come la “intermediazione in cambi” e la “assunzione di partecipazioni”; essa sancisce poi, al secondo comma, la possibilità, per gli intermediari iscritti nell’Albo, di prestare servizi di pagamento, se autorizzati e iscritti nel relativo Albo (art. 114-novies, co. 4), nonché di prestare servizi di investimento, se autorizzati ai sensi dell’art. 18, co.3 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58. Inoltre, ai soggetti iscritti è consentito di svolgere altre attività, su previsione di legge, nonché attività connesse e strumentali, nel rispetto delle disposizioni da emanare a cura della Banca d’Italia. Come in passato, spetta ancora al Ministro dell’economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, dare contenuto alla previsione dell’art. 106, co. 1, individuando il contenuto della “attività di concessione di finanziamenti”, nonché in quali circostanze ricorra l’esercizio “nei confronti del pubblico”. Ma la sofferta modifica dell’art. 106 non è si conclusa con il d.lgs. n. 141, giacché, con il recente d.lgs. 16 aprile 2012, n. 45, di attuazione della direttiva 2009/110/CE, concernente l’esercizio dell’attività e la vigilanza prudenziale sugli Istituti di moneta elettronica (IMEL), la disciplina è stata ulteriormente modificata e, in virtù di una disposizione contenuta nell’art. 2 del decreto, gli intermediari dell’art. 106 possono, oltre alle attività già elencate, di cui al co. 1: emettere moneta elettronica e prestare servizi di pagamento (se autorizzati ai sensi dell’art. 114–quinquies, co. 4, e iscritti nel relativo Albo), oppure prestare solo servizi di pagamento se autorizzati ai sensi dell’art. 114-novies, co. 4, e iscritti nel relativo Albo; prestare servizi di investimento nelle forme e modalità già previste; esercitare le altre attività consentite dalla legge, nonché attività connesse e strumentali, così come precisato dalla Banca d’Italia, con apposite disposizioni. Rilevante appare, quindi, l’ampliamento della sfera di attività degli intermediari iscritti nell’Albo dell’art. 106, così da comprendere lo svolgimento di servizi finanziari di recente introdotti, o riformulati, nell’ottica concorrenziale che la disciplina comunitaria che ispira i nuovi IMEL e gli Istituti di Pagamento intende promuovere. Il nuovo art. 107 sancisce la sparizione dell’Albo speciale tenuto dalla Banca d’Italia (e il sistema “a cerchi concentrici” che dal 1991 contraddi-
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Greco, Commento, cit., p. 28.
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stingueva gli intermediari finanziari del t.u.b.). Abrogata risulta anche la sezione dell’elenco generale prevista dall’art. 113, in cui andavano iscritti i soggetti che non svolgessero prevalentemente attività nei confronti del pubblico, mentre viene ora previsto che sia la Banca d’Italia a tenere l’elenco previsto dall’art. 111 e a vigilare sul rispetto da parte degli iscritti della disciplina cui essi sono sottoposti anche ai sensi dello steso art. 111, co. 5 27 28. Per l’espletamento di tali compiti, i poteri di cui ai commi 1, 2 e 3 spettanti alla Banca d’Italia, sono invece attribuiti ad un Organismo ad hoc solo quando il numero di iscritti nell’elenco è sufficiente per consentirne la costituzione. La scelta del legislatore è quindi rivolta a ridurre ad unità le attività riservate e a considerare irrilevante l’attività di finanziamento se non esercitata nei confronti del pubblico, creando un’unica categoria (nuova) ed un unico (nuovo) albo, che presenta regole più intense e rigorose delle precedenti, fortemente ispirate a quelle delle banche. Il nuovo art. 107 è infatti con tutta evidenza formulato sulla falsariga dell’art. 14 t.u.b. con il suo riferirsi all’autorizzazione, al programma di attività, alla “sana e prudente gestione” 29, anche se non è riprodotta la norma che, come il co. 3 dell’art. 14, prescrive l’impossibilità di dar corso al procedimento per l’iscrizione nel registro delle imprese in assenza dell’autorizzazione 30. Ma tra la mera “iscrizione” nel vecchio elenco speciale e la “autorizzazione” all’esercizio dell’attività corre una profonda differenza che sancisce il progress degli intermediari finanziari iscritti all’elenco speciale verso un
27. Articolo così sostituito dall’art. 7 d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, come modificato dall’art. 3, co. 1, lett. u), d.lgs. 19 settembre 2012, n. 169. 28. In particolare, viene eliminato l’obbligo di iscrizione in apposita sezione dell’elenco degli esercenti il microcredito per i soggetti diversi dalle banche che, costituiti prima della vigenza del d.lgs. 141/2010, senza fine di lucro raccolgono tradizionalmente in ambito locale somme di modesto ammontare ed erogano piccoli prestiti (cd. “casse peota”). Si prescrive che essi possano dunque continuare a svolgere la propria attività, in considerazione del carattere marginale della stessa, nel rispetto delle modalità operative e dei limiti quantitativi determinati dal CICR. 29. Con una modifica all’art. 107 del t.u.b. si chiarisce che, ai fini dell’iscrizione nell’albo degli intermediari finanziari e nell’elenco degli operatori del microcredito, le forme giuridiche richieste agli enti sono quelle di società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata e cooperativa per azioni a responsabilità limitata. Di conseguenza, ai fini del rilascio dell’autorizzazione, anche gli esponenti aziendali del richiedente debbono possedere specifici requisiti di professionalità, indipendenza e onorabilità (non solo, dunque, gli azionisti di controllo o che esercitino un’influenza notevole sulla società). 30 Si veda ancora Greco, Commento, cit., p. 30.
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ampliamento operativo sia sul fronte della raccolta che delle attività esercitate. La portata innovativa del nuovo art. 107 è segnalata dalla Relazione illustrativa al decreto, laddove si pone l’accento sulla introduzione di “un vero regime autorizzativo”. Della “bancarizzazione” heavy, degli intermediari finanziari, è ulteriore segnale il regime della vigilanza previsto dall’art. 108, che rafforza i precedenti poteri ispettivi e informativi, incrementando la vigilanza regolamentare con “poteri di convocazione degli organi aziendali e di adozione di provvedimenti specifici” previsti al co. 3 dell’art. 55 per le banche 31. Con le novità introdotte dal d.lgs. n. 169/2012 si specifica, altresì, che tra i poteri di vigilanza regolamentare della Banca d’Italia rientra anche l’emanazione di disposizioni concernenti il governo societario, i sistemi di remunerazione e di incentivazione degli intermediari abilitati; tra i provvedimenti specifici che può adottare l’autorità è annoverato anche, con riferimento a strumenti finanziari computabili nel patrimonio a fini di vigilanza, il divieto di pagare interessi. E, ancora, i nuovi artt. 109 e 110 hanno come falsariga la disciplina bancaria, quando introducono la nozione di “gruppo finanziario” e poteri di vigilanza su base consolidata. Come per il gruppo Sim, la definizione del gruppo finanziario si ispira a quella dell’art. 60 del t.u.b. e ricalca una logica “residuale” 32. Mette conto segnalare che, per effetto delle modifiche da ultimo recate dal d.lgs. n. 169/2012 si amplia il novero dei gruppi da assoggettare all’esercizio della vigilanza consolidata della Banca d’Italia: si stabilisce che la società capogruppo possa essere, oltre alle ipotesi già individuate dal d.lgs. n. 141/2010, sia un intermediario finanziario che una società finanziaria. All’interno del gruppo è poi prevista anche la possibilità che vi sia una banca extracomunitaria. L’art. 110 chiude il cerchio con un rinvio a numerose disposizioni dettate per le banche, che possono applicarsi ai “nuovi intermediari dell’art. 106, “in quanto compatibili”, mettendo a dura prova la perizia dell’interprete e dell’operatore finanziario 33. Infine last, but not least, assumono
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La relazione al Decreto enfatizza il potenziamento dei controlli e della vigilanza dei soggetti iscritti all’albo, per realizzare un regime di vigilanza equivalente a quello delle banche. Tuttavia l’art. 108, ult. co., dispone che la Banca d’Italia osservi “criteri di proporzionalità”, con riguardo alla complessità operativa, dimensionale e organizzativa degli intermediari, nonché alla natura specifica dell’attività svolta. 32 Così Greco, Commento, cit., p. 31. 33. Si tratta degli artt. 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 47, 52, 61,co. 4 e 5, 62, 63, 64, 78, 79 e 82. Norme che concernono le partecipazioni al capitale delle banche, i requisiti di
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particolare rilievo gli artt. 113-bis e 113-ter, particolarmente dedicati a fenomeni di crisi aziendale, in base ai quali sono previste la sospensione degli organi amministrativi e di controllo, e la revoca dell’autorizzazione: si tratta di una forma di “commissariamento dell’intermediario” 34 i cui presupposti, gravi irregolarità nell’amministrazione o gravi violazioni legislative, amministrative o statutarie, nonché ragioni di urgenza, richiamano la disciplina della gestione provvisoria della banca prevista dall’art.76 del t.u.b., esplicitamente richiamato per il rinvio ai co. 2 e 4 di tale norma 35. Ai sensi dell’art113-ter, infine, la Banca d’Italia può revocare l’autorizzazione, con conseguente scioglimento e liquidazione della società, in presenza di presupposti che ripercorrono quelli della liquidazione coatta amministrativa delle banche. La procedura, di liquidazione coatta amministrativa, di cui all’art. 80 t.u.b. si applica, tuttavia, soltanto quando gli intermediari finanziari siano stati autorizzati a prestare servizi di investimento oppure abbiano acquisito fondi con obbligo di rimborso per un ammontare superiore al patrimonio netto o sia stato accertato lo stato di insolvenza ai sensi dell’art. 82, co. 1. A completare il quadro del titolo V, vale precisare che l’art. 111, titolato “Microcredito” ha previsto la disciplina di altri soggetti cui è consentito di svolgere attività finanziarie, precisandone le caratteristiche sia quantitative che qualitative, modificando la precedente disposizione contenuta nell’art. 155, norma abrogata dal decreto 141. La relazione al decreto ha precisato che a tali (nuovi) intermediari si applica un regime di vigilanza più leggero, in considerazione del rilievo sociale che essi presentano e della scarsa rilevanza sistemica, così da non rendere necessario un regime “autorizzativo”, ma una semplice iscrizione in un apposito albo così come previsto per gli agenti e mediatori creditizi 36.
onorabilità dei partecipanti, di onorabilità, professionalità ed indipendenza degli esponenti aziendali, la vigilanza informativa e gli obblighi di comunicazione del collegio sindacale; la disciplina dei gruppi bancari e la gestione delle crisi aziendali (Provvedimenti straordinari e accertamento giudiziale dello stato di insolvenza). 34. Come rileva la Relazione al decreto, l’esigenza di garantire l’accesso al credito a soggetti, “sulle soglie della bancabilità” e beneficiari di finanziamenti erogati da numerosi intermediari precedentemente alla riforma del 106, è alla base della creazione della nuova disciplina del microcrocredito, destinato a sopperire alla carenza di canali di finanziamento per fasce di clientela debole. V. Antonucci, L’intermediazione, cit., p. 37. 35. Sulla disciplina e sulle finalità della «gestione provvisoria» si veda Nigro, Commento all’art. 76, in Testo unico bancario, Commentario a cura di Porzio, Belli, Losappio, Rispoli Farina e Santoro, cit., pp. 665 ss. 36 Greco, Commento cit., p. 32.
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L’iscrizione all’albo, tenuto da un Organismo all’uopo costituito, è subordinata al possesso di requisiti organizzativi (forma di società di capitali, capitale minimo iniziale, requisiti di onorabilità dei soci di controllo e rilevanti e di onorabilità e professionalità per gli esponenti aziendali), di oggetto sociale, (attività finanziarie con determinate peculiarità, più attività accessorie e strumentali) e alla presenza di un “programma” di attività. È prevista anche una sezione separata dell’elenco dei soggetti che svolgono il microcredito, senza fini di lucro, che intendano concedere finanziamenti, purché questi rispondano a condizioni più favorevoli di quelle presenti sul mercato e gli enti erogatori siano in possesso dei requisiti che stabiliranno il MEF e la Banca d’Italia 37. A concludere il novero dei soggetti «non 106» il nuovo art. 112 disciplina i confidi, le “casse peota” e le agenzie di prestito su pegno. Le novità rilevanti per i confidi vedono la previsione di un Organismo di autoregolamentazione, cui i confidi devono necessariamente iscriversi previa valutazione di una serie di requisiti oggettivi e soggettivi. Se il volume di attività supera una certa soglia, scatta per essi l’obbligo di chiedere l’autorizzazione prevista dal nuovo art. 106 t.u.b. Le “casse peote” vengono invece attratte alla disciplina del microcredito, e iscritte in una separata sezione dell’elenco per gli operatori del microcredito, mentre le agenzie di prestito su pegno sono sottoposte alla disciplina del 106, ferma la possibilità, da parte della Banca d’Italia, di escludere l’applicazione di talune disposizioni previste per gli intermediari finanziari. La disciplina dei soggetti del titolo V, diversi dagli intermediari finanziari autorizzati, appare dunque connotata dal rafforzamento dell’autoregolamentazione nel settore 38, con il crescere di numerosi organismi con personalità di diritto privato, in forma di associazione, dediti a gestire gli elenchi (per i confidi), gli agenti di attività finanziaria e i mediatori creditizi. Come anticipato supra, le modifiche all’art. 113 del t.u.b. eliminano il riferimento all’Organismo per la tenuta dell’elenco dei soggetti esercenti il microcredito, nonché per le casse peota, in quanto tale compito viene assegnato pro tempore alla Banca d’Italia. Al riguardo la Relazione illustrativa specifica che le modifiche proposte sono volte a consentire l’istituzione dell’elenco degli operatori del microcredito prima della operatività piena del relativo Organismo in quanto, secondo alcu-
37. In merito a requisiti dei beneficiari, forme tecniche, importo massimo dei finanziamenti, informazioni alla clientela. 38 Greco, Commento cit., p. 34.
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ne prime stime, il numero degli operatori potenzialmente idonei a essere iscritti nell’elenco e vigilati dall’Organismo sembra essere insufficiente ad assicurare un flusso di risorse adeguate all’autofinanziamento dell’Organismo. La norma introduce quindi una soluzione ponte, che consente di cominciare a censire e controllare gli operatori attribuendo i relativi poteri alla Banca d’Italia per poi avviare l’Organismo una volta raggiunto un numero adeguato di iscritti. La creazione di un apposito Organismo per il microcredito viene prevista in un momento successivo e subordinata alla presenza, in elenco, di un numero di iscritti sufficiente. Le funzioni di vigilanza e regolamentazione sono divise tra MEF e Banca d’Italia; per i confidi trattasi di vigilanza di “secondo grado” della Banca d’Italia, che propone la nomina dei componenti e vigila sul loro operato. Modificando l’articolo 112-bis, recante la disciplina dell’Organismo istituito per tenere l’elenco dei confidi, il d.lgs. 169/2012 elimina l’obbligo che tale soggetto debba costituirsi in forma di associazione; si affida al MEF, sentita la Banca d’Italia, sia l’approvazione del relativo statuto, sia la nomina di un proprio rappresentante nell’organo di controllo (in luogo del potere di nomina ministeriale dei componenti di tale Organismo). La Relazione illustrativa precisa che dette modifiche sono volte a evitare: a) che attraverso la menzione della forma associativa sia ravvisabile qualche forma di responsabilità in capo alle associazioni per l’attività dell’Organismo; b) che sorgano problemi di coerenza tra la natura giuridica di diritto privato dell’Organismo, dichiarata dalla stessa norma, e l’attribuzione al Ministro dell’economia del potere di nomina dei componenti del medesimo (il che potrebbe far sorgere controversie sulla normativa ad esso applicabile, ad esempio in materia di contratti pubblici, di reclutamento del personale ovvero di progressione del personale stesso) 39. Per effetto delle modifiche proposte si affida esplicitamente al Ministro dell’economia e delle finanze – su proposta della Banca d’Italia – il potere di scioglimento degli organi di gestione e di controllo dell’Organismo, qualora risultino gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero
39. Si veda Visconti, La disciplina legislativa del microcredito: gli articoli 111 e 113 del testo unico bancario dopo le modifiche ad essi apportate dal decreto legislativo 169/2012, in www.diritto.it, 19 ottobre 2012, p. 4.
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gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie che regolano l’attività dello stesso. I poteri sull’Organismo sono resi inoltre più articolati, secondo la casistica di riferimento: la Banca d’Italia provvede agli adempimenti necessari alla ricostituzione degli organi di gestione e controllo dell’Organismo, assicurandone la continuità operativa, se necessario anche attraverso la nomina di un commissario; essa può disporre la rimozione di uno o più componenti degli organi di gestione e controllo in caso di grave inosservanza dei doveri ad essi assegnati dalla legge, dallo statuto o dalle disposizioni di vigilanza, e fin’anche dei provvedimenti specifici e di altre istruzioni impartite dalla Banca d’Italia, ovvero in caso di comprovata inadeguatezza, accertata dalla Banca d’Italia, all’esercizio delle funzioni cui sono preposti. Si specifica altresì che compete al MEF la disciplina dei requisiti degli organi di controllo dell’Organismo, prevedendosi infine forme di collaborazione tra Autorità di vigilanza e Organismo per l’espletamento delle rispettive funzioni e per garantire adeguati flussi informativi. I legami con le categorie “vigilate” rivestono particolare rilievo in quanto gli organismi assumono la connotazione di anello di congiunzione con la vigilanza della Banca d’Italia, se non di estensione organizzativa della stessa 40. Al punto tale che, in virtù delle modifiche che il legislatore ha apportato con il d.lgs. 169/2012, in caso di violazioni legislative o amministrative da parte degli iscritti all’elenco tenuto dall’Organismo, il medesimo (e non più la Banca d’Italia, previa istruttoria dell’Organismo) può irrogare sanzioni, nella forma del divieto di intraprendere nuove operazioni o dell’obbligo di ridurre le attività 41. Per questa miriade di soggetti si ripropone, allora, una situazione che non è paragonabile a quella che fece seguito alla legge bancaria del ’36 (v. par. 2): mentre, infatti, per le aziende che erogavano il credito senza raccogliere il risparmio (le finanziarie) si finì con il rinunziare a introdurre forme di controllo, non altrettanto può dirsi per gli intermediari del microcredito dell’art. 111, né dei confidi dell’art. 112. Di certo si è ricreato uno scalino, che trova gli intermediari del 106 sempre più vicini alle banche, e gli altri intermediari del 113 immersi in una nebulosa con “aura sociale”.
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Antonucci, L’intermediazione, cit., p. 40 Oltre ad eliminare l’obbligo che imponeva all’Organismo dei confidi di costituirsi in forma di associazione, si riformula la disciplina dello scioglimento dell’Organismo. 41.
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4…e dei titoli V-bis e V-ter. L’introduzione di salienti novità in tema di intermediazione finanziaria non bancaria, non si è arrestata al decreto 141 del 2010, ma ha visto ulteriori sviluppi con la nuova disciplina degli Istituti di moneta elettronica 42, contenuta nel titolo V-bis, e con le modifiche alla disciplina degli Istituti di pagamento, contenuta nel titolo V-ter e recentemente introdotta dall’art. 28 del d.lgs. n. 11 del 2010 per essere poi successivamente integrata dal d.lgs. n. 230 del 2011. I titoli V-bis e V-ter contengono, quindi, altri due importanti tasselli della disciplina degli intermediari finanziari non bancari, che va esaminata alla luce del precedente contesto normativo, per verificare ancora una volta se nel nuovo assetto disciplinare siano rinvenibili tratti di disciplina comune e soprattutto se istituti o norme possano essere, eventualmente, oggetto di interpretazione estensiva: se, quindi, i titoli V, V-bis e V-ter, diano vita a una disciplina nel complesso autonoma e distinta da quella bancaria. Per quanto concerne l’ultimo tassello normativo, il decreto n. 45 del 2012 dà attuazione alla direttiva Imel 2 43. Gli intenti del legislatore sono chiariti nella Relazione illustrativa, che evidenzia come la direttiva 110 si inserisca in un processo europeo di armonizzazione del mercato dei pagamenti, – che ha già raggiunto un traguardo importante con l’emanazione della direttiva PSD, finalizzata ad accrescere la concorrenza nel settore, ampliando il novero dei prestatori dei servizi di pagamento (e diffondendone l’accessibilità al pubblico) – disciplinando la nuova categoria degli IP, autorizzati a prestare servizi di pagamento (eventualmente
42. La disciplina in materia di “istituti di moneta elettronica” è stata introdotta inizialmente con la legge n. 39 del 2002 (c.d. legge comunitaria 2001), che previde un nuovo Titolo V-bis, per dare attuazione alle direttive comunitarie n. 2000/46 e n. 2000/28. Con tali direttive si era provveduto, rispettivamente, ad individuare l’intermediario definito “istituto di moneta elettronica”, nonché a rimodellare la definizione di “ente creditizio”, in modo tale da ricomprendere, tra le attività consentitegli, quella consistente nella creazione di moneta elettronica, e all’interno della stessa nozione di ente creditizio quella di “istituto di moneta elettronica”. 43. Pubblicata il 10 ottobre 2009 la Direttiva 2009/110/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16 settembre dello stesso anno “concernente l’avvio, l’esercizio e la vigilanza prudenziale dell’attività degli istituti di moneta elettronica,” modifica le direttive 2005/60/CE e 2006/48/CE e abroga la direttiva 2000/46/CE” Con la direttiva 110 la figura dell’istituto di moneta elettronica “fuoriesce” dalla nozione di ente creditizio, per assumere connotati autonomi anche a livello di normativa comunitaria.
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anche in aggiunta allo svolgimento di attività di impresa di natura non finanziaria), nell’ambito dell’intera Unione Europea. A tali servizi la direttiva PSD aveva autorizzato anche le banche e gli IMEL. Il successivo intervento del legislatore comunitario è stato necessario, in merito alla disciplina degli istituti di moneta elettronica, soprattutto per il diverso regime di vigilanza e la diversa operatività consentita (attraverso la definizione dell’oggetto di attività), rispettivamente, agli istituti di moneta elettronica ed agli istituti di pagamento. La scelta di fondo è stata quella di predisporre una regolamentazione articolata su differenti livelli, in cui i requisiti di carattere prudenziale e patrimoniale, previsti al fine di garantire i clienti e il buon funzionamento del sistema dei pagamenti, si intensificano progressivamente in relazione alle attività svolte e ai singoli servizi prestati, in misura proporzionale ai relativi rischi operativi e finanziari intrapresi. In tale logica, la possibilità di emettere moneta elettronica e prestare servizi di pagamento è compensata da forme di segregazione patrimoniale e di tutela dei fondi dei clienti. Il legislatore comunitario è stato quindi posto nella necessità di consentire una analoga capacità operativa alle due tipologie di intermediari. Il decreto ha inciso sul tessuto normativo di recente formulato: ha innovato l’art. 114-quinquies, co. 4 e 5, stabilendo che la Banca d’Italia possa autorizzare all’emissione di moneta elettronica soggetti che esercitino anche altre attività imprenditoriali quando ricorrano le condizioni generalmente previste per concedere l’autorizzazione agli istituti di moneta elettronica (salvi i requisiti di professionalità per gli esponenti aziendali), e purché per l’attività di emissione di moneta elettronica, quella di prestazione di servizi di pagamento e per le relative attività accessorie e strumentali sia costituito un unico patrimonio destinato “con le modalità e agli effetti stabiliti negli articoli 114-quinquies, co. 5, e 114-terdecies” 44. Anche per gli IMEL, dunque, come previsto per gli istituti di pagamento – viene configurata la posizione del c.d. “Imel ibrido”. Inoltre, dal collegamento della disposizione ora ricordata con il nuovo co. 2 dell’art. 106, si evince che anche gli intermediari finanziari disciplinati ex novo dal decreto 141 del 2010, possono essere autorizzati ad emettere moneta elettronica e prestare servizi di pagamento, “a con-
44. In realtà il contenuto del co. 5 dell’art. 114-quinquies è una sostanziale ripetizione del medesimo principio, oltre che un richiamo alla disciplina del patrimonio destinato previsto per gli istituti di pagamento che svolgano anche attività imprenditoriali diverse dalla prestazione dei servizi di pagamento.
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dizione che siano a ciò autorizzati ai sensi dell’articolo 114-quinquies”, adottando anche le forme di segregazione patrimoniale richieste 45. Dall’analisi delle norme sui nuovi IMEL emerge immediatamente il problema, che si presenta in forma più o meno analoga per i nuovi intermediari, e collegato alla riserva di attività, cui il legislatore fa più volte riferimento nelle norme del titolo V, V-bis e V-ter, di verificare se e in che misura permanga un oggetto sociale esclusivo, come nella passata disciplina. La precedente formulazione dell’art. 114-quinquies stabiliva, infatti, che gli istituti potessero svolgere esclusivamente l’attività di emissione di moneta elettronica, mediante trasformazione immediata dei fondi ricevuti. Inoltre “nei limiti stabiliti dalla Banca d’Italia”, gli istituti potevano svolgere altresì attività connesse e strumentali, nonché prestare servizi di pagamento; ma non potevano erogare crediti in qualunque forma. L’oggetto sociale risultava quindi fortemente limitato, se non esclusivo. La capacità operativa degli Istituti di moneta elettronica è stata notevolmente ampliata dall’art. 6 della direttiva 110, così da consentire agli IMEL una serie di attività ulteriori, quali: a) la prestazione di servizi di pagamento; b) la concessione di crediti connessi a servizi di pagamento (con la precisazione che tali crediti non sono concessi utilizzando i fondi ricevuti in cambio di moneta elettronica detenuti dall’istituto); c) la prestazione di servizi operativi e di servizi accessori strettamente connessi all’emissione di moneta elettronica o alla prestazione di servizi di pagamento; d) la gestione dei sistemi di pagamento; e) attività diverse dall’emissione di moneta elettronica, nel rispetto del diritto comunitario e del diritto nazionale applicabile. Il decreto di attuazione, n. 45, è stato più laconico, limitandosi a stabilire, all’art 114-quater, che gli Istituti di moneta elettronica (la cui attività essenziale consiste nel trasformare “immediatamente in moneta elettronica i fondi ricevuti dal richiedente”) possono altresì prestare i servizi di pagamento e le relative attività accessorie ai sensi dell’art. 114-octies, senza necessità di un’apposita autorizzazione (art. 114-quater); in virtù di tale rinvio alle norme suddette, gli Imel possono, quindi, concedere crediti in stretta relazione ai servizi di pagamento, nelle modalità stabilite dalla Banca d’Italia, prestare servizi operativi o connessi, come la prestazione di garanzie per l’esecuzione dei servizi di pagamento, servizi di cambio, custodia e registrazione, oltre a prestare servizi operativi e accessori strettamente connessi all’emissione di moneta elettronica. Anche nel diritto interno, quindi, l’oggetto sociale si è notevolmente ampliato, pur rimanendo
45.
Da ciò si evince che gli “IMEL ibridi” potranno avere o meno natura finanziaria.
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ancorato ad attività fondamentalmente finanziarie. Emerge evidente che la capacità operativa di tali intermediari è molto ampia, perché non richiede le autorizzazioni che invece sono richieste agli istituti di pagamento. Gli Istituti di moneta elettronica sono sottoposti ad un regime autorizzativo molto simile a quello degli intermediari del 106, e degli Istituti di Pagamento (a loro volta ispirati a quello delle banche) e ad essi si applicano in “quanto compatibili” una serie di disposizioni del testo unico bancario 46. Le norme richiamate concernono gli assetti proprietari, gli obblighi di comunicazione del collegio sindacale, i requisiti richiesti in capo ai partecipanti al capitale sociale e agli esponenti aziendali, le sanzioni amministrative per la violazione delle regole sulla partecipazione al capitale degli IMEL e degli obblighi di comunicazione relativi a quelle partecipazioni. Le peculiarità delle condizioni richieste risiedono, quanto al tipo sociale, nella possibilità, da parte dell’IMEL, di adottare anche la forma di società in accomandita per azioni, di società a responsabilità limitata, o di cooperativa tout court; b) nel fatto che il programma iniziale abbia per oggetto non soltanto l’attività iniziale ma anche la struttura organizzativa; c) nella necessità dei requisiti di professionalità anche per i titolari di partecipazioni qualificate; d) la possibilità di negare l’autorizzazione sussiste non soltanto quando dalla verifica delle condizioni non risulti assicurata la sana e prudente gestione, ma anche quando da tale verifica non risulti garantito “il regolare funzionamento del sistema dei pagamenti”. In sostanza, come già accennato, il regime autorizzativo viene in tutto parificato a quello previsto dall’art. 114-novies per gli istituti di pagamento. Per quanto concerne la disciplina degli Istituti di Pagamento, si rinvengono quindi regole analoghe in punto di costituzione 47. La disciplina dell’organizzazione e dell’attività è delineata dall’art. 114-undecies attraverso la consueta tecnica del rinvio alla disciplina delle banche italiane. La norma estende agli Istituti in parola, in quanto compatibile, la disciplina prevista per le banche in materia di obblighi di comunicazione, poteri di informativa della Banca d’Italia, nozione di partecipazioni indirette e di controllo, requisiti degli esponenti aziendali (con riferimento al solo responsabile del patrimonio destinato nel caso di Istituti «ibridi») e
46.
L’art.114-quinquies rinvia agli artt. 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 52,139 e140, nonché al titolo VI. Agli IMEL “puri”, si applicano anche gli artt. 78, 79,82,113-bis e 113-ter. 47. Si vedano Porzio e Capone, Commenti all’art. 114 novies, commi 1 e 2 e commi 3 e 4, in Mancini, Rispoli Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi, Troiano, Nuova disciplina, cit., pp. 437 e 443.
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dei partecipanti al capitale (artt. 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26) 48 49. Il nuovo co. 1 dell’art. 114-undecies, come modificato dal d.lgs. 230/2011, nel confermare le altre sanzioni già previste dalla formulazione originaria, estende agli Istituti di Pagamento l’applicazione dell’apparato sanzionatorio (artt. 139 e 140) per la violazione degli obblighi in materia di partecipazione al capitale sociale (autorizzazione della Banca d’Italia e comunicazione alla stessa). Per gli Istituti di Pagamento ibridi è prevista un’apposita autorizzazione (art.114-novies, co. 4) per lo svolgimento dell’attività nei servizi di pagamento e l’opportuna costituzione di un patrimonio separato (destinato) dagli artt. 114-duodecies e 114-terdecies, la cui disciplina è minutamente dettata, rinviandosi alla disciplina civilistica di cui gli artt. 2447-bis ss. c.c., solo se espressamente richiamata50.
5. La disciplina delle crisi degli intermediari del titolo V, V-bis e V-ter. Se, quindi, per le regole di ingresso al mercato possono ravvisarsi elementi di forte omogeneità, tra gli intermediari del titolo V, V-bis e V-ter, considerazioni diverse devono operarsi per la disciplina delle crisi. Come si è già rilevato, gli istituti della “crisi” degli intermediari finanziari del 106, vengono delineati dagli articoli 113-bis (sospensione degli organi di amministrazione e controllo) e 113-ter (revoca dell’autorizzazione), che prevedono procedure che non possono riportarsi a quelle “bancarie” ma neppure a quelle “ordinarie”. Si tratta infatti di istituti che si ispirano, in qualche modo, alle procedure del t.u.b.: a ben vedere la sospensione degli organi di amministrazione e controllo rappresenta una sorta di “ibrido” tra la amministrazione straordinaria e la gestione provvisoria bancaria (salvo
48.
Con riguardo alla disciplina di questi ultimi – spiega la Relazione ministeriale – «si osserva che – sebbene la PSD non prevedeva un obbligo esplicito di autorizzare l’acquisto di partecipazioni rilevanti negli IP – essa richiede tuttavia agli Stati membri di valutare l’idoneità dell’azionista a garantire la «sana e prudente gestione» dell’IP sia nella fase di accesso al mercato, sia successivamente. Qualsiasi cambiamento che incide sulle informazioni comunicate in sede di autorizzazione deve infatti essere comunicato all’Autorità di Vigilanza (art. 14), che ha la possibilità di revocare l’autorizzazione (art. 12)». 49. Da cui le perplessità manifestate in dottrina in ordine alla effettiva completa riconducibilità del “patrimonio destinato” in discorso a quello disciplinato da codice civile. 50. Si veda Alfano, Commento agli artt. 114-duodecies e 114-terdecies, in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 2012, p. 1622 ss.
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che per la non completa coincidenza dei presupposti oggettivi); per la procedura del 113-ter, il confronto è con una liquidazione ordinaria, sottoposta a controllo pubblico, che però è attivata in presenza dei medesimi presupposti oggettivi della liquidazione coatta amministrativa bancaria: la disciplina di quest’ultima (art. 113-ter, co. 6), invece, si applica quando l’intermediario sia stato autorizzato allo svolgimento dei servizi di pagamento; quando l’intermediario abbia acquisito fondi con obbligo di rimborso per un ammontare superiore al patrimonio; quando sia stato accertato giudizialmente lo stato di insolvenza ai sensi dell’art. 82, co. 2. Il legislatore, quindi, invece di predisporre una apposita e compiuta disciplina, ha adottato la tecnica di costruire una disciplina “a mosaico” della crisi degli intermediari, con continui rinvii alla disciplina delle banche, ma senza portare la scelta alle sue estreme conseguenze, quasi a voler riprodurre, anche con riguardo alla disciplina delle crisi la distinzione che pur ancora perdura tra disciplina bancaria e disciplina della intermediazione finanziaria. Quanto ancora agli IMEL “puri”, peraltro, restano applicabili “frammenti” di disciplina bancaria come gli articoli 78 e 79 (relativi ai cc.dd. “provvedimenti straordinari”), l’art. 82 (relativo all’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza). Analogamente dispone l’114-undecies, co. 2, per gli Istituti di Pagamento “puri”. In sostanza tanto agli IMEL “puri” che agli Istituti di Pagamento “puri” vengono applicate le stesse “procedure” di crisi previste per gli intermediari finanziari ex art. 106.51 Per gli istituti “ibridi”, invece, ci si affida alla previsione di patrimoni destinati.
Pertanto né gli IMEL “puri”, né quelli “ibridi” saranno sottoponibili alla amministrazione straordinaria prevista dagli artt. 70 ss. del Testo Unico bancario; soltanto gli IMEL “puri” potranno essere sottoposti alla “sospensione degli organi di amministrazione e controllo” prevista dall’art. 113-bis (norma che descrive la procedura medesima quale “gestione provvisoria”): la quale ultima, peraltro, non presenta una coincidenza di presupposti oggettivi di applicazione rispetto alla “amministrazione straordinaria bancaria”, giacché non vi è riferimento, tra quelli previsti, la “previsione di gravi perdite”, e, per lo stesso motivo, neppure con la “gestione provvisoria bancaria” di cui all’art. 76, di cui infatti è richiamata l’applicabilità dei soli co. 2 e 4, e soltanto “in quanto compatibili”; soltanto gli IMEL “puri” potranno essere sottoposti alla speciale “liquidazione controllata” prevista in caso di revoca della autorizzazione di cui all’art. 113-ter, i cui presupposti oggettivi coincidono con quelli della “liquidazione coatta amministrativa bancaria” di cui agli artt. 80 ss.;con riguardo, ancora, agli IMEL “puri”, laddove ne venga accertato giudizialmente lo stato di insolvenza ai sensi dell’art. 82, co. 1, verrà applicata la vera e propria liquidazione coatta amministrativa bancaria 51.
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Non si applicano le disposizioni sulle banche operanti in ambito comunitario (tit. IV, sez. III-bis) e sui sistemi di tutela dei depositanti (tit. IV, sez. IV). La prima esclusione si spiega alla luce della scelta del legislatore comunitario di predisporre un regime giuridico unitario per la prestazione di servizi di pagamento con riferimento all’accesso, all’esercizio, alla disciplina dei rapporti contrattuali utente-intermediario, che supera la consueta distinzione tra esercizio domestico e transfrontaliero dell’attività. La seconda trova il suo fondamento nella natura di «intermediari non bancari» degli IP: è escluso che tali soggetti possano raccogliere risparmio tra il pubblico nella forma dei depositi, né i fondi detenuti dagli IP sui conti di pagamento in vista dei futuri pagamenti possono essere considerati tali 52. Pertanto, tenuto conto delle scelte operate dal legislatore all’art. 114-duodecies, è ragionevole prevedere che la normativa secondaria estenderà l’applicazione delle misure di tutela dei fondi prescritte dalla direttiva per gli IP “ibridi” (art. 9, co. 1 e 2) anche ai fondi ricevuti per conto dei clienti e detenuti dagli IP “puri”. In conclusione, il raffronto operato tra le discipline di recente innovate per gli intermediari dei titoli V, V-bis e V-ter, e quella bancaria consente oggi di concludere che, ancorché i profili di assimilazione e di tendenziale uniformazione siano largamente evidenti, risulta ancora difficile individuare un elemento conduttore comune. Tratti di discontinuità molto significativi, infatti, sono ravvisabili, come appena evidenziato, nella disciplina delle crisi: discontinuità che, talora, devono ricondursi alla differenza strutturale derivante dall’oggetto sociale dell’intermediario. Ma anche la tecnica normativa contribuisce alla creazione di tali punti di discontinuità, a causa del gioco non sempre organico e logico di sovrapposizione di regolamentazioni, da un lato, e di richiami alla disciplina bancaria, dall’altro.
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in forza del richiamo contenuto nell’art. 113-ter, co. 6, reso applicabile agli IMEL “puri” dall’art. 114-quinquies. A tale eventualità, del resto, deve ritenersi collegata la previsione, contenuta nell’art. 114-quinquies, co. 3, secondo cui “ai fini dell’applicazione della disciplina della liquidazione coatta amministrativa all’istituto di moneta elettronica, i detentori di moneta elettronica sono equiparati ai clienti aventi diritto alla restituzione di strumenti finanziari”. 52. Ai sensi dell’art. 11, co. 2-ter, t.u.b. “Non costituisce raccolta del risparmio tra il pubblico la ricezione di fondi da inserire in conti di pagamento utilizzati esclusivamente per la prestazione di servizi di pagamento”.
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Sul contratto usurario (incidenze della legge penale antiusura sul regime civilistico dell’equilibrio economico)* Sommario: 1. Equilibrio contrattuale e usura – 2. Civile e penale a confronto. – 3. Percorsi di adeguamento della normativa civilistica alle regole penali antiusura. – 4. Dall’incidenza diretta a quella del principio. I contratti «quasi usurari» e la causa concreta. – 5. (Segue). L’eccessività degli interessi compensativi. – 6. (Segue). L’usura sopravvenuta.
1. Equilibrio contrattuale e usura. Nell’ampio contesto di «Contratto e reato» il tema dell’usura si trova a suo agio, perché è materia che viene a svolgersi proprio sul piano dei rapporti tra norma penale e norma civile. Cominciamo allora ad inquadrarla. Quando si parla di contratto usurario, dunque, il riferimento va diretto al rapporto di proporzione – ovvero di equilibrio – tra diritti e doveri delle parti del contratto. Dell’equilibrio, tuttavia, l’usura prende in considerazione solo una parte: quella direttamente economica, non anche quella regolamentare (o normativo), che pure è tratto decisamente importante (inter partes, come pure sotto il profilo della concorrenza tra imprese). Dell’economico, in ogni caso, essa ricomprende tutto: prestazioni caratteristiche, compensi secondari, costi ulteriori e spese e penali per risarcimento danni. Ne segue insomma che l’arco dell’equilibrio contrattuale considerato dall’usura sconta, se così si può dire, una «riduzione a priori» (fuori restando il disequilibrio dato dalla clausola regolamentare). È incompleto. Non per questo l’arco che la stessa propone perde significatività; si
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Testo corretto della relazione svolta al Convegno «Contratto e reato», Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino, 23/24 settembre 2011.
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tratta, anzi, dell’arco di rilievo primario: perché appunto comprensivo di tutte le valenze economiche dei diritti e doveri delle parti; di tutti gli aspetti di questi che risultano espressi in danaro o che, quanto meno, risultano immediatamente traducibili in denaro. Si viene a parlare, in definitiva, del cerchio di composto da quelli che oggi si chiamano gli «oneri economici» del rapporto. Individuata la porzione di equilibrio qui rilevante, si tratta adesso di considerarla in rapporto alla disciplina civile e alla disciplina penale, nonché nel confronto tra le medesime. Ciò in buona sostanza significa guardare, da un lato, alla disciplina predisposta dalla legge penale antiusura n. 108/1996 e successivi suoi dintorni (il taglio della relazione esonerando, per vero, dai rilievi di eccessivo dettaglio). Dall’altro, alle norme che il codice civile riserva all’equilibrio contrattuale di ordine economico, secondo una prospettiva – si può già qui notare, seppur in via incidentale – che non si dispone, nella sua espressione diretta e «formale», a livello conformativo delle operazioni, quanto piuttosto a livello rimediale (: i vizi di squilibrio economico del contratto). Il che, naturalmente, già tende ad avvicinare la linea del civile a quella del penale. A parte questo, resta comunque agevole constatare come – con riferimento alla materia qui in specifico interesse – il penale (= il reato) rivesta una grossa importanza nei confronti dei profili civilistici di questa (= il contratto); sui medesimi venendo a incidere, invero, secondo più modi e più livelli. Come si passa adesso brevemente a illustrare.
2. Civile e penale a confronto. 2.1. Se la si considera come avulsa dalla realtà normativa del penale (e pure – prima ancora, rectius – come avulsa dalla guida dei principi costituzionali), la regolamentazione codicistica dell’equilibrio contrattuale di tipo economico appare, si può proprio dire, un «non-sistema». A guardarla nell’insieme, sembra proporsi una regolamentazione connotata dalla incertezza, quando non dalla casualità. E certo non solo perché la materia dell’equilibrio economico viene considerato, qui, non come questione generale e comune, bensì in relazione alle diverse «famiglie» negoziali (ovvero in relazione alle rispettive loro cause dell’attribuzione). A seconda della famiglia contrattuale volta a volta assunta, la disciplina sembra: negare rilevanza allo squilibrio persino in presenza di approfittamenti vari (cfr. l’art. 1970, che dispone la regola dell’intangibilità della transazione); oppure considerare rilevante lo squilibrio solo se accompagnato dallo stato di bisogno (cfr. per gli scambi, la rescissione
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per lesione enorme ex art. 1448), o all’opposto prescindere in toto da stati soggettivi (cfr. per i contratti societari, il patto leonino di cui all’art. 2265; ma cfr. pure, sembrerebbe, la divisione ereditaria ex art. 763), o ancora rendersi disponibile all’una o all’altra di queste due ultime soluzioni; com’è il caso degli interessi usurari ex art. 1815. E anche per la misura del disequilibrio il discorso non torna. Talvolta la misura è scritta (ma non è uguale per la lesione enorme degli scambi e per la divisione ereditaria); talaltra no (così, nella disposizione dell’art. 1815, in quella dell’art. 1384, per la penale eccessiva); talaltra ancora non si capisce (dal tenore della disposizione, come nel patto leonino; ma un rilievo va riconosciuto anche a quell’«universo a parte» che è costituito dalle garanzie: cfr., da un lato, è prevista la misura del quinto del debito garantito per la riduzione della somma ipotecaria, di cui agli artt. 2872 ss.; dall’altro, la misura dell’impegno assunto dal fideiussore è legata da un «importo massimo garantito» che, a stare alla lettera dell’art. 1938, sembrerebbe sganciato da un qualunque rapporto diretto – da un qualunque rapporto, anzi – con la dimensione dell’operazione garantita, salvo però l’operare, non solo in sede di pagamento, la regola dell’art. 1941, co. 3). Come si vede, il livello del codice civile non riesce proprio a esprimere una linea di principio. All’opposto, il panorama, che ne emerge, appare acefalo. Una ricerca fuori dai confini propri del codice sembra, a questo punto, cosa logica, più che naturale. E sicuramente utile al riguardo si manifesta la legge penale antiusura del 1996 (e quindi pure nel «nuovo» art. 644 c.c.). 2.2. La vigente disciplina penalistica dell’usura si connota per la presenza di una serie di tratti caratterizzanti. Il primo tratto è di avere eliminato (rispetto al proprio passato) lo stato di bisogno di uno dei contraenti dall’arco dei prerequisiti per la rilevanza del fenomeno: che appunto si concentra, secca, sulla (s)proporzione tra gli spostamenti patrimoniali verificatisi inter partes, pure prescindendo da una qualunque considerazione delle rispettive situazioni patrimoniali dei contraenti medesimi (così, nell’ipotesi maggiore di usura, di cui all’art. 644, co. 1, c.p.; mentre nell’ipotesi minore, di cui al comma 3, la presenza della situazione di difficoltà economica di un contraente comporta che a rilevare siano sproporzioni di non particolare livello: c.d. usura infra dimidium). Il secondo tratto è che – nella detta e maggiore ipotesi – la soglia dell’usura viene fissata sulla base di meccanismi oggettivi e predefiniti (standard e individuabile in cifre; c.d. tasso effettivo globale medio): le rilevazioni trimestrali concertate dal Ministro dell’Economia e dalla
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Banca d’Italia, che fanno perno sui negozi di credito posti in essere da banche e finanziarie. Il terzo è che, per il riscontro di usurarietà, si conta tutto (si tiene conto di ogni «vantaggio», come commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo, interessi, spese, etc.). È il complesso di tutte le voci economiche a venire qui in rilievo; in via correlata, pure il calcolo del TEGM è destinato – per sé – a sommare ogni voce possibile. Insomma, si tratta proprio di un «tutto compreso». Un altro tratto saliente è che la legge attuale considera rilevante, ai fini dell’integrazione del reato, non solo la c.d. usura pecuniaria, quale tipica forma di squilibrio dei contratti di credito (= a mezzo di «prestazione di danaro»), ma pure quella c.d. reale, che si concreta facendosi dare o promettere - come «corrispettivo» - un qualunque tipo di «utilità» o di «vantaggio» usurari, così superando le forti incertezze e dubbi che l’originaria versione dell’art. 644 era venuta a suscitare in proposito (per tutti, ricordo l’autorità di Antolisei). Con il che, per l’appunto, la normativa penale sembra acquisire una dimensione generale. Quanto meno, potenzialmente generale: l’estensione allo scambio parrebbe cosa acquisita; per i conferimenti societari dovrebbe essere lo stesso. Più in là, per la verità, è difficile dire. 2.3. Ciò posto, sembra opportuno aggiungere, adesso, che linee cardine dell’equilibrio economico sono peraltro rintracciabili nella normativa costituzionale: sub specie dell’indicazione dell’utilità sociale e di quella della solidarietà, soprattutto. «Il principio di proporzionalità, espresso in chiave quantitativa, non soltanto è compatibile, ma è altresì presente nel nostro sistema costituzionale», si è in specie rilevato (Perlingieri). Non sembra difficile inoltre reperire - pur se con qualche grado di approssimazione - delle linee dirette di conformità tra il dettato costituzionale e la vigente normativa penalistica dell’usura. Insomma sembrano proprio presentarsi i presupposti perché detta legge venga a informare di sé la regolamentazione dell’equilibrio economico della materia civilistica.
3. Percorsi di adeguamento della normativa civilistica alle regole penali antiusura. 3.1. Se ci si pone (e pure ci si ferma) al livello dei principi, una cosa appare evidente. Un contratto stimato usurario secondo la legge penale non può essere considerato corretto e lecito per la legge civile: pena, altrimenti, l’aprirsi di una frattura sistematica di livello enorme; ovvero il
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predicare la schizofrenia dell’ordinamento. A tacere, poi, degli appena ricordati principi costituzionali. Un po’ meno semplice e immediato si manifesta, peraltro, scendere da questo livello a quello dell’applicazione concreta. 3.2. Per i contratti di credito, in realtà, il transito della regola dal penale al civile è abbastanza semplice. Del resto, è constatazione scontata quella per cui la legge n. 108, per quanto contenga regole di dimensione generale, sia stata comunque scritta con l’attenzione specialmente rivolta ai contratti di credito. Io non credo, per la verità, che questa impostazione sia quella più opportuna e per sé preferibile (anche se ogni famiglia di contratti presenta, pure in punto di equilibrio, lati di specificità propri e quindi risulta bisognosa di spezzoni normativi a sé dedicati): ma questo è, ovviamente, un discorso altro. Qui bisogna fare i conti col sistema attuale. Comunque sia, la norma dell’art. 1815, co. 2, appare in concreto disponibile ad accogliere la soluzione prodotta dal penale per i contratti di credito. Un punto solo può lasciare perplessi: la citata disposizione del codice concerne una fattispecie di soli interessi usurari, non già di un contratto complessivamente usurario, secondo quanto si è visto invece essere caratteristico della normativa penale. Potrebbe sembrare più semplice e cosa migliore, allora, parlare di nullità per violazione di norma imperativa, qual è quella penale. In ogni caso, si dà luogo a un’ipotesi di nullità particolare, come ricalcata sul testo del comma 2 dell’art. 1815 c.c., secondo quanto attualizzato dalla legge n. 108/1996, che per l’appunto ha ridisegnato i confini della materia: sì che il collegamento tra tale nullità e il fatto di rilevanza penale non sembra revocabile in dubbio. Il contratto risulta disciplinato come se fosse per ogni aspetto gratuito (rimane solo la restituzione del capitale), ferma ogni altra sua condizione. La peculiare conformazione di questa struttura rimediale fa certi – è bene aggiungere per completezza, anche se il punto è in sé stesso evidente – che la stessa si iscrive nell’alveo delle nullità di protezione: e come rimedio di particolare incisività, posto che gli oneri usurari non vengono ridotti a misura equa, ma eliminati. Si può anzi discorrere, in proposito, di nullità «punitiva» (a quanto pare, la norma esonera il debitore anche dagli interessi da ritardo nella restituzione del capitale). 3.3. Per le altre famiglie contrattuali, i problemi sono indubbiamente maggiori. Comunque si ha, fuori dal credito, una certa relatività del transito. Vengono a correre più binari, in definitiva. In ogni caso non espor-
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tabile si manifesta, in specie, il meccanismo della rilevazione trimestrale del limite effettivo oltre il quale si sconfina nell’usura: com’è evidente. Nel contesto di una lettura complessiva – e civilistica - del fenomeno usurario, questo aspetto appare, tuttavia, abbastanza marginale (: nel senso che se ne può fare anche a meno). Più importante – e difficile – risulta organizzare il discorso in relazione al punto della concreta ricaduta dell’usura, così come strutturata dal penale, sui preesistenti, e diversi, regimi che il codice civile indica famiglia per famiglia contrattuale. Com’è noto, il problema è stato affrontato specialmente per i contratti di scambio, qui risultando, anzi, molto tormentato (cfr., anche per ulteriori indicazioni, le importanti trattazioni di Quadri e di Di Amato). È chiaro, peraltro, che lo stesso ordine di problemi si pone per ogni famiglia contrattuale: seppure con profili diversi e intensità, ovvero livello di difficoltà, variabile (un caso che non particolarmente impegnativo potrebbe essere, forse, quello inerente al patto leonino). La coesistenza tout court tra usura e rescissione per lesione enorme a me pare cosa non possibile; quest’ultima deve per forza essere adattata, a mezzo di abrogazioni per incompatibilità. A fianco della nullità del contratto colpito da usura reale, così, di necessità occorre fare scendere alquanto la soglia dello squilibrio rilevante (: infra dimidium, poi variamente apprezzabile caso per caso), se si intende mantenere il requisito dello stato di bisogno (che solo sino a un certo punto può darsi per presunto) e soprattutto la disciplina dell’azione di lesione, assai penalizzante la posizione del contraente che lo scambio ha in concreto legittimato. È soprattutto quest’ultimo profilo, a me pare, a confinare di necessità la rescissione verso più modeste e secondarie ipotesi: posto che gli attuali artt. 1448 ss. vengono a punire proprio il contraente che dovrebbero proteggere (: non può non saltare agli occhi lo scarto che corre tra tale disciplina e quella di cui all’art. 1815, co. 2; al di là, pure questo è naturale, del nomen di nullità, o meno, dell’azione). Per altre tipologie contrattuali, del resto, il nodo problematico sembra ancora più impegnativo. Si pensi, così, all’intangibilità della transazione. In effetti, mettere in discussione la norma dell’art. 1970 significa, all’evidenza, rimette in discussione l’intera disciplina positiva dell’istituto e pure, in fondo, la sua funzione. È anche vero, però, che la connotazione di questa come res iudicata privata appare, a conti fatti, un poco eccessiva.
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4. Dall’incidenza diretta a quella del principio. I contratti «quasi usurari» e la causa concreta. 4.1. Anche sotto altri profili può parlarsi, a me pare, di incidenza o influenza della legge penale antiusura sulla materia civilistica dell’equilibrio: al di là, per l’appunto, dell’incidenza potenzialmente diretta di cui si è discorso appena sopra. Il tema attiene ora, più che altro, a un livello di influenza interpretativa, o ricostruttiva, delle richiamate regole. In concreto si può fare cenno, al riguardo, a tre ipotesi: quella dei contratti «quasi usurari»; quella dell’eccessività delle singoli voci facenti parte degli oneri economici; quella della c.d. usura sopravvenuta. In questa sede, questi tre punti vengono evocati con rifermento ai soli contratti di credito (comunque sede privilegiata, sotto il profilo storico, dei problemi usurari): il primo peraltro ha vocazione apertamente generale; il secondo, in linea di massima almeno, ben può verificarsi pure fuori dai negozi di credito; il terzo, invece, mi pare supponga – come elemento minimo della fattispecie – la presenza di un differimento temporale della prestazione. 4.2. Ci si deve chiedere, dunque, se l’insieme del carico economico di un’operazione possa (eventualmente) assumere una rilevanza civilistica anche nell’ipotesi in cui lo stesso rimanga dentro la misura consentita dal tasso soglia: e questo pure quando non ricorra quella situazione di peculiare difficoltà economica del debitore che, nel contesto della legge penale, determina la c.d. usura minore (art. 644, comma 3, c.p.: sulla ipotetica coerenza di questa peculiare ipotesi con un’azione civile priva della disciplina di nullità va – tra le altre eventualità – a confrontarsi, invero, l’idea di parziale sopravvivenza della lesione enorme; cfr. sopra, nel n. 3.3.). L’interrogativo – si noti – ha nobili referenti. Così notava già Oppo (in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 232): «meno ancora può approvarsi che, se … il tasso c.d. soglia è del 20%, chi ha pattuito un interesse del 20,01% perda tutto e chi ha pattuito un interesse del 19,9% possa conservarlo tutto». Al di là di ogni discorso sulla rigidità del tasso soglia (non poi così evitabile, salvo a cambiare la struttura conformativa del parametro di rilevanza), il punto attiene alla rilevanza di un carico economico eccessivo, che si ponga (per apposita volontà del creditore, magari) ai bordi dell’usura. A mio giudizio, la risposta a tale domanda può essere di segno positivo. Nel senso che il permanere entro la detta misura non dà una patente di sicurezza assoluta e invalicabile. Ma solo relativa: di dimensione meramente quantitativa circa il complessivo del carico economico dell’ope-
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razione. In altri termini, l’operazione deve in ogni caso congiungere - e confrontare - il suo dato quantitativo con quelli di natura «qualitativa». Come è chiaro, il discorso viene così a virare verso la valutazione della meritevolezza degli interessi perseguiti con l’operazione che nei fatti viene messa in pratica (art. 1322 c.c.): con la «causa concreta» del negozio, quindi, intesa appunto come sintesi degli interessi reali che i singoli contratti sono, nel concreto della loro esperienza, diretti a compiere. Certo, il nostro diritto applicato non conosce ancora un uso effettivamente istituzionale della figura della «causa concreta», quanto piuttosto a sprazzi: con zone privilegiate (storicamente, il lease-back) e zone operative più arretrate. Tuttavia, l’estensione applicativa della medesima è, negli ultimi anni, fortemente cresciuta. E la Cassazione è univoca ormai nel richiedere la relativa valutazione anche con riferimento ai contratti che siano traduzione concreta di tipi negoziali astrattamente conosciuti dal codice: passaggio, questo, in sé stesso scontato (in quanto definitorio dell’istituto medesimo) e tuttavia determinante sotto il profilo del diritto vivente. Né si potrebbe dubitare che – con riferimento specifico alle operazioni di credito – la considerazione congiunta del rapporto quali/ quantitativo del carico economico costituisca momento primario, basico, per la valutazione di meritevolezza. Ciò posto, e subito tornando alla «quasi usura»: l’influenza della normativa penale, là dove viene a fissare la soglia di proporzione rilevante, appare manifesta. Il confine non segna solo il passaggio oltre il quale si va senz’altro nell’illecito; la prossimità al confine è indice forte che l’operazione concretamente considerata ha bisogno di una particolare giustificazione di bilanciamento per reggersi; che la stessa in sostanza appare, di per sé, come a rischio.
5. (Segue). L’eccessività degli interessi compensativi. 5.1. Si deve assumere, adesso, una prospettiva diversa, ma non per questo meno importante. Il passaggio è da una considerazione globale, onnicomprensiva, a una invece disaggregata: dal tutto alle parti, dunque. In effetti, ben può capitare – e capita – che solo una voce degli oneri economici caricati sul cliente risulti eccessiva: rispetto al peso che quella voce normalmente ha nel mercato delle situazioni omologhe. Questo punto non viene preso in autonoma e diretta considerazione dal vigente sistema sanzionatorio di diritto penale; non integra l’elemento oggettivo del reato se non nel caso, del tutto estremo, della singola voce così elevata da superare da sola la soglia complessiva ammessa.
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Ora, le voci economiche dei contratti di credito possono essere divise, in buona sostanza, secondo tre gruppi: compensi (per interessi; per commissioni); clausole risarcitorie o penali; spese. Per queste ultime, un problema di squilibrio economico a me pare non si ponga. Nel senso che le spese (diverse da quelle c.d. generali, ipotesi per contro di vero e proprio compenso) si fissano sull’effettivo, versione «a piè di lista» o versione à forfait: sicché ogni richiesta maggiore risulta, per definizione, indebita (in effetti, il back delle spese come forma o nome di compensi vari, per quanto non infrequente, incorre in una sgrammaticatura tecnica). Certo, le spese possono essere eccessive per qualità (inutili, sovrabbondanti …), ma tutto ciò sembra profilo estraneo al tema dello squilibrio, che ha natura esclusivamente quantitativa. Di fronte alla penale eccessiva, il giudice procede, anche d’ufficio, alla riduzione della medesima, lungo la linea tracciata dall’art. 1384 c.c.: il problema è risolto in via automatica dalla legge civile. Che succede per gli interessi compensativi (che stanno a fronte cioè del godimento del danaro concesso dal creditore; cfr. l’art. 820, co. 3, c.c.)? A me non pare che gli interessi compensativi praticati nei contratti di credito vengano esonerati da ogni controllo di equilibrio che sia loro specifico e proprio. Anche perché nell’ordinamento attuale (dal 2009, per l’esattezza) il più importante dei compensi secondari oggi praticati – la commissione di disponibilità risulta contingentata nella sua misura massima (0,5% della somma disponibile per trimestre)1. Posto il sistema vigente – che colpisce di nullità il contratto usurario, riduce ad equità la penale eccessiva (rispetto alla valutazione corrente) e pure blocca la crescita della commissione di disponibilità – manca proprio la base oggettiva per predicare un’opposta e liberista soluzione. Tanto più che lo stesso disposto dell’art. 644 c.p. pone al centro della propria attenzione normativa compensi e relativi interessi (cfr., inter alia, i suoi commi 1 e 4). Nei contratti di credito, gli interessi compensativi costituiscono la voce più importante del carico economico, perché appartengono alla fisiologia di questo tipo di contratti (cfr. il comma 1 dell’art. 1815 c.c.), dipanandosi per l’intero arco temporale della loro durata. L’eccessività di questi interessi sta, dunque, dentro il cuore del fenomeno dell’usura; il resto, in definitiva, si ascrive al contorno.
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Cfr. adesso la commissione di affidamento di cui all’attuale art. 117-bis TUB (la norma è stata introdotta nel corso del 2012).
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Insomma, la leggibilità nel sistema di un divieto in quanto tale di praticare interessi compensativi eccessivi a me pare sicura. Appena il caso di aggiungere, poi, che per la verifica in concreto dell’eccessività rilevante sarebbe opportuno disporre dei dati scomposti delle rilevazioni trimestrali di cui al TEGM, oggi comunicato solo in cifra onnicomprensiva per tipologia di operazione. 5.2. Diversa questione è se gli interessi compensativi eccessivi rientrino – in quanto tali – nella nozione di «interessi usurari». Il punto non è nominalistico, bensì sostanziale perché, nel caso di risposta positiva, dovrebbe trovare applicazione la nullità punitiva di cui al comma 2 dell’art. 1815 c.c. (cfr. appena sopra). Tale disciplina, peraltro, sembrerebbe porsi come mero riflesso civilistico della fattispecie di usura penalmente rilevante. Forse è meglio orientarsi, perciò, verso discipline meno impegnative e, per così dire, di squilibrio minore (pure ricordando che la penale eccessiva va ricondotta ad equità). In questa direzione sostanziale potrebbe essere utilizzabile, a mio avviso, un armamentario concettuale già pronto, seppure preparato a riguardo di un problema diverso (ma per più versi affine): sulla scia di un filone di pensiero formatosi in relazione alla tematica della c.d. usura sopravvenuta; che è l’altro tema – si ricorderà – di cui ci si deve qui occupare. Sì che è bene già qui anticipare che, con tale espressione, si fa riferimento alla disciplina civilistica dei contratti con oneri non usurari al tempo della loro stipula, ma divenuti tali nel corso della loro esecuzione: naturalmente, la prima casistica in materia ha riguardato i contratti conclusi prima dell’entrata in vigore della legge n. 108/1996. Con qualche semplificazione (di profili qui non rilevanti; cfr. infra), tale indirizzo può essere così riassunto: la non applicazione dell’art. 1815, co. 2, c.c. non comporta impunità per i relativi contratti (qui, quelli con interessi eccessivi, non diversamente da quanto sarà sostenuto per quelli di cui alla usura sopravvenuta), ché gli stessi risultano comunque contrari ai principi ispiratori della legge antiusura e al canone della buona fede oggettiva. Si impone, pertanto, un adeguamento degli interessi in modo da non farli risultare in contrasto con tali principi, con loro rideterminazione entro la fascia tollerata dal mercato, sul limite del tasso soglia (TEGM).
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6. (Segue). L’usura sopravvenuta. Una delle questioni più importanti – in punto di equilibrio economico nei contratti di credito – attiene alla definizione del tempo di rilevanza del medesimo. Per essere più precisi, si tratta di stabilire se, per il giudizio di cui alla sproporzione, occorra fare riferimento al mercato corrente al tempo del patto del carico economico o al tempo del pagamento o ancora al tempo della scadenza di questo (c.d. periodo di maturazione degli interessi). Nei primi tempi di applicazione della legge n. 108/1996 la questione risulta molto dibattuta: anche per la forte dimensione di diritto intertemporale che legge porta con sé (si pensi anche solo alla durata media dei mutui) e pure perché la norma penale mette sullo stesso piano promessa dei vantaggi usurari e dazione dei medesimi. Sostanzialmente per risolvere il problema intertemporale, sopravviene allora la legge n. 24/2001, di «interpretazione autentica», per cui «ai fini dell’applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite … in cui essi sono promessi o comunque convenuti». Dall’epoca tale soluzione è rimasta nettamente prevalente. E così la stessa risulta di frequente ripetuta in giurisprudenza. I mutui con carico non usurario al tempo della stipula conquisterebbero, pare, una patente di immunità (anche quelli a tasso variabile, pare). Questa soluzione, tuttavia, non è convincente; essa risulta sin troppo meccanicistica. Al di là di ogni rilevo sulla sua natura intertemporale, in effetti, la legge n. 24/2001 viene unicamente a escludere l’applicazione della peculiare sanzione prescritta dal comma 2 dell’art. 1815 c.c. alle ipotesi di c.d. usura sopravvenuta (: rispetto al tempo della conclusa pattuizione; v. sopra). Non già a negare ogni rilevanza alla medesima. Come è stato osservato in proposito, «se le finalità della legge sull’usura si possono riassumere nella necessità di razionalizzare il mercato del credito e nel conseguente abbassamento del costo del danaro […] circoscrivere la rilevanza e l’applicabilità della […] disciplina del fenomeno usurario al momento costitutivo dei rapporti di […] credito, significa contraddire e vanificare gli scopi della stessa legge» (Ferroni, RaDC, 1999, p. 511 ss.)2. Per loro struttura, gli interessi compensativi maturano
2. La soluzione propugnata nel testo è stata di recente ripresa dall’importante decisione dell’Arbitro Bancario Finanziario, Collegio di Roma (pres. De Carolis; est. Porta), 29 febbraio 2012 n. 620 (nel contesto – va tuttavia pure aggiunto – di un orientamento
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«giorno per giorno … in ragione della durata del diritto» (art. 821, comma 3, c.c.). Per loro funzione, essi vanno a remunerare le diverse, singole unità che compongono il periodo temporale per cui il creditore concede al debitore il godimento del capitale (il criterio coerente, pertanto, è quello della maturazione). Tutto meno che istantaneo, il fenomeno è casomai «ciclico»: occuparsi solo del giorno del patto sarebbe, in definitiva, come interessarsi di un giorno su mille. Preoccuparsi di un graffio e trascurare l’infezione. Applicare interessi che sul mercato del giorno (rectius: del trimestre) risultano oggettivamente usurari non può essere considerato cosa meritevole di tutela ex art. 1322 c.c.: ancora una volta è il principio fissato dalla legge penale a fissare la sponda. Né la cosa potrebbe dirsi conforme al canone di buona fede oggettiva: non sembra corretto, in effetti, il comportamento di chi pretende il pagamento di una somma a titolo di interessi da chi per legge, in quel momento, non potrebbe promettere quella somma. Corretto ed equo è, piuttosto, riportare la richiesta al quantum che risulta in quel periodo mediamente normale (meglio, è una delle possibili varianti dell’equità): al TEGM corrente del trimestre, dunque. Ciò posto, è appena il caso di aggiungere che la soluzione, qui accolta, per cui rileva (anche) il tempo della maturazione degli interessi non viene a predicare nessuna specie di invalidità sopravvenuta. L’ottica è decisamente diversa: rispetto ai periodi futuri, la clausola di interessi non è – nel momento della stipula – né valida, né invalida. La relativa valutazione è solo rimessa al tempo opportuno. Aldo Angelo Dolmetta
dell’Arbitro chiaramente orientato nell’assegnare rilevanza al solo tempo di stipulazione del patto).
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La vexata quaestio del riparto di giurisdizione in ordine al potere sanzionatorio della Consob (nota a Corte Costituzionale n. 162/2012) Sommario: 1. Premessa. – 2. Le tappe del percorso normativo, giurisprudenziale e dottrinale dell’ultimo trentennio sul riparto di giurisdizione in ordine alle sanzioni amministrative della Consob. – 3. Il nuovo assetto disegnato dal Codice del processo: la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. – 4. La pronuncia di incostituzionalità dell’art. 133 lett. l) c.p.a.: 4.1 Il sindacato torna al giudice ordinario; 4.2 Le possibili ripercussioni sulle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti delle altre Autorità Indipendenti.
1. Premessa. Il dibattito sorto in dottrina in ordine al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo nella materia delle sanzioni è stato, nel tempo, alimentato dall’incertezza normativa e dalle eterogenee posizioni assunte dalla giurisprudenza1. In particolare, il novero degli strumenti di tutela esperibili dai destinatari dei provvedimenti sanzionatori della Consob continua a costituire oggetto di riflessione da parte dei numerosi studiosi che si sono interessati alla tematica 2.
1 La letteratura sul tema è assai vasta. Tra i primissimi studi quello di Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, che ha a lungo rappresentato la più completa e sistematica opera in materia. Si vedano anche M.A. Sandulli, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione (Studi preliminari), Napoli, 1981; Id., Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983; Travi, Le sanzioni amministrative, Padova, 1983; Pagliari, Profili teorici della sanzione amministrativa, Padova, 1989; Casetta, voce Sanzione amministrativa, in Digesto disc. pubbl., XIII, Torino, 1997. Da ultimo, la materia è stata approfondita nei volumi della collana “Sanzioni amministrative”, diretta da Cagnazzo, Torino, 2011. 2. Cfr. Troise, Il potere sanzionatorio della Consob. Profili procedimentali e strumen-
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In effetti, da un lato, il passaggio dallo Stato interventista al cd. Stato regolatore 3, per effetto delle politiche di liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione attuate nell’ultimo ventennio, ha dato vita a relazioni giuridiche intersoggettive sempre più articolate, che, creando occasioni di conflitto, abbisognano di pronta tutela giurisdizionale 4; dall’altro lato, il legislatore non ha dato prova di chiarezza nell’individuazione del giudice competente a sindacare l’esercizio del potere sanzionatorio della Consob, ingenerando confusione nei soggetti coinvolti 5. Infine, il “tempo della crisi”, stimolando ad una più attenta riflessione sulle modalità di intervento dello Stato sul mercato 6, ha rinnovato l’interesse per l’attività della Consob 7 e di tutte le altre Autorità Indipendenti.
talità rispetto alla funzione regolatoria, Milano, 2012; Caruso, Le sanzioni pecuniarie di vigilanza: innovazioni nella fase amministrativa e in quella giurisdizionale, in Le soc., 2/2012; Fratini, a cura di, Le sanzioni delle autorità amministrative indipendenti, Padova, 2011; Lazzara, Sanzioni amministrative nel credito e nel risparmio, Report annuale 2011 Italia, in www.ius-publicum.com; Nigro, Le Sezioni Unite e la legittimazione all’opposizione dei destinatari delle sanzioni ex art. 195 t.u.f., in Dir. banc., 2009, I, p. 624 ss. 3. Cfr. sul punto, ex multis, La Spina e Majone, Lo Stato regolatore, Bologna, 2000; Tesauro e D’Alberti, Regolazione e concorrenza, Bologna, 2000; Irti, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 2001; Giani, Attività amministrativa e regolazione di sistema, Torino, 2002; Fonderico, Diritto della regolazione economica, in Clarich e Fonderico, a cura di, Dizionario di diritto amministrativo, 2007, p. 596 ss. 4. Clarich, Autorità indipendenti, Bilancio e prospettive di un modello, Bologna, 2005. 5. Vitale, Il regime di tutela giurisdizionale avverso provvedimenti di sanzione della Consob, in www.ambientediritto.it, sottolinea che dall’esame dei dati statistici risulta che le sanzioni irrogate dalla Consob vengono spesso impugnate contemporaneamente dinanzi alle Corti d’Appello e presso il Tribunale amministrativo del Lazio, per il diffuso timore di incorrere in pronunce di difetto di giurisdizione. Cfr. anche Clarich e Pisaneschi, Le sanzioni amministrative della Consob nel “balletto” delle giurisdizioni: nota a Corte costituzionale 27 giugno 2012, n. 162, in www.giustizia-amministrativa.it. Nell’incipit del contributo si legge: “La coerenza è un valore e un’aspirazione di ogni ordinamento giuridico. Ma di rado il legislatore italiano riesce nell’intento di riordinare l’assetto normativo vigente per porre rimedio a una situazione di disordine ormai patologica. Quest’ultima è dovuta, com’è noto, alle continue incursioni di leggi e leggine, che cercano di risolvere problemi contingenti, senza una visione d’insieme”. 6. Cfr. Santoro, I limiti del mercato e il fallimento della regolamentazione, in Dir. banc., 1/2012; Longobardi, Le Autorità di regolazione dei mercati nel “tempo della crisi”, in Dir. e proc. amm., 1/2012; D’Alberti e Pajno, a cura di, Arbitri dei mercati. Le autorità indipendenti e l’economia, Bologna, 2010; Rangone, Autorità Indipendenti e Air, in www.osservatorioair.it, 2010; Onado, La crisi finanziaria internazionale: le lezioni per i regolatori, in Banca, impresa, soc., 2009, p. 5 ss.; Amorosino, Regolazioni pubbliche Mercati Imprese, Torino, 2008. 7. In ordine alla natura giuridica della Consob e ai poteri da essa esercitati, si vedano, ex multis, Predieri, La posizione della Consob nell’apparato amministrativo, in
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In particolare, la fallibilità dei regolatori, posta in evidenza dal crollo economico-finanziario, ha indotto – in Italia, come all’estero – a riesaminare l’intero contesto regolatorio, nel tentativo di ottenerne un miglioramento 8. In tale prospettiva, centrale importanza ha assunto proprio il controllo sull’esercizio del potere sanzionatorio delle Authorities, previo confronto informato, ampio e trasparente 9.
G.M. Flick, a cura di, Consob. L’istituzione e la legge penale, Milano, 1987; Cardi, La Consob come istituzione. Note sulla soggettività giuridica della Consob, in Scritti in onore di Giannini, III, Milano, 1988, p. 272 e ss.; Marzona, L’amministrazione pubblica nel mercato mobiliare, Padova, 1988; Torchia, Il controllo pubblico della finanza privata, Padova, 1992; Cardi e Valentino, L’istituzione Consob, Milano, 1993; Jannuzzi, La Consob: caratteri e funzioni, l’informazione societaria, controlli e sanzioni, Milano, 1993; Vesperini, La Consob e l’informazione del mercato mobiliare, Padova, 1993; Cavazzuti, La Consob e la regolazione dei mercati finanziari, in Quaderni di Finanza, 38/2000; Cardia, Il nuovo ruolo della CONSOB nel nuovo assetto legislativo: attività di vigilanza e attività di prevenzione, intervento tenuto il 29 giugno 2006 presso l’Ordine dei Dottori Commercialisti di Milano, in www.consob.it; Cardarelli, Potere regolamentare della CONSOB. Informazione e mercati regolamentati, Milano, 2007; Amorosino, Funzioni e poteri della CONSOB “nouvelle”, in Banca, Borsa, Tit. cred., 2/2008; Amorosino, a cura di, Manuale di diritto del mercato finanziario, Milano, 2008; Cardia, I nuovi scenari dei mercati finanziari: il ruolo della Consob, intervento del 6 giugno 2008 presso la Banca Popolare di Sondrio, in www.consob.it; De Mari, I “nuovi” poteri della Consob e la vigilanza sull’attività di intermediazione mobiliare, in Società, 2009, p. 829 ss.; Costi, Il mercato mobiliare, Torino, 2010; Mattassoglio, Il rapporto tra Consob e investitore nell’era della crisi. Una riflessione nell’ottica del diritto pubblico, in www.giustamm.it, 2011; Clarich, voce Autorità di vigilanza sul mercato finanziario. Profili generali, in Enciclopedia del diritto, Annali V, Milano, 2012, p. 152 ss. 8. Si veda, in proposito, Soros, Cattiva finanza (trad. it.), Roma, 2008, che invita a riflettere sul fatto che i regolatori debbano essere lungimiranti nell’imporre le regole, preoccupandosi della stabilità dell’economia, vigilando con attenzione nelle fasi espansive e gestendo i rischi sistemici. 9. Spiccato interesse per il poliedrico fenomeno delle sanzioni delle autorità amministrative indipendenti testimonia Fratini, a cura di, Le sanzioni delle autorità amministrative indipendenti, citato, che rappresenta un lodevole tentativo di sistematizzare la materia; cfr. anche Lazzara, Sanzioni amministrative nel credito e nel risparmio, cit.: per l’Autore, “l’interesse per la materia [delle sanzioni] si è nuovamente acceso in collegamento allo studio della legislazione sulle autorità amministrative indipendenti, enti pubblici completamente slegati dall’apparato amministrativo governativo, sia sul piano organizzativo che su quello funzionale ed alle quali sono affidati compiti di regolazione, vigilanza e sanzione in settori particolarmente ‘sensibili’ (soprattutto per il rilievo costituzionale dei beni coinvolti: concorrenza, credito, risparmio, ecc.)”. Si consideri, inoltre, che all’indomani di scandali (es. Cirio e Parmalat) e disfunzioni di vario tipo (es. blackout elettrici) e per effetto del recepimento di direttive comunitarie in materia di market abuse e tutela dei consumatori, il legislatore ha incrementato i poteri delle autorità indipendenti, accrescendo anche il novero delle sanzioni irrogabili. Si veda, in
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In verità, l’entrata in vigore del cd. Codice del processo amministrativo sembrava aver dissipato ogni dubbio in ordine all’attribuzione della giurisdizione sui provvedimenti sanzionatori delle Autorità Indipendenti al giudice amministrativo. In effetti, da più parti erano pervenuti apprezzamenti per l’attenta opera di sistematizzazione e semplificazione operata in generale dal decreto legislativo n. 104 del 2010, che – si immaginava – avrebbe sortito effetti positivi anche sul contenzioso relativo ai provvedimenti sanzionatori della Consob e delle altre Autorità. Del resto, l’intervento puntuale del Codice mirava anche a porre fine a quella che rischiava di risolversi in una puntigliosa actio finium regundorum (di competenza) tra Corte di Cassazione e Consiglio di Stato, purtroppo non sempre animata dall’obiettivo che la giustizia dovrebbe prefiggersi, vale a dire la prestazione, con funzionalità ed efficienza, di un servizio in favore di cittadini ed imprese. Nonostante diversi studiosi avessero accolto favorevolmente la scelta del Codice 10, la Corte d’Appello di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale 11 degli artt. 133, comma 1, lettera l), 134, comma 1, lettera c), 135, comma 1, lettera c), proprio “nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva amministrativa in generale, e del T.A.R. Lazio – sede di Roma in specie”, le controversie relative alle sanzioni amministrative irrogate dalla Commissione nazionale per le società e la borsa 12. In particolare, a parere dei giudici piemontesi, le norme citate sarebbero state in conflitto con gli artt. 3, 76, 103, comma primo, 113, comma primo, 111, commi secondo, settimo e ottavo, della Costituzione.
proposito, Clarich, Presentazione a Fratini, a cura di, Le sanzioni delle autorità amministrative indipendenti, cit.; l’Autore invita a confrontare, a titolo esemplificativo, l’attuale testo dell’art. 144 d.lgs. n. 385/1993 e quello originario, per riflettere sul moltiplicarsi delle fattispecie sanzionatorie. 10. Si cita, a titolo esemplificativo, Chieppa, Il codice del processo amministrativo, Milano, 2010, p. 658, avvertendo che nel prosieguo si darà conto delle diverse posizioni assunte sulla bontà della soluzione offerta dal d.lgs. n. 104/2010. 11. Il giudizio di legittimità costituzionale è stato promosso nel procedimento vertente tra Inprogramme s.a.s. ed altri e la Commissione nazionale per le società e la borsa, con ordinanza del 25 marzo 2011, iscritta al n. 220 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2011. 12. È stata contestualmente sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, co. 1, numero 19), dell’Allegato numero 4, del medesimo d.lgs. n. 104 del 2010, nella parte in cui abroga l’art. 187 septies, co. 4, del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli artt. 8 e 21 della l. 6 febbraio 1996, n. 52), che attribuiva alla Corte d’appello la competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla Consob.
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Anticipiamo che la Corte Costituzionale, con la sentenza 162 del 2012 13, ha accolto la questione di legittimità bocciando la soluzione adottata dal Codice, per asserito contrasto con l’art. 76 della Costituzione, cioè per eccesso di delega. In sintesi, a parere dei giudici di legittimità, il legislatore delegato, trasferendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative alle sanzioni inflitte dalla Consob, si sarebbe discostato dall’orientamento della Corte di Cassazione, che, viceversa, avrebbe dovuto guidare il suo intervento, ai sensi dell’art. 44 (Delega al Governo per il riassetto della disciplina del processo amministrativo) della legge n. 69 del 2009. A distanza di qualche mese, il decreto legislativo n. 160 del 2012 (cd. “correttivo del correttivo”) ha adeguato formalmente il disposto del Codice alla citata pronuncia, riportando al giudice ordinario la giurisdizione sui provvedimenti sanzionatori della Consob 14. Per comprendere appieno i termini della questione, pare opportuno ripercorrere, sia pur brevemente, gli snodi del percorso legislativo, dottrinale e giurisprudenziale in materia. 2. Le tappe del percorso normativo, giurisprudenziale e dottrinale dell’ultimo trentennio sul riparto di giurisdizione in ordine alle sanzioni amministrative della Consob. In origine, in assenza di una disciplina ad hoc sul riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative, la Corte di Cassazione adottò il principio per cui la giurisdizione ordinaria avrebbe avuto ad oggetto le misure punitive e quella amministrativa le misure ripristinatorie 15. Tale posizione suscitò ampie discussioni, tanto è vero che illustre dottrina ebbe a sottolinearne il carattere “eccezionale”, dal momento che il giudice ordinario si sarebbe, in tal modo, occupato anche di interessi legittimi oltre che di diritti soggettivi 16. Tuttavia, secondo la Corte Costituzionale,
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Corte Cost., sent. 27 giugno 2012, n. 162, in Dir. banc., 2012, I, p. 729. Il decreto legislativo è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18.09.2012 ed è entrato in vigore il 3.10.2012. 15. Per un quadro completo della giurisprudenza dell’epoca, si veda Mezzabarba, Sanzioni amministrative. Rassegna di giurisprudenza della Cassazione: disciplina processuale, prescrizione, violazioni in materia previdenziale, disciplina transitoria, in Foro It., 1994, I, p. 1468 ss. 16 M.A. Sandulli, La potestà, cit. 14
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vantando il cittadino il diritto soggettivo alla propria integrità patrimoniale a fronte dell’applicazione di una sanzione afflittivo-pecuniaria, la competenza del giudice ordinario in materia sarebbe stata perfettamente rispondente agli ordinari criteri di riparto 17. Successivamente, la questione trovò, in parte, soluzione nel diritto positivo: l’art. 22 della legge n. 689/1981 stabilì che, in opposizione alle sole sanzioni pecuniarie, gli interessati avrebbero potuto ricorrere al pretore territorialmente competente, entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento. Nonostante ciò, la giurisprudenza continuò a ritenere decisiva, ai fini del riparto di giurisdizione, la distinzione tra sanzioni afflittive, pecuniarie e non, non richiedenti l’esercizio di un potere discrezionale, e misure ripristinatorie 18. In effetti, persino nel caso in cui fosse rimessa alla discrezionalità dell’Amministrazione la sola scelta del tipo di sanzione da applicare (ad esempio, nell’ipotesi in cui la comminazione di una sanzione pecuniaria fosse prevista in alternativa a quella ripristinatoria), la giurisprudenza prevalente riteneva sussistente in capo al privato un interesse legittimo, con conseguente devoluzione dell’eventuale controversia al giudice amministrativo. Viceversa, nel caso in cui la sanzione punitiva pecuniaria fosse prevista direttamente dalla legge in via autonoma o anche cumulativa a quella di tipo ripristinatorio, il privato sarebbe stato titolare di un diritto soggettivo e avrebbe potuto adire il giudice ordinario. In seguito, la legge n. 287 del 1990 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato) fissò una peculiare disciplina per l’A.g.c.m., stabilendo, al primo comma dell’art. 33, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (in particolare, del Tar Lazio) per le controversie aventi ad oggetto i suoi provvedimenti e assegnando alla Corte d’Appello territorialmente competente solo la giurisdizione sulla nullità degli accordi anticoncorrenziali 19. Tuttavia, in materia di sanzioni, l’art. 31 della stessa legge n. 287/1990, rimandando alla legge n. 689/1981, non chiariva se il rinvio fosse da riferire al solo procedimento o anche alla competenza del giudice ordinario sulle controversie relative agli illeciti amministrativi. Investite della questione nel 1994, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione dichiararono il rinvio relativo ai soli aspetti proce-
17. L’orientamento si afferma a partire dalla sentenza del 4 marzo 1970, n. 32, in www. giurcost.org. 18 Casetta, voce Sanzione amministrativa, cit., p. 604. 19. Anche i provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia di pubblicità ingannevole sono attribuiti alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in base al d.lgs. n. 74/1992.
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durali, sostenendo che, diversamente, si sarebbe avallata un’irrazionale biforcazione: cognizione del giudice amministrativo sulla vigilanza e cognizione del giudice ordinario sulla sanzione 20. Viceversa, i provvedimenti degli altri organismi indipendenti all’epoca già istituiti, quali Consob, Isvap e Banca d’Italia, in assenza di una specifica regolamentazione, erano soggetti all’ordinaria regola del riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario, vale a dire al criterio della causa petendi. Di lì a qualche anno, però, l’art. 145 del d.lgs. n. 385/1993 (Testo Unico Bancario) 21 avrebbe attribuito alla Corte d’Appello di Roma la competenza a decidere delle opposizioni ai provvedimenti sanzionatori adottati dall’allora Ministero del Tesoro, su proposta della Banca d’Italia. Similmente, nel 1996, il decreto legislativo n. 415, cd. “Eurosim”, stabilì che gli interessati proponessero reclamo avverso i provvedimenti sanzionatori della Consob, in unico grado, alla Corte d’Appello di Roma. Peraltro, in quegli anni, in sede di Commissione Bicamerale per la riforma costituzionale, assieme alla proposta di inserire in Costituzione le Autorità Indipendenti, in linea con l’auspicio di autorevole dottrina 22, venne anche ipotizzata l’impugnazione dei provvedimenti sanzionatori direttamente al Consiglio di Stato, pretermettendo il giudizio di primo grado innanzi al Tar 23. Nonostante tali sollecitazioni, a conclusione del processo di riorganizzazione del mercato dei capitali, con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 58/1998 (Testo Unico della Finanza), la disciplina della tutela avverso le sanzioni della Consob venne compiutamente disegnata dai commi 4, 5, 6 e 7 dell’art. 195, con l’attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario. In definitiva, i soggetti concretamente incisi dalla sanzione dell’Autorità avrebbero potuto presentare opposizione alla Corte d’Ap-
20.
Cass. S.U., 5 gennaio 1994, n. 52, in Foro It., 1994, I, 732, con nota di Barone. Tale disposizione ha ripreso il disposto dell’art. 90 della legge bancaria del 19361938, che attribuiva alla Corte d’appello di Roma la cognizione dei reclami contro i decreti ministeriali di applicazione delle cd. pene pecuniarie di cui agli artt. 87, 88 e 89. 22. Cassese, Le autorità indipendenti: origini storiche e problemi odierni, in Cassese e Franchini, a cura di, I garanti delle regole, Le autorità indipendenti, Bologna, 1996, p. 221. 23. In proposito, Morbidelli, Sul regime amministrativo delle Autorità indipendenti, in Predieri, a cura di, Le autorità indipendenti nei sistemi istituzionali ed economici, , 1998, p. 253, sottolineò come una soluzione del genere non fosse in contrasto con l’art. 125, co. 2, Cost., non avendo tale norma costituzionalizzato il principio del doppio grado di giudizio nel processo amministrativo. 21.
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pello territorialmente competente, in considerazione della sede della società o dell’ente di appartenenza dell’autore della violazione, o, in via sussidiaria, del luogo di commissione della violazione. Tuttavia, poco più di un mese dopo, l’art. 33 del d.lgs. n. 80/1998 24 riscrisse la disciplina del riparto di giurisdizione in materia, devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo “tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti al credito, alla vigilanza sulle assicurazioni, al mercato mobiliare”. La scelta, dettata dal criterio cd. della materia 25, mirava ad evitare che il cittadino fosse obbligato a promuovere una pluralità di giudizi, davanti al giudice amministrativo e a quello ordinario, a causa della coesistenza di diritti soggettivi ed interessi legittimi. Si pose, quindi, il problema di coordinare il disposto del citato art. 33 d.lgs. n. 80/1998 con la disciplina dettata dall’art. 195 TUF e cioè con l’attribuzione alla Corte d’Appello della competenza a conoscere delle opposizioni ai decreti ministeriali sanzionatori, allora adottati su proposta della Consob. La dottrina si sforzò di risolvere l’antinomia applicando diversi principi giuridici e pervenendo a soluzioni opposte 26. In ogni caso, la difficoltà di individuare con esattezza la correlazione tra il mercato mobiliare ed i servizi pubblici avrebbe potuto comportare uno sconfinamento da parte del giudice amministrativo in ambiti propriamente privatistici, come tali sottoposti alla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria 27.
24. Adottato in attuazione della delega contenuta nell’art. 11 della l. n. 59 del 1997 (cd. legge Bassanini). Per una concisa analisi dell’impatto dell’art. 33 del d.lgs. n. 80/98 si veda Ieva, Profili problematici della nuova giurisdizione esclusiva del G.A. in materia di servizi pubblici, in www.giustamm.it. 25. In proposito, in dottrina si è sottolineato come il termine “materia” per la giurisdizione esclusiva abbia un significato diverso rispetto ad altri contesti, essendo, per esempio, divergente da quello che emerge dall’art. 117 Cost., dove designa un complesso tendenzialmente “organico” di attività, funzioni ed interessi. Cfr. Travi, Lezioni di Giustizia Amministrativa, VII ed., Torino, 2006, p. 189. 26. In argomento, si veda Bertonazzi, Commento all’art. 33 d.lgs n. 80/98, in Le nuove leggi civili commentate, 1998, p. 207. 27. In effetti, di lì a qualche anno, la Corte Costituzionale (sent. 204/2004) avrebbe precisato che l’assegnazione di una materia al giudice amministrativo deve trovare fondamento nel collegamento tra la materia oggetto di controversia e una condizione di potere dell’Amministrazione. Si veda, ex multis, Clarich, La “tribunalizzazione” del giudice amministrativo evitata: commento alla sentenza 5 luglio 2004, n. 204, in Giornale di dir. amm., 2004; Mazzarolli, Sui caratteri e i limiti della giurisdizione esclusiva: la Corte
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A cercare di far chiarezza, intervenne l’art. 7 della legge n. 205 del 2000, che, approfittando della declaratoria di incostituzionalità per eccesso di delega dell’art. 33 28, lo riformulò come segue: “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi, ivi compresi quelli afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare”. Anteponendo il termine “vigilanza”, a parere dei più, il legislatore aveva inteso devolvere alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le sole controversie concernenti l’attività di vigilanza sul mercato mobiliare e non l’intero mercato mobiliare 29. Più precisamente, la norma non parlava di “vigilanza” tout court, ma di servizi pubblici “afferenti alla vigilanza”. Dunque, per poter affermare la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle opposizioni alle sanzioni della Consob, si tentò di stabilire, in mancanza di una più precisa indicazione da parte dell’art. 7 della legge n. 205/2000, se l’attività sanzionatoria potesse essere considerata parte della più ampia funzione di vigilanza 30. In proposito, diversi Autori hanno rilevato un contrasto fra la volontà del legislatore di ricorrere alla tecnica del “blocco di materie” e la supposta separazione di due attività delle quali l’una appare come il naturale (anche se eventuale) sbocco dell’altra. In particolare, si è sostenuto che non solo l’attività sanzionatoria, ma tutte le potestà delle Authorities, anche se logicamente distinte, sono interconnesse, al punto che, anche quando i provvedimenti sembrano esplicazione di compiti differenti,
costituzionale ne ridisegna l’ambito, in Dir. proc. amm., 2005, p. 214; Torchia, Biblioteche al macero e biblioteche risorte: il diritto amministrativo nella sent. n. 204/2004 della Corte Costituzionale, in www.giustizia-amministrativa.it. 28 Corte Cost., 17 luglio 2000, n. 292, in Urbanistica e appalti, 9/2000. 29. Evidenziano la rilevanza della modifica apportata, Caranta, Il controllo giurisdizionale sugli atti delle autorità indipendenti, in Caringella e Garofoli, a cura di, Le Autorità indipendenti, Napoli, 2000; Fracchia, La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in Caringella e Protto, a cura di, Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2001; Garofoli, I servizi pubblici (art. 33), in Caringella, De Marzo, Della Valle, Garofoli, a cura di, La nuova giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, Milano, 2000; Pagano, La nuova giustizia amministrativa, Commento organico alla Legge n. 205/2000, Napoli, 2000, p. 52; Volpe, I servizi pubblici (art. 7 co. 1 L. n. 205/2000), in Cerulli Irelli, Verso il nuovo processo amministrativo, Torino, 2000. 30. Un interessante contributo al dibattito sul rapporto intercorrente tra funzione di regolazione e potere sanzionatorio delle Autorità Amministrative Indipendenti è stato offerto da Titomanlio, Funzione di regolazione e potestà sanzionatoria, Milano, 2007; l’Autore mira in particolare ad individuare le forme che assume la potestà sanzionatoria quando la stessa è assegnata a soggetti deputati alla regolazione.
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costituiscono, pur sempre, manifestazione della medesima funzione di regulation 31. Proprio in merito alla specifica attività di vigilanza e controllo della Consob, si è affermato che la stessa è esercitata al fine di garantire la correttezza dei comportamenti degli intermediari, dei promotori e delle società di gestione dei mercati 32. Anche il Consiglio di Stato 33 ha sostenuto che le due attività in questione non sono logicamente scindibili, rappresentando quella sanzionatoria un pregnante modo di esplicarsi di quella di vigilanza. In particolare, secondo il giudice amministrativo, l’irrogazione delle sanzioni deve essere considerata come un “momento” della vigilanza, inglobando quest’ultima, oltre che i poteri istruttori, ispettivi, permissivi e regolamentari, anche il potere sanzionatorio, che, con essi, “si integra e forma sistema munendo la vigilanza di effettività” 34. In definitiva, sia a parere di autorevole dottrina 35 sia secondo la giurisprudenza, le sanzioni amministrative costituiscono uno strumento per la tutela indiretta di interessi pubblici e per l’esercizio di funzioni proprie dell’Amministrazione titolare della potestà sanzionatoria 36. In pratica, i
31.
Si veda, ex multis, Traina, La riforma del sistema sanzionatorio amministrativo, in Dir. proc. amm., 2/2001, p. 379 ss. L’Autore sostiene che è difficile elidere dalla sfera della vigilanza il settore delle sanzioni amministrative “distinguendo sottilmente tra vigilanza e potestà sanzionatoria o forgiando in via meramente interpretativa una deroga a favore del giudice ordinario non prevista dall’ordinamento e che collide con la tecnica del blocco di materie che caratterizza attualmente il riparto della giurisdizione”. 32 Vesperini, La Consob, cit. 33. Cons. St., sez. VI, 13 maggio 2003, n. 2533, in www.giustizia-amministrativa.it. La sentenza conferma la decisione di Tar Lazio, sez. I, 7 settembre 2001, n. 7235, in Banca, borsa, tit. cred., 2/2002, p. 369, con nota di Travi, La giurisdizione amministrativa per le sanzioni pecuniarie previste dal testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia. 34. Così, Tar Lazio, Sez. I, 7 settembre 2001, n. 7235, pubblicata anche sul Il Corriere giuridico, 2002, p. 504, con nota di Di Amato, Sanzioni agli esponenti aziendali di banche e imprese d’investimento e problemi di giurisdizione. Nel caso di specie, il Tar Lazio era stato adito per l’annullamento di sanzioni amministrative pecuniarie adottate ai sensi dell’art. 144 t.u.b. 35. Sul rapporto di strumentalità tra il potere sanzionatorio e quello di vigilanza si veda in generale, Cremona, Le Autorità Indipendenti, in Di Benedetto, a cura di, Diritto amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 1999; R. Lombardi, Autorità amministrative indipendenti: funzione di controllo e funzione sanzionatoria, in Dir. amm., 1995, p. 633. 36. Secondo Benvenuti, Autotutela, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 550, “il nome di sanzioni amministrative in senso stretto va riservato a quelle ipotesi in cui la comminazione di una misura svantaggiosa per il privato non consegue lo scopo di assicurare la esecuzione di un precetto attraverso la soddisfazione di un interesse dell’amministrazio-
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poteri di controllo e sanzionatori sono strumenti imprescindibili per la tutela del pubblico risparmio 37. Più in generale, una parte cospicua della giurisprudenza si è mostrata poco propensa ad accettare la tesi per cui sarebbero affidate al sindacato del giudice ordinario le controversie in materia di sanzioni amministrative pecuniarie di tutte le Authorities 38, ribadendo anche l’inserimento del più volte citato art. 33 del d.lgs. n. 80/1998, così come modificato dall’art. 7
ne, garantito da quel precetto, ma agisce indirettamente per quello scopo limitandosi a costituire un effetto dannoso per chi abbia posto in essere il comportamento difforme dal precetto. Le sanzioni, come decisioni di autotutela indiretta, né raggiungono lo scopo perseguito dall’amministrazione né soddisfano il relativo interesse, ma si pongono come forme strumentali rispetto ad essi”. 37. Cfr. sul punto il recentissimo contributo di Troise, Il potere sanzionatorio, cit. 38. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno sostenuto la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a norma degli artt. 31 e 33 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, per i ricorsi contro le sanzioni comminate dall’Antitrust, risolvendo così il problema di coordinamento con la legge 24 novembre 1981, n. 689. Cfr. Cass. S.U., 5 gennaio 1994, n. 52, cit. In generale, sull’analogia tra il sindacato sui provvedimenti sanzionatori dell’Antitrust e quello sulle sanzioni irrogate dalla Consob, si veda Torano, Prime riflessioni intorno alla nuova giurisdizione amministrativa sulle sanzioni irrogate dalla Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, in Il dir. dell’econ., 1/2011. Anche il Consiglio di Stato ha affermato che si perverrebbe “ad un risultato interpretativo di dubbia ragionevolezza”, ove si aderisse alla tesi che assegna al giudice ordinario anche le controversie aventi ad oggetto la violazione di norme specificamente riguardanti l’espletamento del servizio e le modalità di esercizio del potere di vigilanza affidato agli organi amministrativi competenti. In tal modo, infatti, “il giudice ordinario continuerebbe a conoscere di controversie che riguardano la liceità delle condotte di soggetti privati nell’esercizio di pubblici servizi, alla stregua di parametri normativi che, spesso, involgono la valutazione della legittimità e della correttezza degli atti generali e particolari adottati dalle autorità amministrative di governo del settore”. Cfr. Cons. St., sez. V, 9 novembre 1999 n. 2440, in Urbanistica e appalti, 2000, p. 45 ss., con nota di De Palma. In altra pronuncia, i giudici di palazzo Spada hanno affermato che “quando in una materia la legge prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, deve intendersi parzialmente abrogato l’art. 23 L. n. 689/81, che prevede la giurisdizione ordinaria per le controversie sulle sanzioni pecuniarie irrogate dall’amministrazione nella medesima materia”. Cfr. Cons. St., Adunanza Plenaria, ord. 30 marzo 2000, n. 1, in www.giustiziaamministrativa.it. In proposito, un Autore ha sostenuto che l’Adunanza Plenaria avrebbe lasciato intendere che un’analoga conseguenza potrebbe valere anche per l’attività di vigilanza effettuata dalla Consob (Cfr. Lirosi, Intervento, in Contributi al diritto e alla scienza dell’amministrazione, in Riv. amm. rep. it., 12/2000, p. 1269). Per approfondimenti sulla pronuncia, si vedano Travi, La giurisdizione amministrativa al bivio, cit., p. 576 e ss.; V. Carbone, Sezioni Unite, Adunanza Plenaria, T.A.R. Calabria a confronto sulla nuova giurisdizione esclusiva dopo il d.lgs. n. 80/1998. Il commento, in Corr. giur., 2000, p. 604 ss.
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della legge n. 205/2000, nella successione temporale delle leggi, secondo il generale principio dello jus superveniens. Non avrebbe, dunque, avuto alcuna rilevanza il principio di specialità, avendo realizzato la legge n. 205/2000 una generale riforma della giustizia amministrativa, attraverso l’introduzione di un innovativo criterio di riparto, quello “per blocchi” 39 40. Viceversa, altra parte della giurisprudenza, tenendo in conto il disposto dell’art. 196, comma 3, TUF 41, ha sempre affermato la giurisdizione del giudice ordinario, sostenendo che il d.lgs. n. 80/1998 avesse “introdotto un nuovo e generale assetto dei rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa”, non offuscando il carattere di “indubbia specialità” dell’art. 195 TUF. Dopo il 2004, si è affermata anche la piena conformità della competenza del giudice ordinario in materia alla nota sentenza della Corte Costituzionale n. 204, la quale – dichiarando la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 33 del d.lgs. n. 80/1998 – avrebbe fatto venir meno il connotato di generalità attribuito alla giurisdizione esclusiva in tema di servizi pubblici 42. La stessa corrente di pensiero ha fatto, inoltre, leva sul principio di omogeneità, asserendo che, essendo tutte le sanzioni irrogate dalla Consob nei riguardi dei promotori finanziari soggette ad un unitario procedimento amministrativo (nella fase dell’accertamento e della contestazione), le stesse avrebbero dovuto sottoporsi ad un unico organo giurisdizionale.
39.
A tale tesi ha aderito anche la Corte d’Appello di Napoli, che, chiamata a decidere su un’opposizione ad una sanzione amministrativa pecuniaria, ex art. 195 t.u.f., ha dichiarato il proprio difetto di giurisdizione, a favore del giudice amministrativo, riconoscendo implicitamente che l’attività sanzionatoria dovesse essere ricondotta nell’alveo della funzione di vigilanza della Consob. Cfr. Corte d’Appello di Napoli, Sez. I, 5 luglio 2001, citata da Paviotti, Le sanzioni amministrative della CONSOB: procedura di irrogazione e controllo giudiziario, 2002, reperibile in www.dirittoefinanza.it. 40. Addirittura, secondo un’opinione, l’art. 4 della citata l. n. 205/2000, qualificando per la prima volta le Autorità Indipendenti come “amministrative” avrebbe confermato che gli atti da esse emanati sono impugnabili e sottoposti, in linea di massima, alla giurisdizione del giudice amministrativo. Da altro punto di vista, si faceva notare la natura processuale della norma, che, prevedendo un processo amministrativo accelerato in taluni settori, non si occupava del riparto di giurisdizione, ma, semplicemente, lo presupponeva. Per un ricostruzione del dibattito in questione, si veda Corradino, Il diritto amministrativo alla luce della recente giurisprudenza, Padova, 2007. 41. La norma citata prevede che alle sanzioni applicabili ai promotori finanziari, si applichino le disposizioni contenute nella l. n. 689 del 1981, ad eccezione dell’art. 16. 42. Cass. S. U., 24 gennaio 2005, n. 1362; cfr. anche Id., sent. 18 marzo 2004, n. 5535; Id., 23 gennaio 2004, n. 1235, in Foro It., 2004, I, pp. 1781.
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A sostegno di tale posizione pure il fatto che l’art. 98 del d.lgs. n. 507 del 1999, introducendo l’art. 22 bis nella legge n. 689/1981, ha assegnato alla giurisdizione del giudice ordinario anche le controversie relative alle sanzioni amministrative diverse da quelle pecuniarie 43. Successivamente, si è fatto affidamento anche sulla circostanza che la legge n. 262/2005, in materia di tutela del risparmio, pur devolvendo al Tar Lazio la cognizione avverso gli atti adottati dalla Consob, dall’Isvap, dalla Covip e dall’Antitrust (art. 24, comma 5), facesse espressamente salva la disposizione dell’art. 195 del TUF, nella parte in cui attribuiva alla Corte di Appello la competenza a conoscere dell’impugnazione avverso i provvedimenti sanzionatori della Consob di cui agli articoli da 187 quinquiesdecies a 194 del TUF 44 45. Sul piano sostanziale, poi, si è sempre fondata la giurisdizione del giudice ordinario sull’assenza di discrezionalità amministrativa nell’attività di irrogazione della sanzione. È questo un tema particolarmente complesso e ancora dibattuto. Occorre, infatti, tener presente che ad essere controversa non era (e non è) solo la natura giuridica dei poteri sanzionatori delle Autorità Indipendenti, tra le quali rientra la Consob, ma anche quella dei poteri autorizzatori, di sospensione e di revoca, dato che si tratta di soggetti non deputati alla cura di interessi pubblici specifici. In pratica, il modus agendi di tali istituzioni non mirerebbe al raggiungimento di un preciso obiettivo di pubblico interesse, essendo finalizzato ad assicurare il più generale equilibrio del sistema e il rispetto dei valori costituzionali 46. Dunque, partendo dal pre-
43.
Cfr. Cass. S.U., 11 luglio 2001, n. 9383, pronunciata a conclusione di un giudizio incardinato anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 205/2000, in Foro It., 2001, I, 345, con nota di De Mari e Spada, Orientamenti in tema di intermediari e promotori finanziari. La Corte ha fondato il proprio orientamento sul rinvio operato dall’art. 196, co. 3, t.u.f. alla legge n. 689/1981 nonché su di un criterio ermeneutico a contrario, che, avvalendosi dell’espressa esclusione dell’art. 16 l. n. 689/1981 dall’ambito del menzionato rinvio, comporterebbe l’applicazione di tutte le altre disposizioni della legge generale della depenalizzazione, ivi compresa quella che devolve all’autorità giurisdizionale ordinaria l’opposizione avverso le sanzioni in materia di intermediari finanziari (art. 22 bis, co. 2, lett. f). 44. Sulla problematica relativa all’individuazione della giurisdizione competente a conoscere dei provvedimenti sanzionatori della Consob non ricompresi nell’alveo dell’art. 195 t.u.f., vale a dire quelli in materia di market abuse (art. 187 septies del t.u.f.) e di promotori finanziari (art. 196 t.u.f.), all’indomani dell’entrata in vigore della legge n. 262/2005, si veda Fava e Fratini, Sanzioni Consob e giurisdizione dopo la legge “sul risparmio”, in Rass. Avv. Stato, 2/2006. 45. Il co. 5 è stato poi abrogato dall’art. 4, co. 1 n. 35, dell’allegato 4 al d.lgs. n. 104/2010. 46. Per una ricostruzione, in generale, sulle teoriche relative alla discrezionalità e alle Autorità Indipendenti cfr. Merusi, Giustizia amministrativa e autorità, in Dir. amm.,
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supposto che l’attività provvedimentale si traduce nella cura di interessi pubblici, attraverso la ponderazione dei diversi interessi in gioco, cioè attraverso scelte discrezionali 47, dovrebbe escludersi che gli atti delle Authorities assumano valenza di provvedimenti discrezionali. A tali argomenti, si è sempre risposto che gli atti in esame, pur non essendo espressione di discrezionalità pura, sono adottati nell’esercizio di un potere autoritativo, esigono l’osservanza da parte dei destinatari e legittimano la Pubblica Amministrazione ad utilizzare strumenti di coazione. Tali atti assolvono, inoltre, l’importante funzione di incanalare le attività dei privati nei binari della lealtà, correttezza ed onestà nello svolgimento degli affari. Si tratterebbe, in definitiva, di situazioni nelle quali emerge pur sempre la logica del potere autoritativo 48. Da ciò, dovrebbe derivare la loro equiparazione ai provvedimenti amministrativi, non solo sotto il profilo del rispetto delle regole procedimentali e formali, ma anche sotto quello della tutela giurisdizionale 49. Inoltre, all’affermazione secondo cui l’Autorità – nel caso di specie, la Consob – potrebbe solamente apprezzare la gravità della violazione, senza che residui spazio per scelte di opportunità neppure in ordine all’avvio o meno del procedimento 50, si è ribattuto, a più riprese,
2002, p. 181 ss., che mette in luce come il potere, indipendentemente dal fatto che sia o meno vincolato, è pur sempre un potere. Diversamente, ritiene che il potere esercitato dalle Authorities sia privo dei caratteri della discrezionalità c.d. pura e debba, invece, rientrare nell’ambito dei c.d. poteri a discrezionalità tecnica, Cintioli, Giudice amministrativo, tecnica e mercato. Poteri tecnici e “giurisdizionalizzazione”, Milano, 2005, p. 368. 47. Cfr. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939. 48. Romano Tassone, Situazioni giuridiche soggettive e decisioni delle amministrazioni indipendenti, in Dir. amm., 2002, p. 473. Sul potere in generale si veda, da ultimo, la riflessione di Mattarella, Fortuna e decadenza dell’imperatività del provvedimento amministrativo, in Riv. trim dir. pubbl., 1/2012. Per quanto concerne specificamente l’esercizio del potere discrezionale da parte della Consob, si consideri che per Giannini, Consob, in Flick, a cura di, Consob. L’istituzione, cit., p. 60, si trattava di “un problema gratuito perché l’ente reggente di settore non può agire che discrezionalmente: altrimenti non avrebbe lo strumento tecnico per reggere il settore”. Con riferimento all’esercizio del potere discrezionale da parte dell’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, cfr. Ramajoli, Attività amministrativa e disciplina antitrust, Milano, 1998 e Police, Tutela della concorrenza e pubblici poteri, Torino, 2007. 49 Galli, Corso di diritto amministrativo, Lavis (Tn), 2011, p. 220. 50. Sussisterebbe il principio di doverosità, in applicazione dei canoni di imparzialità di cui all’art. 97 Costituzione; l’unica forma possibile di decisione sarebbe l’archiviazione, ovvero la non applicazione della sanzione.
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– anche prima dell’entrata in vigore del Codice del processo – che il giudice amministrativo non dovrebbe occuparsi solo dell’esercizio del potere discrezionale, ma – in generale – del potere pubblico autoritativo esercitato secundum legem, dovendo prendere in esame la sequenza norma-potere-effetto 51; non sarebbe, infatti, condivisibile l’assunto per cui i rigidi limiti posti all’attività sanzionatoria siano tali da escludere la sussistenza del pubblico potere 52. Infine, per affermare l’opportunità di assegnare al giudice amministrativo la giurisdizione sulle sanzioni delle Autorità Indipendenti, parte della dottrina ha sottolineato l’importanza della distinzione tra le relazioni giuridiche di tipo orizzontale e i rapporti di tipo verticale, intercorrenti tra soggetti privati esercenti il diritto d’impresa (regolati) ed una o più Amministrazioni Pubbliche titolari di poteri amministrativi in senso proprio (regolatori), precisando che ai rapporti del secondo tipo sarebbe più consona la giurisdizione del giudice amministrativo, mentre il giudice ordinario sarebbe quello più adatto a risolvere le controversie relative a soggetti privati posti in concorrenza tra loro 53. Tuttavia, la prevalente giurisprudenza, prima dell’entrata in vigore del Codice del processo, ha continuato a considerare decisivo l’argomento dell’assenza di discrezionalità, perseverando nel ritenere sufficiente, ai fini dell’applicazione delle sanzioni da parte della Consob, la sola indagine sull’entità della lesione o dell’esposizione a pericolo dei beni protetti 54.
51. Addirittura, non si esclude che il giudice amministrativo sia chiamato ad esaminare anche il rapporto norma-fatto, come avviene proprio rispetto all’irrogazione di alcune sanzioni pecuniarie. Cfr. Lazzara, Autorità indipendenti e discrezionalità, Padova, 2001, p. 298 ss; Minichini, La tutela giustiziale nei confronti degli atti delle autorità indipendenti e l’azione di responsabilità extracontrattuale per omesso o ritardo d’esercizio delle funzioni di vigilanza e controllo ad esse demandate, in Dir. e proc. amm., 2/2012, p. 788. 52. Cons. St., Ad. Plen., 24 maggio 2007, n. 8, in Foro amm. CDS, 9/2007, 2424. 53. Ad esempio, Scarselli, Unità e riparto della giurisdizione nel controllo sui provvedimenti delle autorità garanti, in Foro It., 5/2002, p. 141 ss., sottolinea come il giudice ordinario sia il giudice più adatto a vigilare sui rapporti interprivati, frutto in massima parte dell’autonomia negoziale. 54. Cfr., ex multis, Tar Lazio, sez. I, 15 febbraio 2006, n. 1110, in Giur. It., 2006, 1301; Cass. S.U., 11 febbraio 2003, n. 1992, in Mass. Giust. Civ, 2003, 304, secondo cui “la scelta della sanzione applicabile deve essere effettuata in base alla gravità della violazione e tenuto conto dell’eventuale recidiva, dunque sulla base di criteri che non possono ritenersi espressione di discrezionalità amministrativa”.
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3. Il nuovo assetto disegnato dal Codice del processo: la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il d.lgs. n. 104/2010 ha provato ad affermare l’egemonia della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in un campo di fondamentale rilevanza per il sistema economico 55. In particolare, la lett. l) dell’articolo 133, comma 1, ha esteso il raggio della giurisdizione esclusiva ai provvedimenti sanzionatori di tutte le Authorities realizzando una tra le novità sostanziali di maggior rilievo 56. Desideroso di azzerare la confusione in materia di giurisdizione sulle sanzioni, probabilmente, il codificatore ha optato per il giudice amministrativo, perché fornito degli strumenti per apprezzare adeguatamente tutti gli interessi in gioco sul mercato 57. La scelta del Codice appariva, inoltre, pienamente coerente rispetto alla generale tendenza a far confluire il grande contenzioso economico all’interno della giurisdizione amministrativa 58. Basti riflettere sulla circostanza che il giudice amministrativo è attualmente incaricato di risolvere un numero sempre maggiore di controversie tra Pubbliche Amministrazioni ed imprese e tra imprese in concorrenza tra loro 59. In proposito, attenta dottrina 60 ha sottolineato come l’importanza assunta dal contenzioso amministrativo sia la risultante del moltiplicarsi dei rapporti tra pubblici poteri e sistema imprenditoriale e della loro crescente giuridicizzazione 61. In particolare, secondo tale opinione, il coinvolgimento
55.
Clarich, La giurisdizione esclusiva e la regolamentazione dell’economia, in Foro amm., 2003, p. 3113 ss. 56 In tal senso, Chieppa, Il codice, cit. 57. Cfr. Napolitano e Abrescia, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna, 2009; per gli Autori non è sufficiente preoccuparsi di perfezionare i soli aspetti formali della decisione, ma occorre mettere i giudici nelle condizioni di valutare tutte le istanze degli stakeholders. 58. Anche uno studioso rigoroso come Romano, già più di un decennio or sono, guardava con favore all’“estensione del sindacato amministrativo sulle attività maggiormente rilevanti che l’amministrazione esplica, le quali abbiano importanza economica e, comunque, incidano sul mercato”, cfr. Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge n. 205 del 2000 (epitaffio per un sistema), in Dir. proc. amm., 2001, p. 621. 59. Cfr. Giacchetti, Globalizzazione e giustizia amministrativa: due parallele destinate ad incontrarsi, in Cons. Stato, 2/2001, p. 1357 ss. 60. Napolitano, Il grande contenzioso economico nella codificazione del processo amministrativo, in Giornale di diritto amministrativo, 6/2011. 61. Di conseguenza, il buon funzionamento del sistema giurisdizionale diventa essenziale per il buon funzionamento del mercato. Cfr. Ferrari, Garanzia e regolazione dei
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del giudice amministrativo sarebbe “naturale”, anche perché i motivi di doglianza concernono spesso il profilo formale dell’atto o le condizioni che legittimano l’esercizio del potere pubblico. Anche la conferma del rito abbreviato – già previsto dalla legge Tar e oggi regolamentato dall’art. 119 c.p.a. – sembrava in armonia con le istanze di celerità proprie delle attività economiche, anche se non si era mancato di evidenziare che la presenza di vincoli temporali stringenti avrebbe potuto rappresentare un ostacolo all’effettiva tutela del cittadino 62. Inoltre, le norme che estendevano l’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai provvedimenti sanzionatori delle Autorità sembravano rispettose delle indicazioni desumibili dalla giurisprudenza costituzionale e delle Magistrature superiori in punto di giurisdizione. In particolare, parevano conformi alle note coordinate tracciate dalla Corte Costituzionale con la sentenza 204/2004, in forza della quale la giurisdizione amministrativa è strettamente connessa all’esercizio (o al mancato esercizio) del potere amministrativo. In particolare, molti studiosi attribuivano alla Consob un vero e proprio potere a carattere tecnico-discrezionale, volto a colmare lo iato tra norma e fatto, dovuto all’opinabilità degli esiti connessi alla valutazione del fatto. Si affermava, infatti: “se è pur vero che il potere esercitato nell’applicazione della sanzione è un potere delimitato e parametrato alle norme primarie e secondarie nonché volto a determinare il quantum della sanzione, è altrettanto e ancor più vero che l’attività connessa all’adozione del provvedimento sanzionatorio non si esaurisce nella quantificazione della sanzione, ma, al contrario, presuppone l’esercizio di una complessa, prodromica attività istruttoria tesa all’accertamento delle infrazioni”, attività che prosegue con la contestazione delle irregolarità riscontrate e con l’analisi delle eventuali deduzioni formulate dal destinatario del provvedimento finale 63.
mercati di fronte al sindacato dei giudici, in Ferrari, Ramajoli e Sica, a cura di, Il ruolo del giudice di fronte alle decisioni amministrative per il funzionamento dei mercati, Torino, 2006, p. 341 ss. 62. Già in ordine alla previgente disciplina, parte della dottrina aveva avanzato riserve; cfr., in particolare, Travi, L’art. 23-bis della l. n. 1034 del 1971 fra disciplina particolare e rito speciale, in Dir. proc. amm., 2004, p. 149 ss. 63 Fava e Fratini, Sanzioni, cit., p. 364; gli Autori evidenziano anche come, soprattutto nella materia del market abuse e in merito alla trasparenza e correttezza dei comportamenti dei soggetti vigilati, “l’accertamento delle violazioni implica la valutazione di fatti a contenuto tecnico specialistico e necessita dell’impiego di leges artis di carattere specia-
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Viceversa, proprio la Consob criticava le scelte operate dal legislatore del Codice, sottolineando come il modello della legge n. 689/1981, così come integrato dal d.lgs. n. 58/1998, avesse “già dato prova, negli anni, di essere un sistema di tutela giurisdizionale effettivo ed efficace” 64, proprio come richiesto dalla legge delega n. 69/2009. A parere della stessa Autorità, “il giudizio davanti alla Corte d’Appello competente per territorio, instaurato a seguito dell’opposizione alla delibera sanzionatoria della Consob, si svolge in tempi molto rapidi, tali da consentire, in media, la pubblicazione della decisione, da parte del giudice, tendenzialmente entro meno di un anno dalla notifica del ricorso alla Consob”. Nell’eventualità di un giudizio amministrativo, viceversa – sempre secondo la Consob – l’attesa per la decisione si sarebbe allungata, dato che, nonostante l’accelerazione dei tempi processuali, si sarebbe potuta ottenere, in tempi brevi (a volte anche brevissimi), solo una decisione incidentale di natura cautelare. Inoltre, quale ulteriore profilo critico della modifica legislativa, si avvertiva che l’attribuzione al giudice amministrativo del sindacato sulle sanzioni comminate dalla Consob avrebbe inciso negativamente sulla funzione nomofilattica espletata dalla Corte di Cassazione, dato che quest’ultima, nel corso del processo amministrativo, può essere adita unicamente per questioni di giurisdizione. Dunque, il cambiamento avrebbe potuto comportare un’ingiustificata duplicazione delle interpretazioni fornite, degli stessi istituti, da parte del giudice ordinario 65. Altra problematica – involgente non solo la Consob, ma tutte le Authorities – era (ed è) costituita dalla previsione del sindacato di meri-
listico, indispensabili per la decodificazione e l’applicazione della complessa disciplina di settore, ovvero ancora presuppone la verifica della capacità del fatto concreto di integrare gli elementi costitutivi della lesione di una clausola generale (quale, per l’appunto, quella alla trasparenza e alla correttezza dei comportamenti) dal contenuto opinabile, la cui perimetrazione è rimessa e riservata al prudente e competente apprezzamento dell’Autorità di vigilanza”. 64. Providenti, Audizione informale Consob – Senato della Repubblica Commissione Affari Costituzionali, Atto del governo sottoposto a parere parlamentare: schema di decreto legislativo recante “Delega al Governo per il riordino del processo amministrativo”, reperibile su www.consob.it. In proposito, pare potersi legittimamente avanzare il dubbio che il favor per la giurisdizione ordinaria, piuttosto chiaramente manifestato dalla Consob, derivi dalla circostanza che la percentuale di accoglimento dei ricorsi avverso i provvedimenti della Consob da parte dei giudici civili sia praticamente irrisoria. Per un riscontro, si vedano i dati riportati in www.consob.it/documenti/Pubblicazione/Relazione…/ott07.pdf. 65. Ha avanzato dubbi circa una probabile limitazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. Torano, che, in Prime riflessioni, cit., p. 118, ha espresso perplessità anche in merito alla reale necessità della competenza territoriale inderogabile del Tar Lazio.
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to sulle sanzioni pecuniarie (art. 134, lett. c), d.lgs. n. 104/2010) 66. La soluzione, coerente con il sistema adoperato in sede comunitaria per il riesame delle misure antitrust adottate dalla Commissione europea, indurrebbe il giudice amministrativo ad operare un giudizio di sostenibilità economica in relazione ai presupposti e agli effetti della pronuncia. In altri termini, al giudice verrebbe chiesto di “amministrare” con gli strumenti dell’economista, effettuando una valutazione complessiva della capacità deterrente ed afflittiva della sanzione 67. Orbene, da un primo punto di vista, si è fatto notare come, nel 2010, il campo del “merito” sia stato ristretto alle sole sanzioni pecuniarie, non potendo il giudice amministrativo sostituirsi all’Amministrazione nel caso di controversie vertenti su sanzioni interdittive, laddove, ai sensi dell’art. 23 l. n. 689/1981, in caso di accoglimento dell’opposizione, il giudice civile avrebbe potuto sempre annullare o modificare il provvedimento. Tale disparità di trattamento troverebbe una giustificazione nel fatto che la potestà sanzionatoria dell’Amministrazione non presenta caratteristiche unitarie 68. Da altra prospettiva, considerando la sanzione parte integrante della strategia regolatoria dell’Autorità emittente 69, si è dubitato della legitti-
66. La norma recita: “il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito nelle controversie aventi ad oggetto: (…) c) le sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo, comprese quelle applicate dalle Autorità amministrative indipendenti”. 67. In tal senso, Napolitano, Il grande contenzioso, cit.; l’Autore assimila a tale ipotesi la valutazione spettante al giudice in ordine alla sorte del contratto a seguito dell’annullamento dell’aggiudicazione e l’accertamento che il giudice è chiamato ad operare in ordine alla lesione di interessi collettivi alla corretta erogazione di un servizio pubblico. Secondo altra parte della dottrina, invece, nelle ipotesi di giurisdizione di merito, il giudice avrebbe semplicemente un potere di cognizione più ampio sui fatti e un potere di decisione più esteso, riconducibili, però, pur sempre al sindacato sui vizi di legittimità (incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere). Per una ricostruzione del dibattito sulla portata della giurisdizione di merito, si veda Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2012. 68. Paliero e Travi, Sanzioni amministrative, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, p. 398. 69. Cfr. E. Bani, Il potere sanzionatorio, spunti per un’analisi unitaria, Torino, 2000, per il quale “se è vero che il potere sanzionatorio è tutt’uno con quello di vigilanza e di regolazione, anche le forme di tutela contro l’esercizio dello stesso ne verranno influenzate. In particolare, più il potere sanzionatorio assumerà connotati di strumentalità alla vigilanza, tanto più si allontanerà dal modello esclusivamente afflittivo che è alla base della disciplina generale delle sanzioni amministrative dettata dalla legge 689/81 e pertanto richiederà adattamenti sempre più derogatori, anzi autonomi, rispetto a quella disciplina”.
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mità di una tale disposizione, dato che, in materia di sanzioni, la Pubblica Amministrazione sarebbe così privata della riserva di valutazione e il giudice – viceversa – sarebbe abilitato a sindacare congruità ed esattezza del trattamento punitivo. In effetti, la sostituzione del giudice all’Autorità amministrativa nella determinazione della sanzione potrebbe ritenersi un’ingiustificata “invasione” del potere giurisdizionale nell’attività amministrativa. Dunque, fermo restando il sindacato di legittimità anche in ordine alla proporzionalità e ragionevolezza della sanzione pecuniaria 70, – secondo tale tesi – sarebbe opportuno escludere l’estensione al merito della giurisdizione amministrativa, in modo tale che, ove sia annullata la sanzione per sproporzione, competa all’Autorità rideterminare la stessa, sulla base delle statuizioni conformative contenute nella sentenza. Peraltro, come sottolineato in dottrina, in materia di sanzioni amministrative pecuniarie, il concetto di merito è davvero “evanescente” 71; in particolare, partendo dal presupposto che l’attività è vincolata, non sarebbe proprio ipotizzabile un’area di convenienza ed opportunità. L’unico profilo attinente al “merito” potrebbe essere quello della determinazione in concreto della sanzione, sempre all’interno della forbice edittale prevista dalla legge e dei criteri da essa indicati 72. 4. La pronuncia di incostituzionalità dell’art. 133 lett. l) c.p.a.: 4.1 Il sindacato torna al giudice ordinario. Come anticipato nella Premessa, non si è avuto il tempo di verificare se effettivamente il legislatore del Codice fosse riuscito nell’intento di
70.
Cfr. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998. L’aggettivo è utilizzato da Torano, Prime, cit. 72. Tuttavia, è bene tener presente che particolare rilevanza assume, in ambito comunitario, la tutela delle imprese destinatarie delle sanzioni pecuniarie. In particolare, una fondamentale garanzia a fronte del potere discrezionale della Commissione e delle Autorità Nazionali di Regolazione, è rappresentata proprio dal principio di proporzionalità della sanzione rispetto alle risultanze dell’istruttoria e dall’individualizzazione delle ammende. Il giudice europeo ha spesso annullato o ridotto l’entità della sanzione, rimproverando alla Commissione di non aver preso in adeguata considerazione la gravità dell’infrazione e di non aver valutato in maniera coerente ed obiettiva gli elementi in gioco. Sul punto, cfr. ex multis Scaccia, Il principio di proporzionalità, in Mangiameli, a cura di, L’ordinamento comunitario. L’esercizio delle competenze, Milano, 2006. 71
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garantire una maggiore effettività alla tutela dei destinatari dei provvedimenti sanzionatori della Consob. Infatti, la Corte d’Appello di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 133, comma 1, lettera l), 134, comma 1, lettera c), 135, comma 1, lettera c), del decreto legislativo n. 104/2010, proprio “nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva amministrativa in generale, e del T.A.R. Lazio – sede di Roma in specie”, le controversie relative alle sanzioni amministrative irrogate dalla Commissione nazionale per le società e la borsa. In particolare, – come detto – a parere dei giudici piemontesi, le norme citate sarebbero state in conflitto con gli artt. 3, 76, 103, comma primo, 113, comma primo, 111, commi secondo, settimo e ottavo, della Costituzione. Nelle more della pronuncia costituzionale, qualche studioso ha mostrato di non condividere le argomentazioni contenute nell’ordinanza torinese, in considerazione del fatto che la natura soggettivamente ed oggettivamente amministrativa degli atti sanzionatori e, quindi, il loro carattere provvedimentale, avrebbe escluso in radice un problema di compatibilità costituzionale dell’art. 133 73. Inoltre, il Tar Lazio 74, pur consapevole della questione sub iudice, ha respinto un’analoga censura di illegittimità costituzionale, non rinvenendo alcun eccesso di delega e, quindi, alcun contrasto con l’art. 76 Cost.; infatti, a parere dei giudici capitolini, il legislatore delegato, con l’art. 133, co. 1, lett. l), aveva inteso radicare la giurisdizione esclusiva in ragione della stretta connessione tra potere di vigilanza, costituente già servizio pubblico nei settori di cui all’art. 33 d.lgs. n. 80/1998, e potere sanzionatorio. In pratica, incardinando la giurisdizione esclusiva in tale ambito, il Codice avrebbe puntato a garantire la concentrazione degli strumenti di tutela e la ragionevole durata del processo, in linea con quanto espressamente richiesto dalla legge delega 75.
73.
De Lise, Audizione Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, Indagine conoscitiva sulle Autorità Amministrative Indipendenti, Roma, 6 aprile 2011, in www.giustizia-amministrativa.it. 74. Tar Lazio, Sez. I, 9 maggio 2011, n. 3934, in www.federalismi.it. Cfr. Caponigro, Questioni attuali in un dibattito tradizionale: la giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, Intervento svolto in data 11 maggio 2011 al convegno “L’azione risarcitoria nei confronti delle PP.AA. e l’eterno dibattito sulle giurisdizioni” organizzato dalla Università degli Studi Roma Tre - Facoltà di Giurisprudenza, in www.giustiziaamministrativa.it. 75. Maltoni, Considerazioni in tema di attività procedimentali a regime privatistico delle amministrazioni pubbliche, in Dir. amm., 2011, p. 161.
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Viceversa, la Consulta ha ritenuto pertinenti le perplessità espresse dai giudici piemontesi sul rispetto dell’art. 76 della Carta Costituzionale, dichiarando assorbite tutte le altre questioni sollevate 76. È appena il caso di ricordare che, in generale, nel delegare l’esercizio della funzione legislativa al Governo, il Parlamento dovrebbe individuare con esattezza i confini della materia e determinare i “principi e criteri direttivi”, così che la delega sia esercitata sulla base ed all’interno delle norme di carattere generale e finalistico già stabilite dalle Camere 77. Ove investita della questione di legittimità costituzionale della delega, la Consulta verifica la presenza dei criteri direttivi e il loro rispetto da parte del legislatore delegato. Tali limiti sono considerati “norme interposte”, poiché pongono criteri di validità cui, per volontà dei Costituenti, sono subordinati i decreti legislativi, al punto che una loro violazione comporta l’indiretta violazione della Costituzione 78. Nel nostro caso, l’art. 44, comma 2, lett. b) n. 1, della legge n. 69/2009 aveva affidato al Governo il compito di riordinare “le norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre giurisdizioni”, imponendo che il “riassetto” del processo si adeguasse “alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e delle giurisdizioni superiori” e ai principi di snellezza, concentrazione ed effettività di tutela 79. Sul punto è da dire che, secondo alcuni studiosi 80, eventuali contestazioni di eccesso di delega non avrebbero potuto fondarsi sulla mancanza, nella legge n. 69/2009, di criteri direttivi espressamente dedicati alla giurisdizione esclusiva, ma solo sull’eventuale violazione dei vincoli costituzionali. Tale posizione è stata condivisa dalla Consulta; in particolare, i giudici hanno ritenuto infondata la questione sulla natura generica ed indeterminata della delega, evidenziando che la stessa “risulta idonea
76. La Corte ha, infatti, ribadito il principio della “pregiudizialità logico-giuridica” delle lagnanze riferite all’art. 76 Cost., perché relative al corretto esercizio della funzione legislativa. 77. Sui caratteri della delega cfr., ex multis, Mazziotti Di Celso e Salerno, Manuale di diritto costituzionale, Padova 2003, p. 110 e ss. 78. In argomento, cfr. Siclari, Le norme interposte nel giudizio di costituzionalità, Padova, 1992. 79. Sulla portata innovativa dell’art. 44 della l. n. 69/2009 e sul rapporto con la disciplina del Codice, si veda Pajno, Il codice del processo amministrativo tra “cambio di paradigma” e paura della tutela, in Giornale di diritto amm., 2010, p. 885. 80. de Pretis, Il riparto di giurisdizione, in Giornale di diritto amministrativo, 11/2010, p. 1136. Contra, Palleggiani, Razionalizzati i casi di giurisdizione esclusiva, in Guida al diritto, 33-34/2010, p. 59 ss.
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a circoscrivere i pur necessari margini di discrezionalità del legislatore delegato”. Peraltro, la Consulta ha ricordato che, nel caso in cui la delega ha ad oggetto la revisione, il riordino ed il riassetto di norme previgenti, soluzioni sostanzialmente innovative sono ammissibili soltanto nel caso in cui sono stabiliti “principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato” 81. Orbene, secondo una parte della dottrina, la delega concessa dall’art. 44 aveva solo il nomen di una delega di mero riordino, puntando in realtà alla risoluzione, in maniera innovativa, delle problematiche emerse in seno al processo amministrativo 82. Anche nel corso del dibattito che ha accompagnato la gestazione del Codice, si era più volte sottolineato che, per perseguire la concentrazione degli strumenti di tutela giurisdizionale, il Governo avrebbe anche potuto assegnare al giudice amministrativo nuovi ambiti di controversie, purché attinenti all’esercizio o al mancato esercizio del potere amministrativo 83. Viceversa, secondo la Corte, se è vero che la delega abilitava ad intervenire, oltre che sul processo amministrativo, sulle azioni e le funzioni del giudice amministrativo anche rispetto alle altre giurisdizioni, il Governo non avrebbe dovuto spingersi al di là del riassetto della normativa in vigore. Ciò non deve indurre a pensare che il legislatore delegato fosse del tutto privo di capacità innovativa; tuttavia, le novità, eventualmente introdotte, avrebbero potuto superare il vaglio di legittimità solo qualora strettamente funzionali al perseguimento dei fini di effettività e concentrazione della tutela. In proposito, è da dire che proprio l’ambiguità dei limiti contenuti nella delega e il rischio di incorrere in censure di incostituzionalità avevano reso prudente il Governo, sconsigliandogli di estendere l’ambito della giurisdizione esclusiva a materie o profili diversi da quelli già in precedenza contemplati. In effetti, l’art. 133 ha catalogato i casi di giuri-
81.
La Corte ha richiamato un proprio recente orientamento, cfr. Corte Cost., 8 ottobre 2010, n. 293, in www.forumcostituzionale.it, con nota di Guazzarotti. Gli stessi principi sono stati da ultimo ribaditi nella sentenza del 5 aprile 2012, n. 80, reperibile in www. cortecostituzionale.it. 82 Clarich e Pisaneschi, Le sanzioni, cit. 83. In tal senso, Domenichelli, Intervento al Seminario su il libro I (disposizioni Generali) del Progetto di Codice del processo amministrativo, Università di Padova 26 marzo 2010, in Fabri e Fanti, Resoconto, in www.giustamm.it, 2010.
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sdizione esclusiva, tenendo conto della previgente disciplina e facendo salve ulteriori previsioni di legge. L’unica vera innovazione era rappresentata dalla lettera l), relativa a tutti i provvedimenti delle Autorità di regolazione e vigilanza. Tuttavia, a parere della Consulta, proprio con la citata lettera l), il legislatore delegato avrebbe sovvertito l’assetto precedentemente delineato dalla giurisprudenza 84. In effetti, come anticipato, la Corte di Cassazione 85 aveva affermato, in più occasioni, che la competenza a conoscere delle opposizioni avverso le sanzioni inflitte dalla Consob ai promotori finanziari, anche di tipo interdittivo, spettasse al giudice ordinario, posto che le stesse sono applicate sulla base di criteri che non possono ritenersi espressione di discrezionalità amministrativa. Anche il Consiglio di Stato aveva riconosciuto la sussistenza di precedenti decisioni della Cassazione nel senso della giurisdizione ordinaria, affermando – da ultimo – la giurisdizione del giudice amministrativo solo per effetto dell’insuperabile dato normativo di cui all’art. 133, comma 1, lett. l) del d.lgs. n. 104/2010. Inoltre, lo stesso supremo consesso amministrativo, prima dell’intervento normativo in esame, aveva aderito alla tesi della giurisdizione del giudice ordinario 86. Con ogni probabilità, la pronuncia della Corte Costituzionale non farà altro che alimentare il dibattito in materia 87, dato che altra parte della
84.
Per un excursus sulle posizioni della giurisprudenza amministrativa e civile in ordine alla questione sollevata cfr. Comino, Sanzioni CONSOB: è in pericolo la giurisdizione amministrativa?, in Resp. civ. e prev., 9/2011, p. 1847. 85. Corte di Cass. S.U., 22 luglio 2004, n. 13703, in Le Società, 1/2005, con commento di S. Rizzini Bisinelli; Cass. S.U., 11 febbraio 2003, n. 1992, citata; Cass. S.U., 11 luglio 2001, n. 9383, citata. Sulle posizioni assunte dalla Cassazione, cfr. Clarich e Camilli, Il procedimento sanzionatorio della Consob sotto il riflettore della Corte di Cassazione, in Giurisprudenza Commerciale, 6/2007, p. 1158 ss. 86. Cons. St., Sez. VI, 19 luglio 2011, n. 10287, in www.giustizia-amministrativa.it. Sulle posizioni assunte dalla magistratura amministrativa precedentemente all’entrata in vigore del Codice, cfr. Cons. St., Sez. VI, 6 novembre 2007, n. 6474 e Cons. St., Sez. VI, 19 marzo 2002, n. 4148, in www.giustizia-amministrativa.it. 87. Per Clarich e Pisaneschi, Le sanzioni, cit., “il tema è (…) sicuramente meno lineare di quanto sembra emergere dalla sentenza della Corte costituzionale”, dato che, ad esempio, ancora si dibatte “se in materia di sanzioni amministrative il processo ha per oggetto l’atto che irroga la sanzione o direttamente il rapporto giuridico (pretesa creditoria e obbligazione pecuniaria), consentendo così al giudice una piena rivalutazione della fattispecie e la dequotazione di tutti i vizi formali del procedimento amministrativo (motivazione, contraddittorio, ecc.)”.
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giurisprudenza continua a sostenere che la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sui provvedimenti sanzionatori sia coerente con i principi generali in materia di riparto di giurisdizione, nel presupposto che, costituendo estrinsecazione della funzione di vigilanza, i provvedimenti de quo incidano su posizioni di interesse legittimo 88. Inoltre, secondo molti studiosi, la distinzione tra atti vincolati e atti discrezionali non assume rilievo decisivo ai fini del riparto di giurisdizione 89. Infatti, non è unanimemente condivisa la tesi secondo cui il riparto sarebbe basato sulla dicotomia attività discrezionale-interesse legittimo (con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo) ed attività vincolata-diritto soggettivo (con giurisdizione del giudice ordinario) 90. In definitiva, l’esercizio di un’attività vincolata come quella sanzionatoria della Consob, non escluderebbe il profilarsi di interessi legittimi in capo al privato. Si sostiene, infatti, che, mentre a fronte di un provvedimento frutto della discrezionalità della Pubblica Amministrazione si configura certamente un interesse legittimo, nel caso di potere vincolato, la posizione del privato potrebbe assumere connotazioni diverse. Infatti, quando il vincolo è posto a favore del privato, questi vanta un diritto soggettivo; viceversa, se il vincolo è funzionale al soddisfacimento di un interesse pubblico, la posizione del privato assume la consistenza di un interesse legittimo 91. La stessa Corte Costituzionale, in un precedente neppure troppo risalente, ha definito privo di fondamento il postulato in base al quale, “di regola, al carattere vincolato del provvedimento corrispondono situazioni giuridiche qualificabili quali diritti soggettivi e, per
88. Cfr., Tar Lazio, Roma, Sez. I, 29 dicembre 2009, n. 13744, citata da S. Providenti, Audizione informale Consob - Senato della Repubblica Commissione Affari Costituzionali, Atto del governo sottoposto a parere parlamentare: schema di decreto legislativo recante “Delega al Governo per il riordino del processo amministrativo”, cit. 89. In particolare, secondo la dottrina maggioritaria, l’autoritatività è in ogni caso incontestabile se la norma di relazione sancisce l’infungibilità dell’accertamento dei suoi presupposti, riservandolo all’Amministrazione. Cfr. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, in Dir. amm., 1995. 90. Per una sintesi degli orientamenti dottrinari sul punto, si veda Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2009, p. 983 ss.; su questi temi, cfr. anche Ferrara, Diritti soggettivi ad accertamento amministrativo, Padova, 1996, p. 24 ss. In giurisprudenza, si veda, ex multis, Cons. St., Sez. IV, 12 dicembre 1996, n. 1299; Cons. St., Sez. VI, 18 marzo 1998, n. 231; Id., Sez. IV, sent. 10 marzo 1998, n. 394, in www.giustiziaamministrativa.it. 91. Cfr., ex multis, Tar Puglia-Lecce, Sez. I, 15 gennaio 2009, n. 61, in Foro amm. Tar, 1/2009, 237; Cons. St., Sez. V, 2 agosto 2007, n. 4284, in Foro amm. CDS, 7-8/2007, 2237.
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converso, all’area della discrezionalità amministrativa quelle definibili come interessi legittimi” 92. In particolare, per quel concerne i provvedimenti sanzionatori della Consob, non può negarsi che essi costituiscano l’esito di un procedimento che mira ad accertare la sussistenza dei fatti violativi delle disposizioni normative e regolamentari poste a tutela della stabilità dei mercati e a salvaguardia degli interessi degli investitori. In altre parole, pur in presenza di un’infrazione al precetto, lo strumento repressivo adottato dall’Authority ha la principale funzione non già di colpire il responsabile della violazione, ma di curare lo specifico interesse pubblico assegnatogli dalla legge. Inoltre, pur volendo sposare la tesi per cui in assenza di potere discrezionale si può far valere esclusivamente un diritto soggettivo, occorre considerare che, se è vero che normalmente l’interesse legittimo è l’elemento fondante della giurisdizione amministrativa 93, è tuttavia possibile che il legislatore ordinario affidi al giudice amministrativo, in sede esclusiva, non soltanto le materie contraddistinte da un reticolo di diritti ed interessi legittimi, ma anche quelle caratterizzate dalla sola presenza di diritti soggettivi. In pratica, l’intreccio inestricabile di posizioni soggettive sarebbe un requisito solo “normalmente necessario” 94, e dunque prescindibile, ai fini del radicamento della giurisdizione esclusiva. Infine, non ci si può esimere dal considerare che, con l’entrata in vigore del Codice, la scelta della giurisdizione esclusiva, quale luogo “ideale” per dipanare il contenzioso economico-finanziario, emergeva, oltreché dalla esaminata lett. l), anche dalla lett. c) dell’art. 133, comma 1. L’osservazione 95, che, prima della pronuncia della Consulta, sembrava
92
Corte Cost., 16 aprile 1998, n. 127, in Riv. giur. Edilizia, 1/1998, 816. Travi, Lezioni, cit., p. 54 ss.; occorre, comunque, tener presente che la rilevanza dell’interesse legittimo sul piano sostanziale e il suo rapporto con il diritto soggettivo sono ancora oggi molto controversi. 94. L’espressione è utilizzata dalla Corte Costituzionale nella sentenza 35 del 5 febbraio 2010 (reperibile in www.cortecostituzionale.it); con la citata pronuncia, è stata dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.l. n. 90/2008 (convertito in legge con modificazioni dall’art. 1, co. 1, della l. n. 123/2008), che ha introdotto la giurisdizione esclusiva “per tutte le controversie, anche in ordine alla fase cautelare, comunque attinenti alla complessiva azione di gestione dei rifiuti quand’anche relative a diritti costituzionalmente tutelati”). Si veda anche Corte Cost., 259 del 7 luglio 2010, in www.giurcost.org. Sul punto, in dottrina, Scoca, Riflessioni sulla giurisdizione esclusiva, in Giurisprudenza Cost., 1/2010. 95 Napolitano, Il grande contenzioso, cit. 93.
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concernere il solo profilo della tecnica legislativa, dimostra ora tutta la sua acutezza. In effetti, nella lett. c), il codificatore, seguendo un criterio oggettivo, ha previsto la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in ordine alle “controversie […] afferenti alla vigilanza […] sul mercato mobiliare”, ribadendo quanto statuito dall’art. 33, comma 1, d.lgs. n. 80/1998, come modificato dall’art. 7, l. n. 205/2000 e reinterpretato alla luce della pronuncia della Consulta 204/2004. Non è chiara la ratio sottesa a tale scelta, che introduce un ulteriore elemento di complessità nel dibattito. Si è ipotizzato (e subito negato) che il legislatore abbia inteso riferirsi ad atti riguardanti la vigilanza sul mercato mobiliare, non adottati né dalla Consob né dalla Banca d’Italia, di competenza di soggetti non annoverabili tra le Authorities 96. Nulla esclude, tuttavia, che potrebbe riproporsi l’annosa questione della riconducibilità o meno del potere sanzionatorio nell’alveo dell’attività di vigilanza sul mercato mobiliare, anche se pare – sinceramente – improbabile che oggi possa dedursi, automaticamente, dal disposto della lett. c) la giurisdizione del giudice amministrativo sulle sanzioni adottate dalla Consob. In pratica, il dibattito tra chi considera adeguato l’intervento in materia del giudice ordinario e chi, invece, difende la competenza del giudice amministrativo non accenna a sopirsi 97, anche perché, secondo molti studiosi, la scelta del giudice da parte del legislatore, in tale contesto, è scelta “di opportunità”, non dettata da ragioni strutturali 98. Non può, infatti, negarsi che, da un lato, la preferenza accordata dal legislatore alla giurisdizione ordinaria è stata, almeno inizialmente, una scelta di comodo, connessa alla depenalizzazione operata dalla legge
96. Si è pensato, in particolare, ai provvedimenti di amministrazione straordinaria o di liquidazione coatta emanati dal Ministero dell’Economia, in caso di crisi degli intermediari, ex artt. 56 e 57 t.u.f.. Tuttavia, già in passato, la giurisprudenza (Cons. St., Sez. VI, 27 giugno 2007, n. 3712, in www.giustizia-amministrativa.it) ha ricondotto tale tipologia di atti alla stessa Autorità di vigilanza (Consob o Banca d’Italia) cui spetta il potere di iniziativa. Cfr. Perassi, Audizione del capo della consulenza legale della Banca d’Italia presso il Senato della Repubblica, Commissione Affari Costituzionali, Schema di decreto legislativo in attuazione della delega al riordino del processo amministrativo, 20 maggio 2010, in www.bancaditalia.it. 97 Si veda, in proposito, Pajno, Il giudice, cit., p. 651. 98. Si consideri anche che, attualmente, dovendo garantire l’applicazione coerente ed omogenea del diritto comunitario, soprattutto nel settore della regolamentazione economica, quale che sia il giudice designato, questi dovrà essere tutore della conformità della disciplina nazionale a quella comunitaria.
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n. 689/1981: il giudice civile era il più contiguo a quello penale, precedentemente competente. Inoltre, il giudice ordinario è stato storicamente preferito, in ragione della originaria derivazione del Consiglio di Stato dalla Pubblica Amministrazione e, dunque, per assoggettare l’operato delle Autorità ad un sindacato meno accondiscendente e deferente 99 di quanto sarebbe stato, presumibilmente, quello del giudice amministrativo 100. Dall’altro lato, nel momento in cui attribuiva la giurisdizione ai Tar, il legislatore auspicava che questi garantissero che le Autorità Indipendenti, nel dettare agli altri le regole del loro operare, rispettassero a loro volta “le regole preordinate al retto ed appropriato svolgimento della loro funzione”101. Infine, secondo un’opinione, la scelta di un giudice come quello amministrativo, ontologicamente più creativo di quello civile, tradizionalmente ancorato ad interpretazioni letterali, sarebbe stata dettata – oggi come in passato – dalla circostanza che le relazioni economiche e le situazioni di mercato sono soggette ad evoluzioni così rapide che qualunque indugio della macchina giudiziaria rischierebbe di compromettere la soddisfazione degli interessi pubblici e privati in gioco102. 4.2 Le possibili ripercussioni sulle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti delle altre Autorità Indipendenti. Potrebbe essere interessante chiedersi se la secca bocciatura della Corte Costituzionale avrà delle ricadute sulle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti delle Autorità diverse dalla Consob, individuate dallo stesso art. 133, comma 1, lett. l) c.p.a.
99. Contra, Nigro, Sanzioni della Consob e giurisdizione, Dir. banc., 1/2012, p. 139, secondo cui “è accaduto che il giudice di merito (in particolare, la Corte d’Appello di Roma) molto spesso (per non dire quasi sempre) si sia ‘trincerato’ dietro quelli che venivano definiti come ‘gli accurati accertamenti effettuati dall’organo di vigilanza’, rifiutandosi a priori di vagliarne – come avrebbe potuto e dovuto – l’attendibilità, la completezza, la congruenza, ecc. e pervenendo al rigetto dell’opposizione con motivazioni sovente solo apparenti, in quanto fondate su petizioni di principio”. 100. Cfr. Durante, Presunzione relativa di accountability della CONSOB in assenza di un giudice specializzato?, in www.ambientediritto.it., che riporta, tra l’altro, alcuni interventi al Convegno “Responsabilità della Pubblica Amministrazione e Giurisdizione ordinaria”, tenutosi a Roma, presso la Corte di Cassazione il 18 maggio 2004. 101. Tar Lazio-Roma, Sez. I, 10 aprile 2002, n. 3070, in www.lineadiritto.it; cfr. anche Durante, Presunzione, cit. 102 Cfr. Clarich, La giurisdizione, cit., p. 3153.
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In realtà, il 14 settembre 2012 è stato emanato il decreto legislativo n. 160, di modifica del Codice del processo, in attuazione dell’art. 44, comma 4, della legge n. 69/2009 103, che, tra le altre cose, procede ad adeguare formalmente il disposto del Codice alla pronuncia della Corte Costituzionale, limitandosi a riportare al giudice ordinario la giurisdizione sui provvedimenti sanzionatori della Consob. In effetti, le statuizioni della Corte sembrano attagliarsi esclusivamente alla Consob, per una serie di ragioni. In primo luogo, secondo l’art. 27 della legge n. 87 del 1953, la Consulta, “quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime”. Nell’ipotesi in cui, superando il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, la Corte intenda estendere gli effetti della sua pronuncia, ai sensi dello stesso art. 27, è tenuta a specificare, altresì, “quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata”. Ebbene, nel caso di specie, nessun esplicito riferimento si legge nel testo della sentenza 104, che – come detto – si limita a dichiarare illegittimo anche l’impugnato articolo 4 dell’allegato 4 del Codice, nella
103.
L’articolo 44, co, 4, l. n. 69 del 2009, prevede: “Entro due anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 1, possono ad essi essere apportate le correzioni e integrazioni che l’applicazione pratica renda necessarie od opportune, con lo stesso procedimento e in base ai medesimi princìpi e criteri direttivi previsti per l’emanazione degli originari decreti”. 104. Peraltro, occorre considerare che tale norma è stata inserita allo scopo di evitare che una legge resti in vigore “quando un’altra, che ne costituisce il necessario presupposto e fondamento, sia dichiarata illegittima” (come si legge nella relazione illustrativa della legge n. 87 del 1953). La cd. la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale è utilizzata dalla Corte nel caso in cui una disposizione non impugnata concorra, unitamente a quella impugnata, a produrre l’effetto incostituzionale oppure nell’ipotesi in cui una disposizione contenga la stessa espressione ritenuta incostituzionale o faccia espresso riferimento alla disposizione impugnata o, ancora, nell’eventualità in cui la disposizione si presenti come strumentale o comunque strettamente connessa alla regola sostanziale dichiarata illegittima oppure quando, applicando la ratio decidendi della decisione di incostituzionalità, si giunga all’accertamento dell’illegittimità costituzionale di una disposizione diversa da quella impugnata dal giudice, ma ritenuta dalla Corte analoga o simile e, dunque, affetta dallo stesso vizio di costituzionalità. Cfr., in proposito, Bellocci e Giovannetti, a cura di, Il quadro delle tipologie decisorie nelle pronunce della Corte costituzionale, in www.cortecostituzionale.it, 2010. In argomento, cfr. anche A. Cerri, Prolegomeni ad un corso sulle fonti del diritto, Torino, 1997.
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parte in cui abroga le disposizioni del d.lgs. n. 58/98 che prevedevano la competenza funzionale della Corte d’Appello 105. Sembra, tuttavia, che nemmeno il suesposto intervento normativo sia riuscito a sopire il dibattito sul tema. Autorevole dottrina ritiene inspiegabile che i provvedimenti sanzionatori adottati dalla Consob siano sottratti al giudice amministrativo, mentre restino di competenza di quest’ultimo quelli della Banca d’Italia e dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato 106. In effetti, sarebbe opportuno ristabilire un criterio di riparto della giurisdizione che sia comune a tutte le Authorities, dato che l’omogeneità delle regole porterebbe con sé un benefico effetto: quello di rendere più uniforme l’attività dei regolatori, nell’interesse delle imprese e dei consumatori. Sarebbe, quindi, auspicabile percorrere la via dell’omologazione tra le Autorità, già seguita – ad esempio – per le Autorità cd. finanziarie dalla legge sul risparmio (l. n. 262/2005), attraverso l’introduzione di nuove forme di coordinamento e di regole comuni per l’adozione dei provvedimenti amministrativi e degli atti di regolazione 107. Tuttavia, da un lato, non può negarsi che le Autorità non sono state istituite contemporaneamente ed in esecuzione di un preciso disegno: si tratta, infatti, di istituzioni concepite sulla spinta di una generale esigenza di indipendenza, neutralità e competenza, che, però, si è diversamente atteggiata a seconda del momento storico e delle specifiche ed eterogenee questioni da risolvere 108. Del resto, si parla, in proposito,
105.
Non è stato, invece, fatto cenno al numero 35) dell’art. 4 dell’allegato 4 al Codice, che abroga l’art. 24 co. 5 della l. n. 262/2005; orbene, considerando la ratio della pronuncia in commento, dovrebbe considerarsi illegittima anche tale previsione, dato che il citato art. 24, pur devolvendo alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, le controversie in merito ai provvedimenti della Consob, faceva salvo il sindacato della Corte d’Appello sui provvedimenti sanzionatori della stessa Autorità, ai sensi dell’art. 195 del d.lgs. n. 58/98. 106. Merusi, A volte ritornano… il correttivo del correttivo del codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it, 2012, si chiede: “cosa vogliono dire tali ermetiche affermazioni aggiunte nel ‘correttivo’ dai vecchi credenti del Tesoro?”. Lo stesso Autore si mostra addirittura dubbioso sul fatto che, abrogando la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nei confronti della Consob, torni in vigore la giurisdizione speciale della Corte d’Appello e non quella generale del giudice ordinario per le sanzioni amministrative e del giudice amministrativo per i provvedimenti dai quali non nasce un’obbligazione. 107 Così Clarich, voce Autorità di vigilanza, cit., p. 162. 108. In proposito, si tenga presente che parte della dottrina ha espresso perplessità sull’opportunità di una generale disciplina in materia di Autorità Indipendenti, anche
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di un fenomeno giuridico spontaneo 109 più che di un istituto vero e proprio, mancando una disciplina organica, che sia idonea a definire un modello unitario di Autorità Indipendente 110. Dall’altro lato, bisogna tener conto del fatto che la legge delega – come detto – invitava il Governo a riordinare la disciplina, non discostandosi dalle posizioni assunte dalla Corte di Cassazione. Ebbene, bisognerebbe individuare l’orientamento giurisprudenziale prevalente in ordine al riparto di giurisdizione in merito ai provvedimenti sanzionatori delle diverse Autorità. In particolare, si potrebbe dubitare della permanenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sui provvedimenti sanzionatori di Bankitalia, se si considera che (escludendo il Garante della Privacy), prima dell’entrata in vigore del Codice, gli unici provvedimenti delle Autorità Indipendenti sindacabili dal giudice ordinario erano proprio quelli sanzionatori della Banca d’Italia e della Consob 111. Dunque, nell’ipotesi in cui venisse sollevato incidente di costituzionalità in relazione all’art. 133 lett. l), nella parte relativa ai provvedimenti sanzionatori della Banca d’Italia, la Consulta potrebbe richiamare la pronuncia ora analizzata per estendere la declaratoria di incostituzionalità a tale settore 112.
perché l’introduzione di una legge generale potrebbe trasformare un modello di amministrazione in qualche modo “speciale” in un modello alternativo a quello tradizionale. Cfr. Pajno, Il giudice delle Autorità indipendenti, in Dir. proc. amm., 3/2004; anche Garofoli, in Garofoli, Caringella, Sempreviva, Accesso ai documenti amministrativi. Profili sostanziali e processuali, Milano, 2007, ha sottolineato “l’erroneità degli approcci dogmatici volti ad assoggettare tale fenomeno, senz’altro innovativo e dirompente, ad un processo ricostruttivo refrattario allo sforzo di cogliere le differenze, spesso profonde, che i diversi organismi presentano sotto il profilo genetico, strutturale e operativo”. 109. Amato, Autorità semi-indipendenti ed autorità di garanzia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1997, p. 645 ss. 110. Cfr., ex multis, Scoca, I modelli amministrativi, in Dir. amm., Bologna, 1998, p. 583 ss.; Corradino, Il diritto amministrativo, cit. 111. Cfr., in proposito, Fantini, Riparto di giurisdizione e poteri di regolazione e di vigilanza delle Autorità indipendenti, Relazione tenuta al Convegno su “Potere, mercato e giudice amministrativo nella Costituzione”, organizzato dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato e dal Dipartimento di diritto pubblico della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Tor Vergata, Roma, 18 novembre 2011, in www.giustamm.it, 2011. 112. In proposito, commentando l’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale da parte della Corte d’appello di Torino, si è fatto notare che lo strumento delle sanzioni pecuniarie ha assunto un ruolo importante, soprattutto in conseguenza della recente modifica del T.U. bancario in punto di trasparenza delle relazioni banca-cliente, nell’ambito della quale la sanzione pecuniaria si pone come alternativa ai tradizionali rimedi civilistici. Cfr. Nigro, Sanzioni, cit., p. 137.
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Viceversa, nessun dubbio potrebbe sorgere per quanto concerne l’Autorità garante della concorrenza e del mercato: non può, infatti, negarsi che la Corte di Cassazione113 abbia ritenuto irrazionale attribuire il sindacato sulla vigilanza al giudice amministrativo e la cognizione in ordine al corretto esercizio del potere sanzionatorio al giudice ordinario. Anche la dottrina prevalente ha affermato che le controversie in merito alle decisioni dell’Antitrust, assimilabili ai provvedimenti autoritativi propri di ogni Pubblica Amministrazione114, dovrebbero essere devolute al giudice amministrativo, perché dotato di maggiore esperienza e della sensibilità necessaria 115. Infine, non si può ignorare che anche gli studiosi più critici in ordine alle recenti trasformazioni della giustizia amministrativa abbiano individuato valide ragioni a sostegno dell’estensione del sindacato giurisdizionale amministrativo – in generale – “sulle attività maggiormente rilevanti che l’amministrazione esplica, le quali abbiano importanza economica e, comunque, incidano sul mercato” 116. In proposito, non sembra fuori luogo neppure richiamare l’art. 133, comma 1, lett. z) c.p.a., che, ereditando il disposto della legge n. 280/2003 117, attribuisce al giudice amministrativo, in via esclusiva, le controversie relative ai provvedimenti emanati dal Coni e dalle Federazioni sportive. È, in effetti, palese la pregnanza assunta dagli interessi economici nell’ambito delle principali discipline sportive, in particolare nel gioco del calcio 118.
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Cass. S.U., 5 gennaio 1994, n. 52, più volte citata e mai disattesa. Diversa sarebbe la situazione in uno scenario – ormai irrealistico – in cui la punizione degli illeciti in materia di antitrust fosse esclusivamente rimessa all’iniziativa dei privati interessati. 115. Cfr., ex multis, Verde, Autorità amministrative indipendenti e tutela giurisdizionale, in Dir. proc. amm., 1998, p. 739 e ss. Peraltro, autorevoli voci, prima dell’entrata in vigore del Codice del processo, proponevano la riconduzione di tutte le controversie in materia nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario. Si vedano, per tutti, Ghidini e Falce, Giurisdizione antitrust: l’anomalia italiana, in Mercato, concorrenza e regole, 1999, p. 317 ss.; Rescigno, Autorità indipendenti e controllo giurisdizionale: un rapporto difficile, in Le società, 5/2001, p. 523 ss. 116. Così Romano, Giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa dopo la legge 205/2000 (epitaffio per un sistema), in Dir. proc. amm., 2001, p. 621; cfr. anche Giacchetti, Globalizzazione, cit. 117. La legge, rubricata “Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva”, ha convertito il d.l. 19 agosto 2003, n. 220. 118 Clarich, La giurisdizione, cit., p. 3141. 114.
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Il Sistema di Regolamentazione Finanziaria Globale: potenziali scenari dopo la crisi finanziaria internazionale Sommario: 1. Premessa. – 2. Il Sistema di regolamentazione finanziaria internazionale prima della crisi globale. – 3. Lacune del modello di regolamentazione finanziaria internazionale pre-crisi. – 4. La struttura delle organizzazioni finanziarie globali: riforme attuate, in corso e in prospettiva. – 4.1. Riforme attuate. – 4.2. La mancanza di un Single Global Financial Regulator. – 4.3. Gli errori nella collaborazione all’interno del network di organizzazioni internazionali. – 4.4. Gli effetti concreti delle riforme del G20. – 4.5. Le modifiche auspicabili nelle strutture di regolamentazione nazionali. – 4.6. Riforme in prospettiva. – 5. La regolamentazione finanziaria internazionale: riforme attuate, in corso e in prospettiva. – 5.1. Riforme attuate. – 5.2. Riforme in prospettiva. – 6. Riflessioni conclusive: verso una possibile scelta del modello di governance per il mercato globale.
1. Premessa. La costruzione di un saldo assetto economico mondiale si fonda su un delicato equilibrio tra il potere nazionale dei Governi e la natura globale dei mercati, in quanto il conferimento di un’eccessiva autorità ai Governi rischia di realizzare situazioni di protezionismo ed autarchia, mentre il riconoscimento di troppa libertà ai mercati è potenzialmente fonte di un’economia mondiale caratterizzata da fenomeni di instabilità e di scarso consenso sociale e politico. La scelta tra potere nazionale dei Governi e natura globale dei mercati, ovvero tra regolamentazione e libertà del mercato, non è, quindi, da intendersi come alternativa, ma come complementare: la stabilità dei mercati globali dipende dalla solidità della loro governance acquisibile attraverso l’intervento di organizzazioni pubbliche di governo e di vigilanza 1.
1.
Cfr. Rodrik, Il trilemma che imprigiona l’economia mondiale, da La Repubblica, 8 settembre 2011. Per approfondimenti sul punto si rinvia a Stiglitz, Risk and Global Eco-
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L’ago della bilancia nella ricerca di un idoneo equilibro tra regolamentazione nazionale, da una parte, e globalizzazione dei mercati, dall’altra, è rappresentato da una regolamentazione dettata a livello internazionale ed implementata su scala mondiale; regolamentazione internazionale che avrebbe lo scopo di indirizzare le scelte regolative effettuate dalle singole nazioni. Questo non significa affatto che tutta la disciplina in materia finanziaria debba essere armonizzata, ma quantomeno che debbano esserlo quei fenomeni che hanno rilevanza sistemica. Solo la presenza di minimum di regole armonizzate a livello globale è potenzialmente in grado di conciliare il progresso della globalizzazione dei mercati, vel rectius di una globalizzazione razionale dei mercati, con l’autonomia regolativa dei singoli Stati. La turbolenza globale internazionale, innescata dal collasso del mercato dei mutui subprime statunitensi a partire dal 2007 e culminata nel 2008 con lo scandalo Lehmans Brothers 2, conferma questa visione delle
nomic Architecture: why Full Financial Integration May Be Indesiderable, in National Bureau of Economic Research Working Paper Series, febbraio 2010, consultabile sul sito www.iadb.org. L’economista statunitense ritiene che la crisi finanziaria globale ha fatto nascere seri dubbi sulla supposizione che l’integrazione dei mercati finanziari globali possa comportare maggiore stabilità finanziaria, in quanto la stessa ha posto in evidenza che, in assenza di un appropriato intervento di governo, transazioni redditizie per i privati possono generare rischio sistemico. 2 Con la caduta di Lehman la crisi è divenuta sistemica, per cui è nata la necessità di una risposta coordinata a livello globale. Le cause che hanno condotto o, perlomeno, contribuito alla crisi finanziaria globale sono state variamente individuate. Tra queste ricordiamo: eccesso di liquidità e bassi tassi di interesse negli Stati Uniti; innovazione finanziaria e prodotti diffusi senza la dovuta supervisione; bolla immobiliare negli Stati Uniti ed aspettative di incremento di valore del mercato immobiliare; scarsa supervisione del mercato ipotecario; insoddisfacente valutazione del rischio di mercato; mancanza di regolamentazione del mercato dei derivati; mancanza di trasparenza negli elementi chiave dei mercati finanziari (informazione minima sui prezzi, sui volumi scambiati, ecc.); lavoro delle agenzie di rating scarsamente affidabile; lacune nelle procedure di risoluzione delle crisi; pratiche contabili che hanno amplificato gli affari connessi ai cicli di espansione/contrazione del credito; inadeguatezza dei sistemi di corporate governance; scarsa consapevolezza dei rischi di mercato; inadeguatezza delle politiche di vigilanza e di regolamentazione; inefficacia della sorveglianza multilaterale (si pensi che per gli Stati Uniti non esisteva il c.d. Financial Sector Assessment Program (FSAP)!). Sulle origini della crisi finanziaria internazionale, si vedano nella vastissima letteratura sull’argomento: Greespan, The Age of Turbolence, New York e Londra, 2007; Draghi, Un sistema con più regole, più capitale, meno debito, più trasparenza, intervento alla Commissione 6° del Senato della Repubblica, 21 ottobre 2008, pubblicato sul sito www.bancaditalia.it, pp. 1-4; Vaciago, La prima crisi finanziaria globale, in Il Mulino, 2008, p. 1047 ss.; Tarantola, Intervento alla Tavola Rotonda “Causes and Consequences of the Crisis”, Roma,
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cose, o quantomeno evidenzia che la concezione anglo-americana dei mercati finanziari auto-regolati non solo è sbagliata, ma è fortemente dannosa 3. Attualmente esiste, quindi, ampio accordo sulla necessità di una più rigorosa ed idonea regolamentazione del sistema finanziario, con lo scopo di promuoverne e di conservarne la stabilità; anche se le opinioni divergono in merito alla relativa natura ed alla relativa ampiezza 4. Non
24 giugno 2009, disponibile sul sito www.bancaditalia.it.; Onado, I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Bari, 2009; AA.VV. Lezioni per il futuro. Idee per battere il futuro, Milano, 2009. 3. Cfr. Akyüz, Policy Response to the Global Financial Crisis: Key Issues for Developing Countries, Research paper of the South Centre, maggio 2009, p. 17 (consultabile sul sito www.southcentre.org). La crisi finanziaria internazionale è nata in comparti del sistema finanziario statunitense che non erano regolamentati; le sue conseguenze sono state amplificate dall’azione di soggetti che non erano sottoposti ad una vigilanza adeguata alla loro operatività ed al loro potenziale impatto sulla stabilità del sistema nel suo complesso. Sul punto si veda anche l’approfondita analisi di Onado, La crisi finanziaria internazionale: le lezioni per i regolatori, in Banca, impresa, soc., 2009, p. 5 ss. 4. Oramai sterminata è la letteratura economica sull’argomento. La giustificazione economica alla base della necessità di una regolamentazione internazionale dei mercati finanziari è rinvenibile nella potenziale esistenza di esternalità generate dalle attività svolte in tali mercati; esternalità che i privati non riescono ad indirizzare e fronteggiare facilmente. In altre parole, secondo la teoria economica, a causa della presenza di esternalità, i mercati finanziari non possano auto-regolarsi, o almeno l’autoregolamentazione da sola non basta ad assicurare la stabilità finanziaria. Fissato, dunque, l’obiettivo dell’intervento regolativo, i.e. promuovere e mantenere la stabilità finanziaria, la dottrina individua una serie di criteri per stabilire, in relazione al caso concreto, la tipologia ed il grado di regolamentazione più adeguati. In generale, l’intervento regolativo sarebbe giustificato solo qualora i benefici eccedano chiaramente i costi che lo stesso presumibilmente impone. Per stabilire ex ante l’intensità di tale intervento, la dottrina economica sostiene che questo possa spingersi fino al punto da riuscire nel migliore dei modi a trovare un giusto equilibrio tra correttezza e sicurezza del sistema finanziario, da una parte, ed assunzione del rischio, dall’altra; le prime perseguite per il tramite della regolamentazione del mercato, la seconda connessa all’area di libertà lasciata alle istituzioni ed ai mercati finanziari. Per ciò concerne, la natura dell’intervento regolativo, uno dei criteri utilizzati per la scelta si incentra sull’individuazione dei rischi che con tale intervento si intendono fronteggiare (Risk-Based Supervision Approach). La regolamentazione dei mercati, degli affari e delle transazioni finanziarie si giustifica per l’esistenza nel sistema di due tipologie di rischi finanziari: il rischio sistemico ed il rischio di asimmetrie informative. La letteratura economica ritiene che la regolamentazione più appropriata per arginare e fronteggiare la prima tipologia di rischio sia riconducibile agli standards prudenziali (requisiti di capitale, requisiti di liquidità, assetti di management e di controllo adeguati), mentre quella più adeguata a contrastare il secondo tipo di rischio è costituita dalle regole di condotta degli affari (di trasparenza, contro l’abuso di informazioni pri-
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solo, ma esistono numerose ragioni per ritenere che, in un mondo sempre più globalizzato, questa regolamentazione debba essere anche essa – perlomeno con riferimento a fenomeni finanziari caratterizzati dal c.d. rischio sistemico e compatibilmente con le peculiarità istituzionali e culturali dei singoli Stati – globalizzata, conformandosi a standards ed a principi stabiliti a livello internazionale 5. Tre per tutte. In primo luogo, da quando i fenomeni di instabilità finanziaria hanno cominciato a travalicare i confini nazionali ripercuotendosi in modo avverso a livello globale (adverse spill overs) è nata l’esigenza che le pratiche di regolamentazione nazionali siano, o almeno dovrebbero essere, assoggettate a discipline multilaterali 6.
vilegiate, ecc.). È evidente che all’interno di un contesto globalizzato, entrambi i tipi di regolamentazione debbano essere, per quanto possibile, comuni e standardizzati. Per un’ampia ed approfondita analisi delle regioni economiche alla base della regolamentazione finanziaria si vedano, ex multis, Llewellyn, The Economic Rationale for Financial Regulation, in FSA Occasional Paper, n. 1, aprile 1999; Dodd, The Economic Rationale for Financial Market Regulation, in Financial Policy Forum, Special Policy Report 12, dicembre 2002; The Fundamental Principles of Financial Regulation, in ICMB e CIMB, gennaio 2009; Davies and Green, Global Financial Regulation. The Essential Guide, Cambridge (UK) e Malden (USA), 2010, p. 7 ss. 5. Gli standards internazionali definiscono regole ampiamente accettate come buoni principi, pratiche o linee guida in una determinata area oggetto di regolamentazione. In linea generale, essi possono essere classificati in base al loro scopo ovvero alla loro natura. Secondo il primo criterio di classificazione (scopo della regolamentazione standardizzata) distinguiamo gli standards in: a) settoriali: regolano singoli settori, come governo e banche centrali, settori bancario, mobiliare, assicurativo, societario, ecc.; b) funzionali: regolano singole aree all’interno di tutti i settori, come governance, contabilità, trasparenza, adeguatezza del capitale, vigilanza, ecc. In base al secondo criterio (natura della regolamentazione internazionale) dividiamo gli standards in: a) principi: sono stabiliti in modo generale e, perciò, consentono un certo grado di flessibilità ed elasticità nell’implementazione da parte dei singoli Stati; b) pratiche: sono più dettagliate e specificano la pratica applicazione dei principi all’interno di un determinato contesto; c) metodologie/linee guida: offrono guide dettagliate sui passi da compiere e sono abbastanza specifiche da consentire una valutazione sufficientemente oggettiva del loro grado di compliance. 6. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un rapido incremento dell’integrazione finanziaria internazionale. Gli intermediari stranieri hanno guadagnato una presenza sempre più rilevante paese dopo paese, con il conseguente dominio delle banche estere all’interno dei sistemi creditizi di molti dei paesi emergenti. Questi legami finanziari sono diventati particolarmente intesi tra un piccolo numero di nazioni. Molti di questi sono stati guidati dall’azione di un relativamente esiguo numero di grandi istituzioni finanziarie (systemically important financial institutions o SIFIs) che esercita la propria attività attraverso molteplici confini. Gran parte di queste istituzioni è di grosse dimen-
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In secondo luogo, le regole multilaterali avrebbero l’effetto di garantire un campo da gioco livellato (level playing field) e di prevenire in tal modo il c.d. regulatory arbitrage (arbitraggio normativo), che avrebbe quale effetto negativo lo spostamento degli affari dai paesi con la regolamentazione più severa a quelli con normative meno restrittive. Infine, la regolamentazione multilaterale dovrebbe ridurre l’influenza politica sui regolatori e dare a questi un certo livello di indipendenza. Mentre queste considerazioni sono valide in assoluto, esistono difficoltà sia tecniche che politiche nelle modalità e nei tempi di progettazione e di implementazione della disciplina multilaterale internazionale in materia di regolamentazione e supervisione finanziaria. La crisi finanziaria globale – accanto all’effetto immediato di arrestare la crescita dei mercati finanziari e di produrre la deglobalizzazione della regolamentazione finanziaria a causa della risposta normativa autonomamente data da ciascun paese al dissesto in atto – ha fatto emergere queste difficoltà; difficoltà dovute in gran parte alle debolezze insite nel sistema di regolamentazione finanziaria globale sia in termini di architettura delle istituzioni e dei comitati internazionali, delle loro mutue interrelazioni e della loro composizione, sia sotto il profilo delle regole finanziarie stesse. Il presente lavoro ha lo scopo di prospettare i futuribili scenari per entrambi gli aspetti – struttura e rapporti tra le organizzazioni finanziarie internazionali ed i c.d. standards setting bodies, da una parte, e regolamentazione finanziaria multilaterale, dall’altra –, derivanti dall’esperienza vissuta, dalle riforme già attuate, di prossima realizzazione e potenziali, necessarie a fronteggiare la crisi nonché ad evitare il suo ripetersi. Sulla base di quest’analisi, cercheremo infine di individuare il modello di regolamentazione del mercati finanziari integrati, che a nostro parere, si delineerà nel prossimo futuro. Il modello di governance del mercato globale prospettato si fonda, come vedremo, su quella che sembra essere – perlomeno al momento – la combinazione più ragionevo-
sioni, estremamente complessa, con numerose succursali in diversi paesi, difficilmente gestibile. È vero che la crescita dell’integrazione finanziaria offre numerosi benefici a cui queste SIFIs hanno contribuito (economie di scala e di scopo con guadagni in termini di efficienza, allocazione efficiente della liquidità e del capitale, facilitazione degli scambi e trasferimento delle tecnologie e delle esperienze cross border), ma è altresì vero che la crisi finanziaria globale ha messo in evidenza che questi stretti legami possono comportare forti e distruttivi effetti di contagio oltre i mercati ed i confini nazionali, consentendo alle crisi finanziarie di espandersi rapidamente.
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le e fattibile dei tre elementi da cui scaturisce il “trilemma” politico di fondo dell’economia globale: la globalizzazione dei mercati che implica maggiore libertà o assenza di regolamentazione (free regulation), l’autonomia regolativa nazionale (territorial regulation) che ostacola la globalizzazione dei mercati e l’armonizzazione delle regole, la predisposizione di principi-guida internazionali (global regulation) che limita l’autonomia regolativa nazionale. Ai nostri scopi appare utile, in via preliminare, tracciare una panoramica dell’assetto finanziario internazionale pre-crisi, delle sue caratteristiche intrinseche e soprattutto delle sue lacune che, emerse in seguito al recente dissesto globale, ne hanno aggravato gli effetti o quantomeno hanno evidenziato l’inadeguatezza del sistema ad arginarli 7.
2. Il Sistema di regolamentazione finanziaria internazionale prima della crisi globale. Analizziamo, innanzitutto, quali peculiarità presentava l’assetto regolativo del sistema finanziario globale fino al 2007-2008, in termini sia strutturali – architettura degli organismi di regolamentazione e reciproche interrelazioni – sia funzionali – natura ed efficacia delle relative potestà di regolazione. Schematizzando, al momento dello scoppio della crisi, tale sistema, sotto il profilo strutturale: era sostanzialmente dominato dai paesi del G7 (Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti e successivamente Canada); risultava estremamente complesso, in quanto costituito da un numero pletorico di istituzioni dedicate alla progettazione degli standards finanziari internazionali, le cui interrelazioni e le cui responsabilità non sempre erano trasparenti 8, con conseguente difficoltà di cooperazione tra le stesse; mancava di un’organizzazione che assumesse una posizione leading. Il grafico n. 1 offre una schematizzazione delle organizzazioni di regolamentazione finanziaria internazionali esistenti al momento dell’inizio della crisi.
7
Cfr. Tarantola, Verso una nuova regolamentazione finanziaria, intervento alla Scuola di Alta Formazione dell’I.P.E., Napoli, 21 gennaio 2011, p. 2 (disponibile su www. bancaditalia.it.). 8. Per esempio i Governatori del G10 avevano la supervisione sull’attività del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (Basel Committee on Banking Supervision - BCBS).
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Grafico n. 1 – Struttura dei Comitati Internazionali – Una panoramica dei Regolatori fino alla crisi economica e finanziaria mondiale.
Per ciò che concerne l’aspetto funzionale, dalla complessità dell’architettura delle agenzie multinazionali e degli standards setters derivava la laboriosità del processo attraverso cui veniva perseguita l’armonizzazione ed il coordinamento della regolamentazione finanziaria tra i vari Stati. La crisi finanziaria globale ha messo in luce la fragilità, oltre che dell’ossatura del sistema di istituzioni internazionali, anche del procedimento di predisposizione delle regole, sia con riferimento alla fase di produzione delle stesse sia e soprattutto con riguardo alla fase finale della relativa implementazione a livello nazionale. Per ciò che concerne il primo profilo (predisposizione delle regole internazionali), la principale carenza si riscontrava nella mancanza di un piano di azione imponibile agli standards setting bodies e nel conseguente allungamento dei tempi per l’attuazione concreta delle riforme prospettate in materia di regolamentazione finanziaria, venendo a mancare ogni senso di urgenza e di priorità di azione nell’ambito degli organismi finanziari internazionali competenti 9.
9.
Si pensi che il BCBS per rivedere l’accordo sul capitale ha impiegato 12 anni; anni nell’arco dei quali il mercato bancario è cambiato radicalmente ed è emerso un sistema
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Con riferimento al secondo aspetto (implementazione delle regole internazionali), la debolezza del procedimento scaturiva fondamentalmente dalla quantomeno dubbia legittimità degli standards setters a richiedere ai vari paesi l’applicazione dei principi internazionali. La mancanza di legittimità derivava sostanzialmente dalla natura legale di tali principi che, a causa del mancato riconoscimento in capo agli organismi competenti di un qualsivoglia potere legislativo, sono inquadrabili nella categoria della c.d. soft law, per cui gli stessi non hanno forza legale in sé ma necessitano, per la relativa applicazione in ogni singola giurisdizione, di essere incorporati in leggi, regolamenti o pratiche amministrative domestiche. Ulteriore conseguenza della loro specifica natura è che, poiché alla non-compliance con i medesimi non si accompagna alcuna sanzione legislativa, la relativa implementazione a livello nazionale, perlomeno in teoria, avviene su basi ampiamente volontarie ed è perciò lenta ad agire. A ciò si aggiunga che, al momento dello scoppio della crisi, le autorità nazionali, non ostante la loro inclinazione all’adozione dei principi globali, hanno reagito in modo differente nel ri-regolare i sistemi finanziari nazionali; e non c’è dubbio che i supervisori nazionali non raramente abbiano utilizzato la flessibilità lasciata loro nell’implementazione degli standards globali anche per imporre requisiti più restrittivi per particolari istituzioni finanziarie. Il quadro fin qui delineato risultava ulteriormente complicato – in termini di cooperazione, integrazione ed armonizzazione tra Stati sul fronte delle regole applicabili al sistema finanziario – dalla pluralità e varietà delle strutture nazionali di supervisione, riconducibili sostanzialmente a quattro modelli 10:
parallelo a quello creditizio che ha generato un cospicuo ammontare di attività di credito al di fuori delle istituzioni formali (c.d. shadow banking system). Di questo sistema bancario ombra fanno parte, ad esempio, le attività dei fondi del mercato monetario, il credito erogato da società finanziarie non soggette a regolamentazione, l’emissione da parte di conduit e veicoli di investimento specializzati di commercial paper garantita da attività a più lungo termine, nonché il finanziamento di attività di cartolarizzazione tramite i mercati pronti contro termine. Il sistema bancario ombra è nondimeno strettamente collegato a quel regolamentato: le grandi banche realizzano in genere proventi significativi dalle attività bancarie ombra e mantengono esposizioni creditizie e operative, sia dirette che indirette a tali attività, tramite le linee di business come l’erogazione dei prestiti, il rafforzamento del credito, linee creditizie di appoggio, servizi di brokeraggio, warehousing ed assicurazione del credito. 10. I modelli di regolamentazione e supervisione del sistema finanziario scaturiscono, in linea generale, dalle possibili combinazioni di tre elementi:
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1) il tradizionale sistema a tre pilastri (tripartito), di consueto con la Banca Centrale quale autorità di supervisione del settore creditizio, un regolatore per il settore mobiliare, di solito una commissione separata, ed un regolatore per il settore assicurativo, che può anche essere parte del governo; 2) una certa varietà di sistemi a due pilastri (duale), ciascuno con le proprie caratteristiche (alcuni hanno un singolo regolatore per il settore mobiliare ed assicurativo, altri uniscono il settore bancario e quello mobiliare); 3) il c.d. sistema “twin peaks” con un’autorità di regolamentazione prudenziale responsabile del controllo sulle riserve di capitale in tutte le istituzioni finanziarie ed un secondo regolatore per la c.d. business conduct, cui spetta la responsabilità per la trasparenza e gli altri aspetti di regolamentazione collegati alle transazioni di mercato e con la clientela; 4) un singolo regolatore integrato che copre tutta o quasi tutta la regolamentazione del sistema finanziario, sotto il profilo oggettivo (regole prudenziali e di condotta) e soggettivo (istituzioni bancarie, mobiliari ed assicurative). Chiaramente di questi quattro modelli esistono numerose varianti. Il grafico n. 2 evidenzia la distribuzione delle quattro principali strutture di regolamentazione nei paesi più evoluti al momento dello scoppio della crisi, mentre il grafico n. 3 riporta il ruolo rivestito all’epoca dalle banche centrali nell’assetto di supervisione sui mercati finanziari con riferimento ad un campione di 143 paesi. I dati riportati nel grafico n. 2 mostrano che, nel 2007, dei paesi considerati: 57 adottavano il sistema tripartito di cui ben 54 con la Banca centrale nel ruolo di autorità di supervisione del settore bancario; 35 adot-
a) le modalità di implementazione delle regole prudenziali e di condotta degli affari che possono portare alla realizzazione di un modello unificato, allorché fossimo in presenza di una competenza spettante ad un’unica autorità, ovvero separato, qualora la predisposizione delle due categorie di regole spetti a due agenzie distinte; b) le modalità attraverso cui il controllo prudenziale è esercitato sui tre settori del mercato finanziario-bancario, mobiliare e assicurativo -, per cui è possibile riscontrare un modello integrato, qualora sia competente una stessa autorità, ovvero specializzato, allorché la relativa attribuzione spetti a più autorità; c) il ruolo della Banca Centrale nella regolamentazione finanziaria, in relazione al quale è possibile la realizzazione di quattro tipologie regolative: con la banca centrale senza alcuna responsabilità di supervisione, ovvero con responsabilità di supervisione sul solo settore bancario, ovvero con responsabilità di controllo sul settore creditizio condivise con un’altra agenzia, ovvero come regolatore unico.
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Grafico n. 2 – Strutture nazionali di regolamentazione. Fonte: Pringle, How Countries Supervise their Banks Insurers and Securities Markets 2007, Central Banking Publications.
tavano il sistema duale, di cui 28 con la Banca centrale come autorità di regolamentazione prudenziale; solo 2 il modello “twin peaks” (Olanda ed Australia) e; 49 il sistema di supervisione finanziaria unificato, di cui 10 con la Banca centrale nel ruolo di regolatore unico (negli ultimi anni il numero di paesi ad implementare quest’ultimo modello è notevolmente cresciuto, anche se in molti casi il ruolo di regolatore singolo è stato assunto dalle banche centrali). Il grafico n. 3 evidenzia che, nel 2007, su 143 paesi, in 50 la Banca centrale non aveva responsabilità di supervisione, in altri 29 essa condivideva la vigilanza bancaria con un’altra agenzia, mentre negli ulteriori 64 essa aveva la responsabilità primaria di supervisione sui settori del mercato finanziario 11.
11 . In uno studio empirico effettuato su un campione di 102 paesi (Masciandaro, Vega Pansini, Quintyn, The Economic Crisis: Did Financial Supervision Matter?, in IMF Working Paper, novembre 2011, n. 11/261), si dimostra che i cambiamenti nelle strutture (spesso nella direzione del regolatore unico) e nella governance di supervisione, introdotti successivamente alla crisi asiatica del 1998, hanno presentato una correlazione negativa con la resistenza del sistema economico all’attuale crisi finanziaria (nel senso che tali cambiamenti non sono stato in grado di prevenirla o mitigarla, come invece si credeva avessero potuto farlo), così come il grado di coinvolgimento delle banche centrali nella vigilanza finanziaria non ha avuto nessun impatto significativo sulla resistenza del sistema alla crisi.
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Grafico n. 3 – Le Banche Centrali nella Regolamentazione finanziaria. Fonte: Pringle, How Countries Supervise their Banks Insurers and Securities Markets 2007, Central Banking Publications.
3. Lacune del modello di regolamentazione finanziaria internazionale pre-crisi. È con lo scoppio del dissesto finanziario globale che dalle caratteristiche intrinseche del sistema di regolazione internazionale sono emersi i suoi punti di debolezza e la sua inadeguatezza nella prevenzione, gestione e risoluzione delle crisi. Con riferimento all’architettura finanziaria globale, l’eccessiva frammentazione dovuta all’esistenza di un complesso network di supervisori finanziari internazionali, – ciascuno con la propria competenza confinata ad un determinato segmento del mercato finanziario, accompagnata dalla quasi totale assenza di meccanismi di collegamento e di coordinamento delle sue componenti – ha comportato il fallimento nell’individuazione e nella capacità di risposta ai macro-trends che hanno generato il crollo. A ciò si aggiunga, sempre sotto il profilo strutturale, la presenza di un vuoto serio di responsabilità all’interno delle istituzioni internazionali, essendo ciascuna di esse libera di svolgere la propria attività regolativa secondo un proprio calendario senza alcun obbligo di rispondere del proprio operato a qualsivoglia istituzione sovraordinata. Senza contare, poi, la presenza di deboli legami, ergo il difetto di informazione reciproca, tra organi competenti delle linee di politica macroeconomica (ministri delle finanze e banche centrali), da una parte, e regolatori, dall’altra. Con riferimento specifico all’Unione Europea, si sottolinea la mancanza di un centro di coordinamento della regolamentazione finanziaria dei mercati dei singoli paesi partecipanti.
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Sul fronte specifico della regolamentazione finanziaria internazionale, il fallimento di quest’ultima nel prevenire e fronteggiare i rischi sistemici ai fini della stabilità finanziaria globale si è manifestato all’interno di sei grandi aree strettamente collegate e sovrapposte: quella dei requisiti di capitale, di liquidità e di leva finanziaria ritenuta inadeguata anche e soprattutto per la sua visione microprudenziale; quella concernente il suo “perimetro” considerato troppo ristretto sia sotto il profilo dell’oggetto sia per ciò che concerne la necessaria autorità nel relativo esercizio; quella dei mercati monetari e finanziari globali risultata inefficace in particolare con riguardo ai mercati dei derivati over-the counter; quella delle istituzioni ad elevato rischio sistemico (systemically important financial institutions o SIFIs) con il connesso problema del “too big too fail” manifestatasi inadatta nel valutare, monitorare e gestire l’impatto negativo (dovuto alle loro dimensioni, alla loro complessità ed alle loro interconnessioni) dei relativi crolli finanziari sull’economia mondiale; quella concernente la gestione, il salvataggio e la risoluzione delle crisi finanziarie per la mancanza di efficaci meccanismi in termini di tempestività nell’intervento e di minimizzazione delle conseguenze sistemiche e dei costi per i contribuentii; quella inerente alla volatilità dei flussi di capitale a causa della carenza di adeguati controlli e policies prudenziali e macroprudenziali 12. Dalla situazione descritta sono scaturite sostanzialmente le seguenti implicazioni di policy. Innanzitutto, è nata l’esigenza di riformare l’architettura degli organismi di regolamentazione finanziaria internazionale al fine di renderla più capace ed idonea ad agire, attraverso un maggiore coordinamento tra le istituzioni, in una maniera globale e parallela nei diversi settori del mercato finanziario. In secondo luogo, è emersa la necessità di una riforma della regolamentazione finanziaria internazionale in termini di maggiore capacità e rapidità di allineamento della stessa all’evoluzione ed alla crescente globalizzazione dei mercati finanziari (aumento del numero e della tipologia di attività finanziarie dei gruppi cross-border). La chiave di volta verso il rinnovamento della struttura e della regolamentazione finanziaria globale è rinvenibile in una serie di eventi politici
12. Per approfondimenti sulle lacune della regolamentazione finanziaria nelle aree citate si rinvia a Schinasi and Truman, Reform of the Global Financial Architecture, in Peter Institute for International Economics Working Paper, settembre 2010, n. 10-14, disponibile sul sito www.iie.com, p. 10 ss.
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rappresentati dai Summits dei paesi del G20: di Washington nel 2008, di Londra nel 2009, di Pittsburg nel 2009, di Toronto nel 2010, di Seul nel 2010, di Cannes nel 2011 e da ultimo di Los Cabos nel 2012 13. In particolare, nel corso del vertice di Londra del 2 aprile 2009 14, i rappresentanti dei paesi coinvolti, con il preciso intento di arginare gli effetti derivanti dalla crisi e prevenire il suo ripetersi in futuro, hanno proposto un piano di azione concreto diretto alla riorganizzazione del sistema finanziario globale e dell’assetto di regolamentazione internazionale, avendo quali obiettivi fondamentali: il ripristino della fiducia, della crescita e dell’occupazione; la ristrutturazione del sistema; il rafforzamento delle regole finanziarie; la riforma delle organizzazioni finanziarie internazionali; la promozione degli scambi e degli investimenti globali ed il rifiuto di politiche protezionistiche; l’avvio verso una ripresa generale, rispettosa dell’ambiente e sostenibile. In particolare, nella Declaration on Strenghtening the Financial System 15, sono state individuate dai leaders del G20 sostanzialmente cinque aree di intervento per la riforma dei mercati finanziari, accompagnate da un dettagliato piano di lavoro per la tempestiva implementazione delle proposte da parte prima degli international standards setters e successivamente dei regolatori nazionali. I cinque Pilastri di Riforma del G20 sono: a) il rafforzamento del regime di trasparenza e responsabilità, attraverso una richiesta più pressante di requisiti di disclosure completi ed accurati dei prodotti finanziari complessi e delle condizioni finanziarie praticate dalle imprese; b) la riforma del sistema di regolamentazione prudenziale, attraverso il potenziamento delle regole e della supervisione prudenziale e di gestione dei rischi, garantendo che tutti i mercati finanziari, i prodotti scambiati ed i relativi partecipanti siano soggetti a regolamentazione e controllo; c) la promozione dell’integrità dei mercati finanziari, attraverso il rafforzamento della protezione degli investitori e dei consumatori, la prevenzione dei conflitti di interesse, della manipolazione illegale, delle attività fraudolente e degli abusi di mercato, l’aumento della diffusione delle informazioni;
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La relativa documentazione è consultabile sul sito www.g20.org. Si veda il documento dal titolo The Global Plan for Recovery and Reform, Londra, 2 aprile 2009, pubblicato sul sito www.g20.org. 15. Firmata dal G20 a Londra il 2 aprile 2009 e pubblicata sul sito www.g20.org. 14.
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d) il rafforzamento della cooperazione internazionale, attraverso un maggiore coordinamento ed una più significativa collaborazione tra i regolatori nell’ambito di tutti i segmenti del mercato finanziario, segnatamente con riguardo alla prevenzione, alla gestione ed alla risoluzione delle crisi; e) la riforma delle istituzioni finanziarie internazionali, attraverso: il rinnovamento delle organizzazioni di Bretton Woods (i.e. Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale o Banca dei Regolamenti Internazionali) in termini di governance, di mandato e di maggiori finanziamenti; l’istituzione di un nuovo Financial Stability Board (FSB), quale successore del Financial Stability Forum (FSF), mediante un ampliamento della membership e del mandato dell’organismo originario; l’apertura, innanzitutto ai paesi BRICs (Brasile, Russia, India, Cina e, dal 2010, Sud Africa) 16 e ad altri, della compagine sociale delle più rilevanti organizzazioni internazionali competenti per l’elaborazione degli standards finanziari multilaterali 17. Nell’ottica dei firmatari della dichiarazione, gli interventi di rinnovamento attuati sulla base delle loro proposte dovrebbero contribuire alla costruzione di un sistema finanziario “more resilience”, in grado di fron-
16. Il BRICs è un’organizzazione politica delle economie emergenti fondata nel 2006. Il termine BRIC fu coniato nel 2001 per indicare quattro paesi così avanzati da non poter essere considerati come paesi del terzo mondo, ma non abbastanza sviluppati da acquisire lo status di paesi ricchi. Sul piano economico ciò che accomuna questi paesi emergenti è: l’aumento demografico, i continui incrementi di produttività, la crescita del reddito ed una domanda interna in rapida espansione tanto da diventare mercato di consumo dei prodotti occidentali. Tuttavia, la diversità tra i loro sistemi economici potrebbe introdurre elementi di contrasto tra questi paesi. Il Brasile, l’India, la Russia ed il Sud Africa hanno con la Cina un rapporto commerciale basato essenzialmente sulle esportazioni delle loro materie prime, quindi su un rapporto squilibrato verso la Cina. Inoltre, essi temono che la svalutazione perseguita dalla Cina possa colpire le loro esportazioni. La Russia, poi, è favorita dall’aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime. La Cina critica gli aumenti di questi prezzi e il Sud Africa deve sfidare la presenza di numerose aziende dei paesi BRIC in tutta l’Africa. Sul fronte politico, si tratta di un insieme di paesi con diversi sistemi che vanno dalle democrazie all’autoritarismo. 17. In aggiunta, i Leaders del G20 raccomandano: un maggiore coordinamento tra l’attività del FSB e quella dell’IMF; una riforma del sistema di regolamentazione che tenga conto dei rischi di natura macro-prudenziale; l’estensione della regolamentazione e della supervisione che copra anche gli hedge funds; maggiore attenzione per i paradisi fiscali; il miglioramento degli standards contabili; l’ampliamento della vigilanza sulle agenzie di rating e la regolamentazione dei conflitti di interesse. Per approfondimenti sulle decisioni assunte dai paesi del G20, in particolare nei vertici di Londra e di Pittsburg, si veda Il G20 e la cooperazione economica internazionale, in Banca d’Italia, Relazione annuale, 2009, p. 37 ss., consultabile sul sito www.bancaditalia.it.
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teggiare i bisogni delle economie nazionali, di ridurre l’azzardo morale, di limitare il propagarsi del rischio sistemico, di sostenere una crescita economica solida e durevole. In seguito al summit di Londra del G20, anche il nuovo FSB ed i suoi membri hanno avanzato un dettagliato programma di riforme finanziarie basato su chiari principi e su un preciso calendario per l’implementazione da parte degli organismi internazionali competenti, destinato ad assicurare che una crisi della portata di quella attuale non si verifichi mai più.18 Come si legge nel Report dal titolo Improving Financial Regulation, l’obiettivo del FSB “[…] è quello di creare un sistema finanziario più disciplinato e meno pro-ciclico in grado di supportare in modo migliore una crescita economica, bilanciata, sostenibile.” A tal fine, il piano di rinnovamento finanziario del FSB prevede sostanzialmente: più elevati requisiti di quantità e qualità di capitale e di liquidità delle istituzioni finanziarie; maggiore trasparenza, regolamentazione e controllo degli hedge funds, delle agenzie di rating, dei derivati over-the-counter (non quotati) e delle imprese “too big to fail”; miglioramento dei principi internazionali di contabilità (in particolare del principio del fair value) 19 e degli schemi di remunerazione che incrementino la trasparenza e limitino gli incentivi verso un’eccessiva assunzione dei rischi 20; maggiore scambio di informazione, cooperazione e coordinamento tra le organizzazioni finanziarie internazionali, le autorità di controllo e di regolamentazione nazionali, le banche centrali, onde rafforzare la loro capacità di far fronte ai rischi. In aggiunta, il FSB si è
18. I numerosi rapporti e documenti del FSB, cui è seguita l’azione dei diversi international standards setting bodies, sono disponibili per la consulatazione sul sito www. financialstabilityboard.org. Si vedano, in particolare, il primo Report del FSF dal titolo Enhancing Market and Institutional Resilience, 7 aprile 2008, ed il Report del FSB ai Leaders del G20 dal titolo Improving Financial Regulation, 25 settembre 2009. 19. La crisi ha evidenziato le difficoltà di applicare il fair value in situazioni di illiquidità dei mercati, in quanto quest’ultima condizione rende ardua una valutazione attendibile delle poste di bilancio ed incerte le stime basate sui modelli cui si ricorre in assenza di valutazioni di mercato. 20. Tra le cause della crisi è stato sottolineato il ruolo svolto – soprattutto nelle grandi banche internazionali – da incentivi distorti: schemi di remunerazione legati ai risultati di breve periodo, scarso coinvolgimento degli organi di vertice nelle scelte strategiche, debolezza dei controlli interni, insufficiente circolazione delle informazioni nell’organizzazione aziendale. Il FSB ha emanato principi volti ad assicurare che i sistemi di remunerazione adottati dalle istituzioni finanziarie a rilevanza sistemica siano coerenti con i loro obiettivi di lungo termine e con un’assunzione prudente dei rischi.
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impegnato a monitorare da vicino l’implementazione delle linee guida concordate a livello internazionale per migliorare la stabilità finanziaria, onde garantire che queste siano pienamente e significativamente attuate in tempi ragionevoli per evitare l’aggravarsi della crisi in atto 21. Molte delle riforme raccomandate dai leaders del G20 e dal FSB sono state implementate ed altre sono di prossima attuazione, ma il quadro non è ancora completo, in quanto un’implementazione compiuta di tutto l’insieme delle proposte richiede tempo e perseveranza. In un’economia di mercato globalmente integrata, dove le preoccupazioni per un level playing field e le pressioni protezionistiche diventano reali, è di vitale importanza che i paesi del G20 supportino in maniera congrua lo sviluppo delle policies internazionali in corso e segnalino la propria determinazione ad attuare in modo completo e consistente la rinnovata regolamentazione finanziaria a livello nazionale. Ciò detto, passiamo ad analizzare le riforme già attuate e di prossima realizzazione riguardanti sia l’architettura delle organizzazioni finanziarie internazionali sia la regolamentazione finanziaria multilaterale, per poi verificare se, ai fini di una migliore governance – ergo di una maggiore stabilità – dei mercati finanziari globali, sia necessario prospettarne ulteriori.
4. La struttura delle organizzazioni finanziarie globali: riforme attuate, in corso e in prospettiva. 4.1. Riforme attuate. In seguito al processo di ristrutturazione intrapreso sin dal 2009, l’architettura finanziaria internazionale oggi fa perno su tre organismi: il G20, il riformato Fondo Monetario Internazionale (International Monetary Found - IMF) ed il Financial Stability Board (FSB). Il G20 è un gruppo politico informale stabile che include 19 paesi e l’Unione Europea. Esso, dopo la crisi finanziaria, ha assunto il compito principale di rafforzare, riformare e supervisionare l’efficace ed effettivo funziona-
21. Per un’analisi più dettagliata delle linee di riforma individuate dal FSB si rinvia al rapporto preparato per l’APEC Finance Centre di Melbourne, Australia Centro Studi APEC e RMIT University da Davis, Regulatory Reform post the Global Financial Crisis: An Overview, marzo 2011, disponibile su www.australiancentre.com., p. 9 ss.; Sarcinelli, Passata e futura regolamentazione per prevenire una crisi finanziaria sistemica, in Moneta e credito, 2010, p. 14 ss.
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mento della struttura regolativa finanziaria globale, in particolare attraverso una regolamentazione potenziata basata su standards internazionali. Il rinnovato IMF è un’organizzazione internazionale con una membership universale basata sul sistema delle quote. In aggiunta ai suoi compiti tradizionali, con riguardo specifico al settore finanziario la sua competenza consiste nel sorvegliare (surveillance) e contribuire all’implementazione dei principi globali. Il FSB è il successore del FSF (Financial Stability Forum), che ora, in seguito all’ampliamento della membership, include i rappresentanti di 24 paesi, in aggiunta ad istituzioni finanziarie internazionali ed agli standards setters medesimi. In seguito alla riforma, il suo mandato consiste nel coordinare il processo di progettazione degli standards e nel supervisionare gli organismi competenti ai fini della relativa emanazione. Gli altri attori coinvolti nella struttura sono: da una parte, le istituzioni incaricate della predisposizione delle regole finanziarie globali (standards setters), che differiscono sia nella composizione sia nella natura legale e, dall’altra, le giurisdizioni nazionali, che, con la rilevante eccezione dell’Unione Europea, hanno l’esclusiva competenza ad incorporare i principi finanziari internazionali nella propria legislazione, nella propria regolamentazione e nel proprio processo di supervisione nazionale. Il grafico n. 4 evidenzia la posizione ed il ruolo delle citate organizzazioni nella promozione di un international standards regime a livello globale. L’assetto regolativo globale del settore finanziario, dunque, anche dopo la sua ristrutturazione risulta costituito da una pluralità di organizzazioni estremamente differenti sotto i profili della relativa membership, della relativa missione e del relativo stato legale, deputate, con diverse mansioni, alla costruzione di un regime internazionale basato su regole standardizzate ed alla sua implementazione su scala mondiale. Il grafico n. 5 mette in luce la posizione attuale di ciascuna organizzazione multinazionale e degli standards setters 22 nella struttura di regolamentazione finanziaria globale nonché i rapporti tra gli stessi derivanti o dalla partecipazione alle rispettive compagini sociali ovvero dalla necessità di collaborazione ai fini dell’elaborazione delle regole internazionali. Nella tabella n. 1 sono indicate, invece, le cinque categorie in cui
22.
Più precisamente di quanto indicato nel testo, all’interno dell’organizzazione di supervisione finanziaria internazionale hanno il ruolo di international standards setters i seguenti organismi: BCBS, CGFS, CPSS, FAFT, IAIS, IASB, IAASB, IMF, IOSCO, OECD, CPSS-IOSCO Task Force on Securities Settlment Systems, BCBS Transparency Group, IOSCO Working Party on the Regulation of Financial Intermediaries, IFSB-BCBS.
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Grafico n. 4 – Architettura finanziaria internazionale – Struttura generale 24 paesi + 6 organizzazioni finanziarie internazionali ....
Grafico n. 5 – Struttura dei Comitati Internazionali – Una panoramica dei Regolatori dopo la crisi finanziaria globale.
possono essere raggruppate le organizzazioni internazionali in relazione alla loro natura - 1) istituzioni governative informali; 2) istituzioni governative formali; 3) istituzioni di banche centrali; 4) istituzioni di regolatori; 5) associazioni di categorie professionali, con la specificazione degli organismi inclusi in ciascuna di esse.
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Tabella n. 1 – Architettura Finanziaria Globale – Natura delle Organizzazioni Internazionali. Istituzioni G7, G8, G20 (più i governatori delle banche centrali) governative informali Istituzioni OECD (Organisation for Economic Co-operation and governative formali Development), FAFT (Financial Action Task Force), World Bank, IMF (International Monetary Fund), ISSA (International Social Security Association) Istituzioni G10, CPSS (Committee on payment and settlement sysdi banche centrali tems), CGFS (Committee on the Global Financial System), BIS (Bank for International Settlements) Istituzioni di regolatori FSB (Financial Stability Board), BCBS (Basel Committee on Banking Supervision), IOSCO (International Organization of Securities Commissions), IAIS (International Associations of Insurance Supervisors), Joint Forum (BCBS + IOSCO + IAIS), IOPS (International Organization of Pension Supervisors), IFIAR (International Forum of Independent Audit Regulators), IFSB (Islamic Financial Services Board), Monitoring Group (composto da membri della Commissione Europea, dell’IMF, di IOSCO e della WB) responsabile della supervisione sull’attività degli standards setting bodies in materia di auditing e countability Associazioni di IADI (International Association of Deposit Insurers), categorie professionali WFE (World Federation of Exchanges), IAA (International Actuarial Association), IFRS (International Financial Reporting Standards) Foundation, di cui è parte lo IASB (International Accounting Standards Board) - prima denominato IASC (International Accounting Standards Committee) - quale organismo responsabile dell’emanazione dei principi contabili internazionali, IFAC (Int ernational Federation of Accountants), che include lo IAASB (International Auditing and Assurance Standards Board), organismo indipendente specificamente dedicato a predisporre gli standards internazionali in materia di auditing, revisione, controllo di qualità, e sottoposto alla supervisione del PIOB (Public Interest Oversight Board)
Dal confronto della Global Financial Architecture attualmente esistente con quella vigente fino alla crisi (grafico n. 1) si evince che nulla o quasi è cambiato per ciò che concerne il numero della istituzioni internazionali coinvolte. Le modificazioni, come vedremo tra breve, hanno, infatti, inciso sulle governance e sui mandati di alcune di queste organizzazioni, al fine di migliorarne e rafforzarne il ruolo nella struttura globale, e sono state accompagnate dall’occupazione da parte del G20 della posizione che, all’interno del sistema finanziario, era, prima della crisi, detenuta dai paesi del G7.
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Per ciò che concerne il profilo funzionale di queste istituzioni, segnatamente con riferimento alla pianificazione, all’elaborazione ed all’implementazione delle regole finanziarie internazionali, le modificazioni e le innovazioni hanno interessato più che altro le tipologie di organismi globali competenti per l’esercizio di tali attività nonché gli strumenti che questi hanno a disposizione per promuovere ed accelerare l’effettiva diffusione di un international standard regime su scala mondiale. Nihil sub sole novi, invece, per ciò che concerne l’iter procedurale inerente alla costruzione di un quadro regolativo multilaterale, che continua ad articolarsi in una pluralità di fasi coinvolgendo una molteplicità di organizzazioni internazionali e di regolatori globali e nazionali, con conseguente rallentamento nella concreta attuazione delle regole standardizzate. Più precisamente, oggi il procedimento di predisposizione della regolamentazione multilaterale in materia finanziaria si articola in quattro fasi, per ciascuna delle quali sono state individuate in modo specifico le organizzazioni ed regolatori chiamati allo svolgimento di compiti determinati. Si parte (fase 1) dagli accordi di regolamentazione finanziaria internazionali promossi dai paesi del G20 23; istituzione quest’ultima che, dopo la crisi del 2007, ha assunto un ruolo pilota nella promozione delle riforme finanziarie secondo un ben preciso piano di azione diretto al rafforzamento del sistema finanziario dal medesimo redatto. Per conseguire questo obiettivo, il G20 ha ritenuto opportuno rimpiazzare il FSF con un potenziato FSB, il quale, nel processo di preparazione delle regole internazionali, assume il compito precipuo di effettuare, insieme all’IMF ed alla World Bank (WB), analisi tematiche 24 sugli aspetti e sulle caratteristiche rilevanti di ciascun segmento (bancario, mobiliare ed assicurativo) del mercato finanziario (fase 2). Sulla base delle valutazioni che emergono dalle analisi tematiche, gli standars setters propri di ciascun settore 25 elaborano i principi internazionali generalmente accettati come requisiti minimi per le corrette
23. Prima della crisi finanziaria globale era il G7 a promuovere le iniziative in materia finanziaria. 24. Attraverso le peer reviews delle regole finanziarie dei singoli paesi e le analisi dei sistemi finanziari dei singoli Stati effettuati dall’IMF e dalla WB con i FSAPs (Financial Stability Assessment Program). Per maggiori dettagli sul contenuto di tali strumenti, rinviamo alla trattazione successiva. 25. Tra gli standards setting bodies i più importanti sono: il BCBS per il settore bancario, lo IOSCO per il settore mobiliare, lo IAIS per il comparto assicurativo, lo IADI per l’assicurazione dei depositi, lo IASB ed il FASB per la predisposizione dei principi contabili.
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Grafico n. 6 – Il ruolo degli organismi internazionali e nazionali nel processo di regolamentazione globale.
pratiche finanziarie (fase 3) 26. Infine (fase 4), intervengono i regolatori nazionali con l’implementazione e l’enforcement degli standards globali sul piano nazionale. Il grafico n. 6 illustra, in modo schematico, le organizzazioni internazionali che, in seguito all’opera di riordino dell’assetto regolativo finanziario, attualmente sono coinvolte nella varie fasi in cui si articola il processo di regolamentazione globale nonché le competenze spettanti a ciascuna di queste. Da quanto finora riportato in merito alle riforme attuate nel sistema regolativo finanziario internazionale risulta evidente che, non ostante i miglioramenti da esse derivanti sotto il profilo strutturale e funzionale, molte delle debolezze intrinseche alla sua organizzazione permangono. Tra queste in particolare ricordiamo: l’eccessiva complessità, dovuta anche alla numerosità sicuramente ridondante, del network di istituzioni deputate alla progettazione degli standards internazionali intersecantisi a diversi livelli e posizioni; le attività settoriali di queste organizzazioni e, perciò, la parziale conoscenza dei problemi finanziari da parte di ciascuna di esse; la difficoltà di cooperazione e collaborazione tra le stesse; l’assenza di una reale autorità di coordinamento internazionale; la limitata responsabilità delle istituzioni internazionali; la scarsa autorità ed il difetto di legittimità delle stesse; i deboli legami tra fautori delle politiche macroeconomiche (ministri delle finanze e banche centrali), da una parte, e regolatori, dall’altra.
26. Il FSB ha individuato “12 Key Standards for Sound Financial System” (Compendium), internazionalmente accettati come rilevanti per il corretto, stabile e sano funzionamento dei sistemi finanziari. Questi sono suddivisi in tre aree (Policy Transparency, Financial Regulation and Supervision, Market Integrity) e si riserva agli stessi la priorità nell’implementazione tenuto conto delle circostanze concrete di ciascun paese. Dal 2011 sono inseriti tra gli standards di prioritaria implementazione anche i Core Principles for Effective Deposit Insurance System, elaborati dallo IADI e dal BCBS.
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Di fatto queste carenze derivano da un difetto di fondo del sistema di regolamentazione finanziaria globale: questo non rappresenta altro che un difficile e quanto mai confuso compromesso tra la necessità dei mercati finanziari di un coordinamento su scala mondiale ed il protezionismo dei governi nazionali, preoccupati di perdere il controllo dei propri sistemi finanziari, considerati dagli stessi essenziali per il corretto funzionamento delle economie domestiche 27. È da ciò che discende il suo vero punto debole, ovvero l’assenza di un qualsiasi tipo di gerarchia tra le organizzazioni che la compongono ovvero di un organismo centrale di qualsivoglia natura che abbia l’autorità e la legittimità a richiedere alle altre istituzioni di agire in qualunque momento. Anche il FSB, al quale, come vedremo, è stata riconosciuta una posizione centrale nella rinnovata ossatura della regolamentazione e della supervisione finanziaria globale, utilizza – e solo questo è legittimato a fare! – nei confronti dei regolatori nazionali e soprattutto degli standards setting bodies che sono i suoi principali interlocutori esclusivamente la moral suasion, non essendo allo stesso riconosciuto alcun potere di imposizione 28. Ciò detto, appare affatto evidente che l’architettura regolativa internazionale in campo finanziario debba essere ulteriormente migliorata, sia sotto il profilo organizzativo sia sotto l’aspetto funzionale, a livello nazionale, regionale e globale. Al fine di individuare la direzione del suo futuribile cambiamento è necessario, come autorevolmente suggerito 29, tentare di dare una risposta a quattro questioni preliminari: a) se in campo di regolamentazione finanziaria internazionale è fattibile la costituzione di un’autorità mondiale unica sul modello della World Trade Organization (WTO) e perché finora non è stata attuata una soluzione di questo tipo; b) se e quali sono stati gli errori compiuti a livello di collaborazione internazionale e come porvi rimedio; c) se i cambiamenti decisi e promossi dai paesi del G20 produrranno effettivamente i risultati auspicati; d) quali dovranno essere le modifiche a livello regionale e locale perché la regolamentazione finanziaria globale sia implementata e funzioni in ambito nazionale.
27.
Come sottolineato da Rottier and Véron (Not All Financial Regulation is Global, in Peterson Institute for International Economics Policy Brief, n. 10-22, settembre2010, p. 1, disponibile su www.iie.com): “All politics is local, […], but all economics is global, and regulation is one area where these two realities meet in conflict. This is particularly true for financial regulation in the wake of the unprecedented financial crisis.” 28. Cfr. Presti, Mezzi e fini nella nuova regolazione finanziaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, p. 226. 29. Da Davies, Global Financial Regulation after the Credit Crisis, in Global Policy, London School of Economics and Political Science and John Wiley &Sons Ltd, 2010, p. 185 ss.
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4.2. La mancanza di un Single Global Financial Regulator. Cominciamo dalla prima questione da chiarire al fine di prospettare modificazioni fattibili nel sistema di supervisione finanziaria internazionale. Per sciogliere ragionevolmente ogni dubbio in merito alla potenziale e realizzabile – in relazioni alla congiuntura attuale – creazione di un’unica autorità mondiale di regolamentazione finanziaria occorre partire dall’individuazione delle ragioni per cui fino ad ora non si è provveduto alla sua costituzione e soprattutto chiedersi se queste ragioni permarranno in futuro o potranno essere realmente rimosse. Anche nei giorni più bui della crisi nell’autunno del 2008, mentre i capi di governo lamentavano la mancanza di un’effettiva ed efficace supervisione dei mercati finanziari, nessuno tra essi ha osato proporre la soluzione prospettata, forse ragionevolmente, da numerosi economisti (soprattutto dopo la crisi asiatica del 1998), secondo cui “[…] for efficient regulation the domain of the regulator should be the same as the domain of the market that is regulated” 30. In altri termini, nessuno tra essi è giunto nemmeno vagamente a vagliare la possibilità di istituire un’unica autorità sopranazionale di regolazione con il compito di predisporre gli standards finanziari ed il potere di imporne l’implementazione da parte di tutti i paesi e le giurisdizioni collegati a livello globale 31, compresi i
30. Così ritiene Eatwell, The challenges Facing International Financial Regulation, presentato alla Western Economic Association, luglio 2001, p. 1, disponibile su www.financialpolicy.org. L’Autore enfatizza la necessità di costituzione di una World Financial Autority già all’indomani della crisi finanziaria del 1998 causata dal crollo delle economie asiatiche del 1997. Per approfondimenti si rinvia a Eatwell and Taylor, Global Finance at Risk: the Case for International Regulation, New York, 2000. Anche dopo la più recente crisi internazionale, molti autori in Eichengreen and Baldwin (eds.), What G20 Leaders Must Do to Stabilise our Economy and Fix the Financial System, Centre for Economic Policy Research, Londra, 2008, disponibile su www.voxeu.org., hanno proposto la costituzione di un unico regolatore globale almeno per le grandi istituzioni con un alto rapporto di indebitamento e per le banche con significative attività cross-border. Dal lavoro sviluppato da Eatwell e Taylor è scaturita un’accesa discussione tra gli accademici che, come vedremo nel corso dell’indagine, ha portato molti a sostenere ed avvalorare tesi contrarie alla realizzazione di un modello regolativo internazionale basato su una World Financial Authority. 31.
La parte del sistema finanziario esente da connessioni internazionali potrebbe rimanere regolata a livello nazionale.
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centri offshore; un regolatore finanziario globale in grado come tale di produrre una regolamentazione finanziaria più conforme e coerente ai mercati internazionali, idonea, quindi, ad evitare il ripetersi di crisi finanziarie come quella che stiamo attraversando 32. Una ragione parziale per cui in campo finanziario la crisi non ha condotto a tale esito può essere rintracciata nel fatto che, anche dopo le riforme conseguenti al dissesto globale, nessuna tra le esistenti organizzazioni internazionali è, per ragioni differenti, ancora all’altezza di assumere la posizione e di esercitare le funzioni di autorità finanziaria mondiale. Ciò vale innanzitutto per l’IMF e per la Banca Mondiale (WB) per una serie di motivi. Innanzitutto, nessuna delle due organizzazioni internazionali citate è un regolatore finanziario per ciò che concerne la fissazione dei requisiti di capitale per le banche, delle pratiche di scambio, dei requisiti di solvibilità per le assicurazioni o degli standards contabili. In secondo luogo, le stesse assumono la veste di supervisori con il compito di controllare l’applicazione domestica degli standards internazionali (in particolare l’IMF) e di monitorare fino a che punto le regolamentazioni dei diversi paesi sono in linea con i medesimi, ma non hanno alcuna legittimità a sanzionare coloro che non si conformino a tali principi. D’altro canto, nemmeno tra gli standards setters esiste un organismo che potrebbe assumere il ruolo di global single regulator, in primis perché ciascuno di essi ha una competenza regolativa settoriale e, quindi, una visione parziale del mercato finanziario globale. A ciò si aggiunge la mancanza di legittimità e di autorità politica che dovrebbe essere connaturata alla veste di regolatore universale: il BCBS, lo IOSCO o altri regolatori internazionali operano sulla base del raggiungimento del consenso tra i propri membri, che si impegnano a conformarsi agli standards multilaterali esclusivamente su base volontaria. Lo stesso discorso può essere fatto con riferimento al FSB. La riforma dell’ex FSF promossa dal G20 di Londra ha rafforzato la posizione del nuovo FSB all’interno dell’architrave regolativa e di supervisione finanziaria globale, segnatamente mediante tre modifiche di tipo strutturale e funzionale. Ci riferiamo innanzitutto, all’ampliamento della sua membership – dall’iniziale composizione limitata al G7 – al G20, alla Spagna
32. Per l’area del commercio di prodotti e servizi, invece, i governanti hanno concluso che i loro interessi collettivi sarebbero stati meglio serviti dalla concessione di elementi della propria sovranità ad un organismo internazionale, la World Trade Organization.
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ed alla Commissione Europea 33 che, in uno con la fissazione della sua responsabilità formale verso il G20, dovrebbe, se non risolvere, quantomeno indirizzare alcuni dei suoi precedenti problemi di legittimità, attraverso: una maggiore focalizzazione su standards internazionali basati su principi generali piuttosto che su regole di dettaglio, il rafforzamento della voice dei membri dei paesi emergenti ed in via di sviluppo all’interno della sua organizzazione, il tentativo di dialogare e coinvolgere anche gli stati non membri. In secondo luogo, il G20 ha assegnato al FSB nuovi e più efficaci strumenti volti ad incoraggiare la compliance con gli standards finanziari internazionali quali: il vincolo per i propri membri di regolari (ogni cinque anni) Financial Sector Assessment Programs (FSAPs) 34, di pubblicare le valutazioni effettuate congiuntamente dall’IMF e dalla WB attraverso i Reports on the Observance of Standards and Codes (ROSCs) 35 e di implementare i principi finanziari internazionali; il nuovo procedimento delle peer reviews per i paesi che ne fanno parte 36 e; nuovi meccanismi volti a promuovere l’aderenza agli standards internazionali e la cooperazione dei paesi non membri. Infine, la capacità del FSB di affrontare problemi macroprudenziali è stata poten-
33. Più precisamente il FSB oggi comprende: tutti i paesi del G20, Olanda, Singapore, Svizzera e Spagna, tutti gli international standards setters e le maggiori international financial institutions (Bank for International Settlements, European Central Bank, European Commission, International Monetary Fund, Organization for Economic Coordination and Development, The World Bank). 34. Il FSAP è un documento redatto per ciascun paese congiuntamente dall’IMF e dalla WB e consiste in una valutazione, basata su un’approfondita analisi, dei relativi sistemi finanziari. Le valutazioni nel FSAP includono due componenti: una valutazione della stabilità finanziaria, di competenza del Fondo, ed una valutazione dello sviluppo finanziario, di cui è responsabile la WB. Il FSAP comprende altresì una valutazione dettagliata dell’Osservanza dei codici e degli standards rilevanti per il settore finanziario. L’obiettivo delle peer reviews del FSB è quello di esaminare i passi fatti o pianificati dalle autorità nazionali per indirizzare le raccomandazioni contenute nel FSAP dell’IMF e WB concernenti la regolamentazione e la supervisione finanziaria nonché le infrastrutture istituzionali e di mercato. A differenza del FSAP, una revisione tra pari non analizza la struttura del sistema finanziario o le policies di un paese né offre una valutazione delle sue vulnerabilità congiunturali o della sua osservanza degli standards finanziari internazionali. 35. I ROSCs sono valutazioni del grado di implementazione da parte di ogni singolo paese dei principi internazionali. Per tale valutazione l’IMF e WB fanno riferimento alle 12 aree di standards finanziari globali individuate dal FSB. 36. Lo strumento delle peer reviews per la valutazione dell’aderenza agli standards internazionali attribuisce in via speculare al FSB il potere di intraprendere azioni e di esercitare peer pressures se l’implementazione è carente.
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ziata dalla recente chiarificazione della responsabilità degli standards setters verso il medesimo (attraverso il potere del FSB di coordinare la loro attività e l’impegno di questi ultimi di riferire periodicamente al FSB in merito al proprio lavoro), dal riconoscimento al FSB del potere di definire esso stesso standards a livello internazionale diretti ad attenuare la prociclicità di molte delle attuali norme ed a regolamentare i problemi che pongono le istituzioni ad elevato rischio sistemico (SIFIs), dalla maggiore attenzione prestata al c.d. rischio di private sector capture dei regolatori finanziari. Le riforme descritte che, tra l’altro, portano con sé ulteriori sfide e problemi di organizzazione, di governance e di responsabilità da indirizzare e risolvere 37, sono state condotte certamente con il fine di rafforzare il ruolo del FSB nella costruzione di un “international standards regime” e nel miglioramento della compliance con gli standards finanziari internazionali 38 in risposta alla recente crisi finanziaria globale, ma sicuramente non allo scopo di creare un’autorità finanziaria mondiale unica, che assuma la posizione di “quarto pilastro” all’interno della governance economica globale accanto all’IMF, alla WB e al WTO. Non ostante i miglioramenti della sua struttura e del suo mandato, permangono, infatti, per il FSB significativi difetti di legittimità, di autorità e di capacità. Sotto il primo profilo, quello della legittimità, la sua membership non è certamente diventata universale come per le altre tre istituzioni internazionali citate: la sua composizione rimane limitata ad uno strano mix di banchieri centrali, ministri delle finanze, regolatori e supervisori di un ancora relativamente ristretto gruppo di paesi, il che
37.
Per un’approfondita analisi dei problemi che probabilmente scaturiranno dai cambiamenti descritti nonché delle possibili soluzioni ai medesimi, si rinvia a Helleiner, The Financial Stability Board and International Standards, in CIGI G20 Papers, n.1, giugno 2010, passim, consultabile sul sito www.cigionline.org.; ID., What role for the New Financial Stability Board? The Politics of International Standards after the Crisis, in Global Policy, vol. 1, n. 3, ottobre 2010, p. 286 ss. 38. Al momento della creazione del FSF, i principali strumenti diretti ad incoraggiare l’implementazione degli standards finanziari internazionali si basavano esclusivamente su un meccanismo di controllo e monitoraggio delegato per il tramite delle valutazioni dei sistemi finanziari nazionali e dei livelli di compliance dei diversi paesi effettuate dall’IMF e dalla WB rispettivamente attraverso i FSAPs ed i ROSCs. La mancanza di misure sanzionatorie nei confronti delle giurisdizioni non-complying ha determinato il fallimento nel raggiungimento dell’obiettivo. Da ciò è scaturita la necessità di attribuire al FSB i quattro meccanismi di cui abbiamo detto volti ad incentivare ex ante l’implementazione del quadro regolativo internazionale.
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impedisce che le sue raccomandazioni in merito all’implementazione degli standards finanziari internazionali siano accettate su scala mondiale. Per ciò che concerne la sua autorità, abbiamo non a caso parlato di “raccomandazioni” del FSB, in quanto a tale organizzazione non è stato riconosciuto alcun potere di imporre l’implementazione degli standards né alcun potere di comminare, ai suoi membri né tanto meno ai non membri, sanzioni nel caso di mancata compliance 39. D’altro canto, anche l’impegno dei suoi componenti di implementare i principi internazionali si traduce, di fatto, in un debole indurimento della natura di “soft law” di questi ultimi, in quanto ai membri del FSB non si associa alcuna obbligazione di tipo statutario 40. Infine, non ostante il riconoscimento di compiti macroregolamentari di prevenzione delle crisi finanziarie, la sua capacità risulta comunque limitata dalla sua natura di organizzazione informale (la sua costituzione non è stata ratificata da alcuna legge nazionale né da alcun trattato internazionale) con conseguente mancanza di un qualsivoglia potere formale (esso non è un legislatore). Ed anche nei confronti degli international standards setters, il potere del FSB di condurre revisioni strategiche del loro lavoro e di coordinarne l’attività e lo speculare dovere degli organismi di regolamentazione internazionale di riferire periodicamente al medesimo, non si traducono in poteri ed obblighi formali in quanto, come chiarito più volte dal G20 e sottolineato anche nello statuto del FSB, “ […] This process should not undermine the independence of the standard setting process but strengthen support for strong standard setting by providing a broader accountability frame work.”
39.
A ciò si aggiunga che nemmeno l’area del vincolo di implementazione è stata circoscritta formalmente. Al momento della creazione del FSB, i Leaders del G20 hanno chiarito che la stessa debba comprendere quantomeno il Compendium dei 12 key standards individuato dallo stesso FSB. 40. In proposito il nuovo statuto del FSB, revisionato da ultimo nel 2012 (si veda FSB, Report to the G20 Los Cabos Summit on Strengthening FSB Capacity, Resources and Governance, 18-19 giugno 2012, p. 8, consultabile sul sito www.financialstabilityboard.org), per i paesi membri dell’organismo prevede quanto segue: “[…] Member jurisdictions commit to: a) pursue the maintenance of financial stability; b) maintain the openness and transparency of the financial sector; c) implement international financial standards; d)agree to undergo periodic peer reviews, using among other evidence IMF/ World Bank public Financial Sector Assessment Program reports; e) take part in implementation monitoring of agreed commitments, standards and policy recommendations. The FSB will periodically report on the degree of adherence by the Members to these commitments and the evaluation process.”
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Ciò detto, forse, come da taluni sostenuto 41, la sola organizzazione internazionale potenzialmente candidata a rivestire la posizione di global financial regulator sarebbe rintracciabile nella Bank for International Settlements (BIS), attesa la presenza delle seguenti peculiarità: il suo coinvolgimento nella regolamentazione del rischio sistemico nei mercati finanziari, l’alta qualità delle sue analisi ed i suoi stretti legami con le banche centrali e le autorità monetarie (che ne sono membri) 42 nonché gli organismi di regolamentazione (alcuni dei quali – BCBS, CGFS, CPSS – costituiscono comitati permanenti all’interno della medesima ed altri – FSB, IAIS, IADI – hanno presso la sua sede il proprio segretariato). Tuttavia, l’assunzione di questa veste richiederebbe la realizzazione di due precondizioni analoghe a quelle evidenziate per il FSB: l’universalità della sua membership, con un’adeguata rappresentanza nel suo board, management e staff dei paesi in via di sviluppo in relazione al loro peso nell’economia mondiale, onde consentire alla BIS di acquisire una reale credibilità multilaterale; il riconoscimento in capo alla medesima di una maggiore autorità nell’imporre i principi internazionali anche nei confronti dei paesi che non ne sono membri. Al di là di queste considerazioni in merito all’esistenza o meno nell’ambito dell’attuale sistema finanziario globale di un’organizzazione in grado di assumere e di svolgere efficacemente il ruolo di regolatore mondiale unico, almeno per il momento un modello regolativo di questo tipo in campo finanziario non sembra fattibile (né, per molti, desiderabile) 43, perché sostanzialmente continua a sussistere la resistenza dei governi nazionali ad accettare di cedere parte della propria autonomia
41.
Cfr. Griffith-Jones, How To Create Better Financial Regulation & Institutions, in Friedrich Ebert Stiftung Briefing Paper, n. 2, marzo 2009, p. 7, consultabile al sito www. fse.de. Nello statuto della BIS, disponibile sul sito www.bis.org, si legge “The mission of the Bank for International Settlements (BIS) is to serve central banks in their pursuit of monetary and financial stability, to foster international cooperation in those areas and to act as a bank for central banks. In broad outline, the BIS pursues its mission by: promoting discussion and facilitating collaboration among central banks; supporting dialogue with other authorities that are responsible for promoting financial stability; conducting research on policy issues confronting central banks and financial supervisory authorities; acting as a prime counterparty for central banks in their financial transactions; and serving as an agent or trustee in connection with international financial operations.” 42 Provenienti da 54 paesi. 43. Sulle critiche in merito alla creazione di una World Financial Authority e per i riferimenti bibliografici, rinviamo al paragrafo finale di questo lavoro.
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di controllo sui sistemi finanziari domestici ad organizzazioni in cui gli stessi molto spesso hanno solo una partecipazione minoritaria. La finanza è considerata un settore “speciale”, forse perché quando le cose vanno male, come è accaduto negli ultimi anni, i costi dei salvataggi finanziari che ricadono sui singoli governi ed i loro contribuenti possono essere molto elevati, rimanendo le misure a sostegno della solvibilità una faccenda essenzialmente interna a ciascuno Stato 44.
4.3. Gli errori nella collaborazione all’interno del network di organizzazioni internazionali. La seconda questione da affrontare per prospettare ulteriori modifiche migliorative della struttura di regolamentazione finanziaria globale attiene all’area della cooperazione e della collaborazione internazionale. Ci si chiede se sotto questo profilo la crisi abbia fatto emergere lacune di natura informativa che vadano necessariamente fronteggiate. Il più rilevate problema informativo prima e durante la crisi è stato causato dalla mancanza di interfaccia tra coloro che erano a conoscenza e si preoccupavano delle condizioni dell’economia globale, dell’emergenza degli squilibri finanziari, dell’evoluzione dei prezzi dei beni e dei costi del rischio e coloro che erano deputati alla fissazione del quadro regolamentare di base nell’ambito del quale alle imprese era richiesto di operare. Così, per esempio, non ostante gli economisti all’interno della BIS evidenziassero la situazione di emergenza dovuta alla bolla dei prezzi delle attività del mercato immobiliare e mobiliare, in molti paesi questo monito non è stato preso in considerazione dalle autorità nazionali di regolamentazione in sede di determinazione dei requisiti di capitale. Pertanto, da questa angolazione, il miglioramento auspicabile consiste nella creazione un legame ben più forte tra ministri delle finanze e banche centrali nel loro ruolo di policy macroeconomica, da una parte, ed organizzazioni che definiscono le regole finanziarie, dall’altra, con l’intento di assicurare che in futuro la regolamentazione possa essere più sensibile ai cambiamenti delle condizioni macroeconomiche e di mercato 45.
44
Cfr. Davies, Global Financial Regulation, cit., p. 187. Per esempio, sempre con riguardo alla regolamentazione sul capitale, è sbagliato assumere che l’ammontare prefissato di quest’ultimo all’interno del sistema sia valido e corretto in ogni tempo ed in ogni circostanza. Occorrerebbe, invece, assicurare che 45.
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4.4. Gli effetti concreti delle riforme del G20. Per ciò che concerne la terza questione utile per la previsione del futuro assetto regolativo globale – ovvero se effettivamente le ricette di riforma dettate dal G20 avranno gli effetti desiderati – la risposta non può che essere prudente in quanto è difficile da dare in via preventiva. Con riferimento all’assetto della supervisione finanziaria globale, il cambiamento più significativo tra quelli promossi dai paesi del G20 è rappresentato dalla ridenominazione del FSF in FSB a sottolineare la ben più significativa riforma della sua struttura e del suo mandato. Sotto il profilo strutturale, è stata ampliata la sua membership a tutti i paesi del G20, all’Unione Europea ed alla Spagna, con conseguente incremento non solo della sua legittimità ma anche della sua efficienza. Inoltre, sono entrati a far parte della sua compagine sociale anche il BCBS, lo IAIS, lo IOSCO e altri standars setters nonché i paesi BRICs. Sotto il profilo della governance, il miglioramento è avvenuto attraverso la creazione al suo interno di una serie di comitati e gruppi di lavoro per velocizzarne l’esercizio delle funzioni 46. Per ciò che concerne il suo mandato, questo è stato esteso alla regolamentazione ed alla supervisione di tutte le istituzioni, gli strumenti ed i mercati finanziari sistemicamente importanti, inclusi gli hedge funds e le agenzie di rating 47. A ciò si aggiunga, sotto l’aspetto della vigilanza, la richiesta da parte del G20 al FSB di collaborare con l’IMF nello svolgimento di regolari Early Warning Exercises (EWEs) finalizzati alla valutazione
le regole sul capitale non permettano alle imprese di trovare scappatoie per aggirare il sistema, come, per esempio, la creazione di poste fuori bilancio che permettano di evadere il rispetto dei coefficienti patrimoniali. 46. In seguito al vertice di Londra del G20, con riferimento alla riforma del FSB, si è proceduto alla costituzione di strutture interne di governance rappresentate da un Comitato guida e da tre Comitati permanenti rispettivamente per la valutazione delle vulnerabilità, per la cooperazione nel campo della regolazione e della supervisione e per l’implementazione degli standards. Inoltre, è stato istituito un Gruppo di lavoro per la gestione delle crisi transfrontaliere ed un Gruppo di esperti sulle giurisdizioni non collaborative. 47. Come si legge nel nuovo statuto del FSB (consultabile al sito www.financialstabilityboard.org), approvato dai paesi del G20, il FSB ha il compito di: monitorare gli andamenti dei mercati ed individuarne le implicazioni per la regolamentazione; assistere i paesi nell’attuazione degli standards regolamentari; valutare l’adeguatezza del lavoro svolto dagli standards setters; rafforzare il ruolo dei collegi di supervisori sulle istituzioni finanziarie transfrontaliere; elaborare piani di emergenza per le crisi cross-border di rilievo sistemico. Viene, inoltre, rafforzata la collaborazione con l’IMF per la conduzione di esercizi di early warning e per la definizione di azioni di policy per contrastare le fonti di vulnerabilità.
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dei rischi a bassa probabilità ma ad elevato impatto sull’economia globale ed all’individuazione delle policies dirette ad attenuarne gli effetti. Infine, come già detto, al FSB è stata riconosciuta una maggiore autorità politica ed una maggiore legittimità in modo da assicurare, da una parte, azioni più reattive dei regolatori internazionali e, dall’altra, un’implementazione più tempestiva degli standards finanziari a livello nazionale. Per ciò che concerne gli standards setters più rilevanti, anche questi, sulla base delle raccomandazioni del G20, hanno prontamente revisionato la propria membership: nell’aprile del 2009, il Thecnical Committee di IOSCO ha incluso tra i suoi membri i paesi BRICs; a partire da giugno 2009, il BCBS ha invitato tutti i paesi del G20 ad esserne membri; nel giugno 2009, anche il CPSS ha esteso la sua membership ai BRICs; infine, la governance dello IASB è stata riformata in modo da garantire una più significativa rappresentanza al suo interno dei paesi in via di sviluppo. Certamente questi cambiamenti sono positivi: soprattutto perché gli stessi includono un numero più ampio di Stati nella macchina di pianificazione degli standards finanziari internazionali con conseguente maggiore probabilità di implementazione di questi su scala mondiale. Tuttavia, al momento appare illusorio aspettarsi la completa conformità agli standards globali di paesi, come Cina e India, che non sono stati in nessun modo coinvolti nel relativo sviluppo. Quindi, non ostante ci siano stati cambiamenti costruttivi, rimane ancora molto scetticismo sui loro concreti effetti nell’immediato futuro. Questo scetticismo deriva anche dall’esperienza degli ultimi due decenni che evidenzia una serie di dati di fatto che potrebbero incidere negativamente sui risultati delle modifiche, quali: il coinvolgimento intermittente e non costante dei governi nella regolamentazione finanziaria; la riluttanza delle istituzioni internazionali, come il BCBS e lo IOSCO, ad accettare direttive, o anche solo raccomandazioni, dal FSB; la tendenza dei governatori delle banche centrali a considerare la BIS a Basilea solo come un forum ed il loro impegno solo episodico e sporadico nella predisposizione dei dettagli della supervisione bancaria, perché attenti in via prioritaria alla politica monetaria. Tutto ciò ci porta a concludere che, se le riforme intraprese su iniziativa del G20 avranno qualche conseguenza significativa, ciò dipenderà da come il FSB funzionerà concretamente, il che a sua volta sarà influenzato dal comportamento degli stessi ministri delle finanze e capi di governo del G20 che sono al vertice della piramide finanziaria globale. In altre parole, occorre, ai fini di ulteriori miglioramenti nel funzionamento dell’assetto finanziario globale, sperare in un più ampio e consistente interesse nella regolamentazione da parte dei ministri
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delle finanze dei paesi che ospitano mercati finanziari importanti, in modo tale da investire il FSB di maggiori poteri di disciplina sul resto della struttura e di assicurare che siano poste in primo piano considerazioni di tipo macroeconomico. L’intensità con cui un qualsivoglia meccanismo di tipo macroprudenziale verrà inserito nelle strutture di regolamentazione regionali e locali costituirà un significativo test di valutazione della capacità del FSB e di qualunque altro gruppo di regolatori globali di concepire standards internazionali appropriati, efficaci e concretamente funzionati. Quest’ultima considerazione ci conduce direttamente all’ultima questione da affrontare nell’analisi delle riforme da prospettare con riferimento all’architettura finanziaria internazionale. 4.5. Le modifiche auspicabili nelle strutture di regolamentazione nazionali. La quarta questione da risolvere concerne il tipo di modifiche regionali e locali da auspicare affinché la regolamentazione finanziaria globale funzioni ed operi a livello nazionale 48. Al fine di assicurare che la visione dei singoli Stati sia in linea con quella delle istituzioni internazionali sarà necessario una robusta rete di strutture di regolamentazione e di supervisione regionali e nazionali. Chiaramente, non esiste un modello valido in assoluto: esso è variabile in relazione al contesto di riferimento. Così, queste strutture di regolazione potrebbero replicare il modello del FSB articolato in comitati interni e di consultazione regionali 49 (verosimilmente in Asia), ovvero stabilire una qualche forma di autorità di regolamentazione centrale (auspicabilmente in Europa), o anche replicare la struttura organizzativa di IOSCO che prevede un sistema di comitati regionali di regolatori di titoli, o ancora aderire ad un modello di supervisione finanziaria basato sulla presenza due agenzie, una incaricata della vigilanza prudenziale di tipo macro e l’altra competente per la vigilanza microprudenziale, con il coinvolgimento delle banche centrali nazionali quantomeno a livello
48. Sull’argomento si veda l’approfondito studio di Llewellyn, Institutional Structure of Financial Regulation and Supervision: the Basic Issues, paper presentato al seminario della World Bank “Aligning Supervisory Structures with Country Needs”, Washington, 6 e 7 giugno 2006, consultabile al sito www.worldbank.org. 49. Ricordiamo che nel novembre del 2010, anche il FSB ha stabilito sei gruppi di consulenza regionali per le Americhe, l’Asia, il Commonwealth degli Stati Indipendenti, l’Europa, il Centro-Est e Nord Africa, l’Africa Sub-Sahariana.
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macro 50. Invero, attualmente il sistema adottato da IOSCO si è dimostrato il più efficace ai fini dell’implementazione regionale e nazionale degli standards internazionali in materia mobiliare, per cui sarebbe auspicabile la sua riproduzione, oltre che in ambito locale e regionale, altresì a livello internazionale da parte delle organizzazioni di supervisione del settore bancario ed assicurativo o addirittura da parte delle banche centrali. 4.6. Riforme in prospettiva. Rimanendo ancora delle incognite in merito alle risposte alle quattro questioni esaminate, riteniamo in conclusione che, non ostante le riforme promosse dai leaders del G20, ad oggi il sistema di regolamentazione internazionale non abbia ancora raggiunto un rassicurante punto fermo sotto il profilo della sua organizzazione. L’incertezza sul punto risulta accentuata dal fatto che in sede di riforma sono state tralasciati dal G20 ulteriori e rilevanti problemi di natura politica, per esempio: fino a che punto le singole nazioni sono preparate a cedere parte della propria autonomia regolativa, mettendo in comune la propria sovranità, allo scopo di raggiungere una regolamentazione finanziaria più robusta e proteggersi contro fenomeni di instabilità su scala globale; il che è come chiedersi come sia possibile conciliare i chiari vantaggi di regole comuni con la responsabilità nazionale per tutte le decisioni che coinvolgono o potrebbero coinvolgere il sostegno dei contribuenti 51. Nell’attesa che a livello internazionale si affrontino anche questi dilemmi di ordine politico e data, almeno per il momento, l’improponibilità di un modello regolativo del mercato finanziario basato su un’unica autorità mondiale, per ora non si può fare altro che prospettare e sperare in ulteriori miglioramenti nel funzionamento dell’attuale struttura regolativa finanziaria globale. Le riforme proponibili riguardano in
50.
Si attiene in parte (in quanto le autorità coinvolte in ciascun tipo di vigilanza sono molteplici e non solo due) a tale modello la riforma del sistema di vigilanza finanziaria nell’Unione Europea. Sulla validità di tale modello nel contribuire a prevenire e fronteggiare future crisi finanziarie globali, si rinvia allo studio di Masciandaro, Vega Pansini, Quintyn, The Economic Crisis, cit., p. 18 ss. 51. Come ha puntualmente evidenziato Mervyn King, il Governatore della Banca d’Inghilterra, “Global financial firms are global in life and National in death”: in vita, questi gruppi operano liberamente su basi globali, ma il loro collasso è essenzialmente una faccenda nazionale.
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primis il perfezionamento degli accordi multilaterali di collaborazione tra autorità finanziarie nazionali e globali (con riferimento soprattutto all’istituzione di collegi di supervisori per tutte le grandi istituzioni finanziarie operative in ambito internazionale). A tal fine, data la scarsa efficacia del coordinamento internazionale effettuato su base volontaria, bisognerebbe puntare sul rafforzamento del ruolo del FSB di autorità di coordinamento a livello internazionale e nazionale, consentendo a quest’ultimo di sperimentare e proporre nuove e pioneristiche forme di cooperazione internazionale 52. Sarebbe, inoltre, opportuno potenziare la sua leadership all’interno della struttura degli organismi finanziari internazionali attraverso il riconoscimento in capo al medesimo di una maggiore legittimità nel richiedere sia la tempestiva elaborazione degli standards finanziari da parte dei regolatori internazionali competenti sia la loro implementazione a livello nazionale, con conseguente notevole riduzione dei tempi del processo di formazione e di implementazione della regolamentazione globale. L’aumento di legittimità del FSB potrebbe scaturire dalla previsione nello statuto di veri e propri obblighi in tal senso per gli Stati e gli standards setting bodies che ne fanno parte. Analogamente ed allo stesso fine, occorrerebbe incrementare la trasparenza delle valutazioni internazionali sulla solidità dei sistemi finanziari di ciascun paese e sull’operato delle autorità nazionali con riguardo all’implementazione degli standards globali, effettuate sulla base, rispettivamente, dei FSAPs dell’IMF e della WB e delle peer reviews (revisioni tra pari) del FSB, magari anche in questo caso trasformando gli impegni attualmente assunti in tale direzione dai paesi membri del FSB in obblighi statutari. Allo stesso tempo, bisognerebbe attuare interventi diretti a fortificare non solo il FSB, ma tutti gli organismi che fanno parte dell’architrave finanziaria globale. In particolare, sarebbe opportuno: a) introdurre sistemi di governance trasparenti che stabiliscano in maniera inequivocabile i loro compiti, individuino in modo appropriato i loro stakeholders e rendano l’organismo internazionale responsabile nei confronti di questi ultimi; b) assicurare adeguate e stabili risorse umane e finanziarie, evitando meccanismi di finanziamento potenzialmente azionati da interessi particolari che potrebbero compromettere l’indipendenza dell’organo;
52. Bisognerebbe, in particolare, potenziare le modalità di cooperazione tra il FSB e l’IMF al fine di allineare più efficacemente lo svolgimento dei rispettivi mandati che in molti casi risultano sovrapposti. Per maggiori dettagli in proposito, si rinvia a Schinasi and Truman, Reform, cit., p. 45 ss.
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c) garantire un sufficiente accesso all’informativa rilevante, con riferimento alla quale gli impegni formali delle autorità nazionali e regionali appaiono indispensabili e; d) verificare la coerenza tra la loro operatività concreta e gli obiettivi proclamati 53. Infine, sarebbe opportuno procedere con ulteriori interventi di tipo strutturale diretti: innanzitutto, alla semplificazione dell’assetto regolativo e di supervisione finanziaria globale, attraverso l’eliminazione delle istituzioni internazionali ridondanti ed il raggruppamento degli organismi sovrapposti; in secondo luogo, alla razionalizzazione dei sistemi di regolamentazione e di vigilanza dei singoli paesi che risultano troppo diversificati; in terzo luogo, alla razionalizzazione della composizione degli international standards setters, sia in termini di inclusione dei rappresentanti delle economie in via di sviluppo (BRICs, Singapore, Australia) là dove siano assenti e di eliminazione di altri membri (come, per esempio, alcuni paesi dell’Europa nel BCBS) là dove siano ridondanti, sia in termini di una più significativa rappresentanza al loro interno delle diverse parti del mondo, onde accrescerne la legittimità nel richiedere che gli accordi internazionali sugli standards, i principi ed i codici siano accettati ed implementati su scala mondiale; infine, alla soluzione di problemi di tipo logistico, come quello di valutare l’opportunità di sta-
53.
Sotto questi profili sono riscontrabili numerose carenze nell’ambito delle istituzioni finanziarie internazionali. Per esempio, con riferimento alla governance: il dibattito attualmente in corso sulla riforma dell’IMF dovrebbe concludersi con una migliore rappresentanza delle economie emergenti per rispecchiare in modo più coerente il mercato globale presente e futuro; lo IASB dovrebbe rendersi più responsabile nei confronti dei propri stakeholders, segnatamente gli investitori che sono i principali utenti dei financial reporting, dovrebbe altresì riformare la propria struttura di finanziamento ed aggiungere le autorità pubbliche dei paesi emergenti a quelle che già lo controllano attraverso il Monitoring Board costituito nel 2009; il BCBS dovrebbe aprire maggiormente le sue riunioni ad osservatori esterni, al di là della comunità composta da banche centrali ed autorità di vigilanza; la BIS e l’IMF dovrebbero garantire formalmente un migliore accesso ai dati nazionali non pubblici. Relativamente ai difetti nello scambio di informazioni tra le agenzie internazionali: lo IASB dovrebbe monitorare meglio l’applicazione degli IFRS in collegamento con le autorità locali; dovrebbe essere migliorata l’informazione sui rischi finanziari e le agenzie di rating dovrebbero essere assoggettate a supervisione pubblica e coordinate strettamente a livello globale per salvaguardare la consistenza internazionale delle metodologie di rating; i governi ed i supervisori dovrebbero assumere un impegno credibile nel fornire un’informativa al pubblico più dettagliata, affidabile e frequente, che sia raggruppata a livello globale dall’IMF e/o dalla BIS e sia resa pubblica nelle forme appropriate. Per approfondimenti in merito alle modifiche in termini di governance interna che si rendono necessarie per l’IMF ed il FSB ai fini di un miglioramento nell’esercizio delle rispettive funzioni si rinvia a Schinasi and Truman, Reform, cit., p. 39 ss.
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bilire una rappresentanza del FSB a Washington onde creare più stretti legami tra la funzione del FSB di valutazione delle vulnerabilità dei paesi ed i FSAPs dell’IMF e della WB, ovvero di procedere alla ricostruzione e al rafforzamento del Joint Forum, rendendolo un braccio operativo del FSB, ovvero di prospettare la co-loction dei regolatori internazionali presso la BIS a Basilea, contribuendo in tal modo a riunire concretamente gli organismi chiave internazionali 54.
5. La regolamentazione finanziaria internazionale: riforme attuate, in corso e in prospettiva. 5.1. Riforme attuate. La crisi finanziaria globale, oltre a dare il via a cambiamenti nell’architettura internazionale di supervisione finanziaria, ha altresì stimolato riforme della regolamentazione finanziaria internazionale volte a garantire che questa sia più adeguata alle crescenti connessioni finanziarie tra paesi e più conforme al nuovo contesto indotto dalla globalizzazione ed integrazione dei mercati. Nel ripensare alla futura regolamentazione del settore finanziario, i paesi del G20 hanno tenuto presente la funzione che quest’ultimo è chiamato a svolgere nei confronti dell’economia reale: il primo si pone nei confronti della seconda in un rapporto di “mezzo a fine”, dovendo far fronte alle esigenze di consumo e di investimento delle famiglie e delle imprese. Quindi, i Governi dovrebbero sì incoraggiare il settore finanziario a creare strumenti finanziari innovativi che supportino la crescita e lo sviluppo in modo sostenibile, ma allo stesso tempo gli stessi dovrebbero servirsi della regolamentazione per limitare il prodursi del rischio sistemico con lo scopo di evitare crisi finanziarie future i cui effetti negativi possano drammaticamente ripercuotersi sull’economia reale. E ciò è tanto più vero in un mercato globalmente integrato che richiede, nei limiti del possibile, regole comuni ed armonizzate a livello internazionale.
54. Attualmente, la BIS ospita i segretariati di un certo numero di organizzazioni indipendenti che non hanno nessun obbligo di informativa nei confronti della BIS e dei suoi membri banche centrali. Si tratta di: FSB, IAIS, IADI. Invece, IOSCO ha il proprio segretariato a Madrid e IASB a Londra.
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Muovendosi in questa ottica, i Leaders del G20 hanno dato impeto ad iniziative di rinnovamento del quadro regolativo finanziario internazionale partendo – come si legge nella Declaration on Strengthening the Financial System, dal seguente principio ispiratore: “[…] all systemically important financial institutions, markets, and instruments should be subject to an appropriate degree of regulation and oversight.” Si raccomanda altresì che la supervisione finanziaria non sia più esercitata solo istituzione per istituzione (supervisione “micro-prudenziale”), ma estenda il suo campo di azione al buon funzionamento del sistema finanziario nel suo complesso (“supervisione “macro-prudenziale” o “sistemica”) 55. Tra le aree oggetto di nuovi standards finanziari o di nuovi accordi le seguenti meritano particolare menzione 56: - il rafforzamento dei requisiti di capitale e di liquidità (includendo un indice i leva finanziaria complessivo), che assicuri che le banche creino riserve supplementari in periodi di congiuntura favorevole al fine di mitigare gli effetti pro-ciclici dei coefficienti patrimoniali 57;
55. Molti autori sottolineano che la regolamentazione esistente prima della crisi fosse carente perché basata su un approccio “microprudenziale”, avendo lo scopo di prevenire i costi del fallimento di singole istituzioni finanziarie. Al contrario, l’approccio “macroprudenziale” cerca di salvaguardare l’equilibrio generale, fissando le regole in relazione non alla singola istituzione ma al sistema finanziario nel suo insieme. Per approfondimenti sul tema e per i riferimenti dottrinali in materia si rinvia a Hanson, Kashyap and Stein, A Macroprudential Approach to Financial Regulation, Chicago Booth Research, Working Paper n.12, 2010. 56. L’elenco completo delle riforme nella regolamentazione finanziaria internazionale è facilmente reperibile dai siti web delle organizzazioni globali, in particolare nei vari Reports del FSB al G20. 57. La crisi finanziaria ha messo in luce la potenziale pro-cicliticità del sistema finanziario, ovvero la sua tendenza naturale ad amplificare le fluttuazioni del ciclo economico. Questa tendenza può essere accentuata da norme prudenziali basate sul rischio e da standards contabili che fanno affidamento su valutazioni di mercato. Negli anni precedenti alla crisi si è avuto un periodo di elevata crescita e di espansione sostenuta dell’attività finanziaria che, in presenza di bassi tassi di interesse, ha portato ad un graduale abbassamento degli standards di gestione del rischio, soprattutto in alcune giurisdizioni. L’innovazione finanziaria ha generato l’illusione che attraverso le cartolarizzazioni e l’attività di istituzioni operanti con elevata leva finanziaria la liquidità sarebbe stata disponibile senza limiti. Al manifestarsi delle prime perdite, questo processo si è rapidamente invertito, innescando un circolo vizioso: le istituzioni finanziarie con perdite più significative hanno incontrato difficoltà crescenti nel reperire sul mercato le risorse finanziarie necessarie per mantenere inalterata la scala di attività e la stessa liquidità per operare. Da qui è scaturita la necessità di regole prudenziali volte ad attenuare la pro-ciclicità attraverso l’introduzione di adeguati incentivi per gli intermediari finanziari
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- il miglioramento nella gestione del rischio; - il miglioramento dei principi contabili, in particolare con riferimento alla valutazione dei titoli e degli strumenti finanziari complessi o illiquidi (con l’attenuazione degli effetti pro-cilici connessi all’applicazione del principio contabile del “fair value”) 58; - l’assoggettamento delle agenzie di rating a registrazione obbligatoria e supervisione; - la promozione della standardizzazione e della resistenza alle crisi del mercato dei derivati di credito, in particolare attraverso l’istituzione delle controparti centrali di compensazione; - la sottoposizione degli hedge funds ad adeguata vigilanza e regolamentazione 59; - l’istituzione di collegi di supervisori per tutti i gruppi bancari e finanziari multinazionali a rilevanza sistemica 60;
ad adottare comportamenti prudenti nelle fasi di ampia liquidità e rapida crescita degli aggregati creditizi e dei prezzi delle attività finanziarie e reali. Per approfondimenti, si veda Tarantola, Intervento alla Tavola Rotonda “Causes and Consequences, cit., 5 s. 58. Sin dal secondo semestre del 2008 gli standards contabili sono stati rivisti al fine di: consentire un’applicazione più ragionevole del fair value in situazioni di illiquidità dei mercati e la riclassificazione del portafoglio di negoziazione ad altri portafogli di strumenti finanziari destinati ad essere detenuti stabilmente; migliorare la qualità e la quantità delle informazioni diffuse dagli intermediari con riferimento alle valutazioni al fair value (per esempio, se il fair value è stato stimato utilizzando quotazioni di mercato, modelli valutativi con input osservabili oppure con dati interni). Sono attualmente in corso iniziative sul fronte della convergenza tra i principi contabili europei (IAS/IFRS) e quelli statunitensi, con specifico riguardo all’ambito di applicazione del fair value ed agli accantonamenti a fronte del rischio di credito. 59. La necessità di sottoporre a regolamentazione gli hedge funds è fortemente sostenuta dall’Unione Europea, che si è mossa per prima nell’introduzione di modifiche all’assetto regolativo. L’iter normativo iniziato il 30 aprile 2009 si è concluso con l’approvazione, il 27 maggio 2011, dell’AIFMD (Alternative Investment Fund Managers Directive), la direttiva europea che mira a regolamentare i gestori alternativi. Essa dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 22 luglio 2013. L’obiettivo della direttiva è quello di regolamentare i gestori di prodotti alternativi, ovvero i fund managers di tutti quei fondi che non hanno un passaporto europeo e che dunque non sono conformi alla direttiva comunitaria Ucits III. Si parla, quindi, di hedge funds, private equity, fondi immobiliari e fondi a capitale protetto non armonizzato. Nello specifico sono state previste una serie di misure progettate per fornire una maggiore protezione agli investitori, unitamente ad un’attenzione sui rischi sistemici. 60. Finora i collegi di supervisori hanno mostrato di poter svolgere in maniera efficace i propri compiti in presenza di una legislazione chiara in cui sia fissata la distribuzione delle responsabilità e dei ruoli delle varie autorità coinvolte. Risultati non pienamente soddisfacenti si sono invece riscontrati là dove ci si è affidati alla cooperazione tra autorità su base volontaria.
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- lo sviluppo di un efficace sistema di allarme rapido (early warning exercises) di competenza dell’IMF e del FSB; - l’implementazione dei principi del FSB sulla gestione delle crisi transfrontaliere; - lo sviluppo di un quadro internazionale per gli accordi di risoluzione delle crisi delle banche cross-border. Con riferimento al nuovo framework regolativo, occorre sottolineare che, a differenza di quanto accadeva immediatamente prima della crisi finanziaria globale quando si ponevano al centro dell’attenzione gli aspetti prudenziali come i requisiti di capitale, le proposte di riforma attualmente in corso affrontano una serie di problemi politicamente sensibili che non necessariamente hanno avuto un’incidenza significativa sullo scoppio della crisi. Queste proposte si ricollegano alla governance ed ai principi etici, come quelle volte a promuovere l’integrità dei mercati finanziari, fissando regole sulle corrette pratiche di compensazione nell’industria finanziaria, ovvero quelle dirette a creare pressioni sulle giurisdizioni “non-cooperative” (non collaborative) considerate “paradisi fiscali” al fine di ottenere scambi di informazione in materia fiscale. 5.2. Riforme in prospettiva. Non c’è dubbio che nel suo complesso il volume delle riforme attuate ed in corso di attuazione in termini di nuovi standards finanziari internazionali e connesse interpretazioni e metodologie sia corposo, anche se un altrettanto consistente numero di aree finanziarie rimane ancora scoperto dalla regolamentazione ovvero da una regolamentazione più appropriata ai cambiamenti che li riguardano 61. Ma, al di là di questo, ciò che oggi rappresenta il principale problema è la concreta implementazione delle regole internazionali a livello nazionale, che, data la loro natura di “soft law”, è sostanzialmente lasciata alla discrezionalità delle singole giurisdizioni. Ed è in questa fase che giocherà un ruolo fondamentale la volontà del gruppo di paesi influenti (quelli del G20 ed gli ulteriori membri del FSB) nello sponsorizzare la creazione a tutto tondo di un international standard regime. Ciò è strettamente collegato all’efficacia che avrà tutta quella serie di “incentivi”, introdotti o potenziati nel corso del processo
61. In particolare, queste sono rappresentate da: finanza islamica; banche di investimento; trasparenza e abuso di mercato; clientela retail, attivismo degli azionisti; borse valori cross-border e mercati dei titoli; centri finanziari offshore.
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di rinnovamento finanziario, volti ad incoraggiare l’incorporazione dei principi internazionali nelle legislazioni e nelle regolamentazioni locali. Accanto agli “incentivi di mercato” (connessi cioè all’aspettativa che gli operatori di mercato tengano conto nelle proprie decisioni di pricing e di investimento del livello e della qualità nell’implementazione degli standards internazionali in un dato paese), i leaders del G20 hanno enfatizzato l’importanza dei c.d. “incentivi ufficiali”, che includono in primis le valutazioni dell’IMF e della WB basate sui ROSCs ed i FSAPs, di cui abbiamo già detto. Con riferimento ai questi, molti paesi, non ostante la volontarietà della sottoposizione agli stessi e della relativa pubblicazione, hanno reso le valutazioni effettuate sulla base dei medesimi disponibili pubblicamente 62. Inoltre, al vertice di Londra del 2009, il G20 ha chiesto al FSB ed all’IMF, nonché al FAFT per ciò che concerne i problemi connessi al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo ed all’OECD Global Forum per le questioni correlate ai paradisi fiscali ed alle giurisdizioni “non-cooperative”, di monitorare i progressi fatti in proposito. Ulteriori incentivi ufficiali derivano dalle peer reviews e dalle connesse peer pressures che riguardano i componenti dei vari standards setters e del FSB, accompagnate dall’ulteriore impegno per i membri del FSB di implementare gli standards internazionali e di sottoporsi periodicamente alle valutazioni dei FSAPs ed alle peer reviews concernenti il livello di incorporazione degli standards nel proprio ordinamento. Potrebbe avere una significativa incidenza sull’intensità dell’implementazione degli standards internazionali un ulteriore miglioramento – che a lungo andare potrebbe avere altresì effetti congrui sulla natura legale stessa degli standards internazionali – connesso all’impegno del G20 di sviluppare una serie di contromisure efficaci nei confronti delle giurisdizioni non compliant con le regole internazionali in materia di trasparenza fiscale 63. Queste contromisure, che per il momento interessano
62
Esse sono consultabili sui siti dell’IMF e della WB. Cfr. G20, Declaration on Strengthening the Financial System, cit., in cui tra le contromisure si indicano specificamente: obblighi di informativa maggiori a carico dei contribuenti e delle istituzioni finanziarie in merito alle transazioni che coinvolgono queste giurisdizioni; maggiori ritenute fiscali con riferimento ad un vasto numero di pagamenti; divieto di detrazioni per pagamenti a favore di beneficiari residenti nelle stesse; revisione della politica fiscale; richiesta alle istituzioni internazionali ed alle banche di sviluppo regionali di rivedere le loro politiche di investimento; conferimento di un peso maggiore ai principi sulla trasparenza fiscale e sullo scambio di informazioni nella pianificazione di piani di aiuto bilaterali; ulteriori opzioni connesse ai rapporti finanziari con queste giurisdizioni. 63.
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un’area limitata, potrebbero in futuro essere estese all’attuazione di altri standards globali 64. Infine, ulteriori problemi di compliance si porranno con riferimento specifico al profilo macroprudenziale della regolamentazione finanziaria su cui il G20 ha posto l’accento, a causa delle le implicazioni derivanti dalla sua concreta applicazione. In materia, forse, il cambiamento finora più importante, almeno a livello di principio, è rappresentato dagli accordi internazionali in merito alla necessità che all’interno del sistema bancario si richieda una maggiore quantità ed una migliore qualità del capitale (soprattutto per le grandi istituzioni sistemicamente rilevanti) e sia introdotto un meccanismo macroprudenziale per la determinazione dei coefficienti patrimoniali. In altre parole, la regolamentazione sul capitale, finora attenta esclusivamente alla rischiosità delle istituzioni singolarmente considerate, in futuro dovrà avere come punto di riferimento un contesto essenzialmente macro nell’ambito del quale fissare i requisiti patrimoniali. Così, per esempio, qualora i mercati delle attività e del credito manifestassero segni di sovraeccitazione, sarebbe appropriato imporre un supplemento dei coefficienti patrimoniali nel tentativo di smorzare l’entusiasmo del mercato. Allo stesso tempo, però, occorrerà tener conto dei problemi che l’introduzione di meccanismi di tipo macroprudenziale nella regolamentazione sul capitale potranno creare per l’attuale network di regolatori, in quanto (tornando al nostro esempio) un supplemento nei requisiti patrimoniali derivante da considerazioni inerenti non alla singola banca ma alla dimensione ed alla situazione particolare del mercato comporterà un’implicita tassazione per le istituzioni creditizie; tassazione concordata a livello internazionale, ma tuttora imposta a livello nazionale. Pertanto, per ragioni di concorrenza, occorrerà rendere globalmente equa questa tassa, consentendone un’applicazione sensibile alle condizioni locali. A ciò si aggiunga che l’attuazione di un meccanismo macroprudenziale dovrà essere coordinata con le decisioni di politica monetaria assunte in ambito domestico, atteso che l’imposizione di una riserva di capitale supplementare contrae necessariamente la quantità di moneta in circolazione con tutte le conseguenze che ne derivano.
64. Per approfondimenti sui problemi di rilevanza per il diritto internazionale che questo approccio comporterebbe si rinvia a Giovanoli, The Reform of the International Financial Architecture after the Financial Crisis, in International Law and Politics, vol. 42-81, 2009-2010, p. 120 ss.
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6. Riflessioni conclusive: verso una possibile scelta del modello di governance per il mercato globale. In base alla diagnosi compiuta del sistema internazionale di regolamentazione finanziaria, non possiamo non riconoscere che successivamente alla crisi economica globale rilevanti modifiche al precedente assetto sono state fatte o sono attualmente in corso, sia sotto il profilo strutturale sia dal punto di vista della regolativo. Per ciò che concerne il consolidamento dell’architettura finanziaria internazionale, le raccomandazioni dei Leaders del G20 nei vertici di Washington e di Londra del 2008 e del 2009 hanno certamente rappresentato un punto di riferimento. Tuttavia, le riforme attuate sulla base delle stesse, almeno per ora, si sono tradotte sic et simpliciter in un miglioramento e potenziamento delle istituzioni esistenti – basato sulla triade del risorto G20, di un riformato IMF e di un potenziato FSB – piuttosto che in una completa ristrutturazione del sistema lungo le linee di un nuovo Bretton Woods. Nell’area della regolamentazione finanziaria e della vigilanza prudenziale non c’è alcuna prospettiva per la creazione di un’unica autorità globale per il dato di fatto che, nell’attuale congiuntura mondiale, una prospettiva di questo tipo rappresenterebbe un progetto tanto ambizioso quanto di utopistica realizzazione sotto il profilo politico, a causa della reticenza dei governi nazionali a cedere parte della propria sovranità ad un’organizzazione sovranazionale cui sia riconosciuta l’autorità politica di imporre l’implementazione a livello nazionale delle regole globali attraverso la previsione di meccanismi sanzionatori 65. Ancora: rimane irrisolto e da affrontare nell’imminenza un certo numero di problemi connessi all’eccessiva numerosità e diversità delle organizzazione internazionali in termini di semplificazione e razionalizzazione della struttura finanziaria globale e degli organismi che ne fanno parte nonché di potenziamento della loro legittimità ed autorità ad imporre l’adozione dei principi finanziari internazionali in tutto il mondo. Con riferimento a questi ultimi, ergo al profilo della regolamentazione finanziaria, le decisioni del vertice di Londra hanno stimolato numerose riforme, in atto ed in corso di realizzazione, in termini di definizione di
65. Come già detto, la governance democratica globale è una chimera, che sembra difficile da concretizzare perfino in un contesto ben più ristretto e coeso come l´Eurozona; figuriamoci all’interno di economie caratterizzate da livelli di sviluppo differenti e da culture ed istituzioni finanziarie diverse!
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nuovi standards e di revisione di quelli esistenti, allo scopo di accrescere la capacità e l’efficacia dell’assetto regolativo internazionale nel prevenire, o quantomeno mitigare, future crisi finanziarie globali. La realizzazione di questo obiettivo è, tuttavia, fortemente correlata all’intensità della concreta implementazione in ogni giurisdizione del rinnovato framework regolamentare, la cui natura di “soft law” rimane un punto critico centrale di tutto l’impianto di ristrutturazione. A tal fine, oltre agli incentivi “di mercato” ed “ufficiali” (ROSCs, FSAPs, peer reviews and peer pressures), un aspetto cruciale da affrontare concerne la corretta delimitazione dello spazio da attribuire alla regolamentazione internazionale; delimitazione che dovrebbe essere effettuata in modo tale da garantire un giusto, corretto ed efficace bilanciamento tra regolamentazione multilaterale e regolamentazione locale. Il modo in cui si realizzerà il compromesso tra regolamentazione internazionale e regolamentazione nazionale potrà condurre, all’estremo, a due sistemi diametralmente opposti di regolamentazione finanziaria: il modello globalizzato o universale ovvero il modulo deglobalizzato o territoriale. La globalizzazione della regolamentazione finanziaria deriverebbe dal rafforzamento degli standards e dei codici internazionali, dalla loro vigorosa implementazione a livello nazionale, da una più stringente collaborazione tra regolatori. In un contesto globalizzato, la realizzazione dello scenario prospettato dovrebbe costituire la soluzione auspicabile, se tenessimo conto esclusivamente della circostanza che, in tal caso, la regolamentazione finanziaria procederebbe di pari passo e contribuirebbe all’integrazione dei mercati, riducendone in misura significativa i fenomeni di instabilità. Tuttavia, non bisogna sottovalutare il rovescio della medaglia: oltre alla improponibilità fattuale sotto il profilo politico di una soluzione di globalizzazione assoluta delle regole finanziarie in quanto necessariamente implicante la creazione di una comunità politica globale con un’unica autorità mondiale di regolamentazione, come già detto, di utopistica realizzazione, molti avanzano seri dubbi sulla desiderabilità effettiva di un quadro regolativo finanziario internazionale “one size fits all” 66. In aggiunta alla considerazione scontata che regole internazionali dettagliate possano risultare inappropriate alle esigenze ed alle condizio-
66. Rodrik, in un articolo apparso sull’Economist del 12 marzo 2009 dal titolo A Plan B for Global Finance, sostiene all’estremo che “[…] global financial regulation is neither feasible, nor prudent, nor desirable”.
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ni specifiche dei singoli paesi, si sottolineano ulteriori effetti negativi potenzialmente derivanti da un modello di questo tipo: per esempio, la circostanza che una regolamentazione finanziaria dettagliata uguale per tutti comporterebbe una perdita di flessibilità e di tempestività nel rispondere al contesto locale ovvero al cambiamento del medesimo, ovvero l’impossibilità di sperimentare nuove pratiche regolatorie o di concorrenza, o ancora l’annacquamento dei confini di responsabilità tra autorità nazionali ed autorità globale con il conseguente indebolimento della stessa 67. La deglobalizzazione della regolamentazione finanziaria deriverebbe, invece, dalle politiche protezionistiche dei propri sistemi finanziari poste in essere da ogni singolo paese e dall’attuazione di riforme locali incongruenti con quelle implementate da altre parti. Anche questo secondo scenario non è in linea di principio auspicabile, perché implicante una regolamentazione finanziaria di tipo territoriale che ostacolerebbe la globalizzazione dei mercati finanziari, risultando incapace di indirizzare le sfide poste dallo stato attuale di integrazione degli stessi e, come tale, di fronteggiare tempestivamente fenomeni di default e di sfiducia connessi al fallimento di istituzioni e di mercati che operano cross-border. Ciò detto, se la futura realizzazione dell’uno o dell’altro modello appare di dubbia fattibilità e desiderabilità, non possiamo che ritenere politicamente praticabile alla luce dell’attuale momento e forse anche desiderabile sotto il profilo dell’efficacia e della validità la creazione di un assetto regolativo dei mercati finanziari integrati intermedio tra i due estremi, che possiamo definire globalizzato o universale “modificato”; un modello che incentivi la collaborazione tra supervisori nazionali, migliorando la stabilità del mercato e rispettando la sovranità dei singoli Stati. Più precisamente, il sistema di governance del mercato globale proposto dovrebbe, da una parte, restituire potere ai governi nazionali e dare impulso a miglioramenti nella regolamentazione domestica, e, dall’altra, assicurare una base regolativa comune (con finalità ed oggetto limitati) costituita da standards fissati a livello internazionale. L’implementazione dei principi internazionali dovrebbe diventare vincolante in virtù di una più estesa e significativa partecipazione degli Stati-nazione
67.
Per varie critiche ad una regolamentazione dettagliata delle regole prudenziali si vedano, tra gli altri, Rodrik, A Plan B, cit.; Davies, Global Financial, cit.; Tarullo, Banking on Basel: The Future of International Financial Regulation, Washington, 2008, p. 252; Brunnermeier, Crockett, Goodhart, Persaud and Shin, The Fundamental Principles of Financial Regulation, Geneva, ICMB-CEPR, 2009; Helleiner, What role, cit.; Schinasi and Truman, Reform, cit.
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alla progettazione delle regole internazionali e di maggiori e più efficaci incentivi (attraverso ROSCs, FSAPs, peer reviews, peer pressures) per una più intensa cooperazione e collaborazione tra governi e regolatori nazionali 68, soprattutto con riferimento ai meccanismi di prevenzione, gestione e risoluzione delle crisi delle istituzioni che operano in più paesi caratterizzate da elevato rischio sistemico (SIFIs) 69. Questo modello regolativo imperniato sul rafforzamento dei poteri e delle regolamentazioni nazionali accompagnato da un minimum di regole internazionali è l’unico che, nella congiuntura attuale, potrebbe far sperare in una concreta implementazione dei principi internazionali su scala mondiale e, quindi, contribuire a realizzare un’integrazione dei mercati finanziari più efficiente e razionale in termini di ridotta esposizione a fenomeni di instabilità finanziaria. Lo schema universale modificato rappresenta, quindi, se non la migliore, senz’altro attualmente la più praticabile soluzione al «trilemma»
68.
Cfr. Rodrik, A Plan B, cit., che sostiene: “[…] The world economy will be far more stable and prosperous with a thin veneer of international co-operation superimposed on strong national regulations than with attempts to construct a bold global regulatory and supervisory framework.” 69. La risoluzione delle crisi di queste istituzioni non è ancora ben definita a livello cross-border (e spesso nemmeno a livello nazionale). Finora, le soluzioni, nella forma della bancarotta ovvero degli interventi pubblici per facilitarne la ristrutturazione, si sono attuate in gran parte all’interno dei confini nazionali. Ciò è avvenuto per due motivi fondamentali. Innanzitutto, la risoluzione è stata attuata sulla base di legislazioni e procedure nazionali e delle insolvenze si sono occupati i sistemi giudiziari domestici. La seconda e più rilevante ragione è che la prospettiva nazionale è stata dominante perché le risorse pubbliche spesso necessarie per fronteggiare la crisi di una SIFI – a causa di soluzioni del mercato insoddisfacenti ovvero di rischi sistemici estremamente estesi – sono state recuperate a livello nazionale ed i potenziali costi sono stati sopportati dai contribuenti. Di conseguenza, le autorità nazionali hanno posto l’attenzione soprattutto sulla necessità di minimizzare gli effetti locali; la supervisione si è quindi orientata al territorio nazionale e gli incentivi per una sana cooperazione si sono ridotti. Da questa situazione di fatto è nato il convincimento che il coordinamento internazionale della regolamentazione e del controllo potrebbe contribuire a migliorare la supervisione su una SIFI. Tuttavia, un siffatto coordinamento è condizione necessaria ma non sufficiente perché ciò avvenga: esso assicura che le autorità competenti possano cooperare (armonizzando le regole ed accordandosi sulle procedure), ma non garantisce affatto che esse collaboreranno effettivamente. La cooperazione nella sorveglianza richiede incentivi che potranno scaturire solo da una chiarificazione ex ante delle modalità delle risoluzioni cross-border – non solo delle procedure da seguire, ma soprattutto di chi provvederà al finanziamento e sopporterà le perdite. Per approfondimenti sul tema si rinvia a Claessens, Herring, Shoenmaker, A Safer World Financial System: Improving the Resolution of Systemic Institution, in International Center for Monetary and Banking Sudies, 12th Geneva Report on the World, Ginevra, e CEPR, Londra, 2010.
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politico di fondo dell’economia mondiale tra regolamentazione internazionale finalizzata a garantire la stabilità finanziaria globale, regolamentazione territoriale a vantaggio dell’autonomia regolativa nazionale ed assenza di regolamentazione ovvero di autoregolamentazione connessa ad una maggiore globalizzazione economica e finanziaria 70. La combinazione ed il compromesso prospettati tra queste tre esigenze – stabilità finanziaria globale, autonomia regolativa nazionale, globalizzazione economica e finanziaria dei mercati – si basa sul seguente ragionamento. La predisposizione di un quadro regolativo internazionale (minimale), da una parte, garantirebbe il mantenimento della stabilità finanziaria globale e, dall’altra, favorirebbe la globalizzazione del mercato. Tuttavia, là dove le condizioni locali dovessero entrare in conflitto con le esigenze di globalizzazione, le prime dovrebbero prevalere sulle seconde con conseguente riconoscimento di maggiori poteri all’autonomia regolativa nazionale a scapito della regolamentazione internazionale. Pertanto, quest’ultima dovrebbe essere limitata a quanto necessario 71 alla realizzazione di un processo di globalizzazione “razionale” (ovvero di globalizzazione “intelligente”) 72 – cioè di globalizzazione che non determini il sorgere di fenomeni di instabilità finanziaria – piuttosto che di globalizzazione estrema. Gli anni a venire ci daranno una risposta.
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70.
Il progresso della globalizzazione implica la rinuncia alla regolamentazione, nazionale o internazionale, a scapito della stabilità finanziaria globale. Il perseguimento della democrazia globale implica la rinuncia all’autonomia nazionale. L’autodeterminazione implica la rinuncia alla democrazia globale ed alla globalizzazione. 71 Cfr. Stiglitz, Risk and Global Economic Architecture, cit. L’economista statunitense, sulla base di un quadro analitico generele all’interno del quale determinare il livello ottimale di integrazione finanziaria, giunge alla conclusione che […full integration is not in general optimal. Indeed, faced with a choice between two polar regimes, full integration or autarky, in the simplified model autarky may be superior]. 72. Rodrik, La globalizzazione intelligente, Roma-Bari, 2011, trad. di Cafierio. L’autore sostiene che la regolamentazione internazionale dovrebbe avere finalità limitate alla trasparenza finanziaria, alla consultazione tra regolatori ed a porre limiti solo a quelle giurisdizioni, come i centri offshore, che sono fonte di instabilità finanziaria. Invece la responsabilità di regolare la leva finanziaria, di stabilire i requisiti di capitale e di vigilare sui mercati finanziari dovrebbe restare completamente a livello nazionale. Secondo l’Autore un’architettura regolativa che rispetti le differenze tra paesi riesce a promuovere la globalizzazione meglio di quanto facciano ambiziosi progetti che assumano la globalizzazione stessa come obiettivo.
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Concordato preventivo ed operazioni bancarie TRIBUNALE DI BERGAMO, sentenza 21 novembre 2011; GU Gaballo; Franco C. s.r.l. c. Banca P. Operazioni bancarie – Anticipazione su crediti con mandato all’incasso e patto di compensazione – Ammissione del cliente a concordato preventivo – Prosecuzione del rapporto – Riscossione di crediti dopo l’apertura della procedura – Diritto della banca di trattenere le somme riscosse – Sussiste (L.fall., art. 167, 168, 169) L’ammissione del cliente al concordato preventivo non determina lo scioglimento della convenzione di anticipazione su crediti, contenente il mandato all’incasso ed il c.d. patto di compensazione, intercorsa con la banca e quest’ultima ha il diritto di trattenere le somme riscosse dopo l’apertura della procedura a soddisfacimento dei propri crediti. (1) (Omissis) Banca P. ha eccepito la carenza di legittimazione e di interesse ad agire della società attrice perché sarebbero i singoli creditori asseritamente lesi nel loro diritto al pari trattamento ad essere legittimati a fare valere l’ipotetica violazione della par condicio creditorum. La duplice eccezione è infondata: - sotto il profilo dell’interesse ad agire, perché la società attrice in persona del suo legale rappresentante ha l’evidente interesse, al fine di evitare il fallimento, a realizzare un attivo il più possibile vicino alla percen-
tuale concordataria di soddisfazione proposta ai creditori chirografari; - ancora sotto il profilo dell’interesse ad agire, questa volta dei creditori concordatari, dal momento che il loro interesse alla tutela della par condicio creditorum può essere fatto valere solo dal commissario giudiziale, il quale in questa sede agisce per conto della procedura di concordato preventivo; - sotto il profilo o della legittimazione attiva, dal momento che la società attrice, secondo la sua prospettazione, sarebbe titolare del diritto alla restituzione delle somme incassate dalla banca convenuta.
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Commenti
Nel merito, il concreto funzionamento del rapporto contrattuale oggetto di causa può essere descritto come segue sulla scorta della documentazione bancaria prodotta da entrambe le parti. Col contratto in data 9 dicembre 2004 Banca P. concedeva a Franco C., già titolare dal 10 aprile 2003 del conto corrente ordinario n. 23564, una serie di aperture di credito tra le quali rileva in questa sede quella definita “promiscua commerciale” di euro 7.500.000 con scadenza a revoca utilizzabile come anticipo effetti in c/evidenza … anticipo effetti SBF. … Sino a diversa nostra comunicazione, siete autorizzati a regolare contabilmente ogni rapporto dovuto in dipendenza delle aperture di credito concesse sul conto corrente rispettivamente indicato per ognuna di esse. Tra le varie modalità operative previste dal contratto, venne in concreto adottata in via quasi esclusiva l’anticipazione salvo buon fine dell’importo di ricevute bancarie non ancora scadute, previa registrazione delle stesse in conto anticipi con autorizzazione alla banca in via continuativa ad effettuare – sino alla concorrenza del fido disponibile e comunque nel limite dell’importo delle presentazioni effettuate – operazioni di giroconto dal conto anticipi al conto corrente ordinario del cliente medesimo (art. 4.3). In ogni caso, l’art. 5 del contratto di conto corrente in data 10 aprile 2003 prevedeva che quando esistono tra la banca e il correntista più rapporti o più conti di qualsiasi genere o natura, anche di deposito, ancorché intrattenuti presso altre dipendenze italiane ed estere, ha luogo in ogni
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caso la compensazione di legge ad ogni suo effetto. In pratica, in forza dei predetti accordi contrattuali, Banca P. era tenuta a tollerare in favore della Franco C. un passivo del conto corrente fino alla concorrenza massima di euro 7.500.000 e nei limiti del valore degli effetti commerciali, costituiti quasi esclusivamente da ricevute bancarie, presentati alla banca (cd. “portafoglio”). All’atto della presentazione da parte della società di una distinta effetti, quest’ultima veniva a godere di un corrispondente fido (con la clausola di salvo buon fine dell’incasso degli effetti alla loro scadenza) accreditatole immediatamente su un apposito conto “cessioni”, le cui risultanze confluivano poi nel conto corrente ordinario; a fronte di ciò la banca incamerava contestualmente gli effetti presentati, assicurandosi così uno strumento solutorio per rientrare dal fido accordato mediante il relativo incasso alla scadenza e al, connesso patto di compensazione, il tutto con la clausola di salvo buon fine. Pertanto, una volta presentati gli effetti e accreditati gli stessi sul conto cessioni, il cliente poteva godere di un corrispondente fido fino alla scadenza degli effetti medesimi, scadenza alla quale il fido si estingueva. Gli estratti conto prodotti da parte convenuta evidenziano la costante applicazione di tale “patto di compensazione”; infatti all’atto dell’incasso delle somme portate dalle ricevute bancarie, veniva corrispondentemente estinto il fido accordato da Banca P. a Franco C. mediante conformi annotazioni, sia nel conto cessioni che nel conto corrente ordinario, nel quale infatti l’esposizione della correntista verso la
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banca si riduceva per importo pari a quello delle ricevute incassate. Parte attrice, pur senza contestare in fatto che quella sopra descritta fosse l’effettiva operatività del rapporto contrattuale, contesta la sussistenza di qualsiasi patto di compensazione, deducendo che il rapporto giuridico tra il correntista e la banca sarebbe stato di mero mandato all’incasso, senza alcun trasferimento del credito portato dagli effetti, dei quali rimaneva titolare il mandante. Al contrario, il patto di compensazione tra le parti, come abbiamo visto, risulta documentalmente provato dai contratti di conto corrente e di apertura di credito, e in ogni caso deve ritenersi meramente ricognitivo dell’art. 1853 c.c. dove si legge che se tra la banca e il correntista esistono più rapporti o più conti, ancorché in monete differenti, i saldi attivi e passivi si compensano reciprocamente, salvo patto contrario. Solo nella memoria di replica parte convenuta ha eccepito l’inopponibilità alla procedura della predetta pattuizione perché priva di data certa. Ma, a parte la considerazione che incombeva a parte attrice la prova del patto contrario, l’eccezione risulta comunque tardiva perché, trattandosi di eccezione in senso stretto, avrebbe dovuto essere dedotta entro il termine decadenziale della memoria ex art. 183, co. 6, n. 1 c.p.c. Veniamo ora alla qualificazione giuridica del rapporto contrattuale che ci occupa. Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità il conto corrente bancario – in generale – è un contratto innominato misto, risultante dall’unione di prestazioni relative a più contratti nominati, che si coordinano per la realizzazione di una
prestazione principale di mandato: il rapporto è quindi disciplinato dalle norme relative al mandato e, in quanto compatibili, da quelle relative agli altri contratti nominati cui si riferiscono le singole prestazioni; qualora poi il conto corrente acceda ad altri contratti bancari tipici, nel caso di specie a quello di anticipazione bancaria su effetti ceduti salvo buon fine, la disciplina del mandato va coordinata con quella di tali contratti. Ne consegue che l’accredito, da parte di una banca, in un conto corrente assistito da apertura di credito, di somme rimesse dal correntista o da terzi o provenienti da distinta posizione debitoria dell’istituto di credito, costituisce un’operazione che, salvo patto contrario, s’inserisce nell’ambito dell’unitario complesso rapporto di conto corrente e non realizza un’obbligazione autonoma della banca di rimettere al cliente le somme riscosse, suscettibile di compensazione legale con il saldo passivo, in quanto determina una semplice variazione qualitativa del debito del correntista, la quale può configurare secondo le circostanze, o un atto ripristinatorio della disponibilità del correntista medesimo, ovvero un atto direttamente solutorio del debito di questi, risultante dal saldo contabile (Cass. n. 3919/1987; Cass. n. 9064/1992; Cass. n. 1727/1995; Cass. n. 7615/1996; Cass. n. 1672/1999). Il meccanismo di funzionamento del conto corrente bancario induce, infatti ad escludere che possa darsi compensazione in senso proprio tra i risultati di operazioni di segno opposto registrate nello sviluppo attuativo del rapporto, rimanendo l’effetto di compensazione, secondo il disposto
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dell’art 1853 c.c., limitato alla diversa fattispecie dei saldi attivi e passivi di più rapporti o più conti esistenti tra la banca e lo stesso cliente (Cass., sez. II, 28 giugno 2002, n. 9494 in motivazione). Alla stregua dei principi di diritto che precedono, il “patto di compensazione” previsto nel rapporto tra le parti odierne non integra una compensazione in senso tecnico, ma un mero effetto contabile dell’esercizio del diritto, spettante al correntista, di variare continuamente la sua disponibilità; in altri termini l’annotazione delle riscossioni e dei pagamenti non fa sorgere crediti o debiti in senso giuridico, ma serve a rappresentare le modificazioni quantitative che il rapporto subisce nel suo svolgimento, e quindi ad attuare un continuo regolamento contabile dei singoli crediti. Stabilita la non configurabilità nel caso di specie di una compensazione in senso tecnico, e la conseguente inapplicabilità dell’art. 56 l.fall, assume rilievo la circostanza, controversa tra le parti, della prosecuzione del rapporto dopo la presentazione della domanda di concordato preventivo. Ebbene, il rapporto è certamente proseguito anche dopo la presentazione della domanda di concordato preventivo, in assenza di alcuna comunicazione di recesso; tale non è infatti la lettera 18 dicembre 2009 con la quale Banca P. comunicava a Franco C. il trasferimento dei rapporti a sofferenza, peraltro in data ampiamente successiva alla prima richiesta di restituzione del commissario giudiziale con raccomandata del 14 maggio 2009. Si consideri inoltre che il piano concordatario prevedeva la prosecuzione dell’attività al fine
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di mantenere in essere l’avviamento commerciale e nella prospettiva di una rapida cessione in affitto ovvero di un’alienazione dell’attività aziendale (vedi relazione ex art. 172 l.fall. pag. 19). L’esercizio provvisorio cessò in data 31 luglio 2009, anche se gli ultimi dipendenti rimasero in forza fino al 15 settembre 2009, ma deve ritenersi che il conto corrente sia rimasto operativo anche oltre per l’accredito dei bonifici, l’ultimo dei quali avvenuto in data 13 aprile 2010, addirittura dopo il decreto di omologa del concordato. Né l’accensione da parte del Commissario Giudiziale di un altro conto corrente presso la Banca P.I. esclude la prosecuzione del rapporto originario con Banca P. In definitiva si trattava di un rapporto pendente proseguito anche dopo la presentazione della domanda di concordato preventivo ai sensi dell’art. 167 l.fall., dove si prevede che durante la procedura di concordato il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa. Non vi è quindi alcuna ragione per escludere una parte del regolamento contrattuale tra le parti, in particolare quel “patto di compensazione” – in senso atecnico – in virtù del quale Banca P., una volta incassate le somme relative al portafoglio presentato da Franco C., andava automaticamente a estinguere per il corrispondente importo il fido accordato alla correntista, incamerando cosi le somme la cui ripetizione si richiede in questa sede. Nello stesso senso si è espressa Cass., sez. I, 1° settembre 2011, n. 17999 affermando, con riferimento a un’analoga ipotesi di amministrazione controllata, che in tema di anti-
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cipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, se le relative operazioni siano compiute in epoca antecedente rispetto all’ammissione del correntista alla procedura di amministrazione controllata, è necessario accertare, qualora il fallimento (successivamente dichiarato) del correntista agisca per la restituzione dell’importo delle ricevute incassate dalla banca, se la convenzione relativa all’anticipazione su ricevute regolata in conto contenga una clausola attributiva del diritto di “incamerare” le somme riscosse in favore della banca (cd. “patto di compensazione” o, secondo altra definizione, patto di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto). Solo in tale ipotesi, difatti, la banca ha diritto a “compensare” il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito, verso lo stesso cliente, conseguente ad operazioni regolate nel medesimo conto corrente, a nulla rilevando che detto credito sia anteriore alla ammissione alla procedura concorsuale ed il correlativo debito, invece, posteriore, poiché in siffatta ipotesi non può ritenersi operante il
principio della “cristallizzazione dei crediti”, con la conseguenza che né l’imprenditore durante l’amministrazione controllata, né il curatore fallimentare – ove alla prima procedura sia conseguito il fallimento – hanno diritto a che la banca riversi in loro favore le somme riscosse (anziché porle in compensazione con il proprio credito). Diversamente opinando si arriverebbe alla conseguenza giuridicamente inaccettabile che il rapporto contrattuale continuerebbe con la banca tenuta a curare l’incasso del portafoglio presentato mantenendo l’apertura di credito in favore del correntista – come di fatto è avvenuto – con esclusione del patto di compensazione contrattualmente previsto quale elemento essenziale del sinallagma contrattuale. Ne consegue la reiezione della domanda di ripetizione proposta da Franco C. nei confronti di Banca P., anche in relazione ai bonifici incassati, essendo il patto di compensazione riferibile all’intera operatività del conto corrente bancario. Le spese di causa seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. (Omissis).
(1) Anticipazione su crediti e concordato preventivo 1. La sentenza in rassegna 1 si occupa del tema, tuttora dibattuto, degli effetti del concordato preventivo – che si avvia a divenire, nel sistema, la procedura concorsuale “principe”, alla quale il nostro legislatore, come dimostra il recentissimo intervento di cui al d. l. n. 83 del 2012, dedica sempre maggiore attenzione
1 Pubblicata anche in Il fallimento, 2012, 586, con nota di Gio. Tarzia, Riscossione di crediti “anticipati” dalla banca ed efficacia del patto di compensazione nel concordato preventivo.
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e cura – su di un particolare tipo di operazione bancaria: quella comunemente definita come anticipazione su crediti (o su fatture o su ricevute). Si tratta di un’operazione piuttosto frequente nella prassi bancaria, che rientra nella categoria più ampia delle operazioni di smobilizzo di crediti commerciali (a cui appartiene anche lo sconto) e la cui struttura può essere così sintetizzata: la banca concede al cliente un finanziamento commisurato a crediti non ancora scaduti che il medesimo ha verso terzi; il cliente conferisce alla banca il mandato ad incassare per suo conto i suddetti crediti alla scadenza; nella convenzione si attribuisce alla banca il diritto di “trattenere” le somme riscosse, per soddisfare il suo credito da finanziamento (è il c.d. “patto di compensazione”); di regola sia l’anticipazione sia gli importi riscossi vengono fatti confluire in un conto corrente preesistente o appositamente stipulato. Va precisato che talvolta all’anticipazione viene collegata, anziché un mandato all’incasso, la cessione alla banca dei crediti del cliente. Di questa variante – che porta l’operazione a configurarsi, in sostanza, come uno sconto – non mi occuperò. Mi limito solo a sottolineare che la distinzione fra mandato all’incasso di crediti e cessione dei medesimi, in principio chiarissima, nella pratica può esserlo assai meno e capita talvolta che quello che è stato formalmente qualificato dalle parti come mandato si riveli in realtà una cessione, con tutto quello che allora ne può conseguire anche e proprio sul piano degli effetti che, rispetto ad essa, può produrre la sottoposizione del cliente ad una procedura concorsuale. 2. C’è da dire subito che il tipo di operazione che qui interessa – al solito: priva di una propria disciplina normativa e governata solo dalle pattuizioni delle parti – prospetta molte questioni sia nel quadro del fallimento sia nel quadro del concordato preventivo. Più esattamente. Con riguardo al fallimento, la questione principale concerne la revocabilità o meno del mandato all’incasso eseguito anteriormente al fallimento; con riguardo al concordato preventivo la questione fondamentale concerne la sorte del mandato dopo l’ammissione del debitore a quella procedura. Il punto cruciale, in quest’ultimo contesto, non è tanto quello se la banca conservi o meno il potere/dovere di provvedere, durante la procedura, alla riscossione dei crediti: si è tutti d’accordo nel qualificare il mandato all’incasso conferito alla banca come mandato in rem propriam, che come tale “resiste” anche alla dichiarazione di fallimento e quindi, a fortiori, all’ammissione del mandante al concordato preventivo. Il punto cruciale è, invece, se la banca, una volta incassati i crediti, possa trattenere le somme riscosse a “compensazione” del proprio antecedente credito derivante dagli anticipi; o debba invece “riversare” tali somme al mandante. Su questo tema la giurisprudenza offre itinerari e soluzioni fortemente differenziati. Il che – mi pare di poter affermare – è una delle tante manifestazioni dell’autentico “disorientamento” talvolta provocato presso i nostri giudici dalle peculiarità di certe operazioni bancarie, risultanti dalla sovrapposizione di schemi negoziali diversi e governate esclusivamente dalla prassi.
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Alessandro Nigro
Secondo una prima e più risalente linea ricostruttiva – di cui può considerarsi espressione la sentenza n. 10548/2009 della I sezione della Cassazione 2 – la questione dovrebbe essere risolta nel secondo dei due sensi indicati. Ciò in quanto dovrebbe guardarsi esclusivamente alla sussistenza o meno, nella specie, dei presupposti per la compensazione ai sensi dell’art. 56 l.fall. richiamato, per il concordato preventivo, dall’art. 169 della stessa legge: sussistenza da escludere, posto che il debito della banca mandataria di restituzione al mandante delle somme riscosse sorge solo all’atto della riscossione, quindi è successivo all’ammissione del mandante al concordato preventivo; mentre il credito della banca per l’anticipazione è anteriore all’ammissione. Secondo un’altra linea ricostruttiva, che parrebbe riscuotere il consenso prevalente, all’interrogativo se la banca possa trattenere le somme riscosse durante la procedura si dovrebbe invece rispondere affermativamente (l’orientamento è stato inaugurato da una pronunzia della Cassazione del 1994 3 ed è stato seguito, nel tempo, da molte altre pronunzie della stessa Cassazione – v. da ultimo la sentenza n. 17999 del 2011 4 – e di giudici di merito: v. da ultimo la sentenza in rassegna). Questa soluzione viene giustificata con la considerazione: - che il concordato preventivo non determina lo scioglimento dei contratti pendenti e quindi non produce lo scioglimento né del rapporto in questione né del conto corrente a cui il rapporto si colleghi, i quali dunque sono destinati a proseguire anche dopo l’ammissione del cliente a tale procedura; - che la prosecuzione investe i rapporti nella loro interezza, quindi anche con riguardo alla clausola contenente il c.d. patto di compensazione, che nell’economia del rapporto assume un ruolo determinante, nel senso che in sua mancanza la banca non avrebbe concesso l’anticipazione; - che sarebbe, d’altra parte, inaccettabile una “scomposizione” del rapporto dopo l’ammissione alla procedura, nel senso che la banca mantenga sì il potere/dovere di procedere alla riscossione, ma con l’obbligo di riversare le somme riscosse al debitore; - che, in relazione a tutto ciò, non può operare la regola della “cristallizzazione” dei crediti anteriori, o più precisamente del divieto di pagamento di quei crediti; - che, pertanto, anche dopo l’ammissione alla procedura la banca conserva il potere-dovere di provvedere alla riscossione ed il diritto di “incamerare” le somme riscosse. 3. A mio modo di vedere, entrambe le linee ricostruttive sono viziate da uno stesso errore di fondo, che le rende inaccoglibili, almeno come itinerario argomentativo.
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In Foro it., Rep. 2009, voce Concordato preventivo, n. 124. Sentenza 23 luglio 1994, n. 6870, in Giust. civ., 1995, I, 149. 4 In Foro it., Rep. 2011, voce Fallimento, n. 368. 3
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a. L’errore comune ad entrambe le linee è costituito dal fatto che esse non tengono conto, o non tengono conto adeguatamente, di quello che costituisce il dato saliente dell’operazione di cui stiamo occupando, vale a dire la funzione – o se si preferisce la natura – solutoria del congegno negoziale mandato all’incasso/c.d. patto di compensazione. Ricordo a tale proposito che la giurisprudenza che si è occupata del problema, al quale ho accennato prima, della revocabilità in sede di fallimento appunto del mandato all’incasso accompagnato dal diritto della banca di trattenere gli importi riscossi è in prevalenza orientata a risolvere positivamente tale problema proprio perchè qualifica tale congegno negoziale come mezzo anormale di pagamento (v. fra le tante Cass. 19 novembre 2005, n. 218235). Aggiungo che la stessa giurisprudenza riconducibile alla seconda delle linee ricostruttive considerate talvolta riconosce questa funzione solutoria, ma senza trarne le dovute conseguenze: mi riferisco, per esempio, a Trib. Roma, 21 aprile 20106, dove espressamente si definisce la previsione pattizia di quel meccanismo come “regolamentazione delle modalità di satisfazione del credito della banca”. b. Con riguardo alla prima delle due linee ricostruttive pare evidente la diretta “ricaduta” della qualificazione del congegno negoziale mandato all’incasso/ c.d. patto di compensazione come strumento solutorio: viene meno il problema stesso di verificare la sussistenza dei presupposti per la compensazione ex art. 56 l.fall. Perché – come la medesima Cassazione, sempre nel quadro di un giudizio di revocatoria, ha avuto occasione di affermare (sentenza 5 luglio 2007, n. 152257) – tale qualificazione impedisce in radice che possa ritenersi sorta in capo alla banca, per effetto della esecuzione del mandato all’incasso, una autonoma obbligazione di restituzione, da compensare con il credito da finanziamento della stessa banca. c. Più articolato è il discorso da fare con riguardo alla seconda linea ricostruttiva che riscuote, come ho detto, il consenso della giurisprudenza maggioritaria. - Innanzi tutto, è da dire che – nell’ipotesi di sopravvenienza del concordato preventivo – si dovrebbero tenere nettamente distinte la sorte dello specifico rapporto che qui interessa e la sorte del conto corrente a cui quel rapporto fosse, in ipotesi, collegato. Il collegamento non significa affatto assorbimento del primo nel secondo: il conto corrente fornisce una sorta di “contenitore” destinato a raccogliere i risultati dei diversi negozi intercorsi fra la banca ed il cliente, i quali però conservano la loro individualità. Tanto ciò è vero che, con riferimento alla nostra fattispecie, il fallimento del cliente determina sicuramente lo scioglimento del conto corrente al quale il mandato all’incasso sia in ipotesi collegato, ma – come si è detto prima e per pacifica opinione – lascia intatto il mandato in quanto tale. Credo dunque che il tema vada affrontato tenendo in considerazione solo il rapporto banca-cliente, instaurato con la stipulazione
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In Il fallimento, 2006, 779. In Il fallimento, 2010, 1300. 7 In Il fallimento, 2008, 155. 6
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della convenzione di anticipazione contenente il mandato all’incasso ed il c.d. patto di compensazione, e prescindendo completamente dal conto corrente al quale tale rapporto si trovi, in ipotesi, ad essere collegato. - In secondo luogo, è da rilevare, da un lato, che il rapporto banca-cliente, nascente appunto con la stipulazione della convenzione di anticipazione contenente il mandato all’incasso con il patto di compensazione, non può, sopravvenuta l’ammissione al concordato preventivo, propriamente qualificarsi, in sé considerato, rapporto “pendente” o contratto in corso di esecuzione ai sensi dell’art. 72 l.fall., perché manca qualsiasi prestazione ancora da eseguire, in tutto o in parte, dal cliente. E, dall’altro, che – come si è detto prima - il meccanismo mandato all’incasso/”patto di compensazione”, proprio per l’indissolubile legame fra le sue componenti evidenziato dalla giurisprudenza in questione, null’altro è che un meccanismo solutorio. Con la conseguenza allora che, ammesso il cliente al concordato preventivo, si pone un problema non già di prosecuzione del rapporto, ma puramente e semplicemente di soddisfacimento del credito della banca; e che, pertanto, è destinato inesorabilmente a “scattare” il divieto di pagamento dei crediti sorti anteriormente all’ammissione alla procedura. Detto in altre parole. Diversamente da quanto è stato talvolta sostenuto, non si prospetta, con riferimento al problema in esame, un conflitto fra il principio della prosecuzione nel concordato preventivo dei rapporti pendenti ed il principio del divieto, in tale procedura, di pagamento dei debiti anteriori, da risolvere eventualmente privilegiando il primo rispetto al secondo: non si prospetta, perché il primo di quei principi neppure entra in giuoco. 4. Si deve dunque a mio parere concludere nel senso che, ammesso il cliente della banca al concordato preventivo dopo che l’anticipazione è stata effettuata ma prima della riscossione dei crediti da parte della banca, quest’ultima possa riscuotere tali crediti, dovendo però riversare gli incassi al cliente. La relativa pretesa può essere avanzata, nel corso della procedura di concordato, dal medesimo cliente; ove dovesse essere intervenuto il fallimento, dal curatore fallimentare. Può essere comunque opportuna un’ultima considerazione in relazione alle recentissime modifiche apportate alla disciplina del concordato preventivo. Il nuovo art. 169-bis, introdotto dal già ricordato d.l. n. 83 del 2012, stabilisce che il debitore nel ricorso con cui chiede l’ammissione al concordato preventivo o anche dopo può chiedere che il tribunale o il giudice delegato lo autorizzino a “sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione alla data della presentazione del ricorso”. Non è chiaro sulla base di quali ragioni questa autorizzazione possa essere richiesta e rispettivamente concessa. Quel che interessa comunque osservare è che, ove si dovesse accogliere la ricostruzione seguita dalla giurisprudenza prevalente, la nuova disposizione dovrebbe ritenersi applicabile anche alla fattispecie che stiamo considerando: il debitore potrebbe quindi chiedere di essere autorizzato a revocare il mandato, impedendo così alla banca di riscuotere i crediti e di trattenere le somme incassate.
Alessandro Nigro
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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni
LEGISLAZIONE
Obbligazioni degli esponenti bancari L’art. 136 del t.u.b. del 1998, in materia di Obbligazioni degli esponenti bancari si sta rivelando come una delle disposizioni più tormentate del medesimo t.u. Il tenore originario dell’articolo era il seguente: «1. Chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso una banca non può contrarre obbligazioni di qualsiasi natura o compiere atti di compravendita, direttamente od indirettamente, con la banca che amministra, dirige o controlla, se non previa deliberazione dell’organo di amministrazione presa all’unanimità e col voto favorevole di tutti i componenti dell’organo di controllo, fermi restando gli obblighi di astensione previsti dalla legge. 2. Le medesime disposizioni si applicano anche a chi svolge funzione di amministrazione, direzione e controllo, presso una banca o società facenti parte di un gruppo bancario, per le obbligazioni e per gli atti indicati nel comma 1 posti in essere con la società medesima o per le operazioni di finanziamento poste in essere con altra società o con altra banca del gruppo. In tali casi l’obbligazione o l’atto sono deliberati, con le modalità previste dal comma 1, dagli organi della società o banca contraente e con l’assenso della capogruppo. 3. L’inosservanza delle disposizioni dei commi 1 e 2 è punita con le pene stabilite dall’art. 2624, primo comma, del codice civile». In sede di riforma del diritto societario è stato modificato l’art. 2391 c.c., che prevedeva un obbligo di astensione per gli amministratori in conflitto di interessi, ed è stato soppresso l’art. 2624 c.c. Pertanto, il d.lgs. 6 febbraio 2004, n. 37, inteso ad assicurare il coordinamento fra, appunto, quella riforma ed il t.u.b., ha modificato l’art. 136, sostituendo l’inciso finale del primo comma con l’espressione «fermi restando gli obblighi previsti dal codice civile in materia di interessi degli amministratori» e riformulando il terzo comma:«L’inosservanza delle disposizioni dei commi 1 e 2 è punita con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 206 a 2066 euro».
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Legislazione
Una nuova modifica si è avuta con l’art. 8 della l. 28 dicembre 2005, n. 262, sulla tutela del risparmio, che - ha inserito il comma 2-bis, a norma del quale «Per l’applicazione dei commi 1 e 2 rilevano anche le obbligazioni intercorrenti con società controllate dai soggetti di cui ai medesimi commi o presso le quali gli stessi soggetti svolgono funzioni di amministrazione, direzione o controllo, nonché con le società da queste controllate o che le controllano o sono ad esse collegate»; - ha conseguentemente ritoccato il terzo comma, inserendovi il riferimento al nuovo co. 2-bis. L’art. 1 d. lgs. 29 dicembre 2006, n. 303, in sede di coordinamento fra la legge sul risparmio ed il t.u.b, è ulteriormente intervenuto disponendo: - l’inserimento nell’inciso finale del co. 1, dopo le parole «in materia di interessi degli amministratori», delle seguenti «e di operazioni con parti correlate», - la sostituzione, nel co. 2-bis, delle parole «o sono ad esse collegate» con le seguenti «Il presente comma non si applica alle obbligazioni contratte tra società appartenenti al medesimo gruppo bancario ovvero tra banche per le operazioni sul mercato interbancario». Si arriva così all’ultimo (per ora) atto. Il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, con l’art. 24-ter (inserito in sede di conversione): - ha ulteriormente integrato il co. 1 dell’art. 136, aggiungendo in fine: «E’ facoltà del consiglio di amministrazione delegare l’approvazione delle operazioni di cui ai periodi precedenti nel rispetto delle modalità ivi previste»; - ha abrogato tout court i commi 2 e 2-bis (dimenticando, peraltro, di modificare il co. 3, che tali commi continua incongruamente a menzionare). Con questa radicale “potatura” si torna quindi, in qualche modo, al punto di partenza. L’attuale disciplina delle obbligazioni degli esponenti bancari si riduce, infatti, alla regola-cardine posta dal comma 1 dell’art. 136, che riproduce sostanzialmente l’art. 38 della l. bancaria del 1936-1938, a norma del quale «Gli amministratori, liquidatori, direttori ed i membri degli organi di sorveglianza delle aziende indicate nell’art. 5 non possono contrarre obbligazioni di qualsiasi natura, né compiere atti di compra vendita, direttamente o indirettamente, con l’azienda che amministrano o dirigono o sorvegliano, se non dietro conforme deliberazione, che dovrà essere presa all’unanimità, del Consiglio di amministrazione e col voto favorevole di tutti i componenti dell’organo di sorveglianza».
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Obbligazioni degli esponenti bancari
***** I due commi ora abrogati – che concorrevano a delimitare, dal punto di vista soggettivo, l’ambito delle obbligazioni sottoposte alla regola del “permesso condizionato” – avevano sollevato (il discorso aveva riguardato soprattutto il comma 2-bis) molti problemi interpretativi (sui quali v., per tutti, P. Ferro-Luzzi Le: «obbligazioni degli esponenti aziendali»; l’art. 136, 2º comma bis t.u.b.; il doppio esercizio delle «funzioni rilevanti», in Banca, borsa, tit. cred., 2006, I, p. 469 ss.) che in qualche momento hanno rischiato di inceppare gravemente l’attività deliberativa dei consigli di amministrazione delle banche. Sotto questo aspetto, l’intervento operato dal legislatore del 2012, che semplifica drasticamente la disciplina, meritebbe di essere salutato con favore. Resta da vedere, però, se alcuni dei problemi ai quali si è fatto cenno non siano suscettibili di “riemergere” sub specie di interpretazione dell’avverbio «indirettamente» utilizzato nel comma 1. Fin qui si è ritenuto che l’avverbio sia da riferire solo ai casi di interposizione (fittizia o reale) di persona cioè alle ipotesi in cui l’obbligazione sia contratta (rectius: da contrarre) solo formalmente o apparentemente da un terzo, mentre la controparte reale della banca è l’esponente della medesima (sul punto v., per tutti, A. Nigro, Art. 8, in La tutela del risparmio, a cura di A. Nigro e V. Santoro, Torino, 2007, p. 117): ma si è giunti a questa conclusione anche perché esistevano le previsioni specifiche dei co. 2 e 2-bis. Espunte queste ultime, si potrebbe essere tentati di ampliare l’ambito delle obbligazioni indirette, comprendendovi per esempio le obbligazioni assunte da società controllate dal medesimo (si ricordi che in tal senso si tendeva ad interpretare l’art. 38 l. banc.: sul punto v. per tutti Molle, La banca dell’ordinamento giuridico italiano, 2a ed. a cura di Maimeri, Milano, 1987, pp. 240, 562, ove riferimenti). [Nota redazionale]
D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, testo unico delle leggi in materia bancaria e finanziaria, come modificato dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221 Art. 136 Obbligazioni degli esponenti bancari Chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso una banca non può contrarre obbligazioni di qualsiasi natura o compiere atti di compravendita, direttamente od indirettamente, con la banca che
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Legislazione
amministra, dirige o controlla, se non previa deliberazione dell’organo di amministrazione presa all’unanimità e col voto favorevole di tutti i componenti dell’organo di controllo, fermi restando gli obblighi previsti dal codice civile in materia di interessi degli amministratori e di operazioni con parti correlate. ((È facoltà del consiglio di amministrazione delegare l’approvazione delle operazioni di cui ai periodi precedenti nel rispetto delle modalità ivi previste)). ((COMMA ABROGATO DAL D . L . 18 OTTOBRE 2012, N. 179, CONVERTITO CON MODIFICAZIONI DALLA L. 17 DICEMBRE 2012, N. 221)). 2-bis. ((COMMA ABROGATO DAL D . L . 18 OTTOBRE 2012, N. 179, CONVERTITO CON MODIFICAZIONI DALLA L. 17 DICEMBRE 2012, N. 221)). 3. L’inosservanza delle disposizioni dei commi 1, 2 e 2-bis è punita con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 206 a 2.066 euro. [N. B.: in corsivo gli interventi operati dalla legge del 2012]
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Cassa Depositi e Prestiti e fondazioni bancarie Gli atti di seguito pubblicati attengono ad una complessa vicenda, quella delle partecipazioni delle fondazioni bancarie nella Cassa Depositi e Prestiti, che ha avuto anche gli “onori” delle cronache giornalistiche (*) e che qui conviene sinteticamente tratteggiare. ***** Con il d.l. n. 269 del 2003, la Cassa Depositi e Prestiti, ente pubblico economico, è stata trasformata in società per azioni, con attribuzione dell’intera partecipazione azionaria allo Stato (Ministero dell’economia e delle finanze). Successivamente, una quota di minoranza del 30%, rappresentata da azioni privilegiate, è stata trasferita a 65 fondazioni di origine bancaria. Lo Statuto della Cassa prevedeva un particolare regime di queste azioni privilegiate, sia sul piano amministrativo sia su quello patrimoniale. Specificamente, si contemplava: - un “dividendo preferenziale”, ragguagliato al valore nominale e commisurato al tasso di inflazione più il 3 per cento; - la postergazione nelle perdite; - la conversione automatica delle azioni privilegiate, a decorrere dal 1° gennaio 2010; - apposite modalità di determinazione del valore delle azioni privilegiate nei casi di recesso, conversione ovvero liquidazione della società; - la facoltà di recesso convenzionale, accanto a quelle già previste ex lege, limitatamente al periodo tra il 1 gennaio 2005 ed il 31 dicembre 2009, nel caso in cui il dividendo spettante alle azioni privilegiate fosse stato inferiore, anche per un solo esercizio, al dividendo preferenziale, esercitabile per l’intera partecipazione.
* Su tale vicenda v. anche Di Cecco, Recesso convenzionale e convertibilità automatica delle azioni con determinazione convenzionale del valore dei titoli. Note a margine del parere del Consiglio di Stato sulle regole statutarie della Cassa depositi e Prestiti s.p.a. e del successivo intervento del legislatore, in Ianus, n. 7/2012, p. 279 ss.
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Successivamente, nel 2009, l’assemblea della Cassa ha modificato lo statuto rinviando di tre anni il termine di conversione delle azioni privilegiate, dal 1° gennaio 2010 al 1° gennaio 2013, sopprimendo il diritto al dividendo preferenziale e diritto di recesso ad esso connesso e attribuendo la facoltà di recesso in caso di mancata percezione di utili per due esercizi consecutivi. Nel settembre del 2012, in relazione all’imminente avvio delle procedure per la conversione delle azioni privilegiate o, in alternativa per il recesso, le fondazioni bancarie hanno sollevato dubbi sulla legittimità della clausola statutaria concernente la determinazione del valore delle azioni privilegiate da applicarsi in caso di conversione o recesso (art. 9, co. 3), ritenendo che la valorizzazione delle quote dovesse effettuarsi non a termini di statuto (valore nominale decurtato dell’extradividendo) ma a valori patrimoniali. A seguito di ciò, con relazione trasmessa il 27 settembre 2012, il Ministro dell’economia ha richiesto al Consiglio di Stato un parere sulla legittimità delle clausole statutarie della Cassa concernenti la conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie. ***** Con decreto del 4 ottobre 2012 del Presidente del Consiglio di Stato è stata costituita una Commissione speciale, presieduta dal medesimo Presidente, che, nell’adunanza del 16 ottobre successivo, ha reso il proprio parere (II). In tale parere: - si afferma che sussistono argomenti seri per sostenere la validità della clausola statutaria concernente il recesso in occasione della conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie, da qualificare come recesso convenzionale; - si rileva che questo non è del tutto tranquillizzante in relazione alla possibilità di innesco di un contenzioso fra Cassa (e Ministero) e fondazioni; - che potrebbe essere ritenuto equo e meritevole di tutela l’interesse delle fondazioni a conseguire quote di patrimonio in caso di recesso; - che non si potrebbe dare ingresso a questo interesse attraverso una modifica statutaria, perché si innescherebbe un’ipotesi legale di recesso, con tutte le relative conseguenze; - che “la soluzione – si afferma testualmente – non potrebbe che essere rinvenuta sul piano normativo, con determinazione del valore di concambio e di liquidazione che tenga conto dei criteri sopra espressi, volti a circoscrivere la meritevolezza della partecipazione delle fondazioni agli incrementi patrimoniali conseguiti successivamente al loro ingresso”.
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Cassa Depositi e Prestiti e fondazioni bancarie
***** Il legislatore ha dato seguito a questa richiesta di intervento, peraltro parzialmente. Con i co. da 3-bis a 3-decies dell’art. 36 del d.l. n. 179 del 2012, inseriti dalla l. di conversione n. 221 del 2012 (I), ha infatti disciplinato la determinazione del valore di concambio, in un modo che tiene conto del valore del patrimonio, mentre per la determinazione del valore di liquidazione delle azioni privilegiate nell’ipotesi di recesso da parte di chi non voglia usufruire della conversione automatica ha puramente e semplicemente rinviato alle “vigenti disposizioni dello statuto della CDP” (co. 3-septies). Le quali disposizioni, nella versione risultante dopo le modifiche apportate nel dicembre 2012 (III), continuano a prevedere, nell’art. 9, co. 3, che, in tutte le ipotesi di recesso, il valore di liquidazione delle azioni privilegiate è pari alla frazione di capitale sociale ad esse corrispondente, decurtata della differenza fra il dividendo effettivamente percepito dalle stesse azioni privilegiate fino al 31 dicembre 2008 ed il “dividendo preferenziale” ad esse spettante. Con il che non si può certo ritenere rimosso il pericolo, paventato dal Consiglio di Stato, di un contenzioso con le fondazioni. [Nota redazionale] I D.l. 18 ottobre 2012, n. 179, recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, convertito dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221 Art. 36 Misure in materia di confidi, strumenti di finanziamento e reti d’impresa (Omissis) ((3-bis. Limitatamente all’ipotesi di conversione in azioni ordinarie delle azioni privilegiate in circolazione, la Cassa depositi e prestiti (CUP) provvede a determinare, entro il 31 gennaio 2013, il rapporto di conversione delle stesse secondo le seguenti modalità: a) determinazione del valore di CDP (i) alla data di trasformazione di CDP in società per azioni e (ii) al 31 dicembre 2012 sulla base di perizie giurate di stima che tengano conto, tra l’altro, della presenza della garanzia dello Stato sulla raccolta del risparmio postale; b) determinazione del rapporto tra il valore nominale delle azioni privilegiate e il valore di CDP alla data di trasformazione di CDP in società per azioni determinato ai sensi della lettera a);
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e) determinazione del valore riconosciuto alle azioni privilegiate ai fini della conversione, quale quota, corrispondente alla percentuale di cui alla lettera b), del valore di CDP al 31 dicembre 2012 determinato ai sensi della lettera a). 3-ter. Qualora il rapporto di conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie come sopra determinato non risulti alla pari, i titolari delle azioni privilegiate hanno la facoltà di beneficiare di un rapporto di conversione alla pari versando alla CDP una somma, a titolo di conguaglio, di importo pari alla differenza tra il valore di una azione ordinaria e il valore di una azione privilegiata. 3-quater. I titolari delle azioni privilegiate che entro i termini di cui al comma 3-sexies non esercitano il diritto di recesso, versano al Ministero dell’economia e delle finanze, a titolo di compensazione, un importo forfetario pari al 50 per cento dei maggiori dividendi corrisposti da CDP, per le azioni privilegiate per le quali avviene la conversione, dalla data di trasformazione in società per azioni, rispetto a quelli che sarebbero spettati alle medesime azioni per una partecipazione azionaria corrispondente alla percentuale di cui alla lettera b) del comma 3-bis. 3-quinquies. L’importo di cui al comma 3-quater può essere versato, quanto ad una quota non inferiore al 20 per cento, entro il 1° aprile 2013, e, quanto alla residua quota, in quattro rate uguali alla data del 1° aprile dei quattro anni successivi, con applicazione dei relativi interessi legali. 3-sexies. Il periodo per l’esercizio del diritto di recesso decorre dal 15 febbraio 2013 e termina il 15 marzo 2013. Le azioni privilegiate sono automaticamente convertite in azioni ordinarie a far data dal 1° aprile 2013. 3-septies. Le condizioni economiche per la conversione di cui ai commi precedenti sono riconosciute al fine di consolidare la permanenza di soci privati nell’azionariato di CDP. Conseguentemente, in caso di recesso, quanto alla determinazione del valore di liquidazione delle azioni privilegiate, si applicano le vigenti disposizioni dello statuto della CDP. 3-octies. A decorrere dal 1° aprile 2013 e fino alla data di approvazione da parte dell’assemblea degli azionisti di CDP del bilancio d’esercizio al 31 dicembre 2012, a ciascuna fondazione bancaria azionista di CDP è concessa la facoltà di acquistare dal Ministero dell’economia e delle finanze, che è obbligato a vendere, un numero di azioni ordinarie di CDP non superiore alla differenza tra il numero di azioni privilegiate già detenuto e il numero di azioni ordinarie ottenuto ad esito della conversione. Tale facoltà di acquisto è trasferibile a titolo gratuito tra le fondazioni bancarie azioniste di CDP.
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3-novies. La facoltà di acquisto di cui al comma 3-octies viene esercitata al prezzo corrispondente al valore di CDP al 31 dicembre 2012 di cui al comma 3-bis, lettera a ) , che è corrisposto al Ministero dell’economia e delle finanze, quanto ad una quota non inferiore al 20 per cento, entro il 1° luglio 2013, e, quanto alla residua quota, in quattro rate uguali alla data del 1° luglio dei quattro anni successivi, con applicazione dei relativi interessi legali. 3-decies. La dilazione dei pagamenti di cui ai commi 3-quinquies e 3-novies è accordata dal Ministero, a richiesta, a fronte della costituzione in pegno di azioni ordinarie a favore del Ministero, fino al completamento dei pagamenti dovuti. Il numero delle azioni da costituire in pegno è determinato sulla base degli importi dovuti per i pagamenti dilazionati comprensivi degli interessi, tenendo conto del valore delle azioni ordinarie corrispondente al valore di CDP al 31 dicembre 2012 di cui al comma 3-bis, lettera a). Il diritto di voto e il diritto agli utili spettano alla fondazione concedente il pegno. In caso di inadempimento delle obbligazioni assunte, il Ministero dell’economia e delle finanze acquisisce a titolo definitivo le azioni corrispondenti all’importo del mancato pagamento)). [N.B.: in corsivo l’intervento operato dalla legge del 2012] II Consiglio di Stato – Commissione speciale, parere 7 novembre 2012, n. 04659/2012; Pres. Coraggio, Est. Montedoro. OGGETTO: Ministero dell’economia e delle finanze - ufficio legislativo. Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. - clausole statutarie relative alla conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie. Quesito. La Sezione Vista la nota di trasmissione della relazione, prot. n. 3409/varie/13777, in data 26/09/2012 con la quale il Ministero dell’economia e delle finanze – ufficio legislativo – ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull’affare consultivo in oggetto; Visto il decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 4 ottobre 2012 che deferisce ad una commissione speciale l’affare in oggetto; Esaminati gli atti e udito il relatore, consigliere Giancarlo Montedoro;
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Premesso: Con relazione trasmessa in data 27 settembre 2012, debitamente firmata dal Ministro dell’economia e delle finanze, veniva richiesto un parere al Consiglio di Stato sulla legittimità delle clausole statutarie della Cassa Depositi e Presititi S.p.A. relative alla conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie. Il Presidente della Seconda Sezione del Consiglio di Stato, in data 4 ottobre 2012, trasmetteva il fascicolo al Presidente del Consiglio di Stato per l’eventualità che quest’ultimo ritenesse opportuno costituire una Commissione speciale per l’esame dell’affare. Con decreto in pari data veniva costituita la Commissione speciale presieduta dal Presidente del Consiglio di Stato. Riferisce la relazione che il Ministero dell’economia e delle finanze (“MEF”) controlla attualmente la Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (“CDP”) con una quota pari al 70% del capitale sociale, mentre il 30% della società è detenuto, sotto forma di azioni privilegiate, da fondazioni bancarie, a seguito dell’operazione di dismissione effettuata nel dicembre 2003, all’atto della trasformazione della Cassa in società per azioni. La normativa di trasformazione della CDP in società per azioni, è contenuta nell’art. 5 del d.l. n. 269 del 2003, convertito con modificazioni nella legge n. 326 del 24 novembre 2003, e prevede che le azioni della CDP siano da attribuire allo Stato, con esercizio dei diritti dell’azionista da parte del MEF e che le fondazioni bancarie ed altri soggetti pubblici o privati possano detenere quote complessivamente di minoranza del capitale della società. In attuazione della legge citata, il capitale sociale fu determinato con d.m. del 5 dicembre 2003, in euro 3.500.000.000 corrispondenti all’ammontare del fondo di dotazione e di quota parte del Fondo di riserva come risultanti dalla contabilità della CDP alla data di trasformazione in società per azioni; tale capitale sociale fu suddiviso in 350.000.000 di azioni del valore nominale di 10 euro, di cui 245.000.000 di azioni ordinarie (70% del capitale sociale) e 105.000.000 di azioni privilegiate (30% del capitale sociale). Sempre in data 5 dicembre 2003 furono emanati due d.P.C.M. che, rispettivamente, disponevano: a) l’approvazione dello Statuto di CDP contenente, tra l’altro, la trasferibilità delle azioni a favore di fondazioni bancarie nonché di banche ed intermediari finanziari vigilati e le regole per la conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie a far data dal 1 gennaio 2010; b) la cessione e le modalità di alienazione delle azioni privilegiate ai sensi della l. n. 474 del 1994. A fine dicembre il MEF perfezionò, pertanto, la dismissione del 30% del capitale della società a 65 Fondazioni bancarie, cedendo 105.000.000 azioni privilegiate del valore nominale complessivo di euro 1.050.000.000 ad un prezzo di vendita corrispondente al valore nominale delle azioni.
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I contratti di compravendita furono stipulati con le singole fondazioni con accettazione da parte delle stesse dell’information memorandum e dello Statuto di CDP. La fissazione del prezzo di vendita delle azioni privilegiate fu effettuata, ai sensi della citata legge n. 474 del 1994, sulla base di valutazione delle stesse azioni privilegiate rilasciate dai consulenti finanziari del Ministero, JP Morgan e Deutsche Bank. Le analisi svolte dai valutatori suddetti costituivano un parere sulla congruità del prezzo delle azioni privilegiate, al loro valore nominale, tenuto conto anche delle norme statutarie che attribuivano particolari diritti alle stesse. I pareri, pertanto, non rappresentavano una perizia di stima del patrimonio effettivo di CDP. Lo statuto di CDP, nel 2003, prevedeva alcune specifiche caratteristiche delle azioni privilegiate. Alle azioni privilegiate erano infatti attribuiti particolari diritti di governance: - potere di blocco per l’approvazione delle delibere da assumere in assemblea (art. 14); - nomina di un terzo dei componenti degli Organi sociali (art. 15); - designazione di tutti i componenti del Comitato di supporto degli azionisti privilegiati (art. 22, comma 1); - designazione della maggioranza dei componenti del Comitato di indirizzo strategico (art. 23, comma 1). Venivano altresì riconosciuti peculiari diritti economici: - dividendo preferenziale ragguagliato al valore nominale e commisurato al tasso di inflazione più il 3% (art. 30, comma 2); - postergazione nelle perdite (art. 31, comma 2); - conversione automatica delle azioni privilegiate a decorrere dal 1° gennaio 2010 secondo un “rapporto di conversione determinato dal Consiglio di amministrazione sulla base di una perizia del valore effettivo del patrimonio netto della società redatto da un esperto nominato dal Consiglio di amministrazione d’intesa con il Comitato di supporto degli azionisti privilegiati” e sulla base della valorizzazione delle azioni privilegiate come illustrata al punto successivo (art. 7, comma 10); - determinazione del valore delle azioni privilegiate, In caso di recesso, conversione ovvero liquidazione della società, secondo la seguente previsione: “il valore delle azioni privilegiate risulta pari alla frazione del capitale sociale per cui è esercitato il recesso. Qualora in uno o più esercizi il dividendo corrisposto alle azioni privilegiate sia stato inferiore al “dividendo preferenziale” di cui alla lettera a) del comma 2 dell’articolo 30 del presente statuto, tale valore risulta maggiorato in ragione del-
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la differenza tra il detto “dividendo preferenziale” e quello effettivamente percepito per ognuno dei predetti esercizi. Qualora in uno o più esercizi il dividendo corrisposto alle azioni privilegiate sia superiore a detto “dividendo preferenziale” di cui sopra, il valore di liquidazione è decurtato in ragione della differenza tra il dividendo effettivamente percepito ed il dividendo “preferenziale” per ognuno dei predetti esercizi” (c.d. extradividendo) (art. 9, comma 3, come richiamato nell’art. 7, comma 10); - attribuzione di una facoltà di recesso convenzionale: “oltre che nelle ipotesi in cui agli azionisti spetti per legge il diritto di recesso, e fermo altresì quanto previsto al precedente art. 7, comma 10, i soci titolari di azioni privilegiate hanno diritto di recedere dalla società, limitatamente al periodo tra il 1 gennaio 2005 ed il 31 dicembre 2009, nel caso in cui il dividendo spettante a dette azioni sia stato inferiore, anche per un solo esercizio al dividendo preferenziale di cui all’art. 30 del presente statuto. Il diritto di recesso deve sempre essere esercitato dai soci titolari di azioni privilegiate per l’intera partecipazione”. (art. 9, comma l). Nell’imminente scadenza del termine per la conversione automatica delle azioni privilegiate, le fondazioni hanno prospettato al Ministro dell’economia e delle finanze l’opportunità di posticipare di tre anni il termine di conversione delle azioni privilegiate, dal l° gennaio 2010 al l° gennaio 2013, con la contestuale eliminazione del privilegio di rendimento per le fondazioni previsto dalla Statuto (come detto pari al dividendo preferenziale del 3% maggiorato dell’inflazione del periodo). Pertanto, nel corso del 2009, l’assemblea di CDP – fermo restando il meccanismo di calcolo del valore delle azioni privilegiate in caso di conversione o di recesso – ha così modificato lo statuto: l) rinvio di tre anni del termine di conversione delle azioni privilegiate dal l gennaio 20l0 al l gennaio 2013 (nuovo art. 7, comma l0); 2) eliminazione del diritto al dividendo preferenziale e diritto di recesso ad esso connesso (nuovo art. 30, comma 2); 3) attribuzione della facoltà di recesso in caso di mancata percezione di utili per due esercizi consecutivi (nuovo art. 9, comma 1). La relazione ministeriale poi precisa quali sono le opzioni riservate alle fondazioni nel caso della conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie, ipotizzando l’adesione di tutte le fondazioni alla medesima opzione per l’intera loro partecipazione. Si verificherebbero, in tal caso, le seguenti ipotesi: 1) conversione alla pari: le fondazioni mantengono la partecipazione al 30% del capitale sociale di CDP, versando il conguaglio che dipende dalla perizia sul valore effettivo del patrimonio netto. Assumendo, a titolo esemplificativo, quale valore effettivo del patrimonio netto il valore del patrimonio netto contabile al 2011 pari a 14,5
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miliardi di euro, il conguaglio sarebbe superiore a 5 miliardi di euro, tenuto conto della decurtazione dell’extradividendo pari a circa 388 milioni di euro; 2) conversione non alla pari delle azioni privilegiate in azioni ordinarie: le fondazioni non versano alcun conguaglio, in tal caso diluirebbero la loro partecipazione ad una percentuale inferiore al 30%. A titolo sempre esemplificativo, sempre assumendo come riferimento il valore contabile del patrimonio netto al 2011, la quota di spettanza delle fondazioni bancarie sarebbe il 45% del capitale; 3) esercizio del diritto di recesso con uscita dalla compagine azionaria previa liquidazione delle quote da parte di CDP. In questo caso le fondazioni riceverebbero 662 milioni di euro, calcolati a norma di statuto, come differenza tra il valore nominale della partecipazione (1.050 milioni) e l’extradividendo percepito (388 milioni). La facoltà di conversione alla pari con conguaglio e la facoltà di recedere potranno essere esercitate nel periodo da ottobre 2012 al 15 dicembre 2012. Con lettera del 14 settembre 2012, indirizzata al Ministero dell’economia e delle finanze, il Presidente di CDP ha comunicato che in relazione all’imminente avvio delle procedure per la conversione, al fine di adempiere alle previsioni statutarie, il Consiglio di Amministrazione della Società, ha affidato il mandato di redigere una valutazione del patrimonio netto effettivo di CDP a Deloitte & Touche, relazione già depositata presso CDP. Ha comunicato, inoltre, che le fondazioni bancarie hanno manifestato alla CDP dubbi sulla legittimità della clausola statutaria concernente la determinazione del valore delle azioni privilegiate da applicarsi in caso di conversione o recesso (art. 9, comma 3), ritenendo che la valorizzazione delle proprie quote debba essere effettuata non a termini di statuto (valore nominale decurtato dell’extradividendo) ma a valori patrimoniali secondo quanto previsto dall’art. 2437 ter del codice civile modificato dalla riforma Vietti nel 2004 (legge sopravvenuta rispetto al quadro normativo vigente al momento della trasformazione di CDP in S.p.A. ed al momento di approvazione dello statuto di CDP), relativo ai criteri di determinazione del valore delle azioni. Il Presidente, nella citata nota, ha rappresentato che già in occasione dell’assemblea straordinaria del 23 settembre 2009 – in cui erano state approvate le modifiche statutarie relative al rinvio della data di conversione delle azioni privilegiate – le fondazioni, pur votando a favore della deliberazione, avevano sollevato delle riserve sulla portata effettiva del contenuto della clausola statutaria riguardante la metodologia di calcolo
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e che il rappresentante del Ministero, in tale sede, ha “dato atto di una persistente divergenza di interpretazione tra gli azionisti sulla portata effettiva delle disposizioni statutarie in merito ai criteri per la determinazione di tale valore”. Nella medesima comunicazione il Presidente rendeva noto che le fondazioni, a supporto delle proprie tesi, hanno fatto pervenire un parere legale rilasciato dal prof. Giuseppe Portale, condiviso dal Comitato di supporto degli azionisti privilegiati (come detto, composto esclusivamente da membri designati dalle fondazioni bancarie azioniste) che “propone dubbi sulla legittimità delle clausole dello statuto che regolano la valorizzazione delle azioni privilegiate ai fini della conversione o del recesso” e che ritiene “opportuno, in linea con i principi generali dettati dal codice civile, interpretare la frazione del capitale sociale come la corrispondente quota del capitale economico di CDP”. In considerazione di quanto sopra, nella richiamata nota il Presidente di CDP rappresenta che il Consiglio di Amministrazione ha ritenuto di richiedere ulteriori pareri pro veritate (Prof. Marchetti e Prof. Irti) e, nel trasmetterli al Ministero, rappresenta che gli stessi, “confermano la sussistenza di seri dubbi sulla interpretazione e/o la legittimità di alcune delle disposizioni statutarie in materia”. In tale contesto il Presidente di CDP, nelle conclusioni della comunicazione in argomento, per consentire al Consiglio di Amministrazione di svolgere correttamente il proprio compito, ritiene necessario: 1) verificare presso gli azionisti la persistenza della “divergenza interpretativa”; 2) trasmettere, per conoscenza e per ogni opportuna valutazione, i pareri legali acquisiti; 3) chiedere al Ministero di valutare l’opportunità di attivare supporti consulenziali di carattere istituzionale avanzando formale richiesta di parere al Consiglio di Stato. Il Ministero ha inoltre fatto presente che il Presidente della Cassa ha dichiarato ai vertici politici ed amministrativi del Ministero che, tenuto conto dei dubbi interpretativi e di legittimità risultanti dai pareri richiesti da CDP, non ritiene possibile sottoporre all’approvazione del Consiglio di Amministrazione la determinazione del rapporto di conversione, valutando le azioni privilegiate al valore nominale secondo l’interpretazione letterale degli articoli 7 e 9 dello statuto, anche in ragione dell’elevato rischio di contenzioso e di conseguenti potenziali danni per la società. Infatti, a detta del Presidente di CDP: - la divergenza interpretativa emerge da elementi fattuali (delibera degli azionisti del 2009) e dal parere del prof. Portale, presentato ufficialmente dal Comitato di supporto degli azionisti privilegiati;
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- i pareri richiesti dalla società a due autorevoli giuristi non consentono di escludere il rischio di un contenzioso dall’esito incerto; - è elevato il rischio che la determinazione del valore di conguaglio delle azioni privilegiate sulla base del valore nominale dia luogo – come comunicato dagli azionisti privilegiati – all’esercizio del diritto di recesso’ ad essi riconosciuto dallo statuto, con una richiesta di parametrazione della liquidazione al valore patrimoniale di CDP, sul quale sarebbe inevitabile l’apertura di un contenzioso; - il contenzioso avrebbe di per se stesso, presumibilmente, effetti dannosi per la società: ad esempio, potrebbe (almeno sino alla conclusione nei tre gradi giudizio) mettere a repentaglio la patrimonializzazione di CDP (questione della natura delle azioni privilegiate); potrebbe comportare la necessità di apposizione di consistenti fondi rischi; potrebbe compromettere o rendere impossibile portare a termine operazioni di acquisizione in corso. Il Ministero ha fatto seguire a tale esposizione le proprie valutazioni che qui di seguito si espongono. Il Ministero considera l’ipotesi di recesso prevista dal combinato disposto degli articoli 7 e 9 dello statuto di CDP, approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, come previsto dalla norma primaria di riferimento, una ipotesi di recesso ulteriore rispetto a quelle previste dall’art. 2437 del codice civile. Si tratta, in altri termini, di una ipotesi di recesso convenzionale. Le clausole statutarie sono inequivoche nel riferirsi al capitale sociale quale criterio per la determinazione del valore di liquidazione, la questione giuridica di fondo è quindi, poiché l’art. 2437, comma 6, del codice civile commina la nullità di ogni patto “volto ad escludere o rendere più gravoso il recesso”, se tale previsione codicistica faccia espresso riferimento solo alle cause di recesso considerate inderogabili, e, se, conseguentemente, la determinazione del valore delle azioni nelle eventuali ulteriori ipotesi enucleate nello statuto, possa essere disciplinato da criteri diversi da quelli fissati per legge per le cause legali di recesso. La dottrina è divisa fra una parte più propensa a ritenere che, entro margini di ragionevolezza economica alla luce del complessivo assetto di interessi voluto dai soci, l’autonomia negoziale e statutaria possa individuare criteri di liquidazione diversi da quelli legali per le ipotesi diverse da quelle inderogabili in particolare nei casi in cui il recesso convenzionale non sia legato all’approvazione di una delibera assembleare o a fatti di gestione. Altra parte della dottrina è di diverso avviso. Nel caso concreto, il Ministero mette in evidenza che l’equilibrio complessivo delle clausole statutarie sulla valorizzazione delle azioni
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privilegiate ai fini della conversione ovvero ai fini del recesso, in caso di mancato esercizio della facoltà di conversione, risulta dalle particolari caratteristiche delle azioni privilegiate, che godrebbero di una sostanziale attenuazione della partecipazione al rischio d’impresa, in ragione del riconoscimento di un dividendo preferenziale, del diritto di recesso in caso di mancata percezione del dividendo, della postergazione nelle perdite. La clausola statutaria che prevede la valorizzazione delle azioni privilegiate al valore nominale risponderebbe a criteri di equità valutando il minimo grado di partecipazione al rischio d’impresa, e, prevedendo, quindi, come criterio di riferimento, quello del valore nominale. Si sottolinea, in tale chiave, che è garantita alle fondazioni una possibilità di uscita, con integrale recupero dell’investimento effettuato, in caso di mancato pagamento di dividendi per due soli esercizi, mentre l’esposizione a rischio di perdite che intacchino il valore delle azioni privilegiate sarebbe praticamente nullo: tenuto conto sia del diritto di recesso che della postergazione, sarebbe necessario che in due soli esercizi si accumulino perdite tali da annullare le riserve e la quota di capitale rappresentate dalle azioni ordinarie (quindi, dovrebbero occorrere perdite complessive superiori a 13 miliardi di euro in due esercizi). Inoltre, il criterio statutariamente previsto per la valorizzazione delle azioni privilegiate appare coerente con i criteri con i quali è stato stabilito il valore delle azioni al momento dell’acquisto da parte delle fondazioni, criteri che prescindevano dalla valutazione del patrimonio complessivo di CDP, non effettuata al momento della costituzione della società. Le clausole statutarie revocate in dubbio – secondo il Ministero – con il riferimento al valore nominale tutelavano sia l’interesse delle fondazioni (protette dal rischio che il patrimonio effettivo fosse inferiore al valore nominale del capitale sociale), sia del Tesoro (protette dal rischio che il patrimonio effettivo fosse superiore a tale valore). Le stesse perizie dei valutatori JP Morgan e Deutsche Bank hanno attestato la corrispondenza fra il corrispettivo pagato dalle fondazioni ed il valore delle azioni privilegiate, tenendo conto proprio di tali clausole statutarie e dei conseguenti diritti patrimoniali spettanti alle fondazioni in caso di exit. Un ampliamento dei diritti patrimoniali delle fondazioni rispetto a quelli riconosciuti dallo statuto implicherebbe che il valore del bene acquistato sarebbe superiore al prezzo pagato dalle fondazioni al momento dell’ingresso in CDP.
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Il Ministero ritiene, quindi, che le clausole statutarie conservino piena validità ed efficacia in quanto conformi a principi di equità ed ai principi inderogabili di diritto societario in materia di valorizzazione delle quote di partecipazione. Ciò premesso, il Ministero chiede di conoscere l’avviso del Consiglio di Stato in relazione alla legittimità delle clausole statutarie sopra citate, ed in particolare se siano da ritenere legittime o siano fondati i richiamati dubbi di legittimità e se, dunque, non si possa ragionevolmente escludere il rischio di soccombenza del Ministero/CDP in sede di eventuale contenzioso civile con le fondazioni bancarie. Nel caso in cui fossero ritenuti fondati tali dubbi di legittimità o non fossero ragionevolmente da escludere rischi di soccombenza, si chiede al Consiglio di Stato se per la determinazione del corretto criterio di valorizzazione delle azioni privilegiate, in sede di conversione o di recesso, possa seguirsi un percorso alternativo. Tale percorso è delineato attraverso modifiche statutarie che – nel richiamare il medesimo criterio patrimoniale anche con riferimento alla valorizzazione al momento della sottoscrizione delle stesse azioni privilegiate nel 2003 – siano volte a determinare la quota di patrimonio netto effettivo iniziale spettante agli azionisti privilegiati in conseguenza del loro apporto monetario. In tal caso verrebbe riconosciuta agli azionisti privilegiati in sede di determinazione del conguaglio ovvero in caso di recesso – la quota proporzionale degli incrementi patrimoniali registratisi nel bilancio di CDP dall’epoca della trasformazione in S.p.A. alla data di conversione, ferma restando l’applicazione, in sede di valorizzazione delle stesse azioni privilegiate dell’attuale disciplina statutaria di decurtazione degli extradividendi percepiti dalle fondazioni nel periodo 2004-2008. All’adunanza del 16 ottobre 2012 la richiesta di parere veniva esaminata dalla Commissione speciale nominata dal Presidente del Consiglio di Stato. Considerato: l. In premessa non ritiene la Commissione di doversi diffondere sull’ ammissibilità del parere, anche alla stregua di quanto deciso in proposito dalla Commissione speciale del 10 luglio 2012 n. 5107 del 2012. La richiesta di parere attualmente in esame, infatti, pur incidendo su attività gestionali e pur prospettando anche un elevato rischio di contenzioso per l’amministrazione, coinvolge questioni di massima centrali per l’assetto organizzativo ed operativo di una società pubblica – quale CDP – di cruciale rilevanza nel diritto pubblico dell’economia in Italia. Quello che è in gioco, in definitiva, è la stessa perseguibilità, con l’attuale assetto, della politica industriale in un quadro di sostenibilità del debito pubblico.
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Il Consiglio ritiene dunque il parere ammissibile, con riferimento ai profili giuridici generali sollevati. 2. Le questioni sottoposte al Consiglio di Stato, meglio specificate nelle premesse, possono essere così sintetizzate: - quale sia la natura giuridica delle azioni privilegiate di CDP; - se sia da riconoscersi, fondatamente ed in termini di probabilità nel prosieguo dell’azione amministrativa, validità alle clausole statutarie prima richiamate; - se sia da riconoscersi ed in che limiti l’equità/sostenibilità dell’assetto di interessi convenzionalmente stabilito, anche alla luce degli artt. 2437 ter e 1349 cod. civ. (norma quest’ultima richiamata nel parere del prof. Irti); - quali siano i rischi di un possibile contenzioso e la praticabilità di percorsi alternativi. 3. Le risposte a tali quesiti non possono peraltro prescindere dal quadro istituzionale in cui si è sviluppata la complessa operazione finanziaria, ripercorrendo anzitutto per brevi cenni la storia e l’evoluzione dei due soggetti coinvolti e in primo luogo dell’Istituto. Antecedenti storici della CDP, quale ora è in Italia, si sono avuti in Francia con la «Cassa di ammortizzazione», creata con l. 23 novembre 1799 (del periodo napoleonico) e con la Caisse des dépots et consignations, istituita con l. 28 aprile 1816, sulle finanze. Specialmente a quest’ultimo Istituto si informarono la CDP dello Stato piemontese e quella del Regno d’Italia, ripetendone la struttura, le attribuzioni, la natura giuridica e gli organi. Cosicché nel Regno di Sardegna – e solo in esso e non negli stati preunitari – si ebbe la «Cassa di depositi e di anticipazioni di fondi per i lavori pubblici», istituita con brevetto di Re Carlo Alberto dell’11 aprile 1840, n. 302. Tale istituto, sorto per una fase sperimentale di raccolta di fondi e di anticipazioni per lavori pubblici da compiersi da parte di comuni e province, durò dieci anni e cioè fino all’emanazione della 1. 18 novembre 1850, n. 1097 con la quale si istituì la «Cassa dei depositi e dei prestiti», amministrata dal Direttore generale del debito pubblico. Con la costituzione del Regno d’Italia dopo ripetuti interventi legislativi che alternavano spinte accentatrici e spinte decentratrici, si pervenne alla emanazione della l. 27 maggio 1875, n. 2779, per la istituzione delle casse di risparmio postali, di modifica della precedente l. 17 maggio 1863, n. 1270, sulla CDP. Quest’ultima legge – di fondamentale importanza nella vita dell’Istituto – attuò il decentramento del servizio dei depositi affidandolo alle
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intendenze di finanza, potenziò le possibilità di raccolta dei depositi medesimi con la istituzione delle casse di risparmio postali, compenetrate nella Cassa, dalle quali affluirono in maniera cospicua i risparmi dei cittadini dando luogo a possibilità notevoli di estensione dell’azione di credito agli enti locali per opere di pubblica utilità. In tal modo la Cassa divenne un’impresa di credito a lungo termine e a basso costo per opere di pubblico interesse di enti pubblici diversi dallo Stato (praticamente, per le province, i comuni, gli enti locali di assistenza). Senza soffermarsi sugli ulteriori interventi normativi (fra i più importanti, quello voluto dal Ministro Luttazzi), basti evidenziare che si è sempre trattato di un istituto connotato da un certo ibridismo, sia nella sua natura giuridica, sia nelle modalità operative, cosicché è stata sempre discussa la natura giuridica della Cassa, ritenuta ora ente o azienda statale (si pensi al periodo in cui era eretta in Direzione generale), ora azienda autonoma speciale, ora impresaorgano. Discussa altresì la natura giuridica dei provvedimenti concessori dei mutui, riportata ora all’atto negoziale ora all’atto amministrativo (a quest’ultimo proposito rilevava la circolare 11 febbraio 1985 n. 1141 della Cassa). Nel complesso, anche prima della trasformazione in società per azioni, l’attività della Cassa era ritenuta in dottrina ed in giurisprudenza di prevalente natura privatistica e, più specificatamente, dotata di alcuni tratti dell’attività bancaria, esplicandosi in prestiti o mutui a enti vari, previsti dalle leggi in vigore, per la realizzazione indiretta di fini pubblicistici. Giova ricordare quanto statuito dal Cons. St., Sez. III, 27-06-1989, n. 692/89 che ha ritenuto che il mutuo erogato dalla CDP (ai sensi della speciale normativa del t.u. 2 gennaio 1913 n. 453 e succ. modif., d.m. l° febbraio 1985) vada ricondotto alla figura del mutuo di scopo, il cui utilizzo è cioè vincolato alle finalità di interesse pubblico fissato dalla normativa che ne prevede la concessione ed il finanziamento; ma che anche in tale particolare figura di mutuo non difetti la natura reale del negozio. La natura di tale attività non è stata fatta oggetto di penetranti ricerche da parte della dottrina amministrativa, ma sembra fondata la illazione che essa, in quanto realizza interessi pubblici (particolarmente quelli di soccorrere la finanza degli enti locali e di agevolare la realizzazione di opere pubbliche, senza fine di lucro) con strumenti di diritto privato, dovesse farsi rientrare, fino alla avvenuta privatizzazione, nella categoria denominata “attività amministrativa di diritto privato”.
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In questo quadro si inserisce l’intervento riformatore del 2003, a proposito del quale, nella relazione sulle privatizzazioni pubblicata dal Ministero dell’economia nel luglio del 2004, è detto che “la ristrutturazione della Cassa ha risposto ad una precisa logica industriale, completando il percorso intrapreso al termine degli anni novanta con il decreto legislativo n. 284 del 1999 ed … ha inteso rendere compatibile la sua tradizionale missione di interesse pubblico con gli obiettivi di equilibrio economicofinanziario tipici di una società per azioni. L’operazione inoltre risulta coerente con i più recenti orientamenti della Commissione europea ed in linea con gli assetti istituzionali vigenti in tutti gli altri Paesi europei.” Sotto il profilo organizzativo la Cassa è ora una società, governata a mezzo di un Presidente, di un Consiglio di Amministrazione, di un’Assemblea di soci. Sul piano funzionale sono state distinte due branche di attività, quelle più tradizionali e quelle relative a nuove attività (le prime esercitate secondo un regime a gestione separata, le altre secondo un regime a gestione ordinaria). La novità più rilevante è nell’art. 8 bis della legge citata che, in sostanza, ha consentito alla Cassa di acquisire partecipazioni anche in società che svolgono attività slegate dai suoi compiti istituzionali e di realizzare operazioni di vendita di pacchetti azionari posseduti dallo Stato, che, pur non comportando un reale passaggio dalla mano pubblica alla mano privata, consentono di imputare il loro ricavato a riduzione del debito statale, come emerge dalla citata relazione sulle privatizzazioni del luglio 2004. In questa funzione di titolare di partecipazioni CDP S.p.A. è una vera e propria holding pubblica, anche se in una logica completamente diversa da quella del precedente sistema delle partecipazioni statali. In merito al carattere pubblicistico vale l’osservazione del Cons. St., Sez. VI, 12-02-2007, n. 550 secondo cui anche per l’ordinamento nazionale – come per quello comunitario – al fine di poter attribuire natura pubblicistica ad un soggetto operante nel mercato comune, occorre riferirsi a dati di tipo sostanziale e non di mera qualificazione formale; va in particolare escluso che la semplice veste formale di S.p.A. sia idonea a qualificare la natura dei soggetti. È indubbio che CDP mantiene significativi tratti pubblicistici: 1) è sottoposta al controllo della Corte dei conti quale società pubblica ai sensi della sentenza della Corte costituzionale n. 466 del 1993, dell’art. 12 della legge n. 259 del 1958, espressamente richiamato dall’art. 5, comma 17, del d.l. 30 settembre 2009,n. 269; 2) mantiene inalterate funzioni e finalità pubbliche e di interesse generale; 3) può essere considerata, ai fini ricollegabili a tale qualifica nel diritto comunitario, un organismo di diritto pubblico (Corte Giustizia CE, 13 gennaio 2005, C-84/03; Cons.
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St., Sez. VI, 12-02-2007, n. 550); 4) può essere considerata – sia pure più problematicamente – ai fini dell’art. 1 ter della legge n. 241 del 1990 soggetto privato preposto all’esercizio di attività amministrative (se ed in quanto ricorrano nelle attività più tradizionali soggette a gestione separata); 5) può avvalersi dell’Avvocatura dello Stato (art. 17, comma 15, del d.l. n. 269 del 2003). Di contro, una circostanza importante è che lo statuto di CDP è approvato con d.P.C.M. di natura non regolamentare, e ciò significa che non può derogare alla disciplina di diritto comune, avendo l’approvazione ministeriale solo il compito di verificare la conformità della versione originaria dello statuto alle previsioni legislative derogatorie della legge n. 269 del 2003 (una significativa deviazione dal codice civile è stata ad esempio l’esenzione dall’art. 2362 codice civile ossia dalla disciplina dell’azionista unico prevista dalla legge istituiva di CDP S.p.A.). Lo stesso statuto, all’art. 32 fa rinvio, per quanto non previsto, alla disciplina del codice civile. Conclusivamente, si tratta di una società per azioni ma di diritto speciale, in cui la forma societaria è un involucro formale, ossia un espediente tecnico-giuridico per conseguire importanti vantaggi rispetto al tradizionale modello dell’amministrazione pubblica, ossia maggiore flessibilità organizzativa, apporto di capitale privato, maggiore orientamento alla logica di mercato delle attività svolte (con finanziamenti meno politicizzati e orientati a maggiore convenienza gestionale). Va anche ricordato, per evidenziare alcuni problemi aperti nell’attuale assetto di CDP che la Corte dei conti, Sez. Controllo enti, 21 ottobre 2009, n. 64 ha rilevato che l’art. 5, comma 6, d.l. 30 settembre 2003, n. 269, stabilisce che la CDP S.p.A. sia assoggettata alle disposizioni del titolo quinto del testo unico delle leggi in materia di intermediazione bancaria e creditizia (TUB), previste per gli intermediari finanziari di cui all’art. 107 del medesimo testo unico (ora 106 perché l’intero Titolo V è stato “riscritto” dal comma 1 dell’art. 7, d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141), nel rispetto delle peculiarità che la connotano, e che, fino all’emanazione di provvedimenti specifici in materia da parte della Banca d’Italia, sia sottoposta ad una vigilanza di tipo informativo (è discussa la questione dell’eventuale estensione a CDP, in qualche forma, della vigilanza prudenziale esercitata dalla Banca d’Italia). Ha rilevato altresì che l’art. 5, comma 8, del d.l. n. 269 del 2003, al fine di rispettare la normativa comunitaria in materia di aiuti di stato e concorrenza interna, ha disposto – come si è prima evidenziato – l’istituzione di un sistema di separazione organizzativa e contabile tra le attività di interesse economico generale e le altre attività svolte dalla società.
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La Corte dei conti ha quindi evidenziato una serie di criticità derivanti dalla nuova missione dell’Istituto, prospettando l’esigenza di una messa a punto della nuova struttura organizzativa, con l’adozione dei presidi necessari a consentire di governare le operazioni di partnership con i privati senza che sorgano conflitti di interessi o si verifichino effetti distorsivi della concorrenza; lo sviluppo in termini operativi delle intese raggiunte nel corso dell’anno 2008 e del 2009 con le consorelle istituzioni di Francia e Germania e con la Commissione europea e la Banca europea degli investimenti, con la adesione di operatori di altri paesi; la soluzione dei problemi connessi alle partecipazioni trasferite; la necessità di assicurare al collegio sindacale informazioni sui fatti gestionali complete e tempestive, anche in considerazione dei particolari obblighi di accountability (ovvero affidabilità o responsabilità derivante dalla resa del conto) che la Cassa ha nei confronti dell’ampia categoria di stakeholders (ovvero le parti interessate all’andamento di una compagine societaria in questo caso identificabili soprattutto nei risparmiatori postali). Infine, la Corte ha evidenziato specifiche criticità emerse con riferimento alla completa dipendenza della Cassa, ai fini della raccolta del risparmio da Poste italiane S.p.A. ed alla mancata conversione di azioni privilegiate, indicativa del permanere di perplessità e riserve sull’irrevocabilità della loro presenza nel capitale della società. 4. La riforma del 2003 ha, fra l’altro, consentito l’ingresso di altri soggetti nel capitale della Cassa entro precisi limiti quantitativi e qualitativi: di fatto – come ricordato – solo le fondazioni bancarie sono state ammesse a partecipare al capitale per una quota pari al 30% dello stesso. Ebbene, anche in questa vicenda si manifesta l’ibridismo dell’Istituto atteso che le fondazioni sono esse stesse connotate da un certa natura anfibologica, quale risulta dalla loro origine e dalla loro disciplina contenuta nel d.lgs. 17 maggio 1999, n. 153, adottato in base alla legge 23 dicembre 1998, n. 461, che inquadra le fondazioni tra le “persone giuridiche private senza scopo di lucro”. Esse hanno autonomia statutaria e gestionale, realizzano “scopi di utilità sociale e promozione dello sviluppo economico”, indicati come esaustivi (l’art. 2 recita “esclusivamente”) della loro sfera di intervento (sul punto si veda anche Corte cost. n. 300 e n. 301 del 2003). Di qui un loro assetto strutturale – in cui figurano organi di indirizzo, di amministrazione e di controllo – che è fondato sull’autodeterminazione e l’indicazione di criteri prudenziali tesi a vincolare i patrimoni delle fondazioni agli obiettivi statutari (artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 153 del 1999). Il modello organizzativo implicherebbe il definitivo inserimento delle fondazioni nel settore non lucrativo e la loro separazione dalle società bancarie derivate dalla privatizzazione delle banche pubbliche (con di-
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smissioni delle partecipazioni nelle banche come previsto dall’art. 25 del d.lgs. n. 153 del 1999). La finalità è giungere ad un equilibrato assetto fra economia di mercato e tutela dei diritti sociali. In questa chiave giova ricordare che alle fondazioni, per non compromettere la realizzazione del loro programma sociale (legislativamente definito), è vietato l’esercizio di funzioni creditizie (art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 153 del 1999) ed è precluso l’esercizio di forme di finanziamento, di erogazione, o, comunque, di sovvenzione, diretta od indiretta, ad enti con fini di lucro o in favore di imprese di qualsiasi natura (sempre si veda l’art. 3, comma 2, citato). Qualche rilievo assume anche quanto ritenuto da Cons. St., Sez. II, 30-06-2004, n. 2957/04 che ha ritenuto a certi effetti in astratto riferibile agli enti fondazionali la nozione comunitaria di “organismo di diritto pubblico”, ciò che non altera la natura giuridica (pubblica o privata) dei soggetti cui si riferisce, assumendo rilievo ai soli fini della individuazione della normativa applicabile per la scelta dell’erogatore dei servizi e, conseguentemente, la normativa comunitaria in materia. In ogni caso la loro funzione in CDP è quella di investitori istituzionali o di lungo periodo che possono accompagnare la vita della Cassa, garantendole, nell’intento del legislatore, stabilità e condivisione di obiettivi di interesse sociale e generale. Naturalmente non mancano le voci critiche in dottrina che sottolineano come – in questa trasformazione di ruolo dal terzo settore al ruolo di investitori istituzionali – le fondazioni siano divenute un potere autonomo ed autoreferenziale (pur disponendo di risorse pubblicisti che perché derivanti dalle ex banche pubbliche): e certamente la dialettica interna alla CDP che ha condotto alla richiesta di questo parere è indice della autonomia crescente di questi enti che, se spinta all’estremo, potrebbe arrivare, paradossalmente, a confliggere con l’intento legislativo manifestato nella legge n. 269 del 2003. 5. Ciò premesso sul piano soggettivo, ma con riflessi – come si vedrà – non irrilevanti, occorre ora indagare sulla natura giuridica e le caratteristiche delle azioni privilegiate della Cassa di cui le fondazioni sono detentrici. Va intanto osservato che nel moderno mercato finanziario l’istituto della partecipazione azionaria subisce una trasformazione, in quanto viene meno la possibilità di qualificare l’azione in base ad un contenuto minimo sia sul piano organizzativo che su quello patrimoniale. Sul piano organizzativo, la compartecipazione al governo dell’ente, che l’azione conservava prima della riforma (sotto forma di diritto di
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voto pieno o limitato) e con l’eccezione delle azioni di risparmio, è oggi azzerabile essendo lecita la creazione di azioni prive del diritto di voto (art. 2351 cod. civ.). Viceversa l’art. 2351 cod. civ., ultimo comma, consente alla società di emettere strumenti finanziari partecipativi diversi dalle azioni, dotati di diritti di partecipazione su particolari argomenti o del potere di designazione di un componente indipendente degli organi sociali. Si possono avere così azioni senza diritti di partecipazioni e strumenti finanziari partecipativi. Sul piano patrimoniale, poi, gli strumenti finanziari di cui all’art. 2346, ultimo comma, cod. civ. possono avere diritti patrimoniali allineati a quelli delle azioni. Sfuma quindi – in questo quadro – la distinzione fra capitale e debito, fra azioni ed obbligazioni e nascono strumenti misti, che accoppiano, a caratteristiche delle azioni, connotati tipici delle obbligazioni ponendo il problema dell’individuazione dei limiti interni a ciascuna fattispecie. Tra i due estremi – azioni ordinarie ed obbligazioni pure e semplici – vi è una serie di varianti con una gamma di tipologie intermedie che non hanno quasi soluzione di continuità. Su questa linea vi sono, fra azioni ordinarie ed obbligazioni pure e semplici, i seguenti altri titoli solo per esemplificare: azioni privilegiate, azioni privilegiate con voto limitato, azioni di risparmio, azioni di risparmio a rendimento quasi garantito, obbligazioni indicizzate agli indici di borsa, obbligazioni con rendimento legato agli utili della società emittente, ed in ultimo, le obbligazioni c.d. subordinate (da rimborsare per ultime in caso di inadempienza) e le obbligazioni irredimibili (che obbligano alla restituzione degli interessi e non del capitale). Con riferimento al caso di specie va ricordato che la Corte dei conti – Sezione del controllo sugli enti – nella relazione al Parlamento sulla gestione finanziaria della CDP, approvata con determinazione n. 16/2012, al punto 12.2.4.3 contiene rilievi sulla classificazione contabile di tali azioni, che devono essere rimborsate al valore nominale, rilevando che esse sono state classificate nella voce “capitale sociale” e non nella voce ‘’passività finanziarie” come segnalato dalla Corte dei conti in precedenti relazioni. Rilevano la determinazione n. 104/2010 punto 3.1; la determinazione n. 64/2009 punto 11.2; la determinazione n. 71/2008 punto 2.1 che cita il principio IAS 32 conforme al regolamento comunitario 2237/2004 e successive modifiche, per il quale uno strumento finanziario nel prospetto della situazione finanziaria contabile dell’entità è determinato dal suo contenuto sostanziale piuttosto che dalla sua forma giuridica; e per il quale “un’azione privilegiata che preveda il rimborso da parte dell’emittente di un ammontare fisso o determinabile ad una
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data futura fissa o determinabile o che dia al possessore il diritto di richiedere il rimborso dello strumento ad una o dopo una certa data per un ammontare fisso o determinabile, è una passività finanziaria”. Tuttavia deve ritenersi che tali regole di esposizione contabile non possano condurre alla qualificazione delle azioni privilegiate come obbligazioni (non prospettata nemmeno dal Ministero). Intanto la stessa Corte dei conti ricorda che tale classificazione contabile è stata ritenuta giustificata dalla società di revisione di CDP proprio nella prospettiva della futura conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie e finisce quindi per ammetterla per la sua transitorietà e provvisorietà. Inoltre lo statuto attribuisce agli azionisti privilegiati significativi diritti di partecipazione (voice) ed amministrazione e prevede la loro partecipazione alle perdite, sia pure con il beneficio della postergazione rispetto alla posizione dei possessori delle azioni ordinarie. Gli azionisti privilegiati si vedono poi attribuito un diritto di voto pieno che non è compatibile con la natura di strumento finanziario partecipativo in quanto l’art. 2351 cod. civ., attribuendo ad obbligazionisti diritti di partecipazione, limita tali possibilità di voto ad “argomenti specificamente indicati”. Infine deve rilevarsi che la qualificazione formale di un titolo quale azione od obbligazione non può non avere decisività, poiché vi è un’imputazione formale dell’apporto a capitale sociale che rileva anche nei confronti dei terzi e comunque per ragioni di certezza giuridica. 6. Venendo al problema specifico posto dal quesito, occorre anzitutto verificare (ovviamente alla luce delle considerazioni fin qui svolte) la portata giuridica della clausola (art. 9, comma 3) che disciplina il valore della quota di partecipazione al momento del recesso (exit). In proposito va subito chiarito che ad avviso della Commissione la clausola statutaria in esame prevede senza dubbio il recesso al valore nominale (e la correlativa valorizzazione al valore nominale anche in caso di determinazione del valore di conversione), con l’unico correttivo della “sterilizzazione” del meccanismo dell’extradividendo, che, ove conseguito, viene detratto dall’ammontare del valore nominale; (nel caso di specie andrebbero detratti 388 milioni di euro per quanto riferito dal Ministero) o della sua reintegrazione, ove il dividendo percepito sia risultato inferiore all’extradividendo (art. 9, comma 3). Il dato letterale infatti è decisamente in questo senso e pertanto non appaiono fondati i dubbi interpretativi pure manifestati in proposito. 7. Quanto alla legittimità della clausola, per inquadrare la problematica nel contesto sostanziale della vicenda occorre rilevare che il
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trasferimento delle azioni privilegiate dallo Stato alle fondazioni avvenne al valore nominale, senza che fosse stato valutato sul piano patrimoniale l’apporto in natura del Tesoro, con la conseguenza che per le fondazioni si sarebbe generata una plusvalenza inespressa, il cui correttivo sarebbe stata la liquidazione al valore nominale, in caso di recesso (exit). Le valutazioni di JP Morgan e Deutsche Bank – fatte all’atto di ingresso delle fondazioni – confermano tale prospettazione. In tal senso, ad esempio, JP Morgan, in data 16 dicembre 2003, ha preceduto alla determinazione del valore delle azioni privilegiate “sulla base del valore terminale al 31 dicembre 2009 … stabilito – nello statuto con riferimento alla conversione automatica delle azioni privilegiate in azioni ordinarie ed al valore al quale i possessori delle azioni privilegiate potranno recedere nel periodo compreso fra il 1 ottobre 2009 ed il 15 dicembre 2009, stimato a tale data futura pari ad euro 10 per azione.” Analoga valutazione ha compiuto Deutsche Bank nella lettera 16 dicembre 2003, rilevando di aver effettuato un’analisi di discounted cashflow che ha tenuto conto del “valore futuro delle azioni privilegiate stimato alla data del 31 dicembre 2009, sulla base di quanto stabilito nello statuto, con riferimento alla conversione automatica delle azioni privilegiate in azioni ordinarie ed al valore delle azioni privilegiate nel caso in cui i loro proprietari intendano recedere dalla società nel periodo compreso fra il 1 ottobre 2009 ed il 15 dicembre 2009. Tale valore è stato stimato, anche secondo quanto stabilito nello Statuto all’art. 9, comma 3, pari ad euro 10,00 per azione.” Appare quindi evidente che fu calcolata una exit al valore nominale in quanto le azioni furono pagate al valore nominale, senza alcuna stima del patrimonio al momento dell’ingresso delle fondazioni. Ciò premesso, per analizzare la questione della legittimità della clausola, occorre prendere le mosse dal codice civile, nel suo testo attualmente vigente e non nel testo vigente all’atto di approvazione della clausola (ossia nel 2003). Difatti la pretesa delle fondazioni è avanzata in relazione al testo riformato del codice civile, nel presupposto che sia esso ora, specie dopo le modifiche statutarie del 2009, a regolare la fattispecie e non più il testo del codice civile ante riforma (vigente all’atto della approvazione dello statuto): la prospettazione è persuasiva anche perché in proposito va ricordato che la disciplina transitoria prevedeva obblighi di adeguamento degli statuti nel corso del 2004 alle nuove disposizioni inderogabili della riforma che entrava in vigore in data l gennaio 2004 (adeguamenti a cui non ha provveduto la Cassa).
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Come è noto, esso disciplina il recesso legale in ipotesi inderogabili dallo statuto (art. 2437, comma l); poi prevede ipotesi legali di recesso derogabili dallo statuto (art. 2437, comma 2); infine consente – in consonanza della volontà della riforma di ampliare l’autonomia statutaria – che “lo statuto delle società che non fanno ricorso al mercato dei capitali possa prevedere ulteriori cause di recesso”. La nullità dei patti volti ad escludere o rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso è prevista solo in relazione alle ipotesi di recesso legale inderogabile ossia “nelle ipotesi previste dal primo comma del presente articolo” (art. 2437, ultimo comma) e nulla è previsto in relazione alle ipotesi di recesso convenzionale, come quella per cui è stato chiesto il parere. Originariamente nel codice civile le ipotesi di recesso legale erano più limitate e la nullità era riferibile ad ogni pattuizione limitativa delle stesse ed il codice non prevedeva alcunché per il recesso convenzionale. Va poi rilevato che il codice civile dispone attualmente anche, all’art. 2437 ter, i criteri di determinazione del valore delle azioni. Essi sono criteri legali (art. 2437 ter, comma 2); criteri convenzionali (art. 2437 ter, comma 4); criteri equitativi (art. 2437 ter, comma 5). Il recesso convenzionale è disciplinato dall’art. 2437, comma 4, del codice civile che lo esclude solo per le società che fanno ricorso al capitale di rischio ossia per le quotate (non è il caso di CDP). E va anche precisato che i diritti economici di cui stiamo parlando sono da ritenersi in linea di principio diritti disponibili e che la riforma ha ampliato ed inteso ampliare l’autonomia statutaria. Venendo ora alla disciplina statutaria, essa è prevista per tutti i casi di recesso quindi anche per i casi di recesso legale e per quest’ultimo aspetto potrebbe essere seriamente contestata ai sensi dell’art. 2437, ultimo comma cod. civ., in quanto rende più difficoltoso il recesso (con conseguente prospettazione di una sua nullità parziale ove essa sia applicabile anche ai casi di recesso di cui all’art. 2437, comma l). Diverso è il ragionamento che deve farsi – a giudizio della Commissione – nel caso dell’opzione di recesso offerta dall’art. 7, comma 10 dello statuto in occasione della conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie, recesso evidentemente convenzionale. Difatti, in questo caso, in linea di principio, la materia della liquidazione della quota è disponibile e lo statuto può intervenire derogando al criterio legale di cui allo stesso articolo 2437 ter, comma 2. Ne consegue che sussistono – secondo il Collegio – argomenti seri per sostenere la validità della clausola in questione. Difatti:
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- in tal caso non si può applicare l’art. 2437, comma 6, del codice civile (nullità dei relativi patti) trattandosi di ipotesi di recesso diverse dalle ipotesi di cui all’art. 2437, comma l; - deve intendersi ampia la libertà negoziale statutaria delle parti di disciplinare i valori di liquidazione delle azioni nei casi di recesso convenzionale, disponendo anche in modo più sfavorevole al socio; - non sembra rilevante né applicabile la norma sul patto leonino (art. 2265 cod. civ.) atteso che la clausola si inserisce in un quadro complessivamente favorevole alle fondazioni (fra l’altro – come si è visto – alle azioni sono riservati utili con extradividendo e vi è postergazione nella partecipazione alle perdite); - la giurisprudenza sul patto di covendita che impone il riferimento al patrimonio e non al valore nominale non sembra applicabile alla fattispecie del recesso convenzionale in quanto non si prevede in tal caso alcun obbligo per il socio di minoranza di vendere ma si offre solo allo stesso una opzione di exit in corrispondenza di una conversione dei suoi titoli privilegiati in titoli ordinari. In tal senso quindi dovrebbe trovare risposta il primo quesito che sia cioè possibile sostenere la legittimità della clausola statutaria in esame, con riferimento all’ipotesi di recesso convenzionale sancita dallo statuto in occasione della conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie. 8. Tuttavia tale conclusione, pur persuasiva, non è del tutto tranquillizzante in relazione alle possibilità di innesco del contenzioso fra CDP (e Ministero) e fondazioni. Va rilevato al riguardo che astrattamente sono ipotizzabili tre azioni perseguibili dalle fondazioni avverso CDP. La prima è un’azione di nullità della clausola di cui all’art. 9, comma 3, dello statuto, che, come si è detto potrebbe essere abbastanza agevolmente contrastata dall’amministrazione sostenendo che la sanzione di nullità delle clausole volte a rendere più difficoltoso il recesso non si applica che a tutela delle ipotesi di recesso legale (cionondimeno, nonostante l’esistenza dei seri argomenti a sostegno della validità della clausola prima menzionati, certezze assolute – in materia di valutazione dei possibili esiti di un contenzioso – ovviamente non si danno). La seconda azione ipotizzabile è quella di annullamento della clausola statutaria, che potrebbe essere in astratto perseguita, nel silenzio della legge, sul piano del suo contrasto con l’art. 2437 ter, comma 4, azione che peraltro presenterebbe numerosi profili di criticità sia quanto al merito (nel senso che potrebbe essere contrastata sottolineando -come si è detto – l’importanza dell’autonomia negoziale e la sua attitudine
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a derogare senza limiti ai criteri legali di liquidazione nelle ipotesi di recesso convenzionale), sia quanto alla tempestività (sembra remoto il rischio di ritenere che l’interesse a ricorrere sia insorto solo al momento dell’operazione di conversione). Più delicata è la valutazione del rischio con riferimento alla terza azione ipotizzabile: quella per ottenere l’accertamento del proprio diritto alla liquidazione di una quota del patrimonio ed un equo apprezzamento della propria partecipazione ai sensi dell’art. 2437 ter, comma 6. È vero infatti – come si è visto – che nei casi di recesso convenzionale esiste un ampio potere di deroga ai criteri legali di valutazione della quota, tuttavia tale potere non è illimitato. Quindi, pur essendo indubbio – come si è detto – che la clausola di cui all’art. 9, comma 3, dello statuto sia chiara nell’attribuire solo una frazione del capitale sociale, corrispondente al valore nominale delle azioni detenute dal socio che recede, non può escludersi la possibilità, evidenziata in particolare in uno dei pareri allegati al quesito, di una contestazione di tale valorizzazione in nome dell’equo apprezzamento di cui all’art. 1349 cod. civ. richiamato dall’art. 2437 ter, ultimo comma, ed altresì in forza dell’obiettivo “orientamento al patrimonio” dei criteri codicistici di liquidazione (ex art. 2437 ter, comma 4 ). In questa prospettiva potrebbe sostenersi che lo spostamento di ricchezza a favore della CDP, determinato dalla deviazione rispetto ai criteri legali e convenzionali ammissibili (orientati – come si è detto – verso una stima aderente al patrimonio) sia priva di causa. E sul piano sostanziale potrebbe rilevare in tal senso l’apporto delle fondazioni agli incrementi patrimoniali verificatisi nel tempo, atteso il ruolo non irrilevante svolto dalle stesse fondazioni nel sistema di gestione. In tal senso sono i pareri pro veritate in atti, che concordano, sia pure con diverse argomentazioni, nel manifestare insoddisfazione sulla legittimità e sull’equità/sostenibilità dell’assetto delle previsioni statutarie in tema di recesso alla stregua dell’art. 2437 ter; e anche a prescindere da quella dottrina e da quella giurisprudenza, secondo cui la derogabilità statutaria dei criteri legali di liquidazione della quota può avvenire solo in senso più favorevole al socio (si veda, ad es., Trib. Milano, Sez. VIII, 24-5-2007), è comunque dominante la tesi per la quale la deroga ai criteri legali di liquidazione debba avvenire senza perdere un certo ancoraggio al patrimonio. Tutto ciò, anche ove si ammetta la serietà degli argomenti a favore della legittimità della clausola di cui all’art. 9, comma 3, dello statuto, non è senza peso in ordine alle valutazioni che l’amministrazione deve compiere sui rischi di contenzioso.
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Peraltro, sempre nella prospettiva sostanziale, va ricordato che la disciplina statutaria si giustifica con l’intento di “sterilizzare” la plusvalenza inespressa formatasi al momento dell’ingresso delle fondazioni in CDP, nonché con gli indubbi privilegi di cui le fondazioni hanno goduto sul piano economico (in particolare, nella attribuzione degli utili), privilegi moltiplicati da detta plusvalenza. Né può considerarsi irrilevante la percentuale ridotta, se non minima, di rischio d’impresa assunta dalle fondazioni, sia per effetto della regola statutaria della postergazione delle perdite che per effetto della possibilità di recedere in caso di mancata percezione di utili per due esercizi (andrà valutato che tale percentuale di rischio aumenta a partire dal 2009 con l’eliminazione dell’extradividendo). Andrebbe altresì tenuta in considerazione l’esistenza della garanzia dello Stato sulle attività non di mercato, che esclude in concreto il rischio di impresa e quindi la causa dell’attribuzione patrimoniale alle fondazioni al momento dell’uscita con riferimento agli incrementi patrimoniali realizzati per effetto di attività integralmente coperte da garanzia dello Stato. 9. Ritiene conclusivamente la Commissione speciale che al fine di scongiurare un eventuale contenzioso (che costituisce un danno in sé e sulla cui rischiosità concreta valuterà il MEF se acquisire anche il parere dell’Avvocatura generale dello Stato) potrebbe essere ritenuto equo e quindi meritevole di tutela l’interesse a conseguire quote del patrimonio nel caso di exit: l’interesse tutelabile – come rilevato dallo stesso Ministero – sarebbe in particolare quello al conseguimento da parte delle fondazioni di una quota – corrispondente alla frazione detenuta del capitale sociale – degli incrementi patrimoniali (e solo di tali incrementi patrimoniali) conseguiti da CDP dal momento dell’ingresso delle fondazioni al momento dell’esercizio del diritto di recesso. Ciò evidentemente nei termini e nei limiti fin qui evidenziati (ossia, tenendo conto della bassa rischiosità della posizione delle fondazioni dovuta alla postergazione nelle perdite e della esistenza della garanzia dello Stato su parte delle attività di CDP). 10. Quanto alle possibili modalità di perseguimento di tale risultato, alla Commissione non sembra che a tale fine sia utile la fonte statutaria, atteso che a fronte di modifiche statutarie di tale fatta, ove i soci di minoranza non fossero soddisfatti avrebbero da invocare il recesso di cui all’art. 2437 comma 1 lett. f), con conseguente verificarsi di un “circolo vizioso” per cui si innescherebbe proprio un’ulteriore ipotesi – questa volta legale – di recesso. Né la complessità della questione e l’evidente concorrenza di interessi pubblici e di valutazioni lato sensu politiche permette di ipotizzare
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come del tutto satisfattivi interventi di tipo arbitrale che sarebbero limitati alla mera (e fra l’altro non facilmente prevedibile) determinazione dei valori economici delle partecipazioni sganciata da tutte le complesse variabili di contesto che sono state evidenziate in questo parere. La soluzione pertanto non potrebbe che essere rinvenuta sul piano normativo, con determinazione del valore di concambio e di liquidazione che tenga conto dei criteri sopra espressi, volti a circoscrivere la meritevolezza della partecipazione delle fondazioni agli incrementi patrimoniali, conseguiti successivamente al loro ingresso. A tal fine il Collegio segnala la questione ai sensi dell’art. 58 del r.d. 21 aprile 1942 n. 444 per cui “Quando dall’esame degli affari discussi dal Consiglio risulti che la legislazione vigente è in qualche parte oscura, imperfetta od incompleta, il Consiglio ne fa rapporto al Capo del Governo”. Rimangono ovviamente da affrontare, nella sede e con le modalità più opportune, le questioni di fondo evidenziate circa la natura ibrida dei due soggetti coinvolti nella vicenda in esame e quindi dei loro stessi rapporti; questioni dalla cui soluzione è legata la possibilità di assicurare al Paese adeguati strumenti di politica industriale. P.Q.M. In tal senso è il parere della Commissione speciale. Si ordina la trasmissione dello stesso al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Statuto
III della Cassa Depositi e Prestiti s.p.a (al 19 dicembre 2012) Art. 7
(Omissis) 10. – Le azioni privilegiate sono automaticamente convertite in azioni ordinarie a far data dal 1 aprile 2013. 10.1. Il rapporto di conversione è determinato dal Consiglio di amministrazione entro il 31 gennaio 2013 secondo le seguenti modalità: a) determinazione del valore di CDP S.p.A. (in appresso semplicemente CDP) (i) alla data di trasformazione di CDP in società per azioni e (ii) al 31 dicembre 2012 sulla base di perizie giurate di stima che tengano conto, tra l’altro, della presenza della garanzia dello Stato sulla raccolta del risparmio postale; b) determinazione del rapporto tra il valore nominale delle azioni privilegiate e il valore di CDP alla data di trasformazione di CDP in società per azioni determinato ai sensi della lettera a);
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c) determinazione del valore riconosciuto alle azioni privilegiate ai fini della conversione, quale quota, corrispondente alla percentuale di cui alla lettera b), del valore di CDP al 31 dicembre 2012 determinato ai sensi della lettera a). Qualora il rapporto di conversione delle azioni privilegiate in azioni ordinarie come sopra determinato non risulti alla pari, i titolari delle azioni privilegiate hanno la facoltà di beneficiare di un rapporto di conversione alla pari versando alla CDP una somma, a titolo di conguaglio, di importo pari alla differenza tra il valore di una azione ordinaria e il valore di una azione privilegiata. Tale facoltà potrà essere esercitata nel periodo dal 15 febbraio 2013 al 15 marzo 2013. I titolari delle azioni privilegiate che entro il 15 marzo 2013 non abbiano esercitato il diritto di recesso, versano al Ministero dell’economia e delle finanze, a titolo di compensazione, un importo forfetario pari al 50 (cinquanta) per cento dei maggiori dividendi corrisposti da CDP, per le azioni privilegiate per le quali avviene la conversione, dalla data di trasformazione in società per azioni, rispetto a quelli che sarebbero spettati alle medesime azioni per una partecipazione azionaria corrispondente alla percentuale di cui alla lettera b) del comma 10.1. L’importo di cui al comma precedente può essere versato, quanto ad una quota non inferiore al 20 (venti) per cento, entro il 1 aprile 2013, e, quanto alla residua quota, in quattro rate uguali alla data del 1 aprile dei quattro anni successivi, con applicazione dei relativi interessi legali. Ferma restando la causa di recesso prevista dall’art. 9, comma 1, del presente Statuto, nel periodo dal 15 febbraio 2013 al 15 marzo 2013, agli azionisti privilegiati che non intendano usufruire della conversione automatica, è attribuito il diritto di recedere dalla società, per l’intera loro partecipazione, con le modalità previste dal seguente art. 9, commi 1 e 2. (Omissis) Art. 9 1. - Oltre che nelle ipotesi in cui agli azionisti spetti per legge il diritto di recesso, e fermo altresì quanto previsto al precedente art. 7, comma 10, i soci titolari di azioni privilegiate hanno diritto di recedere dalla società, limitatamente al periodo tra il 23 settembre 2009 ed il 31 dicembre 2012, nel caso in cui per due esercizi consecutivi non percepiscano utili dalla società. Il diritto di recesso deve sempre essere esercitato dai soci titolari di azioni privilegiate per l’intera partecipazione. 2. - Il diritto è esercitato mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. Il recesso ha effetto il quindicesimo giorno successivo a quello della ricezione da parte della società della dichiarazione di recesso.
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3. - In tutti i casi di esercizio del diritto di recesso, il valore di liquidazione delle azioni privilegiate risulta pari alla frazione del capitale sociale per cui è esercitato il recesso, decurtata – con riferimento agli utili degli esercizi sociali chiusi sino al 31 dicembre 2008 compreso – della differenza fra il dividendo effettivamente percepito dalle stesse azioni privilegiate e il dividendo preferenziale spettante alle medesime azioni in base all’art. 30, comma 2, dello Statuto, nella sua originaria formulazione, il cui testo è ritrascritto al successivo art. 33. 4. - Per quanto non espressamente disposto, il diritto di recesso è regolato dalla legge. (Omissis) Art. 33 1. - Ai fini dell’applicazione dell’art. 9, comma 3, del presente Statuto, la norma dell’art. 30, comma 2, dello Statuto, nella sua originaria formulazione, così disponeva: “Gli utili netti annuali risultanti dal bilancio, dedotto solo l’importo destinato alla riserva legale, sono ripartiti come segue: a) alle azioni privilegiate viene assegnato un dividendo preferenziale ragguagliato al valore nominale e commisurato al tasso di inflazione (variazione percentuale anno su anno dell’indice dei prezzi al consumo IPCA, base 2001 uguale a 100) relativo all’ultimo mese dell’esercizio cui i predetti utili si riferiscono, in aggiunta ad un tasso pari al 3%; salvo il diritto di recesso previsto al precedente art. 9, qualora in un esercizio sia stato assegnato alle azioni privilegiate un dividendo inferiore alla misura sopraindicata, la differenza è computata in aumento del dividendo preferenziale nei cinque esercizi successivi; b) gli utili rimanenti dei quali l’Assemblea deliberi la distribuzione agli azionisti sono destinati prima alle azioni ordinarie, fino a concorrenza del dividendo preferenziale di cui alla precedente lettera a) assegnato alle azioni privilegiate, e, successivamente, in eguale misura a ciascuna azione ordinaria e a ciascuna azione privilegiata”.
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NORME REDAZIONALI
I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)
II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …
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Norme redazionali
4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).
III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.
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Norme redazionali
legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)
l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.
2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.
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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesinger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, Torino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume
IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.
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