Diritti della banca e del mercato finanziario 2/2013

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Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

2/2013

Saggi

ISSN 1722-8360

di particolare interesse in questo fascicolo

• Gli accordi di risanamento

• Le agenzie di rating

• Derivati e doveri dell’intermediario

• La gestione del sovraindebitamento

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro. Nell’anno 2012, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Emilio Beltrán, Concetta Brescia Morra, Emanuele Lucchini Guastalla, Stefania Pacchi, Adoracion Pères Troya, Antonio Piras, Andrea Pisaneschi, Gaetano Presti, Marilena Rispoli Farina, Michele Sandulli, Antonella Sciarrone Alibrandi, Maurizio Sciuto, Giuseppe Terranova, Francesco Vella.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

Comitato di direzione Carlo Angelici, Sido Bonfatti, Mario Bussoletti, Gino Cavalli, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimeri, Alessandro Nigro, Mario Porzio, Ángel Rojo, Vittorio Santoro, Luigi Carlo Ubertazzi. Comitato di redazione Antonella Brozzetti, Vincenzo Caridi, Ciro G. Corvese, Giovanni Falcone, Elisabetta Massone, Francesco Mazzini, Donato Ivano Pace, Filippo Parrella, Gennaro Rotondo. Segreteria di redazione Daniele Vattermoli Direttore responsabile Alessandro Nigro La sede della rivista è presso la Segreteria del Ce.Di.B. Corso Vittorio Emanuele II, 173 - 00186 Roma L’amministrazione è presso: Pacini Editore SpA Via Gherardesca - 56121 Ospedaletto - Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it - info@pacinieditore.it

I dattiloscritti, i libri per recensione, bozze, ecc. dovranno essere inviati al Prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290 - 00198 Roma


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Sommario 2/2013

PARTE PRIMA Saggi Franco Belli, di Alessandro Nigro La nuova disciplina di gestione della crisi da sovraindebitamento: prime osservazioni, di Fabrizio Maimeri Accordi di risanamento: i soggetti coinvolti, il ruolo delle banche e le responsabilità, di Tommaso Maria Ubertazzi Regolamentazione dei rating e delle credit rating agencies: una voce fuori dal coro, di Raffaele Scalcione

Commenti Negoziazione di derivati e doveri dell’intermediario – Bundesgerichtshof, 22 march 2011; The High Court of Justice – Queen’s Bench Division Commercial Court, 11 february 2010 Misseling derivatives: le posizioni del Bundesgerichtshof e della High Court of Justice in merito ai doveri di trasparenza dell’intermediario nella negoziazione di derivati nella prospettiva della regolamentazione EMIR, di Raffaele Lener e Paola Lucantoni

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PARTE seconda Legislazione

Guistizia digitale – D.l. 18 ottobre 2012, n. 179, recante ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese, conv. dalla l. 17 dicembre n. 221, art. 17 Giustizia digitale e procedure concorsuali, di Alessandro Nigro e Daniele Vattermoli

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Norme

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redazionali

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PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



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Franco Belli* 1. Ho conosciuto e cominciato a frequentare Franco Belli agli inizi stessi della mia lunga esperienza senese, cioè nell’autunno del 1970. Per una serie di circostanze, come spesso succede, abbastanza casuali, ero divenuto assistente ordinario di diritto commerciale nella giovanissima Facoltà, allora, di Scienze economiche e bancarie dell’Università di Siena. Ero divenuto, quindi, assistente di Paolo Vitale, all’epoca professore incaricato, appunto, di Diritto commerciale, nonché assistente, in qualche misura, anche di Paolo Ferro-Luzzi, all’epoca professore incaricato di Diritto fallimentare (due cari amici, l’uno e l’altro, entrambi purtroppo scomparsi). Quando lo conobbi, Franco Belli era ancora studente, ma stava per laurearsi con Paolo Vitale, con il quale si era già instaurato un rapporto, destinato nel tempo a divenire intensissimo. Era difficile immaginare temperamenti più diversi: l’uno, Paolo Vitale, tormentato, sospettoso, ombroso; l’altro, Franco Belli, sereno, fiducioso, trasparente. Eppure il legame fra i due fu molto forte: la frequentazione era molto intensa, il dialogo fra di loro, sul piano scientifico, era continuo; e Franco fu partecipe, sul piano personale, anche dei momenti meno lieti nella vita di Paolo: le malattie, taluni problemi familiari. Tornando a me, il comune riferimento, di Franco e mio, a Vitale non poteva, ovviamente, che favorire la conoscenza reciproca. La prima vera occasione di lavoro insieme fu, comunque, costituita dalla preparazione della Tavola Rotonda, tenuta a Siena nel 1973 e curata da Paolo Vitale, dal titolo L’ordinamento del credito fra due crisi (1929/1973), i cui atti, pubblicati nel 1977, hanno per lungo tempo costituito – anche per la qualità dei partecipanti: ricordo che intervennero,

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Relazione letta al Convegno in ricordo di Franco Belli, tenutosi a Siena, il 9 e 10 maggio 2013, su “Sistema creditizio e finanziario: problemi e prospettive”.

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fra gli altri, Giannini, Cassese, Vignocchi, mio padre, Giuseppe Ferri – un punto fermo per tutti gli studi in materia di legislazione bancaria. Partecipammo entrambi agli incontri di studio dai quali era scaturita l’idea di quella Tavola Rotonda; collaborammo entrambi all’organizzazione della medesima; fornimmo entrambi il nostro contributo. Anzi, Franco Belli fornì due contributi: l’uno su «Controllo-governo» del credito: indagine sull’evoluzione dell’ordinamento e l’altro, con Angelo Majo, su Dieci anni di attività del CICR: un tentativo di classificazione. Nel tempo, il nostro impegno nella Facoltà senese aumentò: nel 1975, Franco ebbe l’incarico di Diritto pubblico dell’economia ed io, nel 1976, quello di Diritto commerciale. Questo moltiplicò le occasioni di lavoro insieme e rafforzò di conseguenza il nostro rapporto. Insieme – e con Salvatore Maccarone – abbiamo vissuto gli anni, a loro modo “gloriosi”, del consolidamento della Facoltà, anni caratterizzati anche dalla battaglia per assicurare adeguati spazi e ruoli agli insegnamenti di materie giuridiche. Insieme – sempre con Salvatore Maccarone - ci siamo gettati nell’avventura, alla fine degli anni ’70, del Ce.di.b., con tutto quello che ne è poi conseguito, dalla creazione di collane editoriali, fra cui Giurisprudenza bancaria, alla nascita, nel 1986, della rivista Diritto della banca e del mercato finanziario. Insieme, infine, abbiamo contribuito alla fondazione del dottorato di ricerca in Diritto e legislazione bancaria. Mi piace sottolineare che tutte queste iniziative, anche e proprio per merito di Franco Belli, hanno prodotto frutti non effimeri. Il dottorato di ricerca ed il Ce.di.b. sono fra gli organizzatori di questo nostro convegno. Giurisprudenza bancaria e Diritto della banca e del mercato finanziario sono tuttora presenti nel panorama editoriale italiano. Negli anni a cui mi riferisco – gli anni della mia esperienza senese – il mio rapporto con Franco, l’ho già detto, si è sempre più rinsaldato, coinvolgendo non solo la vita universitaria, ma anche la sfera personale. Un rapporto di amicizia, di affetto, di reciproca assoluta fiducia. Come ho già avuto modo di sottolineare altre volte, davanti allo stesso Franco, l’ho sempre considerato un fratello; e sono convinto che anche lui mi abbia sempre considerato, a sua volta, un fratello. Del resto, fra le tante doti, egli aveva la capacità di condividere la sua vita con gli altri o, se si preferisce, di coinvolgere gli altri nella propria vita, con gesti semplici ma significativi, come, per esempio, aprendo generosamente la propria casa ad amici, colleghi, studenti. Per me Franco Belli ha costituito il trait d’union con la realtà senese: se, da un certo momento in poi, ho cominciato a considerare Siena come una mia seconda “patria” è stato perché vi era il solido, diciamo, “ancoraggio” con essa costituito proprio da Franco.

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All’inizio del ’90 la mia frequentazione senese si è interrotta: sono stato chiamato a Roma. Quindi sono diminuite le occasioni di incontro con Franco. Ma il nostro rapporto, la nostra amicizia, il reciproco nostro affetto sono rimasti immutati. La sua improvvisa scomparsa mi ha lasciato, mi lascia un vuoto non facilmente superabile. Mi mancheranno, ci mancheranno la sua vivacità intellettuale, il suo acume, il suo gusto per le battute, la sua serenità. L’ho visto l’ultima volta sul suo letto di ospedale: il corpo era piegato dalla malattia, ma lo spirito era rimasto lo stesso; ebbe anche la forza di scherzare, perfino sulle sue condizioni. Del resto, fino all’ultimo, intrattenne un fitto dialogo con tanti suoi amici tramite Facebook. Così, con la sua espressione serena ed il sorriso affiorante sotto i baffi, lo ricorderò. 2. Franco Belli era nato a Siena nel 1942. Aveva avuto una carriera scolastica – per sua stessa dichiarazione – piuttosto irregolare, anche quanto agli studi universitari. Si era dapprima iscritto alla Facoltà di economia e commercio dell’Università di Firenze: nella quale aveva però sostenuto pochi esami, anche perché contemporaneamente aveva svolto saltuarie attività lavorative (fra l’altro era stato per qualche tempo anche impiegato presso la Cassa di Risparmio di Firenze). Nel 1966 si era iscritto alla neonata Facoltà di Scienze economiche e bancarie. Si laureò con lode e dignità di stampa nell’anno accademico 1970/1971, discutendo una tesi in Diritto commerciale dal titolo Statosocietà per azioni, analisi storica di un rapporto, relatore – come ho già ricordato – Paolo Vitale. Prima borsista in Tecnica industriale e poi contrattista in Diritto dell’economia nella Facoltà senese, Franco Belli assunse dapprima gli incarichi di Diritto pubblico dell’economia e di Legislazione bancaria nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania e poi nel 1975 – come ho già ricordato – quello di Diritto pubblico dell’economia nella Facoltà di Siena. Nei primi anni ’80 divenne professore associato. Nel 1988 vinse il concorso, per professore ordinario, di Legislazione bancaria, prendendo servizio nel 1990 come straordinario di Diritto bancario nella Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Ferrara, dove insegnò poi anche Diritto commerciale, Diritto industriale e Diritto fallimentare. Nel 1993 venne richiamato a Siena nella Facoltà ora di economia, dove rimase fino al prepensionamento dal 1 marzo 2010. In tale Facoltà ricoprì anche cariche accademiche: in particolare, quella di Direttore del Dipartimento di diritto dell’economia, di Direttore della Scuola di dottorato in Diritto dell’economia, di Preside dal 1999 al 2005.

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Credo che meriti di essere segnalato che, dopo il prepensionamento, Franco Belli ha continuato ad insegnare nella sua Facoltà, sulla base di contratti, fino quasi all’ultimo. Ha tenuto infatti la sua lezione di “commiato” il 1 giugno 2012: si è trattato di una lezione estremamente stimolante, come io stesso ho potuto constatare, vedendone la videoregistrazione, nella quale Franco si è inoltrato in una, direi appassionata, quanto lucida, difesa del credito e della banca. 3. Sulla scia del suo Maestro, Franco Belli ha scelto fin dall’inizio, forte anche della sua solidissima preparazione sia nelle scienze economiche sia anche in quelle aziendali, di privilegiare nei suoi studi temi di diritto dell’economia e specialmente di diritto e legislazione bancaria, con una particolare inclinazione per la prospettiva storica. Egli, in effetti, è stato, anche e proprio, uno storico del diritto dell’economia. Mi pare emblematico che la sua bibliografia – estesa in un arco temporale di quasi quarant’anni – si apra con uno studio del 1972, condotto insieme ad Antonio Scialoja, dal titolo Alle origini delle istituzioni capitalistiche in Italia. Il sindacato governativo sulle società commerciali e gli istituti di credito (tema sul quale Franco poi tornerà, sempre con Antonio Scialoja, nel 1978, in un lavoro dal titolo Il Sindacato governativo, le società commerciali nel regno d’Italia di Carlo De Cesare: lettura di Franco Belli e Antonio Scialoja) e si chiuda con quella che può considerarsi la sua opera principale, il Corso di legislazione bancaria del 2010, sul quale tornerò più avanti, che, secondo quanto lo stesso A. ha tenuto a precisare, è soprattutto un libro, appunto, di storia. Questo beninteso non significa che Franco Belli sia stato uno studioso con lo sguardo essenzialmente rivolto al passato. Al contrario. Egli è stato un attento osservatore, anzi indagatore, dei processi evolutivi dell’ordinamento del credito a lui contemporanei. Di tali processi ha approfonditamente studiato tutte le tappe fondamentali (la riforma delle banche pubbliche, l’attuazione delle direttive comunitarie e specificamente l’emanazione del d.lgs. n. 481 del 1992, l’emanazione del testo unico del 1993, le progressive integrazioni di quest’ultimo, ecc.) ed affrontato tutti i nodi cruciali (dal modello della banca universale ai connotati delle diverse categorie di banche, alle fondazioni bancarie, fino ad arrivare alla attuale crisi finanziaria). In tutti gli scritti relativi a queste tappe ed a questi nodi traspare la grande e peculiare capacità dell’A. di muoversi senza incertezze e salti fra diritto, economia e storia per pervenire a ricostruzioni complete e coerenti. Ed emerge inoltre un leit motiv di fondo, che innerverà poi il già ricordato Corso di legislazione bancaria: il profondo convincimento della assoluta specialità dell’impresa

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bancaria, per la particolare intensità dell’intreccio “pubblico”/”privato” che tale impresa connota e non può non connotare, un convincimento ribadito con forza anche nella lezione di commiato di cui ho parlato prima. Voglio ricordare che Franco Belli ha affrontato anche molti temi di diritto bancario, diciamo così, puro: in relazione ai quali segnalerei, fra i diversi lavori, quello dedicato ai servizi bancari, nel Trattato Rescigno, dove si fornisce una ricostruzione originale e convincente di questa particolare e sempre più importante porzione della attività delle banche. E che, da ultimo, egli aveva esteso la sua attenzione anche ai profili etici dell’attività bancaria e finanziaria in genere. Torno al più volte citato Corso di legislazione bancaria, lavoro meditato e di ampio respiro, la cui seconda edizione ho avuto il piacere di presentare nel giugno 2010 presso la “nostra” Facoltà. Come dissi in quella circostanza, in esso c’è tutto Franco Belli: leggendolo si ha l’impressione di sentirlo parlare. La forma dell’espressione è, infatti, quella tipica di Franco: effervescente, talvolta scanzonata, con tocchi di teatralità e punte di civetteria. Anche il contenuto rispecchia la sua figura di studioso: uno studioso dotato di grande cultura, ma soprattutto caratterizzato dalla curiosità, una curiosità direi quasi insaziabile, che lo spingeva a non accontentarsi mai, a porsi sempre nuove domande; uno studioso per molti versi singolare, anche perché lasciava trasparire, nello scritto come nel discorso, gli itinerari di analisi e di ricostruzione che aveva ritenuto di seguire, itinerari mai semplici e scontati. Il lavoro fornisce una ricostruzione storica dell’ordinamento del credito dall’800 ad oggi ampia ed attenta. Una ricostruzione che certamente offre un contributo fondamentale alla comprensione delle ragioni che hanno portato all’attuale assetto di questo ordinamento. Una ricostruzione, ancora, dalla quale emerge – torno a dire anche qui – che la storia della legislazione bancaria è, in effetti, soprattutto la storia della ricerca, momento per momento, del migliore e più appropriato punto di equilibrio fra la salvaguardia del paradigma imprenditoriale della banca, centrato necessariamente sulla tensione verso il profitto, e la tutela degli interessi pubblici, o se si preferisce collettivi, implicati dalla attività bancaria. Tale punto di equilibrio è stato talvolta trovato nella fissazione di regole rigide, talaltra è stato perseguito invece attraverso l’attribuzione di ampi poteri discrezionali all’Autorità di vigilanza. Secondo un movimento pendolare che ciclicamente si è riproposto e ancora si ripropone. Mi è sempre parsa, questa, una acquisizione importante. Così come mi è sempre parsa un’acquisizione importante la ricostruzione di Franco

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Belli circa gli elementi di peculiarità o di specialità dell’impresa bancaria, che egli ha individuato: - nella specificità del paradigma imprenditoriale, dato dall’intermediazione creditizia, intesa come raccolta e redistribuzione, sotto forme tecniche diverse, di mezzi monetari, che costituisce – rilevava giustamente Franco – il “nocciolo duro” e segna lo spartiacque fra impresa finanziaria di natura bancaria ed impresa finanziaria di natura extrabancaria; - nella specificità del bene oggetto dell’intermediazione, ossia il bene (la merce) denaro, di rilevanza collettiva; - nella spinta endogena delle banche ad organizzarsi a sistema (qui è particolarmente presente l’insegnamento di Paolo Vitale); - nel diretto coinvolgimento, in relazione a tutti gli elementi appena indicati, degli interessi generali o collettivi o pubblici; - nell’essere lo statuto speciale della banca null’altro, proprio, che la proiezione dell’incidenza dell’attività bancaria a livello di interessi generali. È questa a mio avviso, ripeto, una ricostruzione pienamente convincente e condivisibile. E tanto più lo è in quanto fa emergere come il “pubblico” non costituisca un connotato “estrinseco” dell’attività bancaria, in termini di finalizzazione o funzionalizzazione di essa per il perseguimento di specifici obiettivi di interesse pubblico, ma costituisca invece un connotato “intrinseco” di quell’attività. Il che, poi, ha, come è evidente, una serie di corollari di estrema importanza. 4. Franco Belli è stato un professore universitario nel senso più autentico dell’espressione. Si è dedicato con passione all’insegnamento, cui consacrava molto del suo tempo e che costituiva la sede in cui precisava, saggiava e raffinava le sue idee e le sue costruzioni. Sarà stato per le sue capacità espressive, sarà stato per la sua esperienza di didatta anche nella scuola media superiore (aveva ottenuto l’abilitazione nel 1974 e dal 1975 al 1979 aveva insegnato in un istituto tecnico industriale di Poggibonsi), sarà stato per la simpatia che ispirava, sarà stato per l’estrema disponibilità che caratterizzava il suo modo di porsi rispetto agli altri, sta di fatto che Franco Belli affascinava letteralmente gli studenti, i quali seguivano in massa i suoi corsi e dei quali diventava anche amico, confidente, protettore, pur nel doveroso rispetto dei ruoli. Ricordo che, almeno quando ero anch’io a Siena, Franco usava organizzare delle feste di fine corso con e per i suoi studenti: occasioni in cui dava pieno sfogo alla sua verve di autentico uomo di spettacolo. Mi risulta che abbia continuato a farlo anche negli anni successivi.

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Franco Belli è stato un professore universitario nel senso autentico dell’espressione anche sotto un altro aspetto: per la capacità di coinvolgere, direi trascinare gli altri, soprattutto i più giovani, in studi, ricerche, iniziative di ogni genere. Anche con questo si spiega il fatto che egli abbia avuto, abbia, molti allievi, a lui profondamente legati e tutti di sicuro valore. 5. Ho già detto della vasta cultura di Franco Belli. Aggiungo ora che in Franco questa cultura si sposava con una singolare ecletticità, con la capacità di passare disinvoltamente dallo studio del diritto alla poesia, dalla pittura alla musica, al teatro. Proprio il teatro ha rappresentato la sua ultima e definitiva passione, soprattutto dopo quella che aveva chiamato la sua “rottamazione”, nel 2010, come professore universitario. A partire dal 2002-2003 egli si era impegnato in modo sempre più intenso ed assorbente nella partecipazione a spettacoli teatrali. La compagnia – Archivio Zeta – della quale presto era divenuto magna pars, sia come attore sia talvolta anche come regista/autore, aveva iniziato ad operare solo nel periodo estivo e alla Futa, nel luogo che costituiva da sempre il buen retiro di Franco; ma col tempo aveva esteso il suo raggio d’azione e Franco aveva recitato nei teatri antichi di tutta Italia, da Segesta o Tindari a Fiesole e Sant’Anna di Stazzema. Io non ho mai avuto l’occasione di assistere ad una di quelle rappresentazioni. Ma non ho dubbi che Franco si sia rivelato un attore di prim’ordine, per l’intensità e la raffinatezza delle sue interpretazioni: avevo già avuto modo di apprezzarne le doti espressive tutte le volte in cui, dopo le nostre riunioni conviviali a casa sua, ci recitava, per esempio, brani del suo Pinocchio in versi. Mi ricordava molto – e glielo dicevo – Benigni: e non solo per la comune “toscanità”. Franco Belli ha lavorato per dieci anni con quella compagnia, per la quale ha predisposto anche testi: mi riferisco, per esempio, a Plutocrazia, uno spettacolo andato in scena per la prima volta nel dicembre 2006 nella Cripta della Facoltà di economia. Franco ha lavorato nel teatro fino all’ultimo: l’ultima replica alla quale ha partecipato si è tenuta il 26 agosto 2012, quando il male si stava già manifestando. Franco Belli è stato però anche altro. È stato pittore (conservo ancora delle sue tele che mi regalò nei primi tempi della nostra conoscenza), disegnatore, vignettista. È stato poeta. Memorabile il suo Pinocchio in versi, al quale ho già accennato: un’opera geniale e raffinatissima, che lo stesso A. aveva fatto conoscere al vasto pubblico, recandosi di persona in diverse località della Toscana per recitarne dei brani. Ma altre opere possono essere ri-

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cordate, talune dai titoli fortemente evocativi: per esempio, Bibeide: poemetto estatico (sui personaggi della Futa); o Rete da polli (una raccolta di poesie). Aveva addirittura cercato, in un disegno assai ambizioso, di fondere i suoi due amori, la poesia, appunto, e la legislazione bancaria in un’opera: La legislazione bancaria in versi. Quest’opera è rimasta, che a me risulti, incompiuta ed inedita. Solo un piccolo brano, dal titolo Papé satan, papé satan aleppe, è stato pubblicato nel 2006 nella nostra rivista. 6. Mi resta da toccare un ultimo aspetto, le attività di Franco Belli sul piano sociale e su quello politico. Anche in questi campi Franco si è distinto per impegno, generosità e disponibilità verso gli altri. Nel curriculum redatto di suo pugno egli sottolineava come fosse a Firenze durante l’alluvione del 1966 e quindi – scriveva – “oggi fa parte con orgoglio dell’associazione degli ‘Angeli del fango’”. Pur essendo un senese in qualche modo atipico, almeno a mio modo di vedere, Franco era molto legato a Siena, alle sue istituzioni come ai suoi abitanti e partecipava intensamente alla vita sociale e culturale della città, contribuendo al dibattito sulle grandi questioni economiche del territorio (mi piace ricordare, a questo riguardo, la ricerca condotta con altri e sfociata in un libro del 2005 dal titolo Riflessioni sullo sviluppo economico di Siena in una prospettiva storica: la realtà economica e sociale del territorio senese dal secondo dopoguerra), collaborando con le istituzioni ed organizzazioni locali (dalla Fondazione Monte dei Paschi – dei cui statuti ha curato la redazione – a Chianti Banca, di cui è stato socio e consulente; dalla Regione Toscana, per la quale ha organizzato gruppi di studio, ai sindacati, per i quali ha organizzato corsi di formazione), promuovendo o concorrendo a promuovere iniziative importanti (per esempio: il Laboratorio di etica e finanza), ma anche, più semplicemente, aiutando o consigliando chi si trovava in situazioni difficili, per esempio per essere rimasto vittima di usura. Per un certo periodo (dal 1994 al 1997) è stato anche condirettore di un foglio settimanale locale, la Voce del Campo, all’epoca di sinistra e ricordo che me ne riferiva, al tempo, come di un’esperienza assai interessante e coinvolgente. Perfino nell’attività teatrale è riuscito ad esercitare il suo impegno civile. Perché negli spettacoli tenuti alla Futa ha avuto la capacità di coinvolgere piano piano tutti gli abitanti del luogo, non solo come spettatori, ma anche come attori. Quegli spettacoli erano divenuti, in altri termini, parte integrante della vita e dello sviluppo di quella collettività. Forte è stata anche la passione politica di Franco Belli, che poi ispirava anche il suo impegno nel civile e nel sociale. In gioventù aveva sim-

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patizzato per l’estrema sinistra (Lotta continua; Democrazia proletaria, in una lista della quale si era anche candidato in elezioni comunali); più avanti simpatizzò per la sinistra, ai cui partiti comunque non è mai stato iscritto; nel 1995/1996 fu tra i fondatori dell’Ulivo a Siena. Dal 2004 era socio di Libertà e giustizia, una associazione nata nel 2002, che aspira a costituire l’anello di collegamento fra la c.d. società civile e lo “spazio della politica”, a molte delle cui iniziative egli ha partecipato. 7. Credo di avere decisamente abusato della pazienza di chi mi ascolta. Mi sono lasciato trascinare dall’onda dei ricordi, dai rimpianti e dal dolore per la perdita di un amico, dal fascino della riscoperta dei tratti di una persona veramente speciale. Permettetemi soltanto di aggiungere che Franco Belli è stato, appunto, una persona speciale anche perché ha avuto al suo fianco un’altra persona, a sua volta, speciale: la moglie Anna. Anche ad Anna ed alle loro figlie deve oggi andare il nostro affettuoso pensiero. Alessandro Nigro

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La nuova disciplina di gestione della crisi da sovraindebitamento: prime osservazioni 1. Il tema del sovraindebitamento ha avuto una vita complicata nell’ordinamento nazionale, dove, dopo prove mal riuscite in termini di credito al consumo1, ha fatto ingresso con la legge n. 3 del 2012, frutto di un percorso a dir poco singolare, fra un disegno di legge di vecchia data ma insperatamente approvato e un decreto legge abortito2. Subito dopo la pubblicazione di questa legge nella Gazzetta Ufficiale, il legislatore pensa già a modifiche sostanziose, attraverso il d.d.l. C-5117, approvato dal Consiglio dei ministri il 9 marzo 2012. Senonché il normale

1. È noto che uno degli argomenti di maggiore frizione fra gli interessi dei finanziatori e quelli dei consumatori è stato quello del c.d. “prestito responsabile”, causa, secondo una certa visione della questione, del sovraindebitamento delle famiglie. L’incremento della insolvenza nel comparto del credito al consumo registrato negli ultimi anni sarebbe cioè stato prodotto sì dalla crisi economica, ma anche da un modo poco accorto di erogare questo tipo di credito, senza una reale valutazione del merito creditizio. Questa discussione è però quasi del tutto scomparsa nel testo finale della direttiva, dove non si parla neppure di sovraindebitamento e circa il prestito responsabile vi è un accenno nel considerando XXVI («Gli Stati membri dovrebbero adottare le misure appropriate per promuovere pratiche responsabili in tutte le fasi del rapporto di credito (…). Tali misure possono includere (…) avvertimenti sui rischi di un mancato pagamento o di un eccessivo indebitamento») mentre, nella parte dispositiva, all’art. 8 (“Obbligo di verifica del merito creditizio del consumatore”) si impone di effettuare l’istruttoria sulla base delle informazioni fornite dal consumatore e le risultanze di appropriate banche dati, cioè centrali di rischi; questa disposizione è stata recepita nel disposto dell’art. 124-bis del t.u.b. e non rappresenta una novità per la prassi nazionale. Per un’interessante riflessione su questi temi cfr. Falcone, Prestito “responsabile” e sovraindebitamento del consumatore, in Dir. fall., 2010, I, p. 642 e, più recentemente. Piepoli, Sovraindebitamento e credito responsabile, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, p. 38. 2. Per l’iter parlamentare della legge n. 3 del 2010 si rinvia alla ricostruzione rintracciabile, fra gli altri, in Ferro, L’insolvenza civile, in Sovraindebitamento e usura, a cura di Ferro, Milano, 2012, p. 50-54.

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iter parlamentare per produrre leggi non si addiceva a quello scorcio di legislatura, e così ci ha pensato il d.l. n. 179 del 2012 (convertito con modificazioni dalla l. n. 221 del 2012), con l’art. 8 (rubricato “Modificazioni alla legge 27 gennaio 2012, n. 3”), a compiere l’opera. E l’ha compiuta attraverso il meccanismo della novella, sicché ora anche la menzionata legge indica il proprio percorso sfoggiando un gioioso profluvio di numeri ordinali latini. Tutto, o quasi, nasce dalla riforma della legge fallimentare, della quale uno dei principi fondamentali è stato quello di restringere il numero dei soggetti fallibili: il punto 6, lett. a) dell’art. 1 della l. n. 80 del 2005 (la legge delega) invitava il Governo a «modificare la disciplina del fallimento (…) e a semplificare la disciplina attraverso l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità dell’istituto e l’accelerazione delle procedure applicabili alle controversie in materia». Di qui la modifica dell’art. 1 l. fall., che ha risposto al criterio ora riportato, volto a «evitare quella pletora di fallimenti di enti troppo piccoli o completamente privi di attivo che caratterizzava i tribunali italiani, e deflazionare le dichiarazioni di fallimento, consentendo di potersi concentrare sulle procedure ove effettivamente vi fosse possibilità di recupero economico e rilancio dell’attività»3. In armonia con questo principio, l’ultimo comma dell’art. 15 l. fall. dispone che non si faccia luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati4 risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare sia complessivamente inferiore a 30.000 euro5. Questa soluzione non è stata esente da censure, fra le quali quella per cui in tal modo l’imprenditore medio-piccolo rimane non solo esclu-

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Pajardi, Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare7, Milano, 2008, p. 62-63. Su questa nozione cfr. Le procedure concorsuali. Guida operativa interdisciplinare, a cura di Demarchi e Giacomazzi, Milano, 2008, p. 63-71. 5. Si rammenta come già prima della novella fosse prassi diffusa respingere le istanze di fallimento se il debito non superava un certo importo sia perché un modesto inadempimento non è necessariamente sintomo di stato di insolvenza, sia perché manca l’allarme sociale in tali ipotesi. Per altro verso, e proprio in ragione di questa prassi, «un legislatore più coraggioso e pragmatico avrebbe potuto prevedere anche che non si facesse luogo neppure all’apertura del procedimento, indipendentemente dall’indebitamento, quando l’assenza o le ridotte dimensioni dell’attivo non facciano prevedere una qualche utilità per i creditori. (…) Tale scelta sta comunque a dimostrare che, al di là dell’interesse dei creditori, permane l’interesse dello Stato a rimuovere un’impresa insolvente per i danni che può creare all’economia, quando l’insolvenza è di dimensioni non modeste»: Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino, 2008, p. 9. 4.

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so dal fallimento, ma viene altresì privato della possibilità di ricorrere al tentativo di recupero dell’impresa in crisi sotto la tutela giurisdizionale (procedura di concordato preventivo) nonché all’istituto della esdebitazione6. Insomma, siffatta impostazione restrittiva, «nel contesto di un impianto dai nobili scopi quale il nuovo fallimento, pensato appunto per la tutela dei creditori, ma al contempo per la salvaguardia, ove possibile, dei nuclei aziendali ancora produttivi, fa temere che proprio tali scopi potrebbero essere in realtà presto disattesi già dalle rigide barriere che la stessa legge pone»7. Per altra ma convergente direzione, si è osservato che i molti esclusi dalle procedure concorsuali non avevano alternativa se non fruire delle procedure esecutive individuali, non avendo il legislatore8 previsto, per essi o per alcuni di essi, una regolamentazione: era il caso dei consumatori, ma anche delle piccole o medie imprese o dei professionisti e della situazione tecnicamente denominata di “sovraindebitamento”. «Il piano

6.

Cfr. le argomentazioni sul punto di Panzani, Commento all’art. 142 l. fall., in Il nuovo diritto fallimentare, commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2006, II, p. 2099-2100, il quale sembra superare profili di costituzionalità (la scelta del legislatore di limitare l’utilizzo del fallimento, e della esdebitazione, rientrerebbe nella discrezionalità a lui riconosciuta), che invece afferma Santoro (Commento all’art. 142, in La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro e Santoro, Torino, 2006, II, p. 849), a motivo della circostanza che dal beneficio della esdebitazione si escludono i soggetti economicamente più deboli. 7. Santangeli, Commento agli artt. 1-4 l. fall., in Il muovo fallimento, a cura di Santangeli, Milano, 2006, 15. Nello stesso senso cfr. Fortunato, Commento all’art. 1 l. fall., in Il nuovo diritto fallimentare, cit., I, p. 43. 8. A differenza di quanto è accaduto in altri ordinamenti europei, ad esempio quelli francese, britannico, tedesco, olandese, per i quali riferimenti in Legge n. 3 del 27.01.2012. Prime analisi ed osservazioni, a cura del Gruppo di lavoro “Sovraindebitamento” della Commissione Arbitrato e Conciliazione dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Roma, 2 maggio 2012, 8-26. Circa le scelte degli altri ordinamenti, cfr. altresì Girone, Il tentativo del legislatore italiano di allinearsi agli ordinamenti internazionali con il provvedimento in materia di «sovraindebitamento» dei soggetti non fallibili, nonché interventi in materia di usura ed estorsione (disegno di legge C. 2364), in Dir. fall., 2009, II, p. 819-820, dove la distinzione fra paesi di marca conservatrice, paesi più moderati e paesi di area progressista, in funzione delle scelte politiche effettuate in materia di cancellazione dei debiti dei consumatori; Penas Moyano, Porrini, Il sovraindebitamento delle famiglie: il rimedio del fallimento del debitore e l’esperienza spagnola, in www.side-isle.it. La Fondazione dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Firenze ha diffuso una Guida operativa sui procedimenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento, nella quale sono indicati i passaggi operativi e i conseguenti adempimenti, disponibile sul sito internet della Fondazione.

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di composizione della crisi da sovraindebitamento costituisce uno strumento utile ed opportuno non solo per il debitore, termine in cui si devono intendere ricompresi i singoli consumatori, le famiglie e le imprese cc.dd. minori, ma anche e soprattutto per il creditore, dal momento che le procedure individuali esecutive difficilmente riescono ad assicurare una reale ed efficace funzione di tutela dei loro interessi»9. 2. È in questo quadro che si è inserita la menzionata l. n. 3 del 2010, alla quale è toccato il merito di aver offerto ai soggetti esclusi dal fallimento (per motivi quantitativi o qualitativi) una procedura di gestione delle crisi che aveva la caratteristica di essere valida indifferentemente per tutte le tipologie di debitori e di impegnare solo i creditori aderenti all’accordo, nel rispetto di maggioranze prefissate. Si è così colmata una lacuna legislativa10, mettendo insieme soggetti del tutto eterogenei, unificati nella procedura di risanamento cui vengono ammessi11. «L’opzione ‘generalista’ per così dire, con il soggetto avente titolo ad accedere alla “procedura” che viene definito soltanto in negativo va apprezzata e costituisce dunque un merito del legislatore, venendo meno in tal modo una serie di non semplici questioni, postesi nell’applicazione della normativa speciale a tutela dei consumatori, a cominciare ad esempio da quelle che avrebbe posto la stessa definizione del soggetto “consumatore” (è sufficiente ricordare, ad esempio, il caso ricorrente del concorso, nella stessa persona, della condizione di consumatore e professionista e dei criteri valorizzati, da dottrina e giurisprudenza, per stabilire la prevalenza, ai fini dell’applicabilità della disciplina speciale)»12. E ancora: non sarebbe «auspicabile una opzione legislativa, in via di modifica della l. n. 3 del 2012, che tenda a contemplare una procedura riservata al consumatore13, proprio a ragione delle difficoltà operative rammentate dall’a.

9 Ghia, Il debitore civile ed il procedimento per la composizione della crisi da sovraindebitamento, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Ghia, Piccininni, Severini, vol. I: La dichiarazione di fallimento, Torino, 2010, p. 261. 10. Di Marzio, Una procedura per gli accordi in rimedio del sovraindebitamento, in Composizione della crisi da sovraindebitamento, a cura di Di Marzio, Macario e Terranova, Milano, 2012, p. 11. 11. Sulla individuazione “in negativo” dei soggetti ammessi alla procedura di composizione delle crisi di sovraindebitamento cfr. le osservazioni di Ferri jr, Sovraindebitamento, piccoli imprenditori e imprese piccole, in Riv. dir. comm., 2012, I, p. 423. 12. Macario, Finalità, in Composizione della crisi da sovraindebitamento, cit., p. 18. 13 Cordopatri, Presupposti di ammissibilità, in Composizione della crisi da sovraindebitamento, cit., p. 25.

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poco sopra citato. Se quindi «è indubbio che la qualità organizzativa dell’attività del soggetto consumatore, nei termini dei suoi rapporti giuridici, resta assai diversa, e scarsamente comparabile, rispetto a quella, ben più complessa ed orientata al rischio, del debitore imprenditore, ancorché sottosoglia riguardo all’art. 1, co. 2, l.f.», è altrettanto indubitabile come la soluzione legislativa, «in un compromesso tra aspirazione ad una regolazione ordinata di un’esecuzione universalistica e prospettiva di limitata esdebitazione (…), permetta di tenere insieme crisi d’impresa e crisi del consumatore, con il vantaggio di sottrarsi, per la semplicità di riscontro dei presupposti oggettivi, ad un altrimenti concreto rischio di impasse»14. Questa caratteristica della l. n. 3 del 201215 è stata oggetto di modifica da parte del legislatore successivo (d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221) che ha disegnato più di una procedura di gestione del sovraindebitamento e una propria dei consumatori, destrutturando così quell’unicità nel trattamento dei “soggetti non fallibili” dianzi predicata dal dettato normativo. Nell’entrare nel merito della normativa modificata, essa delinea tre procedimenti, simili fra loro ma pur diversi per qualche passaggio o per la specificità di chi può attivarli, vale a dire: a) un accordo di ristrutturazione dei debiti raggiunto con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti; b) un piano del consumatore per i suoi debiti; c) una procedura alternativa di liquidazione dei beni, della durata di quattro anni. Prima di esaminare brevemente queste procedure, occorre dire che i soggetti destinatari sono individuati con una formulazione – redatta invero «in modo un po’ grossolano»16 e che «non appare del tutto felice»17 – che si riferisce a quelle situazioni di sovraindebitamento «non soggette

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Ferro, L’insolvenza civile, cit., p. 53-54. «Il legislatore non fissa parametri, dimensioni, qualità né del soggetto, né della massa debitoria puntando sulla confezione di un “abito” che dovrebbe adattarsi a diverse misure e distinti ambiti» Pacchi, Il sovraindebitamento. Il regime italiano, in Riv. dir. comm., 2012, I, p. 694. 15. Per un commento alla legge prima della modifica, oltre ai lavori già menzionati, si rinvia ai contributi raccolti nel numero monografico di Fallimento, n. 9/2012. 16 Macario, Finalità, cit., p. 18. 17 Guiotto, La nuova procedura per l’insolvenza del soggetto non fallibile: osservazioni in itinere, in Il fallimento, 2012, p. 22.

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né assoggettabili a procedure concorsuali diverse da quelle regolate nel presente capo» (art. 6, comma 1): infatti, a essere sottoposti alla procedura non sono le situazioni ma quei debitori che non sono ammessi alle altre procedure concorsuali18. Ferma restando la critica sulla sciatteria definitoria, la versione attuale pone in evidenza come anche le procedure di cui alla legge in commento sono da considerarsi concorsuali, dal momento che esse coinvolgono tutti i creditori. Quanto alla nozione di sovraindebitamento, essa è definita come «la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente». Detta nozione «attraversa orizzontalmente l’intero arco della tutela civile dei diritti: l’area da “coprire”, infatti, va dalla considerazione della capacità di indebitamento quale variabile da apprezzare preventivamente – ma oltre una valutazione meramente quantitativa e calibrata hic et nunc – sino alla fase più drammatica in cui il creditore o più creditori abbiano già azionato gli strumenti che sono loro concessi per la soddisfazione coattiva delle proprie pretese»19. Ancora: il sovraindebitamento travalica la distinzione fra insolvenza civile e insolvenza commerciale, poiché si coniuga sia per imprenditori, sia per soggetti che imprenditori non sono. La definizione fatta propria dal legislatore è «comprensibilmente basata su una visione “statica” delle condizioni economiche in cui versa il debitore, dovendo riguardare il debitore comune e comunque l’intera classe dei debitori, ad eccezione di quelli fallibili»20 e sembra individuare la figura

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«In realtà rimane, a mio avviso, la possibilità di un imprenditore fallibile in stato d’insolvenza sia escluso sia dalle procedure previste dalla legge fallimentare che dalla procedura di composizione della crisi ex l. 3/2012. Ciò avviene quando – ai sensi dell’art. 15, co. 9, l. fall. – “l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila”. In tal caso la legge prevede che, nonostante il tribunale abbia accertato la sussistenza dei presupposti oggettivo e soggettivo per dichiarare il fallimento, non si faccia luogo alla dichiarazione. Il soggetto rimane però fallibile e quindi rimane escluso dalla procedura di composizione della crisi»: Pacchi, Il sovraindebitamento, cit., p. 698. 19 Modica, Profili giuridici del sovraindebitamento, Napoli, 2012, p. 136. 20 Macario, Finalità, cit., p. 19. È anche vero però che proprio l’unitarietà cui tende la nozione di sovraindebitamento risulta ostacolata dalla intrinseca diversità fra insolvenza civile (del consumatore) e insolvenza commerciale (del piccolo imprenditore):«mentre l’insolvenza civile manifesta un carattere essenzialmente patrimoniale, invece l’insolvenza commerciale tradisce una

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«sia nello stato di insolvenza in senso proprio sia nel (semplice) deficit patrimoniale»21: facendo capo alla nozione di «squilibrio», si avvicina «alla valutazione di tipo finanziario dell’incapacità del debitore (di adempiere), mentre il legislatore – memore, probabilmente, di quanto già accaduto in materia di concordato preventivo nel 2005, ossia dopo il primo episodio della ‘trilogia’ della riforma della legge fallimentare, con l’esigenza di intervenire per chiarire il rapporto tra insolvenza e crisi in termini di equipollenza (ai fini dell’accesso alla procedura) – ritiene opportuno aggiungere comunque, ad evitare formalistiche disquisizioni sulla sussistenza dei requisiti preliminari di accesso, l’insolvenza come incapacità di adempiere con regolarità»22. Insomma, alla procedura de qua i soggetti ammessi possono aderire sia se in situazione di crisi, sia se in situazione di insolvenza, così ripetendo un copione già visto nella interpretazione, appunto, del termine «stato di crisi», evocato dagli accordi di ristrutturazione dei debiti23.

cifra schiettamente finanziaria (ciò che si usa anche dire affermando la natura “statica” della responsabilità patrimoniale civile e la natura “dinamica” della responsabilità patrimoniale commerciale)»: Di Marzio, Sulla composizione negoziale delle crisi da sovraindebitamento (note a margine dell’AC n. 2364), in Dir. fall., 2010, I, p. 662. 21 Nigro, Il nuovo procedimento di composizione delle crisi da sovraindebitamento, in Dir. banc., 2008, I, p. 5. 22 Così Macario, Finalità, cit., p. 20. 23. Se questa sembra essere la conclusione più piana e accettabile, vale la pena osservare che l’interpretazione che qualifica la prima delle due situazioni di cui alla definizione legislativa come stato di crisi, trova un’obiezione nella circostanza che lo squilibrio patrimoniale debba essere «perdurante», aggettivo che potrebbe essere inteso come continuo, se non definitivo, tale cioè da non lasciare spazio alla temporaneità che è tipica di una situazione di crisi, per sé reversibile e, quindi, non perdurante ma valutabile come limitata in un arco temporale più o meno lungo. Non necessariamente quindi anche sotto questo aspetto l’interpretazione si appalesa come univoca, non essendo sicuro che alla procedura possono accedere sia i debitori in difficoltà temporanea sia i debitori insolventi, perché «nell’endiadi di cui alla disposizione gli aggettivi “perdurante” e “definitiva” si muovono secondo una parallela ed evidente intenzionalità delimitatrice ed entrambi assolvono ad un compito selettivo, onde evitare che, con un accesso indiscriminato alla procedura, ogni debitore giochi la carta della legge in commento impegnando risorse giudiziarie e procurandosi vantaggi di blocco delle iniziative dei creditori sulla base di un presupposto fittizio, cioè di gravità dello squilibrio o di crisi finanziaria non assoluti e conclamati» (Ferro, L’insolvenza, cit., p. 67-68). Un’altra osservazione riguarda il patrimonio «prontamente liquidabile», nel senso che se, astrattamente, tutti i beni sono liquidabili, qui rilevano solo quelli agevolmente monetizzabili (Macario, Finalità, cit., p. 20), esclusi cioè i beni divisibili o le res litigiosae: «non è tuttavia del tutto da escludere una interpretazione che schiuda alla considerazione delle risorse del debitore comprensiva delle esigenze primarie: col che “patrimonio

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Ciò posto circa la preferibile nozione di sovraindebitamento da accogliere, va anche rammentato che l’iniziativa per l’avvio delle procedure che di seguito si illustreranno è in capo al solo debitore e che non sono contemplate, nella legge, né prove né valutazioni delle stesse in ordine alla ricorrenza della situazione di sovraindebitato dell’istante24. Pur prendendo atto di tutto ciò, non è mancato chi ha ritenuto come non si possa escludere «che una prima fase, snella e sommaria, possa esaurirsi in un diniego di avvio della procedura: per mancato soddisfacimento dei requisiti di cui agli artt. 7, [8] e 9, precisa l’art. 10, ma in realtà con estensione logica anche al sovraindebitamento, condizione oggettiva attinente allo stato in cui versa il debitore, inquadrata nell’art. 6»25. In verità, una simile conclusione (fondata sul “non poter escludere”) apparirebbe con più sicurezza asseverata laddove il legislatore avesse imposto un minimo di corredo probatorio al debitore istante (il che sarebbe stato coerente con la volontà legislativa di evitare che della procedura si faccia un uso improprio), che invece manca totalmente: ciò giustifica, anche in punto di diritto oltre che di fatto, l’argomento – concreto, ma dirimente – di chi considera assai improbabile che possa essere il giudice, unico astrattamente legittimato, a sollevare in limine l’eccezione dell’assenza del sovraindebitamento26. Piuttosto, saranno «i creditori destinatari della proposta, chiamati a decidere se diventare o non parti dell’accordo proposto dal debitore “sovraindebitato”, gli unici a poter (e dover) esprimere la loro valutazione sulla meritevolezza della situazione del debitore, ai fini della conclusione del contratto che prelude all’attivazione della procedura; non si vede la ragione, pertanto, di pretendere che il Tribunale svolga un rigoroso controllo sulla sussistenza dei presupposti (…) rimanendo allo stesso comunque la decisione in sede di omologazione, alla luce degli altri elementi nel frattempo acquisiti»27. L’altra definizione recata dal comma 1 dell’art. 6, quella di consuma-

prontamente liquidabile” potrebbe intendersi quello al netto dei cespiti indispensabili al sostentamento, fino, per esempio, alla esenzione dal computo della casa di abitazione (e sembrerebbe deporre in tal senso l’allegazione dell’elenco delle spese proprie e dei propri familiari alla proposta di accordo)» (Modica, Profili, cit., p. 351). 24 Ferro, L’insolvenza, cit., p. 60-61. 25 Ferro, L’insolvenza, cit., p. 58. 26. Macario, Finalità, cit., p. 20; Fabiani, La gestione del sovraindebitamento del debitore “non fallibile” (D.L. 212/2011), in www.ilcaso.it, sez. II, 2 gennaio 2012 (doc. n. 278/2012), p. 6. 27 Macario, Finalità, cit., p. 20-21.

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tore, è in linea con quella propria del codice del consumo (art. 3, comma 1, lett. a), anche se lessicalmente meno completa, poiché l’estraneità dell’obbligazione assunta è declinata come estranea all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta, e non anche all’attività commerciale e artigianale, come accade invece nel menzionato codice. 3. La disciplina delle due prime procedure è esposta in un unico contesto, mentre alla terza sono dedicati, “in esclusiva”, gli articoli dal 14-ter a- 14-terdecies. L’art. 7 stabilisce i presupposti di ammissibilità per avviare le procedure, il primo dei quali, al di là dello stato di sovraindebitamento, è la predisposizione, a iniziativa del debitore, come si è accennato, di un piano che – oltre ad assicurare il regolare pagamento dei crediti impignorabili ai sensi dell’art. 545 c.p.c. e il pagamento integrale, seppure dilazionato, dei tributi costituenti risorse proprie dell’Unione europea – preveda le scadenze e le modalità di pagamento dei creditori, che possono essere suddivisi in classi: «la mancata menzione dei cosiddetti creditori estranei induce a ritenere ragionevolmente che la procedura de qua abbia ormai assunto i connotati di una procedura concordataria. Si tratta ora di accordo comunque vincolante per tutti i creditori»28. Aggiunge la norma che è possibile prevedere che i crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca possono non essere soddisfatti integralmente, purché ne venga assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della crisi. Questa previsione – che riecheggia quella di cui all’art. 160, comma 2, l. fall., propria del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione – rende ragione della possibilità del piano di segmentare i creditori in classi ed anche se la disposizione in commento nulla dice in proposito, è coerente con il sistema ritenere che dette classi debbano rispecchiare la natura giuridica e gli interessi economici omogenei dei creditori, come dispone ancora il richiamato art. 160, comma 1, lett. c). La decurtazione eventuale del credito privilegiato vale ai fini di considerare il relativo creditore come abilitato a votare in sede di approvazione del piano, ma «si tratta di una decurtazione parziale ope legis, da non equiparare alla rinuncia parziale convenzionale e, pertanto, si tratta di appurare se il regime

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Cordopatri, Presupposti, cit., p. 23.

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della formazione della maggioranza sia assimilabile a quello proprio della rinuncia parziale volontaria o invece sia da ragguagliare al regime probatorio della riduzione coattiva della prelazione»29. Per contro, inammissibile è la proposta quando il debitore (impresa o consumatore che sia): a) è soggetto a procedure concorsuali diverse da quelle regolate dalla legge: è evidente che manca il presupposto soggettivo; b) ha fatto ricorso, nei precedenti cinque anni, ai procedimenti di cui alla legge30; c) ha subito, per cause a lui imputabili, uno dei provvedimenti di cui agli artt. 14 (impugnazione e risoluzione dell’accordo) e 14-bis (revoca e cessazione degli effetti dell’omologazione del piano del consumatore): qui l’inammissibilità diventa punitiva per immeritevolezza intrinseca del soggetto; d) ha fornito documentazione che non consente di ricostruire compiutamente la sua situazione economica e patrimoniale e quindi di stabilire la situazione di sovraindebitamento, presupposto oggettivo delle procedure in esame. Nella precedente versione della legge vi era una indicazione formale di ipotesi di inammissibilità ridotta rispetto a ora, venendo richiamata quella sub a) e quella sub b), relativa alla “recidività” del debitore, che diveniva rilevante però con tre anziché, come ora, con cinque anni. Quest’ultima condizione di inammissibilità – funzionale a «disincentivare comportamenti opportunistici (il c.d. “moral hazard”) da parte di debitori che, mediante un accesso reiterato e patologico alla procedura, ricerchino un’abusiva forma di liberazione da obbligazioni contratte disinvoltamente e senza adeguate valutazioni sulla propria capacità di rimborso»)31 – ricorda quella che, in materia tutto sommato analoga, il legislatore ha posto per l’esdebitazione, che viene negata a chi «abbia

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Cordopatri, Presupposti, cit., p. 24. V’è peraltro osservato come il riferimento dovrebbe essere a tutte le procedure e strumenti di composizione della crisi e non solo a quelle di cui alla l. n. 3/2012: «In verità parrebbe strano poter ammettere un imprenditore che sia già stato sottoposto a un concordato preventivo o a un accordo ex art. 182-bis rispondendo in quel momento ai parametri di fallibilità di cui all’art. 1 l. fall. (che successivamente sono stati “perduti”) ed escludere chi abbia utilizzato il procedimento per la composizione del sovraindebitamento» (Pacchi, Il sovraindebitamento, cit., p. 699). 31 Guiotto, La nuova procedura per l’insolvenza del soggetto non fallibile, in Il fallimento, 2012, p. 23. 30

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beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta» (art. 142, comma 1, n. 4, l. fall.). A quest’ultimo riguardo è stato segnalato che «sarebbe stato più opportuno delimitare il periodo di “buona condotta imprenditoriale” con riferimento alla data del nuovo fallimento e non a quella successiva della nuova richiesta di esdebitazione in quanto viene calcolata nel decennio anche la durata della procedura all’esito della quale il beneficio viene concesso»32. Sempre a questo proposito è stato osservato che il decennio risponde all’intento di limitare il pericolo di un abuso dell’istituto da parte di chi, ad esempio, «intenda eludere la garanzia di cui all’art. 2740 c.c. ricorrendo al tempestivo fallimento ed alla successiva esdebitazione, proprio al fine di sottrarre ai creditori beni che si sa di dover apprendere in futuro»33. Alla disciplina dell’esdebitazione e al confronto con quella qui in esame si sono rivolti i primi commentatori di quest’ultima, proprio osservando come il termine di cui alla versione originaria della l. n. 3 del 2012, ridotto a tre anni rispetto ai dieci per l’esdebitazione, induce il rischio di comportamenti opportunistici, volti a creare, anziché «esdebitati abituali»34, «una vera e propria professione della procedura per sovraindebitamento»35: per cui vi è chi, pur riconoscendo il rischio di recidiva più apparente che reale, auspica un innalzamento del triennio a cinque anni36, auspicio, come si vede, accolto dal legislatore. In questo argomentare vi è l’eco della dialettica sorta in tema di esdebitazione, fra chi cioè vede in essa un valore da perseguire, seppur con cautela37, e

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Zanichelli, La nuova disciplina, cit, p. 384. È indubbio infatti che il dies ad quem per legge è il giorno della presentazione della domanda al Tribunale e quello a quo è il giorno in cui la precedente esdebitazione è divenuta definitiva: cfr. Pajardi, Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare7, Milano, 2008, p. 731, nt. 13. 33 Ghia, L’esdebitazione, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Ghia, Piccininni, Severini, vol. IV: Il superamento della crisi e la conclusione delle procedure, Torino, 2011, p. 189. 34 Pajardi, Paluchowski, Manuale, cit., p. 731. 35 Cordopatri, Presupposti, cit., p. 26. 36 Fabiani, La gestione, cit., p. 5. È evidente che l’auspicato innalzamento andrebbe incontro, oltre che agli interessi del ceto creditorio, anche a quelli della collettività, se è vero che «gli usi spregiudicati della procedura potrebbero portare, fra non molto tempo, ad un innalzamento del costo del denaro»: Cordopatri, Presupposti, cit., p. 26. 37 Stanghellini, Fresh start: implicazioni di policy, in AGE, 2004, 2, p. 445: «in altre parole, il fresh start è un bene parzialmente o totalmente extra commercium: non lo si può comprare sul mercato o negoziare con il creditore, ma lo si può solo ricevere dallo Stato come clausola integrativa del contratto di prestito».

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chi, al contrario, la considera come un costo da sopportare solo a determinate condizioni e in presenza di adeguate contropartite38. Anche la questione della decorrenza (iniziale e finale) del termine ha attirato l’attenzione dei primi commentatori, dovendosi individuare la data di chiusura della precedente procedura e la data in cui si va ad aprire quella nuovamente invocata. Al riguardo, è sembrato corretto ritenere che la prima procedura possa considerarsi chiusa, in via di principio e salve le ipotesi di chiusura “anomale” di cui all’art. 14 e ss. della l. n. 3 del 2012, «dalla data in cui viene effettuato il soddisfacimento di tutte le obbligazioni così dei creditori che abbiano aderito all’accordo, così dei creditori che ne siano rimasti estranei» e che il termine ad quem possa individuarsi «nella data di presentazione del ricorso»39. Il piano può altresì prevedere l’affidamento del patrimonio del debitore a un gestore per la liquidazione, la custodia e la distribuzione del ricavato ai creditori, nominato dal giudice e individuato in un professionista che abbia i requisiti necessari per ricoprire l’incarico di curatore fallimentare. Il gestore, diversamente dal fiduciario contemplato dal testo previgente, ha la professionalità predeterminate ed è nominato dal giudice, circostanze entrambe che spingono ad apparentare la procedura de qua a quelle concorsuali. Al gestore è inibita ogni funzione dispositiva, essendogli attribuita quella di amministrare e conservare il patrimonio, attività che egli deve presumibilmente porre in essere di conserva con il giudice. L’ultimo comma dell’art. 7, disponendo che anche l’imprenditore agricolo sovraindebitato può proporre un accordo di composizione della crisi, risolve una questione che si era agitata sotto il vigore della precedente versione della legge in esame, che non conteneva alcun riferimento alla figura di questo imprenditore. Infatti, la inclusione di costui fra i soggetti che possono utilizzare la procedura di sovraindebitamento doveva tener conto della circostanza che gli imprenditori agricoli – esonerati (seppure fra tante perplessità della dottrina) dal fallimento – sono

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Nigro, L’insolvenza delle famiglie nel diritto italiano, in Dir. banc., 2008, I, p. 198199: l’esdebitazione «concreta un costo, individuale e collettivo: individuale, perché si traduce in una perdita “secca” per i creditori, e collettivo, perché, ponendo in crisi principi fondamentali in termini di responsabilità e di garanzia patrimoniale, genera spinte “correttive”, in termini per esempio di aumento generalizzato del costo del credito. L’esdebitazione, quindi, non si autogiustifica: ma ha bisogno di essere sorretta da ragioni specifiche o, se si preferisce, di trovare delle contropartite». 39 Cordopatri, Presupposti, cit., p. 26-27.

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stati specificamente abilitati a utilizzare il procedimento si cui all’art. 182bis l. fall. (cfr. il d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111). A motivo di ciò, «a una prima lettura si potrebbe affermare che la PCC [Procedimento per la Composizione delle Crisi da sovraindebitamento] non è attivabile dagli imprenditori agricoli in quanto per questi è prevista, con connotati di evidente specialità, la disposizione additiva di cui all’art. 182-bis l. fall. (che contiene anche l’estensione all’imprenditore agricolo della transazione fiscale). Tuttavia, prima di confermare questa impressione, è doveroso ricordare che la PCC e gli accordi di ristrutturazione presentano sì taluni profili di somiglianza ma anche non marginali profili di differenziazione»40. Nonostante queste perplessità, l’a. ora citato conclude – unanimemente ai primi commentatori della disposizione41 – per ritenere compresi gli imprenditori agricoli fra i debitori che possono utilizzare la procedura di sovraindebitamento. L’ultimo comma del vigente art. 7, perciò, non fa che conclamare le conclusioni cui era giunta la dottrina. Sempre in ragione del suo carattere “introduttivo” l’art. 7, al comma 1-bis, dispone che, fermo il diritto di utilizzare l’accordo di cui sopra, «il consumatore in stato di sovraindebitamento può proporre, con l’ausilio degli organismi di composizione della crisi (…), un piano contenente le previsioni di cui al comma 1», cioè quelle proprie della procedura già esaminata. Al consumatore viene quindi offerta l’opzione fra due alternative, fra le quali la differenza più evidente è che la procedura di apprestamento del piano non richiede, a differenza dell’altra, l’accordo con i creditori: è il giudice a decidere se il consumatore merita di essere ammesso alla procedura. Per il resto, come si vedrà, le due procedure non presentano grandi differenze, tanto da far dubitare i primi commentatori sulla opportunità di una simile differenziazione. 4. Ancora con riferimento al contenuto dell’accordo o del piano, va detto che il comma 1 dell’art. 8 lascia ampi margini di libertà al debitore circa la via da percorrere per giungere alla proposta di accordo, purché requisiti indefettibili siano la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti, perseguiti anche attraverso la cessione di crediti futuri: la scelta operata dalla novella di sostituire la dizione di “redditi futuri” con

40

Fabiani, La gestione, cit., p. 4. Guiotto, La nuova procedura, cit., p. 23; Nigro, Il nuovo procedimento, cit., p. 4-5; Modica, Profili, cit., p. 330. 41

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quella più generica di “crediti futuri” evoca le controversie generatesi sul punto in tema di opponibilità della cessione42 e gli «orientamenti giurisprudenziali sviluppatesi in materia saranno di ausilio nelle procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento»43. Ove i beni del debitore non siano sufficienti a garantire la fattibilità dell’accordo o del piano, «la proposta deve essere sottoscritta da uno o più terzi che consentono il conferimento, anche in garanzia, di redditi o beni sufficienti per assicurarne le fattibilità» (comma 2). Il conferimento può avere effetto sia solutorio sia di garanzia e i terzi divengono così parti dell’accordo o del piano e a loro vincolo deve ritenersi apposta la condizione sospensiva costituita dalla relativa omologazione. Nella proposta di accordo (e quindi non anche nel piano del consumatore) possono essere indicate «eventuali limitazioni all’accesso al mercato del credito al consumo, all’utilizzo degli strumenti di pagamento elettronico a credito e alla sottoscrizione di strumenti creditizi e finanziari»: «la ratio della disposizione deve rinvenirsi nella volontà di offrire ai creditori, chiamati a prestare il proprio consenso alla proposta, una rappresentazione il più possibile fedele della situazione patrimoniale del debitore. La norma, lungi dal perseguire un intento sanzionatorio, appare, dunque, coerente con le esigenze di tutela del ceto creditorio nonché di moralizzazione del credito nell’ottica della costruzione di un sistema di credito più responsabile, indispensabile in tempi di crisi economicofinanziaria»44. Completando quanto si è osservato al § 3 a proposito dei creditori forniti di causa di prelazione, v’è da aggiungere che nel piano del consumatore e nella proposta di accordo con continuazione dell’attività di impresa, si può «prevedere una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salva che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione». Compilati la proposta o il piano, essi vengono depositati presso il

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Trentini, Revocabilità ed inefficacia della cessione di crediti futuri (nota a Cass., 31 agosto 2005, n. 17590), in Il fallimento, 2006, p. 544; Tucci, L’efficacia della cessione di crediti futuri riguardo ai terzi: una decisione innovativa della corte di cassazione (nota a Cass., 26 ottobre 2002, n. 15141), in Giur. it., 2003, p. 636; Macario, Trasferimento del credito futuro ed efficacia verso i terzi: lo «stato dell’arte» (di giudicare), in Riv. dir. priv., 2000, p. 437; Troiano, La cessione di crediti futuri, Padova, 1999. 43 Cordopatri, Presupposti, cit., p. 28. 44 Cordopatri, Presupposti, cit., p. 29.

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tribunale con una serie di documenti45, nell’un caso, del luogo di residenza o sede principale del debitore e, nell’altro, del luogo dove ha la residenza il consumatore. La procedura (di cui all’art. 9) vede il coinvolgimento attivo dell’organismo di composizione della crisi e la presentazione, insieme alla proposta e al piano, di una serie di documenti. In particolare, al piano deve accompagnarsi una relazione particolareggiata del predetto organismo che deve contenere: a) l’indicazione delle cause dell’indebitamento e della diligenza impiegata dal consumatore nell’assumere volontariamente le obbligazioni; b) l’esposizione delle ragioni dell’incapacità del debitore di adempiere le obbligazioni assunte; c) il resoconto sulla solvibilità del consumatore negli ultimi cinque anni; d) l’indicazione della eventuale esistenza di atti del debitore impugnati dai creditori; e) il giudizio sulla completezza e attendibilità della documentazione depositata dal consumatore a corredo della proposta, nonché sulla probabile convenienza del piano rispetto all’alternativa liquidatoria. Per il piano del consumatore l’«attestazione sulla fattibilità» prevista per la proposta viene sostituita da una vera e propria relazione dell’organismo di composizione della crisi: anche a questo riguardo la procedura si rifa a quanto previsto per il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis: «al pari di quanto dottrina e giurisprudenza hanno sottolineato con riferimento ai due istituti da ultimo richiamati, è innegabile che anche per la nuova procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento la relazione sulla fattibilità dell’accordo o del piano, comprensiva anche dell’attestazione sulla veridicità dei dati, ha un’importanza cruciale per il buon esito della procedura, avendo lo scopo di fornire al ceto creditorio tutte le informazioni e tutti gli elementi necessari per la consapevole valutazione sulla convenienza della soluzione proposta per la composizione della crisi da sovraindebitamento»46.

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«Tale documentazione risponde ad una duplice finalità: a) da un lato, dimostrare le risorse del debito e con le quali egli intende intraprendere il percorso di risanamento (in tal senso le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni); b) dall’altro lato, palesare i debiti che devono essere soddisfatti (in tal senso la documentazione relativa a somme dovute, beni del debitore ed atti di disposizione compiuti da questi negli ultimi cinque anni»: Giovetti, Il procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento (l. 27 gennaio 2012, n. 3), in www.giustiziapiemonte.it, 10. 46 Quarticelli, Il deposito, cit., p. 32.

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Il deposito della proposta o dell’accordo o del piano sospende, ai soli effetti del concorso, il corso degli interessi convenzionali o legali, a meno che i crediti non siano garantiti da ipoteca, da pegno o privilegio: «si tratta di un effetto ex lege, che prescinde dal vaglio e da un provvedimento del giudice»47. 5. La procedura prosegue, dopo il deposito della proposta o del piano, con l’ammissione (art. 10), realizzata a seguito di apposito decreto del giudice, che, fra l’altro, contiene il divieto, sino al momento in cui il provvedimento di omologazione diviene definitivo e sotto pena di nullità, di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, di disporre sequestri conservativi, di acquistare diritti di prelazione sul patrimonio del debitore da parte di creditori aventi titolo o causa anteriore; la sospensione non opera nei confronti dei titolari di crediti impignorabili. Questa disposizione si ispira alla regola generale contenuta nell’art. 51 l. fall. e richiamata per il concordato preventivo nell’art. 168 l. fall.48. A decorrere dalla data del provvedimento di ammissione e sino a quella del provvedimento di omologazione, gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione compiuti senza l’autorizzazione dal giudice sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al momento in cui è stata data pubblicità al decreto. Anche questa disposizione (comma 3-bis dell’art. 10) ha matrice concordataria, richiamando l’art. 167 l. fall., il cui comma 2 elenca gli atti tipici della straordinaria amministrazione. A mo’ di conclusivo commento dell’art. 10, ma è osservazione che ben si attaglia anche ad altri articoli della procedura di sovraindebitamento, è stato affermato che le modifiche apportate a detto articolo dalla novella «confermano la natura di concordato dell’istituto dell’accordo sulla composizione della crisi da sovraindebitamento»49. Il raggiungimento dell’accordo (art. 11) per la proposta del debitore diverso dal consumatore si realizza attraverso i voti dei creditori, da far pervenire all’organismo di composizione della crisi: in mancanza del voto. «si ritiene che abbiano prestato consenso alla proposta nei termini in cui è stata loro comunicata». L’accordo, per consentire l’omologazione, deve essere raggiunto con i creditori rappresentanti almeno il 60% dei

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Quarticelli, Il deposito, cit., p. 33. Ivone, L’ammissione alla procedura, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 35. 49 Ivone, L’ammissione, cit., p. 37. 48

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crediti; ai fini della votazione, i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, dei quali la proposta preveda l’integrale pagamento, non sono computati per il raggiungimento della maggioranza e non hanno diritto a esprimersi sulla proposta, salvo che non rinuncino in tutto o in parte al diritto di prelazione50: quest’ultima disposizione si lega alle considerazioni svolte in precedenza al § 3. Quel che emerge è che dell’accordo si usa qui solo la parola, perché, come si vedrà, la proposta omologata vincola anche i dissenzienti, sicché l’accordo è in realtà una mera deliberazione maggioritaria: di qui la conseguenza dell’applicazione della regola della par condicio creditorum, che si declina nell’obbligo per il debitore dell’eguale trattamento di tutti i creditori chirografari, fatta salva la formazione di classi, nonché nell’obbligo del pagamento integrale e in denaro dei crediti muniti di prelazione, ancorché nei limiti del valore del bene oggetto di garanzia (cfr. art. 11, comma 2). «Questa fondamentale conseguenza rende evidente l’importanza di inquadrare correttamente l’istituto in esame non tra i contratti ma tra le procedure concorsuali a deliberazione maggioritaria, evitando di cadere in errore a causa della terminologia utilizzata dal legislatore»51. Il comma 3 dell’art. 11 stabilisce che l’accordo non pregiudica i diritti dei creditori nei confronti dei coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso. La norma, rimasta immutata rispetto alla originaria formulazione, riproduce l’analoga disposizione prevista nelle procedure di concordato preventivo (art. 184, comma 2, l. fall.) e falli-

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Prosegue il co. 2 dell’art. 11 che non hanno diritto a esprimersi sulla proposta e non sono computati ai fini del raggiungimento della maggioranza il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini fino al quarto grado, i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta. 51 Ivone, L’accordo tra debitore e creditori, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 39. Con la stessa chiarezza si è affermato che «la distinzione tra creditori garantiti e creditori chirografari nell’“accordo di ristrutturazione” del sovraindebitamento si piega agevolmente con il fatto che l’“accordo” approvato a maggioranza è efficace non soltanto rispetto ai creditori che lo hanno approvato, ma anche rispetto ai creditori in disaccordo (i quali possono contestare la convenienza di un “accordo” intercorso tra il debitore e altri creditori), creditori questi ultimi che non sono affatto parti dell’“accordo”, ma che nondimeno ne restano vincolati. Il che è incompatibile con il concetto di contratto (che non produce di norma effetti nei confronti dei terzi se non quando è concluso a beneficio degli stessi: cfr. artt. 1372, 1411, c.c.) ed è invece tipico della deliberazione maggioritaria, la quale vale non solo per i creditori consenzienti ma anche per i creditori dissenzienti»: Di Marzio, Introduzione alle procedure concorsuali, il rimedio del sovraindebitamento, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 12.

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mentare (art. 135, comma 2, l. fall.) ed enuncia il più generale principio di sopravvivenza delle garanzie nell’ambito delle procedure concorsuali, per cui i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso sono tenuti al pagamento dell’intero debito, ma hanno diritto di ripetere dal condebitore o debitore principale solo la percentuale concordataria. A commento di questa disposizione è stato correttamente e sinteticamente ricostruito lo stato della questione fino a giungere alle seguenti condivisibili conclusioni, riferite all’ipotesi più frequente, quella della garanzia fideiussoria: per regola generale, quest’ultima garanzia ha carattere accessorio rispetto all’obbligazione principale (art. 1941 c.c.); ne segue che l’estinzione dell’obbligazione principale determina l’estinzione in corrispondente misura dell’obbligazione di garanzia. «Nel caso del concordato tali regole sono derogate in ragione della causa essenziale determinativa del procedimento che culmina con la realizzazione dell’effetto estintivo. Tale causa è l’insolvenza del debitore, ossia la concretizzazione massima della insicurezza adempitiva a cui è tipicamente chiamata a porre rimedio la garanzia fideiussoria (che è infatti garanzia di adempimento). L’estinzione dell’obbligazione principale determinata dalla insolvenza del debitore non può determinare anche l’estinzione della garanzia senza vanificarne la funzione. Quest’ultima riposa nella ripartizione del rischio dell’inadempimento, e dunque dell’insolvenza del debitore, tra il creditore ed il garante. Proprio in ragione di tale criterio distributivo, ciascuno di essi rimane esposto in egual misura alle conseguenze dell’insolvenza del debitore. Infatti, come il creditore sarà soddisfatto soltanto nella percentuale concordataria potendo richiedere il resto al garante, così quest’ultimo, creditore in tale determinata misura, potrà soddisfarsi nei riguardi del debitore garantito nei limiti della stessa percentuale, concorrendo nel concordato per avere il suo credito natura concorsuale, ossia causa anteriore alla apertura della procedura concorsuale»52. Se l’accordo è raggiunto, il giudice lo omologa e ne dispone l’immediata pubblicazione (art. 12); l’accordo omologato «è obbligatorio per tutti i creditori anteriori al momento in cui è stata eseguita la pubblicità di cui all’art. 10, comma 2. I creditori con causa o titolo posteriore non possono procedere esecutivamente sui beni oggetto del piano» (comma 3); «gli effetti di cui al comma 3 vengono meno in caso di risoluzione dell’accordo o di mancato pagamento dei crediti impignorabili, nonché

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Ivone, L’accordo, cit., p. 41.


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dei crediti di cui all’art. 7, comma 1, terzo periodo [crediti privilegiati]» (comma 4). Pertanto, il giudice omologa l’accordo dopo aver compiuto le seguenti valutazioni: a) verifica del raggiungimento dell’accordo con la percentuale prescritta; b) verifica dell’idoneità del piano ad assicurare il pagamento integrale dei crediti impignorabili, nonché dei crediti tributari; c) soluzione di ogni altra contestazione. Le modifiche introdotte a questa fase del procedimento evidenziano ancora la volontà di ricondurla alle procedure concordatarie: si è introdotta una sorta di cram down, analogo a quello previsto per i concordati, laddove nel comma 2 dell’art. 10, al secondo periodo si dispone che, «quando uno dei creditori che non ha aderito o che risulta escluso o qualunque altro interessato contesta la convenienza dell’accordo, il giudice lo omologa se ritiene che il credito può essere soddisfatto dall’esecuzione dello stesso in misura non inferiore all’alternativa liquidatoria disciplinata dalla sezione seconda», cioè quella che disciplina la procedura di liquidazione del patrimonio. Questa previsione amplia i poteri devoluti al giudice in sede di omologa in ragione della esistenza di contestazioni da parte dei creditori, potendosi tali poteri esercitare sulla convenienza del piano, con ciò richiamandosi la giurisprudenza disponibile in tema di concordato. In applicazione di detta giurisprudenza53, «può ritenersi che, in sede di omologazione dell’accordo per la composizione della crisi da sovraindebitamento, il giudice è chiamato a valutare l’idoneità del piano al soddisfacimento dei crediti, assicurando il pagamento integrale dei creditori per i quali non può essere previsto il pagamento parziale, sulla base degli interventi indicati nella proposta, avendo riguardo alle valutazioni esposte nell’attestazione (o meglio: nelle attestazioni) dell’organismo di composizione della crisi, le quali, dunque, dovranno presentare un livello adeguato di completezza e coerenza logica e argomentativa tale da rendere evidente che il consenso dei creditori sulla proposta si sia formato correttamente, sulla base di informazioni veritiere, complete e coerenti»54.

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Cass., 14 febbraio 2011, n. 3586, in Il fallimento, 2011, 805; Cass., 16 settembre 2011, n. 18987, in Foro it., 2012, I, 135; Cass., 25 ottobre 2010, n. 21860, in Il fallimento, 2011, 167. 54 Caron, L’omologazione dell’accordo e del piano, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 47.

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Si è riportato l’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 12, secondo cui «i creditori con causa o titolo posteriore non possono procedere esecutivamente sui beni oggetto del piano»: «la disposizione risponde alla finalità di garantire l’esecuzione dell’accordo, con il soddisfacimento dei crediti secondo le modalità e alle condizioni indicate, evitando il pregiudizio che potrebbe conseguire a eventuali azioni esecutive individuali sui beni oggetto dell’accordo»55. Gli effetti di cui al comma 3 e sopra riportati vengono meno in caso di risoluzione dell’accordo (comma 4), così come risolve l’accordo la sentenza di fallimento pronunciata a carico del debitore (comma 5)56. Diverso il procedimento di omologa del piano dei consumatori, mutuato dalle procedure concordatarie, e specificamente dal modello “piano di risanamento”. A questo riguardo, ai sensi dell’art. 12-bis, il giudice deve preliminarmente valutare se: a) sussistono i presupposti di ammissibilità del piano; b) il contenuto del piano sia conforme a quanto stabilito nell’art. 8; c) è formalmente regolare il deposito della proposta ex art. 9; d) non ricorrono fatti impeditivi, ossia atti in frode ai creditori. In caso di verifica positiva, il giudice fissa immediatamente l’udienza per decidere sull’omologa e a questo fine valuta: a) la fattibilità del piano e l’idoneità dello stesso ad assicurare il pagamento integrale dei crediti impignorabili nonché dei crediti tributari; b) la soluzione di eventuali contestazioni, anche in ordine all’effettivo ammontare dei crediti; c) la meritevolezza del consumatore, nel senso di valutare che quest’ultimo non abbia assunto obbligazioni senza la ragionevole prospettiva di poterle adempiere ovvero che non abbia colposamente determinato il sovraindebitamento, anche per mezzo di un ricorso al credito non proporzionato alle proprie capacità patrimoniali. 6. Esaminato positivamente tutto ciò, il giudice omologa il piano (art. 12-ter), disponendo per il relativo provvedimento una idonea forma di pubblicità. Anche in questo caso, come per l’omologazione dell’accordo:

55

Caron, L’omologazione, cit., p. 48. Prosegue il co. 5: «gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato non sono soggetti all’azione revocatoria di cui all’art. 67 l. fall. A seguito della sentenza che dichiara il fallimento, i crediti derivanti da finanziamenti effettuati in esecuzione o in funzione dell’accordo omologato sono prededucibili a norma dell’art. 111 l. fall.». 56

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i creditori con causa o titolo anteriore non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali (comma 1); il piano omologato è obbligatorio per tutti i creditori (comma 2); l’omologazione non pregiudica i diritti dei creditori nei confronti dei coobbligati, fideiussori del debitore e obbligati in via di regresso (comma 3); è previsto il meccanismo del cram down (comma 4). L’esecuzione dell’accordo e del piano viene controllata dal giudice e dall’organismo di composizione della crisi; i crediti sorti in occasione o in funzione di uno dei tre procedimenti sono soddisfatti in prededuzione rispetto agli altri, «con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno ed ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti»: così, «le somme destinate alla prededuzione vengono a soffrire una sorta di eccezione a favore dei diritti dei creditori prelazionati. Si tratterebbe, così, di una prededuzione relativa o limitata, diversamente da quanto suole avvenire in diverse altre procedure concorsuali»57. L’ultimo comma dell’art. 13 dispone che quando l’esecuzione dell’accordo o del piano è divenuta impossibile per ragioni non imputabili al debitore, quest’ultimo, con l’ausilio dell’organismo di composizione della crisi, può modificare la proposta. Se ci si muovesse nell’ambito contrattuale, l’impossibilità sopravvenuta della prestazione provocherebbe la risoluzione del contratto; si è già detto però di quanto sia fuorviante l’utilizzo del termine piano o accordo, sicché la questione sta nello stabilire se il debitore abbia il diritto di modificare unilateralmente la proposta (in un rapporto di diritto potestativo/soggezione con i creditori) o se invece abbia, più verosimilmente, la possibilità di iniziare nuovamente l’iter di composizione della crisi. «Secondo la lettura più plausibile e coerente con la ratio della norma, dovrebbe ritenersi che la modifica di cui all’art. 13, comma 4-ter, comporta la espunzione dall’accordo o dal piano delle clausole relative alla prestazione ormai divenuta impossibile, con la conseguenza che al debitore sarebbe preclusa la possibilità di addivenire unilateralmente alla novazione del contratto. Anche perché è il testo dell’art. 13, u.c., a richiedere espressamente che alla modifica il debitore pervenga con l’ausilio dell’organismo di composizione della crisi, costantemente coinvolto. Ciò che costituisce ulteriore conforto alle perplessità nutrite circa la natura negoziale degli istituti in discorso e, al contempo, al convincimento qui espresso che si tratterebbe di veri e

57 Cordopatri, L’esecuzione dell’accordo o del piano del consumatore, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 57.

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propri procedimenti»58. La possibilità del debitore deve poi fare i conti con l’analoga possibilità del creditore di chiedere la risoluzione dell’accordo, prevista dall’art. 14, comma 2. .Al fine di ottenere l’annullamento o la risoluzione dell’accordo (art. 14), può agire ogni creditore, a cominciare ovviamente da quelli aderenti poiché gli estranei, essendo stati integralmente pagati, non dovrebbero avere concreto interesse in tal senso59. Il presupposto per proporre azione di annullamento si realizza laddove sia stato dolosamente o con colpa grave aumentato o diminuito il passivo ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell’attivo ovvero dolosamente o con colpa grave simulate attività inesistenti. Si tratta di una disposizione che ricalca l’art. 138 l. fall. (concordato fallimentare) e l’art. 186 l. fall. (concordato preventivo). Il riferimento alle procedure concordatarie consente di rifarsi alla giurisprudenza per esse esistente, che ha affermato una posizione rigorosa, nel senso che l’annullamento del concordato può aversi solo in presenza di una dolosa esagerazione del passivo o di una dissimulazione di parte dell’attivo, tali da integrare una falsa rappresentazione della situazione patrimoniale dell’imprenditore in base al quale i creditori sono indotti ad approvare la proposta e il tribunale a omologarla60. Nella disposizione in commento anche la colpa grave e non soltanto il dolo nel compimento delle predette attività può condurre alla proposizione dell’azione di annullamento, «con la conseguenza che, sebbene appaia corretta la considerazione per la quale l’impugnativa dovrebbe essere accolta dal giudice soltanto nelle ipotesi più gravi e non anche in

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Cordopatri, L’esecuzione, cit., p. 58. Tuttavia, fatta questa osservazione di principio, va tenuto presente che, sebbene terzi all’accordo, «i creditori non aderenti potrebbero esserne gravemente pregiudicati, a prescindere dall’inadempimento del debitore nei propri confronti che consente di accedere all’azione ex art. 10, comma 4, laddove il proponente preveda nel piano una moratoria fino ad un anno per ll pagamento dei creditori estranei, consentita dall’art. 8, comma 4, ove concorrano cumulativamente alcune condizioni, moratoria la possibilità della quale pone seri dubbi di legittimità costituzionale proprio perché riferita a soggetti estranei ex art. 1372 c.c. alla soluzione concordata della crisi»: Giordano, L’impugnazione e la risoluzione dell’accordo, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 60. 60 Trib. Milano, 9 gennaio 1992, in Il fallimento, 1992, p. 643; Trib. Ascoli Piceno, 18 dicembre 2009, in Giur. comm., 2011, II, 209, con nota di Perugini, L’annullamento del concordato preventivo con cessione dei beni in caso di sottrazione o dissimulazione di una parte rilevante dell’attivo; Cass., 19 gennaio 1987, n. 396, in Giust. civ., 1987, I, 1739; Trib. Grosseto, 8 ottobre 1981, in Dir. fall., 1982, II, 153. 59

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presenza di condotte del debitore che, pur rientrando apparentemente tra quelle previste dalla disposizione normativa, siano in realtà irrilevanti ai fini del raggiungimento dell’accordo con i creditori o comunque inidonee a determinare pregiudizi apprezzabili, sotto il profilo dell’elemento soggettivo appare ormai chiarito che il dolo cui fa riferimento la norma non è il dolo c.d. contrattuale bensì il dolo “generico” che, unitamente alla colpa grave, costituisce presupposto dell’azione generale di risarcimento dei danni ex art. 2043»61. Ciascun creditore, in accordo con il comma 2 dell’art. 14, può altresì chiedere al Tribunale la risoluzione dell’accordo se il debitore non adempie regolarmente alle obbligazioni derivanti dall’accordo medesimo, se le garanzie promesse non vengono costituite o se l’esecuzione dell’accordo diviene impossibile per ragioni non imputabili al debitore. In ogni caso, effetto dell’annullamento ovvero della risoluzione dell’accordo è il venir meno con efficacia erga omnes, cioè rispetto a tutti i creditori, dell’accordo nella sua interezza, vale a dire che «saranno travolti gli effetti correlati, per il periodo di un anno, all’omologazione dell’accordo, effetti individuati dall’art. 10, comma 3, nell’impossibilità per i creditori anteriori, sotto pena di “nullità” (rectius, inefficacia nei confronti dei creditori), fatta eccezione per i titolari di crediti impignorabili, di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, disporre sequestri conservativi ed acquistare diritti di prelazione sul patrimonio del debitore che ha presentato la proposta di accordo»62. L’art. 14-bis disciplina le modalità di revoca e cessazione degli effetti dell’omologazione del piano dei consumatori, ma esse sono sostanzialmente analoghe, salvo le differenze apicali delle due procedure, sicché non vale la pena in questa sede soffermarvisi. Prima di procedere all’esame della terza procedura, è tempo di esprimere qualche valutazione d’insieme su quel che si è fin qui esposto e illustrato. Si sono tratteggiate la procedura per i debitori non fallibili (il c.d. “accordo”) e quella specifica per i consumatori (il c.d. “piano”). Presumibilmente, l’inserimento della seconda si fondava sulla convinzione che quella già elaborata nell’originaria formulazione della l. n. 3 del 2012 fosse particolarmente complessa e quindi eccessivamente onerosa per quel particolare debitore che è il consumatore. Il risultato però è tutt’altro

61 Giordano, L’impugnazione e la risoluzione dell’accordo, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 61. 62 Giordano, L’impugnazione, cit., p. 63.

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che positivo. Anzitutto perché fra le due procedure non corrono quelle differenze che forse taluno auspicava, sicché si ha piuttosto la trama di un unico procedimento con qualche modifica nell’ordito: le differenze infatti, a parte quella di vertice sulla necessità dell’accordo per la prima, non necessario per la seconda, «si attenuano fin quasi a scomparire. (…) Viene da chiedersi, pertanto, se fosse davvero indispensabile complicarsi la vita con due procedure diverse (sotto molti profili di dettaglio, ma rilevanti sotto il profilo operativo), quando gli interlocutori del debitore saranno, verosimilmente, sempre e comunque i soli creditori professionali, e cioè, in buona sostanza, le banche e i soggetti assimilati»63. Si ha allora, esaminando le due procedure, la sensazione di una evidente riscrittura, con adattamenti non sempre felici, di disposizioni desunte dal concordato preventivo e dagli altri procedimenti di ristrutturazione del debito, che possono essere coerenti con la struttura dei soggetti fallibili, ma molto meno, in termini di speditezza ed economicità, con quella dei debitori civili o dei consumatori. «Nonostante le novità del decreto [d.l. n. 179 del 2012], resta sempre il dubbio sulla reale unità della disciplina del sovraindebitamento, frutto di un non felice compromesso tra la procedura di concordato preventivo e quella degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall. Sarebbe stato forse più utile consentire l’accesso a quest’ultima procedura a soggetti quali il debitore civile e/o il consumatore e/o il piccolo imprenditore nonché le imprese start-up»64. Il tutto con una ulteriore aggravante, sulla quale ci si soffermerà fra breve

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Terranova, Presentazione, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 8. 64 Di Majo, Il sovraindebitamento, in www.avvocato.it, 2. Prosegue l’a.: «i procedimenti di sovraindebitamento, con le numerose regole procedimentali ed autoritarie, non sembrano costituire una disciplina conveniente sia per i debitori, privi di adeguata organizzazione, sia per i creditori. A questi ultimi si fa infatti divieto, sino alla omologazione, di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali o azioni cautelari, come anche il divieto sull’acquisto dei diritti di prelazione sul patrimonio del debitore. Creditori con causa di prelazione che possono anche essere falcidiati nel loro credito, con la previsione di una moratoria per il pagamento fino ad un anno dalla omologazione del piano». Sembra più ottimista Stanghellini, Una rivoluzione per l’indebitamento dei privati, in http://www.lavoce.info/una-rivoluzione-per-lindebitamento-dei-privati, marzo 2013, p. 2, secondo il quale si tratta «di una disciplina che per il singolo debitore porta solo vantaggi, essendo la sua applicazione rimessa alla sua volontà. (…) Le procedure sono alquanto complesse e dense di tecnicismi, ma il disegno politico è chiaro: consentire a tutti (piccoli imprenditori, professionisti, consumatori), e non più solo alle imprese commerciali medio-grandi (alle quali continua ad applicarsi la legge fallimentare), una via d’uscita in caso di crisi».

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ma che si è già avuto modo di segnalare: l’organismo di composizione della crisi, vale a dire un soggetto pubblico che si aggiunge al giudice, complicando la burocratizzazione dell’iter procedurale che dovrebbe essere snello ed efficiente per i debitori “minori”. Se si voleva seguire la via francese, forse era miglior partito mettere la procedura sotto la tutela dell’autorità amministrativa (una volta chiaritine senza ambiguità i poteri) e sottrarla al giudice ovvero, mantenere il giudice con i poteri propri delle procedure concordatarie, ma fare a meno dell’organismo. Non pare quindi che le procedure di “accordo” e di “piano” si presentino con una prognosi di successo favorevole, anche se per ora non è possibile discutere di casi concreti. Infatti, a quanto consta, risulta disponibile una sola decisione con la quale però il Tribunale dichiara che la proposta non è accoglibile perché priva dei requisiti del regolare pagamento dei creditori estranei e delle adeguate garanzie di adempimento delle obbligazioni (necessarie per la insufficienza dei beni del debitore), nonché di una completa documentazione a corredo della domanda65. 7. La procedura di liquidazione del patrimonio del debitore costituisce un’altra importante novità recata dalla l. n. 221 del 2012 e si caratterizza per avere riguardo a tutto il patrimonio del debitore e non solo ad alcuni beni di esso facenti parte (come accade per la liquidazione prevista nell’accordo ex art. 7). Essa si articola in quattro fasi: la fase di apertura, quella destinata all’accertamento del passivo, quella di liquidazione dell’attivo e quella, peraltro non espressamente regolata, di riparto dell’attivo liquidato. A ciò può seguire il procedimento di esdebitazione di cui all’art. 14-terdecies. L’apertura della procedura può avvenire in due modi: il primo prevede la possibilità per il debitore di richiedere la liquidazione, in alternativa ad una delle procedure dianzi illustrate, in presenza di determinati presupposti; il secondo ricorre quando il debitore pone in essere comportamenti fraudolenti nei riguardi dei creditori durante la fase esecutiva dei due menzionati procedimenti. In quest’ultimo caso si realizza una liquidazione per conversione, in presenza delle ipotesi di cui all’art. 14-quater: «in questo caso, la liquidazione del patrimonio non si pone come soluzione alternativa a tali misure [l’accordo o il piano del consumatore], bensì in un rapporto di necessaria successione, nonché non

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Trib. Firenze, 27 agosto 2012, in Il fallimento, 2012, 1249.

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solo su domanda del debitore, ma anche dei creditori»66. Su istanza, quindi, il giudice emana il decreto di apertura della liquidazione, nel quale è contenuta la nomina del liquidatore, ove non sia già stato nominato ai sensi dell’art. 13, comma 1; tale può essere designato anche l’organismo di composizione della crisi (cfr. art. 15, comma 8). Spetta al liquidatore (art. 14-sexies) formare l’inventario dei beni da liquidare e avvertire i creditori delle possibilità che hanno; così avvertiti, i creditori possono avanzare con ricorso la domanda di partecipazione alla liquidazione (art. 14-septies); al medesimo liquidatore, esaminate le domande pervenute, spetta altresì la predisposizione di un progetto di stato passivo (art. 14-octies) da sottoporre agli interessati, che hanno quindici giorni per formulare eventuali osservazioni; entro trenta giorni dalla formazione dell’inventario, il liquidatore elabora un programma di liquidazione (art. 14-novies) che comunica al debitore e ai creditori e deposita in cancelleria; il medesimo liquidatore ha l’amministrazione dei beni che compongono il patrimonio in liquidazione e procede all’esecuzione del programma; il giudice, sentito il liquidatore, verifica la conformità degli atti al programma e autorizza lo svincolo delle somme risultato delle vendite; «accertata la completa esecuzione del programma di liquidazione e, comunque, non prima del decorrere del termine di quattro anni dal deposito della domanda, il giudice dispone, con decreto, la chiusura della procedura» (art. 14-novies, comma 5). Il liquidatore può esercitare ogni azione prevista dalla legge finalizzata a conseguire la disponibilità dei beni compresi nel patrimonio da liquidare (art. 14-decies). Ai sensi dell’art. 14-undecies, i beni sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di liquidazione costituiscono oggetto della stessa, dedotte le passività incontrate per l’acquisto e la conservazione dei beni medesimi. Il patrimonio di un soggetto è composto anche dei beni futuri (art. 2740 c.c.) e la limitazione temporale del quadriennio sembra rispettosa della esigenza di concentrazione dei tempi di procedura; per chi ritenesse il contrario (quattro anni non sarebbe un periodo breve per la chiusura di una procedura liquidativa di “piccoli” debitori), si è osservato che il rispetto del «principio di ragionevole durata della procedura deve essere comunque contemperato con le ragioni dei creditori da soddisfare che, all’evidenza, sono sensibili anche alla possibilità di

66 Donzelli, Il procedimento di liquidazione del patrimonio, la fase di apertura e la fase di accertamento del passivo, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 69.

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incremento dell’attivo di liquidazione mediante l’acquisizione di beni sopravvenuti nel patrimonio del sovraindebitato»67. Dalla pubblicazione del decreto di apertura della liquidazione vengono inibite ai creditori posteriori o anteriori procedure esecutive sui beni da liquidare, mentre i crediti sorti in occasione o in funzione della liquidazione sono soddisfatti a preferenza degli altri, con esclusione di quanto ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di pegno e ipoteca per la parte destinata ai creditori garantiti (art. 14-duodecies)68. La sintetica esposizione della procedura liquidativa è funzionale a rappresentare il presupposto necessario affinché il debitore assoggettato ad essa possa conseguire l’esdebitazione, situazione che prima dell’intervento normativo era limitata ai soggetti sottoposti alle procedure di cui alla legge fallimentare69. La funzione della ripetuta procedura consiste, come nel fallimento, nel consentire al debitore di liberarsi dai debiti concorsuali non integralmente soddisfatti nell’ambito dell’esecuzione del programma di liquidazione e l’impulso per conseguire questo effetto sta nello stesso debitore che, entro l’anno successivo alla chiusura della liquidazione, può formulare apposita istanza sulla quale il giudice, previo riscontro dei requisiti richiesti, provvede con decreto (art. 14-terdecies). Ciò vuol dire che l’esdebitazione non è un effetto automatico della richiamata procedura, nel senso che ricorrere ad essa non assicura al debitore di accedere al regime premiale in parola. L’art. 14-terdecies si può scomporre in due parti: la prima, formata dai commi

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Di Marzio, L’estensione e la tutela del patrimonio oggetto di liquidazione nella novella legislativa, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 81. 68 Sugli ultimi due articoli cfr. il contributo di Di Marzio, L’estensione, cit., p. 83-84. 69 Con qualche enfasi, così è stata accolta questa novità dai fautori del fresh start del debitore: «la recente introduzione della normativa c.c. “sulla esdebitazione delle famiglie” ha finalmente introdotto anche in Italia un utile strumento di affrancamento dai debiti. Fino ad oggi, infatti, per le famiglie, o per i singoli cittadini, aver contratto dei debiti comportava nei fatti una sorta di “apartheid” sociale poiché o si riusciva a “risollevarsi” (impresa a dir poco impossibile nei tempi di crisi profonda da cui siamo investiti da alcuni anni) o altrimenti ci si portava a vita il marchio di “debitore” senza poter ragionare in termini di futuro. La recente normativa sul sovraindebitamento consente invece alle famiglie in difficoltà di trovare accordi con i propri creditori, guidate dal Tribunale, e una volta pagati in percentuale i propri debiti, ritornare a vivere liberamente. Attribuisco pertanto a tale normativa un forte impatto sociale, ed una valida speranza per quei tanti, troppi, che nel tentativo di affrancarsi dai propri debiti hanno contratto successivi debiti in maniera esponenziale, cadendo anche nella trappola dell’usura»: Melpignano, Mariggiò, La composizione delle crisi da sovraindebitamento: la cosiddetta “esdebitazione”, in www.studiomelpignanio.it, 2.

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1-3, descrive gli aspetti sostanziali dell’istituto (presupposti di ammissione e di esclusione, casi di non operatività); la seconda (commi 4 e 5) riguarda temi strettamente processuali e afferma la natura non definitiva del provvedimento, essendo di esso possibile (a differenza di quel che accade nel fallimento) la revoca. Brevemente si ricorda che sono motivi di esclusione all’ammissione alla procedura: il ricorso al credito colposo e sproporzionato rispetto alle risorse patrimoniali del richiedente e una gestione delle risorse da cui traspaia la manifesta volontà di danneggiare i creditori concorsuali o di violarne la par condicio con il compimento di atti fraudolenti. Questi motivi di esclusione rispondono «ad una esigenza di responsabilizzazione del debitore che accede all’opzione liquidatoria, autonoma ed alternativa rispetto ai procedimenti di composizione della crisi caratterizzati dall’esercizio dell’autonomia negoziale»70. Quanto alla menzionata novità della revoca del provvedimento de quo, essa è sempre possibile, su istanza dei creditori, se risulta che: a) è stato concesso pur in presenza dell’ipotesi in cui il debitore abbia ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura; b) è stato dolosamente o con colpa grave aumentato o diminuito il passivo, ovvero sottratta o dissimulata una parte rilevante dell’attivo ovvero simulate attività inesistenti. L’obiettivo che vuol raggiungere la revocabilità è «di protezione del sistema normativo e delle relative finalità, nel bilanciamento della posizione del sovraindebitato e dei creditori, onde rimediare alla concessione di benefici immeritati»71. Anche in relazione alla configurazione dell’istituto in esame non sono mancate le perplessità, come scrive chi pensa che «si sia perduta – ancora una volta – una buona occasione per rendere più immediato ed effettivo il sollievo di chi è oberato dai debiti: a mio avviso, infatti, non sarebbe stato uno scandalo se lo si fosse liberato fin dal momento in cui ha messo lealmente a disposizione dei crediti tutti i propri beni, presenti e (in parte anche) futuri. Francamente non credo, tuttavia, che l’atteggiamento dilatorio, con il quale si procede, nel nostro ordinamento, alla concessione del beneficio, possa essere imputato al legislatore. È lo spirito dei tempi, forse non ancora maturi, ad imporre questa scelta»72.

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Sirna, L’esdebitazione, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 87. 71 Sirna, L’esdebitazione, cit., p. 88. 72 Terranova, Presentazione, cit., p. 8.

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8. Resta infine da affrontare l’analisi degli organismi di composizione della crisi, la cui disciplina è contenuta nel lungo art. 15 e “disseminata” qua e là in molti altri articoli, il cui disposto talora è già contenuto nel menzionato art. 15. Partendo da quest’ultimo, gli organismi in parola possono essere promossi da enti pubblici dotati di requisiti di indipendenza e professionalità e iscritti in un apposito registro tenuto dal Ministero della giustizia. L’iscrizione è automaticamente conseguita (cioè su semplice domanda) se a costituirli sono le camere di commercio, gli ordini professionali degli avvocati, dei commercialisti ed esperti contabili e dei notai. Un regolamento emanato dal Ministero di giustizia entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della novella73 stabilisce il contenuto dei predetti requisiti, le modalità di iscrizione e cancellazione nel registro, la determinazione dei compensi e dei rimborsi spese. Ciò detto, si passa alla individuazione dei poteri, che sono così denotati: a) assumere ogni iniziativa funzionale alla predisposizione del piano di ristrutturazione e all’esecuzione dello stesso (comma 5); b) verificare la veridicità dei dati contenuti nella proposta e nei documenti allegati, attesta la fattibilità del piano (comma 6); c) eseguire la pubblicità ed effettuare le comunicazioni disposte dal giudice nell’ambito dei procedimenti previsti (comma 7); d) quando il giudice lo dispone, svolgere le funzioni di liquidatore stabilite dalla procedura liquidativa e quelle di gestore per la liquidazione nell’ipotesi della procedura di accordo (comma 8). Talvolta replicando, talvolta assegnando nuovi compiti, la legge novellata prevede altresì che l’organismo: aiuta il debitore nella stesura dell’accordo (art. 7, comma 1); attesta che il valore attribuito nel piano al credito privilegiato, non pagato integralmente, non è inferiore a quello di mercato (art. 7, comma 1); aiuta il consumatore nella stesura del piano (art. 7, comma 1-bis); presenta il piano all’agente della riscossione e agli uffici fiscali (art. 9, comma 1); rilascia l’attestazione di fattibilità del piano depositata insieme alla proposta (art. 9, comma 2);

73 I 90 giorni sono scaduti a fine maggio 2012, ma ancora non è stato emanato il provvedimento previsto dalla legge-

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redige una relazione particolareggiata sulla proposta di piano del consumatore da depositarsi insieme al piano (art. 9, comma 3-bis); trascrive il decreto del giudice che avvia il procedimento presso gli uffici competenti (art. 10, comma 2, lett. b); raccoglie il consenso dei creditori alla proposta (art. 11, comma 1); trasmette ai creditori, in caso di raggiungimento dell’accordo, una relazione sui consensi espressi e, appunto, sul raggiungimento della percentuale di approvazione richiesta; trasmette al giudice la relazione, allegando le contestazioni eventualmente ricevute e un’attestazione definitiva sulla fattibilità del piano, ai fini dell’omologazione (art. 12, comma 1); per conto del giudice comunica ai creditori la proposta e il decreto che avvia il procedimento (art. 12-bis, comma 1); cura la trascrizione del decreto di omologazione quando il piano prevede la cessione o l’affidamento a terzi di beni immobili o mobili registrati (art. 12-bis, comma 3); propone al giudice la nomina di un liquidatore quando per la soddisfazione dei crediti sono utilizzati beni sottoposti a pignoramento o se è previsto nell’accordo o nel piano del consumatore (art. 13, comma 1); risolve le eventuali difficoltà insorte nell’esecuzione dell’accordo e vigila sull’esatto adempimento del medesimo (art. 13, comma 2); aiuta il debitore a modificare la proposta quando l’esecuzione dell’accordo o del piano divenga impossibile per ragioni a lui non imputabili (art. 13, comma 4-ter); redige una relazione particolareggiata da allegare alla domanda di liquidazione dei beni (art. 14-ter, comma 2); dà notizia all’agente della riscossione e agli uffici fiscali della relazione di cui al comma 2 (art. 14-ter, comma 4). Acquisito che l’attribuzione dei poteri all’organismo avviene in modo un po’ ripetitivo, non v’è dubbio che la loro natura sia assai diversificata: sembrano infatti emergere funzioni di aiuto del debitore, di certificazione di dati e scritture contabili, di ausiliare del giudice, di motore attivo per la conclusione delle procedure. È per questo che, se va condivisa la tesi per cui all’organismo spetta «un utile compito di facilitatore» dell’accordo74, non può negarsi che fra le funzioni assegnategli vi è un latente conflitto di interessi: si pensi all’organismo chiamato a coadiuvare un consumatore a redigere il piano e poi ad attestarlo. Pare quindi non esat-

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Pacchi, Il sovraindebitamento, cit., p. 717.


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tamente corrispondente a quel che può verosimilmente verificarsi nella prassi l’affermazione per cui gli organismi in esame «non potranno certo “prendere le parti” del debitore, piuttosto che dei creditori, utilizzando in tal senso le proprie competenze tecnico-professionali per fare in modo che l’accordo risulti più favorevole e conveniente, rispettivamente, per l’uno o per (alcuni de)gli altri. Al contrario, essi saranno tenuti ad operare mantenendo la giusta distanza da entrambe le parti della dialettica debitore-creditore, lavorando piuttosto in vista dell’obiettivo superiore di offrire un concreto ausilio teleologicamente preordinato al superamento delle situazioni di sobvraindebitamento»75. Ciò configurerebbe un preminente interesse pubblico negli organismi, «intrinsecamente connesso (tra l’altro) alla funzione di fidefacenza che detti soggetti sono chiamati a svolgere»76, e giustificherebbe la circostanza che gli stessi possono essere promossi solo da enti pubblici, in grado di garantirne una posizione di necessaria terzietà rispetto al debitore e ai creditori. Insomma, se ad essi è assegnata la funzione di assumere qualunque iniziativa funzionale alla predisposizione e all’esecuzione del piano, di risolvere ogni difficoltà si frapponga al buon funzionamento dell’accordo, di coadiuvare il giudice secondo una collaborazione stretta e attiva, è sostenibile che a detti organismi sia attribuito «un potere non esclusivamente di matrice privatistica ma, in ragione dell’autoritatività con cui può essere esercitato, per certi versi riconducibile alla sfera pubblicistica»77. Del resto, gli stessi aa. di cui si è qui riportato il pensiero, hanno fatto emergere il profilo conflittuale nelle funzioni assegnate all’organismo, sia pure in un contesto diverso ma, ad avviso di chi scrive, riconducibile a quello proprio degli organismi in esame. Ai sensi del comma 10 dell’art. 15, fino all’emanazione del decreto attuativo del Ministero della giustizia, le funzioni dell’organismo possono essere svolte anche da un professionista o da una società di professionisti dotati dei requisiti propri del curatore (cfr. art. 28 l. fall.) ovvero da un notaio, nominati dal presidente del tribunale o dal giudice da lui delegato78. Una simile eventualità non sarebbe priva

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D’Aquino di Caramanico, Parini, Gli Organismi di composizione della crisi, in La “nuova” composizione della crisi di sovraindebitamento, cit., p. 89. 76 D’Aquino di Caramanico, Parini, Gli Organismi, cit., ibidem. 77 D’Aquino di Caramanico, Parini, Gli Organismi, cit., p. 95. 78 I compensi, fino all’entrata in vigore del decreto ministeriale, sono determinati secondo i parametri previsti per i commissari giudiziali nelle procedure di concordato preventivo, quanto alle prime due procedure, e per i curatori fallimentari, quanto alle attività della procedura liquidativa. I predetti compensi sono ridotti del quaranta per

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di rischi: «ed invero, il notaio o il professionista sono chiamati a “verificare la veridicità dei dati” contenuti, a ben vedere, in atti che loro stessi predispongono autonomamente. Sono chiamati, cioè, a fornire una valutazione imparziale della fattibilità di un accordo che loro stessi hanno attivamente contribuito a predisporre, a modificare ed a concludere»79. L’osservazione è condivisibile, ma non si vede perché non possa essere riproposta negli stessi termini a proposito degli organismi di vigilanza, che si troverebbero a svolgere (come il professionista “sostituto”) le medesime funzioni fra loro contraddittorie e segnaletiche di un ineliminabile e significativo conflitto di interessi. Lucidamente consapevole di quanto qui osservato appare chi scrive che il legislatore, negli organismi in parola, ha «mescolato compiti di supporto al debitore, compiti di fidefacente verso i creditori, compiti di ausilio del giudice e di controllore nell’interesse dei creditori. È evidente che in tal modo si apre la strada al conflitto d’interessi. (…) Il conflitto d’interessi può trovare soluzione se le varie funzioni non sono svolte dai medesimi soggetti, anche se nell’ambito dello stesso organismo di composizione della crisi. Ha quindi senso suggerire che l’Organismo adotti un regolamento nel quale i diversi compiti vengano attribuiti a differenti professionisti, con una vera e propria delega di funzioni»80. Si è d’accordo sul suggerimento, ma non si può non ricordare lo scarso successo arriso a soluzioni del genere adottate per superare conflitti di interessi nell’ambito dello stesso intermediario che svolge servizi di investimento. Quanto alle sanzioni, mette conto per completezza ricordare che il componente dell’organismo, ovvero il professionista, che rende false attestazioni in ordine alla veridicità dei dati contenuti nella proposta o nei documenti a essa allegati, alla fattibilità del piano ex art. 9, comma 2, ovvero nella relazione di cui agli artt. 9, comma 3-bis, 12, comma 1 e 14-ter, comma 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni e con la multa da 1.000 a 50.000 euro. Alla stessa pena soggiace il componente dell’organismo, ovvero il professionista, che cagiona danno ai creditori omettendo o rifiutando senza giustificato motivo un atto del suo ufficio. Anche su questa figura occorre azzardare una pur sommaria valutazione; della complessità delle molte attribuzioni assegnate al medesi-

cento. Questa opportuna novella ha fatto sì che sia operativa la possibilità di sostituire gli organismi con dei professionisti. 79 d’Aquino di Caramanico, A. Parini, Gli Organismi, cit., p. 97. 80 Panzani, La composizione della crisi da sovraindebitamento, in www.treccani.it, 6.

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mo organismo si è già detto, sicché la sua azione è complessa, «senza che tuttavia in questo rincorrersi, di relazioni e attestazioni, possa essere assicurata un’attività imparziale dell’Organismo e un’efficienza della soluzione»81. Difficile non condividere questa osservazione. 9. Il giudizio, almeno provvisorio, attesa l’assenza di elaborazioni dottrinarie definitive e di prassi applicative, sulla l. n. 3 del 2012 come risulta dalla recente novella non è particolarmente positivo per nessuna delle varie parti che la compongono: le due procedure di risanamento, la procedura di liquidazione, l’esdebitazione, l’organismo di composizione delle crisi (confuso collaboratore del giudice). Il tutto probabilmente deriva da una sorta di “peccato originale” acutamente colto: «l’incerta collocazione del procedimento introdotto dalla l. 3/2012 che appare a metà strada tra un accordo di ristrutturazione e un concordato preventivo non ha giovato al percorso seguito dal legislatore nel disegnare la struttura, mostrando di essere legato a modelli conosciuti dai quali ha pizzicato in qua e in là, riprendendo vocaboli (accordo di ristrutturazione, creditori estranei, risoluzione, annullamento, ecc.), rievocando scenari ma poi allontanandosene senza una meta»82. Fabrizio Maimeri

81 82

Pacchi, Il sovraindebitamento, cit., p. 718. Pacchi, Il sovraindebitamento, cit., p. 717.

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Accordi di risanamento: i soggetti coinvolti, il ruolo delle banche e le responsabilità* Sommario: 1. Le operazioni di corporate restructuring. – 2. Gli accordi di turnaround in Italia. – 3. Gli accordi di risanamento di questo studio. – 4. Accordi e non piani di risanamento. – 5. I soggetti coinvolti: l’impresa in crisi. – 6. I soci cedenti, i soci rimanenti e i soci nuovi. – 7. Le banche creditrici. – 8. I creditori minori e altri soggetti. – 9. Gli advisor. – 10. L’esperto. – 11. Le tappe di un’operazione di corporate restructuring e i soggetti che le percorrono. – 12. L’operazione di risanamento e il suo carattere di procedimento privato. – 13. Le banche e i diversi comportamenti abusivi che ne generano le responsabilità. – 14. L’abuso delle banche nella negoziazione. – 15. La concessione abusiva del credito nei risanamenti. – 16. L’interruzione brutale del credito nei risanamenti.

1. Le operazioni di corporate restructuring. Ogni impresa ha come vocazione naturale quella di far crescere il proprio core business sino alle dimensioni che essa ritenga ottimali, di puntare in un mercato globalizzato ad una efficienza competitiva e di

* Questo scritto continua una linea di studi che mi ha già condotto a pubblicare il libro T.M. Ubertazzi, Il procedimento di acquisizione di imprese, Cedam, Padova, 2008, passim, la applica ad una fattispecie diversa da quella delle acquisizioni di imprese, ed anticipa la delimitazione di un lavoro monografico in corso di elaborazione. Depurato dalle parole di cortesia questo lavoro riprende alcuni elementi di tre diverse relazioni tenute rispettivamente all’Università di Foggia nell’occasione dell’incontro organizzato dalla “Summer school” sulle “Operazioni transazionali di ristrutturazioni dei debiti”; all’Università di Roma Tre nell’occasione dell’iniziativa “Working Papers a Roma Tre. Nuove idee a confronto”; a Lanciano al convegno di studi sulle “Le procedure di composizione negoziale delle crisi e del sovraindebitamento”. Un ringraziamento particolare è rivolto agli organizzatori di questi eventi e ai professori Bonfatti, Costantino, Capobianco, Gabrielli, Guaccero, Motti e Pardolesi per i preziosi suggerimenti avuti durante e dopo le relazioni.

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creare dunque in questo modo valore1. Queste aspirazioni dell’impresa molte volte sono raggiungibili. Altre volte si possono scontrare con fattori interni o esterni all’impresa che ne compromettono in diversa maniera la crescita sino al punto di azzerare ogni creazione di valore o nei casi più gravi distruggere quello preesistente. In questi ultimi casi l’impresa che aspira a non cessare la sua attività e a rimanere sul mercato deve necessariamente adottare per la sua stessa sopravvivenza ‘percorsi’ di ristrutturazione o altrimenti detti di turnaround2. E la gran parte dei turnaround di un’impresa vengono attuati in situazioni di declino o crisi finanziaria. Ora queste situazioni sono tra loro diverse perché come osserva la dottrina aziendalistica: il declino si verificherebbe quando un’impresa non produce più valore e principalmente perde la sua capacità reddituale; mentre la crisi consisterebbe in una manifestazione ulteriore della performance negativa dell’impresa con effetti anche esterni come la perdita di fiducia e credito della comunità finanziaria3. Questa diversità si riflette anche sui procedimenti di turnaround adottati: perché nei casi di declino per il rilancio dell’impresa si possono anche non richiedere “sacrifici agli stakeholder” come la semplice definizione di nuovi orientamenti di gestione, il controllo e miglioramento dei servizi prodotti, l’ammodernamento degli impianti etc.; mentre nelle ipotesi di crisi il sacrificio degli “stakeholder” è inevitabile e può comportare via via la necessità di una ricapitalizzazione della società, la cessione di società controllate o di partecipazioni societarie, la variazione della compagine

1. Faccincani, Banche, imprese in crisi e accordi stragiudiziali. Le novità introdotte dalla riforma del diritto fallimentare, Milano, 2007, p. 39 secondo cui “nell’ambito della dottrina economico aziendale è ampiamente condiviso il concetto che ogni impresa abbia come obiettivo principale la creazione e massimizzazione del valore”. 2. Sul punto v. Guatri, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al valore, Egea, Milano, 1995, p. 4 ss. secondo cui “l’espressione turnaround, termine anglo-sassone letteralmente non traducibile, è stata dopo qualche esitazione, assunta per rappresentare tutti i processi sistematici di risanamento e di rilancio delle imprese”. 3. Sul punto v. Guatri, Turnaround. Declino, crisi e ritorno al valore, Milano, 1995, p. 4 ss. In particolare Guatri evidenzia come “il «declino» può essere, così, collegato ad una performance negativa in termini di Δ W, cioè alla «distruzione» di valore: e misurato sulla sua intensità dalla entità di tale distruzione in un definito arco temporale (annuale, ma anche pluriennale)” sì che in questo modo “un’impresa è in declino quando perde valore nel tempo” (così a p. 107). La crisi invece “è uno sviluppo ulteriore del declino” e “si concreta di solito, a seguito delle perdite economiche (di redditività e di valore), in ripercussioni gravi e crescenti sul piano dei flussi finanziari” quali “la carenza di cassa, perdita di credito e di fiducia” (così a p. 108).

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societaria, il cambiamento dei manager etc.. E la distinzione ora detta assume un rilievo fondamentale a livello giuridico perché sin da subito suggerisce che il turnaround di un’impresa in declino richiede principalmente scelte interne; mentre quello di un’impresa in crisi richiede la negoziazione, conclusione ed esecuzione di accordi complessi con numerosi soggetti esterni alla vita dell’impresa ed in primis con i propri creditori.

2. Gli accordi di turnaround in Italia. Questo studio è rivolto principalmente all’analisi di turnaround di imprese in crisi. Questo studio lo farà qui sinteticamente; sulla base degli studi degli aziendalisti, delle analisi dei giuristi e delle indicazioni che derivano da un certo numero di contratti che mi sono stati messi cortesemente a disposizione da alcuni studi professionali italiani e stranieri; ed esclusivamente per ricordare gli aspetti delle operazioni di turnaround che rilevano ai fini di un’analisi civilistica di questo settore del diritto. A questo proposito si può osservare che le operazioni di risanamento richiedono negoziazioni privatistiche complesse che nell’ambiente dei giuristi vengono normalmente qualificate come ‘corporate workouts’. E queste soluzioni privatistiche cominciano ad essere riconosciute, regolamentate e protette in gran parte degli Stati con economia capitalizzate. In Italia la diffusione degli accordi stragiudiziali moderni di risanamento delle imprese si è avuta a partire dagli anni novanta a seguito della crisi valutaria del 1992 che ha prodotto l’entrata in crisi di imprese medio grandi4. Oggigiorno gli accordi di risanamento sono sempre più utilizzati per il rilancio delle imprese diventando una realtà costante. E tutto ciò come noto è maturato a seguito tra l’altro della presa d’atto che (i) le soluzioni privatistiche volte alla soluzione della crisi dell’impresa rispetto a quelle pubblicistiche consentono un “risparmio netto dei costi derivanti dall’insolvenza”5; (ii) gli accordi stragiudiziali sono maggiormente flessibili e rapidi rispetto alle procedure di insolvenza e permettono tra l’altro alle parti di ricorrere a operazioni di finanza

4

Sul punto v. Faccincani, Banche, cit., p. 82. Così Stanghellini, La crisi di impresa fra diritto ed economia. Le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, p. 303. 5.

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straordinaria difficilmente praticabili con le procedure concorsuali6; (iii) il turnaround stragiudiziale di un’impresa consente (a differenza delle procedure d’insolvenza) di “salvare i beni immateriali di un’impresa” ancora produttivi di valore come marchi, brevetti, etc.7; (iv) l’efficienza del mercato richiede sempre più l’utilizzo di strumenti (non successivi al verificarsi del danno, ma) preventivi “ed ispirati dalla necessità che il rischio sia piuttosto anticipato”8; (v) i migliori soggetti deputati ad escogitare soluzioni idonee ad uscire da una situazione di crisi finanziaria di un’impresa sono proprio quelli direttamente interessati e non soggetti terzi9; e (vi) la formazione negli Stati moderni di una nuova ideologia volta a (non più sanzionare il debitore per il solo fatto di essere insolvente, ma) consentirgli l’utilizzo di strumenti idonei a evitare una liquidazione dell’impresa10.

3. Gli accordi di risanamento di questo studio. Gli accordi privatistici e stragiudiziali possono essere raggruppati in tre diverse tipologie. (i) Alcuni contratti denominati accordi di ristruttu-

6

Così Stanghellini, La crisi, cit., p. 306. Così Guatri, Turnaround, cit., p. 4, secondo cui “le normali procedure giudiziarie (ed in taluni Paesi tutte le procedure pubbliche) […] in ben pochi casi riescono nell’intento di salvaguardare i valori dell’impresa ed in particolare quelli immateriali: anzi sono spesso la premessa alla loro parziale o totale distruzione”. 8 Così Galletti, La ripartizione del rischio di insolvenza. Il diritto fallimentare tra diritto ed economia, Bologna, 2006, p. 9. 9 Sul punto v. Guatri, Turnaround, cit., p. 206. 10 Le recenti riforme in materia concorsuale hanno dimostrato che il legislatore italiano è d’altro canto incline a prediligere oggigiorno soluzioni di continuità di impresa rispetto a quelle liquidatorie: sul punto v. Bonelli, Le insolvenze dei grandi gruppi: i casi Alitalia, Chrysler, Socotherm, Viaggi del ventaglio, Gabetti, Risanamento e Tassara, in Crisi di imprese. Casi e Materiali, Milano, 2011, p. 4. Per questi motivi Libertini, Accordi di risanamento e ristrutturazione dei debiti e revocatoria, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, a cura di Di Marzio, Macario, Milano, 2010, p. 362 ha osservato che si è “passati dall’idea che poneva una sequenza diretta tra i) insolvenza; ii) interesse collettivo della massa creditoria; iii) par condicio creditorum; iv) avocazione da parte dello stato, attraverso il potere giuridico di curare quell’interesse collettivo, mediante la liquidazione dell’impresa fallita […] all’idea che pone una diversa sequenza tra i) crisi d’impresa […]; ii) ricerca di una soluzione privatistica, mediante impegno diretto dei creditori; iii) interesse pubblico alla conservazione di un valore produttivo, attraverso il salvataggio dell’impresa, senza alterazione dei meccanismi concorrenziali; iv) fallimento […] come soluzione finale”. 7

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razione sono regolati incisivamente dal legislatore in ordine al loro procedimento e contenuto: è questo il caso degli accordi di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.fall in cui si richiede ai fini della loro conclusione l’adesione di “creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti”; “una relazione redatta da un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d)” l. fall. attestante “la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilita’ dell’accordo” di ristrutturazione; e l’“omologazione” del tribunale e la pubblicazione dell’accordo di ristrutturazione nel registro delle imprese11. (ii) Altri contratti denominati accordi c.d. di risanamento delle imprese sono sostanzialmente rimessi all’autonomia privata e regolati dal legislatore esclusivamente in ordine (non al contenuto, ma) agli effetti dall’art. 67 co. 3 lett. d) l. fall secondo cui non sono soggetti ad azione revocatoria “gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria” e la cui “fattibilità del piano” sia attestata da “un professionista designato da un debitore iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall’art. 28, lettere a) e b) […]” l.f. “e 2399” c.c.”. (iii) Altri accordi non sono infine regolati dalla legge fallimentare, sono stati via via negli anni praticati nelle operazioni di risanamento anche prima delle riforme del 2005-2007 e rientrano dunque nella lex mercatoria12. Questo studio non può e non vuole inventariare tutti gli accordi ora detti e gli innumerevoli problemi di diritto che essi pongono. Deve necessariamente circoscrivere il proprio oggetto. A questo fine si limiterà ad analizzare principalmente gli accordi stragiudiziali puri e dunque quelli che non necessitano del vaglio o intervento dell’autorità giudiziaria. E gli accordi ora detti sono sostanzialmente quelli (ii) e (iii). A seguito della riforma del 2005-2007 la regolazione degli accordi (ii) e la

11 Su questi accordi v. recentemente Valensise, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare, Torino, 2012, passim. 12 Sul punto v. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, 2008, XI, p. 159; e recentemente Munari, Crisi di impresa e autonomia contrattuale nei piani attestati e negli accordi di ristrutturazione, Milano, 2012, p. 127 ss. secondo cui la prassi negli “ultimi decenni […] ha creato diverse tipologie di accordi stragiudiziali cc.dd. “privati” o “amichevoli” per la ristrutturazione dell’impresa in crisi (denominati spesso genericamente con il termine di “piani di ristrutturazione”)”.

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loro esenzione alla revocatoria ha tuttavia portato gli operatori (ed in primis le banche) progressivamente ad abbandonare l’adozione degli accordi (iii) ed a richiedere (ed in alcuni casi imporre) alle imprese l’adozione di accordi di risanamento (ii). In questo quadro gli accordi (ii) presentano dunque maggior interesse rispetto a quelli (iii). Ed in questo studio analizzerò pertanto principalmente solo gli accordi (ii) anche se le osservazioni che verranno proposte potranno mutatis mutandis essere anche in parte applicate agli accordi (iii).

4. Accordi e non piani di risanamento. Gli accordi di risanamento sono regolati dall’art. 67 co. 3, lett. d) l. fall. A ben vedere questo articolo nell’escludere la revocatoria dagli “atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore” non utilizza tuttavia il termine accordo ma quello “di piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria”. E tanto potrebbe ed ha portato taluno a rinvenire esclusivamente non un contratto di risanamento ma un piano unilaterale dell’impresa in crisi13 o comunque e in ogni caso a ritenere che il piano sia il principale atto di un’operazione di risanamento14.

13. Così v. recentemente Munari, Crisi di impresa, cit., 143 secondo cui “la natura giuridica del piano è quella di un atto unilaterale dell’imprenditore con valenza meramente organizzativa all’interno della struttura dell’impresa o di un atto unilaterale che preclude al compimento di atti coinvolgenti terzi”. In dottrina v. inoltre Capobianco, Gli accordi stragiudiziali per la crisi d’impresa. Profili funzionali e strutturali e conseguenze dell’inadempimento del debitore, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, p. 299, secondo cui il piano potrebbe avere una struttura contrattuale o diversamente essere anche “una mera manifestazione d’intenti riconducibile neppure al paradigma negoziale foss’anche unilaterale”; e Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese, Bologna, 2009, p. 388, secondo cui “il piano di risanamento può anche, in punto di fatto, essere il risultato o il presupposto di intese fra il debitore ed i suoi creditori: esso però viene preso in considerazione e disciplinato dalla legge in sé e per sé, in quanto espressione dell’iniziativa individuale del debitore”. 14. Più sfumata la posizione di Pajardi - Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, pp. 940-941, secondo cui il piano di risanamento di un’impresa in crisi “può non avere come base un accordo contrattuale, ma consistere anche solo in una iniziativa libera (una proposta) dell’imprenditore rivolta ai creditori, cui gli stessi, al limite, potrebbero solo prestare acquiescenza, limitandosi a non promuovere azioni esecutive e cautelari”.

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Ora questa tesi non può essere condivisa in questo studio per diverse ragioni. Anzitutto perché l’art. 67 co. 3 lett. d) l. fall esclude la revocatoria per “gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse sui beni del debitore” e questi ultimi sono compiuti chiaramente sulla base di accordi tra l’impresa in crisi e terzi15. Inoltre perché la funzione dell’art. 67 co. 3, lett. d) l. fall è quella di dare stabilità (escludendo la revocatoria) a tutti gli accordi necessari per un turnaround e dunque non ad un mero piano interno dell’impresa. Ancora perché si è visto al paragrafo 2 di questo studio come si analizzeranno turnaround di imprese (non in declino, ma) in crisi che come visto richiedono (non solo scelte interne, ma) la stipulazione di numerosi contratti con soggetti esterni all’impresa. Infine perché come vedremo al paragrafo 11 la pratica degli affari dimostra che un’operazione di turnaround ex art. 67 co. 3, lett. d) l. fall è portata in conclusione solo a seguito di numerosi accordi. Tra questi accordi si contano almeno quelli tra le banche e impresa in crisi che comprendono quantomeno un primo accordo iniziale di moratoria e uno finale di convenzione bancaria. Vi è poi l’accordo tra i diversi soci rimanenti, cedenti e nuovi con l’impresa in crisi: perché come vedremo un’operazione di turnaround richiede tipicamente un aumento di capitale reale; questo aumento può essere sostenuto solitamente solo da nuovi soci finanziatori disposti a comprare le partecipazioni di soci cedenti; e l’aumento ora detto viene chiaramente contrattualizzato anche con l’impresa in crisi al fine tra l’altro di determinare la futura governance di quest’ultima. Vi è poi l’accordo con l’esperto per la predisposizione di un piano di risanamento. E gli accordi ora detti dimostrano che un’operazione ex 67 co. 3, lett. d) l. fall consiste in un numero non piccolo di accordi e non può essere limitata ad un mero piano unilaterale interno dell’impresa in crisi16.

15.

Sul punto v. Libertini, Accordi di risanamento e ristrutturazione dei debiti e revocatoria, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, cit., p. 374, secondo cui un piano di risanamento privo di adesioni dei creditori è un’ipotesi remota perché “è difficile ipotizzare un piano che non comporti dilazioni, rimodulazioni o riduzione di debiti esistenti”. In posizione intermedia v. Vettori, Il contratto sulla crisi di impresa, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, cit., p. 235 secondo cui “il piano ha natura unilaterale pur essendo composto di vari atti (manifestazione di scienza e di giudizio) e negozi (rinunzie, impegni de non petendo, concessioni) strumentali”. 16. Recentemente Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi di impresa, Milano, 2011, p. 123 secondo cui “il piano costituisce il programma di ‘ristrutturazione’ a cui concorrono – realizzandolo – i contratti necessari allo scopo”.

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5. I soggetti coinvolti: l’impresa in crisi. Questo studio ha ad oggetto i contratti per il risanamento delle imprese in crisi ex art. 67 co. 3 lett. d) l. fall. Per analizzare questo argomento è necessario tuttavia ricordare preliminarmente per grandi linee alcune delle caratteristiche del mondo variegatissimo delle operazioni di turnaround. E questa ricostruzione preliminare comincia con i soggetti che intervengono a vario titolo in queste operazioni. Qui tra i diversi soggetti che intervengono in un’operazione di turnaround un ruolo principale viene svolto dall’impresa che versa in una situazione in crisi. Ora le ragioni che possono portare un’impresa ad una situazione di crisi e rendere così necessario un turnaorund sono numerosissime. Anzitutto vi sono cause interne, imputabili all’incapacità manageriali di programmare e gestire le risorse aziendali: che possono ad esempio consistere nell’aver commesso errori di marketing; intrapreso attività lontane dal core business dell’impresa per le quali quest’ultima non possedeva le sufficienti competenze; avviato fasi di sviluppo eccessivamente veloci senza disporre delle risorse finanziarie adeguate; acquisito il controllo di imprese in difficoltà finanziarie la cui situazione patrimoniale si sia ripercossa sull’acquirente17. Inoltre un ruolo non piccolo rivestono sempre più spesso nelle crisi di impresa cause esterne “che sfuggono al dominio degli uomini dell’impresa”18: quali ad esempio le crisi settoriali che rivestono interi comparti dell’economia e dunque tutte le imprese in essi operanti; le diverse dinamiche concorrenziali note agli studiosi del diritto antitrust che portano ad affermare in un mercato l’imprenditore forte e ad escludere quello debole; l’andamento sfavorevole dei prezzi di beni e servizi prodotti dall’impresa per riduzione della domanda19. E proprio queste cause esterne dimostrano come il più delle volte l’impresa versa

17. Queste sono solo alcune delle possibili cause interne. La dottrina economica ne ha via via individuate altre. Sul punto v. Faccincani, Banche, cit., p. 54 che riconduce nelle possibili cause di crisi interne anche la carenza di innovazione e dunque all’incapacità di sviluppare “nuove idee che permettano all’azienda di essere continuamente profittevole, e come conseguenza diretta, di porre le basi per la sopravvivenza e lo sviluppo nel lungo periodo”. V. inoltre per ulteriori cause interne quali la perdita di redditività, la negatività dei flussi di cassa, la perdita di manager importanti Guatri, Turnaround, cit., p. 60 ss. 18 Così Guatri, Turnaround, cit., pp. 117. 19 Sul punto v. Faccincani, Banche, cit., pp. 54-55.

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in una situazione di crisi per cause imputabili non a quest’ultima ma in generale al mercato. L’impresa in crisi può essere costituita secondo uno dei possibili moduli organizzativi dell’impresa. L’impresa in crisi può inoltre svolgere una delle infinite attività economiche. L’impresa in crisi può essere infine di piccola, media o grande dimensione. La dimensione dell’impresa in crisi è in grado sin da subito di evidenziare le capacità di successo di un workout agreement, perché normalmente “le banche si adoperano per contribuire a evitare la dissoluzione di grandi apparati aziendali tramite un atteggiamento di collaborazione e funzionale a un risanamento aziendale anche quando la liquidazione, sotto un profilo strettamente economico, risulterebbe la scelta ottimale”20. E questo studio intende analizzare un’operazione che vede in campo un’impresa in crisi di media complessità e che pertanto richiede come vedremo per il turnaround l’intervento di numerosi soggetti: anche se le considerazioni che verranno espresse in questa relazione potranno essere rivolte mutatis mutandis anche verso imprese piccole o grandi in crisi.

6. I soci cedenti, i soci rimanenti e i soci nuovi. Un’operazione di turnaround da crisi può richiedere sacrifici agli stakeholders. Generalmente questi sacrifici vengono richiesti anche dal ceto bancario come condicio sine qua non per l’erogazione di nuova finanza. E una tipica forma di sacrificio che le banche sono solite richiedere consiste nel “costringere” l’impresa in crisi a deliberare e sottoscrivere un aumento di capitale (non mediante conversione finanziamenti, ma) ‘reale’ che patrimonializzi la società e ad un tempo responsabilizzi i soci e li fidelizzi ulteriormente all’impresa21.

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Faccincani, Banche, cit., p. 72. Sul punto v. Guatri, Turnaround, cit., p. 180. Sulla possibilità che in turnaround di impresa venga richiesto un aumento di capitale (non reale, ma) mediante compensazione e dunque conversione dei crediti/finanziamenti esistenti: v. Stanghellini, La crisi, cit., pp. 317-318. L’ipotesi tuttavia della conversione dei finanziamenti in capitale mi sembra essere richiesta con frequenza minore nella prassi rispetto agli aumenti di capitale reale e questo principalmente per la natura dei finanziamenti soci che come tali sono postergati ex art. 2467 c.c. rispetto agli altri crediti come ad esempio quelli bancari. Ciò che non comporta dunque per le banche un reale pericolo preferenziale da parte dei soci rispetto alle loro ragioni creditizie. 21

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In questi casi tuttavia soltanto alcuni soci dell’impresa in crisi possono essere disposti ed avere i mezzi per partecipare ad una ricapitalizzazione reale della società. Altri soci possono tuttavia trovarsi in una situazione di difficoltà economica o semplicemente non volere partecipare ad un aumento di capitale di un’impresa. Questi ultimi soggetti di fronte allo “spettro del fallimento” sono normalmente disposti a cedere le loro partecipazioni o azioni ad un prezzo simbolico a terzi interessati ad una loro partecipazione nell’impresa. Ed in simili casi l’operazione di turnaround tipicamente comporta la vendita delle partecipazioni o azioni a nuovi partner interessati. I nuovi partner sono naturalmente intenzionati a definire i rapporti di vendita con i soci cedenti. Essi sono tuttavia altrettanto interessati a definire i rapporti di governance futura dell’impresa in crisi con i soci rimanenti. E alcune operazioni di turnaround possono compiersi solo a seguito della stipulazione di accordi tra soci cedenti, rimanenti e nuovi che richiedono trattative con più di due contraenti e così facendo arricchiscono il modello di negoziazione lineare di un semplice contratto.

7. Le banche creditrici. Il turnaround di un’impresa in crisi può richiedere per la sua realizzazione l’erogazione di nuovi crediti all’impresa (la c.d. messa a disposizione di nuova finanza) ad opera di soggetti diversi dai soci (e sotto forma di capitale di credito e non di rischio come tipicamente avviene negli aumenti di capitale)22. Altre volte è necessario che i creditori esistenti si astengano inoltre per un determinato periodo dal richiedere il rientro dell’esposizione debitoria dell’impresa in crisi e dunque concedano quella che gli operatori normalmente denominano come una moratoria o standstill. Altre volte ancora il turnaround di un’impresa richiede che i creditori rinuncino a parte dei loro crediti nei confronti dell’impresa in crisi e dunque compiano quello che viene normalmente

22. Sul punto v. Stanghellini, La crisi, cit., p. 321 secondo cui “l’ulteriore prestito è, in sostanza, del tutto razionale quando il rischio e il costo di fornire (perdendola) siano inferiori al beneficio costituito dall’accresciuta probabilità di recuperare anche la vecchia”. V. inoltre Galletti, La ripartizione, cit., 346-347 secondo cui “le scienze aziendalistiche insegnano che è difficile che una ristrutturazione riesca se i creditori non erogano «nuova finanza»”.

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denominato lo stralcio di parte della vecchia finanza. In tutti questi casi devono allora intervenire le banche. Esse sono portatrici normalmente della maggioranza del credito di cui l’impresa in crisi è debitrice. E senza il loro intervento nessuna delle operazioni ora dette sarebbe possibile, non si riuscirebbero a trovare nuovi partner disposti ad entrare nella compagine sociale, e si aprirebbe pertanto la via del fallimento. Il ruolo delle banche nei turnaround può essere d’altro canto rilevante anche sotto un altro profilo. Gli aziendalisti hanno infatti da tempo osservato che tutte le volte in cui l’impresa versa in una situazione di crisi dovuta a fattori interni il management è solitamente restio a dichiarare lo stato di performance negativo.23 La mancata e tempestiva dichiarazione della crisi può rendere tuttavia quest’ultima irreversibile. Le banche sono soggetti normalmente in grado di monitorare l’andamento delle imprese a cui hanno fatto credito; di verificare quando esse versino in situazioni di crisi; e di richiedere e ottenere l’adozione di piani di risanamento24. D’altro canto le banche svolgono anche un monitoring dell’impresa in crisi successivo all’adozione degli accordi di risanamento e che si concretizza nella verifica del rispetto del programma di risanamento dell’impresa e ad un tempo nel rilascio delle diverse autorizzazioni che la convenzione bancaria di volta in volta richiede all’impresa in crisi per il compimento di operazioni che superino una soglia determinata. E le banche sono allora protagoniste nella negoziazione dei diversi contratti necessari per un turnaround e ad un tempo svolgono un compito di controllo in tutta la fase di esecuzione dei contratti. Anche se come vedremo alcune volte le banche possono assumere dei comportamenti non corretti e dare luogo a loro responsabilità.

8. I creditori minori e altri soggetti. Ogni impresa in crisi ha normalmente crediti nei confronti (non solo delle banche, ma anche) di creditori minori. Tra i creditori minori che potrebbero entrare in un turnaround vi sono i fornitori dell’impresa.

23. Sulla difficoltà anche per lo stesso azionista della società in alcuni casi di palesare la situazione di crisi v. Pajardi, La ristrutturazione del debito, in Gestione della crisi aziendale dei processi di risanamento. Prevenzione e diagnosi, terapie, casi aziendali, a cura di Danovi, Quagli, Milano, 2008, p. 252; Zanotti, Le banche e le ristrutturazioni delle imprese in crisi, in Corporate e investment banking, a cura di Forestieri, Milano, 2005, p. 420. 24 V. sul punto Zanotti, Le banche, cit., p. 420.

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I creditori minori sono meno incentivati a partecipare ad un turnaround e ad un tempo se numerosi rendono di fatto impossibile l’operazione. Anzitutto i fornitori non possiedono a differenza delle banche gli strumenti per la copertura del rischio e dunque sono disincentivati a partecipare agli accordi di risanamento25. Inoltre le negoziazioni per un’operazione di turnaround sono molto complesse, richiedono l’intervento quantomeno di numerosi legal advisor, e comportano così costi non piccoli a volte maggiori rispetto al credito vantato. Infine il negoziato per un’operazione di turnaround richiede solitamente per il suo successo una capacità di coordinamento dei creditori non solo con l’impresa in crisi ma anche al loro interno: e questo coordinamento è possibile quando i maggiori creditori di un’impresa sono le banche vista la loro centenaria tradizione di collegamento e di reciproco coordinamento; ma risulta arduo se non impraticabile con i fornitori vista la loro non organizzazione al coordinamento e i loro diversi interessi particolari non necessariamente convergenti tra loro26. Esistono poi altri soggetti ‘terzi’ che possono intervenire a diverso titolo nella negoziazione dell’accordo di risanamento. Tra questi un ruolo non piccolo assumono specie nelle imprese in crisi di medio grandi dimensioni i lavoratori e le organizzazioni sindacali. I piani di risanamento possono infatti prevedere come primo rimedio una riduzione del personale; una cessione a terzi di rami d’azienda e dei dipendenti di questa; etc.. Qui chiaramente la negoziazione con questi soggetti può risultare cruciale per un turnaround di impresa. E da tempo gli aziendalisti hanno d’altro canto più volte rilevato come non siano stati “pochi, nella storia

25.

Sul punto v. Stanghellini, La crisi, cit., p. 303. Sul ruolo che i fornitori possono avere nei risanamenti di impresa v. Pajardi, La ristrutturazione del debito, in Gestione della crisi aziendale dei processi di risanamento. Prevenzione e diagnosi, terapie, casi aziendali, cit., p. 252 ove si osserva che i fornitori possono entrare in operazioni di risanamento solo nell’ipotesi in cui la loro aspettativa non sia limitata al mero recupero del credito ma anche a proseguire un rapporto di fornitura con l’impresa in crisi”. 26. Guatri, Turnaround, cit., p. 208 secondo cui l’esperienza americana da tempo dedita ai workout agreement ha dimostrato che i creditori bancari “sono i meglio disposti a riconoscere i vantaggi potenziali delle soluzioni privatistiche delle crisi, mentre i fornitori sono non di rado pure alle origini di tali difficoltà. Deriva da ciò che il successo del Piano proposto dipende parecchio dalla struttura del passivo: le maggiori probabilità di successo si hanno in presenza di poche categorie di debiti e di un indebitamento molto concentrato; mentre la diversificazione ed il frazionamento del passivo indeboliscono tali probabilità”.

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di diversi Paesi, i casi di declino aziendale trasformatisi in crisi per l’irriducibile, prolungata opposizione sindacale ai rimedi proposti”27.

9. Gli advisor. In ogni operazione di ristrutturazione rivestono un ruolo principale i soggetti che esercitano le due attività di financial e rispettivamente legal advisoring28. A. Nelle operazioni di turnaround la consulenza economica tipicamente richiesta al financial advisor dell’impresa in crisi si sostanzia nello studio e predisposizione di un piano di risanamento dell’impresa in crisi. In alcune ipotesi già si è detto che questo piano può prevedere la vendita di alcune partecipazioni sociali ad un nuovo socio disposto ad entrare nel progetto di rilancio dell’impresa. In questi casi allora la consulenza del financial advisor si caratterizza ulteriormente e assume connotati tipicamente simili a quella richiesta nelle operazioni di acquisizione29. D’altro canto anche il nuovo socio è assistito da un financial advisor e la attività di quest’ultimo rientra tipicamente in quella ora da ultimo descritta. Il financial advisoring può essere esercitato da soggetti organizzati secondo il modello e lo statuto generale dell’impresa, o secondo quelli particolari propri delle banche e delle imprese di investimento, o infine secondo quello proprio del “lavoro autonomo” e così secondo “le disposizioni generali” dettate per i suoi contratti dagli artt. 2222- 2228 c.c.. L’ipotesi di financial advisoring del lavoratore autonomo, appartenente o meno a categorie di professionisti protetti, è tuttavia sostanzialmente teorica. Anche l’ipotesi di financial advisoring stipulato con imprese soggette soltanto allo statuto generale della attività imprenditoriale non ricorre molte volte. A ben vedere le attività di consulenza economica in operazioni di ristrutturazioni sono svolte principalmente dalle banche

27

Sul punto v. Guatri, Turnaround, cit., p. 183. Sul punto v. Guatri, Turnaround, cit., p. 161, secondo cui la professionalità e autorevolezza delle “merchants banks ed alcuni studi professionali” svolge un ruolo fondamentale nell’accettazione del piano per il turnaround. 29 Sul punto sia consentito rinviare a T.M. Ubertazzi, Il contratto di «financial advisoring» nelle acquisizioni di imprese, in I contratti per l’impresa. II. Banca, mercati e società, a cura di Gitti, Maugeri, Notari, Mulino, Bologna, 2012, p. 453, ove si rimanda per le indicazioni dei diversi autori che hanno trattato questo tema. 28

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e dalle imprese di investimento, che secondo la disciplina del mercato finanziario sono legittimate a prestare i servizi accessori qui considerati; alcuni segmenti dell’attività di financial advisoring sono inoltre presidiati da imprese di consulenza strategica; più raramente la consulenza qui considerata è svolta da alcuni professionisti c.d. d’affari. In ogni caso la quota maggiore del mercato dei servizi di financial advisoring è notoriamente occupata da banche specializzate, che vengono solitamente chiamate per merchant bank30. E la loro posizione preminente è subito spiegata storicamente dal fatto che le banche sono state le prime a svolgere le attività di consulenza qui considerate; dalla capacità della banca di offrire servizi finanziari complementari a quelli della consulenza, e che sono tipicamente utili se non necessari ad ogni operazione di acquisizione; dall’ampiezza della clientela bancaria e della correlativa rete di raccolta di informazioni utili al monitoring del mercato ed allo screening dei possibili soggetti intenzionati ad intervenire nel procedimento di risanamento; e dall’abitudine centenaria delle banche a lavorare in network con altre aziende di credito, e dunque dal loro essere attrezzate a svolgere attività anche di coordinamento. B. L’attività di consulenza legale stragiudiziale, che d’ora in avanti sarà per brevità indicata semplicemente come consulenza legale, non sembra richiedere qui particolari descrizioni. Questa attività non è riservata agli avvocati, anche se è svolta principalmente da loro31.

30 Sulle merchants bank in generale (note anche in Italia come banche d’affari, in Francia come banques d’affaires e negli Stati Uniti come investment bank) v. tra i molti Antonucci, Le «banques d’affaires»: ricostruzione di un’esperienza, in Giur. comm., 1982, I, p. 133 ss.; Capriglione, Mezzacapo, Evoluzione nel sistema finanziario e attività di «merchant banking», Roma, 1985, p. 7 ss.; Clarich, Le grandi banche nei paesi maggiormente industrializzati, Bologna, 1985, p. 38 ss.; Labanca, Le merchant banks nella disciplina di vigilanza, in Banca, impresa. soc., 1987, p. 361 ss.; Scotti Camuzzi, Merchant banking e terzo mercato, in Contr. e impr., 1988, p. 118 ss.; Antonucci, Merchant banking, Cacucci Editore, Bari, 1989, 38 ss.; Alagna, Merchant banking, in Contr. e impr., 1990, p. 235 ss.; Spinelli, Gentile, Diritto bancario2, Padova, 1991, p. 45 ss.; De cecco, Le banche d’affari in Italia, Bologna, 1996, p. 7 ss.; G.L. Greco, Le società di merchant banking, in Le società finanziarie, a cura di Santoro, 2000, p. 501 ss.; Lanotte, Il rapporto banca-impresa: alcune riflessioni sull’attività di merchant banking e di venture capital, in Banc., 2000, 10, p. 62 ss.; Lambertini, Merchant banking, in I nuovi contratti nella prassi civile e commerciale. Finanziamento alle imprese, a cura di Liace, Razzante, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, Torino, 2005, p. 309 ss.; e Colonna, Le banche d’affari ed i finanziatori, in I contratti di acquisizione di società e di aziende, Milano, 2007, p. 43 ss. 31 La tesi qui espressa, che considera la consulenza legale un’attività non riservata, è in linea con la dottrina dominante: v. ex multis Carnelutti, voce Avvocato e procuratore,

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Nelle operazioni di risanamento ogni soggetto che interviene nelle negoziazioni e conclusione degli accordi è assistito da un suo personale legal advisor. I modelli organizzativi che possono ricorrere sono il professionista solitario, che esercita da solo la propria attività, eventualmente con l’ausilio di personale di segreteria o di altri collaboratori “consentiti” dall’art. 2232 c.c.; il professionista la cui professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa (così l’art. 2238 c.c.) ancora individuale; un’associazione professionale prevista dalla leg-

in Enc. dir., IV, 1959, p. 644, secondo cui “mentre il dar consigli giuridici è attività libera, consentita a chiunque, il prestare la difesa in giudizio, al contrario, è un’attività vincolata all’esistenza di determinati requisiti e assoggettata a una vigilanza ufficiale secondo la legge 22 gennaio 1934 n. 36”; Lanza, Uberti-Bona, Scotti Camuzzi, L’esercizio «impersonale delle professioni intellettuali» (con particolare riguardo all’avvocatura), in Aa. Vv., Le società di professionisti, Milano, 1973, p. 43; Lega, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, Milano, 1974, p. 129; Varano, voce Assistenza e consulenza legale, in Dig. disc. priv., I, 1987, p. 482; Id, Verso la globalizzazione della professione di avvocato. Tendenze e problemi, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 136; Ibba, La società fra avvocati: profili generali, in Riv. dir. civ., 2002, II, p. 365 ss.; Schiano di Pepe, L’oggetto sociale nelle società tra professionisti, in La società tra avvocati, a cura di De Angelis, 2003, p. 126; e Leozappa, Società e professioni intellettuali. Le società professionali tra codice civile e leggi speciali, Milano, 2004, p. 47 ss. Analogamente considera la consulenza legale un’attività non riservata anche la giurisprudenza dominante: così v. ad esempio tra le molte sentenze Cass., 8 agosto 1997, n. 7359, in Foro it., Rep. 1997, voce Professioni intellettuali, 90; Cass., 12 luglio 2004, n. 12874, in Foro it., Rep. 2005, voce Avvocato, 97; e Cass., 30 maggio 2006, n. 12840, in Foro it., Rep. 2006, voce Professioni intellettuali, 174. In senso contrario v. però Cass., 18 aprile 2007, n. 9237, in Foro it., 2007, I, 2400 secondo cui “le attività di assistenza e consulenza in materia legale e tributaria rientrano tra le prestazioni professionali protette che possono essere svolte soltanto da professionisti iscritti nei relativi albi professionali”. Per un commento critico a quest’ultima sentenza sia consentito rinviare a T.M. Ubertazzi, La consulenza legale è davvero riservata?, in Foro it., 2007, I, p. 2401. Questa tesi non mi sembra sia da escludere a seguito dell’introduzione della legge 31 dicembre 2012, n. 247 sulla “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”. Quest’ultima in particolare all’art. 2 co. 6 stabilisce che “fuori dei casi in cui ricorrono competenze espressamente individuate relative a specifici settori del diritto e che sono previste dalla legge per gli esercenti altre professioni regolamentate, l’attività professionale di consulenza legale e di assistenza legale stragiudiziale, ove connessa all’attività giurisdizionale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato, è di competenza degli avvocati”. Nelle operazioni di risanamento la consulenza legale non ha tuttavia carattere di attività connessa ad attività giurisdizionale. E pertanto in questo settore del diritto la consulenza legale non può definirsi come riservata e può essere esercitata liberamente anche da soggetti non iscritti in un apposito albo.

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ge 1815/1939; e una delle diverse figure di società costituite da avvocati per l’esercizio della consulenza legale32. Nelle operazioni di risanamento delle imprese in crisi qui studiate il modulo organizzativo del professionista solitario è probabilmente teorico. Lo schema del professionista solitario, che esercita da solo la propria attività, eventualmente con l’ausilio di personale di segreteria o di altri collaboratori “consentiti” dall’art. 2232 c.c. svolge già ed è di fatto destinato ad occupare un ruolo progressivamente decrescente. Entrambi possono essere utilizzati per interventi particolari di elevatissima specializzazione. Possono essere teoricamente usati anche da studi professionali di dimensioni non piccole. Ma nelle ipotesi qui considerate i protagonisti di un’operazione di risanamento tendono sempre più ad affidarsi ad organizzazioni complesse che abbiano al proprio interno tutte le professionalità diverse necessarie per la consulenza del caso, e così a strutture la cui attività deve essere qualificata come impresa. E di conseguenza nelle operazioni per un turnaround i modelli organizzativi principali del legal advisor sono l’associazione professionale prevista dalla legge 1815/1939, e le diverse figure di società costituite da avvocati per l’esercizio della consulenza legale33.

10. L’esperto. Nell’ipotesi in cui le parti decidano di stipulare un accordo di risanamento ex art. 67 co. 3 lett. d) l. fall si richiede che il piano di risanamento sia attestato da un esperto e dunque da “un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 28, lettere a) e b)” e come tale rientri tra gli “a) avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti; b) studi professionali associati o società tra professioni-

32. Sui diversi modelli organizzativi dei legal advisor e sulla qualificazione giuridica dei relativi contratti in termini di contratto d’opera intellettuale o appalto sia consentito rinviare a T.M. Ubertazzi, Il procedimento, cit., p. 102 ss. 33. Sull’evoluzione dell’attività dell’avvocato v. a livello generale Preto, Le libere professioni in Europa. Regole di concorrenza per il mercato globale, Milano, 2001, p. 1 ss.; Berlinguer, Professione forense impresa e concorrenza. Tendenze ed itinerari nella circolazione di un modello, Milano, 2003, p. 1 ss.; Bergamini, La concorrenza tra professionisti nel mercato interno dell’Unione Europea, Napoli, 2005, p. 1 ss.; e Ferraro, L’avvocato comunitario. Contributo allo studio delle libertà di circolazione e di concorrenza dei professionisti, Napoli, 2005, p. 1 ss.

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sti, sempre che i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui alla lettera a)”. Inoltre l’esperto deve essere indipendente e “in ogni caso possesso dei requisiti previsti dall’art. 2399” c.c. (così sempre l’art. 67 co. 3 lett. d) l. fall) secondo cui non possono essere eletti alla carica di sindaco e, se eletti, decadono dall’ufficio: a) coloro che si trovano nelle condizioni previste dall’articolo 2382; b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori della società, gli amministratori, il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da questa controllate, delle società che la controllano e di quelle sottoposte a comune controllo; c) coloro che sono legati alla società o alle società da questa controllate o alle società che la controllano o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di lavoro o da un rapporto continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza”34. L’esperto può dunque essere sia un professionista persona fisica avvocato, dottore commercialista o ragioniere. L’esperto può poi essere anche un’associazione o società di professionisti: anche se qui (i) l’art. 28 l.f. lett. b prima parte stabilisce che “i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui alla lettera a)” e dunque i medesimi requisiti soggettivi dei professionisti persone fisiche; (ii) l’art. 28 l.f. lett. b) seconda parte stabilisce inoltre che “in tale caso, all’atto dell’accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica responsabile della procedura”; ed infine (iii) la normativa particolare delle società tra professionisti richie-

34. Su altri requisiti soggettivi dell’esperto v. Nardecchia, Le esenzioni dall’azione revocatoria e il favor per la soluzione negoziale della crisi di impresa (commento alle lettere d, e, g del co. 3 dell’art. 67), in Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, Milano, 2010, pp. 233-252. Controversa è la possibilità per il financial advisor che assiste l’imprenditore nella predisposizione del piano di risanamento di attestarlo ex art. 67 co. 3 lett. d) l. fall.: sul punto v. in giurisprudenza su questioni analoghe sollevate in materia di concordato preventivo Cass., 29 ottobre 2009, n. 22927, in Fall., 2010, 822, secondo cui la “relazione attestante la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano proposto con la domanda di ammissione alla procedura può essere redatta anche da un professionista che abbia già prestato la sua attività professionale in favore del debitore (e che, affermandosene creditore, abbia proposto istanza di ammissione al passivo del conseguente fallimento), non sussistendo incompatibilità”. Sul punto v. però le Linee guida per il finanziamento alle imprese in crisi. Prima edizione -2010, a cura di CNDCEC, Università degli Studi di Firenze e Assonime, rinvenibile in www.assonime.it, 14 secondo cui “una distinzione soggettiva tra consulente e attestatore […] deve non solo essere vista con grande favore, ma è desumibile dalla natura stessa del ruolo di verifica su un documento (il piano), verifica che non può non essere compiuta da persona diversa dal suo estensore”.

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de sempre che l’esecuzione della prestazione sia comunque svolta da un professionista intellettuale iscritto negli appositi albi35. In questo quadro l’esecuzione della prestazione viene allora svolta comunque da una o più persone fisiche che siano avvocato, dottore commercialista o ragioniere. Anche se il modulo organizzativo adoperato dall’esperto ha un rilievo particolare sulla qualificazione degli atti e dei contratti e sulle relative obbligazioni. E resta da dire che la scelta dell’esperto è una delle chiavi del successo di un’operazione di turnaround: perché tanto più l’esperto è qualificato e riconosciuto nel mercato tanto più incentiverà i creditori a partecipare al risanamento dell’impresa.

11. Le tappe di un’operazione di corporate restructuring e i soggetti che le percorrono. I giuristi che si sono occupati delle operazioni di turnaround da crisi hanno sottolineato come queste possono essere tra loro molto eterogenee e dare luogo a schemi negoziali enormemente differenziati. Gli economisti hanno invece evidenziato come sia possibile tracciare un percorso ideale di turnaround e più precisamente uno schema logico di successione degli eventi che portano al recupero dell’impresa36. Ora sicuramente la pratica degli affari conosce schemi di contratti che possono via via variare a seconda delle dimensioni dell’impresa in crisi, del numero dei suoi creditori ed in generale del numero dei soggetti coinvolti nella ristrutturazione. Le operazioni di turnaround necessitano tuttavia di una pluralità di contratti. Questi contratti (quale che sia lo schema adoperato plurilaterale o bilaterale-soggettivamente complesso) vengono disposti normalmente dagli operatori secondo un ordine il più razionale ed utile possibile per raggiungere economicamente l’obiettivo del risanamento di un’impresa37. Le operazioni di turnaround conoscono

35. Sul punto sia consentito rimandare a T.M. Ubertazzi, Il procedimento, cit., p. 102 ss., ove si rimanda per le indicazioni bibliografiche sulle società tra professionisti. 36. Guatri, Turnaround, cit., p. 157, secondo cui questa tesi è ormai largamente condivisa dalla dottrina sì che “i vari autori distinguono spesso alcune fasi, o momenti, o stadi”. 37. La dottrina ha principalmente posto attenzione alla struttura degli accordi di risanamento o di ristrutturazione qualificandoli come bilaterali a parte soggettivamente complessa o plurilaterali: v. recentemente Appio, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Milano, 2012, p. 89 ss.; Marchegiani, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge fallimentare. Contributo allo studio del tipo, Milano, 2012, p. 169 ss.

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da tempo la sequenza ottimale da imporre ai diversi contratti necessari per il rilancio di un’impresa: ciò che ha portato ad evidenziare come qualsivoglia operazione di ristrutturazione segue un percorso composto di momenti, fasi o stadi ormai tipico. Ed in questo quadro si sta assistendo anche a livello contrattuale ad una standardizzazione dei procedimenti e contratti: ciò che mi porta a ritenere allora maggiormente calzante la tesi su espressa degli economisti. In questo studio intendo analizzare uno schema tipico di procedimento di risanamento che comprende quantomeno le seguenti tappe: (i) vi è anzitutto una fase iniziale di consultazioni e di decisioni interne all’impresa in crisi, relative all’opportunità di avviare un’operazione di turnaround ed alla scelta del possibile advisor38. (ii) A questo punto l’impresa in crisi chiede, negozia, ed ottiene l’intervento di uno o più advisor39. (iii) Il primo atto necessario che l’advisor deve compiere è quello concludere con le banche creditrici un accordo di standstill e dunque una moratoria dei crediti in scadenza in grado di dare all’impresa il tempo necessario per predisporre un piano di turnaround e consentirle d’altro canto la continuità aziendale. Per negoziare questo accordo (e poi a fortiori per tutto il procedimento di turnaround) le banche necessariamente richiedono di essere assistite da un loro legal advisor. Ora questo advisor viene sostanzialmente e informalmente scelto dalle banche ma formalmente incaricato dall’impresa in crisi che se ne dovrà sopportare anche i costi. E questo modus procedendi è imposto informalmente dalle banche all’impresa in crisi come condicio sine qua non per loro partecipazioni alla negoziazione40. (iv) Ottenuto l’accordo di standstill l’advisor avvia una fase di studio interna dell’impresa in crisi, valuta le risorse economiche di quest’ultima, individua le disponibilità finanziarie necessarie per espletare un

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Sul punto v. Guatri, Turnaround, cit., p. 159. Sul punto v. Zanotti, Le banche, p. 425, secondo cui “l’accettazione del mandato da parte di un advisor forte viene percepita dal gruppo delle banche creditrici, e all’interno di esse soprattutto dalle banche di minore esposizione non coinvolte direttamente nei primi contatti con l’impresa, come un segnale di fiducia nei confronti della possibilità di soluzione positiva della crisi”. V. inoltre quanto osservava Bonelli, Nuove esperienza nella soluzione stragiudiziale della crisi di imprese, in Giur. comm., 1997, I, p. 497, secondo cui “l’advisor deve impegnare il proprio prestigio per convincere il sistema bancario che la soluzione prospettata è più conveniente rispetto a procedure concorsuali”. 40. Analogamente si può procedere anche per la scelta del financial advisor: v. Zanotti, Le banche, cit., p. 426. 39.

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turnaround, e predispone il piano temporaneo di rilancio dell’impresa41. Il piano ora detto normalmente viene a livello informale sottoposto al vaglio delle banche creditrici, che ne possono richiedere alcune modifiche sostanziali. Questo piano in determinati casi può essere inviato anche ad un esperto affinché ne attesti a livello generale per fini ‘interni’ la fattibilità. Anche la relazione dell’esperto sul piano viene sottoposta al vaglio delle banche che possono chiedere (e normalmente lo fanno) chiarimenti ulteriori da inserire nella stessa relazione. E la relazione dell’esperto informalmente attesta a livello generale la fattibilità del piano di risanamento legittimando ulteriormente la validità di quest’ultimo e dunque l’utilità della prosecuzione delle trattative42. (v) Il piano di rilancio predisposto nell’operazione nell’ipotesi tipica qui considerata può prevedere una ricapitalizzazione per far fronte alle esigenze finanziarie dell’impresa. In questi casi è possibile che soltanto alcuni soci dell’impresa siano disponibili a sottoscrivere un aumento di capitale, mentre per evitare l’avvio di procedure concorsuali altri soci siano disponibili a vendere le loro azioni ad un futuro acquirente disposto a partecipare al progetto di turnaround. In simili circostanze l’advisor deve individuare e selezionare alcuni potenziali partner da invitare al processo di ristrutturazione. Anche a prescindere e prima dei singoli incarichi gli advisor specializzati in operazioni di ristrutturazioni svolgono sistematicamente un’attività di monitoring del mercato43. In questa attività istituzionale l’advisor può sollecitare o ricevere spontaneamente profili (nominativi o blind) di imprese che si dichiarano disponibili a venire acquisite44. E normalmente l’advisor è solito in operazioni di restructuring rivolgersi o essere contattato da fondi di private equity specializzati in operazioni di turnaround.

41. Sul piano di turnaround v. Guatri, Turnaround, cit., p. 162, secondo cui questo piano “è il punto di arrivo di un complesso lavoro”; e v. inoltre le Linee guida per il finanziamento alle imprese in crisi. cit., p. 19 ss. 42 Sul punto v. quanto osservato al paragrafo 15. 43 Con il termine monitoring si intende solitamente in questa sede qualsiasi forma di raccolta di informazioni riguardanti l’impresa, le sue prospettive di investimento e la sua linea di comportamento. 44 I blind profile contengono informazioni sommarie relative all’impresa target, quali ad esempio il range del fatturato, la sede degli stabilimenti, la descrizione dell’attività, i principali clienti, il numero di dipendenti, la posizione finanziaria, gli obiettivi di crescita etc. Per un esempio di blind profile Capizzi, Gli intermediari finanziari e i servizi a supporto delle acquisizioni aziendali, in Corporate e investment banking, a cura di Forestieri, Milano, 2005, p. 376 ss.

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(vi) L’advisor prende poi contatto con i possibili partner acquirenti, ne sonda la disponibilità ad avviare i negoziati, ed organizza l’inizio di quelli relativi alle ‘intese iniziali’ necessarie ad avviare le ulteriori trattative45. (vii) L’advisor individua il partner acquirente ottimale per la ristrutturazione dell’impresa conclude con questo le intese iniziali ora dette, che riguardano in particolare gli accordi relativi alla sede del negoziato, alla durata ed al recesso delle trattative, all’esclusività di queste ultime, alla legge da applicare durante la negoziazione, alla riservatezza, alla due diligence, alle spese del negoziato, alle obbligazioni di standstill, al foro competente, etc.46. Nell’individuazione del partner ottimale l’advisor opera chiaramente di concerto con l’impresa in crisi. L’advisor in questa scelta tuttavia si fa assistere a livello informale anche dalle banche perché il loro gradimento è indispensabile ai fini della condivisione da parte loro dell’operazione. E questo intervento informale delle banche alcune volte può spingersi al punto di un loro autonomo suggerimento o imposizione del partner strategico all’impresa in crisi e al suo advisor47. (viii) A seguito di queste prime intese il partner comincia via via un negoziato in ordine alla definizione di un’offerta di ristrutturazione finanziaria. Questa offerta di ristrutturazione tipicamente prevede nei confronti dell’impresa in crisi la disponibilità a partecipare ad un aumento di capitale reale; nei confronti dei soci cedenti una proposta di acquisto delle loro partecipazioni o azioni ad un prezzo simbolico; e nei confronti dei soci rimanenti la richiesta di un nuovo patto di governance con il quale ridefinire tra l’altro la composizione del consiglio di amministrazione della società in crisi. Questa offerta di ristrutturazione viene poi rivolta informalmente anche alle banche e questo perché senza il placet di queste non si arriverebbe alla conclusione della convenzione bancaria necessaria per il turnaround. E tutto ciò dimostra come la negoziazione di questa offerta avviene a più livelli: e precisamente un primo livello formale avviene tra impresa in crisi soci cedenti e rimanenti; e un secondo livello informale con il sistema bancario che può richiedere (e

45 Su questi primi contatti, sulla qualificazione giuridica dei relativi atti e sulla loro collocazione nell’ambito dell’art. 1337 c.c. sia consentito rinviare a T.M. Ubertazzi, Il procedimento, cit., p. 170 ss. 46 Sui diversi accordi che compongono questa fase sia consentito rinviare a T.M. Ubertazzi, Il procedimento, cit., passim e in particolare il capitolo 3 ove si rimanda per i riferimenti bibliografici. 47 Sul punto v. Guatri, Turnaround, cit., p. 180.

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normalmente lo fa) alcune modifiche alla proposta originaria del socio nuovo. (ix) A partire dal momento in cui pare chiaro che l’offerta di ristrutturazione e il negoziato su questa stiano per andare a buon fine, comincia in parallelo il negoziato tra impresa in crisi e banche per addivenire alla conclusione di una convenzione bancaria48. Questa convenzione può prevedere che le banche concedano nuova finanza all’impresa in crisi; rilascino una moratoria di pagamento sui crediti esistenti; emettano nuove linee di credito o finanza ponte; effettuino uno stralcio sul credito pregresso etc.49. E la negoziazione di questa convenzione è spesso preceduta a livello interno delle banche dalla conclusione di una convenzione interbancaria con la quale queste centrano i loro rispettivi rapporti e si coordinano nella negoziazione per la futura ed eventuale conclusione della convenzione bancaria con l’impresa in crisi. (x) Quando oramai i negoziati per l’accordo di ristrutturazione e la convenzione bancaria sono arrivati al termine interviene nuovamente il financial advisor dell’impresa in crisi che necessariamente rimodifica il piano di turnaround inizialmente predisposto tenendo in considerazione l’impatto economico di questi atti. (xi) A questo punto l’advisor sottopone il piano di turnaround all’esperto al fine della sua attestazione di ragionevolezza del piano ex art. 67, co. 3, lett. d) l. fall50.

48 Sui diversi obbiettivi cui la negoziazione con le banche può condurre v. Zanotti, Le banche, cit., 440 secondo cui questa può arrivare (i) ad una posticipazione delle scadenze ed una definizione di un piano di rimborso di una durata compresa tra i 3 e gli 8 anni; (ii) alla rinuncia di parte degli interessi maturati; (iii) alla rinuncia di parte dei crediti; (iv) alla postergazione di alcuni crediti rispetto ad altri; (v) ad una datio in solutum; (vi) alla conversione di alcuni crediti in capitale; (vii) all’offerta di scambio di nuove obbligazioni con vecchie; e (vii) all’emissione a favore dei creditori di warrants e/o obbligazioni convertibili. In particolare sulla possibilità di emettere obbligazioni convertibili questa autrice evidenzia come “dal punto di vista dell’emittente, le obbligazioni convertibili sono un modo per ridurre il costo del finanziamento. […] Dal punto di vista dell’acquirente le obbligazioni convertibili offrono, rispetto alle obbligazioni ordinarie, la possibilità di partecipare agli upside benefits della ristrutturazione”. 49 Sul punto v. Guatri, Turnaround, cit., p. 217. V. inoltre Zanotti, Le banche, cit., 435 secondo cui la concessione di nuova finanza avviene solo quando “il beneficio netto della ristrutturazione è superiore al trasferimento di ricchezza a favore dei vecchi creditori”. 50 Qui “l’oggetto della relazione dell’esperto […] è quello di un giudizio di carattere prognostico ex ante, con riferimento al momento in cui il piano è stato predisposto, sugli elementi previsionali del piano proiettato dinamicamente nel futuro nella prospettiva di

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(xii) In caso di esito positivo della verifica dell’esperto soci cedenti, nuovi e rimanenti concludono l’accordo di ristrutturazione sottoponendolo alla condizione che le banche concludano la convenzione bancaria con l’impresa in crisi. (xiii) A questo punto banche e impresa in crisi sottoscrivono la convenzione bancaria51. Questa convenzione normalmente viene conclusa contestualmente o immediatamente dopo l’attestazione dell’esperto e la sottoscrizione dell’offerta di ristrutturazione. E tanto l’attestazione dell’esperto quanto l’accordo di ristrutturazione vengono richiamati integralmente dalla convenzione bancaria diventandone degli allegati52. L’elencazione delle diverse tappe dell’operazione di turnaround qui descritta ha volutamente cercato di distinguerle il più possibile in modo atomistico, e lo ha fatto specialmente per offrire una descrizione ordinata delle linee principali di un’operazione. E’ tuttavia possibile che le tappe qui proposte vengano rinnovate ulteriormente anche durante l’esecuzione del turnaround: cosa che tipicamente avviene quando l’impresa non riesca immediatamente a far fronte agli impegni con le banche. Altre volte l’impresa in crisi può sentire l’esigenza di compiere durante l’esecuzione della convenzione operazioni straordinarie che potrebbero rimodificare il piano di risanamento. E in questi casi le banche richiedono un nuovo piano, una nuova attestazione di un esperto e un nuovo procedimento che mutatis mutandis ripropone e segue lo schema di quello iniziale53.

recupero della crisi di impresa; si tratterà di un giudizio di probabilità nell’ambito della razionalità economica dei presupposti e degli scenari disegnati” (così Munari, Crisi, cit., p. 151). Sul punto v. Costantino, La gestione della crisi d’impresa tra contratto e processo, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, a cura di Di Marzio, Macario, Milano, 2010, p. 217 ss. 51 Contestualmente alla sottoscrizione della convenzione bancaria le banche nel loro lato interno concludono una convenzione interbancaria: con la quale solitamente incaricano una banca agente ad intrattenere come mandatario i rapporti con l’impresa in crisi durante l’esecuzione del contratto. 52 Sin qui uno schema di procedimento di risanamento tipico. Nei risanamenti di impresa sono tuttavia immaginabili e frequenti ipotesi ulteriori via via più complesse. Così è possibile che venga creato un nuovo soggetto distinto rispetto all’impresa in crisi: sul punto v. ad esempio Boggio, Gli accordi di salvataggio delle imprese in crisi. Ricostruzione di una disciplina, Milano, 2007, p. 13 nt. 23. 53 Sul punto v. la raccomandazione n. 19 delle Linee guida per il finanziamento alle imprese in crisi. Prima edizione, cit., p. 34, secondo cui “il nuovo piano non potrà essere formulato sulla base dei dati e delle previsioni poste alla base del piano originario, ma dovrà tenere conto dei (e partire dai) dati esistenti al momento della redazione del

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12. L’operazione di risanamento e il suo carattere di procedimento privato. Al paragrafo precedente si sono viste le diverse tappe di un’operazione di risanamento. La civilistica italiana sino ad oggi non mi sembra abbia considerato l’intero procedimento ora descritto di turnaround. Essa ha invece preferito percorrere due diverse linee d’indagine. Alcuni autori hanno preferito studiare gli accordi di risanamento delle imprese in crisi in generale senza specificare a quale dei diversi accordi necessari per un’operazione di turnaround le loro riflessioni dovessero applicarsi e questo per l’eterogeneità della prassi in questo settore del diritto privato, la complessità dei diversi schemi contrattuali adoperati, e la difficoltà di ricondurli ad un unicum54. Altri autori si sono invece limitati ad analizzare soltanto alcuni degli atti di un’operazione di risanamento e in particolare la convenzione bancaria tralasciando i diversi contratti precedenti a quest’ultima che ne costituiscono un presupposto indefettibile55. Ora quanto al primo modo di procedere esso si rivela suggestivo in parte qua vuole evidenziare che un’operazione di risanamento normalmente è composta da diversi accordi. Non mi sembra invece convincente nell’ipotesi in cui questa opinione si limiti ad affermare l’eterogeneità dei contratti, eviti di analizzarli in modo specifico, ed adotti così soluzioni generali. Anzitutto perché come abbiamo visto un’operazione di turnaround necessita di diversi accordi, questi perseguono funzioni distinte, sono stipulati da soggetti diversi e uno studio che voglia proporre soluzioni di carattere generale non chiarisce a quale dei diversi accordi fa riferimento. Inoltre la prassi dei risanamenti di impresa sta via via adottando un modello tipico di procedimento. Il procedimento ora detto è strutturato mediante dei contratti che presentano il medesimo schema e sono proposti e stipulati mediante un ordine cronologico concordante da operazione a operazione. La spiegazione di ciò è in parte agevole ove si consideri che (i) le operazioni di turnaround devono seguire un

nuovo piano. Anche se nulla vieta che il nuovo piano incorpori (direttamente o per rinvio) dati ed elementi tratti dal precedente piano, esso è, a tutti gli effetti “nuovo”, e deve perciò essere attestato ex novo per avere gli attesi esiti protettivi”. 54 V. ad esempio ex multis Boggio, Gli accordi, cit., p. 101 s.s.. 55 V. sulle convenzioni bancarie già prima della riforma ad esempio ex mutis Schlesinger, Convenzioni bancarie di salvataggio, in Il fallimento, 1997, p. 894.

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medesimo percorso economico ideale al fine del risanamento e rilancio dell’impresa ciò che implica l’adozione di modelli contrattuali che rendano possibile il progetto; (ii) i legal advisor che seguono le operazioni ora dette sono solitamente gli stessi come vedremo nei prossimi paragrafi e sono inclini a non discostarsi da modelli e iter già adottati56. E conseguentemente anche in questo settore del diritto privato si sta assistendo ad una standardizzazione dei modelli che permette un’indagine applicabile alla gran parte dei turnaround57. Quanto al secondo modo di procedere invece si ricorderà che al paragrafo 11 si è tentato di elencare in modo ordinato le fasi di una delle operazioni tipiche di turnaround dell’impresa in crisi. Questa elencazione sembra particolarmente utile anzitutto perché mette in risalto l’intera operazione di risanamento di un’impresa e di tutti gli innumerevoli accordi necessari. Inoltre perché dimostra che in questo settore del diritto siamo in presenza di un procedimento privato e dunque (non di un unico contratto, ma) di una serie di atti via via predisposti58. Questi atti del procedimento di risanamento assumono valore solo se si pone attenzione al contesto nel quale sono inseriti59. Ciò vale per la convenzione bancaria che normalmente è l’ultimo atto di un procedimento di risanamento e dunque è il risultato finale di quest’ultimo. Ma questo discorso vale inoltre anche per gli atti intermedi del procedimento privato. E tanto deve anche in questo settore del diritto privato portare l’interprete ad

56 Questi legal advisor poi sono filiali di studi anglossassoni e seguono modelli e prassi in questi paesi ormai da tempo consolidati. Sull’affermazione degli studi legali americani in Europa v. in generale Dezalay, I mercanti del diritto. Le multinazionali del diritto e la ristrutturazione dell’ordine giuridico internazionale, a cura di Raiteri, Milano, 1997, p. 104 ss. A livello generale sulle “transational law firms” v. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione. Diritto e diritti nella società trasnazionale, Bologna, 2000, p. 108, secondo cui grazie a queste ultime le “grandi imprese possono funzionare come attori giuridici globali”. 57 L’analisi dei diversi accordi per il risanamento sarà da me condotta in altro studio che non può essere inserito in questa sede per ragioni di spazio. 58 Sul procedimento privato, i suoi rapporti con la fattispecie contrattuale e i parallelismi possibili con il processo civile e procedimento amministrativo v. T.M. Ubertazzi, Il procedimento, cit., p. 241 ss. cui si rimanda per le indicazioni bibliografiche. 59 D’altro canto con riferimento (non agli accordi di risanamento, ma) agli accordi di ristrutturazione dei debiti v. quanto ha osservato Gabrielli, Accordi di ristrutturazione del debito e tipicità dell’operazione economica, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, cit., p. 287 secondo cui “il legislatore opera mediante una disciplina, non più per singoli contratti, ma per attività, per operazioni economiche e, quindi abbandona lo schema del singolo atto per inserire il contratto all’interno di un’operazione economica”.

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utilizzare un metodo non atomistico ma procedimentale di tutti gli atti necessari per il risanamento e dunque adottare “una concezione «totale» del procedimento”, comprendente “l’intero ciclo dell’attività giuridica, dalla fase formativa a quella esecutiva”60.

13. Le banche e i diversi comportamenti abusivi che ne generano le responsabilità. Già si è detto che in un’operazione di risanamento ex art. 67 co. 3 lett. d) l.f. un ruolo principale viene svolto dalle banche: perché senza l’aiuto di questi soggetti un’impresa in crisi difficilmente riuscirà a portare a conclusione un’operazione di turnaround; e perché le banche di fatto esercitano un ruolo principale anzitutto nella erogazione del credito come pure nella direzione/esecuzione degli accordi necessari per un turnaround61. A questo punto occorre valutare l’ultimo aspetto relativo alle responsabilità delle banche. A questo proposito con l’introduzione dell’art. 67 co. 3 lett. d) l.f. e la conseguente esclusione della revocatoria si potrebbe forse essere indotti a ritenere che il sistema bancario sia oggi da considerare esente da responsabilità tutte le volte in cui partecipi ad un’operazione sulla base di un piano attestato. Ma questa tesi non sembra in alcun modo condivisibile. Anzitutto il nostro legislatore non ha escluso espressamente alcuna responsabilità per le banche che partecipano ad un risanamento sulla base di un piano che rivesta i requisiti richiesti dall’art. 67 co. 3 lett. d) l.f.62.

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Così Troisi, La prescrizione come procedimento, Napoli, 1980, p. 45. Sul punto v. Piscitiello, Piani di risanamento e posizione delle banche, in Aa. Vv., Le soluzioni concordate delle crisi di imprese, Torino, 2007, p. 112, secondo cui “l’elevato ammontare dell’esposizione debitoria nei confronti delle banche a favore di imprese sovente sottocapitalizzate, il massiccio intervento delle stesse nel credito commerciale attraverso la tecnica dell’anticipazione su fatture mostrano come il successo del piano sia necessariamente correlato al coinvolgimento dei creditori bancari [….] d’altro canto, non si può non trascurare che solo il coinvolgimento delle banche consente di regolare l’erogazione di nuova finanza, che è spesso necessaria per il superamento delle difficoltà economiche e il successo dell’operazione”. 62 Correttamente Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi, cit., p. 389 rilevano come “l’unico effetto che la legge connette al piano «attestato» […] è dato dall’esonero della revocatoria fallimentare degli atti compiuti in esecuzione del piano stesso” [corsivi in originale]. V. inoltre quanto sostenuto da Bonfatti, La promozione e la tutela delle procedure di 61

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Inoltre il nostro legislatore non ha introdotto normative come ad esempio quella francese che all’art. L. 650-1 del Code de commerce stabilisce come “lorsqu’une procédure de sauvegarde […] est ouverte, les créanciers ne peuvent être tenus pour responsables des préjudices subis du fait des concours consentis”. Ed infine perché anche legislazioni come quella francese non possono escludere la responsabilità delle banche per comportamenti abusivi; ed infatti lo stesso articolo su citato del codice di commercio francese stabilisce che in ogni caso queste ultime sono da considerare responsabili in caso di “fraude, d’immixtion caractérisée dans la gestion du débiteur ou si les garanties prises en contrepartie de ces concours sont disproportionnées à ceux-ci”63. In sintesi. Le banche possono rispondere anche nelle ipotesi in cui partecipino ad operazioni di risanamento. La responsabilità delle banche può essere data da una serie di condotte abusive. Queste condotte sono inquadrabili in tre grandi gruppi. Un primo gruppo di comportamenti abusivi si ha in particolare nella fase di negoziazione dei diversi accordi necessari per un turnaround. Un secondo gruppo di comportamenti abusivi si ha invece nella fase della gestione del credito stabilita nella convenzione bancaria. Un terzo gruppo di comportamenti abusivi si ha infine nella gestione dell’attività imprenditoriale dell’impresa in crisi. Quest’ultimo gruppo richiederebbe un’analisi che per ragioni di spazio non può essere effettuata in questa sede, ma che mi propongo di analizzare in altro studio. E questa relazione si concentra allora principalmente sui primi due gruppi di comportamenti abusivi.

14. L’abuso delle banche nella negoziazione. Al paragrafo precedente si è visto che un primo gruppo di comportamenti abusivi delle banche si ha nella fase di negoziazione64. Qui non

composizione negoziale della crisi d’impresa nella riforma della legge fallimentare, in Fallimento on line, 2005, par. 14. 63 Sul punto v. Macario, Insolvenza del debitore, crisi dell’impresa e autonomia negoziale nel sistema della tutela del credito, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, cit., p. 52 ss.. 64 Per altri profili di responsabilità in sede di negoziazione ad opera di altri soggetti v. Capobianco, La patologie degli accordi di ristrutturazione, rinvenibile in www.judicium. it, par., 3.

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posso soffermarmi su questi molteplici possibili abusi. Mi limito tuttavia ad analizzare un caso molto frequente nelle negoziazioni per i risanamenti che concerne la scelta del legal advisor. In particolare al paragrafo 11 di questo studio si è detto che prima di partecipare ad un negoziato per un turnaround le banche sono solite richiedere all’impresa in crisi di farsi carico delle spese del loro legale. E più precisamente la prassi vede normalmente le banche richiedere all’impresa in crisi “a livello informale” di indicare una lista di 3-5 grandi studi professionali e scegliere poi tra questi quello indicato dalle banche con la chiara determinazione contrattuale che (i) il legal advisor dovrà svolgere la propria attività di assistenza e consulenza nella redazione dei possibili contratti a favore delle banche; e (ii) dovrà essere pagato esclusivamente dall’impresa in crisi. Ora questa prassi a mio modo di vedere solleva diverse problematiche ed integra un comportamento contra ius delle banche. A. Anzitutto determina un illecito del legal advisor: perché un avvocato ex art. 37 codice deontologico “ha l’obbligo di astenersi dal prestare attività professionale quando questa determini un conflitto con gli interessi”65: ed è chiaro che nel caso da noi studiato il legal advisor presta un’attività a favore delle banche; in conflitto di interessi con l’impresa in crisi; e dunque idonea ad incidere negativamente sugli interessi di quest’ultima. D’altro canto questa violazione della regola del conflitto di interessi non mi sembra possa essere aggirata con la considerazione che il legale sin da subito dichiara di prestare la sua attività a favore delle

65 V. inoltre la “Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo” secondo cui “per esercitare in maniera ineccepibile la professione, l’avvocato deve evitare conflitti di interesse” (così il principio c); e il “Codice deontologico degli avvocati europei” secondo cui “l’avvocato non può occuparsi degli affari di due o di tutti i clienti coinvolti qualora intervenga tra loro un conflitto di interessi o vi sia il rischio di violazione del segreto professionale o di compromissione della propria indipendenza” (così l’art. 3.2.2.). La violazione della regola sul conflitto di interessi si avrebbe d’altro canto anche nell’ipotesi in cui si intenda applicare una normativa meno rigida come quella prevista dal tuf. per gli intermediari finanziari (e dunque per soggetti radicalmente distinti e che a differenza degli avvocati operano costantemente in situazioni di conflitto): qui infatti l’art. 21 t.u.f. co. 1 bis. lett. a) stabilisce un obbligo per gli intermediari di adottare “ogni misura ragionevole per identificare i conflitti di interesse che potrebbero insorgere con il cliente o fra clienti, e li gestiscono, anche adottando idonee misure organizzative, in modo da evitare che incidano negativamente sugli interessi dei clienti”. Una simile prassi non consentirebbe di sostenere che comunque il legal advisor abbia adottato ogni strumento idoneo a ridurre la situazione di conflitto. Su questa regola sia consentito rinviare per i riferimenti dottrinali a T.M. Ubertazzi, Il contratto, cit., p. 464 ss.

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banche e non dell’impresa in crisi. In primo luogo perché in ogni caso comunque il legal advisor stipula un contratto con quest’ultima percependo un compenso: e la conclusione del contratto fa sorgere comunque obblighi di prestazione accessori e di protezione nei confronti della sua parte contrattuale66. In secondo luogo perchè le banche percepiscono un compenso dall’impresa in crisi e in questo modo sono comunque tenute ad una prestazione anche a suo favore: una lettura diversa d’altro canto potrebbe esporre la prestazione dell’impresa in crisi a non essere sorretta da una causa giustificativa; determinare così tra l’altro la nullità del contratto per mancanza di un suo elemento essenziale; e legittimare poi in questo caso l’impresa in crisi a richiedere la restituzione dell’indebito. In questo quadro mi sembra allora comunque difficile escludere la sussistenza in capo al legal advisor di obblighi di prestazione e protezione a favore dell’impresa in crisi. E conseguentemente la prassi ora descritta comporta una violazione della regola sul conflitto di interessi del legal advisor e un suo illecito contrattuale67. B. In questo illecito le banche non sono però mere spettatrici. Già si è visto che le banche richiedono questo modo di procedere come

66.

La dottrina che oggigiorno riconosce la sussistenza di obblighi di protezione verso terzi a seguito della conclusione di un contratto tra parti è sterminata. Recentemente v. la monografia di Lambo, Gli obblighi di protezione, Milano, 2007, p. 238 ss. cui si rimanda per le numerose indicazioni bibliografiche. 67. Non mi sembra d’altro canto che la regola sul conflitto di interessi prevista all’art. 37 del codice deontologico possa essere derogata dalle parti. Qui infatti siamo in presenza di una norma che (non tutela come l’art. 1395 c.c. solo ed esclusivamente interessi privati, ma) è diretta a perseguire anche interessi corporativi e della collettività. D’altro canto a simili conclusioni si arriva ove si prendono a riferimento i principi europei visti alla nota 65. Qui già si è visto il principio c della “Carta dei principi fondamentali dell’avvocato europeo” stabilisce che “per esercitare in maniera ineccepibile la professione, l’avvocato deve evitare conflitti di interesse”: e secondo questa Carta “il rispetto di tali principi è alla base della difesa legale, che costituisce la pietra angolare di tutti gli altri diritti fondamentali” (così il suo preambolo). D’altro canto nel caso in esame non siamo di fronte ad un’ipotesi in cui il legal advisor è incaricato di perseguire due interessi configgenti: come tipicamente potrebbe avvenire nell’ipotesi in cui un avvocato segua la contrattazione tra venditore e acquirente di un bene percependo un compenso da entrambe le parti (sul punto v. Danovi, Il codice deontologico forense, in Trattato pratico di diritto forense, a cura di Danovi, Milano, 2006, p. 566). Nelle negoziazioni per un turnaround infatti al legale scelto informalmente dalle banche si richiede di eseguire la sua prestazione solo ed esclusivamente a favore di queste ultime addebitando però tutti i costi all’impresa in crisi. E pertanto siamo in presenza di una prestazione data dal legal advisor in radicale conflitto di interessi con l’impresa in crisi.

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condicio sine qua non per partecipare ad un turnaround. Inoltre le banche scelgono di fatto direttamente poi il legal advisor che le assisterà nell’operazione di risanamento: perché si è visto che sono solite richiedere informalmente all’impresa in crisi di indicare 3/5 studi legali di grandissime dimensioni (delimitando in questo modo già enormemente la scelta della rosa dei legal advisor); e a seguito di questa delimitazione sono poi solite individuare sempre all’interno di questa rosa i legal advisor con cui hanno maggiore confidenza (che tra l’altro le assistono in altre operazioni di risanamento e dunque sono fidelizzate anche da altri rapporti professionali). E in questo quadro allora le banche si inseriscono direttamente nell’illecito del legal advisor e vi concorrono sulla base dell’insegnamento secondo cui risponde “dell’inadempimento non necessariamente soltanto il debitore ma altresì l’eventuale terzo che concorra con il debitore nella (in)attuazione del rapporto obbligatorio”68. C. Questo modo di procedere tuttavia a me sembra sia in grado di determinare una responsabilità (non solo contrattuale, ma) ex art. 1337 c.c. esclusiva delle banche nei confronti dell’impresa in crisi. Anzitutto le banche confidano che l’impresa in crisi concluda in un’ottica di ottimizzazione dei costi un contratto con un solo legale deputato però ad eseguire la prestazione a favore delle prime. E in questo modo le banche determinano uno squilibrio di potere contrattale o più precisamente un abuso nella negoziazione: perché già senza questa tecnica esse sono in una posizione di preminenza rispetto all’impresa in crisi; e con questo accorgimento ulteriormente rafforzano la loro posizione sfornendo di tutela l’impresa in crisi che si vedrà così costretta a negoziare e concludere un contratto predisposto esclusivamente dal legale delle banche.

68 Così v. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, p. 121. Su questa linea lo stesso autore osserva giustamente che “l’affermazione di una responsabilità contrattuale del terzo che si è insinuato nella (in)attuazione della prestazione rendendosene partecipe non è altro che il pendant del superamento della visione dell’obbligazione come rapporto a struttura semplice, consistente nel solo obbligo di prestazione intercorrente tra debitore e creditore” [corsivi in originale]. Sulla possibilità che il conflitto di interessi determini una responsabilità contrattuale v. Maffeis, Il conflitto di interessi nel contratto e rimedi, Milano, 2002, 410 ss. Si potrebbe chiaramente tuttavia sostenere che il contratto con il legal advisor è concluso dall’impresa in crisi che accetta questo modo di procedere determinando una sorta di autoreponsabilità: ma a ben vedere questo contratto “rovinoso” è imposto dalle banche all’impresa in crisi come condicio sine qua non pena il “fallimento” di quest’ultima: e ciò determina una situazione di “violenza morale” che stempera una situazione di “auto responsabilità”.

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Inoltre le banche abusano della loro posizione negoziale anche nell’ipotesi in cui l’impresa in crisi scelga comunque un proprio legale che esegua la prestazione a proprio favore: perché non è rara l’ipotesi in cui le banche sono solite anche in questo caso comunque imporre un legale a loro gradito rendendo diversamente estremamente complicata la negoziazione e il successo del turnaround. Ed anche in questo caso si assiste ad un’intrusione ingiustificata delle banche nelle scelte della impresa in crisi che è contraria quantomeno ad un comportamento secondo buona fede nella negoziazione. Infine e in ogni caso questo modo di procedere comporta dei costi assolutamente non necessari in capo all’impresa in crisi. Quest’ultima si deve infatti fare carico di una spesa per una prestazione che non sarà rivolta a suo favore dal legal advisor. Queste spese aggravano significativamente la situazione finanziaria di un’impresa che versa in una situazione di crisi. E queste spese non risultano poi oltretutto necessarie né per il turnaround né tanto meno per le banche: perché queste ultime hanno risorse sufficienti per provvedere al pagamento del legale da loro scelto senza gravare sull’impresa in crisi; e d’altro canto sono comunque tutte dotate di uffici legali interni che ben potrebbero assisterle nella consulenza per un turnaround (e dunque per un’attività stragiudiziale che non è riservata agli avvocati; non richiede pertanto un professionista esterno iscritto in un albo professionale; e dunque può essere svolta anche dai professionisti legali dipendenti della banca69). E questo comportamento oltre a rendere eventualmente le banche partecipi di una futura ed eventuale situazione di dissesto ulteriore dell’impresa costituisce chiaramente un comportamento contrario ai canoni di buona fede ex art. 1337 c.c.

15. La concessione abusiva del credito nei risanamenti. A. Un secondo gruppo di comportamenti abusivi delle banche investe la gestione del credito. E qui ricorrono le figure della concessione abusiva del credito e dell’interruzione brutale del credito. Cominciamo con la prima figura70. A questo proposito nessuna norma del nostro ordinamento impone espressamente ad una banca di non

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Sul punto v. nt. 31. La dottrina che ha affrontato il tema della concessione abusiva del credito è sterminata: v. tra le monografie ad esempio Di Marzio, Abuso nella concessione 70

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erogare credito ad un’impresa. Diverse norme impongono tuttavia alle banche un ruolo fondamentale nella trasparenza dei mercati e dunque anche nella corretta erogazione del credito. Tra queste in particolare merita di essere ricordato l’art. 5 del tub71; l’art. 218 della l.f.72; ed in generale poi l’art. 1176 co. 2 c.c.73: perché come noto la banca esercita un ruolo fondamentale come attore del traffico giuridico nel mercato del credito; la sua qualifica di operatore professionale porta dunque ad applicare il criterio della diligenza professionale che comporta tutta una serie di obblighi informativi (confermati dalla legislazione speciale) durante l’istruttoria del fido a salvaguardia (non solo dell’interesse della stessa banca controparte, ma) del mercato in generale; e questo standard di diligenza alimenta nella clientela e nei terzi l’aspettativa di una

del credito, Napoli, 2004, passim; Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, Milano, 2004, passim; tra gli articoli v. Roppo, Responsabilità della banca nell’insolvenza dell’impresa, in Il fallimento, 1997, p. 869 ss.; Inzitari, Concessione abusiva del credito: irregolarità di fido, false informazioni e danni conseguenti alla lesione dell’autonomia contrattuale, in Dir. banc., 1993, I, p. 412; Nigro, La responsabilità della banca per concessione “abusiva” del credito, in Giur. comm., 1978, p. 219 ss.. 71 Secondo cui “le autorità creditizie esercitano i poteri di vigilanza a esse attribuiti dal presente decreto legislativo, avendo riguardo alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia”: sul punto v. Capolino, Rapporti tra banca e impresa: revoca degli affidamenti e ricorso abusivo al credito, in Il fallimento, 1997, p. 878, ove osserva che la norma introduce “l’imposizione di regole che condizionano la libertà imprenditoriale nella misura necessaria a garantire il perseguimento degli scopi della stabilità e dell’efficienza delle banche”. 72 Questa norma in particolare nel sanzionare penalmente “gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito […] dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni” può ricomprendere un dovere da parte dei terzi di astenersi dal compiere atti che consentano al debitore di dissimulare il proprio stato di dissesto e di continuare ad assumere debiti: per un commento v. Sandrelli, Commento art. 218 l.f., in Codice Commentato del fallimento, diretto da Lo Cascio, Milano, 2013, p. 2472 s.s.; Casaroli, Commento art. 218 l.f., in Commentario breve alla legge fallimentare, diretto da Maffei Alberti, Padova, 2009, p. 1250 ss. 73 Secondo cui “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. Proprio dalla lettura di questa norma una dottrina è solita individuare degli obblighi di protezione che la banca assumerebbe (nei confronti non solo dell’impresa in crisi, ma anche) dei terzi: ciò che dovrebbe fare propendere in caso di concessione abusiva del credito per la natura contrattuale della responsabilità. Sul punto v. Castronovo, La nuova responsabilità, cit., p. 125 ss.

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gestione del credito tale da soddisfare quello standard e dunque rivolta ad imprese non decotte. In questo quadro la concessione di credito in maniera imprudente ad un’impresa in crisi costituisce un illecito e dà luogo alla figura della concessione abusiva del credito. In una simile situazione la concessione di credito occulta infatti la crisi d’impresa finanziata e ingenera nello stesso tempo nei confronti dei terzi una oggettiva apparenza di affidabilità. Questa concessione del credito può ovviamente essere svolta dalla banca a causa di un suo comportamento semplicemente negligente74. Ma la concessione del credito può essere effettuata dalla banca scientemente: perché allungando la vita dell’impresa e ritardando la dichiarazione di fallimento la prima potrebbe guadagnare il definitivo consolidamento delle garanzie reali già ottenute dal debitore; l’irrevocabilità dei pagamenti effettuati; etc.75. E se questo modo di procedere produce un evidente vantaggio delle banche, esso è in grado di creare un reale danno ai creditori. (i) In primo luogo nei confronti dei creditori esistenti: perché questi ultimi non esercitano tutti quei meccanismi privati a tutela del loro credito (come ad esempio gli artt. 1186; 1460 e 1461 c.c.) confidando sulla bontà dell’impresa finanziata; e non richiedono d’altro canto il fallimento tempestivo dell’impresa (con la conseguenza di una lievitazione del passivo e ad un tempo una lesione delle possibilità di recupero dei crediti all’esito dei riparti fallimentari)76. (ii) In secondo luogo nei confronti dei creditori successivi all’erogazione bancaria: perché l’impresa che gode della fiducia del sistema bancario determina agli occhi dei terzi nuovi creditori la falsa apparenza della sua solidità; e in questo modo incentiva i terzi a concludere contratti e concedere credito ad un’impresa decotta, pregiudicando i loro diritti e interessi. B. Ora la figura della concessione abusiva del credito è sanzionata dal nostro ordinamento secondo l’opinione maggioritaria a titolo di responsabilità extracontrattuale77. A seguito dell’introduzione dell’art.

74 Per un’analisi dei diversi casi di finanziamento negligente concesso dalle banche ad un’impresa in crisi v. Di Marzio, Abuso, cit., p. 175 e nt. 38. 75 Per un’analisi dei diversi casi di finanziamento doloso (sia esso diretto o eventuale) concesso dalle banche ad un’impresa in crisi v. Di Marzio, Abuso, cit. p. 172 ss. 76 Sul punto v. Di Marzio, Abuso, cit., p. 51 ss. 77 Questa sembra d’altro canto la tesi prevalente in giurisprudenza: v. ad esempio Cass. sez. un. 28 marzo 2006, n. 7030, in Foro it. 2006, I, 3417; Cass. 9 ottobre 2001, n. 12368, in Foro it., 2002, I, 435; Cass. 8 gennaio 1997, n. 72, in Banca, borsa, tit. cred. 1997, II, 653; e Cass. 13 gennaio 1993, n. 343, in Banca, borsa, tit. cred. 1994, II, 258.

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67 co. 3 lett. d) l.f. ci si potrebbe tuttavia chiedere se la banca che ha erogato credito in esecuzione di un piano di risanamento attestato da un profesionista possa essere chiamata a rispondere in generale per concessione abusiva del credito. E qui generalmente si tende ad escludere questa possibilità per mancanza del dolo e dunque di un elemento soggettivo dell’illecito78. Questa tesi non mi sembra tuttavia condivisibile in assoluto79. Al paragrafo 11 si è infatti visto che una delle principali tappe di un’operazione di risanamento consiste nella conclusione tra banche e impresa in crisi di un accordo di moratoria. Questo accordo può precedere di molto l’arco temporale in cui verrà se del caso concluso: un piano di risanamento e ne verrà attestata la sua fattibilità. Durante questa moratoria le banche continuano però a mantenere in essere le rispettive linee di credito o quantomeno si astengono dal richiedere all’impresa in crisi il rientro dell’esposizione maturando nel mentre gli interessi. Ed in entrambi i casi le banche potrebbero rispondere dell’illecito della concessione abusiva del credito: perché nel primo caso le banche mantengono infatti le loro linee di credito e tengono così in vita un’impresa comunque decotta, mentre nel secondo caso darebbero comunque luogo ad una forma di

78. Sul punto v. ad esempio recentemente Munari, Crisi, cit., p. 313 secondo cui “l’erogazione di nuova finanza nell’ambito di un piano attestato di risanamento ex art. 67, co. 3, lett. d), l.f. o di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.f. osterebbero in linea di principio, ad ipotizzare una concessione abusiva di credito, atteso che entrambi gli istituti presuppongono un dissesto reversibile, asseverato come tale da un professionista indipendente qualificato”. Sul punto però che la concessione abusiva del credito non richieda necessariamente il dolo ma possa esservi anche in caso di semplice colpa v. Di Marzio, Abuso, cit., p. 175. 79. Sul punto v. giustamente le osservazioni di Bonfatti, La promozione, cit., par. 14, secondo cui “la prassi giudiziaria insegna che anche nelle fattispecie portate sino ad ora all’attenzione dei giudici, i piani di ristrutturazione nell’ambito dei quali era assicurata “nuova finanza” dalle banche erano stati giudicati idonei al risanamento da esperti indipendenti (gli advisor): tuttavia nessun serio ostacolo alla configurabilità di una possibile responsabilità per “concessione abusiva di credito” è stato individuato in tale circostanza. Nulla di nuovo accade con la prospettata riforma della legge fallimentare – per come è delineata dal d.l. n. 35/2005. Gli accordi di “ristrutturazione” e di “risanamento” ricevono “protezione” esclusivamente sotto il profilo della esenzione da revocatoria degli atti posti in essere per la loro esecuzione: per il resto, tutto è come prima, e le responsabilità prospettabili nel passato – a vario titolo -, per le operazioni poste in essere nell’ambito dei tentativi di composizione (stragiudiziale) delle situazioni di crisi, rimangono impregiudicate anche per il futuro” [grassetti in originale].

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finanziamento indiretto sostenendo l’impresa e ingenerando nei terzi un’idea di soggetto in bonis80. Per evitare questi problemi oggigiorno le banche sono solite richiedere anche per la stipulazione di una moratoria (e dunque per uno dei primi steps del procedimento) un piano di risanamento attestato da un esperto: con la chiara convinzione tuttavia che questo piano sarà comunque modificato via via a seguito di tutte le tappe necessarie per un turnaround. Ora questa pratica vuole mettere al riparo le banche dai rischi del ricorso alla concessione abusiva del credito sulla base delle medesime considerazioni per cui si ritiene esente da responsabilità la banca che partecipa ad una convenzione sulla base di un piano attestato. Ma anche in questo caso non mi sembra si possa escludere a priori il ricorrere degli estremi della concessione abusiva del credito. Anzitutto un piano di questo genere potrebbe non rientrare nella fattispecie ex art. 67 co. 3 lett. d) l.f.: perché a ben vedere esso non mira al risanamento dell’impresa ma solo alla tutela delle banche. E pertanto una moratoria di questo genere potrebbe (oltre a non coprire le banche dai rischi della concessione abusiva del credito) escludere l’esenzione della revocatoria. Inoltre al paragrafo 11 si è visto che le banche sono solite assumere un ruolo importante (anche se informale) nella negoziazione per un turnaround. Alcune volte questo ruolo può tuttavia travalicare i confini della correttezza e buona fede ex art. 1337 c.c.: così si è visto che ciò avviene solitamente nella scelta del legal advisor; così analogamente in alcuni casi le banche interferiscono nella determinazione da parte del financial advisor del piano di risanamento al punto in alcuni casi marginali di imporre un piano di risanamento dell’impresa. In questi casi se il piano risultasse ex post non idoneo al risanamento ci sarebbe ovviamente un illecito dell’attestatore ma reciprocamente un concorso delle banche nell’inadempimento di quest’ultimo e una loro responsabilità diretta ed esclusiva anche a titolo di concessione abusiva del credito. E resterebbe poi da valutare se le banche potrebbero anche essere chiamate in causa per altre figure di illeciti che ricorrono ogni qualvolta vi sia un’immistione nella gestione dell’attività di impresa81.

80 Galletti, Tecniche e rischi del finanziamento all’impresa in crisi, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, cit., p. 324, secondo cui “dal punto di vista economico anche l’astensione dall’esigere il rimborso corrisponde ad una condotta di «finanziamento»”. 81 D’altro canto una responsabilità della banca per concessione abusiva del credito può essere a fortiori individuata se si condivide la tesi che richiede per l’integrazione di questo illecito il requisito (non solo del dolo, ma anche) della colpa. V. ad esempio

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16. L’interruzione brutale del credito nei risanamenti. A. Altra figura che rientra tipicamente nei comportamenti abusivi delle banche durante l’erogazione del credito è quella del recesso discrezionale patologico che prende il nome di ‘interruzione brutale del credito’82. Anche in questo caso (come nella concessione abusiva del credito) non sussiste un obbligo legale della banca di finanziare un’impresa e più in generale di contrarre ex artt. 2597 e 1679 c.c.. L’ordinamento impone tuttavia ai soggetti di agire con correttezza nell’adempimento delle loro obbligazioni; ed a maggior ragione un comportamento improntato alla correttezza deve essere richiesto ai soggetti come le banche in virtù come visto del loro status professionale. Un recesso della banca anche se previsto contrattualmente potrebbe allora essere considerato abusivo e dunque costituire un illecito contrattuale nei confronti dell’impresa in crisi; potrebbe anche costituire un illecito contrattuale nei confronti delle altre banche che hanno stipulato assieme una convenzione bancaria con l’impresa in crisi per il risanamento di quest’ultima83; e potrebbe d’altro canto avere effetti maggiori rispetto al singolo contratto di finanziamento considerato: perché la revoca degli affidamenti può essere interpretata dagli altri creditori come un segnale negativo sulla situazione dell’im-

Di Marzio, Sulla fattispecie ‘concessione abusiva di credito’, in Banca, borsa, tit. cred. 2009, II, pp. 394-395 secondo cui “l’incentivazione al finanziamento di operazioni di risanamento o liquidazione non implica un qualche favore per il finanziamento della crisi d’impresa” sì che “il limite della protezione legale è dato dalla funzionalità della erogazione alla soluzione della crisi; dipende pertanto dalla ragionevolezza e fattibilità del piano a cui contribuisce la banca con la sua erogazione. Per il sostegno colposo a un programma inidoneo a risolvere la crisi, il quale trasmoda inevitabilmente in un finanziamento della crisi di impresa, non soccorrono ragioni di tutela” [corsivi in originale]. Analogamente v. anche Macario, Insolvenza, cit., p. 52. 82 Con questo termine in realtà si indicano anche altri comportamenti della banca diversi dal semplice recesso: sul punto v. Viscusi, Profili, cit., p. 13, secondo cui il termine interruzione brutale del credito “non sta ad indicare una fattispecie unitaria ma un gruppo” di “fattispecie eterogenee che presuppongono una incongrua, arbitraria e/o intempestiva determinazione di segno negativo della banca circa la concessione, la prosecuzione ovvero l’integrazione del credito”. 83 V. sul punto Galletti, Tecniche e rischi del finanziamento all’impresa in crisi, in Autonomia negoziale e crisi di impresa, cit., p. 323. Questo recesso d’altro canto potrebbe costituire anche un inadempimento della convenzione interbancaria e dunque di quell’atto concluso contestualmente alla stipulazione della convenzione bancaria che ha ad oggetto i rapporti interni tra le banche e la regolazione degli incarichi della banca agente nei suoi rapporti esterni con l’impresa in crisi.

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presa e “dare luogo ad una chiusura generalizzata dei fidi ed innescare una reazione a catena che effettivamente può accelerare o addirittura determinare l’insolvenza dell’impresa”84. Ora queste ipotesi sono già state studiate dalla dottrina. La giurisprudenza ha d’altro canto già da tempo sanzionato in più modi l’ ‘interruzione brutale del credito’ per esercizio del diritto di recesso delle banche85. E le medesime conclusioni raggiunte da dottrina e giurisprudenza possono essere riproposte in generale anche per i turnaround ed in particolare per i recessi effettuati dalle banche ad esempio nelle convenzioni bancarie. B. Analizzando una serie di convenzioni bancarie mi sono tuttavia reso conto che le banche preferiscono regolare lo scioglimento del rapporto contrattuale con l’impresa in crisi sul piano (non del recesso, ma) della risoluzione. Questi accordi prevedono infatti diverse clausole con cui si regola la loro eventuale risoluzione: e precisamente vi sono anzitutto clausole volte a disciplinare l’inadempimento in generale; inoltre clausole risolutive espresse; e infine condizioni risolutive di inadempimento. Tutte queste clausole sono orientate ad ammettere lo scioglimento del rapporto (non in base ad uno ius variandi della banca, ma) a causa dell’inadempimento. E tutto ciò forse è dato dalla presa d’atto delle banche di una giurisprudenza tendenzialmente incline a sanzionare recessi abusivi; e ad un tempo da un tentativo di rimettere lo scioglimento dei contratti bancari (non ad un diritto meramente potestativo delle banche, ma) ad un diritto esercitato a seguito di un inadempimento dell’impresa in crisi. Ora questa prassi non mi sembra possa escludere l’applicazione dei ragionamenti in tema di interruzione brutale del credito anche all’ipotesi in cui la risoluzione venga richiesta con modalità analoghe a quelle sanzionate nei recessi arbitrari. E resta da dire che questa modalità di determinare la risoluzione del rapporto contrattuale tra banche e imprese in crisi solleva altre questioni civilistiche. Qui non mi riferisco in particolare alle clausole volte a disciplinare l’inadempimento in generale ex artt. 1453 c.c. ss.: perché rimandando alla disciplina generale codicistica queste sono chiaramente da considerarsi clausole di stile ed inserite ad

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Così v. Capolino, Rapporti, cit., p. 879. Sul punto rimando alla giurisprudenza citata da Della Casa, Il recesso arbitrario tra principi e rimedi, in Riv. dir. priv., 2012, p. 13, nt. 1. 85

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abundantiam86. Mi riferisco anzitutto alle clausole risolutive espresse e alle condizioni risolutive. Cominciamo con le clausole risolutive espresse. (i) Queste clausole non presentano problemi nella loro formulazione in cui specificano in maniera puntuale e circoscritta l’obbligazione che in caso di inadempimento porterà alla risoluzione del contratto: in questi casi la clausola è infatti perfettamente compatibile con lo schema previsto dall’art. 1456 c.c. secondo cui “i contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta second o le modalità prescritte”. (ii) Discorso diverso deve invece essere fatto per le clausole risolutive secondo cui ad esempio “la convenzione bancaria si intenderà risolta qualora a) la società Z si renda inadempiente nei confronti delle Banche e per loro tramite della Banca Agente del pagamento di qualsiasi somma convenuta per effetto di questa convenzione […] e b) si renda inadempiente degli ulteriori obblighi previsti dai covenant bond agli articoli 5, 6 e 7”87. Qui mi sembra che queste clausole siano da considerare inefficaci o radicalmente nulle. (iii) Qui la prima parte della clausola risolutiva fa riferimento (non puntuale, ma) generico alle obbligazioni spettanti all’impresa in crisi: perché riferendosi a qualsiasi “somma non pagata” non specifica se si riferisca alle somme

86 Clausole di questo genere ad esempio possono prevedere che “le banche avranno facoltà di risolvere la convenzione bancaria secondo le modalità previste dall’art. 1454 del c.c. a fronte di qualsivoglia inadempimento nei propri confronti da parte dell’impresa” Y “a qualunque obbligazione prevista nel presente accordo e dai contratti relativi alle linee di credito a revoca, all’ammontare consolidato o ai nuovi anticipi import”. Clausole di questo genere possono inoltre ad esempio prevedere che “salvo e impregiudicato ogni altro rimedio spettante alle banche ai sensi di legge, la Banca Agente, su istruzione della maggioranza delle banche, avrà facoltà di risolvere la presente convenzione nei confronti dell’impresa” X “ai sensi degli articoli 1453, 1454 e 1455 del codice civile qualora uno degli obblighi dell’impresa” X “non sia adempiuto, e, qualora sanabile, non sia stato sanato entro il termine indicato nella diffida ad adempiere (che non potrà essere inferiore a 30 giorni) ovvero nel caso di risoluzione ai sensi dell’art. 1353 c.c. entro 30 giorni successivi alla prima tra (i) la data in cui le banche ne hanno dato comunicazione scritta all’impresa” X “e (ii) la data in cui l’impresa” X “è effettivamente venuta a conoscenza di tale inadempimento”. 87 In generale sui covenants bond v. recentemente Piepoli, Profili civilistici dei covenants, in Banca, borsa, tit. cred. 2009, I, p. 500, secondo cui “l’articolato universo dei covenants mira a tutelare l’interesse del finanziatore in ordine ad una corretta gestione dell’impresa debitrice, vincolandola a mantenere la propria solvibilità e a non compiere atti che la possano pregiudicare”.

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relative al riscadenziamento del debito; alle somme dovute a titolo di interessi; alle somme dovute a titolo di rimborso spese legali e finanziarie sostenute dalle banche per la predisposizione della convenzione che normalmente vengono messe a carico dell’impresa in crisi; etc.. (iv) Analogamente alla medesima soluzione si arriva per la seconda parte della clausola. Questa clausola rimanda infatti alle obbligazioni previste nei c.d. covenants bond attraverso cui l’impresa in crisi garantisce al ceto bancario ad esempio che “conserverà tutti i propri beni nello svolgimento della propria attività in normale stato di manutenzione”88; informerà “le banche di qualsiasi evento rilevante”; osserverà “ogni disposizione di legge e amministrativa”89; etc.90. La formulazione di questi covenants bond appare allora (non analitica, ma) talmente generica da ricomprendere di fatto ogni aspetto della vita dell’impresa ed ogni sua attività in grado anche solo semplicemente di non essere condivisa dalle banche. E questa formulazione ad ombrello e omnicomprensiva dei covenants esclude che il riferimento al loro inadempimento abbia carattere deter-

88 Così altri esempi di covenants bond di questo genere normalmente inseriti nelle convenzioni bancarie possono prevedere ad esempio l’obbligo di “mantenere pienamente valide ed efficaci tutte le autorizzazioni ed approvazioni, licenze, consensi ed esenzioni richieste dalla legge al fine di consentire lo svolgimento regolare della propria attività”; o diversamente “mantenere la validità, efficacia ed opponibilità a terzi dei propri diritti inclusi, a titolo esemplificativo, i contratti, le concessioni, gli appalti, i consensi e gli altri diritti che sono necessari per lo svolgimento della relativa attività e per adempiere le obbligazioni ad essa facenti capo”. 89 Altre volte i covenants bond (la cui violazione comporterebbe la risoluzione del contratto) possono prevedere impegni che esulano l’esecuzione della convenzione con le banche e che rimandano ad impegni ad esempio dell’impresa in crisi “ad osservare ogni legge e normativa che possa riguardare i propri beni o proprietà ovvero l’attività svolta”. Ed a fortiori per questi covenants bond sono proponibili le considerazioni espresse nel testo che come vedremo escludono in caso di loro inadempimento la risoluzione di diritto ex art. 1456 c.c.. 90 Così altri esempi di covenants bond di questo genere normalmente inseriti nelle convenzioni bancarie possono prevedere obblighi dell’impresa in crisi “ad informare tempestivamente le banche del verificarsi di scostamenti non marginali dei presupposti di operatività finanziari ed industriali alla base del piano di risanamento”; o ancora “ad informare tempestivamente le banche di qualsiasi richiesta, rivendicazione o azione avanzata o intentata da terzi in relazione a qualsiasi dei beni, diritti o crediti propri, nonché qualsivoglia vincolo pregiudizievole”; o infine “ad informare tempestivamente le banche di ogni azione giurisdizionale o arbitrale, intentata o minacciata da terzi in relazione all’accordo e/o ad ogni altro atto o contratto ad esso collegato e a qualsiasi dei propri beni, diritti o crediti, ivi compresi, ogni richiesta, rivendicazione, azione e ispezione”.

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minato come richiesto per le clausole risolutive. (v) In questo quadro allora simili clausole risolutive come quelle qui analizzate e frequenti nelle convenzioni bancarie non corrispondono allo schema dell’art. 1456 c.c.. Esse allora sono qualificabili come clausole di stile e dunque inefficaci tra impresa in crisi e banche91. E conseguentemente una risoluzione della convenzione da parte delle banche sulla base delle clausole risolutive così come formulate sarebbe illecita e darebbe luogo ad una loro responsabilità per abusiva interruzione del rapporto contrattuale con l’impresa in crisi. Forse il rischio di inefficacia delle clausole ora esaminate induce le banche a richiedere che le convenzioni bancarie siano sottoposte anche a condizione risolutive unilaterali (azionabili solo dalle banche) ponendo come fatti condizionanti i medesimi fatti/inadempimenti a loro volta individuati dalle clausole risolutive. In questo caso non vi sarebbe un problema di illiceità nella misura in cui qua queste condizioni risolutive prevedono come fatto condizionante l’inadempimento di una delle parti: perché questa possibilità viene oggigiorno da dottrina e giurisprudenza ritenuta ammissibile92. Ma queste condizioni risolutive danno luogo ad un problema di illiceità quando riprendono come fatti condizionanti i medesimi inadempimenti dei covenant bond cui rimandano le clausole risolutive. Anzitutto secondo un’opinione dottrinale la condizione risolutiva avente come fatto condizionante un inadempimento è a tutti gli effetti equivalente alla clausola risolutiva espressa: e in questo caso in

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Sul punto in dottrina v. ex multis Sacco, Il contratto, a cura di Sacco, De Nova, in Tratt. civ., Utet, Torino, 2004, p. 657 secondo cui “la clausola deve contenere riferimenti specifici alle obbligazioni la cui violazione produrrà la risoluzione. Se estesa a tutte le obbligazioni poste dal contratto a carico di una parte, genericamente indicate, non è valida” e “si intende come clausola di stile, e si ha per non apposta”. In giurisprudenza v. ex multis Cass. 26 luglio 2002, n. 11055, in Giust. civ. mass., 2002, 1364 secondo cui “per la configurabilità della clausola risolutiva espressa, le parti devono aver previsto la risoluzione di diritto del contratto per effetto dell’inadempimento di una o più obbligazioni specificamente determinate, costituendo clausola di stile quella redatta con generico riferimento alla violazione di tutte le obbligazioni contenute nel contratto, con la conseguenza che, in tale ultimo caso, l’inadempimento non risolve di diritto il contratto”. 92 In dottrina per citare le monografie v. ad esempio Amadio, La condizione di

inadempimento. Contributo alla teoria del negozio condizionato, Padova, 1997, passim; Lenzi, Condizione, autonomia privata e funzione di autotutela. L’adempimento dedotto in condizione, Milano, 1996, passim. In giurisprudenza v. recentemente ad esempio Cass. 30 aprile 2012, n. 6634.

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via estensiva o analogica si possono riproporre i medesimi limiti previsti dall’art. 1456 c.c. che come abbiamo visto portano a ritenere questo modo di determinare la risoluzione delle convenzioni bancarie contra ius93. Inoltre anche nell’ipotesi in cui si ritenessero non applicabili alle condizione risolutive qui studiate i limiti previsti dall’art. 1456 c.c. rimarrebbe comunque il limite dell’art. 1455 c.c. secondo cui “il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza”: questa regola è volta a dare una stabilità ai rapporti contrattuali94; essa può essere derogata solo nei limiti dell’art. 1456 c.c.; ricorrere allo strumento della condizione risolutiva per aggirare questi limiti urta con l’art. 1455 c.c. in parte qua si determina la risoluzione del contratto all’inadempimento di qualsivoglia covenant bond; e ne determina la nullità di questa clausola ex art. 1418 c.c.. Qui poi le esigenze di stabilità del contratto ex art. 1455 c.c. sono ancora maggiori se non si considera equivalente la condizione risolutiva alla clausola risolutiva espressa: perché gli effetti della risoluzione allora dovrebbero operare non solo tra le parti, ma anche nei confronti dei terzi95. A fortiori allora una clausola

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Sul punto v. quanto correttamente evidenziato da Costanza, La condizione e gli altri elementi accidentali, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, in Trattato dei contratti, diretto da Rescigno e Gabrielli, Torino, 1999, II, p. 936, secondo cui non sono convincenti i dubbi in ordine alla produzione di effetti risolutivi nei confronti dei terzi visto che la clausola che prevede una condizione risolutiva ha comunque un efficacia “equivalente al patto previsto e disciplinato nell’art. 1456 c.c.”. 94 D’altro canto “la risoluzione del contratto, sebbene diretta ad impedire le alterazioni funzionali del sinallagma contrattuale, rappresenta un evento economicamente negativo, perché paralizza la circolazione della ricchezza che il contratto è diretto a produrre” (così v. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento. Artt. 1453 e 1459, in Il codice civile commentato, fondato da Schlesinger, e diretto da Busnelli, Milano, 2007, p. 541). Pertanto giustamente Roppo, Il contratto, in Tratt. dir. priv., a cura di Iudica, Zatti, Milano, 2001, p. 961, ha osservato che l’art. 1455 c.c. “si spiega anche come prevenzione di comportamenti pretestuosi, suscettibili di dissolvere il valore del vincolo contrattuale: senza la regola, la parte pentita dal contratto potrebbe prendere a pretesto qualunque trascurabile inesattezza della prestazione di controparte (nulla è mai perfetto!) per svincolarsene con la risoluzione. Di fatto, avrebbe ingresso un generalizzato potere di recesso unilaterale. In questa prospettiva, è giusto vedere alla base dell’art. 1455 anche il principio di buona fede contrattuale” [corsivi in originale]. 95 Sul punto v. ancora Costanza, La condizione, cit., p. 936 ss.. D’altro canto le convenzioni bancarie sono concluse sulla base di un piano di risanamento attestato ex art. 67 co. 3 lett. d) l.f.; mirano così a beneficiare degli effetti dell’esenzione dalle azioni revocatorie; si inseriscono pertanto in una legislazione “volta ad offrire” agli “operatori economici una maggiore stabilità giuridica degli atti compiuti in una situazione di crisi imprenditoriale” (così v. Gabrielli, Accordi, cit., p. 285); e urterebbero con questa

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di questo genere potrebbe allora essere considerata nulla. E di conseguenza uno scioglimento della banca del contratto sulla base di queste ultime abusivo ed idoneo a determinare una responsabilità contrattuale nei confronti dell’impresa in crisi. Tommaso Maria Ubertazzi

funzione in parte qua attribuissero alle banche un potere di risolvere il contratto di fatto arbitrariamente per il tramite dell’utilizzo di queste clausole risolutive espresse e condizioni risolutive.

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Regolamentazione dei rating e delle credit rating agencies: una voce fuori dal coro Sommario: 1. Introduzione. – 2. I problemi riscontrati. 3. – Alcuni fatti rilevanti. 4. − Un fallimento di mercato ma anche – e sopra a tutto – un fallimento regolamentare. 5. − Come si è intervenuti per disciplinare i rating e le credit rating agencies. 6. − Un intervento normativo contraddittorio. 7. − La regolamentazione del fenomeno economico. 8. − I limiti degli interventi normativi. 9. − Quale futuro per la finanza dei rating?

1. Introduzione. Il tema delle agenzie di rating e della riforma della disciplina che le riguarda, è assai dibattuto nella dottrina internazionale1 e più di recente

1.

Per la letteratura straniera, si v., ex multis: Hill, Regulating the Rating Agencies, in Washington University Law Quarterly, 2004, pp. 82, 43 ss., consultabile al seguente link: http/ssrn.com/abstract=452022; Partnoy, The Siskel and Ebert of Financial Markets: Two Thumbs Down for the Credit Rating Agencies, Washington University Law Quarterly, Vol 77, pp. 619-712, 1999. Disponibile anche al seguente link: http://ssrn.com/abstract=167412; Dittrich, The Credit Rating Industry: Competition and Regulation, June 4, 2007, disponibile anche al seguente link: http://ssrn.com/abstract=991821; Hill, Why Did Rating Agencies Do Such a Bad Job Rating Subprime Securities? (March 1, 2010), University of Pittsburgh Law Review, Forthcoming; Minnesota Legal Studies, Research Paper 10-18. Disponibile anche al seguente link: http://ssrn.com/abstract=1582539; Coffee Jr. Rating Reform: The Good, The Bad and the Ugly, in Harvard Business Law, 2011, p. 231 ss.; Bottini, An Examination of the Current Statuts of Rating Agencies and Proposals for Limited Oversight of Such Agencies, in San Diego Law Review, 1993, p. 582 ss.; Levich, Majnoni e Reinhart, Ratings, Rating Agencies, and the Global Financial System, Amsterdam, 2002; Partnoy, The Paradox of Credit Ratings, University of San Diego Law & Economics Research Paper No. 20, 2001; consultabile in http://ssrn.com/abstract=285162; Id, How and Why Credit Rating Agencies are Not Like Other Gatekeepers, in Financial Gatekeepers: Can They Protect Investors?, a cura di Fuchita e Litan, Washington DC, 2006;

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anche in Italia2. In generale per poter svolgere un’analisi di dettaglio sulla disciplina delle agenzie di rating, occorre partire da alcuni concetti di base, non sempre del tutto chiari a chi di rating si occupa dal punto di vista normativo e giuridico3. In estrema sintesi possiamo dire che le agenzie di rating sono soggetti specializzati nell’elaborazione di un particolare indicatore, il rating appunto, rappresentativo del rischio di default di un certo emittente o di una certa emissione. Il rating riflette il rischio di credito specifico di un emittente o emissione, non comprende valutazioni di rischio di mercato, quali ad esempio il rischio di liquidità e si basa tendenzialmente su due

White, Good Intentions Gone Awry: A Policy Analysis of the SEC’s Regulation for the Bond Rating Industry, NYU Working Paper n. EC-05-16, 2005, consultabile in http://ssrn.com/ abstract=1282540. 2. Per la letteratura italiana si segnalano gli scritti, tra gli altri, di: Enriques e Garagantini, Regolazione dei mercati finanziari, rating e regolazione del rating, in Banca, impresa, soc., 2010, pp. 475 ss.; Ferri e Lacitignola, Concorrenza e Agenzie di Rating: il dibattito economico, in AGE, n. 2, 2012, p. 299; Presti, Le agenzie di rating: dalla protezione alla regolazione, in Atti del convegno di Courmayeur del 26-27 settembre 2008, I nuovi equilibri mondiali: imprese, banche, risparmiatori, Milano, 2009, pp. 75 ss.; Parmeggiani, I problemi regolatori del rating e la via europea alla loro soluzione, in Banca, impresa, soc., 2010, pp. 459 ss.; Parmeggiani, La regolazione delle agenzie di rating tra tentativi incompiuti e prospettive future, in Giur. comm., 2010, I, pp. 121 ss.; Presti, Take the <<AAA>>> train: note introduttive sul rating, in AGE, n. 2, 2012, p. 251; Facci, Le agenzie di rating e la responsabilità per informazioni inesatte, in Contr. e impr., 2008, pp. 167 ss.; Olivieri, I servizi di rating tra concorrenza e regolazione, in AGE, n. 2, 2012, p. 283; Parmeggiani, Quale rating assegnare alle nuove regole sulle agenzie di rating?, in Nuove leggi civ., n. 1, 2012, pp. 45 e ss. ; Lener e Rescigno, Agenzie di rating e conflitti di interresse: sintomi e cure, in AGE, n. 2, 2012, p. 353; Lamandini, Credit Rating Agencies (CRAs) and European Regulation, in European Company Law, 2009, 6, p. 131 ss.; Ferri e Lacitrignola, Le agenzie di rating, Bologna, 2009; Vella, Il Rating alla ricerca di una terza via, in AGE, n. 2, 2012, p. 323; Picardi, Il rating fra crisi e riforma dei mercati finanziari, in Riv. dir. civ., 2009, pp. 713 ss.; Sego e Gobbo, Rating, Mercato e Regolatori. Reliance e over-reliance sulle agenzie di rating, in AGE, n. 2, 2012, p. 335; Mancinelli, L’assegnazione di rating da parte delle agenzie: significato, implicazioni e principali aspetti critici, in Banc., 2005, pp. 56 ss.; Granata, Rating e conflitti di interesse, alla ricerca di soluzioni, in AGE, n. 2, 2012, p. 357; Perassi, Verso una vigilanza europea. La supervisione sulle agenzie di rating, in AGE, n. 2, 2012, p. 407; Massera, CRAs: problems and perspectives, in AGE, n. 2, 2012, p 425; Sacco Ginevri, Le società di rating nel regolamento CE n. 1060/2009: profili organizzativi dell’attività, in Nuove leggi civ., 2010, pp. 291 ss.; Presti, Take, cit, p. 251; 3. Cfr. la Relazione di De Laurentis, Miti e Verità delle performace predittive e delle metodologie dei rating di agenzia, relazione al Convegno internazionale di Salerno sulle Rating Agencies, svoltosi l’8 e 9 Novembre 2012.

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elementi: la probabilità di default (probability of default) e la perdita attesa in caso di default (loss given default). Le diverse agenzie di rating combinano variamente questi due parametri, a seconda delle tipologie di emittenti o strumenti finanziari oggetto di rating4. L’indicatore rating, che risulta semplice, diretto e di immediata percezione, si presta ad essere ampiamente utilizzato nel mercato quale surrogato sintetico di un giudizio di affidamento e di merito di credito che sarebbe altrimenti assai complesso e costoso formulare. I sostenitori dell’importanza e dell’utilità dei rating, con i quali si può concordare, sottolineano come i rating rispondano ad una fondamentale esigenza di semplificazione cognitiva in quanto traducono in sigla un complesso giudizio statistico, probabilistico e prospettico sul merito di credito di un emittente o emissione; in virtù di tale funzione di semplificazione, i rating continueranno, quindi, ad avere un proprio mercato e raison d’etre. I rating poi sono giudizi distribuiti gratuitamente al pubblico e facilmente accessibili dagli operatori. Ora, in un mercato finanziario che ha progressivamente affiancato e, in molti casi, definitivamente sostituito il sistema bancario nella valorizzazione del rischio di default e del merito di credito di titoli ed emittenti, il rating rappresenta un elemento informativo di ausilio al mercato che svolge oggi l’importante funzione economica di valorizzazione del rischio di default e del merito di credito appunto in forma diffusa. Pertanto, se da un lato i rating sono importanti ed utili, dall’altro, la recente crisi finanziaria ha evidenziato diverse problematiche che riguardano: (i) le metodologie di elaborazione degli stessi, (ii) le dinamiche conflittuali nell’ambito delle quali questi giudizi vengono elaborati e (iii)

4. Si veda Hunt, Credit Rating Agencies and the ‘Worldwide Credit Crisis’: The Limits of Reputation, the Insufficiency of Reform, and a Proposal for Improvement, (September 5, 2008), in Columbia Business Law Review, Vol. 2009, No. 1., p. 36, disponibile al seguente link: http://ssrn.com/abstract=1267625, nel quale l’autore sostiene che le “rating agencies describe their ratings as intended to reflect only credit Risk and not risks arising from other factors such as liquidity. Credit risk is conventionally thought of as having two components: probability of default (.PD.) and expected loss in the event of default (.loss given default. or .LGD.). Ratings combine PD and LGD in different ways across product types and from agency to agency. Apparently, Moody’s ratings on traditional products are intended to reflect PD and not LGD, while its ratings on structured finance products reflect both PD and LGD. Fitch’s ratings apparently are just the opposite: traditionalproduct ratings reflect PD and LGD,167 while structured-finance ratings reflect PD only. It appears that S&P’s ratings reflect PD only in both cases”.

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le difficoltà derivanti dal modello di business con il quale le agenzie operano, tali da mettere in discussione il ruolo ed il valore stesso dei giudizi di rating.

2. I problemi riscontrati. In generale, dopo una prima ondata di critiche mosse contro le agenzie di rating nel 2004 in occasione degli scandali che seguirono il collasso di Enron e WorldCom5, i quali avevano altresì condotto gli USA ad una serie di interventi legislativi per rafforzare il sistema delle agenzie di rating, seguiti da iniziative di miglioramento via codici di autodisciplina, più di recente, i rating sono tornati agli onori della cronaca per avere di sicuro contribuito a determinare ed aggravare la crisi finanziaria, avendo sistematicamente sottostimato il rischio di default di emittenti ed emissioni6, contribuendo per tale via alla inarrestabile creazione distribuzione di titoli spazzatura nei portafogli di ignari investitori di mezzo mondo. Difatti, è opinione condivisa che i problemi evidenziatisi nell’elaborazione dei rating e le carenze riscontrate nella gestione delle agenzie di rating abbiano contribuito in maniera determinante all’accumulo di rischio sistemico, sfociato poi nella crisi del 2008. La crisi è stata sicuramente aggravata dalla progressiva inflazione dei rating che venivano attribuiti in maniera eccessivamente generosa a titoli che, successivamente, si rivelavano essere ‘tossici’ per chi li deteneva in portafoglio (c.d. titoli spazzatura); le agenzie di rating, inoltre, nella valutazione e nell’elaborazione dei rating, sistematicamente sottostimavano significative correlazioni tra i rischi di default dei diversi strumenti finanziari ed emittenti, commettendo dei veri e propri errori nel calcolo del rischio e della probabilità di default. Nel caso della finanza strutturata, inoltre, gli stretti rapporti tra emittenti ed agenzie di rating hanno implicitamente comportato la comunicazione dei modelli di valutazione che, uniti ad una più o meno esplicita

5.

Enron e WorldCom godevano, infatti, di rating investment grade poco prima dell’emergere dei relativi stati di crisi. 6. Si vedano i risultati del recente studio di Hau, Langfield, Marquez Ilbanez, Bank Ratings What Determines Their Quality, ECB, Working Paper Series, n. 1484 ottobre 2012, disponibile al seguente link: http://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1484.pdf

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attività di consulenza sulle emissioni, hanno determinato una progressiva inflazione dei rating delle emissioni che venivano effettuate alla luce dei modelli di valutazione stessi. Si verificava, pertanto, una prestazione di servizi in virtuale conflitto di interessi poiché le agenzie di rating, che avrebbero dovuto operare in maniera disinteressata e indipendente, agivano tramite la consulenza, in ausilio agli strutturatori, per garantire ottimi rating alle emissioni: questi rating generosi erano necessari per poter ‘piazzare’ questi titoli sintetici presso gli investitori. Di più, nell’era finanziaria appena conclusasi, si verificava frequentemente addirittura una concorrenza di interessi, più che un conflitto, tale da facilitare il descritto fenomeno di inflazione dei rating: in altri termini, con specifico riferimento alle operazioni di finanza strutturata, gli emittenti erano alla ricerca di sistemi per ottenere rating più alti possibili sulle cartolarizzazioni e sui titoli sintetici che venivano creati per essere rivenduti; il sistema bancario, ansioso di percepire le generose commissioni di collocamento, premeva altresì per rating generosi; persino gli investitori, desiderosi di prodotti ad alto rating che garantissero ritorni interessanti, concorrevano ad alimentare il mercato dei rating benevoli. Anche l’impianto normativo aveva contribuito in maniera significativa all’aggravarsi della situazione, attribuendo progressivamente ai rating effetti regolamentari e normativi, facendo dipendere ex lege rilevanti conseguenze a seconda del rating dell’emissione. Così facendo tuttavia, i rating sono stati elevati a requisiti regolamentari e le agenzie di rating sono venute ad assumere un ruolo di c.d. gatekeepers, ossia soggetti che esercitano un potere di certificazione delle emissioni e degli emittenti a cui la legge ha attribuito rilevanza. Così basterà citare le conseguenze determinanti che la c.d. disciplina di Basilea 2 attribuisce ai rating dei titoli presenti nel capitale bancario, ai fini della determinazione del capitale di vigilanza. Si pensi ulteriormente all’inclusione dei rating nella direttiva sui c.d. eligible assets detenibili dai fondi comuni armonizzati, oltre che ai riferimenti contenuti nell’articolo 100, t.u.f. ed i riferimenti contenuti nella l. 130/1999 sulle cartolarizzazioni. I riferimenti normativi e regolamentari ai rating hanno determinato la creazione di un mercato artificiale di licenze regolamentari contribuendo a inflazionare ulteriormente i rating stessi. La combinazione di tutti questi elementi di carenza sia della disciplina regolamentare sia del sistema di elaborazione dei credit rating, aggravati da un eccessivo affidamento riposto dagli operatori di mercato nei rating stessi, in un periodo ulteriormente caratterizzato dalla c.d. esuberanza irrazionale (irrational exuberance), cioè caratterizzato dalla sistematica sottovalutazione del rischio implicito di tutti gli strumenti fi-

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nanziari, ha certamente concorso ad aggravare la crisi sistemica che dal 2008 ad oggi imperversa nei mercati finanziari7. I rating scontano poi elementi di debolezza che derivano dalle metodologie utilizzate per la loro stessa elaborazione. Ad esempio, i rating dipendono da modelli di valutazione adottati e come noto, i modelli sono sempre esposti al c.d. model risk, ossia il rischio che il modello non tenga conto di tutte le possibili implicazioni o correlazioni esistenti, che il modello sia, in parole povere, sbagliato oppure che il modello stesso sia basato su certe assumptions che non sempre risultano verificate. Al riguardo, si è parlato di imperfezione statistica, riferendosi alla sistematica sottovalutazione della correlazione dei default nel settore dei mutui. Inoltre i rating, in quanto giudizi sintetici, semplificano e riassumono molteplici valutazioni inerenti ad un emittente o emissione. I rating sono poi sistematicamente approssimati, in quanto riducono e standardizzano secondo classi omogenee il rischio di credito di un emittente o emissione. Pertanto, le classi di rating sono standardizzate e le agenzie di rating immettono ipso facto ciascun emittente o emissione entro una data categoria, proprio a causa della metodologia di approssimazione dei risultati che sono forniti secondo classi standardizzate (AAA, AA-, etc.), all’interno delle quali vengono ricondotti emittenti in condizioni, per definizione, differenti che vengono però giudicate omogenee. In aggiunta, i giudizi di rating, sono elaborati secondo periodicità prestabilite e non rispecchiano pertanto, per così dire ‘in continua’, una valutazione sul merito di credito di un particolare emittente o emissione. Al riguardo, si parla di imperfezione dinamica. Sta di fatto che le agenzie di rating, per non far constatare l’eccessiva volatilità dei propri giudizi, evitano accuratamente di intervenire sugli stessi con frequenza diversa da quella prestabilita: così facendo tuttavia, i rating rimangono relativamente statici e non riescono ad incorporare in automatico, i più recenti sviluppi che riguardino un emittente. I rating scontano ulteriormente tutte le difficoltà legate alle valutazioni prospettiche che si proiettano nel futuro, analoghe ai c.d. forward

7. Si veda Taub, Enablers of Exuberance: Legal Acts and Omissions that Facilitated the Global Financial Crisis (September 4, 2009). Il paper può essere letto al seguente link: http://ssrn.com/abstract=1472190. Si veda anche: Levitin e Wachter, Explaining the Housing Bubble, (April 12, 2012), in Georgetown Law Journal, Vol. 100, No. 4, pp. 11771258, University of Pennsylvania Institute for Law & Economics Research Paper No. 10-15; Georgetown Public Law Research Paper No. 10-60; Georgetown Law and Economics Research Paper No. 10-16. disponibile al seguente link: http://ssrn.com/abstract=1669401.

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looking statements degli emittenti8. I rating, infatti, essendo valutazioni probabilistiche riguardanti eventi futuri, si prestano a non essere mai verificabili. In altri termini, ex post, qualsiasi sia stato il rating assegnato, un emittente sarà o meno incorso nel default rispetto ai propri obblighi mentre ogni valutazione percentuale probabilistica perderà qualsiasi significato. Sarà quindi possibile unicamente valutare se complessivamente gli emittenti di una data classe di rating sono andati in default più o meno di quelli delle altre classi di rating, più o meno cioè, di quanto fosse prevedibile in base alla classe di rating loro assegnata. Dalla valutazione ex post, sarà possibile solo una verifica sulla correttezza della graduazione della classe di rating come tale mentre le valutazioni aventi ad oggetto il singolo emittente non avranno molto senso. Difatti, il conferimento di un rating non corrisponde all’applicazione di una formula matematica, e coinvolge giudizi di merito sull’emittente, sulle sue prospettive, sull’assetto concorrenziale del mercato di riferimento tali da non essere facilmente replicabili o verificabili. I rating sono poi valutazioni di rischio c.d. ‘ordinali’ e non ‘cardinali’ nel senso che strumenti finanziari con un rating migliore dovrebbero andare in default con minore frequenza di strumenti finanziari con un rating peggiore; essi hanno perciò valore relativo9, sicchè uno specifico rating non dovrebbe essere indicativo direttamente di una specifica probabilità di default o della perdita attesa da un investimento. Difatti, come spiegato supra, i rating non tengono conto di variabili sistemiche che influenzano enormemente la probabilità di default di un emittente

8. Per inciso si osserva che negli USA per favorire la diffusione dei c.d. forward looking statements, che altrimenti sarebbero stati evitati a causa del rischio di contenzioso, si è introdotto un c.d. Safe Harbour, ossia una esenzione da responsabilità civile per gli statement fatti in certe condizioni. Si veda tra gli altri: Rosen, The Statutory Safe Harbour for Forward Looking Statements after two and half yeards: ha sit changed the law? Has it Achieved What Congress Intended?, in Washington University Law Quarterly, 1998, p. 645 ss. Si veda pure: Miller, Gregory S. and Piotroski, Forward-looking Earnings Statements: Determinants and Market Response ( July 2000). Disponibile al seguente link: http://ssrn. com/abstract=238593. 9. Si veda Hunt, Credit, cit., p. 38, dove l’autore spiega come “the agencies stress that their ratings are at least primarily ordinal, rather than cardinal. In other words, highly rated instruments are supposed to default less frequently than lower rated instruments, but a given rating is not supposed to reflect any specific probability of default or level of expected loss. Agencies explain this by noting that overall default rates and losses and thus defaults and losses within each rating class are determined to some extent by economic cycles and not by the differences in the issue or issuer credit quality that ratings are intended to assess”.

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o emissione: in caso di crisi finanziarie di rilevanti proporzioni, come quella in corso ormai da diversi anni, elementi come crisi di liquidità o simili possono determinare un aumento rilevante del numero di default a prescindere dalle classi di rating di assegnazione. In altri termini, questi elementi esogeni, possono alterare in maniera considerevole ogni proiezione fatta dalle agenzie in termini di probabilità di default o perdita attesa. Inoltre i rating hanno anche dimostrato di non essere immuni dagli onnipresenti conflitti d’interesse e problemi di agency, sia derivanti dal molto criticato modello di business – issuer pay – diffuso e prevalente nel mercato, in base al quale sono proprio gli emittenti a pagare per ottenere il giudizio di rating sulle emissioni, sia causati dalla particolare configurazione dell’industria del rating, un oligopolio pressoché impenetrabile consolidatosi nel tempo. I rating poi, nel corso degli anni, sono progressivamente diventati una panacea per molti problemi riscontrati in finanza. Più nel dettaglio, molte attività bancarie e finanziarie impongono al banchiere e al gestore di verificare la qualità degli strumenti finanziari che acquista o sottoscrive oltre che degli emittenti cui concede credito. Queste valutazioni discrezionali dei soggetti privati, ma anche di soggetti pubblici che vengono, ad esempio, chiamati ad interpretare regole sulla gestione dei rischi, sono assai difficili e fonte di rischio per il soggetto che le deve svolgere. Poter fare riferimento quindi a giudizi gratuiti, esterni, emessi da soggetti che abbiamo una buona reputazione, consente a questi soggetti di scaricare sull’agenzia di rating la responsabilità di avere svolto una verifica sul merito di credito di un certo strumento finanziario o emittente. In realtà, se gli intermediari fanno riferimento al rating per andare esenti da responsabilità per avere selezionato per i loro clienti ‘titoli spazzatura’, se le vigilanze di mezzo mondo fanno riferimento ai rating per valutare la solidità degli investimenti del capitale di vigilanza, se il mercato fa affidamento su rating elaborati da soggetti che operano in conflitto di interesse e rendono giudizi in sostanziale regime di irresponsabilità, il mercato, gli operatori e persino la vigilanza hanno trovato, sostanzialmente un espediente per arginare la responsabilità per le proprie azioni, espediente che mette tuttavia a repentaglio il corretto funzionamento e l’esistenza stessa del mercato. Il sistema dei rating, infatti, non doveva servire a deresponsabilizzare il sistema finanziario, al contrario, i rating dovevano servire da ausilio al sistema finanziario nell’espletamento delle funzioni proprie di questo.

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3. Alcuni fatti rilevanti. Per meglio comprendere il contesto nel quale ci si muove è necessario ricordare alcuni fatti rilevanti sul mercato dei credit rating e delle agenzie. In primis, occorre ricordare che siamo di fronte ad un mercato oligopolistico molto concentrato. Come noto sono infatti tre le principali agenzie di rating (di seguito anche “CRA”) operanti a livello mondiale, ossia Standard and Poors, Moodys e Fitch. Delle circa 79 CRA operanti, le tre citate, controllano circa il 95% dell’intero volume d’affari, con quote, rispettive del 40% per Standard and Poors, del 40% Moodys e del 15% Fitch10. Le tre rating agencies hanno imponenti operations a livello mondiale ma rimangono prevalentemente controllate da soggetti USA. Così, nel bilancio di Standard & Poors (S&P) del 2011 si legge che S&P emette circa 1.2 milioni di rating occupando stabilmente oltre 1400 analisti finanziari in 23 paesi11. Il ramo rating di S&P ha concluso l’anno, si legge in bilancio, facendo registrare ‘stellar operating margins’ del 41%, con un incremento del 4% del fatturato. I rating services di S&P possono vantare una crescita media del 12% negli anni dal 1994 al 2011 (revenue CAGR)12. Difficile identificare la quota di fatturato del colosso americano di competenza della sola divisione rating, in ogni caso S&P ha un fatturato complessivo che supera i $ 6.2 miliardi di dollari. Per quanto riguarda Moody’s è altrettanto complesso identificare la quota di fatturato di pertinenza esclusiva della rating operation. Moody’s ha incassato nel 2011 oltre $ 2,2 miliardi di dollari, come S&P anch’essa in netta crescita rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda la sorella minore, Fitch Group di cui Fitch Rating rappresenta una divisione, i dati relativi all’anno 2010 confermano incassi per oltre $ 657 milioni di dollari in crescita del 7,8% rispetto all’anno precedente. Fitch Rating, che

10. Si veda Olivieri, I servizi, cit., p. 284; si veda anche Neumann, The Wall Street Journal: Call to Downsize Giants of Rating, 8/10/2011; in tale articolo si specifica che nel 2011: “of the over 2.8 million rating issued collectively by the ten Nationally Recognized Statistical Rating Organizations (NRSROs) designated and monitored by the SEC: S&P (1,190,500 rating, or 42.2%), Moody’s (1,039,187 rating, or 36.9%), Fitch (505,024 rating, or 17.9%)”. 11. Si veda il bilancio per l’anno 2011 di S&P, p. 5, disponibile al seguente link: http:// www.mcgraw-hill.com/about/annual_report/ar2011.pdf. 12 Si veda nuovamente il bilancio 2011 di S&P, cit., p. 6.

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impiega oltre 2000 analisti, risulta essere controllata da Fimalac SA (società Francese quotata Eurnonext) e dalla Hearst Corporation un colosso americano dell’informazione13. Alla luce di quanto sopra risulta evidente come le divisioni rating delle CRA sono fonti di rendite finanziarie di tutto rispetto: infatti le agenzie di rating gestiscono ed erogano rating creando un indotto business multi miliardario, prevalentemente operando dagli USA. Anzi, per meglio sfruttare la capacità di produzione di revenues, per diversificare la produzione delle stesse creando nuove linee di business che possano essere sviluppate di pari passo con il core business ancora rappresentato dalla produzione dei rating, questa viene di norma affiancata da operations attive anche nel campo dei media come notoriamente fanno S&P e Fitch, ovvero note per le pubblicazioni finanziarie, la consulenza, il calcolo degli indici, etc. Si fa leva qui chiaramente sulla reputazione e visibilità acquisita nel campo dell’elaborazione dei credit rating, per espandersi in altre aree di mercato contigue, come quella dell’elaborazione degli indici, dei media, etc. A quanto detto si devono aggiungere un paio di considerazioni che hanno a che vedere con l’evoluzione dei servizi di rating. In primo luogo, si deve sottolineare come sia emerso il problema dei credit rating soprattutto con rifermento alle operazioni di finanza strutturata. Infatti, se da un lato vi sono stati alcuni casi eclatanti di rating ottimistici dati pochi giorni prima dell’emergere del dissesto di emittenti anche molto famosi come Enron, Wolrdcom, Lehman Brothers, etc., a ben vedere questi eclatanti default, apparentemente non corrispondenti rispetto alla classe di credito assegnata, oltre a restare casi relativamente isolati, non dimostrano e non sono indice di per sé di un cattivo funzionamento delle metodologie di rating né dei processi seguiti. Difatti, il fallimento inatteso di un emittente cui viene assegnato un buon rating, è un evento ben possibile del quale si tiene conto nel rating stesso, che assegnando una certa classe di rischio, ossia una certa probabilità di default, contempla il rischio di default stesso e lo misura. Nel campo della finanza strutturata è emersa invece l’esistenza di una sistematica deviazione dei

13. Hearst Corporation, risulta essere una delle maggiori media information company. Il sito della stessa descrive l’attività della società come “one of the nation’s largest diversified media and information companies. Its major interests include magazine, newspaper and business publishing, cable networks, television and radio broadcasting, Internet businesses, TV production and distribution, newspaper features distribution, business information and real estate”: cfr. http://www.hearst.com/.

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rating verso l’alto, che ha certamente concorso ad aggravare la situazione di crisi, contribuendo, in un mercato già euforico (che tipicamente tende a sottostimare i rischi assunti per inseguire rendimenti maggiori) alla diffusione di titoli rischiosi ma con ottimo rating, collegati ed incorporanti rischi connessi ai mutui sub-prime. Questi rischi sono stati quindi, anche grazie ad ottimi ma immeritati rating, riallocati negli ignari portafogli di mezzo mondo. Infine, occorre brevemente ricordare come anche l’industria dei rating abbia subito una rilevante evoluzione negli ultimi anni. Nate infatti alla fine dell’ottocento, le rating agencies hanno lentamente aumentato la loro rilevanza quali players del mercato finanziario grazie alla reputazione accumulata per i giudizi seri e severi rilasciati sul merito di credito degli emittenti. La reputazione acquistata in questi primi decenni di attività, la fama di serietà di indipendenza di giudizio e professionalità, hanno fruttato alle rating agencies più note una rendita di posizione ineguagliabile. Le rating agencies vivono di questa rendita di posizione che funge anche da barriera all’ingresso per i concorrenti potenziali. Se quanto detto trova conferma nella situazione del mercato dei rating sugli emittenti azionari ed obbligazionari, nel campo dei rating al servizio della finanza strutturata, invece, le due sorelle Moody’s e S&P avevano recentemente dovuto subire la concorrenza di Fitch Rating che in pochi anni si era fatta strada proprio operando in questo settore dove l’innovazione finanziaria opera con maggiore vigore. Proprio i prodotti sintetici frutto dell’innovazione finanziaria avevano infatti creato un nuovo mercato per le rating agencies, creandosi i presupposti per l’emersione di una rating agency nuova specializzata. L’emergere di Fitch Rating quale competitor delle due sorelle maggiori, ha determinato secondo alcuni autori, una sorta di ‘raise to the bottom’ ossia, per incontrare il favore degli ‘strutturatori’ di prodotti cartolarizzati sintetici, le agenzie di rating hanno a detta di molti, inflazionato i propri giudizi per aumentare l’appetibilità dei propri servizi di rating. Anche il modello di business delle agenzie di rating è significativamente evoluto negli ultimi quaranta anni: infatti, mentre prima degli anni settanta quando la SEC ha creato le NRSRO14, le agenzie di rating si sostentavano facendo pagare agli investitori i corrispettivi per la sottoscrizione al servizio di rating, non facendo invece pagare corrispettivi agli emittenti per prestare il servizio di rating, successivamente è stato abbandonato il modello di servizio ci-

14.

La sigla sta per Nationally Recognized Statistical Rating Organizations (NRSRO).

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tato, virando verso l’assai più remunerativo servizio agli emittenti basato sul modello issuer pay15. Ultimo elemento che mette conto sottolineare è il fatto che progressivamente si è andata affermando la tendenza da parte delle rating agencies di non verificare i fatti e i dati forniti dall’emittente nel corso dell’istruttoria relativa alla procedura16. I dati forniti e le informazioni rese vengono sostanzialmente presi per buoni e solo in rari casi vengono richieste informazioni aggiuntive. Di conseguenza, da un lato, si viene a limitare la responsabilità delle agenzie che non sono tenute e non fanno una due diligence sui dati forniti dagli emittenti e dall’altro si è ridotto grandemente il contenuto informativo dei rating stessi. Per di più come si dirà nel prosieguo, negli USA è stato addirittura vietato agli emittenti di fornire informazioni privilegiate alle rating agencies, che dovranno basare i propri giudizi esclusivamente sulle informazioni disponibili al pubblico17.

4. Un fallimento di mercato ma anche – e sopra a tutto – un fallimento regolamentare. Si è anticipato come rating inflazionati e troppo generosi, rilasciati in situazioni di conflitto di interesse, abbiano contribuito in maniera significativa ad aggravare la crisi finanziaria che tuttora imperversa nei mercati dopo anni dal suo originale manifestarsi. Il fenomeno dei rating inflazionati, è stato particolarmente acuto nelle operazioni di finanza strutturata, laddove migliaia di miliardi di controvalore di mutui subprime venivano re-impacchettati in strutture sviluppate ad hoc, che emettevano vari titoli di debito con maggiore e minore seniority assisti, in particolare per quanto concerne le tranche con maggiore seniority, da rating assai lusinghieri e spesso eccessivamente benevoli. Quando a causa del repentino aumento dei tassi innescato dalla FED nei primi mesi del 2007, i soggetti finanziati hanno iniziato ad andare in

15. Si veda tra gli altri, Partnoy, How and Why Credit Rating Agencies are Not Like Other Gatekeepers, Legal Studies Research Paper Series, N. 07/46, May 2006, disponibile al seguente link: http://usdrinc.com/downloads/Credit-Rating-Agencies.pdf. Si veda anche COFFEE, Rating, cit., p. 30 16 Si veda Coffee, Rating, cit., p. 16. 17 Cfr. infra sub paragrafo 9.

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default, anche le varie tranches delle cartolarizzazioni hanno iniziato a perdere rapidamente valore: persino quelle che per seniority e rating non dovevano assolutamente essere influenzate dai default dei mutui sottostanti incominciarono rapidamente a deprezzarsi. I rating troppo benevoli sono stati in realtà solo un elemento che ha aggravato la situazione. Le cause della crisi sono da rintracciare anche e soprattutto in un sistema, quello americano, in cui il facile accesso al credito viene coniugato con tecniche all’avanguardia per la segmentazione e redistribuzione dei rischi assunti dal sistema per garantire che a ogni aspirante proprietario immobiliare venga erogato un mutuo a prescindere da considerazioni sul merito di credito del soggetto, o sulla capacità di ripagare i prestiti concessi, basandosi unicamente sulla garanzia reale acquisita. Un simile sistema non poteva che finire per accumulare rischi enormi e ingestibili dal sistema finanziario, che pure ha cercato fino all’ultimo di smontarli per redistribuirli cercando così, un po’ come un enorme sistema digerente, di smaltirli in qualche misura. L’operazione d’ingegneria finanziaria con la quale gli operatori potevano trasformare mutui subprime, così detti ‘low documentation’ o ‘no documentation’18 – ossia mutui erogati in presenza di pochissima documentazione ovvero in assenza di qualsivoglia istruttoria e documentazione – in strumenti finanziari privilegiati con rating elevati (tripla A, senior notes) era poi talmente remunerativa da costituire di per sé stessa un incentivo formidabile alla produzione su scala industriale di questi titoli di debito che, in pratica, hanno trasferito negli ignari portafogli di mezzo mondo, fette considerevoli di un sogno americano, una bella casa per tutti19, che per il resto del mondo sarebbe diventato un incubo. Le agenzie di rating hanno di sicuro contribuito in modo determinante a questo trasferimento di rischio con i loro giudizi professionali apparentemente neutri e disinteressati, concorrendo ad ingenerare un’ingannevole percezione di assenza di rischio nelle controparti di mercato che acquistavano questi titoli di debito a tripla A per ritrovarsi titoli spazzatura che in pochi mesi o addirittura nei primissimi giorni della crisi, persero d’un colpo tutto il loro presunto valore.

18

Anche detti “liars loans”, ossia mutui ai bugiardi. Si veda Coffee, Rating, cit., p. 12. Anche per i così detti clienti NINJA ossia No Income, No Job, No Assets. Khandani, Lo, Merton, Systemic Risk and the Refinancing Ratchet Effect, p. 17, MIT Sloan School Working Paper, n. 4750-09, disponibile al seguente link: http://dspace.mit.edu/bitstream/ handle/1721.1/66263/SSRN-id1472892.pdf?sequence=1. 19

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E’ anche chiaro a chi scrive come in molti casi, la percezione dell’assenza di rischio sia stata in larga parte da attribuire alla scarsa attenzione con la quale venivano effettuati gli investimenti in titoli rivenienti da tranching di cartolarizzazioni di mutui subprime. In altri termini, è verosimile che tutti coloro che acquistarono i titoli in esame, vengano oggi a raccontare che agirono all’epoca, basandosi sui rating anziché sulla due diligence necessaria che ogni compratore deve fare sui beni o sugli strumenti finanziari che acquista. Avrebbero dovuto, invece, in base al principio caveat emptor, scegliere con maggiore attenzione i propri investimenti, senza pretendere di esternalizzare il controllo sugli emittenti e sugli strumenti acquistati, pretendendo di basarsi solo ed esclusivamente su giudizi, sia pure professionali, di soggetti terzi, le CRA appunto20. Tanto più che i credit rating, non sono dei giudizi di merito sulla bontà di un investimento, ma rappresentano invece una valutazione sintetica sulla probabilità di default dell’emittente o dello strumento finanziario in un dato arco di tempo: insomma il credit rating di un emittente è solo una delle tante informazioni che debbono essere usate da un coscienzioso investitore nella scelta degli impieghi del proprio portafoglio. Chi scelse titoli spazzatura per i propri investitori e per il proprio portafoglio, lo fece invece, con ogni probabilità, perché questi titoli garantivano, almeno sulla carta, rendimenti molto più interessanti rispetto ad investimenti comparabili, senza esporre a rischi eccessivi gli investitori, che si ritenevano garantiti a sufficienza dalle garanzie reali sugli immobili. La crisi finanziaria coi suoi impatti sulle valorizzazioni degli immobili, fece invece venire meno, oltre al rimborso dei mutui, anche il valore della garanzia reale con le conseguenze per gli investitori che si sono potute constatare. Certo è anche che tali operazioni erano in certo senso rating driven, nel senso che non sarebbero state possibili e non si sarebbero concluse in assenza di rating generosi21. Ma vi è di più. Le agenzie di rating, che hanno da sempre rilasciato rating sulle emissioni dei titoli di debito degli stati sovrani, hanno negli

20. Si veda Hunt, Credit, cit., p. 37 che spiega come “although credit risk is an important part of an investor’s decision whether to buy a fixed-income security, it is not the only consideration. Other key elements include the security’s market price and the investor’s risk preferences. Major-agency ratings do not take these considerations into account and accordingly the agencies stress that their ratings are not recommendations to buy or not to buy particular securities”. 21 Cfr Hill, Why, cit., 2004.

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ultimi anni, ritenuto di rilevare un aumentato rischio d’insolvenza di certi paesi tra cui, come noto, l’Italia. I ripetuti abbassamenti di rating, i ‘downgrade’ dei titoli emessi dai governi sovrani, hanno determinato importanti effetti sui tassi che i vari paesi sono costretti a riconoscere agli investitori che finanziano nel debito pubblico nazionale. Il problema richiama un po’ – si consenta il parallelo – quello dell’uovo e della gallina. Non si capisce in altri termini se paesi come Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, etc. debbano pagare più interessi a causa dell’abbassamento del rating dello stato come emittente, oppure se i maggiori interessi siano in realtà dovuti a causa del deteriorarsi delle condizioni economiche nazionali che effettivamente avevano danneggiato l’economia dei paesi in esame, con probabili effetti sulla solvibilità del paese stesso. In altri termini non si capisce se sia tutta colpa delle agenzie di rating che effettuano il downgrade o se invece la colpa sia piuttosto dei governi che, incapaci di procedere su strade difficili, lasciano precipitare i paesi in gravi crisi economiche. In ogni caso i repentini downgrade effettuati a carico degli stati sovrani, hanno avuto la caratteristica comune, di innescare feroci reazioni contro le agenzie di rating, esasperando il dibattito sulle riforme aventi ad oggetto le agenzie di rating stesse. Così ad esempio, il downgrade del debito USA effettuato da S&P nell’agosto 2011 è stato seguito in rapida successione dalle dimissioni del Presidente di S&P Deven Sharma22. Se pregiudicare gli interessi patrimoniali degli investitori certamente merita una reazione regolamentare da parte di chi amministra la cosa pubblica, avere anche solo messo in discussione la credibilità di manovre finanziarie, di politici più o meno lungimiranti, la solvibilità di paesi, la stabilità di valute come l’Euro e persino l’esistenza della stessa Unione Europea oltre che degli USA, ha decisamente stizzito il mondo politico su entrambe le sponde dell’atlantico, un mondo, quello politico, che sembra ora aver giurato la classica “vendetta tremenda vendetta” di Ver-

22.

Si veda tra gli altri: Halah Touryalai, Deven Shrma, Is Out As President Of S&P, Citi Exec Is In., Forbes, Aug 22, 2011. Nell’articolo si legge come: “just weeks after Standard & Poor’s downgraded the credit of the U.S. the rating agency announced that its president of four years is stepping down. The McGraw Hill Companies announced that Deven Sharma, 55, will step down next month and will be replaced by Citigroup COO Douglas Peterson. Sharma will take on a special assignment working on the company’s strategic portfolio review until the end of the year when he will leave the company to pursue other opportunities, the firm said”.

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diana memoria23 alle agenzie di rating24. Se infatti la tutela dell’investitore molto spesso genera manovre di ri-regolamentazione di natura – purtroppo – sostanzialmente cosmetica, l’aver attaccato gli stati sovrani ed il mondo politico rischia di scatenare contro le agenzie di rating una vera e propria guerra senza confini. Recentemente, di fatti, l’amministrazione Obama ad esempio, a mezzo del Department of Justice (DOJ), ha chiesto formalmente alla Standard & Poors, un risarcimento multi miliardario per avere contribuito all’aggravarsi della crisi finanziaria costata così cara ai contribuenti americani (e non solo). Nell’atto di citazione ‘complaint’25 si chiedono oltre cinque miliardi di dollari in danni26. Poche ore dopo che il DOJ aveva depositato il suo atto di citazione, ben 13 Stati degli USA si sono affrettati a depositare simili richieste di danni agendo a nome di fondi pensione pubblici per ulteriori 7,5 miliardi di dollari27. La crisi in cui sono precipitati i mercati all’indomani dell’esplosione della bolla speculativa che ha coinvolto il settore immobiliare USA ed il

23 Sia consentito: il Rigoletto, Opera in tre atti di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratta dal dramma di Victor Hugo Le Roi s’amuse (“Il re si diverte”). 24 Si veda: Coffee, Rating, cit., p. 55. 25 Il testo completo dell’atto di citazione, ossia il ‘complaint’, è disponibile al seguente link: http://ftalphaville.ft.com/files/2013/02/SP_US.pdf. 26 Si veda: Valsania e Plateroti, Obama chiede cinque miliardi di danni a Standard & Poors, in Il sole 24 ore, del 5 febbraio 2013, disponibile al seguente link: http:// www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2013-02-05/governo-chiede-miliardidanni-175142.shtml?uuid=Ab9ulVRH. 27 Cfr. Valsania, Rating viziati, causa anche da 13 stati Usa: S&P rischia un conto di 10 miliardi di $, in Il Sole 24 Ore del 7 Febbraio 2013, nel quale si legge che “la causa civile intentata dal governo federale è stata infatti accompagnata da separati ricorsi da parte di 13 stati. E la California da sola chiede danni per 4 miliardi a nome dei suoi fondi pensione pubblici: il fondo pensione degli insegnanti locali, infatti, ha perso un miliardo dal tracollo di titoli che vantavano un elevato rating di S&P e la legge statale consente di chiedere oltre ai risarcimenti un danno pari al triplo della perdita originale. La California non è sola nello sfoderare richieste di pagamenti ingenti. Colorado e Arkansas hanno avanzato la richiesta che S&P restituisca comunque le entrate che ha incassato dai rating di centinaia di titoli effettuati prima dello scoppio della crisi. Le stime di quanto la società abbia rastrellato da simili attività sui derivati dei mutui, stando al Congresso americano, è di circa 2,3 miliardi per il periodo compreso tra il 2002 e il 2007. Il numero totale degli stati in causa contro S&P è inoltre di 16: Connecticut, Illinois e Mississippi avevano già presentato ricorsi nel 2010 tuttora aperti. S&P ha respinto ogni accusa, affermando di non aver mai compromesso l’integrità dei suoi rating per ragioni commerciali … la causa intentata dal Dipartimento della Giustizia ha già provocato un calo del 24% nelle azioni di McGraw-Hill in Borsa. Solo i cinque miliardi ipotizzati dalle autorità federali rappresentano … gli ultimi sette anni di profitti per la McGraw-Hill”.

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settore dei mutui, con tutto l’indotto di securitization28 e dei derivati basati sugli indici ed indicatori coinvolti, giustifica di sicuro un intervento normativo di riforma da parte del legislatore. Ma quale regolamentazione sarebbe appropriata e necessaria nei confronti delle agenzie di rating e come sarebbe opportuno disciplinare il fenomeno dei rating? In linea teorica sarebbe assai importante partire dal dover essere cartesiano, per poi paragonarlo con l’essere, cioè, individuato quello che potrebbe essere l’intervento regolamentare ideale, si deve raffrontare questo elemento valutando le modalità con le quali si è invece praticamente intervenuti per introdurre una disciplina dei rating e delle CRA. In realtà nei prossimi paragrafi si procederà all’inverso, ossia, prima si ripercorrerà in estrema sintesi cronologica la sequenza di interventi normativi ed i contenuti della disciplina introdotta, per poi valutare, alla luce di considerazioni economiche e di public policy, quale avrebbe potuto essere la struttura di una riforma regolamentare, per così dire meno pervasiva di quella concretamente introdotta e che sarebbe stata forse raccomandabile, nell’ottica di ben tarare gli interventi normativi alle necessità manifestatesi.

5. Come si è intervenuti per disciplinare i rating e le CRAs. Come ormai tristemente accade in modo sistematico, l’UE dimostra scarsa attitudine creativa e anche la disciplina delle CRA e dei rating, proviene dagli USA29. In questo caso, dato che le rating agencies sono nate negli USA e là si sono diffuse, forse non deve stupire che i primi interventi di ri-regolamentazione provengano proprio dalla patria della finanza strutturata. Tuttavia continua a sorprendere lo scrivente, il modo in cui nell’UE, ormai in maniera sistematica si finisca in buona sostanza con l’importare dagli USA la disciplina della finanza. È pur vero che la disciplina europea sulle rating agencies non rappresenta la trasposizio-

28

Cioè il mondo delle asset backed securities (ABS), collateralized debt obbligations (CDO), mortgage backed securities (MBS) etc. 29 In larga parte le novità introdotte in materia finanziaria sono il risultato di una sostanziale trasposizione nell’ordinamento comunitario di disposizioni adottate negli USA di identico contenuto. Questa modalità legislativa è stata già ampiamente criticata dallo scrivente in altri lavori cui sia consentito rinviare: si veda Scalcione, La nuova disciplina dei derivati OTC - un prodotto di importazione, in La crisi dei mercati finanziari: analisi e prospettive, I, a cura di Vittorio Santoro, Milano, 2012, pp. 407-485.

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ne letterale di quella Americana e che quest’ultima non è stata ripresa in toto: la disciplina USA infatti è stata declinata secondo l’impostazione europea ed è stata ricondotta nelle competenze delle autorità dell’UE. Restano affermati e recepiti tuttavia i principi fondanti di quella disciplina il cui contenuto è stato in larga parte trasposto in atti legislativi dell’UE. Non si censura di certo il fatto che le normative emergenti dall’intervento regolamentare siano state rese coerenti a livello internazionale. La cooperazione internazionale è di fondamentale importanza in campo finanziario, anche perché, in mancanza, si lascerebbero pericolosi spazi di arbitraggio regolamentare tra le normative dei vari paesi30. Tuttavia la cooperazione, non deve essere confusa con il coordinamento internazionale ossia lo sforzo teso a fare in modo che, anche a livello internazionale, si adottino policy simili a quelle implementate negli USA. Al riguardo la legislazione americana è esplicita e nel DFA si danno deleghe specifiche affinché venga coordinata a livello internazionale l’adozioni di policy simili a quelle USA31. Mentre quindi nell’UE si è tenuto conto della normativa USA, viceversa, a quanto consta, negli USA non sono stati tenuti in nessun conto i progressi fatti nell’UE sull’argomento: si è deciso invece di procedere per primi, contando solo in seguito, sull’armonizzazione del resto dei paesi rilevanti rispetto ai principi ed alle regole già implementate negli Stati Uniti32. Il profilo diacronico dell’adozione delle norme in materia risulta evidente dal raffronto sotto svolto: in ogni caso quanto sopra trova immediato riscontro negli stessi 2° e 3° considerando al Regolamento 462/2013 dove vengono citati gli atti normativi e le dichiarazioni d’impegno che costituiscono la base di

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Sulla necessità del coordinamento internazionale in materia, si veda tra gli altri: CESR’s response to the consultation document of the Commission services on a draft proposal for a Directive/Regulation on Credit Rating Agencies, Ref.: CESR/08-671, reperibile al seguente link: http://www.esma.europa.eu/system/files/08_671_final.pdf. 31 Allo scopo lo stesso DFA, conferisce espressa delega al Presidente ed a tutte le agenzie governative. Così si legge nell’atto normativo che: “the President, may coordinate through all available international policy channels, similar policies as those found in United States law relating to limiting the scope, nature, size, scale, concentration, and interconnectedness of financial companies, in order to protect financial stability and the global economy”. Cfr. il DFA, sezione 117 intitolata all’International Policy Coordination. 32 In altri scritti, si è già avuto modo di criticare, questo modo di intendere la collaborazione internazionale: sia consentito cfr., Scalcione, The Derivatives Revolution, A Trapped Innovation and a Blueprint for Regulatory Reform, 2011, p. 319 e 371.

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questo ultimo intervento normativo tutti successivi rispetto al DFA oltre che ai lavori preparatori dello stesso33.

Negli USA. Già nel 2006 il parlamento USA (Congress) aveva approvato un’importante riforma legislativa il c.d. Credit Rating Agency Reform Act. L’Act dava mandato alla SEC di dettare regole e linee guida che le agenzie di rating avrebbero dovuto seguire per essere riconosciute quali Nationally Recognized Statistical Rating Organizations (NRSROs). L’Act dava anche mandato alla SEC di imporre regole in materia di registrazioni contabili e record keeping, conflitti di interesse, etc., mentre le metodologie di rating erano state considerate espressamente non disciplinabili. Con l’adozione del Dodd Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act avvenuta il 21 luglio 2010, la legislazione federale in fatto di rating agencies e di rating si è spinta molto oltre. Infatti con il Dodd Frank Act (di seguito anche “DFA”) si è ulteriormente potenziato il ruolo della SEC quale autorità competente e si sono aggiunte moltissime disposizioni immediatamente esecutive, che prescindono da implementazione della SEC, in diverse materie. Al riguardo, si è imboccata con decisione la via della rimozione di ogni riferimento ai rating nella normativa primaria e

33 Si citano al riguardo “La risoluzione del Parlamento europeo dell’8 giugno 2011 sulle agenzie di rating del credito: prospettive future chiedeva che le agenzie di rating del credito fossero regolamentate in maniera più rigorosa. Alla sua riunione informale del 30 settembre e 1° ottobre 2010, il Consiglio Ecofin ha riconosciuto la necessità di compiere ulteriori sforzi per affrontare una serie di questioni inerenti alle attività di rating del credito, compresi i rischi di un eccessivo affidamento ai rating del credito e di conflitti di interesse derivanti dal modello di remunerazione delle agenzie di rating del credito. Nelle conclusioni del 23 ottobre 2011, il Consiglio europeo ha sostenuto che è necessario compiere progressi nella riduzione dell’eccessivo affidamento ai rating del credito. (3) A livello internazionale, il 20 ottobre 2010 il Consiglio per la stabilità finanziaria (FSB), di cui la Banca centrale europea (BCE) è membro, ha approvato dei principi volti a ridurre l’affidamento delle autorità e degli enti finanziari ai rating del credito («principi dell’FSB»). I principi dell’FSB sono stati avallati dal vertice del G20 di Seoul del novembre 2010. È pertanto opportuno che le autorità settoriali competenti valutino le prassi degli operatori del mercato e incoraggino questi ultimi ad attenuare l’impatto di tali pratiche. Le autorità settoriali competenti dovrebbero decidere le misure di incentivo”: è di assoluta evidenza come tutti gli atti richiamati dal legislatore Comunitario siano successivi all’adozione negli USA del DFA e corrispondano e siano conseguenza degli sforzi di lobby USA sull’UE e sugli altri paesi del G20 e sotto l’egida del FSB.

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secondaria. Per rimuovere il valore regolamentare assegnato ai rating da diverse discipline, l’Act dispone direttamente la rimozione dei riferimenti al rating investment grade da normative federali quali il Federal Deposit Insurance Act, e l’Investment Company Act del 1940: i riferimenti ai rating vengono sostituiti con generici riferimenti a adottandi “standards of creditworhines”34. Inoltre con il DFA, che alla riforma delle rating agencies dedica un’intera sezione35, si richiede che la SEC adotti una coerente disciplina in materia di reporting sui controlli interni delle agenzie, regole sulla gestione dei conflitti di interesse, regole in materia di tecniche di marketing e vendita, sanzioni, trasparenza, trasparenza sulle performances e statistiche, trasparenza sulle metodologie, sulle assumptions sottostanti i ratings rilasciati, due diligence di terze parti, tipologia di training degli analisti finanziari, etc. La SEC, quindi, in attuazione delle deleghe ricevute, ha provveduto ad adottare diversi provvedimenti normativi ed ha pubblicato diversi studi assai interessanti, la disamina dei quali, tuttavia, porterebbe questo scritto assai oltre il seminato36.

Nell’Unione Europea. Nell’UE, oltre che nei singoli stati membri, le rating agencies sono rimaste non regolamentate fino al 2009. Anzi molto recentemente, cioè nel 2006, la Commissione, in atti ufficiali, riaffermava come rimanesse indimostrata la necessità di regolamentare l’attività delle rating agencies37

34. Si veda il DFA laddove si precisa ad esempio alla Sezione 939 quanto segue: “Removal of Statutory References To Credit Ratings … Federal Deposit Insurance Act.—The Federal Deposit Insurance Act … is amended … by striking ‘‘credit rating entities, and other private economic’’ and insert ‘‘private economic, credit’’, by striking ‘‘Not Of Investment Grade’’; by striking ‘‘not of investment grade’’ and inserting ‘‘that does not meet standards of credit-worthiness as established by the Corporation’’. Si veda PARMEGGIANI e SACCO GINEVRI, Quale rating assegnare alle nuove regole sulle agenzie di rating, in Nuove leggi civ., 2012, n. 1, p. 45. 35 Si veda l’intero Subtitle C, del DFA dedicato agli Improvements to the Regulation of Credit Rating Agencies sezioni 931 – 940, disponibile al seguente link: http://www.sec. gov/about/laws/wallstreetreform-cpa.pdf. 36. Le disposizioni innovative dettate dalla SEC in attuazione delle deleghe del DFA, alla pagina dedicata nel sito della SEC: si veda http://www.sec.gov/spotlight/dodd-frank/ creditratingagencies.shtml. 37. Così si legge come: “Su richiesta del Parlamento europeo, la Commissione ha esaminato accuratamente se fosse o meno necessario prevedere nuove proposte legislative al

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vista anche l’esistenza di diverse direttive comunitarie come la direttiva sugli abusi di mercato e la MIFID, destinate a trovare parziale applicazione ed idonee, unitamente all’autoregolamentazione, a disciplinare in parte la materia. Con l’emergere della crisi finanziaria del 2008 (che aveva iniziato a manifestarsi già nell’estate del 2007) è stato invece subito chiaro come si dovesse – in realtà urgentemente – provvedere a disciplinare l’attività delle rating agencies, per cercare di porre rimedio alle carenze riscontrate. Pertanto, con netta inversione di tendenza, nel 2009 si è adottato un primo Regolamento n. 1060/2009, successivamente modificato dal Regolamento n. 513/2011 integrato poi dal Regolamento Delegato n. 272/2012. Questi primissimi provvedimenti normativi sono stati poi integrati con numerosi altri provvedimenti successivi38. Infine, il 16 Gennaio 2013 è stato adottato un ulteriore rilevante provvedimento normativo, cioè la Risoluzione del Parlamento Europeo prodromica rispetto all’adozione poi avvenuta il 21 Maggio 2013 del Regolamento n. 462/2013 di modifica del citato Regolamento n. 1060/2009, che risulta reperibile on line39.

fine di regolamentare le attività delle agenzie di rating. La sua conclusione è che attualmente non è necessaria alcuna nuova iniziativa legislativa. Uno dei principi fondamentali di cui alla comunicazione «Migliore regolamentazione» è che il ricorso alle soluzioni legislative debba avvenire solo quando tali soluzioni siano strettamente necessarie per il conseguimento di obiettivi politici generali. La Commissione è convinta che l’utilità di una nuova iniziativa legislativa in questo settore sia ancora da dimostrare. Nel settore dei servizi finanziari, ci sono già tre nuove direttive che si applicano alle agenzie di rating. La Commissione è convinta che queste direttive — associate all’autoregolamentazione che le agenzie svilupperanno sulla base del nuovo codice della IOSCO — forniranno una risposta a tutte le principali questioni a proposito delle quali il Parlamento europeo haespresso preoccupazione.” Cfr. Comunicazione della Commissione sulle agenzie di rating del credito (2006/C 59/02), disponibile al seguente link: http://eur-lex.europa.eu/ LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2006:059:0002:0002:IT:pdf. 38. Si fa riferimento ai Regolamenti delegati UE n. 446, 447, 448 e 449/2012, che incidono rispettivamente sulla disciplina del contenuto e sul formato dei rapporti periodici sui dati di rating che le agenzie devono presentare all’ESMA; sulla valutazione della conformità delle metodologie di rating; sulla presentazione delle informazioni che le agenzie di rating del credito mettono a disposizione presso il registro centrale istituito dall’ESMA; e sulle informazioni per la registrazione e la certificazione delle agenzie di rating del credito. 39. Si fa riferimento al Regolamento approvato il 21 maggio 2013 n. 462/2013, disponibile al seguente link: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:201 3:146:0001:0033:IT:PDF. Il testo del Regolamento sostanzialmente ricalca quello della Risoluzione del Parlamento Europeo del16 gennaio 2013 us, European Parliament legi-

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Con questi provvedimenti normativi le rating agencies sono adesso soggette a stringenti obblighi di registrazione ed autorizzazione, sono sottoposte alla diretta vigilanza dell’ESMA e sono sottoposte a moltissime regole di dettaglio. La legislazione introdotta quindi ha sottoposto le agenzie di rating ad una miriade di regole la cui analisi di dettaglio riempirebbe diverse pagine. In questa sede basterà richiamare oltre al citato obbligo di registrazione, gli obblighi di indipendenza, le regole per la gestione dei conflitti di interesse, le regole relative agli analisti ed alle persone coinvolte nell’emissione dei rating (ivi incluse regole per la rotazione degli analisti), sulle metodologie per il calcolo degli stessi rating, i modelli impiegati, i sistemi di stoccaggio in database dei rating emessi, meccanismi di remunerazione dei soggetti coinvolti nell’emissione dei rating, regole di trasparenza anche relativamente ai modelli e alle metodologie, trasparenza in caso di modifiche coinvolgenti i modelli di valutazione, periodicità dei rating, trasparenza rispetto alle modalità di comunicazione dei rating e molte altre ancora. Vengono altresì affrontati, specie con il più recente provvedimento, il Regolamento del Maggio 2013, gli altri temi rimasti in sospeso ossia gli aspetti inerenti al rischio di eccessivo affidamento ai rating da parte dei partecipanti ai mercati finanziari, all’elevato grado di concentrazione nel mercato del rating, alla responsabilità civile delle agenzie di rating nei confronti degli investitori40, ai conflitti d'interesse derivanti dal modello “issuer-pays” (pagamento da parte dell’emittente) e alla struttura azionaria delle agenzie di rating. Inoltre, anche le peculiarità dei rating sovrani, manifestatesi nel corso dell’attuale crisi del debito sovrano, vengono direttamente affrontate in maniera specifica nel quadro del più recente Regolamento sulle agenzie di rating del credito.

slative resolution of 16 January 2013 on the proposal for a regulation of the European Parliament and of the Council amending Regulation (EC) No 1060/2009 on creditrating agencies (COM(2011)0747 – C7-0420/2011 – 2011/0361(COD)), disponibile al seguente link: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=TA&language=EN&referenc e=P7-TA-2013-12. 40. Sul tema della responsabilità civile delle CRA si veda tra gli altri: Perrone, Le agenzie di rating, in La Società per Azioni Oggi, Atti del convengo internazionale di studi di Venezia, 10 Novembre 2006, in Riv. soc., 2007, p. 1023 ss.; Ponzanelli, Quando sono responsabili le agenzie di rating, in AGE, n. 2, 2012, p. 441; Prospetti, La possibile responsabilità civile delle società di rating: alcune riflessioni in chiave economica, in AGE, n. 2, 2012, p. 455; Benedettelli, La responsabilità civile delle agenzie di rating tra conflitti di leggi e conflitti di giurisdizioni, in AGE, n. 2, 2012, p. 475.

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6. Un intervento normativo contraddittorio. La percezione quindi dell’interprete delle regole, è quella che sia stato scatenato, contro le credit rating agencies, l’intero arsenale delle regole a suo tempo elaborate per disciplinare questioni simili e materie analoghe, impiegate in campi contigui (ad esempio la disciplina dei revisori – la rotazione) o per disciplinare operatori finanziari attivi nella prestazione dei servizi di investimento (ad esempio le procedure per la gestione dei conflitti di interesse), etc. Così sono state utilizzate le regole comuni per la gestione dei conflitti di interesse, per la soluzione di problemi di agency, la disciplina degli assetti proprietari, di governance, la rotazione delle agenzie e degli analisti etc. Eppure, nonostante la molteplicità di regole introdotte permane il sospetto che tutta questa disciplina, introdotta d’un fiato, resti in realtà basata su un’antinomia di base, una contraddizione in termini che mina alla radice la struttura dell’intervento regolamentare. Difatti, la filosofia di questo intervento normativo sta in questo: posto che i rating altro non sono che valutazioni relative al merito di credito di un emittente od emissione, rese da un soggetto terzo ed indipendente ed a cui il mercato attribuisce una certa autorevolezza, da un lato si cerca di ridurre l’affidamento del mercato rispetto ai rating che hanno dimostrato di essere non sempre completamente affidabili, dall’altro si cerca di migliorare l’affidabilità dei rating stessi. Si spera così con questa manovra diciamo pure a tenaglia, di poter risolvere le problematiche generate dalle agenzie di rating e dal fenomeno in senso ampio. Tuttavia, allo scrivente questa antinomia originale non pare davvero superabile. Essa appare infatti produrre risultati contrapposti che, proverbialmente, si annullano: difatti se e nella misura in cui, l’introduzione di questo complesso corpo normativo riesce nell’intento di rendere i rating molto più affidabili, non avrebbe davvero alcun senso pretendere che gli operatori di mercato non ci facciano affidamento. Viceversa avrebbe potuto avere senso prevedere che gli operatori di mercato non potessero fare alcun affidamento sui rating rilasciati dalle agenzie, se non si fosse intrapresa la strada della disciplina rigorosa dei rating. Insomma, non si può pretendere che si smetta di fare affidamento sui rating proprio ora che sono diventati più affidabili in quanto sono emessi da soggetti autorizzati e sottoposti a rigorosi controlli da parte delle autorità. Tali controlli, infatti, sono indice di qualità, anzi, il fatto stesso che i rating vengano adesso emessi sotto la stretta vigilanza dell’ESMA, garantisce implicitamente la qualità degli stessi, mentre la vigilanza resta responsabile dei controlli qualitativi che adesso il mercato si attende.

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Quanto detto, ovviamente, deve essere preso cum grano salis, nel senso che, lo scrivente non ignora come in realtà il fatto che i rating e le agenzie siano sottoposti a un dettagliato controllo pubblicistico non sia, di per se stesso, un indice di qualità o affidabilità del sistema dei rating e delle agenzie. Tuttavia, un così penetrante controllo pubblicistico sulla elaborazione dei rating e sulla gestione ed esistenza delle agenzie di rating, ingenera nel pubblico, come è giusto che sia, per lo meno la percezione di avere di fronte delle realtà disciplinate e regolamentate, del cui operato, legittimamente si può fidare. E sarà parallelamente molto difficile, per la vigilanza, sottrarsi alle verifiche sul proprio operato, ogni volta che i rating mostrino inadeguatezze e deficienze che si trasformeranno, facilmente, in inadeguatezze e carenze dell’attività di vigilanza, come è giusto che sia. In altri termini, avere introdotto una dettagliata disciplina per le agenzie di rating, rafforza anziché indebolire il ruolo che queste hanno nel sistema finanziario, dà loro un incarico, uno scopo, un lavoro da svolgere, ne legittima l’esistenza e ne disciplina il funzionamento. Tutto questo è radicalmente incompatibile con l’affermazione che progressivamente il mercato deve ridurre l’affidamento rispetto ai rating che sono finalmente diventati … più affidabili. Il dilemma originario, come correttamente evidenziato da Enriquez e Gargantini41, era quello del lascia o raddoppia, ossia di fronte alla scarsa affidabilità dei risultati prodotti dal sistema dei rating, si sarebbe potuto decidere di rivedere l’intero impianto e ridisegnare la filosofia del rinvio ai rating rimuovendo gli automatismi contenuti nelle norme che ai rating fanno rinvio (lasciare), ovvero raddoppiare, cioè confermando le scelte già compiute, rafforzare i vincoli sulle società di rating. Ha prevalso la seconda via, nettamente sulla prima42, anche se sono stati fatti passi anche nell’opposta direzione incominciando ad eliminare i riferimenti normativi ai rating. La decisione di seguire un approccio comunque ibrido, basato sul principio “to reduce reliance on credit ratings, to improve reliability of credit ratings”, è stato assunto a chiave di volta dell’intero impianto normativo. Ha prevalso insomma una soluzione ambivalente non del tutto coerente43 ma soprattutto priva di quella logica, razionalità e linearità che

41.

Enriques e Gargantini, Regolamentazione dei Mercati finanziari, rating e regolamentazione dei rating, in AGE, n. 2, 2010, p. 475. 42�� Cfr. Carriero, Brevi note sulle agenzie di rating, in Foro It., 2012, I p. 53. 43. Cfr. Carriero, Brevi note, cit., p. 54, che giustamente parla di non sequitur logico di

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ci si aspetterebbe nella regolamentazione finanziaria. I vari commenti hanno tutto sommato giudicato positivamente questa serie d’interventi normativi, che a parere di chi scrive, invece, pur essendo motivati da nobili ragioni e forse persino indispensabili, rimangono fondamentalmente contraddittori. Vero è che la decisione di seguire entrambi gli approcci normativi, oltre a mancare di coerenza, rischia di rappresentare un elemento di frizione nella disciplina finanziaria, finendo per distruggere ricchezza anziché creare efficienza. In altri termini, più i rating tornano a rappresentare quello che sono, ossia giudizi elaborati da analisti sul merito di credito di un dato emittente od emissione, ovvero pareri, opinioni espressi liberamente da soggetti che pur essendo esperti, sono costretti nelle loro previsioni, da limiti umani e tecnici, meno ha senso caricare queste opinioni liberamente espresse di costi di compliance, di procedure, di costi di supervisione e verifica da parte dei regolatori. Questi costi infatti vengono necessariamente scaricati sugli emittenti e successivamente sugli investitori44 (modello issuer pay), oppure direttamente sugli investitori (modello investors club); si distrugge ricchezza comune se si implementano regole inutili o contraddittorie che fanno aumentare costi senza poi far conseguire al mercato dei benefici maggiori dei costi sostenuti. Quanto detto vale sia a livello aziendale ma anche a livello della collettività. A discapito di tutto quanto detto sopra, quindi, a livello normativo si è preferita la soluzione pragmatica, all’americana, che cerca di agire in entrambe le direzioni, migliorare l’affidabilità dei rating per diminuire poi l’affidamento del sistema sui rating. Un colpo al cerchio e un colpo alla botte quindi, come si dice nell’antico detto popolare, sperando insomma di ottenere quella mitologica quadratura del cerchio, che, per definizione… è impossibile. Tornando alla valutazione d’insieme della normativa introdotta, in relazione ai risultati che ci si prefigge di raggiungere, si potranno giudicare i mezzi normativi e regolamentari utilizzati. Solo in funzione di un chiaro risultato atteso è infatti possibile valutare l’efficacia degli strumenti giuridici utilizzati. Ora, se il risultato è contraddittorio anche in parte, come

manifesta evidenza, “come se si dicesse da un lato, che la nuova proposta serve ad accrescere la fiducia degli investitori nelle agenzie di rating, dall’altro che è comunque bene non fidarsi, in primis da parte dei regolatori”. 44. Sugli emittenti in quanto richiedenti il rating, questi devono pagare il corrispettivo all’agenzia di rating. Allo stesso tempo, le somme sborsate dagli emittenti non possono che gravare sugli investitori sotto forma di mancata remunerazione dei propri investimenti in capitale di rischio.

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potrà essere valutata la portata e l’efficacia della riforma delle agenzie di rating e dei rating stessi? Se da un lato dunque si critica la scelta del legislatore Comunitario di avere introdotto e potenziato, in maniera forse eccessiva, l’impalcatura normativa e di vigilanza delle agenzie di rating, considerato come una simile scelta comporti il rafforzamento della vigilanza sulle agenzie di rating stesse, che determinerà nei fatti negli investitori un maggiore affidamento nei giudizi delle agenzie, d’altro canto, è pur vero che nel Regolamento 462/2013 si prevede di procedere ad identificare ed eliminare progressivamente tutti i riferimenti normativi ai rating entro il 2020. Difatti si legge nel 6° considerando del Regolamento in esame che “L’Unione sta rivedendo, in una prima fase, se i riferimenti ai rating del credito previsti nel diritto dell’Unione determinino o possano determinare un affidamento esclusivo o meccanico a tali rating del credito e, in una seconda fase, tutti i riferimenti ai rating del credito per scopi regolamentari, con l’obiettivo di eliminarli entro il 2020, a condizione che siano identificate e attuate alternative adeguate alla valutazione del rischio di credito”. In Regolamento poi prevede anche una serie di possibili successive modifiche. Difatti, gli articoli finali dello stesso Regolamento, identificano diversi termini di scadenza per la presentazione di possibili proposte di modifica allo stesso Regolamento su diversi punti. Per cui già si sa che diverse previsioni saranno oggetto di futura modifica. Anche in questo viene riproposto nell’UE l’approccio americano, ambivalente e pragmatico, teso anch’esso a ridurre l’affidamento e ad aumentare l’affidabilità dei ratings. Un approccio di emergenza, una legislazione pragmatica e non del tutto lineare, che mira però a dare risposte al bisogno di tutela emerso ampiamente nel mercato. Nel mercato USA, l’affidamento sui ratings era ancora maggiore, se possibile, rispetto all’UE. Interi settori di mercato (si pensi ai c.d. money market funds) operavano solo su strumenti con certo rating: l’intera industria della securitization non avrebbe potuto funzionare senza le agenzie di rating e la loro collaborazione. Negli USA la gravità della crisi giustificava interventi anche non perfettamente lineari e temporanei, miranti ad intervenire subito su diversi elementi del processo del rating e sulla struttura delle agenzie di rating. In Europa, dove pure la problematica della mancata supervisione delle agenzie di rating si era fatta sentire, per i diversi profili dell’emissione di rating diciamo pessimistici sul debito sovrano di alcuni paesi (tra cui l’Italia) si doveva trovare, replicando la soluzione USA, una soluzione di emergenza, con la quale, pur nella consapevolezza che comunque, seppure a tendere, si dovranno elimina-

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re tutti i riferimenti normativi ai rating, si deve agire subito sulle agenzie per rendere i rating il più possibile affidabili. A parere di chi scrive però, nonostante la gravità della crisi, questo atteggiamento ambivalente del legislatore, che mira a ridurre l’affidamento automatico ed acritico degli operatori di mercato rispetto ai rating, contemporaneamente rafforzando la qualità dei rating, coniugato con l’approccio temporaneo alla regolamentazione finanziaria non sono del tutto condivisibili. È vero, da un lato la gravità della crisi giustifica o pare giustificare ogni cosa. Eppure tutto quanto sopra non deve impedire agli studiosi delle norme, di sollevare obiezioni nei confronti di questo modo di fare legislazione in emergenza, senza quella coerenza e sistematicità che dovrebbero essere attributi propri dell’attività del legislatore, anche di quello finanziario.

7. La regolamentazione del fenomeno economico. Ad opinione di chi scrive, poi, per poter identificare in modo preciso la direzione normativa da seguire, i principi da assumere a guida della regolamentazione finanziaria, il legislatore ed il giurista devono andare a scuola dall’economista per capire bene il senso economico del fenomeno che ci si appresta a regolare. Occorre, infatti, partire proprio l’identificazione della funzione economica svolta dai rating per evitare che un intervento normativo non troppo ben calibrato possa sconvolgere la stessa funzione economica dell’istituto, inserendo elementi di frizione, di natura esogena legale/regolamentare, tali da ingessare o addirittura inibirle l’emissione dei rating stessi45 con effetti deleteri sul corretto funzionamento del mercato che utilizza i rating a torto o a ragione nell’ambito delle valutazioni di rischio degli investimenti. In tale elaborazione occorre evidenziare alcuni assiomi regolamentari, dai quali è opportuno partire per identificare dove trovi collocamento il cartesiano dover essere in materia di rating e agenzie di rating. In primis, deve essere ribadita l’utilità della funzione svolta dai rating nel mercato finanziario. In quanto espressione di una valutazione di soggetti professionali e disinteressati del rischio di credito di un dato emittente od emissione, i rating contribuiscono ad arricchire il set informativo disponibile su un determinato emittente o strumento finanzia-

45.

Si è parlato al riguardo di rating difensivi. Cfr. Perrone, Le agenzie, cit., p. 1044.

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rio. In quanto poi frutto di elaborazione di dati non necessariamente disponibili al mercato in senso ampio, i rating ulteriormente contribuiscono ad apportare al mercato analisi di elementi non immediatamente disponibili, frutto di richieste documentali ed analisi svolte da professionisti della valutazione del rischio di credito. In quanto tali i rating svolgono un ruolo importante e fondamentalmente utile al corretto funzionamento dei mercati finanziari che abbisognano di attingere quanto più possibile ad informazioni corrette ed aggiornate, dipendono da esse per il loro corretto funzionamento. Ogni riforma dei rating e delle rating agencies, che abbia come risultato anche indiretto, quello di sradicare o eliminare il sistema dei rating, o di vietare o in qualche modo limitare la libertà di valutazione delle agenzie di rating, rischia di svilire il lavoro svolto dalle stesse agenzie e privare il mercato di rating significativi, danneggiando una fonte di informativa utile ed utilizzata ampiamente dai mercati. Al riguardo, inoltre, le eventuali riforme dirette a eliminare la possibilità per le agenzie di rating di accedere ad informazioni non di pubblico dominio, avrebbero poi l’immediato e diretto effetto di privare i rating di qualsivoglia contenuto informativo aggiuntivo rispetto al set informativo già disponibile al mercato, rendendoli in una parola inutili o poco utili, ovvero addirittura duplicativi: i rating infatti hanno un ruolo importante nel ridurre le asimmetrie informative - specie con riguardo agli emittenti di minori dimensioni e meno noti. Simili riforme ed interventi sono in una parola da scoraggiare, in quanto i rating cesserebbero così di svolgere quella funzione economica di arricchimento del set informativo che affianca quella di semplificazione cognitiva46, entrambe importanti per il mercato finanziario, il consumatore del bene rating prodotto dalle agenzie stesse. In secundis, deve essere constatata l’abnorme importanza che ai rating è stata riconosciuta sia dai regolatori di mezzo mondo sia dai mercati, che hanno progressivamente sopravvalutato la rilevanza dei credit rating stessi facendo sempre più affidamento sulle valutazioni di rischio di credito emesse dalle agenzie. Questa importanza normativa dei rating deve rientrare quanto prima. Di sicuro infatti non si potrà pretendere di continuare ad affidare la sostenibilità e l’equilibrio del nostro sistema finanziario ai calcoli ed alle proiezioni sui default rate di un pur limitato

46. Resterebbe ai rating insomma solo la funzione di semplificazione cognitiva sopra esaminata.

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gruppo di analisti per quanto capaci essi siano. Nessun rilievo normativo quindi dovrebbero avere le opinioni espresse dagli analisti delle agenzie di rating che non sono né migliori né più rilevanti di quelle espresse dagli analisti finanziari in ottica di investimenti. Al riguardo, la normativa ed i regulators devono essere capaci di identificare delle alternative regolamentari47 all’utilizzo fatto con eccessiva facilità del rinvio alle valutazioni delle agenzie di rating. E’ chiaro a tutti come l’identificazione normativa di quelle che sono attività meno rischiose o tendenzialmente prive di rischio, genera profili di responsabilità per i regulators, che appaiono inaccettabili ai regulators stessi. Chiaramente, tuttavia, i soggetti deputati alla verifica della permanenza del capitale di vigilanza, ovvero deputati ad identificare quelle attività meno rischiose in cui possano essere investiti i c.d. money market funds, non potranno più pensare di tirarsi fuori dagli impicci chiamando in causa i rating delle agenzie. Essi dovranno fare in altri termini il loro lavoro, assumendo in proprio i rischi conseguenti, senza poter pretendere di esternalizzare le funzioni di vigilanza alle agenzie di rating. Ciò è naturalmente un bene, per quelli che, come lo scrivente, pensano che sia importante che le vigilanze di mezzo mondo assumano qualche responsabilità per le crisi nefaste e ricorrenti periodicamente, delle quali queste ritengono di essere sempre ed esclusivamente vittime più che con-cause. Nell’identificazione della disciplina ottimale per le agenzie di rating e per i rating, il parallelo con la disciplina dell’analisi finanziaria, in particolare quella relativa alle raccomandazioni di investimento, è poi particolarmente calzante. Perché infatti si dovrebbe disciplinare diversamente la raccomandazione all’investimento elaborata dagli analisti finanziari, rispetto al rating sul merito di credito, quando la prima semmai, molto più della seconda, si presta a causare rilevanti impatti a carico degli investitori? Eppure la disciplina assai schematica e sempli-

47. Si veda Gavras, Ratings Game, in Finance and Development, March 2012, disponibile al segente link: http://www.imf.org/external/pubs/ft/fandd/2012/03/gavras.htm. Nell’articolo si legge come “private credit rating agencies have been thrust into providing a public function because regulators have not come up with an alternative … A form of government failure … This surrender of regulatory responsibility to private agencies can be considered a form of government failure because the state in effect transfers regulatory authority to private firms but retains responsibility for the overall outcome. This approach is problematic for a number of reasons… credit rating agencies aim to maximize profits and shareholder value … they do not have the same mandate as a regulatory agency …”.

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ce applicabile agli analisti finanziari e alla diffusione di studi e ricerche è in netto contrasto con la complessa disciplina con la quale, con gli anzidetti interventi normativi, sono state regolamentate le agenzie di rating. Quale sarebbe quindi la giustificazione di questa così marcata differenza di disciplina? Al 5° considerando della Risoluzione del Parlamento Europeo, ora trasfusa nell’ambito dell’8° considerando al Regolamento UE n. 462/2013 approvato il 31 Maggio 2013, si sottolinea come in realtà le opinioni delle agenzie di rating siano diverse da quelle espresse dagli analisti finanziari. Si dice espressamente che: “I rating del credito, a differenza delle ricerche e raccomandazioni in materia di investimenti, non sono mere opinioni in merito al valore o al prezzo di uno strumento finanziario o di un’obbligazione finanziaria. Le agenzie di rating del cre­dito non sono semplici analisti finanziari o consulenti in materia di investimenti. I rating del credito hanno valore regolamentare per gli investitori soggetti a regolamenta­zione, quali gli enti creditizi, le imprese di assicurazione e altri investitori istituzionali. Benché si stiano riducendo gli incentivi all’eccessivo affidamento ai rating del credito, questi ultimi condizionano tuttora le scelte di investimento, in particolare a causa di asimmetrie informative e per obiettivi di efficienza. In un tale contesto le agenzie di rating del credito devono essere indipendenti e percepite come tali dagli operatori del mercato e le loro metodologie di rating devono essere trasparenti e percepite come tali”. Allo scrivente pare che questo sia invece lo snodo fondamentale di tutta la disciplina dei rating. Quello che distingue l’opinione degli analisti rispetto alle opinioni delle agenzie di rating, perché di opinioni si tratta, sarebbe quindi solo il valore regolamentare e le conseguenze normative collegate ai giudizi di rating emessi dalle agenzie. Tolte le conseguenze normative, i rating continueranno comunque ad influenzare le scelte degli investitori, ma in un modo molto più congruo e coerente rispetto a quello che i rating effettivamente sono, cioè opinioni di esperti sul rischio di default di un emittente. In questo i rating sono meramente di ausilio all’investitore mentre è inconcepibile che un investitore si basi unicamente o prevalentemente sul rating nell’assumere una decisione di investimento. Di più, il rating rappresenta una misura di valutazione del rischio di credito che può essere affiancata ad altre misurazioni elaborate secondo diverse metodologie. Al riguardo, si potrebbe fare riferimento ai dati risultanti nel mercato dei derivati: ad esempio si è parlato molto di recente del mercato dei credit default swaps, derivati che sistematicamente valutano, con quotazioni in tempo reale, il rischio di credito di un dato

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emittente od emissione48. Inoltre il default risk è un rischio sistematicamente incorporato nei prezzi di mercato, per cui il prezzo stesso di uno strumento finanziario, in un mercato efficiente in cui i prezzi rispecchiano tutte le informazioni disponibili, incorpora già ogni valutazione possibile sul rischio di default dell’emittente. In tale situazione il rischio di default può essere estrapolato dallo stesso prezzo di mercato oltre che, come detto, dai corsi dei CDS ove disponibili, oltre che alla luce del rating eventualmente assegnato. Il rating, quindi, è solo uno degli elementi presi in considerazione dal mercato al fine di addivenire ad una stima e misura del rischio di credito. In tale prospettiva i rating non sono né l’unica e neanche la più attendibile fonte da utilizzare nella misurazione del rischio di credito e dovrebbero essere utilizzati insieme a tutti gli altri indicatori disponibili, laddove fosse necessaria una compiuta valutazione del rischio di credito. Bisogna quindi lavorare per far rientrare l’importanza delle valutazioni delle rating agencies nell’alveo di quello che sono, ossia, pareri, sia pure di analisti esperti, basati su dati raccolti ed elaborati oltre che su valutazioni prospettiche, relativi al rischio di credito di un emittente o emissione: nulla di più, nulla di meno. I rating, inoltre, non dovrebbero mai essere usati da un investitore o da un gestore come surrogato di una due diligence sulla bontà/utilità di un investimento. Infatti, come discusso, moltissimi sono i parametri che devono essere presi in considerazione per effettuare una scelta di investimento ed il parametro del rischio di credito o probabilità di default è solo uno degli elementi che possono essere tenuti in considerazione. Piuttosto che sui rating, nelle valutazioni di investimento sarebbe meglio fare affidamento sulle raccomandazioni degli analisti che per natura sono più complete e di ampio respiro. In questo caso, come evidente, nessun affidamento su analisi o proiezioni di terzi, potrà sostituire la valutazione propria e diretta dell’investitore che curando i propri affari, sarà in primis tenuto direttamente a verificare la bontà ed il merito di un investimento.

48.

Si vedano tra gli altri: Skeel e Partnoy, The Promise and Perils of Credit Derivatives, University of Cincinnati Law Review, Vol. 75, p. 1019, 2007; U of Penn, Inst for Law & Econ Research Paper No. 06-22; U of Penn Law School, Public Law Working Paper No. 0636; San Diego Legal Studies Paper No. 07-74. Disponibile anche al seguente link: http:// ssrn.com/abstract=929747; Stulz, Rene M., Credit Default Swaps and the Credit Crisis (September 18, 2009). Charles A. Dice Center Working Paper No. 2009-16 ;Fisher College of Business Working Paper No. 2009-03-16; ECGI - Finance Working Paper No. 264/2009. Disponibile anche al seguente link: http://ssrn.com/abstract=1475323.

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Per fare in modo di scoraggiare ulteriormente l’affidamento privato sui rating, nel caso specifico poi delle gestioni, un gestore, gravato dagli obblighi del mandatario (c.d. fiduciary duty), non dovrebbe poter andare esente da responsabilità per il semplice fatto di avere selezionato titoli con un certo rating. Anzi una difesa nella quale si invocasse il rating favorevole degli strumenti selezionati, dovrebbe produrre l’effetto opposto, di aggravare la responsabilità dei gestori e fiduciary per avere costruito le proprie scelte di investimento su elementi sui quali non si doveva fare esclusivo affidamento. La normativa dovrebbe intervenire su questo snodo logico, presente pressoché in tutto il contenzioso avente ad oggetto la selezione di investimenti. Di sicuro è pure insostenibile49 e non proseguibile il mantenimento del collegamento tra il valore regolamentare dei rating e la mancanza di disciplina degli stessi50. La soluzione preferibile, tuttavia, sarebbe forse stata quella di lavorare per rivedere il ruolo dei rating, eliminando da un lato e da subito qualsivoglia automatismo regolamentare, sostituendo i rating con combinazioni dei parametri sopra richiamati per il calcolo del rischio di credito di una controparte o di un titolo, attribuendo agli intermediari finanziari, che dovrebbero essere specialisti del calcolo dei rischi finanziari ivi incluso quello di credito, l’onere di sviluppare policies e metodologie adeguate al calcolo ed alla verifica delle stime effettuate. Alla vigilanza spetterebbe invece l’onere di controllare che tali valutazioni degli intermediari bancari e finanziari, rispondano a quei criteri di base di prudenza e correttezza che devono improntare l’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria. Insomma nel dilemma tra “to reduce reliance on rating” e “to make rating more reliable”, lo scrivente sarebbe stato propenso a far prevalere la prima via, ossia quella di ridurre subito e con nettezza ogni forma di affidamento o riferimento ai rating fatto da normative primarie e regolamentari, rispetto alla soluzione scelta invece dai regolatori di mezzo mondo51.

49

Presti, Take, cit., p. 27. Enriques e Gragantini, Regolamentazione, cit., p. 477. 51 In parte le soluzioni qui proposte furono anche originariamente portate avanti da Partnoy, in Partnoy, How and Why, cit., p. 32, sub il paragrafo conclusivo. Nel suo scritto l’autore proponeva l’eliminazione dello status di NRSRO, in modo tale che i regulators non avrebbero potuto più fare reliance sui rating rilasciati da soggetti privati non dotati di qualifica. Una simile riforma nel 2006 non era giudicata fattibile, sopra a tutto data l’assenza di una evidente market failure. Pertanto l’autore proponeva metodologie regolamentari alternative, quali la sostituzione del rating con market based rating come 50

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La disciplina dei rating poi avrebbe forse dovuto essere molto vicina a quella degli analisti finanziari, che pubblicano studi, ricerche o raccomandazioni di investimento. Le opinioni delle agenzie di rating avrebbero potuto differenziarsi dalle raccomandazioni di investimento in quanto emesse da soggetti terzi, imparziali, esperti e non coinvolti da scelte di investimento. Tuttavia l’ambito della valutazione di un rating, è enormemente più limitato di quello di un analista in ottica di raccomandazione dell’investimento: infatti le raccomandazioni all’investimento, rivolgendosi al mercato ed aventi ad oggetto la valutazione di moltissimi profili relativi all’emittente, all’emissione oltre che al contesto macro economico e di settore in cui questo si muove (non i più limitati calcoli probabilistici sulla percentuale di rischio di default di un emittente in una emissione nella finestra temporale identificata) hanno un’ampiezza ed elaborano e sintetizzano moltissime informazioni, sicuramente eccedendo di molte misure, il campo di valutazione che è proprio delle agenzie di rating. Quanto detto poi non è necessariamente contraddetto dalle istanze di protezione degli investitori retail, che pure meritano di essere considerate. Difatti parrebbe difficilmente sostenibile che a disciplinare i rating similmente a come vengono disciplinate le raccomandazioni e le valutazioni degli analisti finanziari, gli investitori retail sarebbero direttamente pregiudicati. Alla fin fine l’investitore retail ai rating ha un accesso mediato e la sua posizione è comunque tutelata dalle norme sulla prestazione dei servizi di investimento. È vero che i giudizi delle rating agencies raggiungono tutti i partecipanti al mercato grazie alla diffusione degli stessi via internet, ivi inclusi gli investitori retail. Tuttavia questi non si avventurano né dovrebbero avventurarsi in investimenti finanziari guidati solo dai giudizi di rating anche perché sarebbe quanto meno assurdo che lo facessero, dato che l’investitore retail sensato dovrebbe essere attratto più dalla speranza di profitto che da una probabilità statistica di default. Inoltre, pur se apparentemente intuitivo, il rating rappresenta una grandezza, una misurazione statistica, che molto difficilmente un investitore retail riesce ad apprezzare. I rating quindi

in parte discusso in questo lavoro. Le proposte dell’autore non furono ben accolte dalla comunità finanziaria anche e sopra a tutto perché arrivavano in un momento in cui non era di immediata percezione nel sistema finanziario il rischio che si stava accumulando e Partnoy fu uno dei primi studiosi a puntare il dito contro il i pericoli collegati all’eccessiva influenza raggiunta dalle agenzie di rating.

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non dovrebbero mai essere utilizzati dagli investitori retail come sostituti della consulenza, della ricerca finanziaria, del parere degli analisti, né come sostituti di quel minimo di verifica e controllo che un investitore dovrebbe fare direttamente, o tramite i soggetti dei quali si deve avvalere per operare sul mercato. Sono semmai gli intermediari a voler utilizzare i rating a loro discolpa ossia per vedere attenuata la loro responsabilità laddove si erano consigliati investimenti poi rivelatisi poco ortodossi… ma questa è un’altra storia.

8. I limiti degli interventi normativi. La crisi finanziaria innescatasi nel 2008 rappresenta un’occasione fondamentale di verifica e di ripensamento della disciplina dei mercati finanziari. Tuttavia è anche importante sottolineare come, alla luce dell’approfondita conoscenza che i regulators hanno acquisito sui meccanismi di funzionamento dei mercati e delle interrelazioni con il mondo dei credit rating, sarebbe stato di primaria importanza che si fosse disegnato in questa fase un intervento normativo ben tarato, che con la massima trasparenza avesse individuato i risultati precisi che le norme mirano a conseguire, evitando di intraprendere percorsi normativi e soluzioni temporanee e contraddittorie. Come noto, infatti, nelle crisi e per uscire dalle crisi, servono regole migliori non solo e semplicemente più regole. Eppure i governanti di mezzo mondo, anch’essi sotto pressione da parte dell’opinione pubblica, hanno finito per privilegiare la produzione di immediati interventi normativi reattivi rispetto alla crisi evidenziatasi. Mancando un chiaro accordo da un punto di vista dottrinario, su quali fossero i contorni precisi di una moderna disciplina dei rating e delle rating agencies, non potendo non fare niente, hanno optato per fare un po’ di tutto. Anche loro, i politici, rispondono infatti alla legge della domanda e dell’offerta e chiaramente dovevano soddisfare le attese del loro elettorato implementando severe riforme regolamentari. All’elettorato manca poi la capacità di valutare ex ante la bontà di un intervento regolamentare e si soddisfa di vedere che giustizia è stata fatta e che adesso le rating agencies sono state regolamentate in maniera severa. Una valutazione sul merito, sulla qualità degli interventi regolamentari, è per sua natura estremamente complessa e può essere svolta solo da esperti che sono, come naturale che sia, una sparuta minoranza di elettori. Per cui, come di norma accade, gli interventi normativi effettuati a ridosso delle crisi finanziarie scontano sempre un po’ il rischio di essere

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stati adottati in fretta e furia, più per ripristinare la fiducia nei mercati finanziari e nel loro corretto funzionamento, che per riorganizzare o riordinare discipline di settore che mostravano i segni del tempo. Non bisogna, quindi, fare affidamento in modo eccessivo sulle riforme introdotte di recente: si è posto mano al libro delle regole dei mercati finanziari, iniziando una nuova tappa di un percorso che dovrà proseguire. Infine, i giuristi, con gli occhi puntati sulle norme, non dovranno dimenticare che molto dovrà fare poi il mercato per sviluppare degli antidoti operativi alle debolezze evidenziatesi nelle regole e nel modus operandi del mercato stesso. Sarà comunque opportuno ricordare come, rispetto alle criticità emerse nell’ambito dei rating le riforme regolamentari hanno anche rilevanti limiti operativi. Ad esempio, permane comunque il rischio di imperfezione dei modelli di valutazione dei rischi non pare possa essere eliminato mediante un intervento normativo. Le norme in ogni caso possono sanzionare l’operato di chi dei rating, a torto o a ragione, si è fidato troppo: esse possono puntare l’indice verso un rapporto equilibrato tra investitori, strutturatori, il mercato e le agenzie di rating ed i loro prodotti. La legge, tuttavia, non può fisiologicamente imporre ai mercati atteggiamenti virtuosi o razionali, i mercati in fondo, devono trovare i loro equilibri, nella cornice della legge. Non bisogna quindi attendersi troppo dalle riforme finanziarie, nemmeno di quelle relative ai rating ed alle agenzie di rating. Bisogna, invece, attendersi e pretendere molto dagli operatori di mercato, che sanno bene entro quali limiti fare reliance o meno su elementi esterni all’atto di operare scelte di investimento.

9. Quale futuro per la finanza dei rating? Arriviamo forse a questo punto al cuore della disciplina dei rating. I rating servono prevalentemente a soggetti che non hanno le capacità, il tempo o le risorse per calcolarsi direttamente il rischio di default di un emittente o di una emissione. Eppure questi soggetti, che non hanno le capacità e non vogliono investire le risorse necessarie per sapersi calcolare i rischi connessi agli strumenti finanziari in cui investono, vogliono comunque potersi rivolgere al mercato e hanno diritto ad essere tutelati dalle regole del mercato stesso. Questi soggetti scarsamente sofisticati, tuttavia, non dovrebbero utilizzare i rating nell’effettuare scelte di investimento, se non in via del tutto residuale, in quanto i rating forniscono un’informazione assolutamente parziale e limitata alla misurazione del rischio di default di un emittente

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o emissione. Nel caso poi della finanza strutturata, i soggetti non sofisticati, non dovrebbero avventurarsi in acquisti di strumenti troppo complessi, difficili da valutare e monitorare, che in effetti non capiscono e che non sono in grado di gestire correttamente. Specificamente i soggetti non sofisticati non dovrebbero comunque mai affidarsi ai rating attribuiti a questi strumenti dalle agenzie di rating poiché questi indicatori, da soli, non sono idonei a supportare una decisione di investimento. In effetti, forse, di fronte al fatto che investitori non sofisticati, periodicamente, si rivolgano alla finanza strutturata per migliorare i rendimenti dei propri investimenti, sarebbe il caso di domandarsi se abbia davvero senso che questi investitori scarsamente equipaggiati per intraprendere scelte di investimento sufficientemente consapevoli, debbano veramente essere messi in condizione di operare con una parvenza di trasparenza e di tutela. Una parvenza di tutela, appunto, rappresentata dal libero accesso ad informazioni e misurazioni del rischio di credito parziali e selettive, comunque effettuate da terzi ed inadatte a sopperire a quel bisogno di conoscenza che sta alla base di consapevoli scelte di investimento. Ciò perché i rating danno appunto un’informazione talmente selettiva da non poter essere praticamente utilizzabili se non come elemento di valutazione totalmente secondario, corollario rispetto ad una decisione di investimento che deve considerare moltissime altre variabili. La questione se si possa lasciare che investitori impreparati si rivolgano al mercato degli strumenti di rischio, è assai annosa e dibattuta. Nel caso della finanza strutturata si tratta poi di strumenti ad ‘alto’ rischio, rispetto ai quali la trasparenza, proprio a causa della complessità delle strutture oltre che dei sottostanti, è sicuramente meno efficace. La dottrina tradizionale e tutta la disciplina finanziaria sono basati sul principio della trasparenza: la trasparenza fornita dagli emittenti consente la creazione di un mercato efficiente e libero degli strumenti finanziari circolanti. Tutti gli investitori sono informati in dettaglio delle strutture e dei sottostanti specifici di un dato strumento finanziario per cui un investitore informato si assume i rischi dei propri investimento: insomma, uomo avvisato… Tuttavia, come noto, la trasparenza, non dispiega sempre ed automaticamente i suoi positivi effetti, specie laddove, a causa della complessità delle strutture, la comprensione della struttura e del relativo sottostante resta, anche dopo la disclosure, appannaggio di pochi investitori sofisticati. Devono, quindi, essere inseriti integratori specifici della disciplina legislativa sulla circolazione dei prodotti strutturati, che possano coadiuvare la trasparenza, come ad esempio stringenti regole di adeguatezza e appropriatezza, limitazioni ad operare per particolari tipologie di in-

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vestitori, i.e. fondi pensione e similari, obblighi di due diligence per gli asset manager ed in generale regole che consentano l’attivarsi di azioni di responsabilità civile a carico di tutti i soggetti che sono stati coinvolti, a vario titolo, nell’emissione o costruzione di prodotti complessi, per le responsabilità che questi possano avere avuto nelle varie fasi del processo. Insomma il principio ordinatore in materia, in un ordinamento basato sul libero mercato, non può che restare quello del caveat emptor, che può dispiegare favorevoli effetti solo se assistito dalla trasparenza e da par condicio di accesso alle informazioni, ma che deve essere, specie nel campo della finanza strutturata, coadiuvato da specifiche regole come visto, di adeguatezza, appropriatezza, norme di divieto o limitazioni all’investimento per particolari tipi di investitori e regole di responsabilità civile. I rating poi, come ampliamente discusso, svolgono una funzione di trasparenza molto limitata, sostanzialmente cosmetica, in quanto hanno natura parziale e contribuiscono solo alla misurazione del rischio di credito di un emittente o emissione, grandezze meramente laterali rispetto alla decisione di investimento. I rating quindi non possono essere da soli sufficienti ad integrare le carenze delle regole basate sulla trasparenza. La verità forse, l’altra verità, è che il mercato finanziario sempre più deve gestire e digerire immense quantità di rischi, dopo averle frazionate e sminuzzate adeguatamente. La riflessione forse dovrebbe indirizzarsi piuttosto sulle ragioni che determinano la creazione di questi immensi rischi prima ancora che sulle modalità per la gestione il frazionamento e la vendita degli stessi. I mutui subprime americani, insomma, furono erogati senza alcun controllo per finanziare l’acquisto di immobili da parte di soggetti che non potevano permettersi in alcun modo di rimborsare i crediti assunti. Questi mutui hanno generato un’esposizione enorme a carico del sistema bancario, che doveva essere riciclata ed ammortizzata in tutto il sistema finanziario. La generazione di questi rischi poi deve essere sottoposta ad idoneo ed approfondito scrutinio: mette davvero conto sconquassare l’intero sistema finanziario per consentire a quei creditori subprime americani di poter risiedere in una casa molto più bella di quanto potevano permettersi? L’accumulo di rischi rilevanti nel sistema finanziario dovrebbe essere monitorato ab origine prima ancora che si manifestino i sintomi di una ‘indigestione’ di rischi che il sistema non riesce più a gestire. Infine, una volta generati, questi enormi rischi devono poter essere venduti a qualche compratore che li inserisca in portafoglio (possibilmente) diversificando le proprie esposizioni per evitare che si accumulino sacche significative di rischi che possano avere rilevanze sistemiche.

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Insomma, detto in modo molto semplice, qualcuno, questi rischi, se li dovrà comprare. Solo così rischi tanto grandi potranno essere assorbiti dal sistema finanziario. Tuttavia questo implica che un sempre maggiore numero di investitori, poco importa se dotati degli strumenti necessari per accuratamente valutare variabili importanti collegate alle loro scelte di investimento, vengono lasciati operare affidandosi magari, fondamentalmente solo ai rating. Di conseguenza, sorge il dubbio allo scrivente che i rating, nella versione potenziata dalle riforme di settore, siano stati rafforzati nella loro affidabilità proprio per continuare a svolgere questa funzione di supplenza rispetto alle carenze di struttura dei compratori di rischio. Eppure la crisi finanziaria da ultimo scatenatasi ha proprio ribadito, l’inefficienza di questi processi nei quali il compratore, ma anche lo strutturatore, la banca arranger e in fondo tutto il sistema del frazionamento e della redistribuzione dei rischi finanziari si affidi e si fidi delle analisi fatte da terzi indipendenti ed irresponsabili ossia di consulenti strutturatori e dei rating. L’antidoto forse sarebbe proprio quello di tornare a fare le valutazioni di rischio in proprio, ossia prendendo alla lettera il principio caveat emptor, senza pretendere di poter fare affidamento su valutazioni che affidabili non sono. Di fatto inoltre i rating rischiano di essere utilizzati come surrogati low cost delle raccomandazioni di investimento degli analisti finanziari, pretendendo di essere, come peraltro dice la stessa Commissione, un qualche cosa di più rispetto alle semplici opinioni degli analisti. Ma i rating sono elaborati da analisti e sono opinioni di analisti, per quanto bravi e specializzati che siano! Le loro opinioni sul rischio di credito, elaborate con strumenti statistici applicati a proiezioni e studi di settore, sono meno ambiziose di quelle elaborate in ottica di investimento, essendo limitate al profilo del rischio di credito, uno solo dei tanti elementi che devono essere considerati nella decisione di investimento. Semmai, le cose dovrebbero stare a contrario, ossia, le opinioni degli analisti di investimento dovrebbero avere una maggiore rilevanza rispetto a quelle, più limitate, e poco utilizzabili delle agenzie di rating. Siccome le opinioni degli analisti tuttavia hanno un costo e non sono distribuite gratuitamente, i rating rischiano di diventare progressivamente un’alternativa a basso costo alle raccomandazioni di investimento, insomma delle indirette raccomandazioni di investimento ampiamente disponibili nel mercato. Rileva poi ribadire come, mentre il sistema bancario, nell’ambito dell’istruttoria per la concessione di un finanziamento, ha accesso a ogni informazione ritenuta essenziale per valutare il merito di credito di un emittente, il mercato finanziario deve invece poter fare affidamento sull’informativa diffusa al pubblico dall’emittente, sull’affidamento già

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garantitogli da altri investitori, sui prezzi di mercato di tali affidamenti (in termini di interesse). Con i rating, quindi, si cerca di ampliare il set informativo disponibile al mercato, rendendo di pubblico dominio le valutazioni delle agenzie in termini di rating. Tuttavia, tali valutazioni sono enormemente inferiori da un punto di vista qualitativo rispetto a quelle che una banca potrebbe fare in sede di istruttoria per la concessione di un prestito. Di fatto, quindi, con lo spostarsi della funzione creditizia verso i mercati finanziari, la decisione sul merito di credito si sta progressivamente spostando verso il mercato e la funzione economica di valutazione del rischio ed esercizio del credito viene svolta da una molteplicità di operatori finanziari, dal mercato, sulla base di queste valutazioni sintetiche e sommarie. La recente crisi ha dimostrato che lo spostamento verso il mercato delle funzioni bancarie, rischia in parte di creare delle pericolose sacche di accumulo di rischio sistemico. Metterebbe forse conto alla luce di quanto visto, che si tornasse parzialmente indietro e che le banche si riappropriassero almeno in parte di quelle funzioni specialistiche che si erano sviluppate in seno alle stesse, in virtù delle grandi competenze tecniche da queste espresse e della superiorità dei giudizi elaborati da esperti, dediti a questa unica attività, in grado di effettuare un’accurata e specifica due diligence sugli emittenti e sulle emissioni. Solo un’accurata due diligence, infatti, potrà rappresentare un antidoto, almeno in parte, a quella ciclicità dei periodi di bolla e di crisi, che recentemente hanno espresso chiaramente le capacità distruttive, un antidoto, a quella irrational exuberance che abbiamo visto. Inoltre, si rileva come negli USA, il Dodd Frank Act ha eliminato l’esenzione delle agenzie di rating dalla Regulation FD52. Infatti, prima della riforma le agenzie di rating potevano elaborare i propri rating anche sulla base di informazioni non pubbliche, in quanto la disclosure di “non public material information” non violava gli obblighi di fair disclosure in quanto le società di rating non erano considerate equivalenti al pubblico o agli analisti. Oggi invece è stata abrogato questo trattamento speciale concesso alle agenzie di rating e le stesse devono elaborare i loro rating basandosi unicamente su informazioni di pubblico domi-

52.

Si veda la sezione 939 del DFA che prevede l’eliminazione dell’esenzione per le rating agencies dalla disciplina sulla disclosure. La sezione 939B del DFA prevede che si proceda all’:“elimination of exemption from fair disclosure rule … the Securities Exchange Commission shall revise Regulation FD … to remove from such regulation the exemption for entities whose primary business is the issuance of credit ratings”.

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nio. Nell’UE, invece, i rating possono ancora essere elaborati attingendo a informazioni non pubbliche. Il rating stesso poi, rappresentando un elemento informativo aggiuntivo, rappresenta esso stesso una price sensitive information e deve essere reso pubblico seguendo le regole sulla disclosure delle informazioni price sensitive. Rating basati solo su informazioni di pubblico dominio ulteriormente si avvicinano alle elaborazioni degli analisti finanziari non avendo nulla da aggiungere al set informativo esistente: si perde ulteriormente ed evapora un importante elemento aggiuntivo che i rating potevano convogliare nei mercati. L’introduzione della previsione della responsabilità civile per le agenzie di rating che abbiano operato con dolo o colpa grave rischia poi di spazzare via le stesse agenzie di rating. Se da un lato infatti, in termini puramente teorici, non sembra corretto che le rating agencies possano estrarre un lucro da un’attività senza poi essere responsabili dei danni eventualmente causati, dall’altro lato, rendere le agenzie di rating responsabili per danni generati dalla propria attività rischia di alterare gli economics della stessa attività rendendola eccessivamente onerosa. Difatti, una volta considerata l’esposizione generata dall’emissione di un rating, se la rating agency dovesse assicurarsi dai relativi rischi di contenzioso e dalle richieste di danno, il costo stesso dell’emissione di un rating diventerebbe proibitivo. Rendere le rating agencies responsabili civilmente dei danni causati eventualmente rischia nei fatti di cancellare l’esistenza stessa dei credit rating ossia di “regulate rating agencies out of existence”. Parallelamente, non sarebbe neanche possibile acquistare un’assicurazione dal rischio di contenzioso relativo al rating al downgrading di un emittente stato sovrano, per cui considerare le agenzie responsabili dei danni ad uno stato causati da un abbassamento dei rating equivale a vietare alle rating agencies di rilasciare tali rating, o a costringerle ad operare da giurisdizioni più favorevoli. Sarebbe stato al riguardo preferibile introdurre un diverso rimedio, magari di tipo sanzionatorio anziché risarcitorio, oppure si sarebbe dovuto limitare il risarcimento dei danni magari, entro il limite delle commissioni generate dal rating di un certo prodotto, fatta salva l’applicazione di sanzioni. In ogni caso la previsione della responsabilità civile per le agenzie di rating implicitamente sancisce la differenza tra le opinioni degli analisti da quelle delle agenzie stesse, in quanto solo queste ultime sono capaci di generare danni a carico degli investitori53.

53.

314

Si veda ancora Carriero, Brevi note sulle agenzie di rating, il Foro It., 2012, I p. 53.


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Nei fatti, l’avere inserito la possibilità di ritenere responsabili civilmente le agenzie di rating ha già prodotto negli USA cause miliardarie per valori che superano ampiamente la capacità di generare utili delle stesse agenzie di rating. In pratica pendono adesso giudizi dai quali verrà a dipendere l’esistenza stessa delle agenzie di rating. Insomma proprio questa riforma regolamentare, rischia di trasformarsi, per le rating agencies una vera e propria condanna all’oblio oppure, nel migliore dei casi, in uno strumento di minaccia tale da garantire ai governi di mezzo mondo, rating benevoli motivati dal timore di subire cause per danni promosse dagli stessi governi, mirate ad ottenere il risarcimento di un immane presunto danno erariale. Il che dimostra ulteriormente che a fare interventi legislativi non del tutto lineari né ben calibrati si rischia in realtà di fare più male che bene, compromettendo proprio quello svolgimento della funzione economica che invece era ben meritevole di tutela e che doveva essere salvaguardata. Il legislatore in questo caso non sembra aver dato ascolto all’economista. Raffaele Scalcione

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commenti

Negoziazione di derivati e doveri dell’intermediario I Bundesgerichtshof (BGH), 22 march 2011; Chief Justice WiechIlle Papier-Service GmbH (Plaintiff and Appellant) v. Deutsche Bank AG (Defendant and Appellee) ers;

Intermediazione finanziaria – Servizio di consulenza in materia di investimenti – CMS Spread Ladder Swap – Dovere dell’intermediario di valutare la propensione soggettiva del cliente al rischio e l’adeguatezza dello specifico prodotto agli obiettivi di investimento – Sussistenza Intermediazione finanziaria – Servizio di consulenza in materia di investimenti – CMS Spread Ladder Swap – Possibilità di desumere l’adeguatezza del prodotto al profilo di rischio del cliente e la consapevolezza del cliente in merito ai rischi dalle scelte di investimento precedenti e dalla formazione accademica del cliente in ambito economico – Insussistenza. Intermediazione finanziaria – Servizio di consulenza in materia di investimenti – CMS Spread Ladder Swap – Concorso di colpa del cliente che dichiari di aver sottoscritto il prodotto finanziario strutturato complesso nella ingoranza di molti degli aspetti tecnici – Insussistenza Intermediazione finanziaria – Servizio di consulenza in materia di investimenti – Dovere di informazione verso il cliente dei margini di profitto sottesi ad ogni operazione di investimento consigliata – Insussistenza – Dovere di informare il cliente del valore di mercato iniziale negativo di un CMS Spread Ladder Swap negoziato in contropartita diretta dall’intermediario — Sussistenza

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Nella prestazione del servizio di consulenza in relazione ad un prodotto finanziario strutturato altamente complesso come il CMS Spread Ladder Swap, l’intermediario è tenuto a valutare la propensione soggettiva del cliente al rischio e l’adeguatezza dello specifico prodotto agli obiettivi di investimento (anleger und anlagegerechte Beratung), secondo l’art. 31, § 4, WpHG (1). L’adeguatezza di un prodotto finanziario derivato complesso al profilo di rischio di un cliente e la consapevolezza del cliente stesso in merito alla assunzione dei rischi connessi non può desumersi da scelte di investimento precedenti né dalla formazione accademica del cliente in ambito economico (2). La dichiarazione del cliente di aver sottoscritto il CMS Spread Ladder Swap nell’ignoranza di molti degli aspetti tecnici, lungi dal ridimensionare la responsabilità dell’intermediario per concorso di colpa del cliente, ai sensi del § 254 BGB, prova invece il completo affidamento del cliente stesso sulla consulenza della banca (3). L’intermediario non è tenuto ad informare il cliente dei margini di profitto sottesi ad ogni operazione di investimento consigliata. Tuttavia, nel consigliare un CMS Spread Ladder Swap, negoziato in contropartita diretta, l’intermediario finanziario che ometta di informare il cliente sul valore iniziale di mercato negativo è responsabile per violazione del dovere di informazione e assume una posizione in conflitto di interessi con quella del cliente (4). II THE HIGH COURT OF JUSTICE – QUEEN’S BENCH DIVISION COMMERCIAL COURT, 11 february 2010, n. 211; Mr. Justice Davide Steel; Titan Steel Wheels Limited (Claimant) v. The Royal Bank Of Scotland Plc (Defendant) Intermediazione finanziaria – Negoziazione di derivati – Facoltà per una società che stipula contratti derivati nell’ambito della propria attività – Esclusione Intermediazione finanziaria – Negoziazione di derivati – Assenza di prove documentali sulla azione della banca in qualità di advisor – Applicabilità del duty of care – Esclusione Intermediazione finanziaria – Negoziazione di derivati – Clausole che limitano la responsabilità dell’intermediario nei confronti del cliente - Validità

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Una società che stipula contratti derivati ​​nell’ambito della propria attività non può agire per il risarcimento dei danni in qualità di “private person” ai sensi dell’articolo 150 del Financial Services and Markets Act del 2000 (5). Nel caso in cui non esista alcun documento scritto da cui si desuma che la banca abbia prestato un servizio di consulenza, né alcuna richiesta scritta da cui si evinca che è stata richiesta o prestata un’attività di consulenza, né alcuna risposta scritta in relazione alle singole operazioni e le conversazioni telefoniche non contengono richieste verbali di ottenere una consulenza, la banca non ha agito quale advisor e, pertanto, non è tenuta al duty of care in relazione alla negoziazione dei prodotti finanziari (6). La seguente clausola «ad eccezione dei casi di negligenza, dolo o frode, la Banca non è responsabile per il lucro cessante, la perdita derivante da atti od omissioni compiuti nell’ambito o in relazione a o in connessione con i termini del contratto o i servizi forniti ai sensi dello stesso, qualsiasi diminuzione del valore degli investimenti acquistati o detenuti dalla Banca per conto di Titan, o eventuali errori di fatto o di giudizio di qualsiasi tipo» soddisfa il test di ragionevolezza, dal momento che: (a) vi è totale parità di potere contrattuale; (b) tali clausole rappresentano uno standard per molte banche; (c) non è difficile per il cliente ottenere la prestazione di un servizio di consulenza da una fonte diversa, qualora lo desideri (7).

I (Omissis) Following the hearing of 8 February 2011, the 11th Civil Senate of the Federal Court of Justice (BGH), as rappresented by Chief Justice Wiechers and Justices Dr. Joeres, Mayen, Dr. Ellenberger and Dr. Matthias, held as follows: In response to the Plaintiff’s appeal on points of law (“Revision”), the ruling dated 30 December 2009 of the 23rd Civil Senate of the Higher Regional Court of Frankfurt am Main (Oberlandesgericht, OLG) is reversed. In response to the Plaintiff’s ap-

peal on points of fact and law (“Berufung”), the ruling dated 4 August 2008 of the 9th Civil Chamber of the Regional Court of Hanau (Landgericht) is amended as follows: The Defendant is ordered to pay to the Plaintiff the amount of EUR 541,074.00 plus interest at a rate of five percentage points above the base rate since 5 February 2008. Otherwise, the suit is dismissed and all other appeals are rejected. The Defendant shall bear the costs of the legal dispute. So ordered.

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The Facts of the Case: 1. The Plaintiff is asserting claims for damages against the defendant bank to compensate for losses suffered as a result of erroneous investment advice received in connection with the conclusion in 2005 of a CMS Spread Ladder Swap contract constructed by the Defendant. 2. As early as February and July of 2002, the Plaintiff, which operates a medium-sized enterprise in the washroom hygiene business, entered into two interest rate swap contracts with another bank under which this bank was obliged, in reference to a nominal amount of EUR 1,000,000.00 for each contract, to pay to the Plaintiff a variable interest rate (respectively, sixmonth and three-month EURIBOR), in return for which the Plaintiff undertook to pay to the bank a fixed interest rate of respectively 5.25% and 5.29% from this reference amount. Both contracts were entered into for a term of ten years. 3. In two discussions on 7 January and 15 February 2005 which were attended on the Plaintiff’s behalf by its managing director as well as its officer vested with general commercial power (“Prokurist”), who holds an economics degree, the Defendant, by means of a written presentation, advised the Plaintiff on the possibility of reducing the interest burden from the two ongoing interest-rate swap contracts. Since the interest rate had fallen dramatically in the meantime, the two contracts had negative market values as of the time the advice was provided – EUR 124,700 and EUR 130,825 – which the Defendant explained in the consultations. On the basis of its prediction that the difference (spread)

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between the two-year and ten-year interest rates would likely widen significantly in the future, the Defendant recommended a CMS Spread Ladder Swap contract, which the parties executed on 16 February 2005. Under this contract, the Defendant was obliged, in relation to the reference amount of EUR 2,000,000.00, to make semi-annual payments to the Plaintiff for a period of five years in the amount of a fixed interest rate of 3% p.a., whereas the Plaintiff undertook to pay to the Defendant, on the same dates and in relation to the same reference amount, interest at a rate of 1.5% p.a. in the first year, and thereafter at a variable interest rate equalling at least 0.0%, such variable interest rate being calculated as follows in line with the development of the “spread” (Base Rate A1 - Base Rate A2) as specified in the contract deed: “For the calculation period from 20 February 2006 until 18 August 2006: 1.50% p.a. plus 3 x [1.00% p.a. minus (Base Rate A1 minus Base Rate A2)]. For the calculation period from 18 August 2006 until 19 February 2007: The preceding variable rate plus 3 x [1.00% p.a. minus (Base Rate A1 minus Base Rate A2)]. For the calculation period from 19 February 2007 until 18 August 2007: The preceding variable rate plus 3 x [0.85% p.a. minus (Base Rate A1 minus Base Rate A2)]. For the calculation period from 18 August 2007 until 18 February 2008: The preceding variable rate plus 3 x [0.85% p.a. minus (Base Rate A1 minus Base Rate A2)]. For the calculation period from 18 February 2008 until 18 August 2008:


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The preceding variable rate plus 3 x [0.70% p.a. minus (Base Rate A1 minus Base Rate A2)]. For the calculation period from 18 August 2008 until 18 February 2009 The preceding variable rate plus 3 x [0.70% p.a. minus (Base Rate A1 minus Base Rate A2)]. For the calculation period from 18 February 2009 until 18 August 2009: The preceding variable rate plus 3 x [0.55% p.a. minus (Base Rate A1 minus Base Rate A2)]. For the calculation period from 18 August 2009 until the end date: The preceding variable rate plus 3 x [0.55% p.a. minus (Base Rate A1 minus Base Rate A2)]. Determination of Base Rate A1: average 10-year swap rate (…) “based on EURIBOR” (…) Determination of Base Rate A2: average 2-year swap rate (…) “based on EURIBOR” (…) 4. The master agreement for financial future contracts which the parties executed on the same day called for a netting of the respective interest payments, to the effect that only the party which owed the greater amount on a given due date had to pay the difference between the amounts owed. In the absence of good cause, unilateral termination of the contract by either party was barred for a term of three years, whereupon termination was subject to compensatory payment of the contract’s current market value. In the presentation documents used during the consultations, the Defendant’s discussion of “risks” included, inter alia, a reference to the fact that, in the event that the interest rate spread fell markedly, the Plaintiff would have to make greater interest payments than it

received. The Defendant described the Plaintiff’s risk of loss as “unlimited in theory.” At the time of the conclusion, the CMS Spread Ladder Swap contract had a negative market value in the amount of approx. 4% of the reference amount (approx. EUR 80,000), which the Defendant deliberately incorporated but did disclose to the Plaintiff. 5. Starting in autumn of 2005, the Defendant’s prediction to the contrary notwithstanding, the interest rate spread relevant to the calculation of the Plaintiff’s interest payment obligation fell steadily, with the Plaintiff’s interest liability prevailing by the end of the first year. On 26 October 2006, the Plaintiff challenged the CMS Spread Ladder Swap contract, citing fraudulent misrepresentation – a claim the Defendant denied. On 26 January 2007, the swap transaction was terminated against the Plaintiff’s compensatory payment in the amount of the then-current negative market value, EUR 566,850.00. 6. The Plaintiff is of the opinion that the swap contract entered into with the Defendant was void because it was immoral in nature (Sec. 138 of the Civil Code (BGB)) and failed to observe the transparency requirement (Sec. 307 para. 1 sentence 2 BGB). In addition, the Plaintiff claims it was the victim of fraudulent misrepresentation (Sec. 123 BGB) at the hands of and received erroneous advice from the Defendant, who had failed to sufficiently apprise the Plaintiff of the risks associated with the swap and recommended a transaction at odds with its risk propensity and investment goals. 7. Under the statement of claim served on 5 February 2008, the Plaintiff sued the Defendant for a refund

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of its payment of EUR 541,074.00, as adjusted for interest payments received in the first year of the contractual term, plus interest. In the alternative, in the event that it should prevail either wholly or in part, it originally sought to have the Defendant ordered to provide indemnification for such other damages as may result from the tax authorities not recognising losses from the swap transaction as deductible operating expenses. At the appellate instance, it instead moved, in the alternative, for a declaratory judgment that the Defendant is liable for such other future damages as may yet result from the CMS Spread Ladder Swap contract entered into on 16 February 2005. The suit was successful in neither court of lower instance. The Plaintiff is now pursuing its prayer for relief by way of this appeal on points of law. Grounds for the Court’s Decision: 8. Insofar as the appeal on points of law is aimed against the dismissal of the principal claim, it is justified. Accordingly, it results in the reversal of the challenged decision and, since further factual findings are not to be expected (Sec. 563 para. 3 of the Code of Civil Procedure (ZPO), in a judgment against the Defendant to the extent that the regional court’s decision is hereby amended. Insofar as the appeal on points of law continues to pursue the motion in the alternative seeking a declaratory judgment, it is not successful. I. 9. The appellate court whose decision is published in ZIP 2010, 921 et seq. has rejected the Plaintiff’s claim on account of unjust enrichment as well as its claim for damages, essen-

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tially basing its judgment on the following grounds: 10. The CMS Spread Ladder Swap contract entered into between the parties was not void on account of its alleged immoral nature according to Sec. 138 BGB. The construct of private autonomy permits the execution of high-risk transactions. From the Plaintiff’s viewpoint, the transaction had the appearance of a speculative bet with the added benefit that none of its own capital had to be wagered and that, under a realistic view realistic return prospects were possible. A highrisk transaction was not immoral even if gains were contingent on favourable circumstances. 11. Even if one were to assume that the contractual provisions constitute general terms and conditions, a view made questionable by the individual negotiation of the calculation formula’s wording and the modification of the termination clause, the provision addressing the calculation of the payments to be made by the Plaintiff to the Defendant did not violate the transparency requirement under Sec. 307 para. 1 sentence 2 BGB. It was not apparent how, in the case under consideration, the complicated model could have been represented in a much more simple fashion, especially since a company with experience in business did not warrant the same level of protection as consumers. 12. A case of fraudulent misrepresentation giving the Plaintiff the right to challenge the contract pursuant to Sec. 123 BGB would require that facts requiring disclosure were concealed with some degree of intent. However, since the parties were bound to one


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another under a consulting agreement, the question of the scope of disclosure duties had to be examined primarily from a contractual viewpoint. 13. The Defendant did not violate its duties under the consulting agreement. Its advice was given in a manner consistent with the investor profile (“anlegergerecht”). And while the bank dispensing advice had an obligation to inquire into the client’s risk propensity (which is disputed between the parties) as a fundamental element of the investment goals, no duty of inquiry applied if and to the extent that the client did not warrant protection on account of its previous experience and knowledge. The fact that the Plaintiff had previously entered into two other interest swap transactions, which it claims merely served the purpose of hedging against the risk of an underlying transaction, may not be a decisive argument in this regard. However, it was significant that the meetings were attended not only by the managing director, but also by an economist who might have been expected to understand the structure of swap contracts and the mathematical formulas used, to the effect that the Defendant was under no obligation to make an issue of the Plaintiff’s general willingness to assume considerable risk. 14. The consultation was proper in terms of matching the instrument to the investor (“objektgerecht”) as well. Insofar as the Plaintiff claimed that a majority of experts had anticipated a reduction of the “spread,” this question could remain open as the expectations were not verifiable. The uncertainty of future developments inevitably led to various viewpoints,

which the Defendant was not obliged to mention. Since it was impossible to forecast interest performance years in advance with any assurance, such forecasts were of minor significance and did not warrant further inquiry. That the Defendant promoted the contract as a means of “interest optimization” was unfortunate in terms of its choice of words since a CMS Spread Ladder Swap contract is structurally not suited to the task of hedging against the risks associated with certain credit liabilities. However, this term, which was used in the presentation, should not be held to the academic standards of finance; in the broadest sense, any financial product, which in the event of favourable developments yielded earnings, was a suitable tool for the reduction of existing interest burdens. Moreover, the Defendant was under no obligation to point out that the contract between the parties had a negative market value at the time of closing. This value indicated what the client would have had to pay to the bank by way of compensation in the event of the contract’s premature termination, and thus constituted, for the time being, a purely hypothetical amount, which was further subject to permanent changes and could also be called a “snap shot.” Given the swap transactions previously entered into with another bank, it could be assumed that the Plaintiff was aware that swap contracts came with different starting prospects, to the effect that, at the time of conclusion, there was no balanced market value. It was customary for the party wishing to end a contract prematurely to owe some kind of compensation, so that the negative market value,

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which resembled an early termination penalty, warranted no special mention or disclosure. 15. Beyond that, the Plaintiff’s managing director stated, on the occasion of the hearing, that he had agreed to the contract even though he had not understood the underlying model. By embracing a transaction with significant economic repercussions without the individual authorized to negotiate for and represent the Plaintiff having first gained an understanding of potential consequences, the Plaintiff knowingly took on a risk which it could not pass on to its contractual partner. II. 16. These arguments do not withstand a legal review in some critical points. 17. 1. It may remain open whether the contract is immoral in nature (Sec. 138 BGB) or fails to observe the transparency requirement (Sec. 307 para. 1 sentence 2 BGB), or whether the Plaintiff’s challenge has merit given the Defendant’s fraudulent misrepresentation (Sec. 123 BGB), giving rise to a claim on account of unjust enrichment against the Defendant. 18. 2. At any rate, the prayer for relief seeking a payment in the amount of EUR 541,074.00 plus interest is justified because the Plaintiff holds a claim for damages on account of the defendant’s breach of its advisory duty. 19. a) According to the appellate court’s undisputed and legally correct findings, the parties entered into a consulting agreement. 20. b) Under this agreement, the Defendant is obliged to provide the Plaintiff with advice that is consistent with the investor profile and matches

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the instrument to the investor (cf. Senate’s decision dated 6 July 1993 - XI ZR 12/93, BGHZ 123, 126, 128 et seq.). The specifics and scope of the advisory duty depend on the circumstances present, to the determinative factors being the client’s existing knowledge, risk propensity and investment goal on the one hand and the general risks (e.g., economic trends and capital market development) as well as the special risks associated with the investment on the other (Senate’s decisions dated 6 July 1993 - XI ZR 12/93, BGHZ 123, 126, 128 et seq., dated 7 October 2008 - XI ZR 89/07, BGHZ 178, 149 margin no. 12, dated 9 May 2000 - XI ZR 159/99, WM 2000, 1441, 1442, and dated 14 July 2009 - XI ZR 152/08, WM 2009, 1647 margin no. 49). While the disclosure to the client with respect to the factors that are of critical importance to the investment decision must be accurate and complete, the assessment and recommendation of an investment must be merely reasonable from an ex-ante viewpoint and in light of the factors mentioned. The risk that an investment decision made on the basis of advice that is consistent with the investor profile and matches the instrument to the investor is subsequently revealed as false is borne by the investor (Senate’s decisions dated 21 March 2006 - XI ZR 63/05, WM 2006, 851 margin no. 21, dated 14 July 2009 - XI ZR 152/08, WM 2009, 1647 margin no. 49, and dated 27 October 2009 - XI ZR 337/08, WM 2009, 2303 margin no. 19). 21. c) Based on the appellate court’s findings to date, it cannot be assumed that the Defendant properly discharged its duty to provide advice that is consistent with the Plaintiff’s


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investor profile. According to the findings of the appellate court, the recommended investment, the CMS Spread Ladder Swap contract, represents a high-risk transaction, a “sort of speculative bet.” Whether the Plaintiff was prepared to assume a risk this high is disputed between the parties. The appellate court incorrectly posited that this question was of no concern as the Plaintiff had been represented in the negotiations by an economist (the officer vested with general commercial power), who may reasonably be expected to understand the structure of swap contracts and their mathematical formulas in view of the sample calculations used in the presentation documents, to the effect that the Defendant was under no obligation to make an issue of the Plaintiff’s general propensity for risk. This stance does not hold up to legal scrutiny on appeal. 22. aa) The appellate court assumes correctly, in theory, that the advising bank has a duty under BGH case law to inquire into the knowledge, experience and investment goals, which include investment purpose and risk propensity, prior to issuing a recommendation for an investment (Senate’s decision dated 6 July 1993 - XI ZR 12/93, BGHZ 123, 126, 129). For financial services providers, such as the Defendant, this duty has also been standardised as a regulatory matter (Sec. 31 para. 2 sentence 2 no. 1 of the securities trading act (WpHG), previous version, or Sec. 31 para. 4 WpHG, current version). The duty of inquiry only lapses if and to the extent that the advising bank is already familiar with these circumstances – for instance, as a result of its long-stand-

ing business relationship with – or the previous investment behaviour of– the investor (Senate, l.c., p. 129; Hannöver in Schimansky/Bunte/Lwowski, Bankrechts-Handbuch, 3rd edition, Sec. 110 margin no. 32; Lang/Balzer in Festschrift Nobbe, 2009, p. 639, 644; ad Sec. 31 WpHG; Braun/Lang/Loy in Ellenberger/Schäfer/Clouth/Lang, Praktikerhandbuch Wertpapier- und Derivategeschäft, 3rd edition margin no. 256; Koller in Assmann/Schneider, WpHG, 5th edition, Sec. 31 margin no. 49; Lang, Informationspflichten bei Wertpapierdienstleistungen, Sec. 9 margin no. 16). 23. bb) The Plaintiff asserts that the Defendant did not establish its risk propensity. The Defendant argues that doing so was not necessary in view of the specific consulting situation and the Plaintiff’s previous investment behaviour. This is not correct. 24. (1) Even if, as is the case here, the advising bank describes risks using sample calculations and notes a risk of loss that is “unlimited in theory,” it cannot reasonably assume with respect to a highly complex structured financial product such as the CMS Spread Ladder Swap contract in question that a client who entered into the transaction is willing to take considerable risk. The investment advisor is specifically required to limit its recommendations to products that actually correspond with the client’s investment goals, investment purpose and risk propensity. If it fails to inquire into the client’s propensity for risk prior to making an investment recommendation, as case and regulatory law mandate, it can discharge its duty to make a recommendation consistent with the investor profile only by mak-

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ing certain that the client understood the disclosed risks associated with the financial product in every respect before an investment decision is made. Otherwise, it must not assume that its recommendation matches the client’s risk propensity. For this purpose, the Defendant would have had to make sure that the Plaintiff knows that its risk of loss, as opposed to the Defendant’s risk of loss, is unlimited and exists not only in theory but also, in the event of certain interest rate trends, represents a very real possibility. There are no findings in this regard. 25. (2) Contrary to the appellate court’s view, it is of no consequence in this context that an economist attended the consultation for the Plaintiff. On the one hand, the BGH ruled on multiple occasions that the client’s professional qualifications alone do not suffice as grounds for the presumption of knowledge and experience in connection with future financial transactions so long as there is no concrete indication that such knowledge and experience was actually gained in connection with the pursuit of the client’s professional activities (Senate’s decisions dated 24 September 1996 - XI ZR 244/95, WM 1997, 309, 311, dated 21 October 2003 - XI ZR 453/02, ZIP 2003, 2242, 2244 et seq., and dated 28 September 2004 - XI 259/03, WM 2004, 2205, 2006 et seq.). This the appellate court did not establish. The position of executive officer (Prokurist) with a medium-sized enterprise in the washroom hygiene business also does not suggest knowledge of the specific risks associated with the investment product at issue here. And on the other hand, the appellate court failed to see that the

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client’s risk propensity cannot be derived from the pertinent knowledge it might have. Such existing knowledge does not affect the duty assumed by the advisor to identify the client’s investment goals and identify a suitable product (cf. Braun/Lang/Loy in Ellenberger/Schäfer/Clouth/Lang, Praktikerhandbuch Wertpapier- und Derivategeschäft, 3rd edition margin no. 255; Koller in Assmann/Schneider, WpHG, Sec. 31 margin no. 49 – in each instance, with respect to “professional clients” within the meaning of Sec. 31a para. 2 WpHG, current version). 26. (3) Nor was the Defendant able to deduce a risk propensity commensurate with the CMS Spread Ladder Swap contract from the client’s previous investment behaviour. The two interest swap contracts entered into with another bank as early as 2002 exhibit a much more simple structure and are not comparable in terms of risk. This is especially true if, as the Plaintiff claims, it entered into these contracts in order to hedge against the risks associated with a variable-interest loan. If such a related underlying transaction exists with a countervailing risk, the interest swap contract does not amount to a speculative assumption of an open risk position but is solely geared toward the “swap” of a variable-interest loan against fixed-interest debt and entails a waiver of the opportunity to partake in a favourable development of the interest rate (cf. Clouth in Ellenberger/Schäfer/Clouth/ Lang, Praktikerhandbuch Wertpapierund Derivategeschäft, 3rd edition margin nos. 1030 et seqq.; Jahn in Schimansky/Bunte/Lwowski, Bankrechts-Handbuch, 3rd edition, Sec. 114 margin no. 3).


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But even if the Plaintiff had indeed entered into the swap contracts in 2002 without a corresponding connection to an underlying transaction, it did not embrace an unlimited risk of loss with these contracts – unlike the CMS Spread Ladder Swap contract. For the former, its payments were calculated on the basis of fixed interest rates, to the effect that its maximum risk was limited to the difference between these interest rates, 5.25% and 5.29%, and “zero.” For this reason, no real significance should be accorded to the fact that, at the time the Defendant provided advice, the two 2002 contracts had respective negative market values of EUR 124,700.00 and EUR 130,825.00 as the Defendant notes in this context. 27. cc) To settle the question of the risk propensity of the Plaintiff, who – according to its own pleadings – intended to invest “conservatively,” the Senate would have to remand the matter to the appellate court following the reversal of the appellate decision. However, this will not be necessary because it is clear for another reason that the Defendant failed to properly discharge its advisory duty. 28. d) The Defendant’s advice was not proper in terms of matching the instrument to the investor. 29. aa) The requirements to be imposed on the advising bank to this extent are considerable for a structured product as complex and risky as the CMS Spread Ladder Swap contract. In contrast with the Defendant’s view, the risks associated with this interest bet cannot be fully appreciated merely by understanding the steps comprising the calculation of the liability for variable-interest payments.

Rather, the advising bank must make it clear to the client in a comprehensible and non-trivializing manner that the unlimited risk of loss exists not just “in theory” but may be both real and ruinous depending on the development of the “spread.” For this purpose, it is necessary not only to explain all of the elements of the formula used to calculate the variable interest rate (multiplication factor, “strike,” link to interest rate of the previous period, client’s minimum interest rate of 0.0%) and their concrete effects (e.g., leverage, “memory effect”) for all conceivable developments of the “spread,” but also to advise the client in no uncertain terms that the riskreward profile is off-balance between the parties to the interest bet: While the client’s risk is unlimited, the bank’s risk is – irrespective of its own hedging transactions – limited from the start in that capping the variable interest at 0% (“floor”) rules out a negative interest liability on the client’s part, which could increase the bank’s interest liability fixed at 3% p.a. Not having explained all of these factors, the bank cannot assume that the client understands the transaction’s risks. Even in the case of a product this highly complex, a disclosure, the scope and depth of which depend on individual circumstances, must procure that the client’s level of knowledge in terms of the transactional risk involved is largely identical with the bank’s level of knowledge because a responsible decision as to whether the interest bet is to be accepted cannot be made otherwise. 30. Answering the question whether the Defendant met these considerable requirements for advice that

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properly matches the instrument to the investor, which would necessitate additional judicial determinations, is a step that may be omitted as the Defendant committed another breach of its advisory duty. 31. bb) By contrast to the appellate court’s view, the Defendant did breach its duty to advise by failing to disclose to the Plaintiff that the contract it recommended had a market value at the time of conclusion that was negative for the Plaintiff and equalled approx. 4% of the reference sum (approx. EUR 80,000.00). The appeal on points of law successfully takes aim at the appellate court’s assumption that a disclosure of this nature was not required since the negative market value merely referred to the amount payable by way of compensation in the event of the contract’s premature termination – which for the client and at the time of conclusion was entirely theoretical. This does not do justice to the significance of the negative initial value to the client; it is of critical significance to the assessment of the interest bet at issue because it is a manifestation of the defendant’s serious conflict of interest. 32. (1) Under the consulting agreement, the bank assumes the duty to issue a recommendation tailored to the client’s specific interests. For this reason, it must avoid – or disclose – conflicts of interest that may compromise the advisory goal and endanger the client’s interests (Senate’s decision dated 19 December 2006 - XI ZR 56/05, BGHZ 170, 226 margin no. 23, rulings dated 20 January 2009 - XI ZR 510/07, WM 2009, 405 margin no. 12 et seq., and dated 29 June 2010 - XI ZR 308/09, WM 2010, 1694 mar-

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gin no. 5). This principle of civil law has been standardized for regulatory purposes in the area of transactions subject to the Securities Trading Act in Sec. 31 para. 1 no. 2 WpHG (Senate’s decision dated 20 January 2009, l.c. margin no. 12). 33. (2) Accordingly, the Defendant had to disclose to the Plaintiff the negative initial value of the CMS Spread Ladder Swap contract, which it deliberately incorporated (likewise: Roller/ Elster/Knappe, ZBB 2007, 345, 357; for similar results, see OLG Stuttgart, WM 2010, 756, 762 et seq., and WM 2010, 2169, 2173 et seqq.; l.c. OLG Bamberg, WM 2009, 1082, 1095; OLG Frankfurt am Main, WM 2009, 1563, 1564 et seq.; OLG Celle, WM 2009, 2171, 2174; OLG Frankfurt am Main, WM 2010, 1790, 1795 et seq.; OLG Hamm, BKR 2011, 68, 73; Clouth in Ellenberger/Schäfer/Clouth/Lang, Praktikerhandbuch Wertpapier- und Derivategeschäft, 3rd edition margin no. 1066 item 1258; Hoffmann-Theinert/ Tiwisina, EWiR 2011, 9, 10; Jaskulla, WuB I G 1. - 3.10; Koller, WuB I G 1. - 4.08; Langen, DB 2009, 2710 et seq.; Lehmann, BKR 2008, 488, 496; Wolf, EWiR 2009, 763, 764; for what is likely another position against such a disclosure duty, see Weber, ZIP 2008, 2199, 2201). 34. a) When recommending the CMS Spread Ladder Swap contract, in which the profit of one party mirrors the loss of the other, the Defendant, as the advising bank, finds itself in a serious conflict of interest. As a party to the interest bet, it assumes a role that runs counter to the client’s interests as the “swap” will turn out favourably for it only if its own forecast as to the performance of the base value – the wid-


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ening of the interest difference – will not come to bear, causing the Plaintiff to suffer a loss. As the Plaintiff’s advisor, however, it is obliged to look out for the Plaintiff’s interests, which is why it should strive to generate the greatest possible gains for the client, which would translate into a corresponding loss for itself. 35. The Defendant means to solve this conflict of interest by not holding onto its role as the Plaintiff’s “competitor” for the contractual term, instead passing its risks and rewards associated with the transaction onto other market participants by means of “hedging transactions.” This does not have the desired effect. Following the execution of the “hedging transactions,” the Defendant no longer has a stake in the “spread’s” development over the term of the swap contract only because it has already covered its costs and locked in its profits by means of these hedges. This the Defendant made possible by deliberately structuring the terms of the swap contract to the effect that it had a negative market value for the client in the amount of 4% of the reference sum (EUR 80,000.00). As the Defendant pleads, the current market value of the contract is determined using mathematical calculation models of a financial nature, which – in consideration of any option components – have the effect of comparing the parties’ future fixed and variable interest payments and discounting them to the value date at the discount rates in effect as of the payment dates. Since the development of the variable interest rate is naturally unknown, the client’s future payment obligations are calculated using a simulation model

based on the forward interest rates computed for the value date. If, using the simulation models available, the “market” puts the risk assumed by the Plaintiff at the time of closing at approx. –4% of the reference amount, this means for the Defendant that its prospects are appraised positively in this amount, and it is this advantage it had others purchase as part of the “hedging transactions.” 36. (b) The negative initial market value the Defendant incorporated thus betrays its grave conflict of interest and is further likely to endanger the Plaintiff’s interests. If the advising bank draws benefits from the fact that the market currently assigns a negative amount of approx. EUR 80,000 to the risk assumed by the client with the products the bank recommended, there is a concrete risk of the recommendation being driven by factors other than the client’s interests. Even though the forecast of a widening “spread” was reasonable at the time of the consultation, to the effect that losses from the swap transaction could not have been foreseen, the investment recommendation, as seen from the client’s perspective, does appear in another light entirely once it becomes clear that the highly complex interest-calculation formula for its payments was structured such that the market currently rates its risks as more negative than the countervailing risks of its contractual partner and advisor. By contrast to the view expressed in the response to the appeal on points of law, it does not matter whether the Defendant’s incorporated profit margin was common to the market and did not significantly undercut the client’s chances of success. Instead,

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what counts is that the integrity of the Defendant’s consulting service was placed in doubt when it let others purchase what was, at the time of closing and based on the calculation models, the client’s prevailing risk of loss right after such risk was accepted by the client on the bank’s recommendation. 37. (c) By contrast to the response to the appeal on points of law, the Plaintiff’s need for disclosure did not lapse as a result of its knowledge of the negative market value at the time of conclusion; the appellate court did not make a determination to that effect. And to the extent that it allowed the assumption that the Plaintiff had been familiar with the investment concept entailing negative initial market values as a result of the swap contracts entered into with another bank in the year 2002, to the effect that it further knew that swap contracts were characterised by imbalanced starting prospects, we are dealing with a legal conclusion that does not hold up to the scrutiny associated with a review on points of law. Even if the two other swap contracts had likewise exhibited negative market values for the Plaintiff at the time of closing, which has not been established, it would remain to be demonstrated – and is not apparent – that the Plaintiff was advised accordingly by the other bank. On the basis of the Defendant’s presentation documents, it was merely aware that the market values of these agreements had become negative by the time of the Defendant’s consultation in early 2005 since the interest had fallen in the meantime. 38. (d) The Defendant accurately pointed out on the occasion of the hearing that a bank recommending

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its own investment products, as is the case here, is not obliged as a rule to note that it generates income with such products; this would be obvious to the client in such a case (cf. BGH, decision dated 15 April 2010 - III ZR 196/09, BGHZ 185, 185 margin no. 12). The inherent conflict of interest is so obvious that a separate notice need not be provided save in the presence of special circumstances. The conflict of interest requiring disclosure in this case is inherent in neither the Defendant’s general profit-making motive nor the specific amount of the builtin profit margin. Instead, the need for disclosure is triggered solely by the particularity of the product it specifically recommended and the risk structure which it deliberately designed to the client’s detriment in order to be in a position to “sell” the risk the client assumed as a result of its consulting service directly in connection with the conclusion. Unlike the bank’s general profit-making motive, the client can specifically not recognize as much, and that the shift in rewards was disclosed in the terms of the swap contract, as the Defendant notes, does nothing to change that. By its own admission, a more or less complicated financial calculation is required to determine the swap’s individual structural elements – one the bank can typically perform, but not the client. 39. e) That the Defendant did not disclose the built-in negative initial value is something it must answer for. Pursuant to Sec. 280 para. 1 sentence 2 BGB, the party subject to disclosure duties must plead and demonstrate that it is not responsible for a breach of duty (cf. BGH, decisions dated 18 January 2007 - III ZR 44/06, WM 2007,


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542 margin no. 18, and dated 12 May 2009 - XI ZR 586/07, WM 2009, 1274 margin no. 17; Senate’s decision dated 29 June 2010 - XI ZR 308/09, WM 2010, 1694 margin no. 3). The Defendant did not plead circumstances capable of invalidating such a conclusion. 40. f) According to the presumption of behaviour in accordance with the given disclosure (cf. BGH, decisions dated 5 July 1973 - VII ZR 12/73, BGHZ 61, 118, 122 et seq., dated 16 November 1993 - XI ZR 214/92, BGHZ 124, 151, 159 et seq., dated 7 may 2002 - XI ZR 197/01, BGHZ 151, 5, 12, dated 2 March 2009 - II ZR 266/07, WM 2009, 789 margin no. 6, and dated 12 May 2009 - XI ZR 586/07, WM 2009, 1274 margin no. 22), which basically applies to all of an investment advisor’s disclosure deficits, especially in the event of a party’s culpable failure to disclose a collision of interest (cf. Senate’s decision dated 12 May 2009 XI ZR 586/07, WM 2009, 1274 margin no. 22), as is the case here, it is clear that the Defendant’s breach of duty was the reason for the Plaintiff’s investment decision. And the Defendant, which bears the burden of pleading and proof, has not pleaded circumstances opposing – or capable of invalidating – such a conclusion, either. Its pleadings to the effect that nothing indicated that the Plaintiff would not have entered into the swap contract had it been aware of the negative initial market value does not meet the requirements for the presentation of specific circumstances refuting the conclusion. 41. g) By contrast to what the Defendant believes, the claim for damages is not to be reduced to account for

the Plaintiff’s contributory negligence according to Sec. 254 BGB since the Plaintiff’s managing director stated, on the occasion of the hearing before the appellate court, that he had agreed to the contract even though he had not understood the underlying model. According to permanent BGH case law, the party subject to a duty of information is prohibited as a rule under Sec. 254 para. 1 BGB from arguing that the damaged party should not have relied on the information provided and thus bore partial responsibility for the resulting damages. The opposing view would run counter to the notion underlying the disclosure and advisory duties, according to which the investor may typically presume the advice received to be accurate and complete (BGH, decision dated 13 January 2004 - XI ZR 355/02, WM 2004, 422, 425, and dated 8 July 2010 - III ZR 249/09, WM 2010, 1493 margin no. 21, additional sources available; slated for publication in BGHZ). Consequently, a claim adjustment is not an option here. The Plaintiff’s decision to transact the investment without understanding the investment concept specifically denotes such special trust, which moves investors primarily to heed “their” advisors’ recommendations and prevents them from asking additional questions or making inquiries (cf. BGH, decision dated 22 July 2010 - III ZR 203/09, WM 2010, 1690 margin no. 15). 42. h) The amount of damages as provided by the Plaintiff, EUR 541,074.00, is undisputed. 43. 3. The alternative motion the Plaintiff submitted, in the event that it should prevail either wholly or in part, with a view to having the Defendant

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ordered to bear the costs of additional damages, however, is unsuccessful. As the Defendant already asserted, accurately, before the appellate court, there is no interest in a declaratory judgment (Sec. 256 ZPO), to the effect that the suit is to be dismissed to such extent, with the appeals overturned accordingly. In cases of financial loss only, the admissibility of an action seeking a declaratory judgment depends on the likelihood of damages resulting from the breach in question (Senate’s decision dated 24 January 2006 - XI ZR 384/03, BGHZ 166, 84 margin no. 27, additional sources available), and this is what is lacking here. In an attempt to establish possible future damages, the Plaintiff argued that, according to the tax provision of Sec. 15 para. 4 sentence 3 of the income tax act (EStG), losses from forward transactions must not be offset against

profits as a matter of principle, to the effect that it faces additional damages in that the tax authorities would not recognise losses from the CMS Spread Ladder Swap contract as deductible operating expenses. This is not a disadvantage that follows from the Defendant’s breach of duty. On the one hand, under Sec. 249 para. 1 BGB, the Plaintiff may merely demand to be placed in the situation it would be in had it never made the investment decision based on advice provided in violation of duties, to the effect that the possibility of offsetting against losses was never available. On the other hand, the fact that the losses from the transaction in dispute cannot be offset against income from business operations or other sources as a rule owes solely to the legal di-

rective of Sec. 15 para. 4 sentence 3 EStG.

II (Omissis) Mr Justice David Steel: Introduction. In these proceedings, the Claimant (“Titan”) has claimed for losses arising from the alleged mis-selling of two derivative products by the Defendant (“the Bank”) in June and September 2007. The bank denies any liability and counterclaims for the costs of closing the transactions out. Titan is a manufacturer of steel wheels for the “off-highway” vehicle industry. Titan’s income is predominantly in euros whereas much of its expenditure is in sterling. Thus it needs to sell Euros and purchase Sterling

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on a regular basis. Therefore, whilst it may be committed to expenditure in Sterling over the medium term (for example by way of salaries and plant purchase), if the value of the Euro deteriorated Titan would be exposed to a shortfall in available income to meet its expenditure. The claim concerns two currency swap or derivative products that the Bank provided in June 2007 and September 2007. In a nutshell Titan says that these products were so unusual and complex that (a) Titan’s financial controller had no actual or implied authority to enter into them and the facts were such that the Bank knew this;


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(b) the Bank advised Titan to take these products which were in fact unsuitable to its needs and thus is liable in negligence; (c) the Bank had a duty under the FSA rules to deal “fairly” with Titan including a duty to ensure that communications or descriptions of the products were accurate and not misleading and that, although the information provided by the Bank contained some health warnings, they did not go far enough. The Bank on the other hand says that the claim was misconceived: (a) Titan had used these (or quite similar) products for a long period without complaint and the financial controller had actual, implied or ostensible authority to enter into them on Titan’s behalf; (b) Titan was well able to work out for itself what was or was not suitable: and it either did so or cannot blame the Bank if its decision to use these products was misguided; (c) there was no advice given and the Bank’s contractual terms make it plain that no advice was being given or if it was it should not have been relied upon; (d) there is no duty under the FSA rules which is actionable as a matter of breach of statutory duty by Titan. The Bank has a counterclaim which represents the loss on the closing out of the two transactions in issue. This is valued at £2.8m plus interest. Whilst there may be some relatively minor issues as to the precise calculation of this figure, Titan accepts that if the claim fails they will have a liability of something like this under the terms of the transactions entered into. The preliminary issue. This is the trial of certain preliminary issues as directed by Mr Justice Flaux at a CMC on 30 April 2009 and

as amended by the Order of Mr Justice Hamblen on 17 September: (i) Issue 1: Was Titan a “private person” as defined by the Financial Services and Markets Act 2000 (Rights of Action) Regulations 2001? (ii) Issue 3: In a series of telephone conversations between a Mr Annetts (Titan’s financial controller) and a Ms Plested (a corporate treasury manager of the Bank), did the Bank act in the capacity of an advisor to the Bank and did it owe a common law duty of care in respect of advice given in respect of either (a) the June 2007 Currency Swap Product; or (b) the September 2007 Currency Swap Product? 1 (iii) Issue 11: Are all or any of the contractual terms exclusion clauses which are subject to the Unfair Contract Terms Act 1977? If so, is the Bank entitled nevertheless to rely on such terms? The Witnesses. Titan called three witnesses to give oral evidence: i) Mr Annetts. Mr Annetts was the Financial Controller of Titan. He had been employed by the company since 1995. ii) Mr Akers. Mr Akers was the Chief Executive Officer of the parent company Titan Europe. Again he had held that position since 1995. iii) Mr Wicks.

1 The order goes on to explain that this issue requires a consideration of, inter alia, the applicability, meaning and effect of the contractual terms referred to in paragraph 13 of the Defence and Counterclaim (“the contractual terms”).

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Mr Wicks had been the Financial Director of Titan from 1998 to 2004 and thereafter was a director of the parent company. Titan also put in evidence a statement from Dr. Ellis a consultant with the securities industry. His evidence was fairly uncontroversial. The Bank called two witnesses: i) Ms Plested. Ms Plested was a Corporate Treasury Manager with the Bank who had been in a front office role for foreign exchange business since 1996. ii) Mr Nicklin. Mr Nicklin was a Foreign Exchange Structurer within the Bank employed in that capacity since 2001. Ms Plested and Mr Annetts had dealt regularly with each other since 1997 from which time Mr Annetts had placed a number of contracts for foreign exchange products. It was Titan’s case in the main action that Mr Annetts had no authority to enter into some or all of these contracts on Titan’s behalf. But for the purposes of the preliminary issues, the principal factual issue to which Mr Annetts and Ms Plested could contribute in their evidence was the extent to which Ms Plested had become the advisor of Mr Annetts and in that capacity had recommended or persuaded Mr Annetts to purchase the June and September products. In fact the contribution which they could make in their written statements and oral evidence was at most marginal. This was because, quite apart from the usual contemporary documentation, almost all the relevant telephone conversations (during which on the Bank’s case Ms Plested has acted in the capacity of “saleswoman” and on Titan’s case of “trusted advisor”) were

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recorded and both the recordings and transcripts of them were available to the court. In this regard particular emphasis was placed on telephone calls on 26, 27 and 29 June 2009 and 18 September 2009. Titan claims that these conversations contained “advice” on the part of Ms. Plested uttered in her capacity as a “trusted advisor” in the field of foreign exchange transactions. In the event, the question as to whether “advice” was in fact tendered is very much a secondary issue to the question in what capacity Ms. Plested was acting. “Advice” can come in many forms including the provision of information, opinions, suggestions, recommendations and so on. Nonetheless, the two issues elide and the precise content of Ms Plested’s share of the conversations was subjected to detailed analysis 2. The Bank submitted that no “advice” was ever tendered. Titan submitted that Ms Plested had clearly offered advice and, if relevant, had gone well beyond merely providing an execution service or even straightforward marketing into the field of expressing views as to the suitability of various products for Titan’s purposes and their likely impact. Accordingly it is necessary to review the conversations to see the context of the remarks, their emphasis and their tone as well as their content. Before embarking on this task it is necessary to divert onto the issue of

2 Indeed much of it was set out somewhat unhelpfully verbatim and at length in the Particulars of Claim.


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disclosure. During the course of the hearing it became clear that notes of various telephone conversations earlier in 2007 produced by the Bank had been prepared much later in the year by Ms Plested at the request of the Bank. These notes were based on further recordings which had been listened to by Ms Plested but had not been disclosed. A request for further disclosure elicited the response from the Bank that the recordings could not be found and thus must have been lost or destroyed. The notes were quite short and did not contain any material to suggest that the earlier conversations were of any significance in determining the issues. The highest it could be put, as Ms Plested accepted, was that the tone of the June and September conversations was of a piece with all earlier conversations. After the evidence had been completed but in the somewhat prolonged period before final speeches the Bank revealed that some of the recordings had been found after all, not on the main system (from where they had been deleted) but on Ms Plested’s own computer. They were in due course transcribed and included in the trial bundles. This was unquestionably an unsatisfactory situation. The Bank’s failure to search Ms Plested’s computer earlier was a potential breach of its disclosure obligations. But equally unfortunate was Titan’s overreaction to this development. On the basis that the Bank had earlier made a “false statement” about the relevance of the material, Titan sought wide ranging further disclosure, an opportunity to cross-examine the author of the wit-

ness statement producing the recordings and the recall of Ms Plested for further cross-examination. This in turn was the basis of an application to adjourn the period of two days set aside for speeches and to fix another period of 3-4 days to allow for such cross-examination as well as final submissions. In the result, as appears below, I refused these applications save that I did make provision for half an hour at the beginning of the first day of speeches for further cross-examination of Ms Plested. At that stage I had not read the newly disclosed transcripts and did not want to preclude Titan from putting any significant features of them to Ms Plested 3. In fact, Ms Plested was unable to attend since a doctor’s certificate recorded that she should refrain from work as a consequence of “work related stress related to the Titan Court case”. In due course it became quite apparent to me that the transcripts added nothing to the case. My hesitation in allowing further cross-examination was fully justified: i) There was no pleaded case that they contained any relevant advice nor was there any application to amend. ii) Their only value, if any, was to assess the accuracy of Ms Plested’s notes: it was quite apparent that, although succinct, they were an entirely fair summary of the conversations. I add this by way of postscript. The absence of Ms Plested for the re-

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Although there could be no dispute as to what was said and Ms Plested’s views as to whether she was in fact giving advice would be of little assistance.

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sumed hearing was for these reasons not prejudicial to Titan. In any event, it was open to them to make submissions about passages in the transcripts (if necessary by comparison with the notes) which might bear on her credibility. Titan sought to suggest that the notes demonstrated the addition of a spin on the related conversation. As already indicated, I am quite unable to agree. Titan could, if so advised, seek to rely on the emergence of the “stress related illness” as indicative of her want of credibility. To my dismay, such was in due course suggested. Not content with this point, Titan submitted in closing submissions that further adverse inferences could be drawn from the fact that even now there were 17 notes but only 13 recordings relating to them on Ms Plested’s computer, one of them being on the date of the February transaction that was closed out in June. This was said to reflect cherry picking by the Bank in pursuit of a “conscious or unconscious attempt” to identify only those telephone calls which suggested that Mr Annetts was familiar with the products. It is difficult to see how this proposition could be advanced without alleging some form of dishonest or at least reckless conduct. I entirely acquit the Bank of any such allegation. There is nothing within the material recently disclosed which suggests let alone demonstrates that selective disclosure to advance the Bank’s case has been embarked on whether deliberately or not. One last point on what I regarded as the disproportionate response of Titan to the relatively insignificant defects in the Bank’s disclosure. At the

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end of the evidential hearing on 22 October 2009, I invited the parties to fix a 2 day hearing for final speeches to be preceded by the exchange of written submissions. For the convenience of the parties it was in due course agreed that the further hearing should be a month later on 19 and 20 November 2009. When faced with the application by Titan for an adjournment to allow time for further evidence and a longer period for speeches, I had to explain that I could not offer a 3 to 4 day period before Easter 2010 4. The problem was further exacerbated by the uncertain length of Ms Plested’s illness. Further any substantial further delay would have made my task of preparing a written judgment unduly onerous. Against that background, as explained at the resumed hearing, considerations of convenience gave overwhelming support to completing the hearing without further cross-examination on matters which were at best peripheral. The suggestion that matters be stood down pending a medical examination of Ms Plested on behalf of Titan was, in my judgment, simply unreal. The background. As explained Titan is a manufacturer of steel wheels for the off-highway vehicle industry. In 2007, it had a turnover of £36.5 million. It is a subsidiary of Titan Europe plc, a substantial engineering group with a turnover of

4 Which would have constituted day 5 of a hearing estimated for 3 days.


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£450 million. Titan had been with the Bank for many years. In early December 1997, Titan had executed a treasury mandate for the Bank in respect of a variety of transactions including foreign exchange transactions and currency options the latter to be governed by the 1992 ISDA Master Agreement. The mandate provided: “We confirm that the Treasury Transactions we enter into shall be legal, valid and binding obligations upon us. In entering into Treasury Transactions we will act solely as principal and not on behalf of any other person and we will not rely on the skill or expertise of any Bank employee or officer when entering into Treasury Transactions. … We acknowledge that telephone dealing will be recorded by the Bank and we may also record such conversations. The Bank is entitled to rely on telephone instructions received in good faith. We acknowledge that the Bank will have no liability for entering into Treasury Transactions in reliance upon such instructions provided the Bank does not act negligently.” The mandate was signed by Mr. Wicks and authorised among others both himself and Mr Annetts to enter into trading transactions. This arrangement was taken further on 25 February 2004 when the Bank wrote to Mr Annetts classifying Titan as an Intermediate Customer 5 and enclosing the Bank’s terms of Business.

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Pursuant to COB 4.1.

The letter stated: “This letter and the Terms of Business supersede any documentation that may have previously been sent to you and will apply to all our dealings… …Please read our Terms of Business carefully. They contain important information about our respective rights and obligations, including about certain limitations on our liability to you. When you have reviewed the enclosed documents, you should keep them and this letter for guidance and reference. By conducting business with us you will be deemed to have agreed and accepted our Terms of Business which will therefore become legally binding on you and, in the absence of any other agreement between us and you, will apply to all dealings which we may conduct with you or on your behalf. Your attention is also drawn to the representations and warranties in Clause 3 of these Terms of Business. If you are in any doubt about the meaning or the legal or financial effect of these Terms of Business or any other documents we provide to you, you should obtain professional advice as necessary. If you have any questions or if you are dissatisfied with our services under these Terms of Business, please contact in the first instance the Compliance Department…” The attached terms of business set out the nature of the services which the Bank was prepared to provide to Titan, the basis of such services, and the respective rights and liabilities of the parties in respect of such services: Cl. 1.4: unless the Bank notified Ti-

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tan otherwise, the service which the Bank provided was a general dealing service on an execution only basis in identified investments including options and futures. The Clause continued: “Unless otherwise agreed between us, we will not provide advisory services.” Cl. 1.5: all business which the Bank conducted with Titan was governed by the banking terms. Cl. 3.10: Titan undertook that, where necessary, it would take independent advice (including legal advice) to ensure that it fully understood the provisions of the banking terms and the legal and financial effects and risks of any transactions the Bank undertook with or for it. Cl. 4.6: It was provided that any information which the Bank provided to Titan relating to trades was believed to be reliable but no representation was made or warranty given, or liability accepted, as to its completeness or accuracy. Any opinions constituted the Bank’s judgment as of the date indicated and did not constitute investment advice or an assurance or guarantee as to the expected outcome of any transaction. Cl. 4.7: It was provided that the Bank need not see that its dealings for Titan take account of any research which had been carried out for its market makers or otherwise with a view to assisting its own activities. Further the Bank need not see that any information it gave was given either before or at the same time as it was made available to it or an affiliate. It was agreed that Titan may not rely on any such information without independently verifying it and making its

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own judgment. The clause continued: “In particular, we do not act as your adviser or in a fiduciary capacity. For the avoidance of doubt, we are providing you with an execution-only service, with no advisory services.” Cl. 4.13: except where expressly agreed to by the Bank or as required by the FSA Rules, the Bank was under no obligation to give any general investment advice or advice in relation to a specific transaction or proposed transaction, to supervise or manage any of Titan’s investments or to give any tax advice. Cl. 4.18: the Bank had no duty to advise on or exercise judgment on Titan’s behalf as to the merits of any transaction which it might present to Titan. Cl. 12.5: except to the extent that the same resulted from its gross negligence, wilful default or fraud, the Bank was not liable for any loss of opportunity, loss resulting from any act or omission made under or in relation to or in connection with the banking terms or the services provided thereunder, any decline in the value of investments purchased or held by the Bank on Titan’s behalf, or any errors of fact or judgment howsoever. Titan initially purchased vanilla forward currency contracts. However from 2000 onwards, Titan purchased 23 structured products from the Bank 6. The purchase of these products followed a consistent pattern. In

6 In addition, from 2006 Titan also purchased similar structured products from two Irish Banks.


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particular, immediately following each transaction the Bank would forward a “post-transaction acknowledgement” (“PTA”) to be signed on behalf of Titan which had various notes: i. Note 4: that Titan was acting for its own account and had made an independent evaluation of the transactions entered into and their associated risks and had had the opportunity to seek independent financial advice if unclear about any aspect of the transaction or risks associated with it, and it placed, or had placed, no reliance on the Bank for advice or recommendations of any sort. ii. Note 6: the Bank drew the attention of Titan to its terms of business. After a short period the Bank would forward a “Confirmation” of the transaction which also contained notes as follows 7: a) Under the General Notes, that each party represented to the other party on the trade date of the transaction that, absent a written agreement between the parties that expressly imposed affirmative obligations to the contrary for the transaction: i) Non-reliance: it was acting for its own account and it had made its own independent decisions to enter into the transaction and as to whether the transaction was appropriate or proper for it based upon its own judgment and upon advice from such advisers as it had deemed necessary. It was not relying, and had not relied, on any

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It is clear that the twenty or so transactions entered into with two Irish Banks were reflected in documentation of a very similar nature.

communication (written or oral) of the other party as investment advice or as a recommendation to enter into the transaction; it being understood that information and explanations related to the terms and conditions of the transaction should not be considered investment advice or a recommendation to enter into the transaction, no communication (written or oral) received from the other party should be deemed to be an assurance or guarantee as to the expected results of the transaction; ii) Assessment and understanding: it was capable of assessing the merits of and understanding (on its own behalf or through independent professional advice), and understood and accepted, the terms, conditions and risks of the transaction. It was also capable of assuming, and assumed, the risks of the transaction. iii) Status of parties: the other party was not acting as a fiduciary or an adviser to it in respect of the transaction. As already mentioned, all or most of the transactions were entered into following telephone conversations between Mr Annetts and Ms Plested. There is an issue as to whether Mr Annetts had authority to act on Titan’s behalf. It is Titan’s pleaded case that Mr Annetts was acting “without the knowledge, direction and supervision of the Finance Director or the Board of Directors and was thus on a frolic of his own”. This issue does not form part of the preliminary issues and I propose to make no further finding about it. Nonetheless it is important to note as part of the material relating to the Bank’s status vis-à-vis Titan the following:

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i) The scale of purchase of foreign exchange products was very large. This is not remotely surprising given the quantum of Titan’s Euro earnings. ii) Titan’s published accounts recognised the need for minimising the effect of adverse currency movements. Risk management in that regard was said to be conducted under written policies approved by the Board of Directors. iii) Mr Annetts explained in his evidence that he had regularly or at least frequently discussed foreign exchange transactions with the Financial Controller of Titan Europe (Sue Bowron) and Mr Wicks 8. He also made written reports on contracts to Miss Bowron setting out the principal terms. Quite how the question of Mr Annetts actual or apparent authority will emerge in due course is unclear. He may prove to be a “rogue” trader. But for the moment I accept the Bank’s proposition for the purpose of determining the preliminary issues that either foreign exchange issues were conducted and supervised by senior management in accord with board policies or they ought to have been. The June transaction was entered into against the background of three earlier products bought by Titan from the Bank: i) One dated 8 February 2007 which involved the sale of up to €1.5m per month by Titan to the Bank over a period of up to 17 months. The amount that Titan was obliged to sell

8 As regards transactions with Irish banks, Mr Wicks was a regular signatory.

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and the period over which there was an obligation to sell depended on the future movement of the Euro against sterling. ii) One dated 20 February 2007 on similar terms involving an obligation to sell up to €800,000 per month for up to 17 months. iii) One dated 5 March 2007 on slightly different terms involving an obligation to sell up to €500,000 per month for 10 months. The products broadly worked as follows: i) Titan was entitled to sell a base amount of euros each month if the rate of the Euro against sterling rose above a certain level (the “upper level”). Thus Titan would be likely to sell €750,000 per month so long as the Euro rate was above 1.45 (ie £1 - €1.45) at a fixed rate of say 1.45. If, again for example, the rate was €1.50, then the sale of €750,000 at €1.45 would produce £517,241 as opposed to a sale at spot which would produce only £500,000. ii) If the Euro/Sterling rate was in a band between the upper level and a lower level (the “lower level”) then Titan would have no obligation to sell Euros and could trade at spot. iii) If the Euro-Sterling rate fell below the lower level then Titan was obliged to sell a quantity of Euros at the lower level (and in some but not all cases, a higher quantity of Euros). Thus in this example the product might provide that if Sterling fell below €1.42 Titan would be obliged to sell €1.5m per month at the upper level. (This latter aspect was not part of the 5 March 2007 product.). In addition the trades had other elements such as “knock-in” and “knock


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out” terms. Thus a product might extend (knock in) if the Euro fell below a certain level on a certain date; or the product might end prematurely (knock out) if the Euro rose above a certain level at a certain time or for a certain period. The June transaction replaced these three products. The spot rate had moved adversely to Titan and by mid-April there was a telephone discussion between Ms Plested and Mr Annetts as to a possible restructure. Ms Plested’s note summarising that conversation (which I regard as a fair and complete) reads as follows: “Looking at possible restructure. Confirm current structure protects EUR 2.15m per month and commits them to a maximum of EUR 3.8m per month. GA comments that it has to go lower for that to happen though, which he feels is unlikely. PP says that it seems unlikely but we must consider that if we move to 1.42 for example then you will have to sell EUR 3.8m. GA says they have a minimum of EUR 2-2.5m every month at least with a further EUR 11m being currently swapped forward. PP says that it is important that you do not become over-hedged and the possible consequences of losses as a result. Confirm amounts are ok. Spot is at 1.4720. GA asks can we get 1.45? PP says we could but it would have to be on some sort of leveraged transaction ie with an extension or ratio. GA says he doesn’t mind a ratio. of 2:1. PP states that extension looks cheap to tear up at 1.45 as it looks unlikely to take place based on current rates. Trade likely to stop in June so look to firmer hedging beyond. GA states at the end of this 1.45 is what we are trying to achieve”.

Mr Annetts reverted to the topic on 18 May and suggested that a restructure be considered sometime in June. Ms Plested and Mr Annetts duly discussed a restructure in a series of conversations between 26 and 29 June. During these conversations it was Titan’s case that Ms Plested was “advising” Mr Annetts to take the new product as a suitable replacement. The Bank’s case was that Ms Plested was simply “selling” a replacement product. There are recordings of the conversations which I have listened to (as well as transcripts which I have read). I only propose to summarise parts of them: i) 26 June. Mr Annetts was home with his leg up. Ms Plested was in her office. The terms of the existing products were considered against the prevailing spot rate of 1.4855. Put shortly Ms Plested left matters on the basis that an accrual might be the way forward and that if she “came across anything remotely decent” she would contact Mr Annetts. ii) 27 June. Ms Plested duly rang back and reported on a discussion within the Bank as to the terms of a single trade to replace the existing three. There can be no doubt that Ms Plested expressed views as to the purpose and merit of entering into the replacement transaction. For example: P: “And that’s it. Uh, if we go below 142.90, which is your participation rate, uh, then you’re basically selling €500,000 at 146.80. Um, so what I’ve looked at doing, and, and you know, I’ve [unclear], I’ve had about two or three, two or three of us looking at this, and we think we’ve come up

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with something that looks okay. Um, its basically to get rid of those three transactions. The ones that we’ve got, the three that we’ve got in place at the moment, tear them up. Um, because effectively we don’t have sufficient protection in your existing one, the larger of the two, the 750 into one and a half. We’ve got sufficient protection in that and at the same time we’ve not got sufficient benefits if we go down, uh, too far because you, you’re doubling up at 145 aren’t you?”. A: “Yes, yes”. P: “Uh, if we go sub 145. So what, what I’ve looked at is getting rid of all three of them, um, and replacing it with a single trade, um, and the one that we’re currently looking at, is protection at 147…”. P: “But overall I think that’s a far better position, than what we’ve currently got at the minute, um, because at the moment we’ve got, um, this trade that looks a little bit, you know, as though it could turn a little bit nasty, because of we go sub 145, then suddenly you’re selling €1,5 million at 148.75 aren’t you?”. P: “…Because I think the thing we’ve done previously is concentrate on getting participation limits very low, when it actually, in actual fact, it’s better to concentrate on the protected rate and getting that lower, um, because, you know, ultimately we’re paying for participation rates that have not given us any benefits”. She offered to e-mail her suggestion to Mr Annetts at home. iii) E-mail of 27 June. This she did later that day in an e-mail which set out her ideas or proposals for closing out the three outstanding transactions and replacing

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them with a single trade. The nature of the proposal was as follows: a) The June product was a “ratio trade”. It set a “protected rate” and a “barrier rate”. The initial contract was for 9 months. At each monthly reset, there were three possibilities: i) If the £:€ spot rate was above the protected rate (i.e. if the £ had strengthened), then Titan sold €2m (or latterly €1.5m) at the protected rate. This was its hedge against a strengthening pound. ii) If the £:€ spot rate was at or below the protected rate and had not traded at the barrier rate, then Titan could sell any amount of € at the spot rate. iii) If the £:€ spot rate was at or below the barrier rate (ie if the £ has weakened), then Titan sold €4m (or latterly €3m) at the protected rate. The additional €2m or €1.5m sold against a weakening pound was therefore the risk element, in that Titan would lose the opportunity to sell those Euros at the more advantageous spot rate. However, even in this event, the rate was the protected rate which Titan had agreed for its hedge. b) At the end of the 9 month period, if the £:€ spot rate had fallen a certain amount, then the agreement extended for a further 9 months at slightly different rates, and on a €3m/€3m monthly basis. The e-mail concluded as follows: “The reasons for suggesting this as a possible restructure are: 1. To improve on the protected average rate from 1.4780 to 1.47. 2. Increase the amount protected - from EUR 1.65m to EUR 2m per month. 3. To improve the participation rate on the largest trade - from 1.45 to 1.4285.


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4. Should the trade extend, it is with an improved protection rate from 1.47 to 1.46. Things to consider are : 1. The extension had been both moved further out (from Dec 07 to Mar 08) and increased in term from 6 months to 9 months. 2. If 1.4285 trades, Titan are committed to sell EUR under the ratio at the protected rate.” It is highly significant in my judgment that although great play is made of the contents of the telephone calls in advancing the claim this e-mail is not relied upon by Titan as containing any advice let alone inappropriate advice. iv) 29 June. Ms Plested and Mr Annetts discussed this email on 29 June at some length. The focus of the discussion was the anticipated value of sterling. The spot rate was 148.80 against a protected rate of 144. Ms Plested’s view on the structure of the replacement product was as follows: P: “So the 147 then, because, you know, if you were doing forwards at the moment, for the period that you’re looking at, ah, you know, you’re nowhere near it, I mean, you’re basically getting, um, about 170-odd points, forward point deduction, for the full, to, you know, out to December 2008. So if you’re looking at 170 points off and we’re at, you know 149, for argument’s sake, um, you know, your forward rate’s 147 and-a-half, that sort of level, isn’t it? And then obviously you’ve got your participation rates going down anyway. Um, so the actual, um, extension part…I mean I was looking initially, um, at just doing it for this year, with the 12 month extension

on the end, and then, and then, one of the guys who was, who was looking at it for me, he was saying, well what about nine months into nine months, does that not suit better? So that you’ve got nine months guarantee with a potential nine months stuck on the end, and I thought, well, maybe that, maybe that does make more sense so that, you know, you’ve got more of a guaranteed amount in the front end of your contract, as opposed to just having a six-month rate. But you know, in answer to your question, um, you know your two into four and then your three million straight through, um, for the whole of next year, um you, you know, the amounts do stand…” As regards future movement she said: “Well it’s, it’s you know, we’re looking at probably, interest rates going to maybe 6% and you look at the cash markets, you look at, you know, where sterling deposit rates are and you’ve got 12 month deposit rates that are looking at six and a quarter, you know, and this sort of thing. So, you know, I don’t think sterling’s going to go, you know, too far in… downwards. I’m thinking that it’s, if anything it’s going to sort of do what it’s done in the last six, 12 months and sort of stay above 145 and you know, head higher, if anything. Um, I mean I know that, you know, Europe are turning around and they’re looking at picking interest rates up and that will, you know, attracts something, but you know, we’ve been here before, ah I’m just, you know, again, I’m not particularly convinced on it. Um, but, you know, I would need to get this re-priced because obviously spot is…”

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In fact Ms Plested’s computer broke down during the initial conversation and a further conversation took place later in the day. They both were of the view that sterling was likely to strengthen and that any loss would only arise if it fell below 142.85 and even then there would be a further restructure. “A: I think so, yes, I mean, I don’t think I need to talk to anybody really because, uh, nobody’s really got a clue…”. P: “[Laughter], yes”. A: “…on anything else…”. P: “You’re on it, so…”. A: “I, I mean, we’re leaving it to the experts, so…”. P: “Yeah, I mean, you know, you, you, um, from the point of view of, um…”. A: “And, and the one thing I’ve done is to actually protect it, if it screws, and I think that’s the main thing really”. P: “Yeah”. A: “I know I’m not going to make a load of money, nut I’m trying to save us from losing a lot of money. I don’t know if you see what I mean”. P: “Yes. I appreciate that, absolutely, yeah”. A: “I mean if I can make some more, fine, but I think the biggest thing is if I stop us from crashing out into the 150-plus scenario. And, I mean, that would really be a problem then”. Ms Plested asked Mr Annetts whether he wanted to put the deal in place. The conversation continued: PA: “Um, but you know, as it, as that stands that, that is, I, I think it’s a decent trade, I really do”. GE: “Oh, okay, yes. Yes, okay.

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Yeah, yeah”. PA: “It’s certainly better than what we’ve got currently”. GE: “Sure, sure, sure”. PA: “Um, only I think it addresses some issues that are developing, you know…”. GE “Yeah, yeah”. PA: “In terms of like, you know, larger Euro amounts that we need to get, you know, keep a cap on, really”. GE: “Yeah, okay, fine. Excellent, yeah”. PA: “Well, I’ll put this in place and I’ll get a confirmation to you on your next [?] talktalk.net”. GE: “Yes, yes, that’s fine”. PA: “Is that okay?”. GE: “That’s, that’s fine”. v) Post Transaction Acknowledgement. This was sent out on 29 June in anticipation of a “legal confirmation”. The notes to the standard form are described above. In broad terms the contract operated as follows: a) Titan would sell and the bank would purchase € 2m per month at 1.4670 if the spot rate was at or above this rate at the monthly “expiry date” (effectively a monthly anniversary of the agreement). b) If at each expiry date the spot rate was below the upper rate of 1.4670 and had not traded at a rate below a lower rate ie 1.4285 in the previous four week period, Titan would not be under any obligation at all and could sell as many Euros as it wanted at the prevailing spot rate. c) If at each expiry spot was below the upper rate and had traded below the lower rate during the previous four week period, Titan was obliged to sell €4m at the protected rate.


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d) If on the final expiry date (ie 28 March 2008 – after nine months) spot was below the upper rate, the trade continued for a further 9 months. Mr Annetts replied by email on 2 July: “Please proceed with this trade structure”. vi) Out of the money. The closing out of the earlier products gave rise to a total cost of €187,824. This was not a topic raised by Ms Plested or queried by Mr Annetts during their conversations. In her oral evidence Ms Plested readily accepted that as a matter of good practice she ought to have drawn attention to the fact that the earlier trades were “out of the money” and the measure of the loss. In the result however, there was delay in the despatch of the subsequent Confirmation or in Mr Annetts accepting it. In the meantime, the mark to market loss was reported orally to Mr Annetts on 30 June. Full details of the loss were provided in an e-mail dated 9 July: “The report will show plus and minus figures for each individual option, so probably wont mean a great deal. The reason for the loss is the close out cost of the 3 outstanding transactions that were recently restructured. The majority of the closeout cost relates to the extension that the Bank owns i.e. RBS owns the right to buy EUR from Titan at the rate of 1.45 where spot on the extension dates is BELOW 1.45. This MTM loss has been carried forward into your new trade. So even where spot is favourable today at 1.48, a snap shot MTM valuation may still produce a loss, as this is a measurement of the possibil-

ity that spot on the future extension date, could be considerably lower eg at say 1.20 - RBS will have value in their trade”. vii) Confirmation dated 2 July. This was in standard form as described above. Notably no complaint was made in response about the newly reported loss despite the suggestion in Mr Annetts’ second witness statement that if he had been told: “I would not have agreed to this without involving a board member of Titan”. Indeed whether he did or did not, he executed the Confirmation on 25 July. September product. i) E-mail 18 September. On 18 September Ms Plested sent an e-mail to Mr Annetts containing a proposal for a further product. (There had been an earlier conversation of which there is no transcript or even note.) The e-mail explained the idea behind the product as follows: “The idea below gives you the opportunity to outperform the spot and forward rates for your expected EUR requirement. Importantly, it is not a hedge. However, this additional trade does give you the opportunity to achieve rates better than what is available in the market by conventional spot or forward contracts. The numbers below are based on a minimum of €0.5m per month and a maximum of €1m per month. The basis for the trade is to provide an enhancement to your existing hedge and to run in conjunction with it.” The September product was a “knock-out trade”, which meant that it would be terminated in certain identified events. This meant that, as Ms Plested expressly pointed out to Mr Annetts: “Importantly, it is not a

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hedge”. Under the terms of the transaction, there was an “accrual rate”. At each monthly reset, if the £:€ spot rate was above the accrual rate, then Titan sold €500,000 at the accrual rate. If the £: € spot rate was below the accrual rate, then Titan sold €1m at the accrual rate. However, the trade would be terminated, if and when Titan earned more than 10 cents in the Euro against the spot rate. The e-mail ended as follows: “General. The above trade will have credit line utilisation (CLU) of circa £750k. This CLU figure represents with 95% confidence, based on historic rate movement, the most that the Bank would expect to lose in the event of your default on this trade. Clearly this impact would only be felt to this extent in the event of aggressive EUR strengthening. Put another way, according to our calculations, and with a 95% confidence level, this is the maximum negative value that we foresee this trade accruing from a close out/ valuation standpoint. Our calculation of CLU is our internal expectation of the maximum close out cost and is by no means a guarantee that this will be the case. In extreme market conditions, this figure could be higher. Please use this calculation as a guide only. Obviously this trade works best when the spot rate is low and we are currently within 1 cent of the year’s low. I’ve attached a GBP/EUR chart for reference.” It is notable that, as before, no reliance whatsoever is placed by Titan on this e-mail as containing any “advice”. ii) 18 September telephone conversation.

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This e-mail was discussed in a telephone conversation between Mr Annetts and Ms Plested on 18 September. Once again it is Titan’s case that Ms Plested was providing “advice” during this call while the Bank says that she was simply “selling” the product. Mr Annetts was clearly concerned at the scale of the product albeit he recognised that sterling would have to fall considerably (below 135) to cause any difficulty. Spot was 144 and Ms Plested thought that it was unlikely to fall significantly below 140 9. Ms Plested recognised that it was a “big decision” which Mr Annetts might want to take time over. Mr Annetts decided however to “go for it” but asked whether “anyone else was doing the same” to receive the assurance that Titan was not a “guinea pig” and not being “greedy”. (It was in fact however a relatively new form of product.). The resulting contract worked broadly as follows: i) If at the end of each month the spot rate was above a given rate (this changed as the trade progressed but started at 1.35) Titan could sell €500,000 at this rate. ii) However if the cumulative differential between the given rate and the spot rate reached 10 cents (ie by adding the difference between the given rate and spot rate at each successive expiry) the whole trade could knock out with no further obligations on either side.

9 In any event there was the protection afforded by Titan’s stockpile of euros.


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iii) If the trade did not knock out and if the spot rate at an expiry was at or below the given rate, Titan would sell €1m at that rate. Issue 1: Was Titan a “private person” as defined by the Financial Services and Markets Act 2000 (Rights of Action) Regulations 2001? Titan has pleaded a statutory cause of action against the Bank under Section 150 of the Financial Services and Markets Act 2000 (“FSMA”). This section provides as follows: “Actions for damages (1) A contravention by an authorised person of a rule is actionable at the suit of a private person who suffers loss as a result of the contravention, subject to the defences and other incidents applying to actions for breach of statutory duty. …. (5) “Private person” has such meaning as may be prescribed.” The regulations promulgated under the FSMA define private person as follows: “Private person 3. - (1) In these Regulations, “private person” means (a) any individual, unless he suffers the loss in question in the course of carrying on (i) any regulated activity; or (ii) any activity which would be a regulated activity apart from any exclusion made by article 72 of the Regulated Activities Order (overseas persons); and (b) any person who is not an individual, unless he suffers the loss in question in the course of carrying on business of any kind; but does not include a government, a local authority (in the United

Kingdom or elsewhere) or an international organisation.” The threshold issue for determination at this stage is whether Titan is a “private person”. This raises what should be a short point of construction. It is the Bank’s case that Titan, whilst being an incorporated individual, falls within the proviso or exception to Reg. 3(1)(b). It is submitted by Titan that on the true construction of the regulations the question for the Court is whether currency trading of the sort that occurred in 2007 was an integral part of Titan’s business as opposed to an incidental part of its business. On that basis Titan contended that the essential features are as follows: i) Titan was a manufacturer of steel wheels. It was and is not engaged in the provision of financial services. Its accounts made plain that although it used foreign exchange products for hedging purposes it did not use such products “for trading purposes”. Its use of the products can correctly be described as “incidental” to its main business which is manufacturing. ii) Titan’s annual income in euros was anticipated at €36m. The two transactions together took Titan’s exposure to €51m according to the email dated 18th September 2007. Thus they exceeded any “hedging” requirements that Titan had and put its entire enterprise at risk. iii) The products themselves were highly complex and the Bank required specialist proprietary software to understand and analyse them. Titan had no training in or access to such software. The Bank submits that Titan manifestly sustained the loss in the course

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of carrying out its business. The fact that Titan’s business was not confined to or focused on investment business is not to the point. The regulations expressly refer to the carrying on of business of any kind. This expression should be, on the Bank’s case, given a wide interpretation. As regards the question of construction, Titan submits that, in the light of its legislative history, a much narrower interpretation of the regulation is appropriate. In further support of this submission, Titan relies on decisions with regard to different but allegedly analogous legislation and upon matters emerging from Hansard and other travaux preparatoires. I was not entirely clear what meaning Titan contended the phrase “in the course of carrying on business of any kind” should be accorded save that whatever the appropriate meaning Titan’s purchase of the June and September products was not in the course of carrying on business. In the result, it appeared that that answer to the question of construction was being put forward in the alternative: i) It only encompassed one off trading with a view to profit or part of a regular trade which was integral to the principal business of a company; or ii) It only encompassed trading as a “professional investor”. The initial difficulty with all of these formulations is that they sit uncomfortably with the exception in Reg. 3(1)(a). This exception in regard to individuals relates to the performance of regulated activity. But regulated activities are broadly defined as an activity of a specified kind which is carried on by way of business: FSMA

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Sect. 22. This strongly suggests that the scope of the exception in Reg. 3(1) (b) embraces a corporation which carries on business of any kind even if does not constitute a regulated activity or something akin to it. Some considerable emphasis was placed by Titan on the legislative history. I was not persuaded that this of itself furnished any assistance in the interpretation of Reg. 3 but it did provide the scene against which phrases of a similar character in legislation in other fields fall to be considered and also the backdrop of the excerpts from Hansard and various consultation papers relied upon. The first statutory provision furnishing a cause of action for breach of the regulatory regime was Sect. 62 of the Financial Services Act 1986(“FSA”): “(1) Without prejudice to section 61 above, a contravention of (a) any rules or regulations made under this Chapter; (b) any conditions imposed under section 50 above; (c) any requirements imposed by an order under section 58(3) above; (d) the duty imposed by section 59(6) above, shall be actionable at the suit of a person who suffers loss as a result of the contravention subject to the defences and other incidents applying to actions for breach of statutory duty….. The 1986 Act represented a wide ranging overhaul of financial services’ regulation in the UK including the establishment of the Securities Investment Board. In order to give investment firms the opportunity of becoming familiar with the provisions of the Act, Sect. 62 was not brought into force for six months.


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During this period the industry expressed concern that the open ended provision for claims by any investor might encourage strategic lawsuits brought for competitive advantage: see DTI Consultation Paper “Defining the Private Investor” September 1990. This concern led to the inclusion by virtue of Sect 193 of the Companies Act 1989 of a new Section 62A to the FSA: “62A — (1) No action in respect of a contravention to which section 62 above applies shall lie at the suit of a person other than a private investor, except in such circumstances as may be specified by regulations made by the Secretary of State. (2) The meaning of the expression ‘private investor’ for the purposes of subsection (1) shall be defined by regulations made by the Secretary of State. (3) Regulations under subsection (1) may make different provision with respect to different cases. (4) The Secretary of State shall, before making any regulations affecting the right to bring an action in respect of a contravention of any rules or regulations made by a person other than himself, consult that person.” The Consultation Paper went on to annex a draft form of regulation defining “private investor” which in all material respects is the same as later adopted in the FSMA Regulation. In proposing the definition the DTI expressed a desire to avoid complexity and to introduce the definition as “brief and as clear as possible”. Having drawn attention to the fact that any contractual rights of action would remain unaffected, the paper went on (para 52):

“This proposed definition is intended to have the following effects: All individuals would retain their s62 rights for all purposes. Individuals who carry on investment business would lose their s62 rights only in relation to any action taken by them, or anything done to them, in the course of that investment business; All non-individuals would lose their s62 rights in relation to any form of business. Most charities and similar bodies do not carry on any form of business, and would therefore retain their s62 rights only in relation to any action taken by them, or anything done to them, in the course of that business.” The draft regulations were in due course promulgated as the Financial Services Act 1986 (Restriction of Right of Action) Regulations 1991. The wording was in due course adopted in the 2001 Regulations in accord with the recommendation in a consultation paper issued by the Treasury dated December 2000. Whether such consultation papers were strictly admissible or not, there is nothing in this material which gives substantive support for the proposition that the phrase “in the course of carrying on business of any kind” has the restricted meaning urged by Titan. But Titan relies in addition on observations made by ministers during the course of the passage of the Companies Act 1989 in Parliament which emphasised the exclusion of “professional investors”. In the House of Commons, the Minister for the DTI said: Part VIII makes a number of individual changes to the Financial Services Act 1986, the Insolvency Act

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1985, the Policyholders Protection Act 1975 and the Building Societies Act 1986. Most of these changes are for clarification or tidying up purposes rather than being major policy departures. But I should refer briefly to clause 158 which removes the right of a professional investor to sue under section 62 of the Financial Services Act if he suffers loss as a result of a breach of the rules made under that Act. In considering experience of the working of the Act we have concluded that in respect of professionals--I emphasise professionals--the provision is inappropriate. I stress, however, that there is no change in the position for private investors, who will retain the additional safeguard provided by section 62.” To similar effect, the Secretary of State for the DTI said in the House of Lords: “Finally, I come to Clause 132, which amends the Financial Services Act 1986 by removing the right of a professional investor to sue under Section 62 if he suffers loss as a result of a breach of the rules made under that Act. Section 62 provides valuable safeguards for private investors but it has been suggested that this provision risked contributing to an excessively litigious atmosphere between professional investment businesses. Such an atmosphere would hinder healthy competition and growth. The definition of “professional investor” is to be included in secondary legislation so that it can be adjusted if necessary in the light of experience and of any changes in the relevant rules.” The Bank submits that this material is inadmissible and, in any event, wholly unhelpful.

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In R. (on the application of Spath Holme Ltd) v Secretary of State for the Environment, Transport [2001] 2 AC 349 Lord Bingham stated as follows: “Mr Parker, for the ministers, submitted that reference should not be made to Hansard, but also that, if reference were made, it was clear that the scope of section 11 was not intended to be so limited. Thus the threshold question arises whether, in this case, resort to Hansard should be permitted. In Pepper v Hart the House (Lord Mackay of Clashfern LC dissenting) relaxed the general rule which had been understood to preclude reference in the courts of this country to statements made in Parliament for the purpose of construing a statutory provision. In his leading speech, with which all in the majority concurred, Lord BrowneWilkinson made plain that such reference was permissible only where (a) legislation was ambiguous or obscure, or led to an absurdity; (b) the material relied on consisted of one or more statements by a minister or other promoter of the Bill together, if necessary, with such other parliamentary material as might be necessary to understand such statements and their effect; and (c) the effect of such statements was clear (see pp 640b, 631d, 634d). In my opinion, each of these conditions is critical to the majority decision.” I agree with the Bank that Titan has failed to make out any of the these specified conditions: i) The legislation is not ambiguous but, as contemplated in the DTI Consultation paper, clear and simple. ii) Even if the words are ambiguous, the statements do not derive from a minister in a debate introducing a Bill within which the relevant words


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appear. The words were in due course contained in the 1991 Regulations which were laid before Parliament after a subsequent consultation paper. In short the regulations were not even in draft at the time of the statements. iii) In any event, the effect of the statements is not clear and unambiguous. The emphasis is on what is termed a “professional investor” the definition of which was to appear in the secondary legislation. In fact this term does not feature in the regulations and thus the statements provide no material assistance on the term private investor. Against that background I now turn to the authorities 10. Titan placed particular emphasis on three cases. First Davies v Sumner [1984] 1 WLR 1301 in the context of the Trade Descriptions Act 1968 s.1(1)(a). In that case the Court was concerned with the sale of a car by a professional courier. Lord Keith held that a sale by a business was not necessarily “in the course” of that business. At p.1305 Lord Keith referred to the previous decision of the Divisional Court in Havering v Stevenson [1970] 1 WLR 1375 and said: “Any disposal of a chattel held for the purposes of a business may, in a certain sense, be said to have been in the course of that business, irrespective of whether the chattel was acquired with a view to resale or for consumption or as a capital asset. But in my opinion section 1(1) of the Act is not intended to cast such a wide net

10 There is no decision on Reg. 3 or its predecessors.

as this. The expression “in the course of a trade or business” in the context of an Act having consumer protection as its primary purpose conveys the concept of some degree of regularity, and it is to be observed that the long title to the Act refers to “misdescriptions of goods, services, accommodation and facilities provided in the course of trade.” Lord Parker C.J. in the Havering case [1970] 1 W.L.R. 1375 clearly considered that the expression was not used in the broadest sense. The reason why the transaction there in issue was caught was that in his view it was “an integral part of the business carried on as a car hire firm.” That would not cover the sporadic selling off of pieces of equipment which were no longer required for the purposes of a business. The vital feature of the Havering case appears to have been, in Lord Parker’s view, that the defendant’s business as part of its normal practice bought and disposed of cars. The need for some degree of regularity does not, however, involve that a one-off adventure in the nature of trade, carried through with a view to profit, would not fall within section 1(1) because such a transaction would itself constitute a trade.” Thus it could be said that there are three types of trade carried out by a business which may be in the course of that business: i) A one-off trade with a view to profit. Such a case, regardless of how sporadic, would be in the course of the business. ii) A sporadic series of trades which were not part of the normal practice of the business nor an integral part of the business. This would not be “in the course of the business”.

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iii) A regular trade which was part of the normal practice of the business in question 11. The second concerned the Unfair Contract Terms Act 1977 s.12(1) and was to similar effect. In R & B Customs v UDT [1988] 1 WLR 321 the Court of Appeal were concerned with a freight forwarding business and shipping agency that had purchased a car through a finance company, the defendant. The issue was whether the finance company could exclude an implied term as to fitness for purpose, which in turn raised the question of whether the exclusion clause was void under UCTA. In finding that the claimant had traded as a consumer, and after referring to the passage of Lord Keith’s judgment in the case of Davies v Sumner Dillon LJ said at p. 330: “Lord Keith emphasised the need for some degree of regularity, and he found pointers to this in the primary purpose and long title of the Trade Descriptions Act 1968. I find pointers to a similar need for regularity under the Act of 1977, where matters merely incidental to the carrying on of a business are concerned, both in the words which I would emphasise, “in the course of” in the phrase “in the course of a business” and in the concept, or legislative purpose, which must underlie the dichotomy under the Act of 1977 between those who deal as consumers and those who deal otherwise than as consumers. This reasoning leads to the conclu-

11 Subsequently this test has been known as the “regularity” test.

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sion that, in the Act of 1977 also, the words “in the course of business” are not used in what Lord Keith called “the broadest sense.” I also find helpful the phrase used by Lord Parker C.J. and quoted by Lord Keith, “an integral part of the business carried on.” The reconciliation between that phrase and the need for some degree of regularity is, as I see it, as follows: there are some transactions which are clearly integral parts of the businesses concerned, and these should be held to have been carried out in the course of those businesses; this would cover, apart from much else, the instance of a one-off adventure in the nature of trade, where the transaction itself would constitute a trade or business. There are other transactions, however, such as the purchase of the car in the present case, which are at highest only incidental to the carrying on of the relevant business; here a degree of regularity is required before it can be said that they are an integral part of the business carried on, and so entered into in the course of that business.” The third concerned the Copyright Design and Patents Act 1988 s.23(a). In Pensher Security Door Co v Sunderland City Council (1999) (BAIL II: [1999] EWCA Civ. 1223) the Court of Appeal was concerned with an alleged secondary infringement of copyright by reason of the purchase of a security door by the City Council. Aldous LJ considered the cases of Davies v Sumner and R&B Customs and stated: The words “in the course of business” are words used in other legislation and I can see no reason for giving them a different meaning in the 1988 Act to the meaning attributed to them


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in other legislation. That was the view taken by Dillon LJ in R & B Customs Brokers Co Ltd v United Dominions Trust Ltd [1988] 1 All ER 847, [1987] 1 WLR 321 when he considered the same phrase used in the Unfair Contract Terms Act 1977. He said at page 329G of the latter report: ‘… however, it would, in my judgment, be unreal and unsatisfactory to conclude that the fairly ordinary words ‘in the course of business’ bear a significantly different meaning in, on the one hand, the Trades Description Act 1968, and, on the other hand, section 12 of the Act of 1977’. Miss Vitoria submitted that the infringing doors were no more possessed in the course of the Council’s business than was a carpet in a solicitor’s office. I disagree. As has been made clear in such cases as Davies v Sumner [1984] 3 All ER 831, [1984] 1 WLR 1301 and in R & B Customs Brokers, transactions which are only incidental to a business may not be possessed in the course of that business”. The overarching difficulty with treating those authorities as determining the meaning of “in the course of carrying on business of any kind” is that the phrase in the FSMA regulations is different from the phrase under consideration in these cases, namely “in the course of a business”. It renders the additional words “of any kind” redundant. There are various additional factors which contradict the submission made by Titan: i) The context is very different. The regulations seek to draw a distinction between natural and corporate persons and between regulated activity and other business.

ii) The authorities cited above are concerned with consumer protection. The protective purpose of the regulations in contrast is to stem “strategic” claims against those conducting regulated activity (all the while preserving recourse to claims in tort or contract). iii) The phrase “in the course of business” has been held in a different context to justify construction “at their wide face value”: Stevenson v Rogers [1999] 1 QB 1028. I recognise that corporate entities who sustain losses as a result of the purchase of financial products will usually be in business of some kind. As the 1990 consultation paper states, charities and similar bodies are the more obvious exceptions. It follows that a wide interpretation of Regulation 3(1)(b) would exclude little in terms of liability of a regulated body. But I prefer the view that the words can properly be construed as having their wide meaning as contended for by the Bank. This conclusion is however largely redundant. In my judgment, even if Titan’s construction is to be preferred, it readily passes through the accepted gateways. The principal features of the background to the relevant transactions are as follows: i) Titan’s sales are largely made abroad within the euro zone. There was therefore a need to convert large amounts of Euros to Sterling against the background of turnover for Titan alone of £113 million. It followed that it was exposed to the risk of decline in the value of the Euro where its costs were incurred largely in Sterling. The issue was highlighted in the group accounts for 2007: “The globalisation of the economy and financial markets volatility has

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increased the Group’s exposure to external factors such as changes in foreign exchange rates, interest rates and commodity prices which in turn make future forecasting of financial and operational performance more uncertain.” ii) To limit that exposure the group (including Titan) entered into forward foreign exchange contracts: “The Group has transactional currency exposures arising form sales or purchases by operating subsidiaries in currencies other than the subsidiaries’ functional currency which are mostly naturally hedged and in certain cases are covered by the use of forward foreign exchange contracts. The Group operates in a global environment with global customers and, therefore, transacts in a number of currencies which subjects the Group to foreign exchange risk”. iii) These activities were said to be managed on a centralised basis within the whole group. “Financial Risk Factors The Group’s activities expose it to a variety of financial risks: market risk [including currency risk, fair value interest rate risk and cash flow interest rate risk], credit risk and liquidity risk. The Group’s overall risk management programme focuses on the unpredictability of financial markets and seeks to minimise potential adverse effects on the Group’s financial performance. The Group uses derivative financial instruments to hedge certain risk exposures. Risk management is carried out centrally under policies approved by the board of directors. Centrally management identify, evaluate and hedge financial risks in close co-operation with the Group’s operating units. The

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board provides written principles for overall risk management, as well as written policies covering specific areas, such as foreign exchange risk, interest rate risk, credit risk, use of derivative financial instruments and nonderivative financial instruments, and investment of excess liquidity.” The authorities cited above make it clear that in considering whether deals are “in the course of business” the specific nature of the deals and their degree of regularity are relevant. The Bank contended that: i) Even viewed in isolation the purchase of the June and September products were in the nature of trade. ii) In any event they formed part of a regular chain of transactions and thus can be treated as an integral part of the business. The general background of the need for Titan to manage its foreign currency risks is set out above. As regards the structured products (and the specific transactions in June and September in particular) they were by definition not entered into solely by way of a hedge 12. The motive for entering into them was to make a profit: otherwise all that was required was a “vanilla” hedge to exclude the perceived currency risk. Such was the evidence of Mr. Annetts: “A. The objective was to protect the exchange rate wherever possible. Q. Clearly you wanted to hedge the large balances of euros

12 Indeed the September product was expressly categorised as not a hedge.


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which you were receiving. A. Yes. Q. That was vital for risk management. But if that were your sole objective, you could’ve continued to do that by a simple forward. A. Yes. Q. Yes. So you must have been looking for rather more than that by entering into these transactions. A. Yes, because probably at that point there would have been a considerable change in the quantity of either. Deutschmarks or euros inflowing into the business, because back in 1995 it would be very limited, 2000 would be growing and so on. Q. Never mind the volume; if you are simply hedging to avoid currency risk, you can do that by a forward, can’tyou? A. Yes. Q. So if you go for a structured product, you must be looking for something in addition to the hedging. A. Right. Q. And that was some profit as well. A. Yes. Q. Yes. Otherwise you wouldn’t have done it that way. It makes sense, doesn’t it? A. Sure. Q. Therefore, what you were seeking to do was to hedge your exposure in such a way that you managed to make some money on the side as well. A. Hopefully, yes.” In fact the exercise was fairly successful. As Mr. Annetts duly reported to Mr Wicks, a substantial profit of

£260,000 was made out of the structured products purchased in 2006. In reality the products were in the nature of a businesslike speculation which was a mile away from a pure hedge and fairly to be described as one off trades forming part of the business. In any event, even if the purchase of foreign exchange products was merely incidental to Titan’s business, the scale and frequency of the hedging is well sufficient to satisfy any requirement of regularity justifying the categorisation of such activity as being integral with the business: i) Between 2000 and 2007 Titan purchased 23 structured foreign currency products from the Bank. ii) In addition Titan purchased 20 similar products from Anglo Irish Bank and Allied Irish Bank. iii) The overall figures amounted to between €100m and €200m. In 2006 alone (as reported to Mr. Wicks) Titan entered into foreign exchange products worth a total of €25 million. iv) In addition, Titan also entered into frequent short term swap arrangements. I reject Titan’s submission that this reflected merely sporadic and intermittent activity fully outside the course of Titan’s business. To the contrary, the trades were sustained, large scale and a necessary concomitant of Titan’s trading. For all the above reason, I hold that Titan was not a “private person” for the purposes of the FSMA. Issue 3: Did the Bank act in the capacity of an advisor and did it owe a common law duty of care in respect of advice given in respect the June or September Products?

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There is a potential overlap between this issue and Issue 11 and the parties were not agreed as to the correct approach. Titan asserted that it was appropriate to determine the existence or otherwise of a duty of care in the absence of any applicable contractual terms and then consider the impact of those terms (subject of course to Issue 11). The Bank urged the reverse. In the event, I am not persuaded that the answer would be different on either approach. I start with consideration of the terms. As noted above, the Bank’s Terms of Business were sent under cover of the letter of 25 February 2004. These were all of a piece with an earlier set of terms (entitled Money Market Regulations) sent out in 2001 in accord with the preceding regulatory regime, the confirmatory letter having been signed and accepted by Mr Annetts on 23 March 2001. There is an issue however as to whether the 2004 terms of business were incorporated since no written acceptance of them was made by Mr Annetts or any other responsible officer of Titan (although it is common ground that neither on receipt or at any later stage was any objection taken to them). The covering letter made the Bank’s position quite plain: “We hereby notify you that we are treating you as an Intermediate Customer within the meaning and for the purposes of the Rules. Enclosed with this letter are our Terms of Business. The letter and the terms of Business supersede any documentation that may have previously been sent to you and will apply to all our dealings. However, the Terms of Business provide that certain other agreements

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which may exist between us in respect of a particular transaction or type of transaction may prevail over the Terms of Business (e.g. ISDA, Master Agreement for OTC derivative Transactions). Please read our Terms of Business carefully. They contain important information about our respective rights and obligations, including about certain limitations on liability to you. When you have reviewed the enclosed documents, you should keep them and this letter for guidance and reference. By conducting business with us you will be deemed to have agreed and accepted our Terms of Business which will therefore become legally binding on you and, in the absence of any other agreement between us and you, will apply to all dealings which we may conduct with you or on your behalf. Your attention is also drawn to the representations and warranties in Clause 3 of the Terms of Business.” Their existence and applicability were expressly reiterated in the post transaction acknowledgements. There can be no doubt, in my judgment, that reasonable notice was given of these standard contractual terms and that on receipt by Mr Annetts or at least by the subsequent course of dealing were duly incorporated. These terms expressly provided that the Bank would not provide advisory services and that any opinions expressed by the Bank did not constitute investment advice. Titan was to take independent advice as might be necessary. In that sense the Bank was making it clear that it was only providing an execution service. The specific terms of each transaction, both as contained in the post


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transaction acknowledgements and the confirmations 13 were to the same effect. In particular: i) Titan was to seek independent advice if required. ii) Titan placed no reliance on the Bank for advice or recommendations “of any sort”. There can be no doubt about the fact that Mr Annetts accepted the transaction terms. Indeed a documentary record was required of any transaction agreed over the telephone: i) The June PTA was sent by e-mail to Mr Annetts at his home. It stated: “Please note that this document constitutes your acknowledgement to the economic terms of the transaction entered into between [the Bank] and yourself and the disclosure on the accompanying schedule” Mr Annetts replied: “please proceed with this trade structure”. ii) The September PTA in the same terms was signed by Mr Annetts. iii) Both the June and the September Confirmation stated: “please confirm that the foregoing correctly sets forth the terms of our agreement by signing a copy of the Confirmation …” Mr Annetts signed both. Thus in my judgment the transaction terms formed part of the contracts between Titan and the Bank either by virtue of these signatures or, in any event, by reason of the course of dealing based on the same documentary

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Mr Annetts and Mr Wicks routinely signed confirmations on almost precisely the same terms in regard to products sold by Anglo Irish Bank.

structure over the previous six years. It is no answer, if the point be alive, for Titan to claim that the June and September products were more “complex” or of a “different nature”. Even if a good point, it has no bearing on the issue of incorporation. I turn to the impact of these terms. In this regard there was some confusion in Titan’s case as to whether it was alleging a pre-existing duty of care at the time the products were purchased 14 or that the Bank assumed a duty of care in respect of Ms Plested’s “advice”. But on either basis, I conclude that the terms outlined, taken as whole, are only consistent with the conclusion that Titan and the Bank were agreeing to conduct their dealings on the basis that the Bank was not acting as an advisor nor undertaking any duty of care regardless of what recommendations, suggestions or advice were tendered. Indeed such a duty will even be excluded where the bank or investment advisor has been expressly retained to furnish advice but only on terms which exclude responsibility: see Valse Holdings v. Merrill Lynch International Bank [2004] EWHC 2471 (Comm). The primary contention by Titan in response to these express terms (if incorporated) was that they can only take effect by way of evidential estoppel (which it was said was neither pleaded nor established). In my judgment this submission fails to grap-

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A pre-existing duty of care as I understood it said to have emerged in about 2004 arising from the earlier negotiations between Ms Plested and Mr Annetts.

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ple with the contractual estoppel created by the relevant terms. In Peekay v Australia and New Zealand Banking Group [2006] 2 Lloyd’s Rep. 511, a bank employee had misrepresented the nature of an investment product. But the relevant terms and conditions contained provisions to the effect that the customer knew the true nature of the contract he was entering into and had determined it was suitable. There was also a notice that the customer had taken independent advice and was not relying on the bank. In the judgment Moore-Bick LJ with whom Chadwick LJ and Collins LJ agreed having recorded an important principle of English law that “underpins all commercial life” to the effect that a person who signs a document knowing it is intended to have a legal effect is generally bound by its terms there is this passage: “56 There is no reason in principle why parties to a contract should not agree that a certain state of affairs should form the basis for the transaction, whether it be the case or not. For example, it may be desirable to settle a disagreement as to an existing state of affairs in order to establish a clear basis for the contract itself and its subsequent performance. Where parties express an agreement of that kind in a contractual document neither can subsequently deny the existence of the facts and matters upon which they have agreed, at least so far as concerns those aspects of their relationship to which the agreement was directed. The contract itself gives rise to an estoppel: see Colchester Borough Council v Smith [1991] Ch 448, affirmed on appeal [1992] Ch 421. It is common to include in certain kinds of contracts an express ac-

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knowledgment by each of the parties that they have not been induced to enter the contract by any representations other than those contained in the contract itself. The effectiveness of a clause of that kind may be challenged on the grounds that the contract as a whole, including the clause in question, can be avoided if in fact one or other party was induced to enter into it by misrepresentation. However, I can see no reason in principle why it should not be possible for parties to an agreement to give up any right to assert that they were induced to enter into it by misrepresentation, provided that they make their intention clear, or why a clause of that kind, if properly drafted, should not give rise to a contractual estoppel of the kind recognised in Colchester Borough Council v Smith. However, that particular question does not arise in this case. A clause of that kind may (depending on its terms) also be capable of giving rise to an estoppel by representation if the necessary elements can be established: see E A Grimstead & Son Ltd v McGarrigan (CA) 27 October 1999, unreported (BAIL II: [1999] EWCA Civ 3029 )”. This approach was adopted by Gloster J in JP Morgan Chase Bank v Springwell Navigation [2008] EWHC 1186 (Comm) and by Aikens J in Trident Turboprop (Dublin) Ltd v First Flight Couriers Ltd [2008] 2 Lloyd’s Rep. 581. I detect no basis upon which a different analysis would be justified in the present case. In the alternative the contractual provisions provide an evidential basis negating the coming into existence of a duty of care. I conclude that where, as here, the parties have purported to allocate by contract


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their respective roles and the risks involved in their relationship this will in the normal run preclude any wider obligation arising from a common law duty of care: Henderson v. Merrett [1995] 2 AC 145. This conclusion is fortified by IFE Fund v. Goldman Sachs Int [2007] EWCA Civ 811 where an issue arose as to the materiality of a provision in an Information Memorandum which contained a clause to the effect that the defendant accepted no responsibility for it: “28. I can start by clearing one or two issues out of the way. First it seems to me that the argument that there was some free standing duty of care owed by GSI to IFE in this case is in the light of the terms of the Important Notice hopeless. Nothing could be clearer than that GSI were not assuming any responsibility to the participants: Hedley Byrne v Heller & Partners [1964] A.C. 465. The foundation for liability for negligent misstatements demonstrates that where the terms on which someone is prepared to give advice or make a statement negatives any assumption of responsibility, no duty of care will be owed. Although there might be cases where the law would impose a duty by virtue of a particular state of facts despite an attempt not “to assume responsibility” the relationship between GSI either as arranger or as vendor would not be one of them. I entirely agree with the judge on this aspect.”: per Waller LJ. It is no answer, as it was suggested, that whilst the terms made it clear that the Bank was not obliged to give “advice” the Bank was not protected if it did in fact advise. There are a number of difficulties with this submission:

i) The terms go much further than relieve the Bank from any obligation to give advice: they provide that any statements are not to be treated as advice nor can they be relied upon by Titan. ii) It is commercially unreal to separate banking activity into a silent execution service on the one hand and an advisory role on the other. iii) The impact of the terms is that whether or not Ms Plested proffered opinions, suggestions or even advice during the telephone conversations is irrelevant: the parties have agreed that if the Bank does give advice it is not to be treated as accepting any responsibility. In other words, if the Bank’s activities were to extend beyond mere execution, the contractual terms cater for that situation. There is no question of going beyond or outside those provisions. Duty of care (absent contractual provisions) As already recorded, it is accepted that Ms Plested did indeed offer some ideas and recommendations 15in regard to financial products in the face of the large scale Euro income of Titan. But the question is whether the circumstances established that Ms Plested had status as an adviser such that a duty of care in tendering that advice arose or whether objective analysis identifies her as merely a saleswoman.

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As explained in para 20 above there is no significance as such in the alternative categorisation of any views or recommendations as ideas, opinions, proposals or advice.

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I unhesitatingly prefer the latter: see e.g Riggs AP Bank Ltd v. Eurocopy Ch Div 6 November 1998 There are certain features which point strongly against any conclusion that the Bank acted as an adviser or that its advice was relied upon: i) There is no documentary record of the Bank’s status as an adviser let alone any provision for payment of a fee for such services. If there had been an acceptance of an advisory responsibility the commercial expectation would be for the scope of the anticipated advice and the fee basis to be reduced to writing. ii) There is no written request for advice nor any written response whether in regard to individual transactions or in regard to overall currency exchange programmes. iii) The telephone conversations contain no express oral request for advice let alone any reference to an agreement to tender it. iv) Startlingly, the only written observations relating to the June and September products 16 which the Bank correctly characterised as “the bedrock” of the outcome of the relationship are not relied upon as containing any advice. v) Titan was properly categorised as an “intermediate customer” under the FSMA regime which involves a significant loss of regulatory protection. vi) Titan shopped around and bought FX products from other banks. The contractual terms were the same.

16 The e-mails of 29 June and 18 September.

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Yet no suggestion is made that any of these other banks were acting in advisory capacity. vii) The Bank was never even told of the existence let alone the form of these other products: it was thus not in any position to make any overall assessment. viii) It would be unrealistic to categorise Mr Annetts as an ingénue in the field of financial products. He had been dealing with foreign exchange products for over 10 years. He had purchased some 23 more sophisticated products since 2000 in consultation with Mr Wicks and/or Ms Bowron. Although no doubt paying heed to what Ms Plested had to say, the transcripts of the telephone conversations leave the clear impression that Mr Annetts was exercising his own independent judgment. He was not adopting without query or understanding the views of Ms Plested. ix) Whilst the Bank might be regarded as more sophisticated than Titan in the field of FX products the crucial parameter was the future Euro/ Sterling exchange rate. In that context neither could be treated as more sophisticated than the other whether looking at Ms Plested and Mr Annetts individually or at the teams of people in either camp. In fact both thought (wrongly) that the Euro would not fall below about 1.38. Indeed having again reviewed the telephone conversations between Ms Plested and Mr Annetts, I have come to agree with the Bank’s classification of them as unremarkable exchanges between a financial controller of a large manufacturing company and a saleswoman employed by the company’s bank. To the extent that Mr


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Annetts was accepting or even relying on any suggestions or recommendations from Ms Plested does not reflect a duty of care on her part. Mr Annetts could not reasonably have regarded her as an “advisor”. Although it is suggested that Ms Plested was Mr Annetts “trusted adviser” it is of some note that this phrase did not appear in documentation prior to Mr Annetts’ witness statement. That he “trusted” Ms Plested probably goes without saying: he would not have dealt with her at all if not. I treat the phenomenon as no more than a commonplace feature of commercial activity. Further nothing was said by Mr Annetts to Ms Plested to support the proposition in anything other than that sense. To the contrary he appeared to listen to Ms Plested’s views, fully understand those views and determine for himself whether the products were worth purchasing. In this regard the enormous stockpile of euros that Titan had accumulated was perceived by Mr Annetts as providing protection against any fall in sterling which might occur despite his expectation (shared by Ms Plested) that sterling would strengthen. Indeed I would adopt with admiration Gloster J’s exhaustive analysis to similar effect of a large number of these issues in Springwell17. I conclude therefore that the Bank did not act in the capacity of an advisor and it did not owe a common law duty of care in respect of advice in respect of the June and September products. Issue 11: Are the Contractual terms subject to the 1977 Act and, if so, is the Bank able to rely on them? It is accepted by the Bank that Clause 12.5 of the terms of business is

a genuine exclusion clause. It was the Bank’s case that all other terms merely defined the basis upon which the Bank was providing its services. In my judgment that proposition is correct and, as a result such terms fall outside the provisions of the Unfair Contractual Terms Act. The point is succinctly dealt with at first instance in IFE v. Goldman Sachs [2006] EWHC 2887 (Comm): “71…The relevant paragraphs of the SIM are not in my view to be characterised in Substance as a notice excluding of restricting a liability for negligence, but more fundamentally as going to the issue whether there was a relationship between the parties (amounting to or equivalent to that of professional adviser and advisee) such as to make it just and reasonable to impose the alleged duty of care”: per Toulson J A similar point arose in Springwell supra. As Mrs Justice Gloster pointed out any other conclusion would mean that every contract defining the scope of the parties obligations would have to satisfy the requirement of reasonableness. She went on: “604. The legislation is, in practice, of very limited application in the case of commercial contacts between commercial counterparties. In Photo Productions Ltd v Securicor,[185] Lord Wilberforce said that, in commercial matters generally, when the parties were not of unequal bargaining power, Parliament’s intention was one of “leaving the parties free to apportion the risks as they think fit… and respecting their decisions.”[186] Tuckey LJ made the same point in Granville Oil & Chemicals v Davis Turner & Co[187]:

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“For these reasons I think the Judge reached the wrong conclusion in this case. If necessary I would say he was plainly wrong. I am pleased to reach this decision. The 1977 Act obviously plays a very important role in protecting vulnerable consumers from the effects of draconian contract terms. But I am less enthusiastic about its intrusion into contracts between commercial parties of equal bargaining strength, who should generally be considered capable of being able to make contracts of their choosing and expect to be bound by their terms.” The reluctance of the Courts to interfere in contracts concluded between commercial parties in relation to substantial transactions reflects the strong business need for commercial certainty, as emphasised by Chadwick LJ in EA Grimstead & Son Ltd v McGarrigan[188] (supra).” In contrast to this line of authority Titan relied upon Smith v. Bush [1990] 1 AC 831 which would not appear to have been cited in IFE or in Springwell. The issue was whether a notice which made it plain that a valuer was not accepting liability to third parties was “caught” by the Act. The proposition advanced was to the effect that the approach should be a two stage test: first the issue whether a duty of care arose in the absence of the contractual terms: second whether the relevant clause had the effect of excluding or restricting the liability which would otherwise have arisen. The valuer submitted that the denial of responsibility prevented a duty arising in the first place and therefore was not an exclusion clause. At p. 848 Lord Templeman said:

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“In Harris v. Wyre Forest District Council [1988] QBD. 835, the Court of Appeal (Kerr and Norse L.JJ. and Caulfield J.) accepted an argument that the Act of 1977 did not apply because the council by their express disclaimer refused to obtain a valuation save on terms that the valuer would not be under any obligation to Mr. and Mrs. Harris to take reasonable care or exercise reasonable skill. The council did not exclude liability for negligence but excluded negligence so that the valuer and the council never came under a duty of care to Mr. and Mrs. Harris and could not be guilty of negligence. This construction would not give effect to the manifest intention of the Act but would emasculate the Act. The construction would provide no control over standard form exclusion clauses which individual members of the public are obliged to accept. A party to a contract or a tortfeasor could opt out of the Act of 1977 by declining in the words of Nourse L.J., at p. 845, to recognise “their own answerability to the plaintiff.” Caulfield J. said, at p. 850, that the Act “can only be relevant where there is on the facts a potential liability.” But no one intends to commit a tort and therefore any notice which excludes liability is a notice which excludes a potential liability. Kerr L.J., at p. 853, sought to confine the Act to “situations where the existence of a duty of care is not open to doubt” or where there is “an inescapable duty of care.” I can find nothing in the Act of 1977 or in the general law to identify or support this distinction. “ At p.856 Lord Griffiths said: “The Court of Appeal, however, ac-


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cepted an argument based upon the definition of negligence contained in section 1(1) of the Act of 1977…. I read these provisions as introducing a “but for” test in relation to the notice excluding liability. They indicate that the existence of the common law duty to take reasonable care, referred to in section 1(1)(b ), is to be judged by considering whether it would exist “but for” the notice excluding liability. The result of taking the notice into account when assessing the existence of a duty of care would result in removing all liability for negligent misstatements from the protection of the Act. The focus of course was the issue of liability for poor service rather than the scope of the service to be provided. Further the decision may have been somewhat overtaken by later decisions in regard to the assumption of responsibility and the move away from any “but for” test in regard to the existence and extent of any duty. In one sense the point is redundant since I have concluded that no liability did arise even in the absence of the contractual terms. But assuming in favour of Titan that the Act does apply, do the terms including clause 12.5 satisfy the test of reasonableness? It is difficult to see why not: i) There was complete equality of bargaining power. Titan was a substantial entity that was a customer of the Bank. It was open to Titan to choose any bank and indeed it did take its custom elsewhere.

ii) The terms were not simply standard for the Bank but, it would appear, to many banks including the Irish banks from which Titan bought products. iii) There was no difficulty in Titan seeking (as the terms expected) advice from another quarter if desired. The terms were clear and they were regularly brought to the notice of Titan. The thrust of Titan’s argument focussed on a discrete proposition to the effect that the information and resources available to the Bank as to the nature and suitability of each product was an order of magnitude greater than that available to Titan. So far as it goes, this proposition is true as a matter of fact but irrelevant: i) The Bank’s computer programmes enabled it to assess its making of profit which was of no interest to Titan. ii) Mr Annetts was told of the cost of closing out the February and March contracts before signing the June confirmation: whilst this was a calculation which could only be done with accuracy by the Bank no complaint was made nor questions asked. iii) The crucial parameter was the spot rate for Sterling/Euro exchange: there was no information or technology available to the Bank which enabled it to predict the future rate to better effect than Titan. I conclude therefore that with one exception the contractual terms are not subject to the 1977 Act and, in any event, they are reasonable.

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(1 – 7) Misselling derivatives: le posizione del Bundesgerichtshof e della High Court of Justice in merito ai doveri di trasparenza dell’intermediario nella negoziazione di derivati nella prospettiva della regolamentazione EMIR. Sommario: 1. Introduzione. – 2. La pronuncia del Bundesgerichtshof in tema di CMS spread ladder swap. – 3. (Segue). Gli elementi dell’accordo nel Rahmenvertrag für Finanztermingeschäfte: il rischio, anche illimitato, come elemento tipologico dello swap. – 4. (Segue): i doveri di informazione dell’intermediario nella negoziazione di strumenti finanziari complessi nella decisione del BGB: anleger und anlagegerechte Beratung. – 5. Il caso Titan Steel Wheels Ltd v. The Royal bank of Scotlad plc in materia di currency swap derivate products nella pronuncia della High Court of Justice. – 6. (Segue). Legittimazione quale private person all’azione di cui alla section 150 Financial Services and Markets Act 2000. Qualificabilità della relazione contrattuale tra cliente e intermediario come advisory relationship e violazione del duty of care. – 7. (Segue). L’indagine della FSA sugli Interest Rate Hedging Products collocati presso non-sophisticated customers in difformità alla regolamentazione COBS. – 8. I rimedi giudiziali nella prospettiva dei piani di tutela: regole di validità versus regole di condotta. – 9. La Comunicazione Consob n. 9019104/2009 e l’unbundlig delle componenti dei derivati. – 10. La regolamentazione EMIR (Reg. UE n. 648/2012): attenuazione del rischio di credito di controparte e rafforzamento della trasparenza.

1. Introduzione. La pronuncia del Bundesgerichtshof in tema di CMS spread ladder swap e il caso in materia di currency swap derivate products affrontato dalla High Court of Justice trattano, con esiti non coincidenti, il tema della negoziazione di strumenti finanziari derivati, con particolare riguardo ai profili di trasparenza delle informazioni relative ai costi di strutturazione delle operazioni in oggetto. La dirompente crisi finanziaria e le conseguenti perdite sofferte dalle controparti hanno provocato una proliferazioni di casi giudiziari relativi alla violazione delle regole di condotta soprattutto nei casi in cui la banca opera negoziando in contropartita diretta strumenti finanziari derivati c.d. OTC (over the counter) che non presentano profili di standardizzazione, essendo, di contro, strutturati in funzione delle esigenze specifiche del cliente. Il dibattito della giurisprudenza pratica e teorica ruota, allora, intorno a due questioni assai spinose: (i) il grado di trasparenza richiesto all’intermediario in relazione alla complessità degli strumenti negoziati e (ii) la possibile configurabilità di un automatica applicazione

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dei doveri di protezione che discendono dalla prestazione del servizio di consulenza 1. Uno sguardo a queste due pronunce se, da un lato, consente di cogliere il diverso approccio della giurisprudenza teorica e pratica dei sistemi tedesco e inglese rispetto al sistema italiano, da l’altro, sollecita qualche riflessione anche sul recente e massiccio intervento del legislatore europeo finalizzato ad assicurare una armonica cornice normativa al trading dei derivati. In questa prospettiva si inseriscono, de iure condito, il regolamento n. 648 del 4 luglio 2012, c.d. EMIR (European Market Infrastructure Regulation), entrato in vigore il 13 marzo 2013, i Regulatory Technical Standards predisposti dall’ESMA (European Securities and Markets Authority) in attuazione degli obblighi nascenti dal regolamento EMIR. In aggiunta, de iure condendo, la questione della armonizzazione nello spazio europeo dei criteri di trasparenza nella negoziazione dei derivati è oggetto di discussione nelle sedi di revisioni della direttiva MiFID (Markets in Financial Instruments Directive), nel testo presentato, unitamente al regolamento c.d. MiFIR (Markets in Financial Instruments Regulation) il 20 ottobre 2011 e della più recente proposta di revisione della direttiva MAD (Market Abuse Directive) del 25 luglio 2012. 2. La pronuncia del Bundesgerichtshof in tema di CMS spread ladder swap. Le corti tedesche, negli ultimi anni, hanno esaminato numerosi casi di

1 Numerosi gli interventi della dottrina sul tema. Si vedano Sartori, Autodeterminazione e formazione eteronoma del regolamento negoziale. Il problema dell’effettività delle regole di condotta, in Riv. dir. priv., 2009, p. 93 ss.; M. Rescigno, Il prodotto è tossico: tenere lontano dai bambini, in AGE, 2009, p. 145 ss.; Piazza, Contratto di swap, nozione di “operatore qualificato” e buona fede: attualità della questione, in Riv. dir. priv., 2011, p. 447 ss.; A. Piras, Operazioni inadeguate su derivati e dichiarazione di operatore qualificato: tutela dell’investitore ex art. 700 c.p.c., in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 514 ss.; Girino, Sviluppi giurisprudenziali in materia di derivati over the counter, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 794 ss.; Onado, Il banchiere di ferro di oggi: mi spezzo ma non mi piego (alle regole), in Mercato, concorrenza e regole, 2011, p. 499 ss.; Caputo Nassetti, Rinegoziazione dello swap e pagamento upfront tra collegamento negoziale, novazione oggettiva e rinnovazione del contratto, in Giur. comm., 2011, I, p. 887 s.; Maffeis, Contratti derivati, in Banca, borsa, tit. cred., 2011 p. 604 ss.; Id., La stagione dell’orrore in Europa: da Frankestein ai derivati, in Banca, borsa, tit. cred., I, 2012, p. 280 ss. e Barcellona, Strumenti finanziari derivati: significato normativo di una «definizione», in Banca, borsa, tit. cred., I, 2012, p. 541 ss.

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violazione dei doveri di informazione e di trasparenza delle banche nei casi di strutturazione di operazioni di swap con aziende municipalizzate e con clienti retail. Il Bundesgerichtshof, con sentenza del 22 marzo 2011, ha sancito la responsabilità della Deutsche Bank per i danni subiti da una società municipalizzata di medie dimensioni, Ille Papier-Service GmbH, dalla stipulazione di uno CMS spread ladder swap (d’ora in poi CMS swap). La pronuncia si segnala come il primo tentativo della Suprema Corte federale tedesca di fissare i principali requisiti di trasparenza che gravano sugli intermediari nella strutturazione di strumenti finanziari derivati. La Corte ha respinto la richiesta di dichiarare la nullità dei contratti in derivati in violazione dell’obbligo di agire secondo bonos mores (Sittenwidrigkeit) di cui al §. 138 BGB sulla base dell’argomentazione che, seppur un contratto di swap presenta un profilo di rischio/rendimento asimmetrico, ciascuna delle parti ha una possibilità di guadagno, posto che il guadagno o la perdita dipende dallo sviluppo delle variabili cui è collegato lo swap: ne risulta che il contratto non può dichiararsi nullo perché “immorale in natura”, ai sensi del §. 138 BGB poiché “l’autonomia privata consente l’esecuzione di operazioni ad alto rischio” e aggiunge che “transazioni ad alto rischio” non sono immorali neppure ove i guadagni siano collegati a circostanze favorevoli eventuali. La Corte ha anche respinto la richiesta di nullità dei contratti per la mancanza di trasparenza nella strutturazione dello strumento finanziario derivato. Infatti il §. 307 BGB, secondo cui i termini e le condizioni di un contratto devono essere trasparenti, si applica ai contratti con formule standardizzate, mentre non trova applicazione, ai sensi del §. 305 b BGB, ove le parti espressamente manifestino il consenso sulle specifiche condizioni contrattuali. La Corte ha respinto anche la richiesta di nullità del contratto per “rappresentazione scorretta”, ex §. 123 BGB. La banca, invece, è stata dichiarata responsabile per aver consigliato un’operazione di investimento inadeguata al profilo di rischio del cliente e per aver violato i doveri di informazione, non rendendo noto il mark to market iniziale negativo, pari a 80.000 euro. In particolare, negoziando in contropartita diretta gli swap con vantaggi competitivi iniziali a suo favore, la banca avrebbe violato le disposizioni in materia di conflitto di interessi (§ 31, 1, n. 2, WpHG - Wertpapierhandelsgesetz). Il danno è stato quantificato in 540.000 euro.

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3. (Segue). Gli elementi dell’accordo nel Rahmenvertrag für Finanztermingeschäfte: il rischio, anche illimitato, come elemento tipologico dello swap. L’acronimo CMS sta ad indicare la fattispecie del constant maturity swap la cui struttura finanziaria prevede una obbligazione a tasso variabile indicizzato ai tassi swap a lunga scadenza del titolo e ha, di prassi, una durata quinquennale e un valore nozionale di riferimento pari ad almeno 1 milione di euro. Nello spread ladder swap 2 la banca effettua pagamenti semestrali di interessi calcolati in base ad un tasso fisso nella misura del 3 per cento del valore nozionale di riferimento. Il cliente, di contro, liquida nei due semestri del primo anno alla banca un ammontare pari a 1.5 per cento del valore nozionale di riferimento; dal secondo anno, invece, il cliente paga interessi variabili calcolati in base ad una formula algebrica. Nella sentenza in esame, la Deutsche Bank aveva proposto ad una società municipalizzata di medie dimensioni di entrare come controparte in un CMS spread ladder swap che fu materialmente stipulato il 16 febbraio 2005. La banca si impegnava, in particolare, a pagare al cliente un interesse fisso pari al 3 per cento in relazione ad un valore nozionale di riferimento pari a 2 milioni di euro per un periodo di 5 anni. Il cliente, di contro, si impegnava, per il primo anno, al pagamento di un tasso di interesse di 1,5 per cento in relazione al medesimo valore nozionale, e successivamente ad un tasso variabile dipendente dallo sviluppo della differenza tra la porzione fissa dei tassi degli swap a 10 e a 2 anni su base Euribor (il c.d. spread) 3. L’accordo in merito allo swap fu regolato all’interno di un “Contratto quadro”, Rahmenvertrag für Finanztermingeschäfte, in cui le parti con-

2 In argomento cfr. Fama – Bliss, The information in long-maturity forward rates, in 77 A. Econ. Rev., 1987, p. 680; Roller – Elster – Knappe, Spread-abhängige Constant Maturity (CMS) Swaps. Funktionsweise, Risikostruktur und rechtliche Bewertung, 19 ZBB, 2007, p. 345; Köndgen –Sandmann, Strukturierte Zinsswaps vor den Berufungsgerichten: eine Zwischenbilanz, 22 ZBB, 2010, p. 77, e Lange, Beratungspflicht einer Bank bei Abschluss eines Zinssatz-Swap-Vertrags, 27 BB, 2011, p. 1674. In argomento si vedano le riflessioni sistematiche di Perrone, La riduzione del rischio di credito negli strumenti finanziari derivati, Milano, 1999, p. 31 ss. 3 La formula utilizzata era: tasso di interesse del periodo in corso + 3 x [strike – (CMS 10 – CMS 2)]. La variabile denominata strike era fissata all’1%, ma sarebbe scesa nel tempo a 0,85, 0,7 fino ad arrivare a 0,55 sicché il tasso variabile non poteva mai scendere sotto lo zero.

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cordavano di liquidare la differenza tra le due posizioni lorde, di modo che sarebbe gravato, sulla parte oberata del pagamento maggiore, di trasferire alla controparte solo lo spread tra le due somme dovute, calcolate in base ai tassi, rispettivamente fisso, per la banca, e variabile, per il cliente. Nelle fasi della negoziazione, la banca aveva fornito al cliente tutte le informazioni relative ai rischi connessi con le due posizioni assunte nello swap, chiarendo, in particolare, che, in ipotesi di riduzione dei tassi di interesse il cliente avrebbe contratto perdite e allegando altresì modelli matematici a dimostrazione della possibilità teorica di andamenti vuoi positivi vuoi negativi dello spread. La banca aveva, inoltre, agito in maniera trasparente denunciando che la posizione assunta dal cliente era soggetta ad un rischio “teoricamente illimitato”. Quanto ai profili soggettivi, le trattative per conto della società municipalizzata furono portate avanti dal direttore generale e da un impiegato esperto nella materia finanziaria e laureato nelle discipline economiche che, tuttavia, dichiarava alla Suprema Corte Federale di non aver avuto, nella chiusura della negoziazione, piena consapevolezza dei rischi sottesi alla posizione assunta nel CMS spread ladder swap. Al momento della conclusione del contratto, c.d. trade date, lo swap aveva un valore iniziale di mercato, c.d. mark to market, negativo, pari all’8 per cento del valore nozionale di riferimento (80.000 euro). La banca, in tal modo, si assicurava una posizione pressoché immune da perdite di mercato e ometteva di informare sul punto il cliente. Alla data del 26 gennaio 2007, a causa del decremento dello spread, le parti si accordavano per la chiusura del CMS spread ladder swap con valore di mercato sfavorevole per il cliente pari a 566.850 euro. Il cliente citava in giudizio la banca ma le richieste venivano respinte dalle corti regionali.

4. (Segue): i doveri di informazione dell’intermediario nella negoziazione di strumenti finanziari complessi nella decisione del BGH: anleger und anlagegerechte Beratung. IL BGH ribalta le decisioni di primo e secondo grado e dichiara la banca responsabile per violazione dei doveri di informazione imponendo il risarcimento dei danni. Nella pronuncia emerge che in relazione a prodotti molto complessi e ad alto rischio la banca deve fornire al cliente informazioni capillari al fine di adempiere ai doveri di trasparenza nei confronti del cliente.

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La decisione si fonda sui principi di diritto, fissati nella decisione del BGH del 6 luglio 1993 4 pre-MiFID, secondo cui, da un lato, il servizio di consulenza si reputa tacitamente concluso quando il cliente nella relazione con l’intermediario riceve informazioni sulla adeguatezza di un investimento per il quale la banca nutre un interesse rilevante; da l’altro, sui profili, noti con l’espressione anleger und anlagegerechte Beratung 5, che distinguono, nel contratto di consulenza i doveri di informazione relativi al profilo del cliente da quelli relativi all’oggetto dell’investimento. Quanto ai profili soggettivi, la pronuncia del BGH sottolinea come la banca, ai sensi dell’art. 31, § 4, WpHG, in tema di Allgemeine Verhaltensregeln 6, nel prestare il servizio di consulenza, deve valutare le conoscenze ed esperienze nel settore di investimento, la situazione finanziaria e gli obiettivi di investimento; valutazione questa che fornisce il grado di sopportazione del rischio da parte del cliente. Ne risulta che la banca, nel caso di prodotti finanziari altamente complessi, è tenuta a consigliare solo quei prodotti adeguati quanto al profilo di rischio e agli obiettivi di investimento del cliente. Il dovere di informazione comporta, allora, secondo la Suprema Corte, il dovere di accertare che il cliente abbia compreso tutti i rischi sottesi all’investimento proposto. Ribaltando la contraria opinione delle Oberlandesgericht, Corti regionali di secondo grado, il BGH dispone che il dovere di disclosure in merito a prodotti finanziari altamente complessi non è attenuato in ipotesi di clienti che vantino una formazione professionale specifica nei temi economici. A ciò si aggiunga che la dichiarazione del cliente di aver sottoscritto lo strumento finanziario complesso nell’ignoranza di molti degli aspetti tecnici, lungi dal ridimensionare la responsabilità dell’intermediario per concorso di colpa del cliente, ai sensi del § 254 BGB, in materia di Mitverschulden, testimonia, invece, il completo affidamento del cliente stesso sulla consulenza della banca. Quanto all’aspetto inerente alla consulenza sullo specifico prodotto CMS Spread Ladder Swap, considerato, in linea con le posizioni delle Corti Regionali, una tipologia di strumento finanziario altamente speculativo, il BGH sottolinea come l’intermediario debba assicurare al cliente

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Cfr. NJW, 1993, p. 2433 ss. Cui corrispondono le note espressioni anglosassoni “know your custmer rule” e “know your merchandise rule”. Sul tema amplius Sartori, Le regole di condotta degli intermediari finanziari: disciplina e forme di tutela, Milano, 2004, passim. 6 Prima della riforma Mifid la disposizione in materia di adeguatezza era contenuta nella section 31, §. 2. 5

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un livello dettagliato di informazione sulle varie componenti di rischio che, nel caso discusso, imponevano la trasparenza sullo squilibrio delle posizioni, essendo l’esposizione al rischio del cliente, ma non della banca, illimitata. La banca aveva, inoltre, l’obbligo di informare il cliente che la strutturazione del CMS Spread Ladder Swap, negoziato in contropartita diretta dalla banca, assumeva, per il cliente, un valore iniziale di mercato negativo, ovvero comportava per il cliente stesso una assunzione di una posizione di rischio maggiore rispetto a quella assunta dalla banca. Il BGH sottolinea come, essendo lo swap in esame una scommessa sulla variabilità dei tassi di interesse, le posizioni della banca e del cliente sono speculari, sostanziando una perdita per il cliente un vantaggio per la banca stessa. Nel prestare il servizio di consulenza, allora, la banca, ad evitare il conflitto di interessi, ai sensi della disposizione di cui al § 31 WpHG, avrebbe dovuto informare in modo chiaro il cliente che assumeva una posizione iniziale svantaggiata. In altre parole, la banca avrebbe dovuto colmare le asimmetrie informative caratteristiche della posizione contrattuale del cliente con particolare riguardo ai profili di rischio connessi al mark to market iniziale negativo per il cliente stesso. Rilevanti sono gli spunti di riflessione offerti dalla pronuncia della Suprema Corte federale tedesca. Se, in vero, risultano cristallizzati doveri stringenti di trasparenza a carico degli intermediari, non viene invece disposto un obbligo di trasparenza in merito a tutte le voci di profitto della banca né un divieto tout court di negoziazione degli CMS spread ladder swap né degli strumenti derivati in generale. I profili di responsabilità della banca nel caso in esame sono centrati sul fatto specifico, non necessariamente caratterizzante le posizioni in swap in generale, del mark to market iniziale negativo. Non si può, allora, da tale pronuncia dedurre una astratta posizione di sfavore della Corte riguardo alla negoziazione dei derivati.

5. Il caso Titan Steel Wheels Ltd v. The Royal Bank of Scotlad plc in materia di currency swap derivate products nella pronuncia della High Court of Justice. Numerose le pronunce delle Corti inglesi in tema di violazione dei doveri contrattuali delineati nel sistema regolamentare inglese. Merita, in particolare, di essere segnalata la pronuncia resa il 12 aprile 2010 dalla High Court of Justice, nel caso Titan Steel Wheels Ltd v. The Royal Bank of Scotland plc, che ha respinto la domanda del cliente nei con-

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fronti della banca, in relazione alla vendita di currency swap derivate products. La Corte, in particolare, ha negato che la banca prestasse un servizio di consulenza, c.d. advisory service, e che le opinioni espresse telefonicamente dal funzionario della banca stessa potessero qualificarsi come informazione sull’adeguatezza dell’investimento, negando così l’esistenza di specifici duties of care. La Corte ha altresì negato che ci fossero contractual terms exclusion clauses soggette ad Unfair Contract terms Act del 1977. Leading case nella materia esaminata è il caso trattato nella sentenza JP Morgan Bank v. Springwell Navigation Corp, in cui nell’ipotesi di prestazione dei servizi di investimento secondo la modalità purely execution style l’intermediario non è tenuto ad informare il cliente sulla adeguatezza o appropriatezza degli investimenti. L’attore, in particolare, lamentava di aver subito notevoli perdite a seguito dell’acquisto di titoli di debito complessi riferiti a paesi emergenti. In particolare, per l’attore la banca aveva agito come investment advisor nei confronti di un cliente caratterizzato da un low risk approach. La banca, di contro, negava l’esistenza di una advisory relationship con l’attore, che definiva higly experienced investor e che, a suo dire, aveva scelto in piena consapevolezza dei rischi i prodotti da sottoscrivere. La Corte ha negato la responsabilità della banca per negligent misstatement sul presupposto dell’inesistenza di una fiduciary relationship tra le parti e arrivando a definire le richieste della società attrice fantasy e commercially unreal.

6. (Segue). Legittimazione quale private person all’azione di cui alla section 150 Financial Services and Markets Act 2000. Qualificabilità della relazione contrattuale tra cliente e intermediario come advisory relationship e violazione del duty of care. Il sistema finanziario inglese, come emerge dalla sentenza esaminata, consente la creazione di una relazione contrattuale tra il cliente e l’intermediario secondo la modalità execution only, svincolando, di fatto, l’intermediario dai doveri di consulenza sulla adeguatezza degli strumenti consigliati. In particolare, nel sistema pre-MiFID i doveri dell’intermediario dipendono dai termini dell’accordo intercorso con le parti (i) advisory, (ii) discretionary management ovvero (iii) execution only client. Ne risulta che se i termini dell’accordo prevedono la prestazione dell’intermediario secondo la modalità execution only, l’intermediario non è tenuto alla full disclosure in merito all’operazione proposta.

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Le Corti inglesi sembrano così enfatizzare il principio della libertà di contrattazione delle parti fino al limite di sacrificare l’interesse del cliente alla conoscenza dei prodotti negoziati. Nella ricostruzione dei fatti del caso Titan Steel Wheels Ltd v. The Royal Bank of Scotland plc la banca aveva, in sede processuale, allegato prove documentali dell’esclusione formale della responsabilità nella scelta di investimento del cliente. La società Titan Steel Wheels Ltd (d’ora in poi Titan), specializzata nella lavorazione dell’acciaio esportato nei Paesi dell’area euro, era esposta al rischio di fluttuazione dei cambi, essendo i propri ricavi principalmente in euro e i propri costi in sterline. A tal fine la Titan aveva negoziato, in giugno e settembre 2007, due currency swap con The Royal Bank of Scotlad plc (d’ora in poi RBS) con il duplice obiettivo di assicurarsi contro il rischio di cambio e, eventualmente, speculare sulle oscillazioni delle monete in questione. Tassi di cambio sfavorevoli, tuttavia, avevano provocato ingenti perdite nella posizione in derivati della Titan che agiva in giudizio allegando che (i) la transazione era talmente inusuale e complessa che gli impiegati della Titan si erano affidati alla consulenza della banca per i profili concernenti la materiale strutturazione del currency swap; (ii) la banca aveva inoltre consigliato tali prodotti come adeguati al profilo di rischio relativo all’attività principale esercitata e (ii) da ultimo la banca, avendo violato i doveri di protezione, c.d. duties of care, consigliando prodotti inadeguati alporfilo di rischio del cliente e quindi era passibile di subire l’azione per danni di cui alla section 150 Financial Services and Markets Act 2000 (d’ora in poi FSMA 2000) 7. La RBS, tuttavia, allegò prove documentali della posizione di indipendenza assunta dalla Titan nel contratto, la c.d. non-reliance clause, secondo la quale il cliente dichiarava di fare affidamento unicamente sugli elementi desumibili dal contratto e, ipso facto, escludeva la possibilità che la banca prestasse il servizio di consulenza. Nonostante le prove fornite riguardo alle conversazioni telefoniche, che pure vertevano sui temi dei derivati sui cambi di moneta, non poteva, tuttavia, essere provata l’esistenza di un contratto di consulenza, non essendoci alcuna evidenza di un contratto scritto, né di una parcella liquidata per tale servizio né un’espressa richiesta di ottenere detta consulenza. Quanto ai profili soggettivi, il rappresentante della Titan che aveva trattato i derivati in esame aveva già una esperienza riguardo a strumenti finanziari complessi sic-

7 La Corte non riconobbe alla Titan la legittimazione all’azione di cui alla section 150 FSMA 2000 poiché il soggetto non era qualificabile come private person.

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ché la conversazione intercorsa telefonicamente non poteva considerarsi rilevante. Le questioni di diritto esaminate nella sentenza in oggetto riguardano principalmente tre punti: (i) la riconducibilità della Titan alla fattispecie “private person” di cui alla section 150 FSMA 2000; (ii) la configurabilità di una relazione di consulenza tra la Titan e la RBS e, di conseguenza, l’esistenza di tipico diritto di common law qualificato come duty of care in riferimento ai consigli forniti dalla banca in merito alla strutturazione dei currency swaps; (iii) l’esistenza di exclusion clauses soggette all’Unfair Contract Terms Act 1977 (d’ora in poi UCTA) e la possibilità per la RBS di fare affidamento su tali clausole. In riferimento alla prima questione di diritto, la section 150 del FSMA 2000 riconosce l’azione a tutela della violazione dei doveri di condotta di un intermediario autorizzato solo alla c.d. private person, definita, secondo il Reg. 3(1)(a)FMSA Regulations 2001 come «any individual, unless he suffers the loss in question in the course of carrying on business of any kind» ovvero 3(1)(b)FMSA Regulations 2001 come «any person who is not an individual, unless he suffers the loss in question in the course of carrying on business of any kind»; ovvero a persone fisiche o giuridiche purché le perdite non siano maturate in riferimento ad una attività economica. La Titan argomentava che la fedele ricostruzione delle FSMA Regulations implicava che la Corte dovesse considerare se la sottoscrizione di currency swaps fosse parte integrante dell’attività della Titan stessa ovvero assumesse un ruolo ancillare al core business della lavorazione dell’acciaio. Titan sosteneva con enfasi di non operare nel mercato finanziario e di non possedere gli strumenti necessari, quali i software, per comprendere e analizzare strumenti finanziari complessi quali i currency swaps. Di contro, RBS sottolineava come il riferimento delle FSMA Regulations all’attività di «carrying on a business of any kind» fosse passibile di una ampia interpretazione ed estensibile a qualunque attività economica. La Corte respinge la richiesta della Titan anche sul piano formale evidenziando come i currency swaps in oggetto formassero parte di una catena di transazioni di ampia scala e valore necessari all’attività principale della Titan, potendosi così le perdite qualificare come maturate nel corso dell’attività economica. Quanto alla qualificazione della relazione giuridica intercorsa tra Titan e RBS, nonostante i costanti colloqui telefonici tra i dipendente della Titan e quelli della RBS, la Corte valutata la chiarezza dei termini contrattuali in cui le parti accettavano di agire fuori dal rapporto di consulenza, esclude qualunque violazione del duty of care. Secondo la

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c.d. contractual estoppel, se il cliente sottoscrive il contratto col quale la banca espressamente dichiara di non assumere la responsabilità dell’adeguatezza dell’investimento, il cliente si priva di fatto del diritto di agire contro la banca. A ciò si aggiunga che il grado di professionalità di Titan, dimostrato da una consolidata esperienza nella negoziazione di prodotti complessi pone il cliente sullo stesso piano della banca e esclude l’esistenza di uno specifico duty of care della RBS, poiché il grado di affidamento, c.d. trust, del cliente nei confronti della banca è in linea con le normali prassi dell’attività commerciale e non giustifica il sorgere di un higher legal duty 8. La Corte, da ultimo, esamina la riconducibilità agli obiettivi dell’UCTA della clausola che disponeva che RBS non era responsabile «for any loss of opportunity, decline in value of investments, errors of fact or judgment or other loss from any act or omission made under or in relation to or connection with terms of business or the services provided under these, except to the extent that they resulted from its gross negligence». La Corte conclude per il superamento del test c.d. di ragionevolezza di cui alla normativa UCTA della clausola in questione sulla base degli argomenti che seguono. Da un lato, (i) sussiste un totale equiparazione di bargaining power posto che la Titan era nella posizione di scegliere un altro intermediario; (ii) la clausola si avvale di una terminologia standardizzata utilizzata nei formulari di tutte le banche; (iii) Titan era in grado di ottenere una consulenza sull’operazione in derivati in modo indipendente; e, da ultimo, (iv) i termine della clausola erano chiari e portati a conoscenza della Titan in modo regolare. Analoga la ricostruzione dei fatti e la regola juris applicata nel caso JP Morgan Bank v. Springwell Navigation Corporation 9 in cui gli investitori erano imprenditori di successo, classificati come “sophisticated nonprivate investors” nell’ambito della relazione contrattuale con JP Morgan Bank. Questi soggetti gestivano, avvalendosi dello schermo societario, un portafoglio di strumenti finanziari collegati ai titoli obbligazionari emessi dalla Russia che, con la crisi del 1998, vennero dichiarati non rimborsabili, con conseguenti perdite nel portafoglio in oggetto. L’attore

8 In argomento, per un quadro generale si rinvia a Criscuoli, Il contratto nel diritto inglese, Padova, 2001, passim. 9 2008, EWHCA, 1186. Nello stesso senso anche Peekay Intermark Ltd v. ANZ Banking Group Ltd, 2006, EWCA Civ., 386; IFE Fund SA v. Goldman Sachs International, 2007, EWCA Civ., 811 e, da ultimo, Grant Estates Limited v. Royal Bank of Scotland plc, 2012, CSOH, 133.

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lamentava che l’intermediario aveva violato il duty of care in riferimento ala dovuta consulenza sulla appropriatezza dell’investimento e si era reso responsabile di negligent misstatement. La Corte respinge le richieste del cliente sulla base delle evidenze formali del contratto che non fissava alcun dovere di consulenza da parte della banca.

7. (Segue). L’indagine della FSA sugli Interest Rate Hedging Products collocati presso non-sophisticated customers in difformità alla regolamentazione COBS. Le sentenze riportate dimostrano come l’orientamento giurisprudenziale inglese fondi la qualificazione del contratto sui dati formali della relazione banca cliente e, soprattutto in ipotesi di un investitore professionale, non consenta il riconoscimento della prestazione del servizio di consulenza in forma tacita, ossia non prevista nel contratto scritto. Sebbene le banche sembrino aver avuto la meglio nelle corti inglese, il tema dei derivati è all’attenzione dei regulators d’oltremanica. In particolare, si segnala l’iniziativa in tema di Interest Rate Hedging Products, Pilot Findings 10, pubblicato nel marzo 2013 dalla FSA (Financial Services Authority), neosoppressa autorità di vigilanza inglese, sostituita in data 1 aprile 2013 dalla PRA (Prudential Regulatory Authority) e dalla FCA (Financial Conduct Authority). Dall’indagine promossa dalla FSA 11 riguardo alla negoziazione di IRHPs (interest rate hedging products), strumenti finanziari derivati finalizzati a contenere il rischio di oscillazione dei tassi di interesse, da parte di 12 banche inglesi, tra cui Barcleys Bank Plc, HSBC Bank Plc, Lloyds Banking Group e Royal Bank of Scotland Plc è emerso che il 90% dei prodotti collocati presso non-sophisticated customers non soddisfa i requisiti minimi posti dalla regolamentazione COB (Conduct of Business) 12, sostituita a partire dal 1 novembre 2007, a seguito del recepimento della normativa MiFID, dalle COBS (Conduct of Business Sourcebook) 13.

10

Documento reperibile sul sito www.fsa.gov.uk Il riferimento è a FSA, Interest Rate Hedging Products. Pilot Findings, March 2013. 12 Le regole delle COB (Conduct of Business) che si possono leggere in http:// fshandbook.info/FS/html/handbook/COB. 13 Il testo delle disposizioni di cui alle COBS è reperibile su http://fshandbook.info/ FS/html/handbook/COBS. 11

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La classificazione dei clienti pre-MiFID si fondava sulla tripartizione di cui alla COB 4.1 tra (i) private customers, (ii) intermediate customers e (iii) market counterparties; categorie, queste, traslate quasi meccanicamente nel sistema post-MiFID nelle COBS 3.4, 3.5 e 3.6 nei raggruppamenti dei (i) retail clients (ii) professional clients e (iii) eligible counterparties 14. In particolare, le principali irregolarità riguardano le violazione delle regola di cui alla COBS 2.2.1, che impone una appropriate information in a comprehensible form; la COBS 4.2.1, in merito al dovere di informazione fair, clear and not misleading; la COBS 4.5.2, secondo cui l’informazione deve presentare al cliente equally the benefits and the risks; la COBS 9.2.1, in merito ai requisiti della suitability nella prestazione del servizio di consulenza e, da ultimo, la COBS 14.3 che impone all’intermediario la descrizione di nature and risks of designated investments. All’esito dell’indagine della FSA le banche coinvolte hanno accettato di rivedere le molte posizioni IHHPs.

8. I rimedi giudiziali nella prospettiva dei piani di tutela: regole di validità versus regole di condotta. Il quadro delle tutele giudiziali predisposte dal diritto speciale, interno e comunitario, in punto di violazione delle regole di condotta è largamente incompleto. La giurisprudenza interna si è interrogata, con esiti contrastanti, sul tema delle conseguenze della violazione delle regole di condotta di cui all’art. 21 t.u.f. e alle norme regolamentari. Ne è risultato un dibattito ricchissimo e estremamente vivace, in cui le soluzioni proposte possono essere sintetizzate in: (i) nullità virtuale, ex art. 1418, comma 1°, c.c., del contratto di acquisto degli strumenti finanziari per violazione di norme imperative; (ii) annullabilità per vizi di volontà; (iii) risoluzione per inadempimento 15.

14 Sull’impatto della normativa MiFID nella classificazione dei clienti nel sistema inglese si rinvia a FSA, Implementing MiFID’s Client Categorisation requirements, August 2006 15 Per una ricostruzione delle posizioni della giurisprudenza di merito si rinvia a Cottino, Una giurisprudenza in bilico: i casi Cirio, Parmalat, bonds argentini, in Giur. it., 2006, p. 537 ss, che nota come « il dato che emerge è non solo quantitativamente impressionante ma anche qualitativamente rivelatore — oltre che di serie disfunzioni

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Tra queste, in particolare, è parsa prevalere la tesi della nullità c.d. virtuale del contratto, argomentando dalla difformità del contratto dal paradigma che ne determina la perfezione strutturale ovvero dalla sua contrarietà contenutistico — funzionale ad interessi ritenuti inderogabili dal legislatore. Dalla prospettiva del cliente, poi, la tutela restitutoria presenta i vantaggi nei termini di un recupero integrale delle somme impiegate nell’operazione. La soluzione della nullità appare tuttavia criticabile poiché esclude ogni considerazione sul rapporto di causalità fra il pregiudizio patrimoniale lamentato dall’investitore e la condotta dell’intermediario nonché sul possibile concorso di colpa del fatto dell’investitore, con il rischio di traslare sull’intermediario anche la componente di rischio dipendente dal generale andamento del mercato 16. Dal punto di vista dogmatico, poi, derivare la nullità del contratto dalla violazione delle regole di condotta equivarrebbe a trasformare in regole di validità norme che sono invece dirette a imporre un determinato “contegno” nella fase delle trattative e nell’esecuzione del contratto stesso 17.

del sistema — di una accentuata diversificazione di soluzioni, dai crescenti margini di incertezza sia per chi adisce l’autorità giudiziaria sia per chi ne subisce le iniziative ». Per ulteriori riferimenti agli orientamenti giurisprudenziali precedenti all’intervento delle Sezioni Unite, si vedano, altresì, Tucci, La violazione delle regole di condotta degli intermediari tra “nullità virtuale”, culpa in contrahendo e inadempimento contrattuale, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, II, 632 ss.; Roppo, La tutela del risparmiatore fra nullità, risoluzione e risarcimento (ovvero, l’ambaradan dei rimedi contrattuali), in Contr. e impr., 2005, p. 896 ss.; Gobbo-Salodini, I servizi di investimento nella giurisprudenza più recente, in Giur. comm., 2006, II, p. 5 ss. e, da ultimo, InzitariPiccinini, La tutela del cliente nella negoziazione di strumenti finanziari, Padova, 2008, passim. Sul rimedio della risoluzione si rinvia a Lucantoni, L’inadempimento di “non scarsa importanza” nell’esecuzione del contratto c.d. quadro tra teoria generale della risoluzione e statuto normativo dei servizi di investimento, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, II, p. 783 ss. e Guadagno, Violazione degli obblighi di condotta da parte dell’intermediario finanziario: lo stato dell’arte dopo le Sezioni Unite, in Riv. dir. comm., 2009, I, p. 241 ss. 16 L’osservazione, condivisibile, è di Perrone, Less is more. Regole di comportamento e tutele degli investitori, in La nuova disciplina degli intermediari dopo le direttive MiFID: prime valutazioni e tendenze applicative, a cura di De Mari, Padova, 2009, p. 87 ss. e Id., Servizi di investimento e violazione delle regole di condotta, in Riv. soc., 2005, p. 1017 ss. 17 Così già Di Majo, La correttezza nell’attività di intermediazione mobiliare, in Banca, borsa, tit. cred., 1993, I, p. 290, che evidenzia come il legislatore ricorra a «regole di comportamento, che hanno per oggetto la condotta dei soggetti che esercitano l’attività di intermediazione mobiliare» «e non regole di validità, che invece hanno generalmente

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Sul tema è, come è noto, intervenuta la Cassazione, con le sentenze del 29 settembre 2005, n. 19024 18 e, a Sezioni Unite, del 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725 19. La Suprema Corte ha affrontato il rapporto tra regole di validità e regole di condotta e, pur non negando il carattere imperativo di queste ultime, ha affermato che la violazione delle regole di condotta può essere fonte di responsabilità precontrattuale o contrattuale a seconda che la violazione si collochi nella fase che precede la stipulazione del contratto di investimento o in quella successiva. In particolare, si è detto che la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di investimento può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d’intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può, invece, dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni di investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto in questione.

riguardo ai singoli atti e/o negozi, fissandone i requisiti e la cui mancanza determina generalmente la invalidità dell’atto» (corsivo dell’A.); Villa, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1997, p. 158 ss. e Perrone, Less is more, cit., p. 90. 18 La sentenza si può leggere in Foro it., 2006, I, p. 1105 ss., con nota di Scoditti, Regole di comportamento e regole di validità: i nuovi sviluppi della responsabilità precontrattuale; in Giur comm., 2006, II, p. 626, con nota di Salodini, Obblighi informativi degli intermediari e risarcimento del danno: la Cassazione e l’interpretazione evolutiva della responsabilità precontrattuale; in Danno e resp., 2005, p. 25 ss., con nota di RoppoAfferni, Dai contratti finanziari al contratto in genere: punti fermi della Cassazione sulla nullità virtuale. 19 Le pronunce della Suprema Corte si leggono, fra l’altro, in Dir. banc., 2008, I, p. 691 ss., con nota di Mazzini, L’ambito applicativo della nullità virtuale e gli obblighi di astensione dell’intermediario nella sentenza delle Sezioni Unite; in Giur it., 2008, p. 353, con nota di Cottino, La responsabilità degli intermediari finanziari e il verdetto delle sezioni unite: chiose, considerazioni, e un elogio dei giudici; in Foro it., 2008, I, p. 779 con nota di Scoditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le Sezioni Unite; in Danno e resp., 2008, p. 525 ss. con nota di Roppo, La nullità virtuale del contratto dopo la sentenza Rordorf; in Riv. dir. comm., 2008, II, p. 1189 con nota di Calisai, La violazione degli obblighi di comportamento degli intermediari finanziari - il contratto di intermediazione davanti ai giudici, fino alla tanto attesa (o forse no) pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

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In nessun caso, sottolinea la Suprema Corte, la violazione dei doveri di comportamento può determinare la nullità del contratto di intermediazione o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell’art. 1418, comma 1°, c.c. L’inevitabile radicamento dei doveri di comportamento alle circostanze del caso concreto li rende, infatti, inidonei ad assurgere a requisiti di validità. Ne risulta che le regole di comportamento non attengono alla struttura o all’oggetto del contratto, ma si collocano nella fase delle trattative o nella fase esecutiva e sono finalizzate a consentire all’investitore la valutazione sulla convenienza dell’operazione. Il doppio regime di responsabilità precontrattuale e contrattuale è connesso con la qualificazione dei contratti di negoziazione come “contratti quadro”, mediante i quali le parti prestabiliscono, in conformità alle norme di settore, gli aspetti e le modalità del contenuto dei successivi negozi. Ne deriverebbe che solo la violazione delle regole informative antecedenti alla stipulazione del contratto quadro — riconducibile ad una violazione di cui all’art. 1337 c.c. — si traduce in una responsabilità di tipo precontrattuale. La violazione di tutte le altre regole comportamentali, che devono essere rispettate successivamente alla stipulazione del contratto quadro, integra la fattispecie dell’inadempimento e dunque una responsabilità contrattuale, ferma la possibilità da parte del cliente di invocare, qualora l’inadempimento non abbia scarsa importanza ex art. 1445 c.c., il rimedio risolutorio. Discutibile appare, tuttavia, il rimedio della risoluzione per grave inadempimento, prospettato dalle sentenze gemelle delle Sez. Un., ove la violazione delle regole di comportamento presenti la gravità richiesta dall’art. 1455 c.c. per il venire meno del rapporto sinallagmatico, con i conseguenti effetti restitutori della somma erogata dal cliente all’intermediario per la prestazione del servizio di investimento. Questo rimedio, che pur presenta il vantaggio di una semplificazione nella determinazione delle somme dovute al cliente, sembra di difficile applicazione nelle ipotesi di violazione dei doveri informativi, anche in punto di adeguatezza e appropriatezza, che necessariamente si collocano in una fase che precede la stipulazione dei contratti 20.

20 Critico nei confronti del rimedio della risoluzione per grave inadempimento Perrone, Less is more, cit., p. 96 ove l’osservazione che con la sola eccezione delle regole sull’esecuzione e gestione di ordini e sulla specifica disposizione sugli obblighi di informazione post-contrattuali di cui all’art. 55 reg. intermediari in materia di gestione di portafogli e operazioni con passività potenziali, gli obblighi informativi sono funzionali a decisioni di investimento da assumersi in modo consapevole, art. 27, co. 2, reg.

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Tra gli obiter dicta delle citate sentenze va segnalata la riconduzione della disciplina del conflitto di interessi alle regole di condotta: il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto di interessi attiene, così, alla fase esecutiva del contratto e costituisce al pari del dovere di informazione, una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Il percorso argomentativo delle Sezioni Unite, che poggia sull’affermazione del tradizionale principio di non interferenza tra norme di comportamento e norme di validità del contratto, non è andato esente da rilievi critici. La tradizionale distinzione tra regole di validità e regole di condotta è stata, infatti, contestata come «datata» 21 e si è proposto di ricondurre le regole di condotta a «obblighi legali di fattispecie», collocati nell’ambito della costruzione della fattispecie contrattuale come momenti strutturali 22. Se ne è così dedotto che, in ipotesi di operazioni inadeguate o in conflitto di interessi, la sanzione più appropriata dovrebbe

intermediari, e adeguate e appropriate, artt. 39 ss.; di qui il loro carattere evidentemente pre-contrattuale e l’impossibilità di fondare la risoluzione dell’accordo sulla violazione di obblighi che ne precedono la conclusione. Conforme Roppo, La tutela del risparmiatore fra nullità e risoluzione (a proposito di Cirio bond e Tango bond), in Danno resp., 2005, p. 629 e Albanese, Violazione delle regole di condotta degli intermediari finanziari e regime dei rimedi esperibili dagli investitori danneggiati, in I soldi degli altri. Servizi di investimento e regole di comportamento degli intermediari, a cura di Perrone, Milano, 2008, p. 65 ss. che nega il ricorso al rimedio risolutorio nei rapporti aventi ad oggetto obblighi di protezione e non prestazioni corrispettive. 21 . Così Maffeis, Discipline preventive nei servizi di investimento: le Sezioni Unite e la notte (degli investitori) in cui tutte le vacche sono nere, in Contr., 2008, p. 404, che si esprime nei termini di «fedeltà datata ad una concezione rigida tra regole di validità e regole di comportamento» e Dolmetta, La violazione di obblighi di «fattispecie» da parte di intermediari finanziari, in Contr., 2008, p. 80 ss. Nello stesso senso Riccio, La clausola generale di buona fede è dunque un limite generale all’autonomia contrattuale, in Contr. e impr., 1999, p. 21 ss. che sottolinea come «alla violazione della regola di buona fede possa conseguire un effetto invalidante del contratto» e Galgano, Squilibrio contrattuale e mala fede del contraente forte, in Contr. e impr., 1997, p. 423, che osserva che «da quando la Cassazione ha equiparato il dolo omissivo al dolo commissivo » si deve ritenere che «la violazione della buona fede precontrattuale può produrre effetto invalidante del contratto». 22 Così Dolmetta, La violazione di obblighi di « fattispecie » da parte di intermediari finanziari, in Contr., 2008, p. 81, ove l’osservazione che gli obblighi di comportamento degli intermediari, da definirsi nei termini propri di «obblighi di fattispecie», paiono «collocarsi (non in un quadro di trattative, in fatto per di più inesistenti, bensì) nell’ambito della costruzione della fattispecie contrattuale, come momento proprio della stessa». Secondo l’A., p. 85, «la posizione di un rimedio restitutorio risulta coerente con una funzione sanzionatoria della violazione dell’obbligo della legge imposto all’intermediario».

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essere la nullità per illiceità della causa 23, per non meritevolezza della causa in concreto 24 o per mancanza dell’accordo 25. Questa soluzione, superando il tradizionale paradigma liberale dell’autonomia privata, rischia di configurare una tutela paternalistica del debitore 26. Sotto il profilo dogmatico, poi, solo il legislatore, come sottolineato nelle sentenze della Cassazione, può «isolare specifiche fattispecie comportamentali elevandole al rango di norme di validità» 27. Tradizionalmente si è sempre negato che le regole di comportamento, e in particolare la clausola di buona fede, possano decidere dell’esistenza di un rapporto obbligatorio 28.

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Maffeis, Dopo le Sezioni Unite: l’intermediario che non si astiene restituisce il denaro investito, in Contr., 2008, p. 557; Id., Discipline, cit.; Id., Contro l’interpretazione abrogante della disciplina del conflitto di interessi (e di altri pericoli) nella prestazione dei servizi di investimento, in Riv. dir. civ., 2007, II, p. 71 ss. e Id., La natura e la struttura dei contratti di investimento, in Riv. dir. priv., 2009, p. 67 ss. Così anche Sartori, La (ri) vincita dei rimedi risarcitori nell’intermediazione finanziaria: note critiche, in Dir. fall., 2008, II, p. 1 ss.; Piazza, La responsabilità della banca per acquisizione e collocazione di prodotti finanziari “inadeguati” al profilo dell’investitore, in Corr. giur., 2005, p. 1031, secondo cui « oltre al comportamento serbato nella fase formativa, è proprio il contenuto complessivo del negozio che resta intriso di contrarietà ai principi di ordine pubblico del contratto» e De Nova, La responsabilità dell’operatore finanziario per esercizio di attività pericolosa, in Contr., 2005, p. 709, per l’affermazione perentoria che «sul piano contrattuale il rimedio è quello della nullità e delle restituzioni». Critico sulle posizioni della Suprema Corte anche Calvo, Il risparmiatore disinformato tra poteri forti e tutele deboli, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2008, p. 1431 ss. 24 Sul punto cfr. le valutazioni di Tucci, “Servizio” e “contratto” nel rapporto tra intermediario e cliente, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli – Lener, in Trattato dei contratti2, diretto da P. Rescigno – Gabrielli, vol. 2, t. 1, 2011, p. 208 s. 25 Così Gentili, Inadempimento dell’intermediario e vizi genetici dei contratti di investimento, in Riv. dir. priv., 2009, p. 23 ss. 26 Così Perrone, Obblighi informativi, suitability e conflitti di interesse: un’analisi critica degli orientamenti giurisprudenziali e un confronto con la nuova disciplina MiFID, in I soldi degli altri, cit., p. 6 e nt. 15. 27 Così Cass. S.U., n. 26726 e 26726, cit. Conforme all’orientamento della Suprema Corte Perrone, Less in more, cit., p. 93; Albanese, Violazione delle regole di condotta degli intermediari finanziari e regime dei rimedi esperibili dagli investitori danneggiati, in I soldi degli altri, cit., p. 56; Mariconda, L’insegnamento delle Sezioni Unite sulla rilevanza della distinzione tra norme di comportamento e norme di validità, in Corr. giur., 2008, p. 235 s. Contra cfr. la posizione precedentemente assunta da Cass., 16 febbraio 2007, n. 3683, in Corr. giur., 2007, 634, che argomentando da alcune norme speciali afferma il «tendenziale inserimento, in sede normativa, del comportamento contrattuale delle parti tra i requisiti di validità del contratto». 28 Così D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 37 ss. per la sussistenza di un rigoroso principio di

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Sul piano della funzione, le regole della «validità», attenendo alla struttura del contratto, stabiliscono le condizioni a cui l’atto negoziale deve corrispondere per essere vincolante tra le parti e « hanno per fine di garantire la certezza dell’esistenza di fatti giuridici» 29. Dall’esigenza di certezza si ricava la necessità di formalizzazione delle regole di validità e l’esigenza che operino su un piano riservato alla valutazione esclusiva dell’ordinamento e ne sia sottratta la competenza ai privati. Le regole di condotta, invece, sono funzionali ad assicurare la correttezza nelle contrattazioni e «sono (o dovrebbero essere) regole “elastiche” perché risultanti dalla “concretizzazione” giudiziale di una “clausola generale” dal contenuto (com’è proprio di tutte le clausole generali) non formalizzato/non formalizzabile» 30. Da ciò l’incertezza di una prassi giurisprudenziale che ammettesse che l’invalidità di un atto possa dipendere dalla qualificazione di un comportamento dell’intermediario 31.

autonomia tra regole di validità e regole di comportamento; C. Scognamiglio, Regole di validità e regole di comportamento: i principi e i rimedi, in Europa dir. priv., 2008, p. 599 ss.; Ferri, Appunti sull’invalidità del contratto (dal codice civile del 1865 al codice civile del 1942), in Riv. dir. comm., 1996, I, p. 389, ove l’osservazione che «il 1º comma dell’art. 1428 c.c. disciplina il caso della contrarietà a norma imperativa da parte di un negozio giuridico (e cioè di un regolamento di interessi), non già di un comportamento»; Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 9, secondo cui «in nessun caso comunque, secondo la dogmatica del nostro codice civile, la violazione della buona fede è causa di invalidità del contratto, ma solo fonte di responsabilità per i danni» e, p. 11, la clausola della buona fede «non è mai criterio di nullità del contratto o di singole clausole»; Pietrobon, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova, 1990, p. 104 ss. e Villa, Contratto e violazione di norme imperative, Milano, 1997, p. 158 ss. Sotto il codice del 1865 Trabucchi, Il dolo nella teoria dei vizi del volere, Padova, 1937, p. 107. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile9, 1966 (rist. 1981), p. 171, ove l’osservazione che «la contravvenzione al principio di buona fede esplica la sua influenza in altre maniere, obbligando al risarcimento dei danni, o riflettendosi sull’interpretazione o sull’esecuzione del negozio, ma non ne compromette la validità». Contra, per l’opinione che la sanzione per la violazione dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede nella formazione del contratto debba ravvisarsi nella invalidità del prodotto del comportamento lesivo, Sacco, Il contratto, Torino, 1975, 669; Id., in Sacco-De Nova, Il contratto3, in Tratt. dir. civ. diretto da Sacco, Torino, 2004, p. 244, ove l’affermazione che «là dove l’evento lesivo che corona la condotta illecita sia la prestazione, da parte della vittima, di un consenso viziato, la rimozione degli effetti del contratto può essere il rimedio adatto per neutralizzare la lesione». 29 Pietrobon, Errore, cit., p. 118. 30 Così testualmente D’Amico, Regole di validità e regole di comportamento nella formazione del contratto, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 43. 31 In argomento sui problemi connessi all’applicazione degli standards valutativi Falzea, Gli standards valutativi e la loro applicazione, in Riv. dir. civ., I, 1987, p. 1 ss.

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Nel contesto specifico dei mercati finanziari, poi, la clausola generale deve tener conto dell’interesse all’integrità dei mercati finanziari. Ammettere che l’invalidità del contratto avente a oggetto un servizio di investimento possa dipendere dalla qualificazione del comportamento dell’intermediario alla stregua di mutevoli criteri valutativi extralegali, cui rimanda la regola della correttezza, porterebbe una seria minaccia all’integrità e all’efficienza dei mercati finanziari 32. Sembra perciò preferibile il rimedio risarcitorio, suggerito dalla Suprema Corte, sia per la possibile rilevanza causale della condotta colposa dell’investitore secondo il paradigma dell’art. 1227, co. 1, c.c., 33 sia per la possibile considerazione, nella determinazione del pregiudizio patrimoniale risarcibile, della causalità alternativa costituita dall’andamento complessivo del I mercato 34.

32 A favore della tecnica risarcitoria come «forma elettiva di tutela » in caso degli obblighi di condotta che discendono vuoi dalla normativa regolamentare, vuoi dalle clausole generali Venuti, Le clausole generali di correttezza. Diligenza e trasparenza nel testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione mobiliare, in Europa e dir. priv., 2000, p. 1049 ss. 33 Per quanto possa in teoria sostenersi l’applicabilità dell’art. 1227 c.c. anche in ipotesi di invalidità. In dottrina Perrone, Less is more, cit., p. 94; Palmieri, Responsabilità dell’intermediario finanziario per violazioni degli obblighi informativi e protezione dell’investitore non professionale, in Giur. comm., 2005, II, p. 526; Scalisi, Dovere di informazione e attività di intermediazione mobiliare, in Riv. civ., 1994, II, p. 194. In giurisprudenza Trib. Biella, 12 luglio 2005, in www.ilcaso.it; Trib. Milano, 25 luglio 2005, ivi; Trib. Parma, 3 marzo 2006, ivi; Trib. Parma, 21 marzo 2007, ivi. Per la rilevanza del concorso di colpa dell’investitore in materia di responsabilità della Consob per vigilanza sul prospetto, v. Cass., 3 marzo 2001, n. 3132, in Banca, borsa, tit. cred., 2002, II, 19, con nota di Perrone, Falsità del prospetto e responsabilità civile della Consob; in materia di responsabilità dell’intermediario per il fatto del promotore; Cass., 29 settembre 2005, n. 19166, in Danno e resp., 2006, 141, con nota di Frumento, Responsabilità (ex 2049) dell’intermediario finanziario per illecito del promotore-agente. Contra, nel senso che l’omissione degli obblighi informativi da parte dell’intermediario è assorbente, sotto il profilo causale ex art. 1227 c.c. di un onere di diligenza informativa del cliente Trib. Udine, 21 marzo 2007, in www.ilcaso.it; Trib. Venezia, 15 giugno 2007, ivi. In dottrina Maffeis, Discipline, cit., p. 410. 34 Roppo La tutela, cit., p. 904, in riferimento all’art 23, co. 6, t.u.f. osserva «la norma indica che il legislatore non ha dimenticato la vecchia buona distinzione tra regole di validità e regole di comportamento/responsabilità, e le è pur sempre affezionato: dimostrando di aver ben chiaro che quando è in gioco la violazione di regole di condotta diligente, la ricaduta naturale non si produce sul terreno della validità del contratto, ma sul diverso terreno della responsabilità del contraente». La soluzione della nullità appare non convincente anche per Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare4, Torino, 2008, p. 155, che la definisce «una scorciatoia di “comodo”, in quanto aggira lo

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La regola della responsabilità permette, così, di conseguire un maggior equilibrio nel valutare le circostanze del caso concreto 35, evitando di creare allarmismi nel mercato, dovuti a un arbitrario ampliamento delle cause di nullità ad opera giurisprudenziale 36.

9. La Comunicazione Consob n. 9019104/2009 e l’unbundling delle componenti dei derivati. Nel sistema interno mette conto segnalare la normativa secondaria

spinoso problema della quantificazione del danno nei giudizi di risarcimento danni per la violazione degli obblighi di condotta». In dottrina, privilegia la qualificazione in termini di responsabilità precontrattuale Perrone, Less is more, cit., p. 99. L’A. osserva che non si deve contenere la responsabilità precontrattuale nelle strettoie del recesso ingiustificato dalle trattative e di un risarcimento limitato al c.d. interesse contrattuale negativo. A ciò si oppone l’art. 1440 c.c. che nel consentire il ristoro del deceptus rispetto alle peggiori condizioni contrattuali derivanti dal dolo incidente, positivamente dimostra la possibilità di una responsabilità precontrattuale, pur quando dalla violazione della buona fede nelle trattative faccia seguito la valida conclusione del contratto. La responsabilità precontrattuale diverrebbe, così, il rimedio risarcitorio capace di compensare l’investitore per il pregiudizio conseguente ad una decisione di investimento assunta senza adeguata consapevolezza. Rimedio di portata generale, non limitato alla sola violazione degli obblighi che precedono e accompagnano la stipulazione del contratto quadro. Per un inquadramento della responsabilità precontrattuale in funzione correttiva del contratto Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 19. Per l’opposta opinione che il rimedio risarcitorio sia poco agevole per gli investitori, Maffeis, Discipline, cit., p. 403 ss.; Id., Contro l’interpretazione abrogante della disciplina del conflitto di interessi (e di altri pericoli) nella prestazione dei servizi di investimento, in Riv. dir. civ., 2007, II, p. 71 ss. e Sartori, La (ri)vincita, cit., p. 38: ove l’affermazione che la ripetizione dell’indebito, comportando una completa internalizzazione dei costi in capo all’impresa di investimento che ha causato il pregiudizio al mercato costituisce un « robusto deterrente contro future azioni infedeli». Sul trade off tra rimedi risolutori e rimedi risarcitori e sul conseguente impatto sulla sfera comportamentale del cliente cfr. Lewinsohn-Zamir, The Choice Between Property Rules and Liability Rules Revisited: Critical Observations from Behavioral Studies, in 80 Tex. L. Rev., 2001, p. 223; Hylton, Property Rules and Liability Rules, Once Again, 2 Rev. L. & Econ., 2006, p. 137 ss. 35 Così testualmente la Comunicazione Consob n. 9019104/2009, p. 4. Sulle implicazioni della determinazione unilaterale del contenuto dei contratti derivati cfr. De Nova, I contratti derivati come contratti alieni, in Riv. dir. priv., 2009, p. 15 ss. 36 Cfr. Consob, Prime linee di indirizzo in tema di consulenza in materia di investimenti – Esito delle consultazioni – 30 ottobre 2007.

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di cui alla Comunicazione Consob del 2 marzo 2009, n. 9019104 che ha disciplinato il «dovere dell’intermediario di comportarsi con correttezza e trasparenza in sede di distribuzione di prodotti illiquidi», declinando così i doveri dell’intermediario, di cui all’art. 21 t.u.f. e reg. intermediari, in relazione alle caratteristiche strutturali del mercato primario e secondario dei prodotti derivati. Il documento evidenzia, come elemento di criticità nella negoziazione di tali strumenti finanziari complessi, vuoi la circostanza che l’emittente nel mercato primario rivesta spesso direttamente anche «il ruolo di distributore, o comunque forma con il distributore un unitario soggetto economico, anche se organizzato in più entità giuridiche»; vuoi la mancanza o la debolezza del mercato secondario che compromettono la «price discovery» e la possibilità di smobilizzo delle posizioni 37. L’Autorità di vigilanza interna, poi, enuclea direttive in punto di trasparenza che, almeno in via teorica, sembrerebbero fronteggiare i problemi di opacità nella negoziazione dei derivati evidenziati dalla sentenza della Suprema Corti federale tedesca. In particolare, la Consob propone misure di trasparenza ex ante, raccomandando di effettuare la composizione (c.d. unbundling) delle diverse componenti che concorrono al complessivo esborso finanziario sostenuto dal cliente per l’acquisto del prodotto, distinguendo il fair value, con separata indicazione della componente derivativa, e i costi, a manifestazione differita, che gravano implicitamente o esplicitamente sul cliente. All’investitore deve, inoltre, essere fornita una indicazione del valore di smobilizzo dell’investimento, ipotizzandone le regole di pricing. Al fine di migliorare la possibilità di apprezzamento, da parte del cliente, del profilo di rischiorendimento, l’intermediario deve, altresì, inserire nel set informativo confronti con prodotti semplici, di analoga durata, con adeguata liquidità. La Consob centra anche la rendicontazione ex post, ai sensi dell’art. 56 reg. intermediari, su informazioni dettagliate. In riferimento ai presidi di correttezza, gli intermediari che offrono prodotti di propria emissione, o che comunque operano in contropartita diretta della clientela, devono dotarsi di strumenti di determinazione del fair value basati su metodologie riconosciute e diffuse sul mercato, proporzionate alla complessità del prodotto. Il processo di determinazione delle condizioni da applicare alle operazioni deve essere strutturato in modo da guidare ex ante la discrezionalità degli addetti mediante la fis-

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Così Comunicazione Consob, 2 marzo 2009, n. 9019104, p. 9.

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sazione di precisi criteri che contemplino, ove possibile, anche il ricorso a provider esterni. In particolare, le procedure aziendali devono predefinire il livello delle maggiorazioni eventualmente da applicare al titolo quali commissioni per l’intermediario (il c.d. mark up). In relazione alla graduazione delle regole di condotta, la Consob 38, in linea con quanto emerso nella sentenza inglese che si annota, non ha escluso, in via astratta, che i servizi di collocamento o di ricezione e trasmissione di ordini relativi a strumenti finanziari derivati siano realizzati senza essere accompagnati da un’attività consulenziale con conseguente applicazione del regime di appropriatezza di cui all’art. 42 reg. intermediari, in virtù del quale l’intermediario dovrà raffrontare le caratteristiche del prodotto al grado di conoscenza finanziaria e di esperienza del cliente. Tuttavia, con riferimento ai derivati negoziati OTC, la posizione è non dissimile da quella assunta dal BGH. L’assistenza fornita alla clientela nella fase di strutturazione di queste operazioni, create “su misura” per il cliente, pur se in una logica di standardizzazione, «presuppone intrinsecamente che il prodotto sia presentato come adatto alla clientela e rende, quindi, imprescindibile l’applicazione del regime di adeguatezza previsto in caso di svolgimento del servizio di consulenza in materia di investimenti» 39. In tale prospettiva, l’organizzazione dell’intermediario acquista un ruolo preminente. Il processo di valutazione dell’adeguatezza dovrà prevedere, in linea con la dicotomia di anleger und anlagegerechte Beratung, l’utilizzazione di una pluralità di variabili afferenti vuoi alle caratteristiche del cliente, vuoi a quelle del prodotto, in relazione al quale dovranno essere valutate separatamente le conseguenze delle diverse tipologie di rischio determinate dall’eventuale assunzione della posizione in derivati: rischio emittente/controparte, rischio di mercato e rischio di liquidità. Al riguardo, è raccomandato all’intermediario di valutare adeguatamente l’holding period del cliente e, nella “mappatura” dei prodotti, di considerare il livello di costi della struttura, c.d. upfront, che determinano, fina dal momento della genesi dello strumento, costi che incidono sul pricing del prodotto. Nel caso di prodotti con prevalente finalità di copertura (c.d. hedging), omogenei dunque a quelli oggetto dell’indagine della FSA, l’autorità di vi-

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Così Comunicazione Consob, 2 marzo 2009, n. 9019104, p. 10. Così Comunicazione Consob, 2 marzo 2009, n. 9019104, p. 9.


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gilanza italiana impone all’intermediario di valutare «l’adeguatezza dell’operazione raccomandata rispetto alle reali necessità di hedging del cliente» 40. Dopo la conclusione del contratto, le regole di condotta impongono, poi, all’intermediario di attivare le procedure aziendali che consentano di monitorare nel tempo, per tutta la durata dell’operazione, e sulla base dell’aggiornamento delle informazioni fornite dal cliente o comunque disponibili, l’evoluzione di posizioni coperte o di copertura 41. Risulta così rafforzato, nel terreno giuridico dei derivati, quel nesso tra regole di condotta e procedure di organizzazione interna che permea l’impianto sistematico delle norme sulla prestazione dei servizi di investimento 42. L’eventuale difetto genetico di strutturazione del prodotto finanziario è, in linea con la pronuncia del BGH, qualificabile come violazione dei doveri di correttezza e trasparenza: violazione che, con particolare riferimento ai prodotti derivati, consegue alla carenza dei profili organizzativi funzionali a una valutazione adeguata del prodotto consigliato o offerto. Desta, per ciò, qualche perplessità il tentativo, pur motivato dalla comprensibile volontà di tutelare al massimo grado la clientela “debole”, di riportare la prospettiva d’indagine sul terreno della nullità dei contratti, per “mancanza” ovvero “non meritevolezza” della causa in concreto 43. La stipulazione di un contratto derivato, a differenza di un contratto di mero scambio di strumenti finanziari, costituisce a un tempo atto ne-

40 Sul tema si rinvia a Inzitari, Sanzioni Consob per l’attività in derivati: organizzazione, procedure e controlli quali parametri della nuova diligenza professionale e profili di ammissibilità delle c.d. “rimodulazioni”, in Giur. it., 2009, p. 1693 ss. 41 In giurisprudenza Trib. Bari, 15 luglio 2010, in Contr., 2011, 244, con note di Orefice, Operatore qualificato e nullità virtuale o per mancanza di causa, p. 250 ss., e Pisapia, Rinegoziazione del contratto e nullità per mancanza di causa, p. 260 ss.; Trib. Milano, 14 aprile 2001, inedita ma disponibile sul sito www.ilcaso.it, che afferma la nullità dei contratti i per difetto di “causa concreta” poiché il mark to market negativo, tanto più se non collegato un corrispettivo up front, attribuisce ai contratti in parola una funzione speculativa, in contrasto con la tipologia di contrati derivati rimessi alla possibile stipulazione da parte degli Enti locali dall’art. 3 del d.m. 389/2003, secondo quanto disciplinato dell’art. 41, l. n. 448/2001. 42 In argomento si veda Lobuono, I «nuovi beni» del mercato finanziario, in Riv. dir. priv., 2002, p. 48 ss e, da ultimo, Ferro-Luzzi, Attività e «prodotti» finanziari, in Riv. dir. civ., 2010, II, p. 133 ss. 43 Così da ultimo Trib. Milano, 19 aprile 2011, in www.il caso.it, che rinvia, per l’irrilevanza sotto il profilo della causa del contratto della finalità speculativa, alle pronunce del Trib. Milano, 3 aprile 2004, in Giur. comm., 2004, II, 530; Trib. Torino, 27 gennaio 2000, in Giur. it, 2001, 548; 20 febbraio 1997, in Giust. civ., 1997, 1263.

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goziale e mezzo di generazione dello strumento derivato 44. Superate, anche in giurisprudenza, le teorie che valorizzavano la distinzione tra operazioni di “copertura” e operazioni “speculative” al fine di individuare la causa meritevole di tutela soltanto nell’esigenza di copertura dalla variazione del sottostante, la causa e la sua meritevolezza risultano svincolate dal richiamo alle finalità soggettive 45. La causa (astratta), infatti, viene individuata, sotto il profilo dello swap, «nello scambio di due rischi connessi, riferiti a parametri sottostanti» 46 e, sotto il profilo dell’opzione, «nell’assunzione da parte di ciascun contraente del rischio di variazione del valore del sottostante, con alla fine lo scambio dei rischi secondo il valore del sottostante». Da ciò emerge una sostanziale differenza tra i contratti commutativi e i contratti aleatori, al cui genus sono ricondotti i contratti aventi a oggetto strumenti finanziari derivati 47. Il sinallagma negoziale e la commutatività delle prestazioni, concretatisi nel reciproco impegno allo scambio del differenziale, sussistenti in siffatte operazioni nel momento genetico, possono portare, eventualmente, nel corso del rapporto a uno squilibrio anche imponente delle prestazioni 48. Ma v’è di più. Il rischio di fluttuazioni del valore delle obbligazioni e dell’alterazione delle reciproche prestazioni è in qualche misura elemen-

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Cass., 19 maggio 2005, n. 10598, in Rep. Foro it., 2005, Borsa, 11. Sulla qualificazione dei contratti derivati cfr. Capaldo, Profili civilistici del rischio finanziario e contratto di swap, Milano, 1999, p. 28 ss.; Panzarini, Il contratto di opzione. Struttura e funzioni, Milano, 2007, p. 334 ss. e, da ultimo, Girino, I contratti derivati2, Milano, 2010, p. 281 ss. e Cossu-Spada, Dalla ricchezza assente alla ricchezza inesistente – Divagazione del giurista nel mercato finanziario, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, p. 401 ss. 46 Cass., 19 maggio 2005, n. 10598, in rep. Foro it., 2005, Borsa, 11. 47 In riferimento alla prassi di celare dietro l’upfront una erogazione di un finanziamento cfr. Maffeis, Intermediario contro investitore: i derivati over the counter, in Banca, borsa, tit. cred., I, 2010, p. 779 ss. 48 Complessa appare, altresì, per l’ipotesi del consenso “disinformato”, la praticabilità dei rimedi conto i vizi della volontà, condizionata alla prova, quanto al dolo, della condotta maliziosa che abbia determinato la decisione a contrattare e, quanto all’errore, alla prova del suo carattere determinante sul consenso a contrarre. Posto che la qualità di un investimento dipende dal suo rendimento atteso, condizionato da variabili non perfettamente conoscibili al momento della stipulazione del contratto, è ardua la dimostrazione della rilevanza di un errore su una qualità che al momento della stipulazione del contratto è ignota. In argomento si rinvia, per i profili civilistici, a saggio di Pietrobon, L’errore nella dottrina del negozio giuridico, Milano, 1963, p. 104 ss.. In argomento si vedano le posizioni, non coincidenti, di Perrone, Less is more, cit., p. 93 e Gentili, Disinformazione e invalidità: i contratti di intermediazione dopo le Sezioni Unite, in Contr., 2008, p. 400 ss. 45

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to strutturale “naturale” del rapporto negoziale in esame e non sembra possano desumersi dalla causa elementi che impongano una valutazione, peraltro impossibile, del quantum dell’alea tale da distribuire in modo teoricamente “equo” il rischio tra le parti e rendere il contratto meritevole di tutela. Ne risulta che, sotto il profilo dogmatico, non può considerarsi vizio attinente alla meritevolezza della causa l’eventuale “difetto” genetico di “strutturazione” del contratto che preveda una differenza tra i rischi assunti dalle parti. Il vizio, sovente, non attiene alla ripartizione “equa” del rischio -che peraltro, come detto, appare una sorta di contradictio in terminis- ma alla violazione dei doveri di informazione sulle componenti del prezzo e sulle modalità di “costruzione” dello strumento finanziario derivato. Nei casi in cui l’unbundling della costruzione iniziale del prodotto riveli l’occultamento di costi a svantaggio del cliente, tanto per una valutazione iniziale sfavorevole all’investitore (mark to market negativo), quanto per la (apparente) erogazione di somme a parziale indennizzo della posizione sfavorevole assunta dal cliente (c.d. upfront 49), sembra ci si collochi - quanto meno nella normalità dei casi - sul piano della violazione delle regole di condotta, sia in punto di obblighi informativi sia, ove l’intermediario collochi in contropartita diretta i prodotti derivati, in relazione al conflitto di interessi 50. Naturalmente quanto detto – di qui il richiamo alla normalità dei casi – non esclude, non può escludere, che il contratto possa essere viziato da nullità secondo le regole generali, come nell’ipotesi di contratto di swap stipulato esclusivamente con finalità di copertura di un rischio ab initio inesistente. Ma normalmente, lo si ripete, non è così; sì che l’ipotesi rimane di scuola. L’investitore può stipulare un contratto derivato anche (o principalmente) con finalità di copertura di un rischio, ma l’intento speculativo è comunque sempre presente. A volte il rischio non è compreso

49 Cons. Stato, 7 settembre 2011, n. 5032, (in Urbanistica e appalti, 2012, 197, con nota di Bartolini, Annullamento d’ufficio e sorte del contratto: il caso degli interest rate swaps); ord. 12 settembre 2011, n. 5103 e ord. 19 ottobre 2011, n. 5628. Va notato come la prima ordinanza aveva nominato quale perito destinato a rispondere al difficile quesito sulla convenienza economica proprio al dirigente capo della divisione Debito Pubblico del Tesoro (una sorta di peritus peritorum); avendo questi rinunciato, la seconda ordinanza ha nominato un funzionario dell’ispettorato Vigilanza della Banca d’Italia. 50 Esattamente in questi termini la nota 23 novembre 2007 dei Comuni e Aree metropolitane di Roma e Venezia, pubblicata sul sito www.dt.tesoro.it

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appieno, perché occultato o minimizzato da chi propone l’operazione, ma si tratta, appunto, di caso tipico di violazione di regole di condotta. E’ interessante rammentare come il Consiglio di Stato 51, quando ha voluto fornire una stampella agli enti locali indebitati in derivati, a seguito di operazioni senza dubbio condotte (anche) con intenti speculativi, si sia mosso sul diverso piano della convenienza economica, assunta – sulla base di una lettura sagace ma un po’ forzata dell’art. 41 della legge n. 441/2001 – quale parametro dell’agire legittimo della pubblica amministrazione. Qui peraltro, e paradossalmente, il giudice amministrativo è intervenuto “da buon padre” a tutelare proprio quegli enti territoriali che hanno fortemente rivendicato il loro diritto a essere riconosciuti operatori professionali in ragione della loro capacità tecnica ed esperienza nel valutare gli investimenti in strumenti finanziari 52. In realtà, chi investe in derivati di norma sa, vuole assumere il rischio dell’investimento – ulteriore e diverso, anche di segno opposto, rispetto all’eventuale rischio sottostante da cui vuole coprirsi – e lo fa sulla base di una aspettativa razionale 53 di variazione positiva del valore del bene assunto a parametro di riferimento. Certo, se gli vengono fornite indicazioni carenti o scorrette la valutazione dell’investimento può essere falsata e frustrate le sue aspettative. Ma proprio per evitare questi rischi è stato costruito il sistema delle regole di condotta.

10. La regolamentazione EMIR (Reg. UE n. 648/2012): attenuazione del rischio di credito di controparte e rafforzamento della trasparenza. L’approccio dei regulators europei è nel senso della accelerazione dell’applicazione di misure forti per accrescere la trasparenza e la vigilanza regolamentare dei contratti derivati OTC in maniera uniforme a livello internazionale e non discriminatoria.

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Secondo la fortunata espressione dei nobel 2011 Tom Sargent e Chris Sims. Cfr. Sargent, A note on maximum likelihood estimation of the rational expectations model of the term structure, in Journal of Monetary Economics, 1979, 5, (1), p. 133; Sims, Macroeconomics and Reality, in Econometrics, 1980, 48, (1), p. 1. 52 Reperibile sul sito http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:200 9:0332:FIN:IT:PDF. 53 Il cui testo si può leggere sul sito: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2009:0563:FIN:IT:PDF.

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In questa prospettiva già la relazione del gruppo de Larosière, pubblicata, su richiesta della Commissione, il 25 febbraio 2009, suggeriva di rafforzare i presidi di vigilanza al fine di ridurre il rischio di crisi finanziarie future. Il ruolo svolto nelle crisi dai derivati e le conseguenti misure da adottare è affrontato, in particolare, nella Comunicazione della Commissione del 3 luglio 2009 54, sul tema «Garantire mercati dei derivati efficienti, sicuri e solidi» e nella successiva Comunicazione del 20 ottobre 2009, «Garantire mercati dei derivati efficienti, sicuri e solidi: azioni strategiche future» 55. In occasione del vertice di Pittsburgh, il 26 settembre 2009, i leaders del G20 ipotizzarono l’emanazione di una disciplina comune che mirasse a realizzare (i) una compensazione di tutti i contratti derivati OTC standardizzati mediante una controparte centrale (CCP) al fine di attenuare il rischio di credito di controparte e (ii) una segnalazione di tutti i contratti derivati OTC a repertori di dati sulle negoziazioni con l’obiettivo di rafforzare la trasparenza. Il Parlamento europeo, con la risoluzione del 15 giugno 2010, in tema di «Mercati dei derivati: azioni strategiche future» 56, si è espresso favorevolmente sull’introduzione dell’obbligo di compensazione e di segnalazione delle operazioni future su derivati OTC. In tale prospettiva il regolamento n. 648 del 4 luglio 2012, c.d. EMIR (European Market Infrastructure Regulation), entrato in vigore il 13 marzo 2013, e i Regulatory Technical Standards predisposti dall’ESMA (European Securities and Markets Authority) in attuazione degli obblighi nascenti dal regolamento EMIR, fissano una cornice europea comune in materia di regolamentazione dei derivati OTC. La nuova regolamentazione prevede, per gli strumenti finanziari derivati OTC che superino determinate soglie di rilevanza, l’obbligo di compensazione, presso controparti centrali (CCP, clearing houses o central counterparties) autorizzati a svolgere detta attività dalle competenti autorità europee. Ai fini della full disclosure vengono estesi a tutti i derivati OTC obblighi di comunicazione e deposito di tutte le informazioni concernenti le operazioni in derivati OTC a soggetti c.d. trade repositories che avranno compiti di raccordo con le autorità di vigilanza. Raffaele Lener - Paola Lucantoni

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Reperibile sul sito http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:201 1:236E:0017:0024:IT:PDF. 55 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2009:0563:FIN:IT:PDF. 56 http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2011:236E:0017:0024: IT:PDF.

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PARTE seconda Legislazione, documenti e informazioni



legislazione

D.l. 18 ottobre 2012, n. 179, coordinato con le modifiche introdotte dalla l. di conversione 17 dicembre 2012, n. 221 – Ulteriori misure urgenti per la crescita del paese. (Omissis) Sezione VI Giustizia digitale Art. 17* Modifiche alla legge fallimentare e al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 1. Al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 15, il terzo comma è sostituito dal seguente: «Il decreto di convocazione è sottoscritto dal presidente del tribunale o dal giudice relatore se vi è delega alla trattazione del procedimento ai sensi del sesto comma. Il ricorso e il decreto devono essere notificati, a cura della cancelleria, all’indirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti. L’esito della comunicazione è trasmesso, con modalità automatica, all’indirizzo di posta elettronica certificata del ricorrente. Quando, per qualsiasi ragione, la notificazione non risulta possibile o non ha esito positivo, la notifica, a cura del ricorrente, del ricorso e del decreto si esegue esclusivamente di persona a norma dell’articolo 107, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 1959, n. 1229, presso la sede risultante dal registro delle imprese.

*

In corsivo neretto le parti aggiunte o modificate in sede di conversione.

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Legislazione

Quando la notificazione non può essere compiuta con queste modalità, si esegue con il deposito dell’atto nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese e si perfeziona nel momento del deposito stesso. L’udienza è fissata non oltre quarantacinque giorni dal deposito del ricorso e tra la data della comunicazione o notificazione e quella dell’udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni.»; b) dopo l’articolo 31 è inserito il seguente: «31-bis (Comunicazioni del curatore). - Le comunicazioni ai creditori e ai titolari di diritti sui beni che la legge o il giudice delegato pone a carico del curatore sono effettuate all’indirizzo di posta elettronica certificata da loro indicato nei casi previsti dalla legge. Quando è omessa l’indicazione di cui al comma precedente, nonché nei casi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario, tutte le comunicazioni sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. In pendenza della procedura e per il periodo di due anni dalla chiusura della stessa, il curatore è tenuto a conservare i messaggi di posta elettronica certificata inviati e ricevuti»; c) all’articolo 33, quinto comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Nello stesso termine altra copia del rapporto, assieme alle eventuali osservazioni, è trasmessa a mezzo posta elettronica certificata ai creditori e ai titolari di diritti sui beni.»; d) all’articolo 92, il primo comma è sostituito dal seguente: «Il curatore, esaminate le scritture dell’imprenditore ed altre fonti di informazione, comunica senza indugio ai creditori e ai titolari di diritti reali o personali su beni mobili e immobili di proprietà o in possesso del fallito, a mezzo posta elettronica certificata se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell’impresa o la residenza del creditore: 1) che possono partecipare al concorso trasmettendo domanda con le modalità indicate nell’articolo seguente; 2) la data fissata per l’esame dello stato passivo e quella entro cui vanno presentate le domande; 3) ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda, con l’avvertimento delle conseguenze di cui all’articolo 31-bis, secondo comma, nonché della sussistenza dell’onere previsto dall’articolo 93, terzo comma, n. 5); 4) il suo indirizzo di posta elettronica certificata.»;

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D.l. n. 179/2012 – L. n. 221/2012

e) all’articolo 93, sono apportate le seguenti modificazioni: 1) il primo comma è sostituito dal seguente comma: «La domanda di ammissione al passivo di un credito, di restituzione o rivendicazione di beni mobili e immobili, si propone con ricorso da trasmettere a norma del comma seguente almeno trenta giorni prima dell’udienza fissata per l’esame dello stato passivo.»; ((2) il secondo comma è sostituito dal seguente: “Il ricorso può essere sottoscritto anche personalmente dalla parte ed è formato ai sensi degli articoli 21, comma 2, ovvero 22, comma 3, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni e, nel termine stabilito dal primo comma, è trasmesso all’indirizzo di posta elettronica certificata del curatore indicato nell’avviso di cui all’articolo 92, unitamente ai documenti di cui al successivo sesto comma. L’originale del titolo di credito allegato al ricorso è depositato presso la cancelleria del tribunale.»)); 3) al terzo comma, il numero 5) è sostituito dal seguente: «5) l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata, al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura, le cui variazioni è onere comunicare al curatore.»; 4) il quinto comma è sostituito dal seguente comma: «Se è omessa l’indicazione di cui al terzo comma, n. 5), nonché nei casi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario si applica l’articolo 31-bis, secondo comma.»; f) all’articolo 95, il secondo comma è sostituito dal seguente: «Il curatore deposita il progetto di stato passivo corredato dalle relative domande nella cancelleria del tribunale almeno quindici giorni prima dell’udienza fissata per l’esame dello stato passivo e nello stesso termine lo trasmette ai creditori e ai titolari di diritti sui beni all’indirizzo indicato nella domanda di ammissione al passivo. I creditori, i titolari di diritti sui beni ed il fallito possono esaminare il progetto e presentare al curatore, con le modalità indicate dall’articolo 93, secondo comma, osservazioni scritte e documenti integrativi fino a cinque giorni prima dell’udienza.»; g) l’articolo 97 è sostituito dal seguente: «Art. 97 (Comunicazione dell’esito del procedimento di accertamento del passivo). - Il curatore, immediatamente dopo la dichiarazione di esecutività dello stato passivo, ne dà comunicazione trasmettendo una copia a tutti i ricorrenti, informandoli del diritto di proporre opposizione in caso di mancato accoglimento della domanda.»; h) all’articolo 101, primo comma, le parole: «depositate in cancelleria» sono sostituite dalle seguenti: «trasmesse al curatore»;

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i) all’articolo 102, terzo comma, dopo le parole: «primo comma» sono inserite le seguenti: «trasmettendone copia»; l) all’articolo 110, il secondo comma è sostituito dal seguente: «Il giudice ordina il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che a tutti i creditori, compresi quelli per i quali è in corso uno dei giudizi di cui all’articolo 98, ne sia data comunicazione mediante l’invio di copia a mezzo posta elettronica certificata.»; m) all’articolo 116 sono apportate le seguenti modificazioni: 1) il secondo comma è sostituito dal seguente: «Il giudice ordina il deposito del conto in cancelleria e fissa l’udienza che non può essere tenuta prima che siano decorsi quindici giorni dalla comunicazione del rendiconto a tutti i creditori.»; 2) il terzo comma è sostituito dal seguente: «Dell’avvenuto deposito e della fissazione dell’udienza il curatore dà immediata comunicazione ai creditori ammessi al passivo, a coloro che hanno proposto opposizione, ai creditori in prededuzione non soddisfatti, con posta elettronica certificata, inviando loro copia del rendiconto ed avvisandoli che possono presentare eventuali osservazioni o contestazioni fino a cinque giorni prima dell’udienza con le modalità di cui all’articolo 93, secondo comma. Al fallito, se non è possibile procedere alla comunicazione con modalità telematica, il rendiconto e la data dell’udienza sono comunicati mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento.»; n) all’articolo 125 sono apportate le seguenti modificazioni: 1) al primo comma sono aggiunti i seguenti periodi: «Quando il ricorso è proposto da un terzo, esso deve contenere l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata al quale ricevere le comunicazioni. Si applica l’articolo 31-bis, secondo comma.»; 2) al secondo comma, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Una volta espletato tale adempimento preliminare il giudice delegato, acquisito il parere favorevole del comitato dei creditori, valutata la ritualità della proposta, ordina che la stessa, unitamente al parere del comitato dei creditori e del curatore, venga comunicata a cura di quest’ultimo ai creditori a mezzo posta elettronica certificata, specificando dove possono essere reperiti i dati per la sua valutazione ed informandoli che la mancata risposta sarà considerata come voto favorevole.»; o) all’articolo 129, il secondo comma è sostituito dal seguente: «Se la proposta è stata approvata, il giudice delegato dispone che il curatore ne dia immediata comunicazione a mezzo posta elettronica certificata al proponente, affinché richieda l’omologazione del concordato e ai creditori dissenzienti. Al fallito, se non è possibile procedere alla comunicazione con modalità telematica, la notizia dell’approvazione è comunicata

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mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Con decreto da pubblicarsi a norma dell’articolo 17, fissa un termine non inferiore a quindici giorni e non superiore a trenta giorni per la proposizione di eventuali opposizioni, anche da parte di qualsiasi altro interessato, e per il deposito da parte del comitato dei creditori di una relazione motivata col suo parere definitivo. Se il comitato dei creditori non provvede nel termine, la relazione è redatta e depositata dal curatore nei sette giorni successivi.»; p) all’articolo 143, primo comma, è aggiunto il seguente periodo: «Il ricorso e il decreto del tribunale sono comunicati dal curatore ai creditori a mezzo posta elettronica certificata.»; q) all’articolo 171, il secondo comma è sostituito dal seguente: «Il commissario giudiziale provvede a comunicare ai creditori a mezzo posta elettronica certificata, se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell’impresa o la residenza del creditore, un avviso contenente la data di convocazione dei creditori, la proposta del debitore, il decreto di ammissione, il suo indirizzo di posta elettronica certificata, l’invito ad indicare un indirizzo di posta elettronica certificata, le cui variazioni è onere comunicare al commissario. Nello stesso avviso è contenuto l’avvertimento di cui all’articolo 92, primo comma, n. 3). Tutte le successive comunicazioni ai creditori sono effettuate dal commissario a mezzo posta elettronica certificata. Quando, nel termine di quindici giorni dalla comunicazione dell’avviso, non è comunicato l’indirizzo di cui all’invito previsto dal primo periodo e nei casi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario, esse si eseguono esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Si applica l’articolo 31-bis, terzo comma, sostituendo al curatore il commissario giudiziale.»; r) all’articolo 172, il primo comma è sostituito dal seguente: «Il commissario giudiziale redige l’inventario del patrimonio del debitore e una relazione particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore, sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte ai creditori, e la deposita in cancelleria almeno dieci giorni prima dell’adunanza dei creditori. Nello stesso termine la comunica a mezzo posta elettronica certificata a norma dell’articolo 171, secondo comma.»; s) all’articolo 173, primo comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «La comunicazione ai creditori è eseguita dal commissario giudiziale a mezzo posta elettronica certificata ai sensi dell’articolo 171, secondo comma.»;

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t) all’articolo 182, dopo il quinto comma, è aggiunto il seguente: «Si applica l’articolo 33, quinto comma, primo, secondo e terzo periodo, sostituendo al curatore il liquidatore, che provvede con periodicità semestrale dalla nomina. Quest’ultimo comunica a mezzo di posta elettronica certificata altra copia del rapporto al commissario giudiziale, che a sua volta lo comunica ai creditori a norma dell’articolo 171, secondo comma»; u) all’articolo 205, secondo comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Nello stesso termine, copia della relazione è trasmessa al comitato di sorveglianza, unitamente agli estratti conto dei depositi postali o bancari relativi al periodo. Il comitato di sorveglianza o ciascuno dei suoi componenti possono formulare osservazioni scritte. Altra copia della relazione è trasmessa, assieme alle eventuali osservazioni, per via telematica all’ufficio del registro delle imprese ed è trasmessa a mezzo di posta elettronica certificata ai creditori e ai titolari di diritti sui beni.»; v) all’articolo 207 sono apportate le seguenti modificazioni: 1) il primo comma è sostituito dal seguente: «Entro un mese dalla nomina il commissario comunica a ciascun creditore, a mezzo posta elettronica certificata, se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell’impresa o la residenza del creditore, il suo indirizzo di posta elettronica certificata e le somme risultanti a credito di ciascuno secondo le scritture contabili e i documenti dell’impresa. Contestualmente il commissario invita i creditori ad indicare, entro il termine di cui al terzo comma, il loro indirizzo di posta elettronica certificata, con l’avvertimento sulle conseguenze di cui al quarto comma e relativo all’onere del creditore di comunicarne ogni variazione. La comunicazione s’intende fatta con riserva delle eventuali contestazioni.»; 2) il terzo comma è sostituito dal seguente: «Entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione i creditori e le altre persone indicate dal comma precedente possono far pervenire al commissario mediante posta elettronica certificata le loro osservazioni o istanze.»; 3) dopo il terzo comma è aggiunto il seguente: «Tutte le successive comunicazioni sono effettuate dal commissario all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato ai sensi del primo comma. In caso di mancata indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata o di mancata comunicazione della variazione, ovvero nei casi di mancata consegna per cause imputabili al destinatario, esse si eseguono mediante deposito in cancelleria. Si applica l’articolo 31-bis, terzo comma, sostituendo al curatore il commissario liquidatore.»;

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z) all’articolo 208, primo periodo, dopo le parole: «il riconoscimento dei propri crediti e la restituzione dei loro beni» sono aggiunte le seguenti: «comunicando l’indirizzo di posta elettronica certificata. Si applica l’articolo 207, quarto comma»; aa) l’articolo 209, primo comma, è sostituito dal seguente: «Salvo che le leggi speciali stabiliscano un maggior termine, entro novanta giorni dalla data del provvedimento di liquidazione, il commissario forma l’elenco dei crediti ammessi o respinti e delle domande indicate nel secondo comma dell’articolo 207 accolte o respinte, e lo deposita nella cancelleria del luogo dove l’impresa ha la sede principale. Il commissario trasmette l’elenco dei crediti ammessi o respinti a coloro la cui pretesa non sia in tutto o in parte ammessa a mezzo posta elettronica certificata ai sensi dell’articolo 207, quarto comma. Col deposito in cancelleria l’elenco diventa esecutivo.»; bb) all’articolo 213, secondo comma, le parole: «nelle forme previste dall’articolo 26, terzo comma» sono sostituite dalle seguenti: «con le modalità di cui all’articolo 207, quarto comma»; cc) all’articolo 214, secondo comma, le parole: «nelle forme previste dall’articolo 26, terzo comma» sono sostituite dalle parole: «con le modalità di cui all’articolo 207, quarto comma». 2. Al decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, sono apportate le seguenti modificazioni: a) l’articolo 22, comma 1, è sostituito dal seguente: «1. Il commissario giudiziale comunica ai creditori e ai terzi che vantano diritti reali mobiliari sui beni in possesso dell’imprenditore insolvente, a mezzo posta elettronica certificata, se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese ovvero dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell’impresa o la residenza del creditore, il proprio indirizzo di posta elettronica certificata e il termine entro il quale devono trasmettergli a tale indirizzo le loro domande, nonchè le disposizioni della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza che riguardano l’accertamento del passivo.»; b) l’articolo 22, comma 2, è sostituito dal seguente: «2. I creditori e i terzi titolari di diritti sui beni sono invitati ad indicare nella domanda l’indirizzo di posta elettronica certificata ed avvertiti delle conseguenze di cui ai periodi seguenti e dell’onere di comunicarne al commissario ogni variazione. Tutte le successive comunicazioni sono effettuate dal commissario all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato dal creditore o dal terzo titolare di diritti sui beni. In caso di mancata indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata o di mancata comunicazione

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della variazione, ovvero nei casi di mancata consegna per cause imputabili al destinatario, esse si eseguono mediante deposito in cancelleria. Si applica l’articolo 31-bis, terzo comma, del regio decreto, 16 marzo 1942, n. 267, sostituendo al curatore il commissario giudiziale.»; c) l’articolo 28, comma 5, è sostituito dal seguente: «5. L’imprenditore insolvente e ogni altro interessato hanno facoltà di prendere visione della relazione e di estrarne copia. La stessa è trasmessa dal commissario giudiziale a tutti i creditori e ai terzi titolari di diritti sui beni all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato a norma dell’articolo 22, comma 2, entro dieci giorni dal deposito in cancelleria.»; d) all’articolo 59, comma 2, il secondo periodo è sostituito dai seguenti periodi: «L’imprenditore insolvente e ogni altro interessato possono prendere visione ed estrarre copia del programma depositato, che reca l’indicazione della eventuale mancanza di parti per ragioni di riservatezza. La stessa copia è trasmessa entro dieci giorni dal deposito in cancelleria a cura del commissario straordinario a tutti i creditori a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo indicato a norma dell’articolo 22, comma 2. Si applica l’articolo 31-bis, terzo comma, del regio decreto, 16 marzo 1942, n. 267, sostituendo al curatore il commissario straordinario.»; e) all’articolo 61, comma 4, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Il commissario straordinario trasmette una copia di ciascuna relazione periodica e della relazione finale a tutti i creditori a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo indicato a norma dell’articolo 22, comma 2, entro dieci giorni dal deposito in cancelleria.»; f) all’articolo 75 sono apportate le seguenti modificazioni: 1) al comma 2, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Il commissario straordinario trasmette una copia del bilancio finale della procedura e del conto della gestione a tutti i creditori a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo indicato a norma dell’articolo 22, comma 2, entro dieci giorni dal deposito in cancelleria.»; 2) al comma 3, il secondo periodo è sostituito dal seguente periodo: «Il termine decorre, per l’imprenditore, dalla comunicazione dell’avviso, per i creditori e i titolari di diritti sui beni, dalla comunicazione a mezzo posta elettronica certificata a norma dell’articolo 22, comma 2 e, per ogni altro interessato, dalla sua affissione.». ((2-bis. Il curatore, il commissario giudiziale nominato a norma dell’articolo 163 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, il commissario liquidatore e il commissario giudiziale nominato a norma dell’articolo 8 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, entro dieci giorni dalla nomina, comunicano al registro

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delle imprese, ai fini dell’iscrizione, il proprio indirizzo di posta elettronica certificata)). 3. La norma di cui al comma 1, lettera a) del presente articolo si applica ai procedimenti introdotti dopo il 31 dicembre 2013. 4. Salvo quanto previsto dal comma 3, le disposizioni di cui ai comma 1 e 2 del presente articolo si applicano dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, anche alle procedure di fallimento, di concordato preventivo, di liquidazione coatta amministrativa e di amministrazione straordinaria pendenti, rispetto alle quali, alla stessa data, non è stata effettuata la comunicazione rispettivamente prevista dagli articoli 92, 171, 207 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e dall’articolo 22 decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270. 5. Per le procedure in cui, alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sia stata effettuata la comunicazione di cui al comma 4, le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo si applicano a decorrere dal 31 ottobre 2013. Il curatore, il commissario giudiziale, il commissario liquidatore e il commissario straordinario entro il 30 giugno 2013 comunicano ai creditori e ai terzi titolari di diritti sui beni il loro indirizzo di posta elettronica certificata e li invitano a comunicare, entro tre mesi, l’indirizzo di posta elettronica certificata al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura, avvertendoli di rendere nota ogni successiva variazione e che in caso di omessa indicazione le comunicazioni sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria.

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Giustizia digitale e procedure concorsuali Sommario: 1. Notazioni introduttive. - 2. Le regole generali. – 3. Le regole particolari: in materia di fallimento. – 4. Segue: in materia di concordato preventivo. – 5. Segue: in materia di liquidazione coatta. – 6. Segue: in materia di amministrazione straordinaria. – 7. La disciplina transitoria. – 8. Considerazioni conclusive

1. Notazioni introduttive. Le regole del processo telematico penetrano – come era inevitabile – anche nella disciplina delle procedure concorsuali, almeno di quelle governate dalla l. fall. e dal d.lgs. n. 270/1999 (sul punto si tornerà infra, § 8). Infatti, con il d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, conv. dalla l. 17 dicembre 2012, n. 221, larga parte del quale è dedicata ad interventi volti a favorire la c.d. leva digitale, oltre a completare la disciplina in materia di comunicazioni, notificazioni e depositi in via telematica nel processo civile (art. 16, 16-bis, 16-ter e 16-quater), si sono dettate (nel medesimo art. 16-bis e soprattutto nell’art. 17) una serie di misure specificamente riguardanti, appunto, le procedure concorsuali. Le linee di fondo e gli obiettivi sono sostanzialmente sempre gli stessi: la più ampia utilizzazione possibile della via telematica nei rapporti fra uffici giudiziari e “utenti”, in funzione della riduzione dei tempi dei procedimenti e del contenimento dei costi. È il caso di segnalare subito che la portata delle modifiche o integrazioni, alla disciplina contenuta nella l. fall. e nel d.lgs. n. 270, disposte da questa nuova normativa è in genere circoscritta al solo profilo, diciamo tecnico, dello strumento da utilizzare (prioritariamente: la PEC – posta elettronica certificata) nel flusso delle comunicazioni fra i “protagonisti” delle procedure. In taluni casi, però, le modificazioni hanno inciso sulla stessa disciplina della fase procedimentale interessata: così, per esempio, con riguardo alla notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento e del decreto di convocazione del debitore (compito oggi attribuito alla cancelleria del tribunale: infra, § 3, sub A); o con riguardo all’accertamento del passivo (le domande di insinuazione non vanno più deposi-

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tate presso la cancelleria del tribunale ma trasmesse per via telematica al curatore: infra, § 3, sub D); o con riguardo alla fase di liquidazione nel concordato preventivo (dove si è previsto che il liquidatore sia soggetto agli obblighi di cui all’art. 33, co. 5, l. fall.: infra, § 4, sub a).

2. Le regole generali. Un ruolo centrale, nella nuova disciplina, hanno le disposizioni di carattere generale, riguardanti cioè tutte (nel senso prima precisato) le procedure concorsuali. a) L’art. 17, co. 2-bis (aggiunto dall’art. 1, co. 19, n. 2, della l. 24 dicembre 2012, n. 228) stabilisce che «Il curatore, il commissario giudiziale nominato a norma dell’art. 163 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, il commissario liquidatore e il commissario giudiziale nominato a norma dell’art. 8 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, entro dieci giorni dalla nomina, comunicano al registro delle imprese, ai fini dell’iscrizione, il proprio indirizzo di posta elettronica certificata». Si tratta di un adempimento di importanza fondamentale nel nuovo assetto: perché consente che tutti gli atti, comunicazioni ecc. aventi quei destinatari possano essere inoltrate per via telematica all’indirizzo di PEC così reso pubblico. Alcune osservazioni si impongono. La prima è che nella disposizione non si fa menzione del commissario straordinario nella procedura di amministrazione straordinaria ex d.lgs. n. 270/1999, la cui nomina – così come quella del commissario liquidatore – deve essere iscritta nel registro delle imprese (la lacuna sembrerebbe però poter essere colmata in via di applicazione analogica). La seconda osservazione è che, mentre il tenore della disposizione sembrerebbe deporre nel senso che curatore, commissario, ecc. debbano comunicare il proprio personale indirizzo di PEC, destinato allora a rimanere identico per tutte le attività anche diverse che il professionista si trovi a svolgere (in particolare, per tutte le procedure della cui gestione si trovi ad essere investito), l’esigenza di evitare il pericolo di confusione nella gestione dei dati e di assicurare una corretta archiviazione degli atti riferiti ad una specifica procedura (v. il nuovo art. 31-bis l. fall.) impone di ritenere che debba essere utilizzato, e quindi attivato dal professionista e comunicato al registro delle imprese, un apposito indirizzo di PEC per ogni singola procedura. Ed in tal senso sembra essere orientata la prassi. La terza osservazione è che quest’obbligo non è presidiato da alcuna apposita sanzione. Data la già segnalata importanza dell’adempimento

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sembra giustificata la tesi di chi ritiene che il mancato rispetto di quest’obbligo possa comportare la revoca del curatore, commissario, ecc. b) Come si è già accennato, l’art. 16-bis, co. 1, ha disposto, in generale, che – a decorrere dal 30 giugno 2014 – nei procedimenti civili, contenziosi e di volontaria giurisdizione, il deposito degli atti e dei documenti sia da parte dei difensori delle parti costituite sia da parte dei soggetti nominati o delegati dall’autorità giudiziaria debba aver luogo esclusivamente con modalità telematiche. Lo stesso art. 16-bis ha precisato, al co. 3, che «nelle procedure concorsuali la disposizione di cui al co. 1 si applica esclusivamente al deposito degli atti e dei documenti da parte del curatore, del commissario giudiziale, del liquidatore, del commissario liquidatore e del commissario straordinario». Di questa regola generale possono considerarsi espressione molte delle nuove norme di cui si dirà appresso. Anche qui, alcune notazioni. La prima è che questi depositi vanno effettuati nelle forme (telematiche) disponibili presso i singoli tribunali (sistema PCT o piattaforme telematiche). La seconda è che gli atti e documenti depositati dal curatore, commissario, ecc. – che entrano a far parte del fascicolo della procedura – devono essere resi accessibili con modalità telematiche agli interessati (debitore, creditori, terzi), ai sensi e nei limiti previsti dalla legge (v., in particolare, l’art. 90 l. fall.). La terza notazione riguarda i depositi in cancelleria effettuati come forma di comunicazione resa necessaria dalla indisponibilità di un indirizzo di PEC del destinatario o dalla mancata consegna del messaggio elettronico per responsabilità del destinatario: si tende a ritenere che essi vadano eseguiti necessariamente in forma cartacea.; ma non sembra opinione condivisibile stante la perentorietà della regola posta dall’art. 16-bis.

3. Le regole particolari: in materia di fallimento. Venendo alle singole procedure, ad iniziare dal fallimento. A) In materia di istruttoria prefallimentare, l’art. 15, co. 3, l. fall. prevedeva la notifica al debitore, da parte del ricorrente, del decreto di convocazione del medesimo debitore e del ricorso. La disposizione è stata modificata dall’art. 17, co. 1, lett. a, il quale ha stabilito: - che il ricorso ed il decreto vengano notificati a cura della cancelleria del tribunale e per via telematica, all’indirizzo di PEC del debitore risultante dal registro delle imprese ovvero dal (costituendo) Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti;

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- che l’esito della notifica è trasmesso, con modalità automatica, all’indirizzo di PEC del ricorrente; - che quando la notifica non risulti possibile o non abbia esito positivo, la notifica del ricorso e del decreto debba essere eseguita dal ricorrente di persona (quindi non a mezzo posta) presso la sede del debitore risultante dal registro delle imprese; - che quando non possa essere compiuta con tale modalità, la notificazione debba eseguirsi – anziché, a seconda dei casi, ai sensi degli art. 140 o 143 o 145 c.p.c. – esclusivamente con il deposito degli atti nella casa comunale della sede che risulta iscritta nel registro delle imprese, perfezionandosi nel momento del deposito stesso. Il nuovo co. 3 precisa anche che – fermo restando che tra la data della comunicazione o notificazione e quella dell’udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni – l’udienza deve essere fissata non oltre quarantacinque giorni dal deposito del ricorso. È il caso di ricordare che, in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, il d.lgs. n. 270 del 1999 detta all’art. 7, in punto di dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza, una disposizione analoga all’art. 15 l. fall. Il legislatore del 2012, però, l’ha completamente – quanto inspiegabilmente – ignorata. B) Portata generale ha il nuovo art. 31-bis l. fall., introdotto dall’art. 17, co. 1, lett. b. In esso si stabilisce, innanzi tutto, la regola secondo cui tutte le comunicazioni ai creditori ed ai titolari di diritti sui beni che la legge o il giudice delegato pone a carico del curatore sono effettuate «all’indirizzo di posta elettronica certificata da loro indicato nei casi previsti dalla legge» (co. 1), precisandosi (co. 2) che, quando sia omessa quella indicazione o nei casi di mancata consegna del messaggio di PEC per cause imputabili al destinatario, «tutte le comunicazioni sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria». Queste prescrizioni vanno lette in relazione a quanto previsto in materia di domanda di ammissione al passivo, che – come si vedrà appresso – deve contenere l’indicazione, appunto, dell’indirizzo di PEC del creditore o titolare di diritti sui beni e che, quindi, costituisce il primo e più importante dei «casi previsti dalla legge» di cui al co. 1 della disposizione in oggetto. Si prevede poi (al co. 3) l’obbligo per il curatore di conservare i messaggi di posta elettronica certificata inviati e ricevuti per tutta la durata della procedura e per il periodo di due anni dalla chiusura della stessa. La legge non specifica che cosa succeda nell’ipotesi di sostituzione del curatore durante la procedura: sembra ragionevole ritenere che il curatore uscente debba rimettere al subentrante copia dell’intero complesso di messaggi.

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C) L’art. 33, co. 5, l. fall. stabilisce che il curatore debba redigere ogni sei mesi un rapporto riepilogativo delle attività svolte, accompagnato dal conto della sua gestione. Tale rapporto – oltre a dover essere depositato in cancelleria (la legge non lo specifica, ma sembra ovvio) – deve essere trasmesso, unitamente agli estratti conto dei depositi postali e bancari relativi al periodo, al comitato dei creditori; il comitato o singoli componenti del medesimo possono formulare osservazioni scritte, da depositare ugualmente in cancelleria. Copia del rapporto, insieme con le eventuali osservazioni, va trasmesso per via telematica all’ufficio del registro delle imprese entro quindici giorni dalla scadenza del termine (che la legge peraltro non indica) per il deposito delle osservazioni nella cancelleria del tribunale. L’art. 17, co. 1, lett. c, ha integrato questa disposizione, aggiungendo che, nello stesso termine di quindici giorni, altra copia del rapporto, sempre insieme con le eventuali osservazioni, debba essere trasmessa dal curatore a mezzo PEC ai creditori e ai titolari di diritti sui beni. D) La disciplina della fase dell’ammissione al passivo risulta essere quella più ampiamente interessata da modifiche o integrazioni. a) Innanzi tutto, è stato riformulato (dall’art. 17, co. 1, lett. d) il primo co. dell’art. 92 l. fall., riguardante l’avviso ai creditori ed agli altri interessati. In base alla nuova disposizione tale avviso, da un lato, deve essere inviato dal curatore ai creditori ed ai titolari di diritti sui beni a mezzo di PEC se il relativo indirizzo del destinatario risulta dal registro delle imprese o dall’Indice nazionale degli indirizzi PEC delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax; e, dall’altro, deve, in particolare, contenere sia «l’avvertimento delle conseguenze di cui all’art. 31-bis, secondo comma, e della sussistenza dell’onere previsto dall’art. 93, terzo comma, n. 5 » (vale a dire: dell’onere di indicare il proprio indirizzo di PEC e le eventuali successive variazioni e delle conseguenze derivanti dalla sua inosservanza) sia l’indicazione dell’indirizzo di PEC del medesimo curatore. b) In secondo luogo, è stata modificata (dall’art. 17, co. 1, lett. e) la disciplina della domanda di ammissione al passivo di cui all’art. 93 l. fall. Il ricorso contenente tale domanda e la documentazione allegata debbono essere formati ai sensi degli art. 21, co. 2 ovvero 22, co. 3 d.lgs. n. 82/2005, vale a dire come documento informatico con firma digitale o copia per immagine di documento analogico e, nel consueto termine di trenta giorni prima dell’udienza di verificazione del passivo, deve essere - non più depositato nella cancelleria del tribunale, ma - trasmesso all’indirizzo di PEC del curatore indicato nell’avviso ex art. 92 (solo gli originali dei titoli di credito eventualmente allegati al ricorso continuano

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a dover essere depositati presso la cancelleria). Nel ricorso deve essere indicato l’indirizzo di PEC del ricorrente «al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura»; la mancata indicazione di tale indirizzo produce – come espressamente, ma superfluamente, sancisce il nuovo co. 5 – le conseguenze previste dall’art. 31-bis, co. 2 (retro, sub B). L’instaurazione di un rapporto diretto, in questa fase, fra curatore e creditori concreta una innovazione notevole (taluno la ha definita “rivoluzionaria”), che si tradurrà in un alleggerimento notevole dei compiti delle cancellerie dei tribunali fallimentari e che, soprattutto, accrescerà la centralità del ruolo del curatore, destinato ad assumere anche funzioni certificative (in ordine, per esempio, alla data dei ricorsi). Un’innovazione che potrebbe preludere anche ad una rimeditazione in ordine all’opportunità di continuare a mantenere la presenza del giudice nella fase necessaria dell’accertamento del passivo. È il caso di sottolineare che non è stato modificato – come sarebbe stato necessario – il disposto dell’art. 16, co. 1, n. 5, in materia di contenuto della sentenza dichiarativa di fallimento, che continua a parlare di «presentazione in cancelleria delle domande di insinuazione» al passivo. L’omissione, ovviamente, è priva di qualsivoglia rilievo: ma è sintomatica dell’approssimazione (quanto meno) con cui si è proceduto. c) Naturalmente, questa disciplina vale anche per le domande tardive, tali essendo oggi da qualificare – come risulta dopo la modifica dell’art. 101, co. 1 disposta dall’art. 17, co. 1, lett. h. – quelle trasmesse al curatore oltre il termine di trenta giorni prima dell’udienza di verifica del passivo. d) È stato modificato (dall’art. 17, co. 1, lett. f) anche il secondo comma dell’art. 95, in materia di progetto di stato passivo. Il curatore deve depositare tale progetto e le relative domande (comprensive – è da ritenere – della documentazione allegata) nella cancelleria del tribunale almeno quindici giorni prima dell’udienza: ovviamente con modalità telematiche. Nelloa stesso termine quel progetto (è dubbio, dato il silenzio della legge, se insieme alle domande e relativa documentazione, che comunque vanno rese accessibili dalla cancelleria) deve essere trasmesso ai creditori ed ai titolari di diritti sui beni all’indirizzo di PEC indicato nelle domande di ammissione al passivo (nonché – è da ritenere – al fallito, sempre per via telematica). I creditori, i titolari di diritti sui beni ed il fallito possono presentare al curatore, di nuovo con lo strumento della PEC, osservazioni scritte e documenti integrativi fino – non più all’udienza ma – a cinque giorni prima dell’udienza (osservazioni scritte e documenti integrativi che – pur se la legge nulla dice – dovranno a loro volta essere depositate dal curatore in cancelleria, al solito per via telematica).

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e) È stata drasticamente semplificata (dall’art. 17, co. 1, lett. g) la disposizione dell’art. 97 l. fall., in materia di comunicazione dell’esito del processo di accertamento. Oggi si prevede che «il curatore, immediatamente dopo la dichiarazione di esecutività dello stato passivo, ne dà comunicazione trasmettendo [ovviamente: per posta elettronica certificata] una copia a tutti i ricorrenti, informandoli del diritto di proporre opposizione in caso di mancato accoglimento della domanda». E) Anche la disciplina del rendiconto del curatore è stata in parte riscritta dall’art. 17, co. 1, lett. m. Si sono infatti sostituiti il co. 2 ed il co. 3 dell’art. 116 l. fall., i quali oggi prevedono: - che il giudice ordina il deposito in cancelleria del conto del curatore e fissa l’udienza la quale non può essere tenuta prima che siano decorsi quindici giorni dalla comunicazione del rendiconto a tutti i creditori; - che dell’avvenuto deposito e della fissazione dell’udienza il curatore deve dare immediata comunicazione ai creditori ammessi al passivo, a coloro che hanno proposto opposizione, ai creditori in prededuzione non soddisfatti con posta elettronica certificata, inviando copia del rendiconto ed avvisandoli che possono presentare eventuali osservazioni o contestazioni fino a cinque giorni prima dell’udienza, con le modalità di cui all’art. 93 (quindi tramite PEC); - che al fallito, se non è possibile procedere alla comunicazione con modalità telematica, il rendiconto e la data dell’udienza sono comunicati mediante raccomandata A.R. F) Ritocchi hanno interessato anche la disciplina della proposta di concordato fallimentare. Il primo comma dell’art. 125 l. fall. è stato integrato con la previsione secondo cui il ricorso con la proposta presentato da un terzo deve contenere l’indirizzo di PEC al quale ricevere le comunicazioni e con il conseguente richiamo all’art. 31-bis. Nel secondo comma del medesimo art. 125 viene specificato che la proposta, unitamente al parere del comitato dei creditori e del curatore, deve essere comunicata a cura di quest’ultimo ai creditori a mezzo di PEC. È stato, ancora, modificato il secondo comma dell’art. 129, precisando che, se la proposta è stata approvata, il giudice delegato dispone che il curatore ne dia immediata comunicazione a mezzo PEC al proponente ed ai creditori dissenzienti e che al fallito, se non è possibile procedere alla comunicazione con modalità telematica, la notizia dell’approvazione sia comunicata, al solito, con raccomandata A.R. G) Infine. Si è previsto, all’art. 102, co. 3, l. fall. che il curatore debba comu-

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nicare ai creditori che abbiano presentato domanda di ammissione al passivo il decreto con cui il tribunale dispone non farsi luogo all’accertamento del passivo, trasmettendone copia (ovviamente: tramite PEC). Si è stabilito all’art. 110, co. 2, che il giudice ordina il deposito del progetto di ripartizione in cancelleria, disponendo che «a tutti i creditori … ne sia data comunicazione mediante l’invio di copia a mezzo posta elettronica certificata». Si è precisato, all’art. 143, co. 1, in materia di esdebitazione, che «Il ricorso e il decreto del tribunale sono comunicati dal curatore ai creditori a mezzo posta elettronica certificata».

4. Segue: in materia di concordato preventivo. Più limitate e di minore portata sono le modifiche apportate alla disciplina del concordato preventivo. a) La modifica più rilevante è quella apportata (dall’art. 17, co. 1, lett. q) all’art. 171, co. 2, l. fall., che è stato riformulato sulla linea del nuovo art. 92 stessa legge. Anche l’avviso che il commissario giudiziale deve inviare ai creditori per informarli della data di convocazione dei medesimi, della proposta del debitore e del decreto di ammissione deve infatti contenere l’indicazione dell’indirizzo di PEC del medesimo commissario, l’invito ad indicare il proprio indirizzo di PEC e l’avvertimento di cui, appunto, all’art. 92, co. 1, n. 3. Anche questo avviso deve essere comunicato per mezzo di PEC, ove il relativo indirizzo del destinatario risulti dal registro delle imprese o dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell’impresa o la residenza del creditore. Anche nel concordato preventivo tutte le successive comunicazioni ai creditori sono effettuate a mezzo posta elettronica certificata. Anche in questa procedura, in mancanza di comunicazione del proprio indirizzo di PEC (comunicazione che si prevede debba avvenire entro quindici giorni dalla comunicazione dell’avviso del commissario) o nel caso di mancata consegna del messaggio di PEC per cause imputabili al destinatario le comunicazioni si eseguono esclusivamente mediante deposito in cancelleria. In virtù dell’espresso richiamo all’art. 31-bis, co. 3, l. fall., anche il commissario giudiziale è tenuto a conservare per tutta la procedura e per i due anni successivi alla chiusura i messaggi di posta elettronica certificata inviati e ricevuti.

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b) Il primo comma dell’art. 172 l. fall. è stato riformulato (dall’art. 17, co. 1, lett. r), da un lato ampliando a dieci giorni prima dell’adunanza dei creditori il termine entro il quale la relazione particolareggiata del commissario giudiziale deve essere depositata in cancelleria e, dall’altro, prevedendo che entro lo stesso termine la relazione debba essere comunicata ai creditori a mezzo posta elettronica certificata. Singolarmente non è stata prevista analoga comunicazione, con lo stesso mezzo, al debitore: la relazione è funzionale alle determinazioni da assumere nell’adunanza, alla quale il debitore, come è noto, è obbligato a partecipare. c) All’art. 173, co. 1, l. fall. è stata inserita (dall’art. 17, co. 1, lett. s) la precisazione che la comunicazione ai creditori dell’apertura d’ufficio del procedimento per la revoca dell’ammissione del debitore al concordato deve essere eseguita dal commissario giudiziale (e non dalla cancelleria) a mezzo posta elettronica certificata. d) L’art. 182 l. fall., in materia di concordato con cessione dei beni, è stato integrato (dall’art. 17, co. 1, lett. t) con un sesto comma che arricchisce la disciplina della liquidazione nel concordato preventivo, estendendo al liquidatore l’obbligo, previsto dall’art. 33 l. fall, a carico del curatore, di redigere, con periodicità semestrale, rapporti riepilogativi delle attività svolte (v. anche retro, § 3, sub C): rapporti i quali, oltre che al comitato dei creditori, vanno trasmessi a mezzo PEC al commissario giudiziale, che a sua volta, con lo stesso mezzo, li deve trasmettere ai creditori.

5. Segue: in materia di liquidazione coatta. In materia di liquidazione coatta amministrativa le modifiche o integrazioni corrispondono sostanzialmente a quelle disposte con riguardo alla disciplina del fallimento. a) Anche in questa procedura, le modifiche di maggior rilievo concernono la fase di accertamento del passivo. Centrale nel sistema è, anche qui, la prima comunicazione da parte dell’organo gestorio della procedura, il commissario liquidatore, ai creditori. L’art. 207 l. fall. è stato pressoché interamente riformulato (dall’art. 17, co. 1, lett. v): sono stati sostituiti il primo ed il terzo comma ed è stato aggiunto un quarto comma. In linea, ancora una volta, con l’art. 92 l. fall., si prevede: - che, entro un mese dalla nomina, il commissario liquidatore deve comunicare a ciascun creditore (o titolare di diritti sui beni), a mezzo posta elettronica certificata ove il relativo indirizzo del destinatario risulti

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dal registro delle imprese o dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell’impresa o la residenza del creditore, il proprio indirizzo di PEC e le somme risultanti a credito di ciascuno (o i beni oggetto di diritti) secondo le scritture contabili dell’impresa; - che contestualmente il commissario deve invitare i creditori ad indicare il loro indirizzo di PEC entro il termine di quindici giorni dal ricevimento della comunicazione, con l’avvertimento sulle conseguenze della mancata indicazione; - che entro gli stessi quindici giorni i creditori e i titolari di diritti sui beni possono far pervenire al commissario liquidatore le loro osservazioni o istanze; - che tutte le successive comunicazioni sono effettuate dal commissario all’indirizzo di posta elettronica certificata indicato dagli interessati; - che, nel caso di mancata indicazione dell’indirizzo di PEC ovvero nel caso di mancata consegna per cause imputabili al destinatario, le comunicazioni si effettuano mediante deposito in cancelleria. Nello stesso nuovo quarto comma dell’art. 207 si richiama l’art. 31bis, co. 3, l. fall.: anche il commissario liquidatore deve conservare per tutta la durata della procedura e per i due anni successivi alla chiusura i messaggi di PEC inviati e ricevuti. Coerentemente, sono stati modificati sia l’art. 208 l. fall., prevedendo che i creditori e i titolari di diritti sui beni che non abbiano ricevuto la comunicazione di cui all’art. 207 e che chiedano il riconoscimento dei loro crediti o la restituzione dei beni debbano indicare, nella raccomandata, il loro indirizzo di PEC; sia l’art. 209, stabilendo che l’elenco dei crediti ammessi o respinti vada trasmesso dal commissario liquidatore a coloro la cui pretesa non sia stata in tutto o in parte ammessa a mezzo posta elettronica certificata ai sensi dell’art. 207, co. 4. b) L’art. 205, co. 2, l. fall. è stato rimodellato – dall’art. 17, co. 1, lett. u - sulla falsariga dell’art. 33, co. 5 stessa l. (sul quale v. retro, § 3, sub C), stabilendosi che la relazione semestrale sulla situazione patrimoniale dell’impresa e sull’andamento della gestione che il commissario liquidatore è tenuto a presentare, insieme con un rapporto del comitato di sorveglianza, all’autorità che vigila sulla liquidazione debba essere contemporaneamente trasmessa in copia al comitato di sorveglianza, insieme agli estratti conto dei depositi postali o bancari relativi al periodo; che il comitato di sorveglianza o ciascuno dei suoi componenti possono formulare osservazioni scritte; che altra copia della relazione è trasmessa, insieme alle eventuali osservazioni, per via telematica all’uffi-

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cio del registro delle imprese ed è altresì trasmessa per posta elettronica certificata ai creditori ed ai titolari di diritti sui beni. È il caso di osservare che la nuova disposizione non stabilisce alcun termine né quanto alle osservazioni del comitato di sorveglianza (in ciò allineandosi al prima ricordato art. 33) né quanto alla (successiva) comunicazione della relazione al registro delle imprese ed ai creditori (in ciò invece discostandosi dall’art. 33). c) Gli art. 213, co. 2 e 214, co. 2, l. fall. sono stati modificati (dall’art. 17, co. 1, lett. bb e cc), prevedendosi che la comunicazione da parte del commissario liquidatore ai creditori ammessi al passivo dell’avvenuto deposito del bilancio finale di liquidazione e rispettivamente della proposta di concordato debba avvenire, non più «nelle forme previste dall’art. 26, terzo comma», ma con le modalità di cui all’art. 207, co. 4, ovvero a mezzo di posta elettronica certificata.

6. Segue: in materia di amministrazione straordinaria. Anche le modifiche alla disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, contenuta nel d. lgs. n. 270/1999, seguono essenzialmente le stesse linee già viste con riferimento alle altre procedure. a) L’art. 22 d.lgs. n. 270, in materia di avviso ai creditori per l’accertamento del passivo, è stato integralmente riscritto (dall’art. 17, co. 2, lett. a e b) sulla falsariga, ancora una volta, del nuovo art. 92 l. fall. Ora esso stabilisce: - che il commissario giudiziale comunica ai creditori ed ai titolari di diritti sui beni, a mezzo posta elettronica certificata ove il relativo indirizzo del destinatario risulti dal registro delle imprese o dall’Indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti e, in ogni altro caso, a mezzo lettera raccomandata o telefax presso la sede dell’impresa o la residenza del creditore, il proprio indirizzo di PEC e il termine entro il quale devono trasmettergli a tale indirizzo le loro domande, nonché le disposizioni della sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza che riguardano l’accertamento del passivo; - che i creditori e i titolari di diritti sui beni sono invitati ad indicare nella domanda il loro indirizzo di PEC ed avvertiti delle conseguenze della mancata indicazione e dell’onere di comunicare al commissario ogni variazione del medesimo; - che tutte le successive comunicazioni sono effettuate dal commissario all’indirizzo di PEC indicato dall’interessato;

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- che in caso di mancata indicazione dell’indirizzo di PEC o della sua variazione ovvero nei casi di mancata consegna (del messaggio di PEC) per cause imputabili al destinatario le comunicazioni si eseguono mediante deposito in cancelleria. Lo stesso art. 22, co. 2, estende al commissario giudiziale la previsione dell’art. 31-bis, co. 3, l. fall.: anche il commissario giudiziale è tenuto a conservare i messaggi di PEC inviati e ricevuti (ovviamente non per la durata della procedura ma per il periodo in cui è rimasto in carica, cioè fino al decreto del tribunale che chiude la c.d. fase intermedia e per i due anni successivi). b) L’art. 28, co. 5, d.lgs. n. 270 prevedeva, nella sua formulazione originaria, che della relazione del commissario giudiziale, contenente sia la descrizione delle cause dell’insolvenza sia una valutazione motivata circa l’esistenza delle condizioni per l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria, si potesse, una volta depositata in cancelleria, prendere visione ed estrarre copia da parte dell’imprenditore insolvente, dei creditori e di ogni altro interessato. Oggi, dopo la modifica apportata dall’art. 17, co. 2, lett. c, è rimasta la facoltà dell’imprenditore e di eventuali interessati di prendere visione della relazione ed estrarne copia, mentre ai creditori la medesima relazione deve essere inviata dal commissario, per posta elettronica certificata, entro dieci giorni dal deposito in cancelleria. Due osservazioni si impongono. La prima è che non si comprende perché non si sia prevista la trasmissione della relazione, da parte del commissario, anche all’imprenditore. La seconda è che non si comprende perché non si sia previsto un invio ai creditori contestuale al deposito (analogamente a quanto stabilito, ad esempio, dall’artr. 95, co. 2, l. fall. o dall’art. 116, co. 3, della stessa legge, ecc.). Oltretutto, si sarebbe evitato l’”inconveniente” dato da ciò che il termine di dieci giorni dal deposito previsto per la trasmissione ai creditori sostanzialmente viene a coincidere con il termine sempre di dieci giorni concesso dal successivo art. 29, co. 2, ai medesimi creditori per depositare osservazioni scritte sulla relazione (termine che decorre dall’affissione dell’avviso dell’avvenuto deposito della relazione, la quale affissione deve aver luogo entro ventiquattro ore dal deposito). c) Una modificazione analoga a quella appena vista è stata apportata all’art. 59, co. 2, seconda parte. Questa disposizione prevedeva, nella sua formulazione originaria, che del programma del commissario straordinario, autorizzato dal Ministero, si potesse, una volta depositato in cancelleria, prendere visione ed estrarre copia da parte dell’imprenditore insolvente, dei creditori e di

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ogni altro interessato. Oggi, dopo la modifica apportata dall’art. 17, co. 2, lett. d, è rimasta la facoltà dell’imprenditore e di eventuali interessati di prendere visione del programma ed estrarne copia, mentre ai creditori il medesimo programma deve essere inviato dal commissario, per posta elettronica certificata, entro dieci giorni dal deposito in cancelleria. In ordine a questa nuova formulazione valgono ovviamente le stesse osservazioni svolte nel punto precedente. Sempre l’art. 59, co. 2 estende al commissario straordinario la previsione dell’art. 31-bis, co. 3, l. fall.: anche il commissario straordinario è tenuto a conservare i messaggi di PEC inviati e ricevuti per la durata della procedura e per i due anni successivi. d) L’art. 61, co. 4, d.lgs. n. 270 prevede che le relazioni periodiche e la relazione finale del commissario straordinario, corredate dei relativi pareri del comitato di sorveglianza, siano depositate presso la cancelleria del tribunale, ove qualunque interessato può prenderne visione ed estrarne copia. Questa disposizione è stata integrata dall’art. 17, co. 2, lett. e, stabilendosi che copia di ciascuna di tali relazioni debba essere trasmessa dal commissario a tutti i creditori a mezzo PEC, entro i soliti dieci giorni dal deposito in cancelleria. e) Infine, anche l’art. 75 d.lgs. n. 270, in materia di bilancio finale della procedura e rendiconto del commissario straordinario è stato modificato (dall’art. 17, co. 2, lett. f), stabilendo, al co. 2, che copia del bilancio e del conto di gestione va trasmesso dal commissario straordinario a tutti i creditori (nonché, anche se la disposizione non lo dice, a tutti i titolari di diritti sui beni) per mezzo di PEC, sempre entro dieci giorni dal deposito dei medesimi in cancelleria; e precisando, al co. 3, che il termine per proporre contestazioni avverso il bilancio ed il conto di gestione decorre, per i creditori e per i titolari di diritti sui beni, dalla comunicazione, appunto, a mezzo PEC.

7. La disciplina transitoria. Articolato è il quadro delle disposizioni transitorie relative alla data a partire dalla quale le nuove disposizioni potranno trovare applicazione alle procedure pendenti. a) Innanzi tutto, ed in generale, viene posta – dall’art. 17, co. 4 – una summa divisio tra: - procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta ed amministrazione straordinaria pendenti per le quali, alla data di entrata in vigore della legge di conversione, cioè il 19 dicembre 2012,

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non sia ancora stata effettuata la comunicazione prevista rispettivamente dagli art. 92, 171, 207 l. fall. e dall’art. 22 d.lgs. n. 270; - e procedure pendenti per le quali, alla stessa data, quella comunicazione già è stata effettuata. Per le prime, le nuove disposizioni del co. 1 e del co. 2 dell’art. 17 si applicano a partire appunto dal 19 dicembre 2012. Per le seconde, le nuove disposizioni si applicano a partire dal 31 ottobre 2013, con la precisazione che entro il 30 giugno 2013 il curatore, il commissario giudiziale, ecc. devono comunicare ai creditori ed ai terzi titolari di diritti sui beni il loro indirizzo di PEC, invitandoli a comunicare entro tre mesi l’indirizzo di PEC al quale ricevere tutte le comunicazioni relative alla procedura ed avvertendoli di rendere nota ogni successiva variazione e che in caso di omessa indicazione tutte le comunicazioni saranno eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Nonostante questa disciplina sia riferita espressamente solo alle disposizioni di cui ai co. 1 e 2 dell’art. 17, è da ritenere che essa valga anche per la disposizione (introdotta successivamente) di cui al co. 2-bis del medesimo art. 17. Quindi l’obbligo per il curatore, il commissario giudiziale, ecc. di procedure pendenti di comunicare all’ufficio del registro delle imprese il proprio indirizzo di PEC è destinato a scattare – prescindendo dal termine di dieci giorni, inutilizzabile perché riferito alla data della nomina – in epoca diversa a seconda che non si sia ancora avuta o si sia già avuta la comunicazione ex art. 92, ecc. b) In secondo luogo, ed in particolare, l’art. 17, co. 3 stabilisce che la disposizione di cui al co. 1, lett. a (concernente la notifica del ricorso per la dichiarazione di fallimento e del decreto di convocazione del debitore: retro, § 3 sub A) si applica ai procedimenti introdotti dopo il 31 dicembre 2013. c) Infine, e sempre in particolare, la disposizione di cui all’art. 16-bis concernente il deposito in cancelleria, per via telematica, degli atti e dei documenti da parte del curatore, del commissario giudiziale, del liquidatore, del commissario liquidatore e del commissario straordinario si applica – come già visto (retro, § 2, sub b) – a decorrere dal 30 giugno 2014.

8. Considerazioni conclusive. Il legislatore sta producendo un notevole sforzo per modernizzare e, soprattutto, rendere più veloci i procedimenti giudiziari, anche nel campo – delicatissimo – degli strumenti di soluzione delle crisi delle imprese. È uno sforzo lodevole, nel compiere il quale però, almeno per

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quanto concerne le procedure concorsuali, non si è riusciti ad evitare di incorrere in sviste, contraddizioni, omissioni, come si è già avuto modo di constatare nelle pagine che precedono. Qui preme segnalare due (ulteriori) omissioni, macroscopiche quanto inspiegabili. La prima riguarda la procedura dell’amministrazione straordinaria speciale, governata dal d.l. n. 347 del 2003 e successive modificazioni, che il d.l. del 2012 ha puramente e semplicemente ignorato. È vero che questa “versione” dell’amministrazione straordinaria è retta da molte delle disposizioni dettate dal d.lgs. n. 270 del 1999 in materia di amministrazione straordinaria comune. È anche vero, però, che certe fasi sono oggetto di disciplina specifica. Ci si riferisce, in particolare, alla fase dell’ammissione al voto sulla proposta di concordato, di cui ai co. 5 ss. dell’art. 4-bis del citato d.l. del 2003, che ha cadenze simili alla fase di accertamento del passivo e che quindi ben avrebbe potuto (e dovuto) essere rimodellata in linea con quanto disposto per la fase di accertamento del passivo nelle altre procedure (e operante nella stessa procedura in questione, in virtù della “catena” di rinvii, costituita dall’art. 8 d.l. n. 347 del 2003 e dall’art. 53 d.lgs. n. 270 del 1999). La seconda omissione è, se possibile, ancora più inspiegabile. Lo stesso d.l. n. 179 del 2013, nell’art. 18 – quindi immediatamente successivo a quello qui analizzato e pur esso ugualmente collocato nella sezione “Giustizia digitale” – ha disciplinato i procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio, qualificabili anch’essi come procedure concorsuali di natura giudiziaria. Orbene: da un lato, tali procedimenti sono totalmente ignorati dalle disposizioni che abbiamo fin qui analizzato e, dall’altro, la loro disciplina, in materia di flusso delle comunicazioni fra debitore, creditori e organi della procedura, ricalca le linee tradizionali, ignorando completamente le innovazioni introdotte appunto dal precedente art. 17. Un esempio lampante – ci sembra – di autentica schizofrenia del nostro legislatore! Alessandro Nigro - Daniele Vattermoli

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Norme redazionali

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.

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legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria Cedola di sottoscrizione - Abbonamento 2013 (4 fascicoli): € 110,00 Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 35,00 Modalità di Pagamento - assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA - versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) - bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 G 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) - a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) - carta di credito - MasterCard - VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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