Diritto della banca e del mercato finanziario 2/2009

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Saggi

ISSN 1722-8360

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

2/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

di particolare interesse in questo fascicolo

• Il prestito titoli • La crisi dei mercati finanziari • Distinzione dei creditori in classi • Sintesi di giurisprudenza

aprile-giugno

Pacini Editore

2/2009 anno xxiii





Diritto della banca e del mercato finanziario

aprile-giugno

Pacini Editore

2/2009 anno XXIII



Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

Comitato di direzione Carlo Angelici, Franco Belli, Mario Bussoletti, Gino Cavalli, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimeri, Alessandro Nigro, Mario Porzio, Niccolò Salanitro, Vittorio Santoro, Luigi Carlo Ubertazzi. Comitato di redazione Sido Bonfatti, Antonella Brozzetti, Vincenzo Caridi, Ciro G. Corvese, Giovanni Falcone, Elisabetta Massone, Francesco Mazzini, Filippo Parrella, Gennaro Rotondo. Segreteria di redazione Daniele Vattermoli Direttore responsabile Alessandro Nigro La sede della rivista è presso la Segreteria del Ce.Di.B. Via dei Crociferi, 44 - 00187 Roma L’amministrazione è presso: Pacini Editore SpA Via Gherardesca - 56121 Ospedaletto - Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it - info@pacinieditore.it

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Sommario 2/2009

PARTE PRIMA Saggi Il Prestito Titoli tra mercato finanziario e governance societaria, di Francesco Vella………………………………

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Tipologia e disciplina delle Trading venues, di Cinzia Motti

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La crisi dei mercati finanziari: disorganici appunti di un giurista, di Giuseppe Carriero................................................

» 197

La responsabilità delle banche nel collocamento di obbligazioni ai risparmiatori. Una comparazione tra Italia e Regno Unito in seguito all’adozione del sistema MIFID, di Federico Regaldo..............................................................

» 211

Classi di creditori e crediti subordinati nel nuovo concordato preventivo – Cass. 4 febbraio 2009, n. 2706...............

» 263

Subordinazione legale ex art. 2467 c.c. e concordato preventivo, di Daniele Vattermoli..............................................

» 279

» 299

Commenti

Fatti e problemi della pratica La relazione del professionista nel concordato preventivo, di Luca Mandrioli..................................................................


Rassegne Sintesi di giurisprudenza (II trimestre 2008) ....................

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PARTE SECONDA Documenti e informazioni La disciplina degli intermediari finanziari ai sensi dell’art. 106 t. u. b. – Decreto 17 febbraio 2009, n. 29, del Ministro dell’economia e delle finanze (con nota redazionale).........

» 107

redazionali..................................................................

» 133

Norme


PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, rassegne, miti e realtĂ



SAGGI

Il Prestito Titoli tra mercato finanziario e governance societaria*

Sommario: 1. Le caratteristiche dell’operazione. – 2. La disciplina. – 3. Un contratto complesso. – 4. Prestito titoli, investitori e governo societario. – 5. Conclusioni.

1. Le caratteristiche dell’operazione. Nell’ormai lontano 1993 un gruppo di studiosi di diritto commerciale decideva di dar vita ad un confronto su alcuni rilevanti temi del diritto dell’impresa, confronto che sfociò in un primo volume collettaneo “L’integrazione tra imprese nell’attività internazionale”, ma che cementò anche un profondo rapporto di amicizia sulla quale si doveva successivamente fondare la nascita dell’Associazione che prese il nome di Disiano Preite. E un saggio di Disiano, che aveva partecipato con tanto entusiasmo ai nostri primi incontri, apre quel volume. È un saggio dedicato proprio ai profili giuridici del prestito titoli, e cioè all’argomento di questa relazione, e la cui lettura, oltre che una rinnovata sensazione di tristezza per la Sua prematura scomparsa, richiama ancora una volta le Sue qualità non solo nell’indagare e nell’analizzare, ma soprattutto nel guardare, con grandi stimoli per il lettore, al futuro sviluppo di tematiche allora ancora oggetto di scarsa attenzione. L’operazione di prestito titoli, che all’epoca apparteneva prevalentemente alla prassi internazionale, veniva qualificata come “un contratto

* Testo, rivisto e ampliato della relazione tenuta al Convegno svoltosi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano il 7 marzo 2008 su “I nuovi finanziamenti delle banche”.

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normativo di promessa di mutuo collegato ad un promessa di pegno ed una serie di contratti di mutuo collegati ad altrettanti pegni dati da parte del mutuatario”, oppure come “contratto misto o complesso” . Nel nostro paese la prima operazione di prestito titoli “distinti dal deporto e interamente regolata dal diritto italiano è stata lanciata da Citybank nel 1994 come contratto complesso, composto da un mutuo di titoli e alternativamente un pegno irregolare di titoli o contante oppure una garanzia bancaria a prima richiesta” , seguendo quindi lo schema delineato, e anticipato, in quel saggio. Operazione che poi trova ulteriore sviluppo nella estensione nel 1996 a tutti i titoli quotati in borsa della c.d. “liquidazione a contante”, che prevede l’obbligo di liquidare tutte le transazioni al momento del perfezionamento presupponendo la disponibilità materiale dei titoli. Di qui l’interesse dell’investitore a stipulare un contratto di prestito per procurarsi i titoli: il lender o prestatore consegna i titoli al prestatario o borrower il quale ne acquisisce la proprietà disponendone per la durata del contratto a fronte di una garanzia (in contanti o in titoli), e con l’impegno di restituire alla scadenza titoli equivalenti a quelli ottenuti in prestito nonché il pagamento di un importo per remunerare il prestito . Di norma il lender è un investitore istituzionale o una banca o comunque un soggetto interessato, nell’ambito delle sue strategie di investimento, alla valorizzazione del portafoglio, attenuando i caratteristici rischi di mercato. A sua volta il borrower può avere una molteplicità di interessi: oltre a quello del reperimento dei titoli per adempiere agli obblighi di liquidazione, può avere finalità di speculazione , oppure es-

Preite, Profili giuridici dell’introduzione in Italia di operazioni di prestito titoli, in L’integrazione fra imprese nell’attività internazionale, Torino, 1995, p. 2. Loiacono, Calvi, Bertani, Il trasferimento in funzione di garanzia tra pegno irregolare, riporto e diritto di utilizzazione, in Banca, borsa, tit. cred., supp. n. 6/2005, p. 28. Cfr. Padovani, Il prestito titoli garantito: profili ricostruttivi della fattispecie negoziale e problematiche fiscali, in Rassegna Tributaria, 2007, p. 410. Cfr. Cincotti, Prestito Titoli, in Il Diritto, Enciclopedia Giuridica, XI, Milano, 2007, p. 401, il quale così descrive l’operazione: “il borrower è un venditore ribassista che momento (a) vende titoli sul mercato ad un prezzo P1 e, per liquidare l’operazione, stipula un contratto di prestito per l’ammontare di titoli venduto, nel contempo trasferendo al lender titoli o danaro quale collateral. Nel momento (b) il borrower riacquista i titoli sul mercato ad un prezzo P2 e, contestualmente alla restituzione del collateral, ritrasferisce i titoli dati in prestito al lender al prezzo P1 aumentato del margine, quale remunerazione per l’operazione. Il prestito di titoli può essere utilizzato inoltre nell’ambito di un’operazione a termine, per prolungare la propria posizione quando il prezzo di mercato, alla

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sere interessato ad una disponibilità temporanea in occasione di eventi assembleari . Nelle relazioni tra le parti acquista indubbio rilievo la garanzia che, è bene precisarlo, non riveste comunque carattere di essenzialità nel qualificare l’operazione. La garanzia, di importo non inferiore all’ammontare del prestito, protegge il lender nei confronti di un eventuale inadempimento del borrower, ed è costituita da denaro, titoli diversi da quelli oggetto del prestito, oppure da una lettera di credito. Le parti possono poi rinforzare il valore della garanzia prevedendo sin dall’inizio che questa sia superiore ai titoli in prestito, calcolando un valore minore di una determinata percentuale rispetto a quello effettivo dell’operazione (c.d. haircut) . Il controvalore (collateral) viene dato in pegno e “di regola resta su di un conto corrente acceso presso il mandatario del prestatore (c.d. riportato) e vincolato, cosicché il prestatario non potrà ritirarlo prima di aver adempiuto a tutti i suoi obblighi contrattuali” . In dottrina si è peraltro messo in evidenza come in questo caso “il collateral si differenzia rispetto al pegno irregolare giacché il meccanismo di accredito nel conto vincolato sopra descritto si pone in contrasto con il requisito previsto dall’art. 1851 c.c. secondo cui i beni concessi in garanzia non devono essere individuati ovvero deve essere concesso alla banca il diritto di utilizzarli. Nel caso in esame, viceversa, il collateral è sicuramente individuabile all’interno del patrimonio del lender mediante la descrizione contenuta nel contratto dei titoli e mediante la segregazione degli stessi sul conto indisponibile, circostanza questa che nega anche il secondo requisito previsto dalla norma menzionata” . È prevista, infine, un’ulteriore clausola (c.d. marking to market) che obbliga il borrower a integrare la garanzia per raggiungere il valore dei titoli ricevuti in prestito, qualora gli indici di mercato dei titoli stessi superino lo scarto di garanzia.

scadenza originariamente concordata, si rivela maggiore del prezzo di vendita. In entrambi i casi, il profitto dell’investitore consegue ad una differenza positiva tra il prezzo di vendita iniziale dei titoli (P1), al netto del costo dell’operazione di prestito, e il prezzo finale di acquisto degli stessi sul mercato (P2) corrisposto dal borrower per far fronte all’obbligo di restituzione nei confronti del lender”. Su questo aspetto v. infra. Recine, Politiche legislative e contrattazione standardizzata nel settore finanziario, Ente Einaudi, Quaderni di ricerche, n. 55/2003, p. 9. Cfr. Razzante, Contratto di Prestito Titoli, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale, XX, Torino, 2004, p. 398. Cfr. Cincotti, Prestito Titoli, cit., p. 405.

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2. La disciplina. Il nostro ordinamento non prevede una specifica disciplina del prestito titoli, esistono, però, diverse normative che in qualche modo ne configurano le caratteristiche e ne regolamentano alcuni profili. Il primo riferimento è alla disciplina comunitaria che descrive l’operazione come “la transazione con la quale un ente o la sua controparte trasferisce i titoli contro adeguata garanzia con l’impegno per chi riceve il prestito di restituire titoli equivalenti ad una data da stabilire, o quando richiesto dal concedente il prestito, costituisce una concessione di titoli in prestito per l’ente che trasferisce i titoli e un’assunzione di titoli in prestito per l’ente a cui tali titoli sono trasferiti” . La direttiva, inoltre fa riferimento alla citata clausola marking to market e a quella di close-out netting 10. Nella normativa secondaria assume rilievo innanzitutto il regolamento in materia di società di gestione del risparmio 11; a queste sono consentite operazioni di prestito, di durata non superiore ai 90 giorni, ma nel rispetto di particolari requisiti: occorre, infatti ricevere una garanzia sotto forma di liquidità o di titoli, di ammontare almeno pari a quello corrente dei titoli prestati; il valore della garanzia deve mantenersi in ogni momento equivalente a quello dei titoli prestati; i valori ricevuti non possano essere utilizzati per altre operazioni e devono rimanere depositati presso un istituto credito. Anche l’autorità di vigilanza sul mercato mobiliare ha disciplinato il prestito titoli nell’ambito dei “servizi accessori” di cui all’art. 1, sesto comma, lett. c), del t.u.f. Nel regolamento n. 11522/98, all’art. 47, co. 2, poi sostituito dal regolamento 16190 del 2007, si faceva espresso riferimento alla possibilità per gli intermediari di effettuare operazioni di prestito di titoli finalizzate “all’acquisizione da parte dell’investitore a titolo di prov-

Cfr. art. 2, co. 18, Direttiva 93/6/CEE. Anche al Direttiva 2002/47/CE fa riferimento a tale clausola. Sull’argomento cfr. Cincotti, Prestito Titoli, cit, p. 7, il quale mette in evidenza come in base alla citata clausola “al momento dello scioglimento del contratto prima del termine naturale, per qualsivoglia ragione intervenuto, viene determinato il valore di mercato (market quotation) per ogni operazione, sulla base delle condizioni praticate dai market makers indicati in contratto. Le reciproche obbligazioni di consegna vengono poi convertite in valuta e si procede infine alla compensazione tra le reciproche partite di debito-credito. All’esito del procedimento, l’importo netto della compensazione viene addebitato alla parte che debitrice, prescindendo dall’eventuale imputabilità dell’inadempimento”. 11 Provvedimento 20 settembre 1999 del Governatore della Banca d’Italia.

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vista di somme di denaro o strumenti finanziari contro pagamento di un interesse: a) il cui ricavato sia destinato all’esecuzione di operazioni relative a strumenti finanziari nelle quali interviene l’intermediario; b) in cui l’intermediario acquisisca dall’investitore, a fronte del finanziamento concesso, adeguate garanzie; di regola, gli strumenti finanziari costituiti in garanzia sono gli stessi oggetto dell’operazione di cui alla lettera a). Il valore degli strumenti finanziari acquisiti in garanzia deve risultare congruo rispetto all’importo del finanziamento concesso” 12. In sostanza, la normativa secondaria riflette la realtà operativa legittimando e tipizzando le clausole più diffuse 13. In analoga prospettiva si pongono le fonti di autoregolamentazione: il riferimento è in particolare ai modelli standard utilizzati in sede nazionale e internazionale. L’Associazione Bancaria ha diffuso alcuni “contratti tipo” di finanziamento in valori mobiliari ricomprendenti anche il prestito titoli 14 e l’International Securities Lending Associations e l’European Master Agreement for Financial Transaction si muovono nella prospettiva, riflettendo le più diffuse prassi di mercato, di standardizzare le discipline contrattuali. I modelli contrattuali vengono “ricondotti a due categorie che, sotto il profilo causale, corrispondono alla distinzione tra finalità solutoria e finalità speculativa e, sotto il profilo contrattuale, differiscono principalmente circa la durata del prestito. Da un lato, infatti, abbiamo il prestito di titoli di brevissima durata (un giorno di borsa aperta) stipulato di norma mediante una procedura centralizzata e completamente

12 Art. 47, Regolamento n. 11522/98, in vigore sino all’1/11/2007. Peraltro, nella Comunicazione n. DEM/7091047 dell’11 ottobre 2007 la Consob ha definito il prestito titoli come quel contratto con il quale un soggetto “trasferisce la proprietà di un certo quantitativo di titoli di una data specie ad un altro soggetto, il quale, ad una data stabilita, è tenuto a restituire il tantundem eiusdem generis, oltre al pagamento di un corrispettivo quale remunerazione per l’utilità conseguita”. 13 Occorre aggiungere che anche la normativa fiscale considera l’operazione agli artt. 44 e 45 del t.u.i.r. (d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917) prevedendo che tra i proventi dell’operazione per il mutuante-lender sono compresi “oltre al compenso per il mutuo, anche il controvalore degli interessi e degli altri proventi dei titoli, non rappresentativi di partecipazioni, maturati nel periodo di durata del rapporto”. “La norma richiamata trae così le ovvie conseguenze sotto il profilo impositivo dalla clausola standard prevista nei contratti di prestito titoli in forza della quale tutti i frutti dei titoli concessi in prestito sono di spettanza del lender e, pur maturando in capo al borrower, devono da questo essere restituiti unitamente ai titoli”. Cfr. Cincotti, Prestito Titoli, cit., p. 404; Padovani, Il prestito titoli garantito, cit., pp. 418 ss. 14 Cfr. Padovani, Il prestito titoli garantito, cit., p. 417.

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automatizzata, che corrisponde alla finalità solutoria. Dall’altro lato, invece, il prestito titoli di lunga durata (usualmente trimestrale) stipulato con contrattazione personalizzata, concluso con finalità speculative” 15. In tali modelli esistono modalità in parte diverse 16, ad esempio con riferimento alla scelta della legge applicabile e del foro competente, ma, nel complesso, anche la self-regulation, nella identificazione della fattispecie, si muove su un piano di coerenza con gli interventi del regolatore pubblico.

3. Un contratto complesso. La diffusione del prestito titoli, e il suo recepimento, nelle diverse fonti di autoregolamentazione, ha sollecitato un maggiore interesse da parte della (in verità non molta) dottrina, che peraltro finisce, con alcune specifiche modulazioni, con il seguire una strada simile a quella indicata nel contributo prima citato. Lo sforzo è stato sopratutto quello di qualificare l’operazione indagando su analogie e differenze con altre fattispecie conosciute dall’ordinamento. Rispetto agli altri contratti di liquidità, come il pronti contro termine, si è messo in evidenza come in questi il corrispettivo è sempre a carico del soggetto che si priva dei titoli per acquistare liquidità, in una prospettiva ancorata alla possibile variazione del prezzo. Nel prestito titoli, al contrario, il compenso è del prestatore in ragione della diversità di interessi, prima descritti, che giustificano l’operazione. In sostanza “la struttura negoziale esclude qualsiasi possibilità di guadagno o perdita per il lender in conseguenza delle variazioni dei prezzi” 17. Inoltre “mentre per il prestito è prevista una

15 Cfr. Cincotti, Prestito Titoli, cit., p. 3. Peraltro, occorre sottolineare che lo European Master Agreement, ora pubblicato anche con il testo in italiano, Roma, 2004, p. 6 ss., prevede la possibilità, p. 73, di operazioni che “possono essere risolte a richiesta”. In particolare, “le parti possono concordare che le operazioni di prestito titoli possono essere risolte su richiesta, nel qual caso la data di restituzione sarà la data specificata nell’avviso di richiesta inviato da una parte all’altra, a condizione che il periodo compreso fra la decorrenza di tale avviso e la data di restituzione in tal modo specificata, non sia inferiore al periodo minimo abitualmente richiesto per il pagamento di somme e per la consegna di titoli del tipo pertinente. In assenza dell’avviso di richiesta, la data di restituzione di un’operazione che può essere risolta a richiesta sarà il giorno che cade 364 giorni dalla data di consegna”. 16 Cfr. Recine, Politiche legislative e contrattazione standardizzata, cit., p. 40. 17 Cfr. Padovani, Il prestito titoli garantito, cit., p. 412.

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durata massima di un anno con possibilità di proroga, nel pronti contro termine è prevista una durata massima di sei mesi” 18. Con il riporto la differenza si incardina soprattutto sul sistema di garanzia: nel prestito, infatti, non vi è “un prezzo in senso tecnico per il trasferimento di titoli, giacché, da un lato, il collateral può essere rappresentato anche da titoli o lettere di credito, mentre nel contratto di riporto il corrispettivo del primo trasferimento è necessariamente in danaro. Dall’altro lato, il lender non ha la disponibilità del collateral, che resta depositato con mere finalità di garanzia; viceversa, il riportato può sicuramente disporre del danaro ricevuto dal riportatore, come accade nel riporto concluso per soddisfare un esigenza finanziaria del riportato” 19. Parte della dottrina ha assimilato l’operazione ad una anticipazione bancaria, ma questa rappresenta un contratto ad esecuzione continuata e non comporta, come il prestito, l’immediata attribuzione dei titoli al borrower, inoltre l’anticipazione presuppone la messa a disposizione di denaro e non di titoli 20. Maggiori affinità sono state riscontrate con il mutuo anche questo contratto reale a titolo oneroso e nel quale si realizza “il trasferimento, tramite corrispettivo, della proprietà di una determinata quantità di cose fungibili che, ad una data prestabilita, dovranno essere riconsegnate per equivalente” 21. Peraltro, in presenza di alcuni elementi anche in questo caso di differenziazione, con riferimento ad esempio al ruolo che assume la garanzia rappresentata dal pegno di denaro o altri titoli, si è conclusivamente prefigurata, nel solco delle indicazioni di Disiano Preite, la qualificazione del prestito come un “autonomo contratto atipico e complesso, composto da un mutuo di titoli associato ad un pegno irregolare di denaro o valori mobiliari” 22. Ed è interessante notare come, con riferimento ad una famosa vicenda che aveva generato un vivace dibattito dottrinale, simili conclusioni erano state raggiunte anche alla luce della previgente codificazione 23.

Cfr. Razzante, Contratto di Prestito Titoli, cit., p. 400. Cfr. Cincotti, Prestito Titoli, cit., p. 405. 20 Cfr. Loiacono, Calvi, Bertani, Il trasferimento in funzione di garanzia, cit., p. 29. 21 Cfr. Razzante, Contratto di Prestito Titoli, cit., p. 399. 22 Cfr. Carrière, Le operazioni di portage azionario, Milano, 2008, p. 99. 23 Cfr. Melucci, Natura giuridica del prestito titoli di Stato al portatore fatto dai clienti dell’ex Banca Italiana di Sconto, Napoli, 1920, pp. 3 ss. 18 19

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4. Prestito titoli, investitori e governo societario. L’indagine sulle caratteristiche del prestito titoli mette in risalto una indubbia convergenza tra la prassi nel definire il perimetro dell’operazione, poi, come abbiamo visto, recepito anche in fonti normative, e gli interpreti nell’analizzare la sua qualificazione contrattuale. Esiste, però, un’altra e diversa chiave di lettura sulla quale è opportuno focalizzare l’attenzione, chiave di lettura legata ad una, per certi versi nuova e diversa, “vocazione” dell’operazione rispetto alle finalità prima richiamate, e che investe direttamente profili di governance societaria. Si tratta di attribuire rilevanza ad altri interessi che muovono le parti contrattuali e che, se in un primo momento potevano apparire marginali nei confronti delle tradizionali finalità dell’operazione, stanno assumendo sempre maggiore importanza e pongono all’interprete nuovi e inattesi problemi. In primo luogo, e nell’ambito della ricerca di rapporti tesi a rafforzare le relazioni con le imprese, le banche utilizzano il prestito negli interventi sul capitale di rischio: il prestito può cioè essere funzionale alla “modulazione” del coinvolgimento dell’intermediario nella organizzazione dell’impresa, in coerenza con l’ordinamento societario che, come è noto, in tale “modulazione” trova i suoi principi ispiratori. Il riferimento è, in particolare allo step up equity line, aumento di capitale a sottoscrizione garantita (appunto da una banca), in un periodo, solitamente due anni, che consente all’impresa di procurarsi gradualmente risorse attraverso emissione di nuove azioni in più tranches. La banca può vendere sul mercato le azioni prima della sottoscrizione per evitare di intestarsi le azioni per la successiva sottoscrizione e per evitare anche che l’eventuale azionista di maggioranza si trovi ad avere uno scomodo e troppo forte socio bancario. In questo senso si può ricorrere al prestito titoli, al cui interno l’intermediario assume il ruolo non più di lender, ma di borrower. In sostanza non si tratta “tanto in un servizio che la banca presta alla società emittente, quanto piuttosto di un mezzo di realizzazione di un interesse comune della parti”, e “non avrebbe senso la prestazione di un corrispettivo per il prestito, la cui assenza non sembra sollevare particolari problemi posto che la presunzione di onerosità del mutuo che rappresenta l’archetipo dei contratti di prestito di cose fungibili è derogabile dalle parti. Peraltro allorché il lender sia terzo rispetto all’operazione di step up equity line è innegabile che la sua posizione di socio di riferimento della società giustifica la gratuità del prestito e, dunque, evita anche laddove non

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si voglia ricondurre la fattispecie a quella del comodato, il proporsi di problemi di assenza di causa” 24. Emerge, quindi, una tipologia di prestito titoli che per rispondere a specifiche esigenze dell’impresa perde una delle sue caratteristiche qualificanti e cioè il prezzo a testimonianza della elasticità del perimetro dell’operazione e della sua polifunzionalità. Analoghe considerazioni possono svolgersi in rapporto ad un’altra ipotesi al centro di un recente intervento dell’Autorità di vigilanza sui mercati mobiliari. Nell’ambito di un offerta pubblica per la quotazione, gli azionisti di maggioranza dell’emittente concedono al global coordinator del consorzio un’opzione per un prestito titoli, da esercitarsi in caso di overallotment 25. La Consob deve decidere se la discesa e la successiva risalita oltre le soglie previste dalla legge, da parte degli azionisti che prestano i titoli, comporti l’obbligo di lancio di un’offerta pubblica di acquisto. L’Autorità di vigilanza rileva, innazitutto, come “nelle offerte globali la previsione di una lending option in connessione ad un’opzione di sovraallocazione è concessa generalmente a titolo gratuito, in quanto esclusivamente finalizzata all’attività di stabilizzazione e/o sovraallocazione dei titoli, e, dunque, a beneficio del successo finale dell’operazione”. Peraltro, qualora questa fosse anche onerosa, il corrispettivo sarebbe a carico del prestatario e non dell’azionista che supera la soglia. Si tratta in sostanza di una figura negoziale unitaria che se “genuina” (e cioè in assenza ad esempio di altri riacquisti estranei al prestito) non comporta l’obbligo del lancio dell’offerta. Anche in questo caso emerge una particolare conformazione del prestito titoli (e ancora una volta il prezzo non è elemento caratterizzante) che rileva ai fini della disciplina degli assetti proprietari delle imprese e che, proprio in questa prospettiva, solleva ulteriori e più complessi problemi. Infatti, la Consob fonda il proprio orientamento sulla la norma regolamentare in base alla quale “nelle ipotesi di operazioni di prestito titoli o di riporto l’obbligo di comunicazione ricade sempre sul prestatore o riportato, mentre ricade sul prestatario o riportatore nella sola ipotesi

24 Maccabruni, Step up equity line e disciplina dell’aumento di capitale, in Banca, borsa, tit. cred., 2005, I, p. 371. 25 Per overallotment si intende “la vendita da parte dei partecipanti ad un consorzio di garanzia e collocamento di un certo quantitativo di titoli allo scoperto nei giorni immediatamente successivi al collocamento stesso ad un prezzo molto vicino a quello di offerta al fine di stabilizzare il corso dei titoli”. Cfr. Cincotti, OPA obbligatoria e operazioni di prestito titoli, in Giur. comm., 2008, II, p. 1009.

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in cui tale soggetto mantenga le proprietà e il diritto di voto dei titoli medesimi oltre la data di liquidazione dell’operazione” 26. La norma, nel definire gli obblighi informativi nell’ambito del temporaneo passaggio dei diritti di voto, richiama tutte quelle ipotesi, al centro di un recente e vivace dibattito dottrinale, dove si presenta il rischio di una dissociazione tra l’esercizio dei diritti amministrativi e l’interesse economico nelle società partecipate. È questo un rischio (empty voting) sul quale si sono soffermate numerose indagini che, anche attraverso la presentazione di dati statistici, mettono in evidenza la propensione sempre più marcata ad utilizzare particolari operazioni (tra le quali appunto anche il prestito) per “sdoppiare” il diritto di voto dalla economic ownership che diventa così hidden ownership 27. In sostanza “fuori dei casi di vendita allo scoperto 28, il prestito titoli può essere utile a separare la proprietà economica delle azioni dal voto. Il rischio economico delle azioni resta in capo al prestatore, il quale riceve alla scadenza una pari quantità di titoli della medesima specie. Al prestatario spettano, invece, la titolarità delle azioni e quindi il diritto di voto. Fanno ricorso al prestito titoli per acquisire potere di voto in assemblea taluni investitori istituzionali, gli hedge funds e talvolta gli stessi insiders. Prestatori sono generalmente investitori istituzionali, specialmente fondi pensione, più interessati a lucrare il corrispettivo del prestito che a partecipare attivamente alle assemblee” 29. Da un lato i gestori di fondi esercitano i diritti di voto relativi a strumenti dati in prestito o in garanzia, dei quali non sono più, quindi, i beneficiari in termini economici, ma dall’altro i fondi stessi e gli intermediari possono acquisire il ruolo di lender e prestare i titoli a chi è

Su questi aspetti, per maggiori approfondimenti, cfr. Cincotti, OPA obbligatoria, cit., pp. 1077 ss. 27 Il riferimento è soprattutto agli studi di Hu, Black, The New Vote buying: empty voting and hidden (morphable) ownership, in 79 Southern California L. Rev. 2006, p. 811 ss.; degli stessi autori cfr. anche Hedge funds, insiders, and empty voting: decoupling of economic and voting ownership: empty voting and hidden (morphable) ownership, sul sito http://ssrn.com. Più recente cfr. Equity and debt decoupling and empty voting II: importance and extension, in University of Pennsylvania Law Review, 2008. 28 Bisogna, peraltro, ricordare che la recente crisi finanziaria ha indotto le Autorità di vigilanza, al fine di prevenire manovre speculative in un contesto di elevata volatilità sui mercati, a introdurre misure temporanee restrittive delle vendite allo scoperto. Si veda, più di recente, la delibera Consob n. 16781 del 29 gennaio 2009. 29 Cfr. Ferrarini, Prestito titoli e derivati azionari nel governo societario, in La società per azioni oggi. Tradizione, attualità e prospettive, II, Milano, 2004, p. 633. 26

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interessato solo a intervenire in una assemblea, condizionando l’esito delle decisioni a prescindere dal “peso” nella dinamica degli assetti proprietari 30. Potrebbe, questo, apparire un fenomeno del tutto marginale, ma così non è, e i potenziali effetti distorsivi possono assumere grande rilevanza. Così in una recente vicenda relativa ad un’offerta pubblica di acquisto su una società ungherese la società a fini difensivi ha acquistato azioni proprie che poi ha successivamente prestato ad una banca “amica” (fenomeno del c.d. soft parking): ed in altri casi di offerta è successo che “the managers and shareholders of major firms have woken up one morning to learn that their company suddenly has a new 30% or 40% shareholder” 31. Occorre sottolineare che il prestito titoli è soltanto una, e forse la più semplice, ma anche la meno costosa 32, delle possibili tecniche di svuotamento del voto, ve ne sono altre molto diffuse come l’uso di strumenti derivati quali l’equity swap, assurto agli onori della cronaca anche per recenti vicende italiane 33 e tedesche 34 e sulle quali in questa sede non ci si può ovviamente soffermare. È, invece, importante focalizzare, l’attenzione sui possibili rimedi volti a riportate su un piano fisiologico il rapporto tra questa tipologia di operazioni e i principi che presiedono ad una corretta e trasparente governance societaria. Il prestito titoli infatti, nato come contratto volto a risolvere problemi di liquidità, finisce con l’incidere su una prospettiva squisitamente di lungo periodo e che nel caso di dissociazione tra proprietà del titolo e diritto di voto può generare nei mercati una distorsione dell’informazione, con il sospetto che l’unica finalità del prestito sia quella di favorire manovre poco trasparenti in occasione delle assemblee societarie.

30 Ferrarini, Prestito titoli e derivati azionari, cit., p. 632, sottolinea, per quanto concerne i diritti di voto, come il par. 6.3 del Global Master Securities Lending Agreement della International Securities Lenders Association (ISLA), versione del maggio 2000, precisi “che il prestatario al quale spettino tali diritti relativamente ai valori mobiliari oggetto di prestito non sarà obbligato ad esercitarli secondo le istruzioni del prestatore”. 31 Cfr. Hu, Black, Equity and Debt Decoupling, cit., p. 4. 32 Cfr Hu, Black, Equity and Debt Decoupling, cit., p. 74. 33 Il caso Exor/Ifil/Fiat/Merril Lynch sul quale cfr. Ferrarini, Prestito titoli e derivati azionari, cit., p. 664, e Carrière, Le operazioni di portage azionario, cit., p. 121. 34 Il caso dell’opa Schaeffler sulla Continental. Sull’argomento cfr. Zetzsche, Continental vs. Schaeffler, Hidden Ownership and European Law-Matter of Law Enforcement, sul sito www.ssrn.com.

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Sotto questo profilo, meritano innanzitutto di essere segnalate alcune iniziative sul terreno dell’autodisciplina; il riferimento è, in particolare, all’ICGN Stock Lending Code of Best Practice, un codice di comportamento elaborato da una organizzazione internazionale che raccoglie società, advisors e investitori di più di 40 paesi. Il codice prende spunto dall’esigenza di garantire trasparenza e coerenza sul presupposto che lending “is a misnomer: the stock pass to different ownership, essentially for a rental payment, with the promise of it being replaced at the end of agreed time”. Le prescrizioni del codice riguardano l’esigenza per gli investitori di chiarire le politiche di prestito, “richiamando” i titoli prima delle assemblee per esercitare il diritto di voto, nella prospettiva di far coincidere poteri amministrativi e titolarità “economica” della partecipazione. Dovrebbe comunque essere scoraggiata, sempre secondo il codice, qualsiasi operazione di prestito finalizzata soltanto all’esercizio del diritto di voto. Infine, le Autorità di vigilanza vengono invitate a definire un regime di disclosure su tutti i trasferimenti di diritto di voto attuati tramite prestito titoli o con l’utilizzo di strumenti derivati 35. Nella stessa direzione sembra muoversi l’ultima versione del British Securities Borrowing and Lending Code che richiede al lender, quando effettua operazioni in vicinanza di scadenze assembleari di considerare le sue “responsabilità sul terreno della corporate governance”. Ed è stata segnalata la recente prassi di alcuni investitori di attribuire ad un terzo un controllo indipendente volto a garantire che il prestito sia indirizzato ad un reputable, responsible borrowers piuttosto che ad un empty voters, in contrasto con gli interessi di lungo termine di un azionista 36. Si tratta naturalmente di criteri non vincolanti e per i quali, come per tutte le fonti di autoregolamentazione, esiste il tradizionale problema di verificarne il reale enforcement, ma non vi è dubbio che, se rispettati, potrebbero in parte prevenire quei fenomeni patologici ai quali si faceva prima riferimento. E in questo contesto sempre nell’ambito della selfregulation, si sono proposti interventi non solo da parte degli investitori istituzionali, ma anche degli emittenti che, sfruttando l’autonomia statutaria potrebbero vincolare il diritto di voto basandolo on a shareholder’s economic ownership 37.

Il codice è scaricabile dal sito www.icgn.org. Una versione più ampia del codice è stata emendata nel 2009 con il titolo ICGM Securities Lending Code of Best Practice.. 36 Cfr. Hu, Black, Equity and Debt Decoupling, cit., p. 81. 37 Hu, Black, Equity and Debt Decoupling, cit, p. 67. 35

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In dottrina si è invece aperto un vivace dibattito circa la necessità di prevedere semplici misure di maggiore disclosure, oppure più radicali limiti all’empty voting. La preferenza verso la prima ipotesi trova fondamento anche nel fatto che l’introduzione di una norma di proibizione dell’empty voting parrebbe difficilmente conciliabile con la tolleranza manifestata dai diversi ordinamenti per le deviazioni dal principio “un’azione – un voto” 38. Ed infatti quando nell’ambito della Commissione di esperti europei del 2002 (la Winter Committee) fu analizzato il problema si disse che non c’era ragione per regolamentare il fenomeno meritevole di essere affidato unicamente a soluzioni di mercato. Proprio in questa prospettiva si è proposto un self regulatory regime for multy party schemes e cioè un complesso di norme di autodisciplina che imponga a tutte le parti comportamenti volti a evitare la violazione delle disposizioni in materia di trasparenza, in modo tale da offrire al mercato completa informazione sulla tracciabilità dei titoli oggetto delle operazioni 39. Una prospettiva maggiormente “interventista” è rintracciabile in quegli autori che invocano il principio “that voting requires a basic alignment with the collective interests”. I contratti contrari a questo principio dovrebbero essere del tutto vietati e “requiring shareholders to certify that they are voting non more shares than they have economic interests would be a helpful change and would support the effective working of the revised legal rule banning vote buying and separation of ownership and control of the vote” 40. E, proprio con riferimento al prestito titoli, si è proposto di imporre agli investitori istituzionali piena trasparenza sulle politiche di voto, dichiarando, per le azioni possedute, quelle per le quali i diritti amministrativi vengono regolarmente esercitati, quelle oggetto di prestito e quelle per le quali si decide, invece, di non votare. Queste misure,

38 Cfr. Ferrarini, Prestito titoli e derivati azionari, cit., p. 645. In generale sulle tematiche relative al principio un’azione-un voto così come emergono dalle prese di posizione comunitarie cfr. più di recente Pomelli, Rischio d’impresa e potere di voto nelle società per azioni: principio di proporzionalità e categorie azionarie, in Giur. comm., 2008, I, p. 510 ss., ove anche ulteriori riferimenti bibliografici. 39 Cfr. Zetzsche, Continental vs. Schaeffler, cit., p. 18. 40 Cfr. Thompson, Edelman Corporate Voting, in Vanderbilt University Law School, Public Law and Legal Theory, Working Paper 08-32, rintracciabile sul sito www.ssrn.com, p. 34.

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pur non configurando alcun obbligo di recall and vote lend shares, potrebbero comunque costituire un incentivo per evitare prestiti finalizzati esclusivamente all’esercizio del diritto di voto, e dovrebbero coniugarsi con la creazione di un safe harbour per gli investitori che li protegga da eventuali azioni risarcitorie da parte dei clienti per non aver adeguatamente valorizzato i titoli con lucrose operazioni di prestito 41. In effetti, è questo un evidente trade off per gli operatori istituzionali che, da un lato anche nell’esercizio del diritto di voto danno attuazione ai loro doveri fiduciari nei confronti degli investitori, ma dall’altro, tramite operazioni di prestito, anche strumentali alla semplice partecipazione assembleare, possono incrementare il valore dei titoli in portafoglio: e non è sempre facile un bilanciamento tra le due contrapposte esigenze 42. In questo contesto, può assumere rilevanza la tempistica relativa alla data di registrazione (record date) per la legittimazione a partecipare all’assemblea. È questo un istituto in base al quale chi possiede i titoli a quella determinata data può votare, consentendo quindi di prendere in prestito le azioni per poi immediatamente dopo restituirle. La record date non è presente del nostro ordinamento, ove, come noto, vige la nuova versione dell’art. 2370 c.c., introdotta con la riforma societaria, che rende facoltativa la richiesta di deposito delle azioni che comunque nelle società “aperte” non può essere superiore ai due giorni 43. Peraltro, la direttiva 2007/36/CE, relativa all’esercizio di alcuni diritti da parte degli azionisti delle società, prevede l’adozione del sistema della record date (in un termine massimo di trenta giorni dalla data dell’assemblea), che dovrà essere recepito anche nel nostro ordinamento 44. Mentre alcuni autori ritengono opportuno sfruttare a pieno i tempi previsti dalla direttiva al fine di disincentivare i comportamenti di chi

Cfr. Hu, Black, Equity and Debt Decoupling, cit., p. 76. Cfr. Raaijmakers, Securities lending and corporate governance, Maastricht Faculty of Law Papers, p. 7, rintracciabile sul sito www.ssrn.com. 43 Su questi aspetti cfr. più di recente Bonotto, Commento all’art. 2370 c.c., in Commentario alla riforma delle società, diretto da Marchetti, Bianchi, Ghezzi, Notari, Assemblea, a cura di Picciau, Milano, 2008, p. 121 ss. 44 Anche su questi temi sono ovviamente possibili soltanto rapidi cenni. Per maggiori approfondimenti si rinvia al documento di Consultazione del Ministero dell’Economia e delle finanze e all’interessante dibattito che su tale documento che si è aperto tra i soggetti partecipanti alla consultazione. Tutto il materiale è reperibile sul sito www.mef. gov.it/ministero/dipartimenti.dt.asp. 41 42

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prende a prestito per un periodo limitato 45, altri ritengono invece che tali tempi andrebbero avvicinati il più possibile proprio per evitare questo pericolo 46.

5. Conclusioni. La sintetica rassegna sul dibattito relativo al rapporto tra prestito titoli e governance societaria non ha certo pretese esaustive, non solo perché questo dibattito appare solo agli inizi e comunque destinato a ulteriori sviluppi, ma anche perché le diverse proposte emerse, per le conseguenze su alcuni importanti istituti del nostro diritto societario, meriterebbero un grado di sedimentazione e approfondimento che va, ovviamente, molto al di là di una rapida indagine sul prestito titoli. È evidente, comunque, l’impossibilità di inquadrare il prestito solo come manifestazione di un contratto di liquidità, al contrario proprio le discussioni prima richiamate, insieme alle rilevazioni empiriche, sottolineano l’esigenza di coglierne sfaccettature prima sconosciute. Ed è con queste sfaccettature tutte incentrate sulla polifunzionalità dell’operazione che in futuro non solo la dottrina, ma anche la prassi dovranno confrontarsi per trovare regole in grado di garantire un rapporto trasparente e non squilibrato tra interesse economico dell’azionista e interesse ad una “buona” governance societaria, equilibrio non facile, ma necessario.

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Cfr. Raaijmakers, Securities lending, cit., p. 12. Cfr Hu, Black, Equity and debt decoupling, cit, pp. 83 ss.

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Tipologia e disciplina delle Trading venues *

Sommario: 1. Trading venues e lessico comunitario. – 2. “Commercio” e “mercato” di strumenti finanziari. – 3. L’approccio della Direttiva Mifid. – 4. Le tipologie di trading venues nelle norme di attuazione: mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione. – 5. Segue: gli internalizzatori sistematici. I gestori-broker. – 6. Segue: precisazioni in merito alla figura dell’internalizzatore sistematico. – 7. La disciplina delle trading venues fra statuto del gestore e statuto dell’attività. – 8. Segue: gli statuti dell’attività di gestione. – 9. Funzione regolativa e principio di correttezza.

1. Trading venues e lessico comunitario. Nel testo inglese della Direttiva Mifid l’espressione “trading venue” è adoperata solo sporadicamente . Alcune volte è preferita la nomenclatura alternativa “organised trading system” ; con maggiore frequenza – soprattutto in sede di regole di condotta applicabili alle imprese di investimento – si ricorre ai termini “venue” o “execution venues” . Il testo italiano della Direttiva impiega indifferentemente le espressioni “sistemi di negoziazione” o “sedi di negoziazione” ; la genericità

* Relazione al Convegno di Montepulciano su “L’attuazione della direttiva MiFID (1719 aprile 2008). V. Preambolo, punto 34), nonché gli artt. 58, § 3, lett. b), in materia di scambio di informazioni fra autorità competenti, e 65, § 4, relativamente alle materie oggetto di revisione. Preambolo, punto 5); più semplicemente, “trading system” al successivo punto 71. Adoperato due volte nel contesto dell’art. 21. Preambolo, punto 43); artt. 19, 21 (in quest’ultimo ricorre ben tre volte). V. Preambolo, punti 5) e 71), nonché gli artt. 33 e 58. Preambolo, punto 34) e art. 65.

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delle formule “venues” ed “execution venues” viene fedelmente mantenuta, adoperando le corrispondenti espressioni “sedi” e “sedi di esecuzione”. Nessuna di tali espressioni riceve una definizione nella Direttiva: nonostante ciò, il concetto da esse evocato assume una specifica rilevanza normativa. Adottando una visione funzionale delle diverse forme di contrattazione organizzata, il legislatore comunitario estende il “passaporto europeo” ai circuiti di negoziazione diversi dai mercati regolamentati, con l’obiettivo di “ampliare la scelta per gli investitori, incoraggiare l’innovazione, ridurre i costi delle operazioni ed aumentare l’efficacia del processo di formazione dei prezzi nell’intera Comunità”, in particolare nel comparto azionario (così nel Preambolo al Regolamento 1287/2006/ CE, punto 6). A tal fine, occorre fra l’altro (prosegue il Preambolo) imporre “un elevato grado di trasparenza, per garantire parità di condizioni tra le sedi di negoziazione, affinché il meccanismo di rivelazione del prezzo (price discovery mechanism) di determinate azioni non sia pregiudicato dalla frammentazione della liquidità e gli investitori non ne siano penalizzati […]”. Ed è precisamente al fine di stabilire un regime comune in tema di pubblicazione e accessibilità dei dati relativi alle contrattazioni, indipendentemente dalla sede di esecuzione, che il Regolamento 1287/2006/CE (art. 2, punto 8) così definisce le sedi di negoziazione: “un mercato regolamentato, un sistema multilaterale di negoziazione o un internalizzatore sistematico che agisca in tale veste e, se del caso, un sistema al di fuori della Comunità con funzioni analoghe a quelle di un mercato regolamentato o di un sistema multilaterale di negoziazione” (definizione ripresa dall’art. 2, lett. b), Reg. Consob 1691/2007, in materia di mercati: in breve, Reg. mercati). “Sede di negoziazione”, dunque, è formula riassuntiva, diretta non già ad enucleare una nuova fattispecie, distinta rispetto a quelle puntualmente definite dalla Direttiva Mifid, bensì ad indicare cumulativamente le tre diverse tipologie di sistemi di contrattazione, previste e regolate dalla Direttiva, allorché debbano essere sottoposte alla medesima disciplina al fine di garantire la confrontabilità dei prezzi ed il consolidamento delle informazioni relative agli scambi. Di qui la delimitazione delle materie per le quali i diversi sistemi di contrattazione organizzata vengono sussunti nella macro-categoria denominata trading venues: l’accesso alle informazioni relative agli scambi e gli obblighi c.d. di best execution. Per i restanti aspetti le tre diverse fattispecie rimangono disciplinate autonomamente, o riaggregate secondo una molteplicità di tecniche combinatorie, in un disegno complesso del quale si tenterà qui di rintrac-

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ciare il criterio ordinatore e di individuare le linee-guida, esaminando la disciplina nazionale emanata in attuazione della Direttiva Mifid.

2. “Commercio” e “mercato” di strumenti finanziari. Prima del recepimento della Direttiva Mifid, l’ordinamento italiano contemplava esclusivamente due fattispecie di sedi di negoziazione, vale a dire i mercati regolamentati e gli altri sistemi di scambi organizzati. Quest’ultima era una figura residuale, destinata a ricomprendere tutte le forme di contrattazione organizzata (diverse dai mercati regolamentati) basate sull’utilizzazione di un’infrastruttura comune per la conclusione di affari, indipendentemente dalla circostanza che fossero destinate a porre in relazione fra loro una pluralità di operatori, ovvero a canalizzare tutta la domanda e l’offerta in direzione di un unico operatore (lo stesso gestore del sistema, o un soggetto a questi collegato). I sistemi diversi dai mercati regolamentati, peraltro, erano sottoposti ad un regime di controlli assai blando: l’art. 78 t.u.f., nel testo previgente, si limitava ad imporre obblighi di informazione a carico di organizzatori ed utenti, nonché a disciplinare l’esercizio di poteri cautelari ed interdittivi da parte dell’autorità di vigilanza. Il che indubbiamente ne ha favorito la proliferazione: dall’apposito elenco presso la Consob risultavano esistenti in Italia, prima della recente novella del t.u., più di 400 sistemi di scambi organizzati, nella maggior parte dei casi destinati semplicemente ad agevolare gli scambi con la clientela di obbligazioni bancarie emesse dallo stesso gestore o da altra società del gruppo di appartenenza, in modo da accrescerne la liquidità. L’impostazione attualmente adottata è diversa, poiché si fonda su una netta distinzione fra “mercato” e “commercio”, ben nota alla nostra esperienza giuridica. La questione aveva infatti attratto l’interesse della giurisprudenza pratica e teorica, ai tempi del monopolio pubblico dei mercati all’ingrosso di derrate alimentari. L’esigenza di circoscrivere puntualmente l’ambito della riserva di attività aveva infatti indotto a ripudiare la concezione secondo la quale qualsiasi forma di stabile offerta alla generalità integra la fattispecie-mercato, richiedendo quale ulteriore elemento costitutivo la presenza di una pluralità di operatori ammessi a scambiare fra loro. Il pluralismo degli operatori – e perciò in ultima analisi la concorrenza fra una pluralità di potenziali venditori e acquirenti – diviene così criterio idoneo a discriminare il servizio-mercato da altre specie di servizi ausiliari alle contrattazioni, in cui un singolo operatore assume necessa-

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riamente la qualità di parte in tutti gli affari conclusi, indipendentemente dalla circostanza che questi agisca nell’interesse proprio o nell’interesse di terzi (così, nel caso deciso da Cons. St., 19 maggio 1956, n. 388, il locale in cui un commissionario contratta con il pubblico viene qualificato esercizio commerciale, e non mercato). E tale distinzione mi era parsa, in scritti ormai risalenti, idonea a fondare un regime giuridico appropriato per gli alternative trading system di strumenti finanziari, riservando una disciplina differenziata a seconda della caratterizzazione assunta in concreto: con il risultato di ravvisare un servizio di mediazione in senso ampio, laddove il gestore – pur interponendosi negli affari conclusi – assuma una posizione di terzietà rispetto a tutti gli operatori (i quali in tal modo possono egualmente dirsi ammessi a scambiare fra loro, sia pure indirettamente); nel mentre la partecipazione diretta agli scambi, nell’interesse proprio o di un altro singolo soggetto, integra sostanzialmente un servizio di negoziazione. In tale prospettiva, mi era sembrato che il problema della disciplina rispettivamente applicabile potesse essere risolto alla luce del criterio di connessione, al quale può riconoscersi valore generale in sede di individuazione dello statuto dell’attività: e ciò non solo nell’ordinamento nazionale, secondo un orientamento ormai consolidato, ma anche nell’ordinamento comunitario, che tale criterio applica nel disciplinare la libera circolazione dei servizi. La questione, dunque, si poneva in questi termini: se il rapporto di ausiliarietà tra gestione del sistema di contrattazione e attività di negoziazione fosse stato ravvisabile non già rispetto all’attività di scambio altrui, bensì rispetto alla propria, la prestazione del servizio doveva considerarsi semplicemente quale peculiare tecnica di contrattazione con la clientela nell’ambito dell’attività di negoziazione/esecuzione di affari su strumenti finanziari, restando pertanto sottoposta fondamentalmente al regime di questa sul piano dello statuto dell’attività (ferma restando la possibilità di fare applicazione di singole regulae juris in relazione a specifici aspetti). De jure condito, all’epoca tale impostazione si rivelava funzionale a porre rimedio alla laconicità (per non dire lacunosità) della disciplina introdotta dal c.d. decreto Eurosim prima, e dal t.u.f. poi, in materia di sistemi di scambi organizzati di strumenti finanziari (diversi dai mercati regolamentati), in relazione ai quali – indipendentemente dai concreti assetti organizzativi – non poteva ravvisarsi un regime compiuto dell’attività gestoria, e dunque si rendeva opportuno definire i presupposti per l’applicazione dello statuto delle imprese di investimento, a partire dalla regola di riserva dell’attività. L’applicazione cumulativa dell’art. 78

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t.u.f. non sarebbe risultata d’altronde preclusa, proprio in virtù della sua inidoneità a dar vita ad un vero e proprio statuto autonomo. La difficoltà era data, semmai, dall’esatto inquadramento delle ipotesi in cui la funzione gestoria è svolta in condizioni di assoluta terzietà, senza alcun intervento del gestore nei singoli affari (né come contraente, in proprio o nell’interesse altrui, né come mediatore), poiché non poteva dirsi pacifica la configurabilità in tale tipo di impresa ausiliaria di un autonomo servizio di investimento, e precisamente del servizio di mediazione in strumenti finanziari, consistente – a differenza della mediazione tipizzata dal codice civile – nell’attività diretta a mettere in relazione un numero potenzialmente indeterminato di parti, per la conclusione di un numero potenzialmente illimitato di affari. Ricostruzione dubbia sia alla luce della definizione dei servizi di investimento contenuta nella Direttiva n. 93/22/CE, sia alla luce della corrispondente norma nazionale di recepimento; pur se, nel previgente Regolamento intermediari e nelle disposizioni attuative dell’art. 78, la Consob sembrava lasciar aperta la possibilità di una siffatta interpretazione.

3. L’approccio della Direttiva Mifid. L’imponente sviluppo dei circuiti alternativi di negoziazione, favorito dalle nuove tecniche di archiviazione, elaborazione e diffusione delle informazioni, ben presto ha posto all’ordine del giorno l’esigenza di un quadro normativo più chiaro e preciso, sottratto alle incertezze inevitabilmente connesse alla ricerca di soluzioni per via interpretativa. Era dunque scontato che la materia rientrasse nei lavori di revisione della Direttiva sui servizi d’investimento, sull’onda del dibattito sviluppatosi a livello internazionale in ordine all’approccio più appropriato per una corretta regolamentazione del fenomeno; al solito, sotto l’influenza determinante dei sistemi finanziari più “maturi” (USA, Regno Unito), che per primi avevano sperimentato la competizione nel market for markets e si erano cimentati nel tentativo di soluzione. Le motivazioni che hanno suggerito di introdurre, accanto ai mercati regolamentati, nuove figure di trading venues sono efficacemente sintetizzate nel Preambolo della Direttiva Mifid, punto 5): “[…] Occorre creare un quadro coerente e sensibile al rischio che regolamenti i principali tipi di sistemi di esecuzione degli ordini esistenti attualmente nel mercato finanziario europeo. È necessario prendere atto dell’emergere, a fianco dei mercati regolamentati, di una nuova generazione di sistemi di negoziazione organizzati, che dovrebbero essere sottoposti ad obblighi per

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preservare il funzionamento efficiente ed ordinato dei mercati finanziari […]”. Fenomeno, dunque, non da esorcizzare o contrastare, bensì da regolare, assicurando anzi il “livellamento del terreno di gioco” affinché la concorrenza fra trading venues possa produrre effetti benefici per l’intera industria dei servizi finanziari. Le policy comunitarie in materia sono chiaramente di tipo pro-concorrenziale, e si fondano non soltanto sull’indirizzo generale teso a garantire la libertà di iniziativa economica (che può dirsi iscritto nel codice genetico dei Trattati europei), ma anche sul riconoscimento del ruolo positivo svolto dai circuiti di contrattazione alternativi nel promuovere l’innovazione tecnologica, abbattere i costi di intermediazione, favorire l’integrazione dei mercati; giudizio che si fonda su indagini empiriche, e che pertanto può dirsi ormai condiviso. L’obiettivo generale è enunciato in termini particolarmente chiari nel Preambolo al Regolamento 1287/2006/CE, punto 5), in cui le nuove regole in materia di accessibilità delle informazioni generate dagli scambi, indipendentemente dal circuito di contrattazione utilizzato, vengono inserite in: “[…] un quadro normativo più ampio, inteso a promuovere la concorrenza tra le sedi di negoziazione per i servizi di esecuzione […]”. La strada prescelta, tuttavia, non passa per l’adozione di un concetto indifferenziato di marketplace (soluzione a suo tempo proposta da autorevole dottrina), con la conseguente omogeneizzazione del regime giuridico applicabile. La Direttiva – come si è accennato – adotta infatti un modello basato sulla tripartizione delle diverse tipologie di sistemi di scambi organizzati, distinguendole in mercati regolamentati, altri mercati (ai quali viene riservata la nomenclatura di “sistemi multilaterali di negoziazione”) ed internalizzatori sistematici (ossia i negoziatori per proprio conto).

4. Le tipologie di trading venues nelle norme di attuazione: mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione. In sede di recepimento della direttiva Mifid, sono state introdotte tre distinte definizioni mediante novellazione dell’art. 1 t.u.f. Dal punto di vista della tecnica normativa, le definizioni sembrerebbero collocarsi su piani diversi: la prima di queste (mercato regolamentato), infatti, ricostruisce i caratteri dell’organizzazione produttiva; la seconda (gestione di sistemi multilaterali di negoziazione) descrive un’attività; la terza (internalizzatore sistematico), infine, individua una peculiare figura di opera-

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tore, e dunque sembrerebbe muoversi nella prospettiva del soggetto. Pur tuttavia, non è difficile trasferire anche la prima e la terza definizione sul terreno dell’attività, in modo da facilitare il confronto. Per gestione di un mercato regolamentato (co. 1, lett. w-ter) deve intendersi l’attività consistente nella gestione di un “sistema multilaterale che consente o facilita l’incontro, al suo interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, ammessi alla negoziazione conformemente alle regole del mercato stesso, in modo da dare luogo a contratti, e che è gestito da una società di gestione, è autorizzato e funziona regolarmente”. Risulta evidente l’affinità con la definizione contenuta nell’art. 1, co. 5-octies, secondo la quale la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione consiste nella “gestione di sistemi multilaterali che consentono l’incontro, al loro interno ed in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti”. Mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione, dunque, hanno caratteristiche simili, poiché entrambi rappresentano: i) il «luogo» di incontro di interessi multipli di acquisto e di vendita (nel senso precisato dal Preambolo della Direttiva, punto 6): “I termini «interessi di acquisto e di vendita» vanno intesi in senso ampio ed includono ordini, quotazioni di prezzi e manifestazioni di interesse”); ii) di terzi; iii) relativi a strumenti finanziari; iv) idoneo a consentire la conclusione di contratti (v. ancora il punto 6) del Preambolo: “Le definizioni prescrivono che gli interessi si incontrino in modo tale da dare luogo ad un contratto, il che significa che l’esecuzione ha luogo in base alle regole del sistema o tramite i suoi protocolli o le sue procedure operative interne”). Tali categorie di trading venues sono caratterizzate, in sintesi, dal carattere multilaterale delle contrattazioni e dalla posizione di terzietà del gestore rispetto a queste. Entrambe svolgono la medesima funzione (e per tale ragione, le relative definizioni sono “strettamente allineate”: cfr. Preambolo della Direttiva Mifid, punto 6), che può descriversi in termini di regolamentazione dell’altrui attività di scambio. La netta prevalenza della componente “giuridica” rispetto alla componente “logistica” (sicché il proprium della funzione gestoria va ravvisato nella prima, e non nella seconda) emerge infatti nitidamente dalle precisazioni in ordine al significato del termine “sistema”, contenute nel punto 6) del Preambolo: “Il termine «sistema» comprende tutti i mercati che sono costituiti da

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una serie di regole e da una piattaforma di negoziazione nonché quelli che funzionano esclusivamente in base a una serie di regole”. Di conseguenza, si prosegue, i rispettivi gestori “non sono tenuti a gestire un sistema «tecnico» per il confronto («matching») degli ordini. Un mercato costituito esclusivamente da una serie di regole che disciplinano aspetti relativi all’acquisizione della qualità di membri, all’ammissione di strumenti alla negoziazione, alla negoziazione tra membri, agli obblighi di notifica e, se del caso, di trasparenza, è un mercato regolamentato o un sistema multilaterale di negoziazione ai sensi della presente direttiva e le operazioni concluse in base a tali regole sono considerate come concluse nell’ambito del sistema di un mercato regolamentato o di un sistema multilaterale di negoziazione”. La lunga citazione testuale, in questa circostanza, si rende opportuna poiché rende ragione di un dato talvolta trascurato: la funzione di «regolatori privati», con tutto quel che ne consegue sul piano della natura dell’attività di gestione, non caratterizza soltanto i mercati regolamentati, ma anche gli altri mercati. Fra le due definizioni, sul piano letterale, vi sono indubbiamente alcune differenze: in primo luogo, i mercati regolamentati possono limitarsi a «facilitare» la conclusione di contratti (nel mentre sembrerebbe che i sistemi multilaterali debbano necessariamente «consentire» tale risultato). In secondo luogo, soltanto per i mercati regolamentati si prevede espressamente che gli strumenti finanziari debbano essere ammessi alle negoziazioni conformemente alle regole del mercato. Infine, soltanto per i mercati regolamentati parte essenziale della relativa nozione è la circostanza che essi siano gestiti da una società di gestione, siano autorizzati e funzionino regolarmente. Di tali differenze, tuttavia, almeno le prime due sembrano prive di valore sostanziale, come emerge sia dal prezioso ausilio all’interpretazione fornito dal Preambolo, sia dall’esame della disciplina. Non la prima, poiché dai citati passi del Preambolo, punto 6), risulta che né l’uno né l’altro sistema sono tenuti ad allestire un sistema di incrocio degli ordini, e comunque i contratti conclusi conformemente alle regole del sistema si considerano conclusi nell’ambito del sistema; ed inoltre, sia per i mercati regolamentati che per i sistemi multilaterali occorre che il sistema agevoli altresì la fase di esecuzione del contratto (“l’esecuzione ha luogo in base alle regole del sistema o tramite i suoi protocolli o le sue procedure operative interne”). Non la seconda, poiché – sempre nel Preambolo, punto 6) – si prevede per entrambi che l’ammissione degli strumenti alle negoziazioni abbia luogo secondo regole predeterminate, e per di più oggetto (come si dirà più oltre) di una specifica disciplina, seppur differenziata quanto ad estensione e contenuti.

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Quanto alla terza differenza qui rilevata; per la parte relativa alla titolarità della gestione, la precisazione è sostanzialmente superflua, e comunque è priva di effettiva capacità distintiva (considerato che anche un sistema multilaterale può essere gestito da una società di gestione, in forza di un provvedimento di “abilitazione”: su ciò si tornerà più avanti), e che la regolarità di funzionamento attiene più al piano della disciplina che non al piano della fattispecie. Diversamente, non si potrebbe attribuire altro significato alla previsione, se non che relativamente ai mercati regolamentati l’autorizzazione non possa essere rilasciata a mercati di nuova istituzione, e che pertanto non abbiano ancora iniziato ad operare, per la semplice ragione che non potrebbe accertarsi in tal caso la regolarità di funzionamento in sede di autorizzazione: conclusione che appare eccessiva. In breve: la distinzione fra mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione, se le considerazioni fin qui svolte sono condivisibili, si fonda essenzialmente sul diverso regime dell’autorizzazione: soltanto il provvedimento che attribuisce la qualità di mercato regolamentato (e pertanto riveste valore costitutivo) consente l’iscrizione nell’apposito elenco nazionale. Il concetto di mercato regolamentato, dunque, appartiene al novero dei concetti normativi.

5. (segue) Gli internalizzatori sistematici. I gestori-broker. Discorso diverso deve farsi a proposito della distinzione fra sistemi multilaterali di negoziazione ed internalizzatori sistematici, che appare fondata – per contro – su elementi di valore tipologico, ossia l’assenza relativamente a tale forma di contrattazione organizzata del carattere di multilateralità e la posizione di parte assunta dal gestore in ciascun affare concluso. Ciò emerge con chiarezza dalla stessa definizione, secondo la quale per internalizzatore sistematico si intende (art. 1 t.u.f., co. 5-ter) un “soggetto che in modo organizzato, frequente e sistematico negozia per conto proprio eseguendo gli ordini del cliente al di fuori di un mercato regolamentato o di un sistema multilaterale di negoziazione”. Le prime due categorie di trading venues, in altri termini, corrispondono ad un medesimo concetto, ossia il mercato; nel mentre la terza identifica una peculiare forma di commercio, che evoca immediatamente i vecchi “borsini” delle banche, ossia la prassi di incrociare gli ordini della clientela al proprio interno o in alternativa di attingere al proprio portafoglio per l’esecuzione degli ordini, ricorrendo all’esecuzione in Borsa soltanto per la parte eccedente. Una prassi che la regola di concentrazione degli

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scambi in Borsa, introdotta dalla l. n. 1/1991, aveva temporaneamente messo fuori legge, ma che non ha tardato a ricomparire non appena le maglie dell’obbligo di concentrazione sono state allentate, ed è oggi definitivamente rilegittimata grazie all’adozione dell’opposta regola di best execution. Se a livello intuitivo è agevole riconoscere la sostanza dell’attività di internalizzazione sistematica, pur tuttavia occorre rilevare come essa possa facilmente confondersi con la negoziazione in sé e per sé, data l’indeterminatezza dei criteri (attività organizzata, frequente, sistematica): ma su tale aspetto si tornerà più oltre. Non è chiaro se la condizione di terzietà del gestore possa dirsi comunque rispettata, nell’ipotesi in cui quest’ultimo prenda parte alla conclusione di ciascun affare, non come contraente in proprio bensì come mediatore (affiancando così alla funzione di mediazione in senso lato, coincidente con l’attività gestoria, anche una funzione di mediazione in senso stretto, corrispondente alla figura codicistica): in favore della soluzione affermativa sembrerebbe deporre, tuttavia, quanto si legge nel Preambolo, punto 6): “Le definizioni [di mercato regolamentato e di sistema multilaterale di negoziazione - n.d.s.] dovrebbero escludere i sistemi bilaterali dove un’impresa di investimento intraprende ogni operazione per proprio conto e non come controparte interposta tra l’acquirente e il venditore senza assunzione di rischi”. Da ciò si potrebbe dedurre, argomentando a contrario, che la mera interposizione senza assunzione di rischi in proprio, pur nell’ipotesi in cui a garanzia dell’anonimato delle operazioni il gestore intervenga come inter-dealer broker (senza tuttavia “entrare” nel contratto), sia sufficiente a salvaguardare il carattere multilaterale del sistema. Interpretazione che appare preferibile, poiché in caso contrario questo tipo di sistemi di contrattazione resterebbe privo di disciplina (non essendo riconducibile alla figura dell’internalizzatore sistematico, contraddistinta in positivo dalla qualità di contraente in proprio del gestore), e dovrebbero trovare di conseguenza applicazione esclusivamente le regole relative al servizio di investimento consistente nella mediazione in senso stretto, accostato all’attività consistente nella mera ricezione e trasmissione di ordini. La nuova definizione del servizio di mediazione, infatti, non sembra più autorizzare un’interpretazione estensiva, per effetto del riferimento a singole operazioni: “Ai fini della presente direttiva, l’attività di ricezione e trasmissione di ordini dovrebbe comprendere anche l’attività consistente nel mettere in contatto due o più investitori, rendendo così possibile la conclusione di un’operazione fra di essi.” ((Preambolo, punto 20); enfasi aggiunta); e v. ora infatti l’art. 1, co. 5-sexies, t.u.f.

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6. (segue) Precisazioni in merito alla figura dell’internalizzatore sistematico. La difficoltà di distinguere la figura dell’internalizzatore sistematico, nell’ambito dell’attività consistente nell’esecuzione di ordini dei clienti tramite negoziazioni per proprio conto, ha indotto in sede di emanazione delle misure di II livello ad una presa di posizione che aspira ad una funzione chiarificatrice, con particolare riferimento alla negoziazione di azioni (e in virtù dell’art. 4, § 2, della Direttiva Mifid, ha valore vincolante per l’interprete), ma in effetti suscita a sua volta dubbi interpretativi, tant’è che in argomento è intervenuta la Consob, fornendo a sua volta chiarimenti sul concetto di attività svolta in modo “organizzato, frequente e sistematico”. A tale scopo, la Commissione europea ha raggruppato i criteri di valutazione in due diversi test: il primo permette di accertare i requisiti di organizzazione, frequenza e sistematicità; il secondo, all’opposto, permette di escluderne la sussistenza. Il primo test si fonda su tre diversi elementi: i) l’attività riveste un ruolo commerciale importante per l’impresa ed è condotta in base a regole e procedure non discrezionali; ii) l’attività è svolta da personale, o mediante un sistema tecnico automatizzato, destinato a tale compito (indipendentemente dal fatto che il personale o il sistema in questione siano utilizzati esclusivamente a tale scopo); iii) l’attività è accessibile ai clienti su base regolare e continua. Nota opportunamente la Consob (la quale inoltre invita gli operatori a tener conto di tali precisazioni anche per le attività relative a strumenti finanziari diversi dalle azioni), tali indici devono ricorrere congiuntamente, essendo insufficiente uno solo di essi ad integrare la fattispecie. Qualche dubbio suscita, per contro, l’orientamento intepretativo volto a chiarire il concetto di “ruolo commerciale importante”. Secondo la Consob, ciò significa che l’internalizzazione sistematica è tale se rappresenta “una fonte di reddito o di costi significativa”, tenendo conto “della misura in cui l’attività è condotta o organizzata separatamente, del va-

Comunicazione contenente chiarimenti di natura applicativa in merito al Regolamento Mercati della Consob adottato in attuazione della direttiva MiFID (Markets in Financial Instruments Directive), Documento di consultazione del 7 novembre 2007 (DMS ID: 072960121).

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lore monetario dell’attività e della sua importanza relativa con riferimento all’attività complessiva dell’impresa e/o all’attività dell’impresa sul mercato di cui trattasi”. Come si può notare, i parametri di valutazione suggeriti sono di natura puramente quantitativa, interpretando così sostanzialmente l’aggettivo “commerciale” quale sinonimo di “economico”, senza tener conto di ulteriori fattori (quali l’importanza dell’attività a fini promozionali o d’immagine, il suo contributo alla «fidelizzazione» della clientela, e simili). La pubblicazione sistematica di quotazioni di prezzi da parte del soggetto abilitato, avverte ancora la Consob, non è sufficiente al fine di giudicare se l’internalizzazione riveste un ruolo commerciale importante, poiché rileverebbe esclusivamente sul piano della disciplina (essendo per l’appunto l’internalizzatore sistematico tenuto a pubblicizzare le condizioni alle quali è disposto a trattare), e non sul piano della ricostruzione della fattispecie. Tuttavia, la contrapposizione in tal caso sembra artificiosa, poiché la diffusione di quotazioni potrebbe costituire quanto meno un sintomo del carattere organizzato ed abituale (nel senso di “frequente e sistematico”) dell’attività. Il secondo test permette di escludere che l’attività sia svolta in modo organizzato, frequente e sistematico, in presenza delle condizioni seguenti: i) l’attività è svolta su basi bilaterali ad hoc e saltuarie, con controparti professionali, nel quadro di relazioni d’affari a loro volta contraddistinte da negoziazioni oltre le dimensioni normali del mercato; ii) le operazioni sono effettuate al di fuori dei sistemi solitamente utilizzati dall’impresa interessata per le attività svolte in veste di internalizzatore sistematico. Gli incerti confini della figura dell’internalizzatore sistematico meriterebbero più lungo discorso, che porterebbe tuttavia troppo lontano dal tema di riflessione. Val la pena di sottolineare piuttosto, per i fini che qui interessano, come le “precisazioni” fornite dalla Commissione europea possano contribuire a definire ulteriormente analogie e differenze con le altre categorie di trading venues; e mi limito a due osservazioni. Prima osservazione. Dal Regolamento emerge un’ulteriore affinità fra le diverse tipologie di trading venues, poiché si richiede – al fine di distinguere l’internalizzatore sistematico dal comune negoziatore – che anch’esso, così come i mercati regolamentati ed i sistemi di negoziazione, si avvalga di regole e procedure non discrezionali per la conclusione dei contratti (elemento che non emerge, per contro, dalle norme di I livello). Secondo il punto 6) del Preambolo della Direttiva (dedicato in

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verità ai mercati, e non agli internalizzatori sistematici), “i termini «regole non discrezionali» significano che le regole non lasciano all’impresa di investimento che gestisce un sistema multilaterale di negoziazione alcuna discrezionalità su come possano interagire gli interessi”. L’estensione di tale caratteristica all’internalizzazione sistematica, tuttavia, non contraddice la ricostruzione del fenomeno fin qui operata, poiché la predeterminazione delle regole di formazione del consenso non può dirsi esclusiva dei mercati: basti qui ricordare che, proprio nella controversia decisa dal Consiglio di Stato alla quale si è fatto in precedenza riferimento, il commissionario faceva ricorso ad una sorta di asta per aggiudicare i contratti agli operatori ammessi, ma ciò non ha impedito di ravvisare in tale modalità operativa una forma di commercio e non un mercato. Seconda osservazione. All’opposto, la distanza fra internalizzatori sistematici ed altre trading venues si accentua, alla luce del diverso ruolo dell’organizzazione logistica (personale, dispositivi tecnici), dal Regolamento 1287/2006/CE considerata essenziale per distinguere l’internalizzatore dal comune negoziatore (ed è pertanto elemento costitutivo della fattispecie), nel mentre – come si è ricordato – i mercati regolamentati ed i sistemi multilaterali di negoziazione ben potrebbero limitarsi a fornire l’organizzazione giuridica.

7. La disciplina delle trading venues fra statuto del gestore e statuto dell’attività. La “non diversa natura” della gestione di mercati regolamentati e di sistemi multilaterali di negoziazione non ha indotto il legislatore comunitario, come si è accennato, ad unificare tali forme di scambi organizzati in un unico concetto di marketplace; si è preferito mantenere le due fattispecie distinte, e configurare quale ulteriore fattispecie autonoma l’attività di internalizzazione sistematica. Tale scelta, ovviamente, si riflette sul piano della selezione della disciplina applicabile; da tale punto di vista, è necessario esaminare separatamente le conseguenze in materia di regime del gestore e di statuto dell’attività. Sotto il primo profilo, nonostante la diversa conformazione della funzione gestoria, sia l’internalizzazione sistematica (quale modalità di svolgimento dell’attività di negoziazione per proprio conto e in esecuzione di ordini dei clienti) che la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione ricadono nell’ambito della definizione di servizi ed attività di investimento, cfr. art. 1, co. 5, lett. a) e g), il cui esercizio è soggetto pertanto alla

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riserva di attività istituita dall’art. 18 t.u.f. Esse si contrappongono così alla gestione di mercati regolamentati, che a sua volta è oggetto della riserva di attività istituita dall’art. 61, co. 1, t.u.f. In conseguenza di ciò: i) l’attività di internalizzazione sistematica può essere svolta esclusivamente da imprese di investimento e da banche autorizzate a prestare il servizio di negoziazione (art. 18, co.1, t.u.f.); ii) la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione può essere esercitata sia da imprese di investimento e banche autorizzate a prestare tale servizio di investimento, sia da società di gestione di mercati regolamentati che siano state a ciò “abilitate” (art. 18, co. 3-bis, t.u.f.); iii) la gestione di mercati regolamentati è riservata esclusivamente alle società di gestione di cui all’art. 61 t.u.f., previa autorizzazione (da rilasciare per ciascun mercato gestito: art. 63). Poiché diverso è il regime rispettivamente applicabile, come è noto, a seconda che si tratti di imprese di investimento (e di banche) ovvero di società di gestione dei mercati regolamentati, il risultato è che ciascun gestore di trading venues rimane comunque sottoposto al proprio statuto soggettivo (ad esempio, per quel che concerne i tipi societari ammessi, il capitale minimo, i requisiti degli esponenti aziendali e dei titolari di partecipazioni rilevanti, etc.). Ciò crea una marcata disomogeneità dei regimi applicabili ai gestori di sistemi multilaterali di negoziazione, per la parte in cui il criterio di applicazione di una determinata regola è rappresentato dalla natura del soggetto e non dalla natura del servizio (anche se in linea di principio la regola in questione attiene alle modalità di esercizio dell’attività): così, ad esempio, la disciplina dei requisiti generali di organizzazione (quanto meno per la parte che incide sull’assetto societario) sarà diversa, a seconda che il gestore sia un’impresa d’investimento (o una banca), ovvero una società di gestione. Il regime dell’attività, per contro, dipende dalla configurazione specificamente assunta da ciascuna sede di negoziazione. Pertanto, nel caso delle società-mercato abilitate a gestire sistemi multilaterali di negoziazione, si avrà un’applicazione cumulativa di una pluralità di statuti ad un medesimo soggetto, in relazione alla tipologia di mercati gestiti (per i mercati regolamentati, trovano applicazione gli artt. 62 e ss., t.u.f., nel mentre ai sistemi multilaterali si applicherà l’art. 77-bis t.u.f.). Le imprese di investimento (e le banche) che gestiscono sistemi multilaterali di negoziazione. dal canto loro, sono sottratte all’applicazione delle regole di condotta proprie delle imprese di investimento per quanto riguarda i rapporti con i partecipanti (art. 59 Reg. Consob 16190/2007), e disciplinate dal Reg. mercati a norma dell’art. 77-bis t.u.f.

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Nel caso degli internalizzatori sistematici, al contrario, la disciplina dell’attività rimane quella propria del servizio di negoziazione, e si avrà semplicemente l’applicazione di singole regular juris ulteriori (v. art. 78 t.u.f., nonché le previsioni del Reg. mercati). L’internalizzazione sistematica non costituisce, infatti, una vera e propria attività autonoma, bensì semplicemente una peculiare modalità di contatto con l’utenza; da questo punto di vista, l’applicazione cumulativa di regole non rappresenta un fatto isolato, poiché si verifica in relazione anche ad altre modalità operative, ad esempio in caso di contatto con la clientela mediante offerte fuori sede e a distanza (e pure tali ulteriori regole possono trovare applicazione, nel caso di circuiti di contrattazione basati su tecniche di comunicazione a distanza, dando luogo così ad un terzo livello di disciplina dell’attività, nonché dei singoli contratti).

8. Segue: gli statuti dell’attività di gestione. Alla pluralità di fattispecie di sedi di negoziazione, dunque, corrisponde una pluralità di statuti delle rispettive attività. Non è possibile, in questa sede, esaminare in dettaglio le discipline rispettivamente applicabili, la cui esatta ricostruzione, ormai, non può fondarsi soltanto sull’esame delle fonti legislative nazionali: queste rinviano infatti alla normazione secondaria, la quale per non poche materie rinvia a sua volta alle “disposizioni comunitarie”, e di conseguenza alle direttive del Parlamento e del Consiglio e alle misure di II livello (nel caso esse siano adottate mediante regolamento, poi, risultano direttamente applicabili indipendentemente dal rinvio). Può risultare utile, comunque, tentare di porre a confronto le soluzioni accolte, almeno relativamente a taluni aspetti particolarmente significativi, in modo da porre in luce analogie e dissonanze fra i diversi modelli di attività gestoria, dalle quali finisce in ultima analisi per essere condizionata la stessa tassonomia delle sedi di negoziazione. A tale riguardo, le materie regolate possono essere idealmente suddivise in tre diversi gruppi, a seconda che risultino disciplinate per tutte e tre le tipologie di trading venues, ovvero limitatamente ai mercati (mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione), oppure esclusivamente in relazione ai mercati regolamentati (e si dovrebbe in realtà inserire un ulteriore livello, distinguendo questi ultimi a seconda dell’applicabilità o meno della disciplina comunitaria in materia di ammissione a quotazione – direttiva 2001/34/CE, e successive modificazioni).

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La circostanza che una determinata materia risulti regolata per due o più tipologie di sedi di negoziazione, tuttavia, non implica di per sé che vi sia sul punto uniformità di regolamentazione: la tecnica normativa adoperata (come risulta evidente già dalla diversità dei riferimenti normativi) sovente consiste nella selezione di singole regole relative al sistema “maggiore”, alle quali si fa rinvio, o nell’introduzione di regole semplificate ad hoc, sia pure incidenti sui medesimi aspetti. A ciò si aggiunga che per larga parte (grazie alla previsione della potestà regolamentare, in materia che per una o più delle altre sedi di negoziazione è disciplinata direttamente dalla legge) l’amministrativizzazione della produzione normativa lascia all’autorità di vigilanza la responsabilità di decidere se e quale debba essere la “distanza” fra le discipline rispettivamente applicabili, salvo il necessario rispetto delle norme comunitarie. Se si volesse tentare una raffigurazione plastica dei modelli di disciplina, si potrebbe evocare l’immagine non tanto di una serie di anelli concentrici, quanto di un sistema di piani inclinati fluttuanti nello spazio. Con queste avvertenze, una rapida comparazione fra i rispettivi statuti dell’attività offre comunque qualche spunto di riflessione. Il common core di regole comuni a tutte le sedi di negoziazione (anche se la disciplina non è necessariamente unica, e neppure è sempre omogenea quanto ad estensione e contenuti) può essere così individuato: i) il divieto di discriminazioni fra gli operatori nell’accesso alle negoziazioni ; ii) gli obblighi di trasparenza pre- e post-trading e l’accessibilità al pubblico delle relative informazioni 10; iii) gli obblighi inerenti al consolidamento delle informazioni 11; iv) gli obblighi di registrazione delle operazioni 12;

Si veda, per i mercati regolamentati (limitatamente ai quali vi è un vero e proprio diritto di accesso dei soggetti abilitati), l’art. 62, co. 3, t.u.f., nonché l’art. 18 del Reg. mercati; per i sistemi multilaterali, l’art. 19, co. 1, lett. c) del Reg. mercati; per gli internalizzatori sistematici l’art. 22 Reg. mercati, limitato peraltro agli internalizzatori su azioni e facendo salve comunque le restrizioni “per categoria” o fondate su legittime ragioni commerciali. V. per tutte le sedi di negoziazione l’art. 79-bis, che attribuisce la relativa potestà regolamentare alla Consob, e conseguentemente lascia la possibilità di differenziazione a seconda della sede di negoziazione. 10 V. per tutte le sedi di negoziazione l’art. 30 Reg. mercati. 11 V. per tutte le sedi di negoziazione l’art. 79-ter t.u.f., che rinvia sul punto alle disposizioni regolamentari. 12 Cfr. per i mercati regolamentati l’art. 65 t.u.f. nonché l’art. 15 del Reg. mercati; per i

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v) gli obblighi di segnalazione delle operazioni sospette ai fini della repressione degli abusi di mercato 13. Altri aspetti risultano comuni, pur se anche in tal caso non necessariamente uniformi, soltanto a mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione. Fra questi, sono da segnalare almeno: i) l’obbligo di dotarsi di dispositivi e procedure efficaci per controllare regolarmente l’osservanza delle proprie regole da parte degli utenti e di controllarne effettivamente il rispetto, segnalando all’autorità di vigilanza le infrazioni riscontrate 14; ii) gli obblighi relativi alla continuità operativa, sia per le attività in proprio 15 che per le attività strategiche esternalizzate 16; iii) l’obbligo di assicurare la pubblicità delle regole di mercato 17; iv) il controllo sui requisiti di funzionamento del mercato 18; v) l’obbligo di dotarsi di adeguati sistemi per il regolamento delle operazioni concluse 19. Gli aspetti principali della disciplina dei mercati regolamentati, ai quali si associa la “garanzia di qualità” di tali sedi di negoziazione, ri-

sistemi multilaterali, l’art. 20, co. 5, Reg. mercati, che richiama sul punto l’art. 15; per gli internalizzatori sistematici l’art. 21, co. 4, Reg. mercati. 13 V. per tutte le sedi di negoziazione l’art. 187-nonies t.u.f., nonché l’art. 44 Reg. mercati. 14 V. per i sistemi multilaterali gli artt. 19, co. 1, lett. d), e co. 2, lett. d), e 20, co. 5, Reg. mercati, in relazione all’art. 77-bis , co. 1, lett. e); vi è poi l’estensione anche ai sistemi multilaterali di negoziazione della vigilanza informativa ed ispettiva sui partecipanti alle contrattazioni, diversi dai soggetti abilitati (v. l’art. 77-bis, co. 5, t.u.f., che richiama gli artt. 8, co. 1, e 10, co. 1, t.u.f.). Per i mercati regolamentati, si vedano gli artt. 64, co. 1, lett. b) e d). 15 Per i mercati regolamentati, v. l’art. 12 Reg. mercati; per i sistemi multilaterali di negoziazione, l’art. 20, co. 3, Reg. mercati, che rinvia all’art. 12, co. 2 e 3. 16 V. per i mercati regolamentati l’art. 13 Reg. mercati, al quale rinvia limitatamente agli obblighi di informazione nei confronti della Consob, per i sistemi multilaterali, l’art. 20, co.1, lett. d), Reg. mercati. 17 V. rispettivamente l’art. 7, co. 4, Reg. mercati, per i mercati regolamentati, e l’art. 19, co. 3, Reg. mercati, per i sistemi multilaterali. 18 Cfr. art. 62, co. 2, t.u.f., per i mercati regolamentati; per i sistemi multilaterali, l’art. 77-bis, co. 1, nonché l’art. 19 Reg. mercati. 19 V. per i mercati regolamentati l’art. 70-ter t.u.f., richiamato per i sistemi multilaterali dall’art. 77-bis, co. 4; non è tuttavia esteso, se non ai sistemi multilaterali gestiti da società di gestione di mercati regolamentati, l’obbligo di comunicare preventivamente gli accordi con società che gestiscono sistemi di controparte centrale, compensazione e garanzia, e la loro cessazione: cfr. art. 20, co. 6, Reg. mercati, che limitatamente a tale ipotesi richiama l’art. 14, co. 3 e 4.

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mangono tuttavia al di fuori dell’assimilazione (se non uniformazione) rispetto ai sistemi multilaterali di negoziazione; fra questi, basti citare i criteri di ammissione degli strumenti finanziari alle negoziazioni e la disciplina di trasparenza degli emittenti 20; i poteri interdittivi da parte dell’autorità di vigilanza relativamente all’ammissione di strumenti finanziari alle negoziazioni 21; la disciplina speciale dei requisiti generali di organizzazione 22.

9. Funzione regolativa e principio di correttezza. L’aspetto che maggiormente distingue i mercati regolamentati dalle altre trading venues, tuttavia, è rappresentato dall’assetto della funzione regolativa, ossia della funzione consistente nell’elaborare la regolamentazione del mercato, farla rispettare e (se del caso) giudicare le controversie riguardanti la sua esatta interpretazione ed applicazione. Di tale materia, il legislatore si disinteressa completamente in relazione agli internalizzatori sistematici, per i quali la posizione di parte contrattuale necessaria degli affari conclusi non solleva problemi diversi da quelli che solitamente sollevano i contratti per adesione. Diverso è il caso dei mercati, per i quali – come si è accennato – la funzione regolativa individua lo stesso nucleo caratteristico dell’attività di gestione, tanto da potersi limitare ad essa, senza alcun supporto di tipo logistico alle contrattazioni. Pur tuttavia, la funzione regolativa è puntualmente disciplinata soltanto in relazione ai mercati regolamentati (cfr. artt. 62, 63, co. 1, 73, co. 4, t.u.f.). Per i sistemi multilaterali di negoziazione, la legge attribuisce semplicemente alla Consob il potere di vigilare, al momento del rilascio dell’autorizzazione e successivamente in via continuativa, sulla confor-

20 Ne costituiscono solo un pallido riflesso, per i sistemi multilaterali, le regole introdotte in sede di esercizio della potestà regolamentare: cfr. art. 19, co. 1, lett. b), e co. 2, lett. a), Reg. mercati. 21 Cfr. art. 64, co. 1-bis, t.u.f.: per le altre trading venues, la Consob può richiedere esclusivamente la sospensione o l’esclusione dalle negoziazioni, e limitatamente agli internalizzatori sistematici soltanto se il provvedimento riguarda strumenti finanziari negoziati in mercati regolamentati: cfr. artt. 77-bis, co. 3, e 78, co. 1, t.u.f. 22 V. art. 64, co. 1, t.u.f.: per i gestori di sistemi multilaterali, così come per gli internalizzatori sistematici, tale materia rimane regolata dalla disciplina legislativa e regolamentare dettata per le imprese di investimento.

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mità alle disposizioni comunitarie delle regole e delle procedure adottate dal gestore (art. 77-bis, co. 2, lett. c); si direbbe, un mero controllo di legalità. Analoga discrasia tra le due forme di mercato è ravvisabile in ordine ai requisiti di organizzazione, la cui disciplina per i mercati regolamentati è stata rivista in attuazione della Direttiva Mifid, e al fine di tener conto dello specifico modo di atteggiarsi dei conflitti di interesse (cfr. art. 64, co. 1, t.u.f., nonché l’art. 8 Reg. mercati); nel mentre, per la gestione di sistemi multilaterali di negoziazione non è previsto nulla, e dunque – qualora si tratti di imprese di investimento o banche – troverà applicazione esclusivamente la disciplina vigente per gli intermediari. Vi è da chiedersi, tuttavia, se a conclusione diversa non si possa pervenire, ragionando sulla effettiva portata della “clausola generale” (prevista per la verità al fine di regolare i casi di diniego dell’autorizzazione a svolgere servizi o attività di investimento), secondo la quale l’autorizzazione medesima non può essere concessa qualora non risulti “assicurata la capacità dell’impresa di esercitare correttamente i servizi o le attività di investimento” (art. 19, co. 2). Se in tale previsione è possibile individuare la regola fondante lo statuto speciale dell’attività (e non già semplicemente il parametro che circoscrive, accanto al criterio della sana e prudente gestione, l’ambito di legittimo esercizio del potere autorizzatorio), appare legittimo individuare i contenuti del canone di correttezza in relazione alla natura dell’impresa esercitata; così come, del resto, prescrive la disciplina comunitaria in relazione ai requisiti dell’organizzazione, che in ogni caso deve risultare adeguata alla natura, alle dimensioni e alla complessità dell’impresa: art. 5 ss. direttiva 2006/73/CE). Se così è, la distanza fra le due forme di mercato – pur restando innegabili le profonde differenze – potrebbe essere destinata a ridursi.

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La crisi dei mercati finanziari: disorganici appunti di un giurista

Sommario: 1. Gli eventi. – 2. I fallimenti. – 3. Gli imputati: la banca universale. – 4. (segue): i prodotti derivati. – 5. (segue): il rating. – 6. Cosa è stato fatto. – 7. Cosa si sarebbe potuto fare. – 8. Cosa sarebbe opportuno fare.

1. Gli eventi. I tumultuosi eventi recenti, sviluppatisi con grande rapidità e intensità, disegnano un contesto economico inedito, permeato d’incertezza. Dai primi segnali, emblematicamente rappresentati dall’insolvenza, nel luglio del 2007, dell’American Home Mortgage alla grande crisi che attualmente interessa finanza, economia reale, mercato del lavoro e società civile non trascorrono tempi lunghi. L’ampiezza del contagio diviene sistemica. Sinteticamente e senza pretesa di completezza, si passa dal default di Northen Rock al salvataggio di Bear Stearns (la prima della banche d’affari ad entrare in coma), alla nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac; dal fallimento di Lehman Brothers al salvataggio di Citigroup e ai consistenti interventi sul colosso assicurativo A.I.G.; dalla fusione di Merril Lynch con Bank of America alla resa di Goldman Sachs e Morgan Stanley, che si trasformano da banche d’investimento in banche commerciali per porsi sotto l’ombrello protettivo dello Stato. Né la partita si svolge solo oltre atlantico. Bank of Scotland è la punta di un iceberg rappresentativo di un cospicuo e importante insieme di banche europee. Le cause del dissesto sono molteplici, non tutte chiare – fatta naturalmente eccezione per quella scatenante, rappresentata dalla cartolarizzazione dei famigerati mutui subprime – soprattutto ancora non tutte note. Gli effetti, certi nella loro drammaticità anche sociale, restano

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di difficile quantificazione e identificazione. Non è escluso che estensioni progressive dello tsunami possano interessare, oltre che i prodotti finanziari derivati (aventi, lo ricordo per inciso, un valore nozionale pari a oltre dodici volte il PIL mondiale), anche i titolari di carte di credito, segnatamente di tipo revolving, e così direttamente i fruitori, nelle diverse forme, di credito al consumo per l’acquisto di beni durevoli. Importanti segnali non mancano. Intanto, secondo uno studio della Banca asiatica per lo sviluppo, i cui esiti sono menzionati in un articolo del Financial Times (del 9 marzo 2009), il totale delle svalutazioni di asset c.d. “tossici” ammonterebbe a ca. 50 mila miliardi di dollari. Per il Fondo Monetario Internazionale (F.M.I.) verrebbe in gioco una più “contenuta” esposizione pari a ca. 4 mila miliardi di dollari. Negli Stati Uniti d’America “ogni 304 abitanti c’è un consumatore finito in bancarotta” (Il Sole 24 ore del 7 gennaio 2009). In Italia “le finanziarie sono molto più attente a concedere prestiti: nei fidi personali il tasso di rifiuto sfiora il cinquanta per cento, tant’è che si potrebbe pensare a una sorta di credit crunch pure per le famiglie” (Il Sole 24 ore del 18 dicembre 2008). Sul versante dei salvataggi bancari quanto, più in generale, dell’offerta, la gamma dei possibili rimedi macroeconomici, in atto e in prospettiva, è amplissima, inedita o, per contro, già sperimentata in epoche remote. Va dalle ricapitalizzazioni alle nazionalizzazioni degli intermediari bancari e finanziari in crisi; dalla istituzione di “bad banks” nelle quali sterilizzare i c.d. “titoli tossici” alla definizione di nuove regole per la finanza mondiale; dall’enfasi su una ancora generica e indefinita “etica degli affari” alla revisione degli assetti di vigilanza. Il problema riguarda tuttavia anche la domanda, segnatamente gli incentivi atti a sostenerla e a rinvigorirla. Non può prescindere, con riferimento a tale segmento, dalla introduzione di nuove, più incisive e soprattutto più effettive regole di tutela della clientela, idonee a ricostruire la cornice giuridica sottesa ad assetti fiduciari incrinatisi considerevolmente.

2. I fallimenti. Per quanto forse abusato, il sostantivo che meglio esprime essenza e dimensione del fenomeno rimane quello di “fallimento”. Del mercato finanziario quanto ad autopoiesi, efficienza e “distruzione creativa”; delle regole, numerose e pervasive sul piano quantitativo quanto facilmente aggirabili su quello strutturale e dell’enforcement, non in grado di preve-

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nire o limitare comportamenti anomali e devianti; dei protagonisti (banche e istituzioni finanziarie), incapaci di valutare i propri rischi e perciò di adempiere al relativo statuto imprenditoriale, teso proprio al monitoraggio del merito di credito; dei regolatori – dotati di poteri vastissimi – manifestamente impreparati a prevedere le conseguenze sottese alla c.d. finanza innovativa . In sintesi estrema, squarciato il velo, è apparso evidente che “dietro al sipario non c’è un genio benevolo che con mente matematica guida i mercati verso l’efficienza, ma una truppa sgangherata di squali, persone oneste, ciarlatani e qualche intellettuale serioso, che per lo più giocano con i soldi degli altri” . Come si è già detto, la causa prossima è rappresentata dai mutui subprime. Ma imputare a questi il “fallimento” equivale, come è stato efficacemente scritto , a considerare i soli fatti di Sarajevo all’origine del primo conflitto mondiale. Il presidente della Fed aveva affermato che la bolla immobiliare era un fenomeno isolato, che avrebbe potuto provocare perdite fino a 100 miliardi di dollari (75 miliardi di euro), facili da assorbire. Invece i debiti in sofferenza sono pari al 365 per cento del PIL e destinati a crescere fino al 500 per cento. Nel ’29 erano “solo” il 160 del PIL, saliti poi al 260 nel ’32 . Le Banche centrali, divenute prestatrici “di sola istanza” hanno dovuto accettare in garanzia carta di ogni specie e di dubbia qualità . La causa remota consiste allora nella finanziarizzazione dell’economia e nel conseguente trasferimento del rischio di credito al pubblico.

3. Gli imputati: la banca universale. Gli strumenti giuridici che siedono oggi sul banco degli imputati sono ascrivibili principalmente a due insiemi di regole: soggettive e pubblicistiche le prime, oggettive e privatistiche le seconde. Si accompagna a questi un terzo imputato, il rating, per converso caratterizzato dal totale vuoto disciplinare.

Nigro, Crisi finanziaria, banche, derivati, in questa Rivista, 2009, I, pp. 13 ss.. Morris, Crack. Come siamo arrivati al collasso del mercato e cosa ci riserva il futuro, Roma, 2008, p. 216. Roselli, Riflessioni sulla crisi, in www.apertacontrada.it. Soros, in Repubblica del 3 febbraio 2009. Spaventa, Introduzione a Morris, Crack, cit.

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L’esercizio dell’attività bancaria quale attività d’impresa (tale definita già dall’art. 2195, n. 4 del codice civile del 1942 al netto della superfetazione normativa di cui all’art. 10 t.u.b.) caratterizzata dal collegamento funzionale tra raccolta del risparmio tra il pubblico ed erogazione del credito rimane riservato alle banche, come pure soggetta a riserva è la sola raccolta del risparmio. E tuttavia, oltre alla raccolta del risparmio tra il pubblico e all’attività bancaria, le banche italiane possono esercitare ogni altra attività finanziaria, nonché attività connesse e strumentali, fatte ovviamente salve le riserve d’attività contemplate dall’ordinamento. È questa la sostanziale, più consistente innovazione apportata dal testo unico del ’93, che ribalta l’opposto principio della legge bancaria del ’36 di separazione dell’attività a breve da quella a medio – lungo termine, da un lato; di limitazione dell’attività delle banche alla sola attività bancaria, dall’altro. Segna il passaggio dalla c.d. banca monofunzionale a quella polifunzionale o universale. La cesura con il passato non è solo disciplinare ma culturale. Investe tanto l’assenza di un limite esterno, quanto la stessa dimensione euristica e fenomenica di “banca”. Il rinvio alla nozione di “attività finanziaria” quale confine estremo alla polifunzionalità dell’intermediario bancario equivale infatti a un … non rinvio; manca, nell’ordinamento domestico vigente, una nozione di attività finanziaria, limitandosi il t.u.b. a definire (ma solo per l’applicazione della relativa disciplina) gli intermediari finanziari come “i soggetti iscritti nell’elenco previsto dall’art. 106”. Stante la continua, progressiva espansione dell’area di riferimento siccome soggetta a modifiche e innovazioni nonché il testuale richiamo della norma ad ogni attività finanziaria quale sfera della capacità d’agire del soggetto bancario, il principio che da ciò deriva è quello della piena libertà d’intrapresa, all’evidenza giustapposto al pregresso principio di tassatività dell’oggetto sociale. Più in generale, può fondatamente ritenersi venuto meno il permanere in capo alle società bancarie del vincolo dell’esclusività dell’oggetto sociale, atteso che la norma gioca nel senso di sottrarre la banca ad uno statuto soggettivamente speciale per rendere invece “speciale”, sotto il versante delle regole disciplinari e di vigilanza, l’attività bancaria nell’ampia accezione derivante dal combinato disposto dei commi primo e terzo dell’art. 10 t.u.b. .

Ulteriori riferimenti in De Vecchis, Carriero, Il testo unico in materia bancaria e creditizia, in Nuovo dizionario di banca e borsa, Roma, 2002.

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Aperto il vaso di Pandora, dischiusa la possibilità dell’esercizio di attività economiche ulteriori rispetto alla tradizionale mera raccolta del risparmio per l’esercizio del credito, diviene difficile riferire a tutte le società bancarie un giudizio di prevalenza di questa rispetto a quelle attività; complicato diversificare la disciplina applicabile a soggetti che, rivestendo il formale status di banca, svolgano prevalentemente attività regolate da insiemi di norme diverse da quelle riferibili a società bancarie; distinguere tra banca e finanza. Ciò anzi sollecita, certo non solo nel nostro paese, l’esercizio prevalente da parte della banca di attività finanziarie di mero trading; favorisce perciò iniziative e condotte tese a traslare ad altri soggetti il rischio di credito, la cui gestione dovrebbe – in linea di principio – rimanere in capo alle banche stesse, determinando il venir meno dell’incentivo a monitorare l’attività del debitore e a intervenire tempestivamente per contenere o limitare i rischi. Non a caso, forse tardivamente, altrove si denuncia che “il Congresso dovrebbe prendere seriamente in considerazione un ritorno a qualche forma della legge Glass Steagall, che prevedeva la separazione tra banca commerciale e banca d’investimento” . Altrettanto non a caso autorevoli giuristi italiani, memori dell’importanza (e, purtroppo, anche delle similitudini) tra gli accadimenti che produssero le soluzioni “separatiste” (di separazione di poteri di mercato) della legge bancaria del ’36 (in primis, tra banca e industria; nel settore, tra credito a breve e credito a medio lungo termine; tra aziende e istituti di credito speciale; tra attività bancaria e altre attività finanziarie) e i fatti odierni, non esitano a suggerire interventi drastici quali la separazione tra l’attività bancaria e quella d’intermediazione finanziaria, “da riservare a soggetti distinti dalle banche e con esse non collegati”, nonché la predisposizione di rigorose regole agli investimenti delle banche “che debbono ricavare profitti dall’attività tipica e non dalla gestione di strumenti finanziari” . In ogni caso si impone un ripensamento dell’insieme delle regole che governano la banca universale, che non possono essere isolate o segmentate con riguardo a un’attività riconducibile a un unico statuto imprenditoriale.

Morris, Crack, cit, p. 218. Nigro, Crisi finanziaria, cit., p. 17.

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4. (segue) I prodotti derivati. La polifunzionalità dell’intermediario bancario si è accompagnata, sul piano dello strumentario giuridico teso a favorire la c.d. innovazione finanziaria, con la dilatazione del prodotto finanziario oggetto della sollecitazione all’investimento o, in ogni caso, della negoziazione tra le parti. Il contenuto del contratto d’investimento può, in particolare, essere rappresentato da strumenti finanziari derivati (qualificabili, secondo la definizione resa dalla Banca d’Italia nella Circ. n. 299/99, come “contratti che insistono su elementi di altri schemi negoziali, quali valute, tassi d’interesse, tassi di cambio, indici di borsa e il cui valore economico deriva dal valore del titolo sottostante o dagli altri elementi di riferimento”). Le vicende recenti hanno evidenziato la grande pericolosità di questi prodotti, al punto che la loro complessità, che pure ha consentito ai mercati finanziari di svilupparsi, sfugge al controllo degli stessi emittenti e delle banche “che li avevano creati e che non hanno saputo valutarne il rischio” o che, attraverso il cosiddetto modello originate to distribuite che riposa su cartolarizzazioni dei crediti, si sono illuse di disseminare nel mercato. È significativo che tali prodotti siano rappresentati da contratti che non costituiscono solo strumenti di circolazione della ricchezza, ma addirittura tecniche virtuali di creazione del bene giuridico di riferimento, configurandosi il contratto derivato stesso come bene giuridico 10. Il rapporto con l’attività sottostante o con il parametro preso a riferimento (indice di borsa, tasso d’interesse, di cambio) che caratterizza questa figura non a caso qualificabile anche come subcontratto 11 diviene poi sempre più labile in ragione della progressiva sofisticazione dello strumento considerato che, non a caso, relativamente alla funzione economica (scilicet, finanziaria) svolta, riporta la memoria storica alla nota vicenda di John Law e alla cartolarizzazione dei titoli della Compagnia del Mississipi, il cui valore derivava dai diritti vantati sull’intero territorio americano settentrionale 12. Rimettere, con riguardo alla loro distribuzione, la tutela dell’oblato (non necessariamente nella veste di risparmiatore persona fisica ma anche in quella di ente locale, comune,

Onado, Nel credito pulizie primaverili, in Il Sole 24 ore del 29 aprile 2008. Relativamente a questo profilo v., da ultimo, le lucide considerazioni di Ferro - Luzzi, Attività e “prodotti finanziari”, dattiloscritto in corso di stampa. 11 Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, Milano, 1959, p. 669 ss. 12 Galbraith, L’età dell’incertezza, Milano, 1977.

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provincia, etc.) alla sola informazione obbligatoria e ad obblighi procedimentali inerenti alle caratteristiche del tipo specifico di strumento interessato nonché dei rischi propri di tale strumento non può che sollecitare una fin troppo facile ironia, atteso che la conoscenza del prodotto e dei conseguenti effetti collaterali sfuggono ormai allo stesso emittente, disvelando l’ipocrisia sottesa a tali prescrizioni. Se esiste (ed esiste, v. art. 102 segg. cod. consumo) una specifica disciplina dei prodotti pericolosi; se anche a livello comunitario non è consentito immettere sul mercato beni che non siano omologati, non si vede perché similare disciplina non debba concepirsi riguardo a prodotti della specie che per il risparmiatore – consumatore sono – rispetto a quelli – pericolosi almeno al quadrato. È d’altronde noto, perfino a livello manualistico 13, che la costruzione dommatica unitaria dell’istituto confligge con le diverse discipline degli altrettanto diversi beni presi a riferimento. L’esempio più noto è rappresentato dallo statuto giuridico (meglio: dagli statuti giuridici) della proprietà, diverso essendo le discipline che regolano ad es. l’acquisto dell’aereomobile rispetto all’abitazione, rispetto al pacchetto azionario di controllo di una società, rispetto al pacchetto di sigarette. Se questo non è avvenuto per i prodotti finanziari derivati non è perciò casuale ma risponde a una precisa (e miope) volontà politica, riguardo ai cui esiti è difficile considerare estranei i desiderata e i convergenti interessi (e poteri) di finanza mondiale e “mercanti del diritto”. Sotto il versante domestico, ciò dovrebbe almeno indurre a ripensare i fondamenti e soprattutto l’ampiezza della sottrazione di questi prodotti alla eccezione ex art. 1933 cod. civ., espressamente sancita dall’art. 23, co. 5, TUF. In origine, con la l. n. 1 del 1991 (c.d. legge sulle Sim), i contratti uniformi a termine, anche nella forma di contratti differenziali, erano sottratti all’eccezione di gioco e scommessa solo in quanto autorizzati volta a volta dalla Consob e negoziati in mercati ad hoc (art. 23). Il più ristretto ambito dei contratti della specie, il controllo pubblico, il principio di concentrazione in borsa, la più rigorosa giurisprudenza (ricordo solo quella del Tribunale di Milano della metà degli anni novanta) erano, a ragione, idonei a circoscrivere l’eccezione ai derivati aventi sostanziale finalità di copertura del rischio, riguardo ai quali la meritevolezza di tutela sotto il versante dell’operatività e dell’efficienza dei mercati è di palmare evidenza. L’evoluzione successiva, dal d.lgs. n. 415/1996 (decreto c.d. eurosim) al t.u. del ’98 nelle sue molteplici modifiche, ha

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Alpa, Manuale di diritto privato, Padova, 2008, p. 410.

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determinato, per un verso, la rimozione di ogni limite e, per altro verso, l’allargamento ad libitum della relativa nozione, al punto che questa oggi comprende addirittura contratti connessi a “variabili climatiche, tariffe di trasporto, quote di emissione, tassi d’inflazione o altre statistiche economiche ufficiali” (art. 1, co. 2 t.u.f.). La sottrazione all’art. 1933 c.c. abbraccia perciò ora ogni contratto derivato, anche e soprattutto quelli aventi dichiarata e manifesta funzione speculativa, riguardo ai quali non è facile rinvenire solidi criteri discretivi dalle mere scommesse, potendo tra l’altro essere negoziati in ogni mercato, nell’ambito di sistemi multilaterali di negoziazione e per il tramite di internalizzatori sistematici. Che le scommesse rimarrebbero tali anche se fossero quotate in borsa (PREITE) è senz’altro vero. Resta tuttavia, sul piano del diritto positivo, il fatto che la deroga è strettamente connessa alla standardizzazione degli strumenti e alla loro negoziabilità sul mercato finanziario. Averne dilatato il limite esterno può invece determinare una generalizzata sanatoria configgente con la ratio della norma e certo devastante sul piano degli effetti economico-sociali 14. Non è perciò casuale che in U.S.A. si faccia sempre più pressante l’esigenza di una riforma del mercato dei derivati, anche a costo di “dimezzare i profitti degli intermediari su questi strumenti finanziari” (cfr. Il Sole 24 ore del 15 maggio 2009, Il Tesoro Usa prepara la “borsa” dei derivati).

5. (segue) Il rating. Del rating mette solo conto ricordare come, da Enron in poi, evochi nelle diverse sedi livelli di attenzione inversamente proporzionali a ipotesi d’intervento fin qui mai concretamente prodotte. Eppure le principali questioni, anche in letteratura , risultano sufficientemente esplorate. Vanno dall’inesistenza di un mercato in ragione dello strapotere economico delle “tre grandi sorelle” (Standard & Poor’s; Moody’s; Fitch) alla persistente immanenza di conflitti d’interesse intrinseci quanto estrinseci. Recenti iniziative della Commissione europea, successive alla crisi, sembrano finalmente procedere nel senso indicato. È auspicabile che non si tratti dell’ennesima occasione perduta.

14 Ulteriori, specifici riferimenti in Carriero, Mifid, attività assicurativa, autorità di vigilanza, in Dir. banc., V, 2008, I, pp. 433 ss.

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6. Cosa è stato fatto. Sul piano dell’ordinamento interno, con i d.l. nn. 155 e 157/08, convertiti dalla l. 4 dicembre 2008, n. 190 si è, in sintesi estrema: 1) concessa la garanzia dello Stato sui depositi bancari al dettaglio, affiancandola all’assicurazione del fondo interbancario; 2) consentito allo Stato la sottoscrizione di aumenti di capitale delle banche previo accertamento da parte di Banca d’Italia della situazione di inadeguatezza patrimoniale e certificazione di un piano di risanamento; 3) prevista la concessione della garanzia dello stato su passività bancarie e la possibilità di fornire alle banche titoli di Stato in cambio di loro passività di nuova emissione. Con il successivo d.l. n. 185/08, convertito dalla l. n. 2 del 28 gennaio 2009, allo Stato è stato concesso di sottoscrivere strumenti finanziari emessi dalle banche, che devono – quale corrispettivo della sottoscrizione – adottare un codice etico e impegnarsi a sostenere il finanziamento della clientela. Misure di sostegno del sistema finanziario diverse per volumi e dimensioni a seconda della gravità della crisi sono state peraltro adottate o sono in corso di adozione in tutti i maggiori paesi. Negli Stati Uniti d’America, paese esportatore del virus che ha prodotto il contagio, hanno assunto caratteristiche e ammontari inediti. Gli sforzi profusi, al di là delle dichiarazioni d’intenti, non riescono tuttavia a fugare la sensazione del carattere occasionale, rimediale degli interventi che, lungi dall’introdurre soluzioni di continuità con il passato e con le principali cause del dissesto, confermano invece linee d’indirizzo di politiche economiche e creditizie divisate nei trascorsi ultimi due decenni. A tacer d’altro, lo testimoniano le note vicende delle scandalose remunerazioni e liquidazioni di manager di imprese finanziarie in dissesto e le rinnovate richieste di ausilio all’erario da parte di banche e assicurazioni già abbondantemente sovvenute. Con il conto a totale carico della collettività. Oltre che nella strutturale e in parte comprensibile diversità degli interessi nazionali, ciò deriva principalmente dal divario tra spazio economico e spazio giuridico. Se il mercato, specie con l’avvento della telematica, è illimitato, globale, sovranazionale e non risente del confine, il diritto è, per contro, limitato e territoriale. Ciò concorre a far giustamente ritenere che “gli Stati sovrani non sono più, nella società globale, altrettanto sovrani quanto lo erano in passato. Le leggi dei singoli Stati, per potenti che siano, fanno pensare al ruggito del topo: sono leggi che agiscono solo su un minuscolo frammento del mercato, che ha dimensione planetaria e sul quale esse non possono efficacemente

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incidere” 15. Questo evoca, a ben vedere, vicende note allo storico del diritto, visto che in termini non molto dissimili – prima della codificazione napoleonica – Voltaire ricordava che “vi sono in Francia 144 coutumes che hanno valore di legge; queste leggi sono quasi tutte diverse”. Di guisa che “un viaggiatore, in questo paese, cambia leggi quasi tante volte quante cambia i cavalli di posta” 16. Come allora, il “particolarismo legislativo” rappresenta una precisa risorsa, un incentivo a evadere la regola maggiormente rigorosa. Torna alla memoria il c.d. “Delaware effect”. È stato icasticamente osservato che “se hai la facoltà di incorporarti in una giurisdizione formalmente legale, ma sostanzialmente illegale, se hai la possibilità di entrare in quello che i filosofi dicono il Kingdom of Anòmia, se hai la possibilità di vivere in un mondo di ombre, shadow finanza, allora è evidente che il fenomeno consentito dalla globalizzazione, l’incorporazione in giurisdizioni inesistenti, sostanzialmente ti consente di non scendere dal livello delle regole, ti consente di metterti assolutamente fuori dalle regole in un mondo in cui la regola è quella di non avere regole” 17.

7. Cosa si sarebbe potuto fare. Cosa si sarebbe potuto fare prima che gli eventi precipitassero è ben difficile dire. La prognosi postuma è peraltro esercizio intellettuale spocchioso, antipatico e quasi sempre sterile. Non può tuttavia omettersi di rilevare che da parte di alcune autorità di settore i rischi sottesi alla diffusione tra il pubblico di prodotti derivati erano stati prontamente colti e altrettanto prontamente prevenuti. Con decisione all’epoca tanto coraggiosa quanto impopolare, fin dal giugno 2003 l’Isvap ha imposto il divieto di indicizzare le polizze index linked a titoli connessi ad operazioni di cartolarizzazione e ai derivati del credito. Ciò ha consentito, a partire da quella data, di evitare l’impatto dei subprime su questi prodotti assicurativo – finanziari. È ben noto che quello controfattuale è argomento certo inelegante sotto il profilo metodologico

Galgano, Diritto ed economia alle soglie del nuovo millennio, in Contratto e impresa, 2000, p. 198. 16 Voltaire, Dizionario filosofico del 1763, voce Coutume. 17 Tremonti, Intervento alla 84a giornata mondiale del risparmio, in Il risparmio, 4, 2008, p. 53. 15

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ma – fatta ammenda del suo impiego – non si può evitare di chiedersi quali sarebbero potuti essere gli impatti della crisi finanziaria per i risparmiatori in sua assenza. Attraverso una simulazione, l’Isvap ha stimato che “l’esposizione delle index linked verso tale tipologia di mutui è risultata contenuta a circa 278 milioni di euro” mentre “in assenza del divieto … si stima un importo di circa 7,6 miliardi di euro” 18. Sempre l’Isvap con apprezzabile onestà intellettuale ha dichiarato, prima dei fatti dell’autunno 2008, che la linea della trasparenza informativa precontrattuale e del rispetto delle sole regole di comportamento, pur divisata dal legislatore della Mifid, “in presenza di strumenti finanziari particolarmente complessi … rappresenta una condizione non sufficiente per la tutela del consumatore” 19. Non è casuale il rilevo che la crisi finanziaria “ha messo a nudo problemi e debolezze di alcuni attori istituzionali ma ha permesso anche di riconoscere i punti di forza di altri soggetti”, tra i quali l’Isvap, che “grazie a un atteggiamento prudente, coadiuvato da un sistema di regole ferree, esce più o meno vincente da tale fase di difficoltà del sistema economico – finanziario” 20. Per altro verso e in termini più generali, l’art. 62 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (convertito dalla l. 6 agosto 2008, n. 133) ha fatto divieto “alle regioni, alle province autonome di Trento e Bolzano e agli enti locali” di stipulare fino alla data di entrata di vigore di un successivo regolamento contratti relativi agli strumenti finanziari derivati.

8. Cosa sarebbe opportuno fare. Ripristinare condizioni di fiducia nei mercati e negli intermediari creditizi, considerevolmente incrinatesi in ragione dell’occorso, è ben difficile. La fiducia è un bene immateriale. Presuppone, da parte del fiduciario, elevati standard di reputazione, faticosamente conquistati nel periodo medio – lungo in misura inversa alla facilità della loro immediata dispersione. Concorrono perciò molteplici fattori, non tutti patrimonialmente rilevanti. La cultura delle regole è essenziale. “Ai fini della operatività dei rapporti economici un corpo coerente di principi e istituti giuridici, accettati o fatti rispettare secondo procedure unificate (e condivise), è

Documento di consultazione n. 30/2008, sul sito dell’Isvap. Giannini, Relazione sull’attività svolta, Considerazioni conclusive, Roma, 2008, p. 9. 20 Milano Finanza del 16 maggio 2009, Il caso Isvap, un’authority a prova di crisi. 18 19

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basilare. Lo è al di là degli stessi contenuti sostanziali di quei principi, di quegli istituti. Sotto il profilo economico, il diritto conta in primo luogo per il suo stesso esistere, per l’esserci” 21. Ciò nella consapevolezza – ben nota allo stesso Adam Smith – che “il commercio può fiorire solamente in uno Stato dove la giustizia è amministrata in modo regolare, oppure dove vi è una certa fiducia nell’equità del governo” 22. Occorre perciò ripristinare, se del caso rifondare il nucleo di regole essenziali a definire la cornice di questo particolare “contratto sociale”. Regole tuttavia di sistema, ben diverse dai molteplici e cangianti frammenti legislativi (talora pseudo-legislativi) che hanno ispirato le politiche più recenti attraverso un ineffettivo, burocratico pluralismo normativo senza precedenti (di fonti europee, nazionali, primarie, secondarie e autopoietiche) che sollecita il ricordo dell’invettiva dantesca contro i “sottili provvedimenti” fiorentini, se “a mezzo novembre non giunge quel che d’ottobre fili”. Diritto quindi, non legge. Meglio: diritto attraverso la legge. Il contrario cioè di tali proliferazioni legislative perché – come avvertiva Montesquieu – “le norme inutili indeboliscono quelle necessarie”. Con queste avvertenze metodologiche, mi sembra che il percorso sia in qualche modo segnato, dovendo l’attenzione necessariamente concentrarsi sui seguenti temi: 1) ripensare la polifunzionalità dell’intermediario bancario, (re) introducendo criteri di separazione o almeno di rigorosa disciplina unitaria dell’attività di raccolta del risparmio finalizzata all’erogazione del credito rispetto alle diverse attività finanziarie onde fare in modo che le banche tornino a concentrarsi sul loro oggetto tipico; 2) introdurre una specifica disciplina di circolazione, concentrazione e standardizzazione dei prodotti finanziari complessi; 3) rendere funzione pubblica o almeno rigidamente disciplinare l’attività di rating prendendo atto che, nella sollecitazione di strumenti finanziari, il risparmiatore non legge mai il bilancio dell’emittente; raramente legge un prospetto informativo, risultando invece maggiormente sensibile ad opinioni e consigli, alle suggestioni di forme di pubblicità palesi o occulte di prodotti finanziari, ai comportamenti seriali; 4) contrastare (inibire) i c.d. “paradisi fiscali”; 5) rivedere criteri, allocazioni e governance della supervisione sugli intermediari e sui mercati.

Carriero, Ciocca, Marcucci, Diritto e risultanze dell’economia nell’Italia unita, Roma – Bari, 2003, p. 487. 22 Rothschild, Sentimenti economici. Adam Smith, Condorcet e l’illuminismo, Bologna, 2001, p. 27. 21

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Non riesco invece a rinvenire convincenti nessi tra le vicende in oggetto e la funzione della corporate governance societaria. Non perché questa non sia importante in punto di efficienza dell’impresa e anche, in prospettiva, di sua stabilità. Quelle problematiche tuttavia riguardano principalmente i rapporti tra rischio e potere di gestione, incidono sui benefici privati del controllo societario, rimangono circoscritte ai rapporti tra i protagonisti del “contratto di società”, perciò specialmente a soci, management e creditori. Queste invece afferiscono alla collettività nel suo insieme e sollecitano la tutela dell’interesse pubblico generale. Agire attraverso la leva del diritto dell’impresa potrebbe determinarne la sua funzionalizzazione. Vicende antiche, “battelli del Reno”, e recenti, “locuste del capitalismo”, sconsigliano neo-istituzionalismi di ritorno 23. Mette piuttosto conto considerare che il proliferare di organismi societari ispirati alla logica della comitologia può, in assenza di specifici tratti differenziali tra le funzioni assegnate a tali soggetti e quelle contemplate da legge in capo agli istituzionali organi del controllo societario, ingenerare sovrapposizioni, confusioni e così garantire precise risorse per l’aggiramento della disciplina. Troppe regole spesso infatti equivalgono a nessuna regola. Sotto questo versante, confesso di essere rimasto colpito dagli esiti dell’indagine svolta in una trasmissione televisiva (Report) che attestava come non meglio precisati uffici di Tax trade interni alle banche fossero funzionali all’evasione fiscale. E le magnifiche sorti e progressive di tutti questi nuovi istituti e di queste nuove funzioni di compliance? Va da sé che la sedes materiae degli interventi non può che essere sovranazionale. Ciò è più che sufficiente a segnalare le enormi differenze tra nuovo e antico, escludendo sul nascere ipotesi di mero rimpianto dell’età dell’oro, di ritorno sic et simpliciter – nel nostro paese – alla legge bancaria del ’36. Il contributo del giurista alla fase costituente può risultare decisivo. È intrapresa difficile e complessa. Ma primi significativi segnali in questo senso, dal c.d. rapporto de Larosière ai lavori del G 20, sono già fortunatamente presenti.

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23 Per una significativa valutazione v., da ultimo, De Angelis, I battelli del Reno, le navi vichinghe e le locuste del capitalismo. Note minime a margine della scalata ad ABN – Amro, in Contratto e impresa, 2008, p. 1284 ss.

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La responsabilità delle banche nel collocamento di obbligazioni ai risparmiatori. Una comparazione tra Italia e Regno Unito in seguito all’adozione del sistema MiFID Sommario: 1. L’acquis national. – 2. Il collocamento e le sue molteplici forme. – 2.1. Mero collocamento. – 2.2. Collocamento con acquisto e assunzione a fermo. – 2.3. Collocamento con assunzione in garanzia. – 2.4. La responsabilità da attività di collocamento ai risparmiatori. – 3. Il conflitto di interessi e le soluzioni prospettate. – 3.1. Una definizione di “conflitto di interessi”. – 3.2. La soluzione dei Chinese walls o fire walls. – 3.3. La disclosure e le soluzioni formalistiche. –3.4. Il principio inglese del fair treatment. – 4. Il sistema inglese. – 4.1. La Financial Services Authority. – 4.2. Il TCF Report. – 4.3. Le sanzioni e l’efficacia del sistema inglese. – 4.4. Il caso Lloyd’s TSB. – 5. Il sistema italiano. – 5.1. I casi «Area Banca», «My Way» e «4 You». – 5.2. Il caso «Parmalat». – 5.3. Il caso «Cirio». – 5.4. La crisi argentina. – 5.5. Gli orientamenti della giurisprudenza. – 6. La realtà operazionale.

1. L’acquis national. L’avvento del ventunesimo secolo ha scosso l’Italia con una serie di scandali finanziari, che hanno depauperato migliaia di cittadini risparmiatori e che hanno messo in crisi la fiducia nelle prospettive di sviluppo economico del Paese. Sebbene non sia evidente una relazione diretta tra questi eventi ed il declino economico nazionale, pare quanto meno sintomatico che gli stessi si siano presentati in un periodo in cui l’Italia ha registrato forti perdite di competitività ed in cui i maggiori indici economici (potere

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d’acquisto, PIL, investimenti dall’estero, quote di mercato delle aziende italiane, ecc.) hanno segnato livelli preoccupanti. L’allarme sociale destato da queste vicende è dovuto altresì al fatto che le stesse hanno colpito in modo immediato e diretto i piccoli risparmiatori: questi sono stati tratti in inganno da una duplice serie di fattori che, visti congiuntamente, avrebbero viceversa dovuto suggerire un’impressione di sicurezza dell’investimento. Trattasi di: i) i default hanno avuto ripercussioni anche sugli obbligazionisti, cioè su coloro che, acquistando titoli a reddito fisso, associavano la caratteristica della bassa redditività all’assenza di rischi; ii) gli acquisti dei risparmiatori sono avvenuti per il tramite delle banche, che, sino ad epoca recente, erano considerate, dall’opinione pubblica, alla stregua di istituzioni garanti del risparmio. I passi che sono stati compiuti dal potere esecutivo e legislativo per arginare la possibilità che siffatti nefasti episodi si ripresentino in futuro, essenzialmente con l’introduzione di nuovi strumenti di controllo di diritto pubblico, esulano dalla presente dissertazione . Per converso, in questa sede s’intende approfondire la problematica afferente i risultati che sono stati ottenuti dai risparmiatori, applicando gli strumenti privatistici esistenti, nel recupero delle somme versate alle banche per l’acquisto dei bond. La comparazione con quanto accade nel Regno Unito, che rappresenta uno dei mercati finanziari più evoluti al mondo, costituisce sicura fonte di significativi stimoli di riflessione. Peraltro, il quadro normativo di riferimento è in piena evoluzione, soprattutto in conseguenza dell’adozione e attuazione della direttiva sui Mercati di Strumenti Finanziari (2004/39/CE), nota anche come MIFID e successive modifiche ed integrazioni (direttiva 2006/31/CE; direttiva 2006/73/CE; regolamento 2006/1287/CE) . In particolare, in Italia, la di-

Per approfondimenti, si rinvia all’esame del testo della l. n. 262 del 2005, c.d. “Legge sul risparmio”. Per un primo commento, v. Capriglione, Crisi di sistema ed innovazione normativa: prime riflessioni sulla nuova legge sul risparmio (l. n. 262 del 2005), in Banca, borsa, tit. cred., 2006, p. 125 ss. Per un primo commento, in senso critico, v. Enriques, L’intermediario in conflitto di interessi nella nuova disciplina comunitaria dei servizi di investimento, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, XLIII, Mercato finanziario e tutela del risparmio, a cura di Galgano e Visentini, Padova, 2006, p. 183. In particolare, l’Autore preconizza «un decisivo arretramento della tutela degli investitori» nel nostro Paese, per

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rettiva MIFID è stata recepita con decreto legislativo del 30 agosto 2007. Del pari, le innovazioni volute dalla direttiva MIFID sono in vigore, in tutti gli Stati membri UE, dal 1° novembre 2007. A seguito dell’entrata in vigore del sistema MIFID si assiste ad un’importante, ma parziale , opera di armonizzazione della materia a livello comunitario, se è vero, com’è vero, che «I margini di libertà lasciati dalla normativa comunitaria nel definire la regolamentazione nazionale risultano estremamente ridotti» . La forzata armonizzazione comunitaria potrebbe addirittura condurre ad «una diminuzione sostanziale dei livelli di trasparenza attualmente presenti in Italia» nel collocamento ai risparmiatori delle obbligazioni, per via della mancata previsione, da parte del legislatore comunitario, di un regime di trasparenza per strumenti finanziari diversi dalle azioni. Nella stessa ottica, possono essere evidenziati altri punti critici dell’iniziativa comunitaria, rappresentati: (i) dalla disciplina della c.d. «execution only» (ossia la mera esecuzione di ordini), prevista dall’art. 19, n. 6, della direttiva 2004/39/CE. In tal caso, l’intermediario potrebbe esimersi dal fornire le informazioni previste di regola, con grave danno per la tutela dei risparmiatori ; ovvero, (ii) dalla possibilità che gli intermediari, lasciati liberi di agire dalla disciplina comunitaria, facciano un ampio ricorso ad informative standardizzate, che si risolvono tendenzialmente

via del passaggio dall’attuale «obbligo di disclosure anteriore alla singola operazione» ad una situazione nella quale «nel vigore della disciplina comunitaria, con ogni probabilità l’intermediario inonderà di dichiarazioni di conflitto d’in­teressi il cliente all’inizio del rapporto, per poi poter operare in conflitto nel corso del medesimo», con l’ulteriore conseguenza che «la prova dell’inadempimento diverrà più difficile e dipendente assai più di oggi da valutazioni discrezionali del giudice» (p. 194 ss.). Infatti, il legislatore comunitario non ha indicato quali debbano essere le conseguenze, in termini civilistici, della violazione delle norme di comportamento da parte dell’intermediario. In tal senso, v. Sangiovanni, Operazione inadeguata dell’intermediario finanziario fra nullità del contratto e risarcimento del danno alla luce della direttiva MIFID, nota a Trib. Monza, 12 dicembre 2006, in Contr., 2007, p. 252. Cardia, L’attuazione della direttiva Mifid in Italia nella regolamentazione secondaria, relazione presentata al Convegno Dexia Crediop Strategie, governance, compliance: le sfide della direttiva Mifid e l’integrazione del mercato finanziario europeo, Roma, 21 settembre 2007, consultabile sul sito www.consob.it. Cardia, L’attuazione, cit. La portata nefasta di tale principio è stata soltanto temperata dall’art. 39, lett. e) della direttiva 2006/73/CE, la quale ha precisato che la mera esecuzione di ordini non può ravvisarsi allorché l’investimento possa comportare passività effettive o potenziali eccedenti il costo affrontato dal risparmiatore per attuare l’investimento.

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in un vuoto formalismo, laddove le esigenze di tutela dei risparmiatori condurrebbero proprio ad imporre un’attività di ragguaglio ad hoc, per ciascun risparmiatore. Difatti, il regolamento Consob n. 16190 del 29 ottobre 2007 (c.d. «Nuovo Regolamento Intermediari»), prevede ora, all’art. 43, che gli intermediari possono prestare i servizi di esecuzione di ordini per conto dei clienti o di ricezione e trasmissione ordini, senza che sia necessario ottenere le informazioni o procedere alla valutazione di appropriatezza dell’investimento, qualora: a) l’investimento non abbia ad oggetto strumenti finanziari complessi (ad es. derivati); b) il servizio sia richiesto dal cliente ; c) il cliente sia stato informato, anche tramite strumenti standardizzati, del fatto che egli non beneficia della protezione derivante dalla valutazione di appropriatezza; d) l’intermediario rispetti gli obblighi (ormai essenzialmente soltanto formalistici [N.d.A.]) in materia di conflitti d’interesse. Le riforme del formante normativo non priveranno la materia di interesse comparatistico, giacché questa “race to the bottom”, innescata a Bruxelles, potrebbe mettere in ancora maggiore risalto le carenze strutturali, a livello non già legislativo, ma di enforcement, proprie del sistema italiano.

2. Il collocamento e le sue molteplici forme. Il d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, il cosiddetto «Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria» (d’ora innanzi t.u.f.) non riporta una definizione dell’attività di «collocamento»; ecco perché le posizioni dottrinali sul tema sono molteplici e sfaccettate . Ci pare che, ai fini del presente lavoro, le definizioni che più possono venire utili siano due: la prima è quella di collocamento come «attività diretta a far acquisire dai risparmiatori nuovi titoli (offerti in sottoscrizio-

La prova del contrario pare essere particolarmente ardua per il cliente, il quale, se non altro e nella più parte dei casi, è colui che si reca presso la sede dell’intermediario e non viceversa. Per una rassegna delle stesse, v. Falcone, Greco e Rotondo, La responsabilità nella prestazione dei servizi di investimento, Milano, 2004, p. 41 ss.

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ne) o titoli già emessi (offerta di acquisto) per conto di un emittente o di un potenziale venditore attraverso la distribuzione» . La seconda, più sbrigativa, ma molto efficace, è quella secondo cui «collocare uno strumento finanziario significa riuscire a venderlo» 10. Questo studio mira, appunto, ad individuare i profili di responsabilità nei quali può incorrere un intermediario particolarmente qualificato, come una banca, allorché cerchi (e riesca) a “vendere” al consumatore una tipologia particolare di strumenti finanziari, ossia le obbligazioni o bond. Peraltro, con riguardo alla prima definizione di collocamento, c.d. “in senso stretto”, è importante, ai nostri fini, formulare una tripartizione, che ponga in risalto non già le relazioni dell’intermediario con l’acquirente-consumatore, bensì quelle del primo con l’emittente. Si evidenziano, così, le seguenti categorie. 2.1. Mero collocamento. Trattasi dell’ipotesi in cui l’intermediario si limita, semplicemente, ad interagire con l’emittente affinché questi alieni al terzo gli strumenti finanziari richiesti. In questo caso, l’intermediario non si farà, ovviamente, carico dell’esito dell’operazione. 2.2. Collocamento con acquisto e assunzione a fermo. Questa ipotesi vede, invece, l’intermediario offrire in vendita a terzi, per conto proprio, strumenti finanziari che lo stesso operatore ha in precedenza sottoscritto o acquistato. Di conseguenza, esso sopporta direttamente il rischio connesso alla «distribuzione» degli strumenti finanziari tra il pubblico degli investitori 11.

Costi, Il mercato mobiliare, Torino, 2000, p. 112. De Iuliis, Lineamenti di diritto del mercato finanziario: breve introduzione ai servizi di investimento, Milano, 2003, p. 37. 11 Sartori, Le regole di condotta degli intermediari finanziari. Disciplina e forme di tutela, Milano, 2004, p. 89. In materia di responsabilità del collocatore, cfr. anche Spallanzani, Il collocamento tra il pubblico di prodotti di risparmio gestito, in Nuova giur. civ. comm., 2002, p. 509.

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2.3. Collocamento con assunzione in garanzia. Questa fattispecie corrisponde al massimo coinvolgimento dell’intermediario nell’operazione, dal momento che lo stesso s’impegna ad acquistare direttamente ed in proprio gli strumenti finanziari che non sia riuscito a collocare a terzi al termine dell’operazione. 2.4. La responsabilità da attività di collocamento ai risparmiatori. Originariamente, la responsabilità da esercizio dell’attività di collocamento veniva ricondotta all’adempimento del dovere di buona fede precontrattuale: si trattava in sostanza di una traslazione della c.d. “responsabilità da prospetto” dagli emittenti a coloro che intervengono nelle trattative con una particolare qualifica professionale 12. Allo stato attuale, l’individuazione dell’ambito di responsabilità degli intermediari da attività di collocamento non può prescindere dal riferimento al t.u.f. ed al regolamento Consob attuativo, ma, come si vedrà, il ricorso ai principi generali del diritto civile è pur sempre imprescindibile. In questa sede, non ci spingeremo a descrivere quali siano le caratteristiche e modalità di funzionamento dei consorzi di collocamento; per approfondimenti sulle stesse, si rinvia alla dottrina 13. Qui ci preme, però, rimarcare una singolare finalità dei consorzi di collocamento, «che si potrebbe definire accessoria, ma che risulta nella realtà estremamente importante, alla luce delle caratteristiche proprie del mercato dei capitali. Ci si riferisce alla produzione di informazioni, resa possibile dall’attenta attività di consulenza fornita dagli intermediari che partecipano al consorzio. Questa è sì utile per la società emittente per ciò che riguarda le caratteristiche tecniche ed economiche dell’operazione, ma permette l’avvicinamento a questa tipologia d’investimento di risparmiatori che non hanno né disponibilità d’informazioni, né competenza ade-

Trib. Milano, 11 gennaio 1988, in Società, 1988, 589-604; in Giur. it., 1988, I, 2, 796; in Banca, borsa, tit. cred., 1988, II, 532; in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, 499; in Giur. comm., 1988, II, 585; in Riv. dir. civ., 1988, II, 513. App, Milano, 2 febbraio 1990, in Foro pad., 1990,1, 181-187; in Banca, borsa, tit. cred, 1990, II, 734; in Giur. comm., 1990, II, 755. 13 V. per tutti, Dello Iacono, I consorzi di collocamento e garanzia dei titoli azionari, Ceradi, Luiss, rinvenibile anche su internet, all’url:www.archivioceradi.luiss.it/documenti/archivio ceradi/impresa/banca/consorzi_dello_iacono.pdf. 12

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guata a valutarne la convenienza. Si offre quindi una garanzia agli stessi investitori sulla buona qualità dei titoli offerti» 14. E ancora: «risulta determinante per la riuscita del progetto (di collocamento [N.d.A.]) la fiducia che i clienti ripongono nei singoli partecipanti al consorzio: l’intervento di una banca o di un intermediario finanziario può costituire una sorta di implicita garanzia della qualità dei titoli e, di conseguenza, dell’esito positivo del collocamento» 15. Nessuno meglio di un membro di consorzi di collocamento conosce la situazione finanziaria della società emittente e, proprio per questo, allorché piazzi titoli della stessa ai risparmiatori, se ne fa garante della loro buona qualità. «Le fasi operative in cui può svilupparsi l’attività degli intermediari che partecipano al consorzio di collocamento e garanzia iniziano (proprio [N.d.A.] con quella che viene definita la “prospezione finanziaria” della società i cui titoli devono essere classati» 16. E ancora, negli schemi di consorzi di collocamento più utilizzati: «risulta rilevantissimo il ruolo assunto dal capofila. L’attività svolta da questo in effetti è tesa al coordinamento degli sforzi di tutti i partecipanti al fine di raggiungere l’interesse proprio della società (emittente [N.d.A.])» 17. Si noti soltanto che «l’intermediario deve possedere (…) una elevata specializzazione in quel “segmento” di risparmiatori che s’intende “sensibilizzare” all’operazione, attraverso una capillare diffusione nel territorio ed una capacità distributiva (placing power) adatta ai titoli offerti» 18. Dall’esame dell’attività di collocamento in senso stretto si delinea un profilo di responsabilità dell’intermediario-membro di consorzio di collocamento diversa e aggravata rispetto a quella dell’intermediario estraneo ad un qualsiasi accordo con l’emittente. Infatti, volendo utilizzare una terminologia meno appropriata, ma di più immediata comprensione, si potrebbe sostenere che, mentre questo è un mero “rivenditore” di strumenti finanziari emessi da terzi, quello è, invece, un rivenditore di beni che ha contribuito egli stesso, in parte più o meno rilevante, a realizzare.

Dello Iacono, I consorzi, cit., p. 9 ss. Dello Iacono, I consorzi, cit., p. 11. 16 Dello Iacono, I consorzi, cit., p. 22. 17 Dello Iacono, I consorzi, cit., p. 49. 18 Dello Iacono, I consorzi, cit., p. 26. 14 15

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Ciò risulterà evidente nel prosieguo della trattazione. A tal proposito, si consideri sin d’ora che un aspetto di grande differenziazione tra i due profili di responsabilità è rappresentato dalle problematiche afferenti il conflitto di interessi: sicuramente presente in caso di collocamento in senso stretto; di esistenza più dubbia nel caso di semplice rivendita di strumenti finanziari altrui.

3. Il conflitto d’interessi e le soluzioni prospettate. 3.1. Una definizione di «conflitto d’interessi». Il problema del conflitto d’interessi permea vasti settori dell’ordinamento giuridico, attraversando il diritto privato e quello pubblico. Ai fini che ci riguardano, la disciplina del fenomeno non può essere affrontata a prescindere dagli artt. 1394 e 1395 c.c. e, soprattutto dall’art. 21 t.u.f. Le norme codicistiche vengono sicuramente in aiuto allorché la banca collocatrice già possegga, avendoli nel proprio portafoglio, i titoli ordinatile dal cliente e proceda alla vendita al medesimo, al fine di ridurre la propria esposizione nei confronti dell’emittente. In tal caso, «l’atto esecutivo dell’ordine sarà (…) un contratto con se stesso, sottoposto all’art. 1395 c.c., impugnabile dal parte del Cliente sulla prova del conflitto d’interessi in cui la banca versi» 19. Autorevole dottrina ha sostenuto che, nel caso che ci occupa, il problema non possa essere sostanzialmente risolto, sulla base del fatto che «se si richiede la prova di un diretto collegamento tra la singola emissione, o la singola campagna di «piazzamento» di obbligazioni, curata da una certa banca, e una precisa e individuata riduzione dell’esposizione dell’impresa nei confronti di tale banca, sembra che la prospettiva sia, sul piano probatorio, alquanto diabolica per l’attore risparmiatore» 20; e, per converso, «se invece ci si accontenta della prova di un generico interesse delle banche finanziatrici di un’impresa a che questa attivi altre fonti di finanziamento e riequilibri la sua esposizione nei loro confronti (…)

Galgano e Zorzi, Tipologia dei contratti fra intermediario e risparmiatore, in Tratt. dir. comm. dir, pubbl. econ., diretto da Galgano, XLIII, Mercato finanziario, cit., p. 69. 20 Denozza, Il danno risarcibile tra benessere ed equità: dai massimi sistemi ai casi “Cirio’’ e “Parmalat”, in Giur. comm., 2004, p. 348. 19

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stante che in pratica l’attivazione di fonti di finanziamento diverse dal credito bancario comporta come propria conseguenza normale la riduzione delle esposizioni nei confronti delle banche, in ognuna di queste operazioni si creerebbe quasi automaticamente un conflitto d’interessi potenzialmente rilevante e sostanzialmente inevitabile» 21. Questa impostazione ci sembra eccessivamente rigorosa nella sua prima parte ed eccessivamente generica nella seconda, tanto che lo stesso autore puntualizza, proprio con riferimento all’ultima parte della sua teoria che «forse neppure il fatto che nessuna delle banche finanziatrici partecipi mai all’emissione o al collocamento delle obbligazioni emesse da questa impresa sarebbe sufficiente, visto che si può sempre immaginare che le banche si scambino favori» 22. Infatti, la prima parte della teoria oblitera che, ai sensi dell’art. 23, co. 6, t.u.f., «nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta». La seconda, descrivendo un mondo nel quale le banche concorrenti si scambiano favori (con buona pace della normativa antitrust) ed i piccoli istituti di credito cooperativo vengono equiparati ai lead managers dei consorzi di collocamento ci sembra sostanzialmente imprecisa. Orbene, che cosa disponeva il t.u.f., nella formulazione antecedente l’avvento dell’art. 4 del d.lgs. 17 settembre 2007, n. 164, per questa fattispecie? L’art. 21, co. 1, lett. e), imponeva all’intermediario finanziario di «organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento». Sul concetto di «equo trattamento» si dirà infra. Nei più noti casi portati dinanzi all’Autorità giudiziaria italiana, quali il caso Parmalat, potrebbe ravvisarsi l’esistenza del conflitto d’interessi, nella forma di un contrasto tra le seguenti pulsioni: i) l’interesse di alcune banche, quali finanziatrici di Parmalat, esposte per molti milioni di Euro, a che questa attivasse altre fonti di finanziamento e, anche col collocamento dei titoli, riequilibrasse la sua esposizione nei propri confronti; e/o l’interesse, quali membri o capofila dei

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Denozza, Il danno risarcibile, cit., p. 348. Denozza, Il danno risarcibile, cit., p. 348.

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consorzi di collocamento e vincolate con Parmalat dai patti contenuti nelle rispettive “lettere d’impegno”, a che il mercato assorbisse i titoli da collocare; e, comunque, «direttamente o indirettamente un interesse in conflitto, anche derivante da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di società del gruppo», ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 27, regolamento Consob cit.; e ii) l’interesse dei risparmiatori-obbligazionisti a che i loro risparmi, quantomeno, non vengano intaccati dall’inflazione. Ci pare che il principio secondo cui l’intermediario deve astenersi da comportamenti che avvantaggiano un investitore a danno di un altro dovrebbe essere dirimente, a prescindere dal rispetto delle altre formalità previste dal diritto positivo 23. Inoltre, la compresenza di tali interessi in conflitto mette a dura prova l’operatività di un principio che dovrebbe informare ogni mercato dei capitali efficiente, ossia quello della trasparenza. Del resto, di recente, anche il legislatore italiano è intervenuto proprio per promuovere la trasparenza dei mercati 24. Pertanto, riteniamo che, almeno in linea teorica, uno studio dei singoli casi concreti, nei quali si confronti il ruolo giocato dai due interessi in conflitto sopra sintetizzati dovrebbe già permettere di accertare o negare la responsabilità delle banche. Nondimeno, la pratica dei tribunali italiani si è rivelata molto più sfaccettata di quanto non fosse legittimo attendersi. L’avvento della MIFID e del d.lgs. n. 164 del 2007 ha significativamente indebolito la protezione dei risparmiatori dinanzi ai conflitti d’interesse: la nuova formulazione dell’art. 21 t.u.f., co. 1-bis, lett. a) e b) ora non ambisce più a «ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse»; si

Convengono sul punto anche Falcone, Greco e Rotondo, La responsabilità, cit., p. 130. 24 Sul punto, v. il d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303, c.d. “Decreto Pinza”, dal nome del suo estensore, Roberto Pinza, vice-ministro dell’Economia. Tra le numerose modifiche operate dal Decreto Pinza, segnaliamo, in particolare, quelle: al Testo Unico Bancario, conferendo alla Banca d’Italia poteri per stabilire condizioni e limiti specifici per l’assunzione di attività dì rischio da parte delle banche in caso di conflitto d’interessi (art. 53) oppure per richiedere dati ed informazioni a chi emette o chi offre strumenti finanziari (art. 129); al Testo Unico Finanza, per rendere soggette al medesimo anche alcune emissioni di strumenti finanziari esteri o destinati ad investitori professionali, ma successivamente rivenduti (nei 12 mesi dall’emissione) ai risparmiatori italiani (art. 100-bis). 23

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limita ad accontentarsi che l’esistenza degli stessi non «incida negativamente sugli interessi dei clienti»; inoltre, anche in caso di possibili effetti negativi sui clienti, ad evitare ogni responsabilità dell’intermediario, è sufficiente che lo stesso fornisca la prova di aver «informa(to) chiaramente i clienti». Infine, scompare del tutto il riferimento al concetto di “equo trattamento”, che avrebbe potuto contribuire in modo sensibile alla tutela dei soggetti deboli. In ogni caso, sia per evitare di compiere lo studio dei ruoli giocati dagli interessi in conflitto, sia per cercare di evitare (rectius, attenuare) il conflitto, anche in ordinamenti giuridici stranieri si sono adottati altri strumenti a livello preventivo. 3.2. La soluzione dei Chinese walls o fire walls. Al progressivo incremento della specializzazione e moltiplicazione delle funzioni degli intermediari finanziari, verificatosi negli ultimi anni, è strettamente correlato l’aumento del rischio che gli operatori agiscano perseguendo interessi diversi da quelli dei clienti 25. Come si è visto, il conflitto più evidente può intercorrere tra la funzione di intermediano capofila di un consorzio di collocamento e quella di intermediario negoziatore. Per ridurre il prospettato rischio, insito nella polifunzionalità degli intermediari, il regolamento Consob n. 11522 del 1998, ha previsto l’obbligo per gli intermediari di innalzare i c.d. «Chinese Walls» o «Fire Walls». Trattasi di muraglie, barriere interaziendali finalizzate ad evitare lo scambio di informazioni tra diversi comparti di uno stesso intermediario. La previsione normativa delle «Muraglie cinesi» è nata negli Stati Uniti, nel 1968, a seguito di una transazione raggiunta tra la SEC e la Merrill Lynch, avente ad oggetto il comportamento tenuto da questa nel collocamento di obbligazioni emesse dalla Douglas Aircraft. Nel caso di specie, la banca, venuta a conoscenza di informazioni secondo cui la stima degli utili dell’emittente sarebbe stata rivista al ribasso, le aveva, a sua volta, riferite ai propri clienti più importanti, cosicché, prima che l’emittente rivelasse al pubblico tali informazioni, la banca ed i propri clienti più importanti si erano già liberati delle obbligazioni, al fine di evitare perdite.

25 Casella, II conflitto di interessi nell’attività bancaria, in Banca, borsa, tit. cred., 1996, p. 792 ss.; Sartori, Le regole, cit., p. 286.

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Tale vicenda, che vedeva emblematicamente la banca agire, nell’interesse dei propri clienti, contro quello dell’emittente, ha rappresentato un caso radicalmente opposto a quello Parmalat. Peraltro, la finalità perseguita dall’introduzione delle «Chinese Walls» era quella di evitare che le informazioni riservate di un dipartimento della banca potessero giungere ad un altro. Dall’analisi dell’origine e delle finalità della previsione normativa in questione si evince come le barriere operative fra le varie unità organizzative dell’intermediario finanziario siano uno strumento idoneo a prevenire (forse) la diffusione di informazioni riservate, ma non l’insorgenza di conflitti d’interesse. 3.3. La disclosure e le soluzioni formalistiche. Nell’attuale contesto normativo, il dovere di trasparenza e di informazione ha assunto autonoma rilevanza come strumento di concorrenza e di tutela della clientela 26. Particolarmente interessante pare l’analisi, effettuata da Macey 27, delle ragioni che suggerirebbero l’adozione, ai fini di una riduzione del conflitto d’interessi, di obblighi di disclosure. Secondo questo Autore, l’introduzione e/o l’affinamento degli obblighi informativi sarebbero suffragati da un triplice ordine di motivazioni e, segnatamente: i) la prima motivazione riguarda il sorgere di esternalità: queste esistono allorquando le azioni delle parti contraenti producono effetti sui terzi. Gli obblighi di informazione producono esternalità positive perché, da un lato, favoriscono gli investitori che devono decidere come effettuare i loro investimenti ma, dall’altro, giovano ai concorrenti, che possono ricevere informazioni relative agli studi e sviluppi di un determinato prodotto, consentendo loro un risparmio di risorse in ambito di ricerca; in assenza di obblighi di informazione, le società quotate non avrebbero sufficienti incentivi alla disclosure, per timore che la stessa possa avvantaggiare i concorrenti; ii) la seconda si fonda su un’analisi dei costi: gli obblighi di disclosure sarebbero necessari perché, altrimenti, i costi per ricercare le informa-

Sartori, Le regole, cit., p. 164. Macey, Efficient Capital Markets, Corporate Disclosure & Enron, in Giur. comm., 2002, I, p. 754 ss. 26 27

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zioni, affrontati dagli investitori, dovuti a duplicazioni di attività ed inefficienza, sarebbero troppo elevati; iii) la terza può essere vista come un argomento a contrario: in assenza della previsione di obblighi di informazione sarebbe prevalente l’interesse del management a tenere nascoste le informazioni negative, a svantaggio del mercato e degli utenti. Ma ciò non basta, poiché Macey identifica, addirittura un c.d. prisoner’s dilemma 28 nell’individuazione della politica ottimale di disclosure da parte di una società quotata. Il dilemma del prigioniero si concreta allorché gruppi ed individui siano posti nella condizione di non poter collaborare fra di loro. Trasposto nell’ambito dei mercati finanziari, il dilemma del prigioniero, può essere individuato, per semplicità, studiando un modello di soli due enti, che debbano scegliere se adottare politiche di «good, highly transparent and honest disclosure» o di «bad, highly opaque, obfuscatory disclosure». La soluzione migliore per gli investitori sarebbe quella in cui entrambe le società scegliessero buone politiche di disclosure. Viceversa, la situazione peggiore sarebbe quella dell’adozione di una scarsa, falsa o ingannevole disclosure da parte di entrambe. Si consideri che, in questo modello semplificato, ognuno dei due enti potrebbe trarre vantaggio dall’adozione di una politica di scarsa disclosure, qualora l’altra seguisse una politica di trasparenza, poiché, adottando politiche di disclosure falsa o decettiva, potrebbe far credere agli investitori che le garanzie fornite siano maggiori di quelle del concorrente. Il solo modo, per un’azienda onesta, di ovviare al prospettato fenomeno sarebbe quello di adottare anch’essa una condotta fraudolenta, per contrastare la condotta fraudolenta altrui.

28 Il “dilemma del prigioniero”, nella sua versione originaria, può essere rappresentato come segue: la polizia ha arrestato due sospettati di rapina a mano armata e li ha rinchiusi in due stanze separate al fine di interrogarli. Ciascun prigioniero deve scegliere fra le seguenti alternative: i) confessare e coinvolgere l’altro prigioniero; ii) restare reticente. Qualora nessun prigioniero confessi, la polizia ed il pubblico ministero potrebbero soltanto ottenere un processo per l’imputazione (più lieve) di detenzione di armi da fuoco; viceversa, qualora anche solo un prigioniero confessi, l’imputazione sarà quella (molto più grave) di rapina a mano armata, per entrambi. La situazione viene complicata dalla previsione di attenuanti per il prigioniero che confessa - e di aggravanti per quello reticente. In altri termini, indipendentemente da ciò che fa l’altro, un prigioniero può migliorare la propria posizione, confessando e coinvolgendo l’altro, laddove, per converso, la soluzione ottimale, per entrambi, sarebbe quella di restare reticenti.

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L’assenza di obblighi di informazione condurrebbe, dunque, alla soluzione peggiore, ponendo in essere una c.d. race to the bottom. Il dilemma del prigioniero risulta ancora più pronunciato nel mondo reale, dove ci sono centinaia di migliaia di aziende. Le aziende oneste si trovano di fronte al prisoner’s dilemma: i rivali meno onesti potrebbero trarre benefici dall’adozione di politiche di disclosure false o incomplete. Se ciò accadesse, il sistema collasserebbe sotto il peso della disonestà. In questo contesto, la previsione di obblighi di informazione e trasparenza risolve il dilemma del prigioniero: se alla violazione dei menzionati obblighi è correlata una sanzione, le aziende non hanno più incentivi ad effettuare una disclosure scarsa e decettiva. Il dovere di trasparenza e di informazione è strettamente collegato alle istanze di efficienza del mercato. Per il corretto funzionamento del sistema è, però, necessario che i menzionati obblighi abbiano un contenuto effettivo e non meramente formalistico. Con specifico riguardo alla portata degli obblighi di informazione, particolarmente interessante pare il riferimento alla teoria della market efficiency nelle sue diverse forme: strong-form, semi-strong e weak form 29. La versione strong, “economicamente più sensibile” della teoria ipotizza che i prezzi dei titoli siano il portato di tutte le informazioni, non solo di quelle pubbliche, ma anche di quelle private e interne. La teoria è detta semi-strong se i prezzi dei titoli riflettono soltanto le informazioni pubbliche relative alle aziende. Si parla, invece, di weak form allorché i prezzi dei titoli riflettano soltanto le informazioni suggerite dai prezzi storici. Se i mercati finanziari fossero governati da una strong-form di market efficiency, i crack finanziari più drammatici, come quello della Enron, nel quale sono stati presi di sorpresa soggetti quali analisti, agenzie di rating e società di revisione – che dispongono tutti di informazioni non soltanto pubbliche – non si sarebbero verificati: questi soggetti avrebbero dovuto dare il segnale di vendita dei titoli, anziché quello di acquisto, che hanno sempre dato, anche a ridosso del crack. A questo proposito, peraltro, notiamo come, da molto tempo, Hayek sostenesse che il problema fondamentale della teoria economica è il modo di acquisizione e utilizzo della conoscenza da parte degli individui. Di qui, l’importanza della diversità e la difficoltà nel fornire teorie

29 Sul punto cfr. Macey, Efficient Capital Markets, cit., p. 769; Jensen, Some Anomalous Evidence Regarding Market Efficiency, in Journal of Financial Economics, 1978, p. 95 ss.; Fama Efficient Capital Markets, in Journal of Finance, 1971, p. 1576 ss.

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generali di riferimento, poiché si deve tener conto di irrazionalità, errori, inefficienze, ecc. 30. In quest’ottica, un aspetto centrale è rivestito dalla “qualità” dell’informazione: non si possono elaborare modelli, ma occorre tener conto della complessità della realtà economica. In conclusione, secondo Macey, per evitare che si verifichino nuovamente ipotesi di inefficienza del mercato, come quelle da cui è originato il caso Enron, occorre che si attui una riforma delle regole di disclosure, nel senso di una loro semplificazione, di modo da renderle comprensibili anche al risparmiatore medio. Di pari passo, occorre altresì che sia promossa una maggiore concorrenza tra i soggetti che operano alla stregua di “sentinelle del mercato”: società di revisione, agenzie dì rating e banche d’affari, in un mercato che tende ad esser sempre più caratterizzato dalla dominanza oligopolistica. Le riflessioni di Macey, integralmente condivisibili, possono essere trasposte pari passu, come si vedrà infra, anche al mercato finanziario italiano, che pure non brilla per l’apertura alla concorrenza: la semplificazione e la chiarezza degli obblighi informativi potrebbero rivelarsi uno strumento di immediato apprezzamento da parte di tutti gli investitori, anziché risolversi, come avviene attualmente, in una sottoscrizione da apporre distrattamente su di un foglio prestampato. Tali istanze sono state accolte anche a livello normativo: così, la Consob ha integrato il c.d. Regolamento emittenti 31, a far data dal l° aprile 2006, con una serie di disposizioni (artt. da 69-bis a 69-decies) che disciplinano in modo dettagliato la presentazione e la diffusione delle raccomandazioni al mercato, anche con riguardo all’esistenza di conflitti d’interesse (art. 69-quater) 32.

30 Von Hayek, Conoscenza, mercato, pianificazione - Saggi di economia e di epistemologia, Bologna, 1988. 31 Regolamento di attuazione del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, concernente la disciplina degli emittenti, adottato dalla Consob con delibera n. 11971 del 14 maggio 1999 e successivamente modificato con delibere n. 12475 del 6 aprile 2000, n. 13086 del 18 aprile 2001, n. 13106 del 3 maggio 2001, n. 13130 del 22 maggio 2001, n. 13605 del 5 giugno 2002, n. 13616 del 12 giugno 2002, n. 13924 del 4 febbraio 2003, n. 14002 del 27 marzo 2003, n. 14372 del 23 dicembre 2003, n. 14692 dell’ 11 agosto 2004, n. 14743 del 13 ottobre 2004, n. 14990 del 14 aprile 2005, n. 15232 del 29 novembre 2005, n. 15510 del 20 luglio 2006, n. 15520 del 27 luglio 2006 e n. 15586 del 12 ottobre 2006. 32 Per un primo commento, v. Zeno-Zencovich, Profili di uno statuto dell’informazione economica e finanziaria, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, XLIII, Mercato finanziario, cit., p. 174 ss.

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La sola disclosure non rappresenta, però, la panacea alla crisi in cui versa il sistema finanziario nostrano. A parere di chi scrive, l’origine profonda del problema è insita nella carenza di un valore, che si potrebbe semplicisticamente indicare come “serietà”. Tale carenza di serietà, vera o presunta, ma comunque percepita dai cittadini, origina dalla politica e, ancor più intimamente, da una certa cultura e non è compito di chi scrive dilungarsi su di un fenomeno che deve essere spiegato, in larga parte, dagli scienziati sociali e non già dai giuristi. Ci preme soltanto notare, sommessamente, come un Paese nel quale il denaro del “taxpayer” non sia percepito come sacro, nel quale gli obblighi verso lo Stato vengano frequentemente cancellati da condoni ed indulti e nel quale le conoscenze contino spesso più della correttezza, non possa offrire particolari garanzie per i risparmiatori meno avveduti. Né sarebbe corretto rimediare a tale stato di cose, imponendo all’intermediario di procurarsi la prova di aver provveduto ad informative minuziose e dettagliatissime, ovvero e peggio ancora, addossando sempre allo stesso le conseguenze negative degli investimenti consigliati: si tratterebbe di medicine peggiori del male, che non farebbero altro che affossare del tutto un mercato finanziario tutt’altro che florido 33. Parafrasando autorevole dottrina americana, «il problema non è impedire di vendere le mele marce. Bisogna impedire al venditore di dire che sono buone» 34. Su questo percorso, un modello di indubbio riferimento è rappresentato dal sistema inglese. Purtroppo, le innovazioni introdotte dal diritto comunitario con la direttiva MIFID non hanno contribuito a disciplinare il problema in modo chiaro e coerente 35.

33 II tutto senza considerare che, a seguito della riforma MIFID, «l’effetto dell’introduzione di significative regole aggiuntive (nazionali [N.d.A.]), potrebbe allora essere quello di porre gli intermediari nazionali in una posizione di sfavore concorrenziale, senza peraltro garantire effettivamente un più elevato livello di protezione degli investitori o un migliore funzionamento del mercato, posto che nello stesso Paese concorrerebbero imprese (quelle comunitarie senza succursale in Italia) alle quali le regole aggiuntive non verrebbero applicate» (Cardia, L’attuazione, cit.). 34 «Congress did not take away from the citizen “his inalienable right to make a fool of himself. It simply attempted to prevent others from making a fool of him» (Loss, Fundamentals of Securities Regulation, Boston-Toronto, 1983, p. 36). 35 Per i primi commenti, v. Scotti Camuzzi, I conflitti di interessi fra intermediari finanziari e clienti nella direttiva MIFID, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, p. 121; Antonucci e

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3.4. II principio inglese del fair treatment. All’atto pratico che cosa significa «equo trattamento» nella materia che ci occupa? Tale concetto rappresentava una recezione, nell’art. 21 del t.u.f., di un principio anglosassone che permea tutto il settore finanziario e dell’intermediazione, tanto britannica quanto statunitense e che ambisce, anch’esso, ad attenuare la fenomenologia del conflitto d’interessi. Che si discuta di “equo trattamento” ovvero di “fair treatment”, tale principio non può significare altro che «l’intermediario non abusi della fiducia ripostagli dal cliente; più in particolare, che il primo non ponga in essere un’operazione finalizzata a privilegiare il suo interesse o quello di un altro cliente a discapito del secondo» 36. L’interpretazione, come si è visto, era confermata dall’art. 26, co. 1, lett. e) del regolamento Consob n. 11152, ai sensi del quale «gli intermediari autorizzati, nell’interesse degli investitori e dell’integrità del mercato mobiliare (…) si astengono da ogni comportamento che possa avvantaggiare un investitore a danno di un altro». Trattasi di concetto che, secondo autorevole dottrina, doveva rappresentare «la stella polare che deve guidare la giurisprudenza pratica e teorica nella definizione delle diverse fattispecie» 37. Il rispetto della norma del t.u.f. e del regolamento attuativo in tema di equo trattamento avrebbe dovuto essere dirimente, a prescindere dal rispetto delle altre formalità previste dal diritto positivo 38. E ciò in analogia con il modello anglosassone, che non ha la presunzione di poter governare un fenomeno preventivamente ed in modo aprioristico, ma ex post, «attraverso una difficile ma efficace analisi dell’«intenzione» 39. Purtroppo, come accennato supra, tale concetto è scomparso dall’art. 21 del t.u.f., a seguito della riforma del settembre 2007.

Paracampo, Conflitti d’interesse e disciplina delle attività finanziarie: il titolo II della legge risparmio e le sue successive modifiche, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, p. 285. 36 Sartori, Le regole, cit., p. 293 ss. 37 Sartori, Le regole, cit., p. 293. 38 Convengono sul punto anche Falcone, Greco e Rotondo, La responsabilità, cit., p. 130. 39 Sartori, Le regole, cit., p. 294.

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4. Il sistema inglese. Il nostro art. 21 t.u.f. (vecchia formulazione) non era null’altro che una recezione del principio britannico del fair treatment, corollario obbligato del più ampio concetto di fairness. L’equazione è semplice quanto geniale: il concetto inglese di fairness, viene calibrato a seconda del settore in cui debba essere inserito e, in relazione al collocamento di obbligazioni, diventa così fair treatment of customers. Non siamo in alcun modo di fronte a una semplice enunciazione di principio, bensì ad un criterio inderogabile, sulla base del quale si muove tutta l’attività amministrativa della Financial Services Authority (FSA), l’organismo inglese preposto alla protezione dei risparmiatori ed al buon funzionamento del mercato finanziario. La necessità di un «equo trattamento del consumatore/cliente» è richiesta ormai da tempo nel sistema regolatorio inglese, ma ritrova il proprio vigore con la FSA, nella misura in cui diventa chiave di un’operazione diretta sia verso i consumatori, sia verso le società emittenti 40. Verso i consumatori, giacché primi destinatari, diretti fruitori dei benefici dell’applicazione del principio, ma, soprattutto, verso gli emittenti, atteso che questi sono i soggetti che operano sul mercato finanziario, ai fini di migliorarne l’efficienza, conducendo lo sviluppo e l’incremento di una strategia finanziaria nazionale che ponga gli operatori in una condizione di parità. L’equo trattamento del particolare, quindi, impone un sostrato di regolamentazione, quanto di operatività in punto sanzione, che si indirizzi agli intermediari, nell’ottica non già di un’imposizione autoritaria, quanto piuttosto di una collaborazione volta unanimemente al buon funzionamento del sistema, finanziario. Prima di affrontare la risposta data dalla FSA al misselling of bonds, in applicazione dello stesso principio italiano dell’equo trattamento, occorre precisare la natura ed i compiti di questo organismo. 4.1. La Financial Services Authority L’autorità britannica per la regolamentazione dei servizi finanziari veniva creata, sotto il nome di Securities and Investments Board Ltd.

40 Treating Customers Fairly - progress and next steps, Financial Services Authority Publications, luglio 2004, p. 3, in www.FSA.gov.uk

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(SIB) 41, il 7 giugno 1985 su proposta del suo unico socio, il Chancellor of the Exchequer britannico. Questo consiglio, volto alla tutela degli investimenti ed al collocamento degli strumenti finanziari (securities), veniva dotato di uno statuto e di poteri regolatori l’anno successivo, con il Financial Services Act del 1986. La SIB mutava denominazione nel 1997, diventando ufficialmente la Financial Services Authority, che è stata investita degli attuali poteri di regolamentazione dell’attività degli intermediari finanziari, delle compagnie assicurative e dei promotori finanziari, con il Financial Services and Markets Act del 2000 42. In aggiunta a detti poteri, la FSA è stata altresì incaricata di vegliare sul mercato ipotecario, dal 31 ottobre 2004, e sul complesso dell’attività assicurativa degli intermediari, dal 14 gennaio 2005 43. La FSA è responsabile nei confronti del Ministero delle Finanze e, attraverso questo, di fronte al Parlamento, ma, in pratica, l’Autorità è completamente libera nelle sue decisioni. La sua indipendenza si esterna altresì nei confronti del governo, giacché il funzionamento dell’organismo è interamente sovvenzionato dalle imprese, soggette periodicamente ad imposizione ed, eventualmente, alle (spesso cospicue) sanzioni da questa irrogate. Le sue decisioni possono teoricamente essere appellate di fronte al Financial Services and Markets Tribunal 44. Occorre rilevare, ferma restando la notevole moral suasion delle sue decisioni, che l’operato della FSA non è scevro da critiche (fra le più vibranti sono quelle degli esponenti dell’IFA 45). Gli attacchi riguardano essenzialmente l’ingenza della tassazione imposta alle imprese per il mantenimento dell’autorità e l’applicazione retroattiva, ai fini della

Si tratta quindi di una vera e propria società di capitali a responsabilità limitata, e non di un’autorità amministrativa indipendente qual è la forma degli organismi italiani ed europei preposti a funzioni simili. 42 About the FSA, Financial Services Authority Publications, marzo 2005, in www.FSA. gov.uk. 43 About the FSA, cit. 44 In pratica, la grande autorevolezza delle decisioni della FSA le rende difficilmente impugnabili. 45 Independent Financial Advisers, organizzazione di professionisti che rendono pareri e consulenze, improntati all’imparzialità, in tema di mercati finanziari. In Inghilterra, a seguito della polarizzazione dei consulenti, instaurata dal governo britannico nel 1988, si distingue tra i consiglieri finanziari legati ad una compagnia d’assicurazione e coloro i quali sono invece independent practitioner, dunque legati alla IFA. La IFA, a sua volta, è dettagliatamente regolamentata dalla FSA. 41

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comminazione delle sanzioni, degli standards correnti ed attuali del business. Nondimeno, anche l’eccessiva “oppressione regolamentatrice” della FSA, che porterebbe alla sterilizzazione dei servizi finanziari anglosassoni, è oggetto di dure critiche. Tra le più note si ricorda anche quella rivolta dal Primo Ministro Tony Blair nel 2005: peraltro, dopo aver criticato duramente l’eccessiva regolamentazione della FSA, questi si è visto costretto a fornire ulteriori ed approfondite spiegazioni, ritrattando parte delle affermazioni. L’imbarazzo, suscitato dai rimproveri della FSA nei confronti del governo britannico, ha sopito le critiche – forse neanche troppo – gratuite, confermando, allo stesso tempo, il valore morale di un’autorità preposta alla tutela dei risparmiatori che non ha eguali in continente. Volendo comparare la FSA con la nostra Commissione Nazionale per la Società e la Borsa, si nota che il meccanismo di finanziamento 46 ed il regime di appellabilità delle decisioni 47 appaiono simili; sennonché, in punto operatività, le due autorità paiono profondamente diverse: la prima si connota per una considerevole attività ed efficacia, laddove la seconda pare priva dei necessari poteri di intervento sul mercato 48. 4.2. Il TCF Report Il Treating Customers Fairly Report rappresenta l’estrinsecazione della TCF Rule, attraverso un documento programmatico di centrale importanza nella vendita di prodotti finanziari ai consumatori. L’introduzione del Report esordisce così: «I nostri supremi principi richiedono che ogni emittente tratti i suoi risparmiatori in maniera equa. Siffatta richiesta, che permea il sistema normativo anglosassone da diversi anni, è l’unica chiave per ogni operazione che miri al mercato dei prodotti finanziari e passa attraverso il nostro lavoro, con lo sviluppo e l’attuazione delle strategie nazionali e della capacità finanziaria. L’equo trattamento dei consumatori è altresì centrale per il mantenimento della fiducia degli stessi nel mercato finanziario. Come accennammo nel piano strategico 2004/2005, detto principio deve essere adottato e supportato so-

Si vedano, al riguardo: l. 23 dicembre 1994, n. 724, artt. 40 ss, così come modificati dalla l. n. 724/94, modificata con d.lgs. 23.7.1996, n. 415; l. n. 449 del 1997; l. n. 388 del 2000; l. n. 266 del 2005. 47 V. Raganelli, I poteri della Consob, Luiss pubblicazioni, febbraio 2004, p. 5. 48 V. infra, § 5.1 ss. 46

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prattutto dall’autorevolezza degli intermediari, nonché divenire insito in ogni operazione dell’intermediario e nella sua cultura stessa. Va da sé che questa pubblicazione sia diretta innanzitutto a quegli intermediari che, avendo maggior potere di mercato [N.d.A.], producono, distribuiscono o informano sui prodotti finanziari in generale. In un mercato competitivo, l’equo trattamento dei risparmiatori non potrebbe che essere pietra d’angolo nella determinazione del successo degli operatori nel mantenimento o nell’acquisizione di quote di mercato. In altre parole, la TCF Rule sarà volta agli interessi dei risparmiatori quanto degli operatori. Tuttavia, in alcuni mercati di prodotti finanziari gli incentivi agli intermediari ed agli emittenti, volti a sensibilizzarli all’equo trattamento, non sono stati abbastanza forti da compiere l’effetto deterrente volto ad evitare la disattenzione, o la malafede, che portano a sfruttare la relativa debolezza del consumatore all’interno del mercato dei prodotti finanziari» 49. L’operatività della Financial Services Authority pare, dunque, partire proprio da queste premesse. Ai fini della redazione di questo documento programmatico, la Financial Services Authority ha studiato nei dettagli sei dei maggiori gruppi operanti nel settore degli strumenti finanziari, ai fini di monitorarne le procedure ed i processi di emissione degli strumenti. Ciò facendo, la FSA ha riconosciuto che il settore aveva compiuto netti progressi, quanto a trasparenza e informazione ma, inevitabilmente, v’era ancora spazio per un ulteriore miglioramento. Ad esempio, il TCF Report rileva che gli intermediari non sempre forniscono una valutazione adeguata del rischio, allorché il prodotto piazzato sul mercato sia ancora in fase di evoluzione 50. Così pure, non vengono svolti adeguati controlli ai fini di evitare che, nella negoziazione nel mercato secondario, l’emittente o l’intermediario siano influenzati dalla remunerazione di premio offerta dallo strumento stesso. Comunque, il TCF Report individua essenzialmente due obiettivi: il miglior monitoraggio e lo sviluppo di una cultura retributiva 51 intorno al misselling.

Treating Customers Fairly, cit., p. 3. L’evoluzione del prodotto va intesa con riguardo sia alle tecnologie di progettazione e di studio, sia alle modalità di organizzazione, selezione e controllo del rischio. Cfr. Forestieri e Mottura, Il sistema finanziario: Istituzioni, mercati e modelli di intermediazione, Milano, 2002, p. 260 ss. 51 In tema di cultura retributiva, si veda la teoria kantiana, in Dolcini e Marinucci, Manuale di diritto penale, Parte Generale, Milano, 2004, p. 4. 49

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Quanto al primo punto, la FSA pone l’accento sulla necessità che il management collochi, ma soprattutto monitori, l’informazione e il mercato in una maniera tale per cui sia possibile individuare le circostanze nelle quali il risparmiatore necessiti di una maggiore informazione. L’equo trattamento british style non persegue un’uguaglianza sistematica, ma piuttosto una diversità ragionata e, segnatamente, calibrata sui consumatori. Quanto al secondo obiettivo, la Financial Services Authority vorrebbe incrementare l’effetto deterrente della TCF Rule, attraverso il classico interrogativo anglosassone: «My concern is what’s plan B? What will happen if the industry does not implement TCF?». In altre parole e pragmaticamente, la FSA non vuole che gli imperativi categorici di principio siano elusi attraverso prassi improntate alla generalizzata impunibilità. A questo proposito, si vedrà nel prosieguo che, in Inghilterra, l’efficacia dell’apparato sanzionatorio posto a fronte del misselling è fuori di dubbio. 4.3. Le sanzioni e l’efficacia del sistema inglese. In punto enforcement, la prima considerazione dev’essere di metodo: nella ricerca delle sanzioni comminate, nei due diversi sistemi, dall’autorità preposta alla vigilanza sul mercato degli intermediari e del mercato secondario, la trasparenza è sicuramente il primo elemento di discrimine. Scorrendo le pagine del sito ufficiale della Financial Services Authority, il primo fattore di interesse è sicuramente l’enucleazione precisa, all’interno della «fines table», di tutte le sanzioni comminate dalla FSA, sin dalla propria istituzione. Viceversa, nel sito ufficiale della Consob non v’è uno spazio organico per l’indicazione delle sanzioni, ritrovabili frammentariamente in Gazzetta Ufficiale, o su siti di informazione per i consumatori, senza una lista completa e precisa, quale quella prevista dalla FSA, assimilabile quindi ad una fonte a pieno titolo. In altre parole, l’informazione fornita al risparmiatore italiano è lacunosa, rispetto a quella disponibile oltremanica. Restando ancora sul piano metodologico, si deve rilevare un’altra differenza: il sistema anglosassone si distingue altresì per una regolamentazione sostanziale assolutamente scarna, se paragonata a quella italia-

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na 52 o europea 53. Si tratta essenzialmente di otto principi 54, corredati da poche pagine di commento ed esegesi 55, sulla base dei quali la FSA va costantemente a condannare emittenti ed intermediari che si rendano responsible of misconducts. Così, ad esempio, la FSA ha condannato, nel giugno 2005, la Citigroup Global Markets Limited a quasi quattordici milioni di sterline di ammenda per «violazione dei principi 2 e 5 di cui al FSA Principles for Business». Nel caso di specie, il 2 agosto 2004, la Citigroup aveva posto in essere cospicue vendite di titoli, per procedere poi a susseguenti acquisti, a prezzi più bassi, di bond e future, senza alcuna considerazione delle conseguenze nefaste che si sarebbero prodotte sul mercato; il tutto con vendita, in 18 secondi, di un volume di titoli pari a 12,9 miliardi di dollari, equivalente alla media di ciò che avviene in un’intera giornata e con realizzazione di un utile di circa 18,2 milioni di dollari. Una condotta del genere, certo non configurabile come “diligente”, alla stregua di quanto imposto dai Principles for Business, è stata considerata assimilabile ad un trading spregiudicato e pesantemente sanzionata dalla FSA, nella misura indicata sopra. Per ciò che riguarda più direttamente il misselling, ovvero le vendite cosiddette inidonee 56 di strumenti finanziari, la FSA non esita a comminare sanzioni di rilevante entità alle società, abbinate a risarcimenti totali verso tutti i risparmiatori danneggiati. Si pensi ad esempio ai 98 milioni di sterline restituiti ai risparmiatori, abbinati a quasi due milioni di sterline di ammenda comminati alla società, nel caso Lloyds TSB Bank plc 57, ovvero agli oltre 32 milioni di risarcimento, nonché al milione e trecentocinquantamila sterline di ammenda, cui è stata condannata la Royal & Sun Alliance Group nel 2002. Il gruppo assicurativo Royal & Sun Alliance, infatti, sino all’agosto 2000, aveva commesso leggerezze nel

52 Si pensi ai 216 articoli del t.u.f., assommati alla normativa del codice civile ed alle disposizioni di recente introduzione e modifica, come quelle introdotte dalla 1. n. 262 del 2005 ed al d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303. 53 Anche a livello europeo si parla spesso di surcharge réglementaire, soprattutto a riguardo della direttiva quadro UE del 2004. V. Tison, Développements en matière de réglementation Européenne, in Journal des Tribunaux - Droit Européen, Bruxelles, dicembre 2005. 54 The FSA Principles For Businesses, Financial Services Authority Publications, settembre 1998, in www.FSA.gov.uk. 55 Responses on Consultation Paper, n. 1 ss., Financial Services Authority Publications, marzo 2005, in www.FSA.gov.uk. 56 Al riguardo, si discute anche di «unsuitable sales». 57 V. infra, § 4.4.

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ricalcolo dell’indicizzazione di alcuni schemi pensionistici, nonostante i moniti e le ammende della FSA, imposti sin dal 1997 58. Dal momento che la sanzioni e gli avvisi non si erano rivelati sufficienti a migliorare il controllo e il monitoraggio degli schemi pensionistici, da parte del senior management, la FSA ha imposto una re-indicizzazione forzata delle pensioni di circa 13.500 assicurati che non erano stati selezionati per il review. Sono significativi altresì alcuni casi minori di c.d. “misselling of precipice bonds”, nei quali, oltre al pagamento della sanzione pecuniaria, le società coinvolte si sono impegnate a rimborsare ai risparmiatori alcuni milioni di sterline: si tratta dei casi Capita Trust Company Ltd del 20 ottobre 2004 e Bradford & Bingley Plc del 22 dicembre 2004 59. Anche il rigore col quale vengono trattati casi meno eclatanti, nei quali non ci sono state lamentele dirette da parte dei risparmiatori, è sintomatico dell’impostazione del sistema. Così, nell’imporre 90.000 sterline di multa agli stockbrokers Hoodless Brennan Plc, Margaret Cole, direttrice dell’ufficio sanzioni della FSA ha dichiarato: «The fair treatment of customers must be part of corporate culture so that a firm treats its customers fairly on all occasions of its dealings. Brokers at Hoodless Brennan used unacceptable selling practices and did not pay enough attention to the interests or the information needs of their customers. Nor did they take time to communicate with their customers in a way which was clear, fair and not misleading. The FSA will not tolerate this method of selling shares to private customers» 60. Questi episodi sono indicativi di un sistema non certo scevro da problemi, ma che si sforza, attraverso il rigetto dell’impunità e la serietà delle sanzioni applicate, di restituire fiducia ai risparmiatori danneggiati. 4.4. Il caso Lloyd’s TSB Nel corso del 2003 è esploso in Inghilterra il caso Lloyd’s TSB, che presenta svariate analogie coi casi che hanno recentemente scosso i risparmiatori italiani.

FSA/PN/087/2002, 27.08.2002, Financial Services Authority Publications, settembre 1998, in www.FSA.gov.uk. 59 Fonte FSA, in www.FSA.gov.uk. 60 Fonte FSA, provvedimento del 17 agosto 2006, in www.FSA.gov.uk. 58

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Trattavasi del collocamento presso il pubblico, da parte della banca Lloyd’s TSB appunto, di obbligazioni emesse dalla compagnia di assicurazione Scottish Widows, appartenente al gruppo Lloyd’s TSB, e denominate «Extra Income & Growth Plan», d’ora innanzi, per brevità, «EIGP». La caratteristica peculiare di tali obbligazioni ad alto rendimento (fino all’11% annuo) era rappresentata dal fatto che le stesse fossero ancorate ad un paniere composto da 30 titoli azionari quotati presso la Borsa di Londra; in altre parole, il rendimento era garantito, ma il rimborso del capitale lo era soltanto allorché il valore di ciascuno dei 30 titoli non fosse sceso al di sotto di una quotazione predeterminata (c.d. safety margin). Il risparmiatore avrebbe così potuto perdere 1/30 del capitale, se un solo titolo fosse sceso al di sotto del safety margin; 2/30, se fossero stati 2 i titoli a scendere sotto tale soglia, e così via, fino alla possibile perdita totale del capitale investito 61. La grande fiducia che i risparmiatori nutrivano nei confronti di due imprese solide e di lunga tradizione, come Lloyd’s TSB e Scottish Widows decretava il notevole successo del collocamento presso il pubblico di tali obbligazioni: infatti, l’operazione raggiungeva un controvalore di 270 milioni di sterline. Purtroppo, in seguito all’accadimento dei tragici fatti del settembre 2001, gli indici di borsa hanno registrato notevoli contrazioni e le obbligazioni Scottish Widows, al settembre 2003, facevano registrare una perdita valutabile tra il 30 ed il 48%. Sin dall’ottobre 2001, la FSA cominciava ad occuparsi del caso; nel maggio giungevano alla FSA le prime segnalazioni dei risparmiatori; nel gennaio 2002 la questione veniva deferita all’Enforcement Division della FSA, che apriva l’inchiesta ufficiale; il 23 settembre 2003, la FSA infliggeva a Lloyd’s TSB una multa da 1,9 milioni di sterline. Contestualmente Lloyd’s TSB offriva ai risparmiatori, a seguito di accordo con la FSA, un risarcimento di 98 milioni di sterline, pari all’intero profitto realizzato con l’operazione. Un ulteriore elemento importante che emerge dall’analisi del caso Lloyd’s è che solo i risparmiatori che hanno acquistato gli EIGP da Lloyd’s sono stati indennizzati, mentre, per coloro che li hanno acquistati

61 Sulle caratteristiche di tali bond e, più in generale, sugli sviluppi del caso Lloyd’s TSB, v. ampiamente Di Staso, La tutela dell’investitore: i casi Lloyd’s TSB e Cirio, LuissCeradi, 2003-2004.

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da promotori indipendenti si è reso necessario esperire un’azione, caso per caso, dinanzi all’Ombudsman 62. Trattasi di una soluzione equa, giacché la posizione di Lloyd’s, in smaccato conflitto d’interesse, quale controllante dell’emittente Scottish Widows, le avrebbe imposto un onere di diligenza ben superiore rispetto agli altri intermediari. Il caso Lloyd’s, se raffrontato ai casi italiani, colpisce per “il rigore e la puntualità” dell’intervento della FSA, che facendo largo uso dei propri poteri ispettivi e sanzionatori, è giunta all’adozione del provvedimento finale in soli otto mesi 63. E qui il contrasto con la realtà italiana è evidente: In Italia, proprio i gruppi bancari più coinvolti nel finanziamento degli emittenti insolventi sono andati esenti da responsabilità 64, laddove le banche di minori dimensioni sono state costrette a rimborsare i risparmiatori 65. La FSA ha improntato la propria indagine al principio, che qui ci si sente di condividere appieno, secondo cui il problema non è rappresentato dal prodotto, bensì dalle modalità con le quali lo stesso viene venduto al pubblico dei risparmiatori: «reputare responsabili i “venditori” è soluzione coerente con il modo in cui si svolgono normalmente le contrattazioni individuali: sono gli intermediari, infatti, ad avere diretto contatto col cliente e a potere, dunque, meglio conoscerne e valutarne le esigenze» 66. In Inghilterra non si propugna certo una tutela di stampo paternalistico, volta a proibire la vendita di certi strumenti finanziari ai risparmiatori; semplicemente, il sistema mira, soprattutto, ad informare, educare e sensibilizzare il risparmiatore, in modo concreto, anche con la creazione di uffici di assistenza e la divulgazione di opuscoli e manuali. Quando questo non basti, allora sopravviene una tutela rapida ed efficace, da parte dell’Autorità.

Di Staso, La tutela, cit., p. 11. Di Staso, La tutela, cit., p. 13. 64 V. Trib. Torino, 3 febbraio 2005, Mora c. San Paolo Imi S.p.A; Trib. Torino, sentenza inedita del settembre 2005 con notizie in La Stampa del 13 settembre 2005. 65 V. ex multis, Trib. Firenze, 30 maggio 2004, in Diritto & Giustizi@ del 4 dicembre 2004, Trib. Mantova, 12 novembre 2004, disponibile su internet, all’URL http://www.ilcaso.it/ giurisprudenza/archivio/TM-MB-12-11-04.htm; Trib. Venezia, 22 novembre 2004, inedita; Trib Ferrara, 25 febbraio 2005, inedita; Trib. Genova, 15 marzo 2005, disponibile all’URL http:// www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/TGE-DC-15-02-05.htm. 66 Di Staso, La tutela, cit., 15. 62

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Invero, il sistema inglese, che pure si caratterizzava anticamente per le rigidità dei writs e l’iniquità dei suoi formalismi 67, forse anche grazie allo sviluppo dell’equity (e della TCF Rule, che potrebbe costituirne una sua moderna emanazione), è stato in grado di approntare una tutela rapida ed efficace nei confronti del risparmiatore-investitore.

5. Il sistema italiano. Il confronto tra il sistema inglese e quello italiano appare prima facie degno di attenzione, sia dal punto di vista normativo, sia da quello sanzionatorio. Segnatamente, le sanzioni comminate dalla Consob si rivelano prive di valore deterrente. Inoltre, questa si allinea essenzialmente al t.u.f., ma non detiene potestà significativamente autonome ed autoritative 68. È ben vero che la legge 28 dicembre 2005, n. 262, è stata a lungo criticata per la possibilità concessa alla Commissione di comminare sino a 25 milioni di Euro 69 di sanzione depenalizzata amministrativa 70, ma, di fatto, i poteri dell’Autorità si traducono in procedure lunghe e dagli esiti vaghi. A sommesso avviso di chi scrive, il sistema italiano sconta una duplice criticità: a livello di corporate governance, con una scarsa propensione alla cultura di mercato, che non riesce a scalfire antichi e saldi retaggi corporativi e famigliari; a livello sanzionatorio, con una scarsa propensione alla cultura del valore degli impegni e della severità delle sanzioni, per chi non li rispetti.

67 Mattei, II modello di common law, in Sistemi Giuridici Comparati, a cura di Procida, Mirabelli e Di Lauro, Torino, 1996. 68 Sull’argomento, v.: Pederzini, sub art. 100, in Testo unico della finanza, Commentario, a cura di Campobasso, Torino, 2002, p. 840 ss.; Annunziata, sub art. 100, in La disciplina delle società quotate nel testo unico della finanza, d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, Commentario, a cura di Marchetti e Bianchi, Milano, 1999, p, 150 ss.; Comporti, La sollecitazione all’investimento, in Patroni Griffi, Sandulli e Santoro, Intermediari finanziari, mercati e società quotate, Torino, 1999, p. 564 ss.; D’agostino e Minenna, Il mercato primario delle obbligazioni bancarie strutturate, in Quaderni di finanza - Consob, n. 39, 2000, p. 26 ss. 69 Infatti, la l. n. 262 del 2005 quintuplica le sanzioni, originariamente sino a 5 milioni di Euro, del t.u.f. non novellato del 1998. 70 Disciplinata dalla l. 24 novembre 1981, n. 289.

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Addirittura, si è sostenuto, sia in giurisprudenza 71, sia, in modo più convincente, in dottrina 72, che le disposizioni del t.u.f. a tutela dei risparmiatori (ad es. l’art. 21) non abbiano natura imperativa ai sensi dell’art. 1418 c.c., con la conseguenza che, la loro violazione non condurrebbe all’automatica nullità dei contratti sottostanti 73. I casi cui si accennerà di seguito presentano, più o meno evidenti, entrambi i menzionati aspetti. 5.1. I casi «Area Banca», «My Way» e «4 You». Otto anni or sono, nel pieno della bolla della new economy, sostenuta e fomentata anche da banche ed intermediari, 4.000 risparmiatori italiani avevano sottoscritto i bond di “Area Banca”, per un controvalore di circa 90 milioni di Euro. II pacchetto comprendeva titoli di tre società americane di telecomunicazione, quali Viatel, Carrier One ed Exodus, che puntualmente finirono in default 74, lasciando i risparmiatori nelle mani del sistema italiano. La Consob (che a differenza della FSA, non può obbligare nessun intermediario a rimborsare il valore del titolo [N.d.A.]), ha comminato 550 mila Euro di sanzione per irregolarità nel collocamento agli ex funzionari di Area Banca, ma dopo ben cinque anni di indagini 75. Poste siffatte censurabili lungaggini, si deve notare come le cause civili per il rimborso dei titoli siano probabilmente ancora pendenti, poiché i tentennamenti del più autorevole organismo a presidio del fun-

71 Trib. Torino, sentenza inedita del settembre 2005 con notizie in La Stampa del 13 settembre 2005. 72 Miriello, La tutela dell’investitore tra scandali finanziari e pretese nullità virtuali dei contratti di intermediazione finanziaria, in Tratt. dir, comm. dir. pubbl. econ. diretto da Galgano, XLIII, Mercato finanziario, cit., p. 149. 73 La dottrina citata è più convincente nella spiegazione del diniego del carattere di norme imperative alle disposizioni del t.u.f., sul rilievo che «è da escludersi la nullità nelle ipotesi in cui la legge assicura l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diversi dall’invalidità del contratto e che comunque siano idonei a realizzare gli effetti voluti dalla norma medesima» e, nei casi di cui si discute, alla trasgressione delle norme del t.u.f. «è ricollegata un’ipotesi di responsabilità civile, come si desume anche dall’art. 23, co. 6, T.U.F., che relativamente ai giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nei servizi di investimento, impone all’intermediario l’onere di provare di aver agito con la diligenza specifica» (Miriello, La tutela dell’investitore, cit., p. 152 ss.). 74 Lannutti, Risparmio tradito, articolo del 14 febbraio 2006, pubblicato nel sito web del Adusbef ,http://www.adusbef.it/consultazione.asp?Id=4239&C=R. 75 Lannutti, Risparmio tradito, cit.

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zionamento del mercato non hanno certamente aiutato i magistrati civili nelle istruttorie per la nullità dei contratti. La bufera si è dunque spostata dall’Autorità di vigilanza alle ben meno attrezzate, e già sovraffollate, aule dei tribunali, con buona pace della tempestività ed effettività delle sanzioni. Degno di nota è altresì il caso dei piani finanziari «My Way» e «4 You», proposti dalla Banca 121 Promozione Finanziaria S.p.A., poi divenuta, a seguito di svariate operazioni societarie, MPS Banca Personale S.p.A. 76. Nella fattispecie, si trattava di obbligazioni strutturate, molto complesse e, probabilmente, adatte soprattutto per investitori esperti. La struttura del piano finanziario era la seguente: la banca concedeva ai clienti un finanziamento per l’acquisto del 40% o 60% del capitale, finanziato a sua volta in obbligazioni non quotate zero coupon, emesse dalla stessa banca o da società controllate. Il restante 60% o 40% del capitale si finanziava in partecipazioni a fondi comuni di investimento ad alto rischio, emesse, ancora una volta, dallo stesso intermediario. Infine, a garanzia della restituzione del finanziamento, finalizzato all’acquisto degli strumenti finanziari e delle quote dei fondi comuni, la banca costituiva pegno sui titoli 77. In altre parole, la banca concedeva un finanziamento agli investitori per permetter loro di acquistare strumenti all’interno dei quali interveniva nell’emissione lo stesso intermediario, ai sensi dell’art. 1, co. 6, lett. e) del t.u.f. Relativamente alle vicende di Banca 121, i punti cardine da analizzare, alla luce della comparazione con il sistema anglosassone, sono essenzialmente due: il dovere di informazione e il conflitto di interessi. Sul secondo, si rinvia a quanto detto supra 78. Quanto al primo elemento invece, la regola di trasparenza di cui ai Principles 5 e 6 della FSA, cui deve essere improntata l’attività di collocamento trovano i loro omologhi, nel sistema italiano, nel t.u.f. e nel regolamento attuativo Consob n. 11522 del 1998. Il primo, all’art. 21, co. 1, prevede che gli intermediari finanziari devono acquisire le informazioni necessarie dai clienti, ed operare in modo che essi siano sempre adegua-

V. il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dip. Tesoro, Dir. IV, n. 59326 del 30 maggio 2005. 77 Sartori e Tarolli, Piano Finanziario 4You: le regole di condotta degli intermediari finanziari, 18 giugno 2003, in http://www.investire.aduc.it/php/mostra.php?id=62924. 78 Vedi supra, § 3.1 ss. 76

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tamente informati. Il secondo invece delinea all’art. 28, co. 2, una regola fondamentale: «i soggetti abilitati […] non possono effettuare o consigliare operazioni […] se non dopo aver fornito all’investitore informazioni adeguate sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio, la cui conoscenza sia necessaria per effettuare consapevoli scelte di investimento o disinvestimento». Due precisazioni sono dovute. In primo luogo, non si tratta di conoscibilità, ma di conoscenza effettiva, e non solo dello strumento in sé e per sé, ma altresì della sua adeguatezza alla situazione patrimoniale dell’investitore. E a questo dovere di vaglio non si sottrarrà, anzi ne sarà incaricato addirittura a titolo più oneroso, il nuncius dell’intermediario, ovvero il promotore finanziario che, secondo l’art. 96, co. 3 del suaccennato regolamento, deve «verificare che il cliente abbia compreso le caratteristiche essenziali dell’operazione proposta […] anche con riferimento alla sua adeguatezza». Va da sé che la regola di trasparenza e informazione non potrà ritenersi esaurita dalla consegna di un contratto scritto, sovente in minuscoli caratteri, dal prospetto informativo inerente agli strumenti finanziari offerti, ovvero dal documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari 79. La conformità dei piani finanziari «4 You» ai menzionati articoli è stata revocata in dubbio proprio dalla Consob, che ha richiesto, ed ottenuto da parte del Ministero dell’economia e delle finanze 80, l’irrogazione, nei confronti di ex-funzionari della banca di sanzioni per oltre 3 milioni di Euro, complessivamente. Peraltro, la Corte d’Appello di Lecce ha annullato tali sanzioni per un vizio formale, poiché il Ministero dell’economia e delle finanze non avrebbe emesso il decreto di condanna entro il termine di novanta giorni dal ricevimento delle proposte di condanna da parta della Consob. Il fatto è stato oggetto di interrogazione parlamentare 81. Inoltre, l’Antitrust avrebbe accertato che i prodotti sono stati pubblicizzati in maniera ingannevole 82 ed il Tribunale di Teramo avrebbe emesso una condanna per truffa contrattuale, in relazione alla vendita dei medesimi prodotti finanziari 83.

Sartori e Tarolli, Piano Finanziario, cit. V. il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dip. Tesoro, Dir. IV, n. 59326, cit. 81 Interrogazione a risposta orale 3-00383 del 9 novembre 2006, presentata dall’On. le Franco Grillini. 82 AA.W., My Way - 4You: verso la conclusione della vicenda, Editoriale ADUC 24.01.06, in http:/’/www.investire.aduc.it/php/mostra.php?id=l64202. 83 AA.VV, MyWay/4you: e’ truffa contrattuale! Condannati i vertici dell’allora Banca 121, Flash ADUC 13.12.06 in http://www.investire.aduc.it/pbp/mostra.php?id=164036. 79 80

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Al cospetto di tutto ciò, un cittadino inglese avrebbe sicuramente ottenuto il pieno risarcimento dei danni patiti. Se è vero che si segnalano svariate sentenze che concedono il risarcimenti dei danni ai risparmiatori 84, è altrettanto vero, però, che tale tendenza non è univoca e si segnalano altresì pronunce di merito che dichiarano la legittimità del prodotto «4 You» 85. 5.2. Il caso «Parmalat». La complessa vicenda che ha portato al crack della Parmalat comincia a divenire pubblica nel novembre 2003, quando emerge l’incapacità del gruppo Parmalat di far fronte ai miliardi di Euro di indebitamento accumulati. Le ricostruzioni compiute sia in sede penale, sia da vari studiosi, hanno ormai identificato le cause della crisi nell’eccessiva diversificazione delle attività industriali del gruppo (calcio, turismo) e nella “disinvoltura” della gestione finanziaria 86. Dal 1997 al 2003 il gruppo Parmalat ricorreva a ben 32 prestiti obbligazionari per un valore complessivo di circa 7 miliardi di Euro 87. Nello stesso periodo, il gruppo faceva massiccio ricorso al credito bancario, maturando consistenti esposizioni nei confronti di vari istituti nazionali ed esteri 88. A fronte di tale elevato indebitamento, appariva dai bilanci del gruppo un’ampia disponibilità di liquidi: in sostanza, il gruppo ricorreva sistematicamente al mercato obbligazionario ed al credito bancario per elevati importi, pur dichiarando, al contempo, di possedere sufficienti mezzi finanziari propri.

84 Trib. Torre Annunziata, 30 agosto 2006; Trib. Firenze, 21 giugno 2006; Trib. Pescara, 9 maggio 2006; Tribunale di Lodi, 14 febbraio-17 marzo 2006; Trib. Brindisi, 24 ottobre30 dicembre 2005: tutte in II Caso.it, www.ilcaso.it 85 Trib. Parma, 22 settembre 2004, in Il Caso.it, www.ilcaso.it. 86 Per un’approfondita ricostruzione, v. per tutti Di Staso, Il caso Parmalat, LuissCeradi 2004, Un saggio più recente, contenente anche riflessioni sul c.d. «enforcement privato» e sulle possibili implicazioni dell’introduzione, nel nostro ordinamento, della c.d. “class action” è quello di Ferrarini e Giudici, Scandali finanziari e ruolo dell’azione privata: il caso Parmalat, il Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, XLIII, Mercato finanziario, cit., p. 197. 87 Di Staso, Il caso Parmalat, cit., p. 6 s. 88 Di Staso, Il caso Parmalat, cit., p. 33.

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Secondo quanto rilevato dal consulente tecnico nominato dalla Procura di Milano, nel contesto di una delle numerose indagini avviate sul crack: «Tale contraddizione non appariva giustificata da ragioni di carattere finanziario tenuto conto degli interessi passivi pagati e degli interessi attivi che la liquidità dichiarata avrebbe generato se fosse stata investita in titoli sostanzialmente privi di rischio, come sempre dichiarato dalla società» 89. In altri termini, il gruppo pagava interessi elevati per ottenere liquidità di cui, in apparenza, avrebbe potuto disporre a costi ben minori. Ancora secondo la medesima relazione: «un qualsiasi operatore qualificato mediante la semplice lettura dei bilanci, i dati pubblici disponibili sui bond e quelli forniti dalla centrale dei rischi non avrebbe potuto non accorgersi del reale stato dei fatti». Nonostante questo “campanello di allarme” sulle reali condizioni finanziarie della Parmalat, varie banche hanno continuato a finanziare il gruppo ed hanno partecipato, al tempo stesso, al collocamento dei bond presso la clientela dei risparmiatori. Ancora, secondo la citata relazione del consulente tecnico della Procura di Milano, gli istituti di credito avrebbero, in sostanza, «per lungo tempo collaborato con Parmalat per consentire che un gruppo ormai decotto continuasse ad essere percepito dai piccoli risparmiatori come un’entità solida ed affidabile». A questo proposito, si confrontino anche le conclusioni cui è giunta l’inchiesta sul fallimento del gruppo di Collecchio 90. È significativo il raffronto tra l’elevato numero di piccoli risparmiatori (85.000 dalle recenti stime) che hanno acquistato le obbligazioni Parmalat e la sostanziale assenza, tra gli obbligazionisti, delle principali società di gestione del risparmio, appartenenti a gruppi creditizi che pure, come accennato, hanno partecipato al collocamento delle emissioni obbligazionarie. In sostanza, gli investitori istituzionali non possedevano titoli Parmalat in portafoglio, o se ne sono liberati, cedendoli a singoli risparmiatori, prima della crisi 91.

Trattasi della relazione depositata il 20 luglio 2004. Cfr. pure Monti, Una fabbrica di bilanci falsi, in II Sole 24 Ore del 21 luglio 2004. 90 Colonnello, Parmalat, le banche sapevano, in La Stampa del 13 maggio 2005. 91 Di Staso Il caso Parmalat, cit., p. 39. 89

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Nello schema illecito ideato dai responsabili del gruppo Parmalat, la società che ha emesso i bond acquistati dai risparmiatori aveva il compito di acquisire risorse liquide; in quattro anni, dal 1999 al 2003, la Parmalat Finance Corporate BV ha emesso obbligazioni per oltre quattro miliardi di Euro. Le scadenze dei prestiti obbligazionari erano diluite tra il 2004 ed il 2010. Come è ormai emerso dalle ricostruzioni sopra ricordate, le provviste liquide ottenute dalla società olandese avrebbero dovuto servire a coprire l’ingente passivo già accumulato dalle società sud-americane del gruppo, oltre che dal comparto turistico facente capo alla società Parmatour (di esclusiva titolarità della famiglia Tanzi), e dal Parma Calcio. Tale passivo era in gran parte accentrato a carico della società Bonlat, che rappresentava la principale ed effettiva destinataria finale delle provviste finanziarie ottenute tramite le emissioni obbligazionarie, attraverso una serie di passaggi societari. In sostanza, i risparmiatori, che credevano di investire nel rinomato core business lattiero-caseario di Parmalat, finanziavano, nella realtà, attività in Sud America, imprese turistiche e società di calcio già decotte. 5.3. Il caso «Cirio». Il caso Cirio scoppia nel novembre 2002 quando viene dichiarato il default di uno dei prestiti obbligazionari del gruppo 92. È questo il primo atto della serie di eventi che portano la società ad essere ammessa all’amministrazione straordinaria dopo il giugno 2003. A far data dall’anno 2000, si era verificata una costante crescita dimensionale del gruppo Cirio, accompagnata da un forte indebitamento. Ciò aveva indotto il gruppo a promuovere ben sette diversi prestiti obbligazionari nell’arco temporale 2000-2002. Nelle menzionate emissioni di bond, la Cirio dava mandato ad una o più banche di investimento, lead managers di consorzi di collocamento, per la formazione dei consorzi di collocamento e garanzia finalizzata al “lancio” del titolo. Pare interessante osservare, ai nostri fini, che «secondo quanto espressamente menzionato nelle offering circular che hanno accompagnato le sette emissioni, i lead managers si sono impegnati a non offrirle in sollecitazione del pubblico risparmio e a collocarle esclusivamente presso inve-

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Di Staso, La tutela dell’investitore, cit.

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stitori istituzionali in base a trattative personalizzate» 93. In ragione della peculiarità dell’offerta riservata agli investitori professionali, non era stato neppure previsto un prospetto informativo ex art. 94 t.u.f. Non trattandosi di sollecitazione al pubblico risparmio le obbligazioni non potevano, quindi, essere vendute ad investitori non professionali. Un eventuale collocamento presso privati risparmiatori sarebbe potuto avvenire solo dietro espressa richiesta del cliente e sulla base di trattative personalizzate. Perché mai, dunque, al momento della dichiarazione di default nell’anno 2002 più di 35.000 risparmiatori erano in possesso di obbligazioni Cirio, a fronte di una presenza ridotta di bond medesimi nel portafoglio degli investitori istituzionali? A questo interrogativo consegue necessariamente la necessità di verificare quali siano le responsabilità delle banche nel collocamento dei bond presso il pubblico dei risparmiatori privati. A tal proposito sono anche state avviate indagini penali 94. 5.4. La crisi argentina. Non è ovviamente possibile, né necessaria, in questa sede, una compiuta ricostruzione delle cause del crollo economico argentino. Basterà ricordare qualche elemento fatto emergere da vari economisti e dalla stampa specializzata internazionale. Nel 1989, il peronista Carlos Menem conquistava la Presidenza. L’economia versava in condizioni disastrose, caratterizzata da inflazione a due/ tre cifre e da un debito pubblico fuori controllo. Il Presidente neo-eletto poneva, allora, in atto misure di liberalizzazione e privatizzazione industriale, che non trovavano effetti positivi di breve periodo, proprio per via degli ostacoli posti dall’inflazione e dall’indebitamento pubblico. La “formula magica” adottata dal Governo argentino è stata l’instaurazione per legge costituzionale, nel 1991, della parità monetaria peso argentino/dollaro USA. Bloccando la svalutazione del peso in funzione anti-inflazionistica, il Governo argentino stimolava la fiducia degli investitori stranieri.

Di Staso, La tutela dell’investitore, cit., p. 32. Nel giugno 2003, la Procura di Monza ha avviato un’indagine al fine di verificare la responsabilità delle Banche nel collocamento di obbligazioni. Nel febbraio del 2004 la Procura di Milano ha emesso un’ordinanza che menzionava sei banche che avrebbero beneficiato di una riduzione della propria esposizione debitoria attraverso l’emissione di Cirio bond. 93 94

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Si è così innescato un quadriennio (1991-1995) di forte crescita economica, favorito da generose linee di credito a breve termine aperte dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), che era prontamente accorso a soccorrere l’Argentina, allorquando Russia, Messico e Brasile erano stati costretti a svalutare, creando sofferenze alle esportazioni argentine, i cui prezzi erano condizionati dalla parità peso/dollaro USA. L’embrione della crisi è generato dalla natura sostanzialmente fittizia della crescita economica, accompagnato dalla mai risolta incapacità del Governo di contenere la spesa pubblica. L’apparente crescita economica degli anni 1991-1995, sopravvenuta a partire dalla situazione disastrosa descritta in sintesi, non è mai stata sufficiente a coprire la voragine costantemente crescente dell’indebitamento pubblico, aggravata da corruzione ed inefficienza dell’apparato amministrativo, evasione fiscale endemica e ricorso sistematico al sostegno pubblico ad imprese non competitive a livello internazionale. Il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo (PIL) argentino, che indica la capacità di un sistema economico di finanziare il debito pubblico attraverso la ricchezza prodotta, passava dalla percentuale elevata del 29% nel 1993 a quelle mostruose del 41% nel 1998 e del 50% a fine 2000, sforando in maniera sistematica le previsioni del FMI. In sostanza, pur dopo alcuni anni di crescita economica, il debito pubblico erodeva la metà della ricchezza prodotta nel Paese. Un dato di pari gravità è rappresentato dal rapporto tra indebitamento estero e PIL, che cresceva dal 44% del 1990 al 51% del 2000, mentre il rapporto tra debito estero ed esportazioni, nello stesso periodo, passava dal 421% al 471% 95. In sostanza, l’indebitamento estero cresceva in maniera più che proporzionale al PIL, mentre l’industria argentina non era competitiva sui mercati internazionali. In conclusione, l’economia argentina, partita a inizio anni novanta dal fondo di un baratro, aveva dato l’impressione di risalire la china: nella realtà non vi era stata alcuna produzione di ricchezza, ma soltanto un’estrema facilità dello Stato nell’ottenere denaro, malamente speso per sostenere un’amministrazione pubblica ed imprese inefficienti, e quindi per finanziare la corsa al rialzo degli interessi obbligazionari. I «tango bond» acquistati dai risparmiatori e le numerose altre emissioni obbligazionarie argentine degli anni novanta, rappresentavano la principale (accanto ai prestiti del FMI) fonte di finanziamento dello Sta-

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Moreno, Learning from Argentina’s Crisis, Federal Reserve Bank of S. Francisco, 2002.

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to argentino: sono proprio questi prestiti obbligazionari “lanciati” sui mercati internazionali ad innescare la spirale perversa che porta alla costante crescita del debito pubblico argentino, senza alcuna correlativa crescita dell’economia reale. La fragilità dell’economia argentina non è un insegnamento del senno del poi: al momento del default, i segnali del crollo erano percettibili dall’intermediario finanziario che avesse occhi per vederli. La ricostruzione proposta dal Washington Post 96 contiene molti dati significativi: già nel 1998, voci autorevoli del FMI avvertivano che l’economia argentina era un «cocktail molotov»; 1. non mancavano voci autorevoli, tra gli analisti finanziari (ad esempio, Desmond Lachman, capo settore Paesi emergenti di Salomon Smith Barney) che segnalavano l’incapacità dell’Argentina di far fronte al suo indebitamento: voci “fuori dal coro”, ignorate dai mercati finanziari internazionali, grazie alle pressioni del Governo argentino ed all’interesse a lucrare dalla distribuzione dei bond; 2. già nell’aprile del 1999 funzionari del Tesoro degli Stati Uniti erano stati avvertiti del rischio che l’Argentina sarebbe divenuta insolvente entro un triennio 97; 3. nell’ottobre del 2000, l’economista della Columbia University, Charles Calomiris, aveva suggerito all’ambasciata argentina di Washington di rendere pubblica la propria insolvenza, offrendo una riduzione del già colossale indebitamento verso investitori esteri. Lo stesso articolo sottolinea come numerosi operatori finanziari americani abbiano colpevolmente assecondato la crescita incontrollata del debito pubblico argentino, all’evidente scopo di lucrare sulle commissioni di collocamento, ignorando i molteplici segnali di pericolo. Anche analisi di diverso segno politico, come quella del Cato Institute di Washington, autorevole istituto di studi politici ed economici vicino all’ala conservatrice americana 98, indicavano vari e palesi segni di debolezza dell’economia argentina, a partire dalla costante tendenza alla crescita della pressione fiscale non accompagnata da lotta all’evasione,

Blustein, Argentina Did Not Fall On It’s Own, in The Washington Post, 3 agosto 2003. Wucker, Searching for Argentina Silver Lining, articolo pubblicato nel sito web del World Policy Journal, XIX, 4, 2002-2003. 98 Hanke, Argentina’s Current Political-Economic Crisis, articolo pubblicato nel sito web del Cato Institute, 12 marzo 2002. 96 97

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né da serie politiche di contenimento della spesa pubblica oltre, nella fase finale della crisi, al ricorso a provvedimenti di emergenza, come il congelamento dei depositi bancari, che hanno paralizzato la fiducia dei risparmiatori e l’iniziativa privata. Il segnale forse più significativo era, tuttavia, rappresentato dal rating basso e sempre decrescente assegnato dagli istituti specializzati alle emissioni argentine. Come riferisce la Consob 99, la Repubblica Argentina: «… è sempre stata classificata – pur con valori attestati su posizioni diverse delle scale di rating adottate da ciascuna agenzia – nella categoria speculativa (speculative-grade) dai principali operatori internazionali del settore. In particolare, si rileva che tutte le agenzie interessate hanno declassato il rating della Repubblica Argentina nei primi mesi del 2001, collocandolo in una categoria inferiore della categoria speculativa rispetto a quella nella quale era collocato in precedenza (ad esempio, Standard & Poor’s ha portato il giudizio, nel marzo 2001, da “BB-” a “B+”, salvi gli ulteriori declassamenti successivamente intercorsi, fino alla categoria “default”). Nel caso dell’agenzia Moody’s tale declassamento del 2001 era stato preceduto da un primo peggioramento, registrato nell’ottobre del 1999, dal primo al secondo livello della categoria speculativa». Purtroppo, i risparmiatori, al contrario degli intermediari finanziari, hanno imparato a conoscere l’importanza del rating soltanto dopo i recenti disastri. La quantità imponente di “tango bond” collocata presso risparmiatori privati in Europa, ed in Italia in particolare, è anch’essa un dato significativo. Ancora secondo la Consob: «Il fenomeno della diffusione in Italia di titoli argentini coinvolgerebbe, secondo informazioni provenienti, da ultimo, dalla Task Force Argentina, circa 430.000 investitori italiani, con un controvalore nominale pari a 12,8 miliardi di Euro. Secondo altre stime, elaborate dall’Associazione Bancaria Italiana, il 95% circa dei titoli argentini circolanti in Italia, per l’85% riferiti all’indebitamento pubblico, sarebbe detenuto da investitori privati» 100. L’emissione massiccia di titoli destinati a risparmiatori privati europei è una strategia consapevolmente realizzata dal Governo argentino nella seconda metà degli anni novanta, a fronte delle difficoltà incontrate nel

99 Audizione informale presso la Commissione Finanze della Camera dei Deputati sulla diffusione in Italia di obbligazioni pubbliche, argentine, 27 aprile 2004, p. 2. 100 Audizione informale del 27 aprile 2004, cit., p. 1.

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collocamento di nuove emissioni obbligazionarie presso gli investitori professionali, soprattutto statunitensi: «Gli investitori privati europei… erano un mercato attraente per i consorzi di collocamento di bond argentini. Gli investitori istituzionali negli Stati Uniti erano spesso riluttanti ad acquistare ai tassi offerti dalle autorità argentine. Così i consorzi allestirono una serie di offerte dirette all’Europa, in valute locali. Una delle attrattive dei mercati europei era che le discipline di tutela del risparmiatore sono sostanzialmente meno severe rispetto agli Stati Uniti» 101. Da sottolineare il fatto che, anche nel nostro Paese, gli investitori istituzionali hanno sostanzialmente ignorato le obbligazioni argentine, mentre gli stessi gruppi bancari ne hanno distribuito assai cospicue quantità presso i risparmiatori. Le banche hanno spesso indicato ai risparmiatori i titoli argentini come possibile oggetto di investimento, senza preventivamente valutare la scarsa adeguatezza degli stessi per gli investitori privati, né informarli in maniera specifica dei molteplici profili di grave rischio evidenziati. 5.5. Gli orientamenti della giurisprudenza. Come già rilevato in precedenza il confronto fra la tutela approntata al consumatore dall’ordinamento britannico e quella concessa dal sistema italiano non appare incoraggiante. In primo luogo, è evidente come la protezione del consumatore debba essere lasciata solo in ultima istanza alla magistratura, ma debba essere affidata essenzialmente ad altri organi dello Stato, che agiscano in tempi rapidi, in modo univoco ed a tutela dell’interesse collettivo. Peraltro, allorché le controversie debbano essere risolte dal giudice, ci si attenderebbe che questi fosse attento, scrupoloso e competente a decidere, anche in una materia specialistica, come quella che ci occupa. Viceversa, anche in questo ambito, la giustizia italiana, frammentata in centinaia di tribunali e sezioni distaccate ed afflitta da gravissimi mali cronici, non ha dato, con alcune eccezioni, buona prova di sé. In particolare, ci pare che le pronunce dei giudici di merito, possano essere inquadrate in due filoni distinti, a seconda che gli stessi si siano limitati a compiere ricognizioni prettamente formalistiche delle vicende portate alla loro attenzione, ovvero si siano addentrati maggiormente nell’esame della sostanza.

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Blustein, Argentina Didn’t Fall on Its Own, cit., p. 6, traduzione nostra.


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Il filone delle sentenze “formalistiche” Non è un caso che debba annoverarsi in questo filone la più parte delle decisioni che hanno rigettato le richieste dei risparmiatori. Il rigetto viene giustificato, essenzialmente, con la classica motivazione del mancato assolvimento dell’onere probatorio, ovvero, con l’altra, ancora più opinabile, dell’interpretazione del t.u.f. in termini di norma non imperativa. • Mancato assolvimento dell’onere probatorio Su questo punto si segnala una recente pronuncia del Tribunale di Milano 102, secondo la quale, il risparmiatore che deduca l’omessa informazione in ordine alla sussistenza di un conflitto di interessi nella posizione dell’intermediario, ha l’onere di dimostrare: a) che la corretta spiegazione circa il conflitto di interesse l’avrebbe distolto dall’operazione; b) che tale operazione gli ha procurato un danno collegato appunto alla specifica posizione di conflitto dell’intermediario. Infatti, nel caso illustrato, quanto al conflitto di interesse disciplinato dall’ art. 27 del reg. Consob n. 11522 del 1998, il risparmiatore assumeva che l’Istituto di Credito deteneva nel proprio portafoglio i titoli in questione, come, del resto, risultava dal fatto che lo stesso era collocatore del prestito obbligazionario. La circostanza non è stata oggetto di contestazione da parte dell’istituto bancario che ha osservato come, anche nell’ipotesi di sussistenza del conflitto, «si potrebbe delineare una responsabilità dell’intermediatore Banca *** solamente nel caso in cui dall’ulteriore utilità conseguibile da questa fosse derivato un danno per l’investitore (…) Orbene, da tale affermazione è desumibile certamente la sussistenza del conflitto di interesse in ragione della qualità della banca convenuta». A questo punto, ci si aspetterebbe che, in ossequio all’art. 23, co. 6, t.u.f., i Giudici meneghini motivino circa il fatto che il «soggetto abilitato» banca, su cui grava «l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta» abbia fornito o meno tale prova, pur trovandosi nella scomoda posizione di conflitto d’interessi. Invece, il Tribunale di Milano pare aver obliterato in toto di considerare la portata dell’art. 23, co. 6, del t.u.f., e conclude, in modo assolutamente opinabile, che «Va, tuttavia, osservato che era onere dell’attrice

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Trib. Milano, 18 ottobre 2006, in Il Caso, www.ilcaso.it.

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risparmiatrice dimostrare i seguenti profili incidenti sul nesso causale, tra loro strettamente correlati: a) che la corretta spiegazione circa il conflitto di interesse l’avrebbe distolta dall’operazione de qua; b) che tale operazione, effettuata in conflitto di interesse, le ha procurato un danno collegato, appunto, alla specifica qualità di collocatrice della banca. L’assenza di detta prova, da parte dell’attrice, implica la reiezione della pretesa sotto tale profilo». Vi è di più. In considerazione della ricorrenza del dedotto conflitto di interesse, non palesato alla cliente, i giudici hanno ritenuto altresì equo disporre l’integrale compensazione delle spese di lite. • Assenza di imperatività del t.u.f. Su questo punto si devono segnalare alcune sentenze del Tribunale di Torino, che si riallacciano, in modo strumentale e sincretico, ad una giurisprudenza di legittimità, peraltro datata, secondo cui la violazione di una norma imperativa che non preveda espressamente la nullità, impone di controllare la natura della disposizione violata, lo scopo della legge e la natura della tutela apprestata, ovvero se l’interesse protetto dalla norma abbia interesse pubblico o privato 103. Ebbene, applicati tali principi al t.u.f. ed ai regolamenti attuativi, ci si aspetterebbe che tale normativa rivestisse sempre carattere imperativo, proprio perché emanata a presidio di interessi generali (alla correttezza, trasparenza ed efficienza dei mercati finanziari), prima ancora che privati (siano essi, degli intermediari, dei risparmiatori o di altri). Per questa ragione, colpisce leggere che «Nel merito, non pare sostenibile che le prescrizioni di cui all’art. 21 del d.lgs. 24.2.98, n. 58 (d’ora in avanti, t.u.f.), come contenutisticamente attuate dal regolamento di cui alla deliberazione Consob 1 luglio 1998 n. 11522 (artt. 27 e 28) siano qualificabili come norme imperative, la cui violazione produce la nullità del contratto; in primo luogo, perché tale sanzione non è espressamente (né, per vero, implicitamente) prevista dalla legge, ai sensi dell’art. 1418

Cass., n. 2697 del 1972; Cass. n. 3794 del 1975; Cass., n. 5311 del 1979; Cass., n. 6601 del 1982. In questo filone si segnala, da ultimo, anche una pronuncia della Suprema Corte, che ha escluso che l’inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dall’art. 6 della legge n. 1 del 1991, concernente i contratti aventi ad oggetto la compravendita di valori mobiliari, cagioni la nullità del negozio, poiché essi riguardano elementi utili per la valutazione della convenienza dell’operazione, sicché la loro violazione neppure dà luogo a mancanza del consenso (Cass., sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024, in Giust. civ. Mass., 2005, 7-8; Resp. civ. e prev., 2006, 1080, con nota di F. Greco). 103

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u.c. cod. civ.; in secondo luogo, perché nella serie di prescrizioni ve n’è almeno una, quella relativa alla “profilatura del cliente” (art. 28 lett. A del reg. Consob cit.) che mal si presta ad essere intesa nel senso della imperatività, visto che può essere oggetto di rinunzia da parte del cliente dell’intermediario, sol che la rinunzia consti da atto scritto; in terzo luogo, perché la normativa suddetta, come d’altronde rilevato dal senso generale delle difese attoree, costituisce una specificazione degli obblighi di informazione e correttezza di cui agli artt. 1337, 1375 cod. civ., la sanzione della cui violazione non è la nullità del contratto» 104. Tutti e tre i motivi appaiono vacillanti: sull’assenza di indicazione espressa di imperatività, infatti, l’art. 1418 c.c. non la richiede affatto e la prassi del legislatore italiano non è senz’altro quella di riportare, magari al termine del testo delle leggi, espressioni del tipo: «la presente legge ha carattere imperativo» 105; sulla possibilità che i risparmiatori rifiutino di fornire alla banca le notizie richieste, concessa dal regolamento Consob a tutela della riservatezza dei dati personali dei medesimi, non si vede come dalla stessa si possa inferire un’assenza di imperatività di altre, numerose e diverse disposizioni in tema di responsabilità degli intermediari, estranee ai temi della privacy; circa il richiamo alla disciplina generale del codice civile sugli obblighi di informazione, nell’esegesi di norme invero speciali (sol che si pensi alla straordinaria asimmetria informativa tra i contraenti), lo stesso pare del tutto inconferente. Pur volendo adottare tale opinabile criterio ermeneutico, se il Tribunale di Torino avesse richiamato la più confacente disciplina del contratto concluso in conflitto d’interessi (art. 1394 c.c.) i risultati sarebbero stati ben diversi e si sarebbe giunti, quanto meno all’annullabilità delle operazioni. Tali argomentazioni sono riprese da un’altra sentenza del Tribunale di Torino, rimasta inedita, con la quale pure sono state respinte le istan-

Trib. Torino, 3 febbraio 2005, in Il Caso, www.ilcaso.it. In dottrina, anche chi ritiene che la violazione dell’art. 21 t.u.f. non produca la nullità del contratto, conviene comunque sul fatto che tale norma abbia natura imperativa, per almeno le seguenti ragioni: l’esistenza di interessi di carattere generale che rendono inderogabili le norme di comportamento; il fatto che l’inosservanza delle norme di comportamento sia punita con sanzioni amministrative; la protezione del risparmio ad opera di una disposizione di carattere costituzionale (l’art. 47). In tal senso, v. Sangiovanni, Operazione inadeguata dell’intermediario finanziario fra nullità del contratto e risarcimento del danno alla luce della direttiva MIFID, nota a Trib. Monza, 12 dicembre 2006, in Contr., 2007, 248. 104 105

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ze di annullamento del contratto di acquisto titoli, avanzate da risparmiatori 106. Il filone delle sentenze “di sostanza” In questo filone, vengono riportate le pronunce giurisprudenziali che, in modo più o meno accentuato, abbiano compiuto un riferimento teleologico alla disciplina dell’intermediazione finanziaria, cercando di risolvere le controversie, proprio alla luce di tale riferimento e non già a circostanze, norme o strumenti estranei ad una materia intrinsecamente caratterizzata da asimmetrie informative e di potere contrattuale e dal conflitto d’interessi. • Accertamento della nullità Vanno annoverate in questo settore le sentenze di accertamento della nullità del contratto di compravendita titoli, ai sensi dell’art. 1418, co. 1, c.c, poiché in violazione dei doveri di comportamento imposti agli intermediari dall’art. 21 t.u.f. e dal reg. Consob n. 11522. E, segnatamente: – per non aver assolto all’onere probatorio in relazione alla necessità di informazione al cliente dei rischi connessi alla specifica operazione di investimento e di averne segnalato la non adeguatezza 107; – perché il contratto di investimento è contrario all’esigenza di trasparenza dei servizi finanziari, che è esigenza di ordine pubblico, qualora il contratto medesimo contenga un avviso generico circa l’esistenza del conflitto di interessi, senza che l’investitore sia stato preventivamente informato per iscritto, della natura e dell’estensione dell’interesse in conflitto. In particolare, si segnala una pronuncia nella quale è stata accertata la violazione dei doveri di consegnare il documento generale sui rischi degli investimenti; di raccogliere le informazioni di cui all’art. 28, co. 1, lett. a), reg. Consob n. 11522 del 1998 e di segnalare la non adeguatezza dell’operazione 108. Le banche devono, dunque, operare in modo che i clienti siano adeguatamente informati sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della

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Sentenza inedita del settembre 2005 con notizie in La Stampa del 13 settembre

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Trib. Mantova, 12 novembre 2004, in Resp. civ. e prev., 2005, 134. Trib. Firenze, 30 maggio 2004, in Giur. it., 2005, 754, con nota di Fiorio.


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specifica operazione o del servizio e devono astenersi dall’effettuare, con o per conto degli investitori, operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza e dimensione. Inoltre, sussiste conflitto d’interessi, rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 21 del t.u.f. e dell’art. 27 del reg. Consob, in mancanza di specifica informazione sulla situazione di conflitto medesimo. La violazione comporta la nullità dell’ordine ed il conseguente obbligo della banca di restituire la somma di danaro investita dal cliente, con gli interessi dalla data del versamento 109. Nei casi testé citati, il Giudice del merito, riferendosi alla violazione di norme attinenti alla struttura ed al contenuto del contratto, le ha considerate alla stregua di norme imperative, dalla cui violazione consegue la nullità del contratto stesso, senza che tale sanzione debba essere espressamente prevista dalle norme violate, essendo sufficiente il disposto di cui all’art.1418, co. 1, c.c. Ne consegue che le disposizioni di cui: all’art. 27 reg. Consob, che prescrive che la dichiarazione di consenso dell’investitore all’operazione in conflitto di interesse debba essere, oltre che scritta, anche graficamente evidenziata; all’art. 29, che prescrive che l’ordine di esecuzione di operazione inadeguata debba essere impartito per iscritto; all’art. 37, che prescrive di specificare che l’investitore può recedere in qualsiasi momento dal contratto ovvero disporre in tutto o in parte il trasferimento o il ritiro dei propri valori senza che ad esso sia addebitata alcuna penalità; ed, infine, all’art. 47, che prevede che sia indicato il tasso di interesse e ogni altro prezzo o condizione praticati e che la possibilità di variazione in senso sfavorevole all’investitore del tasso o del prezzo o condizione debba essere specificatamente approvata dall’investitore, costituiscono tutte norme relative agli elementi costitutivi del contratto, alla forma e/o al contenuto e quindi costituiscono regole di validità dello stesso, la cui violazione ne può determinare la nullità 110. Peraltro, alla luce di una recente sentenza della Sezioni Unite della Cassazione (la n. 26724 del 19 dicembre 2007) la costruzione della violazione delle norme del t.u.f. in termini di nullità appare non più

109 Trib. Venezia, 22 novembre 2004, in Società, 2005, 621, con nota di Colavolpe. Nello stesso senso è pure Trib. Brindisi, 21 luglio 2006, n. 701, secondo cui «La normativa dell’intermediazione finanziaria, essendo posta a tutela dell’ordine pubblico economico, consiste in norme imperative, alla cui violazione a norma dell’art. 1418 c.c., segue il rimedio della nullità del contratto, anche a prescindere da un’espressa previsione in tal senso da parte delle singole disposizioni violate». 110 Trib. Firenze, 4 dicembre 2006, in Il Caso, www.ilcaso.it.

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praticabile. Infatti, per la Suprema Corte, «la tesi secondo cui il mancato rispetto dei surriferiti doveri comportamentali dell’intermediario nella fase prenegoziale o in quella attuativa del rapporto sarebbe idoneo a riflettersi sulla validità genetica del contratto stipulato con il cliente, (è) priva (…) di base testuale e di supporti sistematici» ed «il ricorso allo strumento di tutela della nullità radicale del contratto per violazione di norme di comportamento gravanti sull’intermediario nella fase prenegoziale ed in quella esecutiva, in assenza di disposizioni specifiche, di principi generali o di regole sistematiche che lo prevedano, non è giustificato». • Dichiarazione di annullamento Gli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario sono già di per sé soli indicativi di una posizione nettamente sperequata delle parti nell’accesso alle informazioni necessarie ad esprimere una consapevole volontà negoziale, cosicché la posizione dell’investitore è assimilabile, limitatamente ai contratti di investimento in valori mobiliari, a quella del soggetto incapace. L’interesse generale che la disciplina dell’intermediazione finanziaria mira a proteggere è tutelabile solo indirettamente e cioè attraverso la protezione della parte che non e in grado di compiutamente valutare le probabili conseguenze del proprio investimento, e la disciplina dell’annullabilità è, appunto, quella che più si attaglia alla particolare protezione di uno dei contraenti 111. Del resto, tale orientamento era già stato anticipato dalla Suprema Corte, la quale aveva statuito che, anche vigente la normativa precedente il t.u.f., la violazione da parte della società di intermediazione mobiliare del divieto di effettuare operazioni con o per conto del cliente, nel caso in cui abbia, direttamente o indirettamente, un interesse conflittuale nell’operazione, a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura e l’estensione del suo interesse nell’operazione ed il cliente abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all’operazione, non determina la nullità del contratto di compravendita successivamente stipulato, ma potrebbe dare luogo al suo annullamento, ai sensi degli artt. 1394 o 1395 c.c. 112. Nell’ambito di questo filone giurisprudenziale, una recente decisione è degna di nota, per l’impiego di parametri valutativi particolarmente

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ditti.

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Trib. Bologna, 18 dicembre 2006, in Il Caso, www.ilcaso.it. Cass., sez. I, 29 settembre 2005, n. 19024, in Foro it., 2006, 1105, con nota di Sco-


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significativi e di ampio respiro sistematico, e per la perequata distribuzione della responsabilità. Trattasi dell’ennesima decisione relativa al caso Parmalat, fondata sul presupposto che sarebbe stato più agevole per gli istituti di credito, piuttosto che per i risparmiatori, verificare con anticipo come la Parmalat presentasse, da tempo, rischio di default di gran lunga maggiore rispetto a quello stimato dalle agenzie di rating e riflesso nei prezzi di mercato. Nella specie, l’istituto di credito coinvolto era parte di un gruppo che aveva avuto intensi rapporti d’affari con la Parmalat, caratterizzati, tra l’altro, dall’esser stato lead manager dell’ultimo consorzio di collocamento di obbligazioni Parmalat, per un valore di svariate centinaia di milioni di Euro. La sentenza in commento, compiendo ampi richiami alla relazione del consulente tecnico della Procura di Milano, disposta nelle cause penali afferenti la vicenda Parmalat, conduce il Tribunale di Napoli a ritenere, con sufficiente sicurezza, che alla data nella quale il risparmiatore aveva impartito l’ordine di acquisto delle obbligazioni, la società di intermediazione mobiliare, convenuta in giudizio, sarebbe stata ampiamente in grado di sapere, al di là dei dati di rating da tutti conoscibili, che la situazione del Gruppo Parmalat era preoccupante e, comunque, tale da far apparire altamente rischioso un investimento del tipo di quello scelto dall’attore. «La dichiarazione di essere consapevole dei rischi che l’investimento comportava “in particolare per quanto attiene l’acquisto di titoli di capitale”, che l’attore ha fatto propria, sottoscrivendo il modulo d’ordine (…) si rivela dunque – al di là della sua genericità e di una sfumatura patetica che l’incombente disastro retroattivamente le conferisce – sostanzialmente priva di rilievo a fronte della macroscopica sproporzione fra gli strumenti cognitivi di cui le due parti dell’operazione disponevano per valutarne il rischio» 113. Valutato quanto illustrato, il Tribunale partenopeo afferma che, nello stipulare il contratto de quo, il risparmiatore è incorso in un errore essenziale a norma dell’art. 1429 c.c., perché cadente su una qualità (rappresentata dalla normale aleatorietà di un titolo regolarmente emesso ed avente alla base una situazione patrimoniale non caratterizzata da clamorosi scompensi) dell’oggetto della prestazione (rappresentato dalla vendita delle obbligazioni per cui è causa). Tale errore, nella specie, si

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Trib. Napoli, 6 novembre 2006, in Il Caso, www.ilcaso.it.

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è ritenuto determinante del consenso, pur tenendo conto del fatto che, con gli investimenti compiuti negli anni precedenti, il risparmiatore aveva dimostrato una certa propensione al rischio. In altre parole, il Tribunale di Napoli ha ritenuto che la banca convenuta, per la sua qualità, non solo sarebbe stata in grado, ma avrebbe avuto un preciso obbligo, di riconoscere l’errore in cui era incorso il risparmiatore ed evitarne le conseguenze, raccogliendo, ove già non fossero state in suo possesso, le informazioni necessarie e fornendo al cliente un quadro della situazione ben più aderente alla realtà. • Risoluzione per inadempimento Pur prendendo spunto, anche qui, dall’inosservanza degli obblighi imposti ai collocatori di valori mobiliari, parte della giurisprudenza di merito giunge a soluzioni diverse dalla nullità, ma pur sempre tutelanti per i risparmiatori e, in ultima istanza, per il mercato dei capitali. Così, si è statuito che, ancorché le norme sugli obblighi informativi e comportamentali della banca verso i clienti perseguano un interesse pubblico, sicché i contratti conclusi in violazione di esse potrebbero ritenersi nulli, in talune fattispecie non può ravvisarsi un vizio genetico, relativo alla conclusione del contratto, bensì un mero vizio funzionale, che inerisce ad un contratto ormai perfezionatosi e che ha ad oggetto soltanto le prestazioni da rendersi sulla base del medesimo: in tali casi, il contratto deve quindi ritenersi risolto per inadempimento 114. Nell’ambito del medesimo filone giurisprudenziale, si è precisato, altresì, che l’inadempimento dell’intermediario agli obblighi informativi previsti dalla legge e dal contratto quadro non è fonte di mera responsabilità precontrattuale, ma motivo di inadempimento del contratto. In tale fattispecie, infatti, l’oggetto della violazione è il contratto quadro e non il singolo ordine, che costituisce solo un momento esecutivo dell’accordo. Inoltre, nel valutare la gravità dell’inadempimento, si dovrà tenere presente la natura degli interessi tutelati, non esclusivamente riconducibili alla sfera soggettiva del contraente-investitore. Inoltre, vertendosi in

114 Trib. Genova, 15 marzo 2005, in Danno e resp., 2005, 609, con nota di Roppo; in Foro it., 2005, I, 2540, con nota di Calmieri; Trib. Taranto, 27 ottobre 2004, in Giur it., 2005, 754; Trib. Roma, 25 maggio 2005, in Contr., 2005, 796; Trib. Monza, 27 luglio 2004, in Resp. civ. e prev., 2005, 135; Trib. Rimini, 11 maggio 2005; Trib. Torino, 7 novembre 2005, in Il Caso, www.ilcaso.it (sebbene tale sentenza accolga, in via principale, l’istanza per la declaratoria di nullità del contratto); Trib. Milano, 24 novembre 2005, in Giur. it., 2006, 521; Trib. Lecce, 12 giugno 2006, n. 1105.

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ipotesi di contratto di durata, la risoluzione travolgerà il contratto quadro limitatamente all’ordine negoziato in difformità agli obblighi di condotta. Infine, il criterio dirimente ai fini della valutazione dell’inadempimento risulta essere proprio quello dell’“adeguatezza” dello strumento finanziario al profilo di rischio dell’investitore, così escludendo l’obbligo di risarcimento, ovvero imponendolo, a seconda, rispettivamente, della presenza ovvero dell’assenza del succitato requisito 115. Questo orientamento pare aver assunto la maggiore forza persuasiva: così, ad es., il Tribunale di Monza, pur escludendo che la violazione dei generali doveri di diligenza e correttezza dell’intermediario sia sanzionabile con la nullità, ha ritenuto che «in relazione a comportamenti negligenti (come quelli relativi alle disposizioni dell’art. 21, D.Lgs. n. 58/1998) possono ravvisarsi solo i profili della colpa contrattuale (così ad es. Trib. Milano, sez. VI, 26 aprile 2006, n. 4882)» 116. Con riferimento alla quantificazione del danno risarcibile, si è ritenuto che la banca intermediaria, responsabile per inadempimento, vada condannata a rifondere al cliente, a titolo di risarcimento del danno conseguente all’assoluta incertezza in ordine al recupero del capitale investito, il relativo controvalore, oltre agli interessi al saggio legale, a far tempo dal giorno dell’esborso 117. • Risarcimento da responsabilità precontrattuale Un altro orientamento che, nell’ottica di chi scrive, rappresenta un giusto bilanciamento tra esigenze di agile diffusione fra il pubblico degli strumenti finanziari e quelle di tutela dei risparmiatori dagli abusi degli intermediari, è rappresentato dalle sentenze che, anziché ricorrere ai rimedi più draconiani dell’annullamento o della nullità delle operazioni, si limitano a prevedere un equo risarcimento danni a favore della parte più debole. In particolare, su questo punto, si segnala, la prospettazione ermeneutica dell’art. 21 t.u.f. alla luce del più generale principio di cui all’art. 1337 c.c., fatta dalla Corte d’Appello di Milano 118, ai sensi della

Trib. Catania, 23 gennaio 2007, in Il Caso, www.ilcaso.it. Trib. Monza, 12 dicembre 2006 in Contr., 2007, 243, con nota di Sangiovanni, Operazione inadeguata dell’intermediario finanziario fra nullità del contratto e risarcimento del danno alla luce della direttiva MIFID. 117 Trib. Genova, 15 marzo 2005, cit. 118 App. Milano, 19 dicembre 2006, n. 3070, in Danno e resp., 5, 2007, con nota di F. Greco, Violazione di regole comportamentali e tutela. 115 116

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quale «La tutela del cliente rispetto alla violazione degli obblighi informativi va ravvisata nell’azione risarcitoria, che trova fondamento nell’applicazione dell’art. 1337 c.c. e di cui l’art. 21 t.u.f. rappresenta, nell’ambito di questa tipologia di rapporti, una specificazione». Sul punto è altresì intervenuta la Suprema Corte, osservando che «La violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, stabilito dall’art. 1337 cc, assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative, ovvero qualora sia stipulato un contratto invalido o inefficace, ma anche, quale dolo incidente (art. 1440 c.c.), se il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte rimasta vittima del comportamento scorretto» 119; e che tale prospettazione risulti meno attrattiva per i risparmiatori è confermato dal fatto che, in tal caso, il risarcimento del danno possa essere commisurato soltanto al «minor vantaggio, ovvero al maggior aggravio economico prodotto dal comportamento tenuto in violazione dell’obbligo di buona fede, salvo che sia dimostrata l’esistenza di ulteriori danni che risultino collegati a detto comportamento da un rapporto rigorosamente consequenziale e diretto» 120. Un orientamento sistematico, in materia, è stato fornito dalla recente e già citata sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (la n. 26724 del 19 dicembre 2007), ai sensi della quale «va perciò enunciato il principio per cui la violazione dei doveri d’informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d’investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente con-

119 Cass., sez. I civ., 29 settembre 2005, n. 19024, in Foro it., 2006, I, 105, con nota di Scoditti; in Giur. comm., 2006, 4, 626, con nota di Salodini. 120 Cass., sez. I civ., 29 settembre 2005, n. 19024, cit. A proposito di prova del danno, deve rilevarsi che, sebbene l’art. 23, ult. co., t.u.f., esoneri l’investitore dalla prova della negligenza dell’intermediario, spettando a questi di provare di aver agito con la specifica diligenza richiesta, il nesso di causalità tra condotta e danno deve essere dimostrato dal danneggiato. Così, «va in ogni caso escluso il diritto dell’investitore al risarcimento del danno, laddove risulti provato che è stato lo stesso investitore, con la propria condotta concreta, a cagionare il danno finale, indipendentemente dalla condotta concretamente tenuta dall’intermediario» (Trib. Monza, 27 luglio 2004, cit.).

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durre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d’investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d’intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei suaccennati doveri di comportamento può però determinare la nullità del contratto d’intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418 cc., co. 1».

6. La realtà operazionale. Come si è accennato agli inizi di questo studio, il tema si presta ad interessanti riflessioni comparatistiche. In primis, si è assistito ad un’interessante circolazione, a livello del formante legislativo, del modello anglosassone, mediato dall’intervento comunitario e culminato con la recezione, per trasposizione delle direttive comunitarie, negli ordinamenti nazionali e, segnatamente, in quello italiano. Peraltro, ancora una volta, chiunque sostenga aprioristicamente la mera necessità dell’intervento legislativo al fine di una riforma del sistema, viene bruscamente smentito. Invero, il sistema inglese è stato in grado di approntare una tutela rapida ed efficace nei confronti del risparmiatore-investitore. Le ragioni vanno ricercate, come già detto supra, in parte nello sviluppo dei concetti di equity, ma non solo. La riflessione esula dalla stretta economia della presente dissertazione, nondimeno le circostanze che hanno condotto ad una profonda modernizzazione del diritto inglese, rendendolo adatto ai bisogni di tutela dei cittadini, appaiono svariate e di difficile misurabilità. Tra di esse, sembrano essere particolarmente degne di nota: 1. il metodo di selezione dei giudici, basato sui loro comprovati preparazione, equilibrio, accuratezza; 2. la possibilità, concessa agli stessi organi, amministrativi e/o giudicanti, di modificare, rapidamente ed in caso di bisogno, la procedura, rendendola in grado di soddisfare prontamente le esigenze di giustizia; 3. l’innata mentalità liberista, che concede la massima priorità ad un corretto funzionamento del mercato e del sistema economico, privilegiando la cd. fairness delle transazioni che si svolgono all’interno dello stesso; 4. l’innata attitudine ad esaminare i problemi giuridici dal punto di vista del cd. enforcement.

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Saggi

L’ordinamento italiano, pur dotato di strumenti legislativi analoghi, a livello operazionale non è, invece, in grado di assicurare la medesima tutela ai propri cittadini. Le inefficienze degli apparati di giustizia italiani sono, purtroppo, notorie tra gli stessi cittadini, i quali sono ormai timorosi di adire l’Autorità giudiziaria, rinunciando, specie in materie complesse come quelle dell’intermediazione finanziaria, a far valere i propri diritti. I casi Parmalat, Cirio e Argentina hanno mostrato come soltanto una percentuale trascurabile dei risparmiatori danneggiati sia ricorsa in Giustizia, lasciando trasparire un poco edificante scetticismo nella possibilità del nostro sistema di rimediare alle ingiustizie perpetrate a danno dei più deboli. La procedura, essenzialmente scritta, anche nell’ambito del nuovo rito societario 121 impone rilevanti costi (commisurati, ai sensi della tariffa forense, non solo e non tanto al valore della controversia, quanto al numero di adempimenti, primariamente memorie ed udienze, imposti), è lenta e pesante e non rappresenta certo un incentivo nei confronti dei risparmiatori, che in evidente posizione di svantaggio economico, intendano intraprendere una causa. II giudice italiano, selezionato sulla base di concorsi pubblici di dubbia efficacia, spesso privo della necessaria competenza ed esperienza, non necessitato, come quello inglese, a salvaguardare una reputazione di eccellente operatore del diritto, costruita in un’intera carriera lavorativa, è spesso mosso dalla regola del «minimo sforzo» 122: anziché compiere una complessa ed impegnativa analisi del comportamento dell’intermediario, volta, in particolare, ad accertare il rispetto o la violazione del principio dell’equo trattamento, si limita ad una ricognizione dei dati formalistici.

121 A questo proposito, si deve rilevare la cronica incapacità del legislatore nazionale di adottare – e mantenere in vigore – riforme processuali coraggiose: così il nuovo rito societario, ispirato dai principi della c.d. pre-trial discovery di matrice anglosassone, disattende in toto, nella sua pratica attuazione, le ragioni di celerità che l’hanno ispirata negli ordinamenti in cui è stata creata. In altre parole, tra termini dilatori legati alla citazione (almeno 60 giorni), alla memoria di replica (altri 30 giorni), alla replica (20 giorni), alla controreplica (16 giorni), alla designazione del giudice (15 giorni) ed alla fissazione dell’udienza (50 giorni), il rito ordinario, almeno nella sua fase iniziale, risulta più rapido di quello speciale. Nonostante queste spaventose lentezze, v’è, addirittura, chi sostiene la necessità di un’applicazione, pure al rito societario, dell’art. 184 c.p.c. 122 L’espressione, utilizzata nel contesto della teoria della responsabilità civile, è di Sacco, Introduzione al diritto comparato, in Tratt. Dir. comp., diretto da Sacco, Torino, 1990, p. 125.

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La presenza di palesi conflitti d’interesse, l’esistenza di stati soggettivi di conoscenza od ignoranza di importanti circostanze e la commissione di gravi scorrettezze, spesso non trovano posto nelle decisioni del giudice italiano; appaiono dirimenti, per converso, l’esistenza o meno di scartoffie (documento sulla propensione al rischio, documento sui rischi specifici dell’investimento, ecc.) che nessun risparmiatore medio si premura di leggere, neppure prima di apporvi, in calce, la sottoscrizione. Il formalismo è imperante: qualche successo è stato ottenuto dai consumatori-risparmiatori e per il futuro, si auspica che gli intermediari siano molto più cauti nella loro attività e non espongano più i risparmiatori ai rischi affrontati in passato. Peraltro, l’esistenza di una Giustizia improntata, essenzialmente, su formalismi, lascia l’amaro in bocca. Evoca l’approccio del legislatore del 1942, che si limitava a richiedere i vacui requisiti della doppia firma, e non certo la migliore legislazione a tutela dei consumatori. Le annose diatribe su firme e doppie firme nelle memorie, repliche e controrepliche degli avvocati restano appannaggio del sistema italiano. Non è certo l’istituzione di un’authority, con nuovi burocrati e nuove auto blu, a poter permettere all’Italia di invertire la rotta dal declino economico e finanziario che la sta pericolosamente attanagliando. Bisogna prendere atto che il concetto di libero mercato stenta ad affermarsi tra i valori che animano il popolo italiano. Per il momento, nella comparazione col Regno Unito, l’investimento in Italia pare molto meno tutelante per i risparmiatori. Per un futuro – assai remoto, purtroppo – si può auspicare che le nuove generazioni di italiani si muovano nel mondo molto più di quanto non abbiano fatto le passate, travolgendo la mentalità degli intrecci, dell’affidamento alle conoscenze, della tutela ad oltranza di privilegi e prebende, che richiama i tristi rituali di sottoculture malavitose.

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CoMMENTI

Classi di creditori e crediti subordinati nel nuovo concordato preventivo CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, Sez. I Civile, sentenza 4 febbraio 2009, n. 2706; Pres. Proto, Rel. Panebianco; B.G., F.R., G.G. e G.S.C. c. Montechiaro s.r.l. in liquidazione. Cassa con rinvio App. Bologna, 15 marzo 2007 Concordato preventivo – Criteri di formazione delle classi – Soci finanziatori – Subordinazione legale – Inserimento in una stessa classe con creditori non subordinati – Impossibilità – Deroga al principio di postergazione – Limiti (c.c., art. 2467; l. fall., art. 160, co. 1, lett. c) In ipotesi di concordato preventivo con divisione dei creditori in classi, i soci finanziatori postergati ex art. 2467, co. 1, c.c. non possono essere inseriti nella stessa classe della quale facciano parte anche altri creditori chirografari (1). Il principio della postergazione legale è derogabile soltanto con il consenso della maggioranza dei crediti inseriti in ciascuna classe (2).

Svolgimento del processo – Con ricorso depositato in data 17.1.2006 la s.r.l. Montichiaro in liquidazione presentava al Tribunale di Bologna domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo ai sensi della l. fall., art. 160, nel testo modificato dal d.l. n. 35 del 2005, art. 2, convertito dalla l. n. 80 del 2005, secondo un piano accompa-

gnato dalla relazione di un professionista e che prevedeva: - l’attribuzione delle attività d’impresa alla società CA.RO.MA. s.r.l. con sede in Imola in qualità di assuntrice; - la limitazione dell’impegno di tale ultima società all’importo di Euro 403.456,26 e comunque alla somma necessaria per il pagamen-

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Commenti

to, nelle percentuali proposte, dei debiti come attualmente risultanti dalla contabilità della Montichiaro oltre alle spese di procedura; - la suddivisione dei creditori in quattro distinte classi sottoposte a trattamento differenziato nei seguenti termini: A) privilegiati pari ad Euro 60.697,54 da pagare al 100%; B) chirografari del ceto bancario e soci fideiussori già escussi dalle banche, pari ad Euro 916.468, da pagare nella misura del 35%, vale a dire di Euro 320.763,80; C) chirografari per crediti diversi da quelli di cui alla classe precedente, pari ad Euro 9.005,03, da pagare nella misura del 50%, vale a dire di Euro 4.502,52; D) crediti chirografari dei soci per finanziamenti alla società, pari ad Euro 583.078,69, da pagare nella misura del 3%, vale a dire di Euro 17.492,40. Insieme al ricorso venivano depositati, oltre alla documentazione richiesta dalla l. fall., art. 161, una fideiussione bancaria “a prima richiesta” di Euro 400.000,00 rilasciata dalla Banca Popolare dell’Emilia Romagna il 22.12.2005 nell’interesse della CA.RO.MA. ed a favore di Montechiaro nonché libretto di deposito di risparmio di Euro 10.000,00 acceso presso la stessa banca il 23.12.2005 ed intestato alla CA.RO.MA. Su parere favorevole del Pubblico Ministero il Tribunale con decreto del 26.1.2006 pronunciato ai sensi della l. fall., art. 163, ritenuta la completezza e la regolarità

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della documentazione nonchè la correttezza dei criteri di formazione delle classi, dichiarava aperta la procedura di ammissione al concordato preventivo, nominando il Commissario Giudiziale e disponendo la convocazione dei creditori ed il deposito della somma di Euro 55.000,00 per le spese di procedura. All’esito delle operazioni di voto svoltesi nell’adunanza del 23.5.2006, tenuto conto dei voti pervenuti in precedenza, la proposta risultava approvata dalla maggioranza assoluta del totale dei crediti chirografari ammessi al voto nonché, in considerazione pure di quelli pervenuti nei venti giorni successivi ai sensi della l. fall., art. 178, anche dalla maggioranza dei creditori chirografari ammessi al voto nelle classi (omissis) e (omissis) mentre rimaneva contraria la classe (omissis). Fissata dal Tribunale l’udienza camerale dell’11.10.2006 per l’omologazione del concordato, proponevano opposizione B.G., F.R., G.G. e G.S.C., soci di minoranza della Montichiaro per la quota complessiva del 37,85% i quali, unitamente alla creditrice s.r.l. Steven e sul totale di 17 creditori ammessi al voto, avevano espresso voto contrario alla proposta. A seguito del parere favorevole del Commissario Giudiziale il Tribunale con decreto del 1731.10.2006 omologava il concordato preventivo come proposto


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dalla s.r.l. Montichiaro, dichiarando compensate le spese. Proponevano impugnazione gli stessi soci di minoranza che si erano opposti all’omologazione ed all’esito del giudizio in Camera di consiglio la Corte d’Appello di Bologna con decreto del 16.2- 15.3.2007 rigettava il gravame, compensando integralmente le spese processuali. Dopo aver riaffermato la legittimazione degli appellanti per la loro qualità di creditori ed osservato che in base alla nuova normativa è compito del Tribunale verificare la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi del concordato e la regolarità della procedura con particolare riguardo all’effettivo e corretto raggiungimento delle maggioranze richieste nonché la reale fattibilità del piano, rimanendo preclusa invece ogni indagine sulla meritevolezza del debitore a seguito dell’abrogazione dell’art. 181, n. 4 della precedente l. fall., sulla convenienza del concordato per i creditori che la legge di riforma ha inteso lasciare in via esclusiva agli stessi creditori, rilevava la Corte d’Appello, limitatamente alle questioni che sarebbero state poi dedotte in questa sede di legittimità, che nei confronti del Dr. T.A., il quale aveva redatto la relazione richiesta dalla l. fall., art. 161, co. 3, sarebbe ipotizzabile una situazione di incompatibilità solo sulla base della l. fall., art. 28, nella formulazione in vigore fino alla data di presentazione del ricorso

per avere in precedenza svolto le mansioni di consulente di parte della Montichiaro nella causa relativa all’impugnazione del bilancio di esercizio 2003 e per aver rappresentato in varie assemblee della società i soci di maggioranza ovvero i soci della assuntrice CA.RO. MA. s.r.l. Al riguardo precisava che tale divieto non è più contenuto nell’attuale testo dell’art. 28 introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006 ed entrato in vigore in data 16.7.2006 e quindi nel corso della procedura, con la conseguenza che, non risultando il Dr. T. fra i creditori della Montechiaro, la incompatibilità potrebbe ravviarsi solo con riferimento alla normativa precedente, vigente al momento della presentazione del ricorso, che prevedeva espressamente, a differenza del testo attuale, anche l’ipotesi di coloro che avessero prestato la loro attività professionale a favore del fallito. Sosteneva poi che in ogni caso, per l’eventuale inosservanza, detto art. 28, non prevede alcuna sanzione e pertanto potrebbe assumere rilievo solo in presenza di un’inesatta rappresentazione della realtà economica aziendale ovvero di un’erronea valutazione sulla realizzabilità del piano, idonee in concreto ad alterare la correttezza del procedimento formativo della volontà manifestata con il voto dai creditori. Ma al riguardo richiamava il motivato parere espresso dal Commissario Giudiziale nella relazione di cui alla l. fall., art. 172,

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Commenti

e nella successiva prevista dalla l. fall., art. 180, nelle quali era stata confermata la sostanziale correttezza della situazione contabile e patrimoniale esposta nel ricorso e nella relazione del professionista circa l’adeguatezza, con riferimento sia al valore degli immobili che al presumibile costo del concordato, della somma complessiva di Euro 465.000,00, pari all’attivo garantito dall’assuntrice (Euro 410.000,00) ed alle spese della procedura. A sostegno della fattibilità del piano evidenziava poi come la società assuntrice avesse prodotto la fideiussione “a prima richiesta” per Euro 400.000,00 e posto a disposizione della procedura l’ulteriore somma di Euro 65.000,00. Disattendeva, quindi i rilievi in ordine alla pretesa sottovalutazione delle poste attive con particolare riferimento agli immobili della partecipata Chiaromonte che anzi da un’apposita consulenza erano stati ritenuti sopravalutati in ricorso (Euro 725.000,00 rispetto al valore attribuito dal consulente di Euro 583.500,00). Escludeva poi come indicativa della lamentata sottovalutazione l’offerta d’acquisto dei medesimi immobili per il prezzo di Euro 1.300.000,00 formulata dagli stessi appellanti con lettera del 12.5.2006, sostenendo che tale offerta ben poteva essere stata determinata da interessi strettamente personali del tutto indipendenti dall’effettivo valore dei beni (pag. 25 e 26).

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Riteneva poi infondata la doglianza relativa al mancato inserimento, tra le voci attive esposte in ricorso, della somma derivante dall’eventuale esito positivo dell’azione di responsabilità proposta nei confronti degli ex amministratori della Montechiaro in considerazione del suo esito incerto, senza tener conto che gli arbitri avevano limitato l’obbligazione risarcitoria alla complessiva somma di euro 170.000,00 e che in ogni caso tale importo, anche se recuperato, sarebbe stato ininfluente sull’entità dei pagamenti concordatari in quanto la proposta contenuta nell’istanza di ammissione non prevede il trasferimento all’assuntrice né delle attività realizzate né delle passività insorte dopo il suo deposito. Priva di autonomo rilievo riteneva altresì l’eventuale falsità dei bilanci della società proponente relativi agli anni 2003 e 2004 sia perchè i dati contabili esposti nel ricorso erano risultati corretti e sia perchè, a seguito della riforma, la l. fall., art. 160, non prevede più fra i requisiti per l’ammissione al concordato né la meritevolezza del debitore né la regolare tenuta della contabilità nel biennio precedente alla proposta. Escludeva altresì l’illegittimità della inclusione nella classe (omissis), unitamente al ceto bancario, dei soci fideiussori già escussi dalle banche e nella classe (omissis) dei crediti per finanziamenti volon-


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tari prestati dai soci, non ritenendo risolutivo il contrasto con l’art. 2467 c.c., nel testo introdotto dal d.lgs. n. 6 del 2003, che consente il rimborso ai soci dei finanziamenti effettuati alla società solo dopo il soddisfacimento integrale degli altri creditori e la loro restituzione se tale rimborso sia avvenuto nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento. Al riguardo precisava che non si tratta di una norma inderogabile ma dettata solo nell’interesse dei creditori della società che ben avrebbero potuto farla valere in sede di approvazione del concordato, aggiungendo che è erronea la equiparabilità delle restituzioni previste dall’art. 2476 c.c., alle restituzioni conseguenti all’esercizio dell’azione revocatoria prevista dalla l. fall., art. 67, co. 3, lett. e), nella nuova formulazione, secondo cui non sono soggetti all’azione revocatoria i pagamenti effettuati in esecuzione del concordato preventivo. Sostiene a sostegno di tale tesi che l’apparente contrasto non può che risolversi con l’applicazione della sola norma generale di cui all’art. 2467 c.c., che prevede l’obbligatorietà della restituzione del rimborso, nella specie però derogata. Riteneva legittima poi la limitazione di responsabilità dell’assuntrice CA.RO.MA. all’importo necessario per il pagamento integrale delle spese di procedura e dei crediti privilegiati nonché dei crediti chirografari nella percen-

tuale prevista per ciascuna classe. Precisava al riguardo che tale limitazione, consentita espressamente per il concordato fallimentare dal nuovo testo della l. fall., art. 124, non solo non contrasta con alcuna norma ma risulta nel caso in esame sostanzialmente ininfluente, avendo il Commissario Giudiziale confermato sia l’idoneità della somma complessiva di Euro 465.000,00 posta dalla CA.RO.MA. a disposizione della procedura a coprire il costo del concordato e sia l’esattezza dei dati contabili. Escludeva ancora la prospettata situazione di conflitto di interessi in relazione alla posizione della società assuntrice per essere i soci ed il legale rappresentante anche soci della Montechiaro, proponente il concordato, stante la distinta soggettività giuridica di CA.RO.MA rispetto a quella delle persone fisiche che ne costituiscono la compagine sociale. Dopo aver inoltre ribadito la legittimazione dei reclamanti ad opporsi in quanto creditori dissenzienti e dopo aver precisato che compete al Tribunale d’ufficio la verifica di un trattamento non deteriore nei confronti della classe o delle classi dissenzienti, la Corte d’Appello aderiva alle considerazioni espresse dal Commissario Giudiziale nella relazione prevista dalla l. fall., art. 172, ritenendo che la proposta degli opponenti di acquisto delle proprietà immobiliari per l’importo di Euro 1.300.000,00,

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subordinata al ritiro della domanda di concordato e da realizzare nell’ambito della procedura di liquidazione volontaria, non apriva alcuna prospettiva reale per la sistemazione della situazione debitoria della Montechiaro sia per il sensibile aumento del passivo per effetto degli interessi nel frattempo maturati, sia per il venir meno della consistente riduzione, prevista nella proposta di concordato, dei debiti verso i soci finanziatori e sia infine perchè l’acquisto diretto degli immobili appartenenti alla società controllata di diritto polacco è resa impossibile dal rifiuto espresso da quest’ultima e dalla difficoltà di ottenere un provvedimento immediatamente esecutivo del giudice italiano, senza peraltro considerare che, a seguito delle detrazioni conseguenti alle rilevanti passività ipotecarie ed in considerazione delle imposte gravanti sulle plusvalenze della società venditrice e delle imposte sulle sopravvenienze attive realizzate dalla Montichiaro (tassabilità esclusa per i pagamenti effettuati nell’ambito del concordato), la somma da destinarsi ai creditori sarebbe ridotta e consentirebbe di soddisfare i chirografari della classe (omissis) in una percentuale inferiore (41% anzichè 50% come prevede il concordato). Del pari riteneva preferibile il trattamento riservato a detti creditori della classe (omissis) rispetto alla situazione che si presentereb-

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be qualora la società fosse dichiarata fallita in quanto in tal caso la maggiore percentuale (60%) assicurata per via della postergazione dei crediti dei soci finanziatori risulterebbe compensata dalla certezza del relativo pagamento da parte dell’assuntrice rispetto all’alea connesa all’imprevedibile decorso della procedura fallimentare. Riteneva infine infondata, in quanto basata sull’erronea premessa dell’applicabilità al presente procedimento della sospensione feriale dei termini, la doglianza in ordine alla dichiarata ritualità del decreto di omologa per essere stato emesso oltre la scadenza del termine previsto dalla l. fall., art. 181, a seguito della proroga concessa dal Tribunale. Al riguardo sosteneva la natura meramente ordinatoria di tale termine. Avverso tale decreto propongono ricorso per cassazione B.G., F.R., G.G. e G.S.C., deducendo cinque motivi di censura. Resiste con controricorso la Montechiaro s.r.l. in liquidazione che eccepisce in via pregiudiziale l’inammissibilità del ricorso sotto vari profili e propone anche ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, mentre il Concordato Preventivo di Montechiaro non ha svolto attività difensiva. Motivi della decisione – Pregiudizialmente deve darsi atto della intervenuta riunione disposta in


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udienza del ricorso principale con l’incidentale ai sensi dell’art. 335 c.p.c., riguardando la stessa sentenza. Del pari pregiudizialmente devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalla controricorrente sotto vari profili. Con la prima eccezione si sostiene l’avvenuta decadenza dell’impugnazione per l’inosservanza del termine di dieci giorni previsto dall’art. 739 c.p.c., dalla comunicazione del provvedimento ovvero di quello di quindici giorni stabilito dalla l. fall., art. 183. Orbene, l’eccezione deve ritenersi in primo luogo mal posta in quanto i termini previsti dalle due norme richiamate riguardano quelli per la proposizione dell’impugnazione avanti alla Corte d’Appello e non già per proporre ricorso per cassazione, alla cui inammissibilità invece i controricorrenti si sono riferiti. La norma da applicare è comunque quella contenuta nella l. fall., art. 183 – nella formulazione ancora in vigore nel corso della procedura e modificata solo successivamente con il d.lgs. n. 167 del 2007, entrato in vigore solo in data 1.1.2008 – il quale non prevede alcun termine specifico per il ricorso per cassazione ma solo l’indicazione del “dies a quo” di decorrenza con riferimento, a seguito della lettura datane dalla C. Cost. (225/74), dalla comunicazio-

ne del dispositivo, con la conseguenza che non può che applicarsi il termine di sessanta giorni che nel caso in esame risulta rispettato (Cass. 7013/99). Né può assumere rilievo che detta norma faccia riferimento alla pronuncia di omologazione con sentenza anziché con decreto, come previsto invece dalla l. fall., art. 180, nella formulazione in vigore dal 16.3.2005, trattandosi unicamente di mancata coordinazione fra le due norme, costituente un aspetto puramente formale, superata comunque dalla successiva formulazione dell’art. 183 l. fall. da parte del cosiddetto decreto correttivo (d.lgs. n. 169 del 2007, art. 16) che al decreto e non più alla sentenza fa riferimento. Ulteriori problemi che pur pongono le due successive formulazioni della norma non vanno pertanto in questa sede affrontati in considerazione dell’erronea prospettazione dell’eccezione. Con l’ulteriore eccezione di inammissibilità si deduce che sia il decreto di proroga dei termini sino al 31.10.2006 che quello con cui era stata fissata l’udienza in camera di consiglio per l’omologazione del concordato non erano stati oggetto di reclamo avanti alla Corte d’Appello con conseguente formazione del giudicato interno in ordine ai pretesi vizi formali attinenti all’attività procedimentale anteriore alla loro emissione e cioè all’incompatibilità del professio-

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nista che ha redatto la relazione, ex art. 161 l. fall., alla violazione dell’art. 2467 c.c., alla limitazione della responsabilità della assuntrice CA.RO.MA. e all’inapplicabilità della sospensione feriale nel procedimento concorsuale, vale a dire su tutti i punti che hanno formato oggetto di censura con il ricorso per cassazione. Orbene, nonostante non risulti che tale eccezione fosse stata oggetto di impugnazione avanti alla Corte d’Appello, questa Corte non può esimersi dall’esaminarla, risolvendosi, nella prospettiva data dalla controricorrente, nella formazione di un giudicato interno e, come tale, rilevabile d’ufficio. L’eccezione è però infondata in quanto si riferisce a pretesi vizi del procedimento che, convertendosi in motivi di impugnazione, non possono che essere fatti valere, come è avvenuto nel caso in esame, in sede di appello, senza pertanto che possa ravvisarsi su di essi l’avvenuta formazione del giudicato in primo grado. Superate le eccezioni di inammissibilità, è opportuno osservare in via preliminare, prima dell’esame dei ricorsi, che l’esclusione, da parte della nuova disciplina del concordato preventivo introdotta dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni dalla l. 14 maggio 2005, n. 80, di molti dei requisiti di natura personale richiesti invece dalla precedente normativa alla l. fall., art. 160, nonché la maggiore

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autonomia lasciata ai creditori nell’approvazione del Piano ed il ruolo centrale che essi esercitano a tal fine hanno comportato la riduzione ma non l’esclusione della sfera d’intervento del Tribunale, chiamato pur sempre al controllo di legalità nell’ambito di una più accentuata natura privatistica dell’istituto con poteri che possono estendersi anche, sia pure in un ambito più ristretto, a valutazioni di merito (vedi l. fall., art. 177, co. 2). Limitatamente alla correttezza di detto controllo di legalità, affidato successivamente alla Corte d’Appello per il riesame della sentenza di primo grado, è consentito quindi il sindacato di legittimità di questa Corte in relazione alle censure prospettate. Con il primo motivo di ricorso B.G., F.R., G.G. e G.S.C. denunciano violazione e falsa applicazione della l. fall., artt. 28 e 161, sia nel testo previgente che in quello introdotto dal d.l. n. 35 del 2005, convertito con l. n. 80 del 2005, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Lamentano che la Corte d’Appello non abbia ravvisato lo stato di incompatibilità del professionista che aveva redatto la relazione allegata alla proposta di concordato sei mesi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa sebbene fosse il soggetto di riferimento della società proponente, avendo svolto l’incarico di consulente di parte nel giudizio riguardante l’annullabilità


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della delibera dell’approvazione del bilancio 2003 nonché quello di rappresentante della maggioranza in tre assemblee societarie e configurandosi in tal modo sia l’ipotesi prevista dalla precedente norma riguardante i precedenti incarichi svolti per conto della stesso soggetto e sia l’ipotesi di conflitto di interessi. Sostengono che la Corte d’Appello, nonostante detto professionista avesse sostanzialmente agito nell’interesse dei propri clienti C. e Ca., proprietari e gestori della società assuntrice CA.RO.MA., avesse escluso senza alcuna motivazione anche la situazione di conflitto di interessi prevista pure dal successivo testo erroneamente ritenuto dalla Corte applicabile nella fattispecie sebbene entrata in vigore solo successivamente all’avvio della procedura. Deducono altresì che tale situazione d’incompatibilità aveva avuto riflessi sul contenuto della relazione in cui era stata omessa ogni valutazione sul valore della partecipazione della controllata e degli immobili di quest’ultima. Sostengono la irrilevanza ai fini in esame della mancata previsione di sanzioni per l’inosservanza di tali obblighi in quanto la relazione, avendo il compito di fornire al giudice ed al commissario giudiziale seri elementi di valutazione, assume una finalità pubblicistica per la quale non deve difettare nell’esperto il requisito della terzietà.

La parziale modifica della l. fall., art. 28, richiamato dalla stessa l. fall., art. 161, per l’indicazione dei requisiti richiesti nel professionista incaricato della relazione che accompagna il piano contenuto nella domanda di ammissione al concordato preventivo, pone il problema dell’individuazione della disciplina applicabile in quanto, proprio con riguardo al caso come quello in esame del professionista che ha svolto in precedenza degli incarichi per conto della società proponente, la nuova normativa ha innovato, non prevedendo più tra le ipotesi di incompatibilità quella del professionista “che ha prestato comunque la sua attività professionale” a favore di colui nei cui confronti sì è aperta la procedura. Nel caso in esame la domanda di ammissione al concordato preventivo è stata depositata in data 17.1.2006, il novellato l. fall., art. 161, che ha richiamato l’art. 28, è stato introdotto con decorrenza 16.3.2005 dal d.l. n. 35 del 2005, art. 2, convertito dalla l. n. 80 del 2005, mentre l’art. 28, nella nuova formulazione prevista dal d.lgs. n. 5 del 2006, art. 25, è entrato in vigore il 16.7.2006. Al momento della proposizione della domanda di ammissione al concordato preventivo, corredata dalla relazione del professionista, l’art. 28 era quindi in vigore nella originaria formulazione che prevedeva, come si è già rilevato,

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l’incompatibilità per il professionista che avesse svolto la sua attività a favore del richiedente, con la conseguenza che questa dovrebbe ritenersi la norma applicabile, non potendosi attribuire in linea di principio alla nuova normativa efficacia retroattiva. Tuttavia la soluzione del problema non può prescindere dal contenuto di tale norma la quale, eliminando l’ipotesi di incompatibilità prevista precedentemente, ha legittimato la posizione del professionista nell’ambito della procedura di ammissione al concordato non ancora conclusa. Del resto si è in presenza di un’ipotesi, non già di incapacità, nell’ambito della quale deve escludersi in radice la validità degli atti compiuti, ma di mera incompatibilità la quale ben può essere rimossa con effetti sananti o per il venir meno dei presupposti di fatto che la determinano ovvero in conseguenza di una nuova disposizione normativa che l’ipotesi di incompatibilità non prevede più. Quale che sia il ruolo che la legge ha inteso attribuire al professionista nei cui confronti non può non riconoscersi anche una posizione di terzietà pur se connotata da un rapporto di fiducia con l’imprenditore, devesi prendere atto che le esposte conclusioni sono in linea con l’ulteriore evoluzione della disciplina caratterizzata dal mancato richiamo all’art. 28, u.c. da parte del successivo

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d.lgs. n. 169 del 2007 (vedi l’art. 67, co. 3, lett. d) che ha richiamato solo le lett. a) e b) dell’art. 28), con la conseguente necessità di un’interpretazione evolutiva che tenga conto della previsione meno rigorosa successivamente emanata. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 2467 c.c., co. 1 e l. fall., art. 184, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Lamentano che la Corte d’Appello non abbia considerato che la proposta di concordato, prevedendo nelle classi (omissis), rispettivamente, i crediti chirografari dei soci fideiussori escussi dalle banche, ed i crediti chirografari dei finanziamenti dei soci, concreta una palese violazione del regime di postergazione previsto dall’art. 2467 c.c., co. 1, e che quindi erroneamente abbia ritenuto derogabile tale norma, in assenza di espresso divieto, sul rilievo che essa è posta nell’interesse dei creditori. A tal fine sottolineano che la stragrande maggioranza dei soci ammessi al voto (circa 2/3) era rappresentata da soci fideiussori escussi già dalle banche ai quali, se fosse stato applicato correttamente il regime della postergazione, non sarebbe stato consentito di far parte del ceto creditorio votante. Osservano altresì che la restituzione dell’importo versato previsto dall’art. 2467 c.c., co. 1, non sarebbe giuridicamente possibile se effettuato in sede di


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concordato preventivo, ostandovi la previsione di cui alla l. fall., art. 67, co. 3, lett. e), che esonera dall’azione revocatoria, in caso di fallimento, i pagamenti effettuati appunto in esecuzione del concordato preventivo. Sostengono altresì che la pretesa derogabilità di detta norma da parte della maggioranza dei creditori urta anche contro la finalità esdebitatoria di massa del concordato preventivo e che in ogni caso si verteva in una situazione di eccessivo squilibrio. La censura è fondata nei termini che qui di seguito saranno precisati. La libertà lasciata al debitore nella suddivisione dei creditori in classi nell’ambito della formazione del piano per l’ammissione al concordato preventivo prevista dalla l. fall., art. 160 – come sostituito con decorrenza 16.3.2005 dal d.l. n. 35 del 2005, art. 2, lett. d), convertito con modifiche dalla l. n. 80 del 2005 – trova un primo limite nella stessa l. fall., art. 160, co. 1, lett. c), la quale prevede la necessità che detta suddivisione avvenga “secondo posizioni giuridiche e interessi economici omogenei”. Quanto al primo profilo che richiama sostanzialmente, secondo un orientamento non del tutto condiviso in dottrina, la distinzione fra crediti privilegiati e crediti chirografari, la questione è irrilevante nel caso in esame, non ponendosi problemi riguardanti la natura dei crediti.

Ruolo centrale esercita invece la locuzione “interessi economici omogenei” nella quale rientra la posizione dei crediti aventi medesime caratteristiche in relazione alla categoria di appartenenza dei creditori. Orbene, con riferimento a tale ulteriore requisito, deve escludersi che i soci finanziatori possano essere inseriti nel piano di cui facciano parte anche altri creditori chirografari non solo per la loro diversa posizione nei confronti della società rispetto ai terzi ma soprattutto per la previsione di cui all’art. 2467 c.c., co. 1, che ha introdotto il principio della postergazione delle loro ragioni creditorie rispetto a quelle degli altri creditori, con l’obbligo, oltre tutto, di restituzione se il pagamento in loro favore sia avvenuto nell’anno precedente alla dichiarazione di fallimento. Principio questo che comporta necessariamente quale corollario l’inapplicabilità in tal caso della l. fall., art. 67, co. 3, che prevede, nell’ipotesi di successivo fallimento, l’esclusione dalla revocatoria per gli atti ed i pagamenti posti in essere in esecuzione del concordato preventivo. La finalità della postergazione e l’obbligo della restituzione risulterebbero infatti frustrati qualora si consentisse anche nei loro confronti la esclusione della revocatoria. In sostanza, in base a tale principio applicabile in presenza di una procedura concorsuale, si è inteso

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vietare, attraverso il meccanismo della postergazione, il pagamento in pregiudizio degli altri creditori, assimilandosi in tal modo ai fini in esame i finanziamenti ai conferimenti nel capitale di rischio. In tale contesto normativo non è consentito ritenere quindi che siano portatori di “interessi economici omogenei” i soci finanziatori ed i terzi creditori e non può considerarsi quindi rispondente alla previsione di legge il loro inserimento nel piano. Trattandosi però pur sempre di creditori, da soddisfare eventualmente dopo l’estinzione degli altri crediti, non si esclude la possibilità di deroga al principio della postergazione, ma ciò può avvenire solo con il consenso della maggioranza di ciascuna classe e non già, come sembra sostenere la Corte d’Appello, con il solo consenso della maggioranza assoluta del totale dei crediti chirografari. La tutela degli interessi delle minoranze, allorché esprimano il loro dissenso ottenendo la maggioranza nell’ambito della loro classe, esige infatti la puntuale applicazione del principio della postergazione e l’impossibilità quindi di inserimento dei soci finanziatori nelle classi medesime. Le esposte considerazioni, frutto della interpretazione del combinato disposto di cui alla l. fall., art. 160, co. 1, lett. c), nella nuova formulazione e art. 2467 c.c., co. 1, trovano però un temperamento

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nello stesso art. 2467 c.c., il quale al secondo comma limita l’applicabilità del principio della postergazione a quei finanziamenti effettuati dai soci a favore della società sotto qualsiasi forma “in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società rispetto alla quale sarebbe stato ragionevole un conferimento”. In ordine a tale ulteriore questione, certamente rilevante ai fini della decisione e che richiede in via preventiva un accertamento di fatto, la Corte d’Appello non ha operato alcun richiamo della norma né, a maggior ragione, ha effettuato alcuna valutazione e tale omissione risulta puntualmente censurata nel motivo di ricorso in esame (vedi pagg. 56 e 67 del ricorso) in cui viene sottolineata la necessità di verificare se i finanziamenti siano stati effettuati nel contesto di una situazione riconducibile al secondo comma dell’art. 2467 c.c., il cui contenuto è stato testé riportato. Si impone pertanto da parte del giudice di rinvio una verifica finalizzata ad accertare la presenza delle condizioni richieste da tale normativa per affermare od escludere la applicabilità del principio della postergazione. Né potrebbe tenersi conto, allo stato, anche della l. fall., art. 177,


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nella formulazione introdotta con decorrenza 16.3.2005 dal d.l. n. 35 del 2005, art. 2, convertito con modifiche dalla l. n. 80 del 2005, al quale eventualmente dovrebbe farsi riferimento “ratione temporis” in presenza dell’espressa previsione di cui all’art. 22 co. 2 del cosiddetto decreto correttivo (d.lgs. n. 169 del 2007) che la nuova formulazione adottata con l’art. 15 ha limitato alle procedure concorsuali ed a quelle di concordato fallimentare aperte successivamente alla sua entrata in vigore (1.1.2008). In base alla formulazione introdotta con d.l. n. 35 del 2005, infatti, nell’ipotesi in cui siano previste diverse classi di creditori, è necessaria la maggioranza all’interno di ciascuna classe (vedi co. 1 ultima parte); ma al secondo comma è previsto, per l’ipotesi che tale maggioranza non si raggiunga in una o più classi, un ulteriore intervento del Tribunale il quale, “riscontrata la maggioranza di cui al comma 1”, vale a dire quella dei crediti complessivi ammessi al voto di cui alla prima parte, può ugualmente approvare il concordato qualora ritenga che i creditori appartenenti alle classi dissenzienti possano risultare soddisfatti dal concordato in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili. Ma un tale eccezionale intervento da parte del Tribunale può giustificarsi solo in presenza di una procedura non inficiata da vizi che ne determinano l’invali-

dità, non potendosi certamente ritenere che essa venga sanata da eventuali valutazioni positive di merito sulla convenienza del concordato. Diversamente il controllo di legalità, cui si è fatto riferimento in premessa ed al quale il giudice non può sottrarsi, sarebbe sostanzialmente vanificato. Orbene, il carattere indisponibile del principio della postergazione di cui all’art. 2467 c.c., non consente, nel caso in cui risulti accertata da parte del giudice di rinvio la sua violazione con riferimento ad entrambi i commi, l’esercizio da parte del Tribunale dei poteri previsti dalla l. fall., art. 177. Trattasi quindi di un problema successivo che potrà essere affrontato qualora risulti superata la censura sulla postergazione sulla base dell’art. 2467 c.c., co. 2. L’accoglimento del presente motivo di ricorso e la necessità di un riesame da parte del giudice di rinvio in ordine all’applicabilità del principio della postergazione comportano l’assorbimento del terzo motivo, riguardante la dedotta falsità dei bilanci relativi agli anni 2003 (che sarebbe stata già accertata in altro giudizio) e 2004 (il cui giudizio sarebbe ancora pendente) nonché l’asserita sottovalutazione delle poste attive in conseguenza della loro erronea appostazione in violazione dell’art. 2423 c.c. Trattasi infatti di valutazione che presuppone un giudizio positivo sulla corretta suddivisione in classi dei creditori con rife-

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rimento agli argomenti esaminati in relazione al precedente motivo. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della l. fall., artt. 124 e 160; art. 1344 c.c. Lamentano che la Corte d’Appello abbia ritenuto applicabile al concordato preventivo la limitazione di responsabilità dell’assuntore nonostante la l. fall., art. 124, la consenta unicamente per il piano di concordato fallimentare proposto dal terzo e malgrado l’impossibilità di un’applicazione analogica in presenza di una norma eccezionale, di una diversità di “ratio” fra le due fattispecie e di una proposta proveniente sostanzialmente dallo stesso imprenditore in crisi e comportante un risanamento soggettivo in quanto la società CA.RO.MA., di recentissima costituzione, è costituita dai soci Ca. e C., quest’ultimo anche amministratore unico, che fanno parte del gruppo di controllo di Montichiaro. Deducono altresì l’insufficienza della motivazione sulla distinta soggettività giuridica della CA.RO. MA. poichè, a seguito della significativa sottovalutazione dell’attivo di Montichiaro, gli amministratori, attraverso CA.RO.MA., riuscirebbero, dopo aver cagionato la crisi della Montechiaro in danno degli altri creditori, ad acquisire le quote della controllata Charomonte. La censura è infondata. La l. fall., art. 160, diversamente dalla l. fall., art. 124, anch’esso

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novellato dal d.lgs. n. 5 del 2005 (vedi art. 114), non prevede espressamente che l’assuntore “possa limitare gli impegni assunti ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, ed a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta”. Una tale diversità può spiegarsi con l’assenza, nel concordato preventivo, di una verifica giudiziale dei crediti e del conseguente stato passivo. La questione è comunque irrilevante nel caso in esame, rientrando i ricorrenti fra i creditori ammessi alla procedura, il cui soddisfacimento viene assicurato nei limiti della percentuale prevista per la classe in cui sono stati inseriti e subordinatamente all’approvazione del piano da parte dei creditori. Il problema quindi si sposta pur sempre sulla validità di tale approvazione con riferimento ai problemi affrontati in relazione al secondo motivo. Le conseguenze di carattere negativo potrebbero, semmai riflettersi sui creditori che non abbiano preso parte alla procedura, ma in tal caso non v’è motivo perchè non possa trovare applicazione l’ultima parte del richiamato l. fall., art. 124, in base al quale, in deroga alla falcidia operata dalla l. fall., art. 184, “verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito” (nel caso in esame il debitore) nei cui confronti non opera pertanto l’efficacia “erga omnes” prevista da detta l. fall., art. 184.


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Risulta in tal modo superata ed assorbita l’ulteriore questione, prospettata sempre ai fini in esame della supposta illegittimità della limitazione della responsabilità dell’assuntore, riguardante il dedotto conflitto d’interessi che sussisterebbe tra la società ammessa al concordato preventivo e quella propostasi come assuntrice. Con il quinto motivo infine i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione della l. fall., art. 181, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Lamentano che la Corte d’Appello abbia ritenuto di natura ordinatoria il termine di sessanta giorni previsto dalla l. fall., art. 181, e considerato tempestivo il decreto di omologa malgrado fosse stato emesso oltre la scadenza di detto termine sulla base della proroga al 31.10.2006 disposta dal Tribunale sull’erroneo presupposto dell’applicabilità della sospensione feriale dei termini e della loro natura processuale. Anche tale censura è infondata. La novellata l. fall., art. 181, prevede che l’omologazione del concordato debba intervenire nel termine di mesi sei dalla presentazione del ricorso contenente la proposta (art. 161) e che tale termine possa essere prorogato di sessanta giorni e per una sola volta dal Tribunale. Nel caso in esame risulta che il ricorso è stato presentato in data 17.1.2006 e la proroga è intervenuta con provvedimento del 25.5.2006, con la conseguenza che

gli otto mesi sono scaduti (senza considerare la sospensione del periodo feriale) il 17.9.2006, mentre il decreto di omologazione porta la data del 17-31.10.2006. Mancando un’espressa previsione sulla natura del termine, si pone il problema di valutare se trattasi di termine perentorio od ordinatorio. Ora, sebbene la finalità della previsione del termine sia da individuare nella necessità di tutelare l’interesse dei creditori alla pronta realizzazione dei loro diritti e che ciò potrebbe far propendere, unitamente alla previsione circa la possibilità di proroga per una sola volta e per un periodo ben definito, per la sua natura perentoria, ritiene il Collegio che non possa prescindersi dal principio espresso dall’art. 152 c.p.c., co. 2, in base al quale i termini devono considerarsi perentori solo se espressamente dichiarati tali dalla legge. Il termine persegue quindi in tal caso solo lo scopo di ribadire il principio di speditezza cui il procedimento deve comunque informarsi. In ogni caso, premesso che trattasi certamente di termine processuale in quanto volto a contenere la durata del procedimento, milita ai fini della soluzione positiva in ordine alla tempestività del decreto di omologazione l’ulteriore argomento dell’applicabilità alla procedura in esame della sospensione feriale. Al riguardo, in verità, si è formata una giurisprudenza contra-

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stante (per la tesi affermativa Cass. 8097/92; Cass. 4541/93; per la tesi opposta. Cass. 2139/04; Cass. 970/95). Il convincimento circa l’applicabilità della sospensione feriale – basata nelle prime decisioni sulla natura eccezionale della deroga alla regola della sospensione limitata ai procedimenti per la dichiarazione di fallimento e per la relativa revoca e sulla conseguente impossibilità di una interpretazione analogica nonché sul carattere autonomo della procedura di concordato preventivo rispetto al successivo fallimento – trova ora una conferma nella l. fall., art. 36 bis, introdotto con decorrenza 16.7.2006 dal d.lgs. n. 5 del 2006, art. 33, il quale, stabilendo che non sono soggetti alla sospensione feriale i termini processuali di cui ai precedenti artt. 26 e 36, consente sulla base di un argomento “a contrario” di ritenere applicabile invece la sospensione per tutti gli altri procedimenti, compreso quindi quello per l’omologazione del concordato.

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L’accoglimento, sia pure in parte, del ricorso principale ed il rinvio della causa alla Corte d’Appello comportano l’assorbimento del ricorso incidentale relativamente alla questione riguardante la compensazione delle spese disposta dalla sentenza impugnata, mentre per quanto riguarda l’ulteriore specifica doglianza con cui è stato dedotto l’intervenuto giudicato per mancata tempestiva impugnazione del decreto di proroga dei termini e del decreto di fissazione dell’udienza in Camera di consiglio, si è già avuto modo di argomentare in relazione alle eccezioni pregiudiziali di inammissibilità in cui, fra l’altro, sono state prospettate entrambe le questioni finalizzate alla supposta formazione del giudicato. L’impugnato decreto va pertanto cassato in relazione al motivo accolto con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla stessa Corte d’Appello di Bologna in diversa composizione che si uniformerà al principio accolto in ordine a tale motivo. (omissis)


Daniele Vattermoli

(1-2) Subordinazione legale ex art. 2467 c.c. e concordato preventivo

Sommario: 1. Premessa. – 2. Critica al ragionamento della Corte. Formazione delle classi di creditori in presenza di crediti subordinati. – 3. Tutela di classe e tutela individuale dei creditori dissenzienti. – 4. Crediti subordinati e diritto di voto.

1. Premessa. A. Con la sentenza qui commentata la Suprema Corte affronta, a quanto consta per la prima volta, la delicata questione concernente la formazione delle classi di creditori nell’ambito del nuovo concordato preventivo (così come modificato dalla l. n. 80/2005), in presenza di crediti subordinati ex art. 2467 c.c. . Si tratta di un tema che, a parere

In questa sede non è possibile trattare adeguatamente il tema, in generale, della postergazione dei c.d. prestiti sostitutivi di capitale, in ipotesi di “sottocapitalizzazione nominale” della società. La letteratura, sul punto, è vasta: per i contributi successivi alla riforma del 2003, si può qui rinviare, tra gli altri, a Bonfatti, Prestiti da soci, finanziamenti infragruppo e strumenti «ibridi» di capitale, in Il rapporto banca-impresa nel nuovo diritto societario, a cura di Bonfatti e Falcone, Milano, 2004, pp. 255 ss.; Fazzutti, Commento sub art. 2467, in La riforma delle società, a cura di Sandulli, Santoro, Torino, pp. 49 ss.; G. Ferri jr., In tema di postergazione legale, in Riv. dir. comm., 2004, I, pp. 969 ss.; Maugeri, Finanziamenti «anomali» dei soci e tutela del patrimonio nelle società di capitali, Milano, 2005; Portale, I «finanziamenti» dei soci nelle società di capitali, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, I, pp. 663 ss.; Id., Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, in Trattato S.p.A., a cura di Colombo e Portale, I**, Torino, 2004, pp. 1 ss.; Presti, Art. 2467, Finanziamenti soci, in Codice commentato delle s.r.l., a cura di Benazzo e Patriarca, Torino, 2006, pp. 98 ss.; Terranova, Commento sub art. 2467, in Niccolini e Stagno d’Alcontres, Società di capitali, Commentario, Napoli, 2004, pp. 1449 ss.; Tombari, «Apporti spontanei» e «prestiti» dei soci nelle società di capitali, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, I, Torino, 2006, pp. 557 ss.; Vassalli, Sottocapitalizzazione delle società e finanziamenti dei soci, in Riv. dir. impr., 2004, pp. 267 ss.; Zoppini, La nuova disciplina dei finanziamenti dei soci nella società a responsabilità limitata e i prestiti provenienti da “terzi” (con particolare riguardo alle società fiduciarie), in Riv. dir. priv., 2004, pp. 417 ss.

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di scrive, in futuro potrà avere grande rilevanza pratica e la cui emersione, va subito anticipato, evidenzia l’assoluta inadeguatezza dell’impianto disciplinare risultante dalle riforme del 2005-2007. In questo impianto, com’è noto, è stata completamente ignorata la questione concernente il trattamento concorsuale dei crediti subordinati, ciò che, come si vedrà, genera problemi di non poco momento proprio nell’ipotesi concordataria: il sempre maggiore utilizzo, nella prassi, di accordi di subordinazione, in uno con la previsione di ipotesi di postergazione legale dei crediti (ex artt. 2467 e 2497-quinquies c.c.), rendono pertanto urgente un nuovo intervento del legislatore per colmare la lacuna così creatasi. B. Il caso sottoposto all’esame del giudice di legittimità può essere così sintetizzato: - la società a responsabilità limitata (in liquidazione) debitrice propone domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, allegando un piano che prevede, tra l’altro, la cessione dell’intero attivo ad un assuntore e la suddivisione dei creditori in quattro classi, così formate: classe n. 1), creditori privilegiati, da soddisfare al 100%; classe n. 2), crediti chirografari vantati da banche e dai soci fideiussori già escussi dagli istituti di credito, da soddisfare nella misura del 35%; classe n. 3), altri creditori chirografari, da soddisfare nella misura del 50%; classe n. 4), crediti per finanziamenti concessi dai soci alla società, da soddisfare nella misura del 3%; - la suddivisione così operata passa il primo vaglio del tribunale ed ottiene le maggioranze prescritte per l’approvazione, risultando dissenziente soltanto una classe di creditori; - i creditori inseriti nella classe dissenziente propongono opposizione all’omologazione evidenziando, tra l’altro, l’illegittima formazione delle classi: gli opponenti, in particolare, facendo perno sull’indisponibilità della regola della postergazione posta dall’art. 2467 c.c., in tema di finanziamenti dei soci alla s.r.l., ritengono, da un lato, non omogenei i crediti inseriti nella classe n. 2), attesa la (supposta) natura subordinata dei crediti vantati dai soci escussi, e non ammissibile il soddisfacimento parziale di quelli inseriti nella classe n. 4), ugualmente (suppostamente) subordinati, in presenza di un pagamento non integrale dei chirografari; e, dall’altro, che la restituzione, ex art. 2467, co. 1 c.c., del “rimborso”

Il decreto di ammissione alla procedura (Trib. Bologna, 26 gennaio 2006) è pubblicato in Il fallimento, 2006, 676 ss., con nota di Panzani, La postergazione dei crediti nel nuovo concordato preventivo.

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ottenuto in sede concordataria dai soci, in caso di successivo fallimento della società, non sarebbe giuridicamente ammissibile, stante l’esonero dalla revocatoria degli “atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo”, di cui all’art. 67, co. 3, lett. e) l. fall.; - il tribunale, nonostante l’opposizione, su parere favorevole del commissario giudiziale, omologa il concordato; - gli opponenti impugnano il decreto in Corte d’Appello per gli stessi motivi evidenziati nell’atto di opposizione all’omologazione; - la Corte d’Appello rigetta il gravame; contro il decreto di rigetto viene proposto ricorso in Cassazione. C. La Suprema Corte accoglie il ricorso, affermando l’illegittimità della formazione della classe che contiene al suo interno creditori chirografari e creditori subordinati, in quanto non omogenea ai sensi e per gli effetti dell’art. 160, co. 1, lett. c), l. fall. Va peraltro sottolineato che nei precedenti gradi del giudizio non v’era stato alcun accertamento circa la natura subordinata dei crediti vantati dai soci fideiussori nei confronti della società, avendo i giudici di merito ritenuto non rilevante tale aspetto ai fini dell’omologazione del concordato: per tale motivo, la sentenza rimette al giudizio della Corte di rinvio la questione concernente l’esatta qualificazione del credito dei soci .

Sarà peraltro interessante verificare come la Corte d’Appello di Bologna valuterà la posizione dei soci fideiussori escussi, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2467 c.c., atteso che, secondo i principi generali, il socio dovrebbe ricoprire, rispetto alla società, la stessa posizione in precedenza occupata dalla banca finanziatrice. Sarà dunque necessario, in primo luogo, stabilire se per mezzo dell’escussione si sia realizzato un “finanziamento” da parte del socio alla società (in senso affermativo dovrebbe militare l’ampia formula utilizzata dalla legge, che parla di “finanziamenti…, in qualsiasi forma effettuati”); e, in secondo luogo, dovrà stabilirsi il momento da prendere in considerazione ai fini della verifica delle condizioni poste dal co. 2 dell’art. 2467 c.c. Con riguardo a quest’ultimo aspetto, sembrerebbe, a prima vista, rilevante il momento in cui avviene il pagamento a favore del creditore garantito, anche perché, prima di quel momento, non si potrebbe neanche parlare di finanziamento del socio alla società. Considerando, però, che il pagamento si atteggia come adempimento di un obbligo contrattualmente assunto dal socio all’atto del rilascio della garanzia, allora non è da escludersi che sia questo il momento rilevante ai sensi dell’art. 2467, co. 2. Detto in altri termini: è vero che l’esborso si ha al momento dell’escussione, ma in quel momento il socio non può più sottrarsi all’adempimento nei confronti del creditore garantito, mentre l’alternativa tra “finanziamento” e aumento di capitale, per il socio, si ha all’atto della nascita del credito del terzo e dell’obbligazione fideiussoria. A conforto di quanto

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2. Critica al ragionamento della Corte. Formazione delle classi di creditori in presenza di crediti subordinati. In via di prima approssimazione può dirsi che il risultato a cui approda la Suprema Corte nella sentenza qui commentata è senz’altro condivisibile; molto meno convincenti sono, invece, i passaggi logico-giuridici che ne sono a fondamento, dai quali, anzi, emerge una certa confusione, determinata, probabilmente, dalla novità del caso sottoposto al suo vaglio. A. A non convincere, in primo luogo, è il fatto che la Corte, nel valutare la correttezza della suddivisione in classi in presenza di creditori subordinati, fondi il suo giudizio esclusivamente sulla omogeneità o meno degli interessi economici di cui sono portatori i singoli creditori inseriti nella medesima classe; mentre nessun peso viene dato, nella specie, all’altro criterio posto dall’art. 160, co. 1, lett. c), l. fall., concernente la posizione giuridica da essi ricoperta . È fuor di dubbio che, anche in assenza della norma di cui all’art. 2467 c.c., l’interesse economico che muove il socio finanziatore non potrebbe mai essere considerato omogeneo con quello di cui è portatore il creditore-terzo rispetto alla società finanziata; e per convincersene è

sostenuto, si immagini questa situazione: cosa accade se, constata l’insufficienza del patrimonio della società al momento della scadenza del credito del terzo garantito, il socio fideiussore, per evitare l’escussione del proprio patrimonio, decidesse, insieme agli altri componenti della compagine societaria, di aumentare il capitale sociale per una somma, a carico del fideiussore, pari all’importo del credito vantato dall’istituto di credito e, ciò nonostante, non si riuscisse comunque a soddisfare il creditore garantito? La successiva escussione del patrimonio personale del socio farebbe di quest’ultimo un creditore subordinato della società: seguendo questa impostazione l’alternativa tra mezzi propri e mezzi di terzi nel finanziamento dell’attività di impresa, vero punto nevralgico della disciplina sui prestiti dei soci, non potrebbe comunque giocare a favore del socio fideiussore, anche qualora scegliesse la via dell’aumento del capitale. In ultimo, va detto che se il momento rilevante fosse quello del pagamento da parte del socio, non avrebbe neanche senso porsi il problema – che invece si pone la Corte di Cassazione nella sentenza qui commentata – di accertare la sussistenza delle condizioni poste dall’art. 2467, co. 2 ai fini della subordinazione, atteso che l’insufficienza del patrimonio della società, attestata dall’escussione del patrimonio personale del socio, evidenzia, ex se, l’eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto sociale. Sul tema della formazione delle classi dei creditori in ambito concordatario, v. l’ampio studio di Sciuto, La classificazione dei creditori nel concordato preventivo (riflessioni comparatistiche), in Giur. comm., 2007, I, pp. 566 ss.

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sufficiente pensare ai vantaggi, in termini di utili, che dalla proficua utilizzazione del finanziamento da parte della società può ricavare il primo, ma non il secondo. Ma proprio l’esistenza della disposizione codicistica rende, invero, anche la sua (del socio) posizione giuridica del tutto disomogenea rispetto a quella ricoperta dagli altri creditori. L’effetto postergativo determinato dalla norma testé menzionata, infatti, producendo l’arretramento del rango del credito vantato dal socio, ne riduce il c.d. “valore relativo” o “concorsuale” , per tale intendendosi il valore del credito calcolato in base alla possibilità di soddisfacimento dello stesso, in ipotesi di concorso con altri crediti sul patrimonio del debitore comune. Il che, come detto e come si tenterà di spiegare subito appresso, non può non reagire sulla posizione giuridica del titolare del credito subordinato. Il ragionamento (implicito) della Corte, sul punto, svela una visione troppo formalistica delle cause legittime di prelazione, come queste vengono definite dall’art. 2741, co. 2 c.c. In particolare, la Corte ritiene di potersi disinteressare del criterio della “posizione giuridica”, interpretato come riferentesi alla dicotomia “creditori privilegiati (recte, che vantano cause legittime di prelazione)-creditori chirografari”, in quanto, soddisfatti per intero i primi, tutti gli altri (compresi, appunto, i subordinati) rientrerebbero nella medesima categoria (id est, coloro che non vantano cause legittime di prelazione). Se però, in luogo di soffermare l’attenzione sul dato letterale dell’art. 2741, co. 2 c.c. si va ad esplorare la sostanza del sistema di graduazione dei crediti, ci si accorge che le cause legittime di prelazione assolvono essenzialmente alla funzione di “separare” una parte del patrimonio del debitore, rispetto alla quale il creditore “privilegiato” ha il diritto di soddi-

Che ogni credito, al momento dell’apertura del concorso sul patrimonio del debitore comune, debba essere valutato in base al proprio valore relativo, considerando, cioè, da un lato, il volume di rischio ex ante dallo stesso incorporato (che può dipendere o dalla volontà delle parti, attraverso, ad esempio, il rilascio di garanzie reali da parte del debitore o, all’opposto, la stipulazione di accordi di subordinazione; oppure dall’“interferenza”, nel mercato del credito, di una norma di legge, ed è il caso dei privilegi o della postergazione legale) e, dall’altro, la consistenza quali/quantitativa della restante massa dei creditori, è un concetto impiegato per primo da Jackson, The Logic and Limits of Bankruptcy Law, Cambridge, 1986, pp. 27-33, poi ripreso da moltissimi altri autori, tra i quali cfr., per tutti, Rasmussen, An Essay on Optimal Bankruptcy Rules and Social Justice, in 1 Univ. Ill. L. Rev., 1994, pp. 1 ss. (in part. pp. 10 ss.).

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sfarsi prima degli altri. Se così è, non pare dubbio, allora, che nel sistema di graduazione dei crediti debbano essere inseriti, come categoria a sé stante, i crediti subordinati: rispetto a questi ultimi, infatti, i crediti non ugualmente subordinati vantano un privilegio, nel senso appena specificato, esteso su tutti i beni – mobili, immobili ed immateriali – e diritti compresi nel patrimonio del debitore comune. In altri termini, non sbaglia chi, nell’inquadrare correttamente i creditori subordinati nell’ambito delle cause di prelazione, li definisce “anti-privilegiati” o “ipo-privilegiati” . I titolari di crediti (assolutamente) subordinati , dunque, non pos-

In questo senso, Garrido, Créditos subordinados, in Comentario de la Ley Concursal, a cura di Rojo, Beltrán, I, Madrid, 2004, p. 1659: “La subordinación es el reverso de la preferencia”. Il discorso sin qui svolto si riferisce ai crediti assolutamente subordinati: ossia i crediti che, nell’ordine di soddisfacimento sul patrimonio del debitore, vengono dopo tutti gli altri crediti non ugualmente subordinati (ciò che si realizza, sempre, per effetto della subordinazione legale, ma che può costituire anche oggetto degli accordi di subordinazione convenzionale). Le cose cambiano, ed anche sensibilmente, in ipotesi di crediti relativamente subordinati: ossia i crediti che risultano subordinati soltanto rispetto ad un altro credito o ad una cerchia ristretta di crediti. Nonostante, infatti, parte della dottrina (e cfr., per tutti, Vanoni, I crediti subordinati, Torino, 2000, p. 160, nt. 20) ritenga che, per effetto del particolare operare dei principi concorsuali (primo fra tutti, la scadenza anticipata dei crediti, ma anche la par condicio creditorum), la subordinazione relativa si trasformi in una subordinazione assoluta, fintanto che non sia stato soddisfatto per intero il creditore c.d. senior, in realtà il creditore relativamente subordinato deve essere trattato, all’interno del concorso, come un qualunque altro creditore non subordinato, e gli effetti della postergazione debbono andare a vantaggio dei soli creditori senior rispetto a quest’ultimo. In altri termini, la disciplina “speciale” dei crediti relativamente subordinati deve esaurirsi nell’ambito della ripartizione della massa attiva. A tal fine, l’unico meccanismo che evita la c.d. dilution (ossia, la “diluizione” dei vantaggi, per il beneficiario della postergazione, dovuta all’apertura del concorso) e che consente, da un lato, di non danneggiare il creditore junior e quello senior e, dall’altro, di non avvantaggiare indebitamente tutti gli altri creditori non senior, è quello che gli americani chiamano double dividend system, che funziona, in sintesi, nel seguente modo: nei riparti parziali, il senior ottiene il proprio dividendo ed in più quello che spetterebbe al junior; tale ultimo riparto è assegnato al senior ma è imputato al junior; se, per effetto dei doppi dividendi il senior ottiene la completa soddisfazione del suo credito, il junior partecipa ai riparti successivi, surrogandosi nelle ragioni del senior (è come se la differenza tra l’ammontare complessivo del credito e quanto ottenuto dal senior dai riparti parziali che a lui erano dovuti in base alle regole concorsuali fosse stata pagata dal junior, che così può surrogarsi per tale differenza, che si somma all’importo a lui dovuto in virtù dei successivi riparti endoconcorsuali). In tal modo, come è evidente, la subordinazione convenzionale relativa avvantaggia soltanto il senior (l’unico che, rispetto agli altri creditori dello stesso rango, aveva un valore relativo, ex ante, più elevato, inglobando un minore volume di rischio), mentre nessun nocumento viene sofferto dalla restante massa dei creditori

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sono essere collocati in una classe comprensiva anche di crediti non ugualmente postergati – e ciò, indipendentemente dal fatto che la subordinazione (assoluta) derivi, come nel caso in esame, dalla legge o sia invece l’effetto voluto dalle parti – essendo la loro posizione giuridica non omogenea, ai sensi e per gli effetti dell’art. 160, co. 1, lett. c), l. fall. B. La confusione più grave in cui incorre il giudice di legittimità, però, si riscontra in ordine agli effetti che produce la violazione del criterio di omogeneità nella formazione delle classi. a) Seguendo una parte del ragionamento della Corte sembrerebbe che la violazione della norma in tema di formazione delle classi, in presenza di creditori legalmente subordinati, debba condurre invariabilmente al rigetto del piano concordatario o, in un momento cronologicamente successivo, al rifiuto dell’omologazione, traducendosi ciò in un vizio del procedimento. Nella sentenza si legge, infatti, da un lato, che il principio della postergazione ex art. 2467 c.c. è indisponibile dalle parti e, dall’altro, che il c.d. cram-down (ex art. 177, co. 2 l. fall., nella formulazione anteriore al decreto correttivo del 2007), ossia la possibilità concessa al tribunale di omologare un piano pur nel dissenso di una o più classi di creditori (purché la maggioranza delle classi sia assenziente), può essere esercitato soltanto quando la procedura non risulti inficiata da vizi – quale, appunto, l’illegittima formazione delle classi – che ne determinano l’invalidità. b) In altra parte della sentenza si legge, viceversa, che in realtà il principio (recte, regola) della postergazione legale è derogabile dalle parti e che, a tal fine, è necessario (e sufficiente) il consenso della maggioranza

(sul punto cfr., per tutti, Carlson, A Theory of Contractual Debt Subordination and Lien Priority, in 38 Vand. L. Rev., 1985, pp. 975 ss., in part. pp. 982 ss.). Quanto affermato ha poi altre rilevanti conseguenze, che non è possibile esplorare compiutamente in questa sede, come quella in ordine, ad esempio, alla sorte delle garanzie che dovessero accedere al credito relativamente subordinato. Mentre, infatti, il credito assolutamente subordinato perde ogni forma di garanzia o privilegio sul patrimonio del debitore, quello relativamente subordinato continua a godere della causa legittima di prelazione, di essa giovandosi, in prima battuta, il creditore senior e poi, eventualmente, lo stesso creditore junior (in dipendenza dell’importo del credito garantito da quest’ultimo vantato rispetto al valore nominale del credito senior). In caso di concordato, la percentuale riconosciuta al creditore junior deve essere attribuita al senior, sempre nei limiti dell’importo nominale del credito di quest’ultimo e fermo restando l’inserimento del junior nella classe di appartenenza – in caso di suddivisione in classi –, tenuto conto del rango originario del credito (quindi tra i privilegiati, se vanta una causa legittima di prelazione).

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dei crediti calcolata con riferimento a ciascuna classe. Con il risultato, allora, che la violazione dell’art. 160, co. 1, lett. c), l. fall. non potrebbe portare ad un rigetto d’ufficio del piano concordatario, potendo operare soltanto come motivo di opposizione all’omologazione rilevabile, altresì, soltanto dai creditori dissenzienti inseriti in una classe a sua volta dissenziente. Questa seconda parte del ragionamento della Corte – che si pone in perfetta antitesi con i principi di diritto enunciati in precedenza dallo stesso giudice di legittimità – sembra, a chi scrive, viziata da illogicità. L’art. 160, co. 1, lett. c), l. fall. si pone come limite (a monte, si direbbe) all’autonomia del proponente nel modellare il piano concordatario che, in quanto tale (ossia, limite), non può evidentemente essere aggirato mediante l’accettazione degli aventi diritto al voto; tanto meno la deroga può essere ammissibile qualora si ritenga, come sembra ritenere la Corte, che a tal fine sia sufficiente la semplice maggioranza dei crediti. In presenza della violazione di detto limite il tribunale, in virtù del potere di controllo di legalità che gli compete, non solo può, ma deve rifiutare d’ufficio l’ammissione alla procedura. E se, nonostante il vizio, la procedura dovesse giungere sino alla fase di omologazione, ciascun creditore dissenziente, indipendentemente dall’essere collocato in una classe che abbia o meno accettato il piano, può opporsi adducendo, appunto, l’irregolarità del procedimento; così come, di nuovo, potrebbe (dovrebbe) il tribunale, sempre d’ufficio, una volta rilevato il vizio, rifiutare l’omologazione, pur in assenza di opposizioni e pure nell’ipotesi in cui tutti i creditori avessero accettato la proposta. C. La Corte non sbaglia, invece, nell’inquadrare la relazione esistente tra i pagamenti ricevuti dal socio in ambito concordatario e l’esenzione posta dall’art. 67, co. 3, lett. e) l. fall. Nella sentenza si legge, infatti, che l’obbligo di restituzione del rimborso a favore del curatore della società fallita, ex art. 2467, co. 1 c.c., opera anche con riferimento ai pagamenti ricevuti dal socio in esecuzione di un precedente concordato. Il giudice di legittimità giunge a tale risultato evidenziando la mens legis sottesa all’introduzione della regola della postergazione, la quale verrebbe per così dire “tradita” qualora si ritenesse operante la norma esimente dalla revocatoria anche rispetto ai pagamenti ricevuti dal socio in ambito concordatario. Sul punto, sarebbe però stato meglio – ed anche più semplice – richiamare l’eccezionalità delle esenzioni contenute nel co. 3 dell’art. 67, l. fall., le quali valgono (debbono valere) solo rispetto agli atti (i pagamenti, le garanzie, ecc.) contemplati nei precedenti due com-

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mi dello stesso art. 67 . Atti ai quali non potrebbe mai essere ricondotta la fattispecie disciplinata dall’art. 2467, co. 1 c.c. – che solo in punto di effetti richiama l’istituto revocatorio –, nella quale, a tacer d’altro, non assume alcuna rilevanza l’elemento psicologico (centrale, invece, nel sistema delineato dall’art. 67), dato dalla conoscenza, da parte del socio, dello stato di insolvenza in cui versava la società al momento del pagamento.

3. Tutela di classe e tutela individuale dei creditori dissenzienti. La sentenza in commento, poi, non prende posizione – per lo meno, non in modo esplicito – su un altro aspetto, pure importante e portato all’attenzione della Corte: quello concernente il trattamento economico da riservare ai creditori subordinati. Al di là, infatti, della correttezza o meno dei criteri utilizzati per la formazione delle classi, resta il dubbio se, in presenza di una o più classi di creditori chirografari soddisfatti parzialmente, sia possibile prevedere una qualche forma di pagamento a favore della classe dei subordinati. Posto che, in caso di liquidazione concorsuale (e successiva ripartizione) del patrimonio del debitore ai subordinati nulla può essere riconosciuto se non dopo l’integrale soddisfacimento dei chirografari (e, prima, dei privilegiati), ci si deve chiedere se, in ambito concordatario, la suddivisione in classi dei creditori possa portare al risultato di derogare, ed entro quali limiti, al sistema “comune” di graduazione dei crediti. Vediamo, in primo luogo, le disposizioni che entrano in giuoco. Con la riforma del 2005, com’è noto, si è data la possibilità al proponente di prevedere un trattamento differenziato tra varie classi di creditori, anche quando i crediti appartenenti a dette classi presentino il medesimo rango; con l’ultimo intervento del 2007, poi, si è data la possibilità di prevedere un soddisfacimento in percentuale dei privilegiati (per una somma, però, non inferiore al valore del bene o diritto sul quale insiste la garanzia), con la precisazione che, in ogni caso, la suddivisione in classi non può condurre ad una alterazione delle cause legittime di prelazione (art. 160, co. 2, in fine).

In questo senso, da ultimo, A. Nigro, Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Le procedure concorsuali, Bologna, 2009, p. 168.

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Orbene, anche se la sentenza qui in commento è resa con riferimento alla disciplina introdotta dalla l. n. 80/2005, sembra corretto ritenere che, anche prima del decreto “correttivo”, la suddivisione in classi, pur potendo portare ad una deroga della regola di proporzionalità nel soddisfacimento di crediti del medesimo rango, non avrebbe potuto comunque condurre ad un’alterazione delle cause legittime di prelazione. Ed invero, nessuna disposizione – oggi come ieri – autorizza l’imposizione ai creditori, da parte del proponente, di un arretramento del rango dei loro diritti di credito; per “derogare” al sistema delle cause legittime di prelazione è infatti necessaria una manifestazione espressa e preventiva del creditore, con la quale esso rinunci al proprio privilegio (art. 177, co. 2). Anche la possibilità della previsione di un pagamento in percentuale dei privilegiati non altera, a ben vedere, le cause legittime di prelazione: imponendo un soddisfacimento di questi ultimi pari almeno al valore del bene sul quale insiste la garanzia, la norma non fa altro che separare la parte del credito “garantita” da quella “chirografaria” , consentendo, in definitiva, di agire solo su quest’ultima, posta sullo stesso piano degli altri crediti del medesimo rango (chirografario, appunto). Soltanto una volta resi omogenei (quanto a rango) i crediti si può prevedere un trattamento differenziato e, quindi, derogare alla regola di proporzionalità. Ciò che, riguardato nell’ottica definibile sostanzialistica delle cause legittime di prelazione, dovrebbe condurre al risultato di non consentire una suddivisione in classi che preveda un soddisfacimento dei subordinati in assenza di un pagamento integrale dei chirografari 10. Tale interpretazione risulta, poi, vieppiù giustificabile, anche e soprattutto in prospettiva futura, qualora si dovesse accedere all’orientamento – che sembrerebbe accolto, seppure implicitamente, anche dalla sentenza in commento – che, sulla scorta della lettera della legge, nega ai creditori dissenzienti, inseriti in una classe assenziente, la tutela offerta dall’opposizione al concordato fondata sulla convenienza economica della proposta. E’ noto, infatti, che il legislatore della riforma ha espressamente riservato ai soli creditori dissenzienti, inseriti in una classe a sua volta dissenziente, la possibilità di opporsi all’omologazione adducen-

È la regola della c.d. bifurcation dei crediti privilegiati in ambito concorsuale, sulla quale v., tra gli altri, Carlson, Bifurcation of Unsecured Claims in Bankruptcy, in 70 A. Bankr. L.J., 1996, pp. 1 ss. 10 Nello stesso senso, in giurisprudenza, Trib. Messina (decreto), 26 gennaio 2006, in Il fallimento, 2006, 678.

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do la non convenienza della proposta rispetto ad altre alternative concretamente praticabili (art. 180, co. 4, l. fall.). Quest’ultima disposizione – che se interpretata utilizzando l’argomento a contrario, porterebbe, appunto, a negare la tutela ai creditori dissenzienti inseriti in una classe assenziente – va considerata, però, come un autentico infortunio del nostro legislatore. Nell’ordinamento dal quale ha preso spunto la riforma italiana in tema di concordato (id est, quello nordamericano), il c.d. best interest of creditors test – che si fonda, appunto, sulla comparazione tra quanto è previsto riceva il creditore secondo le clausole inserite nel piano e quanto lo stesso invece riceverebbe in caso di liquidazione concorsuale – può essere infatti richiesto da ciascun creditore dissenziente, indipendentemente dal voto complessivo espresso dalla classe di appartenenza [§ 1129(a)(7)(A), Bankruptcy Code] 11. L’idea, del tutto condivisibile, che è alla base di questa norma – che, detto per inciso, è stata ripresa da molti altri ordinamenti a noi prossimi, come, ad esempio, quelli tedesco e portoghese – è che, se è vero che l’introduzione della regola della maggioranza risponde all’esigenza di superare i problemi tipici delle azioni “collettive”, al fine di evitare o limitare comportamenti ostruzionistici e opportunistici dei singoli, così contribuendo all’efficienza della procedura, in nessun caso essa può essere (im)piegata per sottrarre “valore” ai creditori, imponendo ad essi una composizione dei rapporti patrimoniali antieconomica rispetto all’alternativa offerta dal risultato ottenibile dall’esecuzione forzata – seppure per mezzo degli organi della procedura concorsuale, quale conseguenza del blocco delle azioni esecutive individuali – su una frazione degli assets dell’impresa in crisi; frazione (la cui entità dipende dalla composizione della massa attiva e della massa passiva) di cui essi, per effetto dell’insolvenza del debitore, diventano, per così dire, titolari “economici”. Detto in altri termini, rispetto alla convenienza della proposta (valutata con riferimento all’alternativa offerta dalla liquidazione concorsuale), la tutela da riconoscere al creditore dissenziente deve essere di tipo individuale e non di classe. Un pagamento in percentuale dei subordinati in mancanza di un soddisfacimento integrale dei chirografari sarebbe dunque ammissibile solo in presenza di una dichiarazione espressa e preventiva di questi

11 Sul principio del best interest of creditors test sia consentito rinviare a Vattermoli, Chapter 11 e tutela dei creditori (note a margine del caso Lehman), in Dir. banc., 2009, II, p. 67.

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ultimi con la quale essi rinuncino al loro “privilegio” sul patrimonio del debitore. Ma è proprio qui che si annida l’altro dubbio: cosa succede se, come nel caso di specie, vi sia un terzo che si assume le obbligazioni concordatarie? La situazione in ipotesi di concordato con assuntore si fa decisamente più complessa, dovendosi fare i conti con il patrimonio di un altro soggetto (l’assuntore, appunto), rispetto al quale i creditori dell’impresa in crisi non possono far valere alcun “privilegio”. In tale situazione, a chi scrive sembra indispensabile procedere ad una valutazione “statica” del patrimonio del debitore comune: una valutazione, cioè, a valori di liquidazione (concorsuale) dell’impresa in crisi, che rappresenta l’alternativa concretamente attuabile rispetto alla soluzione concordataria 12. Tale sarà il “valore” che dovrà essere distribuito tra i creditori secondo l’ordine delle cause legittime di prelazione, con la conseguenza che, in ipotesi di incapienza di detto patrimonio rispetto all’ammontare complessivo dei crediti chirografari, potrà prevedersi un soddisfacimento parziale (anche) dei subordinati solo se a tal fine vengano destinate risorse tratte dal patrimonio del terzo assuntore. In tal caso, infatti, non vi sarebbe alcuna violazione delle cause legittime di prelazione, essendo i chirografari soddisfatti in misura non inferiore a quella derivante dall’esercizio del loro “privilegio”, rispetto ai subordinati, sul patrimonio del debitore comune.

4. Crediti subordinati e diritto di voto. In conclusione sembra opportuno soffermare l’attenzione su un altro aspetto, non affrontato dalla sentenza in commento né sottoposto all’esame della Corte, che pure riveste una grande importanza nella ricostruzione dello “statuto” dei subordinati in ambito concordatario: possono i subordinati, qualora il piano non preveda alcuna forma di soddisfacimento delle loro ragioni di credito, partecipare alla votazione ed entrare nel calcolo delle maggioranze richieste dalla legge per l’approvazione? A. Sul punto, com’è noto, la legge individua – secondo un’elencazione unanimemente considerata come tassativa – le seguenti categorie di creditori che non possono prendere parte alla votazione: privilegiati

12 Il che pone problemi pratici di non poco momento, specialmente rispetto alle imprese di grandi dimensioni: con riguardo all’esperienza nordamericana, cfr. Vattermoli, Chapter 11 e tutela dei creditori, cit., pp. 77 ss.

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soddisfatti al 100% (art. 177, co. 2); il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini fino al quarto grado, i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta di concordato (art. 177, co. 4). Ciò posto, e considerato che i subordinati sono da considerare a tutti gli effetti creditori, la risposta al quesito posto in precedenza sembrerebbe dover essere affermativa. Il risultato che così si otterrebbe sarebbe, però, del tutto insoddisfacente. a) In primo luogo, il fatto che la legge non escluda dalla votazione i creditori subordinati non sembra rivestire, nella specie, particolare peso: il dato dal quale occorre partire, infatti, è che il legislatore della riforma si è completamente disinteressato di questa categoria di creditori, non essendo essi menzionati in alcun precetto della l. fall. Il che, su un piano generale, desta più di una perplessità, non solo e non tanto perché molti ordinamenti occidentali dedicano più di una disposizione al trattamento concorsuale dei crediti postergati, ma soprattutto in quanto con la riforma del diritto societario del 2003 sono state espressamente previste ipotesi di subordinazione legale o convenzionale, i cui effetti si producono (entrano in giuoco, se così può dirsi), essenzialmente, se non esclusivamente 13, proprio nell’ambito delle procedure concorsuali.

13 Secondo una parte della dottrina, alla subordinazione legale deve essere riconosciuta portata “sostanziale”, nel senso che le disposizioni ex artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. introdurrebbero un vero e proprio divieto, in capo agli amministratori della società debitrice, di rimborso dei prestiti effettuati dai soci (o dalla capogruppo), in tutte quelle ipotesi in cui vi sia il rischio che il restante patrimonio della società non sia sufficiente a soddisfare per intero i creditori-terzi, così estendendo l’ambito di applicazione della subordinazione anche a situazioni non caratterizzate dal concorso, prima fra tutti la liquidazione volontaria dell’ente (in questo senso, tra gli altri, Ferri jr., In tema di postergazione legale, cit., pp. 990 ss.; Irrera, La disciplina dei prestiti dei soci alla società, in Il nuovo diritto societario, a cura di Ambrosini, I, Torino, 2005, p. 389 e, da ultimo, Tullio, La postergazione, Padova, 2009, pp. 54 ss.). Tale orientamento non può essere condiviso: la postergazione operata dalla legge non attua la c.d. “riqualificazione” del prestito in capitale di rischio della società (ciò che determinerebbe il divieto per gli organi gestori della società di rimborsare i prestiti-conferimenti dei soci, se non dopo l’esaurimento della fase di liquidazione), ma si limita, più semplicemente, a spostare, verso il basso, il rango dei crediti vantati dai soci nell’ordine di distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione del patrimonio del debitore, ciò che presuppone l’apertura del concorso tra i creditori su detto patrimonio (in questo senso, tra gli altri, Terranova, Commento sub art. 2467, cit., p. 1464; Panzani, La postergazione dei crediti, cit., p. 681 e Simeon, La postergazione dei finanziamenti dei soci nella spa, in Giur. comm., 2007, I, pp. 82-84). E prova ne sia il fatto che la “restituzione” del rimborso, di cui all’art. 2467, co. 1 c.c., può e deve avvenire soltanto se la dichiarazione di fallimento della società sia intervenuta nell’anno successivo al rimborso stesso: con la conseguenza che se, alla scadenza

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b) In secondo luogo, così come i privilegiati (e, a parere di chi scrive, i chirografari) 14 soddisfatti al 100% non partecipano alla votazione in quanto privi di interesse, rispetto alla proposta concordataria, allo stesso modo dovrebbero essere considerati i subordinati che non ricevano alcunché, nel presupposto che essi sarebbero comunque esclusi dai riparti endofallimentari 15. In altre parole, in questa ipotesi i subordinati dovrebbero essere considerati indifferenti alla proposta presentata dal debitore, in quanto il valore concorsuale del loro credito si è ridotto a zero: in tale circostanza, condizionare l’approvazione o meno del concordato al voto espresso dai subordinati (ossia, si ripete, da soggetti privi di interesse) sembra rappresentare un fattore di inefficienza per la procedura, che è opportuno eliminare. c) In terzo luogo, tutti gli ordinamenti che prevedono una disciplina ad hoc per i crediti subordinati risultano caratterizzati dal fatto di non attribuire mai a questi ultimi il potere di condizionare l’approvazione del concordato, ciò che avviene: o escludendoli direttamente dalla legittimazione al voto (come avviene, ad esempio, in Germania, Spagna e Portogallo), oppure non assegnando valore determinante al voto da essi espresso. c1. Come esempio del primo tipo si può citare l’ordinamento portoghese, la cui disciplina concorsuale è contenuta nel Decreto-Lei n. 53, del 18 marzo 2004, che ha introdotto il nuovo Código da Insolvência e

del prestito, l’amministratore (o il liquidatore) della società, pur avendone la possibilità, non effettua il pagamento a favore del socio e se, tra la data di scadenza del prestito e la successiva dichiarazione di fallimento della società decorre più di un anno, il socio avrebbe tutto il diritto di agire in responsabilità contro l’organo di amministrazione per il risarcimento dei danni patiti per effetto di tale comportamento. In senso sostanzialmente analogo cfr., tra gli altri, Bonfatti, Prestiti da soci, cit., p. 311; Lo Cascio, La postergazione e la restituzione dei rimborsi dei finanziamenti, in La riforma del diritto societario, a cura di Lo Cascio, vol. 8, Milano, 2003, p. 79 e Terranova, op. loc. ult. cit., quando afferma l’inopponibilità della postergazione da parte della società nei confronti del socio creditore. 14 Sul punto sia consentito rinviare a A. Nigro, Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, cit., pp. 289 e 367. 15 Le cose cambiano, evidentemente, se il patrimonio del debitore è sufficiente a soddisfare per intero i crediti privilegiati e quelli chirografari e, in parte, quelli subordinati. In tale ipotesi, qualora la proposta prevedesse il pagamento integrale dei crediti non postergati e, in percentuale, di quelli subordinati, questi ultimi non soltanto avrebbero diritto al voto, ma, per quanto detto in precedenza, sarebbero anche gli unici a ciò legittimati.

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da Recuperação de Empresas (CIRE) 16, che ha sostituito il Código dos Processos Especiais de Recuperação da Empresa e de Falência (CPEREF), di cui al Decreto-Lei n. 132, del 23 aprile 1993 17. Anche in quell’ordinamento è prevista la possibilità di presentare un “piano di insolvenza”: orbene, nell’ipotesi, più che verosimile, che il piano non preveda alcun soddisfacimento a favore dei titolari di crediti subordinati, essi non possono partecipare alla votazione per l’accettazione del piano. Nelle materie riservate alla competenza dell’assembleia de credores (che è l’organo rappresentativo dei creditori), i creditori subordinati sono esclusi dal voto, eccetto per l’ipotesi in cui la deliberazione abbia ad oggetto, proprio, l’approvazione del plano de insolvência (art. 73.3 CIRE). Tale disposizione, che se letta isolatamente potrebbe far pensare che i titolari di crediti subordinati abbiano sempre e comunque legittimazione al voto nella materia che qui ne occupa, deve però essere coordinata con l’art. 212 CIRE. Tale ultima disposizione, infatti, dopo aver stabilito (art. 212.1) che la proposta si considera approvata se, essendo presenti nell’assemblea tanti creditori che rappresentino almeno un terzo dei crediti aventi diritto al voto, ottiene più dei due terzi dei voti espressi, tra i quali non si computano gli astenuti, precisa (art. 212.2) che non conferiscono diritto di voto: “a) Os créditos que não sejam modificados pela parte dispositiva do plano; b) Os créditos subordinados de determinado grau, se o plano decretar o perdão integral de todos os creditos de graus hierarquicamente inferiores e não atribuir qualquer valor económico ao devedor ou aus respectivos sócios, associados ou membros, consoante o caso” 18. Ciò significa che i titolari di crediti subordinati di un certo grado 19

Più volte modificato ed integrato, da ultimo con il d.l. n. 116 del 4 luglio 2008. Per una sintesi dell’evoluzione storica della disciplina dell’insolvenza in Portogallo, cfr. Menezes Cordeiro, Introdução ao Direito da insolvência, in O Direito, 2005, III, pp. 465 ss. 18 L’art. 212.3 stabilisce, peraltro, che nell’ipotesi in cui, per effetto dell’operare dell’art. 212.2, tutti i crediti risultino privati del diritto di voto, viene meno la limitazione per i crediti soddisfatti integralmente. 19 Va sottolineato che in Portogallo (così come, del resto, in molti altri ordinamenti, tra cui la Spagna, la Germania e gli USA) non soltanto è prevista una disciplina articolata dei crediti subordinati in ambito concorsuale, prevedendosi, altresì, una gerarchia tra gli stessi, in dipendenza della natura del credito o della qualità soggettiva del creditore. In particolare, l’art. 48 CIRE pone al primo posto, dopo i chirografari, i crediti vantati dalle persone specialmente relazionate con il debitore (se il debitore è un ente collettivo: soci illimitatamente responsabili; soggetti legati da una relazione di gruppo con la società; 16 17

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potranno partecipare alla votazione per l’approvazione del piano soltanto nelle ipotesi in cui la proposta preveda: o una qualche forma di soddisfacimento per loro e per i subordinati di grado inferiore; oppure, l’attribuzione di un valore economico al debitore (o ai soci, associati o membri dell’ente sottoposto a procedura) 20. Ma non basta: l’art. 212.1, così come modificato dal DL n. 200/2004, in ogni caso richiede, ai fini dell’approvazione del piano, anche la maggioranza dei voti espressi da crediti non subordinati. In tal modo, come si legge nel Preâmbulo al DL n. 200/2004, si evita che “os credores subordinados possam, sem o acordo dos restantes credores, fazer aprovar um plano de insolvência” 21. c2 Come esempio del secondo tipo si può menzionare l’ordinamento nordamericano. Nell’ipotesi che il debitore presenti un piano all’interno della procedura di Reorganization (ex Chapter 11 del Bankruptcy Code) che preveda un soddisfacimento parziale dei chirografari e un soddisfacimento nullo per i subordinati – e ciò al fine, evidentemente, di non esporsi al voto contrario dei primi e al conseguente best interest of creditors test

ecc.); poi, in successione, i crediti per interessi maturati dopo l’apertura della procedura; i subordinati convenzionali; i crediti scaturenti da atti a titolo gratuito del debitore; il credito del terzo revocato, qualora venga accertata la sua mala fede; i crediti per interessi prodotti dai crediti subordinati successivamente all’apertura del concorso; e, in ultimo, i crediti per suprimentos, ossia quelli derivanti dai finanziamenti effettuati dai soci a favore della società a responsabilità limitata, alle condizioni fissate dall’art. 243 del Código das sociedades comerciais. Sul contratto di suprimento cfr., per tutti, Pereira, O Contrato de Suprimento2, Coimbra, 2001; Mota Pinto, Do Contrato de Suprimento. O Financiamento da Sociedade entre Capital Próprio e Capital Alheio, Coimbra, 2002. La dottrina praticamente unanime ritiene applicabile, in via analogica o estensiva, la disciplina dei suprimentos anche alle società per azioni: sul punto cfr., per tutti, Pinto Furtado, Curso de Direito das Sociedades5, Coimbra, 2004, p. 227. Unica voce contraria sembrerebbe essere quella di Pereira de Almeida, Sociedades Comercias4, Coimbra, 2006, p. 340, secondo il quale: “os suprimentos são um instituto próprio das sociedades por quotas, que decorre da naturaleza das quotas e de uma mais forte relação pessoal relativamente às sociedades anónimas”. La giurisprudenza del Supremo Tribunal de Justiça segue l’orientamento della dottrina dominante: e cfr. le sentenze citate da Pinto Duarte, Escritos sobre Direito das Sociedades, Coimbra, 2008, p. 252, nt. 57. 20 Se ad essere sottoposta a procedura è una società commerciale, l’art. 212.4 stabilisce che “Considera-se, designadamente, que o plano de insolvência atribui un valor aos socios de una sociedade comercial se esta houver de continuar a exploração da empresa e o plano não contemplar uma redução a zero do respectivo capital”. 21 Sul punto cfr. Serra, O Novo Regime Português da Insolvência. Uma Introdução3, Coimbra, 2008, p. 100, nt. 154.

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da parte del tribunale – questi ultimi sono esonerati dal voto, in quanto, come stabilisce il § 1126(g), “Notwithstanding any other provision of this section, a class is deemed not to have accepted a plan if such plan provides that the claims or interests of such class do not entitle the holders of such claims or interests to receive or retain any property under the plan on account of such claims or interests” 22. In tale ipotesi, dunque, il voto contrario è presunto: ciò che, peraltro, condiziona soltanto relativamente la successiva omologazione del piano 23. Nel diritto nordamericano, infatti, non è richiesta a tal fine alcuna maggioranza dei crediti ammessi al voto, né che la maggioranza si raggiunga all’interno del maggior numero di classi. L’unica condizione necessaria per il cram down 24 è che il piano sia stato approvato da almeno una classe di creditori impaired (ossia non soddisfatti al 100%) 25: condizione che diviene anche sufficiente se vengono rispettati gli altri requisiti previsti dal § 1129, primi fra tutti il superamento del best interest

22 Disposizione dal tenore analogo – seppure ad effetto diametralmente opposto – di quella contenuta nel § 1126(f) che esonera dal voto i creditori facenti parte delle classi not impaired (ossia, soddisfatte integralmente), presumendo il loro voto favorevole. La differenza tra le due disposizioni risiede in ciò, che per i creditori non danneggiati dal piano la presunzione di voto favorevole è assoluta (“conclusively presumed”), mentre per quelli rispetto ai quali non è previsto alcun soddisfacimento la presunzione è relativa (“is deemed”), potendo quindi anche votare positivamente, ciò che giustifica il fatto che per questi ultimi è comunque necessario l’invio della scheda di adesione (solicitation of acceptances); invio non richiesto per i primi [cfr. § 1126(f), in fine]. 23 A ben vedere, l’effetto più rilevante prodotto dall’esistenza di una o più classi a zero percentuale di soddisfacimento e non accettanti è la necessità del cram down. 24 Che non può avvenire d’ufficio, ma sempre su impulso del proponente il piano [“on request of the proponent of the plan”: § 1129 (b)]. Sull’istituto del cram down cfr., per tutti, Klee, All You Ever Wanted To Know About Cram Down Under the Bankruptcy Code, in 53 Am. Bankr. L.J., 1979, pp. 133 ss. 25 Ai sensi del § 1126 (c) “A class of claims has accepted a plan if such plan has been accepted by creditors, other than any entity designated under subsection (e) of this section, that hold at least two-thirds in amount and more than one-half in number of the allowed claims of such class held by creditors, other than any entity designated under subsection (e) of this section, that have accepted or rejected such plan”. Per il calcolo della (doppia) maggioranza (per numero e per somma) non si tiene dunque conto né dei creditori che non hanno espresso il voto, né dei soggetti – di cui al § 1126(e) – che hanno votato, ma il cui assenso o il cui dissenso, a giudizio della corte, “was not in good faith, or was not solicited or procured in good faith or in accordance with the provisions of this title”. Disposizione analoga è poi dettata con riferimento alle classi dei titolari di quote o azioni del debitore [§ 1126(d)], con la differenza che per tali classi non è richiesta la maggioranza per numero.

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of creditors test (applicabile, come visto, anche nell’ipotesi di accettazione del piano da parte di tutte le classi di creditori, in presenza di singole dichiarazioni di dissenso), e l’accertamento del carattere “fair and equitable” del piano 26. B. L’idea che è alla base della “marginalizzazione” dei creditori subordinati nel concorso aperto nei confronti del debitore è, in ultima analisi, assai semplice: il “governo” della procedura concordataria deve essere assicurato a coloro che concretamente subiscono gli effetti, positivi o negativi, dell’andamento della stessa (è, questa, la dottrina del c.d. residual owner) 27. In altri termini, il potere di “controllo” della e sulla procedura deve essere attribuito a chi è esposto al rischio: ciò che spiega come in molti ordinamenti, come si è già anticipato, siano esclusi dal voto non soltanto i titolari di crediti non “danneggiati” (perché soddisfatti al 100% e senza dilazioni) dalla proposta (siano poi essi, come normalmente sarà, privilegiati oppure chirografari), ma anche coloro che, essendo subordinati, pur non ricevendo alcunché dal piano, comunque non rischiano né perdono nulla, in quanto – come direbbero gli americani – “out of the money”. C. In precedenza si è detto che nell’ipotesi in cui il patrimonio del debitore risulti insufficiente al pagamento integrale dei chirografari nulla può essere riconosciuto ai subordinati i quali, altresì, dovrebbero essere esclusi dal voto. La ragione, anche questo si è detto, risiede nella mancanza di interesse di questi ultimi rispetto ad un’alternativa che non aggiunge né toglie nulla al valore concorsuale dei crediti da essi vantati. Sul punto occorre tuttavia una precisazione.

26 Tra le condizioni dettate dal § 1129(b) affinché il piano possa essere considerato “fair and equitable” – e la corte possa, dunque, procedere al cram down – spicca quella contenuta nel punto (2)(B), in presenza di una classe di creditori chirografari (rectius, unsecured) dissenziente. Questa disposizione richiede, ai fini della confirmation: o il soddisfacimento integrale dei creditori appartenenti a detta classe; oppure, in mancanza, che i creditori appartenenti alle classi di rango inferiore nell’ordine di soddisfacimento (es., subordinati) non ricevano alcunché dal piano. Questa disposizione fissa la c.d. absolute priority rule, sulla quale sia consentito rinviare, di nuovo, a Vattermoli, Chapter 11 e tutela dei creditori, cit., pp. 74 ss. 27 Per una convincente spiegazione, in termini economici, della teoria del residual owner, cfr., per tutti, Baird, Jackson, Bargaining After the Fall and the Contours of the Absolute Priority Rule, in 55 U. Chi. L. Rev., 1988, p. 761; sui problemi che, nella pratica, si addensano intorno all’individuazione del residual owner (problemi particolarmente accentuati in caso di dissesto di imprese di grandi dimensioni), cfr. Lopucki, The Myth of the Residual Owner: An empirical Study, UCLA School of Law, Law & Economics Res. Papers, n. 3/11, aprile 2003.

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In termini assoluti, infatti, non è vero (o non è detto che lo sia) che in tale ipotesi i subordinati siano indifferenti alla soluzione concordataria rispetto a quella offerta dalla liquidazione e successiva ripartizione endofallimentare del patrimonio del debitore: mentre, infatti, in quest’ultimo caso alla chiusura della procedura essi riacquistano il diritto di esercitare le azioni esecutive sul patrimonio residuo e/o futuro dell’ex fallito per la parte non soddisfatta del credito (ossia, nell’ipotesi data, il 100% del valore nominale più gli interessi nel frattempo maturati), salva l’applicazione delle norme sull’esdebitazione, ex artt. 142 ss. l. fall.; attraverso la soluzione concordataria, viceversa, la falcidia conseguente all’omologazione del piano rende inesigibile il credito da essi ancora vantato. Con l’ulteriore conseguenza, allora, che se si dovesse riconoscere il diritto di voto in capo ai subordinati esclusi da ogni forma di soddisfacimento, essi certamente voterebbero negativamente, frustrando così la possibilità di addivenire ad una soluzione concordata della crisi, in ipotesi vantaggiosa per la restante massa dei creditori. Il punto nevralgico dell’intera questione si riduce, in sintesi, a questo interrogativo: in ambito concordatario, può essere riconosciuto ad un singolo creditore un diritto (nella specie, quello di voto) sorretto da un interesse eventuale ed extraconcorsuale – potenzialmente contrario con quello, propriamente concorsuale, di cui è portatrice la restante massa dei creditori –, dato dalla possibilità, teorica, di soddisfacimento sul patrimonio del debitore tornato in bonis? Per quanto esposto in precedenza la risposta, a parere di chi scrive, deve essere negativa. La ragione economica di questo “affievolimento” 28 del diritto di credito vantato dal creditore subordinato risiede nel volume di rischio incorporato dal credito (assolutamente) postergato: rischio che, riducendo ex ante il valore concorsuale – nei termini prima specificati – del credito, giustifica, come si diceva, la “marginalizzazione” di chi ne è titolare nelle scelte strategiche che concernono la governance della procedura. Valgano, sul punto, le affermazioni di autorevole dottrina straniera che, seppur con riferimento ad un ordinamento diverso dal nostro (quello spagnolo), sembra aver colto negli esatti (e più generali) termi-

Di “affievolimento” del diritto di credito vantato dal creditore subordinato parla AleEguidazu, Subordinación conctractual y subordinación concursal, in La Ley, T. 2, 2004, p. 1885, il quale afferma, a parere di chi scrive giustamente, che «la subordinazione è un concetto che si inscrive a pieno titolo nel più ampio sistema della prelazione del credito, e connota postergazione, degradazione e marginalizzazione». 28

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ni la questione concernente il trattamento endoconcorsuale dei crediti subordinati: “en materia de pago, los créditos subordinados no pueden obtner satisfacción hasta la previa e íntegra satisfacción de los ordinarios (…). Pero la posición jurídica de los créditos subordinados es mucho más compleja, y no se reduce a la simple postergación legal del pago correspondiente. Lo que la Ley no quiere en modo alguno es que los créditos subordinados determinen la “voluntad colectiva” de los acreedores; lo que la Ley no admite es que los créditos subordinados contribuyan a la formación de la voluntad de la colectividad crediticia. Y, precisamente por ello, priva a los acreedores subordinados de derecho de voto y de derecho de adhesión (…). No es el orden de satisfacción lo que primariamente preocupa a la Ley, sino el “control” del concurso de acreedores” 29. Su questo aspetto, lo si è detto in principio, il nostro ordinamento appare tremendamente in ritardo: anche qui, dunque, si avverte forte la necessità di dare corpo, attraverso l’introduzione di norme ad hoc, ad istanze efficientiste che attengono, in ultima analisi, alla funzione giuridicamente rilevante delle procedure concorsuali, ossia il massimo soddisfacimento dei creditori concorrenti nel rispetto, almeno tendenziale, della par condicio creditorum.

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29 Così Rojo, La clasificación de los créditos concursales con garantía personal, in ADCo, n. 7/2006, p. 538.

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fatti e problemi della pratica

La relazione del professionista nel concordato preventivo

Sommario: 1. Aspetti introduttivi. – 2. I nuovi requisiti per la nomina del professionista. 2.1 Il mancato richiamo alle incapacità di cui all’art. 28 l. fall. - 2.2 La controversa nomina delle società di revisione. – 3. Il procedimento di designazione del professionista. – 4. Il contenuto della relazione del professionista attestatore. - 4.1 La veridicità dei dati aziendali. - 4.2 Segue. Le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza. - 4.3 La fattibilità del piano. - 4.4 La necessità di un protocollo nazionale. – 5. Il contenuto della relazione del professionista stimatore. - 5.1 L’individuazione del valore di mercato attribuibile ai beni o diritti oggetto di prelazione. - 5.2 Il momento di riferimento della relazione giurata. – 5.3 Le problematiche connesse all’esistenza ed all’individuazione dei beni o dei diritti sui quali sussiste la causa di prelazione.

1. Aspetti introduttivi. Documento caratterizzato dalla precipua funzione di attenuare quel disallineamento informativo che si viene a creare tra il ceto creditorio da un lato ed il debitore ricorrente dall’altro, la relazione del professionista costituisce oggi, senza ombra di dubbio, un tema che necessita di una nuova riflessione. Tuttavia, sul punto, una premessa è, in limine, necessaria: nella consapevolezza che l’argomento in rassegna meriti una trattazione ben più organica rispetto alle sole novità che, a decorrere dal 1° gennaio 2008, sono state introdotte, con riguardo alla nomina del professionista, dal decreto correttivo, conviene dedicare a queste ultime la parte iniziale del presente contributo, lasciando a quella conclusiva l’approfondimento dei contenuti che caratterizzano la relazione in oggetto. Prima di far ciò, occorre però adottare sin da ora una convenzione terminologica distinguendo tra la figura del professionista che può essere definito “attestatore” o “certificatore” – riferendosi con tale espressione a quel soggetto che a norma dell’art. 161, co. 3, l. fall., rilascia sia il

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giudizio di veridicità dei dati aziendali, sia il pronostico di fattibilità del piano – e quella del professionista cosiddetto “stimatore” – inteso, invece, come colui che, ai sensi dell’art. 160, co. 2, l. fall., esprime il parere di congruità in merito al valore di mercato dei beni e dei diritti sui quali sussiste la causa di prelazione in relazione a quei crediti privilegiati oggetto di soddisfacimento non integrale. Infatti, nonostante differenti siano gli scopi ed i contenuti delle due relazioni, entrambe le suddette figure presentano, a decorrere dal 1° gennaio 2008 – data di entrata in vigore del d.lgs. n. 169/2007 – un elemento in comune: si tratta di “un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, terzo comma, lett. d) l. fall.”, in luogo della previgente disciplina che, limitatamente al solo soggetto “attestatore” – essendo lo “stimatore” il risultato dei cambiamenti apportati dal decreto correttivo – richiedeva la presenza di un “professionista di cui all’art. 28 l. fall.” . Sennonché, le novità introdotte dall’ultimo intervento legislativo impongono l’esame di almeno due aspetti controversi: a) il primo, concernente l’indicazione della scelta del professionista tanto “attestatore” quanto “stimatore”, che risponde alla domanda quali requisiti deve possedere tale professionista; b) il secondo inerente, invece, il procedimento di designazione dello stesso volto a dare una soluzione al quesito chi nomina i suddetti soggetti, come lo fa, e quando, da un punto di vista temporale, deve essere operata una simile scelta. Mentre il paragrafo che segue sarà dedicato alle problematiche concernenti il primo profilo, a quello successivo sarà, invece, demandato il compito di approfondire gli aspetti inerenti la procedura di individuazione del professionista.

2. I nuovi requisiti per la nomina del professionista. A norma dell’art. 160, co. 2, l. fall., nonché del successivo art. 161, co. 3, l. fall., la scelta del soggetto “stimatore”/“attestatore” deve ricadere su

È alquanto evidente che nell’introdurre tale novità il legislatore ha inteso uniformare ed omogeneizzare i requisiti di nomina. L’intervento normativo, infatti, non si è limitato alla sola disciplina inerente il concordato preventivo, ma ha coinvolto anche quella degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall., nonché quella del piano di risanamento stragiudiziale attestato di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall.

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di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. e, pertanto, su di un soggetto iscritto nel registro dei revisori contabili rientrante per di più nelle categorie professionali di cui all’art. 28, lett. a) e b), l. fall., in quanto avvocato, dottore commercialista, ragioniere commercialista, nonché studio professionale associato o società tra professionisti, a condizione che i soci di queste ultime appartengano alle categorie professionali di cui sopra, e che all’atto dell’accettazione dell’incarico, venga designata la persona fisica responsabile della procedura . Tuttavia, se da un lato il richiamo alle sole lett. a) e b) del primo comma e non più all’intero disposto della norma dettata in tema di nomina del curatore fallimentare esclude, a differenza dell’astratta possibilità di cui alla previgente disciplina, che possano essere nominati, in qualità di professionista “attestatore”, coloro che abbiano svolto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società per azioni dando prova di adeguate capacità imprenditoriali purché non sia intervenuta nei loro confronti dichiarazione di fallimento (art. 28, lett. c), l. fall.), dall’altro lo stesso lascia irrisolti tutta una serie di problemi, che solo la ricostruzione della dottrina e l’interpretazione della giurisprudenza potranno sciogliere. Peraltro, il rinvio disposto dall’art. 160 l. fall. all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., esclude che per la predisposizione della relazione di stima di cui alla prima di tali norme possa essere nominato – nell’ipotesi di perizie relative a beni immobili – un ingegnere, un geometra, un architetto o un agronomo, nonostante l’esigenza di un’adeguata e specifica competenza merceologica lo imporrebbe.

L’introduzione di tale novità non poteva non essere accolta con favore dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, il quale nella Circolare n. 3/IR del 23 giugno 2008 (pubblicata in Professionisti e fallimento, inserto a Il Sole 24 Ore, 23 giugno 2008, p. 5) – dettata in tema di piano di risanamento stragiudiziale attestato – ha sottolineato come la stessa sia coerente sotto molteplici punti di vista: a) della perizia e della formazione del professionista, dal momento che la duplice iscrizione assicura all’attestatore “precipue competenze nelle materie relative al diritto societario e alla crisi di impresa, alla amministrazione e all’organizzazione aziendale”; b) della professionalità, in quanto l’iscrizione all’albo si consegue con il superamento di un esame di Stato finalizzato “all’accertamento del possesso di conoscenze teoriche e pratiche nelle materie giuridiche e aziendali”; c) della correttezza professionale, stante la sottoposizione dei soggetti iscritti agli albi alla vigilanza di enti pubblici, quali sono per l’appunto gli ordini professionali, nonché al rispetto “di precipue regole deontologiche che ne uniformano l’agire nell’ottica del decoro e della dignità della professione di appartenenza, così come sancito dall’articolo 2229 del Codice civile”.

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Una simile scelta dell’estensore del decreto correttivo suscita, conseguentemente, non poche perplessità dal momento che il revisore contabile, presentando un profilo tecnico maggiormente in linea con l’individuazione del valore di mercato di crediti, ovvero di complessi aziendali, potrebbe non possedere quelle adeguate capacità tecnico-professionali e quella necessaria esperienza richieste per la valutazione di alcuni tipi di beni, quali, ad esempio, edifici, aree fabbricabili, ovvero giacenze di magazzino. Pertanto, per la stima di beni appartenenti ad una delle sopra citate categorie, è inevitabile che il revisore contabile sarà costretto a ricorrere all’ausilio di altri professionisti meglio vocati a tali tipologie di valutazioni, anche se la responsabilità di quanto attestato nella relazione rimarrà completamente in capo allo stesso. 2.1. Il mancato richiamo alle incapacità di cui all’art. 28 l. fall. A differenza della previgente disciplina, il mancato richiamo, da parte dei “corretti” artt. 160 l. fall., per quanto concerne il professionista “stimatore”, e 161 l. fall. per quello “attestatore”, della previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 28 l. fall. – che si ricorda, preclude la possibilità di nominare curatore fallimentare – ergo, per quanto qui rileva, “stimatore” o “attestatore” – il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado del fallito, i creditori di quest’ultimo, chiunque si trovi in conflitto di interessi con il fallimento, ed infine chi ha concorso al dissesto dell’impresa durante i due anni anteriori alla dichiarazione di insolvenza – fa’ sorgere il fondato dubbio se tali soggetti debbano ancora ritenersi esclusi dalla predisposizione delle relazioni in oggetto. Infatti, l’assenza di un esplicito rinvio alle incapacità di cui all’art. 28, ult. co., l. fall., se da un lato può essere superato con riguardo alle figure dell’interdetto e dell’inabilitato, in quanto questi ultimi sono soggetti ad un’incapacità generale che deriva dall’impossibilità stessa di adempimento dell’incarico, dall’altro obbliga l’interprete ad immergersi nel delicato tema del grado di indipendenza del professionista. In particolar modo, se si prende avvio da un’analisi iniziale di tale problematica, che si limiti a prendere in considerazione i rapporti esterni fra soggetti terzi ed il professionista sia “attestatore” che “stimatore”, escludendo pertanto ed in un primo tempo qualsiasi indagine relativa al rapporto interno tra questi ultimi due, vi è da chiedersi se tanto l’uno, quanto l’altro debbano essere individuati in un soggetto differente: a) da colui che è legato da vincoli di parentela con l’imprenditore; b) dal professionista che abbia ricevuto da quest’ultimo un mandato professionale di assistenza e consulenza continuativa e generica;

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c) dal professionista incaricato dal debitore di redigere il piano di ristrutturazione dei debiti ovvero il ricorso di concordato preventivo ; d) da chi, essendo un associato o un collaboratore di studio del professionista che fornisce assistenza e consulenza continuativa e generica all’imprenditore ovvero che ha ricevuto da quest’ultimo l’incarico di predisporre il ricorso o il piano di ristrutturazione dei debiti di cui al concordato preventivo, è legato al suddetto professionista da rapporti giuridici di natura professionale; e) da colui che si caratterizza per un vincolo che si potrebbe definire “para-professionale” con il debitore, in quanto amministratore, revisore contabile, ovvero sindaco della società in concordato o di altra società appartenente al medesimo gruppo societario; f) da chi, più in generale e al di fuori delle ipotesi di cui sopra, si trovi comunque in contrasto con la procedura in quanto portatore di un interesse non coincidente con quello della generalità del ceto creditorio. Sennonché, corre l’obbligo di segnalare come un’analisi più approfondita della tematica in oggetto evidenzi un secondo grado di indipendenza, volto da indagare, sotto il profilo dei rapporti interni, la sussistenza di un’eventuale incompatibilità qualora la qualifica di professionista “attestatore” e quella di professionista “stimatore” vengano a cumularsi in capo ad un unico soggetto. Un simile dubbio si origina, infatti, non tanto in virtù del fatto che la relazione del professionista “stimatore” è giurata – e riguarda la determinazione, nell’ipotesi di liquidazione, del valore di mercato dei beni o dei diritti sui quali insiste la prelazione – mentre quella del professionista “attestatore” non richiede una tale asseverazione giurata – limitandosi semplicemente ad un giudizio in ordine alla realizzazione dei valori inseriti nel piano concordatario – quanto piuttosto in considerazione della circostanza che l’estensore della relazione attestativa di cui all’art.

Anche se a giudizio di chi scrive tale conclusione dovrebbe essere limitata al solo professionista “attestatore”, dal momento che parrebbe corretto ritenere che il professionista “stimatore” – sempreché il medesimo sia in possesso dei requisiti previsti dall’art. 67 l. fall. – non necessariamente debba essere un soggetto differente da colui che predispone il ricorso alla procedura, ovvero il piano concordatario, non ravvisandosi fra i due diversi incarichi alcuna incompatibilità e ben potendo il professionista di cui all’art. 160 l. fall. condividere, in sede di stesura della relazione giurata, i risultati e le scelte a cui egli stesso è pervenuto nella formulazione del piano medesimo.

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161, co. 3, l. fall. non può che essere, in forza dell’orientamento giurisprudenziale formatosi successivamente alla novella del marzo 2005 , un professionista terzo indipendente, e, pertanto, del tutto estraneo alla predisposizione del piano di ristrutturazione dei debiti. A tal proposito, è invece alquanto evidente che chi viene chiamato a pronunciarsi in ordine al valore di mercato che giustifica l’incapienza del bene o del diritto posto a garanzia del creditore privilegiato non possa il più delle volte prescindere dalle condizioni che caratterizzano il caso di specie e pertanto dalla collocazione del bene all’interno del piano concordatario. Il professionista di cui all’art. 160 l. fall. non deve, in realtà, limitarsi ad un giudizio di apparente stima dei beni, ma deve andare oltre, prendendo in considerazione la loro effettiva liquidabilità in rapporto alle condizioni del mercato locale ed alle caratteristiche degli stessi, nonché in relazione ai tempi che nel piano medesimo sono stati previsti per addivenire alla cessione dei beni o al realizzo dei suddetti diritti. Ciò premesso, va da sé che ragioni legate ad un’interpretazione sistematica del nuovo terzo comma dell’art. 161 l. fall. ed all’opportunità di assicurare terzietà al soggetto incaricato di svolgere il controllo sul piano concordatario formulato dal debitore, indurrebbero a ritenere che debba esistere una sorta di “sdoppiamento” fra la figura del professionista “attestatore” e quella dello “stimatore”, anche se altrettanto valide ragioni di snellezza operativa e di economia procedurale dovrebbero spingere verso la diversa direzione di fornire al quesito in merito alla possibilità di accordare ad uno stesso professionista l’incarico tanto della relazione giurata di cui all’art. 160 l. fall., quanto di quella attestativa ex art. 161, co. 3, l. fall., risposta affermativa; e ciò soprattutto in forza del mancato richiamo, ad opera del decreto correttivo, dell’ultimo comma del previgente art. 28

V., quali obiter dictum, Trib. Milano, 8 ottobre 2007, in www.fallimentitribunalemilano.net, che nel dichiarare inammissibile il ricorso di concordato preventivo aveva evidenziato, nel caso di specie e tra le altre cose, come la relazione del professionista fosse pervenuta da un soggetto che non aveva dichiarato di possedere i requisiti previsti dall’art. 28 l. fall.; Trib. Palermo, 17 febbraio 2006, in Il fallimento, 2006, 574, secondo il quale il professionista doveva essere “terzo” rispetto alla società; Trib. Milano, 7 novembre 2005, ivi, 2006, 51, che aveva concluso ritenendo che la redazione di una relazione da parte di un professionista privo dei requisiti di cui all’art. 28, co. 2, l. fall. – trattandosi nella fattispecie esaminata di un soggetto che in passato aveva ricoperto la carica di componente del consiglio di amministrazione della società debitrice e che per di più risultava iscritto negli elenchi dei creditori della ricorrente – producesse una mera irregolarità della domanda di ammissione, e pertanto, come tale, sanabile in un momento successivo, e non anche una condizione di validità del ricorso.

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l. fall., il quale precludeva a chi si trovava in conflitto di interessi con la procedura di ricevere l’incarico di predisporre la relazione in ordine alla veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del piano. Tuttavia, qualora l’estensore della relazione ex art. 161 l. fall. dovesse essere un soggetto diverso rispetto a quello a cui è stato demandato il compito di procedere alla relazione giurata prevista dall’art. 160 l. fall., va da sé che al primo competerà il controllo, nell’ambito dell’attestazione di veridicità dei dati aziendali, non solo della sussistenza dei beni oggetto di perizia, ma anche della correttezza del valore indicato in quest’ultima. 2.2 La controversa nomina delle società di revisione. Assai complesso si presenta altresì il quadro inerente la possibile nomina delle società di revisione. Con riguardo al piano di risanamento stragiudiziale attestato – ma le medesime conclusioni possono essere trasferite anche all’istituto del concordato preventivo – il Consiglio Nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili , ha escluso che le sopra citate società possano essere ritenute soggetti idonei ad assumere l’incarico di professionista di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. Una tale conclusione sarebbe, infatti, una diretta conseguenza del fatto che in virtù del d.lgs. n. 88/1992 nelle società di revisione costituite nella forma di società semplice, società in nome collettivo e società in accomandita semplice solo la maggioranza numerica e per quote e non anche la totalità dei soci necessita di essere iscritta nel registro dei revisori, mentre in quelle di capitali l’iscrizione è subordinata al fatto che la maggioranza dei diritti di voto nell’assemblea ordinaria spetti a persone fisiche anch’esse iscritte nel suddetto registro. Il che tuttavia non esclude, a giudizio di chi scrive, che vi possa sempre essere una società di revisione costituita nella forma di società di capitali in cui tutti i soci siano revisori contabili, oltre che professionisti di cui alla lett. a) dell’art. 28 l. fall., e pertanto sussistano i requisiti per la nomina .

V. Circolare n. 3/IR del 23 giugno 2008, cit., p. 6 e 7. In senso sostanzialmente conforme v., anche, Falcone, La “gestione privatistica dell’insolvenza” tra accordi di ristrutturazione e piani di risanamento, in La nuova legge fallimentare “rivista e corretta”, a cura di Bonfatti e Falcone, Milano, 2008, p. 321, per il quale l’opzione della società di revisione, seppur con le limitazioni di cui alle lettere a) e b) dell’art. 28 l. fall., non parrebbe essere esclusa proprio da quest’ultima norma, ed in particolar modo dalla lettera b) della stessa, la quale fa riferimento alla possibilità che il professionista sia una società.

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Diversamente, in virtù di quanto disposto dall’art. 2 d.l. n. 223/2006, potrebbero assumere l’incarico de quo, e quindi nella fattispecie in esame il ruolo di professionista “attestatore”/“stimatore” – sempre in forza di quanto affermato dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili – anche le società di professionisti multidisciplinari costituite secondo la forma giuridica delle società di persone, purché i soci delle medesime siano iscritti negli albi professionali indicati dalla suddetta lett. a) dell’art. 28 l. fall. ed i professionisti chiamati a svolgere l’incarico siano iscritti nel registro dei revisori contabili tenuto presso il Ministero della giustizia. Al riguardo, corre però l’obbligo di rilevare come quest’ultima osservazione del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili non sia del tutto coerente con il disposto dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., richiamato in tema di concordato preventivo dagli artt. 160 e 161 l. fall. La prima di tali norme, in realtà, nel richiedere che l’“attestatore” della ragionevolezza del piano di risanamento, oltre ad appartenere ad una delle categorie professionali indicate alle lett. a) e b) dell’art. 28 l. fall., sia anche iscritto nel registro dei revisori contabili, impone, a giudizio di chi scrive, nell’ipotesi in cui il professionista sia una società tra professionisti anche multidisciplinare, che tutti i soci di quest’ultima, e non solo quelli chiamati a svolgere l’incarico, soddisfino il duplice requisito di cui sopra. Non bisogna mai confondere, infatti, i requisiti della nomina con l’individuazione del soggetto responsabile della “procedura”: nella fattispecie in esame ad essere nominata è esclusivamente la società tra professionisti, con l’ovvia conseguenza che è quest’ultima, oltre ovviamente alla persona fisica responsabile della procedura, a dover possedere contemporaneamente i due requisiti di nomina indicati dal sopra menzionato art. 67, co. 3, lett. d), l. fall.

3. Il procedimento di designazione del professionista. Al pari di quanto precisato poc’anzi la disamina della problematica in oggetto si prefigge lo scopo di rispondere alle domande: chi sceglie il professionista, come lo individua e per di più quando lo nomina. Se con riguardo a quest’ultimi due aspetti è alquanto evidente che la designazione dell’“attestatore”/“stimatore” deve avvenire prima del deposito del ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, conferendo ad un soggetto in possesso dei requisiti previsti dalla legge un mandato professionale, in relazione alle società di persone, si

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sottolinea come la nomina espressa dalla società non possa prescindere dal rispetto della disciplina statutaria in ordine all’amministrazione ed alla rappresentanza della medesima . Più difficile, rispetto all’indagine fino ad ora condotta, è, invece, rispondere alla prima delle suddette domande – vale a dire chi individua il professionista – anche se, ad avviso di chi scrive, anticipando le conclusioni a cui si perverrà nel prosieguo, la scelta deve ricadere sull’imprenditore e non anche, come sarebbe stato preferibile per ragioni di imparzialità, sull’autorità giudiziaria. Tuttavia, mentre nessuna perplessità era sorta, prima dell’entrata in vigore del decreto correttivo, in ordine alla fondatezza di una simile conclusione, stante il generico rinvio all’art. 28 l. fall. operato dall’art. 161 l. fall., qualche dubbio interpretativo circa una possibile designazione ad opera del Tribunale in luogo dell’imprenditore può oggi essere sollevato

Peraltro, quanto al procedimento di designazione del professionista stimatore nessun problema si dovrebbe porre in ordine ad un’eventuale legittimazione del socio illimitatamente responsabile con riguardo ai beni appartenenti alla sfera personale del medesimo, non potendosi certo ipotizzare che questi ultimi possano essere messi a disposizione del concordato. Nel vigore della previgente disciplina, la Suprema Corte, muovendo dalla considerazione che le regole contenute negli artt. 147 e 154 l. fall., sull’estensione del fallimento e del concordato fallimentare ai soci illimitatamente responsabili e quindi a soggetti privi della qualifica di imprenditore commerciale, fossero norme a carattere eccezionale di per sé non suscettibili di applicazione analogica, era giunta ad affermare che l’ammissione di una società di persone alla procedura concorsuale minore di concordato preventivo non comportava l’automatico assoggettamento alla stessa anche dei suoi soci illimitatamente responsabili (v. Cass., 1 luglio 1992, n. 8097, in Il fallimento, 1993, 27; Cass., 3 aprile 1987, n. 3229, ivi, 1987, 1045; Cass., 30 agosto 2001, n. 11343, in Dir. fall., 2001, II, 1144 con nota di Russo). Tali considerazioni possono oggi ritenersi valide anche alla luce delle modifiche apportate dalla riforma del diritto fallimentare, la quale, all’art. 161, co. 2, lett. d), l. fall., richiede, al fine di consentire ai creditori sociali di esprimere un consenso il più possibile informato in ordine alla convenienza della proposta concordataria, che a quest’ultima sia allegato, tra l’altro, anche un prospetto da cui risulti il valore dei beni e l’elenco dei creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili (così Trib. Sulmona, 6 giugno 2005, in Il fallimento, 2005, 793, 798 e 800). Conseguentemente, proprio come avveniva nel vigore dell’abrogata disciplina, l’esdebitazione concerne unicamente i debiti sociali, mentre i creditori particolari del socio conservano impregiudicati i propri diritti e possono agire esecutivamente sui beni personali dei soci debitori (conf., in giurisprudenza, Cass., 3 aprile 1987, n. 3229, loc. cit., 1045; Cass., 8 novembre 1984, n. 5642, in Giur. comm., 1985, II, 298; Cass., 23 dicembre 1977, n. 5719, in La legge plus; Trib. Bergamo, 15 marzo 1997, in Il fallimento, 1997, 1041; Trib. Messina, 1 febbraio 1996, ivi, 1996, 600; Trib. Roma, 9 marzo 1982, in Dir. fall., 1982, II, 1169 con nota di Di Gravio; Trib. Padova, 9 dicembre 1978, in Il fallimento, 1979, 537; in dottrina Lo Cascio, Il concordato preventivo, Milano, 2002, p. 400 ss.).

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alla luce del rinvio disposto dalle norme in commento all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. Antecedentemente le modifiche apportate dall’ultimo intervento normativo, in ordine al piano di risanamento stragiudiziale attestato, parte della dottrina aveva, infatti, concluso che il rinvio operato da quest’ultima disposizione all’attestazione di ragionevolezza di cui all’art. 2501-bis, co. 4, c.c., in tema di fusione per incorporazione con indebitamento, finiva in realtà per richiamare il successivo art. 2501-sexies c.c., dovendo, in tal modo, la relazione degli esperti essere affidata ad un professionista particolarmente qualificato, un revisore contabile o una società di revisione, con la precisazione che in caso di società per azioni o in accomandita per azioni la designazione competeva al Tribunale del luogo in cui aveva sede la società . Sennonché, la modifica apportata dal decreto correttivo al testo del sopra citato art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. – che sostituisce alla precedente versione la quale testualmente recitava: “la cui ragionevolezza sia attestata ai sensi dell’art. 2501-bis, quarto comma, del codice civile”, la nuova formulazione “la cui ragionevolezza sia attestata da un professionista iscritto nel registro dei revisori contabili e che abbia i requisiti previsti dall’articolo 28, lettere a) e b) ai sensi dell’art. 2501-bis, quarto comma, del codice civile” – induce ad interrogarsi se il rinvio alle disposizioni di cui all’art. 2501-bis, co. 4, c.c., operato dalla norma in esame debba ora intendersi limitato al solo contenuto della relazione ovvero se continui a riferirsi al procedimento di designazione dell’“attestatore” chiamato a certificare la ragionevolezza del piano di risanamento stragiudiziale, individuando in tal modo, con un riferimento di diritto positivo, l’obbligatorio ricorso, nella fattispecie di società per azioni ed in accomandita per azioni, alla nomina tribunalizia .

Conf. Ferro, Sub art. 67 l. fall., in La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, p. 485; Bonfatti, Il richiamo alle norme in tema di leverage buy out per la nomina dell’esperto, in Bonfatti e Censoni, Manuale di diritto fallimentare, Padova, 2007, p. 230; D’Ambrosio, Sub art. 67 l. fall., in Il nuovo diritto fallimentare diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2006, I, p. 996; Stasi, I piani di risanamento e di ristrutturazione nella legge fallimentare, in Il fallimento, 2006, p. 866; Mandrioli, La disciplina dell’azione revocatoria nelle procedure di composizione negoziale delle crisi d’impresa, in La disciplina dell’azione revocatoria, a cura di Bonfatti, Milano, 2005, p. 170. Propendono per la prima delle suddette soluzioni sia il Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili (cfr. Circolare n. 3/IR del 23 giugno 2008, cit., p. 5 e 6), per il quale il rinvio di cui sopra si riferisce soprattutto e pressoché esclusivamente al contenuto della relazione, sia talune voci in dottrina (si veda in tal senso

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Tuttavia, sul punto, non si può non osservare come a porre in serio dubbio che il rinvio dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. al disposto dell’art. 2501-bis, co. 4, c.c. sia circoscritto, a seguito delle novità introdotte dal decreto correttivo, al solo contenuto della relazione attestativa senza estendersi anche alle modalità di nomina del professionista, militi la considerazione che ad essere stato oggetto di modifica da parte del legislatore non è tanto il soggetto designatore, quanto i requisiti soggettivi di colui che deve essere scelto. Infatti, se prima del decreto correttivo la novella per così dire si accontentava di un esperto revisore contabile o società di revisione iscritta nell’apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia, vigente il d.lgs. n. 169/2007 la norma richiede l’attestazione di un professionista non solo iscritto nell’albo dei revisori contabili, ma appartenente per di più ad una delle categorie ordinistiche professionali di cui alla lett. a) dell’art. 28 l. fall., escludendo del pari le società di revisione allorquando tutti i soci di queste ultime, costituite sia nella forma di società di capitali sia in quella di persone, non siano revisori contabili, oltre che professionisti di cui alla sopra citata lettera a) dell’art. 28 l. fall. Il che conduce chi scrive ad affermare che se il rinvio all’art. 2501sexies c.c. disposto dall’art. 2501-bis c.c. valeva sotto il vigore della previgente disciplina, lo stesso non può che ritenersi a tutt’oggi ancora sussistente, non essendo stato nel frattempo oggetto di modifica da parte del legislatore del decreto correttivo. Ciò premesso, e fermo restando quanto sopra affermato, quello che qui interessa al fine di fornire una risposta al quesito de quo, è però la considerazione che se da un lato è ben vero, come poc’anzi concluso, che il richiamo da parte dell’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. alle modalità di nomina previste dall’art. 2501-sexies c.c. è sopravvissuto alle novità apportate dal decreto correttivo, dall’altro è altrettanto vero che il rinvio disposto dagli artt. 160 e 161 l. fall. – in tema di nomina rispettivamente del professionista “stimatore” e di quello “attestatore” – non è un rinvio tout court, e pertanto nella sua interezza, al precetto normativo conte-

Lo Cascio, Le nuove procedure di crisi: natura negoziale o pubblicistica, in Il fallimento, 2008, p. 993, in nota 5), sia ancora una recente pronuncia del Tribunale di Milano del 16 luglio 2008 (in www.ilcaso.it) che ha giudicato «sproporzionato» ritenere che l’autorità giudiziaria, nella specie il Presidente del Tribunale, debba procedere alla nomina del professionista nell’ipotesi di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall.

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nuto nel suddetto art. 67, co. 3, lett. d), l. fall., ma più semplicemente un rimando che si limita a prendere in esame i soli requisiti del professionista designato ivi contemplati, vale a dire quelli di cui alle lett. a) e b) dell’art. 28 l. fall. oltre che l’iscrizione nel registro dei revisori contabili, senza alcuna espressa intenzione di voler riferirsi anche all’individuazione del soggetto designante 10. Escludendo, conseguentemente, ogni estensione all’istituto concordatario della disciplina riguardante il soggetto designatore di cui al 2501-sexies c.c. la conclusione è alquanto evidente: la nomina del professionista era – prima del decreto correttivo – ed ancora a tutt’oggi rimane – dopo le modifiche nel frattempo apportate dal d.lgs. n. 169/2007 – una prerogativa esclusiva dell’imprenditore 11 e ciò anche con riguardo alle società per azioni ed in accomandita per azioni, sebbene sul punto l’affiorare di qualche dubbio interpretativo appaia più che lecito.

10 Peraltro, con riguardo al professionista “stimatore”, la norma è frutto di una trasposizione della disciplina dettata in tema di concordato fallimentare. La formulazione dell’art. 160 l. fall. si differenzia tuttavia dalla norma “specchio” di cui all’art. 124 l. fall., per il fatto che il professionista chiamato a predisporre la relazione giurata, non essendo scelto dal Tribunale bensì direttamente dall’imprenditore, rappresenta per l’appunto un soggetto di fiducia di quest’ultimo e non anche di un organo imparziale qual è l’autorità giudiziaria. Che alle origini di una simile scelta da parte del legislatore ci sia stata l’esigenza di evitare il ricorso al giudice competente per gli atti di volontaria giurisdizione – non essendosi ancora radicata, al momento del conferimento dell’incarico, presso il Tribunale fallimentare la domanda di concordato preventivo – non è dato sapere, quello che invece pare maggiormente certo è che a spingere verso una simile direzione abbia contribuito la circostanza che la suddetta nomina deve essere celere al fine di evitare gli effetti dilatori che il ricorso alla designazione da parte dell’autorità giudiziaria potrebbe comportare in taluni tribunali particolarmente congestionati. Peraltro, il fatto che, nell’ambito del concordato preventivo, la nomina del professionista costituisca un atto del debitore ricorrente risponde ad una logica ben precisa. Infatti, mentre nel concordato fallimentare a tale procedura preesiste quella maggiore di fallimento – nella quale il più delle volte vi è già una stima di un perito nominato dal curatore ex art. 87, co. 2, l. fall. – nel concordato preventivo manca in linea teorica un’attrazione dell’incombenza de qua alla sfera di competenza del Tribunale fallimentare, essendo il deposito del ricorso evidentemente successivo all’incarico per la stesura della relazione in oggetto. 11 In senso adesivo cfr., anche, Trib. Milano, 16 luglio 2008, cit., che di recente non ha mancato di affermare, quale obiter dictum, che nei casi di cui agli artt. 160, co. 2, l. fall. e 161, co. 3, l. fall., il legislatore avrebbe lasciato all’imprenditore la scelta del professionista, nonché, in epoca precedente, Trib. Brescia, 3 agosto 2007, in www.ilcaso.it.

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4. Il contenuto della relazione del professionista attestatore. Come noto, la relazione attestativa del professionista, che con le sue certificazioni di fidefacienza sostitutiva si pone quale garante della fede pubblica, assume senza ombra di dubbio un ruolo di indiscussa rilevanza al fine di garantire serietà agli innovativi strumenti della disciplina della crisi d’impresa, caratterizzati dalla volontà di privilegiare soluzioni negoziali e giudiziali contraddistinte da sempre maggiori connotati privatistici. Allo scopo di rafforzare la tutela del ceto creditorio la riforma della legge fallimentare ha, infatti, disposto che il piano di ristrutturazione dei debiti e la documentazione di cui all’art. 161 l. fall., allegata al ricorso di concordato preventivo, debbano essere accompagnati da una corretta radiografia in ordine alla veridicità dei dati aziendali ed alla fattibilità del piano medesimo. Così come congeniata dalla novella, l’asseverazione di veridicità dei dati aziendali si pone quindi quale condizione prodromica e strumentale alla formulazione del successivo giudizio in merito alla fattibilità del piano; giudizio che essendo un programma di sviluppo necessita per l’appunto di fondarsi su dati veritieri il più possibile affidabili ed adeguati. 4.1 La veridicità dei dati aziendali. Prima di entrare nel merito del contenuto della relazione in esame, occorre innanzitutto comprendere quale sia il corretto significato da attribuire all’espressione «attestare la veridicità». A tal proposito, non è del tutto inverosimile ritenere che dietro a tale concetto si celi una vera e propria “certificazione” caratterizzata dal riscontro della conformità sostanziale e non anche formale dei dati contabili ed extracontabili contenuti nel piano di ristrutturazione rispetto agli elementi desunti dalle scritture contabili del debitore e dalla ulteriore documentazione oggetto di verifica 12.

12 Con la conseguenza che secondo taluni si potrebbe persino giungere a supporre che il compito a cui è chiamato l’esperto consista non tanto nell’esprimere in forma “organica e coerente il piano previsto dal debitore”, quanto piuttosto nel condividerne le scelte, dopo aver effettuato l’analisi di tutta la documentazione messa a disposizione dal medesimo. In tal senso si veda Fazzini, Il ruolo del dottore commercialista, intervento al convegno “Crisi d’impresa e riforma delle procedure concorsuali”, Roma, 5 maggio 2005, p. 46 del dattiloscritto.

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In secondo luogo, ci si deve chiedere quale sia l’ambito all’interno del quale debba essere circoscritta l’attestazione di veridicità dei dati aziendali. In altri termini, occorre chiarire cosa s’intenda per dati aziendali, ed in particolar modo se gli stessi comprendano tutti gli elementi contabili forniti dall’imprenditore ovvero solo quelli rilevanti ai fini dell’attuabilità del piano. Che non tutti i dati contabili del citato imprenditore debbano essere oggetto “del necessario visto di autenticità da parte del professionista”, limitandosi l’obbligo a prendere in considerazione esclusivamente quelli sui cui il piano si fonda, è apparso pacifico già sulla base dei primi commenti alla riforma 13, ma è del pari evidente che nell’ambito di un piano i dati in esso contenuti potranno spaziare da quelli di natura meramente contabile a quelli connotati da aspetti più squisitamente aziendali o giuridici, con la conseguenza che il professionista non potrà non tenere nella dovuta considerazione che la sua attestazione dovrà necessariamente estendersi ad entrambi i suddetti elementi 14. Peraltro, in argomento, non è mancato chi, diversamente, ha ritenuto che l’asseverazione sulla veridicità dei dati non debba limitarsi ad una mera dichiarazione da parte del professionista in ordine alla corrispondenza fra gli elementi utilizzati per la predisposizione del piano e quelli desumibili dalla contabilità generale e aziendale, dovendosi, invece, estendere fino a comprendere un’espressa pronuncia del professionista sul principio di verità di cui all’art. 2423 c.c. – dettato dal legislatore in tema di redazione del bilancio d’esercizio – ancorché ciò non significhi promettere ai destinatari della relazione stessa una verità oggettiva, im-

Così Misino, La relazione prevista dal secondo comma del novellato art. 161 della legge fallimentare - Iniziali riflessioni, in www.fallimentonline.it, p. 7. Infatti, secondo l’orientamento in esame l’estensione del perimetro dei dati aziendali oggetto di attestazione di veridicità non solo non troverebbe alcun fondamento nelle disposizioni di legge, ma si tradurrebbe altresì in “una non applicabilità pratica del disposto normativo” dal momento che, ad esempio, è impensabile che il professionista incaricato della predisposizione di un piano attesti la veridicità dei dati relativi all’inquadramento contrattuale dei singoli lavoratori alle dipendenze dell’impresa in crisi. 14 Così ad esempio, nell’ipotesi in cui il piano sia contraddistinto da finalità prevalentemente liquidatorie, la relazione del professionista dovrà attestare l’appartenenza all’impresa dei beni immobili e degli altri cespiti e la libera disponibilità degli stessi, la titolarità in capo alla medesima dei crediti commerciali, finanziari e tributari, compresi nel piano, l’esistenza fisica delle giacenze di magazzino, nonché la proprietà e la legittimità in capo al debitore delle altre generiche componenti attive destinate al soddisfacimento del ceto creditorio. Al riguardo si rinvia a Misino, La relazione, cit., p. 7 e 8. 13

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possibile da raggiungere in presenza di stime e congetture che da sempre caratterizzano il suddetto documento riepilogativo della gestione aziendale 15. La tesi, pur meritevole di apprezzamento quanto allo sforzo interpretativo teso a riempire di contenuti concreti l’affermazione generica ed astratta del legislatore della novella, non pare però del tutto convincente e ciò essenzialmente per due ordini di motivazioni. La prima è costituita dal fatto che così argomentando si dimentica che i dati rilevanti ai fini del piano non sono solo quelli contabili emergenti dal bilancio e dalle situazioni patrimoniali infrannuali di riferimento, ma anche quelli extracontabili. In secondo luogo, contrasta con tale impostazione la lettera del dettato normativo che non pare spingersi fino a richiedere al professionista una pronuncia in ordine alla verità contabile ed alla correttezza delle valutazioni delle poste di bilancio, le quali possono avere presupposti diversi rispetto a quelli necessari ai fini della predisposizione del piano 16. Pertanto, in conclusione, a parere di chi scrive, il professionista è chiamato ad attestare, nell’ambito della relazione ex art. 161 l. fall., la veridicità non solo dei dati contabili presenti nel piano, ma anche di quelli necessari per l’elaborazione di quest’ultimo e degli eventuali documenti in esso contenuti, quali la serietà e la veridicità, ad esempio, di un’eventuale proposta irrevocabile d’acquisto di beni aziendali, piuttosto che l’esistenza di contratti in essere di fondamentale importanza per la riuscita del piano di ristrutturazione stesso, ivi compresi anche i contratti di affitto e cessione d’azienda o di un ramo della stessa, ovvero di un eventuale portafoglio ordini da evadere, nonché di potenziali sopravvenienze passive, o rischi futuri, non potendo l’esperto prescindere da una necessaria due diligence, volta all’attestazione dell’effettiva situazione patrimoniale, finanziaria, ed economica del debitore in prossimità della data di accesso alla procedura concorsuale di concordato preventivo. Inoltre, muovendo dalla considerazione che l’art. 173 l. fall. – tanto nella versione normativa antecedente il decreto legislativo correttivo,

15 Cfr. La Croce, La domanda di concordato preventivo e la relazione del professionista, intervento al convegno “La riforma della legge fallimentare: il nuovo concordato preventivo e gli accordi stragiudiziali”, Milano, 14-15 giugno 2005, p. 11 del dattiloscritto. 16 Si pensi ad esempio al principio del costo a cui è fortemente ancorato il nostro legislatore in tema di valutazioni delle poste di bilancio quando, diversamente, in un piano che preveda la dismissione di beni strumentali non più strategici per l’esercizio dell’attività d’impresa, l’obiettivo sarà quello di evidenziare il più probabile valore di realizzo.

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quanto in quella successiva – non è stato soppresso e che del pari l’art. 171 l. fall. continua a porre in capo al Commissario giudiziale l’onere di apportare all’elenco dei creditori le necessarie modifiche, parte della dottrina è giunta ad escludere, salvo che il piano non preveda un particolare trattamento in relazione a specifiche situazioni debitorie, che l’attestazione di veridicità dei dati rilasciata dal professionista debba necessariamente riguardare le passività dell’impresa 17, ancorché chi scrive ritenga che l’indagine ed il giudizio conclusivo non possano non estendersi fino a ricomprendere le suddette passività, dando in tal modo corso a quella necessaria fotografia della reale situazione economica, patrimoniale e finanziaria del debitore in prossimità della data di accesso alla procedura. Infine, è doveroso sottolineare come il giudizio di veridicità dei dati aziendali debba estendersi, stante il tenore letterale dell’art. 161, co. 3, l. fall., che impone alla relazione di accompagnare il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti del medesimo articolo, anche all’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale economica e finanziaria dell’impresa, allo stato analitico ed estimativo delle attività, all’elenco nominativo dei creditori, all’elenco dei titolari dei diritti reali o personali di proprietà o in possesso del debitore, al valore dei beni ed all’elenco dei creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili di cui alle lettere a), b), c), e d) dell’art. 161, co. 2, l. fall., essendo questi documenti fondamentali per il successivo riscontro della fattibilità del piano 18. Sennonché, nell’attestare la veridicità dei dati aziendali contenuti nei documenti testé elencati, non va dimenticato che il professionista si limita a fornire esclusivamente una ragionevole sicurezza, ovvero un ragionevole convincimento che i medesimi siano, nel loro complesso, esenti da significativi errori o frodi. Conseguentemente, è inevitabile che nella predisposizione della relazione in esame l’estensore corra il rischio intrinseco che alcuni errori significativi contenuti nel piano ovvero nella documentazione di cui sopra, possano non essere individuati nonostante il lavoro sia stato pianificato ed eseguito diligentemente.

17 Così Misino, La relazione, cit., p. 5; Zocca, Le relazioni attestative del professionista per la procedura di Concordato preventivo, in Telos, n. 16 del novembre 2005, p. 57. 18 Conf. Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, Milano, 2005, p. 110; Mandrioli, Le relazioni attestative del professionista, in Nuovo dir. soc., 2006, p. 38 e 39; contra, in relazione alla previsione di cui all’art. 161, co. 2, lett. a), l. fall., Misino, La relazione, cit., p. 4.

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Al riguardo, corre però l’obbligo di osservare come, il professionista stesso dotandosi, nello svolgimento dei propri accertamenti, di elementi giustificativi, sufficienti, quanto alla loro quantità, ed affidabili o adeguati, quanto alla loro qualità, attinga sempre ad elementi probativi di natura persuasiva e non anche conclusiva – quali, ad esempio, i campioni rappresentativi 19, i documenti ispezionati ed i riscontri avvenuti mediante il metodo della conferma esterna 20 – che consentono tuttavia di ridurre ad un livello accettabile il rischio della sua attività di indagine. Il che significa, in altre parole, che se i riscontri sono stati sufficienti, in termini di quantità, nonché adeguati, affidabili e pertinenti, in termini di qualità, nessuna responsabilità potrà essere addossata al professionista “attestatore”, stante la mancanza dell’identificazione dell’errore. 4.2 (segue) Le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza. Il vuoto normativo lasciato dal legislatore circa la struttura della relazione attestativa del professionista, ha indotto la giurisprudenza di merito – coinvolta nella valutazione delle varie proposte di concordato preventivo presentate a ridosso dell’entrata in vigore della riforma della legge fallimentare – a tentare una difficile ricostruzione dell’istituto allo scopo di eliminare o quanto meno di attenuare tale fattore di instabilità, tracciando così le prime linee guida in ordine al contenuto del documento in oggetto e, soprattutto, alle necessarie indagini che il professionista deve svolgere. Sul punto, è stato, infatti, precisato che poiché la relazione in esame è diretta a sostituire, in sede di ammissione alla procedura, l’attività istruttoria del Tribunale con riguardo alla veridicità dei dati aziendali, la stessa

19 Anche se non pochi dubbi sono sorti sulla possibilità di effettuare controlli a campione. Cfr., in argomento, Ambrosini, La domanda di concordato preventivo, in La riforma della legge fallimentare a cura di Ambrosini, Bologna, 2006, p. 317; Demarchi, Articolo 161 – Domanda di concordato, in Ambrosini e Demarchi, Il nuovo concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2005, p. 63; Caffi, Il concordato preventivo, in Il diritto fallimentare riformato a cura di Schiano di Pepe, Padova, 2007, p. 62; Antonello e Peracin, Concordato preventivo. La relazione del professionista sulla veridicità dei dati aziendali e fattibilità del piano, inserto a Il Commercialista veneto, marzo/aprile 2006, p. 8, che ritengono tali campioni non sufficienti, sebbene non sia possibile pretendere un’analisi, non realizzabile nelle imprese di rilevanti dimensioni, di tutti i singoli dati contenuti nel piano. 20 Vale a dire acquisiti sulla base di comunicazioni dirette di terzi tali da consentire, in assenza di prova contraria di questi ultimi, di accettarli come veritieri.

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non può, in alcun modo, limitarsi ad affermare che i dati medesimi sono stati recepiti dalla contabilità dell’imprenditore, senza che sia stato effettuato alcun controllo in tal senso 21. Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di merito deve, infatti, reputarsi priva di qualsiasi contenuto argomentativo quella relazione nella quale il professionista ometta di svolgere la dovuta attività di revisione volta a consentire di evidenziare i risultati della due diligence eseguita sui dati aziendali 22, accertando esclusivamente, senza dar corso ai necessari approfondimenti, la corretta tenuta delle scritture contabili, sia formale che sostanziale, nonché la loro attendibilità, sulla base di un mero riscontro tanto dei saldi di contabilità con i debiti e crediti esposti nel ricorso, quanto della regolare tenuta dei libri sociali obbligatori 23. Al professionista “attestatore” viene invece chiesto di illustrare sia i risultati della verifica effettuata sulle scritture contabili del debitore sia le conclusioni raggiunte 24, non potendosi lo stesso in alcun modo limitare, nella sua relazione, ad una semplice spiegazione, anche se in forma organica e coerente, del piano, dovendo, al contrario, manifestare nella medesima quel quid pluris, rappresentato per l’appunto dall’attestazione della veridicità dei dati aziendali che, coinvolgendo elementi oggettivi, va ben oltre un mero atto di fede fondato su un’analisi semplicemente formale della documentazione esaminata 25. A tal proposito, è stato nondimeno sostenuto come l’accertamento in ordine all’attendibilità delle scritture contabili e dei libri sociali, nonché dei bilanci d’esercizio chiusi negli anni precedenti possa essere desunto non solo effettuando un’analisi del contenuto delle relazioni e dei verbali di verifica predisposti dal Collegio sindacale, laddove esistente, ma anche dando corso ad un controllo incrociato delle esposizioni debitorie alla data di presentazione della sopra citata domanda di ammissione,

Trib. Torino, 17 novembre 2005, in Il fallimento, 2006, 479. Al riguardo si veda Trib. Roma, 8 marzo 2006, in www.fallimentonline.it. 23 Si veda Trib. Messina, 29 dicembre 2005, in Il fallimento, 2006, 679 ss.; Trib. Pescara, 20 ottobre 2005, in Il fallimento, 2006, 56 ss. 24 Così Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, cit., p. 109. Propedeutico per la formazione del giudizio di veridicità dei dati aziendali è nondimeno l’accesso diretto del professionista in azienda allo scopo di verificare tra le altre cose anche l’affidabilità delle strutture e delle procedure amministrative in essere. Conf. Antonello e Peracin, Concordato preventivo, cit., p. 8. 25 Cfr. De Crescienzo, Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, Milano, 2005, p. 31. 21 22

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mediante il riscontro della documentazione contabile d’appoggio della società debitrice con i documenti provenienti dagli stessi creditori, ovvero ancora, una volta riesaminato il passivo e predisposto il prospetto relativo al cosiddetto “passivo rettificato” allegato alla proposta di concordato, indicando le passività potenziali riferibili a contenziosi pendenti o prevedibili 26. Il che significa, in altri termini, che il professionista deve prendere in considerazione le spese legali e gli interessi effettivamente maturati e ciò anche a seguito delle iniziative giudiziarie intraprese dai creditori, non essendo sufficiente il generico inserimento di tali passività in appositi fondi rischi i quali, ovviamente, non consentono l’individuazione precisa dei creditori a cui si riferiscono, con la conseguenza che nell’ipotesi di una simile omissione il prospetto contenente l’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei rispettivi crediti, da allegarsi al ricorso a norma dell’art. 161, co. 2, lett. b), l. fall., non potrà che risultare incompleto ed irregolare finendo per evidenziare importi di crediti che in determinati casi sono per l’appunto inferiori rispetto a quelli effettivi 27. Deve, infatti, ritenersi inammissibile per la giurisprudenza di merito una proposta di concordato preventivo in cui il professionista, nella redazione della propria relazione ex art. 161, co. 3, l. fall., abbia sì accertato la corrispondenza al valore nominale contabile dei crediti risultanti dall’elenco nominativo e l’adeguatezza del fondo rischi ed oneri alle passività collegate alle spese legali ed agli interessi maturati sui debiti della società, ma non anche verificato la concreta veridicità dei dati aziendali ed in particolar modo delle suddette passività sulla base della documentazione disponibile, così che in una siffatta circostanza la “veridicità” del dato rimarrebbe «affidata ad un giudizio di non verificata

26 Trib. Messina, 29 dicembre 2005, cit., 679 ss. Peraltro, in argomento, parte della dottrina (v. Misino, La relazione, cit., p. 6) non ha mancato di precisare che, qualora sussistano rapporti bancari, il professionista incaricato di redigere la relazione dovrebbe nondimeno procedere all’accertamento della corretta applicazione della capitalizzazione degli interessi tenendo presente le note vicende giurisprudenziali sull’anatocismo. 27 Così Trib. Pescara, 20 ottobre 2005, cit., 56 ss. Diversamente, sull’argomento, è stato affermato che non pregiudica la corretta valutazione in ordine all’attendibilità del piano la mancata previsione in quest’ultimo documento del soddisfacimento di crediti contestati qualora gli stessi oltre a non essere né liquidi né esigibili siano decisamente oggetto di contestazione da parte del ricorrente e conseguentemente di accertamento giudiziale (v. Trib. Prato, 5 dicembre 2005, in Il fallimento, 2006, 942 e 943).

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verosimiglianza pur in presenza delle condizioni per eseguire un preciso riscontro della corrispondenza tra credito complessivamente esposto e credito effettivamente maturato» 28. 4.3 La fattibilità del piano. Come noto, la relazione di cui all’art. 161, co. 3, l. fall., si completa con un giudizio finale del professionista il quale, ritenendo le soluzioni prospettate dall’imprenditore per la composizione negoziale della crisi d’impresa idonee non solo sotto il profilo giuridico ma anche con riguardo all’aspetto economico, conclude per la concreta idoneità del piano e quindi della proposta di concordato a raggiungere gli scopi ivi previsti 29. Il professionista è, infatti, chiamato a pronunciarsi con criticità in merito alla corretta valutazione, in un’ottica prospettica, dei dati aziendali contenuti nel piano, nonché in relazione al valore di stima delle attività di cui alla lett. b) dell’art. 161, co. 2, l. fall. 30, affrontando pertanto le problematiche e gli aspetti di attuazione pratica del piano 31, senza mancare di esprimere un giudizio sulla rispondenza dei dati contabili ai fatti di gestione e senza per questo dover entrare nel merito della correttezza delle modalità che hanno caratterizzato, sotto l’aspetto gestorio, la conduzione dell’impresa. Dal punto di vista della formulazione del giudizio in esame, il professionista, con profilo critico e sotto la sua responsabilità, dovrà pertanto esporre le proprie valutazioni prendendo in considerazione gli elementi su cui si fonda il processo di ristrutturazione aziendale, quali le scelte strategiche che l’impresa dovrà adottare, i cambiamenti da apportare al management, attraverso una sua sostituzione o l’affiancamento con specialisti esterni, i beni strumentali che l’azienda intende dismettere, esaminando al tempo stesso i fattori esogeni che potrebbero in un qualche modo influenzare o addirittura impedire la regolare attuazione del piano stesso. In particolare, devono essere analizzati il possibile venir meno

In tal senso si esprime, in giurisprudenza, Trib. Pescara, 20 ottobre 2005, cit., 56 ss. In argomento cfr. De Crescienzo, Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, cit., p. 31. 30 Sul tema ci si permette di rinviare a Mandrioli, Le relazioni attestative del professionista, cit., p. 40. 31 Cfr. Misino, La relazione prevista dal secondo comma del novellato art. 161 della legge fallimentare nell’ipotesi di un piano di risanamento aziendale - Considerazioni conclusive, in www.fallimentonline.it, 2005, II, p. 5. 28

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di alcuni presupposti su cui quest’ultimo si fonda, gli eventuali sviluppi inattesi, i probabili errori di valutazione, nonché i ritardi nell’attuazione e nell’esecuzione del programma di ristrutturazione. In altri termini, all’interno della relazione tutte le incertezze devono essere chiaramente espresse, in modo tale che i destinatari e gli utilizzatori finali del documento possano comprenderne e valutarne i rischi correlati e quindi affrontare responsabilmente le proprie scelte. Si forma così un giudizio complessivo in termini di certificazione che non si limita alle sole dinamiche passate o meglio alla conduzione storica dell’azienda ed ai risultati rilevati sino alla data di presentazione del concordato, ma si estende alla gestione prospettica dell’impresa, vale a dire alla fattibilità del piano e quindi alla sua concreta prospettiva di attuabilità 32. In particolar modo, è solo dopo aver evidenziato i “profili di discontinuità” che il sopra citato piano presenta rispetto alla precedente modalità di gestione dell’azienda, ed illustrato le “idee” che sono alla base del medesimo e che rappresentano in realtà le ragioni per le quali la proposta di concordato, previo parere favorevole dei creditori votanti, è omologabile da parte del Tribunale, che il professionista potrà pronunciarsi sulla concreta attuabilità del piano stesso. Il che significa, in altre parole, che mentre quest’ultimo documento dovrà illustrare in modo sintetico, attraverso l’utilizzo dei numeri, gli interventi a medio e lungo termine che l’imprenditore intende attuare sulla struttura economico-finanziaria della società, la relazione del professionista non potrà prescindere, invece, da un’illustrazione tecnica delle scelte operate dall’imprenditore medesimo e da un chiarimento circa la loro validità. L’esame critico del programma di ristrutturazione dovrà, in definitiva, concentrarsi sulle cause all’origine della crisi aziendale, sulle strategie di risanamento, sulle eventuali operazioni straordinarie da intraprendere ed infine sui principi fondamentali che hanno guidato l’estensore del piano nella formulazione del business plan ed in particolare dei budget economici futuri e dei flussi prospettici di cassa. È, pertanto, evidente che la relazione in esame dovrà concludersi con un giudizio finale, il quale potrà spaziare da una considerazione sintetizzata in una breve formula a giudizi più complessi ed articolati che, in base alla esperienza ed alla competenza tecnica del professionista,

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In tal senso si esprime Fazzini, Il ruolo del dottore commercialista, cit., p. 47.

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conducano l’estensore ad individuare in modo compiuto diversi scenari in corrispondenza del verificarsi di differenti variabili 33. In conclusione, quindi, se da un lato al professionista viene richiesta una prognosi che, pur essendo espressa sulla base delle proprie capacità ed esperienze, rimane pur sempre una congettura in ordine all’attuabilità del piano 34, dall’altro non pochi dubbi sorgono sulla possibilità, ovvero sull’obbligatorietà per il suddetto soggetto di dar conto, al fine di una migliore formazione del consenso informato dei creditori, dell’esistenza di una diversa e più conveniente proposta di concordato 35. Peraltro, affinché possa ritenersi integrato il requisito richiesto dalla legge in ordine al giudizio di fattibilità del piano, occorre che il professionista non si limiti ad una semplice indicazione di fattibilità “solo apoditticamente affermata”, senza alcuna minima illustrazione delle considerazioni a supporto di tale conclusione 36, dovendo, al contrario, motivare in modo chiaro ed approfondito le ragioni che lo hanno indotto ad esprimere un giudizio positivo in relazione alla probabile riuscita del piano, non potendo del pari ricorrere a formule esclusivamente di stile 37; motivazione dell’attestazione che dovrà pertanto essere sostanziale ed oggettiva 38. Tali considerazioni trovano nondimeno sostegno nelle prime pronunce della giurisprudenza di merito secondo la quale se da un lato deve sempre essere ricostruibile l’iter logico delle argomentazioni che hanno sorretto l’attestazione di fattibilità del piano, essendo la relazione destinata a svolgere per il ceto creditorio un’importante funzione informativa e dimostrativa 39, dall’altro “relazioni generiche, approssimative,

Sia consentito il rinvio a Mandrioli, I piani di risanamento ed il ruolo del professionista, in La riforma delle legge fallimentare, Atti del Convegno di Modena, 21 e 22 giugno 2005, p. 205. 34 Così Ferro, I nuovi strumenti di regolazione negoziale dell’insolvenza e la tutela giudiziaria delle intese fra debitore e creditori: storia italiana della timidezza competitiva, in Il fallimento, 2005, p. 591. Contra La Croce, La domanda, cit., p. 13 del dattiloscritto. 35 Si veda De Crescienzo, Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, cit., p. 31. 36 Sull’argomento cfr. Patti, I diritti dei creditori nel nuovo concordato preventivo in La tutela dei diritti nella riforma fallimentare a cura di Fabiani, Patti, scritti in onore di Lo Cascio, Milano, 2006, p. 280 e 281. 37 Cfr. Demarchi, Articolo 161 – Domanda di concordato, in Ambrosini, Demarchi, Il nuovo concordato preventivo, cit., p. 63. 38 V. Zocca, Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e relazione del professionista, Milano, 2006, p. 103. 39 Si veda Trib. Monza, 16 ottobre 2005, in Il fallimento, 2005, 1402. 33

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immotivate o meramente ripetitive delle previsioni del piano proposto dal debitore, senza alcuna valutazione critica e ragionata dello stesso, non possono superare il vaglio di completezza e regolarità rimesso al Tribunale”, con la conseguenza che deve essere dichiarata inammissibile una proposta di concordato preventivo in cui la relazione del professionista è “incompleta ed irregolare”, nonché “inidonea a fornire adeguato supporto motivazionale alle attestazioni di veridicità dei dati e di fattibilità del piano” 40. Per piano fattibile deve, infatti, intendersi un progetto di ristrutturazione del debito e soddisfacimento dei creditori “credibile”, i cui obiettivi “possono concretamente realizzarsi non in termini di mera possibilità, ma di probabilità di successo”, tant’è che deve ritenersi non apprezzabile quel giudizio di fattibilità del piano caratterizzato da assunti privi di dimostrazione e di qualsiasi connotato valutativo non avendo il professionista, tra le altre cose, svolto alcun controllo sulle capacità patrimoniali dei debitori della società concordataria in relazione alle concrete prospettive di realizzo delle posizioni a credito da incassare 41. In una simile ottica la giurisprudenza di merito non ha peraltro mancato di osservare come la fattibilità del piano si traduca in realtà nella “sostenibilità e nella coerenza del programma di azione prospettato dal debitore”, da valutarsi “in relazione alle concrete modalità in cui questo si articola” ed in particolare nella coerenza con la situazione economica, finanziaria e patrimoniale iniziale, la cui effettiva attuabilità deve essere misurata sulla base delle risorse disponibili e di quelle rinvenibili dalla liquidazione dei beni ovvero dalla continuazione dell’attività d’impresa, il tutto tenendo per di più presente non solo i dati storici di partenza, ma anche le dinamiche del settore in cui l’imprenditore si trova ad operare 42. Va da sé, infine, posto di voler aderire a quella tesi secondo la quale un’attestazione con rilievi sia comunque da ritenersi conforme alle prescrizioni di cui all’art. 161 l. fall. 43, che un’eventuale relazione negativa finirà per vincolare il Tribunale in ordine alla mancata ammissibilità del debitore alla procedura di concordato sebbene non potrà far propendere il medesimo per un’automatica dichiarazione di fallimento 44.

Così Trib. Pescara, 20 ottobre 2005, cit., 56 ss. Cfr. Trib. Roma, 8 marzo 2006, cit. 42 In tal senso si esprime Trib. Pescara, 30 settembre 2005, in www.Tribunaledimonza.net. 43 Contra Zocca, Accordi di ristrutturazione, cit., p. 92. 44 In argomento si rinvia a Pacchi, Il nuovo concordato preventivo, cit., p. 111. 40 41

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4.4. La necessità di un protocollo nazionale. Nel prendere atto che la voluntas legislatoris è volta a far sì che la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo sia accompagnata da una relazione del professionista predisposta in conformità al modello tipicamente ed astrattamente prefigurato dal legislatore, caratterizzata quindi da contenuti chiari, comprensibili, non reticenti e non omissivi, in grado pertanto di consentire a chi la legge di avere tutte le informazioni necessarie a realizzare il fine per il quale la stessa viene richiesta dalla novella, non si può, tuttavia, fare a meno di rilevare come evidenti siano le difficoltà nel rinvenire quelli che dovrebbero essere i principi applicativi per la stesura del documento in oggetto. In altri termini, il vero scoglio nel predisporre la relazione ex art. 161, co. 3, l. fall. consiste proprio nell’assenza di un necessario paradigma normativo che individui la struttura tipo della medesima; manca, in definitiva, l’archetipo dal quale si possano evincere con certezza i contenuti argomentativi della stessa, nonché i riscontri e le indagini che l’esperto è tenuto a compiere al fine di giungere a formulare un parere logico e motivato. Il silenzio della novella, che sul tema si limita ad individuare solamente l’oggetto della relazione cioè il giudizio conclusivo di veridicità dei dati aziendali ed il pronostico di fattibilità del piano, impone pertanto, a giudizio di chi scrive, una necessaria dipendenza della prospettiva giuridica da quella economica-aziendalistica. Al riguardo, le prime pronunce giurisprudenziali di merito, nel tentativo di fornire un modello di riferimento per il giudizio di veridicità dei dati aziendali, hanno ritenuto di assimilare la relazione attestativa del professionista alla verifica ed al giudizio al quale è chiamato – nell’ambito del controllo contabile di cui all’art. 2409-ter, lett. b) e c), c.c. – il revisore contabile delle società di capitali, atteso che, al pari di quest’ultima, la prima “deve articolarsi in diverse fasi (ispettivo - ricognitiva, valutativa della regolarità, comminatoria, con pubblica esplicitazione del giudizio espresso)”, essendo per di più necessaria una ricostruzione dei controlli effettuati 45. L’esistenza di una parziale analogia tra le due fattispecie di cui sopra è stata per di più rilevata anche dalla dottrina 46, la quale però non ha

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Così si esprime Trib. Messina, 29 dicembre 2005, cit., 679 ss. Conf. Antonello e Peracin, Concordato preventivo, cit., p. 7.


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mancato di osservare come in entrambe le circostanze sia necessario dar corso ad una verifica sotto il profilo formale e sostanziale della corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione, sebbene nella relazione ex art. 161 l. fall. il professionista sia chiamato a pronunciarsi, a differenza di quanto avviene in sede di formazione del bilancio d’esercizio, su dati aziendali non sempre frutto di valutazioni ex post. Che alla relazione in oggetto possano essere applicate alcune delle metodologie operative in tema di controllo contabile di cui all’art. 2409ter c.c., è stato nondimeno sostenuto anche da altra parte della dottrina, la quale però ha sottolineato come, ai fini del giudizio in esame, sia del pari necessario riferirsi ai principi di revisione ed in particolare al documento n. 1005 “Considerazioni sulla revisione delle imprese ed enti minori”, elaborato dalla Commissione paritetica per i principi di revisione, costituita dai Consigli Nazionali dei Dottori Commercialisti e dei Ragionieri, in ordine alle modalità di revisione delle imprese minori, laddove un ruolo di primaria importanza riveste il concetto di significatività delle informazioni in relazione alle quali il professionista è chiamato a svolgere i necessari riscontri al fine di giungere all’attestazione conclusiva 47. Sennonché, a parere di chi scrive, tali ricostruzioni della dottrina e della giurisprudenza non si addicono in modo completo a fungere da punto di riferimento per il giudizio di veridicità dei dati aziendali e di fattibilità del piano concordatario a cui è chiamato il professionista “attestatore”. Con particolare riferimento al controllo contabile ex art. 2409-ter c.c. occorre, infatti, rilevare come il medesimo presenti un’ampiezza di indagine maggiore rispetto a quella richiesta al soggetto in esame, il quale non solo ha una conoscenza limitata dell’azienda, ma deve circoscrivere le proprie verifiche alla veridicità dei dati aziendali contabili ed extracontabili, e non anche alle scritture contabili ed ai bilanci, come diversamente richiede la prima tipologia di controllo. Per quanto concerne, invece, i principi di revisione aziendale di cui al documento n. 1005 “Considerazioni sulla revisione delle imprese ed enti minori”, elaborato dalla Commissione paritetica per i principi di revisione, costituita dai Consigli Nazionali dei Dottori Commercialisti e dei Ragionieri, non si può fare a meno di osservare come gli stessi si riferiscano alle modalità di revisione delle imprese minori, lasciando quindi del tutto aperta la problematica inerente la redazione della rela-

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Cfr. Zocca, Accordi di ristrutturazione, cit., p. 87 ss.

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zione attestativa allorquando a richiedere l’ammissione alla procedura di concordato preventivo sia un’impresa di maggiori dimensioni. Eliminato qualsiasi riferimento esclusivo ai principi del controllo contabile ex art. 2409-ter c.c. ed a quelli di revisione aziendale di cui al sopra citato documento n. 1005 “Considerazioni sulla revisione delle imprese ed enti minori”, chi scrive non può fare altro che condividere, come auspicato da più parti, la stesura di un protocollo, il quale su scala nazionale stabilisca le regole di generale accettazione da seguire nella predisposizione del piano di cui all’art. 160 l. fall. e della relazione ex art. 161 l. fall., vale a dire una serie di raccomandazioni contenenti gli accertamenti da esperire, affinché tali documenti possano essere accettati dalla giurisprudenza in quanto di particolare qualità. Non vi è, infatti, dubbio che tanto più elevato sarà lo standard contenutistico di questi protocolli tanto più ne beneficerà l’intero processo di concordato, attenuandosi al tempo stesso i profili di responsabilità del professionista. Si tratta, in definitiva, di dar vita ad un documento espressivo della diligenza professionale che, prendendo spunto dai contributi scientifici provenienti dagli studi economici ed aziendalistici, consenta di trasferire in modo critico da un campo all’altro i risultati raggiunti, senza che per questo il ricorso alla “tipicità” si traduca in un limite all’autonomia delle parti ed in particolar modo, nella fattispecie in esame, a quella del professionista in ordine al contenuto della propria relazione asseverativa. A tal proposito, infatti, tra i Principi di revisione internazionali 48, denominati ISA (International Standards of Auditing) – che rispondono all’aumentata esigenza di disporre di regole internazionali omogenee non solo per la redazione del bilancio, ma anche per la supervisione ed il controllo dei conti, nonché dei piani e dei rendiconti finanziari e pertanto di tutta la cosiddetta “filiera dell’informazione” – ed in particolare nell’ambito dei principi di revisione applicabili negli incarichi di attestazione dei dati prospettici ISAE (International Standards on Assurance Engagements), la scienza aziendalistica non ha mancato, con il contributo delle prassi contabili, di elaborare regole di generale accettazione tra cui spicca l’ISAE 3400, intitolato “The Examination of prospective financial information” che, nel tradurre in principi operativi il precedente ISA

48 Elaborati all’interno dell’IFAC (International Federation of Accountants) dall’apposita commissione tecnica IAASB (International Auditing and Assurance Standards Board).

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810, riguardante le regole generali, si occupa di dettare le linee guida e le procedure essenziali per l’esame e l’analisi delle informazioni sulle prospettive finanziarie e sui programmi aziendali al fine di realizzare più efficacemente l’obiettivo delle verifiche e la valutazione dei presupposti ipotetici che sono alla base dei documenti programmatici 49. Peraltro, pur difettando di un quadro organico ed esaustivo, un timido tentativo verso tale direzione è stato di recente compiuto dall’organismo professionale di riferimento per l’espletamento della professione di dottore commercialista, il quale ha elaborato un primo protocollo nazionale, redatto secondo massime di esperienza aziendalistica incrociate con la ratio decidendi delle iniziali pronunce dei tribunali che, senza pretendere di dare risposte definitive alle numerose difficoltà applicative della novella, ha comunque tentato di fornire ai propri iscritti i primi riscontri ai numerosi dubbi che inevitabilmente sono affiorati con l’applicazione della nuova disciplina, segnalando alcuni punti essenziali, emersi dal confronto tra dottori commercialisti e magistrati, affinché la relazione del professionista possa essere intelleggibile e pertanto ricostruibile con riguardo alle argomentazioni ed alle osservazioni tecniche che hanno condotto al giudizio di veridicità dei dati aziendali e di fattibilità del piano 50. Nel futuro lo sforzo non potrà quindi che essere volto a formare un insieme di veri e propri principi di comportamento che siano in grado di fornire – in aggiunta ad una serie di proto-principi di dimensione sovra ordinata rispetto a quelli di stretta tecnica redazionale, concernenti l’atteggiamento mentale e la motivazione che devono animare, nell’ambito della composizione negoziale della crisi d’impresa, le parti coinvolte – un modello di generale accettazione, individuando, attraverso un apposito corpo di regole, metodologie di tecnica operativa al fine di gui-

49 Principi, questi degli ISA, che in forza della VIII Direttiva 2006/43/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006 – tesa a migliorare la credibilità dell’informazione finanziaria ed a rafforzare la protezione dell’Unione Europea contro alcuni scandali finanziari – devono peraltro essere adottati, salvo diversa attribuzione della loro rilevanza da parte dei diversi Stati membri, per tutte le revisioni legali dei conti previste dal diritto comunitario in tema di conti annuali e consolidati con particolare riguardo agli enti che abbiano emesso strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati e il cui recepimento, con i necessari adattamenti richiesti dalla realtà italiana, sia rimesso alla Commissione Paritetica per i principi di revisione costituita dai Consigli Nazionali dei Dottori commercialisti e dei Ragionieri. 50 Sul punto cfr. Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti, Protocollo piani di risanamento e ristrutturazione: Relazioni del professionista, in www.cndc.it, 2006.

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dare il professionista nella predisposizione e formazione della relazione di cui all’art. 161 l. fall. 51 e del piano di ristrutturazione dei debiti, fermo restando che la forma ed i relativi contenuti non potranno che rimanere sostanzialmente liberi. Solo proseguendo in questa direzione la relazione del professionista potrà rappresentare la giusta sintesi fra l’esigenza di un contenuto informativo minimo e la sua idoneità a fungere da bussola di riferimento per la valutazione del ceto creditorio in ordine alla proposta concordataria, dal momento che al Tribunale è stato riservato il solo compito, mediante l’accertamento della serietà, della completezza e pertanto della complessiva attendibilità procedurale delle valutazioni dell’esperto, di verificare che il documento in esame sia esplicativo delle ragioni e delle osservazioni tecniche che hanno condotto il professionista stesso a concludere per la veridicità dei dati aziendali e per la fattibilità del piano.

5. Il contenuto della relazione del professionista stimatore. Nel superare ogni incertezza interpretativa e nel prendere atto della varietà delle pronunce giurisprudenziali che, a seguito dell’entrata in vigore dell’atto primo della riforma della legge fallimentare, avevano da un lato ribadito la necessità di un soddisfacimento integrale dei creditori muniti di cause legittime di prelazione 52, e dall’altro, unitamente a talune voci della dottrina 53, ammesso la facoltà di offrire un trattamento

51 E anche di quella di cui all’art. 160, co. 2, l. fall. riguardante il professionista “stimatore”. 52 Tra i primi provvedimenti della giurisprudenza di merito cfr. Trib. Messina, 29 dicembre 2005, cit., 679; Trib. Bari, 7 novembre 2005, in Il fallimento, 2006, 53; Trib. Pescara, 20 ottobre 2005, cit., 56; Trib. Sulmona, 6 giugno 2005, cit., 800. 53 Si veda Censoni, Il concordato preventivo, in La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione a cura di Bonfatti e Censoni, Padova, 2007, p. 233; D’Amora, Note esegetiche sul nuovo concordato preventivo e le procedure di ristrutturazione dei debiti, in www.fallimentonline.it, p. 5; Demarchi, Articolo 177 - Maggioranza per l’approvazione del concordato, in Ambrosini, Demarchi, Il nuovo concordato preventivo, cit., p. 120 ss.; Ferri, I crediti privilegiati nella disciplina del nuovo concordato preventivo, in Il fallimento, 2006, p. 695 ss.; in principio, salvo però pervenire a diversa conclusione, Bozza, La proposta di concordato preventivo, la formazione delle classi e le maggioranze richieste dalla nuova disciplina, ivi, 2005, p. 1211; Mandrioli, Struttura e contenuti dei “piani di risanamento” e dei “progetti di ristrutturazione” nel concordato preventivo e negli accordi di composi-

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in percentuale ai suddetti creditori 54, il nuovo secondo comma dell’art. 160 l. fall., legittima ora, a chiare lettere, la possibilità per il debitore di prospettare, nell’ambito della proposta concordataria ed al verificarsi di determinati presupposti, un pagamento in misura falcidiata del ceto creditorio privilegiato. La disposizione in esame stabilisce, infatti, che il piano ex art. 160 l. fall. possa attribuire ai creditori muniti di un diritto di prelazione un soddisfacimento non integrale, a condizione, tuttavia, che il trattamento loro riservato non risulti inferiore rispetto a quello che gli stessi potrebbero realizzare, in ragione della collocazione preferenziale, “sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione”, determinato sulla base di una relazione giurata predisposta da un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l. fall. In risposta ad una esigenza di certezza dei valori da utilizzarsi nella suddetta comparazione, l’estensore del decreto correttivo richiede, quindi, che il valore di mercato, quale ricavato in caso di liquidazione dei beni o dei diritti oggetto di prelazione, sia per così dire “stimato” mediante una relazione giurata i cui contenuti e la cui struttura non sono però in alcun modo individuati dall’art. 160 l. fall., né da qualsiasi altra disposizione della legge fallimentare. Tuttavia, a prescindere dal silenzio del legislatore sul punto, è verosimile ipotizzare che il professionista “stimatore” debba non solo descrivere i beni o i diritti oggetto di perizia, ma indicare altresì i criteri valutativi

zione stragiudiziale delle situazioni di “crisi”, in Le nuove procedure concorsuali per la prevenzione e la sistemazione delle crisi di impresa a cura di Bonfatti e Falcone, Atti del convegno di Lanciano, 17-18 marzo 2006, in Quaderni di Giurisprudenza commerciale n. 296, Milano, 2006, p. 483 ss. 54 V. Trib. Modena, 7 aprile 2005, in www.fallimentonline.it, laddove si legge che “nel caso di specie la classe n. 2) dei creditori privilegiati incapienti o con privilegio inefficace appare formata secondo criteri omogenei e, pertanto, non ostativa all’ammissibilità del concordato preventivo proposto”; nonché Trib. Torino, 20 dicembre 2006, in Il fallimento, 2007, 431, con nota di Censoni, Concordato preventivo e coinvolgimento dei creditori con diritto di prelazione. Particolare è, in argomento, la pronuncia di Trib. Torino, 17 novembre 2005, in Il fallimento, 2006, 691 ss., la quale nel precisare che i crediti muniti di privilegio potevano essere pagati in misura non integrale allorquando la prelazione non era concretamente esercitabile sul ricavato dei beni vincolati e quindi nell’ipotesi di privilegio speciale incapiente ovvero di privilegio generale mobiliare su beni non rinvenuti, aveva in realtà finito anch’essa per ammettere implicitamente la possibile dequalificazione del creditore privilegiato nell’ipotesi di mancata rispondenza patrimoniale del debitore.

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adottati e le metodologie impiegate nel procedimento di determinazione del sopra citato valore di mercato, dovendosi diversamente ritenere esonerato dall’attestare che il valore di realizzo degli stessi sia uguale o inferiore rispetto al soddisfacimento del creditore privilegiato previsto nel piano concordatario. Una simile valutazione compete, infatti, dapprima, al Tribunale nell’ambito della fase istruttoria di ammissione del debitore alla procedura, in secondo luogo, durante la votazione del concordato, ai creditori che possono esprimere il loro parere al riguardo mediante voto favorevole o contrario in sede di adunanza per l’approvazione della proposta concordataria, nonché, da ultimo, di nuovo al Tribunale, nel corso del giudizio di omologazione, allorquando, giusto il disposto dell’art. 180, co. 4, l. fall., un creditore appartenente ad una classe dissenziente contesti la convenienza economica della suddetta proposta concordataria55. Alla relazione in oggetto è, pertanto, riservato il delicato compito di fornire una corretta informativa al Tribunale e soprattutto al ceto creditorio, e ciò a maggior ragione nell’ipotesi in cui la proposta concordataria si prefigga lo scopo di soddisfare quest’ultimo non attraverso un pagamento in denaro, bensì mediante interventi di altra natura quali, ad esempio, la cessione di beni, l’attribuzione ai creditori di quote o azioni, il trasferimento di tutto o parte dell’attivo ad un assuntore, ovvero mediante operazioni straordinarie come la fusione, la scissione o la cessione dell’azienda o di suoi rami. Per queste stesse motivazioni, a cui deve aggiungersi la necessità di dar corso ad una ricostruzione logico-sistematica dell’impianto normativo, chi scrive ritiene, pur nel silenzio della novella, che la relazione giurata del professionista “stimatore” sia necessaria anche qualora il piano concordatario preveda una transazione fiscale ex art. 182-ter l. fall., dal momento che tale istituto dà vita ad una fattispecie speciale di soddisfacimento non integrale di un particolare creditore privilegiato qual è per l’appunto l’Erario.

Peraltro, in quest’ultima circostanza si osservi come all’autorità giudiziaria sia data ugualmente la facoltà di omologare il concordato qualora ritenga che il singolo creditore che ha messo in dubbio il vantaggio riservatogli dal piano concordatario possa comunque risultare soddisfatto dal concordato in misura non inferiore rispetto alle altre alternative concretamente praticabili. 55

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5.1 L’individuazione del valore di mercato attribuibile ai beni o diritti oggetto di prelazione. La riproduzione pressoché pedissequa del precetto contenuto nell’ultimo comma dell’art. 124 l. fall., ed in particolar modo delle sue modalità operative, determina – in assenza di quei doverosi adattamenti richiesti dalla diversa disciplina del concordato preventivo – alcune ulteriori incertezze interpretative che si aggiungono a quelle fino ad ora analizzate. In primo luogo, il decreto correttivo non tiene nella dovuta considerazione le differenze “strutturali” che intercorrono fra il concordato preventivo e quello fallimentare. In tale ultima sede è indubbio che la comparazione in esame possa utilizzare, quale “pietra di paragone”, il valore di mercato che si ottiene dalla liquidazione coattiva dei beni o dei diritti sui quali sussiste la legittima causa di prelazione, essendo nel frattempo il debitore già stato dichiarato fallito. Diversamente, per quanto concerne il concordato preventivo, la nuova formulazione dell’art. 160 l. fall., non specifica in alcun modo a che tipologia di vendita – libero mercato, esecuzione individuale, o addirittura fallimento – debba rapportarsi il professionista nella determinazione del valore di mercato. Il che conduce inevitabilmente a chiedersi quali siano i principi ispiratori della relazione giurata ex art. 160, co. 2, l. fall. Al riguardo, il tenore letterale del secondo comma di quest’ultima disposizione di legge, ed in particolar modo il riferimento al “ricavato in caso di liquidazione” – che sicuramente rappresenta un’espressione contraddistinta da una maggiore tecnicità rispetto a quella utilizzata nella versione ante decreto correttivo dall’art. 124 l. fall., laddove si faceva semplicemente riferimento al “ricavato in caso di vendita” – pare implicitamente presupporre una connotazione liquidatoria dell’alienazione nell’ambito di una cessione coattiva. Se così fosse si tratterebbe, quindi, di esporre nella perizia non tanto un valore “commerciale in ambito libero” – intendendosi con tale espressione il prezzo attribuibile al bene all’interno del libero commercio – ovvero un valore prudenziale che potrebbe determinare una maggiore appetibilità del bene medesimo in funzione delle condizioni economiche a cui quest’ultimo è sottoposto durante la procedura di concordato preventivo – nella quale si deve necessariamente procedere ad una svalutazione finalizzata a consentire al potenziale compratore di acquistare il bene stesso anche se non in condizioni di assoluta necessità – quanto piuttosto quello che normalmente viene attribuito, nel corso di una liquidazione coattiva,

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a quei beni che necessitano di una pronta ed immediata monetizzazione e che al contempo permettono di aprire il mercato ad un maggior numero di probabili acquirenti. In conclusione, l’espressione normativa dell’art. 160, co. 2, l. fall. pare richiedere l’individuazione di una sorta di presumibile valore di realizzo in sede di vendita coattiva dei beni o dei diritti sui quali insiste il privilegio, con un’evidente riduzione del loro valore astrattamente considerato. Il che, tuttavia, non elimina le non poche difficoltà operative connesse alla disposizione in oggetto, dal momento che ben difficilmente le stime offrono la possibilità di giungere a valori precisi e puntuali: talvolta, infatti, i periti offrono una forbice di valori – variabili tra un minimo ed un massimo – la cui oscillazione è in media del venti-venticinque per cento – e da ciò non è ovviamente possibile prescindere. 5.2. Il momento di riferimento della relazione giurata. Sempre con riguardo alla relazione giurata ex art. 160, co. 2, l. fall., il decreto correttivo omette, tra le altre cose, di indicare quale debba essere il momento di riferimento della valutazione operata dal professionista. A tal proposito, tuttavia, pare corretto ritenere che il valore di mercato debba essere proiettato, laddove possibile, alla data di presunto realizzo del bene o del diritto oggetto della garanzia, secondo le modalità ed i tempi prospettati nel piano di ristrutturazione dei debiti, e non anche ad un intervallo temporale prossimo alla formulazione della proposta concordataria. Il momento della valutazione dei beni o dei diritti su cui insiste la prelazione non deve, in realtà, mai essere confuso con quello della loro individuazione, con l’ovvia conseguenza che mentre il riferimento alla data di presentazione del ricorso assolve esclusivamente a quest’ultima esigenza, il valore degli stessi non potrà che essere accertato in chiave prospettica al verificarsi dell’effettivo realizzo, coincidente con la verosimile data di vendita del bene ovvero di esercizio del diritto indicata nel piano concordatario. Sennonché, in una tal circostanza, è inevitabile che le difficoltà connesse tanto ad una stima futura dei valori mobiliari ed immobiliari, quanto al trascorrere del tempo, possano finire per rendere la valutazione del professionista non più attuale nel momento dell’effettiva traduzione in moneta corrente del bene o del diritto su cui insiste la garanzia.

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5.3. Le problematiche connesse all’esistenza ed all’individuazione dei beni o dei diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. La relazione in oggetto limitandosi, come precisato poc’anzi, a fornire garanzie esclusivamente in ordine alla capienza del bene o del diritto, non dà alcuna certezza circa la concreta esistenza degli stessi, diversamente da quanto accade in sede di concordato fallimentare laddove il pignoramento generale di cui all’art. 42 l. fall., in tema di spossessamento dei beni del fallito, conduce ad una loro obbligatoria inventariazione ex artt. 87 e 87-bis l. fall. Sennonché, ad una simile carenza sembrerebbe possibile sopperire attraverso da un lato la funzione informativa della documentazione contabile di cui all’art. 161, co. 1, lett. a) e b), l. fall. 56, e dall’altro mediante la presentazione della relazione asseverativa del professionista ex art. 161, co. 3, l. fall., la cui attestazione di veridicità dei dati aziendali non può non riguardare anche quelli oggetto della perizia di stima redatta ai sensi dell’art. 160, co. 2, l. fall. Peraltro, quest’ultima disposizione di legge pare essere stata concepita dal legislatore del decreto correttivo avendo a riguardo l’archetipo di un piano concordatario di tipo liquidatorio – nel quale è possibile addivenire ad uno statico fotogramma dei beni oggetto di alienazione – e non anche conservativo dei valori dell’impresa 57. In effetti, mentre nell’ambito di un piano che non preveda la prosecuzione dell’attività d’impresa i possibili beni oggetto di perizia di stima non potranno che essere quelli riscontrabili in prossimità del deposito della domanda di ammissione alla procedura di concordato, non poche sono invece le problematiche ed i riflessi operativi nell’ipotesi di continuazione della sopra citata attività d’impresa. Un concordato preventivo di natura conservativa cristallizza, infatti, alla data di apertura il solo ceto creditorio e non anche l’attivo realizzabile, che, proprio in virtù della prosecuzione dell’attività d’impresa, subisce giorno dopo giorno continue modifiche rimanendo a disposizione

56 Costituita dall’aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, dallo stato analitico ed estimativo delle attività e dall’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione. 57 D’altra parte in quest’ultima circostanza è alquanto inverosimile pensare che il debitore possa offrire al ceto creditorio privilegiato un soddisfacimento in percentuale, dovendosi ritenere maggiormente probabile che il medesimo giunga invece a prospettare un semplice riscadenzamento degli originari termini di pagamento.

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del debitore concordatario per il soddisfacimento dei propri creditori. Conseguentemente in una tal fattispecie, essendo l’azienda ancora in funzionamento, tra i possibili beni mobili da prendere in considerazione ai fini della relazione di stima vi dovrebbero rientrare anche i crediti da incassare a fronte delle vendite derivanti dalla prosecuzione dell’attività d’impresa e le eventuali giacenze di magazzino in corso di formazione, la cui valutazione, in entrambe le circostanze, pare francamente se non impossibile, quanto meno di difficile effettuazione.

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Sintesi di giurisprudenza * (II trimestre 2008)

Indice delle materie: I. Banca. A) L’impresa bancaria: profili generali. – B) I depositi bancari. – C) Le cassette di sicurezza. – D) Le garanzie bancarie. – E) Titoli di credito bancari. – F) Crediti speciali. II. Borsa e mercato mobiliare: A) Vigilanza. – B) Intermediazione mobiliare. – C) Emittenti.

* Sessantasettesima puntata (le precedenti sono pubblicate in Dir. banc., 1990, I, pp. 350 e 551; 1991, I, pp. 160, 459 e 597; 1992, I, pp. 111, 253, 397 e 581; 1993, I, pp. 112, 264, 471 e 594; 1994, I, pp. 125, 255, 383 e 506; 1995, I, pp. 157, 286, 443 e 601; 1996, I, pp. 109, 265, 403 e 554; 1997, I, pp. 129, 318, 478 e 645; 1998, I, pp. 91, 277 e 637; 1999, I, pp. 171, 290, 411 e 545; 2000, I, pp. 143, 331, 516 e 671; 2001, I, pp. 89, 229 e 383; 2002, I, pp. 145, 327 e 629; 2003, I, pp. 141, 315 e 471; 2004, I, pp. 321, 447 e 657; 2005, I, pp. 109 e 301; 2006, I, pp. 169 e 533; 2007, I, pp. 163, 343 e 583; 2008, I, pp. 153, 363, 549 e 745; 2009, I, p. 111). Questa sintesi intende offrire una prima informazione sulle sentenze relative alle materia di interesse della rivista, depositate o edite nel periodo di riferimento. Hanno collaborato: Alessandro Benocci (§ 1-3); Gennaro Rotondo (§ 4-5); Filippo Parrella (§ 6); Luciano Santone (§ 7-8); Dario Martorano (§ 9-13); Stefano Boatto (§ 14-15); Vincenzo Caridi (§ 16-19).

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I. BANCA. Sommario: A) L’impresa bancaria: profili generali. – 1. Attività bancaria. - 1.1. Esercizio abusivo. – 2. Vigilanza informativa (Centrale dei rischi). - 2.1. Presupposti per la legittima segnalazione alla Centrale dei Rischi. - 2.2. Responsabilità della banca per illegittima segnalazione alla Centrale dei Rischi. – 3. Succursali. - 3.1. Poteri di rappresentanza processuale del direttore della succursale. – B) I depositi bancari. 4. Libretto di deposito al portatore. Legittimazione del possessore. Procedura di ammortamento. – 5. Deposito bancario cointestato. – C) Le cassette di sicurezza. – 6. Responsabilità della banca. – D) Le garanzie bancarie. – 7. Fideiussione e clausola “a prima richiesta”. – 8. Decadenza. – E) Titoli di credito bancari. – 9. Assegno bancario; revoca dell’ordine di pagamento del traente alla banca: inefficacia della revoca fino alla scadenza del termine di presentazione dell’assegno per il pagamento. – 10. Assegno bancario smarrito; firma del traente non coincidente con quella del titolare del conto corrente; levata del protesto nei confronti del titolare del conto corrente con evidenza della non colpevolezza del rifiuto del pagamento: sussistenza – 11. Contraffazione di assegno bancario: non colpevolezza della banca nell’ipotesi di non immediata evidenza della contraffazione; sussistenza. – 12. Assegno in bianco; consapevolezza da parte dell’emittente dell’assunzione del rischio di riempimento ed incasso dell’assegno ad opera del prenditore; legittimità del protesto: sussistenza. – 13. Assegno bancario contraffatto nell’importo e nel nominativo dell’ordinatario; responsabilità della banca: esame ex art. 1992 co. 2 c.c. del comportamento della banca ai fini dell’accertamento concreto della colpa o del dolo da parte della stessa; sussistenza. – F) I crediti speciali. – 14. Credito fondiario. - 14.1. Credito fondiario e anatocismo. - 14.2. Credito fondiario ed effetti dell’intimazione al pagamento. - 14.3. Credito fondiario e frazionamento. - 14.4. Credito fondiario e natura del privilegio accordato in fase esecutiva all’istituto erogante. – 15. Concessione di credito agrario in presenza di nullaosta concesso in conformità a leggi regionali.

A) L’impresa bancaria: profili generali 1. Attività bancaria. 1.1. Esercizio abusivo. È noto che l’art. 10 t.u.b. fissa i confini dell’attività bancaria nell’esercizio congiunto e funzionale di “raccolta del risparmio tra il pubblico ed esercizio del credito” e qualifica la banca in ragione dell’esercizio autorizzato e riservato dell’attività bancaria, consentendo di affiancare al gruppo creditizio polifunzionale il modello di banca universale; infatti, l’art. 10 individua il soggetto bancario nell’impresa collettiva abilitata non solo all’esercizio dell’attività bancaria, ma anche all’esercizio di “ogni altra attività finanziaria (…) nonché di attività connesse e strumentali”, con esclusione delle sole attività finanziarie non bancarie riservate dalla legge ad altri soggetti e con esclusione delle sole attività non finanziarie. La circostanza che l’esercizio dell’attività bancaria sia riservato alle banche e debba essere necessariamente autorizzato determina come corollario che l’esercizio dell’attività bancaria da

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parte di chi banca non è, e quindi da parte di chi, comunque definibile, non è stato autorizzato, debba considerarsi abusivo e, come tale, vietato e, se praticato, sanzionato. Il nostro ordinamento configura infatti come ipotesi di reato l’esercizio abusivo sia dell’attività di raccolta del risparmio presso il pubblico (art. 130) sia dell’attività bancaria (art. 131) sia dell’attività finanziaria (art. 132). Nel periodo in rassegna, il tema in oggetto è stato sfiorato da Trib. Lucera, 12 giugno 2008 (in Redazione Giuffrè, 2008). Il giudice di merito rammenta come l’art. 10 t.u.b. dichiari che l’attività bancaria “ha carattere di impresa”: ne segue che, per essere tale, l’attività bancaria “deve avere” carattere di impresa. Il giudice di merito ne fa quindi seguire che un delitto di esercizio abusivo potrà essere accertato solo se le modalità di esercizio della raccolta del risparmio, dell’esercizio del credito e di eventuali altre attività finanziarie saranno tali da rilevare un carattere “unitariamente valutabile in termini di impresa ai sensi dell’art. 2082 c.c.”. È cioè necessario che l’attività concretamente posta in essere senza autorizzazione presenti i caratteri richiesti dalla nozione di impresa e sia quindi un’attività quantomeno rivolta al mercato e rivolta in favore di un numero di destinatari potenzialmente vasto e assimilabile al “pubblico” contemplato dagli artt. 10 e 11 t.u.b. 2. Vigilanza informativa (Centrale dei rischi). 2.1. Presupposti per la legittima segnalazione alla Centrale dei Rischi. Trib. Mantova, 27 maggio 2008 (in La responsabilità civile, 2008, 11, 952 e in www.ilcaso.it, 2008, 1, 1266) e Trib. Latina, 19 giugno 2008 (in www. ilcaso.it, 2008, 1, 1280) si pronunciano entrambi in ordine ai presupposti che devono ricorrere ai fini della nascita degli obblighi di segnalazione alla Centrale dei rischi da parte di una banca. Dopo aver ribadito che l’art. 51 t.u.b. impone alle banche di inviare alla Banca d’Italia le segnalazioni periodiche secondo le modalità e nei termini da essa stabiliti, le sentenze richiamano la circolare n. 139/1991 della Banca d’Italia, contenente le istruzioni per gli intermediari creditizi in materia di segnalazioni alla Centrale dei rischi. La circolare obbliga le banche ad effettuare in favore della Banca d’Italia una segnalazione mensile avente per oggetto le posizioni di rischio di ciascun cliente e, in sostanziale contropartita, impone alla Banca d’Italia di comunicare alle banche, per ogni nominativo ricevuto, la posizione globale di rischio nei confronti dell’intero sistema creditizio: le posizioni di rischio oggetto di segnalazione si identificano sostanzialmente con quei crediti vantati dalla banca verso il cliente che superino i cc.dd. limiti di censimento indicati dalle stesse istruzioni della Banca d’Italia. L’obbligo di segnalazione a carico della banca nasce

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quindi nel momento in cui la banca accerta che il credito verso il cliente ha superato tali limiti. I giudici di merito confermano quindi che è pur vero che la segnalazione alla Centrale di rischi non è oggetto di una facoltà, ma di un espresso obbligo giuridico (la cui violazione, peraltro, espone la banca inadempiente alle sanzioni amministrative previste dall’art. 144 t.u.b.), ma precisano che, se la segnalazione è effettuata in assenza dei previsti presupposti, essa diviene illegittima e costituisce fonte di responsabilità civile verso il cliente irregolarmente segnalato. In particolare, Trib. Mantova, 27 maggio 2008, afferma che, se il credito verso il cliente non supera i limiti di censimento, la segnalazione alla Centrale dei rischi di un credito verso un cliente di cui non siano provate le condizioni di difficoltà economica è da considerarsi illegittima anche in presenza del rifiuto da parte del cliente di pagare quanto richiesto dalla banca. Sulla stessa scia, Trib. Latina, 19 giugno 2008, conferma che, in assenza di superamento dei limiti di censimento, è altresì illegittima la segnalazione alla Centrale dei rischi del credito verso il cliente, anche quando questi abbia emesso un assegno privo di provvista: affinché la segnalazione sia legittima, è infatti anche necessario che il cliente abbia omesso di pagare il titolo di credito, in quanto solo tale mancato pagamento incide sulla lesione degli interessi individuali e collettivi tutelati dalle norme in materia di vigilanza in generale e di Centrale dei rischi in particolare. 2.2. Responsabilità della banca per illegittima segnalazione alla Centrale dei Rischi. Preso atto della casistica in ordine alla qualificabilità di certe segnalazioni come illegittime, la giurisprudenza di merito si occupa anche di individuare i rimedi che il cliente può azionare nei confronti della banca che si renda responsabile di illegittima segnalazione alla Centrale dei rischi. Trib. Bari, 17 giugno 2008 (in Giur. Merito, 2009, 3, 684 e in Redazione Giuffrè, 2008) sostiene che la illegittima segnalazione alla Centrali dei rischi è non solo una violazione di norme in grado di porre fondamento ad un’azione aquilana, ma è innanzitutto una violazione dell’obbligo di buona fede, che, costituendo una fonte di integrazione del contratto ai sensi dell’art. 1375 c.c., rende il comportamento della banca qualificabile come una violazione di un obbligo contrattuale, che espone la banca anche ad un’azione di responsabilità civile contrattuale. Nel caso in cui un’azione del genere sia accolta, allora Trib. Mantova, 27 maggio 2008 (in La responsabilità civile, 2008, 11, 952 e in www.ilcaso.it, 2008, 1, 1266) afferma che il danno risarcibile è tanto quello patrimoniale quanto quello non patrimoniale, in entrambi i casi rappresentati dalla diminuzione della considerazione del cliente illegittimamente segnalato

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presso i consociati in genere e presso le specifiche categorie o i particolari soggetti con i quali egli abitualmente opera. 3. Succursali. 3.1. Poteri di rappresentanza processuale del direttore della succursale. La succursale è la forma tipica dell’articolazione territoriale dell’organizzazione bancaria. Dopo alcune perplessità, la certezza terminologica in ordine alla nozione di succursale deriva oggi dall’art. 1, co. 2, lett. e), t.u.b., che afferma che, per succursale, deve intendersi “una sede che costituisce parte, sprovvista di personalità giuridica, di una banca e che effettua direttamente, in tutto o in parte, l’attività della banca”. Cass., 16 maggio 2008, n. 12469 (in Guida al Diritto, 2008, 33, 69) si pronuncia sulla ricorrente questione della qualifica da attribuire al direttore della succursale bancaria e dei relativi poteri di rappresentanza processuale. In questo caso, la giurisprudenza di legittimità sembra propiziare un certo ritorno al passato. È necessario premettere che, proprio perché la succursale di una banca è la parte della banca abilitata ad effettuare direttamente l’attività di impresa e proprio perché il suo direttore è un soggetto stabilmente inserito nell’organizzazione aziendale per effetto di un rapporto di lavoro subordinato, il direttore della filiale è senz’altro configurabile come un ausiliario interno dell’imprenditore; ne segue l’applicabilità delle norme speciali in materia di rappresentanza commerciale di cui agli artt. 2203 ss. c.c.; tuttavia, si pone il problema di chiarire a quale tipologia di ausiliario interno – institore, procuratore o commesso – afferisca la figura del direttore della succursale. L’importanza della questione è di tutta evidenza perché, a seconda della qualificabilità in un senso o nell’altro, sarà corrispondentemente diverso anche il potere di rappresentanza del direttore della succursale. In passato, è stato ritenuto che la succursale di una banca era assimilabile ad una “sede secondaria dell’impresa” ai sensi dell’art. 2203 c.c. e, per effetto di ciò, è stato sostenuto che il suo direttore era da qualificarsi come institore, dotato ex artt. 2204 c.c. e 77 c.p.c. di poteri di rappresentanza processuale della banca (si veda la giurisprudenza risalente come Cass., 6 luglio 1936, n. 2363, in Banca, borsa, tit. cred., 1937, II, 61; Cass., 7 giugno 1956, n. 1951, in Banca, borsa, tit. cred., 1956, II, 285; Cass., 26 novembre 1964, n. 2805, in Banca, borsa, tit. cred., 1964, II, 481; e si veda pure la giurisprudenza recente in Giur banc., n. 16, 47, n. 17, 30, n. 18, 71 con commento di Cass., 3 settembre 2004, n. 17797). Più recentemente, Cass. 8 giugno 2006, n. 13350 (in Rep. Foro. it., 2006, voce Banca, credito e risparmio, n. 144; Mass., 2006, 1100) ha sostenuto che l’equazione tra il ruolo di

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direttore e la qualifica di institore non poteva ritenersi propriamente un automatismo e che, se quell’equazione esisteva, doveva trovare fondamento nello statuto della banca o nelle sue scelte organizzative ovvero, ancora, in un formale atto di preposizione ad institore: in mancanza di ciò, il direttore della succursale non poteva che essere qualificato come procuratore ai sensi dell’art. 2209 c.c., dotato ex lege di poteri di rappresentanza generale dell’imprenditore, ma non di poteri di rappresentanza processuale. Con la sentenza in commento (Cass., 16 maggio 2008, n. 12469), pare che la giurisprudenza di legittimità intenda tornare sui suoi passi, in quanto attribuisce ai direttori delle succursali bancarie il potere di rappresentare processualmente la banca “per qualsiasi rapporto derivante da atti compiuti nella filiale” proprio ai sensi delle norme sull’institore. Comincia a delinearsi l’esigenza di un chiarimento definitivo. B) I depositi bancari 4. Libretto di deposito al portatore. Legittimazione del possessore. Procedura di ammortamento. Cass., sez. I, 16 maggio 2008, n. 12460 (D.R.M. c. Unicredit Banca s.p.a., in CED Cassazione, 2008) è intervenuta in tema di ammortamento di titoli rappresentativi di depositi bancari (nella specie, un certificato di deposito al portatore), affermando che legittimata a proporre opposizione al decreto di ammortamento è anche la banca che abbia provveduto al pagamento del titolo, non solo in virtù dell’espressa previsione di cui all’art. 12, co. 2, della l. n. 948/1951, ma anche ai sensi dell’art. 9, co. 2, ultima parte della medesima legge, non potendo negarsi alla banca la qualifica di detentrice, avuto riguardo ad una possibile reviviscenza del titolo, che esporrebbe la banca, la quale abbia provveduto in buona fede alla sua estinzione, al rischio di dover pagare una seconda volta il medesimo importo. La S.C. ha affermato, altresì, che il termine di pubblicazione del decreto di ammortamento indicato dal citato art. 9, co. 2, non ha carattere perentorio, in difetto di un’espressa previsione di legge, onde la fissazione, da parte del presidente del tribunale, di un termine inferiore può essere fatta valere soltanto dalla parte che ne abbia ricevuto pregiudizio, per essere stata posta nell’impossibilità di proporre opposizione. In applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la nullità del decreto di ammortamento, in una fattispecie in cui l’opposizione era stata tempestivamente proposta dalla banca che, avendo provveduto al pagamento dell’importo recato da un certificato di deposito al portatore, ne era divenuta detentrice (la

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decisione cassa con rinvio, App. Roma, 22 gennaio 2004). 5. Deposito bancario cointestato. In merito al rapporto di deposito bancario con libretto cointestato, Trib. Bari, sez. II, 25 giugno 2008 (Tu.Ra. c. Mu.Co., inedita) ha affermato la presunzione che il credito solidale si divida in quote uguali con facoltà degli intestatari di operare separatamente o disgiuntamente salvo, ai sensi dell’art. 1298, co. 2, c.c., prova contraria posta a carico della parte che deduce una situazione giuridica diversa da quella risultante dalla contestazione. Trattandosi di presunzione semplice, detta prova può essere fornita con ogni mezzo. C) Le Cassette di sicurezza 6. Responsabilità della banca. Perviene dinanzi alla Corte di Cassazione la questione della vessatorietà della clausola del contratto di abbonamento al servizio delle cassette di sicurezza con la quale l’eventuale obbligazione risarcitoria della banca viene ancorata alla dichiarazione da parte del cliente del massimale assicurativo idoneo a coprire il rischio dell’obbligazione medesima. Cass., 21 maggio 2008, n. 13051 (in Foro it., 2008, 2474, con nota di Palmieri; in Obbl. e contr., 2008, 677, con nota di Rubino, e in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 245, con nota di G. La Marca, Alcune questioni in tema di clausole abusive contenute nei contratti bancari), confermando App. Roma, 24 settembre 2002 (segnalata nella cinquantunesima puntata della presente Rassegna), ha affermato che la suddetta clausola, oltre a violare il disposto dell’art. 1229 c.c. (in quanto produce l’effetto di limitare la responsabilità della banca anche in caso di dolo o colpa grave), è altresì affetta dal concorrente vizio di vessatorietà, rilevante nel caso di inadempimento della banca anche per colpa lieve, poiché limita la proponibilità dell’azione risarcitoria da parte del clienteconsumatore (in senso conforme v. già Cass., 4 aprile 2001, n. 4946, segnalata nella quarantaquattresima puntata della presente Rassegna). Con la stessa sentenza la Corte Suprema ha, poi, affermato la legittimazione delle associazioni dei consumatori a domandare l’inibitoria dell’“uso” di tale clausola nei rapporti contrattuali in corso di esecuzione al momento della pronuncia giudiziale (ai sensi dell’art. 1469-sexies c.c., trasfuso nell’art. 37 del Codice del consumo), in quanto l’art. 8 della direttiva 93/13/CEE, in materia di clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, consente agli Stati membri di adottare o mantenere

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disposizioni a tutela dei consumatori più severe di quelle contenute nella direttiva medesima (che all’art. 7 obbliga gli Stati membri ad adottare “mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l’inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori”). D. Le garanzie bancarie 7. Fideiussione e clausola “a prima richiesta”. Per Cass. 13 maggio 2008, n. 11890 (in Rep. Foro it., 2008, voce Contratto in genere [1740], n. 282) l’inserimento della clausola “a semplice richiesta” o “senza eccezioni” consente di ricostruire la volontà delle parti nel senso di precludere al garante l’esperimento delle eccezioni opponibili dal debitore garantito al creditore, così facendo venire meno il carattere dell’accessorietà proprio della fideiussione. La medesima clausola, per Cass., 24 aprile 2008, n. 10652 (in Rep. Foro it., 2008 voce Fideiussione e mandato di credito [3070], n. 24) consente al creditore di non provare l’inadempimento del garantito. Sarà, viceversa, il garante, qualora intendesse sottrarsi ai propri obblighi, a dover dimostrare, attraverso una prova pronta e liquida, la nullità del contratto garantito o l’illiceità della sua causa. Al contrario, di fronte ad una fideiussione concessa senza le summenzionate clausole, tra le eccezioni che il garante può opporre al creditore vi è anche, per Cass., 30 maggio 2008, n. 14469 (in Rep. Foro it., 2008, voce Fideiussione e mandato di credito, [3070], n. 27), la contestazione relativa all’impossibilità di provare il contratto per testimoni o presunzioni. 8. Decadenza. Nel periodo di riferimento si segnale anche la pubblicazione di Cass., 28 febbraio 2007, n. 4661 (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 273) secondo la quale è nullo il termine di decadenza per l’esercizio del diritto del creditore nei confronti del garante se coincide con la scadenza dell’obbligazione garantita. E) Titoli di credito bancari 9. Assegno bancario; revoca dell’ordine di pagamento del traente alla banca: inefficacia della revoca fino alla scadenza del termine di presentazione dell’assegno per il pagamento. Con sentenza del 26 giugno 2008, n. 17493 (in Rep. Foro it., 2008, voce Titoli di credito, 6710, n. 33) la

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Cassazione ha statuito che l’art. 35 r.d. 21 dicembre 1933 n. 173 (secondo cui “l’ordine di non pagare la somma dell’assegno bancario non ha effetto che dopo spirato il termine di presentazione”) deve essere interpretato nel senso che prima della detta scadenza la banca non deve tener conto della revoca eventualmente disposta, dovendo al contrario provvedere al pagamento se vi sono fondi disponibili. Secondo la Corte un’interpretazione orientata in tal senso è conforme al significato lessicale – non potendosi attribuire un diverso significato al collegamento operato fra l’efficacia della revoca e la scadenza del termine per la presentazione del titolo – ma soprattutto coerente con la finalità che tale norma è destinata a raggiungere che è quella di assicurare un’affidabile circolazione del titolo attraverso un rafforzamento delle misure finalizzate a garantire l’esistenza dei fondi dal momento dall’emissione dell’assegno fino alla scadenza del termine di presentazione. Conseguentemente la norma de qua, subordinando l’efficacia della revoca dell’ordine di pagamento alla scadenza del termine di presentazione, dell’assegno determina nei limiti del suo ammontare (e fino al maturare del termine indicato), “pone un vincolo specifico ed immodificabile di destinazione della provvista” (così, testualmente, Cass. 3 giugno 2004, n. 10579 citata nella sentenza in rassegna), vincolo destinato ad operare in deroga al principio secondo cui la convenzione di cheque vincola la banca solo verso l’emittente (sulla base di detto principio è stato dichiarato illegittimo il comportamento della banca trattaria la quale aveva prima accettato il pagamento e poi lo aveva revocato riaddebitando l’importo alla banca che aveva già negoziato il titolo portandolo in stanza di compensazione e presso la quale il portatore intratteneva un contratto di conto corrente). 10. Assegno bancario smarrito; firma del traente non coincidente con quella del titolare del conto corrente; levata del protesto nei confronti del titolare del conto corrente con evidenza della non colpevolezza del rifiuto del pagamento: sussistenza. Secondo il Tribunale di Bologna (30 giugno 2008, in Obbl. e Contr., 2009, 3, 272 con nota di Schiavone) in caso di rifiuto di pagamento dell’assegno a causa del fatto che lo stesso sia stato oggetto di furto e la firma del traente non coincida con quella del titolare del conto corrente, la banca trattaria può ugualmente chiedere al pubblico ufficiale di levare il protesto a nome del titolare del conto, facendo però constatare il motivo del rifiuto e quindi il carattere “incolpevole” dello stesso. 11. Contraffazione di assegno bancario: non colpevolezza della banca nell’ipotesi di non immediata evidenza della contraffazione; sussistenza. In tema di contraffazione di assegni bancari il Tribunale di Monza (13

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maggio 2008, inedita) ha ritenuto incolpevole la condotta dell’istituto emittente che, in sede di controllo nella stanza di compensazione, non era stato in grado di avvedersi della loro contraffazione e quindi non disponga il blocco del pagamento presso gli istituti ove gli stessi vengano presentati. Più precisamente il Tribunale ha osservato che perché vi sia responsabilità della banca è necessario che l’alterazione sia palese o visibile ictu oculi in base alle conoscenze del bancario medio il quale non deve disporre di particolari attrezzature strumentali o chimiche per rilevare la falsificazione dell’assegno né deve essere esperto grafologo (conforme: Cass., 15 maggio 2005, n. 15066). 12. Assegno in bianco; consapevolezza da parte dell’emittente dell’assunzione del rischio di riempimento ed incasso dell’assegno ad opera del prenditore; legittimità del protesto: sussistenza. Secondo il tribunale di Genova (2 maggio 2008, inedita) nell’ipotesi in cui l’emittente abbia consegnato al prenditore un assegno “in bianco” così conferendo all’assegno un’impropria funzione di garanzia, che necessariamente comporta la facoltà per il prenditore di riempire e mettere all’incasso il titolo nell’ipotesi di inadempimento, l’emittente stesso accetta il rischio che al momento del riempimento del documento e della sua utilizzazione come assegno, il titolo risulti privo di provvista o di autorizzazione. 13. Assegno bancario contraffatto nell’importo e nel nominativo dell’ordinatario; responsabilità della banca: esame ex art. 1992 co. 2 c.c. del comportamento della banca ai fini dell’accertamento concreto della colpa o del dolo da parte della stessa; sussistenza. Secondo la Corte d’Appello di Potenza (5 marzo 2008, inedita) nell’ipotesi di controversia insorta tra un soggetto ed una banca relativamente al pagamento di un assegno bancario non trasferibile, contraffatto nell’importo e nel nominativo dell’ordinatario, la disciplina applicabile alla fattispecie è quella contemplata dall’art. 1992, co. 2, c.c. Si deve, pertanto, verificare se la banca sia incorsa in dolo o colpa grave nell’aver effettuato il pagamento al prenditore del titolo, prenditore non legittimato stante la contraffazione dell’assegno. F) Crediti speciali 14. Credito fondiario. 14.1. Credito fondiario e anatocismo. La Corte d’Appello di Salerno,

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con sentenza 5 febbraio 2007, in Dir. fall. 2008, II, 380 e ss., con nota di G. Daleffe, Credito fondiario e anatocismo, riformando la sentenza di primo grado, si pronuncia, in particolare, con riferimento a) al computo degli interessi di mora applicati ad un contratto di mutuo fondiario concluso anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385 (t.u.b.) e b) con riguardo all’effetto, sul medesimo contratto, dell’intimazione a mezzo atto di precetto, da parte della banca mutuante, al pagamento delle rate scadute. Quanto al computo degli interessi la Corte, accogliendo le doglianze della banca appellante, afferma che la disciplina applicabile ratione temporis al contratto di mutuo fondiario, e coincidente con il d.p.r. 21 gennaio 1976, n. 7 (successivamente non modificata dalla l. 6 giugno 1991, n. 75, e in vigore ratione temporis per effetto dell’art. 161, commi 5 e 6, t.u.b.), autorizza, in deroga al divieto espresso dall’art. 1283 c.c., l’applicazione dell’interesse composto. È la stessa normativa, prosegue il collegio, ad imporre che il pagamento di interessi, annualità, compensi, diritti di finanza e rimborso di capitali dovuti producono di pieno diritto interesse dal giorno della scadenza (cfr. oltre all’art. 38, r.d. 16 luglio 1905, n. 646, l’art. 14 del d.p.r. 21 gennaio 1976, n. 7, successivamente ripreso dall’art. 16, l. 6 giugno 1991, n. 75). Per ciò stesso, secondo quanto già affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità, “non c’è dubbio che l’anatocismo, nella materia del credito fondiario, costituisce, per espressa previsione di legge, la regola, a differenza da quel che avviene nella disciplina posta dal codice civile” (cfr. Cass., 8 luglio 1986, n. 4451, Banca, borsa, tit. cred., 1988, II, 42; Cass., 19 giugno 1990, n. 6153, Banca, borsa, tit. cred., 1991, II, 305; Cass. 20 febbraio 2003, n. 2593; per la giurisprudenza di merito si vedano App. Catania, 7 luglio 1983, Banca, borsa, tit. cred., 1984, II, 493; Trib. Napoli, 8 giugno 2001, Banca, borsa, tit. cred., 2003, II, 90; Trib. Torino, 22 gennaio 1987, ivi, 1989, II, 91). Secondo la Corte, e la giurisprudenza che aderisce a tale orientamento, il fenomeno dell’interesse composto nel mutuo fondiario conseguirebbe al cumulo degli interessi di mora, applicati alle rate scadute e non pagate, ai (già compresi) interessi corrispettivi: più precisamente, l’interesse moratorio si cumulerebbe con l’interesse corrispettivo poiché quest’ultimo risulta incorporato in una con il capitale (dove interesse corrispettivo e capitale formano il c.d. piano di ammortamento). Simile privilegio risulterebbe giustificato dalla correlazione, tipica della struttura del “mutuo fondiario abrogato”, tra erogazione e raccolta della provvista presso i terzi attraverso la nota emissione di cartelle fondiarie (nella sostanza titoli obbligazionari). In questa logica, il costo del finanziamento della provvista esigerebbe la regolarità della remunerazione

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del mutuo erogato. La Corte campana dedica invece una stringata motivazione alla parte della pronuncia nella quale chiarisce l’effetto dell’intimazione al pagamento delle rate scadute. La Corte si limita a stabilire che con il precetto la banca mutuante si avvale correttamente della facoltà di intimare il pagamento delle sole semestralità scadute, ben potendo rinviare alla fase propriamente esecutiva la produzione dell’effetto risolutivo del contratto. Si tratta di statuizione male argomentata anche alla luce del principio di diritto affermato da Cass. 21 ottobre 2005, n. 20449 (in Rep. Foro it., 2005, Credito fondiario [1950], n. 8) in forza del quale in materia di mutuo fondiario disciplinato, ratione temporis, dal d.p.r. n. 7 del 1976, la notificazione da parte della banca di atto di precetto al mutuatario inadempiente per il pagamento del credito rimasto insoddisfatto comporta la risoluzione del contratto (per il futuro) posto che, con tale atto, il creditore manifesta la volontà di avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista dall’art. 15 d.p.r. 7/1976. Ma si tratta di argomentazione insoddisfacente atteso che l’effetto del precetto sul contratto di mutuo fondiario condiziona in modo decisivo la soluzione della questione avente ad oggetto il computo degli interessi. Sembra ricomporre la questione, offrendo una interpretazione più equilibrata dei complessivi profili attinenti la fase patologica del rapporto di mutuo fondiario, la pronuncia delle Sezioni Unite oggetto del commento nel prossimo paragrafo. 14.2. Credito fondiario ed effetti dell’intimazione al pagamento. Con riferimento ai contratti di credito fondiario stipulati anteriormente all’entrata in vigore del t.u.b., ed in particolare con riferimento agli effetti conseguenti all’intimazione della banca mutuante al pagamento delle rate scadute ed a scadere, si era di recente registrato un contrasto in seno alla giurisprudenza di legittimità. Sia l’art. 39 del r.d. n. 646/1905, sia l’art. 15 del più recente d.p.r. n. 7/1976 disponevano, con soluzioni linguistiche pressoché coincidenti, che si intendeva apposta la condizione risolutiva per il caso di ritardato pagamento anche di una sola parte del credito scaduto con la precisazione che l’ente mutuante poteva chiedere esecutivamente il pagamento di ogni somma ad esso dovuta. In tale contesto, la giurisprudenza è stata più volte investita della questione concernente la sopravvivenza o la risoluzione del rapporto ove, in presenza di un inadempimento, la banca avesse intimato l’integrale pagamento dell’importo erogato. Attese, in merito al quesito in esame, soluzioni contrastanti negli orientamenti della stessa Cassazione, si pronunciano le Sezioni Unite.

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La soluzione della “sopravvivenza” del rapporto trovava fondamento nella stretta correlazione economico-giuridica tra l’erogazione del mutuo e gli strumenti necessari per la costituzione della provvista, e coincidenti con l’emissione delle note cartelle fondiarie: solo la continuazione del rapporto anche in caso di mora del debitore non pregiudicava la corrispondenza tra raccolta ed erogazione. Confermerebbero una simile conclusione anche le disposizioni concernenti il diritto della banca di percepire le rendite dell’immobile del mutuatario garantito da ipoteca imputandole alle semestralità maturate e financo a quelle ancora da scadere; così come le disposizioni aventi ad oggetto il diritto del terzo aggiudicatario dell’immobile espropriato a subentrare nel rapporto di mutuo pagando le semestralità scadute. La sopravvivenza del rapporto veniva motivata con l’interpretazione della condizione risolutiva stabilita ex lege quale ipotesi di decadenza dal beneficio del termine. La conseguenza di maggior rilievo di una simile opzione riguardava l’importo oggetto della pretesa restitutoria: in questa logica, la banca avrebbe avuto diritto a richiedere ed ottenere il pagamento del capitale, degli interessi corrispettivi incorporati nelle rate – costituenti il piano di ammortamento – ed infine anche gli interessi convenzionali di mora. Evidentemente solo da queste premesse, e quindi all’interno di questa soluzione, si poneva il noto problema della esistenza nell’ambito del mutuo fondiario di uno spazio di vigenza per il fenomeno dell’anatocismo. Una tale soluzione era stata proposta – oltre che dalla già segnalata App. Salerno – da Cass. n. 11916/1990, Cass. n. 3763/1991, Cass. n. 9219/1995, Cass. n. 14337/2000 e Cass. n. 14584/2005. La diversa opzione della risoluzione valorizzava invece il dato testuale della legge (ancorché si premurava di chiarire che l’espressione “condizione risolutiva” doveva essere intesa come riferita a “clausola risolutiva”); precisava altresì che soprattutto il d.p.r. 7/1976 non sembrava offrire argomenti così incontrovertibili alla necessaria correlazione tra la raccolta e l’impiego; riteneva, infine, che solo una soluzione del genere sarebbe stata in grado di garantire un equo contemperamento degli interessi poiché idonea ad evitare ingiustificati oneri alla parte inadempiente. Una tale soluzione rendeva meno certo che la banca avesse diritto anche agli interessi convenzionali da applicarsi sulle rate a scadere posto che la pretesa doveva contenersi al diritto di percepire l’integrale rimborso del prestito sul quale eventualmente calcolare gli eventuali interessi di mora al tasso legale (in assenza di una pattuizione avente ad oggetto interessi convenzionali sull’intera somma e non sulle singole rate). Questo orientamento è stato proposto da Cass. 21 ottobre 2005, n. 20449 ed è oggi fatto proprio anche dalle Sezioni Unite della Cassazione

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con la sentenza 19 maggio 2008, n. 12639, Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 1145, con nota di C. Leggieri, Mutuo fondiario ed inadempimento del mutuatario: calcolo degli interessi di mora, e Foro it., 2008, 2500. Le argomentazioni fornite dalle SS.UU. sono, in sintesi, le seguenti: a) la lettera della norma (in particolare art. 15 d.p.r. 7/1976) depone inequivocabilmente per la risoluzione del rapporto; b) la correlazione tra erogazione e impiego delle somme a titolo di mutuo fondiario non è elemento caratterizzante l’istituto come dimostrerebbe la stessa disciplina nella parte in cui consente alla banca di realizzare la provvista da impiegare ai fini dell’erogazione per mezzo della emissione di obbligazioni. Tali premesse comportano i seguenti ulteriori effetti: a) obbligo del mutuatario di provvedere all’immediata restituzione dell’intera somma ricevuta; b) corrispondente diritto della banca di ricevere, oltre all’importo delle rate semestrali già scadute, la quota di capitale residuo senza interessi incorporati nelle semestralità a scadere e c) a percepire sul credito così determinato gli interessi di mora ad un tasso corrispondente al tasso legale, in ossequio al disposto dell’art. 1224, co. 1, c.c. 14.3. Credito fondiario e frazionamento. La Corte di Cassazione con sentenza 20 marzo 2008, n. 7453, in Mass. Giur. it., 2008 (rigetta App. Milano 4 giugno 2002), torna a pronunciarsi sulla natura e sugli effetti del frazionamento del mutuo fondiario così come disciplinato dal d.p.r. 21 gennaio 1976, n. 7. Afferma anzitutto la Corte che il frazionamento è atto unilaterale di rinuncia all’indivisibilità dell’ipoteca ed in quanto tale una mera facoltà dell’ente creditizio, senza che quindi possa sussistere una equivalente pretesa da parte del mutuante o del terzo acquirente. Sotto questo profilo la pronuncia è senz’altro conforme a propri precedenti orientamenti così come risulta condivisa dalla giurisprudenza di merito (cfr. Cass., 12 febbraio 2003, n. 2073, Rep. Foro it., 2003, [1950], n. 4; Trib. Napoli, 23 novembre 1998, Banca, borsa e tit. cred., 2000, II, 601; Trib. Roma, 29 maggio 1993, Mondo bancario, 1994, 2, 49). La sentenza chiarisce altresì che il frazionamento non può comprimere i diritti e le prerogative del terzo acquirente di parte dell’immobile ipotecato fino al punto da considerarlo obbligato nei confronti del mutuante oltre il valore per il quale ha consentito all’accollo. La Corte precisa infatti che gli effetti del frazionamento si producono anzitutto tra mutuante e mutuatario sicché il terzo rimane obbligato nei confronti del mutuante nei limiti in cui si è accollato il debito e mantiene il diritto di proporre al creditore le eccezioni fondate sul contratto in base al quale l’assunzione è avvenuta. La Corte può così concludere per l’illegittimità della suddivisione che non abbia rispettato le quote di accollo pattuite

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dal mutuatario con i terzi acquirenti, aumentandone l’ammontare. La Corte di legittimità riduce così la portata della equivoca disciplina in materia di frazionamento (cfr. d.p.r. 7/1976, art. 5 che richiama l’art. 20, r.d. 646/1905, ai sensi del quale “i successori a titolo universale o particolare del debitore e gli aventi causa debbono notificare giudizialmente all’istituto come essi sono sottentrati nel possesso e godimento del fondo ipotecario” precisando al co. 3 che nonostante la notificazione “l’istituto procederà contro di loro nel modo stesso come avrebbe proceduto contro l’originario debitore”). Si tratta evidentemente di questione semmai ancora proponibile da discutere con riferimento ai casi sottoposti alla disciplina abrogata: l’art. 39, t.u.b., infatti, precisa che il frazionamento, ora qualificato come diritto del terzo acquirente, si trasmette anche sulla proporzionale quota di finanziamento. 14.4. Credito fondiario e natura del privilegio accordato in fase esecutiva all’istituto erogante. La Corte di Cassazione con sentenza 28 maggio n. 13996, Rep. Foro it., 2008, Fallimento [2880], n. 256, torna a pronunciarsi sulla natura del privilegio accordato dalla disciplina in materia di mutuo fondiario. Nel caso di specie, una banca aveva erogato un credito fondiario, assistito da garanzia ipotecaria su di un immobile, a soggetto in seguito dichiarato fallito. La banca, attesa l’opponibilità al fallimento della garanzia reale, aveva iniziato, quale creditore privilegiato, l’azione esecutiva in danno del fallendo prima della dichiarazione di fallimento ed aveva proseguito la medesima azione anche a seguito della dichiarazione di fallimento. La Corte richiama dapprima il tenore della disciplina in materia di credito fondiario, applicabile ratione temporis al rapporto in questione (d.p.r. 7/1976), precisando come la medesima stabilisca che l’azione esecutiva sui beni ipotecati a garanzia possa essere iniziata o proseguita dalla banca anche dopo la dichiarazione di fallimento del debitore. In tale contesto, proseguono i giudici di legittimità, la somma ricavata dall’esecuzione, eccedente la quota che in sede di riparto risulta spettante alla banca, viene attribuita al fallimento. Tale prerogativa, peraltro, non risulta incompatibile con quanto disposto dagli artt. 51 e ss. della l.fall. Infatti, fa notare la Corte, è ben vero che l’art. 51 impone il divieto dal giorno della dichiarazione di fallimento di iniziare o proseguire azioni individuali esecutive sui beni compresi nel fallimento ma è altrettanto vero che la stessa norma fa salva diversa disposizione di legge. Tra le deroghe a detto principio rientra certamente l’esecuzione che può essere promossa dall’istituto di credito fondiario: per ciò stesso la vendita del bene nell’ambito dell’esecuzione individuale è al-

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ternativa alla vendita nel contesto della procedura fallimentare. D’altra parte, l’istituto cui viene assegnato il ricavato della vendita coattiva può trattenere la somma ricevuta solo a due condizioni: che abbia chiesto l’ammissione al passivo e che, intervenuta la graduazione dei crediti, la somma ricavata possa essere destinata a soddisfare totalmente il suo credito, non essendovi creditori di grado poziore. Viene così assicurato il coordinamento del privilegio agli istituti di credito che abbiano erogato credito fondiario con l’esigenza di rispettare il principio della par condicio creditorum. Più precisamente, ed in ossequio ad un orientamento ormai consolidato presso la giurisprudenza della stessa corte e fatto proprio anche dalla giurisprudenza di merito (cfr. Cass. n. 23572/2004; Cass. n. 8609/2007; Cass. n. 11014/2007; Cass. n. 314/98; Cass. n. 11234/90; App. Torino, 5 settembre 2007; Trib. di Macerata, 26 gennaio 2008; Trib. di Venezia 3 febbraio 2004) il potere dell’istituto di iniziare o proseguire l’azione esecutiva nei confronti del debitore dichiarato fallito si configura quale privilegio avente natura meramente processuale che, in quanto tale, non si pone in contrasto con il principio fissato dall’art. 52 l.fall. Infatti, l’assegnazione del ricavato nell’ambito della vendita dell’immobile ipotecato ha carattere provvisorio essendo onere dell’istituto procedente di insinuarsi al passivo del fallimento in modo tale da consentire la graduazione dei crediti ed ottenere così che l’assegnazione acquisti carattere di definitività (sempre che sia accertato che quanto ricevuto non debba essere ripartito in tutto o in parte a creditori di grado poziore). È quindi onere del curatore rivolgersi al creditore, che abbia per tale via ottenuto la provvisoria assegnazione del ricavato della vendita dell’immobile ipotecato, e chiedere che questi si insinui allo stato passivo. 15. Concessione di credito agrario in presenza di nulla osta concesso in conformità a leggi regionali. La Corte di Cassazione con sentenza 16 aprile 2008, n. 10065, in Resp. civ. on line, 2008, ha statuito il principio in forza del quale in tema di credito agrario, ove leggi regionali prevedano l’accesso al credito agevolato per le imprese che abbiano ottenuto il nulla osta dal competente ente amministrativo, le banche mantengono comunque autonomia di valutazione quanto alla concessione del finanziamento richiesto: le banche, cioè, non sono tenute a concedere in ogni caso i finanziamenti poiché mantengono il diritto-dovere di valutare la sussistenza delle condizioni per l’erogazione del credito. Per le medesime ragioni, l’autonomia negoziale della banca non può essere condizionata quanto ai tempi dell’istruttoria posto che essi attengono a valutazioni rimesse alla sua discrezionalità, eventualmente limitata

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dal solo obbligo di rispettare il principio della buona fede nella fase precedente il perfezionamento del negozio. Conforme, Cass., 15 marzo 2005, n. 5636 (in Dir. e giur. agr. e ambiente, 2005, 575, con nota di Grasso).

II. Borsa e mercato mobiliare Sommario: A) Autorità di vigilanza – 16. Responsabilità civile della Consob. – B) Intermediazione mobiliare. – 17. Servizi e attività di investimento. - 17.1. Svolgimento dei servizi e delle attività. - 17.1.1. Natura dei «criteri generali» di comportamento e conseguenze della loro violazione. - 17.1.2. Forma dei contratti. - 17.1.3. Formalismo contrattuale e regole di ermeneutica. - 17.1.4. Operatore qualificato. – C. Emittenti. – 18. Offerte pubbliche di acquisto e scambio. - 18.1. OPA obbligatoria. Natura. Responsabilità per mancata promozione dell’offerta. – 19. Organi di controllo. - 19.1. Collegio sindacale. Nomina di un membro da parte della minoranza.

A) Autorità di vigilanza 16. Responsabilità civile della Consob. a) Cass., sez. I civ., 9 maggio 2008, n. 11556 (in Foro it., I, 2008, 3220 ss., con nota di Palmieri, Una fase di transito per la responsabilità delle authorities) ha confermato la pronuncia di merito con la quale veniva esclusa la responsabilità della Consob nei confronti di un promotore finanziario e di un risparmiatore che assumevano di essere rimasti danneggiati per effetto del ritardato controllo da parte della Consob medesima su una società fiduciaria, nonostante il promotore finanziario danneggiato avesse segnalato gravi irregolarità poste in essere da quest’ultima. In particolare, gli attori contestavano che la Consob si fosse attivata solo dopo la denuncia del presidente del Collegio sindacale della società in questione, avvenuta un mese dopo quella del promotore finanziario, sostenendo che proprio al decorso di tale lasso di tempo, senza che l’autorità di vigilanza avesse assunto alcun provvedimento cautelare, potevano causalmente riconnettersi i danni da essi giudizialmente domandati. La Cassazione, di contro, ha ritenuto non censurabile il ragionamento dei giudici di merito nella parte in cui considerava non ascrivibile alla Consob un ritardo colposo nell’esercizio delle proprie funzioni, rilevando, per un verso, come l’esposto del promotore finanziario non fosse accompagnato da documenti tali da assumere provvedimenti urgenti, e, per altro verso, come la segnalazione a fronte della quale la Consob ave-

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va infine adottato provvedimenti cautelari provenissero da un soggetto istituzionalmente deputato a svolgere attività di controllo ed in quanto tale meritevole di affidabilità anche a prescindere dall’esistenza di documentazione di supporto. b) Trib. Roma, 28 aprile 2008 (in Foro it., I, 2008, 3221 ss., unitamente a Cass. 9 maggio 2008, n. 11556, cit.), giudicando di un caso in cui non era applicabile ratione temporis la speciale disciplina della responsabilità della Consob (e di altre autorità di vigilanza) recata dalla l. 262/2005, così come modificata dal d.lgs. 303/2006 (in argomento v. Carriero, La responsabilità civile delle autorità di vigilanza (in difesa del co. 6-bis dell’art. 24 della legge sulla tutela del risparmio, in Foro it., 2008, V, 221 ss.), ha affermato, conformemente alla giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. 3 marzo 2001, n. 3132, in Foro it., 2002, I, 1139, con nota di Palmieri, Responsabilità per omessa o insufficiente vigilanza: si affievolisce l’immunità della pubblica amministrazione), la sussistenza della responsabilità della Consob per omessa vigilanza verso gli attori, investitori danneggiati dall’operato di un agente di cambio e da una SIM, anche alla stregua della disciplina di settore precedente l’entrata in vigore del d.lgs. n. 415 del 1996 ed indipendentemente dall’esistenza di rapporti contrattuali diretti tra i danneggianti e gli investitori danneggiati. Stante l’esistenza di poteri di vigilanza e cautelari, anche alla luce della disciplina all’epoca dei fatti in vigore, ciò che per i giudici di legittimità ha assunto rilievo ai fini del giudizio di responsabilità è, da un lato, con specifico riferimento all’agente di cambio, la circostanza che se la Consob avesse svolto i controlli avrebbe rilevato numerose irregolarità ed avrebbe potuto conseguentemente porre in essere misure tese a far cessare le medesime, e, dall’altro, per quanto riguarda la SIM, la circostanza che la Consob non abbia vigilato sulla sana e prudente gestione di quest’ultima, permettendo l’aggravarsi della situazione finanziaria e patrimoniale. B) Intermediazione mobiliare 17. Servizi e attività di investimento 17.1. Svolgimento dei servizi e delle attività 17.1.1. Natura dei «criteri generali» di comportamento e conseguenze della loro violazione. a) Nel periodo in rassegna, Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26724, di cui si è dato conto in Dir. banc., 2009, I, 141, è stata pubblicata in Società, 4/2008, 449 ss., con commento di Sco-

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gniamiglio.

Nel medesimo periodo, oggetto di pubblicazione è stata pure la gemella Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725, in Giur. comm., 2008, II, 344 ss., con nota di Gobbo, Le sanzioni applicabili alla violazione delle regole di condotta in tema di investimenti mobiliari: la prima pronuncia nomofilattica sulla nullità e responsabilità contrattuale. 17.1.2. Forma dei contratti. a) Trib. Milano, 11 aprile 2008, n. 4798 (in Società, 4/2009, 479 ss., con commento di Brutti) ha qualificato «senza causa» l’attività di intermediazione mobiliare posta in essere da una banca, condannandola conseguentemente a restituire le somme ricevute dagli attori a fini di investimento, in relazione alla circostanza che essa aveva agito in esecuzione di ordini di borsa impartiti oralmente, sebbene il contratto quadro di negoziazione di strumenti finanziari e di ricezione e trasmissione di ordini prevedesse che questi ultimi fossero impartiti per iscritto ovvero nel corso di conversazioni telefoniche registrate. Pur riconoscendo l’esistenza di talune similitudini tra il contratto avente ad oggetto servizi di intermediazione mobiliare ed il contratto di mandato, contrariamente a quanto sosteneva la difesa della banca, i giudici ambrosiani hanno escluso la coincidenza tra le due figure negoziali ed hanno conseguentemente negato che i singoli ordini possano configurarsi come mere istruzioni impartite dagli investitori-mandanti in esecuzione di un mandato conferito a monte nel contratto di negoziazione e di ricezione e trasmissione ordini. Sul punto, il Tribunale, seguendo un nutrito orientamento tanto giurisprudenziale quanto dottrinale (v., tuttavia, quanto sostiene Galgano, Il contratto di intermediazione finanziaria davanti alle Sezioni unite della Cassazione, in Contr. e impr., 2008, 1, 3 ss.), ha precisato che i contratti relativi ai servizi di investimento si configurano come contratti normativi, dai quali, contrariamente al mandato, non discendono obbligazioni attuali in capo alle parti; sicché i singoli ordini godrebbero di una propria autonomia negoziale, innestandosi sulle condizioni generali previste dal contratto quadro come fonte a sé stante di obbligazioni, tra le quali, in primo luogo, quella dell’intermediario di eseguire il servizio conformemente a quanto previsto nel contratto quadro. Proprio sulla scorta dell’inquadramento negoziale degli ordini di borsa, il Tribunale ha potuto presumere, ai sensi dell’art. 1352 c.c., che, nell’intenzione delle parti, la forma dei singoli ordini di borsa prevista nel contratto di intermediazione mobiliare fosse richiesta ab substantiam, ed ha potuto conseguentemente rilevare che, in difetto di ordini impartiti nella forma convenzionalmente prevista, l’attività di investimento posta in essere banca era da considerarsi priva di qualsiasi titolo giuridico, giustificando l’accoglimento della domanda di ripetizione delle somme

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originariamente investite, con contestuale restituzione dei titoli frutto di quegli investimenti. In argomento, v. pure Trib. Novara, 18 gennaio 2007, di cui si è dato conto in Dir. banc., 2009, I, …., pubblicata, nel periodo in rassegna, in Società, 6/2008, 755 ss., con nota di G. Afferni. 17.1.3. Formalismo contrattuale e regole di ermeneutica. Cass., sez. I civile, 25 giugno 2008, n. 17341 (in Foro it., 2009, I, 188 ss. con nota di Sconditti) ha cassato con rinvio App. Milano, 15 ottobre 2004 (inedita), nella quale i giudici di merito avevano interpretato un contratto avente ad oggetto il servizio di negoziazione ordini come relativo anche alla negoziazione di derivati esteri; e ciò sulla scorta, per un verso, della intitolazione del contratto, che faceva generico riferimento a valori mobiliari “quotati nei mercati regolamentati”, e, per altro verso, del comportamento tenuto dagli investitori, i quali, successivamente alla stipulazione di detto contratto, avevano impartito anche ordini relativi, appunto, a derivati esteri. La Suprema Corte, dopo aver precisato l’insufficienza della mera intitolazione ai fini della interpretazione di un atto di autonomia negoziale, facendo applicazione di un principio già più volte affermato in termini generali (e v., ex multis, Cass., 11 maggio 2007, n. 10868, in Rep. Foro it., 2007, voce Contratti pubblici, n. 471; Cass., 22 giugno 2006, n. 14444, ivi, voce Contratto in genere, n. 452; Cass., 13 settembre 2004, n. 18361, Rep. Foro. it., 2004, voce Contratto in genere, n. 401; Cass., 5 febbraio 2004, n. 2216, ivi, voce Contratto in genere, n. 433), ha negato che nei contratti relativi a servizi di investimento, così come in tutti i negozi per i quali la forma scritta è prevista ab substantiam (tale previsione nel caso dei contratti in questione è contemplata dall’art. 23, co. 1, t.u.f.), la comune intenzione delle parti in ordine ad uno degli elementi essenziali del contratto, e dunque anche in ordine all’oggetto, possa essere individuata, come invece avevano fatto i giudici di merito, alla stregua dell’art. 1362, co. 2, c.c., avendo cioè riguardo al comportamento tenuto dalle parti successivamente alla conclusione dell’accordo. Sulla base di questo principio, i giudici di legittimità hanno riconosciuto un vizio nella sentenza della Corte d’Appello là dove, nella prospettiva di individuare l’oggetto del contratto, si riconosceva rilievo alla circostanza che gli investitori, dopo la conclusione per iscritto del contratto quadro, avevano impartito telefonicamente alla banca anche ordini aventi ad oggetto derivati esteri. 17.1.4. Operatore qualificato. a) Cass., sez. I civile, 25 giugno 2008, 17340 (in Foro it., 2008, I, 189 ss., con nota di Sconditti) ha cassato App.

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Sintesi di giurisprudenza

Aquila, 31 ottobre 2003 (inedita), affermando il principio secondo il quale, ai sensi della normativa in materia di intermediazione mobiliare precedente al recepimento della direttiva MiFID, l’operatività delle regole di comportamento imposte agli intermediari autorizzati relative all’informazione sulle caratteristiche e sulla rischiosità in concreto dell’investimento e all’adeguatezza dell’operazione, il cui ambito di applicazione si deve ritenere esteso anche alla mera esecuzione di ordini [in senso contrario, nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Genova, 15 marzo 2005, in Foro it., 2005, I, 2539, con nota di Palmieri, Prestiti obbligazionari, «default» e tutela «successiva» degli investitori: la mappa dei primi verdetti; nonché, oggi, anche il nuovo Reg. Intermediari, che, per i servizi di execution only, a certe condizioni, ammette una attenuazione del rigore degli obblighi gravanti sull’intermediario], non è preclusa dal fatto che l’investitore abbia precedentemente posto in essere altre operazioni rischiose, non essendo tale circostanza di per sé idonea a considerare detto investitore come operatore qualificato e conseguentemente ad esonerare l’intermediario dalla soggezione alle citate regole. b) App. Milano, 12 ottobre 2007 (in Giur. it., 2008, 1165, con nota di Motti; in Corr. giur., 2008, 1747, con nota di Sesta) ha affermato che la dichiarazione con la quale l’investitore si autodefinisce “operatore qualificato”, ai sensi dell’art. 31 Reg. Intermediari (nel testo previgente il recepimento della direttiva MiFID: Reg. n. 11522/1998) – la quale, non richiedendo una scrittura ad hoc, può anche essere inserita nel contratto quadro tra intermediario e investitore –, se resa dal legale rappresentante di una società è idonea a liberare l’intermediario dall’obbligo di verificare l’effettiva sussistenza della specifica competenza ed esperienza dichiarate (conforme: Trib. Milano, 7 aprile 2008, in Corr. giur., 2008, 1749, con nota di Sesta; in senso contrario, v. però Trib. Novara, 18 gennaio 2007, cit., di cui si è dato conto in Dir. banc., 2009, I, 145, pubblicata nel periodo in rassegna in Società, 6/2008, 755 ss., con nota di Afferni). Il tribunale milanese giunge a tale conclusione argomentando dal tenore letterale dell’art. 31 del Reg. Intermediari, che, mentre prevede espressamente che le persone fisiche debbono documentare la loro competenza ed esperienza (v. tuttavia Trib. Savona, 10 novembre 2005, in Foro. pad., 2007, I, 173 ss., con nota di Ghigliotti, ove la dichiarazione dell’investitore persona fisica è servita, in verità unitamente al compimento di precedenti operazioni rischiose, per argomentare l’esenzione dell’intermediario da alcuni obblighi informativi), nulla dice a tal riguardo con riferimento alle società e alle persone giuridiche (diverse da quelle qualificate “operatore qualificato” dal medesimo Regolamen-

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to), rispetto alle quali, pertanto, secondo il tribunale, dovrebbe valere un regime diverso e meno rigoroso in punto di efficacia esimente della dichiarazione dell’investitore. C) Emittenti. 18. Offerte pubbliche di acquisto e scambio. 18.1. OPA obbligatoria. Natura. Responsabilità per mancata promozione dell’offerta. a) Trib. Milano, 17 maggio 2007 (in Giur. comm., 2008, II, 465 ss., con nota di Cacchi Pessani, Violazione dell’obbligo di OPA e risarcimento del danno), mutando orientamento rispetto a precedenti decisioni rese nell’ambito della medesima vicenda (v. Trib. Milano, 26 maggio 2005, in Giur. comm., 2006, II, 753 ss., con note di Gambaro, Riflessione breve sull’argomentazione giurisprudenziale, e di Gatti, Mancata promozione di OPA obbligatoria e risarcimento del danno; Trib. Milano, 8 maggio 2006, in Corr. giur., 2006, 983 ss., con commento di Rolfi, Quando l’o.p.a. diventa veramente “obbligatoria”; in Giur. it., 2007, 1707 ss., con nota di Desana; Trib. Milano, 2 maggio 2007, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, II, 572 ss., con nota di Desana, Tribunale versus Corte d’Appello nella vicenda Sai-Fondiaria: due pronunce sule conseguenze della violazione dell’o.p.a. obbligatoria), ha riconosciuto la ratio della disciplina dell’OPA obbligatoria, non già nel principio della parità di trattamento di cui all’art. 93 t.u.f., ma nella tutela degli azionisti di minoranza, e segnatamente nella tutela del valore della loro partecipazione (rectius: del diritto di voto incorporato nella partecipazione) rispetto dall’acquisto del controllo della società da parte di un terzo. Su questa base, la violazione dell’obbligo di lanciare l’OPA al superamento della soglia di partecipazione legislativamente prefissata – superamento della soglia realizzato, nel caso di specie, per effetto di acquisti posti in essere da più soggetti in “concerto” tra loro, ai sensi dell’art. 109 t.u.f. – è stata ritenuta, in questo caso conformemente ai precedenti sopra citati, fonte di responsabilità di natura contrattuale, in quanto inadempimento di una obbligazione ex lege (art. 1173 c.c.). Il Tribunale, anche in questa occasione, ha tuttavia precisato che il rimedio risarcitorio non è invocabile in ogni caso, ma solo ove i rimedi legali previsti nell’art. 110 t.u.f., ossia sospensione del diritto di voto e obbligo di alienazione, non siano riusciti ad evitare il consolidamento del controllo e con esso del pregiudizio al valore delle partecipazioni azionarie di minoranza. b) Trib. Milano, 7 giugno 2007 (pubblicata unitamente a Trib. Mila-

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no, 17 maggio 2008, cit., in Giur. comm., 2008, II, 465 ss.), giudicando anch’essa, come Trib. Milano, 17 maggio 2007, cit., di una azione di risarcimento danni intentata da azionisti di minoranza che, nell’ambito del caso SAI-Fondiaria, si assumevano danneggiati dal mancato lancio di una OPA obbligatoria sulle loro partecipazioni, ha ulteriormente mutato la ricostruzione della ratio sottesa alla disciplina dell’OPA obbligatoria, riconoscendo a quest’ultima, per un verso, la finalità di tutelare l’autonomia negoziale degli investitori in caso di mutamento del controllo, e, per altro verso, quella di regolare il mercato del controllo societario. Ma il Tribunale non ha solo operato un ripensamento della ratio. Contrariamente a quanto aveva fatto nella sentenza sopra citata, in questo caso, infatti, ha rinunciato a costruire l’obbligo di OPA come obbligazione ex lege, riconosciutovi una obbligazione che integra il contenuto del contratto sociale ai sensi dell’art. 1374 c.c. e che dunque presenta fonte e natura contrattuale. Ciò che ha permesso ai giudici ambrosiani di affermare, anche in questo caso innovando rispetto all’orientamento seguito nelle precedenti sentenze, che, in caso di violazione di tale obbligazione, la responsabilità di coloro che non hanno lanciato l’OPA e il conseguente obbligo di risarcimento del danno sono indipendenti dall’operatività e dall’efficacia dei rimedi legali. c) Trib. Milano, 28 maggio 2008 (in Giur. comm., 2008, II, 465 ss., unitamente a App. Milano, 20 dicembre 2007 ed a Trib. Firenze, 19 dicembre 2007, con nota di Desana, Il caso SAI Fondiaria: ancora tre decisioni attendono la Cassazione), chiamato ancora una volta a giudicare di un’azione di responsabilità per mancato lancio dell’OPA obbligatoria nel caso SAI-Fondiaria, ha costruito l’obbligo di OPA come opzione put di fonte legale, che, se violata, integra inadempimento contrattuale e genera l’omonima responsabilità, la quale può essere fatta valere indipendentemente dall’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 110 t.u.f., in effetti destinate alla tutela di interessi diversi. 19. Organi di controllo 19.1. Collegio sindacale. Nomina di un membro da parte della minoranza. Cass. 13 settembre 2007, n. 19160 (in Foro it., 2008, I, 859 ss., con nota di richiami di Rordorf; in Giur. comm., 2009, II, 57 ss., con nota di Guccione, Il problema della validità della clausola che attribuisce agli amministratori di società quotata la facoltà di presentare una propria lista di candidati sindaci), applicando alla fattispecie l’art. 148, co. 2, t.u.f., nella versione previgente alla l. 28 dicembre 2005, n. 262 e al d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 303, nonché al nuovo Reg. Emittenti, titolo V-bis,

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adottato con delibera 15915 del 3 maggio 2007, ha affermato l’illegittimità di una clausola dello statuto di una s.p.a. con la quale si attribuiva al c.d.a. il diritto di presentare una propria lista di candidati alla carica di sindaco. I giudici di legittimità, respingendo la tesi della difesa della società ricorrente, secondo la quale una tale clausola, non escludendo la possibilità che altra lista di candidati possa essere presentata dai soci di minoranza, non poteva ritenersi in contrasto con la previsione di cui all’art. 148 t.u.f. (tesi in verità sostenuta anche in dottrina: e v. Cavalli, sub art. 148, in Campobasso (a cura di), Testo unico della finanza. Commentario, t. 2, Torino, Utet, 2002, 1217), ha ritenuto leso l’interesse della minoranza, tutelato da quest’ultima norma, in quanto mediante detta clausola non veniva assicurato che del collegio sindacale facesse parte un membro votato dalla minoranza.

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PARTE seconda Legislazione, documenti e informazioni



Documenti e informazioni

La disciplina degli intermediari finanziari ai sensi dell’art. 106 t.u.b. 1. La struttura dei controlli sugli intermediari finanziari non bancari è stata articolata su due piani dagli artt. 106 e 107 t.u.b. Per i primi, un elenco generale, tenuto dall’UIC, per l’iscrizione nel quale sono sufficienti requisiti di capitale, di forma societaria, criteri di onorabilità dei titolari di partecipazioni rilevanti e criteri di professionalità, onorabilità e indipendenza per gli esponenti aziendali. Al fine di verificare il rispetto dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco, l’UIC può chiedere agli intermediari finanziari dati, notizie, atti e documenti e, se necessario, può effettuare verifiche presso la sede degli intermediari stessi, anche con la collaborazione di altre autorità (art. 106, co. 7, t.u.b.). Nell’ambito degli iscritti all’elenco generale, il Ministro dell’economia, sentita la Banca d’Italia e la Consob, determina criteri oggettivi, riferibili all’attività svolta, alla dimensione a al rapporto tra indebitamento e patrimonio, in base ai quali sono individuati gli intermediari finanziari che si devono iscrivere anche in un elenco speciale tenuto dalla Banca d’Italia. Quest’ultima impone ai soggetti una serie di prescrizioni regolamentari e li assoggetta alla sua vigilanza, vigilanza che, nel tempo, attraverso modifiche al t.u.b., è divenuta sempre più stringente, tanto da rendere significativo e diffuso il fenomeno della trasformazione di questi intermediari in banche. Insomma, di fronte al numeroso fenomeno delle “finanziarie” la risposta dell’ordinamento è stata quella di censirle attraverso l’albo e di imporre requisiti oggettivi e soggettivi, a garanzia della onestà e della rilevanza dell’iniziativa assunta, assegnando all’UIC il compito di vigilare. Per una parte (limitata) di questi soggetti, che svolgono specifiche attività finanziarie o presentano particolari dimensioni ovvero registrano altre caratteristiche predeterminate, è previsto l’inserimento anche nell’elenco speciale, che segna l’assoggettamento degli stessi ai poteri di vigilanza della Banca d’Italia.

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Documenti e informazioni

2. Questo sistema è stato però significativamente modificato in punto di autorità coinvolte, dal momento che, con un climax distruttivo crescente, l’art. 62 del d.lgs. 231 del 2007 (“prevenzione del riciclaggio”) ha disposto: a) che siano trasferite alla Banca d’Italia le competenze e i poteri con le relative risorse strumentali, umane e finanziarie, attribuiti all’UIC in tema di controlli finanziari, prevenzione all’antiriciclaggio e finanziamento del terrorismo internazionale; b) che ogni riferimento all’UIC contenuto nelle leggi o in atti normativi si intenda effettuato alla Banca d’Italia; c) che l’UIC è soppresso e gli succede la Banca d’Italia nei diritti e nei rapporti giuridici di cui esso è titolare. Ecco allora che la differenziazione delle autorità preposte al controllo degli intermediari finanziari non bancari deve intendersi superata e che anche la tenuta dell’elenco di cui all’art. 106 t.u.b. è competenza della Banca d’Italia, venendo meno l’alternativa fra autorità, originariamente prefigurata. Di qui l’emanazione del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 78 del 3 aprile 2009. 3. L’occasione immediata per l’emanazione del decreto qui in esame è dunque costituita dall’esigenza di ricondurre sotto la Banca d’Italia la gestione anche dell’elenco generale, ma essa è stata colta anche per fare un po’ di ordine in una serie di provvedimenti amministrativi che si erano accumulati nel tempo, al sorgere di nuove tipologie di intermediari: ci si riferisce ad esempio alla disciplina dell’esercizio nel territorio della Repubblica, da parte di soggetti aventi sede legale all’estero, delle attività di cui all’art. 106 co. 1, t.u.b. (cfr. d.m. 28 luglio 1994): le società finanziarie per l’innovazione e lo sviluppo (di cui all’art. 2 della l. 5 ottobre 1991, n. 317), che devono avere come oggetto sociale esclusivo l’assunzione di partecipazioni temporanee al capitale di rischio di piccole imprese e che dunque sono equiparabili agli intermediari che assumono partecipazioni; gli intermediari che svolgono in via esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie ovvero che operano quali intermediari in cambi senza assunzione di rischi in proprio (money brokers) (di cui al d.m. 2 aprile 1999); ai Confidi e ai criteri per la loro iscrizione nell’elenco speciale di cui all’art. 107 (d.m. 9 novembre 2007). 4. Il contenuto del decreto è pertanto particolarmente interessante perché offre una rappresentazione sistematica del variegato mondo degli intermediari finanziari non bancari, cercando di armonizzarne la disciplina, di completarla e di organizzarla organicamente. Dopo una serie di articoli che determinano il contenuto delle attività (titolo I: artt. 2-8) e la definizione di esercizio dell’attività nei confronti del pubblico (titolo II: art. 9), il decreto (tit. III) si articola fra l’iscrizione

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La disciplina degli intermediari finanziari sensi dell’art. 106 t.u.b.

nell’elenco generale (artt. 10-14), l’iscrizione nell’elenco speciale (artt. 15-18) e la disciplina degli intermediari finanziari esteri (tit. IV), chiudendo con le disposizioni transitorie (tiv. V: art. 24). Completano il provvedimento ora illustrato e di seguito riportato, la circolare della Banca d’Italia n. 273 del 5 gennaio 2009 (recante “Segnalazioni degli intermediari finanziari iscritti nell’ “elenco generale” di cui all’art. 106 del Testo Unico Bancario”) – nella quale sono indicate le regole per la compilazione delle segnalazioni statistiche che gli intermediari finanziari iscritti nell’“elenco generale” di cui all’art. 106 t.u.b. sono tenuti ad effettuare ai sensi del co. 6 del medesimo articolo – nonché il Regolamento del Governatore del 14 maggio 2009, recante (i) le modalità di iscrizione e di cancellazione nei rispettivi elenchi dei soggetti che operano nel settore finanziario di cui agli artt. 106, 113 (“soggetti non operanti nei confronti del pubblico”) e 155 t.u.b. (“soggetti operanti nel settore finanziario”: agenzie di prestito su pegno, confidi, cambiavalute): (ii) le modalità di verifica dei requisiti degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale dei soggetti che operano nel settore finanziario; (iii) gli obblighi di comunicazione degli esponenti aziendali e dei soggetti che operano nel settore finanziario. [Nota Redazionale] Ministero dell’economia e delle finanze, decreto 17 febbraio 2009, n. 29, recante “Regolamento recante disposizioni in materia di intermediari finanziari di cui agli articoli 106, 107, 113 e 155, commi 4 e 5 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385” Il Ministro dell’economia e delle finanze Visto il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, emanato con decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (di seguito: «Testo unico») e, in particolare: l’articolo 1, comma 2, lettera f), relativo alle attività ammesse al mutuo riconoscimento; l’articolo 11, commi 3, 4, 4-bis, 4-ter e 4-quater, relativo ai poteri attribuiti al Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio al fine di stabilire limiti e criteri inerenti la raccolta del risparmio fra il pubblico; l’articolo 18, che disciplina l’esercizio nel territorio della Repubblica, mediante stabilimento di succursale o in regime di libera prestazione di servizi, di attività ammesse al mutuo riconoscimento da parte di società

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finanziarie aventi sede legale in uno Stato comunitario e controllate da una o più banche aventi sede legale nel medesimo Stato; l’articolo 59, comma 1, lettere b) e c), concernente le definizioni adottate, ai fini della vigilanza su base consolidata, in tema di società finanziarie e strumentali, escluso l’ultimo periodo della lettera b), che include le attività di cui all’articolo 1, comma 1, lettera n), del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; l’articolo 106, comma 1, che prevede l’obbligo dell’iscrizione nell’elenco generale dei soggetti operanti nel settore finanziario; l’articolo 106, comma 4, lettera a), in base al quale il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentito la Banca d’Italia, specifica il contenuto delle attività di assunzione di partecipazioni, di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazione di servizi di pagamento e di intermediazione in cambi ed in quali circostanze ricorra l’esercizio delle suddette attività nei confronti del pubblico indicate nello stesso articolo 106, comma 1; l’articolo 106, comma 4, lettera b), che attribuisce, tra l’altro, al Ministro dell’Economia e delle Finanze il potere di stabilire, per gli intermediari finanziari che svolgono determinati tipi di attività, diversi requisiti patrimoniali in deroga a quanto previsto dal medesimo articolo 106, comma 3; l’articolo 106, comma 5, il quale prevede, tra l’altro, che le modalità di iscrizione nell’elenco generale sono indicate dalla Banca d’Italia; l’articolo 107, comma 1, che stabilisce che il Ministro dell’Economia e delle Finanze determina, sentite la Banca d’Italia e la Consob, criteri oggettivi riferibili all’attività svolta, alla dimensione e al rapporto tra indebitamento e patrimonio, in base ai quali sono individuati gli intermediari finanziari che si devono iscrivere nell’elenco speciale tenuto dalla Banca d’Italia; l’articolo 113, che prevede un’apposita sezione dell’elenco generale nella quale vengono iscritti i soggetti non operanti nei confronti del pubblico ed attribuisce al Ministro dell’Economia e delle Finanze il compito di emanare disposizioni attuative del medesimo articolo; l’articolo 114, che attribuisce al Ministro dell’Economia e delle Finanze il potere di disciplinare l’esercizio nei confronti del pubblico e nel

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La disciplina degli intermediari finanziari sensi dell’art. 106 t.u.b.

territorio della Repubblica delle attività indicate nell’articolo 106, comma 1, del Testo unico da parte di soggetti aventi sede legale all’estero, non rientranti nell’ambito di applicazione dell’articolo 18 del Testo unico e prevede che le disposizioni del Titolo V del Testo unico medesimo non si applicano ai soggetti già sottoposti, per legge, a forme di vigilanza sostanzialmente equivalenti sull’attività finanziaria svolta, disponendo che il Ministero dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, verifica se sussistono le condizioni per l’esenzione; l’articolo 121, riguardante la nozione di credito al consumo; l’articolo 132, che prevede sanzioni penali a carico di chiunque svolga una o più delle attività finanziarie previste dall’articolo 106, comma 1, del Testo unico senza essere iscritto negli Elenchi previsti dal Titolo V del Testo unico medesimo; l’articolo 155, comma 2, che include nell’ambito di applicazione dell’articolo 107 le società finanziarie per l’innovazione e lo sviluppo di cui all’articolo 2 della legge 5 ottobre 1991, n. 317; l’articolo 155, comma 3, che stabilisce che le agenzie di prestito su pegno, previste dall’articolo 32, terzo comma, della legge 10 maggio 1938, n. 745, sono sottoposte alle disposizioni dell’articolo 106 del Testo unico; l’articolo 155, comma 4, sulla base del quale i consorzi di garanzia collettiva dei fidi, anche di secondo grado, sono iscritti in un’apposita sezione dell’elenco previsto dall’articolo 106, comma 1, del Testo unico, non sono abilitati ad effettuare le altre operazioni riservate agli intermediari finanziari iscritti nel citato elenco, e non sono soggetti alle disposizioni di cui al Titolo V del medesimo Testo unico; l’articolo 155, comma 5, ove si dispone che i soggetti che esercitano professionalmente l’attività di cambiavalute, consistente nella negoziazione a pronti di mezzi di pagamento in valuta, sono iscritti in un’apposita sezione dell’elenco previsto dall’art. 106 del Testo unico e che il Ministro dell’Economia e delle Finanze, sentita la Banca d’Italia, emana disposizioni applicative del comma 5 medesimo, individuando in particolare le attività che possono essere esercitate congiuntamente con quella di cambiavalute; Vista la legge 30 aprile 1999, n. 130, recante «Disposizioni sulla cartolarizzazione dei crediti» e, in particolare:

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l’articolo 2, comma 6, concernente le banche e gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale, previsto dall’articolo 107 del Testo unico, incaricati della riscossione dei crediti ceduti, dei servizi di cassa e pagamento e di verificare la conformità delle operazioni alla legge e al prospetto informativo; l’articolo 7-bis, comma 1, concernente le obbligazioni bancarie garantite; Visto l’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400; Vista la deliberazione del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio del 19 luglio 2005, come modificata dalla deliberazione del 22 febbraio 2006, concernente la raccolta del risparmio da parte di soggetti diversi dalle banche; Considerata l’esigenza di definire le condizioni in presenza delle quali sussiste l’esercizio in via prevalente delle attività indicate nell’articolo 106, comma 1, del Testo unico; Considerato che la finalità di assoggettare a controllo solo gli intermediari finanziari aventi rilevanza nei circuiti di finanziamento dell’economia è perseguibile con l’adozione di criteri di selezione degli intermediari medesimi riferiti anche solo ad alcuni dei parametri indicati dall’articolo 107, comma 1, del Testo unico; Considerato che, ai sensi dell’articolo 2 della legge 5 ottobre 1991, n. 317, le società finanziarie per l’innovazione e lo sviluppo devono avere come oggetto sociale esclusivo l’assunzione di partecipazioni temporanee al capitale di rischio di piccole imprese costituite in forma di società di capitali. Esse pertanto sono equiparabili agli intermediari che assumono partecipazioni; Ravvisata, alla luce dei mutamenti interventi nel contesto normativo e nell’operatività’ degli intermediari, la necessità di modificare e di coordinare in un unico provvedimento i Decreti ministeriali emanati in materia di intermediari finanziari e, in particolare, i Decreti ministeriali del: 6 luglio 1994, recante la determinazione, ai sensi dell’articolo 106, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, del contenu-

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to delle attività indicate nello stesso articolo 106, comma 1, nonché in quali circostanze ricorre l’esercizio nei confronti del pubblico; 6 luglio 1994, recante la determinazione, ai sensi dell’articolo 113, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, dei criteri in base ai quali sussiste l’esercizio in via prevalente, non nei confronti del pubblico delle attività finanziarie di cui all’articolo 106, comma 1; 6 luglio 1994, recante modalità di iscrizione dei soggetti che operano nel settore finanziario di cui agli articoli 106, 113 e 155, commi 3 e 4, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; 28 luglio 1994, recante la disciplina dell’esercizio nel territorio della Repubblica, da parte di soggetti aventi sede legale all’estero, delle attività finanziarie elencate all’articolo 106, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; 13 maggio 1996, recante i criteri di iscrizione degli intermediari finanziari nell’elenco speciale di cui all’articolo 107, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; 2 aprile 1999, recante la determinazione, ai sensi dell’articolo 106, comma 4, lettera b), del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, dei requisiti patrimoniali relativi agli intermediari che svolgono in via esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie nonché a quelli che operano quali intermediari in cambi senza assunzione di rischi in proprio (money brokers); 31 luglio 2001, n. 372, contenente le disposizioni applicative dell’articolo 155, comma 5, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante disposizioni sui soggetti che esercitano professionalmente l’attività di cambiavalute; 9 novembre 2007, concernente i criteri di iscrizione dei Confidi nell’elenco speciale previsto dall’articolo 107, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; Visto il decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, recante «Attuazione della Direttiva 2005/60/CE, concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della Direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione» e, in particolare:

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l’art. 62, comma 1, che trasferisce, tra l’altro, alla Banca d’Italia le competenze e i poteri attribuiti all’Ufficio Italiano dei Cambi (UIC) in tema di controlli finanziari, prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo internazionale; l’art. 62, comma 2, in base al quale ogni riferimento all’UIC contenuto nelle leggi o in atti normativi si intende effettuato alla Banca d’Italia; l’art. 62, comma 3, che, tra l’altro, sopprime l’UIC e fa succedere la Banca d’Italia nei diritti e nei rapporti giuridici di cui l’UIC è titolare. Sentite la Banca d’Italia e la Consob; Visto il parere del Consiglio di Stato numero 2903 del 24 novembre 2008; Adotta il seguente regolamento: Art. 1. Definizioni 1. Ai sensi del presente decreto si intende per: a) «Testo unico», il Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, emanato con decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; b) «Testo unico della finanza», il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, emanato con decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; c) «elenco generale», l’elenco di cui all’articolo 106, comma 1, del Testo unico; d) «elenco speciale», l’elenco di cui all’articolo 107, comma 1, del Testo unico; e) «CICR», il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio; f) «confidi», i soggetti indicati nell’articolo 13 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, ed iscritti, ai sensi dell’articolo 155, comma 4, del Testo unico nell’apposita sezione dell’elenco generale; g) «cambiavalute», i soggetti di cui all’articolo 155, comma 5, del Testo unico che esercitano professionalmente l’attività consistente nella negoziazione a pronti di mezzi di pagamento in valuta; h) «gruppo di appartenenza», le società controllanti, controllate o

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collegate ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile nonché controllate dalla stessa controllante. Ai fini della definizione dell’ambito dei soggetti di natura cooperativa che costituiscono gruppo di appartenenza dell’intermediario finanziario si applica la delibera del CICR 19 luglio 2005, come modificata dalla deliberazione del 22 febbraio 2006, concernente la raccolta del risparmio da parte di soggetti diversi dalle banche; i) «mezzi patrimoniali», l’ammontare determinato dalla Banca d’Italia ai sensi dell’articolo 18 del presente decreto; j) «carte di credito», le carte che, quali strumenti di pagamento, danno luogo ad un regolamento posticipato rispetto alla transazione; k) «carte di debito», le carte che realizzano una mera funzione di trasmissione della moneta dando luogo ad un regolamento contestuale alla transazione; l) «esercizio di attività finanziarie nel territorio della Repubblica da parte di soggetti esteri», l’esercizio nei confronti del pubblico in Italia, con organizzazione stabile, delle attività di cui all’articolo 106, comma 1, del Testo unico da parte di società finanziarie aventi sede legale all’estero; m) «esercizio in via prevalente dell’attività di rilascio di garanzie», la situazione in cui, in base al bilancio ovvero alla situazione semestrale di cui al successivo articolo 10, l’ammontare delle garanzie in essere sia superiore al totale delle attività dello stato patrimoniale, ovvero l’ammontare dei ricavi prodotti dal rilascio di garanzie sia superiore al 50% dei ricavi complessivi dell’intermediario finanziario; n) «esercizio in via rilevante dell’attività di rilascio di garanzie», la situazione in cui l’ammontare medio delle garanzie nel semestre sia superiore a euro 25 milioni; o) «intermediari finanziari», i soggetti iscritti nell’elenco generale; p) «intermediari finanziari comunitari», i soggetti aventi sede legale in uno Stato dell’Unione europea, non ammessi al mutuo riconoscimento ai sensi dell’articolo 18 del Testo unico che esercitano nei confronti del pubblico, nello stesso Paese, una o più delle attività di cui all’articolo 106, comma 1, del Testo unico; q) «intermediari finanziari extracomunitari», i soggetti aventi sede legale in uno Stato diverso da quelli dell’Unione europea che esercitano nei confronti del pubblico, nello stesso Paese, una o più delle attività di cui all’articolo 106, comma 1, del Testo unico; r) «rilascio di garanzie», l’attività indicata dall’articolo 3, comma 1, lettera f), del presente decreto;

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s) «società cessionarie per la garanzia di obbligazioni bancarie», le società che, ai sensi dell’articolo 7-bis, comma 1, della legge 30 aprile 1999, n. 130, hanno per oggetto esclusivo l’acquisto dei crediti e dei titoli individuati dal regolamento del Ministro dell’Economia e delle Finanze 14 dicembre 2006, n. 310, mediante l’assunzione di finanziamenti concessi o garantiti anche dalle banche cedenti, e la prestazione di garanzie per le obbligazioni emesse dalle stesse banche ovvero da altre; t) «rete limitata di prestatori di beni o servizi», ridotto numero di imprese che può essere chiaramente individuato in base: alla loro ubicazione negli stessi luoghi o in un’area locale circoscritta; allo stretto rapporto finanziario o commerciale con un soggetto in funzione, ad esempio, di un sistema comune di commercializzazione o distribuzione.

Titolo I Contenuto delle attività Art. 2. Ambito di applicazione 1. Le disposizioni del presente decreto si applicano agli intermediari finanziari, agli intermediari finanziari comunitari ed extracomunitari, ai soggetti non operanti nei confronti del pubblico di cui all’articolo 113 del Testo unico, ai cambiavalute ed ai confidi. Art. 3. Attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma 1. Per attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma si intende la concessione di crediti, ivi compreso il rilascio di garanzie sostitutive del credito e di impegni di firma. Tale attività comprende, tra l’altro, ogni tipo di finanziamento connesso con operazioni di: a) locazione finanziaria; b) acquisto di crediti; c) credito al consumo, così come definito dall’articolo 121 del Testo unico, fatta eccezione per la forma tecnica della dilazione di pagamento del prezzo svolta dai soggetti autorizzati alla vendita di beni e servizi nel territorio della Repubblica;

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d) credito ipotecario; e) prestito su pegno; f) rilascio di fideiussioni, l’avallo, l’apertura di credito documentaria, l’accettazione, la girata, l’impegno a concedere credito, nonché ogni altra forma di rilascio di garanzie e di impegni di firma. Sono esclusi le fideiussioni e gli altri impegni di firma previsti nell’ambito di contratti di fornitura in esclusiva e rilasciati unicamente a banche e intermediari finanziari. Art. 4. Attività di intermediazione in cambi 1. Per intermediazione in cambi si intende l’attività di negoziazione di una valuta contro un’altra, a pronti o a termine, nonché ogni forma di mediazione avente ad oggetto valuta. Art. 5. Attività di prestazione di servizi di pagamento 1. Per prestazione di servizi di pagamento si intende l’attività di: a) incasso e trasferimento di fondi; b) trasmissione o esecuzione di ordini di pagamento, anche tramite addebiti o accrediti, effettuati con qualunque modalità; c) compensazione di debiti e crediti; d) emissione o gestione di carte di credito, di debito o di altri mezzi di pagamento, nel rispetto del divieto di raccolta del risparmio tra il pubblico previsto dall’articolo 11 del Testo unicomma 2. Non rientrano nella prestazione di servizi di pagamento le attività di: a) recupero crediti; b) trasporto e consegna di valori; c) emissione o gestione, da parte di un fornitore di beni o servizi, di carte prepagate utilizzabili esclusivamente presso lo stesso o, in base ad un accordo commerciale con l’emittente, all’interno di una rete limitata di prestatori di tali beni o servizi; d) emissione o gestione, da parte di un fornitore di beni o servizi, di carte di credito e di debito utilizzabili esclusivamente presso lo stesso o, in base ad un accordo commerciale con l’emittente, all’interno di una rete limitata di prestatori di tali beni o servizi; e) mera distribuzione di carte di credito e di debito;

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f) trasferimento di fondi, svolto in via strumentale alla propria attività principale, a condizione che il soggetto che effettua tali operazioni non possa disporre per proprio conto dei fondi medesimi. Art. 6. Attività di assunzione di partecipazioni 1. Per assunzione di partecipazioni si intende l’attività di acquisizione e gestione di diritti, rappresentati o meno da titoli, sul capitale di altre imprese. 2. L’assunzione di partecipazione realizza una situazione di legame con le imprese partecipate per lo sviluppo dell’attività del partecipante. Si ha in ogni caso attività di assunzione di partecipazioni quando il partecipante sia titolare di almeno un decimo dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria. Art. 7. Altre attività finanziarie esercitabili 1. Gli intermediari finanziari, oltre alle attività indicate agli articoli 3, 4, 5 e 6 del presente decreto, possono esercitare, fatte salve le riserve di attività previste dalla legge, le attività previste all’articolo 1, comma 2, lettera f), del Testo unico, numeri da 2 a 12 e numero 15. Art. 8. Attività strumentali e connesse 1. Gli intermediari finanziari possono esercitare attività strumentali o connesse a quelle finanziarie svolte. 2. È strumentale l’attività che ha carattere ausiliario rispetto a quella esercitata. A titolo indicativo, rientrano tra le attività strumentali quelle di: a) studio, ricerca e analisi in materia economica e finanziaria; b) gestione di immobili ad uso funzionale; c) gestione di servizi informatici o di elaborazione dati; d) formazione e addestramento del personale. 3. È connessa l’attività accessoria che comunque consente di sviluppare l’attività esercitata. A titolo indicativo, costituiscono attività connesse la prestazione di servizi di: a) informazione commerciale; b) locazione di cassette di sicurezza.

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Titolo II Esercizio di attività nei confronti del pubblico Art. 9. Esercizio di attività nei confronti del pubblico 1. Le attività indicate negli articoli 3, 4 e 5 sono esercitate nei confronti del pubblico qualora siano svolte nei confronti di terzi con carattere di professionalità. 2. Non configurano operatività nei confronti del pubblico le attività esercitate esclusivamente nei confronti del gruppo di appartenenza. La deroga non trova applicazione per gli acquisti di crediti da intermediari finanziari del gruppo medesimo. 3. Non costituisce attività di finanziamento nei confronti del pubblico l’acquisto di crediti vantati da terzi nei confronti di società del gruppo medesimo. 4. L’attività di credito al consumo si considera comunque esercitata nei confronti del pubblico anche quando è limitata all’ambito dei soci. 5. L’attività di rilascio di garanzie, di cui all’articolo 3, comma 1, lettera f) del presente decreto è esercitata nei confronti del pubblico quando anche uno solo tra il garantito e il beneficiario della garanzia non faccia parte del gruppo dell’intermediario finanziario. Tuttavia l’attività di rilascio di garanzie non è esercitata nei confronti del pubblico se il garantito fa parte del gruppo del soggetto garante ed il beneficiario sia una banca o un intermediario finanziario iscritto nell’elenco speciale. 6. L’attività di assunzione di partecipazioni è esercitata nei confronti del pubblico qualora sia svolta nei confronti dei terzi con carattere di professionalità e le assunzioni di partecipazioni avvengano nell’ambito di un progetto che conduca alla alienazione delle partecipazioni dopo interventi volti alla riorganizzazione aziendale, allo sviluppo produttivo o al soddisfacimento delle esigenze finanziarie delle imprese partecipate anche tramite il reperimento del capitale di rischio.

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Titolo III Iscrizione negli elenchi del titolo V del testo unico Capo I Elenco generale Art. 10. Iscrizione e poteri dell’autorità di vigilanza 1. I soggetti che intendono svolgere, nei confronti del pubblico, le attività di cui all’articolo 106, comma 1, del Testo unico sono tenuti all’iscrizione nell’elenco generale. 2. L’istanza di iscrizione attesta il possesso dei requisiti di cui all’articolo 106, comma 3, del Testo unicomma 3. La Banca d’Italia può chiedere agli intermediari finanziari, per i controlli di competenza, atti e documenti, nonché la trasmissione di dati e notizie anche con carattere periodico, ed effettuare ispezioni. 4. Il Ministro dell’economia e delle finanze, su proposta della Banca d’Italia, provvede alla cancellazione dall’elenco generale ai sensi dell’articolo 111 del testo unico quando si verifichi uno dei seguenti casi: a) siano decorsi ventiquattro mesi dall’iscrizione senza che l’intermediario abbia dato inizio all’attività; b) l’intermediario abbia interrotto l’esercizio dell’attività per non meno di ventiquattro mesi continuativi. Art. 11. Requisiti degli intermediari finanziari che esercitano l’attività di rilascio di garanzie 1. I soggetti che intendono esercitare l’attività rilascio di garanzie nei confronti del pubblico devono essere iscritti nell’elenco generale e, oltre a rispettare le condizioni previste nell’art. 106 del Testo unico, devono soddisfare i seguenti requisiti: a) costituzione in forma di società per azioni; b) capitale sociale versato non inferiore a euro 1,5 milioni. Il capitale sociale deve essere investito in attività liquide o in titoli di pronta liquidabilità, entrambi depositati su un unico conto costituito presso una succursale operante in Italia di una banca nazionale, comunitaria o extracomunitaria. Per titoli di pronta liquidabilità si intendono titoli di debito negoziati su mercati regolamentati italiani autorizzati o esteri riconosciuti dalla Con-

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sob ai sensi degli articoli 63 e seguenti del Testo unico della finanza. Tali titoli devono essere valutati al prezzo di mercato ovvero, se si tratta di intermediari finanziari tenuti alla redazione del bilancio secondo i principi contabili internazionali (IAS/IFRS), al valore equo. c) mezzi patrimoniali non inferiori a euro 2,5 milioni; d) oggetto sociale che preveda espressamente l’esercizio dell’attività di rilascio di garanzie nei confronti del pubblico. 2. I requisiti indicati al precedente comma 1 devono essere mantenuti in via continuativa per tutto il periodo di attività dell’intermediario finanziario. In caso di riduzione dei requisiti patrimoniali al di sotto dei limiti fissati dal primo comma, l’intermediario è tenuto a reintegrarli entro 30 giorni. 3. Gli intermediari finanziari iscritti nel solo elenco generale non possono avere per oggetto sociale esclusivo o svolgere in via prevalente o rilevante l’attività di rilascio di garanzie nei confronti del pubblico. 4. Fermo restando quanto previsto all’articolo 10, comma 3 gli intermediari di cui al comma 1 sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia, per i controlli di competenza, il bilancio annuale e una situazione dei conti semestrale nei termini e con le modalità dalla stessa indicate. La situazione semestrale, sottoscritta dall’organo amministrativo e dall’organo di controllo, deve indicare l’ammontare totale delle garanzie in essere, l’ammontare totale delle attività dello stato patrimoniale, l’ammontare dei ricavi prodotti dal rilascio di garanzie, l’ammontare dei ricavi complessivi alla data di riferimento, l’ammontare massimo e l’ammontare medio delle garanzie nel periodo di riferimento. 5. Qualora dal bilancio o dalla situazione dei conti semestrale risulti l’esercizio in via prevalente dell’attività di rilascio di garanzie l’intermediario finanziario deve ricondurre l’attività nei limiti consentiti entro sessanta giorni, dandone pronta comunicazione alla Banca d’Italia, e, nel frattempo, non può rilasciare nuove garanzie. 6. Qualora si verifichi l’esercizio in via rilevante dell’attività di rilascio di garanzie, l’intermediario finanziario è tenuto a darne pronta comunicazione alla Banca d’Italia; deve, altresì, ricondurre l’attività nei limiti consentiti entro sessanta giorni, dandone pronta comunicazione alla Banca d’Italia e, nel frattempo, non può rilasciare nuove garanzie. 7. Ai fini del precedente comma 1 non si considerano le garanzie: a) rilasciate a favore di banche o intermediari finanziari iscritti

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nell’elenco speciale, in relazione alla concessione di finanziamenti; b) connesse o accessorie a specifiche operazioni riconducibili ad altra attività svolta dall’intermediario finanziario.

Capo II Sezioni dell’elenco generale Art. 12. Soggetti non operanti nei confronti del pubblico 1. Sono obbligati all’iscrizione nell’apposita sezione dell’elenco generale prevista dall’articolo 113 del Testo unico i soggetti che esercitano, non nei confronti del pubblico, in via esclusiva una o più delle attività indicate nell’articolo 106, comma 1, del t.u. 2. L’obbligo ricorre anche a carico dei soggetti che esercitano dette attività non nei confronti del pubblico in via prevalente. La verifica di tale condizione va effettuata mediante la comparazione delle citate attività con quelle di natura diversa, industriale, commerciale o di servizi, esercitate dal medesimo soggetto, secondo quanto indicato nel successivo articolo 13. 3. In deroga ai commi precedenti, l’attività di assunzione di partecipazioni rileva ai fini dell’iscrizione solo se svolta congiuntamente ad altra attività finanziaria nei confronti delle partecipate. Art. 13. Prevalente operatività non nei confronti del pubblico e modalità di calcolo 1. L’esercizio in via prevalente, non nei confronti del pubblico, di una o più delle attività finanziarie di cui all’articolo 106, comma 1, del t.u., fermo restando quanto previsto dal precedente articolo 12, comma 3, sussiste, quando, in base ai dati dei bilanci approvati relativi agli ultimi due esercizi chiusi, ricorrono entrambi i seguenti presupposti: a) l’ammontare complessivo degli elementi dell’attivo di natura finanziaria di cui alle anzidette attività, unitariamente considerate, inclusi gli impegni ad erogare fondi e le garanzie rilasciate, sia superiore al 50% del totale dell’attivo patrimoniale, inclusi gli impegni ad erogare fondi e le garanzie rilasciate; b) l’ammontare complessivo dei ricavi prodotti dagli elementi dell’attivo di cui alla predetta lettera a), dei ricavi derivanti da ope-

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razioni di intermediazione su valute e delle commissioni attive percepite sulla prestazione dei servizi di pagamento richiamati dall’articolo 106, comma 1, del t.u., sia superiore al 50% dei proventi complessivi. 2. Nei confronti degli intermediari esercenti la prestazione di servizi di pagamento o di intermediazione in cambi è sufficiente il verificarsi del presupposto di cui al precedente comma, lettera b). Art. 14. Cambiavalute 1. I soggetti in qualsiasi forma giuridica costituiti che esercitano in via professionale, anche su base stagionale, l’attività di cambiavalute, sono iscritti in un’apposita sezione dell’elenco generale. 2. I cambiavalute possono altresì esercitare attività strumentali e connesse, attività connesse al turismo o alla prestazione di servizi di trasporto di persone e attività numismatica, in conformità al regime proprio di ciascuna di esse. 3. I partecipanti al capitale dei cambiavalute devono possedere i requisiti di onorabilità determinati con il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze, emanato ai sensi dell’articolo 108 del t.u. 4. I titolari di ditte individuali nonché coloro che svolgono funzioni, comunque denominate, di amministrazione, direzione e controllo presso soggetti che svolgono attività di cambiavalute, costituiti in qualunque forma giuridica, devono possedere i requisiti di onorabilità determinati con il decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze, emanato ai sensi dell’articolo 109 del t.u.

Capo III Elenco speciale Art. 15. Obbligo di iscrizione 1. Al ricorrere delle condizioni di seguito indicate, gli intermediari finanziari hanno l’obbligo di richiedere alla Banca d’Italia l’iscrizione nell’elenco speciale. L’iscrizione può essere effettuata d’ufficio dalla Banca d’Italia. 2. Sussiste l’obbligo di iscrizione per: a) gli intermediari finanziari esercenti l’attività di finanziamento sotto qualsiasi forma che abbiano un volume di attività finanziaria pari o superiore a euro 104 milioni;

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b) i confidi che abbiano un volume di attività finanziaria pari o superiore a euro 75 milioni; c) gli intermediari finanziari esercenti l’attività di assunzione di partecipazioni, ivi comprese le società finanziarie per l’innovazione e lo sviluppo di cui all’articolo 2 della legge 5 ottobre 1991, n. 317, che abbiano un volume di attività finanziaria pari o superiore a euro 52 milioni; d) gli intermediari finanziari esercenti l’attività di intermediazione in cambi con assunzione di rischi in proprio; e) gli intermediari finanziari esercenti l’attività di emissione o gestione di carte di credito e di debito; f) gli intermediari finanziari per i quali ricorrono le condizioni stabilite dalla Banca d’Italia in armonia con le disposizioni comunitarie riguardanti il mutuo riconoscimento, ai sensi dell’articolo 18 del t.u.; g) gli intermediari finanziari incaricati della riscossione dei crediti ceduti e dei servizi di cassa e di pagamento previsti dall’articolo 2, comma 3, lettera c), della legge 30 aprile 1999, n. 130, anche ai sensi dell’articolo 7-bis, comma 4, della stessa legge; h) le società cessionarie per la garanzia di obbligazioni bancarie, non rientranti nell’ambito di un gruppo bancario come definito dal t.u.. 3. La permanenza nell’elenco speciale è subordinata all’effettivo svolgimento dell’attività finanziaria che ha determinato l’iscrizione. La Banca d’Italia provvede alla cancellazione dall’elenco speciale ove: a) decorsi dodici mesi dall’iscrizione l’intermediario non abbia dato inizio all’attività, ovvero b) abbia interrotto l’esercizio dell’attività per oltre dodici mesi continuativi. Art. 16. Intermediari finanziari che esercitano in via esclusiva, prevalente o rilevante attività di rilascio di garanzie 1. Gli intermediari finanziari che hanno per oggetto sociale esclusivo o intendono esercitare in via prevalente o rilevante l’attività di rilascio di garanzie nei confronti del pubblico hanno l’obbligo di iscriversi nell’elenco speciale e devono soddisfare i seguenti requisiti: a) essere costituiti in forma di società per azioni; b) capitale sociale versato non inferiore a euro 1,5 milioni. Il ca-

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pitale sociale deve essere investito in attività liquide o in titoli di pronta liquidabilità, entrambi depositati su un unico conto costituito presso una succursale operante in Italia di una banca nazionale, comunitaria o extracomunitaria. Per titoli di pronta liquidabilità si intendono i titoli di debito negoziati su mercati regolamentati italiani autorizzati o esteri riconosciuti dalla Consob ai sensi degli articoli 63 e seguenti del t.u.della finanza. Tali titoli devono essere valutati al prezzo di mercato ovvero, se si tratta di intermediari finanziari tenuti alla redazione del bilancio secondo i principi contabili internazionali (IAS/IFRS), al valore equo; c) mezzi patrimoniali non inferiori a euro 5 milioni; d) oggetto sociale che preveda espressamente l’esercizio dell’attività di rilascio di garanzie nei confronti del pubblico. 2. Nel caso in cui la Banca d’Italia neghi l’iscrizione nell’elenco speciale e lo statuto dell’intermediario preveda l’esercizio dell’attività di rilascio di garanzie in via esclusiva, gli amministratori provvedono a convocare l’assemblea per modificare l’oggetto sociale ovvero per deliberare la liquidazione volontaria della società. 3. Le disposizioni del presente articolo e dell’articolo 11 non si applicano ai confidi. Art. 17. Sussistenza dei requisiti di iscrizione 1. Ai fini dell’iscrizione nell’elenco speciale, le condizioni quantitative, di cui all’articolo 15, comma 2, lettere a), b) e c), vanno accertate con riferimento ai dati dell’ultimo bilancio approvato e devono essere mantenute per i sei mesi successivi alla chiusura dell’esercizio cui il bilancio si riferisce. La Banca d’Italia può definire le ipotesi in presenza delle quali è possibile procedere all’iscrizione nell’elenco speciale prima dei citati termini. 2. Ai fini dell’iscrizione nell’elenco speciale la Banca d’Italia verifica il possesso da parte dell’intermediario dei requisiti di cui agli articoli 15, comma 2 e 16, comma 1, del presente decreto nonché il rispetto delle disposizioni previste dal Titolo V del t.u. L’iscrizione degli intermediari finanziari indicati nelle lettere a), b), c), d), e), f) e g) è negata qualora l’intermediario non rispetti le regole di adeguatezza patrimoniale stabilite dalla Banca d’Italia e non disponga di un sistema informativo-contabile, di metodi di misurazione e gestione dei rischi nonché di strutture di controllo interno adeguati rispetto al volume e alla complessità dell’attività svolta o che intende

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svolgere. In tal caso, qualora la richiesta di iscrizione nell’elenco speciale sia motivata esclusivamente dal tipo di attività esercitata, entro due mesi dal provvedimento di diniego gli amministratori provvedono a convocare l’assemblea per modificare l’oggetto sociale ovvero per deliberare la liquidazione volontaria della società; qualora invece la richiesta di iscrizione nell’elenco speciale sia motivata dal superamento delle soglie quantitative previste dall’articolo 15, comma 2, entro il termine di sei mesi dal provvedimento di diniego l’intermediario deve riportare gli aggregati rilevanti al di sotto delle medesime soglie quantitative. In caso di inosservanza delle disposizioni che precedono, l’intermediario è cancellato, secondo le modalità di cui all’articolo 111 del t.u., dall’elenco generale. 3. La perdita delle condizioni quantitative indicate dagli articoli 15, comma 2 e 16, comma 1, del presente decreto, verificata con riferimento ad almeno tre esercizi consecutivi, comporta la cancellazione dall’elenco speciale. La Banca d’Italia stabilisce in via generale le condizioni in presenza delle quali procedere alla cancellazione anche prima del decorrere di tre esercizi. 4. Per gli intermediari finanziari di cui al comma 3 che hanno effettuato operazioni di raccolta tra il pubblico avvalendosi delle facoltà riconosciute dalla delibera del CICR del 19 luglio 2005, come modificata dalla deliberazione del 22 febbraio 2006, e dalle relative istruzioni applicative della Banca d’Italia, la cancellazione dall’elenco speciale rimane comunque sospesa fino a che l’ammontare delle obbligazioni emesse in circolazione non rientri nel limite stabilito dalle predette disposizioni. 5. Gli intermediari la cui cancellazione dall’elenco speciale è sospesa ai sensi del comma 4 non possono effettuare nuove operazioni di raccolta tra il pubblico. Art. 18. Composizione dei parametri validi ai fini dell’iscrizione e modalità di iscrizione nell’elenco speciale 1. La Banca d’Italia stabilisce, con proprio provvedimento, gli elementi da prendere in considerazione per il calcolo degli aggregati di cui all’articolo 15, comma 2, lettere a), b) e c) e agli articoli 11, comma 1, lettera c), e 16, comma 1, lettera c), del presente decreto. Nell’individuazione delle componenti relative ai volumi di attività finanziaria e ai mezzi patrimoniali la Banca d’Italia fa riferimento alla disciplina in materia di bilancio di esercizio e di calcolo del patrimonio di vigilanza dei soggetti sottoposti a controlli prudenziali.

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Titolo IV Intermediari finanziari esteri Art. 19. Condizioni per l’esercizio di attività finanziaria da parte di soggetti esteri 1. L’esercizio nei confronti del pubblico di attività finanziaria con stabile organizzazione nel territorio della Repubblica da parte di intermediari finanziari comunitari ed extracomunitari è subordinato all’iscrizione nell’elenco generale. Art. 20. Iscrizione nell’elenco generale degli intermediari finanziari comunitari 1. L’iscrizione nell’elenco generale di intermediari finanziari comunitari è subordinata al ricorrere delle seguenti condizioni: a) svolgimento effettivo dell’attività finanziaria nel Paese di provenienza; b) esercizio in Italia dell’attività finanziaria in via esclusiva; c) costituzione di un fondo di dotazione di importo almeno pari al capitale sociale richiesto, dall’articolo 106, comma 3, del t.u., agli intermediari finanziari aventi sede legale in Italia. Per gli intermediari che esercitano l’attività di rilasciano di garanzie nei confronti del pubblico, costituzione di un fondo di dotazione di importo non inferiore a euro 2,5 milioni, elevato a euro 5 milioni ove l’attività è esercitata in via esclusiva, prevalente o rilevante. Il fondo di dotazione deve essere investito per almeno euro 1,5 milioni in attività liquide o in titoli di pronta liquidabilità, entrambi depositati su un unico conto costituito presso una succursale operante in Italia di una banca nazionale, comunitaria o extracomunitaria. Per titoli di pronta liquidabilità si intendono i titoli di debito negoziati su mercati regolamentati italiani autorizzati o esteri riconosciuti dalla Consob ai sensi degli articoli 63 e seguenti del t.u. della finanza. Tali titoli devono essere valutati al prezzo di mercato ovvero, se si tratta di intermediari finanziari tenuti alla redazione del bilancio secondo i principi contabili internazionali (IAS/IFRS), al valore equo; d) sussistenza dei requisiti di professionalità, indipendenza ed onorabilità previsti dell’articolo 109 del t.u. in capo ai soggetti che svolgono la funzione di direzione dell’organizzazione stabile operante in Italia;

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e) sussistenza dei requisiti di onorabilità in capo ai titolari di partecipazioni rilevanti nell’intermediario finanziario comunitario che ha chiesto l’iscrizione della stabile organizzazione operante in Italia. 2. Nel caso in cui sussista nel Paese di origine dell’intermediario finanziario comunitario una regolamentazione di settore equivalente a quella prevista dal titolo V del t.u., l’iscrizione nell’elenco generale è subordinata al verificarsi della sola condizione di cui al comma 1, lettera a). Art. 21. Iscrizione nell’elenco generale degli intermediari finanziari extracomunitari 1. L’iscrizione nell’elenco generale degli intermediari finanziari extracomunitari è subordinata al ricorrere delle seguenti condizioni: a) sussistenza dei requisiti di cui al precedente articolo 20, comma 1; b) rilascio da parte del rappresentante legale della società di dichiarazione attestante l’osservanza dei principi e delle cautele di cui alle raccomandazioni emesse dal Gruppo di azione finanziaria internazionale (GAFI) in tema di riciclaggio di denaro proveniente da attività illecite. Art. 22. Norme applicabili 1. Agli intermediari finanziari comunitari ed extracomunitari iscritti nell’elenco generale, ai sensi del presente decreto si applicano, in quanto compatibili con la presente disciplina in relazione all’attività svolta in Italia, gli articoli 106, 107, 108 e 109, comma 1, per quanto concerne i requisiti di professionalità, indipendenza ed onorabilità richiesti ai soggetti che svolgono funzioni di direzione, ed articolo 111 del t.u.. Per verificare la sussistenza dei requisiti che determinano l’obbligo di iscrizione nell’elenco speciale si fa riferimento all’attività esercitata in Italia. 2. Il Ministro dell’Economia e delle Finanze dispone la cancellazione dall’elenco generale, secondo quanto previsto dall’articolo 111 del t.u., quando vengano meno le condizioni stabilite negli articoli 20 e 21 del presente decreto.

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Titolo V Disposizioni transitorie e finali Art. 23. Disposizioni transitorie e finali 1. Gli intermediari finanziari che alla data di entrata in vigore del presente decreto risultano iscritti nell’elenco speciale per il solo superamento del parametro relativo ai mezzi patrimoniali di cui al decreto ministeriale 13 maggio 1996, recante criteri di iscrizione degli intermediari finanziari nell’elenco speciale di cui all’articolo 107, comma 1, del t.u., mantengono l’iscrizione nell’elenco speciale per dodici mesi dalla data medesima. Qualora, entro tale termine, non superino le soglie di rilevanza di cui all’articolo 15, comma 2, del presente decreto, sono cancellati dall’elenco speciale. 2. Le istanze di iscrizione nell’elenco speciale presentate dagli intermediari finanziari, alla data di entrata in vigore del presente decreto, per il superamento del solo parametro relativo ai mezzi patrimoniali previsto dal decreto ministeriale 13 maggio 1996, recante criteri di iscrizione degli intermediari finanziari nell’elenco speciale di cui all’articolo 107, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si intendono decadute. 3. Gli intermediari finanziari che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, già svolgono l’attività di rilascio di garanzie nei confronti del pubblico, entro novanta giorni dalla data medesima si adeguano alle disposizioni del presente decreto ovvero dismettono l’attività, adottando le conseguenti modifiche statutarie. In caso di inosservanza delle disposizioni che precedono l’intermediario è cancellato dall’elenco generale, secondo le modalità di cui all’articolo 111 del t.u.. 4. La Banca d’Italia determina le modalità per la cancellazione dall’apposita sezione dell’elenco generale di cui all’articolo 113 del t.u. dei soggetti che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, esercitano attività di assunzione di partecipazioni senza svolgere congiuntamente altra attività finanziaria nei confronti delle proprie partecipate, secondo quanto previsto dall’articolo 12, comma 3, del presente decreto. 5. Gli intermediari finanziari che, alla data di entrata in vigore del presente decreto, già svolgono attività di intermediazione in cambi senza assunzione di rischi in proprio (money broker), entro

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Documenti e informazioni

centottanta giorni dalla data medesima si adeguano alle disposizioni del presente decreto ovvero dismettono l’attività, adottando le conseguenti modifiche statutarie. In caso di inosservanza delle disposizioni che precedono l’intermediario è cancellato dall’elenco generale, secondo le modalità di cui all’articolo 111 del t.u. 6. La Banca d’Italia emana disposizioni volte ad assicurare la continuità dell’invio da parte delle società di cui all’articolo 3 della legge 30 aprile 1999, n. 130 delle informazioni relative ai crediti cartolarizzati. 7. Per tutti i soggetti destinatari del presente decreto la Banca d’Italia determina le modalità di iscrizione nei relativi elenchi. Art. 24. Abrogazioni 1. Sono abrogati i seguenti decreti: a) il decreto ministeriale 6 luglio 1994, recante determinazione, ai sensi dell’articolo 106, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, del contenuto delle attività indicate nello stesso articolo 106, comma 1, nonché in quali circostanze ricorre l’esercizio delle suddette attività nei confronti del pubblico; b) il decreto ministeriale 6 luglio 1994, recante determinazione, ai sensi dell’articolo 113, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; c) il decreto ministeriale 6 luglio 1994, recante modalità di iscrizione dei soggetti che operano nel settore finanziario di cui agli articoli 106, 113 e 155, commi 3 e 4, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; d) il decreto ministeriale 28 luglio 1994, recante disciplina dell’esercizio nel territorio della Repubblica, da parte di soggetti aventi sede legale all’estero, delle attività finanziarie elencate all’articolo 106, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; e) il decreto ministeriale 13 maggio 1996, recante criteri di iscrizione degli intermediari finanziari nell’elenco speciale di cui all’articolo 107, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385; f) il decreto ministeriale 2 aprile 1999, recante determinazione, ai sensi dell’articolo 106, comma 4, lettera b), del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, dei requisiti patrimoniali relativi agli intermediari che svolgono attività di rilascio di garanzie

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nonché a quelli che operano quali intermediari in cambi senza assunzione di rischi in proprio (money brokers); g) il decreto ministeriale 31 luglio 2001, n. 372, contenente disposizioni applicative dell’articolo 155, comma 5, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 recante disposizioni sui soggetti che esercitano professionalmente l’attività di cambiavalute; h) il decreto ministeriale 9 novembre 2007, recante i criteri di iscrizione dei confidi nell’elenco speciale previsto dall’articolo 107, comma 1, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, fatti salvi l’articolo 3 e l’articolo 2, secondo comma, primo periodo.

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Norme redazionali

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c. c. - art. 2332, co. 1, c. c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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Norme redazionali

4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio Costituzione codice di procedura civile codice penale codice di procedura penale decreto decreto legislativo decreto legge decreto legge luogotenenziale decreto ministeriale decreto del Presidente della Repubblica disposizioni sulla legge in generale disposizioni di attuazione disposizioni transitorie legge fallimentare

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c. c. c. comm. Cost. c. p. c. c. p. c. p. p. d. d. lgs. d. l. d. l. luog. d. m. d. P. R. d. prel. disp. att. disp. trans. l. fall.


Norme redazionali

legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l. camb. t. u. t. u. b. t. u. f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale Corte di Cassazione Sezioni unite Consiglio di Stato Corte d’Appello Tribunale Tribunale amministrativo regionale

C. Cost. Cass. S. U. Cons. St. App. Trib. TAR

3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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Norme redazionali

Diritto industriale Diritto dell’informazione e dell’informatica Economia e credito Enciclopedia del diritto Enciclopedia giuridica Treccani Europa e diritto privato Foro italiano (il) Foro napoletano (il) Foro padano (il) Giurisprudenza commerciale Giurisprudenza costituzionale Giurisprudenza italiana Giurisprudenza di merito Giustizia civile Il fallimento Jus Le società Notariato (11) Novissimo Digesto italiano Nuova giurisprudenza civile commentata Nuove leggi civili commentate (le) Quadrimestre Rassegna di diritto civile Rassegna di diritto pubblico Rivista bancaria Rivista critica di diritto privato Rivista dei dottori commercialisti Rivista del notariato Rivista della cooperazione Rivista di diritto civile Rivista del diritto commerciale Rivista di diritto internazionale Rivista di diritto privato Rivista di diritto processuale Rivista di diritto pubblico Rivista italiana del leasing Rivista delle società Rivista giuridica sarda Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Vita notarile

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Dir. ind. Dir. inform. Econ. e cred. Enc. dir. Enc. giur. Europa e dir. priv. Foro it. Foro nap. Foro pad. Giur. comm. Giur. cost. Giur. it. Giur. merito Giust. civ. Il fallimento Jus Le società Notariato Noviss. Dig. it. Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civ. Quadr. Rass. dir. civ. Rass. dir. pubbl. Riv. banc. Riv. crit. dir. priv. Riv. dott. comm. Riv. not. Riv. coop. Riv. dir. civ. Riv. dir. comm. Riv. dir. internaz. Riv. dir. priv. Riv. dir. proc. Riv. dir. pubbl. Riv. it. leasing Riv. soc. Riv. giur. sarda Riv. trim. dir. proc. civ. Vita not.


Norme redazionali

4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze e, successivamente, gli estratti.

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria Cedola di sottoscrizione q Abbonamento 2009 (4 fascicoli): € 105,00 Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 30,00 Modalità di Pagamento q assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA q versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) q bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 W 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) q a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) q carta di credito q MasterCard q VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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