Diritto della banca e del mercato finanziario 3/2009

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Saggi

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

3/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario ISSN 1722-8360

di particolare interesse in questo fascicolo

• Consulenza in materia di investimenti • Accordi di ristrutturazione dei debiti • Strumenti di finanza derivata ed enti locali • Sintesi di giurisprudenza

luglio-settembre

Pacini Editore

3/2009 anno xxiii





Diritto della banca e del mercato finanziario

luglio-settembre

Pacini Editore

3/2009 anno XXIII



Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

Comitato di direzione Carlo Angelici, Franco Belli, Mario Bussoletti, Gino Cavalli, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimeri, Alessandro Nigro, Mario Porzio, Niccolò Salanitro, Vittorio Santoro, Luigi Carlo Ubertazzi. Comitato di redazione Sido Bonfatti, Antonella Brozzetti, Vincenzo Caridi, Ciro G. Corvese, Giovanni Falcone, Elisabetta Massone, Francesco Mazzini, Filippo Parrella, Gennaro Rotondo. Segreteria di redazione Daniele Vattermoli Direttore responsabile Alessandro Nigro La sede della rivista è presso la Segreteria del Ce.Di.B. Via dei Crociferi, 44 - 00187 Roma L’amministrazione è presso: Pacini Editore SpA Via Gherardesca - 56121 Ospedaletto - Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it - info@pacinieditore.it

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Sommario 3/2009

PARTE PRIMA Saggi Responsabilità dei gestori nei confronti delle componenti esterne all’impresa, di Alessandro Nigro.............................

pag. 367

Il servizio di “consulenza in materia di investimenti”: profili ricostruttivi di una nuova fattispecie, di Antonella Sciarrone Alibrandi................................................................

» 383

Il soprapprezzo delle azioni nelle banche di credito cooperativo tra statuto tipo e legge, di Emanuele Cusa..................

» 411

«Data valuta»: direttiva 2007/64/CE e ordinamento italiano, di Gianluca Mucciarone..................................................

» 429

Revocatoria delle rimesse in conto corrente – Trib. Milano, 25 maggio 2009, con nota redazionale...............................

» 447

Accordi di ristrutturazione dei debiti – Trib. Palermo, 27 marzo 2009......................................................................

» 455

Accordo di ristrutturazione dei debiti: un contributo alla ricostruzione del procedimento di omologazione, di Pasqualina Farina......................................................................

» 461

Commenti


Rassegne Sintesi di giurisprudenza (III trimestre 2008).....................

pag. 481

PARTE SECONDA Documenti e informazioni Finanza locale e strumenti finanziari derivati – Corte dei conti, Sezioni Riunite in sede di controllo: i controlli della Corte dei conti sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata (con nota redazionale).........................

» 141

Norme

» 191

redazionali..................................................................


PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, rassegne, miti e realtĂ



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Responsabilità dei gestori nei confronti delle componenti esterne all’impresa (*)

I 1. Il titolo della relazione che mi è stata affidata ovviamente evoca subito le due figure, possiamo dire, “tipiche” di responsabilità verso l’esterno degli amministratori (e, più in generale, dei “gestori”) di società che sono previste e disciplinate dagli art. 2394 e 2395 c.c., i quali concernono rispettivamente la responsabilità verso i creditori sociali e quella verso i singoli soci e i terzi . Si tratta di due figure che sono, in principio, proprie ed esclusive delle società di capitali e delle società cooperative (anzi, più esattamente, la prima di esse solo delle società per azioni, in accomandita per azioni e cooperative). Si tratta, ancora, di due figure che assumono un ruolo cardine nel sistema complessivo della responsabilità degli amministratori, tanto più in considerazione del fatto che su di esse è stata modellata la disciplina, con riguardo ai gruppi, della responsabilità per abuso nell’eterodirezione di cui all’art. 2497. Si tratta, infine, di due figure i cui esatti contorni sono tuttora largamente incerti e in ordine alle quali, pertanto, è tuttora vivo il dibattito sia in giurisprudenza che, soprattutto,

Relazione alla giornata di studio in ricordo di Salvatore Pescatore su “Governo dell’impresa e responsabilità dei gestori” (Sapienza Università di Roma, 15 maggio 2009). Naturalmente, queste figure non esauriscono l’intera gamma delle figure di responsabilità dei gestori verso l’esterno (basta pensare, per esempio, alle fattispecie sanzionatorie previste da certe normative di settore a carico appunto dei gestori: art. 144 t.u.b.; art. 190 t.u.f. ecc.); ma ne costituiscono senz’altro quelle più rilevanti. D’altra parte, non si deve confondere fra responsabilità dell’impresa verso l’esterno e responsabilità dei gestori verso l’esterno. (*)

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in dottrina. Un dibattito, mi permetto di osservare, caratterizzato spesso da fraintendimenti, quando non da autentici errori, e nell’ambito del quale non sono mancate, soprattutto di recente, proposte interpretative a dir poco bizzarre. Mi riferisco, per esempio, all’idea secondo la quale l’art. 2394 dovrebbe trovare applicazione solo dopo che si sia verificata una causa di scioglimento della società ; o all’altra idea secondo la quale l’art. 146 1. fall. e l’art. 206 stessa legge costituirebbero “norme di fattispecie” e non solo “norme di disciplina” , con la conseguenza che, almeno nell’ambito delle procedure concorsuali, da un lato l’azione ex art. 2394 sarebbe esperibile nei confronti degli amministratori di qualsiasi impresa collettiva e, dall’altro, al curatore competerebbe la legittimazione anche all’esercizio dell’azione ex art. 2395. Non ho naturalmente la possibilità in questa sede di affrontare compiutamente l’analisi di quelle figure e men che meno la possibilità di fornire risposte definitive ai problemi ai quali ho fatto cenno. Dovrò necessariamente limitarmi a prospettare, e in forma sintetica, qualche spunto ricostruttivo che quanto meno valga a ricondurre il dibattito lungo itinerari meno avventurosi. 2. Si impongono due notazioni preliminari che sono destinate, io credo, ad avere un certo peso nella comprensione della portata delle norme che prevedono e disciplinano le figure di cui stiamo trattando. La prima notazione è che con tali figure, che possiamo definire “speciali”, si è inteso certamente apprestare particolari strumenti di tutela di certi soggetti (creditori, terzi, soci), ma l’obiettivo finale non è dato da quella tutela. Essa si pone – e mi pare che su questo sussista ormai un largo consenso – come strumentale a un altro obiettivo, la tutela della, verrebbe da dire mutuando il linguaggio del t.u. bancario, “sana e prudente gestione” dell’impresa societaria da parte degli amministratori. Questo è da dirsi per l’azione ex art. 2394: come è stato efficacemente scritto, per esempio, da Galgano, “La protezione di costoro [i creditori sociali] è solo strumentale: la legge si preoccupa, essenzialmente, di re-

Così Sambucci, Art. 2394, in Società di capitali. Commentario, a cura di Niccolini e Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, p. 700 ss. Cetra, L’impresa collettiva non societaria, Torino, 2003, p. 391; Palmieri, Nuovi profili del fallimento delle società, in Temi del nuovo diritto fallimentare, a cura di Palmieri, Torino, 2009, p. 93 s. Qualche accenno a riguardo anche in M. Rescigno, Rapporti e interferenze fra riforma societaria e fallimentare, in Il nuovo diritto fallimentare. Commentario, diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2007, p. 2125 s.

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sponsabilizzare gli amministratori; essa li espone al fuoco incrociato di diverse azioni di responsabilità” . Ed è da dirsi anche per l’azione ex art. 2395: perché è vero che quest’azione non presuppone un danno a carico della società; ma è anche vero che il comportamento dell’amministratore può essere fonte di responsabilità anche per la società e determinare a carico della stessa un obbligo risarcitorio e pertanto, alla fine, proprio un danno. La seconda notazione preliminare è che l’esistenza di queste figure “speciali” non significa e non comporta affatto che nelle imprese “collettive” diverse dalle società nelle quali trovano applicazione gli art. 2394 e 2395 creditori, per un verso, e terzi e “partecipanti”, per altro verso, restino completamente sprovvisti di protezione. Significa e comporta soltanto che, con riguardo a quelle imprese, sono destinati a operare solo i normali strumenti di protezione offerti dal diritto comune. Così, non mi sembra revocabile in dubbio che i creditori, per esempio, di un consorzio o di una associazione che svolga attività di impresa possano avvalersi dell’azione surrogatoria prevista dall’art. 2900 c.c. a fronte dell’inerzia dell’ente rispetto ad atti di mala gestio dei suoi amministratori che abbiano determinato una lesione del patrimonio di esso ente . E, d’altra parte, sembra ormai da ammettere – alla luce, tra l’altro, dell’art. 28 Cost. – l’esistenza nel nostro ordinamento del principio secondo cui dell’atto illecito commesso dall’amministratore di un ente collettivo risponde in ogni caso sia l’ente sia anche l’amministratore, con la conseguente possibilità, per esempio, per il terzo o il consorziato o l’associato danneggiato da un comportamento lesivo dell’amministratore di un consorzio o di un’associazione di agire ex art. 2043 c.c. direttamente nei confronti di quell’amministratore, oltre che dell’ente .

Galgano, Il nuovo diritto societario2, in Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, 2004, I, p. 294. Lo stesso dovrebbe dirsi con riguardo alle s.r.l. ove si ritenga inapplicabile alle stesse l’art. 2394 (v. sul punto Zanarone, in Diritto commerciale5, Bologna, 2007, p. 334; Cagnasso, La società a responsabilità limitata, in Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, 2007, p. 265). Cfr. per tutti Galgano, Delle persone giuridiche, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1969, p. 263 ss.

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II 3. Vengo, a questo punto, alla figura prevista e disciplinata dall’art. 2394, che è poi la figura che prospetta i maggiori problemi, a cominciare da quello, fondamentale, della sua stessa natura. Si discute infatti, come è a tutti noto, se l’azione dei creditori da quella norma regolata debba ritenersi un’azione di tipo surrogatorio, volta a ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale sì da renderlo di nuovo sufficiente a soddisfare i creditori, o, invece, un’azione diretta, volta a ristorare il danno subìto dal creditore per effetto della insufficienza del patrimonio sociale ; ed è ugualmente noto, credo, che larga parte della dottrina e la più recente giurisprudenza sono nettamente orientate verso la seconda delle due soluzioni. A mio modo di vedere, già la formulazione della disposizione lascerebbe senz’altro preferire la soluzione della natura surrogatoria, per la quale – mi pare il caso di aggiungere – si era espresso con decisione proprio lo studioso che in questa sede ricordiamo e onoriamo 10. Se si trattasse, infatti, di azione diretta, del tutto autonoma rispetto all’azione sociale di cui al precedente art. 2393, non avrebbe senso la previsione

C’è, peraltro, chi afferma che l’art. 2394 regolerebbe un istituto di natura composita, che per gli aspetti processuali sarebbe riconducibile all’azione surrogatoria, mentre per altri aspetti, specificamente quello della irrilevanza della rinunzia, dovrebbe accostarsi all’azione diretta: così Allegri, in Aa.Vv., Diritto commerciale, cit., p. 232. V., fra gli altri, Frè, Delle società per azioni5, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1982, p. 523 ss.; Galgano, Il nuovo diritto societario, cit., p. 290 ss.; Ferrara e Corsi, Gli imprenditori e le società14, Milano, 2009, p. 629; Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società6, a cura di M. Campobasso, Torino, 2008, p. 385 s.; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, 4, Torino, 1991, 439 ss.; Libonati, Creditori sociali e responsabilità degli amministratori nelle società di capitali, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, Torino, 2007, III, p. 629; Gambino e Santosuosso, Società di capitali, Torino, 2007, p. 137. Cfr. Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488, in Foro it., 1999, I, 1967 (in precedenza la Suprema Corte era decisamente incline verso la natura surrogatoria). 10 Pescatore, in Manuale di diritto commerciale8, a cura di Buonocore, Torino, 2007, p. 292. A favore della tesi della natura surrogatoria dell’azione ex art. 2394 v., in particolare, Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1956, p. 329 ss.; G. Ferri, Le società2, in Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, 1985, p. 683 ss.; G. Ferri, Manuale di diritto commerciale12, a cura di Angelici e G.B. Ferri, Torino, 2006, p. 362 ss.; Cottino, Diritto societario, Padova, 2006, p. 435 s. (ma v. anche A. Nigro, Le società per azioni nelle procedure concorsuali, in Tratt. soc. per az., cit., 9**, Torino, 1993, p. 374 s.).

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dell’irrilevanza della rinunzia della società e ancor meno senso la previsione della rilevanza, invece, della transazione, con il solo rimedio della revocatoria. Se si trattasse di azione diretta, sia la rinunzia sia la transazione dovrebbero essere automaticamente irrilevanti o per lo meno, quanto alla transazione, rilevante solo sul piano della determinazione del quantum del risarcimento spettante al creditore. Comunque, anche a voler ritenere – ed è l’opinione più diffusa – che la formulazione della norma, in sé considerata, non offra elementi determinanti né in un senso né nell’altro (si è parlato al riguardo, ricordo, di match pari 11), vi sono almeno due ordini di argomenti – comunemente trascurati o in ogni caso sottovalutati – che mi parrebbero decisivi nel senso della natura surrogatoria. 4. Il primo ordine di argomenti è derivabile proprio dalle premesse prima delineate. Se si muove, infatti, dalla considerazione che ai creditori di qualsiasi impresa collettiva deve riconoscersi il diritto di agire in surrogatoria nei confronti degli amministratori di tale impresa per la mala gestio dei medesimi e che, quindi, anche ai creditori di società per azioni dovrebbe comunque riconoscersi una simile azione, non è difficile convincersi che con l’art. 2394 si è puramente e semplicemente inteso disciplinare proprio quell’azione e disciplinarla nel modo più idoneo per il conseguimento dell’obiettivo avuto di mira, vale a dire, da un lato, con una precisa delimitazione del presupposto (per ridurre il rischio di azioni di disturbo suscettibili di intralciare l’efficiente esercizio della funzione amministrativa 12); e, dall’altro, con la neutralizzazione delle rinunce da parte della società, per evitare il rischio di facile depotenziamento dell’azione dei creditori attraverso la connivenza fra amministratori e maggioranza. Non è difficile convincersi, cioè, che l’art. 2394 è da intendere non come norma che introduce uno strumento di tutela, ma come norma che modella opportunamente (in termini talvolta di riduzione, talaltra di ampliamento) uno strumento di tutela in effetti già presente. Se così non fosse, dovrebbe ammettersi l’esistenza, accanto all’azione ex art. 2394, suppostamente diretta, di un’azione surrogatoria retta dal diritto comune 13: con una duplicazione di tutele, allora, rispet-

Minervini, Gli amministratori, cit., p. 332. V. ancora Pescatore, in loc. cit. 13 Il che viene talvolta ammesso: v. Libonati, Creditori sociali, cit., p. 629. 11 12

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to a uno stesso pregiudizio, che risulterebbe, per un verso, ridondante e, per altro verso, non pienamente in linea con gli obiettivi perseguiti dal legislatore. Non mi sembra irrilevante, sotto l’aspetto qui considerato, la circostanza che molti degli ordinamenti a noi più vicini o non prevedono affatto una responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali, con conseguente applicazione allora delle norme di diritto comune: è il caso dell’ordinamento francese e di quello belga, dove rispettivamente l’art. L. 225-251 del code de commerce e l’art. 263 del code des sociétés stabiliscono puramente e semplicemente – con una formulazione analoga a quella dell’art. 147 del nostro cod. comm. 1882 – che gli amministratori sono responsabili nei confronti della società e nei confronti dei terzi; e dove, pertanto, i creditori hanno soltanto l’azione surrogatoria secondo appunto le regole generali. Oppure contemplano sì specificamente un’azione dei creditori sociali per la mala gestio degli amministratori, ma modellandola espressamente come azione surrogatoria: è il caso, da un lato, dell’ordinamento spagnolo, dove l’art. 133 della legge sulle società anonime del 1989 stabilisce in generale che gli amministratori sono responsabili nei confronti della società, nei confronti dei soci e nei confronti dei creditori sociali del danno causato per atti o omissioni ecc. e l’art. 134, rubricato “azione sociale di responsabilità”, precisa, al co. 5, che “I creditori della società potranno esercitare l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori quando non sia stata esercitata dalla società o dagli azionisti, sempre che il patrimonio sociale risulti insufficiente al soddisfacimento dei loro crediti” (disposizione pacificamente interpretata appunto in chiave surrogatoria 14); e, dall’altro, e ancor più significativamente dell’ordinamento portoghese, dove l’art. 78 del codice delle società anonime detta una apposita disciplina della responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori sociali (una disciplina che segue linee assai simili a quelle del nostro ordinamento: in ordine al presupposto dato dalla insufficienza del patrimonio al soddisfacimento dei creditori, alla irrilevanza della rinunzia da parte della società, alla legittimazione esclusiva del curatore fallimenta-

14 “El acreedor tampoco reclama para sí, sino para la sociedad, en beneficio de la cual se esercita subsidiariamente la acción social ante la pasividad o negligencia de la propia sociedad y de los accionistas; el acreedor tutela así su interés indirecto o derivativo en la integridad del patrimonio, por la función de garantìa de éste en el cumplimiento de las obligaciones sociales”: così Uría, Menéndez e García de Enterría, in Uría e Menéndez, Curso de derecho mercantil, Madrid, 1999, I, p. 916.

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re), espressamente richiamando le norme del codice civile portoghese in materia di azione surrogatoria. Certo, ci sono sistemi nei quali l’azione dei creditori sembra atteggiarsi come azione diretta. È il caso dell’ordinamento tedesco, dove il par. 93, co. 5, dell’AktG, secondo il quale “i creditori della società, ove questa non sia in grado di soddisfarli, possono esercitare il diritto al risarcimento in luogo della società”, viene interpretato dalla dottrina 15 nel senso che il creditore sociale possa e debba agire per ottenere la reintegrazione del proprio patrimonio non di quello della società. Va tenuto presente, però, che quell’ordinamento ignora, in generale, l’azione surrogatoria. 5. Il secondo ordine di argomenti poteva essere tratto, in passato, dal vecchio testo dell’art. 146, co. 2, l. fall., dove si stabiliva che “L’azione di responsabilità contro gli amministratori ecc. a norma degli artt. 2393 e 2394 del codice civile è esercitata dal curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori” – disposizione “doppiata” poi dall’art. 206 stessa legge, per il quale nell’ambito della procedura di liquidazione coatta “L’azione di responsabilità contro gli amministratori ecc., a norma degli artt. 2393 e 2394 del codice civile, è esercitata dal commissario liquidatore, previa autorizzazione della autorità che vigila sulla liquidazione” – e dal vecchio testo dello stesso art. 2394, co. 3, a norma del quale “In caso di fallimento o di liquidazione coatta amministrativa della società l’azione spetta al curatore del fallimento o al commissario liquidatore”. E può essere tratto oggi, oltre che dall’art. 206 l. fall. rimasto immutato, dall’art. 146, co. 2, nuovo testo, per il quale “Sono esercitate dal curatore… le azioni di responsabilità contro gli amministratori ecc.” e dal nuovo art. 2394-bis, per il quale “in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria le azioni di responsabilità previste nei precedenti articoli [fra cui appunto quella ex art. 2394] spettano al curatore, al commissario liquidatore e al commissario straordinario”. Ed è un ordine di argomenti molto semplice. Solo riconoscendo all’azione dei creditori ex art. 2394 natura surrogatoria si può infatti spiegare, senza difficoltà alcuna, l’attribuzione del potere di esercitarla, ove la società sia dichiarata fallita o sottoposta a liquidazione coatta o a amministrazione straordinaria, all’organo gestorio della procedura (curatore, ecc.): perché tale attribuzione – come chi scrive ha già avuto occasione

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V. per tutti Hüffer, Aktiengesetz3, München, 1997, p. 404 s., ove riferimenti.

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più volte di sottolineare 16 – si giustifica allora de plano, vuoi in termini generali con il normale subingresso dell’organo della procedura in tutte le azioni c.d. di massa, cioè nelle azioni spettanti ai creditori e dirette a ottenere, nell’interesse degli stessi, la ricostituzione del patrimonio del debitore, vuoi in termini specifici con la necessità (o opportunità) di sottrarre ai creditori una possibilità di azione che, per essere volta agli stessi obiettivi perseguibili dal curatore con l’azione ex art. 2393, determinerebbe interferenze e sovrapposizioni potenzialmente pregiudizievoli per il proficuo e ordinato svolgimento della procedura concorsuale. Il discorso cambia radicalmente se all’azione ex art. 2394 si attribuisca la natura di azione diretta e autonoma rispetto a quella spettante alla società e quindi esperibile dal singolo creditore al fine di ottenere la condanna degli amministratori, non già alla reintegrazione del patrimonio sociale, ma al risarcimento dei danni a proprio favore. Perché allora – come, del pari, altre volte ho avuto occasione di sottolineare 17 – si tratterebbe di spiegare come una simile azione, una volta dichiarato il fallimento della società, possa “trasformarsi” da azione volta a reintegrare direttamente il patrimonio del singolo creditore in azione volta a reintegrare il patrimonio sociale: e non mi pare che finora qualcuno sia riuscito a farlo in modo appagante. Di recente, si è tentato di instaurare un parallelismo con l’azione revocatoria ordinaria, che prima del fallimento può essere esercitata dal singolo creditore a proprio vantaggio e che dopo il fallimento può essere esercitata solo dal curatore e a vantaggio della intera massa dei creditori 18. Ma così ragionando si trascura di considerare che nel caso della revocatoria il petitum – per usare termini processualistici – resta sempre lo stesso, che l’azione sia esercitata dal singolo creditore o dal curatore, ed è dato dal “recupero” al patrimonio del debitore del bene che ne sia uscito; mentre nel caso che stiamo considerando il petitum cambierebbe: quando l’azione è esercitata dal creditore il petitum sarebbe dato dalla reintegrazione del patrimonio di quel creditore; quando l’azione è esercitata dal curatore il petitum non può che essere dato dalla reintegrazione del patrimonio sociale. Ricordo qui un principio tanto fondamentale quanto spesso dimenticato o trascurato: la legittimazione sostitutiva del curatore, commissario

Per esempio in Le società per azioni, cit. Cfr., da ultimo, La responsabilità degli amministratori nel fallimento delle società, in RDS, 1998, p. 762; per un’analoga prospettiva v. anche G. Ferri, Manuale, cit., p. 363. 18 M. Rescigno, Rapporti, cit., p. 2129 s. 16 17

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liquidatore ecc. può riguardare soltanto le azioni esercitabili a vantaggio immediato e diretto del patrimonio oggetto dell’esecuzione concorsuale e quindi non può riguardare le azioni che soggetti diversi dal fallito (siano essi soci, terzi o creditori in genere) possono esercitare individualmente e a proprio diretto e immediato vantaggio nei confronti di altri soggetti a loro volta diversi dal fallito, quali sono gli amministratori 19. Del pari non mi sembra convincente l’affermazione, anch’essa avanzata di recente, secondo la quale lasciare ai singoli creditori la legittimazione all’azione diretta in pendenza del fallimento della società potrebbe compromettere il rispetto della par condicio fra i creditori ed esporrebbe la massa al pregiudizio derivante dall’eventuale insufficienza dei patrimoni dei soggetti responsabili 20. Quei patrimoni, com’è ovvio, restano del tutto estranei alla procedura aperta a carico della società; rispetto agli stessi non si pone neppure un problema di par condicio; in nessun modo, infine, tali patrimoni potrebbero ritenersi vincolati al soddisfacimento preferenziale dell’eventuale obbligazione risarcitoria nei confronti della società. 6. Si è cercato, da parte di alcuni, di dare rilevanza, in senso opposto a quanto qui sostenuto, al fatto che l’art. 2394-bis c.c., come l’art. 206 l. fall. e, prima, l’art. 146 stessa legge, preveda la distinta attribuzione agli organi delle procedure dell’azione ex art. 2393 e di quella ex art. 2394 21. Ma non credo che si tratti di un tentativo destinato al successo.

19 Si possono richiamare qui le limpide affermazioni rese di recente dalle SS. UU. con riguardo alla tematica della responsabilità per concessione abusiva di credito, affine, per l’aspetto che qui interessa, alla tematica che stiamo considerando: “in via di principio non si può ritenere… che nel sistema fallimentare il curatore sia titolare di un potere di rappresentanza di tutti i creditori, indistinto e generalizzato. Il sistema piuttosto prevede che la funzione del curatore sia diretta a conservare il patrimonio del debitore, garanzia del diritto del creditore, attraverso l’esercizio delle cosiddette azioni di massa, dirette a ottenere, nell’interesse del creditore, la ricostituzione del patrimonio predetto, come avviene per l’appunto attraverso l’esercizio delle azioni revocatorie e surrogatorie. Tale principio peraltro non è assoluto… ma va armonizzato con quello secondo il quale siffatta legittimazione ad agire, sostitutiva dei singoli creditori, non sussiste in presenza di azioni esercitabili individualmente in quanto dirette a ottenere un vantaggio esclusivo e diretto del creditore nei confronti di soggetti diversi dal fallito, come avviene mediante le azioni di cui agli artt. 2395 e 2449 c.c.” (Cass., SS. UU., 28 marzo 2006, n. 7029, in Dir. banc., 2007, I, 149, con nota di A. Nigro, Ancora sulla concessione “abusiva” di credito e sulla legittimazione del curatore fallimentare). 20 Da ultimo Silvestrini, Art. 2394-bis, in La riforma delle società, a cura di Sandulli e Santoro, Torino, 2003, I, p. 501 s. 21 V. in particolare Galgano, Il nuovo diritto societario, cit., p. 292.

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Questa distinta attribuzione ha un preciso significato e una precisa portata: da un lato, la sottrazione ai creditori della possibilità di agire in surrogatoria; e, dall’altro, la “trasmissione” al curatore del particolare regime che assiste l’azione dei creditori, specificamente per ciò che attiene all’inopponibilità della rinunzia all’azione da parte della società. Né sembri singolare l’“arricchimento” dell’azione sociale di responsabilità, ove esercitata nell’ambito di una procedura concorsuale e da parte degli organi della medesima, con quella inopponibilità. Nel contesto di una procedura concorsuale l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori della società sottoposta a quella procedura viene esercitata non più nell’interesse diretto della società e solo di riflesso dei creditori, bensì nell’interesse diretto di questi ultimi. È naturale, allora, che tale azione, nel momento in cui assorbe l’azione surrogatoria, venga a giovarsi del particolare presidio che assiste tale azione in funzione della tutela, appunto, dell’interesse dei creditori. Altro discorso è, ovviamente, se, per effetto di questa integrazione, l’azione sociale esercitata nel fallimento sia da qualificare come azione “derivante dal fallimento” ai fini dell’art. 24 l. fall., con tutto ciò che ne può allora conseguire in termini di competenza funzionale del tribunale fallimentare. Sarei propenso a rispondere negativamente: comunque mi parrebbe, questo, un problema di rilievo assai limitato. 7. Oltre a quelli fin qui illustrati vi sono molti altri ordini di ragioni che possono o potrebbero essere invocati a ulteriore sostegno della linea ricostruttiva che ho cercato in questa sede di difendere. In particolare, mi parrebbe che si possa valorizzare anche il fatto che tale linea consente di evitare quell’autentico groviglio di problemi che la linea opposta comporta (e credo che canone importante di interpretazione e ricostruzione della legge sia proprio quello che impone o quanto meno consiglia di preferire le ipotesi interpretative e ricostruttive che minimizzino le complicazioni). Infatti, con la lettura proposta trova piana soluzione, innanzitutto, il problema della natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità verso i creditori 22: si tratta sempre della responsabilità verso la società, di natura, quindi, sicuramente contrattuale.

22 Per la tesi secondo la quale la responsabilità ex art. 2394 avrebbe natura extracontrattuale v. in particolare Galgano, Il nuovo diritto societario, cit., p. 290; per la tesi della natura contrattuale v. invece Campobasso, Diritto commerciale. 2. Diritto delle società, cit., p. 384, ove riferimenti.

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Trova piana soluzione, poi, il problema della prescrizione, che decorrerà in ogni caso dal momento in cui la società e i creditori avrebbero potuto far valere il diritto della stessa società al risarcimento del danno 23. Trova piana soluzione, ancora, la complessa problematica dell’incidenza dell’azione del creditore, per un verso, sul rapporto fra amministratori e società e, per altro verso, sul rapporto fra lo stesso creditore e la società. Si tratta, anche qui, di un profilo tanto delicato quanto tendenzialmente trascurato. Ragionare in termini di azione diretta porta inevitabilmente a dover ritenere che l’eventuale esito positivo di quell’azione resti irrilevante rispetto ai suddetti rapporti e che pertanto, almeno in principio, il pagamento da parte dell’amministratore non comporti né la liberazione dell’amministratore dall’obbligazione risarcitoria nei confronti della società né la liberazione della società nei confronti del creditore. Con la conseguenza che l’amministratore rischierebbe di dover distintamente risarcire anche la società e che il creditore manterrebbe il suo diritto di credito nei confronti della società. Questo tipo di problemi resta ovviamente eliminato alla radice ragionando in termini di azione surrogatoria. Trovano piana soluzione, infine, con riferimento all’ipotesi di assoggettamento della società a una procedura concorsuale: – il problema della c.d. inscindibilità delle azioni attribuite al curatore e del potere dello stesso di scegliere quale azione esercitare, l’azione essendo in ogni caso unica, con le caratteristiche sopra viste 24; – il problema della proseguibilità dell’azione proposta dal curatore dopo la chiusura del fallimento, proseguibilità da ritenere sicura 25. Si può aggiungere che ritenere l’azione ex art. 2394 un’azione di tipo surrogatorio sicuramente aiuta a risolvere in senso affermativo il problema se tale azione sia esperibile, nonostante il silenzio della legge sul punto, anche nei confronti degli amministratori di s.r.l. 26 e quello,

Su questo tema sia consentito il rinvio ad A. Nigro, Le società per azioni, cit., p. 376. Anche qui sia consentito il rinvio ad A. Nigro, loc. cit. 25 In argomento v. Cass., 2 luglio 2007, n. 14961, in Foro it., Rep. 2007, voce Fallimento, n. 689. 26 Dottrina e giurisprudenza sono, come è noto, profondamente divise sul punto: per la tesi dell’inapplicabilità dell’art. 2394 alle s.r.l. v., fra gli altri, Associazione Preite, Il diritto delle società, Bologna, 2004, p. 290; Di Amato, Le azioni di responsabilità nella nuova disciplina della società a responsabilità limitata, in Giur. comm., 2003, I, p. 301; e, in giurisprudenza, Trib. Milano, 25 gennaio 2006, in Le società, 2007, 320; per la tesi dell’applicabilità v. invece, fra gli altri, Zanarone, in Aa.Vv., Diritto commerciale, cit., p. 334; Cagnasso, La società a 23

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connesso, della attribuzione al curatore della relativa legittimazione nell’ipotesi di fallimento 27. Un ultimo punto, proprio sul terreno dei vantaggi o degli svantaggi, merita attenzione. Ed è che la soluzione che attribuisce natura surrogatoria all’azione ex art. 2394 c.c. non comporta affatto un “arretramento” della tutela dei creditori. Sia la dottrina sia soprattutto la giurisprudenza tendono infatti a ritenere possibile, pur se in via eccezionale, la c.d. surrogazione satisfattiva, che consente al creditore di ottenere direttamente dal debitore del suo debitore la prestazione dovuta, “compattando” in un unico giudizio il momento dell’accertamento e quello della esecuzione 28. Questo significa che, sussistendo per esempio il rischio concreto che, all’esito dell’esperimento fruttuoso dell’azione surrogatoria con reintegrazione del patrimonio sociale, questo patrimonio possa di nuovo essere intaccato, il creditore sociale potrebbe, in sede di giudizio nei confronti degli amministratori, chiedere e ottenere che gli stessi, una volta riconosciuti responsabili, siano condannati a pagare non la società, ma il creditore stesso a soddisfacimento del di lui credito. Con il quale il creditore sociale ottiene lo stesso risultato che otterrebbe con la supposta azione diretta.

III 8. Resta da dire dell’azione ex art. 2395 c.c. Qui le incertezze sono, come è noto, di gran lunga minori, i nodi critici più rilevanti essendo rappresentati, essenzialmente:

responsabilità limitata, cit., p. 266; A. Nigro, Diritto societario e procedure concorsuali, in Il nuovo diritto delle società, cit., I, p. 196 s.; Teti, La responsabilità degli amministratori di s.r.l., ibidem, III, p. 660 ss.; Ambrosini, Le azioni di responsabilità, in Ambrosini, Cavalli, Jorio, Il fallimento, in Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, 2009, p. 745 s.; e, in giurisprudenza, Trib. Pescara, 15 novembre 2006, in Foro it., 2007, I, 2262. 27 È stato infatti rilevato che la tesi della natura autonoma dell’azione ex art. 2394 ne consente sì l’estensione anche alle s.r.l. ma ha una precisa ricaduta applicativa: la permanenza in capo ai creditori sociali della legittimazione al suo esercizio anche in caso di fallimento della società (così Abriani, in Aa.Vv, Diritto commerciale. Manuale breve, Milano, 2004, p. 316; Zamperetti, Art. 2394, in Il nuovo diritto societario, diretto da Cottino e Bonfante, Cagnasso, Montalenti, Bologna, 2004, p. 828). 28 Per tutti gli opportuni riferimenti v. Patti, L’azione surrogatoria, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 20, Torino, p. 107 s.

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– da quello dell’ambito della responsabilità che il socio o il terzo può far valere, se circoscritto alla sola attività di gestione o esteso anche agli atti compiuti al di fuori di tale attività; – da quello della natura di tale responsabilità, se extracontrattuale o contrattuale; – da quello della sorte dell’azione nel caso di sottoposizione della società al fallimento. E si tratta di nodi critici risolvibili tutti senza particolari difficoltà, specie se si muove, anche qui, da talune delle premesse poste prima. Così, se si muove dall’idea che l’intero sistema della responsabilità degli amministratori mira a un unico obiettivo, cioè la tutela della “sana e prudente gestione” dell’impresa societaria da parte dei suddetti amministratori è giocoforza ritenere che l’ambito della responsabilità ex art. 2395 concerna esclusivamente gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni amministrative, restando irrilevanti gli atti che a tale esercizio siano estranei e che pertanto in nessun modo possono coinvolgere la società 29. Ugualmente, se si muove dalla considerazione che comunque ai terzi e ai soci danneggiati da atti degli amministratori spetterebbe un’azione ex art. 2043 nei confronti dei medesimi, non è difficile convincersi che di tale azione quella prevista dall’art. 2395 costituisca specificazione e che quindi a quest’ultima debba attribuirsi natura extracontrattuale 30. E infine, se si parte dalla constatazione che la legittimazione sostitutiva del curatore, commissario liquidatore ecc. può riguardare soltanto le azioni esercitabili a vantaggio immediato e diretto del patrimonio oggetto dell’esecuzione concorsuale e quindi non può riguardare le azioni che soggetti diversi dal fallito possono esercitare individualmente e a proprio

29 In questo senso v., per tutti, Minervini, Gli amministratori, cit., p. 363 ss.; Galgano, Il nuovo diritto societario, cit., p. 295; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, cit., p. 451; Adiutori, Funzione amministrativa e azione individuale di responsabilità, Milano, 2000, p. 9 ss.; Cass., 8 luglio 1991, n. 7534, in Giur. it., 1991, I, 1, 1131. Diversamente Cass., 3 aprile 2007, n. 8359, in Foro it., Rep. 2007, voce Società, n. 682. 30 Così la dottrina e la giurisprudenza prevalenti: v., per tutti, G. Ferri, Le società, cit., p. 688; Ferrara e Corsi, Gli imprenditori, cit., p. 632; Galgano, Il nuovo diritto societario, cit., p. 295 ss.; Allegri, in Aa.Vv., Diritto commerciale, cit., p. 232; Pinto, La responsabilità degli amministratori per “danno diretto” agli azionisti, in Il nuovo diritto delle società, cit., p. 897 ss.; Cass., 3 aprile 2007, n. 8359, cit.; Cass., 3 dicembre 2002, n. 17110, in Foro it., 2003, I, 2438. Per la tesi della natura contrattuale v. peraltro F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, cit., p. 451 s.; Pescatore, in Manuale, cit., p. 293 s.; Adiutori, Funzione amministrativa, cit., p. 70 ss.

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diretto e immediato vantaggio nei confronti di altri soggetti a loro volta diversi dal fallito, quali sono gli amministratori 31, è agevole concludere che l’azione ex art. 2395 può essere proposta autonomamente dagli interessati anche in pendenza della procedura concorsuale aperta a carico della società, restando esclusa ogni legittimazione del curatore 32. Ho detto prima che l’art. 2395 costituisce specificazione dell’art. 2043. Qui bisogna aggiungere che il confronto fra la figura generale, dell’art. 2043 appunto, e la figura particolare mostra come l’elemento differenziale debba individuarsi nell’avverbio “direttamente”, che secondo l’opinione dominante porta a escludere la proponibilità dell’azione del socio nel caso di danno subito di riflesso al pregiudizio arrecato dall’amministratore al patrimonio sociale 33, danno che invece, ove sia conseguenza immediata dell’illecito, dovrebbe essere, in base alle regole generali, risarcibile 34. Ne deriva che anche l’art. 2395, al pari dell’art. 2394, è da intendere non come norma che introduce uno strumento di tutela, ma come norma che modella opportunamente (questa volta solo in termini limitativi) uno strumento di tutela in effetti già presente 35. 9. Debbo subito aggiungere, peraltro, che la lettura data dall’opinione dominante all’art. 2395 risulta non in linea con quanto derivabile dall’art. 2497 c.c., là dove consente al socio di una società soggetta a eterodirezione, nell’ipotesi di abuso della medesima, di ottenere il risarcimen-

31 Principio alla cui luce deve interpretarsi il disposto dell’art. 146, co. 2, lett. b), l. fall., secondo il quale spetta al curatore la legittimazione a esercitare l’azione di responsabilità contro i soci della s. r. l. nei casi previsti dall’art. 2476, co. 7, c.c.: disposto che va letto pertanto come riguardante solo gli atti dannosi per la società e non anche gli atti dannosi per i soci e per i terzi (sulle due possibili letture v. Guglielmucci, Diritto fallimentare3, Torino, 2008, p. 286). 32 Sia consentito il rinvio ad A. Nigro, La responsabilità, cit., p. 759. Analogamente, fra gli altri, Toffoletto, in Aa.Vv., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, p. 263; Ambrosini, Le azioni di responsabilità, cit., p. 740 s.; Caridi, Art. 146, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006, p. 883 ss. 33 Cfr., per tutti, Minervini, Gli amministratori, cit., p. 366 s.; Ferrara e Corsi, Gli imprenditori, cit., p. 631; Galgano, Il nuovo diritto societario, cit., p. 295; F. Bonelli, La responsabilità degli amministratori, cit., p. 445 ss.; Adiutori, Funzione amministrativa, cit., p. 4. 34 Sul punto v. da ultimo Pinto, La responsabilità, cit., p. 922 ss. 35 Si giustifica l’esclusione della possibilità per il socio di ottenere il risarcimento del danno subìto “di riflesso” con l’esigenza di impedire – a tutela dell’integrità del patrimonio sociale – che esso socio si appropri uti singulus del valore derivante dalla riparazione del danno prodottosi nel patrimonio sociale: v. in argomento Pinto, La responsabilità, cit., p. 928 s., ove ulteriori riferimenti.

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to del danno da esso socio subito in termini di pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale, cioè il risarcimento, proprio, di quello che la ricordata opinione dominante ha sempre considerato danno “riflesso”. Posto che la fattispecie di responsabilità prevista dall’art. 2497 è chiaramente modellata su quella dell’art. 2395, potrebbe arrivare a ritenersi che anche ai fini di quest’ultima norma il pregiudizio arrecato alla redditività e al valore della partecipazione sociale sia risarcibile e, pertanto, sia da considerare in effetti come danno diretto. La dottrina tende a escludere questo esito interpretativo, affermando che l’art. 2497 costituirebbe deroga alla regola posta dall’art. 2395 36: ma non mi pare che abbia finora fornito una soddisfacente spiegazione del perché di questa deroga. È fin troppo chiaro, comunque, che, ove dovesse arrivarsi – sulla base dell’art. 2497 – a una interpretazione dell’art. 2395 che consenta di far valere anche i danni riflessi o certi danni riflessi, ne risulterebbe ulteriormente confortata la tesi sopra difesa in ordine all’art. 2394. Perché allora l’azione ex art. 2395 risulterebbe idonea ad abbracciare anche quell’azione diretta dei creditori che si vorrebbe prevista dall’art. 2394 e che mira a ottenere il ristoro proprio di un danno riflesso.

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36 V. per tutti G. Ferri, Manuale, cit., p. 498; Cariello, Art. 2497, in Società di capitali. Commentario, cit., p. 1872 ss.

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Il servizio di “consulenza in materia di investimenti”: profili ricostruttivi di una nuova fattispecie*

Sommario: 1. La “consulenza in materia di investimenti”: una fattispecie dai precisi contorni e coerente con l’esigenza di tutela del cliente? − 2. I nodi problematici. − 3. In relazione alla personalizzazione della raccomandazione: la «adeguatezza». − 4. In relazione all’oggetto della raccomandazione. − 4.1. I prodotti «di genere». − 4.2. Il «paniere» di prodotti e la neutralità del consulente rispetto agli investimenti consigliati. − 4.2.1. Rilievo della normativa del «tied agent». − 4.2.2. (Segue). Irrilevanza dell’art. 18-bis t.u.f. in tema di consulenti finanziari indipendenti. − 4.2.3. Consulenza, disciplina del conflitto di interessi dell’intermediario e regola di adeguatezza. − 5. La consulenza «preparatoria». − 6. Perimetrabilità della nozione di consulenza e sua coerenza all’esigenza di tutela del cliente.

1. La “consulenza in materia di investimenti”: una fattispecie dai precisi contorni e coerente con l’esigenza di tutela del cliente? In conseguenza del recepimento nel t.u.f. dell’articolato plesso normativo di origine comunitaria che va sinteticamente sotto il nome di «MiFID» , la “consulenza in materia di investimenti” rientra oggi a

Lo scritto è destinato agli “Studi in onore di Francesco Capriglione”. È appena il caso di ricordare che, in linea con il c.d. metodo Lamfalussy, l’approccio normativo della MiFID (Market in Financial Instruments Directive) si articola in una direttiva di “livello 1” – la direttiva 21 aprile 2004 (2004/39/CE), ove sono stabiliti i principi quadro di carattere generale – e in una direttiva di “livello 2”, la direttiva 10 agosto 2006 (2006/73/CE), ove sono previste le misure di esecuzione; segue poi il “livello 3” costituito dagli orientamenti interpretativi non vincolanti della commissione, del CESR (Committee of European Securities Regulators) e delle autorità nazionali di vigilanza; nonché il “livello 4” che prevede il c.d. enforcement, ossia il controllo sull’osservanza della disciplina. *

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tutti gli effetti nel novero dei servizi finanziari che costituiscono attività riservata (secondo quanto disposto dall’art. 1, co. 5, lett. f), e dall’art. 18, co. 1, t.u.f.). Inoltre, di tale fattispecie è ora dato rinvenire, per la prima volta, una specifica definizione a livello di norme di rango primario, espressa dall’art. 1, co. 5-septies. Nel contesto dell’impianto MiFID poi − in cui, com’è noto, si è scelto di modulare il livello di protezione dell’investitore (distinguendo tra regime di adeguatezza, di appropriatezza e della c.d. «execution only») in funzione del tipo di servizio finanziario richiesto, oltre che della natura (retail o professionale o di controparte qualificata) dell’investitore medesimo –, la consulenza, al pari solo del servizio di gestione di portafogli, risulta soggetta, sotto il profilo della disciplina applicabile agli intermediari, alle più stringenti regole di comportamento in cui si concreta la normativa di adeguatezza .

Al riguardo, si esprime con chiarezza l’art. 19, par. 4, direttiva MiFID di “livello 1”, ove si precisa che «quando effettua consulenza in materia di investimenti o gestione di portafoglio, l’impresa di investimento ottiene le informazioni necessarie […] per essere in grado di raccomandare i servizi di investimento e gli strumenti finanziari adatti al cliente o al potenziale cliente»; e che si tratta di informazioni «in merito alle conoscenze e esperienze del cliente o potenziale cliente, in materia di investimenti riguardo al tipo specifico di prodotto o servizio, alla situazione finanziaria e agli obiettivi di investimento». Sulla stessa linea, si collocano anche gli artt. 35 e 37 della direttiva MiFID di “livello 2”, recepiti poi nel nostro ordinamento dagli artt. 39 ss. del Regolamento Intermediari n. 16190/2007. Segnala l’introduzione, per effetto della MiFID, del controllo di adeguatezza nella disciplina comunitaria dei servizi di investimento Perrone, La responsabilità degli intermediari: tutela del risparmiatore incolpevole o “copertura assicurativa” per investimento sfortunato?, in Banca impresa soc., 2008, 389 ss., secondo cui tale controllo sarebbe da leggersi, nell’impianto MiFID, in termini di eccezione rispetto alla regola, che consisterebbe invece nel modello della libera decisione informata. Per qualche rilievo critico rispetto a tale impostazione v. però infra nel testo. Primi commenti sulla regola dell’adeguatezza si rinvengono in Fiorio, La non adeguatezza delle operazioni di investimento tra nuova e vecchia disciplina, in Banche consumatori e tutela del risparmio, a cura di Ambrosini e Demarchi, Milano, 2009, p. 161 ss.; Spreafico, Le valutazioni di adeguatezza e di appropriatezza, in MiFID. La nuova disciplina dei mercati, servizi e strumenti finanziari, a cura di Zitiello, Torino, 2007, p. 196 ss.; Perrone, Obblighi di informazione, suitability e conflitti di interesse: un’analisi critica degli orientamenti giurisprudenziali e un confronto con la nuova disciplina MiFID, in I soldi degli altri. Servizi di investimento e regole di comportamento degli intermediari, a cura di Perrone, Milano, 2008, p. 11 ss.; Sartori, Le regole di adeguatezza e i contratti di borsa: tecniche normative, tutele e prospettive MiFID, in Riv dir. priv., 2008, 27 s.; Sangiovanni, Operazione inadeguata dell’intermediario finanziario fra nullità del contratto e risarcimento del danno alla luce della direttiva MiFID, in Contr., 2007, 249 ss.; Frumento, La valutazione di adeguatezza e di appropriatezza delle operazioni di investimento nella Direttiva MiFID, ivi, 2007, 583 ss.

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È venuto così a compiersi una sorta di “doppio salto” rispetto alla situazione normativa (nazionale e comunitaria) immediatamente previgente, ove la consulenza – figurando tra i servizi accessori (art. 1, co. 6, lett. f), t.u.f. versione originaria) – era un’attività priva di una puntuale definizione legislativa e “libera”. Senza mezze parole, la ragione di tale salto è individuata, nel milieu comunitario, nella necessità di innalzare la tutela degli investitori: data la loro «sempre maggiore dipendenza […] dalle raccomandazioni personalizzate» e dato che negli ultimi anni è assai cresciuto il numero dei soggetti «che operano nei mercati finanziari e l’ampia gamma di servizi e strumenti che viene loro offerta è diventata ancora più complessa» (così rispettivamente il 3° e il 2° considerando della direttiva MiFID di “livello 1”) . Nelle sue linee ispiratrici, l’approccio all’attività di consulenza adottato dal legislatore europeo – che viene, peraltro, ex post a confermare la bontà dell’ormai risalente scelta di pari segno operata in proposito, nel nostro ordinamento, dalla l. n. 1/91 e poi abbandonata dal d.lgs. 23 7 1996, n. 415 (cd. Eurosim) per la necessità di conformarsi alle diverse prescrizioni della, nel frattempo intervenuta, direttiva ISD n. 93/22/CEE – appare sicuramente da apprezzare. In particolare, corretta e del tutto condivisibile risulta la considerazione di base su cui l’opzione MiFID in punto di consulenza si impernia: l’attribuzione all’attività di “consiglio” (qui intesa, in via di prima approssimazione, nei termini di una “raccomandazione personalizzata”, ovvero resa a un determinato investitore sulla base delle caratteristiche sue proprie) di un ruolo cru-

Come puntualmente osservato da De Mari, La consulenza in materia di investimenti: prime valutazioni e problemi applicativi, in Dir. banc., 2008, I, p. 395, la scelta di porre sullo stesso piano il servizio di consulenza e quello di gestione di patrimoni origina, in particolare, dal fatto che, al di là della forma contrattuale del rapporto, tali servizi – entrambi oltretutto destinati, in genere, agli investitori meno avveduti – si pongono, in sostanza, sullo stesso livello di complessità e responsabilità. A conferma di ciò basti rilevare come nella prassi, prima dell’emanazione della MiFID, spesso sotto le spoglie della consulenza venivano celate vere e proprie gestioni patrimoniali. Nel contesto della l. n. 1/91, la consulenza in materia di valori mobiliari figurava, infatti, tra le attività di intermediazione mobiliare che potevano essere esercitate solo da sim e da banche sulla base del rilascio di un’apposita autorizzazione. Nel quadro, invece, della direttiva 93/22/CEE, relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari, la consulenza era ricompresa nell’elenco dei “servizi accessori” (di cui all’allegato C della direttiva medesima) ed era, di conseguenza, attività libera. Per alcuni rilievi critici sulla scelta comunitaria v. Annunziata, I primi regolamenti di attuazione del decreto Eurosim, in Riv. soc., 1997, 450 ss.; Ferrarini, Novità e problemi del Decreto Eurosim, in Banca, borsa, tit. cred., 1996, I, 884 ss.

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ciale nel settore finanziario, sì da renderne necessaria, oltre che la sua attrazione nell’alveo delle attività riservate, anche la sua sottoposizione ad una strategia normativa differente e più intensa rispetto a quella di pura disclosure . Da quest’angolo visuale, anzi, nell’impianto complessivo della MiFID, proprio la scelta di portare oltre la linea della trasparenza, sotto il profilo del livello di tutela offerto al cliente, non solo la gestione di patrimoni, ma anche l’attività di consulenza appare una fra quelle più interessanti e maggiormente rivelatrici di come, anche a livello comunitario, l’insufficienza – nell’ottica della tutela dell’investitore e dell’efficienza del mercato – di una strategia normativa di pura disclosure sia ormai venuta allo scoperto . Tuttavia, sin dall’immediatezza dell’emanazione della direttiva, a tale scelta è toccata un’accoglienza non pienamente favorevole: da più parti infatti – sia sul versante dottrinale, che su quello delle Autorità di vi-

Già durante il dibattito che ha preceduto l’adozione della MiFID – come ricorda PerLa responsabilità degli intermediari, cit., p. 389 ss. – si erano venute a contrapporre due diverse visioni del modello di protezione dell’investitore: quella c.d. market driven (diretta a tutelare il risparmio mediante la correzione delle imperfezioni del mercato che ne impediscono l’efficiente funzione allocativa) e quella caratterizzata da un approccio di tipo paternalistico (più propensa ad intervenire sul rapporto contrattuale di cui è parte l’investitore, in funzione di protezione del cliente retail). La scelta finale, frutto di delicati compromessi, è comunque caduta su un approccio innovativo rispetto al passato: un choice-based and regulation light approach (sul punto v. già Moloney, Building a Retail Investment Culture through Law: The 2004 Markets in Financial Instruments Directive, in European Business Organization Law Review, vol. 6, 2005/3, p. 348). Prima dell’entrata in vigore della MiFID e del corrispondente quadro regolamentare, auspicavano esplicitamente l’ingresso di forme di protezione più incisive per l’investitore rispetto al mero obbligo di informazione «fino all’introduzione per le cosiddette operazioni inadeguate del divieto inderogabile di esecuzione ad opera degli intermediari» Dolmetta-Minneci, Borsa (contratti di), in Enc. dir., V, Milano, 2001, 180. Il superamento sul piano normativo della strategia di pura disclosure appare, del resto, in stretta connessione con la crisi vissuta negli ultimi anni dalla teoria economica neoclassica basata sullo stereotipo dell’homo oeconomicus come individuo perfettamente razionale che assume comportamenti economici regolati dai principi di egoismo, perfette informazioni ed utilità decrescente al margine. Tale impostazione è stata, infatti, messa in discussione con convinzione crescente dalla tesi (cd. behavioral finance) secondo cui lo sviluppo di una dottrina economica coerente con i comportamenti degli agenti non può prescindere dalla valutazione delle componenti psicologiche (in particolare, cognitive ed emotive) che incidono sulla dinamiche decisionali individuali (al riguardo v., per tutti, Pompian, Behavioral finance and Wealth management, New Jersey, 2006, p. 15; Motterlini e Guala, Economia cognitiva e sperimentale, Milano, 2005, p. 1 ss.).

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gilanza europee e degli operatori –, insieme a un apprezzamento di massima sulla nuova opzione disciplinare, sono state sollevate alcune, non marginali perplessità e, più in generale, è emerso un certo grado di scetticismo. Più precisamente, a risultare messa in dubbio – per via di osservazioni varie per natura, spessore e portata – è stata, ed è tuttora, la stessa premessa di base su cui l’appena riferita scelta normativa poggia: ovvero, al fondo, che la fattispecie “consulenza in materia di investimenti” sia dotata di effettiva attitudine ad individuare sul piano operativo un fenomeno dai precisi contorni. Così, in particolare, la fattispecie in discorso è apparsa, ai primi commentatori, segnata da alcune zone d’ombra circa i suoi esatti confini , con conseguente elevato rischio di oscillazioni interpretative assai pericolose, specie alla luce delle più sopra cennate scelte normative di carattere disciplinare fatte proprie dalla MiFID . A fronte di tali incertezze – e considerate anche, da un canto, l’inspiegabile sottrazione, compiuta dalla MiFID, del contratto di consulenza dal requisito della forma scritta ; dall’altro, le ben note oggettive difficoltà di prova delle concrete modalità di svolgimento di un servizio di investimento –, facilmente comprensibile risulta allora un’ulteriore reazione verificatasi fra gli operatori e le autorità di vigilanza. Forte si è diffuso, infatti, in tali ambiti, il timore che un qualunque contatto one to one tra intermediario e cliente, per quanto impostato, ad esempio, alla stregua di una negoziazione di strumenti finanziari e, perciò, non “praticato”

Censura apertamente la nuova normativa europea per le zone d’ombra e i consistenti margini d’incertezza della fattispecie di consulenza Roppo, Promotori finanziari e mercato del risparmio. Un mercato che cambia, una professione che cresce, in Dir. banc, 2008, 25. A titolo di esempio, e in via di anticipazione rispetto a tematiche che verranno approfondite infra nel testo, basti pensare alle opinioni fortemente discordanti sin qui registrate riguardo a profili nevralgici di questa tipologia di servizio di investimento quali l’appartenenza oppure no alla medesima della cd. consulenza preparatoria o strumentale (v. infra n. 5); come anche la necessaria o meno neutralità strutturale del consulente rispetto ai prodotti consigliati (v. infra n. 4.2.). L’esclusione della forma scritta per il contratto di consulenza risulta in modo chiaro dal 41° considerando della direttiva di “livello 2”, ove si prescrive espressamente «alle imprese di investimento che forniscono servizi di investimento diversi dalla consulenza in materia di investimenti a nuovi clienti al dettaglio di concludere un accordo di base scritto con il cliente in cui vengano fissati i diritti e gli obblighi essenziali dell’impresa e del cliente». Come accennato nel testo, tale esenzione risulta incomprensibile e controproducente: basti pensare a quanto possa essere importante definire i contorni della prestazione di consulenza dal punto di vista oggettivo (sul punto v. anche infra n. 4.2.3.).

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secondo la regola di adeguatezza, potesse essere in seguito riqualificato in via giudiziale “consulenza”, con conseguente responsabilità dell’intermediario derivante dalla violazione di obblighi di comportamento. E tale timore si è tradotto – in linea con la posizione subito adottata dal CESR (Commitee of European Securities Regulators) 10 – nel diffuso suggerimento dei regulators 11 agli intermediari di generalizzare il controllo di adeguatezza ad ogni interlocuzione individualizzata con la clientela, al di là della sussistenza o meno in concreto degli specifici requisiti di fattispecie 12.

In questa prospettiva v. Committee of European Securities Regulators, CESRs Technical Advice on Possible Implementing Measures of the Directive 2004/39/EC on Markets in Financial Instruments, April 2005, in www.cesr-eu.org, 10. 11 Al riguardo, la Consob ha già avuto modo di chiarire (Prime linee di indirizzo in tema di consulenza in materia di investimenti – Esito delle consultazioni – 30 ottobre 2007) e ha, di recente, ribadito (nella Comunicazione n. 9019104 del 2 marzo 2009 – che costituisce il Livello 3 del Regolamento Intermediari – in tema di dovere dell’intermediario di comportarsi con correttezza e trasparenza in sede di distribuzione di prodotti finanziari illiquidi) che «non è escluso, in via astratta, che i servizi di collocamento o di ricezione e trasmissione ordini (o di esecuzione di ordini o negoziazione per conto proprio) siano posti in essere senza essere accompagnati da consulenza. Tuttavia, nel caso, l’intermediario deve approntare meccanismi (contrattuali, organizzativi, procedurali e di controllo) per rendere effettiva la conformazione dei propri collaboratori e dipendenti a contatto con la clientela a predefiniti modelli relazionali, nel presupposto che, di fatto, vista l’ampia nozione di consulenza resa dal legislatore in attuazione delle fonti comunitarie, può risultare elevato (specie quando si utilizzino forme di contatto non “automatiche”) il rischio che l’attività concretamente svolta sfoci nel presentare un dato strumento finanziario come adatto per quel cliente, integrando così la ‘consulenza in materia di investimenti’». 12 Nonostante sul piano del diritto positivo – ovvero in regime MiFID – anche la Financial Services Authority (FSA) tenda a estendere l’ambito di applicazione della attività di consulenza, intendendo come consulenza anche quella implicitamente offerta dal fornitore dei servizi nel momento in cui fornisce informazioni sui prodotti, va segnalato però che, in un’ottica de lege ferenda, la FSA si collochi su una posizione parzialmente differente (per maggiori informazioni in proposito v. Nelson, Capital Markets Law and Compliance: The Implications of MIFID, New York, 2008). Come emerge infatti da una serie di documenti reperibili sul sito www.fsa.gov.uk, la FSA ha l’intenzione di implementare un processo di riforma legislativa dei mercati finanziari (da compiersi entro la fine del 2012), volto a tutelare gli investitori e a promuovere la fiducia nei mercati, migliorando la comprensibilità dei differenti tipi di servizi finanziari, la qualità degli standard professionali e riducendo la presenza dei conflitti di interesse nei meccanismi di remunerazione. In questa prospettiva, l’obiettivo dichiarato del regolatore inglese è quello di distinguere in maniera netta, per offrire al mercato e agli investitori un panorama più semplice e facilmente comprensibile, la consulenza vera e propria dalla vendita (nelle due possibili forme dell’execution only e della guided sales, ove la vendita è accompa10

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Simile reazione ha certo, in questa prima fase, evitato che il regime di adeguatezza non fosse per nulla applicato dove pure avrebbe dovuto esserlo 13. Ciononostante, però, la realizzazione su base volontaria e negoziale di una sorta di goldplating – che, a livello normativo, peraltro la MiFID non consente – proprio non può soddisfare. E non solo perché, per questa via, si finisce per mortificare la strategia normativa comunitaria: in sostanza cancellandosi quella diversificazione delle discipline (e dei relativi costi) in funzione del tipo di servizio di investimento, sulla quale la MiFID ha invece volutamente posto l’accento 14. Ma anche perché ciò si fa senza ottenere in cambio, al di là di quanto prima facie potrebbe ritenersi, un pieno ed effettivo incremento della tutela degli interessi dell’investitore 15, che, al contrario, risulta depotenziata. Per

gnata dalla comunicazione di alcune informazioni sui prodotti ma comunque non c’è consulenza). Si vorrebbe cioè far risultare chiara a un cliente la distinzione tra un processo che è focalizzato sulle sue necessità (e che può concludersi o meno con la vendita di un prodotto) e un processo che è invece orientato alla sola vendita di un prodotto. La “consulenza” (advice) dovrebbe essere limitata a professionisti che garantiscano indipendenza, sia in termini di status sia in termini di svolgimento della loro attività; che dovrebbero essere remunerati in modo svincolato dalla vendita di determinati prodotti (e senza che i fornitori dei prodotti medesimi possano avere alcun ruolo nella determinazione dei compensi); che dovrebbero, in definitiva, assumere la veste di agenti dei loro clienti e dovrebbero poter operare su tutti i prodotti disponibili sul mercato. Tutti gli altri servizi sarebbero da considerare “vendita” e non potrebbero essere denominati “consulenza” (the only advice would be independent advice; Sales will include a spectrum of services ranging from advice that is not independent, through simplified advised and non-advised guided sales processes, to execution-only business). 13 Meno chiaro è invece se l’atteggiamento di prudenza dei regulators sia valso pure a evitare il rischio di «abusivismi incolpevoli». Sotto questo profilo, non si può, peraltro, fare a meno di rammentare che la violazione della riserva di attività integra oltre che un illecito amministrativo (secondo quanto disposto dall’art. 190 t.u.f.) anche un illecito penale previsto e sanzionato dall’art. 190, co. 1, t.u.f.; e, ancora, che il contratto di consulenza concluso da un soggetto privo dell’autorizzazione richiesta non può che essere nullo (sul punto cfr. De Mari, La consulenza in materia di investimenti, cit., p. 399). 14 Evidenzia il venir meno, nella prospettiva del CESR, della diversificazione delle regole in funzione dei singoli servizi di investimento Perrone, La responsabilità degli intermediari, cit., p. 389, traendone la conclusione – in verità un po’ eccessiva – che, per questa via, «non rimane, in concreto, più spazio né per l’elementare attività di execution only, né per i servizi di investimento non-advice». 15 In ordine alla mancanza di diretta proporzionalità tra l’ampliamento dell’ambito di applicazione della regola dell’adeguatezza e l’innalzamento di tutela dell’investitore, alcune interessanti considerazioni sono svolte da Bertelli, Attuazione della MiFID. Cultura della compliance e consulenza finanziaria “diffusa”. I rischi di una contraddizione, Siena, 2008, p. 15.

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convincersi della fondatezza di quest’ultimo asserto paiono sufficienti tre ordini di osservazioni. Innanzitutto, non è detto che il potenziale cliente abbia interesse, al sorgere di una qualsiasi relazione con un intermediario, ad instaurare – anche sotto il profilo della quantità e qualità delle informazioni da fornire – un rapporto così “profondo” come quello che comporta la prestazione del servizio di consulenza o di gestione di portafogli: in altre parole, nessun intermediario può imporre a un potenziale cliente, che ha bisogno di un servizio d’investimento (ritenuto dalla MiFID) a minore impatto della consulenza (ad es., una negoziazione di strumenti finanziari), la trasmissione di informazioni personali (quali quelle concernenti la fonte o la consistenza del suo reddito, delle attività mobiliari e immobiliari, della sua esposizione debitoria), in un certo senso obbligando il cliente medesimo ad accettare il livello massimo di servizio offerto (secondo una sorta di modello di “consulenza diffusa”). La “massificazione” della consulenza, poi, ineluttabilmente finisce per abbassare il livello qualitativo della conoscenza del cliente, che, in regime MiFID, l’intermediario deve acquisire per formulare una valutazione di adeguatezza: ne sono evidenza i “questionari” in questi mesi somministrati, più o meno “a pioggia”, dagli intermediari italiani a tutti i loro clienti retail. Quanto ne emerge induce, infatti, a dubitare seriamente della congruità di un tale strumento rispetto al tanto insistito obiettivo MiFID del “know your customer”. Viene il sospetto, cioè, che per questa via il primo e reale scopo dell’intermediario non sia quello di “proteggere il cliente”, bensì quello di “proteggersi dal cliente” nel caso di un eventuale, successivo contenzioso. Ancora, così operando, si taglia alla radice la possibilità – pure fortemente auspicata in ambito comunitario e internazionale 16 – che la

16 L’importanza di una buona educazione finanziaria e del ruolo che in materia sono chiamati a giocare gli intermediari finanziari è stata, negli ultimi anni, sottolineata più volte sia a livello comunitario che internazionale. Solo a titolo di esempio, sul primo fronte, si possono citare il Libro bianco sulla politica dei servizi finanziari per il periodo 2005-2010 (COM 2005, 629), il Libro Verde sui servizi finanziari al dettaglio nel mercato unico del maggio 2007 (COM 2007, 226) e la Risoluzione del Parlamento europeo sulla politica dei servizi finanziari adottata nel luglio 2007 (P6_TA-PROV- 2007 -0338/A6-0248/2007). Sul piano internazionale, invece, è di recente spesso intervenuta sul tema dell’educazione finanziaria l’OCSE, pubblicando dapprima un interessante documento di definizione dei Principi e buone pratiche per la consapevolezza e l’educazione finanziarie (del 2005, approvato da tutti i membri dell’OCSE, compresi molti Stati membri dell’UE, il cui testo è disponibile all’url http://www.oecd.org/dataoecd/7/17/35108560.pdf) e, da ultimo, un do-

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consulenza divenga anche un’occasione di educazione finanziaria: uno strumento cioè che – nell’ambito di un rapporto intermediario/cliente davvero personalizzato – possa servire, attraverso un oculato uso degli obblighi informativi imposti al consulente, ad allargare gli orizzonti del cliente retail, altrimenti destinato a rimanere confinato in una sorta di ineluttabile ignoranza 17. A fronte dei rilievi sin qui svolti, risulta pertanto di non poco momento indagare se davvero la fattispecie “consulenza in materia di investimenti”, così come forgiata dalla normativa comunitaria e da quella italiana di recepimento, sia priva dell’effettiva capacità di individuare, nella prassi, un fenomeno dai precisi contorni. L’indagine, peraltro, non può arrestarsi a tale questione. Insieme, essa non può che considerare se la fattispecie si presti anche a essere ricostruita in termini coerenti all’effettivo bisogno di protezione del cliente 18. E ciò perché, se così non fosse, la nozione di consulenza, per quanto

cumento specificamente rivolto alle buone pratiche per l’educazione finanziaria in materia previdenziale. In entrambe le linee guida appena richiamate, l’OCSE sottolinea la necessità di costruire sinergie operative tra istituzioni pubbliche e soggetti privati, attribuendo, in questa prospettiva, un ruolo determinante proprio agli intermediari finanziari, chiamati, nei confronti della clientela retail, ad una funzione di consulenza pro-attiva. Per un quadro generale sulle diverse iniziative attuate negli Stati membri dell’Unione europea in relazione all’educazione finanziaria si rinvia a due studi di grande portata finanziati dalla Commissione europea: Observatoire du Crédit et de l’Endettement et al, FES – Better access to financial services and financial education (2007), Report of the survey on Financial Education, 2007 e Evers & Jung, Survey on Financial Literacy Schemes in the EU27, 2007. 17 Per uno spunto in proposito v. A. Nigro, La nuova regolamentazione dei mercati finanziari: i principi di fondo delle direttive e del regolamento MiFID, in Dir. banc., 2008, 12, ove pure si esprimono velate perplessità, sotto il profilo della tutela dell’investitore, riguardo alla prassi orientata alla formale riconduzione di qualsivoglia operazione di investimento fra quelle oggetto di consulenza. 18 Il principio generale che permea l’intera struttura normativa comunitaria è quello secondo cui, nella prestazione di servizi, gli intermediari devono agire sempre in modo da servire al meglio gli interessi dei loro clienti. Tale motivo ispiratore del sistema viene più volte ribadito utilizzando locuzioni diverse: «offrire agli investitori un elevato livello di protezione» nella prestazione dei servizi di investimento (2° considerando della direttiva MiFID di “livello 2”); evitare ripercussioni negative «sugli interessi dei clienti delle imprese di investimento» (29° considerando della stessa direttiva); «uno degli obiettivi della presente direttiva è proteggere gli investitori» (31° considerando); occorre garantire che le imprese di investimento eseguano gli ordini «alle condizioni più favorevoli per i clienti» (33° considerando); la direttiva detta «disposizioni volte a garantire la protezione degli investitori» (Titolo della Sezione 2 della direttiva di “livello 1”); le imprese di investimento devono «servire al meglio gli interessi dei loro clienti» (art. 19, co. 1, della medesima direttiva).

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precisa, porterebbe a eccessi di tutela e/o a “vuoti” particolarmente pericolosi: specie in considerazione della centralità dell’attività di consiglio nel rapporto intermediario-cliente e della scelta europea di modulare le regole di condotta, cui sono tenuti gli intermediari, in funzione del tipo di servizio prestato.

2. I nodi problematici. Per compiere una ricognizione dei confini di fattispecie del servizio di “consulenza finanziaria” il punto di partenza obbligato è l’art. 1, co. 5septies, t.u.f., che riproduce in ambito nazionale, senza variazioni normative degne di nota, la nozione di consulenza disegnata dalla MiFID. Più in dettaglio, nel contesto comunitario tale nozione risulta dal combinato disposto dall’art. 4, par. 1, n. 4 della direttiva di “livello 1”– ove si qualifica come “consulenza in materia di investimenti” la «prestazione di raccomandazioni personalizzate ad un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa dell’impresa di investimento, riguardo ad una o più operazioni relative a strumenti finanziari» – e dall’art. 52 della direttiva di “livello 2”, ove, in modo assai analitico, viene puntualizzato il concetto di “raccomandazione personalizzata” 19. Compiendo una sorta di crasi delle appena richiamate disposizioni, l’art. 1, co. 5-septies, t.u.f., enuclea come due tratti essenziali della fattispecie in discorso: 1) una raccomandazione personalizzata a un cliente (i.e.: «presentata come adatta per il cliente o […] basata sulla considerazione delle caratteristiche del cliente»); 2) riguardo a una o più operazioni relative a un determinato strumento finanziario. Viene espressamente negata rilevanza, invece, al soggetto che prende l’iniziativa, che può, in modo indifferente, essere sia l’intermediario sia l’investitore. Su entrambi gli appena menzionati, positivi connotati della consulenza occorre soffermarsi: e conviene farlo partitamente, ciascuno di essi presentando, come già si è detto, profili specifici di criticità.

Oltre alle due disposizioni appena menzionate, va prestata poi attenzione ad alcuni considerando della direttiva di “livello 2” (in particolare, i considerando n. 79, 81, 82 e 83), dai quali si può trarre – come meglio si vedrà infra – aiuto per l’interpretazione delle norme primarie. 19

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3. In relazione alla personalizzazione della raccomandazione: la «adeguatezza». Se non si è dubitato che la “personalizzazione” della raccomandazione richieda la «individualizzazione» di questa (i.e.: la destinazione a un cliente precisamente determinato, con esclusione dunque di consigli rivolti ad un pubblico indistinto) 20, il «cuore» della nozione – che si concreta nella necessità che la raccomandazione sia «presentata come adatta per il cliente o (sia) basata sulla considerazione delle caratteristiche del cliente» – ha invece destato incertezza. E così si è sostenuto che, sotto questo profilo, la personalizzazione venga a coincidere con l’osservanza della regola di adeguatezza: «una raccomandazione personalizzata non può che essere adeguata» – si è affermato –, mentre «una raccomandazione non adeguata, non adatta al cliente, manca del requisito della personalizzazione» 21. La valutazione di adeguatezza, cioè – si è puntualizzato –, oltre che momento centrale di disciplina della “nuova” consulenza, rileverebbe altresì sul piano della ricostruzione della figura 22. Una simile opinione è però nettamente da respingere. Un poco sforzata rispetto al testo di legge – che non dice (: né potrebbe) che la raccomandazione deve essere stata «esattamente» basata sulle caratteristiche del cliente –, la tesi in discorso finisce per confondere fattispecie con disciplina e, per tale via, viene a privare di ogni valore il frammento normativo cui si è appena fatto riferimento 23.

Come risulta dalla parte finale dell’art. 1, co. 5-septies, t.u.f., ove si afferma che una raccomandazione non è personalizzata se viene diffusa al pubblico mediante canali di distribuzione. In proposito, v. anche il considerando n. 79 della direttiva di “livello 2”, ove si precisa che «la consulenza in merito a strumenti finanziari fornita in un quotidiano, giornale, rivista o in qualsiasi altra pubblicazione destinata al pubblico in generale (incluso tramite Internet) o trasmissione televisiva o radiofonica non deve essere considerata come raccomandazione personalizzata ai fini della definizione di “consulenza in materia di investimenti” di cui alla direttiva 2004/39/CE ». In coerenza l’art. 1, co. 6, t.u.f. qualifica le attività di analisi finanziaria e ricerca in materia di investimenti in termini di servizi accessori (art. 1, co. 6, t.u.f.). 21 Così testualmente Tedeschi, La consulenza finanziaria e l’ambito di applicazione ai promotori finanziari, in www.dirittobancario.it, p. 5, secondo cui nelle scelte compiute dal legislatore italiano in sede di recepimento della MiFID si legge un travisamento rispetto ai contenuti della direttiva di “livello 2”. 22 In questi termini De Mari, La consulenza in materia di investimenti, cit., p. 402. 23 Un tale approccio, peraltro, condurrebbe de plano, nel caso di un comportamento che si ponesse in violazione della regola, all’inaccettabile esito di una sua contestuale uscita dalla fattispecie, con conseguente applicazione di una regola differente e, nel caso 20

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Perciò, per non scivolare dal piano ricostruttivo della nozione di “consulenza” a quello della sua disciplina, la personalizzazione deve ritenersi integrata quando la raccomandazione sia data al cliente in un contesto in cui a questi appaia come costruita dall’intermediario prendendo a riferimento il rapporto tra lo strumento finanziario che ne è oggetto e le caratteristiche proprie del cliente medesimo. In altri termini, ciò significa che se la raccomandazione appare costruita nel rispetto del regime di adeguatezza si rientra appieno nella nozione di “consulenza” anche quando, in concreto, la raccomandazione resa al cliente dovesse risultare poi non effettivamente adeguata. Viceversa, si resta fuori dalla nozione di “consulenza”, proprio per difetto di “personalizzazione”, ogniqualvolta si consiglia a un cliente – sì determinato, e dunque con modalità “individualizzata” – il compimento di un’operazione su un determinato strumento finanziario, ma in ragione della situazione congiunturale o delle peculiarità dello strumento stesso, senza alcun riferimento o nesso specifico alle caratteristiche personali del destinatario del consiglio.

4. In relazione all’oggetto della raccomandazione. Il secondo elemento costitutivo della fattispecie della “consulenza in materia di investimenti” attiene – lo si è già accennato sopra (n. 2) – all’oggetto dell’attività di consiglio: la prestazione di raccomandazioni deve riguardare cioè una o più operazioni 24 (elencate in dettaglio nell’art. 52 della direttiva di “livello 2”) relative «a un determinato strumento finanziario». La ricostruzione di tale elemento ha proposto ai primi commentatori due ordini di dubbi, che incidono peraltro – come meglio si vedrà subito appresso – su alcune questioni giuridiche non certo di scarso peso.

specifico, di certo più blanda. E ciò sia se a venire in gioco è il regime di appropriatezza, sia, e ancor di più, nel caso in cui risultassero applicabili solo le norme di diritto comune. 24 Nel riferimento letterale, come possibile oggetto di consulenza, anche a una sola operazione concernente determinati strumenti finanziari, taluno ha voluto leggere la riconducibilità alla nuova fattispecie anche della cd. consulenza preparatoria o strumentale, ossia a quell’attività che si sostanzia in singoli consigli o suggerimenti forniti alla clientela da un intermediario in funzione, però, della prestazione di un altro servizio di investimento. Sul punto v. le riflessioni svolte infra, n. 5.

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L’uno è se il riferimento a un «determinato» strumento escluda – in sede nazionale come comunitaria – la riconducibilità alla “consulenza” dei consigli relativi a tipologie “generiche” di strumenti finanziari (azioni, obbligazioni ecc.). L’altro è se – in assenza di qualsiasi precisazione in ordine ad un numero minimo di strumenti (un paniere) tra cui la consulenza deve essere resa; nonché in mancanza di una qualunque connotazione di tali strumenti in termini di estraneità rispetto alla sfera operativa dell’intermediario che presta la raccomandazione – possa desumersi che entrambi questi elementi non rilevano tra i requisiti della fattispecie in discorso. Tali dubbi – si vedrà meglio più avanti – vengono a prospettare una nozione di consulenza, su tutti i punti ora in discorso, assai diversa da quella a più riprese elaborata dalla Consob prima dell’emanazione della MiFID. Peraltro, proprio la rimarcata possibilità di una forte distanza tra il presente e il passato deve richiamare l’interprete – è bene osservarlo sin d’ora – a una particolare attenzione per evitare di incorrere nel facile rischio di attribuire alla nuova norma un senso che, in realtà, non è il suo proprio, bensì il portato della figura di consulenza con cui, in epoca pre-MiFID, si era ormai abituati a trattare. 4.1. I prodotti «di genere». Simile rischio, per vero, risulta scongiurato nella considerazione sin qui data dalla letteratura al primo profilo problematico dell’oggetto della consulenza (diversamente da quanto pare invece accadere per il secondo profilo: come si vedrà infra, n. 4.2). È infatti frequente che il riferimento – compiuto dall’art. 52 della direttiva di “livello 2” – a “un determinato strumento finanziario” quale oggetto specifico della consulenza sia inteso, dai primi commentatori, nel senso di escludere da tale nozione quella specie di raccomandazioni che, seppur fornite sulla base di una valutazione delle caratteristiche proprie del cliente, si riferiscono a generiche tipologie di strumenti finanziari 25. E ciò, appunto, nonostante che la «consulenza personalizzata generica» (o financial planning), prima della MiFID, fosse pacificamente ricondotta dalla Consob nell’attività di consulenza. La nuova opinione della letteratura sarebbe significativamente corroborata – a detta dei suoi sostenitori – dal considerando n. 81 della direttiva di “livello 2”, ove «una consulenza generica in merito a un tipo di strumento finanziario», viene esplicitamente ritenuta al di

25 In questi termini Fiorio, La non adeguatezza, cit., p. 171. Contra, invece, La Rocca, Appunti, cit., p. 8.

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fuori della nozione di consulenza in materia di investimenti, in quanto «la consulenza in materia di investimenti è limitata alla consulenza in merito a determinati strumenti finanziari» 26. Ora, che il discrimine tra ciò che è consulenza e ciò che non lo è possa essere segnato – a parità di personalizzazione del consiglio – dal mero fatto che il consiglio ha per oggetto un “genere” di strumenti finanziari piuttosto che uno strumento finanziario “specifico” non persuade. E certo non solo per la difficoltà (teorica e pratica), che altrimenti si apre, di definire il confine tra specie e genere. Ma per più sostanziale ragione. Occorre infatti considerare che un consiglio avente per oggetto tipologie di strumenti finanziari, prospettate come adatte all’investitore, potrebbe recargli danno, se questi vi facesse affidamento, non meno della raccomandazione di uno strumento specifico. D’altra parte, il ricorrere di un’esigenza di protezione dell’investitore anche nella consulenza generica in qualche modo non è sfuggito neppure al legislatore storico, che nel medesimo considerando n. 81 – dai più ritenuto, si è detto, dato decisivo contro la riconducibilità alla nozione di consulenza delle raccomandazioni a contenuto generico – ha osservato che «se l’impresa di investimento fornisce una consulenza generica a un cliente in merito a un tipo di strumento finanziario che essa presenta come adatto per tale cliente, considerate le sue particolari caratteristiche, e tale consulenza non è in realtà adeguata per tale cliente o non è basata sulla considerazione delle sue caratteristiche, in funzione delle circostanze di ciascun caso, è probabile che tale impresa violi l’art. 19, par. 1 o 2, della direttiva 2004/39/CE. In particolare, è probabile che l’impresa che fornisce a un cliente tale consulenza violi l’obbligo di cui all’art. 19, par. 1, di agire in modo onesto, equo e professionale per servire al meglio gli interessi dei suoi clienti» 27.

26 Così, in particolare, De Mari, La consulenza, cit., p. 404, che però reputa tale scelta normativa incoerente con i principi di tutela dell’investitore; Comporti, La direttiva europea MiFID: le principali innovazioni, in Dir. banc., 2007, II, 59. 27 Proprio di fronte al tenore dell’appena riportata precisazione a tutela dell’investitore, le perplessità nel testo accennate in ordine all’opportunità di lasciar fuori dalla nozione di consulenza le raccomandazioni generiche trovano deciso rincalzo. Mentre, infatti, nel caso in cui fosse un intermediario abilitato a presentare a un cliente come adeguata al suo profilo una tipologia di strumenti finanziari che, in realtà, non lo è affatto (ipotesi cui si riferisce in particolare la precisazione in discorso), la tutela dell’investitore sarebbe comunque assicurata, venendo a integrarsi un servizio finanziario accessorio, per sé

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Sul punto, in realtà, al di là del rilievo che, comunque, un considerando – semplice traccia del mero intendimento del legislatore storico − non può certo costituire impedimento nei confronti dell’interpretazione di una norma con esso collidente, non pare, a vedere bene, che l’indicazione, contenuta nel testo dell’art. 52 della direttiva di “livello 2”, dell’oggetto della consulenza in un “determinato strumento finanziario” risulti davvero stringente. Non solo in sé: ché una determinazione può essere anche per genus; ma pure in considerazione dello specifico contesto disciplinare in cui si trova. In dettaglio, perché nella definizione di “consulenza” rinvenibile nell’art. 4, par. 1, n. 4 della direttiva di “livello 1” il riferimento è solo a “strumenti finanziari” e inoltre perché altrove, nel tessuto comunitario, si usa il termine «tipo» con riguardo a una determinata, particolare specie di strumento finanziario (è questo il caso, ad esempio, dell’art. 19, par. 3, della direttiva di “livello 1” in materia di obblighi di informazione dell’intermediario nei confronti della clientela) 28. Di fronte a un tale frammentato scenario, non può perciò ritenersi sussistente alcun reale ostacolo di carattere testuale all’inclusione nella nozione di consulenza anche di un’attività di financial planning avente a oggetto tipologie di strumenti finanziari purché proposte in modo personalizzato. D’altro canto, una tale inclusione è – come si è visto – del tutto coerente con l’esigenza, posta alla base dell’intera normativa MiFID sulla consulenza, di consentire al cliente di potersi fidare dei consigli presentatigli come tagliati su di lui: esigenza, a ben vedere, a sua volta funzionale alla migliore allocazione delle risorse.

soggetto alle regole di comportamento di cui all’art. 19 della direttiva MiFID di “livello 1” (seppure non a quella specifica dell’adeguatezza), non altrettanto è a dirsi, invece, per l’ipotesi in cui un tale consiglio venisse fornito da un soggetto non appartenente al novero delle imprese di investimento, né dei consulenti persone fisiche di cui all’art. 18-bis, t. u.f. (a tal proposito v. infra, n. 4.2.2.). Circostanza questa non solo ben possibile, dato che una raccomandazione di tale contenuto esulerebbe, per l’appunto, dall’alveo delle attività riservate, ma anche, almeno potenzialmente, in grado di provocare conseguenze di particolare pregiudizio per l’investitore esposto a “consigli” provenienti da soggetti la cui professionalità e correttezza nessuno, in via preventiva, è stato chiamato ad accertare. Su questa sfera di operatività la MiFID, almeno secondo la lettura corrente, lascerebbe, sotto il profilo della tutela dell’investitore, una cortina d’ombra così insoddisfacente da spingere subito a saggiare la praticabilità di un’interpretazione diversa. 28 La stessa terminologia viene, del resto, ora utilizzata anche dagli artt. 27, co. 2, e 31, co. 1, del Regolamento Intermediari n. 16190/2007.

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4.2. Il «paniere» di prodotti e la neutralità del consulente rispetto agli investimenti consigliati. Il secondo profilo problematico dell’oggetto della raccomandazione presenta – come detto (n. 4) – due nodi. Uno è stretto intorno alla mancanza – nella porzione dell’art. 1, co. 5-septies, t.u.f., ove si menziona come oggetto dell’attività di consulenza un “determinato strumento finanziario” (come pure, del resto, nell’art. 52 della direttiva di “livello 2”) – di qualsivoglia precisazione in ordine a un numero minimo di strumenti (i.e.: un paniere) che la consulenza, per essere tale, deve prendere a riferimento. L’altro nodo – che enfatizza il primo e a sua volta ne è enfatizzato – è allacciato sul silenzio che la definizione (italiana come comunitaria) di consulenza mantiene sulla necessità che il consulente debba essere “neutrale”, nel senso di connotato da strutturale indipendenza rispetto agli investimenti consigliati. In altri termini, mai si dice, nel tessuto comunitario, che la consulenza deve essere fondata su un’analisi imparziale avente a oggetto più strumenti finanziari emessi o intermediati da soggetti svincolati da ogni rapporto con il consulente – intermediario. Su entrambi i punti, invece, prima della MiFID, la Consob – come pure già accennato (n. 4) – si era esplicitamente posizionata: richiedendo, perché vi fosse consulenza, un paniere di strumenti e l’indipendenza dell’intermediario 29. Forse per tale ragione, di fronte ai silenzi della MiFID, la maggior parte degli interpreti ha espresso sorpresa. Qualcuno si è senz’altro spinto ad affermare che non possa esservi un vero e proprio servizio di consulenza là dove la raccomandazione non abbia per oggetto un numero sufficientemente ampio di prodotti; altri hanno addirittura sottolineato che la neutralità è una caratteristica ontologica dell’attività di consulenza 30.

29 La consulenza si caratterizza – affermava la Consob – «per essere tendenzialmente omnicomprensiva – vale a dire esente da limitazioni quanto alla tipologia dei valori mobiliari oggetto dei consigli di investimento – nonché per la sostanziale neutralità dell’intermediario rispetto alla conclusione delle operazioni eventualmente conseguenti all’esercizio della consulenza» (Comunicazione n. BOR/RM/94005134 del 23 maggio 1994). Sottolinea il forte tratto di discontinuità tra presente e passato Roppo, Promotori finanziari, cit., p. 26 ss. 30 In questo senso v., in particolare, la posizione di La Rocca, Appunti sul contratto relativo alla prestazione del servizio di “consulenza in materia di investimenti” (art. 1, co. 5, lett. f) d.lgs. n. 58/98), in www.ilcaso.it, p. 7, secondo il quale «i tratti distintivi del servizio di consulenza in materia di investimenti sono la neutralità del consulente e la sua capacità professionale di saper orientare le scelte del cliente verso un paniere

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Per sciogliere le due questioni, utile appare allargare lo sguardo oltre le disposizioni fin qui considerate, per confrontarsi con alcune altre norme, della MiFID e della disciplina italiana di recepimento, che, pur se in contesti più specifici, ugualmente si occupano dell’attività di consulenza. Il riferimento corre, anzitutto, all’art. 4, par. 1, n. 25 e all’art. 23, par. 1, della direttiva di “livello 2”, ove l’attività di consulenza viene elencata fra quelle esercitabili dall’“agente collegato” (tied agent), parente prossimo del promotore finanziario disciplinato dal t.u.f. 31. Non può omettersi, inoltre, di considerare l’espressa menzione del requisito dell’indipendenza compiuto dall’art. 18-bis t.u.f., norma con la quale il legislatore italiano permette che il solo servizio di “consulenza in materia di investimenti” sia prestato, oltre che da imprese di investimento, anche da un’altra categoria di soggetti, i cd. consulenti finanziari, che, però, in

sufficientemente ampio dei prodotti esistenti sul mercato finanziario in rapporto alle esigenze del cliente». A sostegno di questa affermazione viene posto l’art. 120, co. 2, d.lgs. 7.9.2005, n. 209, c.d. “Codice delle assicurazioni private”, che, nei confronti degli intermediari assicurativi, fissa il concetto di consulenza imparziale, in linea però con il dettato dell’art. 12, co. 2, della direttiva 2002/92/CE sull’intermediazione assicurativa, ove si precisa che «quando l’intermediario assicurativo comunica al consumatore di fornire consulenze fondate su un’analisi imparziale, egli deve fondare tali consulenze sull’analisi di un numero sufficiente di contratti di assicurazione disponibili sul mercato, che gli consenta di formulare una raccomandazione, secondo criteri professionali, in merito al contratto assicurativo idoneo a soddisfare le esigenze del consumatore». Anche Zitiello, La consulenza in materia di investimenti, in MiFID. La nuova disciplina dei mercati, servizi e strumenti finanziari, a cura di Zitiello, Torino, 2007, p. 452, pur riconoscendo che non si rinvengono nei testi comunitari MiFID riferimenti precisi all’indipendenza soggettiva e oggettiva del consulente, ritiene di dover concludere nel senso che tali due caratteri «si pongono come intrinsecamente qualificanti il servizio sotto il profilo ontologico»; in carenza dei medesimi – continua tale autore – «l’intermediario abilitato finirebbe per porre in essere un’attività diversa dalla consulenza in materia di investimenti». Diversamente, invece, secondo De Mari, La consulenza, cit. p. 405, «in nessun luogo è detto che la consulenza deve essere fondata su un’analisi imparziale avente ad oggetto più strumenti finanziari emessi o intermediati da soggetti svincolati da ogni rapporto con il consulente-intermediario». 31 Con la MiFID la figura dell’agente collegato viene per la prima volta regolamentata in vista di un’armonizzazione delle condizioni operative delle imprese di investimento comunitarie che intendono avvalersi di tali soggetti, anche se a questi ultimi non viene applicato il principio del passaporto europeo. Quella del tied agent, peraltro, non è una disciplina necessaria, bensì un’opzione: la direttiva concede cioè agli Stati membri la facoltà di permettere alle imprese di investimento di valersi di agenti collegati. In materia, v. le considerazioni di Roppo, Promotori finanziari, cit., p. 15 ss., che si esprime in termini di «glorificazione europea del modello italiano».

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nessun caso possono detenere somme di denaro o strumenti finanziari di pertinenza dei clienti 32. 4.2.1. Rilievo della normativa del «tied agent». Nel contesto normativo europeo rivolto al tied agent, l’art. 4, par. 1, n. 25 menziona, fra le varie attività che il medesimo può esercitare «sotto la piena e incondizionata responsabilità di una sola impresa di investimento per conto della quale opera», accanto alle due componenti “tipiche” del promuovere servizi di investimento e/o servizi accessori presso clienti o potenziali clienti e del collocare strumenti finanziari, anche la consulenza ai clienti o potenziali clienti rispetto a detti strumenti e servizi finanziari. Concetto analogo si trova, poi, ribadito all’art. 23, par. 1, ove si precisa che le imprese di investimento possono nominare agenti collegati «per promuovere i loro servizi, procurare clienti o ricevere ordini dei clienti o dei potenziali clienti e trasmetterli, collocare strumenti finanziari e prestare consulenza rispetto agli strumenti e servizi finanziari proposti da tali imprese». Tali disposizioni prevedono, insomma, che può esservi attività di consulenza (in questo caso fornita dall’agente collegato nella veste di strumento dell’intermediario per conto del quale agisce 33) anche quando l’orizzonte dei “consigli” è ridotto a ciò che l’intermediario-consulente promuove o colloca; quindi, che la consulenza, in tal caso, possa avere a oggetto anche un solo strumento, per quanto rispetto a esso il consulen-

32 Quasi a temperare la scelta di ascrivere la consulenza al rango delle attività riservate, la MiFID ha aperto la possibilità dell’esercizio (purché esclusivo) di tale servizio di investimento anche a soggetti diversi dagli intermediari finanziari, lasciando agli Stati membri la facoltà – di cui il nostro Paese si è avvalso – di applicare ai medesimi una disciplina di matrice solo nazionale (c.d. opt out). In particolare, secondo quanto disposto dall’art. 18bis, tali soggetti possono esercitare attività di consulenza purché iscritti nel nuovo Albo dei consulenti finanziari – persone fisiche, previa verifica del possesso di determinati requisiti. La limitazione della figura dei consulenti finanziari (non imprese di investimento) alle persone fisiche (con conseguente esclusione dell’esercizio in forma associativa o societaria, salvo il necessario acquisto della veste di s.i.m.) è però tutta italiana, ed è scelta di cui – dato lo scostamento dalla direttiva – è difficile rinvenire una giustificazione (in proposito v. le considerazioni critiche di De Mari, La consulenza, cit., p. 396). 33 Nel momento in cui, infatti, la MiFID ha reso la consulenza finanziaria un’attività riservata, non risulta neppure prospettabile che tale attività sia esercitata in proprio dall’agente collegato. Diversamente, invece, nel contesto italiano precedente al recepimento della MiFID, in linea di principio l’attività di consulenza, quale semplice servizio accessorio, avrebbe potuto essere esercitata in proprio dai promotori finanziari.

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te sia tutt’altro che neutrale. E non si vede ragione per cui lo stesso non debba essere quando l’intermediario non si avvale di agenti collegati. Né pare osservazione capace di spezzare dall’inizio il filo tratteggiato quella – formulata nella letteratura che muove dall’idea, non dimostrata, per cui non si può fornire consulenza se non avendo come termine di riferimento un numero ampio di prodotti 34 – per cui la “consulenza” dell’agente collegato non sarebbe vera consulenza, bensì un’attività di carattere preparatorio o strumentale, coincidente, sotto il profilo dell’ambito oggettivo, con il collocamento, che accompagna ogni forma di offerta fuori sede (e, dunque, attività da assoggettare alla regola di appropriatezza). In senso contrario, infatti, può replicarsi non solo che l’attività di consulenza viene, in entrambe le norme comunitarie in discorso, menzionata senza alcuna sorta di specificazione: sì che è ragionevole ritenere che non assuma accezione diversa dalla «consulenza in materia di investimenti»; ma pure che tale attività è menzionata di seguito alla distinta attività di «promozione», espressione con la quale ci si riferisce, per solito, a tutte quelle attività tipiche della commercializzazione e di carattere preparatorio, strumentale e propedeutico rispetto al collocamento. Del resto, i fautori della tesi qui criticata finiscono poi per contraddirsi nel momento in cui non escludono che l’intermediario possa avvalersi dell’agente collegato quale strumento per prestare vera e propria attività di consulenza al cliente, senza però prendersi cura, da quest’angolo visuale, del problema della compatibilità fra tale attività e il riferimento normativo, compiuto come si è visto da entrambe le disposizioni MiFID sull’agente collegato, ai soli strumenti e servizi finanziari proposti dalle imprese di investimento per cui l’agente opera. 4.2.2 (Segue). Irrilevanza dell’art. 18-bis t.u.f. in tema di consulenti finanziari indipendenti. D’altro canto, neppure può giungersi ad affermare che la neutralità dell’intermediario sia elemento necessario della consulenza – come pure si è fatto fra i primi commentatori –, valorizzando l’indipendenza indubbiamente richiesta dall’art. 18-bis t.u.f. per una particolare specie di consulenti finanziari.

34 In questi termini cfr. Zitiello, Gli agenti collegati, in MiFID, cit., p. 289; Tedeschi, La consulenza, cit., p. 8.

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A questo riguardo, non si può prescindere anzitutto dal considerare lo specifico contesto in cui l’espressa menzione del requisito dell’indipendenza del consulente si colloca: contesto che è quello della consulenza c.d. indipendente (o fee only), da tempo ben nota in altre esperienze giuridiche. In tale ambito, per i consulenti ex art. 18-bis l’indipendenza è richiesta al fine dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività; per ogni altro intermediario finanziario, invece, a venire in gioco in punto di indipendenza è, in un certo senso, la questione opposta (ossia, se la mancanza di neutralità, facendo fuoriuscire dalla fattispecie della consulenza e dunque dell’attività riservata, comporti il venir meno della necessità dell’autorizzazione) cui se ne accompagna una diversa (ossia, se la mancanza di neutralità, per le ragioni di cui appena sopra, non richieda l’applicazione del regime di adeguatezza). A ben vedere, dunque, mentre l’art. 18-bis innalza la protezione del cliente, esigendo che il consulente finanziario bandisca, nella programmazione e nell’organizzazione della propria attività, la possibilità stessa di un conflitto di interessi, viceversa, elevando l’indipendenza del consulente (come pure la pluralità degli strumenti raccomandati) a connotato della fattispecie generale di tale servizio di investimento, si finirebbe con il deprivare l’investitore della tutela data per la consulenza (riserva di attività e assoggettamento alla regola di adeguatezza) proprio quando questi ne ha maggior bisogno (si pensi ai casi-limite in cui a essere raccomandato è un solo strumento, senza alcun paniere, ovvero unicamente strumenti rispetto cui il consulente non è neutrale). Che la regola dell’art. 18-bis ora in discorso valga anche per i consulenti – intermediari finanziari è comunque de escludere anche per altre ragioni. Infatti, la sola attività che i consulenti ex art. 18-bis possono esercitare è proprio quella di consulenza: il consulente finanziario è cioè operatore monofunzionale. Soprattutto, e correlativamente, è, appunto, secondo la scelta compiuta dal legislatore italiano, una persona fisica: sì che è preclusa a priori la possibilità di una gestione separata di una pluralità di interessi per sé confliggenti. Per contro, l’intermediario finanziario viene, almeno nella prevalenza dei casi, ad essere contraddistinto dalla polifunzionalità 35. E proprio tale polifunzionalità porta con

Ciò non esclude – come correttamente osservato da De Mari, La consulenza in materia di investimenti, cit., p. 414 – che anche il consulente – intermediario finanziario possa decidere di esercitare il solo servizio di consulenza oppure di fornire raccomandazioni personalizzate c.d. multibrand (ossia relative a strumenti finanziari distribuiti o 35

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sé, come viene comunemente osservato, il rischio che l’operato dell’intermediario sia connotato da una situazione di latente conflitto di interessi; conflitto che, specie nell’impostazione della MiFID, viene in un certo senso considerato fisiologico e dunque non bandito in radice, bensì “trattato” attraverso l’imposizione di un obbligo per gli intermediari di elaborare e applicare un’efficace politica di gestione dei conflitti di interesse 36. Del resto, riprova ulteriore della diversità di approcci alla consulenza indipendente e a quella svolta da un’impresa di investimento è il fatto che, mentre il consulente ex art. 18-bis non può percepire, per la propria prestazione, benefici da parte di soggetti diversi dai clienti ai quali il servizio è reso (c.d. consulenza fee only), all’intermediario finanziario non è, in linea di principio, fatto divieto di ricorrere a sistemi di remunerazione indiretta della sua attività (ad es. retrocessione delle commissioni), purché nel rispetto delle regole in cui si sostanzia la disciplina MiFID degli inducements 37. 4.2.3. Consulenza, disciplina del conflitto di interessi dell’intermediario e regola di adeguatezza. Il confronto con la normativa sull’agente collegato e sul consulente finanziario ex art. 18-bis t.u.f. mostra a sufficienza come requisiti della consulenza non siano né la pluralità di strumenti raccomandati né la neutralità del prestatore. Per l’attività di consulenza esercitata da un

commercializzati anche da altri intermediari). Nell’ipotesi più comune, però, gli strumenti finanziari consigliati coincideranno con quelli offerti o commercializzati dallo stesso intermediario, con conseguente potenziale conflitto di interessi. 36 In particolare, è il 26° considerando della direttiva MiFID di “livello 2” a soffermarsi sul c.d. conflitto di interessi da polifunzionalità (sul punto v. ora anche l’art. 38, co. 1, lett. a), Regolamento congiunto Banca d’Italia-Consob), esortando l’impresa di investimento a prestare particolare attenzione ogniqualvolta si trova a svolgere due o più fra le attività menzionate in un elenco che non a caso si apre con il riferimento alle attività di ricerca e consulenza in materia di investimenti. Con specifico riferimento all’attività di consulenza, sottolinea come la questione del conflitto d’interessi si presenti in modo particolarmente forte per le imprese di investimento Zitiello, La consulenza, cit., p. 458. 37 In particolare, secondo l’art. 52 del Regolamento Intermediari, la percezione da parte dell’intermediario-consulente di commissioni retrocesse dalla società prodotto, in relazione alla consulenza prestata in abbinamento ad altro servizio di investimento, è legittima quando la consulenza non sia distorta a seguito della commissione ricevuta (sul tema v., ampiamente, Lucarelli, La disciplina degli inducements nella nuova direttiva sui servizi di investimento (“MiFID”), in Dir. banc., 2008, I, 239 ss.).

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intermediario finanziario la MiFID, insomma, non ha sentito l’esigenza di seguire un’impostazione differente rispetto a quella che concerne gli altri servizi di investimento. La neutralità del consulente non è salita cioè al livello dei requisiti di fattispecie, ma è rimasta piuttosto un obiettivo da perseguire sul piano della disciplina: sia mediante regole di organizzazione degli intermediari (e il riferimento evidentemente va alla normativa in tema di conflitto di interessi); sia mediante regole di comportamento cui i medesimi sono tenuti nei confronti della clientela (in particolare, nel contesto del regime di adeguatezza). Non è certo possibile in questa sede approfondire se e attraverso quali strumenti o tecniche possa essere garantita, nello svolgimento dell’attività, l’indipendenza di giudizio del consulente – intermediario finanziario. A volere andare oltre il rilievo diffuso e del tutto condivisibile secondo cui le scelte MiFID in materia di gestione del conflitto di interessi si sono rivelate il tallone d’Achille dell’intervento comunitario 38, la vastità e la complessità del tema richiederebbero, infatti, di indagare profili problematici che travalicano di gran lunga l’obiettivo specifico di questa indagine. Al riguardo, ci si limiterà, pertanto, a fermare qualche rilievo unicamente sulla soluzione adottata dalla MiFID a proposito dell’obbligo di disclosure dell’intermediario in ordine alla sussistenza di un potenziale conflitto di interessi con un investitore. Sul punto – che si colloca, in realtà, a mezza via tra regola di organizzazione e regola di comportamento – il legislatore comunitario ha compiuto, infatti, una scelta differente rispetto a quella contenuta nella direttiva 93/22. E si tratta di una scelta che, almeno con specifico riguardo alla prestazione di attività consulenziale da parte di un intermediario polifunzionale, potrebbe, al di là della prima impressione, condurre – almeno mi pare – all’apprezzabile esito di rafforzare e dotare di maggiore effettività i doveri informativi cui lo stesso intermediario è tenuto nei confronti della clientela. Il dato da cui muovere è l’assenza nel nuovo assetto normativo, per l’intermediario che si venga a trovare in una situazione di conflitto di interessi, non solo dell’obbligo di astenersi dal prestare il servizio (ve-

In proposito, v. le considerazioni di A. Nigro, La nuova regolamentazione, cit., p. 11, secondo il quale, in materia di conflitto di interessi, la normativa comunitaria segna un netto arretramento rispetto allo stadio cui era arrivata la regolamentazione italiana; nonché, con specifico riguardo all’attività di consulenza, lo spunto di Morera, I rapporti banca-cliente nella normativa MIFID. Un primo commento, in Banc., n. 9/2008, 42 ss. 38

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nendogli richiesto di operare comunque attraverso una gestione efficace di tale conflitto 39), ma anche, per quanto qui in particolare interessa, dell’obbligo di informare il cliente sulla natura e sulle fonti del medesimo, a eccezione del caso in cui i presidi organizzativi predisposti non siano “sufficienti per assicurare, con ragionevole certezza, che il rischio di nuocere agli interessi dei clienti sia evitato”. Se solo si riflette però sulle abituali modalità di prestazione, da parte di un intermediario polifunzionale, dell’attività di consulenza anche in relazione a propri prodotti, quest’ultima eventualità appare tutt’altro che remota, risultando piuttosto difficile immaginare l’adozione di presidi organizzativi pienamente adeguati all’obiettivo appena descritto. Per essere tali, i medesimi dovrebbero, infatti, concretizzarsi in misure particolarmente forti a beneficio della clientela 40 che certo non potrebbero prescindere dall’adozione di stringenti obblighi informativi in ordine alle caratteristiche dell’attività prestata 41.

Il Regolamento congiunto (artt. 23 e 25, co. 3) si esprime significativamente nei termini di livello di indipendenza appropriato. 40 Fra le quali si potrebbe ipotizzare la totale assenza di inducements. 41 È dunque con particolare rigore che dovrebbero, innanzitutto, trovare applicazione le due regole generali concernenti le informazioni e le comunicazioni cui è tenuto l’intermediario, attorno a cui è costruita la nuova regolamentazione in materia di trasparenza contenuta nel Regolamento Intermediari n. 16190/2007: una prima regola (art. 27, co. 1), concernente la struttura dell’informazione, che deve essere corretta, chiara e non fuorviante, allo scopo di far emergere quanto più possibile i profili di rischio dell’investimento; una seconda regola (art. 27, co. 2), concernente la funzionalità dell’informazione, che deve essere appropriata e fornita in forma comprensibile, affinché i clienti «possano ragionevolmente comprendere la natura del servizio di investimento e del tipo specifico di strumenti finanziari interessati e i rischi a essi connessi e, di conseguenza, possano prendere le decisioni in materia di investimenti in modo consapevole». A questa stregua, per l’intermediario che presta attività di consulenza può ritenersi sussistente un obbligo di comunicare al cliente se fornisce raccomandazioni personalizzate su strumenti e prodotti da chiunque emessi e su servizi da chiunque prestati ovvero solo su quelli emessi o prestati dallo stesso intermediario consulente e/o da soggetti appartenenti al suo medesimo gruppo e/o da soggetti con i quali esso abbia stipulato accordi di distribuzione o di altra natura (in questo senso v. anche il punto 1 delle linee guida Assoreti per la relazione di servizio con il cliente, validate dalla Consob). Analogamente, devono anche essere chiariti i presupposti al ricorrere dei quali l’intermediario è tenuto a fornire consulenza (ad es. solo su richiesta del cliente oppure anche nel caso di operazioni richieste dal cliente in via autonoma). Sia pure per inciso, si aggiunga, peraltro, che, secondo quanto disposto dall’art. 34, co. 5, sempre del Regolamento Intermediari, tutte le informazioni concernenti i termini del contratto (senza che alcuna espressa esclusione sia prevista per il servizio di consulenza) devono essere fornite «su un supporto duraturo o tramite il sito Internet dell’intermediario»: prescrizione questa che, indubbiamente, smorza un 39

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Proprio quest’ultima considerazione apre la via a quel benefico esito, sotto il profilo della disclosure, cui più sopra si è fatto cenno: l’intermediario, in sostanza, viene a trovarsi di fronte ad un’alternativa – informare il cliente dell’esistenza del potenziale conflitto di interessi o mettersi nella condizione di evitare tale comunicazione anche mediante un rafforzamento ex ante degli obblighi di trasparenza relativi ai contenuti del servizio –, che di per sé costituisce fattore propulsivo dell’applicazione rigorosa della normativa di trasparenza. Scivolati così, attraverso la tematica degli obblighi informativi, sul terreno del “come” le regole di comportamento, cui il consulente – intermediario finanziario è tenuto nei confronti della clientela, possano fungere da presidio della sua neutralità, resta da svolgere qualche considerazione a proposito del ruolo che, in questa prospettiva, può giocare la regola dell’adeguatezza, alla quale, per precisa scelta del legislatore comunitario, è stato assoggettato il servizio di consulenza 42. Proprio di questa valutazione di adeguatezza sembra, riguardo al profilo che qui più interessa, doversi offrire una lettura forte, sia pure non sino al punto di dedurre dalla medesima un obbligo per il consulente di prendere come termine di riferimento della sua prestazione (e dunque dell’attività di consiglio) strumenti finanziari senza limiti predeterminati 43. Indipendentemente cioè dalla circostanza per cui gli strumenti finanziari consigliati coincidano o meno con quelli offerti o commercializzati dallo stesso intermediario – consulente o da imprese del gruppo cui quest’ultimo appartiene e, ancora, indipendentemente dalla circostanza che il paniere di prodotti fra cui la consulenza viene effettuata sia più o meno

po’ la criticità derivante dall’incomprensibile scelta della MiFID di sottrarre il contratto di consulenza dall’obbligo di forma scritta (e, analogamente, è a dirsi per la previsione di cui all’art. 37, co. 2, lett. g) del Regolamento Intermediari, ove si prevede che, tutte le volte in cui la consulenza non è prestata in modo autonomo ma in connessione con un altro servizio di investimento, per iscritto debbano essere indicate modalità e contenuti della consulenza medesima). 42 Ciò significa che il consulente è tenuto a fornire raccomandazioni personalizzate che, oltre a perseguire come interesse preminente quello del destinatario della consulenza (secondo quanto disposto dall’art. 21, co. 1, lett. a), t.u.f., ove si impone ai soggetti abilitati che prestano servizi di investimento – consulenza compresa – di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse dei clienti), devono anche essere costruite sulla base, per l’appunto, di una valutazione di adeguatezza rispetto alla situazione di quest’ultimo. Per alcune riflessioni sulla regola dell’adeguatezza v. gli autori citt. retro., nt. 2. 43 Conforme De Mari, La consulenza in materia di investimenti, cit., p. 405.

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“nutrito”, il consulente avrà rispettato le regole che gli sono imposte dal regime di adeguatezza solo se abbia proposto al cliente un’operazione effettivamente adeguata al suo profilo. Di conseguenza, senza che, per nessuna ragione, la valutazione di adeguatezza possa essere intesa in senso relativo (ovvero alla stregua della scelta del prodotto più adeguato fra quelli offerti o commercializzati dall’intermediario), tutte le volte in cui nel paniere di prodotti a disposizione del consulente non ve ne sia neppure uno pienamente adatto al cliente, il servizio non potrà che concludersi fornendo a quest’ultimo questa precisa indicazione.

5. La consulenza «preparatoria». Per completare l’individuazione del perimetro di fattispecie della “consulenza in materia di investimenti”, resta ora da affrontare un’ultima, delicata questione, che, nelle considerazioni sin qui svolte (in particolare al n. 4.2.1.), è stata solo lambita. Si allude alla sorte riservata dalla MiFID alla c.d. consulenza preparatoria o strumentale: a quella attività, cioè, che, in via di primissima approssimazione, può dirsi consistente in singoli consigli o suggerimenti forniti alla clientela da un intermediario nel contesto della prestazione di un altro servizio di investimento. Sul punto sono state espresse dai primi commentatori opinioni contrastanti, alimentate, in parte, da un certo grado di confusione del tessuto normativo MiFID nel suo complesso e, in parte, ancora una volta dalla circostanza che, in epoca pre-MiFID, nell’elaborazione della Consob, i consigli forniti nell’ambito dello svolgimento di altri servizi d’investimento e in modo prodromico rispetto a questi ultimi non venivano considerati alla stregua di attività di consulenza in senso proprio, bensì come una sorta di attività di carattere ancillare e strumentale 44.

44 Che nell’elaborazione della Consob dalla nozione di consulenza vera e propria venisse esclusa la consulenza preparatoria – ossia quella attività che normalmente si accompagna alla prestazione di un altro servizio di investimento e che si concretizza nell’illustrazione alla clientela, da parte dell’intermediario (anche per il tramite dei promotori finanziari di cui il medesimo si avvale), del singolo strumento o servizio offerto, oppure, in chiave comparativa, dei diversi strumenti finanziari offerti dall’intermediario medesimo – si ricava chiaramente da una serie di documenti e comunicazioni, fra cui v. con particolare chiarezza la Comunicazione Consob n. BOR/RM/94005134 del 23 maggio 1994, ove tale “consulenza” viene ritenuta potenzialmente presente nello svolgimento di ogni attività di intermediazione mobiliare e considerata alla stregua di un corollario del ser-

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Così, secondo taluni, dal fatto che la raccomandazione personalizzata può avere a oggetto anche il compimento di una sola operazione («una o più operazioni» dispone testualmente l’art. 1, co. 5-septies, t.u.f., così come l’art. 4, par. 1, n. 4 della direttiva di “livello 1”), ne conseguirebbe l’assorbimento nella nuova nozione di consulenza anche della consulenza preparatoria 45. Diversamente, altri ritiene – specie facendo leva sull’82° considerando della direttiva di “livello 2” (su cui si tornerà fra breve) – che la consulenza strumentale, in quanto carente di carattere omnicomprensivo del servizio prestato e potenzialmente anche di neutralità dell’intermediario rispetto all’operazione consigliata, non presenti elementi identificativi propri, andando a confondersi con il servizio di investimento alla quale è connessa 46. Sul punto occorre evitare fraintendimenti verbali. Nel momento in cui l’intermediario si limiti a svolgere, in funzione della prestazione di altri servizi di investimento, una mera illustrazione di tali servizi, inclusi gli strumenti che ne sono oggetto, senza introdurre alcun elemento di personalizzazione rispetto al cliente interlocutore, senza dubbio l’attività resta al di qua della consulenza finanziaria, per difetto del requisito della “raccomandazione personalizzata”. E lo stesso è a dirsi per il caso in cui l’intermediario, nel rappresentare i servizi e prodotti offerti, formuli un consiglio costruito non sulla base delle caratteristiche proprie

vizio di investimento. Sul punto v. Parrella, Contratti di consulenza finanziaria, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli e Lener, Torino, 2004, II, p. 862 ss. 45 In questi termini Fiorio, La non adeguatezza, cit., p. 172, che adduce a sostegno di tale tesi anche la sottrazione della consulenza dalla necessità della forma scritta: sicché la consulenza potrebbe, allo stesso tempo, essere considerata un servizio di investimento ed una modalità con la quale vengono prestati i servizi di negoziazione; La Rocca, Appunti sul contratto, cit., p. 25 ss. 46 Così Zitiello, La consulenza, cit., p. 446, secondo cui la consulenza strumentale non necessita dell’applicazione delle regole poste per il servizio di consulenza in materia di investimenti, perché già trovano applicazione le analoghe regole dettate per il servizio di investimento per cui essa si pone appunto come strumentale. Sempre Zitiello, La consulenza, cit., p. 449, ritiene che il legislatore europeo abbia voluto dare rilevanza esclusivamente alla consulenza come attività di advice in senso pieno prestata sulla base della situazione del cliente e delle sue complessive esigenze; attività che non può dunque ridursi a singoli atti o a un’attività svolta in funzione della prestazione di un altro servizio di investimento. Su una posizione analoga si colloca anche Perrone, Obblighi di informazione, cit., p. 28, secondo il quale un ampliamento della nozione del servizio di consulenza anche alla consulenza preparatoria si risolverebbe in una interpretatio abrogans della distinzione tra execution only, servizi con valutazione di appropriatezza e consulenza.

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dell’interlocutore, bensì, ad esempio, su di un’analisi della congiuntura economico-finanziaria: ché, in questa ipotesi, di analisi finanziaria, sia pure rivolta a un soggetto determinato e dunque “individualizzata”, si tratterebbe. Il discorso cambia quando l’intermediario, sia pure in funzione della prestazione di altri servizi di investimento, fornisca al cliente uno o più consigli “personalizzati”. Il che può, ad esempio, accadere nell’ipotesi in cui l’intermediario, nell’illustrare – magari in chiave comparativa – i diversi strumenti finanziari offerti, proponga al cliente assistenza per meglio fargli comprendere quale tra questi risulti il più idoneo ai suoi bisogni e/o alle sue aspettative. In questo caso, non pare proprio vi sia spazio, nell’impostazione della MiFID, per poter parlare di consulenza strumentale, anziché di vera e propria “consulenza in materia di investimenti” 47. Così è quando il consiglio verte su strumenti finanziari specifici: nel contesto comunitario, infatti, non è dato rinvenire alcun indizio normativo che consenta di escludere tale attività – quand’anche si trattasse di un consiglio spot – dall’area della consulenza vera e propria 48. In tale direzione non può certo condurre il considerando n. 82 della direttiva di “livello 2”, poco sopra richiamato, che invita a ritenere parte integrante di un servizio di investimento (i.e.: non alla stregua di un servizio autonomo) «gli atti compiuti dall’impresa di investimento che siano preparatori alla prestazione del servizio». A tutto voler concedere, infatti, tale considerando potrebbe essere circostanza a favore della qualificazione (secondo l’esemplificazione in esso contenuta) in termini di atto preparatorio della “prestazione di consulenza generica” (i.e.: una consulenza in merito a un tipo di strumento finanziario, così come precisato nel considerando n. 81), ma non certo di quella di consulenza su determinati strumenti finanziari. Peraltro, nonostante il tenore del considerando n. 82 (elemento, non pare inopportuno ricordarlo ancora, per sua natura non concludente),

Va peraltro rilevato che è lo stesso Regolamento Intermediari a ipotizzare il caso di una consulenza prestata non in modo autonomo bensì in connessione con un altro servizio di investimento, quando all’art. 37, co. 2, lett. g) prevede che, in un caso di tal sorta, il contratto d’investimento deve indicare «se e con quali modalità e contenuti in connessione con il servizio d’investimento può essere prestata la consulenza in materia di investimenti». 48 Della stessa opinione anche De Mari, La consulenza in materia di investimenti, cit., p. 406. 47

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se si considera lo scopo della normativa sulla consulenza, non risulta convincente, invero, neppure ricondurre alla consulenza preparatoria (o “strumentale” che dir si voglia) le raccomandazioni rese in merito a una mera tipologia di strumento finanziario. Anche con riguardo ai consigli formulati dall’intermediario in funzione di un altro servizio di investimento offerto, possono riproporsi le considerazioni già più sopra svolte in ordine all’appartenenza al genus “consulenza in materia di investimenti” anche delle raccomandazioni aventi a oggetto tipologie di strumenti finanziari, purché “personalizzate” (v. retro, n. 4.1).

6. Perimetrabilità della nozione di consulenza e sua coerenza all’esigenza di tutela del cliente. Così ultimata la ricostruzione del perimetro della “consulenza in materia di investimenti”, è ora il momento di sciogliere la doppia questione inizialmente posta: della effettiva capacità della fattispecie disegnata dal legislatore europeo di riferirsi a un fenomeno sufficientemente determinato e coerente al bisogno di protezione del cliente. La risposta è positiva per entrambe le questioni. Infatti, si rientra nella consulenza ogniqualvolta un investitore sia destinatario, in modo individualizzato, di consigli, raccomandazioni o proposte presentategli da un intermediario come il frutto della valutazione da parte di quest’ultimo delle personali caratteristiche del cliente. Certo, la fattispecie è assai ampia, ma costruita attorno a un criterio univoco (: la personalizzazione) e del tutto coerente con il bisogno di protezione del cliente: essendogli mostrata la raccomandazione come calibrata sul suo proprio profilo, deve potervi fare assegnamento e, perciò, ha bisogno che la raccomandazione provenga da soggetto capace di fornirgliela adeguata e che effettivamente sia tale. Ogni “sottrazione” rispetto alla ricostruita fattispecie porterebbe il cliente al rischio di ricevere consigli presentati come buoni per sé senza però che questi siano stati rilasciati da soggetto (valutato) capace di sottoporli al giudizio di adeguatezza e senza che a tale giudizio siano stati sottoposti.

Antonella Sciarrone Alibrandi

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Il soprapprezzo delle azioni nelle banche di credito cooperativo tra statuto tipo e legge

Sommario: 1. Lo statuto tipo. – 1.1. La quantificazione. – 1.2. Il versamento e la successiva allocazione. – 1.3. Il rimborso. – 1.4. La circolazione della partecipazione. – 2. La disciplina legale. – 2.1. La quantificazione. – 2.2. Il versamento e la successiva allocazione. – 2.3. Il rimborso. – 2.4. La circolazione della partecipazione. – 3. Alcune possibili regole negoziali.

1. Lo statuto tipo. Nel ricostruire la prassi delle banche di credito cooperativo (d’ora innanzi BCC) circa il tema del soprapprezzo delle azioni non si può non partire dallo statuto tipo delle BCC (d’ora innanzi statuto tipo) , poiché la gran parte di queste banche ha certamente preso come riferimento per i propri statuti l’anzidetta disciplina uniforme. Anzi, segnalo che molti degli statuti da me compulsati si limitano a riportare in argomento esattamente il dettato dello statuto tipo. Dunque, è altamente probabile che la prassi delle BCC circa il soprapprezzo sia tale da rimanere sempre rispettosa della disciplina negoziale contenuta nello statuto tipo. 1.1. La quantificazione. La più importante regola statutaria standard delle BCC riguardante la quantificazione del soprapprezzo si trova nel primo comma dell’art. 22

Da ultimo modificato, nel marzo 2009, dalla Federazione Italiana delle Banche di Credito Cooperativo-Casse Rurali (Federcasse), d’intesa con la Banca d’Italia.

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statuto tipo, il quale così recita: «l’assemblea può determinare annualmente, su proposta del consiglio di amministrazione, l’importo (sovrapprezzo) che deve essere versato in aggiunta al valore nominale di ogni azione sottoscritta dai nuovi soci». La formulazione della clausola testé riprodotta corrisponde a quella contenuta nella versione dello statuto tipo approvata nel 2005, mentre si discosta assai da quella prevista nella versione dello statuto tipo approvata nel 2001 , il cui primo comma dell’art. 22 così recitava: «Il consiglio di amministrazione determina annualmente, ai sensi dell’art. 2525 c.c., con deliberazione successiva all’approvazione del bilancio da parte dell’assemblea, sentito il collegio sindacale, l’importo che, tenuto conto delle riserve patrimoniali risultanti dal bilancio approvato, deve essere versato in aggiunta al valore nominale di ogni azione (sovrapprezzo)» . La diversità tra le due regole negoziali appena riportate discende dalla diversità tra il previgente art. 2525, co. 3, c.c. e il vigente art. 2528, co. 2, c.c. nel disciplinare l’ammissione di un nuovo socio. Sulla base dell’art. 22 statuto tipo emergono tre regole fondamentali: a) la determinazione del valore del soprapprezzo spetta all’assemblea, su proposta del consiglio di amministrazione; b) il soprapprezzo non deve più essere necessariamente calcolato sulla base del patrimonio sociale, aumentandosi così la discrezionalità della società nel fissare il valore del primo; c) la società è libera di non prevedere il soprapprezzo, quand’anche il valore del patrimonio sociale fosse di gran lunga più elevato (come

Corrispondente, a sua volta, alla formulazione contenuta nella versione dello statuto tipo approvata nel 1994. Come risulta dalla lettera circolare di Federcasse F.L. n. 45/94, prot. n. 1490 dell’8 aprile 1994, lo statuto vigente prima dell’abrogazione del r.d. 26 agosto 1937, n. 1706 (TUCRA), avvenuta con l’art. 161, co. 1, t.u.b., stabiliva che fosse l’assemblea dei soci l’organo competente a stabilire il soprapprezzo; nella stessa lettera veniva precisato altresì che il soprapprezzo era proposto dal consiglio di amministrazione in una misura ritenuta «congrua al raggiungimento degli obiettivi prefissati, fra i quali ovviamente rientra l’incentivazione all’acquisto delle azioni della società». In generale, sul problema del soprapprezzo nelle BCC sotto la vigenza del TUCRA, cfr. Gatti, Il problema del sovrapprezzo che il nuovo socio deve versare all’atto del suo ingresso in una cassa rurale ed artigiana, in Coop. cred., 1972, p. 324 ss. Di cui si riproduce il testo per comodità del lettore: «Il nuovo socio deve versare, oltre l’importo della quota o dell’azione, una somma da determinarsi dagli amministratori per ciascun esercizio sociale, tenuto conto delle riserve patrimoniali risultanti dall’ultimo bilancio approvato».

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accade normalmente per le BCC da tempo costituite) del valore del capitale sociale. 1.2. Il versamento e la successiva allocazione. Il vigente statuto tipo prevede (conformemente agli statuti tipo del 1994, 2001 e 2005) all’art. 8, co. 2, che il nuovo socio, una volta che sia stata accolta la sua domanda di ammissione, deve effettuare «il versamento integrale dell’importo delle azioni sottoscritte e dell’eventuale sovrapprezzo». Circa invece l’allocazione delle somme versate a titolo di soprapprezzo, dal vigente statuto tipo (ancora corrispondente sul punto agli statuti tipo del 1994, 2001 e 2005) – là dove contempla la «riserva da sovrapprezzo azioni» nell’art. 19, co. 1, lett. c), implicitamente richiamata dall’art. 22, co. 2 – si ricava che tutti i soprapprezzi versati sono allocati nella predetta riserva. 1.3. Il rimborso. Del rimborso del soprapprezzo nel vigente statuto tipo (rimasto invariato rispetto alle sue versioni del 1994, 2001 e 2005) si parla nell’art. 15, co. 1, là dove si prevede che «il socio receduto o escluso o gli aventi causa del socio defunto hanno diritto soltanto al rimborso del valore nominale delle azioni e del sovrapprezzo versato in sede di sottoscrizione delle azioni, detratti gli utilizzi per copertura di eventuali perdite quali risultano dai bilanci precedenti e da quello dell’esercizio in cui il rapporto sociale si è sciolto limitatamente al socio». Si fa cenno al soprapprezzo anche nell’art. 22, co. 2, statuto tipo, il quale stabilisce che «il sovrapprezzo è imputato all’apposita riserva, che non potrà essere utilizzata per la rivalutazione delle azioni». Da segnalarsi infine il seguente comma opzionale dell’art. 21, statuto tipo, il quale – come si osserverà più avanti – disciplina indirettamente il (mancato) rimborso del soprapprezzo in caso di acquisto di azioni proprie: «il consiglio di amministrazione può deliberare l’acquisto di azioni della società, al loro valore nominale, nel limite degli utili distribuibili e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio regolarmente approvato». 1.4. La circolazione della partecipazione. Nello statuto tipo non si fa alcun cenno alla sorte del soprapprezzo versato in caso di cessione, a qualsiasi titolo, di una parte o di tutta la

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partecipazione sociale rispetto alla quale è stato pagato il soprapprezzo. Proprio in ragione del silenzio dello statuto tipo, gli operatori si chiedono se, una volta che un socio trasferisca per atto inter vivos una parte o l’intera sua partecipazione a chi non sia socio, la BCC, dopo aver ammesso quest’ultimo, debba richiedere al cessionario il versamento del soprapprezzo relativo alle azioni da lui acquistate e se la stessa debba imputare al cessionario la quota della riserva da soprapprezzo originariamente versata dal cedente.

2. La disciplina legale. 2.1. La quantificazione. 2.1.1. Sulla base dell’art. 2528, co. 2, c.c. si può senz’altro ritenere legittima la disciplina contenuta nello statuto tipo relativamente alla quantificazione del soprapprezzo. Innanzitutto, sono persuaso che come per le cooperative di diritto comune, così per le BCC la determinazione del soprapprezzo spetti inderogabilmente all’assemblea dei soci . Questo mio convincimento discende dal fatto che tale determinazione concorre a distinguere chiaramente il potere dei soci nel fissare le direttive da osservare nell’ammettere nuovi soci dal potere degli amministratori di dare esecuzione a dette direttive. In effetti, se più è alto il soprapprezzo richiesto all’aspirante socio, più è difficoltoso il suo ingresso in BCC; se sono i soci a fissare statutariamente non solo quale sia il valore nominale minimo della partecipazione, ma anche i requisiti per ammettere nuovi soci ex art. 2527, co. 1, c.c. (applicabile alle BCC per non essere stato espressamente ritenuto incompatibile con le stesse dall’art. 150-bis, co. 1, t.u.b.); allora, la determinazione del soprapprezzo contribuisce a fissare i criteri che vincoleranno gli amministratori nell’attuare il necessario carattere aperto della BCC . Noto poi che il

Dello stesso avviso, relativamente alle cooperative di diritto comune, è A. Chieffi, Commento all’art. 2528, in Commentario alla riforma delle società diretto da Marchetti, Bianchi, Grezzi, Notari, Milano, 2007, p. 249. Su tale carattere, circa il diritto comune delle cooperative, è d’obbligo il rinvio ad A. Mazzoni, La porta aperta delle cooperative tra premesse ideologiche e nuovo diritto positivo, in Il nuovo diritto delle società: liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, 4, Torino, 2007, p. 765 ss.

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controllo dei soci sugli amministratori circa le politiche di allargamento della base sociale è non solo preventivo, ma anche successivo, grazie all’inderogabile flusso informativo garantito ai primi dall’ultimo comma dell’art. 2528 c.c.: il dovere degli amministratori di illustrare nella relazione al bilancio «le ragioni delle determinazioni assunte con riguardo all’ammissione dei nuovi soci» consente infatti ai vecchi soci di verificare ex post come gli amministratori abbiano concretizzato il carattere aperto della loro cooperativa. Se la competenza assembleare di stabilire il soprapprezzo discende (non dal contratto sociale, bensì) dalla legge, i soci potranno prevedere il soprapprezzo delle nuove azioni quand’anche tale facoltà non sia menzionata nello statuto. Naturalmente, la determinazione in cifra fissa e definitiva del soprapprezzo può valere solo per le nuove azioni; sarebbe pertanto invalida ed inefficace la deliberazione assembleare con la quale si imponesse ai soci di incrementare il soprapprezzo delle azioni già sottoscritte. Dunque, ogni determinazione in cifra fissa e definitiva del soprapprezzo non può che valere per il futuro. Da precisare inoltre che l’assemblea, nel disciplinare il soprapprezzo, può limitarsi a fissare i criteri oggettivi per poterlo poi computare. A titolo esemplificativo, sarebbe pertanto legittima la deliberazione che prevedesse un automatico incremento annuale del soprapprezzo in base all’inflazione dell’anno precedente. In tutti questi casi spetterà al consiglio di amministrazione comunicare periodicamente quale sia il soprapprezzo da pagare, calcolato sulla base dei criteri fissati ex ante dall’assemblea. La determinazione del soprapprezzo spetta ai soci anche quando la sottoscrizione delle nuove azioni sia effettuata mediante beni diversi dal denaro nei seguenti momenti: in sede di costituzione della società, poiché il soprapprezzo è fissato nel contratto sociale; in sede di ammissione del nuovo socio, poiché il soprapprezzo è fissato in una deliberazione dell’assemblea ordinaria ai sensi dell’art. 2528, co. 2, c.c.; in sede di aumento straordinario del capitale sociale deliberato ai sensi degli artt. 2436 ss., c.c. (in quanto compatibili con la disciplina speciale delle BCC e con la necessaria variabilità del loro capitale sociale) , poiché il soprapprezzo deve risultare dalla relativa delibera dell’assemblea straor-

In argomento, da ultimo, cfr. Cusa, Gli aumenti di capitale nelle società cooperative, in Giur. comm., 2009, I, p. 336 ss.

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dinaria ex art. 2441, co. 6, c.c. . Che il capitale di una BCC possa essere aumentato conferendo anche beni diversi dal denaro si ricava non solo dall’assenza di un’apposita disposizione speciale capace di restringere (rispetto a quanto dispone la disciplina comune delle s.p.a.) i beni conferibili in una banca, ma anche da un’espressa indicazione contenuta nel Tit. I, Cap. 1, Sez. II, circ. Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999 (Istruzioni di Vigilanza per le banche, d’ora innanzi IVB), là dove si precisa che il capitale sociale iniziale di una banca (ossia quello esistente al momento in cui si chiede alla Banca d’Italia l’autorizzazione a svolgere l’attività bancaria) non deve essere composto per più di sette decimi dai valori nominali delle azioni emesse a fronte di conferimenti diversi dal denaro. Non va infine dimenticato che, qualora l’assemblea decida di prevedere un soprapprezzo, la sua discrezionalità non è illimitata, come si potrebbe ritenere leggendo soltanto l’art. 2528, co. 2, c.c. In effetti, la Banca d’Italia precisa nel Tit. VII, Cap. 1, Sez. II, par. 3, IVB che le BCC «in ogni caso … adottano politiche aziendali tali da favorire l’ampliamento della compagine sociale; di ciò tengono conto nella determinazione della somma [del soprapprezzo] che il socio deve versare oltre all’importo dell’azione, secondo quanto previsto dall’art. 2525, co. 3, [rectius, dall’art. 2528, co. 2] del codice civile (cd. sovrapprezzo azione)». 2.1.2. Dal combinato disposto degli artt. 2528, co. 2 (ove si parla di «soprapprezzo eventualmente determinato») e 2535, co. 2, c.c. (ove si precisa che la quota di liquidazione spettante al socio uscente comprende normalmente anche il soprapprezzo, «ove versato») si può trovare conferma del fatto che una BCC potrebbe non prevedere il soprapprezzo .

Favorevole all’applicazione dell’art. 2441, co. 6, c.c., alle cooperative di diritto comune è, ad esempio, A. Paciello, Commento all’art. 2524, in Commentario alla riforma delle società, cit., p. 180. Rimane aperto il problema dell’obbligo del soprapprezzo, quando la BCC dovesse – ma non sembra essere mai accaduto – aumentare il capitale sociale con deliberazione dell’assemblea straordinaria, limitando o escludendo il diritto di opzione dei vecchi soci; in tale situazione, infatti, qualcuno potrebbe sostenere l’applicazione, pur adattato ai sensi dell’art. 2519, co. 1, c.c., dell’art. 2441, co. 6, c.c.; sul punto si rimanda, da ultimo, a G. Petroboni, Commento all’art. 2524, in Codice civile commentato2, a cura di Alpa e Mariconda, 2009, p. 2653, il quale ritiene che «in caso di esclusione o limitazione dell’opzione, nella coop-s.p.a. non sia necessario il versamento di un sovrapprezzo».

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Oltre al dato testuale dianzi riportato, rammento, da un canto, che la quasi totalità delle riserve nelle BCC non sono distribuibili tra i soci, neanche quando la società dovesse sciogliersi [ai sensi dell’art. 2514, co. 1, lett. c e d), c.c., il cui primo comma, si applica alle BCC ai sensi dell’art. 150-bis, co. 4, t.u.b.] e, dall’altro, che le poche riserve distribuibili tra i soci (tra le quali mi piace ricordare quella da ristorni 10 e quella da soprapprezzo) hanno (come si vedrà nel prosieguo circa la riserva da soprapprezzo) dei destinatari potenziali determinati fin dall’allocazione di ciò (utili o altro) che è andato a incrementare la relativa riserva. Il soprapprezzo nelle BCC, dunque, quando è previsto, è un valore proporzionale non già – come normalmente accade nelle società lucrative – alla differenza tra il patrimonio sociale e il capitale sociale, bensì alla differenza tra il valore delle vecchie azioni in caso di rimborso (e non, come solitamente accade nelle società di capitali, il valore più vicino possibile a quello reale delle vecchie azioni 11) e il valore nominale delle nuove. In conclusione, quindi, il nuovo socio, se non può appropriarsi pro quota delle poche riserve distribuibili, può legittimamente entrare in società senza pagare alcun soprapprezzo, se questa è la decisione dell’assemblea dei soci. Dalle considerazioni appena esposte si capisce la ragione della modifica dell’art. 2528, co. 2, c.c., nel quale non si impone più ai soci di determinare il soprapprezzo tenendo conto «delle riserve patrimoniali risultanti dall’ultimo bilancio approvato» (previgente art. 2525, co. 3, c.c.). Sicché, ad esempio, la fissazione del soprapprezzo potrebbe essere effettuata prescindendo completamente dal patrimonio sociale ed essere invece basata sul vantaggio economico derivante dalla conclusione dei contratti bancari (aventi a oggetto lo scambio mutualistico) non più come semplice cliente, bensì come socio della BCC. In quest’ultimo caso, il soprapprezzo potrebbe essere pagato solo da chi non è ancora socio. Ma, allora, la determinazione del soprapprezzo è sostanzialmente una scelta strategica della BCC, comunque rimessa ai soli soci, capace di incidere sia sul carattere aperto della cooperativa, sia sulla sua patrimonializzazione.

Sulla cui legittimità, dopo la riforma del diritto societario del 2003, si è espresso, tra gli altri, Santagata, Le riserve nelle nuove società cooperative tra mutualità e mercato, in RDS, 2007, pp. 70-73. 11 Così, ex multis, P. Balzarini, Commento all’art. 2431, in Commentario alla riforma delle società, cit., p. 623. 10

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Circa il rapporto tra patrimonializzazione della BCC e ammontare del soprapprezzo è utile segnalare che la crescita di quest’ultimo è inversamente proporzionale all’appetibilità economica delle azioni delle BCC, poiché quanto versato a titolo di soprapprezzo non può essere incluso né nella base di calcolo del dividendo ai sensi dell’art. 2514, co. 1, lett. a), c. c. 12, né nella quota di liquidazione del socio in sede di scioglimento della società ai sensi dell’art. 2514, co. 1, lett. d), c.c. Nondimeno, va segnalato nell’interesse della società (specie quando il socio sottoscrivesse azioni mediante beni diversi dal denaro) che il valore imputato a riserva da soprapprezzo non si calcola al fine di verificare l’osservanza del plafond legale alla partecipazione sociale fissato dall’art. 33, co. 4, t.u.b., essendo detto plafond basato (non sull’intero valore del conferimento, bensì) sulla sola parte del valore della conferimento imputata a capitale sociale. Se il pagamento del soprapprezzo è legato alla delibera assembleare che l’ha determinato, nel silenzio di quest’ultima non sarebbe legittimo consentire al vecchio socio di pagare un soprapprezzo pari (non già a quello in vigore al momento della sottoscrizione di nuove azioni, bensì) a quello diverso determinato al momento del suo ingresso in società. Dunque, nel silenzio della deliberazione assembleare fissante il soprapprezzo per qualsiasi socio, in sede di sottoscrizione di nuove azioni, il vecchio socio è tenuto a pagare lo stesso soprapprezzo che deve pagare il nuovo socio. 2.2. Il versamento e la successiva allocazione. 2.2.1. Il soprapprezzo, se determinato, deve essere interamente versato al momento della sottoscrizione delle nuove azioni: questa regola imperativa discende dal combinato disposto degli artt. 2342 e 2439, co. 1, c.c., certamente compatibili con l’ordinamento delle BCC ai sensi dell’art. 2519, co. 1, c.c. Ovviamente, non v’è versamento del soprapprezzo, se questo non corrisponde a una somma di denaro. Il che può verificarsi quando l’emissione delle nuove azioni avvenga a fronte del conferimento di beni conferibili diversi dal denaro e il valore di detti beni imputato a capitale sia inferiore al valore degli stessi risultanti dalla stima giurata di cui all’art. 2343 c.c.

12 Sul punto cfr. Cusa, Diritto e prassi nei bilanci delle cooperative, in Riv. dir. comm., 2009, I, p. 116 s.

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L’intero valore corrispondente al soprapprezzo deve far parte del patrimonio della BCC fin dalla sottoscrizione delle nuove azioni, vuoi quando queste ultime siano state emesse in sede di costituzione della società, vuoi quando le stesse siano state emesse in sede di aumento reale del capitale sociale deciso o dagli amministratori (ai sensi dell’art. 2528 c.c.) o dall’assemblea straordinaria (ai sensi degli artt. 2436 ss. c.c.). Da segnalarsi la legittima prassi secondo la quale il sottoscrittore delle azioni, quando è un aspirante socio, autorizza preventivamente (firmando la propria domanda di ammissione) la BCC ad addebitare sul proprio conto corrente bancario l’importo corrispondente al valore nominale della partecipazione che intende sottoscrivere, aumentato dell’eventuale soprapprezzo. Non è invece ammissibile che la BCC conceda un finanziamento al sottoscrittore per liberarsi dall’obbligo del conferimento: questa evenienza non rientra infatti tra le ipotesi (da ultimo modificate col d.lgs. 4 agosto 2008, n. 142) in presenza delle quali l’art. 2358, co. 1, c.c. (da ritenersi compatibile con l’ordinamento delle BCC) consente alla società emittente di accordare prestiti o fornire garanzie per la sottoscrizione di proprie azioni. Circa il versamento del soprapprezzo rimane da accertare se sia possibile imporlo anche a chi sia già socio della BCC. Contro tale ipotesi qualcuno potrebbe argomentare sulla base non già dell’art. 2528, co. 2, c.c. (atteso che tale norma disciplina espressamente la sola sottoscrizione di partecipazioni da parte del nuovo socio) 13, bensì dell’art. 9 l., 31 gennaio 1992, n. 59, il quale, nel determinare la quota di liquidazione spettante al socio uscente, prevede che detta quota comprenda anche «il rimborso del sovrapprezzo che il socio abbia versato al momento della sua ammissione nella società». L’esposta argomentazione non tiene però conto del fatto che il citato art. 9 prende in considerazione espressamente solo ciò che normalmente accade, ma non anche tutto ciò che può accadere. Detto altrimenti, nelle cooperative il soprapprezzo può essere pagato ogniqualvolta l’assemblea abbia deciso che la somma in parola debba essere pagata. Ovviamente, questo pagamento dovrà avvenire in sede di sottoscrizione di azioni, atteso che la nozione di soprapprezzo presuppone la sua corresponsione in correlazione con l’emissione di nuove azioni.

13 Della stessa opinione è Gatti, Il problema, cit., pp. 328-330, circa l’analoga questione in forza del previgente art. 2525, co. 3, c.c., il quale esordiva – come il vigente art. 2528, co. 2, c.c. – con le seguenti parole: «Il nuovo socio deve versare …».

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Se si vuole verificare la correttezza dell’imposizione del soprapprezzo anche ai vecchi soci, quando incrementano la loro partecipazione sociale, bisogna prima accertare quale sia la disciplina statutaria del soprapprezzo adottata dalla cooperativa di cui si intenda valutare il comportamento. Se lo statuto della BCC prevede che il soprapprezzo debba essere pagato anche dai vecchi soci, allora la determinazione del soprapprezzo da parte dell’assemblea vale in presenza di qualsiasi sottoscrittore (socio o terzo). Se lo statuto della BCC è privo di qualsiasi disciplina del soprapprezzo, allora l’assemblea, quando stabilisce il soprapprezzo, può liberamente decidere – come vedremo successivamente – se farlo pagare a tutti i soci, ai soli nuovi soci o ai soli vecchi soci. Se, infine, lo statuto della BCC contiene una disciplina conforme all’art. 22 statuto tipo, come accade nella maggior parte dei casi, allora la determinazione assembleare del soprapprezzo non può che valere per i soli nuovi soci; una diversa deliberazione assembleare sarebbe pertanto annullabile ex art. 2377 c.c., non essendo stata presa in conformità dello statuto 14. 2.2.2. La previsione statutaria di allocare tutti i soprapprezzi versati dai soci nella riserva da sovrapprezzo azioni non solo è legittima, ma è addirittura doverosa, essendo conforme alla disciplina inderogabile composta dal sinergico operare sul punto del diritto bancario e del diritto societario. In effetti la «riserva da sovrapprezzo azioni» di cui all’art. 19, co. 1, lett. c), statuto tipo, non è altro che la riserva corrispondente alla voce 170 (denominata Sovrapprezzi di emissione) dello stato patrimoniale delle BCC, prevista dalla circ. Banca d’Italia n. 262 del 22 dicembre 2005 (Il bilancio bancario: schemi e regole di compilazione) e disciplinata (per quanto compatibile con la speciale disciplina delle BCC) anche dall’art. 2431 c.c. (il cui primo comma prevede che questa riserva è costituita dalle «somme percepite dalla società per l’emissione di azioni a un prezzo superiore al loro valore nominale»). Da non

14 Ci si domanda, tuttavia, se il surricordato art. 22 statuto tipo disciplini soltanto la determinazione del soprapprezzo ai sensi dell’art. 2528 c.c. Se questo fosse l’ambito applicativo di tale disciplina standard, l’assemblea di una BCC con uno statuto conforme a quello tipo in materia di soprapprezzo, qualora deliberasse l’aumento del capitale ai sensi dell’art. 2524, co. 3, c.c., potrebbe imporre il pagamento del soprapprezzo a qualsiasi sottoscrittore delle nuove azioni, anche se costui fosse già socio.

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dimenticare, infine, che la riserva in esame è espressamente indicata tra gli elementi patrimoniali delle banche che vanno a costituire il loro patrimonio di vigilanza di base ai sensi del Tit. I, Cap. 2, Sez. II, par. 1.1 circ. Banca d’Italia n. 263 del 27 dicembre 2006 (Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche). 2.2.3. La riserva da soprapprezzo azioni, come la riserva da ristorni, può essere definita come una riserva sì di proprietà della cooperativa, andando a formare il suo patrimonio sociale, ma che potrebbe domani essere ripartita tra determinati soci; sicché la BCC, qualora stabilisca espressamente la ripartibilità della riserva da soprapprezzo (o non stabilisca espressamente l’irripartibilità di detta riserva, stante il combinato disposto degli artt. 2535, co. 2, c.c. e 150-bis t.u.b.), dovrà mantenere una contabilità idonea a consentire in qualsiasi momento il calcolo della porzione della riserva in parola attribuibile a ciascun socio interessato. Proprio in ragione di questa possibile ripartizione tra determinati soci, si parla delle riserve da soprapprezzo o da ristorni come riserve targate o individualizzate (ossia di un patrimonio indiviso, ma divisibile tra specifici soci, verificatesi date circostanze). 2.3. Il rimborso. Sulla base dell’art. 2535, co. 2, c.c. – certamente compatibile con la disciplina delle BCC in forza specialmente dell’espresso richiamo dell’art. 9 l., n. 59/1992 operato dall’art. 150-bis, co. 3, t.u.b. – si può senz’altro confermare la legittimità dell’art. 15, co. 1, statuto tipo, nella parte in cui prevede sì il rimborso del soprapprezzo (versato al momento della sottoscrizione delle nuove azioni), ma solo a condizione che da tale ammontare siano stati «detratti gli utilizzi per copertura di eventuali perdite quali risultano dai bilanci precedenti e da quello dell’esercizio in cui il rapporto sociale si è sciolto limitatamente al socio». In effetti, il rimborso in parola non costituisce per il socio un diritto di credito intangibile; sarebbe pertanto illegittima una pattuizione statutaria, difforme da quella appena riportata, con la quale si garantisse incondizionatamente al socio uscente il rimborso di quanto versato a titolo di soprapprezzo, quand’anche la relativa riserva fosse stata nel frattempo ridotta o azzerata per coprire proporzionalmente le perdite sociali. Il socio può vedersi liquidato il soprapprezzo sia direttamente, sia indirettamente (ossia mediante sua imputazione a capitale sociale).

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La liquidazione diretta del soprapprezzo può aversi per morte del socio, sempreché a costui non succeda un suo erede 15, per recesso del socio 16, necessariamente totale, per esclusione del socio o per acquisto o rimborso delle proprie azioni da parte della BCC. In quest’ultima ipotesi, l’unica in cui il beneficiario del rimborso può conservare la qualità di socio (potendo mantenere una parte della propria partecipazione sociale), è però sempre ammissibile prevedere – come stabilisce oggi il comma opzionale dell’art. 21 statuto tipo sopra riportato – che il compenso pagato al socio non includa il soprapprezzo connesso con la partecipazione acquistata. Tuttavia, specie se si volesse incentivare la sottoscrizione di nuove azioni per migliorare il patrimonio di vigilanza della banca, sarebbe coerente prevedere statutariamente, accanto al rimborso del soprapprezzo in caso di scioglimento del rapporto sociale, lo stesso rimborso in caso di acquisto o rimborso di azioni proprie. Certamente nulla sarebbe la clausola statutaria che prevedesse il rimborso del soprapprezzo, ancora esistente nel patrimonio sociale, una volta conclusa la liquidazione (coatta o volontaria) della BCC; questa pattuizione sarebbe infatti contraria all’art. 2514, co. 1, lett. d), c.c. (la cui imperatività è sancita per tutte le BCC dall’art. 150-bis, co. 4, t.u.b.), il quale impone alla società liquidata di riconoscere al socio il solo valore nominale della sua partecipazione. Anticipavo sopra che il rimborso del soprapprezzo può avvenire anche imputandolo in tutto o in parte a capitale sociale. La legittimità di questa operazione può ricavarsi specialmente dal richiamo degli artt. 7 e 9 l., n. 59/1992 operato dall’art. 150-bis, co. 3, t.u.b., là dove si prevede espressamente (grazie alla chiusa del citato dell’art. 9) che il soprapprez-

La disciplina standard delle BCC è sul punto la seguente: «In caso di morte del socio, qualora gli eredi non abbiano richiesto, nel termine di un anno dalla data del decesso del de cuius, il trasferimento delle azioni a loro nome o detto trasferimento non sia stato approvato dal consiglio di amministrazione, la società provvederà al rimborso delle azioni» (art. 12, co. 1, statuto tipo). 16 Così la disciplina standard delle BCC: il consiglio di amministrazione accoglie o meno la dichiarazione unilaterale di recesso «sentito il collegio sindacale e tenuto conto della situazione economica e patrimoniale della società» (art. 13, co. 4, statuto tipo). Questa disposizione parrebbe di dubbia legittimità, se significasse che la BCC potrebbe considerare inefficace il recesso (pur al verificarsi di una causa legale o statutaria di recesso) fino a quando l’entità del patrimonio della BCC non consentisse il rimborso della quota di partecipazione del recedente. In effetti, salvo diversa disposizione legale (e non solo statutaria), prevale il diritto al rimborso del socio che recede rispetto al potere della società di non accettare il recesso, pur in presenza di una causa di recesso. 15

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zo può essere imputato a capitale sociale. Questa imputazione può però avvenire solo se ciascun socio si veda incrementata proporzionalmente la propria partecipazione sociale per un ammontare non superiore al soprapprezzo connesso a detta partecipazione (ossia versato dal beneficiario del rimborso o dai precedenti titolari della stessa partecipazione) 17. Una volta rispettato tale limite, non è necessario osservare anche il limite alla ripartibilità della riserva contenuto nell’art. 2431 c.c.; il che può giustificarsi, in quanto la BCC (per incompatibilità dell’art. 2430, co. 1, c.c. con l’art. 37, co. 1, t.u.b.) non solo deve destinare a riserva legale almeno il settanta per cento degli utili di esercizio (mentre le banche in forma di s.p.a. devono destinare a riserva legale solo il cinque per cento dei loro utili netti annuali), ma deve farlo anche senza limiti quantitativi (nelle società di capitali, invece, l’obbligo in esame cessa con il raggiungimento del quinto del capitale sociale). Tuttavia, per le BCC – e sono la maggior parte – che abbiano nel proprio statuto una regola corrispondente a quella dell’art. 22, co. 2, statuto tipo (in cui si preclude l’utilizzo della riserva da soprapprezzo «per la rivalutazione delle azioni»), è impedita la liquidazione indiretta del soprapprezzo realizzata mediante rivalutazione delle partecipazioni dei vecchi soci 18. La BCC, se liquida direttamente o indirettamente il soprapprezzo, riducendo proporzionalmente la riserva da sovrapprezzo azioni, non perde le agevolazioni fiscali per aver violato l’art. 2514, co. 1, lett. c), c. c., probabilmente nemmeno qualora dovesse utilizzare un soprapprezzo entrato nel patrimonio della BCC prima del 1994. In effetti, diversamente da quanto è previsto per la riserva legale, almeno per le BCC 19, l’ampio divieto di cui all’art. 2514, co. 1, lett. c), c.c. [il quale abroga per sostituzione il precedente art. 26, co. 1, lett. b), d.lgs. C.p.S. 14 dicembre 1947, n. 1577] è derogato dall’art. 150-bis, co. 3, t.u.b., il quale, nel richiamare l’art. 9 l., n. 59/1992, implicitamente riconosce la possibilità per le BCC di rimborsare ai soci il soprapprezzo, sempreché nel frattempo detto importo non sia stato ridotto per coprire perdite sociali.

17 Altrimenti ciò che eccedesse il plafond sopra evidenziato non sarebbe più un rimborso (pur indiretto) del soprapprezzo, come invece pare richiedere l’art. 2535, co. 2, c.c. 18 Rimane da capire se, in presenza della pattuizione negoziale riportata nel testo, la BCC possa imputare a capitale il soprapprezzo senza però rivalutare il valore nominale delle azioni dei propri soci. 19 Si discute invece se le cooperative a mutualità prevalente di diritto comune possano distribuire la riserva da soprapprezzo senza violare l’art. 2514, co. 1, lett. c), c.c.

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2.4. La circolazione della partecipazione. Rimane da verificare il regime del soprapprezzo in caso di circolazione della partecipazione a cui è collegato il soprapprezzo a suo tempo imputato nella riserva da soprapprezzo azioni. Per risolvere la questione occorre ricordare che il soprapprezzo è versato in occasione della sottoscrizione di nuove azioni e, secondo il codice civile, è strettamente legato (non già alla persona del sottoscrittore, bensì) alla partecipazione sottoscritta. Non va poi dimenticato che la partecipazione del socio può essere costituita da più azioni, alcune sottoscritte dal loro attuale titolare e altre solo acquistate dallo stesso (da un altro socio o dalla stessa società che le abbia prima acquistate). Dal ciò deriva la necessità di accertare a chi spetti la parte della riserva da soprapprezzo da liquidare, una volta che si siano verificate le condizioni per rimborsare pro quota detta riserva. Proprio dall’esposta considerazione mutuata dall’impostazione codicistica (secondo la quale il soprapprezzo è legato alla partecipazione sociale) si risolvono una serie di problemi relativi alla destinazione del soprapprezzo in caso di circolazione delle azioni emesse da una BCC (con una disciplina statutaria però difforme da quella contenuta nel primo comma dell’art. 15, statuto tipo). La regola da seguire in tutte queste ipotesi, infatti, è la seguente: il beneficiario del rimborso del soprapprezzo è soltanto colui che sia titolare delle azioni (eventualmente diverso dal sottoscrittore delle stesse) che devono essere liquidate o acquistate dalla BCC. Ma, allora, qualsiasi trasferimento delle azioni di BCC – sia per atto tra vivi, sia a causa di morte, comportante o meno la perdita della qualità di socio in capo al cedente – non determina mai il rimborso del soprapprezzo, a meno che il cessionario sia la stessa BCC (e sempreché quest’ultima abbia adottato una disciplina statutaria difforme da quella di cui all’art. 21, statuto tipo) ai sensi del combinato disposto degli artt. 2529 c. c. e 150-bis t.u.b. Il trasferimento delle azioni ha però un effetto sulla riserva da soprapprezzo per la BCC con una disciplina statutaria conforme all’art. 2535, co. 2, secondo periodo, c.c., costringendo detta banca a riferire contabilmente il soprapprezzo legato alla partecipazione trasferita non più al cedente, bensì al cessionario; solo quest’ultimo, infatti, potrà un domani vedersi pagato il soprapprezzo, quando la relativa partecipazione sarà liquidata o acquistata dalla BCC. Naturalmente, quando il cedente trasferirà solo una parte della sua partecipazione, dovrà riferirsi al cessionario

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la sola parte della riserva da soprapprezzo connessa con la partecipazione trasferita. Tuttavia, le affermazioni contenute nella prima parte di questo paragrafo non valgono per la BCC con una disciplina statutaria conforme al primo comma dell’art. 15 statuto tipo. In questa clausola standard, infatti, v’è non già la regola dispositiva prevista nell’art. 2535, co. 2, c.c., secondo la quale la liquidazione della partecipazione sociale «comprende anche il rimborso del soprapprezzo, ove versato», bensì la più restrittiva regola secondo la quale il socio uscente ha «diritto soltanto al rimborso del valore nominale delle azioni e del sovrapprezzo versato in sede di sottoscrizione delle azioni». Da questa disciplina statutaria derivano due interessanti conseguenze in caso di trasferimento delle azioni: da un lato, il cessionario, non avendo versato alcun soprapprezzo relativamente alle azioni acquistate, non potrà in sede di liquidazione della propria partecipazione vedersi rimborsato il soprapprezzo collegato a dette azioni, non avendole lui sottoscritte; dall’altro, la parte della riserva da soprapprezzo corrispondente ai soprapprezzi pagati dal socio cedente andrà a costituire (o ad aumentare) la parte non distribuibile della riserva in parola o, detto altrimenti, verrà definitivamente incamerata dalla società. L’esposta limitazione negoziale al rimborso del soprapprezzo è assolutamente legittima, poiché lo statuto, come può escluderne il rimborso, così può prevederne il rimborso solo a chi l’abbia originariamente versato, collegando così il soprapprezzo non tanto alla partecipazione (come si ha nell’impostazione codicistica sopra illustrata), quanto al socio che l’ha versato. Stante la disciplina contenuta nell’art. 15, co. 1, statuto tipo, è ragionevole pensare che il prezzo delle azioni di BCC, in caso di loro vendita, sarà normalmente pari al loro valore nominale, corrispondendo quest’ultimo al valore ottenibile dall’acquirente in caso di loro liquidazione da parte della società. Ma, allora, la predetta regola statutaria è sinergica con quella opzionale dell’art. 21, statuto tipo, il quale impone alla banca, in caso di acquisto di azioni proprie, di pagare al socio cedente solamente il loro valore nominale. In conclusione, quindi, in presenza di una BCC che abbia recepito nel proprio statuto le due regole standard dianzi ricordate, la circolazione delle sue azioni (qualsiasi sia il relativo acquirente: un altro socio, un terzo o la società emittente) non solo non comporterà alcun rimborso o esborso del soprapprezzo, ma avverrà normalmente al loro valore nominale.

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3. Alcune possibili regole negoziali. Come si è sopra evidenziato, i soci della BCC godono di un’ampia autonomia nel disciplinare il soprapprezzo. In effetti, nello statuto, nella deliberazione dell’assemblea ordinaria ai sensi dell’art. 2528, co. 2, c.c., o nella deliberazione dell’assemblea straordinaria con la quale la BCC aumenta realmente il proprio capitale ai sensi dell’art. 2436 ss. c.c., si può non prevedere il soprapprezzo, come si può prevederlo e, in quest’ultimo caso, si può fissarlo senza doverlo calcolare sulla base di un dato parametro legale. Nel determinare l’ammontare del soprapprezzo v’è però un vincolo ricavabile dalla stessa nozione di soprapprezzo. In effetti, il soprapprezzo, qualsiasi sia la sua disciplina statutaria, è connesso al numero delle azioni sottoscritte, dovendo il primo corrispondere alla differenza tra il prezzo di emissione e il valore nominale dell’azione; il che distingue il soprapprezzo dalla tassa di ammissione 20 – solitamente richiesta dalla cooperativa a copertura delle spese che potrà sostenere a motivo dell’ingresso del nuovo socio – la quale, a mio parere, è legittima a condizione che il suo ammontare non neghi il necessario carattere aperto dell’organizzazione richiedente 21. Dunque, l’esposto legame del soprapprezzo all’azione fa sì che i soci, se fissano un soprapprezzo, devono prevederlo proporzionale al numero delle azioni sottoscritte. La società, nel determinare il soprapprezzo, può differenziare sia i soci tra loro, sia i soci dai terzi: nel primo caso il diverso importo del soprapprezzo dovrà essere fissato osservando la parità di trattamento tra i soci (ossia dovendo trattare in modo uguale i soli soci che si trovano nelle medesime condizioni) 22 e dovrà comunque non risultare in contrasto con la buona fede (altrimenti la relativa deliberazione potrà essere

20 Analogamente Bassi, Principi generali della riforma delle società cooperative, Milano, 2004, p. 63. 21 Altra possibile differenza tra soprapprezzo e tassa di ammissione è che la seconda è versata necessariamente a fondo perduto (irripetibile quindi in sede di liquidazione della quota) e determinata in cifra fissa (senza cioè alcuna correlazione con il valore del patrimonio sociale o con la partecipazione sottoscritta), mentre il primo può non essere a fondo perduto, se si prevede il suo computo nella determinazione della quota di liquidazione spettante al socio uscente. 22 Sarebbe pertanto legittima la fissazione di soprapprezzi differenziati per diverse categorie di azioni (sul punto cfr. Mucciarelli, Il sopraprezzo delle azioni, Milano, 1997, p. 216 ss.) e per diverse categorie di soci, sempreché detta differenziazione non risulti arbitraria e a danno di una parte dei soci.

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annullata); nel secondo caso il diverso importo potrà essere stabilito con la più ampia libertà (non operando il principio di parità di trattamento tra chi è già socio e chi non lo è ancora), al limite imponendo il versamento del soprapprezzo ai soli nuovi soci. Da segnare, infine, che i soci sono legittimati a prevedere un soprapprezzo diverso per ogni aumento reale del capitale sociale deliberato ai sensi degli artt. 2436 ss. c.c., così come potranno periodicamente cambiare il soprapprezzo fissato ai sensi dell’art. 2528, co. 2, c.c.; in tutti questi casi, infatti, il cambiamento del valore del soprapprezzo varrà allo stesso modo per qualsiasi sottoscrittore delle nuove azioni (emesse successivamente alle predette deliberazioni), al quale sia chiesto di pagare un dato soprapprezzo.

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«Data valuta»: direttiva 2007/64/CE e ordinamento italiano*

Sommario: 1. Il problema del coordinamento. − 2. Accrediti e natura dell’«utente». − 3. Addebiti. − 4. Divise. − 5. Sintesi.

1. Il problema del coordinamento. La direttiva 2007/64/CE del 13 novembre 2007 sui “servizi di pagamento nel mercato interno” − nota anche con l’acronimo PSD − viene a disciplinare grandissima parte delle “operazioni di pagamento” (artt. 2; 4, n. 3 e n. 5; e 3 per le “esclusioni”): dai più moderni «trasferimenti di fondi» (bonifici, carte e addebiti diretti) ai “primordiali” versamenti e prelevamenti in numerario; con l’esclusione, in particolare, degli effetti cambiari (assegni inclusi). Gli aspetti delle operazioni regolati dalla PSD sono numerosi. Tra questi figurano profili “classici” del diritto bancario italiano: così quello

Lo scritto è stato elaborato nell’ambito del Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale (PRIN 2006) su «Tutela dei consumatori e servizi di pagamento nel nuovo quadro comunitario», cofinanziato dal MIUR e coordinato dal professor Vittorio Santoro. Il provvedimento è pubblicato in G.U.U.E., 5 dicembre 2007, L 319, 1 ss. Ordini di notazioni basilari su di esso, ulteriori ai due cui si contiene il testo che immediatamente segue, sono svolti da M. Mancini, I sistemi di pagamento retail verso la Single Euro Area Payments (SEPA); Sciarrone Alibrandi, L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria tra diritto vivente e portata regolatoria indiretta della Payment Services Directive 2007/64/ CE; O. Troiano, La nuova disciplina comunitaria dei servizi di pagamento: realizzazioni e problemi della Single Euro Area Payments (SEPA); tutti in Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento. Prime riflessioni, a cura di M. Mancini e Perassi, Quaderno di ricerca giuridica della Banca d’Italia, Roma, 2008. *

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della responsabilità del prestatore del servizio di pagamento per l’inesatta esecuzione dell’ordine; quello della data valuta; quello dell’informazione. Ma anche temi di recente emersione nel settore delle carte: quale quello delle conseguenze dell’esecuzione di un ordine impartito da un soggetto non legittimato . E pure aspetti ancora pressoché trascurati nella letteratura: come quello delle “spese secondarie” . In questa sede si fermerà l’attenzione sulla disciplina dedicata alla “data valuta”. Questa è contenuta principalmente nella disposizione (non esclusiva dell’individuato tema, bensì relativa anche al tempo di esecuzione dell’ordine) dell’art. 71 e in quelle dell’art. 73, par. 1, co. 1, e par. 2: le prime due pertinenti a ipotesi di accrediti, la terza a ipotesi di addebiti. Tali norme sono poi integrate, da un lato, da quelle (più o meno comuni ad altri temi) dell’art. 2, par. 1 e 2, concernenti l’ambito territoriale e valutario delle regole; dall’altro, da quelle (anch’esse in diversa misura non esclusive) degli artt. 86, par. 3, e 68, par. 1 e 2, riguardanti (direttamente) la natura dei precetti (in segnato rapporto, queste ultime norme, all’ambito valutario/territoriale delle regole). In sede di recepimento, naturalmente, tale normativa pone il problema del suo coordinamento con quella imperniata sull’art. 120, co. 1, t.u.b. , come pure con i principi; e ciò richiede di affrontare i problemi ricostruttivi recati dalla nuova normativa e anche di riconsiderare quelli – simili – della disciplina italiana: frequentata sì dalla dottrina, anche autorevole, ma sempre per cenni (e) non organici e con esiti discordanti o ambigui .

Ciraolo, Le carte di debito nell’ordinamento italiano. Il servizio Bancomat, Milano, 2008, p. 175 ss.; e il mio commento a La prima sentenza della Cassazione sulle conseguenze civilistiche dell’uso della carta di credito ad opera di portatore non titolare, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, 5 ss. Il tema, invece, è emerso da più di vent’anni nel settore dei bonifici (per quanto poco arato): v. Morelli, Il conto corrente bancario, in Contratti bancari, diretto da E. Gabrielli e Maimeri, in Giur. sist. dir. civ. comm., fondata da Bigiavi, Torino, 2002, p. 296 s., ai riferimenti forniti dal quale, adde, da ultimo, Trib. Roma, 20 marzo 2006, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 237 ss.; Trib. Firenze, 30 aprile 2007, in Foro tosc., 2007, 155 ss. Cui è dedicato il mio La liceità delle “spese secondarie” delle operazioni bancarie: l’impatto della direttiva 2007/64/CE, di prossima pubblicazione in Banca, borsa, tit. cred. A sua volta da coordinarsi, in particolare, con gli artt. 115, co. 1, e 127, co. 1, t.u.b.: v., sul rapporto con la prima disposizione, nt. 20 e nt. 35, sull’altro, nt. 32. Non constano pronunce della giurisprudenza (in qualche modo) concernenti la portata dell’art. 120, co. 1, t.u.b. (la massima ufficiale di Cass., 14 gennaio 2000, n. 369, in Foro it., Rep., 2000, locaz., n. 202, è «mentitoria»). L’assenza di contenzioso (non scarso) al proposito, probabilmente, ha più cause; tali paiono «l’attenzione … fin qui …

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Reali incertezze interpretative, peraltro, non offuscano la portata delle disposizioni comunitarie e italiane concernenti gli accrediti: se circoscritte ad operazioni interamente nella valuta nazionale coincidente con quella del conto del cliente . Perciò, è bene iniziare dal coordinamento di queste, tra loro e con i principi: assumendole nella indicata limitazione (n. 2). Uguale assunzione sarà poi mantenuta per il coordinamento (sempre relativo, dunque) delle più problematiche disposizioni concernenti gli addebiti (n. 3). L’ultimo momento di questo lavoro sarà quindi volto a completare il coordinamento delle norme rispetto all’ipotesi in cui sia usata una divisa uguale a quella del conto del cliente, ma straniera, e a quella in cui sia impiegata una valuta (nazionale o straniera) diversa da quella del conto (n. 4).

2. Accrediti e natura dell’«utente». Com’è agevole notare, la norma dell’art. 73, par. 1, co. 1, aggiunge una nuova, significativa ipotesi di accredito a quelle regolate dall’art. 120, co. 1, I parte, t.u.b., per lo più ritenute marginali : introducendo quella degli accrediti per trasferimenti di fondi . E ne assoggetta la data valuta

dedicata» dalla dottrina al tema, che, come detto, ne «meriterebbe … ben maggiore» (A. Nigro, Disciplina della trasparenza delle operazioni bancarie e contenuto delle condizioni contrattuali: note esegetiche, in Dir. banc., 1998, I, p. 532); la (ordinaria) difficoltà del cliente di rendersi conto (nella formazione del contratto e nel suo svolgimento) del «gioco delle valute» (nell’an e/o nel quantum); la (normale) non grande significatività dell’importo in cui lo spostamento della data valuta si traduce per il singolo utente nei «conti-deposito» (per via del magro tasso degli interessi). Peraltro, l’ammontare della somma delle attribuzioni ex data valuta dovute da tutta la clientela − si capisce − tende a non essere trascurabile; e così pure, dunque, il suo rilievo nel risultato d’esercizio dell’impresa bancaria. L’art. 2, par. 2, PSD – si rimarca – limita l’ambito valutario della stessa all’euro e ad altra divisa ufficiale di un paese membro. E l’art. 68 – su cui v. anche amplius, infra, n. 4 – fa certi che gli artt. 71 e 73 riguardano, con pari imperatività, almeno operazioni nella valuta nazionale uguale a quella del conto del cliente. V., per tutti, Zucchelli, Note in margine alla legge n. 154/1992 in tema di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, in Banca, impresa, soc., 1992, 223; Morera, I profili generali dell’attività negoziale, in Brescia Morra e Morera, L’impresa bancaria, in Trattato dir. civ. del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. Perlingieri, V, 11, Napoli, 2006, 348. Riguardo a tale giudizio, peraltro, v. anche infra, nt. 23. Questa è la tipologia di operazioni attive riguardata dall’art. 73, par. 1, perché solo essa comporta sempre l’“accredito sul conto del prestatore … del beneficiario”, su cui è

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allo stesso genere di regola prevista dalla norma italiana: vietando che la data valuta sia posticipata rispetto al momento in cui la banca riceve i fondi. Entrambe le richiamate disposizioni (come pure l’art. 73, par. 2, PSD e l’art. 120, co. 1, II parte, t.u.b., con riguardo agli addebiti) non differenziano le regole secondo la natura del cliente (consumatore o meno) ovvero del soggetto (eventualmente diverso) che ordina l’operazione per conto (e/o in favore) del primo. Per contro, la disposizione dell’art. 71 sottopone il versamento in numerario alla stessa regola già dettata dalla norma italiana (e già ricordata: data valuta non posteriore a quella dell’operazione) solo per il caso in cui l’“utente” sia un consumatore (I periodo): consentendo che la data valuta sia posticipata di un giorno rispetto a quello del versamento qualora l’utente non sia un consumatore (II periodo). Quest’ultima norma è priva di fondamento. L’esigenza alla cui attuazione è inteso il divieto di spostamento della data valuta del versamento in contanti come pure dell’accredito per trasferimento di fondi (rispetto al momento in cui la banca acquisisce la disponibilità dei fondi) si manifesta uguale qualunque sia la veste dell’utente . Per vero, il fondamento delle omologhe norme dell’art. 120, co. 1, I parte (operazioni attive), è punto di grande incertezza nella dottrina: riscontrandosi autorevoli cautele 10 e numerose opinioni. Tre di queste individuano il fondamento delle norme ciascuna in una distinta esigenza: con lieve prevalenza, in quella di riequilibrio delle posizioni contrat-

incardinata la regola. Non è detto, invece, che il versamento di numerario in divisa diversa da quella del conto − ipotesi non considerata dall’art. 71 e alla quale pure potrebbe quindi pensarsi di riferire l’art. 73 − importi sempre l’accredito del conto (o di uno dei conti) che il prestatore intrattiene con altro(/i) prestatore(/i) per lo scambio delle valute, perché in singoli casi potrebbe non (ritenere utile) procedere allo scambio della quantità di divisa ricevuta con quella del conto del cliente (bensì ad una mera conversione). E qualunque sia il significato da assegnare a questa espressione nel contesto dell’art. 71: di «cliente», titolare del conto, ovvero di soggetto che materialmente esegue il versamento. 10 Costi, L’ordinamento bancario4, Bologna, 2007, p. 682; Sciarrone Alibrandi, L’interposizione della banca nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, Milano, 1997, p. 162 ss., nt. 111. V. altresì Maisano, Trasparenza e riequilibrio delle operazioni bancarie, Milano, 1993, p. 204 ss.

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tuali 11; nel principio dell’ingiustificato arricchimento 12; in via isolata, nella trasparenza (in senso stretto) 13. E non mancano posizioni “sincretiche”, che rappresentano tutte le possibili combinazioni di due dei tre scopi: l’equilibrio con la trasparenza 14; l’ingiustificato arricchimento con la trasparenza 15; l’equilibrio con l’ingiustificato arricchimento 16. A mio avviso, i divieti italiani e comunitari di postergazione degli accrediti rispetto al momento in cui la banca acquisisce la disponibilità delle somme non sono retti dall’esigenza di riequilibrare i rapporti tra le parti: a tacer d’altro, perché non è detto che lo spostamento della data valuta in danno del cliente introduca uno squilibrio (significativo), lo svantaggio ex data valuta potendo essere compensato da basse commissioni; e perché, vietato lo spostamento della data valuta, non è impedito che il perduto vantaggio economico sia coperto da un aumento della commissione. Né è da ritenere che i divieti si fondino sull’esigenza di evitare ingiustificati arricchimenti: poiché il vantaggio che il prestatore consegue con il “gioco delle valute” può qualificarsi come (componente del) corrispettivo del servizio da prestare (o prestato) all’utente 17.

Silvetti, I contratti bancari. Parte generale, in Calandra Buonaura, Perassi e Silvetti, La banca: l’impresa e i contratti, in Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, VI, Padova, 2001, 455; Majello, Sub art. 120, in Commento al d.lgs. 1-9-1993, n. 385, a cura di Belli e altri, Bologna, 2003, II, p. 1965; Morera, I profili, cit., p. 348 e p. 349 (che, peraltro, al fine di interpretare la II parte della disposizione, richiama anche «il principio... di cui all’art. 2041» c.c.). 12 Dolmetta, Per l’equilibrio e la trasparenza nelle operazioni bancarie: chiose critiche alla legge n. 154/1992, in Banca, borsa, tit. cred., 1992, I, 389; Rufini, Banche (trasparenza delle condizioni contrattuali), in Dig. disc. priv., sez. comm., agg.*, Torino, 2000, 100. 13 G. Olivieri, Compensazione e circolazione della moneta nei sistemi di pagamento, Milano, 2002, p. 148, nt. 116, in via di cenno; sembrerebbero A. M. Carriero e Castaldi, Sub art. 120, in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia2, a cura di Capriglione, Padova, 2001, II, p. 929. 14 Taliercio, La decorrenza delle valute, in La nuova legge bancaria, a cura di P. FerroLuzzi e Castaldi, III, Milano, 1996, p. 1856. 15 A. Nigro, Disciplina, cit., p. 531. 16 Fauceglia, I contratti bancari, in Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, III, 2, Torino, 2005, 157 e 158. 17 La discrasia della data valuta dei trasferimenti di fondi può considerarsi corrispettivo (almeno) del servizio di pagamento [e di quelli, normalmente collegati, di custodia (nei termini in cui questa si struttura nei depositi bancari) o di prestito]; la divergenza della data valuta delle operazioni per contanti può ritenersi corrispettivo (almeno) dei servizi di custodia o di credito (e di quelli di pagamento, per lo più connessi). Analogamente, il corrispettivo del trasferimento di un’azienda o di un immobile ipotecato può essere costituito da un prezzo e dall’accollo dei debiti contratti in relazione all’azienda o garantiti dall’ipoteca sull’immobile. 11

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Le norme, invece, si riconducono – come ha pensato il legislatore comunitario 18 – all’esigenza di trasparenza del prezzo del servizio 19. Infatti, quand’anche la struttura della regola fosse resa di facile comprensione e fosse pure esplicitato che l’attribuzione ex data valuta è parte del corrispettivo del servizio prestato, essa resterebbe un elemento

18 Considerando n. 45: «È essenziale che gli utenti dei servizi di pagamento siano a conoscenza dei costi e delle spese reali dei servizi di pagamento per poter operare la loro scelta. Di conseguenza non dovrebbe essere ammesso l’uso di metodi di fissazione dei prezzi non trasparenti, in quanto è comunemente riconosciuto che tali metodi rendono estremamente difficile per gli utenti stabilire il prezzo reale del servizio di pagamento. In particolare, l’uso di date valuta che svantaggiano l’utente non dovrebbe essere consentito». 19 L’esigenza ha valenza di principio proprio della disciplina europea come italiana (almeno) dei contratti «d’impresa» (tra professionista e cliente, fruitore del bene o servizio reso dal primo), in quanto strumentale a incrementare la concorrenza e (quindi) l’efficiente allocazione delle risorse [(artt. 2; 3, in specie, lett. c, m, t; 81-82; 153, Trattato CE; 4144, 47, Cost.). Per quest’ordine di asserti v., da ultimo, Alessi, I doveri di informazione, in Manuale di diritto europeo dei contratti, a cura di Castronovo e Mazzamuto, Milano, 2007, II, p. 390 ss.; Libertini, Principi e concetti fondamentali del diritto antitrust, ivi, III, p. 159 ss. Per una enucleazione del principio di trasparenza nei contratti d’impresa nell’ordinamento italiano, muovendo dalla disciplina (con efficacia) di legge ordinaria, v. Senigaglia, Accesso alle informazioni e trasparenza. Profili della conoscenza nel diritto dei contratti, Padova, 2007, specialmente p. 97 ss. Per una concezione della trasparenza come principio dei contratti in generale Sacco e De Nova, Il contratto2, I, in Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, 1998, spec. 491 ss.]. Obiettivo, quest’ultimo − è bene ancora notare − che resterebbe frustrato non equiparando al «consumatore» (ovvero non includendo in tale fattispecie, secondo i contesti normativi) qualunque (altro) cliente versi nel medesimo deficit di competenze: i maggiori costi di produzione che i clienti imprenditori non protetti verrebbero a sopportare ricadrebbero pur sempre sui consumatori finali. Nel contenuto, poi, l’esigenza di trasparenza non può (più) ridursi alla mera conoscibilità delle clausole e alla comprensibilità dei meccanismi qui previsti [com’è tuttora corrente, per contro, nelle definizioni della letteratura italiana: v., ad esempio, M. Giorgianni e Tardivo, Diritto bancario, Milano, 2006, p. 460; Morera, I profili, cit., p. 330; v., altresì, i considerando della delibera CICR, 4 marzo 2003, di «disciplina della trasparenza delle condizioni contrattuali delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari» (consultabile all’url www.bancaditalia. it/vigilanza/banche/normativa), che pure ha introdotto per i contratti non di consumo l’«ISC» (art. 9, co. 2)]: per non mortificarla, essa deve spingersi alla possibilità di misurare agevolmente la valenza patrimoniale (almeno) delle regole (direttamente) «economiche»; come indica, del resto, anche la disciplina del TAEG: «grazie alla quale il consumatore dovrebbe essere in grado di valutare l’effettivo impatto economico-finanziario dei contratti di credito» (così, tra gli altri, Macario, Sub art. 116-121, in Commento al d.lgs. 1-9-1993, n. 385, cit., p. 2020 s.). E l’effettiva possibilità di monetizzare facilmente il contenuto economico può esigerne una semplificazione, quando la pluralità delle voci di costo, per la loro struttura, serve solo a ostacolare la possibilità in parola, né si lasci concentrare in una rappresentazione unitaria.

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di complicazione nella definizione del prezzo di questo: elemento di cui non si scorge una diversa utilità. Tale regola, anzi, rende pure normalmente impossibile un’esatta valutazione della sua convenienza in confronto alle condizioni di altre banche. Infatti, il calcolo per la sua quantificazione monetaria, necessaria alla comparazione, non risulta precisamente formulabile (salve ipotesi di scuola) al momento del “contratto quadro” (art. 4, n. 12, PSD; in Italia, c/c di corrispondenza): dipendendo dal numero e dall’ammontare degli accrediti e (dall’importo) degli addebiti (a parità di tasso d’interesse e di commissione per l’operazione di pagamento). E la complicazione introdotta dalla regola della data valuta nella definizione del corrispettivo, come pure l’impossibilità di un’esatta valutazione della convenienza o meno della regola medesima, all’evidenza, non cessano se il cliente non è un consumatore 20 e l’operazione eseguita è un versamento per cassa (e non un trasferimento di fondi) 21. Si

Come non cessano, per le operazioni attive e per le passive (su cui infra, n. 3), se il prestatore del servizio non è una banca. Pertanto, è da ritenersi che l’art. 115, co. 1, t. u.b. integri pure l’art. 120, co. 1, rendendolo applicabile anche agli intermediari finanziari [contra Porzio, Sub art. 7, in Legge 17 febbraio 1992, n. 154. Norme per la trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Commentario, a cura del medesimo, in Nuove leggi civ., 1993, 1166, che dà «ragione di questa limitazione» con la «circostanza che il legislatore è voluto intervenire specificamente sulla prassi delle banche di dare valuta convenzionale»; sulla scia Taliercio, La decorrenza, cit., p. 1854; «ontologicamente» per A. M. Carriero e Castaldi, Sub art. 120, cit., p. 927; forse, Majello, Sub art. 120, cit., p. 1964]: va da sé, per le operazioni non a mezzo assegni (la cui presenza nella fattispecie può ben spiegare il riferimento compiuto nella disposizione alle sole banche). 21 Né l’esigenza di trasparenza viene meno per i versamenti di effetti cambiari diversi da quelli considerati nell’art. 120, co. 1, I parte, t.u.b. ed estranei anche all’ambito della normativa comunitaria (per riferimenti sulle linee del regolamento degli effetti cambiari v. mio Sulla responsabilità della banca trattaria e della banca negoziatrice nei confronti del traente per pagamento di assegno bancario irregolare, in Dir. banc., 2008, I, 120, nt. 1, cui adde, con specifico riguardo alla check truncation, Profeta, L’evoluzione dei servizi di pagamento non armonizzati: l’assegno nella prospettiva della dematerializzazione, in Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento. Prime riflessioni, cit., p. 181 ss. Sull’importanza che ancor oggi rivestono questi strumenti in Italia cfr. le pubblicazioni statistiche della Banca d’Italia, relative al sistema dei pagamenti, al sito internet www.bancaditalia.it). Anche la data di tali operazioni, dunque, deve riconoscersi non postergabile − ai fini della maturazione degli interessi − rispetto al momento in cui la banca riceve (il versamento, se è essa stessa la trattaria o l’emittente, ovvero, se è la negoziatrice) la disponibilità del relativo importo nel sistema di regolamento interbancario in via definitiva [per il carattere generale del divieto di spostamento già Dolmetta, Per l’equilibrio, cit., p. 389; A. Nigro, Disciplina, cit., p. 531; Rufini, Banche, cit., p. 100; che muovono da principi: v. retro, ntt. 12, 15 e testo corrispondente. Contra: 20

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enfatizzano, piuttosto, se il cliente è un professionista 22: dato il maggior numero di operazioni normalmente richieste da un soggetto in tale veste rispetto a un consumatore 23. D’altro canto, il computo per la monetizzazione della regola neppure risulta agevole – salvo che per gli imprenditori medio-grandi – se anche contenuto a termini di ragionevole approssimazione: muovendo, cioè, da una prognosi (di periodo) del numero e dell’ammontare degli accrediti e degli addebiti 24. E anche per gli imprenditori non piccoli

Silvetti, I contratti, cit., p. 454; Majello, Sub art. 120, cit., p. 1964; Morera, Profili, cit., p. 348 s.; Costi, L’ordinamento, cit., p. 682, pur cauto sul fondamento della norma. A individuare questo nella locupletatio sine causa, il divieto di postergazione della data valuta nel caso di negoziazione degli effetti cambiari andrebbe riferito al momento in cui la banca riceve la disponibilità, pur se in via provvisoria: ché di tale disponibilità già si serve nel regolamento interbancario di altre operazioni]. Avendo la trasparenza valore di principio, infatti, non può certo servire a dimostrare il carattere «eccezionale» della norma «il principio dell’autonomia contrattuale» (Silvetti, op. loc ultt. citt.), che pure conosce «limiti» (art. 1322 c.c.). D’altro canto, il «silenzio» della norma italiana, che giustamente poteva dirsi «non... casuale» [Majello, op. loc. ultt. citt.; v. infatti sulla storia della norma Maisano, Trasparenza, cit., p. 205] e che, comunque, era argomento, per sua natura, non concludente, oggi è fatto propriamente neutro: se la disciplina comunitaria della data valuta emargina le operazioni non cartolari, ciò risponde alla scelta di fondo di non disciplinare in nulla tali operazioni e tale decisione non è dipesa da ragioni di ordine giuridico, bensì da valutazioni di opportunità politica (quella di “puntare” per il futuro sui pagamenti non cartolari, stimando che quelli «tramite assegni... non consentono un trattamento altrettanto efficace»: considerando n. 19); d’altro canto, è lo stesso legislatore comunitario a divisare che «le buone prassi in materia si ispirino ai principi enunciati nella presente direttiva» [(ibid.). È da ritenersi che anche l’art. 69 PSD sia espressivo del principio di efficienza (cfr. Sciarrone Alibrandi, L’adempimento, cit., p. 73, nt. 38) e di una regola generale: del minimo tempo necessario per l’esecuzione delle operazioni di pagamento; con la conseguenza che, almeno nella procedura di check truncation, il termine di tre giorni oggi previsto per il definitivo regolamento è da abbreviarsi]. 22 Perciò, dunque, non potrebbe avere davvero alcun pregio obiettare all’individuazione del fondamento della disciplina comunitaria sulla data valuta nella trasparenza che il legislatore comunitario ha reso dispositive tutte le norme del titolo III, dedicato alla «trasparenza», quando il cliente non sia un consumatore (art. 30, par. 1). All’inverso, il rilievo vale a porre il problema della coerenza di tale scelta − norma per norma − rispetto alla specifica esigenza di trasparenza (o al diverso scopo), cui (effettivamente) sia diretta: la trasparenza non serve direttamente sempre solo ad alcuni soggetti; tutt’altro, anzi. 23 Gli stessi versamenti di contanti, anzi, sono oggi per lo più effettuati − e per volumi, a detta di alcuni operatori, tutt’altro che insignificanti − dal non consumatore: il riferimento è ai versamenti degli incassi della giornata (o della settimana) da parte degli esercizi commerciali. 24 Rispetto ai «conti-deposito», poi, tenderà a restare incompiuto anche in ragione della (ordinaria) non grande significatività dell’importo in cui la regola si risolve. E v., però, retro, nt. 5, capoverso.

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tale prognosi può non essere possibile: infatti, l’apertura di credito può servire proprio a far fronte agli “squilibri... imprevist[i] e temporane[i]” dei flussi di cassa 25.

3. Addebiti. Se le tipologie di accrediti e le regole per esse dettate dalle norme comunitarie e italiane sono sufficientemente chiare, tali non sono – come accennato (retro, n. 1) – né le tipologie di addebiti, né le relative discipline, portate nell’art. 73, par. 2, PSD e nell’art. 120, co. 1, II parte, t.u.b. E, in effetti, rispetto alla norma italiana, su entrambi i punti indicati, la dottrina è divisa. Prim’ancora, incertezze si riscontrano sul punto se la disposizione italiana dia rilievo all’origine delle somme oggetto degli utilizzi: cioè, se la norma italiana si occupi – come d’acchito può sembrare – solo degli utilizzi di importi rivenienti dalle (tre specie di) rimesse di cui alla I parte della medesima 26 ovvero di ogni utilizzo, qualunque sia l’operazione che abbia portato la disponibilità della somma poi usata 27; come pure è possibile, ipotizzando che il soggetto sottinteso nella (frase della) II parte siano “gli interessi” tout court. In linea teorica, inoltre, dubbio simile è possibile avanzare riguardo alla norma comunitaria: non prima facie qui, ché questa non pone esplicitamente limite alcuno circa l’origine delle somme utilizzate; bensì ricordando che l’ambito della direttiva in generale (v. retro, n. 1) emargina (in particolare) le operazioni a mezzo effetti cambiari: sì che potrebbe anche pensarsi che la disciplina della data valuta non tratti degli utilizzi di somme portate dalle rimesse (in particolare) di assegni e cambiali. Tale delimitazione è recisamente da non introdurre nella norma comunitaria; analogamente, è da respingere dalla disposizione italiana la distinzione affacciata dal suo testo circa la provenienza delle somme utilizzate: ogni selezione rispetto all’origine degli importi prelevati supporrebbe − per l’applicazione della norma − una realtà artificiale, in

Cfr. Borroni e Oriani, Le operazioni bancarie3, Bologna, 2008, p. 119 e p. 126 s. Per questa soluzione paiono Zucchelli, Note, cit., p. 223; Silvetti, I contratti, cit., p. 455; A.M. Carriero e Castaldi, Sub art. 120, cit., p. 927. 27 Accoglie questa alternativa Morera, I profili, cit., p. 349; pare Majello, Sub art. 120, cit., p. 1965. 25 26

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cui un conto corrente registrasse solo alcune tipologie di operazioni di accredito e non di altre, parimenti e o più frequenti 28. Gli utilizzi, poi, cui si riferisce la disposizione comunitaria sono tutti quelli considerati dalla direttiva: non solo i trasferimenti di fondi “in uscita”, come potrebbe indurre a ritenere il fatto che il par. 1 dell’art. 73 si occupa degli accrediti solo per trasferimenti di fondi; ma anche i versamenti per contanti, come indizia la circostanza che l’art. 73, par. 2, è l’unica norma che tratta della data valuta di addebiti e la direttiva si occupa della data valuta degli accrediti sia per trasferimenti di fondi sia per versamenti in contanti. Dal canto proprio, la norma italiana include tutte le forme di utilizzo possibili: non solo gli addebiti speculari agli accrediti considerati nella sua prima parte 29. La soluzione data è da seguirsi per entrambe le disposizioni perché la sottrazione dalla fattispecie (degli addebiti) di questa o quella operazione sarebbe arbitraria 30. Ciò perché la formulazione della regola in ciascuna disposizione può essere più precisamente intesa, per tutti gli addebiti, in uno stesso senso e coerente con quello proprio del precetto (validamente) stabilito per le operazioni attive. La regola, infatti, può ricostruirsi nel senso – speculare al contenuto del precetto stabilito per gli accrediti – della data valuta uguale a quella in cui la banca perde (definitivamente) la disponibilità della somma utilizzata dal cliente 31; e, perciò, per coerenza, è così da intendersi 32:

Rileva la «pratica impossibilità di imputare i prelevamenti … alle somme originariamente versate» Morera, I profili, cit., p. 349. 29 La soluzione accolta è di A. Nigro, Disciplina, cit., p. 532. L’altra è sostenuta da Costi, L’ordinamento, cit., p. 682. 30 Nonché diseconomica: in quanto l’operazione, uscita dalla fattispecie specificamente regolata, sarebbe sottoposta alla stessa regola in forza dei principi; v. poco infra, nel testo, e retro, nt. 21. 31 La formulazione della soluzione nei termini generali in cui è recepita nel testo si deve a A. Nigro, Disciplina, cit., p. 532. Per contro, è incline a ritenere «ancor oggi consentite le clausole di addebito … degli assegni in epoca anteriore al loro pagamento» Silvetti, I contratti, cit., p. 455 s. 32 Il testo dell’art. 73 PSD, diversamente da quello dell’art. 71, I periodo, PSD e 120, co. 1, t.u.b., prevede solo che la data valuta non sia in danno del cliente; peraltro, sia l’art. 86, par. 3, co. 2, PSD, sia l’art. 127, co. 1, t.u.b. consentono in generale la derogabilità dei propri comandi a vantaggio del cliente; tuttavia, il corrispettivo da questi dovuto non risulta meno complicato e opacizzato (con suo danno) se la discrasia tra data valuta e effettiva esecuzione dell’operazione sia in suo favore: per averne evidenza, basti pensare alla difficoltà di comparare un «prezzo» del servizio di pagamento tutto concentrato 28

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quindi escludendosi, per entrambe le disposizioni, che rilevi non solo il momento di (emissione o) comunicazione dell’ordine, ma anche quello in cui il cliente perde la disponibilità della somma 33. Il testo della norma italiana, invero, si presta docilmente alla ricostruzione della regola qui condivisa: limitandosi a discorrere di “prelevamento”, essa può fare riferimento ad uno qualunque dei (segmenti e) giorni in cui può (o deve) articolarsi l’operazione. Né, al di là dell’apparenza, il testo della norma comunitaria oppone significativa resistenza: esso può ritenersi relativo al caso in cui annotazione a debito del conto del cliente e perdita della disponibilità da parte della banca coincidano. D’altro canto, a voler calcare sul tenore della disposizione, dovrebbe ritenersi che l’annotazione sia punto di riferimento anche quando eseguita a lungo tempo dal compimento dell’operazione. E si aggiunga che la PSD non solo non individua quale momento invalicabile della data valuta dell’accredito quello della materiale annotazione, ma suppone che la data dell’acquisizione della disponibilità da parte della banca, quella della disponibilità del cliente, e quella della materiale annotazione coincidano.

4. Divise. Fino a questo momento si sono coordinate le norme comunitarie e quelle italiane, considerandole rispetto ad operazioni interamente in valuta nazionale. Per ultimarne il coordinamento, occorre dunque riguardarle – come preannunciato (retro, n. 1) – in rapporto a operazioni in valuta straniera 34 e in rapporto ad una divisa diversa da quella del conto del cliente: verificando come tali elementi valutari rilevino nei due plessi normativi 35.

nella commissione e un prezzo composto da provvigione e data valuta modificata a vantaggio del cliente. Perciò, è da ritenersi che sia la normativa comunitaria sia quella italiana prescrivano la coincidenza del periodo di maturazione degli interessi con quello di disponibilità della somma da parte della banca. 33 Le quattro fasi indicate nel testo possono o devono cadere in giorni distinti non solo per i trasferimenti di fondi e per gli assegni (bancari), ma anche per le operazioni per cassa (ad es., deposito a risparmio con onere di preavviso del prelevamento). 34 Si ricorda (v. retro, n. 1 e, ivi, nt. 6) che in forza dell’art. 2, par. 2, la normativa comunitaria può avere ad oggetto solo operazioni in euro o nella diversa valuta ufficiale di uno Stato membro. 35 Nel lato “territoriale” le fattispecie comunitarie e italiane non paiono presentare punti di rilevante diversità: le rispettive normative riguardano entrambe rapporti costituiti

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Entrambi i punti, nel silenzio dell’art. 120, co. 1, t.u.b., sono del tutto trascurati dalla letteratura italiana; invece, sono sollecitati dalla normativa comunitaria. Il primo – rilievo di una valuta straniera (uguale a quella del conto del cliente) – è proposto, segnatamente, dal collegamento delle norme degli artt. 71 e 73 PSD con quella dell’art. 68 PSD. Questa – si è accennato (retro, n. 1 e, ivi, anche nt. 6) − è destinata ad articolare la natura delle regole della “sezione 2” del capo 3 del titolo IV, dove sono allocati anche gli artt. 71 e 73, secondo valuta/territorio delle operazioni: il paragrafo 2 dichiara disponibili dall’autonomia privata le norme della sezione 2 fuori dalle ipotesi di cui al paragrafo 1; che sono: «operazioni di pagamento in euro» (lett. a), «operazioni di pagamento nazionali nella valuta dello Stato membro interessato» (lett. b), «operazioni di pagamento che comportano un’unica conversione fra l’euro e la valuta ufficiale di uno Stato membro non appartenente all’area dell’euro, a condizione che la conversione di valuta richiesta sia effettuata nello Stato membro della valuta non appartenente all’area dell’euro e che, nel caso di operazioni di pagamento transfrontaliere, queste ultime abbiano luogo in euro» (lett. c). Quindi, le ipotesi “altre rispetto a queste ultime, per cui il paragrafo 2 dichiara disponibili” le norme della sezione 2, per sé, possono comprendere anche – ma non di necessità – le operazioni transfrontaliere interamente in valuta (comunitaria) diversa dall’euro (es.: trasferimenti

in Italia presso un’articolazione di una banca italiana come straniera (pure extracomunitaria) e pur quando il rapporto abbia ad oggetto trasferimenti di fondi transnazionali (pure transcontinentali). Da un lato, infatti, l’art. 2, par. 1, II periodo, PSD, nel richiedere che la banca sia “situata nella Comunità” non esige che qui vi abbia la sede legale (ma almeno ritiene sufficiente che vi abbia un’articolazione territoriale): perché la direttiva è stata concepita, tra l’altro, per uniformare la disciplina dei pagamenti nazionali tra loro e con i transnazionali all’interno della Comunità (v. i considerando 1 e 4); sì che a rilevare dovrebbe essere solo che il rapporto sia qui costituito. Dall’altro, l’art. 120, co. 1 (II parte), t.u.b., deve riferirsi a tutti i [contratti conclusi in Italia (art. 115, co. 1, t.u.b.) anche quando abbiano ad oggetto] trasferimenti di fondi (in uscita) transnazionali, perché l’esigenza di trasparenza che impronta (anche) la norma italiana si presenta uguale rispetto ai trasferimenti nazionali e agli altri (se dunque la estensione dell’art. 73 PSD pure alle operazioni extracomunitarie, scritta nell’art. 2, par. 1, è giustificata, la razionalità della limitazione del titolo III e del titolo IV alle operazioni intracomunitarie, stabilita in via generale dalla medesima disposizione, è assai dubbia; comunque, la limitazione è per sé stessa inidonea a vincolare il legislatore nazionale a dettare una disciplina diversa per le operazioni intracomunitarie e quelle transcomunitarie: la direttiva restando muta sulla positiva regolamentazione delle operazioni extracomunitarie).

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di fondi in sterline dal Regno Unito all’Italia) e le operazioni nazionali in valuta comunitaria straniera (prelevamenti/versamenti in sterline in Italia) 36; il par. 2, peraltro, mentre eccettua dalla natura dispositiva l’art. 73, non eccettua l’art. 71. Tuttavia, una disciplina differenziata delle operazioni nella valuta del conto secondo che questa sia quella nazionale o meno non sarebbe giustificata. L’esigenza di non offuscare il corrispettivo del servizio con lo spostamento della data valuta – al cui soddisfacimento le prescrizioni al riguardo sono destinate (retro, nn. 2-3) – si manifesta del tutto uguale tanto se l’operazione è in divisa nazionale tanto se è in valuta straniera (se uguale a quella del conto). Perciò, le norme (imperative) dell’art. 73 PSD vanno riferite anche alle operazioni in valuta straniera; e la natura imperativa dell’art. 71 non va confinata al versamento nella divisa ufficiale del paese 37. Parimenti, le operazioni rappresentate nelle norme italiane sono anche quelle in divisa del conto diversa dall’euro. Resta dunque da compiere il confronto tra la disciplina della direttiva e quella del t.u.b. in rapporto alle operazioni in divisa (nazionale e straniera) diversa da quella del conto. L’art. 71 limita il proprio campo alle rimesse in contanti “nella valuta del conto”. Un uguale limite non figura né nell’art. 73 PSD né nell’art. 120, co. 1, t.u.b. E per la norma dell’art. 73 e l’art. 68, par. 1, lett. c – si è ricordato poco sopra – stabilisce che essa si applica a un’ipotesi in cui i trasferimenti di fondi e i prelievi per cassa richiedono una conversione; il paragrafo 2, poi, può significare che essa si applica a tutti i casi di conversione [(oltre che ai trasferimenti transfrontalieri in valuta comunitaria diversa dall’euro senza conversioni); ad es., trasferimenti in sterline dal Regno Unito a un conto italiano in euro]. Il (certo) divieto (ex art. 68, lett. c) di posticipare la data valuta dei trasferimenti di fondi con unica conversione euro/altra divisa comunitaria nel paese di questa rispetto al momento dell’accredito del conto della

L’art. 68, par. 2, discorrendo di «altre operazioni» (e non di «tutte le altre»; non diversamente la formula inglese: «to others» e non «to all others»), potrebbe anche riferirsi solo all’una o all’altra delle ipotesi indicate oppure solo alle operazioni (transfrontaliere) in euro con più di una conversione (nel paese d’uscita e nel paese d’ingresso). 37 Del resto, non è irragionevole ritenere che la mancata espressa «salvezza» anche dell’art. 71 (oltre che dell’art. 73) nel paragrafo 2 dell’art. 68 sia stata non «voluta»: data la complicatezza dell’intera disposizione di quest’ultimo articolo e la marginalità di versamenti in contanti nella valuta del conto diversa da quella nazionale. 36

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banca 38 non è regola omogenea a quella stabilita per le operazioni senza conversioni. Per gli uni, infatti, la regola proibisce che la maturazione degli interessi si avvii da un momento successivo a quello in cui la banca acquisisce la disponibilità della divisa diversa dal conto 39; per gli altri, la regola impedisce che la produzione degli interessi parta da un tempo seguente a quello in cui la banca ha la disponibilità dei fondi nella valuta del conto del cliente. E questa regola è aderente alla funzione degli interessi previsti a favore del cliente: remunerare il potere di utilizzo concesso alla banca sulle somme affidategli nella divisa del conto 40. La deviazione della regola stabilita per le operazioni con conversione da quella generale 41 non è priva di ragione. Non è detto, infatti, che la banca proceda a scambiare effettivamente la valuta dell’operazione con quella del conto. Perciò, la regola per le specifiche operazioni con conversione in discorso, per restare nel genere di quella posta per le operazioni senza conversione, dovrebbe mutare secundum eventum (: la banca scambia ovvero non scambia). E sarebbe allora necessaria la fissazione di un termine (per il verificarsi dell’evento). La regola sarebbe complicata. Soprattutto, il controllo della sua osservanza, in fatto, sarebbe impossibile. Perciò, per il principio di effettività, la regola va semplificata. La semplificazione può variamente strutturarsi: può assumere il criterio del tempo strettamente necessario allo scambio secondo il mercato; oppure del tempo strettamente necessario secondo la singola banca de qua; oppure del tempo fissato dall’autonomia privata (e, in via suppletiva, uno dei due precedenti). La prima alternativa risponde al principio di efficiente allocazione delle risorse: evitando sprechi di tempo nello scambio e, dunque, nell’utilizzo (cui quello è

Norma, data la fattispecie, inapplicabile in Italia, bensì utile, da un lato, per valutare la norma dell’art. 71 PSD e, dall’altro, intendere quella dell’art. 68, paragrafo 2, PSD e quella dell’art. 120, co. 1, t.u.b.: in breve, per individuare la regola generale per le operazioni con conversione. 39 Ovvero, se il saldo è passivo, vieta che la produzione degli interessi a carico del cliente oltrepassi quel momento. Essa, cioè, assume come momento di acquisizione della disponibilità, non derogabile dall’autonomia ai fini della data valuta, quello della disponibilità dei fondi anche se in valuta diversa da quella del conto. 40 Ovvero, se il saldo è passivo, aderente alla funzione degli interessi passivi per il cliente: remunerare il godimento del denaro nella valuta del conto, dalla banca concesso al cliente. 41 I.e.: la ridefinizione del periodo di disponibilità dei fondi, rispetto cui porre il problema della ammissibilità di una diversificazione del periodo di maturazione degli interessi. 38

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funzionale) della moneta scambiata. Ed è il criterio del minimo tempo di mercato quello – giustamente – adottato dalla PSD nella regola specificamente forgiata per i trasferimenti con conversione euro/valuta del paese comunitario della conversione: infatti, euro e valuta diversa sono divise, nel paese membro della divisa non euro, entrambe immediatamente reperibili. Le ragioni della deviazione della regola coniata dal legislatore comunitario per i trasferimenti di cui all’art. 68, lett. c, non sono evidentemente specifiche di queste operazioni con conversione, bensì proprie di tutte; e sono ragioni (di effettività, di efficienza) che hanno valenza di principio nell’ordinamento europeo come in quello italiano. Perciò, il criterio del minimo tempo mediamente necessario allo scambio secondo le divise (= il periodo degli interessi corrisponde a quello in cui la banca avrebbe potuto disporre della somma nella valuta del conto se avesse scambiato la divisa diversa nel tempo di mercato) è da ritenersi canone generale delle operazioni con conversione: sia nell’ordinamento europeo 42 sia in quello italiano 43.

5. Sintesi. Ritirando le reti: salvo la disposizione dalla PSD dedicata ai versamenti in numerario per il caso di cliente non consumatore (art. 71, II periodo, PSD), le altre norme europee (principalmente, artt. 71, I periodo, 73, par. 1, co. 1, e par. 2) non risultano avere momenti di frizione con l’ordinamento italiano. Come quelle specifiche italiane (art. 120, co. 1, t.u.b.), rettamente intese, rappresentano svolgimenti coerenti del principio di trasparenza. Così, vengono a vietare – per operazioni in qualunque valuta purché uguale a quella del conto – che il periodo di maturazione degli interessi sia diverso da quello in cui la banca ha la disponibilità della somma.

E, pertanto, mi sembrerebbe non corretto ritenere − nonostante il testo dell’art. 68, par. 2, lo consentirebbe − che la regola della data valuta pari all’accredito sul conto della banca valga per tutti i trasferimenti di fondi con conversione: anche per tutti quelli in cui la conversione non è tra euro e la moneta del paese comunitario della conversione. 43 Intendo, nel silenzio sul punto dell’art. 120, comma 1, t.u.b.: già prima dell’emanazione della PSD. 42

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Il novero delle operazioni specificamente considerate, poi, risulta ampliato in termini significativi: ai tre versamenti riguardati dalla normativa italiana, quella comunitaria aggiunge i “trasferimenti di fondi” (ordinati a mezzo “carte” o meno). Peraltro, le due normative risultano avere anche notevoli spazi di sovrapposizione: già quella italiana si occupa di ogni tipo di prelevamenti e quella europea viene a trattare di tutti i prelevamenti non a mezzo effetti cambiari; entrambe riguardano i versamenti di contante. Inoltre, alcune ipotesi che continuano a sfuggire a disciplina specifica sono anch’esse importanti, pur se non negli stessi termini dei trasferimenti di fondi: così il «grosso» dei versamenti di effetti cambiari 44.

Gianluca Mucciarone

Nota di aggiornamento Con una mano il legislatore ha confezionato, nella l. 7 luglio 2009, n. 88 («comunitaria 2008», in G.U., 14 luglio 2009, n. 161), la delega per il recepimento dell’intera PSD, pure imponendo «le occorrenti modificazioni alla normativa vigente… per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare» (art. 32; su cui v. le notazioni critiche di Sciarrone Alibrandi, Le regole contrattuali, relazione tenuta al convegno su L’armonizzazione europea dei servizi di pagamento. L’attuazione della direttiva 2007/64/CE, organizzato dalla Banca d’Italia e dalle Università di Siena, di Foggia, Federico II di Napoli e Cattolica del Sacro Cuore, e svoltosi a Roma l’11 e il 12 giugno 2009). E ha altresì offerto alla pubblica consultazione (al sito Internet www. dt.tesoro.it) lo schema di trasposizione del tit. IV della direttiva, che riceve le norme comunitarie sulla data valuta senza mutamenti [salvo che per un punto: l’art. 22, co. 3, dello schema di recepimento, disponendo

Sulla disciplina della data valuta dei versamenti di effetti cambiari in divisa del conto v. retro, nt. 21. Su quella delle operazioni con conversione (la cui sola ipotesi puntualmente regolata dalla direttiva è d’impossibile verificazione in Italia: v. retro, nt. 38), in fine di n. 4. 44

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Gianluca Mucciarone

che «il prestatore… può stabilire un momento della giornata operativa oltre il quale i versamenti di contante si considerano effettuati la giornata operativa successiva…»; disposizione, questa, che − non solo con riguardo alle operazioni allo sportello, ma pure con riguardo alla “cassa continua” − dilata il difetto di giustificazione della norma (già europea) che permette lo slittamento di un giorno della decorrenza degli interessi sulle rimesse di numerario (solo) quando l’utente non sia un consumatore: il deposito, infatti, in qualunque momento compiuto, costituisce in capo alla banca il potere di utilizzare, come di non utilizzare, la relativa somma, secondo le modalità organizzative prescelte, in via ordinaria o straordinaria, da ciascuna banca]. Con l’altra mano, intanto, ha inserito tra i “provvedimenti anticrisi” del d.l. 1 luglio 2009, n. 78 (convertito in legge con l. 3 agosto 2009, n. 102, in G.U., 4 agosto 2009, n. 179, S.O., n. 140) disposizioni sulla data valuta (art. 2, co. 1). L’urgenza del provvedere, forse, può aiutare a spiegarne vari aspetti. Tali disposizioni, anzitutto, sono frammischiate, in uno stesso comma, con altre, riguardanti la “disponibilità” delle somme (disponibilità “economica”, anzi meglio). E discorrono di “versamento”, non solo per gli assegni, ma anche per i bonifici, pure questi qualificando “titoli”. L’intervento, poi, ha ridotto cabotaggio: lasciate fuori dal t.u.b. le norme di nuova fattura, non pretende di chiarire quelle dell’art. 120, co. 1, t.u.b., né tantomeno di coordinare le une e le altre. Inoltre, il testo della vigente regola per i bonifici − rapportandola tout court al “versamento” e da questo comunque concedendo un giorno − ha concezione diversa (per eccesso e per difetto) rispetto a quella omologa comunitaria (e a quella di pedissequa attuazione, offerta in consultazione). E, analogamente, non hanno concezione per sé coerente con questa (né con quelle dell’art. 120, co. 1, t.u.b.) le disposizioni sugli assegni. Né il tenore delle norme che l’art. 2, co. 1, dedica alla “disponibilità” delle somme − per incidens proseguendo per un tratto su esse − è senz’altro in armonia con un divieto di spostamento della data valuta rispetto al tempo in cui la banca riceve i fondi da mettere a disposizione del cliente: consentire − come si prestano a fare le disposizioni governative − che la messa a disposizione avvenga in un momento seguente a quello in cui iniziano a maturare gli interessi a favore del cliente significa permettere alla banca un lucro non meno (inutilmente) “opaco” di quello conseguibile con il “gioco delle valute”, poiché la banca può venire a disporre di denaro dovuto al cliente, ma che questi non può ancora esigere a vista, sì in cambio di interessi, ma per sé previsti per un potere di utilizzo con obbligo di restituzione a semplice richiesta. (D’altra parte,

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Saggi

consentire che la banca metta a disposizione del cliente le somme per suo conto incassate in un tempo maggiore di quello strettamente necessario stride pure con il principio di efficienza del servizio). Comunque, poi, la diversità di trattamento che il d.l. prospetta per gli assegni circolari e per quelli bancari non pare giustificabile: l’attuale tempo di (definitivo) regolamento interbancario dei due tipi di titoli, per quanto consta, è eguale [benché eccessivo: di «tre giorni lavorativi» (decorrenti dalla «presentazione in stanza» per gli assegni, circolari come bancari, da presentarsi in stanza di compensazione; dal «regolamento in Compensazione del flusso di presentazione» per gli assegni, circolari come bancari, soggetti alla procedura di check truncation); Accordo interbancario per il servizio di incasso di assegni bancari e altri titoli pagabili in Italia, cap. 6, n. 2]. Giustamente, invece, il d.l., per la data valuta dei versamenti di contante (come per la data di disponibilità), non discrimina, al contrario della direttiva, secondo la natura dell’utente.

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CoMMENTI

Revocatoria delle rimesse in conto corrente TRIBUNALE DI MILANO, Sezione II civile, sentenza 25 maggio 2009; G.U. Craveia; Fall. P.F. & C. s.n.c. c. Banca X s.c.r.l. Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Distinzione fra conto passivo e conto scoperto – Irrilevanza (L. fall., art. 67, co. 3, lett. b) Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Presupposti – Riduzione consistente e durevole dell’esposizione della banca – Estremi – Fattispecie (L. fall., art. 67, co. 3, lett. b) Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Art. 70 l. fall. – Inapplicabilità (L. fall. art. 70)

Le rimesse sul conto corrente bancario sono revocabili indipendentemente dalla circostanza che siano affluite su conto scoperto o su conto passivo. (1) Ai fini della revocatoria la consistenza e la durevolezza vanno verificate con riguardo alla singola rimessa e vanno accertate, la prima, considerando l’andamento fisiologico del conto e, la seconda, con riguardo al ritmo usuale delle operazioni rispetto al periodo di osservazione (nella specie, si è utilizzato il criterio della media e si sono valutate come consistenti le rimesse che avessero inciso sul saldo debitore in misura superiore alla percentuale media di riduzione dell’esposizione e come durevoli le rimesse la cui giacenza senza utilizzi fosse pari o superiore alla giacenza media). (2) L’art. 70 l. fall. (nel testo anteriore al d.lgs. n. 169 del 2007) non si applica ai rapporti di conto corrente bancario. (3)

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(Omissis) Fatto – Il curatore del fallimento P. f & C. con atto notificato il 24-07-2006, ha citato in giudizio la Banca XXXXX scrl, per sentir accertare che le rimesse eseguite nei sei mesi precedenti il fallimento, dichiarato in Milano il 6.12.2005, sul conto corrente della Società in bonis, aperto presso la filiale di Novate Milanese, erano revocabili perché avevano natura solutoria ed hanno ridotto in maniera consistente e durevole il debito. L’attore ha indicato che l’importo oggetto della revoca era quantificabile in euro 17.885,74 pari alla differenza tra il massimo scoperto nel periodo sospetto e il saldo finale positivo del conto corrente in causa non affidato, anche se l’esistenza di un contratto di apertura di credito sia di fatto divenuta irrilevante, attribuendo al criterio di quantificazione efficacia vincolante per il disposto dell’art. 70 l.f. che costituirebbe norma di interpretazione autentica dell’art. 67 c. 3 lettera b l.f. L’attore ha in fine indicato che la banca convenuta, operatore qualificato, era a conoscenza dell’insolvenza della fallita nel periodo in esame, posto che dal 2002 al 2005 erano stati elevati numerosi protesti di assegni bancari, dal settembre 2004 erano stati emessi numerosi decreti ingiuntivi in odio alla fallita e il conto corrente in argomento aveva avuto un andamento non fisiologico. Con comparsa di risposta depositata nel corso della prima udienza del 10.01.2007 la convenuta ha eccepito che gli accrediti registrati sul conto corrente in esame sono sempre stati alternati ad addebiti finalizzati all’utilizzo della provvista ripristinata con un andamento del rapporto del tut-

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to operativo e fisiologico in ambito commerciale, senza anomalie o finalità c.d. al rientro dello scoperto, mancando così sia il requisito della durevolezza della riduzione del debito e anche della consistenza. La convenuta ha poi contestato di conoscere all’epoca dei fatti dedotti in causa l’esistenza di procedimenti monitori contro la fallita indicando che l’esistenza di protesti non è indice sufficiente per reggere l’elemento soggettivo dell’azione esercitata. Nel corso della trattazione le parti si sono scambiate memorie ed all’esito dell’attività istruttoria espletata, sulle precisate conclusioni la vertenza è stata trattenuta per le decisione. Motivi – Le richieste istruttorie reiterate dalla convenuta come già statuito nel corso della trattazione non possono trovare tutte accoglimento in quanto in parte irrilevanti perché riferite a condotte nei confronti di terzi e in parte perché devono essere dimostrate per iscritto con atti aventi data certa. Inoltre non è rimesso ai testimoni fornire valutazioni o pareri. In fine la convenuta è decaduta dalla richiesta audizione del teste per non aver provveduto per la sua intimazione alla fissata udienza. Alla presente azione si applica la novella di cui al decreto sulla competitività del 14.03.2005 n. 35 convertito nella legge n. 80/2005 in quanto il fallimento attore è stato dichiarato successivamente al 16.03.2005, data di entrata in vigore della novella sulla revocatoria di rimesse bancarie. Il novellato art. 67 l.f. attribuisce la revocabilità dei versamenti posti


Tribunale di Milano

in essere dalla fallita in bonis nei sei mesi antecedenti il fallimento purché abbiano carattere solutorio e abbiano ridotto in maniera consistente e durevole il debito. Per questo accertamento, atteso il tenore letterale della norma e lo spirito della riforma, diventa irrilevante accertare se il conto corrente in esame fosse o meno affidato e cioè se le operazioni contestate ricadessero nell’ambito della disponibilità di fido concesso all’esito del contratto di apertura di credito. Per procedere all’esatto conteggio e quindi accertare il “petitum” è stato nominato un consulente che ha proceduto agli accertamenti richiesti utilizzando l’estratto del conto corrente numero XXXXX della Banca XXXXXX procedendo nell’indagine dal 08.06.2005 al 05.12.2005. La nomina del consulente non è stata fatta per demandare a Lui la decisione della vertenza come sottolineato strumentalmente dalla convenuta: l’attore aveva indicato quali erano le rimesse revocabili, aveva prodotto un conteggio, aveva indicato un criterio da seguire secondo il disposto dell’art. 70 l.f. La banca aveva contestato tutto e quindi occorreva rivedere i conteggi e riallineare le rimesse: attività squisitamente di competenza di tecnici nel settore contabile. Il consulente ha quindi operato in modo lineare e rispettoso del quesito imposto alla luce delle allegazioni di parte e ha correttamente indicato che il presupposto dell’azione revocatoria in oggetto è dato dal pagamento di debiti liquidi ed esigibili tenendo conto delle c.d. partite bilanciate, cioè delle rimesse finalizzate a costituire

la provvista per l’esecuzione di uno specifico ordine di pagamento accettato ed eseguito dalla banca, che pur affluendo su un conto scoperto non vanno considerate alla stregua di pagamenti poiché costituite da versamenti con imputazione specifica di pagamento a favore di terzi (Cass. Sez. I - 26/01/99 n. 686). Ai fini dell’individuazione delle operazioni “bilanciate”, è necessario che vi sia sostanziale coincidenza di data e di importo in dare e avere; inoltre occorre che la banca abbia immediata certezza della disponibilità della somma in capo al cliente che intende disporne immediatamente, il che non è possibile quando la rimessa abbia ad oggetto assegni bancari che richiedono una verifica della copertura. Il CTU ha poi eseguito i suoi conteggi seguendo il criterio del c.d. “saldo disponibile”, risultante dalla combinazione, a seconda delle operazioni bancarie compiute, del saldo contabile e del saldo per valuta, facendo riferimento al criterio della disponibilità del conto da parte del correntista al momento della rimessa, non necessariamente coincidente con il saldo per valuta o con quello contabile delle operazioni risultanti dall’estratto conto. Egli ha anche agito osservando che quando nel periodo considerato emergano solo operazioni di rimessa di titoli all’ordine o di carte commerciali, può legittimamente presumersi la coincidenza del saldo disponibile con il saldo per valuta, salva la prova, da parte della banca, dell’anteriorità del pagamento da parte del terzo rispetto alla valuta, o, comunque, dell’anteriorità della disponibilità da parte del cliente; ove invece, nel detto periodo emergano soltanto operazio-

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ni implicanti disponibilità immediata da parte del correntista, il dato contabile coincide con quello di disponibilità; qualora, infine, nel ricordato periodo appaiano sul conto sia operazioni su titoli, sia movimenti per i quali la disponibilità coincide con la data dell’operazione (prelievi o versamenti in contanti, emissione di assegni da parte del correntista), il saldo disponibile deve essere ricostruito secondo un’interpolazione tra i dati per valuta e quelli contabili, a seconda del tipo di operazione, recependo che per il versamento di titoli di terzi, la data della disponibilità non può più essere fatta coincidere, sia pure presuntivamente, con la data della valuta, visto che per effetto dell’evoluzione dei traffici commerciali, ormai la conoscenza del pagamento dell’assegno da parte della banca trattaria avviene in tempi rapidi e quantomeno con riferimento al versamento di assegni su piazza dello stesso istituto la disponibilità può coincidere con la data di registrazione dell’operazione. Il CTU ha proceduto operando per i saldi infragiornalieri secondo il criterio più prudente per cui i movimenti vanno annotati virtualmente secondo l’ordine indicato nell’estratto conto, dal momento che l’estratto è un documento che viene inviato al correntista e che se non contestato deve considerarsi approvato dal cliente. Seguendo questi criteri il consulente ha esaminato i dati contabili per il cui contenuto ci si riporta in modo sostanziale e formale all’elaborato versato in atti e qui non riportato per inutile duplicazione. Ora riprendendo l’attività ermeneutica di interpretazione della no-

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vella si ripete che la nuova formulazione dell’art. 66, 3° comma, lettera b, l.f., ragionando in senso antitetico al passato, ha statuito che le rimesse effettuate su un conto corrente sono revocabili solo nel caso in cui le stesse abbiano ridotto l’esposizione debitoria in modo “consistente” e “durevole”. Dovendo dare il Giudicante (e prima di esso il CTU) un contenuto concreto a questi termini generici e non aventi valore assoluto, si ritiene (in sintonia con il CTU) che la rimessa può essere revocata non già se è consistente e durevole in sé ma solo se ha ridotto in modo consistente e durevole l’esposizione debitoria. Pertanto la loro individuazione presuppone che gli elementi “durevolezza” e “consistenza” coesistano. Inoltre quanto al termine “consistente” questo è sinonimo di “ingente” o di “cospicuo”; ovviamente non è possibile fissare un valore assoluto per la generalità dei consociati oltre la cui soglia la riduzione è consistente. Per identificare la c.d. soglia nei singoli casi bisogna nel caso singolo tenere conto dell’andamento fisiologico del conto corrente e utilizzare solo la singola rimessa e non all’insieme delle rimesse che siano state idonee a ridurre l’esposizione in misura consistente. Anche il termine “durevole” si deve identificarlo in concreto nel confronto con il ritmo usuale delle operazioni rispetto al periodo di osservazione caso per caso. Seguendo questi criteri del tutto e in tutto condivisi il Consulente ha elaborato la soluzione attraverso il modello matematico della media: in sostanza tutto quello che è sopra la


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media delle rimesse è rilevante al fine di assumere i connotati della “durevolezza” e “consistenza”. Il consulente ha ordinato le operazioni di conto per saldo disponibile e: • è stato determinato l’importo medio di rimessa (Euro 4.072,24) e il saldo medio di conto determinatosi a seguito delle rimesse (Euro 12.813,66); • ha rapportato il primo valore al secondo ed è stata determinata la relativa incidenza media percentuale (31,78%), cioè mediamente le rimesse hanno ridotto l’esposizione del 31,78%; • sono state quindi considerate quali rimesse che abbiano ridotto in maniera consistente l’esposizione debitoria solo quelle che di volta in volta hanno avuto una incidenza (riduzione) percentuale sul saldo di conto da esse determinato superiore a quella media; • così individuate le rimesse “consistenti” (n. 23), è stata determinata la loro durata media (8 giorni) in relazione al periodo di osservazione di 180 giorni; • sono state quindi considerate quali rimesse “consistenti” che abbiano ridotto (anche) in maniera durevole l’esposizione debitoria solo quelle la cui giacenza non ha avuto utilizzi per almeno 8 giorni. Il consulente ha anche eseguito i conteggi in applicazione al terzo comma dell’art. 70 l.f. secondo cui è restituibile soltanto l’importo per il quale la banca è effettivamente rientrata del suo credito, rappresentato dalla differenza tra il credito massimo erogato (massimo scoperto del periodo) ed il credito residuo al momento della dichiarazione di fallimento.

Si tratta di una norma dettata per tutti i rapporti continuativi ma lo scrivente non la ritiene applicabile ai rapporti di conto corrente bancario perché essi non sono paragonabili alle somministrazioni periodiche, sono frutto spesso della esecuzione di diversi e distinti contratti bancari, la vita del conto corrente è influenzata da numerosi fattori esterni, quali le scelte dell’istituto di concedere, modificare o revocare affidi, operare per singoli contratti con operatività per ciascuno peculiare e altro. Respingendo quindi il secondo criterio e utilizzando il primo dalla tabella elaborata dal CTU secondo il prospetto allegato alla sua relazione in cui sono riportati: 1° colonna: la data individuata per saldo disponibile, che ha determinato la progressione cronologica delle operazioni compiute nella ricostruzione del conto; 2° colonna: la data contabile; 3° colonna: la data per valuta; 4° colonna: la causale dell’operazione; 5° colonna: gli importi a debito del correntista (utilizzi), con riquadro per gli importi che hanno neutralizzato per valore e durata le rimesse potenzialmente revocabili; 6° colonna: gli importi a credito del correntista (rimesse), con evidenziazione in grigio delle operazioni neutralizzate per storno scrittura; 7° colonna: il saldo progressivo; 8° colonna: l’incidenza percentuale della rimessa sul saldo di conto da essa determinato; 9° colonna: l’importo revocabile. Il risultato finale delle rimesse “consistenti” e “durevoli” in applicazione

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del criterio matematico della media, nei sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento, revocabili per avere ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria, ai sensi dell’art. 67, 3 c. lettera B) l.f. ammonta a Euro 89.290,81. L’interpretazione della banca data dalla novella in esame non può trovare accoglimento perché così come prospettata significherebbe cancellare l’esistenza della revocatoria bancaria, che non è nemmeno nello spirito della riforma già grandemente a vantaggio del ceto bancario rispetto alla precedente normativa. La banca infatti indica che durevole sarebbe solo la rimessa posta in essere quando il conto corrente non opera più, il che è una apodittica visione del carattere solutorio dei versamenti. Inoltre il consulente ha identificato e valutato le rimesse bilanciate e per la pretesa della banca di ritenere tutte bilanciate le rimesse sindacate era necessario che la stessa dimostrasse per ognuna il nesso teleologico del versamento finalizzato al successivo utilizzo. A nulla rileva che nel corso della elaborazione il consulente oltre al criterio indicato dall’attore ha fornito elementi ermeneutici di interpretazione della norma al Giudice suffragati poi dai conteggi che da tale criterio erano conseguenza necessaria. Questo Giudice li ha condivisi, li ha motivati, li ha fatti propri ed ha utilizzato del consulente in modo “passivo” solo l’elaborazione di calcolo che non è sindacata dalla banca, che contesta a monte il rapporto dedotto. La giurisprudenza è fatta di evoluzione e a nulla rileva che il criterio oggi seguito e suggerito dal CTU sia

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un assoluto precedente: il diritto sarebbe fermo all’anno zero senza il suo fisiologico adattamento all’evoluzione dell’ordinamento giuridico. A nulla rileva che il fallimento ha modificato il “petitum” in sede di precisazione delle conclusioni perché: egli ha suggerito al Giudice in prima istanza un criterio di conteggio ma non ha affermato che quello era l’unico richiesto il Giudice è libero nel decidere di attribuire la veste giuridica al fatto narrato e in essa attività è ricompresa anche l’interpretazione delle norme l’interpretazione delle norme determina anche come nel caso in esame la quantificazione della pretesa azionata il fallimento nel chiudere la sua domanda in origine ha – come sempre avviene – fatto riserva della maggiore o minore somma che sarà accertata in corso di causa. Venendo ora all’esame dell’elemento soggettivo dell’azione esercitata va detto che la prova dell’insolvenza può essere data anche da un solo elemento conoscitivo che può far presumere in modo grave e preciso l’incapacità della controparte ad adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni. Il fatto dedotto a prova seppur presuntiva deve essere valutato con relazione alla odierna controparte che è un soggetto altamente qualificato come lo sono gli operatori bancari e soprattutto con il fatto che la banca deve sempre agire in buona fede e con criteri ispirati alla correttezza e alla diligenza. Non è contestato che la fallita in bonis subiva dei protesti di assegni dal 2002 ed è pacifico che il bollettino


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dei protesti è uno dei documenti solitamente consultati dalle banche. Inoltre le stesse hanno altri criteri per valutare lo stato di salute delle imprese loro clienti: se non lo ha fatto la convenuta ovvero non ha fornito la prova di aver avuto contezza di altri fatti che potevano dare una lettura dell’episodio in esame in senso antitetico la sola conseguenza è che la stessa non poteva non essere allarmata dal fatto che la sua cliente emetteva assegni che non venivano onorati, fatto che sino a pochi anni fa era anche penalmente sanzionato. Questa è la prova che la banca aveva la percezione che la fallita in bonis non era in grado di adempiere alle obbligazioni assunte e quindi era insolvente. A corredo va detto che è fatto notorio che le banche hanno strutture finalizzate ad accertare l’esistenza di procedimenti monitori ovvero azioni esecutive contro i loro clienti: la banca convenuta non ha fornito la prova contraria per cui anche questo elemento va a rafforzare la presunzione di conoscenza in argomento. Da ultimo il conto corrente in esa-

me è stato utilizzato solo con moduli da sportello senza la possibilità di emissione di assegni: anomalia di condotta nel rapporto contrattuale e esistenza di protesti sono elementi che dicono semplicemente che la banca non si fidava dell’impresa perché non poteva non sapere che era insolvente. Irrilevante il fatto che la banca abbia continuato il rapporto sapendo dello stato di crisi irreversibile che aveva colpito la fallita in bonis poiché il rischio di impresa è insito nella attività commerciale e non è antitetico con la speranza recondita della stessa di un auspicabile superamento della crisi finanziaria che colpiva la controparte. Ne consegue che vengono dichiarati inefficaci e quindi dichiarati revocati nel loro complesso rimesse per un complessivo ammontare di euro 89.290,81 e detto importo la banca è tenuta a versare al fallimento attore con gli interessi legali dalla notifica della citazione che costituisce il primo completo ed esaustivo atto di messa in mora, oltre le spese di lite per la sostanziale soccombenza, liquidate come da dispositivo. (Omissis)

(1-3) A. La giurisprudenza continua a cimentarsi con i problemi posti dall’art. 67, co. 3, lett. b), l. fall., in materia di revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario e, in particolare, con il problema dell’individuazione dei requisiti della “consistenza” e della “durevolezza” della riduzione dell’esposizione debitoria, alla sussistenza dei quali è condizionata la revocabilità delle rimesse. Abbiamo già pubblicato due sentenze, rispettivamente Trib. Monza 3 settem-

bre 2008 e Trib. Milano 27 marzo 2008 (in Dir. banc., 2009, I, 91 ss., con nota di A. Nigro, La revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente fra insipienza del legislatore e fantasia dei giudici), le quali hanno mostrato a quali “acrobazie” ricostruttive i giudici si trovino ormai costretti nel tentativo di dare un contenuto ragionevole e appagante ai criteri di impressionante vaghezza introdotti dal nostro legislatore fallimentare. Il panorama si arricchisce ora con la sentenza qui riportata, che sostan-

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zialmente riprende, sviluppandola, la linea prospettata nella appena ricordata sentenza del 2008 dello stesso Tribunale. E che, come questa, se da un lato risulta frutto di un notevole e meritorio sforzo, dall’altro si espone al rilievo della più totale arbitrarietà. Il Tribunale (sulla scorta, a quanto risulta, dell’elaborazione di un CTU) ha ritenuto di incentrare tutto sul “modello matematico della media”. Così: ha determinato l’importo medio delle rimesse e il saldo medio del conto dopo le singole rimesse, stabilendo poi, attraverso il rapporto fra questi due dati, l’incidenza media delle rimesse sul saldo; ha qualificato come “consistenti” le rimesse che di volta in volta avessero ridotto il saldo in misura superiore all’incidenza media; ha determinato la giacenza media delle rimesse senza successivi utilizzi; ha, infine, qualificato come rimesse (anche) “durevoli” quelle fra le rimesse consistenti che avessero fatto registrare una giacenza senza utilizzi per un periodo pari o superiore a quella media. Tutto questo è quasi totalmente privo di appigli normativi, l’unico passaggio in qualche modo collegabile al tenore della norma essendo quello che collega la “durevolezza” (non già alla definitività

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della riduzione del saldo bensì) a una certa stabilità nel tempo della rimessa. Il resto è arbitrario: è arbitraria l’idea che non si possa fissare un criterio di consistenza assoluto; è arbitraria la scelta di rapportare la consistenza all’incidenza media sul saldo; e così via. B. La sentenza in rassegna ha ritenuto ormai irrilevante la tradizionale distinzione fra rimesse affluenti su conto corrente scoperto e rimesse affluenti su conto passivo. Ha così accolto l’opinione dominante, discostandosi invece dall’orientamento accolto dallo stesso Tribunale nella sentenza del 2008. C. Il Tribunale ha deciso sulla base della normativa anteriore al d.lgs. n. 169 del 2007 (il c.d. “correttivo”). Quindi ha risolto il problema – a sua volta complesso e delicato – del rapporto fra l’art. 67, co. 3, lett. b) e l’art. 70 (che nel testo previgente non conteneva alcun riferimento espresso al conto corrente bancario) nel senso dell’inapplicabilità della seconda delle due disposizioni alla vicenda della revocatoria delle rimesse. Per questa soluzione v. in dottrina – sempre anteriormente al “correttivo” – A. Nigro, Riforma della legge fallimentare e revocatoria delle rimesse in conto corrente, in Dir. banc., 2005, I, p. 352 s. [Nota redazionale]


Accordi di ristrutturazione dei debiti TRIBUNALE DI PALERMO, decreto 27 marzo 2009; Pres. Novara, Giud. Del. Nonno; Ricorrente Soc. Alimentari Provenzano s.r.l. Accordo di ristrutturazione dei debiti – Mancato deposito dell’accordo in cancelleria prima della pubblicazione nel registro delle imprese – Mancata autenticazione delle sottoscrizioni degli aderenti – Concessione del decreto di omologa. (L. fall., art. 182 bis) Accordo di ristrutturazione dei debiti – Relazione del professionista – Oggetto –Attuabilità dell’accordo – Veridicità dei dati aziendali. (L. fall., art. 182 bis) Accordo di ristrutturazione dei debiti – Sindacato del tribunale – Attuabilità dell’accordo – Pagamento integrale dei creditori non aderenti. (L. fall., art. 182 bis) La mancata autenticazione della sottoscrizione degli aderenti e il mancato deposito dell’accordo presso la cancelleria del tribunale prima della pubblicazione nel registro delle imprese non precludono la pronuncia del decreto di omologazione. (1) Nel redigere la relazione sull’attuabilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, il professionista è tenuto ad accertare la veridicità dei dati aziendali. (2) Nel procedimento di omologazione di cui all’art. 182 bis l.fall. il tribunale deve valutare la concreta fattibilità dell’accordo, in riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei che devono essere integralmente soddisfatti. (3)

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(Omissis) Svolgimento del processo – 1. Va prima di tutto evidenziato che, sebbene l’art. 182 bis l.f. non lo preveda espressamente, ai fini dell’omologazione dell’accordo di ristrutturazione di debito, al pari di quanto avviene per il concordato preventivo, deve ritenersi necessaria la fissazione di un’apposita udienza collegiale in camera di consiglio anche in assenza di opposizioni: ciò al fine di consentire al proponente di discutere le questioni controverse, fornendo al collegio eventuali chiarimenti e/o integrazioni documentali, nonché al P.M. – al quale il ricorso deve essere comunicato, avuto conto della sua posizione di soggetto legittimato all’intervento, quanto meno eventuale (cfr. artt. 70 e 71 c.p.c.) – di interloquire e al Tribunale di acquisire eventuali mezzi istruttori, anche d’ufficio. Per il resto, in assenza di opposizioni, il controllo del Tribunale in sede di omologazione deve riguardare necessariamente i seguenti aspetti: a) la competenza del giudice adito a pronunciarsi sull’omologa; b) la sussistenza, in capo al soggetto proponente, della qualifica di imprenditore commerciale fallibile e in stato di crisi; c) l’effettiva esistenza di un accordo pubblicato nel registro delle imprese e stipulato con un numero di creditori che rappresenta almeno il 60% dei crediti; d) la completezza della documentazione di cui all’art. 161, co. 2, l.f., giusta il richiamo formulato dall’art. 182 bis, co. 1, l.f.; e) la sussistenza della relazione di un professionista avente i requisiti di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), l.f., sull’attuabilità dell’accordo. 2. Nel caso di specie, con riferimento all’aspetto sub a), la domanda

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è stata correttamente proposta al Tribunale del luogo in cui l’impresa ha la propria sede principale, per come si evince dalla visura camerale prodotta; sede che non risulta avere subito alcuna modificazione nell’ultimo anno e fin dalla data di costituzione della società (con conseguente irrilevanza della questione, sollevata in dottrina, relativa all’applicazione dell’art. 9 l. f. ovvero dell’art. 161 l.f. ai fini della determinazione della competenza territoriale). Venendo al punto sub b), questo Tribunale ritiene – conformemente alla dottrina e alla giurisprudenza maggioritarie (si vedano, ad es., Trib. Monza, 24 ottobre 2007 e Trib. Brescia, 22 febbraio 2006, sia pure con riferimento alla previgente formulazione della norma) – che gli accordi di ristrutturazione, al pari del concordato preventivo, possano essere proposti unicamente da imprenditori commerciali fallibili ai sensi dell’art. 1 l.f. Invero, pur essendo superfluo prendere posizione in questa sede sulla vexata quaestio relativa alla natura degli accordi di ristrutturazione (procedura concorsuale che costituisce una species del più ampio genus del concordato preventivo ovvero istituto autonomo, caratterizzato dall’esistenza di un accordo di natura essenzialmente privatistica), non v’è dubbio che l’unico reale interesse alla esternazione dell’accordo è quello di ottenere, da parte dei creditori sottoscriventi, l’esenzione dalla revocatoria fallimentare ex art. 67, co. 3, lett. e), l.f., esenzione che ha ragione di essere solo allorquando il proponente è soggetto alla disciplina del fallimento. 3.1. Nel caso di specie, non v’è dubbio che la Alimentari Provenza-


Tribunale di Palermo

no s.r.l. è un imprenditore commerciale fallibile ai sensi dell’art. 1 l. f. Tale qualità risulta con evidenza dalla visura camerale, nonché dalla relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria depositata dai liquidatori, dott. Salvatore Nicitra e dott. Giuseppe Glorioso. La società ricorrente svolge, infatti, attività commerciale consistente nell’industria e nel commercio del latte, dei latticini, dei loro derivati, nonché dei prodotti affini in genere (si veda la visura camerale prodotta); e la stessa ha raggiunto dimensioni sicuramente rilevanti ai fini della sua fallibilità, con debiti di gran lunga superiori a euro 500.000,00 (nella citata relazione si dà atto dell’esistenza di debiti, al 31/12/2008, per oltre euro 18.150.000,00) e attività e ricavi lordi ampiamente al di sopra dei limiti di cui all’art. 1 l.f. (sempre dalla relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società si evincono un attivo patrimoniale di oltre euro 21.000.000,00 e ricavi per oltre euro 9.100.000,00). 3.2. Lo stato di crisi emerge, altresì, con evidenza, non solo da quanto affermato dall’organo amministrativo dell’imprenditore, ma anche dalla relazione del professionista attestatore, prof. Corrado Vergara, nella quale si legge che «La crisi dell’Alimentari Provenzano s.r.l. si presenta attualmente sia sul piano economico, che su quello finanziario della sua gestione: • sul piano economico, perché, già da due esercizi (2006 e 2007), i ricavi che l’azienda è stata in grado di generare, non sono stati sufficienti a coprire i costi correlativi, dando luogo alla produzione d’ingenti perdite di esercizio, sia a li-

vello di risultato operativo, che a livello di risultato netto; • sul piano finanziario, perché l’azienda di fatto non è in grado di far fronte tempestivamente e in “maniera economica” alle obbligazioni che si è assunta nei confronti del sistema bancario e di altri interlocutori. 4. Con riferimento al requisito di cui alla lettera e), la ricorrente ha prodotto il testo, redatto per iscritto e contenuto in un unico documento, dell’accordo di ristrutturazione dei debiti di cui l’assemblea dei soci, con delibera del 7/07/2008, ha approvato la proposizione a cura dei liquidatori della società, che lo hanno tutti sottoscritto. In proposito, deve osservarsi che il mancato specifico richiamo, da parte dell’art. 182 bis, co. 1, l.f., all’art. 161, co. 4, l.f. induce a ritenere non necessario che la proposta di accordo di ristrutturazione di debiti (diversamente da quanto avviene per la proposta di concordato preventivo, avuto anche conto delle differenti finalità e portata dei due istituti) sia deliberata dagli amministratori, risulti da verbale redatto da notaio e sia iscritta nel registro delle imprese a norma dell’art. 2436 c. c. (cfr. l’art. 152, richiamato dal citato art. 161, co. 4). Sono, quindi, intervenute, in epoche successive, le accettazioni da parte dei dieci enti creditizi stipulanti: il 12 novembre 2008, da parte di Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a.; il 19 novembre 2008, da parte di Credito Siciliano s.p.a.; il 21 novembre 2008, da parte di Mediocredito Italiano s. p.a.; il 24 novembre 2008, da parte di Intesa San Paolo s.p.a.; il 27 novembre 2008, da parte di Banca Nazionale

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del Lavoro s.p.a.; il 1 dicembre 2008, da parte di Banca Popolare di Lodi s. p.a.; il 1 dicembre 2008, da parte di Unicredit Corporate Banking s.p.a.; il 15 dicembre 2008, da parte di Banca Sella Sud Arditi Galati s.p.a.; il 16 dicembre 2008, da parte di MPS Capital Services Banca per le Imprese s.p.a. Tenuto conto del tenore del testo sottoscritto da ciascun ente (alla cui firma è stato sottoposto un documento contenente l’intero accordo), può senz’altro ritenersi che tutti i soggetti stipulanti sono stati resi pienamente edotti non solo delle condizioni loro praticate, ma anche di quelle praticate agli altri partecipanti. 4.1. Del menzionato accordo, regolarmente depositato per l’iscrizione presso il Registro delle imprese, è stata quindi data idonea pubblicità in data 21/01/2009, così come si evince dalla pag. 13 della visura camerale prodotta. Si noti che – sebbene la sottoscrizione degli aderenti non sia stata autenticata da un pubblico ufficiale fidefaciente, così come ritenuto necessario in altre pronunce giurisprudenziali edite (si vedano, ad es., Trib. Udine, 22 giugno 2007 e Trib. Bari, 21 novembre 2005) – non v’è motivo di dubitare della genuinità del consenso prestato dai sottoscrittori. In primo luogo, la sottoscrizione dell’accordo è accompagnata da un carteggio tra le parti (regolarmente prodotto), da cui emerge chiaramente l’adesione di ciascun ente creditizio; secondariamente, nessuna opposizione è stata proposta nel termine previsto dalla legge, al fine di fare valere eventuali vizi del consenso. Non è inutile evidenziare che l’art. 182 bis l.f. non fa alcun riferimento alla necessità che la sottoscrizione

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degli aderenti all’accordo sia autenticata; anzi, che la natura di accordo privato dello stesso induce ad escludere la necessità di una tale formalità; peraltro, il conservatore del Registro delle imprese non ha sollevato alcuna obiezione al riguardo. 4.2. Non costituisce, altresì, fatto ostativo all’omologa la circostanza che l’accordo non sia stato previamente depositato presso la cancelleria del Tribunale competente, in data antecedente alla sua pubblicazione nel Registro delle imprese. Da un lato, la norma nulla specifica al riguardo; dall’altro, la legge non sembra prevedere la necessità di una verifica preventiva (antecedente all’omologa), riguardante l’ammissibilità del ricorso e la completezza della documentazione prodotta (verifica che giustificherebbe il previo deposito dell’accordo). Infine, deve evidenziarsi che gli obblighi pubblicitari dell’accordo sono rimessi all’esclusiva iniziativa dell’organo amministrativo dell’imprenditore proponente e non presuppongono la pronuncia di un provvedimento dispositivo o, comunque, autorizzativo del Tribunale. 4.3. Dalla documentazione prodotta da parte ricorrente si evince, altresì, che i debiti verso i creditori stipulanti, alla data del 31/12/2008, sono pari al 63,1% del totale dei debiti della società e che i debiti nei confronti dei creditori estranei (pari a euro 6.009.786,43 al 31/05/2008) sono addirittura diminuiti alla data del 28/02/2009 (si veda la relazione integrativa sull’attuabilità dell’accordo depositata dal prof. Corrado Vergara all’udienza del 27/03/2009, dalla quale risulta che tali debiti ammontano oggi a euro 3.901.474,92).


Tribunale di Palermo

Si rientra, dunque, pienamente nei limiti previsti dalla legge: sia ove si ritenga – come preferibile – che il requisito minimo di aderenti debba essere raggiunto fin dal momento della pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese (pubblicazione intervenuta nel caso di specie il 21/01/2009); sia ove si aderisca alla diversa tesi, pure avanzata in dottrina, per la quale la verifica della sussistenza del menzionato requisito debba essere effettuata in sede di omologa. 5. Venendo al punto sub d), la società ricorrente ha integralmente prodotto la documentazione richiesta dall’art. 161, co. 2, l.f. e cioè: 1) una relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società, aggiornata al 31/12/2008 (ali. n. 4); 2) lo stato analitico ed estimativo delle attività (ali. n. 6); 3) l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione (ali. n. 5); 4) l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso della società (all. n. 7). 6. Infine, con riferimento al requisito di cui alla lettera e), il prof. Corrado Vergara ha redatto un’analitica relazione sulla attuabilità dell’accordo di ristrutturazione dei debiti (all. n. 2.1), successivamente integrata in data 29/12/2008 (all. n. 2.2) e in data 27/03/2009 (quest’ultima depositata all’udienza fissata per l’omologa). In tale relazione, il professionista designato dalla società ricorrente – in possesso dei requisiti di cui al combinato disposto degli artt. 182 bis, co. 1, 67, co. 3, lett. d) e 28, co. 1, lett. a) e b), trattandosi di un dottore commercialista iscritto nel registro dei revisori contabili – ha, prima di tutto,

preso in esame la situazione contabile della società al 31/05/2008, giudicata attendibile a seguito di un procedimento di verifica effettuato in applicazione dei comuni principi di revisione (vale a dire attraverso l’esame, sulla base di verifiche a campione, degli elementi probativi a supporto dei saldi contenuti nella situazione contabile, nonché attraverso la valutazione dell’adeguatezza e della correttezza dei criteri contabili utilizzati e della ragionevolezza delle stime effettuate). La descritta attività di verifica deve ritenersi assolutamente imprescindibile per la corretta redazione della relazione sull’attuabilità dell’accordo, anche se nella fattispecie disciplinata dall’art. 182 bis – differentemente da quanto previsto dall’art. 161, co. 3, per il concordato preventivo – il professionista incaricato non è tenuto a una formale attestazione della veridicità dei dati aziendali. Successivamente, il prof. Vergara ha certificato la sussistenza dello stato di crisi aziendale (come già in precedenza evidenziato), ne ha individuato le cause (riconducibili, essenzialmente, all’assenza di un consapevole e rigoroso controllo dei costi di produzione e della dinamica della tesoreria, all’ingiustificato incremento del numero degli occupati e all’eccessivo livello di indebitamento, soprattutto nei confronti del sistema bancario), ha riconosciuto che l’azione dei nuovi amministratori ha inciso positivamente sulle prime due cause della crisi e ha valutato favorevolmente, con motivazione scevra da vizi nei suoi passaggi logico-argomentativi, gli effetti del piano di ristrutturazione dei debiti predisposto dai liquidatori sulla situazione finanziaria della società.

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Infine, il professionista si è soffermato sull’attuabilità dell’accordo proposto agli enti creditizi. Tale indagine è stata effettuata attraverso la redazione, sulla base di criteri estremamente prudenziali, dei bilanci revisionali di esercizio dal 2008 fino al 2028; prendendo in considerazione, da un lato, i flussi finanziari generati dalla futura attività aziendale e dall’accordo di ristrutturazione dei debiti (che, se portato a termine, garantisce, da parte del socio di maggioranza Gruppo 6 GDO s. r.l., anche l’apporto di nuovo capitale per euro 1.050.000,00 nonché un finanziamento infruttifero di euro 600.000,00) e, dall’altro, il fabbisogno necessario al pagamento dei debiti; e si è conclusa con un sicuro giudizio positivo, anche con riferimento alla possibilità di un regolare pagamento dei creditori estranei. 6.1. Sotto quest’ultimo profilo, cruciale ai fini dell’omologabilità dell’accordo, deve evidenziarsi che per regolare pagamento dei creditori estranei non può che intendersi – secondo quanto correttamente indicato dalla migliore dottrina e dalla giurisprudenza di merito – il pagamento integrale e alla scadenza dei debiti contratti nei confronti di coloro che non hanno sottoscritto l’accordo; con l’ulteriore precisazione che i debiti già scaduti debbono essere necessariamente saldati in epoca immediatamente successiva all’omologa. Opportunamente, pertanto, il professionista nominato ha redatto una relazione integrativa, depositata all’udienza fissata in camera di consiglio, con specifico riferimento all’idoneità del piano di ristrutturazione a garantire il regolare pagamento dei

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debiti scaduti in epoca immediatamente successiva alla data di presumibile omologazione. Tale relazione ha evidenziato che: a) alla data del 28/02/2009, i debiti estranei all’accordo ammontano a complessivi euro 3.901.474,92 (con una significativa diminuzione rispetto alla stima effettuata al 31/05/2008, laddove si indicavano debiti estranei per oltre euro 6.000.000,00); b) alla data del 31/03/2009, i debiti già scaduti sono indicati in euro 361.234,80; e) alla medesima data, la società dispone di risorse finanziarie immediatamente impiegabili per euro 677.625,92 (e, dunque, sufficienti a garantire il pagamento dei debiti scaduti); d) alle scadenze mensili successive fino al 28/02/2010 (con riferimento alle scadenze successive, può farsi riferimento alla valutazione previsionale contenuta nella prima relazione), le disponibilità finanziarie della società sono comunque sempre superiori al fabbisogno. Si può, dunque, concludere che, sulla base di quanto rassegnato dal professionista attestatore – alle cui valutazioni, congruamente e logicamente motivate, il Tribunale deve rifarsi integralmente in sede di omologa, in assenza di specifiche opposizioni – il piano sotteso all’accordo di ristrutturazione è complessivamente attuabile ed è garantito il regolare pagamento dei creditori estranei, anche con riferimento ai debiti scaduti alla data di presumibile omologazione. 7. L’accertata sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla legge implica che l’accordo di ristrutturazione presentato dalla Alimentari Provengano s. r.l. in liquidazione può essere omologato. (Omissis)


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(1-3) Accordo di ristrutturazione dei debiti: un contributo alla ricostruzione del procedimento di omologazione

Sommario: 1. Premessa. – 2. La natura del procedimento di omologazione e i presupposti dell’accordo. – 3. La formazione e la sottoscrizione dell’accordo. – 4. La pubblicazione nel registro delle imprese e il momento del raggiungimento dell’accordo con il 60% dei creditori. – 5. La relazione del professionista e la veridicità dei dati aziendali. – 6. Il “regolare pagamento” dei creditori estranei. – 7. L’ampiezza del sindacato giurisdizionale.

1. Premessa. Con la l. 14 maggio 2005 n. 80 ha trovato cittadinanza nel nostro ordinamento fallimentare l’istituto dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Ispirato, come tutte le riforme che hanno interessato i sistemi concorsuali europei, allo schema della Reorganization e della c.d. Pre-packeged bankrupcy di origine nordamericana , l’art. 182 bis l.fall. è uno strumento innovativo che trasferisce la soluzione della crisi dell’impresa da un piano strettamente giurisdizionale a quello affatto diverso dell’autonomia negoziale. L’accordo tra debitore e creditore viene raggiunto prima del deposito della domanda di omologa: l’intervento del giudice è pertanto successivo e non attiene all’amministrazione né alla gestione della crisi, ma esclusivamente alla consistenza e alla credibilità del negozio stipulato. Di qui la conclusione che resiste, a oggi, la validità della definizione di accordo o concordato “stragiudiziale”.

Per un’analitica comparazione del nostro sistema con la legge fallimentare francese, portoghese e spagnola v., Ambrosini, sub art. 182 bis, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna 2007, II, p. 2533 ss.; Campana, L’impresa in crisi: l’esperienza del diritto francese, in Crisi d’impresa e procedure concorsuali in Italia e in Europa. Prospettive di riforma, a cura di Ragusa Maggiore e Tortorici, Padova 2002, p. 93 e in Il Fallimento 2003, 982 ss.; Candelario Macias, L’armonizzazione del diritto concorsuale nell’ambito dell’UE in Dir. fall., 1999, 358 ss.; Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Padova 2009, p. 7 ss.

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Tuttavia la concreta operatività dell’istituto è stata finora compromessa da un dato normativo che, pur dopo gli interventi chiarificatori del d. lgs. 12 settembre 2007, n. 169, risulta lacunoso e impreciso. E occorre inoltre tenere presente il ruolo concorrenziale che, nelle situazioni di crisi dell’impresa, viene inevitabilmente a svolgere il concordato preventivo. Per non parlare della atavica diffidenza da parte della giurisprudenza di merito nei confronti del concordato stragiudiziale. Al riguardo va pure ricordato che per decenni i giudici delegati al fallimento hanno affermato unanimi che nel nostro sistema concorsuale non poteva considerarsi valido il concordato stragiudiziale proposto dall’imprenditore insolvente. Alla base di tale convincimento risiedevano svariate motivazioni. Innanzitutto il fatto che la legge fallimentare del 1942 individuasse nell’amministrazione controllata e nel concordato preventivo gli specifici strumenti destinati a prevenire il fallimento, non lasciava alcun margine per l’operatività di soluzioni diverse da quelle codificate. L’illegittimità del concordato stragiudiziale concluso dall’imprenditore insolvente con i propri creditori si evinceva, poi, dall’art. 1322 c. c. dove si consente l’atipicità negoziale solo se l’istituto è destinato a perseguire interessi ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento. Infine, l’accordo stragiudiziale veniva qualificato ex art. 1344 c.c. come un contratto in frode alla legge, in quanto consentiva all’imprenditore di eludere l’obbligo di richiedere il proprio fallimento. Con l’ulteriore conseguenza che il diseguale trattamento dei creditori, così come operato dal concordato stragiudiziale, integrava una vera ipotesi di bancarotta preferenziale. In questo stato di cose le indicazioni fornite dalla pronuncia in esame, che costituisce il primo decreto di omologa reso dal Tribunale di Palermo, rappresentano un utile contributo per una puntuale ricostruzione dell’istituto di cui all’art. 182 bis l.fall. La Corte panormita finisce infatti con il delimitarne la funzione e gli effetti, superando l’acceso dibattito che ha finora impegnato le corti di merito e la letteratura giuridica e che spesso ha indotto in errore gli interpreti sulle reali finalità del concordato stragiudiziale, quasi a scongiurare il rischio di legittimare un utilizzo distorto, se non addirittura fraudolento, dell’istituto. Per vero, anche se una certa diffidenza da parte degli addetti ai lavori è inevitabile ogni volta che si introducono forme e modalità del tutto nuove per risolvere questioni risalenti, è tuttavia necessario prendere coscienza che il presupposto del risanamento dell’impresa in crisi (ovvero della bonaria liquidazione di

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quest’ultima) è costituito proprio da un’attenta regolamentazione degli strumenti alternativi al fallimento .

2. La natura del procedimento di omologazione ed i presupposti dell’accordo. I Giudici siciliani, senza chiarire se l’accordo ex art. 182 bis l.fall. costituisca una vera e propria procedura concorsuale o se abbia piuttosto una natura contrattuale, stabiliscono preliminarmente che, pur in mancanza di un’espressa norma in tal senso, è necessaria la fissazione di un’udienza collegiale in camera di consiglio “anche in assenza di opposizioni” . In questo modo, analogamente a quanto avviene per il concordato preventivo, il debitore è posto in condizione di fornire chiarimenti al Collegio, produrre ulteriori documenti a sostegno della propria domanda e discutere le questioni controverse. Lo svolgimento dell’udienza consentirebbe inoltre al P.M., (legittimato a intervenire nel procedimento ove ravvisi un pubblico interesse ai sensi del secondo comma dell’art. 70 c.p.c.), di “interloquire” e al tribunale di disporre, anche d’ufficio, eventuali mezzi istruttori .

Nella vigenza dell’originaria l.fall., Apice, L’impresa in crisi: rischi e responsabilità delle banche, in Dir. banc., 1999, 222 ss., ammoniva sulla possibilità concreta che la privatizzazione dell’insolvenza potesse comportare delle manovre “sicuramente non aderenti ai più rigorosi canoni della par condicio creditorum: di qui il timore di ritorsioni ed il consequenziale impaccio nella redazione e nell’attuazione di un piano di risanamento. Al contrario, un’oculata regolamentazione di queste prassi potrebbe aumentare le chances di risanamento delle imprese in crisi, considerato che […] esse presentano il vantaggio di non essere soffocate da ingessature e sovrastrutture gestionali, il che può consentire […] istantaneità e velocità di decisioni”. Quest’impostazione è condivisa in dottrina da Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione cit., p. 152, la quale avverte come tale soluzione consentirebbe al debitore di chiedere e ottenere termine per la regolarizzazione della documentazione prodotta laddove risultino carenze o anomalie che condurrebbero invece al rigetto della domanda. Di diverso avviso Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino 2007, p. 340 ss., il quale esclude che il tribunale, in mancanza di opposizioni, sia tenuto a fissare un’apposita udienza di comparizione. Si pensi al caso in cui il tribunale proceda a nominare un consulente tecnico per la verifica dei requisiti di cui all’art. 182 bis, non ritenendo sufficiente l’attestazione dell’esperto: su tale fattispecie v. Trib. Rimini, 20 marzo 2009, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/1650.htm, che ha concesso termine per l’integrazione della documentazione e, proprio in forza di quest’ultima, il decreto di omologa dopo avere in prima

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Su questa impostazione si può essere d’accordo. Lo svolgimento di un’apposita udienza costituisce non solo una conseguenza dell’applicazione in via analogica delle norme in materia di concordato preventivo , quanto piuttosto dei principi generali in materia di giusto processo e del contraddittorio. Di contro, l’ampiezza dei poteri istruttori riconosciuti al tribunale (ed eventualmente al giudice delegato all’espletamento dei mezzi di prova) deriva implicitamente dall’esenzione, in caso di successivo fallimento, dalle azioni revocatorie per le somme erogate dal debitore nel rispetto del contenuto dell’accordo omologato . Il Collegio rileva, poi, come anche in mancanza di opposizioni il tribunale sia tenuto a verificare la sussistenza della competenza del giudice adito, della qualifica di imprenditore commerciale fallibile e in stato di crisi, di un accordo pubblicato nel registro delle imprese e stipulato con un numero di creditori pari almeno al 60% dei crediti, di una documentazione completa ai sensi del secondo comma, dell’art. 161 l.fall., della relazione di un professionista munito dei requisiti

battuta escluso, sulla scorta delle risultanze della consulenza tecnica, la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 182 bis l.fall. Tale interpretazione è condivisa anche dalla dottrina che ha affermato come, pur mancando un’espressa norma in tal senso, al tribunale sia consentito assumere anche d’ufficio le informazioni e le prove necessarie per concedere o negare il decreto di omologa. Sul punto v. Ambrosini, sub art. 132 bis cit., p. 2556; Bonfatti e Censoni, La riforma della disciplina dell’azione revocatoria fallimentare, del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, Padova 2006, p. 281; Ferro, Ristrutturazione dei debiti, in Le insinuazioni al passivo. Trattato teorico pratico dei crediti e dei privilegi nelle procedure concorsuali, Padova 2005, p. 700; Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 160, specialmente alla nota 41; Valensise, sub art. 182 bis, La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e Sandulli, Torino 2006, II, p. 1102. Il riferimento è al terzo comma dell’art. 180 l.fall. a mente del quale il tribunale, nel contraddittorio delle parti, assume anche d’ufficio tutte le informazioni e le prove necessarie. Proprio dalla diretta applicazione dell’art. 180 l.fall. deriva, inoltre, il carattere di volontaria giurisdizione del procedimento di cui all’art. 182 bis; con l’ulteriore conseguenza che tale procedimento è chiuso da un decreto motivato che nega o concede l’omologa. Tutti i provvedimenti resi finora dall’autorità giudiziaria in materia di accordi ex art. 182 bis sono stati adottati dal tribunale in composizione collegiale, anche in mancanza di opposizioni: ciò in quanto si è ritenuto applicabile il rito camerale ordinario di cui agli artt. 737 ss. c.p.c. a discapito del rito camerale societario. Per completezza va però ricordato che la distonìa del sistema emerge laddove si consideri che il rito camerale di cui all’art. 737 c.p.c. limita l’attività istruttoria ad una generica raccolta di informazioni. Per tutti v. Proto, Accordi di ristrutturazione dei debiti, tutela dei soggetti coinvolti nella crisi di impresa e ruolo del giudice in Dir. fall., 2007, 191.

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previsti dalla lett. d), comma terzo, dell’art. 67, in ordine all’attuabilità del suddetto accordo. Al riguardo va detto che per quanto concerne la questione sulla competenza, il Tribunale ha ritenuto sufficiente verificare che la domanda risultasse debitamente proposta al giudice del luogo della sede principale dell’impresa. Difatti dalle visure camerali emergeva che l’impresa, sin dal momento della sua costituzione, non aveva subito alcuna variazione: è pertanto apparso superfluo l’esame della questione sull’applicabilità dell’art. 9 o piuttosto dell’art. 161 l.fall. per la determinazione della competenza territoriale . In sede di verifica della sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi il Giudice siciliano ha, innanzitutto, ribadito che legittimato alla proposizione della domanda è soltanto l’imprenditore commerciale fallibile ex art. 1 l.fall., analogamente al concordato preventivo. Nonostante il decreto correttivo avesse già chiarito che il ricorso non può essere presentato dal “debitore”, ma esclusivamente dall’“imprenditore in stato di crisi”, il Tribunale ha precisato come tale scelta costituisca, in realtà, un percorso obbligato se si considera che il motivo determinante perché il debitore e i creditori stipulino un accordo ex art. 182 bis è rappresentato dall’esenzione dall’azione revocatoria; e che tale effetto è ovviamente auspicabile se ed in quanto il debitore sia soggetto alla disciplina del fallimento .

Per completezza va segnalato che in materia di competenza sono state prospettate due diverse soluzioni. Secondo un orientamento la competenza è radicata in capo al tribunale del luogo in cui è ubicata la sede principale dell’impresa a norma dell’art. 161 l.fall.: pertanto non avrebbe alcuna rilevanza il mutamento di sede avvenuto nell’anno anteriore al deposito della domanda. Di quest’avviso: Apice-Mancinelli, Diritto fallimentare, Torino 2008, p. 378; Ferro, sub art. 182 bis, in La legge fallimentare, a cura di Ferro, Bologna 2007, p. 1437; Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 136 e p. 162; Nigro-Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali, Bologna 2009, p. 385; Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Torino 2006, p. 352. In giurisprudenza v. Trib. Milano, 23 gennaio 2007, in Dir. e prat. fall., 2007, n. 5, 57. Ritiene invece inapplicabile agli accordi di ristrutturazione la regola della perpetuatio jurisdicionis: Ambrosini, sub art. 182 bis cit., p. 2554, a meno che non sussista la prova che le leve del comando siano rimaste nel luogo in cui in precedenza risultava la sede. Non è mancato, infine, chi ha individuato la competenza anche in capo al giudice del luogo in cui si trova la sede legale, stante il riferimento alla pubblicazione nel Registro delle imprese: così Fauceglia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge 80/2005, in Il fallimento, 2005, 1445; Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Il fallimento, 2006, 130 ss. Di avviso diverso Lo Cascio, Le nuove procedure di crisi: natura negoziale o pubblicistica? in Il fallimento, 2008, 992, per il quale la sostituzione del sostantivo “debitore” con

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L’autorità giudiziaria deve, inoltre, verificare che l’esposizione debitoria, le attività e i ricavi lordi del ricorrente superino i limiti stabiliti dalle lett. a), b) e c) del secondo comma dell’art. 1 l.fall.; e che sussista il presupposto oggettivo dello stato di crisi, ovvero della medesima condizione prevista per il concordato preventivo . Nel caso di specie la qualifica di imprenditore commerciale fallibile emergeva in maniera inequivoca dalla relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria depositata dai liquidatori. Dalla relazione del professionista risultava, inoltre, lo stato di crisi dell’impresa; e ciò sia in riferimento al piano economico, in quanto i ricavi degli ultimi due esercizi erano inferiori ai relativi costi; sia a quello finanziario non riuscendo più l’impresa ad adempiere tempestivamente le proprie obbligazioni 10.

l’espressione “imprenditore in stato di crisi” a opera del decreto correttivo ha ridotto l’ambito di operatività della norma che avrebbe invece potuto colmare le lacune in materia di piccoli imprenditori e debitore civile. Mancando, inoltre, un riferimento specifico all’imprenditore “commerciale”, la norma potrebbe egualmente trovare applicazione per qualsiasi imprenditore. Nello stesso senso Bonfatti-Censoni, Le disposizioni correttive ed integrative della riforma della legge fallimentare, Padova 2008, p. 95 ss. Esclude invece che l’istituto di cui all’art. 182 bis l.fall. possa essere utilizzato dal piccolo imprenditore, da quello agricolo, dagli enti non commerciali e dai professionisti, Ferro, sub art. 182 bis cit., p. 1438. Prima del chiarimento apportato dal decreto correttivo, in mancanza di qualsiasi richiamo dell’art. 187 bis l.fall. al presupposto oggettivo stabilito dall’art. 160 l.fall. per il concordato preventivo, v. Trib. Roma 16 ottobre 2006, in Dir. e prat. fall., 3, 2007, 56, con nota di Girone, e in Il fallimento, 2007, 187, con nota di Proto. Tale pronuncia, nel tentativo di favorire il più possibile il ricorso all’istituto, aveva stabilito che per accedere agli accordi non era affatto necessario che l’impresa versasse in una situazione di crisi. Pertanto il ricorrente non era tenuto a provare l’esistenza di tale presupposto, né l’autorità giudiziaria poteva verificarne la sussistenza. 10 Secondo gli aziendalisti la crisi è “economica” ogni volta che l’impresa non versi in una situazione di “autosufficienza economica” e cioè quando venga a trovarsi nell’impossibilità di remunerare con i ricavi tutti i fattori produttivi, alle condizioni imposte dal mercato (Onida, Economia d’azienda, Torino 2004, p. 58). La crisi ha invece un’evidente natura “finanziaria” laddove le fonti di finanziamento dell’impresa non risultino adeguate al fabbisogno finanziario, nonostante una gestione economicamente equilibrata della stessa. Tale tipologia di crisi si verifica a causa di programmi di sviluppo che prevedono investimenti in immobilizzazioni (stabilimenti, impianti) finanziati con debiti a breve termine, piuttosto che con capitale proprio o debiti a medio/lungo termine e, su un piano strettamente giuridico, è destinata a sfociare nello stato di insolvenza (sul punto v. Capaldo, Crisi d’impresa e suo risanamento in Scritti sparsi di Pellegrino Capaldo, Milano 1995, p. 193; Onida, Economia d’azienda, cit., p. 416 ss. e più specificamente, in materia di accordi di ristrutturazione v. Zocca, Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e relazione del professionista, Milano 2006, p. 10 s.).

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3. La formazione e la sottoscrizione dell’accordo. Per quanto concerne poi i requisiti formali e l’effettiva esistenza di un accordo pubblicato nel registro delle imprese, il Tribunale ha precisato che la proposta approvata dagli amministratori non deve necessariamente risultare da verbale redatto da notaio, né va depositata e iscritta nel registro delle imprese a norma dell’art. 2436 c.c., così come stabilito dal quarto comma dell’art. 161 l.fall. Ciò sia perché difetta nel dato normativo un esplicito rinvio alla disciplina del concordato preventivo, sia a causa della divergenza strutturale e funzionale sussistente tra accordo ex art. 182 bis e quest’ultimo istituto. L’accettazione di tutti i creditori, sebbene intervenuta in momenti successivi, è risultata, poi, dalla sottoscrizione di un documento contenente l’intero accordo; segnatamente il consenso dei creditori consacrato in diversi documenti è confluita in una pluralità di intese e, dunque, in un accordo unitario 11. Con la conseguenza che tutte le parti hanno accet-

11 In argomento Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 127; ma v. altresì Ferro, sub art. 182 bis, cit., p. 1427 e Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti cit., p. 130. Per quest’ultimo l’accordo di cui all’art. 182 bis integra un contratto plurilaterale con comunione di scopo (individuabile nella ristrutturazione del debito) e a formazione progressiva, che origina e si consolida nelle singole adesioni, peraltro efficaci sin dal momento in cui giungono a conoscenza dei destinatari ex art. 1326 c.c. L’accordo, poi, è da ritenersi concluso nel momento in cui tutte le parti vengono a conoscenza dell’ultima accettazione, vale a dire di quella necessaria a ottenere il raggiungimento della maggioranza del 60% dei crediti. Con l’ulteriore precisazione che l’omologa non incide sul perfezionarsi del contratto ma solo sul prodursi di un effetto ulteriore e che, in mancanza di altre prove, al momento della pubblicazione dell’accordo si presume la conoscenza della sua conclusione da parte di tutti i contraenti; sicché non è più ammissibile la revoca dello stesso. Non è mancato però chi (PRESTI, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca, borsa, tit. credito, 2006, 24 ss.) ha replicato a tale impostazione, osservando che se si qualifica l’accordo di cui all’art. 182 bis come una fattispecie negoziale estranea alla logica e alla disciplina del concordato preventivo (eccezione fatta per le sole disposizioni espressamente richiamate nel dato normativo) si deve pure riconoscere che il perfezionamento non è regolato dal principio maggioritario, bensì da quello civilistico fondato sulla necessità e sufficienza dell’unanimità del consenso dei contraenti, indipendentemente dalla percentuale dei creditori aderenti. In altri termini il raggiungimento della percentuale del 60% non costituisce un requisito per il perfezionamento dell’accordo, ma una mera condizione di omologabilità. Altri (Ambrosini, sub art. 182 bis cit., p. 2540) sostiene che la distinzione tra contratto unitario e pluralità di accordi è destinata a rimanere meramente teorica ogni volta che venga meno l’intesa con uno o più creditori, il cui assenso garantiva il raggiungimento del 60%: in tal caso, infatti, l’accordo non può essere omologato dal tribunale “a prescindere dalla natura unitaria o meno del negozio”.

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tato la proposta nella consapevolezza delle differenti condizioni stabilite per gli altri creditori aderenti. Anche se l’art. 182 bis l.fall. nulla dispone al riguardo, sembra prudente ritenere che le parti debbano essere consapevoli sia degli obiettivi perseguiti mediante l’accordo, sia dei termini e delle condizioni assicurati dal debitore a tutti i creditori aderenti. Sul punto va segnalato che la dottrina ha posto in capo al ricorrente l’onere di informare ogni creditore aderente delle intese raggiunte con i creditori che concorrono alla rimozione della crisi. Laddove infatti l’accordo non si rivelasse idoneo ad evitare il fallimento si potrebbe configurare una condotta lesiva della par condicio, con il rischio di imputazione di bancarotta preferenziale a carico dei contraenti 12. Per quanto concerne la forma che deve rivestire l’accordo, il Tribunale, a differenza di quanto sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente, non ha ritenuto necessario che la sottoscrizione dei creditori venisse autenticata da un pubblico ufficiale. Si tratta di una determinazione condivisibile per diversi ordini di ragioni. Innanzitutto la lettera dell’art. 182 bis non prescrive affatto l’autenticazione da parte di un pubblico ufficiale della sottoscrizione degli aderenti; inoltre il carattere privato proprio dell’accordo di ristrutturazione lascia intendere che tale formalità non sia affatto indispensabile 13. A

12 Sul punto va brevemente ricordato che la riforma non ha modificato i profili penali connessi alle soluzioni stragiudiziali della crisi d’impresa mentre l’istituto di cui all’art. 182 bis riconosce al debitore e ai suoi creditori una gran libertà di iniziativa con l’unico limite del pagamento integrale e alle scadenze pattuite dei creditori estranei. Si potrebbe dunque verificare l’ipotesi che i creditori privilegiati subiscano decurtazioni maggiori dei chirografari o che non vengano rispettati i criteri stabiliti in relazione alla graduazione delle cause di prelazione. Sul punto Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 128 e Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano 2005, p. 75 sono, difatti, dell’avviso che gli atti compiuti in esecuzione degli accordi di cui all’art. 182 bis potrebbero ancor oggi costituire ipotesi di bancarotta preferenziale. In argomento v. pure Proto, Accordo di ristrutturazioni dei debiti e tutela dei creditori, in La tutela dei diritti nella riforma fallimentare (a cura di Fabiani e Patti), Vicenza 2006, p. 296, il quale sostiene che la concessione dell’omologazione da parte del tribunale possa costituire la prova della mancanza di dolo per quelle condotte poste in essere in esecuzione dell’accordo. Escludono invece l’eventuale rilevanza penale Ambrosini, sub art. 182 bis, cit., p. 2558 s.; Lo Cascio, La nuova legge fallimentare: dal progetto di legge delega alla miniriforma per decreto legge, in Il fallimento, 2005, 362. 13 Ritiene che le firme vadano autenticate Marano, sub art. 182 bis, in Il nuovo fallimento, a cura di Santangeli, Milano 2006, p. 774; Presti, L’art. 182 bis al primo vaglio giurisprudenziale in Il fallimento, 2006, 174. In giurisprudenza v. Trib. Bari, 21 novembre 2005, in Il fallimento, 2006, 169 che, dopo aver precisato che nessuna formalità è imposta dal-

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ben guardare, la convinzione che le sottoscrizioni degli aderenti debbano necessariamente essere autenticate deriva dal fatto che si vorrebbe evitare di porre a carico dell’autorità giudiziaria, nel corso della fase di omologazione, l’incombenza di identificare in maniera certa i creditori aderenti 14. Tuttavia il ricorrente, attraverso il deposito del carteggio intercorso tra il debitore e i creditori, dal quale risultavano le adesioni di ciascuno, ha egualmente fornito al Tribunale la prova della genuinità del consenso prestato dai sottoscrittori. La migliore conferma della correttezza della decisione è data dal fatto che eventuali vizi avrebbero potuto essere comunque dedotti dal creditore interessato a disconoscere la sottoscrizione attraverso la proposizione di un’opposizione nel termine stabilito dalla legge ma, nel caso di specie, tale circostanza non si è verificata; e dal fatto che il conservatore del registro delle imprese non ha sollevato alcuna obiezione al riguardo. Pertanto in mancanza di un’opposizione o di rilievi da parte del conservatore non sussisteva alcun motivo per il quale l’autorità giudiziaria dovesse dubitare dell’autenticità della sottoscrizione.

4. La pubblicazione nel registro delle imprese ed il momento del raggiungimento dell’accordo con il 60% dei creditori. Nella specie i giudici hanno, poi, verificato la regolare iscrizione dell’accordo presso il registro delle imprese, ai fini dell’attuazione della necessaria pubblicità.

l’art. 182 bis, sottolinea come “la necessità insopprimibile di valorizzare la genuinità della manifestazione della volontà dei creditori […] impone che le sottoscrizioni debbano essere autenticate e certificate da un soggetto dotato di tale potere”. Sostanzialmente nello stesso senso Ambrosini, sub art. 182 bis, cit., p. 2547, che fa invece leva sulle difficoltà di tipo “operativo” che una simile incombenza potrebbe determinare. Altri (Proto, Accordo di ristrutturazioni, cit., p. 305, nota 22) correttamente osserva come nemmeno per le adesioni tardive alla proposta di concordato preventivo risulti prescritta l’autenticazione della sottoscrizione e che ogni volta che occorre l’autentica vi è un’espressa disposizione normativa in tal senso come per l’art 474 c.p.c. che disciplina i titoli esecutivi. Sul punto v. pure Trib. Roma 7 luglio 2005, in Dir. e prat. fall., 2007, 74 che ha invece ritenuto che il documento contenente le firme debba essere sottoscritto in originale. 14 Apice-Mancinelli, Diritto fallimentare, cit., p. 377. Ulteriore adempimento che, sebbene non previsto dalla legge, potrebbe risultare utile per una completa informativa dei destinatari della proposta è la tempestiva trasmissione della relazione dell’esperto: così Proto, Accordi di ristrutturazione, cit. p. 193.

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Al riguardo va segnalato che le modalità di pubblicazione dell’accordo hanno costituito l’oggetto di un vivace dibattito. Movendo dalla considerazione che la disciplina del registro delle imprese prevede esclusivamente depositi o iscrizioni, la dottrina e la giurisprudenza hanno avvertito come il termine “pubblicazione” risulti quanto meno improprio, atteso che l’adempimento più idoneo è costituito dall’iscrizione dell’accordo. Proprio dal momento dell’esecuzione di tale formalità si determinano diversi effetti: si pensi al decorso del termine (di natura perentoria) di trenta giorni per la proposizione di eventuali opposizioni e al divieto di intraprendere azioni esecutive ex art. 51 l.fall., ad evitare che nel periodo necessario ad attivare la procedura (60 giorni) il patrimonio dell’imprenditore possa essere disperso. Se poi si considera che l’accordo acquista efficacia dal giorno della sua pubblicazione, condizionando l’avvio del giudizio di omologazione 15, si deve necessariamente riconoscere che la formalità dell’iscrizione dell’accordo abbia una eviddente funzione costitutiva 16. Ulteriori dubbi sono pure sorti riguardo all’esatta individuazione dell’oggetto dell’iscrizione. Ritengono taluni studiosi che presso il registro delle imprese vada pubblicizzata soltanto la notizia dell’accordo, unitamente alla comunicazione che tutti i documenti (costituiti dal ricorso, dalla relazione dell’esperto, dalla proposta dell’imprenditore e dall’accettazione dei creditori), risultano già depositati presso il tribunale; sicché solo in seguito al deposito nella cancelleria del tribunale i creditori e i terzi interessati potrebbero prendere tempestivamente visione del-

Ma persistono solo una volta che il decreto di omologa sia divenuto definitivo: così Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione, cit., p. 137; Nardecchia, Crisi d’impresa, autonomia privata e controllo giurisdizionale, Vicenza, 2007, p. 67. Tuttavia, osserva Proto, Gli accordi di ristrutturazione, cit., p. 193, che se il fine della norma è di rendere pubblico e, dunque, conoscibile a tutti l’accordo, tale effetto può essere egualmente raggiunto attraverso il mero deposito; ciò in quanto mediante la “tenuta informatizzata del registro delle imprese è parimenti garantita la lettura ottica del contenuto del numero di protocollo attribuito all’accordo di ristrutturazione”. 16 Di quest’avviso Trib. Enna, 27 settembre 2006 in Il fallimento, 2007, 195, che peraltro ha avuto modo di precisare come il termine per proporre opposizione sia soggetto alla sospensione feriale, rientrando nella previsione generale di cui all’art. 1 della l. 7 ottobre 1969, n. 742. Sull’inefficacia dell’accordo a causa della mancata pubblicazione nel registro delle imprese, accertata in via incidentale dal tribunale nella procedura per la dichiarazione di fallimento, v. App. Trieste, 4 settembre 2007, in Dir. fall., 2008, 297 ss., con commento di Manente. 15

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l’intera documentazione, indispensabile per la proposizione di eventuali opposizioni 17. Secondo l’orientamento contrario, al quale hanno aderito i giudici siciliani, il mancato deposito dell’accordo presso la cancelleria, prima della pubblicazione nel registro delle imprese, non preclude affatto la concessione del decreto di omologa. Tale impostazione appare corretta per diverse ragioni. Innanzitutto, anche in questo caso, si tratta di un adempimento che non trova riscontro di sorta nel dato normativo e che finirebbe per appesantire inutilmente il procedimento. Per vero una difforme interpretazione avrebbe un duplice effetto negativo: da un canto si costringerebbe il debitore a effettuare il deposito sia presso la cancelleria del tribunale, sia presso il registro delle imprese. Dall’altro la discrepanza tra il momento del deposito in cancelleria e quello diverso e successivo dell’iscrizione nel registro delle imprese finirebbe con il determinare un ben più grave inconveniente. Difatti qualora l’imprenditore, dopo aver effettuato il deposito in cancelleria, dovesse desistere dalla proposizione del ricorso, eventuali opposizioni potrebbero essere egualmente devolute alla cognizione del tribunale che però non sarebbe in condizione di deciderle, non essendo stata proposta la domanda per ottenere l’omologazione; parimenti risulterebbe preclusa l’archiviazione, in difetto di un termine entro il quale l’imprenditore debba chiedere l’omologa 18. Né, per altro verso, sembra sussistere l’esigenza che, prima del deposito del ricorso, il giudice valuti l’ammissibilità della domanda e la completezza della documentazione versata. Sul punto il Collegio panormita ha correttamente ribadito il principio che gli obblighi pubblicitari costituiscono un’incombenza esclusiva dell’imprenditore ricorrente e, pertanto, non richiedono una preventiva pronuncia autorizzativa dell’autorità giudiziaria. La Corte siciliana ha, poi, riscontrato che la società ricorrente aveva regolarmente prodotto la documentazione prescritta dal secondo com-

17 Fauceglia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 1449; Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 194. 18 Tale impostazione è condivisa in dottrina da Ferro, sub art. 182 bis, cit., p. 1434; Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 137 s.; in giurisprudenza aderisce sostanzialmente a tale orientamento Trib. Enna, 27 settembre 2006, cit., per la quale la pubblicazione si perfeziona con il deposito dell’accordo e della relazione del professionista nel registro delle imprese.

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ma dell’art. 161 l.fall. 19 e che l’accordo, sin dal 31 dicembre 2008, risultava siglato da un numero di creditori pari al 63,1% del totale dei debiti della società. Pertanto anche a mente di quell’orientamento più rigoroso, in base al quale la soglia minima del 60% deve sussistere non solo in sede di omologa ma sin dal momento dell’iscrizione dell’accordo nel registro delle imprese 20, il requisito consistente nell’adesione all’accordo della maggioranza qualificata dei creditori era da considerarsi raggiunto prima della pubblicazione dello stesso nel registro delle imprese (avvenuta il 21 gennaio 2009). Tale interpretazione sembra quella più corretta

I documenti richiesti dall’art. 161 l.fall. sono dunque: la relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa; lo stato analitico ed estimativo delle attività; l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei relativi crediti e delle cause di prelazione e quello dei titolari dei diritti reali e personali su beni di proprietà o in possesso del debitore; il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili. Non rientrano tra i documenti da depositare le scritture contabili, in quanto la gestione dell’impresa rimane in capo all’imprenditore. 20 Secondo Verna, Sugli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis legge fallimentare, in Dir. fall., 2005, 868 i crediti contestati non andrebbero a incidere sulla soglia del 60% stante il carattere speciale del provvedimento con cui il giudice delegato, nel concordato preventivo, dispone l’ammissione provvisoria di tali crediti ai soli fini del voto come stabilito dal primo comma dell’art. 176, l.fall. Sostiene invece Ferro, sub art. 182 bis, cit., p. 1437 che i crediti contestati vanno considerati in via prudenziale nell’ammontare complessivo dell’esposizione debitoria, senza incidere nel raggiungimento della soglia del 60%. Altri (Pezzano, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis l.fall.: una occasione da non perdere, in Dir. fall., 2006, 691) esclude l’operatività dell’art. 176 l. fall. per risolvere eventuali controversie: a tale scopo, infatti, l’art. 182 bis prevede un sistema di opposizioni da definire nel corso della fase di omologazione. Tuttavia si dubita che nell’ambito di una procedura di natura prevalentemente negoziale quale quella ex art. 182 bis l.fall. possano essere accertate e decise le questioni relative alla sussistenza dei crediti. Infine, rientrano nel computo della maggioranza qualificata, in analogia con il concordato preventivo, i crediti privilegiati (Pezzano, Gli accordi di ristrutturazione, cit., p. 690; Valensise, sub art. 182 bis, cit., p. 1092). Per altro verso non è chiaro se debbono essere calcolati solo i crediti liquidi ed esigibili al momento in cui l’accordo è stato iscritto nel registro delle imprese. Al riguardo si è escluso che negli accordi di ristrutturazione possa trovare applicazione l’art. 169 l.fall. che, a sua volta, rinvia all’art. 55 l.fall. e che considera i soli debiti scaduti alla data di apertura del procedimento, stante la differente struttura del concordato preventivo rispetto all’istituto in esame: così Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione, cit., p. 129 s. Ma contra v. Pezzano, Gli accordi di ristrutturazione, cit., p. 689, per il quale bisogna computare anche i crediti non ancora scaduti e quelli condizionali: ciò in quanto – stante il carattere di concordato preventivo semplificato del procedimento di cui all’art. 182 bis – sarebbe applicabile il suddetto art. 169 l.fall. La giurisprudenza, dal proprio canto, ha correttamente escluso che la soglia del 60% possa riguardare soltanto i crediti consacrati in un titolo esecutivo: v. sul punto Trib. Roma, 16 ottobre 2006, cit., 187. 19

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se si considera che proprio dalla pubblicazione dell’accordo decorre il termine formale per la proposizione delle opposizioni e che, in seguito alla concessione del decreto di omologa, l’efficacia dell’accordo viene retrodatata al momento dell’iscrizione nel registro delle imprese. Di qui la conseguenza che il mancato raggiungimento della maggioranza non può essere sanato mediante adesioni successive alla pubblicazione dell’accordo 21, rimanendo fermo tuttavia che il debitore possa attivarsi per iniziare una nuova procedura di omologazione 22.

5. La relazione del professionista e la veridicità dei dati aziendali. Passando alla diversa questione della relazione redatta dal professionista, il Tribunale, preso atto che si trattava di un dottore commercialista iscritto nel registro dei revisori contabili 23, ha riscontrato che la relazione sull’attuabilità dell’accordo, predisposta anteriormente alla pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese, è stata opportunamente integrata prima dello svolgimento dell’udienza fissata per l’omologa. Nella specie il professionista, dopo aver analizzato la situazione contabile dell’impresa, ha illustrato i controlli eseguiti e i procedimenti attraverso i quali sono state verificate l’attendibilità e la correttezza dei dati contabili; ha, poi, certificato la sussistenza della crisi, individuandone le cause, ha valutato positivamente le misure adottate dai nuovi ammini-

Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 130 s. Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 132 e, nello stesso senso, in giurisprudenza Trib. Brescia, 22 febbraio 2006 in Il fallimento, 2006, 669; di avviso contrario Trib. Milano 23 gennaio 2007, cit., secondo cui il raggiungimento della maggioranza si può conseguire anche nelle more del giudizio di omologazione. 23 Il decreto correttivo ha, difatti, modificato l’originale formulazione dell’art. 182 bis, ove si stabiliva che la relazione venisse predisposta da un esperto, senza però definirne la professionalità. Era opinione comune che l’incarico potesse essere svolto da qualsiasi esperto nell’ambito della crisi d’impresa e ciò a differenza della disciplina in materia di piano di risanamento – per il quale la lett. d) del terzo comma dell’art. 67 l.fall. nel rinviare al quarto comma dell’art. 2501 bis c.c. ed al terzo comma dell’art. 2501 sexies c.c. fa invece esplicito riferimento a i revisori dei conti – e di concordato preventivo. Sul punto, v. per tutti, Ambrosini, sub art. 182 bis, cit., p. 2547, che considerava come la mancata previsione di requisiti di professionalità fosse non soltanto “inopportuna” ma addirittura incostituzionale per ingiustificata disparità di trattamento. Il d.lgs. 12/9/2007, n. 169 ha rimediato alla svista, disponendo che il professionista deve possedere i requisiti di cui al combinato disposto della lett. d) del terzo comma dell’art. 67 l.fall. e lett. a) e b) del primo comma dell’art. 28 l.fall. 21 22

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stratori su determinate cause dello stato di crisi e gli effetti dell’accordo di ristrutturazione sulla situazione finanziaria della società. Sul punto il Collegio ha avuto modo di rilevare che i controlli eseguiti dal professionista risultano assolutamente indispensabili per poter stilare una relazione sull’attuabilità dell’accordo e sulla sua idoneità ad assicurare la soddisfazione dei creditori estranei. Si tratta di un’interpretazione indubbiamente corretta anche se, a mente del dato normativo, il professionista non sembrerebbe tenuto ad attestare la “veridicità dei dati aziendali”. In effetti tale espressione è contenuta nel solo terzo comma dell’art. 161 l.fall. in materia di concordato preventivo e non è espressamente richiamata dall’art. 182 bis l.fall. E, pur dopo il decreto correttivo, la norma si limita a prevedere che la relazione ha lo scopo di chiarire se l’accordo risulti o meno attuabile, “con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei”. Deve tuttavia ritenersi che il riscontro della veridicità dei dati aziendali costituisca un presupposto implicito del controllo sull’attuabilità dell’accordo 24: ciò è di immediata percezione se si considera che la non veridicità delle poste numerarie e l’incompletezza di quelle stimate incidono negativamente sia sull’attuabilità dell’accordo, sia sul concreto soddisfacimento dei creditori estranei 25. In altri termini, il professionista non può evadere il proprio compito attestando semplicemente la conformità dei dati aziendali alle scritture contabili; deve invece accertare che si tratta di informazioni, elementi e dati “veri e completi” circa la situazione in cui versa l’impresa 26. La veridicità è dunque una caratteristica essenziale perché la previsione sulle sorti dell’accordo risulti realistica sia rispetto alla soddisfazione delle ragioni dei creditori estranei, sia in relazione al regolare pagamento dei debiti ristrutturati, siano essi già scaduti che a scadere. A ritenere

24 Si tratta di un orientamento condiviso da parte della dottrina: Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 144 s.; Marano, sub art. 182 bis, cit., p. 785; Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 17. Di avviso contrario Guglielmucci, Diritto fallimentare, cit., p. 337; Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 133. 25 Così Verna, I nuovi accordi di ristrutturazione, in Le nuove procedure concorsuali. Dalla riforma organica al decreto correttivo, a cura di Ambrosini, Bologna 2008, p. 580 s., il quale in riferimento alla tutela dei creditori estranei all’accordo ha altresì evidenziato come la relazione altro non è se non un “motivato giudizio professionale di alta probabilità”. 26 E quindi la sussistenza e il valore dei cespiti attivi oltre all’entità e alle caratteristiche dell’esposizione debitoria: in tal senso Ambrosini, sub art. 182 bis, cit., p. 2548 s.

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diversamente si finirebbe, per assurdo, con l’affermare che la concessione del provvedimento di omologa da parte del tribunale potrebbe fondarsi su un esame acritico delle scritture contabili, prescindendo dalla veridicità dei dati aziendali 27.

6. Il “regolare pagamento” dei creditori estranei. Una volta accertata l’effettiva situazione patrimoniale, finanziaria ed economica, il professionista deve: a) garantire (o escludere) l’attuabilità dell’accordo nei confronti dei creditori aderenti; b) certificare che il medesimo accordo assicuri (o meno) anche il “regolare pagamento” dei creditori estranei. Sul punto il Tribunale ha avuto modo di ribadire che quest’ultima espressione implica la massima tutela dei creditori non aderenti: pertanto va considerato regolare solo il pagamento “integrale ed alla scadenza”, così come risulta dal titolo costitutivo della ragione creditoria 28; e i Giudici hanno pure precisato che i debiti già scaduti debbono essere immediatamente saldati dopo la pronuncia del decreto di omologazio-

Di quest’avviso Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 145 s., la quale osserva come in base a una simile ricostruzione “il professionista assume, quindi, una precisa responsabilità sotto diversi profili anche se si è affermato che si reputa applicabile una limitazione di responsabilità in relazione alle difficoltà del singolo caso concreto, tenuto conto del contesto dinamico dei mercati in cui opera l’impresa”. 28 Ciò per lo più in considerazione del fatto che si tende a escludere un’acritica assimilazione dell’accordo di ristrutturazione al concordato preventivo, stante la diversa struttura e funzione dei due istituti; e del fatto che se è vero che l’obiettivo dell’accordo è quello di rimuovere lo stato di crisi, non si vede per quale ragione i crediti non rientranti nell’accordo non vadano saldati per intero. In tal senso Ambrosini, sub art. 18 bis, cit., p. 2547 s.; Apice-Mancinelli, Diritto fallimentare, cit., p. 381; Fabiani, La trasformazione della legge fallimentare, in Foro it., 2005, V, c. 153; Ferro, sub art. 182 bis, cit., p. 1428 ss.; Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 140 s.; Guglielmucci, Diritto fallimentare, cit., p. 339; Lo Cascio, Le nuove procedure di crisi, cit., p. 994; Nardecchia, Crisi d’impresa, cit., p. 52 ss.; Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 132. In giurisprudenza v. Trib. Milano 23 gennaio 2007, cit., secondo cui i creditori estranei debbono essere pagati per intero e alle scadenze stabilite; Trib. Roma, 16 ottobre 2006, cit.; Trib. Brescia, 22 febbraio 2006, cit., e, infine, Trib. Bari 21 novembre 2005, cit., che afferma il principio in base al quale il pagamento dei creditori estranei non può essere postergato. 27

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ne 29. Di qui l’ulteriore considerazione che se si riconosce ai creditori non aderenti il diritto di essere integralmente soddisfatti, deve altresì riconoscersi la loro legittimazione a proporre, in caso contrario, istanza di fallimento. Il Collegio non ha ritenuto di aderire a quell’orientamento per il quale l’espressione “regolare pagamento” deve essere letta come pagamento da eseguire nel rispetto delle condizioni e dei termini dell’accordo accettato dalla maggioranza dei creditori, ad eccezione dei privilegiati non aderenti, i soli che conserverebbero il diritto a incassare l’intero credito 30. La tesi accolta dal Tribunale sembra, ancora una volta, quella più corretta: non solo perché nel dato normativo manca qualsiasi riferimento alla circostanza che i creditori non aderenti siano vincolati alle condizioni e ai termini stabiliti nell’accordo, ma soprattutto perché la privatizzazione della crisi presuppone sempre e comunque il consenso dei creditori nei confronti della proposta dell’imprenditore. Con l’avvertimento che a ritenere diversamente si finirebbe con il violare l’art. 1372 c.c. per il quale il contratto non produce effetti se non rispetto alle parti che lo hanno stipulato, l’art. 24 Cost., a mente del quale tutti possono agire per la tutela dei propri diritti, e l’art. 42 Cost., sulla tutela della proprietà privata 31.

29 Il pagamento regolare dei creditori estranei può invece avvenire con mezzi normali o meno quali, ad esempio, eventuali cessioni di credito o la dismissione di cespiti aziendali: così Ambrosini, sub art. 182 bis, cit., p. 2550 e, nello stesso senso, v. anche la dottrina ivi specificamente richiamata alla nota 55. 30 Trib. Milano 15 dicembre 2005, in Dir. fall., 2006, 675, con commento adesivo di Pezzano e in Il fallimento, 2006, 670 con nota di Nardecchia. In dottrina tale impostazione è stata sostenuta da Grossi, La riforma della legge fallimentare, cit., p. 334; Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 24. Tali autori hanno osservato come il pagamento integrale del restante 40% dei creditori avrebbe compromesso l’effettiva operatività dell’istituto: quando l’impresa versa in stato di crisi la gran parte dei crediti è, infatti, già scaduta. Per altro verso è stato pure affermato che il dubbio di incostituzionalità di una simile lettura della norma, per contrarietà al diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., verrebbe efficacemente superato mediante una tempestiva e formale comunicazione da parte del debitore dell’avvenuta pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese e dalla sussistenza del termine entro il quale può essere fatta opposizione: così Verna, Sugli accordi di ristrutturazione ex art. 182 bis, cit., p. 872 31 V., per tutti, Ambrosini, sub art. 182 bis, cit., p. 2549.

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7. L’ampiezza del sindacato giurisdizionale. Dopo aver considerato che il giudice, in mancanza di opposizioni, deve attenersi alle valutazioni del professionista, purché congruamente e logicamente motivate, e preso atto che nel caso di specie dalla relazione risultavano risorse finanziarie per il pagamento dei creditori estranei, sia in riferimento ai debiti già scaduti alla data di omologazione sia rispetto a quelli a scadere, il Tribunale ha concesso l’omologa. Anche quest’ultima affermazione sembra potersi condividere. In difetto di una puntuale definizione dell’oggetto e dell’ampiezza del sindacato dell’autorità giudiziaria, la dottrina e la giurisprudenza hanno prospettato due diverse soluzioni. Più precisamente, in sede di primo commento alla riforma del 2005 e analogamente a quanto previsto in materia di concordato preventivo, era prevalsa la tesi che l’autorità giudiziaria potesse entrare nel merito del ricorso se e in quanto fossero state sollevate opposizioni. Pertanto il tribunale avrebbe dovuto solo verificare che l’adesione all’accordo avesse raggiunto la soglia del 60 % e che al ricorso fossero allegati i documenti prescritti dall’art. 161 l.fall. insieme alla relazione dell’esperto 32. Dopo il decreto del settembre 2007, tale impostazione è stata superata a favore di una diversa, e più corretta, chiave di lettura. Una volta preso atto che dal dato normativo non si evince alcuna espressione dalla quale inferire che l’ampiezza del controllo giurisdizionale risulti condizionata dalla proposizione di opposizioni, si è pervenuti alla conclusione che l’oggetto del giudizio di omologazione sia sempre lo stesso, indipendentemente dalla circostanza che uno o più soggetti decidano di opporsi all’omologazione dell’accordo 33.

32 Ambrosini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella nuova legge fall.: prime riflessioni, in Il fallimento, 2005, 949; De Crescienzo-Panzani, Il nuovo diritto fallimentare, Milano 2005, p. 74; Fauceglia, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti nella legge 80/2005, in Il fallimento, 2005, 1451; Proto, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 138. 33 Ambrosini, sub art. 182 bis, cit., p. 2555; Apice-Mancinelli, Diritto fallimentare, cit., p. 384 s.; Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 160 s.; Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 36, secondo il quale la valutazione sull’attuabilità dell’accordo non può dipendere dalla proposizione o meno dell’opposizione il cui termine decorre dalla pubblicazione nel registro delle imprese e, quindi, da un “evento la cui conoscenza non è abbastanza agevole”. In giurisprudenza v. Trib. Milano 11 gennaio 2007, in Dir. fall., 2008, 150 ss. che ritiene compito del tribunale accertare non solo i presupposti sostanziali e processuali alla cui sussistenza è comunque subordi-

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Se quanto detto sinora è esatto si può affermare che l’oggetto della decisione è costituito dal sindacato sull’attuabilità dell’accordo, specialmente in relazione ai creditori estranei. Più precisamente, nel compiere tale valutazione, l’autorità giudiziaria deve considerare se il successivo ed eventuale inadempimento può determinare un irrimediabile pregiudizio ai danni dei creditori estranei, stante l’esenzione dall’azione revocatoria. In questo stato di cose, il tribunale non deve affatto limitarsi ad una mera constatazione dei requisiti formali richiesti dalla legge, ma è tenuto a verificare l’effettivo raggiungimento della soglia 60% delle adesioni; e a valutare il merito del ricorso con particolare riferimento a quelle circostanze asseverate dal professionista, quali la concreta attuabilità dell’accordo rispetto ai creditori estranei, sia in relazione alle prospettive di realizzo sia alla sussistenza di una immediata liquidità 34. Con l’ulteriore conseguenza che anche in difetto di opposizioni, il tribunale può egualmente negare la concessione dell’omologa, laddove non condivida la relazione 35. Ciò sta a significare che l’accordo può essere omologato solo se l’autorità giudiziaria concorda con l’attestazione del professionista ovvero se gli eventuali dubbi sorti al riguardo siano stati superati in seguito a integrazioni documentali, consulenze o altri accertamenti 36. Di contro al tribunale non è consentita qualsiasi valutazione sulla convenienza dell’accordo come pure la possibilità di apportare modifiche, in palese violazione di quell’autonomia negoziale di cui l’art. 182 bis costituisce una tipica espressione 37. Laddove infine, nel corso del pro-

nata la concessione dell’omologa, ma anche valutare il merito del ricorso in riferimento all’attuabilità dell’accordo rispetto ai creditori aderenti e al pagamento regolare dei creditori estranei. Trib. Bari, 21 novembre 2005, cit. 34 Trib. Ancona, 12 novembre 2008, in www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/1494.htm. 35 Sul punto v. Roppo, Profili strutturali e funzionali dei contratti di salvataggio (o di ristrutturazione dei debiti di impresa), in Dir. fall., 2008, 381, per il quale la concessione dell’omologa implica che è stata condivisa dall’autorità giudiziaria la relazione dell’esperto e, in particolare, l’asseverazione che l’accordo consente il regolare pagamento dei creditori non aderenti. Sicché negare il provvedimento di omologa significa “sfiduciare quella relazione”. In definitiva, una valutazione del collegio discordante da quella del dal professionista altro non è se non un atto di sfiducia nei confronti dell’operato del professionista medesimo che, come noto, è stato designato dal debitore. 36 Come già visto supra sub § 2 il tribunale può assumere sommarie informazioni, disporre consulenze ecc. 37 Frascaroli Santi, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, cit., p. 161 s.; Nardecchia, Crisi d’impresa, cit., p. 79.

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cedimento sia emerso lo stato di insolvenza, al giudice rimane preclusa la dichiarazione di fallimento ma, nella sola ipotesi di rigetto del ricorso, deve procedere alla segnalazione al P.M. ex art. 7, n. 2. La conclusione che viene di trarre allora è che in seguito all’introduzione degli istituti volti alla composizione negoziale della crisi siano stati stravolti taluni consolidati equilibri pregressi. Le recenti riforme, infatti, non si sono limitate a rimodernare una o più norme dell’ordinamento fallimentare, ma hanno imposto una vera e propria rottura rispetto al sistema precedente. Al di là degli elementi di continuità che persistono tra il vecchio e il nuovo regime della legge fallimentare, è indiscutibile che il legislatore abbia individuato proprio nell’autorità giudiziaria la principale causa dell’inefficienza delle procedure concorsuali, quasi a denunciare l’incapacità del processo fallimentare, lento e formalistico, di rispondere in maniera efficace alle istanze provenienti dal mondo del commercio e degli affari, caratterizzato da un incessante dinamismo. A un tempo, nell’ottica di attuare la privatizzazione della crisi dell’impresa, sembra invece non potersi prescindere dal ruolo dell’autorità giudiziaria. In particolare, non sembra di potersi prescindere dalla funzione di garante della legalità che quest’ultima si trova a svolgere nel conflitto tra i diversi interessi in gioco, quando quelli dei più deboli rischiano di venire sopraffatti. Nell’avvincente contrapposizione tra l’esigenza di innovare, generata dal dinamismo del mondo economico, e il rispetto della tradizione e della continuità giuridica, si pone il provvedimento della Corte panormita che finisce con il dimostrare come il controllo del giudice non rappresenti soltanto un apparente elemento di continuità, quanto piuttosto lo strumento attraverso il quale oggi si può restituire rapidità ed efficienza a tutte le procedure concorsuali.

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Sintesi di giurisprudenza * (III trimestre 2008)

Indice delle materie: I. Assicurazioni: A) Intermediazione assicurativa; B) Contratto di assicurazione in genere; C) Assicurazione contro i danni; D) Assicurazione obbligatoria R.C. Auto. II Banca: A) L’impresa bancaria: profili generali; B) I titoli di credito bancari. III. Borsa e mercato mobiliare: A) Intermediazione mobiliare; B) Emittenti; C) Sanzioni.

I. ASSICURAZIONI Sommario: A) Intermediazione assicurativa. – 1. Art. 13, parte B, lett. a) Direttiva n. 77/388/CEE. Intermediario di assicurazione. Esonero dall’IVA. – 2. Surrogazione dell’assicurazione. Artt. 1916 c.c. e 19 della legge n. 990/69. – 3. Società di assicurazione facenti parte di un gruppo. Rapporto di agenzia. Cessazione del rapporto fiduciario. Recesso dai contratti. – 4. Assicurazione obbligatoria. Liquidazione coatta amministrativa dell’impresa assicuratrice. Azionabilità del titolo esecutivo formatosi nel giudizio di cognizione. – 5. Surroga dell’assicuratore. Onere della prova. – 6. Contratto di procacciatore di assicurazioni. Rapporto di lavoro

Sessantottesima puntata (le precedenti sono pubblicate in Dir. banc., 1990, I, 350 e 551; 1991, I, 160, 459 e 597; 1992, I, 111, 253, 397 e 581; 1993, I, 112, 264, 471 e 594; 1994, I, 125, 255, 383 e 506; 1995, I, 157, 286, 443 e 601; 1996, I, 109, 265, 403 e 554; 1997, I, 129, 318, 478 e 645; 1998, I, 91, 277 e 637; 1999, I, 171, 290, 411 e 545; 2000, I, 143, 331, 516 e 671; 2001, I, 89, 229 e 383; 2002, I, 145, 327 e 629; 2003, I, 141, 315 e 471; 2004, I, 321, 447 e 657; 2005, I, 109 e 301; 2006, I, 169 e 533; 2007, I, 163, 343 e 583; 2008, I, 153; 363; 549 e 745; 2009, I, 111, 333). Questa sintesi intende offrire una prima informazione sulle sentenze relative alla materia di interesse della rivista, depositate o edite nel periodo di riferimento. Hanno collaborato: Ranieri Razzante (§§ 1-24); Alessandro Benocci (§§ 25 e 26); Dario Martorano (§§ 27-29); Vincenzo Caridi (§§ 30-35). *

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autonomo. Volontà delle parti. – B) Contratto di assicurazione in genere. – 7. Contratto di assicurazione. Durata del contratto di assicurazione. Art. 1899 c.c. – 8. Contratto di assicurazione. Causa del contratto. Artt. 1917 e 1419, co. 2 c.c.. – 9. Contratto di assicurazione. Prova del contratto. Polizza di assicurazione. – 10. Contratto di assicurazione. Assicurazione presso diversi assicuratori. Art. 1910 c. c. Regresso. – 11. Contratto di assicurazione. Azione di garanzia svolta dall’assicurato. Art. 1917, co. 3, c.c. – 12. Assicurazione fideiussoria o cauzionale. Contratto a favore di terzi. Terzo beneficiario della polizza. Tutela dell’affidamento. – 13. Contratto di assicurazione della responsabilità civile. Pagamento dell’indennizzo. Surrogazione della vittima. Formulazione della domanda risarcitoria. – B.1) Assicurazioni sociali. – 14. Interpretazione delle disposizioni del fondo aziendale integrativo. Compito del giudice di merito. Sindacabilità in sede di legittimità. – 15. Rapporto di lavoro a tempo parziale. Difetto di forma scritta prevista “ad substantiam”. Regime contributivo ordinario. – 16. Esercizio di varie attività autonome. Attività libero professionali. Assicurazione obbligatoria. Principio della doppia previdenza. – 17. Assicurazioni sociali. Soci di società cooperative artigiane. Attività ulteriore di lavoro autonomo artigiano svolta in proprio dal socio. Legge n. 233/90. – 18. Contratto di assicurazione stipulato in favore del dipendente. Termine di prescrizione dei diritti del lavoratore. Avviso al lavoratore. – 19. Contratto di lavoro per l’espletamento di attività di praticantato giornalistico. Diritto al trattamento economico e previdenziale. – C) Assicurazione contro i danni. – 20. Assicurazione per danni a cose. Domanda di manleva e garanzia dell’assicuratore. – D) Assicurazione obbligatoria R.C. Auto. – 21. Responsabilità civile per i danni da circolazione stradale. Contratto di assicurazione e relativi, contrassegno e certificato. – 22. Responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione di veicoli a motore. Azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore del natante (o del veicolo). – 23. Responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione di veicoli a motore. Risarcimento dei danni. – 24. Responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione di veicoli a motore. Liquidazione del danno da riduzione della capacità di guadagno.

A) INTERMEDIAZIONE ASSICURATIVA 1. Art. 13, parte B, lett. a) Direttiva n. 77/388/CEE. Intermediario di assicurazione. Esonero dall’IVA. La Corte di giustizia delle Comunità Europee, 3 aprile 2008, n. 124 (in Obbl. e Contr., 2008, 6, 562 con nota di Rossolillo; Corriere Trib., 2008, 19, 1538 con nota di Santi) ha stabilito che l’art. 13, parte B, lett. a), della VI Direttiva n. 77/388/ CEE deve essere interpretato nel senso che la circostanza che un mediatore o un intermediario d’assicurazione intrattenga con le parti del contratto d’assicurazione o di riassicurazione alla cui conclusione contribuisce non un rapporto diretto, ma solamente un rapporto indiretto per il tramite di un altro soggetto, a sua volta in relazione diretta con una di dette parti e al quale siffatto mediatore o intermediario di assicurazione sia legato contrattualmente, non osta a che la prestazione fornita da quest’ultimo sia esonerata dall’IVA ai sensi di detta disposizione.

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2. Surrogazione dell’assicurazione. Artt. 1916 c.c. e 19 della legge n. 990/69. Il Tribunale di Monza, 15 maggio 2008 (in Massima redazionale, 2008), ha stabilito che in materia di surrogazione dell’assicurazione – a norma del combinato disposto dell’art. 19 della legge n. 990/69 e dell’art. 1916 c.c. – l’assicurazione (in qualità di impresa designata e in nome e per conto del Fondo di Garanzia delle vittime della strada) che è tenuta al ristoro dei danni arrecati dal responsabile dell’evento in forza del quale è stata legittimamente erogata l’indennità assicurativa previdenziale subentra nell’identica posizione sostanziale e processuale dei danneggiati verso il terzo autore del fatto dannoso, peraltro senza soffrire di limitazioni ovvero esclusioni con riguardo al titolo di tale responsabilità. 3. Società di assicurazione facenti parte di un gruppo. Rapporto di agenzia. Cessazione del rapporto fiduciario. Recesso dai contratti. La Suprema Corte, 4 giugno 2008, n. 14771 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008; Contratti, 2008, 11, 977 con nota di Bacciardi; Contratti, 2008, 11, 1039) ha stabilito che in materia di rapporto di agenzia, il collegamento economico-funzionale fra imprese (società di assicurazione) facenti parte dello stesso gruppo – pur non realizzando un’unitaria soggettività giuridica, né essendo sufficiente a far ritenere che gli obblighi inerenti al rapporto costituito con una società si estendano anche alle altre – determina una convergenza di interessi economici, tale per cui, ove l’agente abbia in atto una pluralità di distinti rapporti con le singole società collegate, il verificarsi di un evento interruttivo del rapporto fiduciario tra l’agente e una delle stesse è idoneo a determinare la cessazione della fiducia anche con riguardo agli altri rapporti e a legittimare, conseguentemente, il recesso dai contratti conclusi con l’agente. 4. Assicurazione obbligatoria. Liquidazione coatta amministrativa dell’impresa assicuratrice. Azionabilità del titolo esecutivo formatosi nel giudizio di cognizione. Per Cass., 20 giugno 2008, n. 16798 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) in materia di assicurazione obbligatoria dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, nel caso in cui il giudicato si é formato contro la società assicuratrice in liquidazione coatta amministrativa, l’impresa designata per i pagamenti e il Commissario Liquidatore per conto dell’INA - Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, il titolo esecutivo formatosi nel giudizio di cognizione sul risarcimento dei danni tra i predetti soggetti e il danneggiato, non può essere azionato nei confronti della CONSAP, gestione autonoma del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada. Ciò contrariamente al caso

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in cui al giudizio risarcitorio abbia partecipato un’impresa cessionaria del portafoglio di quella posta in liquidazione coatta amministrativa, in quanto, in tale ultimo caso, l’impresa cessionaria sta in giudizio quale rappresentante sostanziale e processuale del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada e, quindi, il titolo esecutivo formatosi formalmente contro tale impresa é riferibile sostanzialmente al Fondo e può essere fatto valere contro lo stesso, in nome e per conto del quale la predetta impresa é stata in giudizio. 5. Surroga dell’assicuratore. Onere della prova. Trib. Roma, 7 luglio 2008 (in Massima Redazionale, 2008) ha stabilito che riguardo alla surroga ai sensi dell’art. 1916 c.c., va chiarito che l’assicuratore ben può assolvere l’onere di provare la sua qualità e il danno risarcito con la produzione della quietanza, da cui sia inequivocabilmente desumibile l’esistenza del contratto d’assicurazione de quo e nella quale sia esattamente individuato il danno risarcito. Quando l’assicuratore agisce nei confronti del terzo responsabile, questi, mentre non può far valere ragioni di annullabilità, rescissione o risoluzione del contratto, deducibili soltanto dall’altro contraente, è legittimato a contrastare, in via d’eccezione, i presupposti della surrogazione medesima (potendo, quindi, opporre la nullità del contratto stesso – inclusa quella per inesistenza del rischio o per carenza di interesse – oppure l’avvenuto pagamento dell’indennizzo a persona diversa dal titolare del relativo diritto) e, in tal caso, è necessario che l’assicuratore esibisca la polizza ovvero provi in altra forma documentale il contenuto del contratto, non essendo, invece, sufficiente il solo richiamo al numero di polizza contenuto nella quietanza rilasciata dal terzo danneggiato. 6. Contratto di procacciatore di assicurazioni. Rapporto di lavoro autonomo. Volontà delle parti. Trib. Milano, 11 luglio 2008 (Massima Redazionale, 2008) ha ritenuto che per la corretta individuazione della posizione giuridica del procacciatore di affari – la cui attività può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro autonomo che di un rapporto di lavoro subordinato – non giova affidarsi a parametri assoluti, ma è imprescindibile procedere, caso per caso, all’unitaria e complessiva disamina delle modalità peculiari del rapporto. B) CONTRATTO DI ASSICURAZIONE IN GENERE 7. Contratto di assicurazione. Durata del contratto di assicurazione. Art. 1899 c.c. Trib. Genova, 7 aprile 2008 (in Massima redazionale,

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2008) ha ritenuto che l’art. 1899 c.c., il quale prevede una durata massima decennale del contratto di assicurazione, è assolutamente compatibile con la particolare natura del contratto che è infatti il tipico negozio aleatorio, non potendo le parti prevedere, al momento della conclusione, se il sinistro si produrrà (in tal modo arricchendo l’assicurato che avrà corrisposto premi il cui ammontare è inferiore al valore assicurato) o, invece, non si produrrà (in tal modo arricchendo l’assicuratore che avrà lucrato ‘intero ammontare dei premi corrisposti); pertanto, proprio perché il rischio è al centro dell’intera vicenda assicurativa, è ragionevole la pattuizione della durata di un contratto di assicurazione decennale, tutto sommato vantaggiosa per l’assicurato, per il quale, solitamente, è verosimile il prodursi del sinistro, trovandosi quindi garantito dalla compagnia per la durata di dieci anni, a prescindere dai sinistri che questa dovrà assicurare. 8. Contratto di assicurazione. Causa del contratto. Artt. 1917 e 1419, comma 2 c.c. Trib. Genova, 8 aprile 2008 (in Danno e Resp., 2009, 1, 103 con nota di Carassale) ha stabilito che l’art. 1917 c.c. è norma inderogabile rappresentando l’essenza stessa del contratto di assicurazione e cioè il trasferimento del rischio derivante dall’esercizio di una attività professionale esercitata. Da ciò consegue che nel contratto di assicurazione R.C. la clausola contrattuale c.d. “claims made”, che sottopone l’operatività della garanzia al momento in cui perviene la richiesta risarcitoria del danneggiato, dà origine a un contratto atipico nullo sia perché contrario all’imperativa norma primaria di cui all’art. 1917 c.c., sia perché rende il contratto privo di causa e cioè privo del trasferimento del rischio dall’assicurato all’assicuratore. È, tuttavia, ben possibile sostituire alla medesima la disciplina legale secondo il disposto dell’art. 1419, co. 2, c.c. 9. Contratto di assicurazione. Prova del contratto. Polizza di assicurazione. App. Roma, 10 aprile 2008 (in Massima redazionale, 2008) ha affermato che in materia di contratto di assicurazione, la polizza costituisce il documento probatorio tipico del contratto medesimo e il suo rilascio, che forma oggetto di uno specifico obbligo dell’assicuratore, presuppone logicamente e giuridicamente l’efficacia del contratto. 10. Contratto di assicurazione. Assicurazione presso diversi assicuratori. Art. 1910 c.c. Regresso. Per Cass., 19 maggio 2005, n. 12691 (in CED Cassazione 2008; Danno e Resp., 2008, 7, 812) il regresso tra assicuratori che con indipendenti contratti abbiano coperto il medesimo rischio, previsto dall’art. 1910, co. 3, c.c., costituisce un diritto autonomo, scatu-

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rente dal pagamento dell’indennizzo. È da tale momento, pertanto, che decorre la prescrizione del diritto in questione, e non dall’avverarsi del rischio dedotto in contratto. 11. Contratto di assicurazione. Azione di garanzia svolta dall’assicurato. Art. 1917, co. 3, c.c. Trib. Chieti, 14 luglio 2008 (in Massima redazionale, 2008) ha ritenuto che in tema di rapporti derivanti dal contratto di assicurazione, l’azione di garanzia svolta dall’assicurato nei confronti della propria Compagnia Assicurativa per il rimborso delle somme dovute al danneggiato, a titolo di risarcimento e di rimborso delle spese processuali, ha un oggetto diverso da quella prevista dall’art. 1917, co. 3, c.c., diretta a ottenere il rimborso delle spese sostenute dallo stesso assicurato per resistere all’azione del danneggiato. 12. Assicurazione fideiussoria o cauzionale. Contratto a favore di terzi. Terzo beneficiario della polizza. Tutela dell’affidamento. Per Cass., 16 settembre 2008, n. 23708 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008; Contratti, 2009, 1, 64; Contratti, 2009, 6, 584 con nota di Scarpa) in materia di assicurazione fideiussoria o cauzionale – che rientra nello schema del contratto a favore di terzi – stipulata dall’appaltatore su richiesta del committente e in suo favore, la tutela derivante dai principi in tema di rappresentanza apparente va estesa al terzo beneficiario della polizza, che non solo subentra nella stessa posizione giuridica dello stipulante, quanto alla validità e all’efficacia della prestazione promessa in suo favore, ma é anche l’unico soggetto economicamente interessato alla stipulazione del contratto, potendo lo stipulante appaltatore anche non avere interesse all’effettiva validità ed efficacia dell’assicurazione, essendone sufficiente la mera apparenza, agli effetti che egli persegue, che sono quelli di condizionare in suo favore il comportamento del committente. In tali casi, alla forma giuridica bilaterale della stipulazione, in relazione alla quale il committente é terzo, corrisponde un’operazione economica sostanzialmente trilaterale, in cui l’unica parte effettivamente interessata alla validità del contratto é il beneficiario della polizza, che a essa condiziona l’erogazione delle sue prestazioni. Pertanto, negare a tale beneficiario la tutela dell’affidamento sulla situazione apparente equivarrebbe ad adottare una soluzione antitetica a quella richiesta dai reali interessi di cui si controverte. 13. Contratto di assicurazione della responsabilità civile. Pagamento dell’indennizzo. Surrogazione della vittima. Formulazione della domanda risarcitoria. Per Cass., 30 settembre 2008, n. 24331 (in Mass. Giur. it.,

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2008; CED Cassazione, 2008), la vittima di un fatto illecito, ove intenda surrogarsi al responsabile nel domandare all’assicuratore di quest’ultimo il pagamento dell’indennizzo dovuto in forza di un contratto di assicurazione della responsabilità civile, ha l’onere di formulare la relativa domanda in modo chiaro e inequivoco, dichiarando formalmente sia la propria intenzione di surrogarsi al debitore inerte, sia che l’esercizio del diritto nel quale intende surrogarsi non è riservato al suo titolare. B.1) Assicurazioni Sociali 14. Interpretazione delle disposizioni del fondo aziendale integrativo. Compito del giudice di merito. Sindacabilità in sede di legittimità. La Suprema Corte, 4 aprile 2008, n. 8808 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) ha stabilito che l’interpretazione delle disposizioni del regolamento di un fondo aziendale integrativo del trattamento pensionistico obbligatorio a carico del sistema pubblico di previdenza, non avendo il regolamento valore di legge o di normazione secondaria, costituisce accertamento di fatto – al pari dell’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune – e, quindi, è riservata al giudice di merito e può essere sindacata in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale oppure per vizio di motivazione. In tal caso, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente il punto e il modo in cui l’interpretazione si discosti dai canoni di ermeneutica o la motivazione relativa risulti obiettivamente carente o logicamente contraddittoria, non potendo invece limitarsi a contrapporre interpretazioni o argomentazioni alternative rispetto a quelle proposte dal giudice di merito. 15. Rapporto di lavoro a tempo parziale. Difetto di forma scritta prevista “ad substantiam”. Regime contributivo ordinario. Per Cass. 5 maggio 2008, n. 11011 (in Mass. Giur. It., 2008; CED Cassazione, 2008; Lavoro nella Giur., 2008, 9, 956; Dir. e Pratica Lav., 2008, 46, 2658) in materia di rapporto di lavoro a tempo parziale, il difetto di forma scritta prevista “ad substantiam” per la conclusione del contratto preclude a esso, per il periodo in cui il rapporto di lavoro ha avuto esecuzione, di produrre gli effetti propri del lavoro a tempo parziale. Ne consegue che va esclusa l’applicazione del particolare trattamento previdenziale previsto, con disposizioni di favore per il rapporto a tempo parziale, all’art. 5, co. 11, del d.l. n. 726/84, convertito con modificazioni nella legge n. 863/84, e deve invece applicarsi il regime contributivo ordinario, prevedente anche i minimali giornalieri di retribuzione imponibile.

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16. Esercizio di varie attività autonome. Attività libero professionali. Assicurazione obbligatoria. Principio della doppia previdenza. Per Cass., 14 maggio 2008, n. 12103, (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) la regola dettata dall’art. 1, co. 208, primo periodo, della legge n. 662/96 – secondo la quale i soggetti che esercitano contemporaneamente, in una o più imprese, varie attività autonome assoggettabili a diverse forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, sono iscritti nell’assicurazione prevista per l’attività alla quale gli stessi dedicano personalmente la loro opera professionale in misura prevalente – non si applica alle attività autonome non esercitate in impresa (quali le attività libero professionali) ovvero esercitate in imprese non riconducibili ad alcuna delle categorie che possano dar luogo anche all’obbligo di iscrizione alla gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli esercenti attività commerciali (quali imprese industriali o artigianali o società per azioni). La deroga, affidata alla discrezionalità del legislatore ordinario, al principio della doppia previdenza, opera, entro gli stessi limiti, nell’ipotesi di esercizio contemporaneo di doppia attività (ciascuna delle quali presupposto di previdenze diverse) e anche ove il principio della doppia previdenza sia previsto esplicitamente (come per l’iscrizione alla gestione separata di cui all’art. 2, co. 26, legge n. 335/95). 17. Assicurazioni sociali. Soci di società cooperative artigiane. Attività ulteriore di lavoro autonomo artigiano svolta in proprio dal socio. Legge n. 233/90. Per Cass., 27 maggio 2008, n. 13818 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) i compensi erogati ai soci delle cooperative di lavoro devono essere assoggettati, in forza dell’art. 2 del r.d.l. n. 1422/24, alla contribuzione dell’assicurazione generale obbligatoria per i lavoratori dipendenti, anche se detti soci sono iscritti all’albo delle imprese artigiane, fermo restando che se costoro svolgano in proprio, anche e in aggiunta, prestazioni di lavoro autonomo come imprenditori artigiani, ricavando un reddito di impresa, tale reddito deve essere assoggettato a contribuzione presso la relativa gestione dei lavoratori autonomi, ai sensi della legge n. 233/90. 18. Contratto di assicurazione stipulato in favore del dipendente. Termine di prescrizione dei diritti del lavoratore. Avviso al lavoratore. Per Cass., 11 giugno 2008, n. 15497 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008), qualora per norma collettiva il datore di lavoro abbia l’obbligo di stipulare un contratto di assicurazione a favore del suo dipendente, il

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termine annuale, inderogabile, di prescrizione dei diritti del lavoratore derivanti dal contratto di assicurazione decorre dalla stipulazione dello stesso, senza che il decorso possa essere escluso né dal mancato avviso al lavoratore – essendo l’obbligo del datore adempiuto con la sola stipulazione e non ricorrendo, in difetto di specifica previsione, l’obbligo accessorio di comunicare al lavoratore la conclusione del contratto –, né dalla mancata costituzione del collegio arbitrale previsto dal contratto collettivo applicabile – non sussistendo, in difetto di convergente volontà delle parti contrattuali, un diritto del lavoratore alla costituzione di questo organismo, né un onere datoriale di nominare il relativo componente. 19. Contratto di lavoro per l’espletamento di attività di praticantato giornalistico. Diritto al trattamento economico e previdenziale. Per Cass., 17 giugno 2008, n. 16383 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) in materia di rapporto di lavoro giornalistico, la mancanza dell’iscrizione nell’Albo dei praticanti giornalisti comporta la nullità del contratto di lavoro per violazione di legge, che non è sanabile con la successiva retrodatazione dell’iscrizione stessa, ma non esclude – non derivando detta nullità da illiceità dell’oggetto o della causa – che l’attività svolta, ai sensi dell’art. 2126 c.c., conservi giuridica rilevanza ed efficacia. Da ciò deriva che, per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, il lavoratore ha diritto al trattamento economico e previdenziale, ma da ciò non sorge anche lo specifico obbligo dell’assicurazione presso l’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (I.N.P.G.I.), il cui fondamento è originato dall’iscrizione all’Albo e non solo dalla natura dell’attività svolta. C) ASSICURAZIONE CONTRO I DANNI 20. Assicurazione per danni a cose. Domanda di manleva e garanzia dell’assicuratore. Trib. Genova, 7 aprile 2008 (in Massima redazionale, 2008) ha ritenuto che in materia di assicurazione per danni a cose, con riferimento alla domanda di manleva e di garanzia dell’assicurato nei confronti della propria assicurazione, la circostanza che il danno lamentato dalla parte danneggiata derivi da fatti molto anteriori all’inizio dell’efficacia del contratto di assicurazione non esclude, di per sé sola, la copertura assicurativa del sinistro, nei casi in cui lo stesso rientra comunque nell’oggetto dell’assicurazione come individuato dalla polizza assicurativa.

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D) ASSICURAZIONE OBBLIGATORIA RC AUTO 21. Responsabilità civile per i danni da circolazione stradale. Contratto di assicurazione e relativi, contrassegno e certificato. Trib. Bari, 30 aprile 2008 (in Massima redazionale, 2008) ha stabilito che il contratto di assicurazione per responsabilità civile per i danni da circolazione stradale e il relativo contrassegno sono atti di natura strettamente privatistica, la cui falsificazione deve inquadrarsi nella fattispecie di cui all’art. 485 c.p. L’attestazione, da parte dell’assicuratore, di dati non veritieri nel certificato di assicurazione integra, dunque, il delitto di falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, previsto dall’art. 481 c.p., mentre la contraffazione e l’alterazione dello stesso documento configura il reato di falsità in scrittura privata, previsto dall’art. 485 dello stesso codice. 22. Responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione di veicoli a motore. Azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore del natante (o del veicolo). La Suprema Corte, 22 maggio 2008, n. 13239 (Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) ha stabilito che deve considerarsi evento relativo alla circolazione l’incendio propagatosi da un natante (o da un veicolo) in sosta, con conseguente azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore del natante (o veicolo), a meno che esso non sia stato appiccato dall’azione dolosa dei terzi, da sola sufficiente a escludere il nesso di causalità tra la circolazione e l’incendio stesso. 23. Responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione di veicoli a motore. Risarcimento dei danni. Per Cass., 30 maggio 2008, n. 14480 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008), in tema di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore, il danneggiato può conseguire rivalutazione monetaria e interessi sull’importo dovuto a titolo di risarcimento dei danni, anche oltre il massimale di polizza, in ogni caso in cui – proponendo azione diretta contro l’assicuratore abbia formulato specifica domanda volta al riconoscimento delle suddette voci. A tale proposito non è, peraltro, necessario che il danneggiato chieda espressamente che dette voci siano corrisposte oltre il massimale, non potendosi ritenere, sulla base di tale omessa specifica richiesta, che l’interessato abbia voluto rinunciare all’integrale risarcimento dei danni, ivi inclusi quelli conseguenti alla mora dell’assicuratore.

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24. Responsabilità civile obbligatoria derivante dalla circolazione di veicoli a motore. Liquidazione del danno da riduzione della capacità di guadagno. Per Cass., 30 settembre 2008, n. 24331 (in Mass. Giur. it., 2008; CED Cassazione, 2008) la liquidazione del danno da riduzione della capacità di guadagno, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un minore in età scolare, può avvenire attraverso il ricorso alla prova presuntiva, allorché possa ritenersi ragionevolmente probabile che in futuro la vittima percepirà un reddito inferiore a quello che avrebbe altrimenti conseguito in assenza dell’infortunio. La relativa prognosi deve avvenire, in primo luogo, in base agli studi compiuti e alle inclinazioni manifestate dalla vittima e, in secondo luogo, sulla scorta delle condizioni economico – sociali della famiglia. In assenza di riscontri concreti dai quali desumere gli elementi suddetti, (e, perciò, del possibile ricorso alla prova presuntiva), la liquidazione potrà avvenire attraverso il ricorso al triplo della pensione sociale. La scelta tra l’uno o l’altro tipo di liquidazione costituisce un giudizio tipicamente di merito ed è, pertanto, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata.

II. BANCA Sommario: A) L’impresa bancaria: profili generali. – 25. Vigilanza. – 25.1. Qualità del cedente e regime di pubblicità nella cessione di rapporti giuridici a banche. – 26. Responsabilità della banca. – 26.1. Responsabilità aquiliana della banca per fornitura di informazioni inesatte. – B) I titoli di credito bancari. – 27. Ammortamento di assegno bancario; termine per l’opposizione; applicazione della norma speciale ex art. 69 del r.d. n. 1736 del 1933. – 28. Assegno bancario; accreditamento “salvo incasso”; mancato pagamento da parte del terzo; obbligo della banca girataria per l’incasso di far levare il protesto; obbligo della banca di restituzione del titolo al correntista girante per l’incasso. – 29. Cancellazione del nominativo dal registro informatico dei protesti per firma poco leggibile e diversa da quella del titolare del conto; azionabilità ex art. 700 c.p.c.: sussistenza.

A) L’impresa bancaria: profili generali 25. Vigilanza. 25.1. Qualità del cedente e regime di pubblicità nella cessione di rapporti giuridici a banche. Nell’ipotesi in cui una cessione di rapporti giuridici sia effettuata in favore di banche, l’art. 58 t.u.b. prevede un regime speciale di pubblicità, parzialmente derogatorio tanto rispetto all’art. 1264 c.c., quanto rispetto alla normativa in materia di trasmis-

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sibilità delle garanzie. In particolare, l’art. 58 prevede che, in caso di cessione di rapporti giuridici a banche, la banca cessionaria ha l’onere di iscrivere la cessione nel registro delle imprese e di pubblicarla nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Eseguiti gli adempimenti pubblicitari previsti dalla norma, la cessione dei rapporti giuridici ha effetto nei confronti del debitore ceduto senza la necessità che questi l’accetti e senza la necessità che a questi venga notificato alcunché. Non solo. Eseguiti gli adempimenti pubblicitari previsti dalla norma, le garanzie eventualmente accessorie ai rapporti giuridici oggetto della cessione si trasmettono validamente, e con lo stesso grado, dal cedente al cessionario senza la necessità che la banca provveda a ulteriori formalità previste dal diritto comune. Nel periodo in rassegna, Cass., 25 luglio 2008, n. 20473 (in Rep. Foro it., 2008, voce Banca, credito e risparmio, n. 109 e in Mass., 2008, 1324) si occupa delle connotazioni qualitative che deve eventualmente possedere il cedente affinché alla cessione di rapporti giuridici in favore di una banca possa essere applicato il regime speciale di pubblicità sopra descritto. La pronuncia del giudice di legittimità riguarda un credito inizialmente vantato da una banca verso una società e assistito da un’ipoteca concessa dalla stessa società sui propri immobili. La banca viene posta in liquidazione coatta amministrativa e cede il credito a una seconda società in aderenza a quanto previsto dall’art. 90 t.u.b.. La società cessionaria è un soggetto non bancario e cede a sua volta il credito a una banca e la banca provvede all’iscrizione della cessione nel registro delle imprese e alla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Nel frattempo, la società debitrice fallisce e, in sede di esecutorietà del riparto finale, il giudice delegato al fallimento emette decreto a mezzo del quale dispone il pagamento di una somma di denaro a carico della società debitrice fallita e in favore della banca cessionaria del credito. Un’associazione professionale creditrice della società fallita deposita reclamo avverso il decreto eccependo la violazione del principio della par condicio creditorum. Il Tribunale di Treviso lo rigetta con ulteriore decreto e, contro quest’ultimo, l’associazione professionale propone ricorso per cassazione, a mezzo del quale eccepisce che il pagamento disposto dal giudice delegato al fallimento presuppone che la banca vanti nei confronti della società fallita lo stesso credito ipotecario che, nei confronti della società fallita, vantava la prima banca poi posta in liquidazione coatta amministrativa. Secondo il ricorrente, il presupposto sarebbe erroneo perché, a fronte della circolazione del credito, non sarebbe possibile ravvedere una contemporanea e parallela circolazione della garanzia ipotecaria, in quanto la banca non avrebbe prov-

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veduto, come richiesto dall’art. 2843 c.c., all’annotazione della cessione del credito in margine all’iscrizione dell’ipoteca, con conseguente impedimento alla trasmissibilità dell’ipoteca stessa. Il ricorrente insiste infatti che l’esonero da tale onere riguarderebbe soltanto le cessioni di crediti di natura interbancaria, nelle quali tanto il cedente quanto il cessionario rivestano la qualifica di banca. La Suprema Corte replica che la cessione dei crediti di cui si discute è effettivamente avvenuta tra un cedente non bancario e un cessionario bancario. Tuttavia, il giudice di legittimità osserva che, se è vero che l’art. 58 subordina l’applicazione del regime pubblicitario di favore alla riscontrabilità nel cessionario della qualifica bancaria, non è invece vero che la norma richieda la medesima qualifica anche per il cedente. Nel fare genericamente riferimento al «cedente», infatti, l’art. 58 esclude che questa parte della vicenda contrattuale debba presentare peculiari connotazioni qualitative. Così argomentando, la Corte conclude disponendo che l’ipoteca si è regolarmente trasmessa dalla banca in l.c.a. al soggetto non bancario e poi da quest’ultimo alla banca in bonis e che il presupposto su cui si fondava il decreto di pagamento emesso dal giudice delegato era conseguentemente corretto. 26. Responsabilità della banca. 26.1. Responsabilità aquiliana della banca per fornitura di informazioni inesatte. Cass., 25 settembre 2008, n. 24084 (in Diritto & Giustizia 2008 e in Riv. dottori comm., 2008, 6, 1236) presuppone e ribadisce il principio giurisprudenziale secondo il quale una banca, laddove eserciti la facoltà di fornire un’informazione al cliente, assume l’obbligo di fornire l’informazione esattamente, dovendo altrimenti rispondere ex art. 2043 c.c. dei danni ingiustamente cagionati al cliente medesimo (cfr. Cass. n. 9167/1992 e Cass. n. 5659/1998). La vicenda sottostante riporta il caso di un imprenditore individuale che, a fronte della conclusione con un cliente di un contratto di compravendita di capi di abbigliamento, provvede alla consegna dei capi al cliente, ricevendo in pagamento un certo quantitativo di assegni bancari. L’imprenditore si reca allora presso la succursale di una banca diversa da quella emittente con l’intenzione di accendere un conto corrente per versarvi gli assegni e, preliminarmente, chiede informazioni al direttore della succursale in ordine alla validità dei titoli. In presenza dell’imprenditore, il direttore della succursale telefona a un omologo della banca emittente che lo rassicura in ordine alla validità degli assegni. Tuttavia, la banca emittente non provvede al pagamento degli assegni, in quanto risulteranno

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compilati su moduli oggetto di rapina e di successivo sequestro penale e, in mancanza del pagamento atteso, l’imprenditore individuale incorre in un consistente scoperto di conto corrente con la propria banca. La banca presenta allora ricorso per decreto ingiuntivo al Tribunale di Firenze per ottenere il recupero coattivo del proprio credito. Il Tribunale di Firenze emette il decreto ingiuntivo e l’imprenditore cita la banca in opposizione e presenta contemporanea domanda riconvenzionale di risarcimento del danno subìto in conseguenza delle informazioni inesattamente fornitegli sulla validità degli assegni. L’imprenditore vede respinta la propria tesi tanto dal Tribunale di Firenze, tanto dalla Corte di Appello di Firenze, tanto dalla Suprema Corte di Cassazione. In tutti e tre i gradi di giudizio, l’imprenditore invoca l’applicazione del descritto principio della responsabilità aquiliana della banca per fornitura di informazioni inesatte. Tuttavia, pur confermando la piena efficacia di quel principio, sia i giudici di merito sia il giudice di legittimità concordano che, come da regola generale di cui all’art. 2043 c.c., ai fini della configurabilità di un fatto umano come illecito extracontrattuale, è necessario che siano tutti e congiuntamente ricorrenti i presupposti per un addebito a titolo di responsabilità aquiliana e, ai sensi dell’art. 2697 c.c., è al danneggiato che spetta l’onere di provare la ricorrenza di tutti i presupposti. Tali presupposti non sono solo oggettivi (fatto, danno, nesso di causalità tra fatto e danno, ingiustizia del danno), ma sono anche soggettivi: oltre all’imputabilità del fatto al soggetto agente, è infatti necessario che il danneggiato dimostri anche la ricorrenza della colpevolezza del soggetto cui è imputabile il fatto. È necessario cioè che il danneggiato dimostri che il soggetto cui è imputabile il fatto che ha cagionato il danno ingiusto abbia agito con dolo o con colpa, non potendo ritenersi ricorrente un’ipotesi eccezionale di responsabilità oggettiva. Sulla base delle risultanze processuali non revisionabili dal giudice di legittimità, i giudici di merito hanno affermato che la colpevolezza della banca non risulta essere ricorrente. Infatti, non solo non può ravvisarsi nella banca e nel direttore della sua succursale un’ipotesi dolosa di consapevolezza e volontà di porre in essere l’evento dannoso, ma non può nemmeno ravvisarsi l’ipotesi colposa dell’involontarietà dell’evento dannoso accompagnata da inosservanza dei doveri precauzionali di natura giuridica (leggi, regolamenti, usi) o sociale (diligenza, prudenza, perizia). Non consta un’inosservanza di doveri giuridici, in quanto, al tempo dei fatti, non era ancora stato istituito il c.d. Archivio degli assegni bancari e postali e delle carte di pagamento irregolari, che è stato introdotto con la l. n. 507/1999, con la conseguenza che la sua mancata consultazione da parte della banca non può essere a essa addebitata. Non consta nemmeno un’inosservan-

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za di doveri sociali, in quanto il comportamento tenuto dal direttore della succursale è stato valutato come oggettivamente improntato alla diligenza, alla prudenza e alla perizia richiesta dalla legge a una banca. Se ne conclude che, in mancanza del presupposto della colpevolezza e della sua dimostrazione da parte del danneggiato, la banca non può ritenersi responsabile del danno da quest’ultimo patito a causa delle informazioni inesattamente ricevute. B) I TITOLI DI CREDITO BANCARI 27. Ammortamento di assegno bancario; termine per l’opposizione; applicazione della norma speciale ex art. 69 del r.d. n. 1736 del 1933. Con sentenza del 25 luglio 2008, n. 20469 (in Mass. Giur. it., 2008) la Cassazione ha chiarito che l’opposizione al decreto di ammortamento di un assegno bancario (che nel caso sottoposto al vaglio della corte era stato emesso dal pretore, competente “ratione temporis”) va proposta nel termine di quindici giorni dalla pubblicazione del provvedimento in Gazzetta Ufficiale ai sensi dell’art. 69 del r.d. n. 1736 del 1933 e non nei trenta giorni indicati dall’art. 2016 c.c. Secondo la Corte la disposizione codicistica va riferita alla generalità dei titoli di credito e, in quanto “lex posterior generalis”, non è in grado di derogare alla norma anteriore speciale, in difetto di espressa indicazione normativa. 28. Assegno bancario; accreditamento “salvo incasso”; mancato pagamento da parte del terzo; obbligo della banca girataria per l’incasso di far levare il protesto; obbligo della banca di restituzione del titolo al correntista girante per l’incasso. Cass., 16 luglio 2008, n. 19587 (in Obbl. e contr., 2009, 5, 423, con nota di Marianello) ha chiarito che alle operazioni in conto corrente si applica il principio contenuto nell’art. 1829 c.c. (richiamato dall’art. 1857 c.c.) secondo cui l’accreditamento sul conto corrente del cliente dell’importo di un assegno trasferito dall’istituto bancario per l’incasso deve ritenersi sempre effettuato “salvo incasso”: sicché se il credito non viene soddisfatto dal terzo obbligato, la banca può eliminare la partita dal conto, reintegrando il correntista nelle sue ragioni attraverso la restituzione del titolo. In considerazione di ciò la banca girataria per l’incasso di un assegno bancario è tenuta, dunque, non soltanto a far levare il protesto al fine di conservare integre le ragioni del proprio girante nei confronti degli obbligati di regresso, ma ha anche l’obbligo, discendente dal disposto del richiamato art. 1829 c.c., di restituire il titolo al correntista girante per l’incasso.

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Rassegne

29. Cancellazione del nominativo dal registro informatico dei protesti per firma poco leggibile e diversa da quella del titolare del conto; azionabilità ex art. 700 c.p.c.: sussistenza. Secondo Trib. Trani (ord), 1 luglio 2008 (in Giur. it., 2009, 3, 684, con nota di Amendolagine) va accolta l’istanza ex art. 700 c.p.c. volta a conseguire la cancellazione del nominativo del ricorrente dal registro informatico dei protesti tenuto presso Camera di commercio quando la firma di traenza dell’assegno bancario non risulti essere chiaramente e apparentemente leggibile e diversa da quella del titolare del conto corrente.

III. Borsa e mercato mobiliare Sommario: A) Intermediazione mobiliare. – 30. Servizi e attività di investimento. – 30.1. Svolgimento dei servizi e delle attività di investimento. – 30.1.1. Natura dei “criteri generali” di comportamento e conseguenze della loro violazione. – 30.1.2. Forma dei contratti. – 30.1.3. Operatore qualificato. – B) Emittenti. – 31. Appello al pubblico risparmio. – 31.1. Offerta al pubblico di sottoscrizione e di vendita. – 31.2. Offerte pubbliche di acquisto e scambio. – 31.2.1. OPA obbligatoria. Natura. Responsabilità per mancata promozione dell’offerta. – C) Sanzioni – 32. Manipolazioni di mercato. – 33. Procedura sanzionatoria. Legittimazione all’opposizione. – 34. Procedura sanzionatoria. Fase istruttoria. Contraddittorio. – 35. Procedura sanzionatoria. Termini.

A) INTERMEDIAZIONE MOBILIARE 30. Servizi e attività di investimento 30.1. Svolgimento dei servizi e delle attività 30.1.1. Natura dei “criteri generali” di comportamento e conseguenze della loro violazione. Trib. Rimini, 6 luglio 2007 (in Danno e resp., 2008, 80 ss., con nota di Ponzanelli) ha qualificato inadempimento grave ai sensi dell’art. 1455 c.c. la violazione, da parte di una banca, dei doveri di informazione e di diligenza cui gli intermediari finanziari devono conformarsi nella prestazione dei servizi e delle attività di investimento ai sensi del t.u.f. e del Regolamento Consob. Su questa base il tribunale pugliese ha condannato la banca a rifondere al cliente le somme versate previa restituzione, da parte del cliente, dei titoli e delle somme di danaro eventualmente percepite. 30.1.2. Forma dei contratti. a) Trib. Milano, 11 dicembre 2007 (in Giur. it., 2008, 923), negando che i singoli ordini di borsa possano configurarsi come mere istruzioni impartite dagli investitori-mandanti

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Sintesi di giurisprudenza

in esecuzione di un mandato conferito a monte nel contratto di negoziazione e di ricezione e trasmissione ordini (nello stesso senso, v. pure Trib. Milano 11 aprile 2008, di cui si è dato conto in Dir. banc., I, 2009, 351, e Trib. Novara, 18 gennaio 2007, di cui si è dato conto in Dir. banc., 2009, I, 145), ha affermato che l’obbligo di forma scritta, previsto a pena di nullità dall’art. 23 del t.u.f. per tutti i contratti che attengono alla prestazione di servizi di investimento, deve ritenersi applicabile anche ai singoli ordini di acquisto attraverso i quali la prestazione di quei servizi si realizza. 30.1.3. Operatore qualificato. a) Trib. Milano, 7 aprile 2008 (in Corr. giur., 2008, 1749 ss., con nota di Sesta) ha escluso che l’intermediario finanziario, che intrattenga rapporti con società o persone giuridiche le quali, ai sensi del previgente art. 31 Reg. Consob Intermediari, si siano dichiarate “operatori qualificati” per il tramite dei propri legali rappresentanti, abbia l’obbligo di verificare in concreto l’effettiva sussistenza della specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni e strumenti finanziari dichiarata dall’ente. Il medesimo principio di diritto è alla base di Trib. Vicenza, 17 agosto 2007 (in Corr. Giur., 2008, 41 ss., con nota di Sangiovanni), che ha considerato “operatore qualificato” una s.n.c. che, tramite il suo rappresentante legale, aveva sottoscritto più volte contratti derivati autocertificando tale sua qualità. In senso conforme, v. pure Trib. Venezia, 8 novembre 2007, in Giur. it., 2008, 2235, con nota di Fiorio) b) App. Venezia, 16 luglio 2008 (in Corr. merito, 2008, 1261 ss., con nota di Bruno) ha negato la correttezza dell’operato di un intermediario finanziario che aveva considerato una società propria cliente “operatore qualificato” esclusivamente sulla base della dichiarazione resa dal legale rappresentante di quest’ultima. Secondo la Corte veneta tale qualificazione può conseguire soltanto alla verifica in concreto del possesso da parte della clientela dei requisiti richiesti dall’art. 31 Reg. Consob Intermediari, vigente all’epoca dei fatti di causa. In senso analogo, Trib. Vicenza, 12 febbraio 2008 (in Giur. it., 2008, 2235, con nota di Fiorio), ove la specificazione che l’onere dell’intermediario di provare la sussistenza dei requisiti per classificare un ente meta-individuale come operatore qualificato scatta anche in presenza di una dichiarazione in tal senso del legale rappresentante di tale ente, sempre che dalla medesima dichiarazione non emergano circostanziati elementi dai quali sia possibile dedurre che l’investitore è effettivamente in grado di comprendere natura e rischi della specifica operazione.

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Rassegne

c) Trib. Verona, 28 novembre 2007 (in Giur. it., 2008, 2235, con nota di Fiorio) ha affermato la natura negoziale della dichiarazione del legale rappresentante di una società con la quale venga dichiarato il possesso da parte di quest’ultima di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari, facendo da ciò discendere che essa, quando proviene da un cliente in effetti inesperto, è priva di valore giuridico se l’intermediario abbia omesso di informare quest’ultimo delle caratteristiche e dei rischi dello specifico prodotto oggetto del servizio di investimento prestato. B) Emittenti. 31. Appello al pubblico risparmio 31. 1. Offerta al pubblico di sottoscrizione e di vendita. Trib. Milano, 3 giugno 2008 (in Resp. civ., 2008, 2088, con nota di Bertolini; in Dir. prat. soc., 2008. fasc. 24, 80, con nota di Gaeta) ha negato che possa riconoscersi una ipotesi di sollecitazione occulta all’investimento, in violazione dell’art. 94 t.u.f., in difetto di prova circa il fatto che l’offerta di fatto sia stata rivolta, secondo modalità uniformi e standardizzate, a un numero indeterminato e indistinto di investitori non istituzionali. 31.2. Offerte pubbliche di acquisto e scambio 31.2.1. OPA obbligatoria. Natura. Responsabilità per mancata promozione dell’offerta. a) Trib. Milano 29 maggio 2008 (in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 635 ss., con nota di Tucci), confermandosi all’orientamento accolto in Trib. Milano, 17 maggio 2007, di cui si è dato conto in Dir. Banc., 2009, I, 354, ha riconosciuto la ratio della disciplina dell’OPA obbligatoria, non già nel principio della parità di trattamento di cui all’art. 93 t.u.f., ma nella tutela degli azionisti di minoranza, e segnatamente nella tutela del valore della loro partecipazione (rectius: del diritto di voto incorporato nella partecipazione) rispetto dall’acquisto del controllo della società da parte di un terzo. Su questa base, la violazione dell’obbligo di lanciare l’OPA al superamento della soglia di partecipazione legislativamente prefissata è stata ritenuta fonte di responsabilità di natura contrattuale, in quanto inadempimento di una obbligazione ex lege (art. 1173 c.c.).

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Sintesi di giurisprudenza

C) Sanzioni 32. Manipolazioni di mercato. App. Torino, 23 gennaio 2008 (in Società, 2008, 1103, con nota di Sporta Caputi; in Mondo banc., 2008, fasc. 4, 43, con nota di Lemma), giudicando sull’opposizione proposta avverso una sanzione amministrativa pecuniaria comminata dalla Consob ex art. 187ter t.u.f., ha riconosciuto la configurabilità dell’illecito amministrativo di manipolazione del mercato di cui alla citata norma del t.u.f. in presenza di comunicati stampa – effettuati su richiesta della Consob, ai sensi dell’art. 114, co. 5, t.u.f. – contenenti informazioni oggettivamente false e in quanto tali potenzialmente decettive per il mercato. Secondo la Corte torinese il legislatore attraverso l’art. 187-ter avrebbe inteso apprestare una tutela anticipata dell’integrità del mercato, prevedendo che a integrare l’illecito amministrativo di manipolazione del mercato siano sufficienti contegni informativi idonei anche solo astrattamente ad attentarne il corretto funzionamento, come emergerebbe dal tenore letterale della disposizione normativa (“forniscono o siano suscettibili di fornire”). 33. Procedura sanzionatoria. Legittimazione all’opposizione. App. Genova, 21 febbraio 2008 (decr.), (in Le società, 2008, 860 ss., con commento di Grossi), giudicando, ai sensi dell’art. 195 t.u.f., su una opposizione avverso una sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dalla Consob ed espressamente richiamando un consolidato orientamento della Corte di Cassazione, ha ritenuto privo di legittimazione l’autore della violazione sanzionata in ragione del fatto che, nel caso di specie, il pagamento del relativo importo era stata ingiunto alla sola SIM. Secondo la Corte genovese, ai fini della legittimazione all’opposizione, unico dato rilevante è l’essere stato destinatario in concreto dell’ingiunzione di pagamenti, essendo invece ininfluente che, ai sensi dell’art. 195, co. 9, t.u.f., la società ingiunta sia obbligata ad agire in regresso contro l’autore della violazione. Ciò in quanto quest’ultimo potrà far valere ogni eccezione e deduzione in ordine alla legittimità della sanzione nel giudizio avente a oggetto l’obbligatoria azione di regresso, non potendo la decisione del giudizio di opposizione spiegare effetto nei suoi confronti. 34. Procedura sanzionatoria. Fase istruttoria. Contraddittorio. App. Genova, 21 febbraio 2008 (decr.), cit., disapplicando il Regolamento Consob n. 15086/2005 per contrasto con l’art. 195 t.u.f., ha dichiarato la nullità di una delibera Consob con la quale veniva irrogata una sanzione amministrativa pecuniaria in conseguenza della violazione del principio del contraddittorio nel corso della fase istruttoria del relativo procedi-

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Rassegne

mento sanzionatorio. Secondo la Corte genovese, il procedimento sanzionatorio che ha portato all’adozione della delibera Consob opposta, il quale è stato condotto sulla base di quanto prevede il Regolamento Consob 21 giugno 2005, n. 15086, avrebbe violato l’art. 195 t.u.f. nel momento in cui non ha assicurato un effettivo contraddittorio tra Ufficio Sanzioni Amministrative e gli interessati. In particolare, la censura, espressamente estesa dai giudici liguri al Regolamento n. 15086/2005, si è appuntata sul fatto che, differentemente da quanto era avvenuto nella fase innanzi alla Divisione competente, agli interessati non era stato consentito interloquire con le conclusioni, peraltro particolarmente articolate e in parte anche nuove rispetto alle iniziali contestazioni, rassegnate dall’Ufficio sanzioni amministrative. 35. Procedura sanzionatoria. Termini. a) Cass., 20 febbraio 2008, n. 4329 (in Le società, 2008, 1096, con commento di Leggieri), modificando l’orientamento espresso in una precedente e articolata sentenza (cfr. Cass. 9 marzo 2005, n. 5099), ha stabilito che nel procedimento sanzionatorio previsto dall’art. 195 t.u.f. (nel caso di specie preso in esame nella versione previgente alla novella del 2005: cfr. l. 18 aprile 2005, n. 62), al termine di centottanta giorni per la formulazione della proposta sanzionatoria da parte della Consob al Ministero non deve essere riconosciuta natura perentoria. Ciò in quanto il Regolamento interno Consob non è idoneo a modificare le disposizioni relative al procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative di cui alla l. n. 689 del 1981. Su questa base, la Corte ha cassato, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano, il decreto con il quale detta Corte aveva ritenuto l’illegittimità del provvedimento ministeriale di irrogazione delle sanzioni amministrative ai sensi dell’art. 195 t.u.f. b) App. Torino, 23 gennaio 2008, cit., ha affermato che il decorso del termine di centoventi giorni dalla contestazione degli addebiti, entro il quale, ai sensi del Reg. Consob n. 12697/2000, possono essere presentati memorie scritte e documenti nell’ambito del procedimento sanzionatorio di cui all’art. 195 t.u.f., non preclude la prosecuzione dell’attività inquirente dell’ufficio. È questo, infatti, secondo la Corte, un termine preordinato esclusivamente a delimitare l’attività asseverativa e probatoria del soggetto indagato; ciò che tuttavia non esclude che nella successiva fase, che si svolge innanzi all’Ufficio sanzioni amministrative, l’indagato riacquisti la facoltà di produrre memorie e documenti.

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Sintesi di giurisprudenza

La medesima sentenza ha poi sostenuto la natura ordinatoria del termine di duecentodieci giorni dalla contestazione degli addebiti, entro il quale, ai sensi del Reg. Consob 15086/2005, la Divisione mercati deve provvedere a trasmettere gli atti del procedimento all’Ufficio sanzioni amministrative, che provvede poi a proporre la sanzione da irrogare alla Commissione. A tale conclusione la Corte giunge sulla base della ratio del Reg. Consob 15086/2005, che andrebbe riconosciuta nella volontà di dare attuazione, in ossequio a quanto previsto dall’art. 187-septies t. u.f., alla separazione tra fase istruttoria e fase decisoria; separazione avvenuta articolando il procedimento in diverse fasi innanzi a diverse divisioni interne Consob. Con tale ratio, secondo la Corte, contrasta ogni interpretazione che riconosca alla scansione temporale delle due fasi, attuata dal citato Regolamento, l’effetto di limitare i poteri e le funzioni delle singole divisioni.

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PARTE seconda Legislazione, documenti e informazioni



Documenti e informazioni

Finanza locale e strumenti finanziari derivati Notevoli preoccupazioni hanno sollevato e stanno sollevando, a tutti i livelli, le vicende concernenti l’utilizzazione da parte degli enti locali di strumenti finanziari derivati. Preoccupazioni tanto gravi da indurre il legislatore ad un intervento d’urgenza: con il d.l. n. 112 del 2008, convertito dalla l. n. 133 del 2008, si è infatti prevista l’emanazione di un regolamento che individui la tipologia di strumenti che quegli enti possono utilizzare (art. 62, co. 2), imponendo agli stessi il divieto assoluto, medio tempore, di stipulare contratti relativi a tali strumenti (art. 62, co. 1, successivamente modificato dall’art. 3 della l. finanziaria 2009). Su tale delicata tematica utili elementi di valutazione può senz’altro fornire il documento che qui pubblichiamo: la relazione predisposta dalle sezioni riunite della Corte dei conti in vista della audizione (svoltasi il 18 febbraio 2009) dei rappresentanti della medesima Corte dinanzi alla IV commissione del Senato, nel quadro dell’indagine conoscitiva sull’utilizzazione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle pubbliche amministrazioni. [Nota redazionale]

Corte dei conti, Sezioni riunite in sede di controllo – I controlli della Corte dei Conti sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata (elementi per l’audizione presso la Commissione Finanze e Tesoro del Senato, svolta nel febbraio 2009)

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Documenti e informazioni

INDICE

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GLI STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI Natura dei contratti in strumenti finanziari derivati Derivati finanziari e ammortamento del debito Derivati finanziari aventi ad oggetto i rischi di mercato Natura del contratto e libertà contrattuale

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REGIONI, PROVINCE E COMUNI E STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI: LA

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La delimitazione dellʼambito di operatività dello swap nelle operazioni di ammortamento del debito La delimitazione dellʼambito di operatività dello swap di tasso di interesse La valutazione del contratto e le conseguenze sul bilancio dellʼente

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13

13

LE COMPETENZE DELLA CORTE DEI CONTI Le analisi svolte dalla magistratura contabile

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LE DIMENSIONI QUANTITATIVE DEL FENOMENO DELLA FINANZA DERIVATA

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LA VERIFICA DELLE SINGOLE OPERAZIONI: PRINCIPALI QUESTIONI

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Lʼobbligo di scelta del contraente tramite procedura selettiva Advisor e operatore finanziario La procedura amministrativa Sottoposizione del contratto ad una legge e ad una giurisdizione diversa da quella italiana Delegazione di pagamento o clausola simile La comunicazione delle operazioni al Ministero dellʼEconomia e delle finanze La rinegoziazione del contratto e le procedure amministrative seguite dagli enti Lʼallocazione in bilancio dei flussi derivanti dal contratto La convenienza economica dellʼoperazione Il Mark to market Lʼanticipazione (upfront): classificazione ed utilizzazione La qualifica di operatore specializzato Recesso anticipato del Comune e Costo di sostituzione

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LA GESTIONE DELL'INDEBITAMENTO Le operazioni di ristrutturazione dell'indebitamento

DISCIPLINA NORMATIVA

RILEVATE

LE INDAGINI DELLA CORTE DEI CONTI SUI RISULTATI CARTOLARIZZAZIONI DI ATTIVI PUBBLICI 1999-2005

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DELLE


AUDIZIONE. UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Finanza locale e strumenti finanziari derivati

LA GESTIONE DELL'INDEBITAMENTO Le questioni inerenti l'utilizzo degli strumenti finanziari derivati da parte delle Regioni e degli enti territoriali si inseriscono nella più ampia tematica della gestione del debito che, in linea generale, risulta essere finora poco esaminata. Utilizzando, in vario modo, questi strumenti, gli enti territoriali hanno posto in essere operazioni che hanno influito sui rischi connessi all'indebitamento, sull'effettivo ammontare dello stesso e, in ultima analisi, sul reperimento di risorse da impiegare nella ordinaria gestione. Le operazioni di ristrutturazione dell'indebitamento Uno dei fenomeni che, a questo proposito, merita particolare attenzione e che è stato preso in esame nel corso delle analisi svolte delle Sezioni del controllo della Corte dei conti è quello riconducibile alle operazioni di estinzione anticipata di mutui che permette agli enti territoriali di estinguere prima della scadenza originariamente prevista un mutuo, rimborsando allʼistituto finanziario il capitale residuo, generalmente maggiorato di una somma a titolo di indennizzo. Lʼoperazione può essere giustificata sia dalla presenza di consistenti entrate patrimoniali che permettono di saldare il debito con risparmio sui futuri interessi, che dalla possibilità di rinegoziare la passività in presenza di mutate condizioni di mercato quali, in particolare, la modificazione dei tassi di interesse, in senso decrescente rispetto a quelli del debito originario. Al fine di estinguere anticipatamente la passività o di rinegoziarla è necessario procedere alla valutazione sulla convenienza dellʼoperazione, in relazione sia alla tipologia ed al livello dei tassi di interesse che alle condizioni attuali e alle attese dellʼevoluzione futura dei mercati, nonché ai costi dellʼoperazione. La possibilità di estinzione anticipata di mutui in essere, si è inserita negli ultimi anni in un quadro normativo allʼinterno del quale è prevista e disciplinata la possibilità di procedere ad operazioni di rinegoziazione degli stessi mediante il ricorso a nuovo indebitamento, finalizzato, in via esclusiva, allʼestinzione anticipata della precedente passività e, in questo contesto, ha assunto rilievo la facoltà di utilizzare appositi prestiti obbligazionari1, purché lʼoperazione si presenti economicamente vantaggiosa per lʼente territoriale.

1

Art. 32, co. 2, lett. i), della l. 8 giugno 1990, n. 142; art. 35, della l. 23 dicembre 1994, n. 724; D.M. Tesoro del 5 luglio 1996, n. 420; allʼart. 27 della legge 21 novembre 2000, n. 342 e, soprattutto, allʼart. 41, co. 3 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 ed al successivo D.M. 1° dicembre 2003, n. 389, Regolamento di accesso al mercato dei capitali da parte degli enti locali. CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

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AUDIZIONE: UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Documenti e informazioni

Dall'esame di alcune di queste operazioni, le Sezioni regionali di controllo sono giunte alla conclusione che la previsione normativa sembra essere lacunosa poiché il vantaggio da prendere in considerazione, anche ai fini della sana gestione finanziaria dellʼente, non può essere solo quello meramente finanziario, dato dalla differenza fra lʼattualizzazione dei flussi dei pagamenti della passività originaria e quelli della nuova passività, ma deve consistere in una valutazione, allo stesso tempo, finanziaria ed economica, compiuta non solo in relazione ai dati finanziari attualizzati dellʼoperazione ma anche ai rischi che lʼente locale assume con la nuova operazione di indebitamento nonché alle conseguenze dell'allungamento del periodo del debito che vincola lʼattività futura dellʼAmministrazione 2 . Si è precisato, quindi, che nella valutazione non sarebbe sufficiente il raffronto tra costi attuali degli interessi pagati sullʼammontare capitale della passività, ritenendosi vantaggiosa lʼoperazione solo perché si verifica una diminuzione del tasso dʼinteresse nellʼesercizio finanziario nel quale si rinegozia il debito ed in quelli immediatamente successivi poiché la convenienza economica dovrebbe fondarsi sull'analisi di una pluralità di elementi, tra i quali debbono essere presi in considerazione anche i rischi connessi al nuovo tipo di indebitamento in relazione all'andamento dei mercati finanziari, agli eventuali rischi connessi alle nuove modalità di indebitamento, alla durata del debito e alle modalità di estinzione della passività. Non a caso, la legislazione, anche a livello costituzionale 3 , ha ammesso il ricorso allʼindebitamento esclusivamente per spese di investimento, bilanciando gli oneri ricadenti sulle generazioni future con la previsione dellʼincremento del patrimonio costituito da opere utilizzabili anche da tali generazioni, ovvero della creazione di infrastrutture che migliorino le prospettive economico-sociali della collettività. Si è così giunti alla conclusione che la rinegoziazione non può essere uno strumento di liberazione immediata di risorse, soprattutto se utilizzate, anche di fatto, per far fronte alla spesa corrente. Ciò è tanto più vero se lʼoperazione di ristrutturazione prevede un allungamento dei termini di pagamento del debito originario che, quindi, andrebbero a vincolare risorse, in linea di principio appartenenti alle generazioni future. In questo caso, anche in considerazione della maggior durata del vincolo debitorio, la sana gestione finanziaria impone che le risorse eventualmente liberate nellʼimmediato vengano destinate a spese di investimento, produttive di

2 3

Corte dei conti, sez. contr. Lombardia, 17 aprile 2008, n. 52. Il riferimento è all'art. 119 della Costituzione

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Finanza locale e strumenti finanziari derivati

maggiore ricchezza per lʼente e, conseguentemente, anche per gli amministrati. A fronte del più lungo vincolo sul futuro deve esservi, almeno, un incremento del patrimonio dellʼente. La recente manovra finanziaria per il 2009 ha introdotto alcune norme che sembrano andare in questa direzione 4 . GLI STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI Nell'ambito delle operazioni di gestione del debito, in generale, e della ristrutturazione dell'indebitamento, in particolare, gli enti territoriali, come noto, hanno fatto ampio ricorso, negli ultimi anni, a strumenti finanziari derivati. Prima di passare all'esame di alcuni dati di carattere generale, delle attività di controllo svolte dalla Corte dei conti e delle principali criticità riscontrate dalla magistratura contabile è opportuno richiamare alcune nozioni inerenti la natura delle operazioni finanziarie in strumenti derivati. Natura dei contratti in strumenti finanziari derivati I contratti derivati sono “strumenti finanziari” che servono a gestire lʼesposizione ai rischi di mercato o di credito che una banca o unʼimpresa o, come nel caso di specie, un ente pubblico territoriale assume nellʼambito della propria operatività 5 . Questa operazione non è qualificabile come contratto di finanziamento, assoggettato alla disciplina contenuta nel Testo Unico Bancario 6 , ma quale “strumento finanziario”, e come tale è disciplinata dal Testo unico sulla finanza e per la sua stessa natura può recare, a seconda dellʼandamento dei mercati, effetti positivi o negativi per lʼente. Nella pratica finanziaria internazionale si sono sviluppate numerose tipologie di contratti che rientrano in questa categoria e che presentano particolare interesse, in relazione alle attività degli enti territoriali.

4 Art. 62, co. 2 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 3 della l. 22 dicembre 2008, n. 203. 5 La definizione normativa è rinvenibile nellʼart. 1 del Testo unico in materia Finanziaria, approvato con il d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 6 Approvato con d. lgs. 1° settembre 1993, n. 385.

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AUDIZIONE: UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Documenti e informazioni

Derivati finanziari e ammortamento del debito La flessibilità di questi strumenti e la loro diffusione nel mercato ha condotto, infatti, allʼelaborazione di varie tipologie contrattuali, in relazione agli scopi che le parti si prefiggono. Fra i vari settori dellʼattività finanziaria allʼinterno della quale si sono diffusi, vi è quello dellʼammortamento del capitale riferito ad operazioni di indebitamento mediante lʼemissione di prestito obbligazionario. Si tratta, principalmente, dello strumento noto come amortising swap, con il quale il soggetto che ha ottenuto un prestito obbligazionario non procede allʼammortamento dello stesso mediante il versamento diretto ai possessori del titolo di una quota capitale annua, ma conclude uno specifico contratto con un intermediario finanziario che prevede una particolare modalità di ammortamento. Il debitore, infatti, si obbliga ad accantonare progressivamente, mediante un fondo costituito presso lʼintermediario finanziario, le somme necessarie per il rimborso del prestito, in modo da avere la disponibilità della somma necessaria al momento della scadenza del prestito obbligazionario. Lʼoperazione contrattuale complessiva, di natura atipica, non si limita a disciplinare il mero accantonamento dei fondi; infatti mediante la conclusione di contratti collegati o lʼinserimento di specifiche clausole, le parti del rapporto principale definiscono modalità di gestione, anche mediante lʼutilizzo di swap diretti a proteggere lʼoperazione dai rischi di mercato. La complessità dellʼoperazione, i rischi connessi alla gestione del fondo ed agli obblighi di restituzione rendono questa tipologia contrattuale diffusa particolarmente nei rapporti fra grandi istituzioni finanziarie ed imprese di dimensioni significative, che siano dotate di particolare esperienza nel settore finanziario. Numerose Regioni, Province e Comuni, soprattutto di grandi dimensioni, hanno utilizzato,

negli

anni

scorsi,

questo

strumento

per

operazioni

di

ristrutturazione

dellʼindebitamento o per contrarre nuovo debito. Derivati finanziari aventi ad oggetto i rischi di mercato Con riguardo specifico allʼattività degli enti territoriali, una particolare diffusione hanno avuto i derivati finanziari che hanno per oggetto i rischi di mercato, nel senso che hanno la finalità di gestire i rischi connessi con le oscillazioni dei tassi di interesse. In questo contesto, la tipologia principale è lʼIRS, vale a dire lʼinterest rate swap, contratto derivato non standardizzato, con il quale le parti si impegnano a versare o a riscuotere 6 146

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AUDIZIONE. UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Finanza locale e strumenti finanziari derivati

a date prestabilite, pagamenti commisurati in base al differenziale di tassi di interesse diversi, con lʼaggiunta di opzioni, a favore dellʼuna o dellʼaltra parte. Caratteristica comune ai contratti che rientrano nella categoria dellʼinterest rate swap è che entrambe le parti sono tenute ad adempiere la propria obbligazione a determinate scadenze, in base a specifici parametri predeterminati in relazione alla posizione contrattuale di ciascuna di esse e la regolazione dei pagamenti avverrà in base alla differenza che maturerà in favore dellʼuna o dellʼaltra. Altro meccanismo contrattuale

utilizzato in linea generale, in combinazione con il

contratto principale, è quello dellʼopzione che attribuisce ad una parte, a fronte del pagamento di un premio, la facoltà di comprare o vendere ad un altro soggetto uno strumento finanziario ad un prezzo determinato, in una certa data (o per tutto il periodo contrattuale). Nelle opzioni e nei meccanismi contrattuali ad esse riconducibili nellʼambito degli strumenti finanziari derivati (cap, floor, collar) solo una delle parti è tenuta ad adempiere alla specifica obbligazione, mentre lʼaltra ha la facoltà di decidere se adempiere o meno, salvo che lʼopzione sia concessa ad entrambe le parti nel qual caso occorre riferirsi alla specifica disciplina concordata dai contraenti, come generalmente accade nei contratti di questo genere conclusi dagli enti territoriali. Come è già stato messo in luce, il principale contratto concluso, in moltissimi casi, dagli enti territoriali è quello di swap di tasso di interesse, che, come si è detto, ha natura atipica ed aleatoria e che ha quale causa sottostante la neutralizzazione di un rischio finanziario o valutario 7 , con lʼaggiunta di alcuni meccanismi di opzione che rendono complessa la valutazione dell'intera operazione finanziaria ed incidono sulla determinazione del suo effettivo valore. Se la causa è data dalla neutralizzazione del rischio finanziario che lʼente ha assunto in relazione al suo indebitamento, le attività poste in essere dalle parti contraenti devono essere finalizzate a questo scopo e non possono essere determinate da altre ragioni che possono, tuttʼal più assumere il rilievo di “motivi” che, ai sensi dellʼart. 1342 cod. civ., possono aggiungersi alla causa senza poterla sostituire. Principio cardine del contratto in esame è quello dellʼautonomia del contratto di mutuo originario, rispetto all'operazione di swap, in forza del quale il debitore continua a pagare gli interessi ivi stabiliti al mutuante. Il contratto di swap stipulato con lʼintermediario finanziario (che, generalmente, non è neppure il concedente il mutuo), intende neutralizzare gli effetti 7

Sul punto: App. Milano, 26 gennaio 1999. CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

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dellʼevoluzione dei tassi di interesse in base al meccanismo, come si è visto, della regolazione fra i contraenti ad ogni scadenza, delle differenze di segno opposto, positive o negative, sulla base dellʼapplicazione delle clausole contrattuali. In questo modo il debitore continuerà a pagare gli interessi sul mutuo, ma se il tasso previsto dallo swap è a suo favore riceverà importi dallʼintermediario finanziario che contribuiranno a bilanciare quelli maggiori versati al mutuante quali interessi sul mutuo. Al contrario, se in base al tasso previsto dallo swap matureranno importi in favore dellʼintermediario finanziario, il debitore oltre a pagare i normali interessi sul mutuo dovrà sostenere anche il pagamento di questi importi, con un ulteriore aggravio della sua situazione finanziaria. In conclusione, si tratta di unʼoperazione finanziaria che non dovrebbe avere carattere speculativo, poiché dovrebbe servire unicamente a contenere il rischio di aumento dei tassi di interesse variabili o a ridurre il costo dellʼindebitamento a tasso fisso. Lʼoperazione è sempre collegata ad un sottostante debito che, sotto il profilo strutturale, è elemento occasionale e, di fatto, non necessario perché lʼesito dellʼoperazione prescinde dallʼesito del rapporto sottostante. Sussiste, però, un collegamento funzionale poiché la struttura del contratto dovrebbe essere tale che ogni volta che vi è un rialzo dei tassi di interesse pagati sui mutui, il debitore dovrebbe ricevere un differenziale dallʼintermediario finanziario che serva ad ammortizzare le maggiori uscite. Al contrario, ogni volta che vi sia una discesa dei tassi pagati al mutuante, il debitore dovrebbe versare un differenziale allʼintermediario finanziario che si assume il rischio contrario. Il profilo da ultimo messo in luce assume essenziale rilevanza nei contratti stipulati dagli enti pubblici. Per questi enti, e in particolare per gli enti territoriali, il collegamento funzionale in quanto espressamente previsto dalla legge e connaturato con la natura degli enti pubblici entra nella causa giuridica del negozio, perché elemento oggettivo previsto dalla legge. Ne consegue che per detti enti la mancata funzionalizzazione del contratto allʼandamento dei rischi connessi all'indebitamento dellʼente si riflette sulla causa genetica dei contratti di swap di tasso di interesse, facendola venire meno 8 . Natura del contratto e libertà contrattuale La diffusione dei contratti relativi agli strumenti finanziari derivati è piuttosto recente ed ha avuto origine nella pratica commerciale anglosassone. 8

Questi principi sono ricavabili dalla disciplina normativa, da ultimo riformulata dall'art. 62, co. 2 del citato d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 3 della l. 22 dicembre 2008, n. 203.

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Peraltro, alcune associazioni di operatori finanziari internazionali si propongono di tipizzare i contratti attraverso modelli contrattuali uniformi, che sono da considerare meramente indicativi per le parti che possono negoziare condizioni differenti rispetto ai modelli proposti. Viene in rilievo, in particolare, lo schema denominato ISDA Master Agreement, elaborato da una delle maggiori associazioni di operatori finanziari a livello mondiale, e cioè l'ISDA International Swaps and Derivatives Association, Inc., costituita nel 1985 e che, ad oggi, rappresenta più di 800 membri, che operano in più di 50 Paesi del mondo (tra i quali vi sono la maggior parte delle principali istituzioni finanziarie private operanti in derivati). Sin dalla sua costituzione, l'ISDA si è impegnata nell'identificare e ridurre le fonti del rischio nei derivati; la sua attività si è concretizzata, oltre che nello sviluppo del modello contrattuale ISDA, nella pubblicazione di una vasta gamma di materiali relativi agli strumenti finanziari derivati e nel rilascio di numerose legal opinions. Un altro schema negoziale particolarmente diffuso è quello denominato European Master Agreement - EMA, predisposto dalla Federazione Bancaria Europea - FBE nel gennaio 2001 e che viene utilizzato prevalentemente dagli intermediari finanziari che operano nellʼarea dellʼEuro. La Federazione Bancaria Europea nel 2004 ha integrato lo schema contrattuale con un Allegato Prodotto per Operazioni su Derivati (“allegato Derivati”). REGIONI, PROVINCE E COMUNI E STRUMENTI FINANZIARI DERIVATI: LA DISCIPLINA NORMATIVA Negli ultimi anni, come noto, lʼutilizzazione di strumenti di finanza derivata da parte degli enti territoriali è andata incrementandosi progressivamente ed il fenomeno ha trovato apposita disciplina legislativa, regolamentare ed amministrativa. Invero, a fronte della particolare natura di questi strumenti finanziari e dei rischi che possono essere insiti nel loro utilizzo, soprattutto in relazione alla specifica esperienza nella materia finanziaria che è richiesta per un loro utilizzo consapevole, in assenza di una disposizione legislativa che ne autorizzi lʼuso potrebbero porsi dubbi sulla compatibilità con le regole di contabilità pubblica alle quali debbono rispondere gli enti territoriali. Va in proposito ricordato che lʼHouse of Lords ha statuito che gli enti territoriali inglesi non sono legittimati a concludere questi tipi di contratto perché non hanno la capacità giuridica

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e, a partire da quella decisione, a tali enti è impedito avvalersi degli strumenti finanziari derivati, in precedenza assai diffusi 9 . Nel nostro ordinamento, la finanziaria per lʼanno 2002 ha dettato alcune regole per lʼutilizzo di questi strumenti, rendendone, di fatto, legittimo lʼutilizzo da parte degli enti locali e successivamente, è andata ampliandosi una disciplina normativa di rango legislativo e regolamentare diretta a disciplinare numerosi aspetti del fenomeno 10. Lo scopo di questa disciplina normativa era quello di evitare che gli enti territoriali concludessero operazioni finanziarie di particolare complessità, senza avere, in molti casi, le necessarie competenze finanziarie. In relazione allʼutilizzo degli strumenti di finanza derivata da parte degli enti territoriali, la Corte dei conti, a partire dal 2004, ha attuato un progressivo monitoraggio, segnalando al Parlamento le possibili situazioni di criticità, mettendo anche in luce natura e validità delle singole clausole contenute nelle varie tipologie contrattuali 11 . A seguito di ripetute segnalazioni relative all'insorgenza di criticità di vario genere e del progressivo emergere di situazioni potenzialmente dannose per la situazione finanziaria degli Enti territoriali, la legge finanziaria per il 2007 ha dettato alcune regole maggiormente restrittive nellʼutilizzo di tali strumenti e, in relazione alle situazioni di grave irregolarità, individuato un apposito procedimento di controllo affidato alla Corte dei conti 12 . Sotto il profilo sostanziale ha stabilito che le operazioni di gestione del debito tramite utilizzo di strumenti derivati “devono essere improntate alla riduzione del costo finale del debito e alla riduzione dell'esposizione ai rischi di mercato” e ribadito che operazioni di questo genere possono essere concluse “solo in corrispondenza di passivita' effettivamente dovute, avendo riguardo al contenimento dei rischi di credito assunti”.

9

House of Lords, 24 gennaio 1991, in Foro it., 1992, IV, 309. Art. 41, l. 28 dicembre 2001, n. 448; Decreto del Ministro dellʼEconomia e delle Finanze, emanato previo concerto con il Ministro dellʼInterno, 1° dicembre 2003, n. 389, in G.U., 4 febbraio 2004, n. 28. In particolare, lʼart. 3 detta la disciplina che gli enti territoriali devono osservare per poter operare con gli strumenti derivati. Successivamente è stata emanata la circolare del Ministero dellʼEconomia e delle Finanze 27 maggio 2004, pubblicata in G.U. 3 giugno 2004, n. 128 che indica alcuni ulteriori limiti in relazione alle singole clausole contrattuali. 11 Corte dei conti, Audizione sul tema “Analisi sul fenomeno dellʼindebitamento in un campione di enti locali” presso la Commissione Programmazione economica e Bilancio del Senato nel novembre 2004; relazioni sulla finanza regionale approvate con delibere della Sezione delle Autonomie n. 6 in data 2 luglio 2007 e n. 11 in data 18 luglio 2008. 12 Art. 1, co. 736 della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Successivamente è stata varata dal Ministero dell'Econ0omia e delle finanze la circolare esplicativa in data 31 gennaio 2007, pubblicata in G.U. 5 febbraio 2007, n. 29. In relazione alla natura ed alle modalità dello specifico specifico procedimento di controllo si rinvia alla delibera n. 596 del 2007 della Sezione regionale di controllo della Lombardia 10

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Dal complesso delle disposizioni normative si evince che i limiti che devono essere osservati dagli enti territoriali che intendono dar corso ad operazioni in derivati, ad oggi, risultano essere quattro: 1) riduzione del costo finale del debito; 2) riduzione dell'esposizione ai rischi di mercato; 3) accessorietà rispetto a passività effettivamente esistenti 4) contenimento dei rischi di credito assunti. Anche con la Finanziaria per il 2008 vi è stato un rafforzamento sia dei poteri di verifica esterni che un richiamo agli obblighi di trasparenza che debbono informare la conclusione di questa particolare tipologia contrattuale 13 . Da ultimo, un intervento molto più significativo si è avuto con la manovra finanziaria per il 2009 14 . Al fine di meglio valutare le attività poste in essere dagli enti territoriali occorre distinguere, in modo maggiormente analitico, i limiti posti agli enti territoriali in ordine allʼutilizzo delle operazioni di finanza derivata nelle operazioni di ammortamento del debito da quelli inerenti la generalità delle operazioni di swap di tasso di interesse. La delimitazione dellʼambito di operatività dello swap nelle operazioni di ammortamento del debito La disciplina normativa individua alcune operazioni consentite agli enti territoriali in relazione allʼammortamento del debito relativo ad un prestito obbligazionario e, in via generale e residuale, stabilisce che gli stessi possano effettuare le operazioni derivate finalizzate alla ristrutturazione del debito solo qualora non prevedano una scadenza posteriore a quella associata alla sottostante passività. Queste operazioni possono essere concluse esclusivamente con intermediari finanziari in possesso di adeguato rating, attribuito da primarie agenzie di livello internazionale. Nellʼambito delle previsioni normative originarie, gli enti territoriali potevano procedere allʼammortamento del debito relativo ad un prestito obbligazionario mediante la costituzione di un fondo contestuale alla sottoscrizione del prestito, ovvero mediante lʼamortising swap in base al quale lʼintero capitale del prestito obbligazionario viene accumulato progressivamente,

13

Art. 1 co. 381 - 384 della legge 24 dicembre 2007, n. 244. Art. 62, co. 2 del citato d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 3 della l. 22 dicembre 2008, n. 203. 14

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mediante accantonamento di quote, entro il termine di scadenza del prestito al fine di poterlo restituire agli obbligazionisti (bullet). Eʼ indubbio che le due modalità sono profondamente diverse e comportano diverse strategie operative per gli enti, in quanto il sinking fund è un fondo di ammontare pari a quello del prestito che deve essere costituito nel momento stesso in cui lʼente riceve il prestito e viene accantonato per un lungo periodo. Questa modalità di rimborso richiede che, contestualmente allʼemissione del prestito obbligazionario, il soggetto emittente disponga di un capitale pari a quello dello stesso prestito, transitoriamente utilizzato in altre operazioni. La struttura del sinking fund è allʼevidenza difficilmente compatibile con le regole che presiedono allʼattività degli enti territoriali. Diversa è la situazione che si presenta con lʼoperazione bullet poiché lʼente accumula il capitale progressivamente, di anno in anno, in uno specifico fondo e non ha la necessità di disporre dellʼintero capitale necessario per la restituzione del prestito obbligazionario sin dalla data della sua emissione, ma solo al momento del rimborso della quota capitale. La disciplina originaria non forniva alcuna indicazione in ordine alla disponibilità, utilizzo e gestione del fondo che era lasciata alla libertà contrattuale delle parti. Come è stato messo in luce dalla magistratura contabile, la scelta di una regolamentazione “leggera” in questa materia solleva perplessità poiché le modalità di costituzione e gestione del fondo sono estremamente rilevanti, anche in considerazione della lunga durata dei prestiti obbligazionari e del conseguente rischio che lʼente assume in caso di insolvenza dellʼintermediario finanziario al quale è affidata la gestione del fondo 15 . Infatti, qualora il fondo venga costituito presso un intermediario finanziario e questʼultimo, per qualsivoglia ragione, non provveda alla scadenza a versare allʼente territoriale lʼimporto accumulato per poter procedere allʼestinzione del prestito obbligazionario, lʼente territoriale non potrà che far fronte ai pagamenti nei confronti degli obbligazionisti con risorse proprie, sempre che ne abbia la disponibilità considerato lʼelevato importo dei prestiti obbligazionari. Lʼaccumulo progressivo in un fondo della quota capitale può essere elemento utile nellʼeconomia del rapporto contrattuale, ma considerata la natura degli enti pubblici e la circostanza che i capitali che essi gestiscono sono di “proprietà” della collettività, sussistono forti dubbi in ordine all'utilizzo di questa modalità contrattuale.

15

Corte conti, sez. contr. Lombardia, 17 aprile 2008, n. 52.

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Da ultimo, nell'ambito della manovra finanziaria per il 2009 è stato introdotto un divieto generalizzato per Regioni ed enti territoriali di emettere titoli obbligazionari o altre passività che prevedano il rimborso del capitale in un'unica soluzione alla scadenza 16 . La delimitazione dellʼambito di operatività dello swap di tasso di interesse Dalla normativa richiamata sopra, in relazione ai contratti di swap di tasso di interesse risultano consentiti solamente quelli strutturati nella forma più semplice, denominata plain vanilla, che consiste nellʼimpegno dei contraenti di scambiarsi regolarmente flussi di interesse, collegati a parametri del mercato monetario, nonché nella possibilità di negoziare particolari opzioni. Una nuova disciplina di carattere generale dovrà essere introdotta, con uno o più decreti di carattere regolamentare, da parte del Ministro dell'Economia e delle Finanze in attuazione di quanto previsto dalla manovra finanziaria per il 2009 17 . La valutazione del contratto e le conseguenze sul bilancio dellʼente La gestione pluriennale di un contratto di swap che può comportare dei vantaggi per lʼente territoriale, ma può anche prevedere delle conseguenze finanziarie negative, implica alcune difficoltà attesa la natura prettamente finanziaria del bilancio degli enti territoriali. A questa situazione è stato posto un primo rimedio prevedendo che al bilancio di ciascun ente debba essere allegata una nota che indichi quale sia la valutazione degli oneri e dei rischi finanziari correlati al contratto relativo a strumenti finanziari derivati 18 . Si tratta di un primo passo diretto ad evidenziare quale sia la reale situazione finanziaria dellʼente e quali possibili situazioni negative possano verificarsi, anche per adeguare la gestione corrente, in relazione ai possibili impegni finanziari futuri. In assenza di ulteriori precisazioni normative, le pronunce della magistratura contabile hanno chiarito che la nota di accompagnamento debba essere allegata sia al bilancio di previsione che al rendiconto poiché in relazione ad entrambi è necessario precisare lʼesatta situazione in cui si trova lʼente.

16

Art. 62, co. 2 del citato d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 3 della l. 22 dicembre 2008, n. 203. 17 Art. 62, co. 3 del citato d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 3 della l. 22 dicembre 2008, n. 203. I commi successivi della norma citata introducono alcuni specifici limiti che dovranno essere osservati in sede di disciplina regolamentare. 18 Si tratta del co. 383, dellʼart. 1, della l. 24 dicembre 2007, n. 244., ripreso dall'art. 62, co. 8 del citato d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 3 della l. 22 dicembre 2008, n. 203. CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

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In sede di bilancio di previsione, la nota riveste un ruolo centrale poiché la gestione corrente che lʼente intende effettuare deve essere coerente con gli impegni finanziari e con le possibili ricadute negative che lʼoperazione finanziaria può avere sullʼente. Al rendiconto deve essere allegata una nota specifica che, partendo dalle possibili negatività derivanti dal contratto ed al fine di evitare possibili conseguenze negative, indichi se lʼAmministrazione ha previsto che una parte delle entrate ovvero dellʼavanzo di amministrazione sia vincolato al finanziamento di quella spesa, ove maturi una differenza negativa, come le regole di prudenza e sana gestione finanziaria suggeriscono. Dai dati raccolti dalle Sezioni regionali della Corte dei conti risulta che in sede di bilancio di previsione per il 2008 il 53,9% dei Comuni che hanno concluso operazioni di finanza derivata abbiano rispettato l'obbligo, predisponendo questa nota. Si tratta di un dato positivo se solo si considera che l'obbligo normativo è stato introdotto quando la sessione per l'approvazione dei bilanci di previsione degli enti territoriali era già stata avviata e si trattava, quindi, di una prima applicazione della disciplina. La tavola che segue indica il numero dei Comuni che in ciascuna Regione hanno osservato quest'obbligo 19 . Il primo dato che emerge è che sono state rilevate operazioni di finanza derivata in 737 Comuni.

19 In relazione ai dati contenuti in questa tavola e nelle successive Tavole occorre precisare che si tratta di dati riferiti alla quasi totalità delle Regioni italiane. Mancano, infatti, i soli dati relativi, da un lato, al Piemonte e al Trentino Alto-Adige, in corso di elaborazione, e, dall'altro, alla Regione Autonoma della Valle d'Aosta, nella quale non è ancora stata istituita la Sezione regionale di controllo.

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Tavola 1 Numero dei comuni che hanno allegato al Bilancio di previsione 2008 la nota prevista dal comma 383 art. 1 della L.F.2008 (distribuzione per regione)

Lombardia Veneto Friuli Liguria Emilia Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale

SI

56 36 7 6 21 37 27 24 12 18 1 33 40 7 29 31 12 397

numero comuni non indicato Totale NO 36 1 21 5 21 4 1 35 27 2 7 1 12 20 11 11 2 3 1 25 8 25 2 4 1 17 25 2 8 2 301 39

Composizione 93 62 28 11 56 66 35 36 43 31 5 66 67 12 46 58 22 737

SI

60,2 58,1 25,0 54,5 37,5 56,1 77,1 66,7 27,9 58,1 20,0 50,0 59,7 58,3 63,0 53,4 54,5 53,9

NO 38,7 33,9 75,0 36,4 62,5 40,9 20,0 33,3 46,5 35,5 60,0 37,9 37,3 33,3 37,0 43,1 36,4 40,8

ND

1,1 8,1 0,0 9,1 0,0 3,0 2,9 0,0 25,6 6,5 20,0 12,1 3,0 8,3 0,0 3,4 9,1 5,3

Totale

100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Dai dati che precedono si evince che le percentuali maggiori di adempimento si sono rilevate nelle Marche, in Calabria e in Lombardia, mentre le percentuali minori si sono riscontrate in Molise e in Friuli Venezia Giulia. La tavola che segue riporta gli stessi dati raggruppati in relazione alle classi di Comuni.

Tavola 2 Numero comuni che hanno allegato al Bilancio di previsione 2008 la nota prevista dal comma 383 art. 1 della L.F.2008 (distribuzione per classe dimensionale del comune) numero comuni Composizione non SI NO Totale SI NO ND Totale indicato fino a 2000 34 46 2 82 41,5 56,1 2,4 100,0 2001-5000 88 82 11 181 48,6 45,3 6,1 100,0 500110000 102 61 5 168 60,7 36,3 3,0 100,0 1000150000 138 90 18 246 56,1 36,6 7,3 100,0 oltre 50000 35 22 3 60 58,3 36,7 5,0 100,0 totale 397 301 39 737 53,9 40,8 5,3 100,0

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La percentuale di maggior adempimento si rileva negli enti che appartengono alla classe compresa fra i 5001 e i 10000 abitanti (60,7%), mentre quella minore è rilevata nella classe dei Comuni con popolazione inferiore ai 2000 abitanti. La tavola che segue indica, invece, la ripartizione per aree geografiche omogenee. Tavola 3 Numero comuni che hanno allegato al Bilancio di previssione 2008 la nota prevista dal comma 383 art. 1 della L.F.2008 (distribuzione per area geografica di appartenenza del comune) numero comuni Composizione non SI NO SI NO ND Totale indicato Totale NordOvest 62 40 2 104 59,6 38,5 1,9 100,0 NordEst 64 77 5 146 43,8 52,7 3,4 100,0 Centro 100 66 14 180 55,6 36,7 7,8 100,0 Sud 171 118 18 307 55,7 38,4 5,9 100,0 Totale 397 301 39 737 53,9 40,8 5,3 100,0

Dai dati sopra riportati risulta che la maggior percentuale di adempimento è stata rilevata nel Nord Ovest (59,6%), mentre la minore nel Nord Est (43,8%). Analoga verifica è stata compiuta in relazione alle Province e la tavola che segue indica il numero delle Province che in ciascuna Regione hanno osservato quest'obbligo 20 . Il primo dato che emerge è che sono state rilevate operazioni di finanza derivata in 40 Province e che il 62,5% degli enti interessati hanno predisposto il documento in questione.

20 Anche in relazione ai dati contenuti in questa tavola occorre precisare che si tratta di dati riferiti alla quasi totalità delle Regioni italiane. Mancano, infatti, i soli dati relativi, da un lato, al Piemonte e alla Provincia autonoma di Trento, in corso di elaborazione, e, dall'altro, alla Regione Autonoma della Valle d'Aosta nella quale non è ancora stata istituita la Sezione regionale di controllo.

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Finanza locale e strumenti finanziari derivati

Tavola 4 Numero province con derivati che hanno allegato al Bilancio di previsione 2008 la nota prevista dal comma 383 art. 1 della L.F.2008 (distribuzione per regione) numero province Composizione SI NO Totale SI NO Totale Lombardia 4 4 100,0 0,0 100,0 Veneto 2 1 3 66,7 33,3 100,0 Friuli 2 2 4 50,0 50,0 100,0 Liguria 2 1 3 66,7 33,3 100,0 Emilia 3 1 4 75,0 25,0 100,0 Toscana 1 1 2 50,0 50,0 100,0 Umbria 2 2 100,0 0,0 100,0 Marche 1 1 2 50,0 50,0 100,0 Lazio 2 2 0,0 100,0 100,0 Abruzzo 1 2 3 33,3 66,7 100,0 Molise 0 Campania 1 1 2 50,0 50,0 100,0 Puglia 2 1 3 66,7 33,3 100,0 Basilicata 0 Calabria 2 1 3 66,7 33,3 100,0 Sicilia 2 2 100,0 0,0 100,0 Sardegna 1 1 0,0 100,0 100,0 Totale 25 15 40 62,5 37,5 100,0

LE COMPETENZE DELLA CORTE DEI CONTI I compiti di controllo in ordine alla gestione finanziaria delle Regioni, delle Province e dei Comuni che, progressivamente, sono stati attribuiti alla Corte dei conti e, in particolare, alle Sezioni regionali hanno fatto sì che uno dei fenomeni analizzati sia stato quello della finanza derivata, anche per le rilevanti ricadute che può avere sulla gestione degli enti. Peraltro, a partire dalla legge finanziaria per il 2007, è stata attribuita, come si vedrà, una specifica competenza, rafforzata nell'ambito della manovra per il 2009. Occorre segnalare, però, che lʼintervento della Sezione regionale di controllo, allo stato attuale della disciplina normativa, non è diretto ad analizzare la legittimità delle singole operazioni, ma a verificare se, nellʼambito della complessiva gestione dellʼente, le stesse rispondano a criteri di regolarità contabile e di sana gestione finanziaria al fine di segnalare eventuali profili di criticità al Consiglio comunale in modo che lʼente possa provvedere, nellʼambito della sua autonomia, a porre rimedio, ovviamente ove possibile. Infatti, nell'ambito della nuova e significativa modalità di verifica in ordine sia al rispetto degli obiettivi previsti dalla normativa sul Patto di stabilità interno che alla correttezza della gestione finanziaria degli enti territoriali, prevista dall'art. 1,co. 166 e segg. della legge 23

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dicembre 2006, n. 266, le Sezioni regionali hanno preso visione ed analizzato le singole operazioni poste in essere dagli enti pubblici. Proseguendo in un disegno legislativo avviato dopo la riforma del Titolo V, Parte seconda, della Costituzione, con la legge 5 giugno 2003, n. 131 che vede il progressivo riconoscimento del ruolo delle Sezioni regionali di controllo della magistratura contabile quali garanti della corretta gestione delle risorse pubbliche nellʼinteresse, contemporaneamente, dei singoli enti territoriali e della comunità che compone la Repubblica (posizione già riconosciuta alla Corte dei conti dalla giurisprudenza costituzionale a partire dalla nota sentenza 27 gennaio 1995, n. 29 e, ribadita, dalla sentenza 9 novembre 2005, n. 417 e, da ultimo, dalla sentenza n. 179 del 7 giugno 2007), il legislatore ha rafforzato ulteriormente questo ruolo, con una verifica che, così come disciplinata attualmente, non è invasiva dellʼautonomia degli enti territoriali ma, nel solco della funzione collaborativa della funzione di controllo, è diretta, nellʼinteresse del singolo ente e della comunità nazionale, a rappresentare agli organi elettivi la reale ed effettiva situazione finanziaria o le gravi irregolarità riscontrate nella gestione dellʼente, in modo che gli stessi organi che amministrano possano responsabilmente assumere le decisioni più opportune, sia nellʼinteresse dellʼente che della più vasta Comunità alla quale lʼente appartiene 21 . Come si è accennato, invece, la legge finanziaria per lʼanno 2007 ha previsto una specifica competenza della Corte dei conti in merito alla valutazione della regolarità delle operazioni concluse dagli enti territoriali utilizzando “strumenti finanziari derivati” che deve essere attivata dal Ministero dell'Economia e delle finanze ove vengano riscontrate gravi irregolarità. Lʼintendimento del legislatore è stato quello di mantenere la raccolta dei dati inerenti alle operazioni finanziarie in strumenti derivati in capo al Ministero dellʼEconomia e delle Finanze, ma, anche in relazione alla nuova struttura che ha assunto la Repubblica, di riservare lʼesame definitivo e la pronuncia sulla regolarità contabile dellʼoperazione alla Corte dei conti, organo che opera in posizione di imparzialità e terzietà nellʼinteresse di tutte le realtà che concorrono a costituire la Repubblica. Il disegno risulta ulteriormente rafforzato dalla manovra finanziaria per il 2009, laddove è previsto che il Ministero dell'Economia e delle finanze trasmetta mensilmente alla Corte dei

21 Sul punto si richiamano le considerazioni svolte nella delibera n. 10 del 26 ottobre 2006 della Sezione regionale di controllo per la Lombardia

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conti copia della documentazione ricevuta dagli enti che hanno concluso operazioni di finanza derivata 22 . Le analisi svolte dalla magistratura contabile Chiariti i termini generali della questione, occorre precisare che lo strumento delle linee guida e dei questionari che devono essere compilati dagli organi di revisione di ciascun ente in relazione sia al bilancio di previsione che al rendiconto, che, come si è visto è stato introdotto dalla legge finanziaria per il 2006, permette alla magistratura contabile un duplice livello di analisi. Infatti, da un lato, consente di raccogliere dei dati omogenei di carattere generale, riferiti a tutti gli enti territoriali della Repubblica, utili sia a fini di confronto che di analisi per conoscere gli esatti termini dei fenomeni, anche in termini di grandezza complessiva. Dall'altro, permette di analizzare la situazione del singolo ente, individuare le caratteristiche di ogni operazione, valutandone l'incidenza sulla complessiva gestione amministrativa e finanziaria dell'ente. Entrambe queste analisi possono essere utilizzate, poi, dal legislatore per modulare gli interventi normativi in modo tale da evitare l'insorgenza o la persistenza di problematiche finanziarie o gestionali, ovvero per cercare di contenere gli aspetti idonei ad incidere negativamente. La Corte dei conti, nell'ambito delle sue articolazioni centrali e regionali, sta procedendo all'esame delle questioni inerenti l'utilizzo di strumenti di finanza derivata sia nei suoi aspetti generali, che coinvolgono l'intera platea degli enti, che in quelli particolari riferiti alle singole operazioni poste in essere da ciascun ente 23 . Sono disponibili, quindi, dati di carattere generale, riferiti alla dimensione quantitativa del fenomeno e dati, tratti dall'analisi delle singole operazioni, che mettono in luce i principali problemi esaminati e le loro ricadute sulla sana gestione finanziaria degli enti territoriali.

22

Art. 62, co. 7 del citato d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. in l. 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 3 della l. 22 dicembre 2008, n. 203. 23 Al riguardo, viene allegato al presente documento un elenco delle principali pronunce che sono state emanate da ciascuna Sezione regionale. Le attivitĂ di verifica e di emanazione delle pronunce sono ancora in corso. CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

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LE DIMENSIONI QUANTITATIVE DEL FENOMENO DELLA FINANZA DERIVATA Considerata la stretta correlazione esistente fra indebitamento e utilizzo di strumenti di finanza derivata, il primo dato che è utile richiamare riguarda l'ammontare del debito degli enti territoriali. La tabella che segue indica l'ammontare complessivo del debito degli enti territoriali, confrontandolo con quello degli enti che hanno concluso operazioni di finanza derivata.

Il debito degli enti locali

Debito complessivo delle province Debito complessivo dei comuni (fonte Banca d'Italia) Debito complessivo delle province con prodotti derivati

(dati assoluti in milioni di euro) 2006 2007

(dati pro capite in euro) 2006 2007

8.648

8.829

1.46

149

45.205

46.561

764

787

4.613

4.601

195

194

Debito complessivo dei comuni con prodotti derivati 27.057 27.262 1.418 1.429 (fonte Corte dei Conti - i dati non comprendono gli enti delle regioni Piemonte Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta Peso degli enti con derivati in termini di popolazione residente

Peso del debito degli enti con derivati sul totale

Peso del debito degli enti provinciali con prodotti derivati sul totale del debito delle Province

53,3

52,1

40,1

Peso del debito degli enti comunali con prodotti derivati sul totale del debito dei Comuni 59,9 58,6 32,3 (I dati non comprendono gli enti delle regioni Piemonte Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta

Dall'esame dei dati si evince che a fronte di un debito complessivo pari a 46.561 milioni di euro il debito degli enti che hanno concluso questa tipologia di operazioni è pari a 27.262 milioni di euro. E' assai rilevante, quindi, verificare quanti siano gli enti che hanno concluso questa tipologia di contratti e fornire alcune indicazioni in relazione alle loro dimensioni, rispetto alla totalità degli enti territoriali 20 160

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La tavola che segue indica il numero dei Comuni che hanno concluso operazioni di questa tipologia, con specifico riferimento alla Regione di appartenenza Tavola 5 I comuni con strumenti derivati in essere (numero di enti per regione e classe dimensionale)

fino a 2000 Lombardia Veneto Friuli Liguria Emilia Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale

14 1 8 1 8 13 10 3 1 10 1 1 2 6 3 82

Dimensione dell'ente (residenti) 500110001oltre 2001-5000 10000 50000 50000 23 25 28 3 12 16 30 3 10 5 4 1 1 3 3 3 15 8 17 8 17 13 15 8 9 5 8 3 13 8 11 1 3 11 23 5 7 4 7 3 3 1 16 15 28 6 11 19 30 5 5 5 2 10 13 13 4 15 14 20 6 11 3 7 1 181 168 246 60

totale 93 62 28 11 56 66 35 36 43 31 5 66 67 12 46 58 22 737

Dalla tavola che precede si evince che 736 Comuni hanno concluso operazioni di questo genere e che le Regioni che in termini assoluti sono state maggiormente interessate dal fenomeno sono la Lombardia (93 enti) e la Campania (66 enti), mentre quelle meno interessate sono il Molise (5 enti) e la Liguria (11 enti). Di particolare interesse è la notazione che ben 82 enti hanno popolazione inferiore ai 2000 abitanti e 181 enti hanno una popolazione compresa fra i 2001 ed i 5000 abitanti. La conclusione di operazioni di questa complessità e natura da parte di enti territoriali di ridotte dimensioni, anche organizzative, suscita qualche perplessità, come è stato messo in luce in numerose delibere delle Sezioni regionali che hanno rilevato particolari criticità in relazione ai contratti conclusi da questi enti. Significativa è anche la rappresentazione contenuta nella tavola che segue, dalla quale si evince la quota di popolazione residente nei Comuni che hanno concluso operazioni di questo genere. CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

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Tavola 6 I residenti nei comuni che hanno strumenti derivati in essere (numero di residenti per regione e classe dimensionale)

fino a 2000 Lombardia Veneto Friuli Liguria Emilia Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale

19.082 1.289 9.634 1.251 10.084 14.705 10.516 3.650 1.250 11.688 1.592 962 3.726 8.727 3.432 101.588

Dimensione dell'ente (residenti) 500110001oltre 2001-5000 totale 10000 50000 50000 75.900 178.859 532.851 1.465.744 2.272.436 46.071 119.968 526.694 584.787 1.278.809 32.843 32.875 74.599 96.750 246.701 3.360 20.093 51.838 767.431 843.973 53.929 58.874 273.606 1.029.652 1.426.145 56.327 91.724 333.649 995.422 1.491.827 30.707 31.043 163.470 329.244 564.980 43.368 58.754 324.328 101.480 531.580 12.265 84.110 620.729 2.929.835 3.648.189 23.170 31.207 143.351 247.887 457.303 10.464 6.704 18.760 52.027 114.471 656.951 1.326.786 2.151.197 44.474 146.109 633.910 612.872 1.441.091 18.166 28.964 29.975 77.105 39.418 85.261 259.830 420.407 813.643 51.938 112.309 464.962 828.694 1.461.335 36.414 20.088 131.341 162.864 350.707 630.841 1.221.413 5.222.084 11.899.855 19.075.781

Val la pena rilevare che mentre la popolazione interessata è pari a 19.075.781, vale a dire molto meno della metà della popolazione italiana (35,55%), se si guarda alla precedente tavola riferita all'indebitamento il rapporto era esattamente inverso: la maggior parte del debito è concentrata negli enti che hanno concluso questi contratti. La tavola che segue indica il rapporto percentuale fra il totale dei Comuni e gli enti che hanno concluso questa tipologia di operazioni, con riferimento sia alla classe di appartenenza che alla Regione di riferimento.

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Tavola 7 I comuni con strumenti derivati in essere (quota % sul totale per regione e classe dimensionale)

fino a 2000 Lombardia Veneto Friuli Liguria Emilia Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale

2,16 0,85 8,79 0,75 15,69 20,97 28,57 2,97 0,62 5,24 0,97 0,54 6,67 0,00 3,41 3,57 0,00 3,37

Dimensione dell'ente (residenti) 5001100012001-5000 oltre 50000 10000 50000 5,03 9,58 16,97 21,43 6,00 11,11 26,79 42,86 14,93 13,16 20,00 33,33 2,00 11,11 14,29 75,00 14,02 8,25 23,29 61,54 23,29 19,40 20,55 66,67 34,62 41,67 50,00 100,00 16,88 22,22 39,29 25,00 3,23 21,15 37,70 50,00 11,48 14,29 33,33 75,00 14,29 12,50 0,00 0,00 10,60 16,67 26,67 30,00 19,64 30,65 31,58 33,33 12,82 23,81 20,00 0,00 6,71 26,53 43,33 80,00 13,27 16,28 21,74 40,00 10,09 8,82 28,00 25,00 9,79 15,11 25,89 44,12

totale 6,02 10,67 12,79 4,68 16,42 23,00 38,04 14,63 11,38 10,16 3,68 11,98 25,97 9,16 11,25 14,87 5,84 11,37

Risulta che solamente l'11,37% dei Comuni abbiano concluso questa tipologia di contratti e che in relazione alle classi di appartenenza il 44,12% degli enti con popolazione superiore ai 50000 abitanti ed il 25,89% degli enti con popolazione compresa fra i 10001 ed i 50000 abitanti abbiano in essere operazioni di finanza derivata. Significativo è anche che ben il 3,37% degli enti con popolazione inferiore ai 2000 abitanti siano parte di questi contratti. La tavola che segue indica, in percentuale, i dati relativi alla popolazione residente nei Comuni che hanno concluso queste operazioni.

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Tavola 8 I residenti nei comuni che hanno strumenti derivati in essere (quota % sul totale per regione e classe dimensionale) Dimensione dell'ente (residenti) 500110001fino a 2000 2001-5000 oltre 50000 totale 10000 50000 Lombardia 2,98 5,04 9,79 17,00 60,09 23,81 Veneto 0,87 6,94 11,62 27,84 56,33 26,79 Friuli 10,17 16,34 12,60 24,59 27,44 20,34 Liguria 1,25 2,32 10,90 14,77 92,70 52,49 Emilia 15,79 14,64 8,28 21,49 57,00 33,77 Toscana 18,91 22,95 18,54 23,38 71,46 41,00 Umbria 23,23 35,17 39,62 48,85 100,56 64,72 Marche 3,44 18,24 22,63 51,82 33,06 34,61 Lazio 0,79 4,06 22,48 45,36 89,06 66,41 Abruzzo 6,60 11,91 16,10 32,48 81,77 34,91 Molise 1,71 17,18 13,27 0,00 0,00 5,86 Campania 0,41 10,91 18,10 30,31 58,18 37,15 Puglia 8,88 23,80 33,70 33,45 40,53 35,41 Basilicata 0,00 14,53 22,35 21,77 0,00 13,04 Calabria 4,31 8,52 25,54 50,02 87,71 40,72 Sicilia 3,37 13,77 18,34 24,57 40,76 29,13 Sardegna 0,00 10,86 8,53 27,35 39,85 21,13 Totale 3,98 10,56 15,57 28,52 62,71 35,55

Gli stessi dati sono stati ricavati per le Province e sono contenuti nelle Tavole che seguono. Tavola 9 Le province con strumenti derivati in essere (numero di enti per regione) Numero province Con Senza Con Senza Totale derivati derivati derivati derivati Lombardia 4 8 12 33,3 66,7 Veneto 3 4 7 42,9 57,1 Friuli 4 0 4 100,0 0,0 Liguria 3 1 4 75,0 25,0 Emilia 4 5 9 44,4 55,6 Toscana 2 8 10 20,0 80,0 Umbria 2 0 2 100,0 0,0 Marche 2 3 5 40,0 60,0 Lazio 2 3 5 40,0 60,0 Abruzzo 3 1 4 75,0 25,0 Molise 2 2 0,0 100,0 Campania 2 3 5 40,0 60,0 Puglia 3 3 6 50,0 50,0 Basilicata 2 2 0,0 100,0 Calabria 3 2 5 60,0 40,0 Sicilia 2 7 9 22,2 77,8 Sardegna 1 7 8 12,5 87,5 Totale 40 59 99 40,4 59,6

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Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

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Lʼesame dei dati sopraindicati mette in luce che le Province interessate dal fenomeno sono 40 su un totale di 99 enti presi in considerazione. La popolazione residente, come risulta dalla tavola che segue, è pari al 44, 2% della popolazione nazionale. Il dato più elevato, in termini percentuali, a livello regionale è quello della Basilicata nella quale entrambe le Province sono interessate. A seguire Lazio e Toscana che vedono percentuali superiori allʼ80%. In termini assoluti il maggior numero di Province è concentrato in Lombardia ed Emilia Romagna (4 Province interessate). Tavola 10 I residenti nelle province che hanno strumenti derivati in essere (numero di residenti per regione)

Lombardia Veneto Friuli Liguria Emilia Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale

Con derivati 5.833.618 1.949.954 1.212.602 1.387.666 2.067.103 657.008 872.000 687.261 674.799 999.685 4.160.265 1.481.002 709.564 846.231 164.260 23.703.018

Residenti province Senza Con Totale derivati derivati 3.711.823 9.545.441 61,1 2.823.600 4.773.554 40,8 0 1.212.602 100,0 220.212 1.607.878 86,3 2.156.161 4.223.264 48,9 2.981.203 3.638.211 18,1 967 872.967 99,9 848.837 1.536.098 44,7 4.818.509 5.493.308 12,3 310.112 1.309.797 76,3 320.074 320.074 0,0 1.629.922 5.790.187 71,9 2.588.867 4.069.869 36,4 591.338 591.338 0,0 1.288.488 1.998.052 35,5 4.170.630 5.016.861 16,9 1.495.183 1.659.443 9,9 29.955.926 53.658.944 44,2

Senza derivati 38,9 59,2 0,0 13,7 51,1 81,9 0,1 55,3 87,7 23,7 100,0 28,1 63,6 100,0 64,5 83,1 90,1 55,8

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Altro elemento di significativo rilievo che emerge dai dati raccolti sino ad ora è una prima verifica, sia pure approssimativa, della situazione delle singole operazioni derivate. Nellʼambito del citato questionario sul bilancio di previsione 2008, trasmesso da tutti gli enti territoriali, sono contenute alcune notizie indicative sulla situazione del derivato e, in particolare, se lʼente, in base alle conoscenze al momento della predisposizione del bilancio, ipotizzava una perdita. La tavola che segue contiene lʼindicazione numerica e percentuale degli enti che ritengono che la situazione del prodotto sia negativa, raffrontata con quelli che ritengono di non avere perdite e con quelli che non hanno fornito dati. CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

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Tavola 11 Numero di comuni che ipotizzano una perdita per uno strumento derivato (distribuzione per regione) SI NO ND Totale SI Lombardia 42 51 93 45,2 Veneto 34 25 3 62 54,8 Friuli 20 7 1 28 71,4 Liguria 7 4 11 63,6 Emilia 18 3 35 56 32,1 Toscana 39 26 1 66 59,1 Umbria 25 2 8 35 71,4 Marche 26 10 36 72,2 Lazio 14 17 12 43 32,6 Abruzzo 16 13 2 31 51,6 Molise 2 3 5 40,0 Campania 31 29 6 66 47,0 Puglia 33 32 2 67 49,3 Basilicata 6 6 12 50,0 Calabria 26 14 6 46 56,5 Sicilia 32 23 3 58 55,2 Sardegna 16 6 22 72,7 Totale 387 271 79 737 52,5

NO 54,8 40,3 25,0 36,4 5,4 39,4 5,7 27,8 39,5 41,9 60,0 43,9 47,8 50,0 30,4 39,7 27,3 36,8

ND

0,0 4,8 3,6 0,0 62,5 1,5 22,9 0,0 27,9 6,5 0,0 9,1 3,0 0,0 13,0 5,2 0,0 10,7

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Lʼesame dei dati mette in luce che il 52,5% degli enti (387 su 737) ipotizza, (al momento della comunicazione alla Corte – luglio 2008) di subire una perdita a fronte del 36,8% che, al contrario, ritiene positiva la situazione dellʼoperazione e di un 10,7% di enti che non hanno fornito indicazioni. Si tratta di un dato significativo che denoterebbe che la maggior parte delle operazioni potrebbero rivelarsi negative. Emerge che la percentuale maggiore di enti che ipotizza perdite si trova nelle Regioni Sardegna (72,7%), Friuli Venezia-Giulia e Umbria (entrambe al 71,4%), Di particolare rilievo sono i dati riferiti alle classi di Comuni, contenuti nella tavola che segue.

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AUDIZIONE. UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Finanza locale e strumenti finanziari derivati

Tavola 12 Numero di comuni che ipotizzano una perdita per uno strumento derivato (distribuzione per dimensione del comune) SI NO ND Totale SI fino a 2000 46 24 12 82 56,1 2001-5000 95 67 19 181 52,5 500110000 88 65 15 168 52,4 1000150000 133 92 21 246 54,1 oltre 50000 25 23 12 60 41,7 totale 387 271 79 737 52,5

NO 29,3 37,0

ND Totale 14,6 100,0 10,5 100,0

38,7

8,9

100,0

37,4 38,3 36,8

8,5 20,0 10,7

100,0 100,0 100,0

La maggiore incidenza negativa è riscontrabile nelle operazioni concluse dagli enti con popolazione inferiore ai 2000 abitanti (56,1%) seguiti da quelli con popolazione compresa fra i 10001 e i 50000 abitanti (54,1%). I dati relativi alle singole aree geografiche sono contenuti nella tavola che segue. Tavola 13 Numero di comuni che ipotizzano una perdita per uno strumento derivato (distribuzione per area geografica di appartenenza del comune) SI NO ND Totale SI NordOvest 49 55 104 47,1 NordEst 72 35 39 146 49,3 Centro 104 55 21 180 57,8 Sud 162 126 19 307 52,8 Totale 387 271 79 737 52,5

NO 52,9 24,0 30,6 41,0 36,8

ND

0,0 26,7 11,7 6,2 10,7

Totale 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

Lʼincidenza negativa maggiore è rilevata negli enti siti al Centro, con una percentuale pari al 57,8%. Analoga verifica è stata compiuta in relazione alle Province. Lʼesame dei dati mette in luce che solamente il 20% degli enti (8 su 40) ipotizza di subire una perdita a fronte del 65% che, al contrario, ritiene positiva la situazione dellʼoperazione e di un 15% che non hanno fornito indicazioni. Si tratta di un dato significativo che denoterebbe che la maggior parte delle operazioni, al contrario di quelle concluse dai Comuni, potrebbero rivelarsi positive. Emerge che la percentuale maggiore di enti che ipotizza perdite si trova nelle Regioni Calabria e Marche.

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AUDIZIONE: UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Documenti e informazioni

Tavola 14 Numero di province che hanno derivati e che ipotizzano una perdita per uno strumento derivato (distribuzione per regione) SI NO ND Totale SI NO ND Totale Lombardia 3 1 4 0,0 75,0 25,0 100,0 Veneto 1 2 3 33,3 66,7 0,0 100,0 Friuli 4 4 0,0 100,0 0,0 100,0 Liguria 1 2 3 33,3 66,7 0,0 100,0 Emilia 1 3 4 0,0 25,0 75,0 100,0 Toscana 2 2 0,0 100,0 0,0 100,0 Umbria 1 1 2 50,0 0,0 50,0 100,0 Marche 1 1 2 50,0 50,0 0,0 100,0 Lazio 1 1 2 0,0 50,0 50,0 100,0 Abruzzo 1 2 3 33,3 66,7 0,0 100,0 Molise 0 Campania 1 1 2 50,0 50,0 0,0 100,0 Puglia 3 3 0,0 100,0 0,0 100,0 Basilicata 0 Calabria 2 1 3 66,7 33,3 0,0 100,0 Sicilia 2 2 0,0 100,0 0,0 100,0 Sardegna 1 1 0,0 100,0 0,0 100,0 Totale 8 26 6 40 20,0 65,0 15,0 100,0

La tavola che segue indica lʼammontare complessivo delle perdite che i Comuni ipotizzano in relazione alle operazioni di finanza derivata. Si tratta di dati ricavati da documenti redatti dai revisori dei conti degli enti, i quali hanno effettuato valutazioni non sorrette da metodologie comuni. In proposito appare opportuno che il documento che deve essere allegato al bilancio trovi supporto in indicazioni metodologiche che consentano una valutazione comune. Solamente lʼesame analitico di ciascuna posizione, seguendo una metodologia unitaria potrà consentire di accertare a consuntivo lʼeffettiva entità delle perdite.

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AUDIZIONE. UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Finanza locale e strumenti finanziari derivati

Tavola 15 Le perdite dei comuni per strumenti derivati: le somme ipotizzate (distribuzione per regione e dimensione del comune)

Lombardia Veneto Friuli Liguria Emilia Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale

fino a 2000

2001-5000

72 12 64 24 54 85 48 26 12 45

589 774 695 17 139 225 113 415

21 17 12 44 537

320 10 78 212 60 30 183 100 3.960

Dimensione dell'ente (residenti) 500110001-50000 oltre 50000 10000 214 2.713 3.378 198 969 7.925 145 1.429 550 0,00 402 25 453 315 388 2.173 2.173 68 532 221 3.223 320 69 7.050 96 14 392 888 30 123 858 19.469 240 1.861 3.200 80 53 392 642 68 241 418 257 180 452 3.178 23.217 38.490

(in migliaia) totale 6.965 9.878 2.333 994 987 5.043 760 4.204 7.228 1.659 40 20.548 5.531 194 1.145 1.143 732 69.383

Il totale delle perdite dovrebbe essere pari a circa 69 milioni di euro e la quota maggiore sembrerebbe allocata nelle Regioni Campania (circa 20 milioni di euro) e Veneto (circa 9,8 milioni di euro). Passando allʼesame dei dati relativi alle singole classi risulta che le perdite maggiori siano ipotizzate dagli enti di maggiori dimensioni (più di 38 milioni). Sia pure con le precisazioni di cui sopra in ordine alla natura dei dati, val la pena confrontare la complessiva situazione debitoria degli enti che prevedono di subire perdite in seguito allʼutilizzo degli strumenti finanziari derivati.

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AUDIZIONE: UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Documenti e informazioni

Tavola 16 La situazione debitoria al 31 dicembre 2007 dei comuni che prevedono di subire perdite per strumenti derivati (distribuzione per regione e dimensione del comune) (in migliaia) Dimensione dell'ente (residenti) fino a 2000 2001-5000 5001-10000 10001-50000 oltre 50000 totale Lombardia 13.631 16.126 54.199 176.311 114.806 375.072 Veneto 347 28.185 57.702 207.675 320.228 614.138 Friuli 18.965 35.060 28.086 88.848 170.959 Liguria 2.327 3.939 40.548 1.461.337 1.508.151 Emilia 6.548 24.461 10.219 156.533 314.246 512.008 Toscana 15.820 37.094 69.707 203.584 662.085 988.290 Umbria 5.168 12.168 12.588 122.527 152.450 Marche 2.042 40.299 55.802 240.202 170.281 508.626 Lazio 2.125 14.612 178.565 55.215 250.517 Abruzzo 8.377 11.957 18.033 55.393 174.633 268.393 Molise 1.584 6.001 7.586 Campania 1.693 13.000 24.324 109.273 262.977 411.267 Puglia 2.387 29.252 41.568 175.018 434.095 682.319 Basilicata 7.619 12.226 23.560 43.404 Calabria 1.720 9.465 45.707 105.846 121.454 284.192 Sicilia 1.148 20.971 27.865 93.963 25.859 169.806 Sardegna 12.434 17.525 104.802 134.761 Totale 82.299 303.615 536.712 2.042.098 4.117.216 7.081.940

Il debito complessivo degli enti che si trovano in questa situazione è pari a circa 7.000 milioni di euro ed è concentrato, in massima parte, negli enti con popolazione superiore ai 50.000 abitanti, seguiti da quelli con popolazione compresa fra i 10000 e i 50000. Lʼammontare complessivo del debito relativo agli enti minori è decisamente inferiore. La tavola che segue illustra lʼandamento percentuale delle perdite ipotizzate dai comuni con prodotti finanziari derivati in rapporto al debito.

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AUDIZIONE. UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Finanza locale e strumenti finanziari derivati

Tavola 17 Le perdite ipotizzate in rapporto al debito al 31 dicembre 2007 degli enti con perdite per strumenti derivati (distribuzione per regione e dimensione del comune) Dimensione dell'ente (residenti) fino a 2000 2001-5000 5001-10000 10001-50000 oltre 50000 totale Lombardia 0,53 3,65 0,39 1,54 2,94 1,86 Veneto 3,46 2,75 0,34 0,47 2,47 1,61 Friuli 0,33 1,98 0,52 1,61 1,36 Liguria 1,04 0,44 1,36 0,03 0,07 Emilia 0,83 0,57 0,24 0,29 0,10 0,19 Toscana 0,54 0,61 0,56 1,07 0,33 0,51 Umbria 0,94 0,93 0,54 0,43 0,50 Marche 1,27 1,03 0,40 1,34 0,19 0,83 Lazio 0,58 0,47 3,95 0,17 2,89 Abruzzo 0,54 2,67 0,08 0,71 0,51 0,62 Molise 0,63 0,50 0,53 Campania 1,24 0,60 0,51 0,78 7,40 5,00 Puglia 0,73 0,73 0,58 1,06 0,74 0,81 Basilicata 0,79 0,66 0,23 0,45 Calabria 0,70 0,32 0,86 0,61 0,06 0,40 Sicilia 3,83 0,87 0,87 0,44 0,99 0,67 Sardegna 0,80 1,03 0,43 0,54 Totale 0,65 1,30 0,59 1,14 0,93 0,98

Ferma restando la precedente valutazione in ordine alla necessità di procedere ad una verifica dei dati forniti dagli enti, il risultato sembrerebbe non essere estremamente negativo poiché la media nazionale delle perdite risulterebbe pari allo 0,98% del debito complessivo. Dalla tavola emerge, però, una situazione maggiormente critica nella Regione Campania nella quale le perdite ipotizzate sarebbero pari al 5% rispetto al debito, nella Regione Lazio dove il rapporto sarebbe pari al 2,89% e in Lombardia dove il rapporto si attesta sullʼ1,86%. Nellʼambito della classe di Comuni con popolazione inferiore ai 2000 abitanti il rapporto medio è pari allo 0,65%, inferiore a quello generale, ma vi sono due situazioni nelle quali il rapporto è più elevato (Sicilia con il 3,83% e Veneto con il 3,46%). La tavola che segue contiene lʼindicazione della ripartizione per aree territoriali che vede gli importi maggiori delle perdite concentrati nel Sud (30 milioni su un totale di 69 milioni).

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AUDIZIONE: UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Documenti e informazioni

Tavola 18 Le perdite dei comuni per strumenti derivati: le somme ipotizzate (distribuzione per area territoriale e dimensione del comune) (in migliaia) Dimensione dell'ente (residenti) fino a 2000 2001-5000 5001-10000 10001-50000 oltre 50000 totale NordOvest NordEst Centro Sud Totale

97 130 171 140 537

606 1.609 753 993 3.960

764 368 745 1.301 3.178

2.713 2.851 12.978 4.675 23.217

3.780 8.240 2.589 23.882 38.490

7.959 13.197 17.235 30.991 69.383

La tavola che segue indica lʼammontare complessivo del debito dei Comuni che ipotizzano perdite, suddiviso per aree territoriali. Tavola 19 La situazione debitoria al 31 dicembre 2007 dei comuni che hanno quantificato la perdita che prevedono di subire da strumenti derivati (distribuzione per area territoriale e dimensione del comune) (in migliaia) Dimensione dell'ente (residenti) fino a 2000 2001-5000 5001-10000 10001-50000 oltre 50000 totale NordOvest NordEst Centro Sud Totale

15.958 25.860 25.156 15.325 82.299

20.064 87.707 89.562 106.283 303.615

94.748 96.006 152.709 193.249 536.712

176.311 453.056 744.877 667.854 2.042.098

1.576.143 634.475 887.581 1.019.017 4.117.216

1.883.224 1.297.105 1.899.884 2.001.728 7.081.940

La popolazione residente nei Comuni che ipotizzano una perdita è pari a 6.312.984 abitanti, come risulta dalla tavola che segue. Tavola 20 Residenti nei comuni che hanno quantificato la perdita che prevedono di subire da strumenti derivati (distribuzione per area territoriale e dimensione del comune) Dimensione dell'ente (residenti) fino a 2000 2001-5000 5001-10000 10001-50000 oltre 50000 totale NordOvest NordEst Centro Sud Totale

10.308 9.837 16.175 11.933 48.253

16.490 60.043 77.744 119.566 273.843

74.036 79.697 130.685 255.857 540.275

199.914 420.287 604.232 993.655 2.218.088

867.808 766.113 681.466 917.138 3.232.525

1.168.556 1.335.977 1.510.302 2.298.149 6.312.984

Considerata la popolazione residente e la perdita ipotizzata può determinarsi, sia pure in via approssimativa, lʼammontare medio della perdita per ogni abitante residente nei comuni interessati che è pari ad 11 euro, come risulta dalla tavola che segue.

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AUDIZIONE. UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

Finanza locale e strumenti finanziari derivati

Lʼammontare medio maggiore è riscontrabile nei comuni compresi nella classe fra 2001 e 5000 abitanti e 14,5 euro quello meno elevato nei comuni con popolazione compresa fra i 5001 e i 10000 abitanti (5,9 euro). La tavola che segue contiene gli stessi dati riferiti alle diverse aree territoriali. Tavola 21 Perdita per residente nei comuni che hanno quantificato la perdita che prevedono di subire da strumenti derivati (distribuzione per area territoriale e dimensione del comune) Dimensione dell'ente (residenti) fino a 2000 2001-5000 5001-10000 10001-50000 oltre 50000 totale NordOvest NordEst Centro Sud Totale

9,4 13,2 10,6 11,7 11,1

36,8 26,8 9,7 8,3 14,5

10,3 4,6 5,7 5,1 5,9

13,6 6,8 21,5 4,7 10,5

4,4 10,8 3,8 26,0 11,9

6,8 9,9 11,4 13,5 11,0

Le Tavole che seguono contengono alcune indicazioni in ordine al complessivo debito dei Comuni con prodotti finanziari derivati, alla loro distribuzione territoriale ed allʼimporto procapite dello stesso. Tavola 22 Il debito dei comuni con derivati (importo pro capite – 2006) (distribuzione per area territoriale e dimensione del comune) Dimensione dell'ente (residenti) fino a 2000 2001-5000 5001-10000 10001-50000 NordOvest 32.852 89.902 236.679 540.135 NordEst 44.644 162.092 220.023 906.211 Centro 54.928 171.865 286.603 1.647.405 Sud 34.789 220.329 421.628 1.549.295 Totale 167.213 644.188 1.164.933 4.643.046

oltre 50000 5.338.526 2.172.552 8.692.571 4.233.996 20.437.644

totale 6.238.093 3.505.522 10.853.373 6.460.037 27.057.025

Tavola 23 Il debito dei comuni con derivati (importo pro capite – 2006) (distribuzione per area territoriale e dimensione del comune) Dimensione dell'ente (residenti) fino a 2000 2001-5000 5001-10000 10001-50000 NordOvest 1.616 1.134 1.190 924 NordEst 2.125 1.220 1.039 1.036 Centro 1.824 1.205 1.079 1.142 Sud 1.155 798 773 668 Totale 1.646 1.021 954 889

oltre 50000 2.391 1.270 1.996 1.176 1.717

totale 2.002 1.188 1.740 954 1.418

CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

(in migliaia)

Audizione 2009

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AUDIZIONE: UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI Documenti e informazioni

Tavola 24 Il debito dei comuni con derivati (importo pro capite – 2006) fino a 2000 1.593 305 2.712 1.963 1.798 2.105 1.100 2.797 1.760 1.380 1.237 1.851 1.000

Lombardia Veneto Friuli Liguria Emilia Toscana Umbria Marche Lazio Abruzzo Molise Campania Puglia Basilicata Calabria Sicilia Sardegna Totale

685 1.518 1.646

2001-5000 1.133 1.226 1.131 1.164 1.270 1.455 871 1.087 1.306 816 518 891 680 983 1.070 711 618 1.021

Dimensione dell'ente (residenti) 5001-10000 10001-50000 990 863 940 952 1.218 1.199 2.969 1.546 1.142 1.153 1.180 1.364 1.080 1.240 1.299 1.172 815 982 1.615 1.246 945 891 662 627 608 955 1.173 852 716 506 427 712 993 954 889

LA VERIFICA DELLE SINGOLE OPERAZIONI:

oltre 50000 2.579 1.900 1.399 2.031 900 1.315 1.144 1.702 2.333 1.226 1.305 1.193 1.085 1.145 383 1.717

PRINCIPALI

totale 1.995 1.393 1.330 2.020 979 1.331 1.153 1.291 2.064 1.242 732 1.077 862 1.047 937 853 655 1.418

QUESTIONI

RILEVATE L'esame delle singole operazioni da parte delle Sezioni regionali ha permesso di evidenziare numerosi questioni ricorrenti che si affacciano nella più parte delle operazioni e che, in molti casi, sono idonee ad incidere negativamente sulla complessiva gestione amministrativa o finanziaria dell'ente. Di seguito, si indicheranno i principali problemi riscontrati, anche al fine di porre rimedio, ove ritenuto necessario con uno specifico intervento legislativo. Lʼobbligo di scelta del contraente tramite procedura selettiva In alcuni casi gli enti hanno concluso queste operazioni finanziarie senza ricorrere ad alcune procedura selettiva ma hanno individuato direttamente lʼintermediario finanziario. Lʼattività negoziale dellʼente territoriale deve avvenire secondo le regole della contabilità pubblica che disciplinano lo svolgimento dei compiti propri dellʼente che utilizza risorse della collettività. Lʼutilizzo delle risorse non può essere lasciato alla mera discrezionalità degli amministratori o dei funzionari dellʼente, ma deve avvenire secondo criteri che garantiscano il 34 174

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buon andamento dellʼattività amministrativa (art. 97 Cost.), in condizione di parità di trattamento e non discriminazione (art. 3 Cost.). Conseguentemente, anche a prescindere dalla normativa sui contratti pubblici che detta regole, prevalentemente, in relazione ad aspetti inerenti il diritto comunitario, la disciplina relativa alla contabilità pubblica, che è cogente per tutti gli enti pubblici, impone che la scelta di qualsiasi contraente, e quindi anche degli intermediari finanziari con i quali si vogliono negoziare operazioni di carattere finanziario, avvenga per il tramite di procedure selettive di natura concorsuale. In particolare, ove lʼente intenda procedere ad una operazione di ristrutturazione del debito deve individuare le principali caratteristiche e le modalità attuative dellʼoperazione che intende effettuare e poi dar corso alla gara per selezionare la migliore offerta in relazione non solo allo specifico scopo che intende raggiungere ma anche alle modalità che intende seguire. Advisor e operatore finanziario Un'altra questione che ha sollevato numerosi problemi riguarda l'equivoco intorno alla figura ed al ruolo dell'advisor finanziario. Qualora lʼente non disponga al suo interno di adeguate conoscenze in ordine ai mercati finanziari ed alle possibili modalità di svolgimento di operazioni finanziarie particolarmente complesse, anche in relazione alle finalità che intende perseguire, è opportuno che proceda alla selezione, mediante procedura ad evidenza pubblica, di un advisor dotato di particolare competenza finanziaria che, esaminata la situazione dellʼente e lʼobiettivo che intende raggiungere, predisponga il progetto dellʼoperazione finanziaria. Solamente a seguito dellʼesame e dellʼapprovazione di questo progetto da parte degli organi dellʼente territoriale, questʼultimo potrà procedere alla gara per la scelta dellʼintermediario finanziario con il quale concludere lʼoperazione. Considerata la sicura competenza in materia finanziaria dellʼintermediario finanziario con il quale lʼente intende concludere lʼoperazione e la particolare natura ed entità degli interessi in gioco occorre che la posizione dellʼadvisor e quella dellʼoperatore finanziario vengano distinte nettamente, anche al fine di evitare possibili conflitti di interesse. In questo contesto, sicuramente non risponde alla sana gestione finanziaria dellʼente la scelta di un advisor che studi e predisponga uno specifico intervento e che poi venga incaricato di realizzare lʼoperazione, come è stato rilevato in alcune occasioni.

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Peraltro, si è rilevato che enti che avevano proceduto a stipulare contratti a seguito di analisi svolte da advisor indipendenti, vale a dire non collegati con l'intermediario finanziario, risultavano avere meno problemi di molti altri enti. La procedura amministrativa La disciplina speciale introdotta dal legislatore in ordine alla possibilità per gli enti territoriali di concludere contratti relativi a strumenti finanziari derivati non contiene alcuna indicazione in merito a quali siano gli organi dellʼente che debbono intervenire nella procedura che conduce alla conclusione del contratto. Si applicano, quindi, le ordinarie regole poste dal Testo unico sugli enti locali, riferite alle competenze di ciascun organo 24 . Anche la fine di delineare lʼambito di intervento di ciascun organo occorre richiamare quanto già specificato in precedenza in relazione alla circostanza che questi contratti impegnano lʼattività e le risorse dellʼente per molti anni, ponendo vincoli sullʼutilizzo delle risorse future. Conseguentemente, un ruolo centrale è riservato al Consiglio comunale, organo esponenziale della popolazione di riferimento dellʼente, che è lʼunico soggetto che può valutare lʼopportunità e la convenienza di porre vincoli allʼutilizzo delle risorse future. A seguito di specifico indirizzo del Consiglio, o in preparazione ed elaborazione di proposte che il Consiglio dovrà esaminare, la Giunta Comunale deve indicare in modo analitico gli indirizzi operativi che devono condurre alla conclusione dellʼoperazione da parte del Dirigente responsabile 25 . Al Dirigente preposto al settore di riferimento, nel caso quello dei Servizi finanziari, il Testo unico riserva ampi poteri di gestione, sempre, però, nel rispetto degli indirizzi stabiliti dalla Giunta comunale 26 , e quindi, in particolare, la conclusione e lʼesecuzione dellʼoperazione è di competenza del Dirigente responsabile dei Servizi Finanziari. La particolare complessità di questo tipo di operazioni, anche in relazione ai rischi finanziari che lʼente potrebbe accollarsi dovrebbe indurre ciascun ente a disciplinare in modo preciso e puntuale nel regolamento di contabilità le competenze di ciascun organo in relazione alla conclusione delle operazioni di ristrutturazione del debito mediante lʼutilizzo di strumenti

24 Si tratta delle disposizioni contenute nel d.lgs. 6 agosto 2000, n. 267, allʼart. 42 relativo alle competenze del Consiglio comunale, allʼart. 48 relativo a quelle della Giunta e allʼart. 107 relativo a quelle del Dirigente. 25 Art. 48 del TUEL. 26 Art. 107 del TUEL.

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derivati, fermo restando il necessario coinvolgimento dei diversi organi, sia in relazione alle loro competenze previste dal Testo Unico che al vincolo di rappresentatività della collettività. La predetta conclusione implica, altresì, che anche ogni successiva modifica od integrazione dellʼoperazione finanziaria debba essere effettuata rispettando la previsione originaria, coinvolgendo, in relazione agli ambiti di rispettiva competenza, sia il Consiglio comunale che la Giunta comunale e non il solo Responsabile dei Servizi Finanziari. A questo proposito val la pena sottolineare che il Dirigente responsabile può procedere, senza bisogno di alcuno specifico indirizzo da parte della Giunta comunale, solo ad aggiustamenti o integrazioni che non comportino una modifica sostanziale dellʼoperazione. Qualora la modifica abbia carattere sostanziale, come avviene, ad esempio, ove vengano cambiate le curve dei tassi applicati nel contratto, disposto lʼallungamento del periodo contrattuale ovvero assunti nuovi obblighi a carico dellʼente territoriale, non può essere decisa dal solo Responsabile dei Servizi finanziari, ma, previa sollecitazione da parte di questʼultimo, deve essere valutata, a seconda dei casi, dal Consiglio e/o dalla Giunta comunale. Sottoposizione del contratto ad una legge e ad una giurisdizione diversa da quella italiana In alcuni casi si è riscontrato che il rapporto contrattuale era regolato da una legge e da una giurisdizione diversa da quella italiana (inglese). Oltre a possibili problemi di diritto internazionale privato 27 , una simile clausola suscita perplessità in ordine alle ricadute che può avere sulla gestione finanziaria dellʼente. Infatti, la previsione che lʼintera operazione venga regolata da una legge diversa da quella italiana implica una specifica conoscenza da parte dellʼente pubblico di quella particolare legislazione nonché della giurisprudenza di quel paese in forza della quale possono essere fatti valere diritti e obblighi della parte contraente, e addirittura, essere interpretato il contenuto delle clausole contenute nel regolamento contrattuale. Oltretutto, si pongono delicati problemi in ordine alla applicabilità delle forme di tutela previste dalla legislazione italiana in favore degli investitori finanziari e agli obblighi che fanno carico agli intermediari finanziari, previsti dal Testo Unico in materia finanziaria. Senza trascurare che ove si profilasse un contenzioso fra le parti, l'ente pubblico non potrebbe adire la giustizia italiana, ma dovrebbe adire i giudici di un altro Paese, con conseguenti maggiori oneri, oltre che difficoltà di conoscenza della legislazione sia sostanziale che processuale.

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In relazione alla giurisdizione vale la previsione contenuta nellʼart. 4 della legge 31 maggio 1995, n. 218.

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Delegazione di pagamento o clausola simile Una delle clausole contenuta in moltissimi contratti prevede il rilascio da parte dell'ente pubblico di una specifica forma di garanzia in favore dell'intermediario finanziario riconducibile, nelle sue diverse formulazioni, alla delegazione di pagamento, disciplinata dall'art. 206 TUEL, che prevede in modo tassativo, attesa lʼeccezionalità dellʼistituto, che la delegazione di pagamento possa essere rilasciata solo in relazione ad alcune specifiche operazioni di indebitamento. Si tratta di una forma di garanzia pretesa in modo indebito da alcuni intermediari finanziari poiché, così come ha rilevato anche il Ministero dellʼEconomia 28 , non solo le operazioni di finanza derivata non rientrano in modo diretto fra quelle previste dallʼart. 206, ma trattandosi di un rapporto nel quale gli esborsi dell'ente pubblico sono eventuali, lʼente dovrà procedere al pagamento come in ogni ordinaria operazione contrattuale. La comunicazione delle operazioni al Ministero dellʼEconomia e delle finanze A seguito della riforma del Titolo V, parte seconda della Costituzione sono venuti meno i poteri di controllo sullʼattività dei Comuni affidati ad organi amministrativi di altri soggetti che concorrono a comporre la Repubblica, quali, in particolare lo Stato e le Regioni. Tuttavia, in considerazione della particolare natura di alcune attività quali quelle finanziarie, sono state introdotte nuove tipologie di verifica intese ad evitare comportamenti degli enti territoriali in palese violazione della normativa, che si rivelerebbero dannosi non solo per lʼente ma per la stessa comunità nazionale. In questo contesto, anche in relazione alla specificità degli strumenti finanziari derivati è stato previsto un sistema di monitoraggio che, senza intaccare lʼautonomia degli enti territoriali, eviti che vengano conclusi contratti in violazione della normativa che ne disciplina lʼutilizzo. Eʼ stato previsto, quindi, un progressivo ruolo di verifica in capo al Ministero dellʼEconomia e delle finanze al quale deve essere data comunicazione di tutte le operazioni che si riferiscono a strumenti finanziari derivati. La potestà attribuita al Ministero dellʼEconomia non riguarda il merito dellʼoperazione finanziaria né lʼesame delle singole clausole contrattuali o il rapporto che la stessa può avere in relazione alla sana gestione finanziaria dellʼente, ma solo lʼastratta conformità dellʼoperazione al modello normativo. Infatti, ove riscontri che la stessa non corrisponde, da un punto di vista

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Circolare 22 giugno 2007, in G.U. n.151 del 2 luglio 2007

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formale, alla mera previsione legislativa deve inviare apposita segnalazione alla Corte dei conti 29 . In base ai documenti acquisiti ed alle operazioni esaminate dalle Sezioni di controllo risulta che gli enti territoriali, fatte salve limitate eccezioni, abbiano adempiuto allʼobbligo di effettuare la comunicazione al Ministero dellʼEconomia e delle finanze, sia in relazione alle operazioni originarie che alle successive modifiche. La rinegoziazione del contratto e le procedure amministrative seguite dagli enti Una delle questioni da considerare con particolare attenzione è data dalla rinegoziazione del contratto originario che comporta le conclusioni di un nuovo contratto e, conseguentemente implica che lʼente segua in modo preciso le stesse procedure adottate per la conclusione del primo contratto. Occorre mettere in luce, sotto un diverso profilo, che la rinegoziazione delle clausole contrattuali dopo un breve periodo di esecuzione del rapporto, come è avvenuto molte volte, mette in luce che vi era stata una insufficiente analisi delle caratteristiche finanziarie e giuridiche del contratto al momento della conclusione del rapporto originario. Ancora. Lʼassorbimento del valore negativo relativo al precedente contratto nel nuovo rapporto impedisce di far emergere con chiarezza il debito del Comune che, quindi, viene regolato extrabilancio commettendo una grave irregolarità. Lʼallocazione in bilancio dei flussi derivanti dal contratto Altro aspetto significativo che è stato oggetto di esame ed analisi da parte della magistratura contabile è dato dalla classificazione nel bilancio dell'ente dei flussi differenziali che maturano periodicamente in favore dell'una o dell'altra parte. La somma in questione che non solo non è certa ma, a seconda dellʼandamento del mercato, può essere positiva o negativa, ha natura di plusvalenza ove maturi in favore dellʼente territoriale, ovvero di minusvalenza ove maturi in favore dellʼoperatore finanziario. Di conseguenza, ogni anno in sede di approvazione del bilancio di previsione lʼente deve valutare quale sia lʼandamento presumibile dellʼoperazione nel corso dellʼesercizio ed indicare, in entrata o in uscita, le somme che prevede di incassare o di versare allʼintermediario finanziario.

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Si tratta in particolare, della previsione contenuta nel comma 737, dellʼart. 1, della legge finanziaria per il 2007, ripreso ed ampliato dal comma 383, dellʼart. 1 della legge finanziaria per il 2008 e, da ultimo, dall'art. 62 …......... . CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

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La classificazione nella contabilità degli enti territoriali dei flussi finanziari positivi presenta alcune incertezze che, nel corso degli ultimi anni, hanno dato vita a prassi diversificate, giustificate anche dalla circostanza che al momento della predisposizione dellʼattuale modello di bilancio i Comuni e le Province non potevano ancora ricorrere a questa tipologia di contratti. In mancanza della previsione di una specifica collocazione è necessario individuare la loro natura e procedere alla allocazione nel Titolo e nella Categoria che presenti le caratteristiche più omogenee con quelle dei flussi in questione. Gli enti territoriali possono stipulare contratti di swap di tasso di interesse con la sola finalità di copertura della loro esposizione debitoria dalla possibile variazione del mercato dei tassi di interesse e, conseguentemente, i flussi positivi che maturino in loro favore non sono proventi che possono essere utilizzati senza vincolo alcuno ma sono risorse che, in relazione alla natura del contratto, hanno natura straordinaria e peculiare, correlata allʼindebitamento. Anche a salvaguardia degli equilibri di bilancio, la particolarità di questa risorsa impone un comportamento prudente che dovrebbe indurre gli enti a destinare i flussi positivi a spese di investimento ovvero ad accantonarli e vincolarli in relazione al futuro possibile, e in moltissimi casi certo, pagamento di flussi negativi allʼintermediario finanziario. Tuttalpiù, ove lʼente, a seguito di una specifica analisi finanziaria, ritenga di non dover corrispondere, neppure in futuro, alcun flusso allʼintermediario finanziario i proventi positivi potranno essere destinati al pagamento dei maggiori interessi che maturano sul debito nozionale. In relazione alle considerazioni svolte sopra, la Sezione, sinora, ha ritenuto e ritiene tuttora che la allocazione in bilancio che risponde meglio ai principi di sana gestione finanziaria sia quella dellʼinserimento di una specifica posta da imputare al TIT. IV. Tuttavia, la mancanza di una specifica previsione nellʼambito dellʼodierna classificazione di bilancio e la presenza di indicazioni parzialmente contrastanti allʼinterno dellʼordinamento (codici di classificazione SIOPE) mette in luce che sia da ritenere ammissibile procedere ad una diversa classificazione che preveda lʼinserimento dei flussi in questione nellʼambito del Titolo III, purchè lʼente che proceda in questo modo adotti una rigorosa politica nellʼutilizzo di questi peculiari proventi, facendoli confluire, come si è detto sopra, nellʼavanzo di amministrazione vincolato al pagamento dei futuri flussi negativi ovvero destinandoli, a seguito di una rigorosa analisi finanziaria in ordine al futuro andamento positivo del contratto, al pagamento esclusivo degli interessi relativi al debito nozionale. Ove, al contrario, lʼente ritenga di dover affrontare degli esborsi, considerata la natura della minusvalenza, in uscita dovrà essere previsto un apposito stanziamento, da imputare al TIT. I, spese correnti. 40 180

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La convenienza economica dellʼoperazione Uno degli aspetti più delicati in ordine alle attività di controllo nella materia in questione riguarda l'accertamento della convenienza economica che deve essere valutata in relazione alle conoscenze e cognizioni acquisite dalle parti al momento della conclusione del contratto. Sul punto le singole Sezioni hanno avviato analisi dirette a fornire elementi utili agli enti interessati. Al riguardo occorre rilevare che unʼanalisi completa degli aspetti finanziari non può prescindere dalla verifica delle curve forward dei tassi di interesse che sicuramente lʼintermediario finanziario ha attentamente valutato prima di addivenire alla conclusione del contratto. Al contrario, risulta che solamente in pochi casi gli enti abbiano effettuato analisi di questo tipo e si tratta, sicuramente, di unʼomissione grave. Il Mark to market Nellʼambito dellʼesame dei prodotti finanziari derivati una sempre maggiore attenzione è riservata al mark to market ed alle sue evoluzioni, come si è potuto rilevare anche negli ultimi mesi nei quali la crisi finanziaria internazionale ha portato al centro dell'attenzione le questioni inerenti l'utilizzo del MTM in relazione ai prodotti finanziari. Come noto, non si tratta della indicazione di un vero e proprio valore del contratto, ma del valore atteso in base allʼevoluzione del mercato che tiene conto della particolare struttura di ciascun contratto, valutata in relazione allʼevoluzione del mercato finanziario dei tassi di interesse. Non rappresenta, quindi, un valore assoluto, ma una valutazione che muta ad ogni variazione, anche giornaliera, del mercato e che viene calcolato

in base alle attese

sullʼevoluzione dei tassi di interesse in relazione alla struttura contrattuale. Il calcolo contiene, ovviamente, elevati margini di aleatorietà, ma le strutture contrattuali complesse che contengono opzioni e soglie minime di pagamento a carico dellʼente (floor) in relazione a tassi fissi a carico dellʼintermediario finanziario permettono di individuare precise linee di tendenza del contratto. Al fine di valutare gli impegni che potenzialmente lʼente dovrà sostenere in relazione al contratto è opportuno che vi sia un monitoraggio costante del mark to market e che le decisioni, anche di costruzione dei bilanci di previsione dellʼente, siano assunte tenendo conto della potenziale passività e delle conseguenti risorse necessarie per farvi fronte.

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Lʼanticipazione (upfront): classificazione ed utilizzazione In numerosi contratti risulta previsto che lʼoperatore finanziario versi all'ente pubblico un importo, quale anticipazione attualizzata degli interessi in seguito dovuti allʼente pubblico (le verifiche compiute mettono in luce che nella maggior parte dei casi i limiti posti dalle discipline vigenti sono stati rispettati). Tuttavia, occorre rilevare che la previsione dellʼerogazione di tale importo che, se non integralmente, per lo meno in parte dovrà essere restituito allʼoperatore finanziario in sede di regolazione dei rispettivi flussi configura un finanziamento allʼente che, pertanto, sia nellʼutilizzo che nella classificazione in bilancio deve tenere conto del disposto dellʼart. 119 Cost. Si tratta di una forma di indebitamento la cui regolazione è demandata ad elementi futuri, incerti nella loro dimensione finanziaria, che, comunque, dovranno essere tenuti presenti al momento di allocare in bilancio i proventi derivanti da eventuali plusvalenze. Pertanto, questo importo non può essere utilizzato per finanziare la spesa corrente ma solo per quella di investimento, peraltro previa costituzione di un apposito fondo per far fronte agli eventuali pagamenti che lʼente potrebbe essere tenuto ad effettuare in favore dellʼintermediario finanziario, ove la situazione dei tassi evolvesse negativamente per lʼente. A questo proposito, in più occasioni, la Corte dei Conti ha rilevato che lʼupfront deve essere ricondotto ad “...una di quelle forme di ricorso al mercato finanziario previste dallʼart. 199, lett. g), del T.U. 267/2000 a sostegno degli investimenti, la quale richiede il rispetto delle medesime condizioni e vincoli stabiliti per ogni forma di ricorso a indebitamento”, dovendosi escludere la destinazione del relativo importo a copertura di spese correnti. In particolare, è stato rilevato che lʼanticipazione, anche se limitata allʼ1% del nozionale, “non manca di destare perplessità; la quale, non tanto intende appuntarsi sui contratti swap precedenti la circolare del maggio scorso, anche se, va pur detto, gli upfront hanno generalmente superato il predetto limite, toccando anche il 9% del nozionale e hanno trovato frequente applicazione in operazioni diverse da quelle di ristrutturazione. Lʼaspetto che, a partire da oggi, maggiormente interessa è quello di corretto inquadramento e di esatta qualificazione dello strumento. Il premio di liquidità si risolve infatti in un anticipato versamento di fondi che sconta lʼattualizzazione sui relativi tassi contrattuali a carico della controparte oppure si ripercuote sullo spread. Sostanzialmente, seppure incorporata in uno swap, si tratta di operazione analoga alla contrazione di un mutuo, laddove la sua concessione comporta un tasso o uno spread che attualizza il premio corrisposto in via anticipata dalla banca allʼente”. Secondo la Corte, trattasi dunque di una di quelle “forme di ricorso al mercato 42 182

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finanziario previste dallʼart. 199, lett. g) del T.U. 267/2000 a sostegno degli investimenti, la quale richiede il rispetto delle medesime condizione e vincoli stabiliti per ogni forma di ricorso a indebitamento. Da escludere perciò la sua destinazione a spesa corrente” 30 . A livello di bilancio dellʼente lʼanticipazione deve essere allocata al Titolo IV, quale forma atipica di indebitamento, come risulta stabilito anche dai Principi contabili stabiliti dallʼOsservatorio per la finanza e la contabilità degli enti locali del Ministero dellʼInterno. La qualifica di operatore specializzato. Altra questione estremamente delicata riguarda la dichiarazione che numerosi enti territoriali hanno reso in sede contrattuale, dichiarando di possedere una specifica competenza in materia finanziaria. Al riguardo val la pena sottolineare che, normalmente, gli strumenti finanziari derivati vengono negoziati tra un intermediario finanziario ed un soggetto che può avere o meno la qualifica di “operatore qualificato” (o professionale). La disciplina normativa relativa ai servizi finanziari 31 prevede un diverso grado di applicazione in relazione alla sussistenza o meno della qualifica di operatore professionale, con differenti livelli di informazione e cautele che debbono essere attuate dallʼoperatore finanziario che tratta con i soggetti non qualificati. In questʼultimo caso, lʼoperatore finanziario è tenuto ad effettuare alcuni adempimenti informativi previsti dal TUF e dal regolamento intermediari. Se lʼoperatore è qualificato, lʼintermediario finanziario non è tenuto allʼosservanza di questi obblighi 32 . Conseguentemente, la questione che si pone è quella di decidere quale valore assuma la dichiarazione resa dal funzionario dellʼente, posto che la giurisprudenza civile, chiamata ad occuparsi di vicende inerenti i rapporti tra intermediari finanziari e piccoli imprenditori, non è 30

Rapporto al Senato della Repubblica - Commissione Programmazione economica, Bilancio - del novembre 2004 Il riferimento è agli artt. 21 e seguenti del TUF e al Regolamento attuativo sugli intermediari, approvato dalla CONSOB con la delibera n. 11522 del 1998. 32 La norma dispone che 1. A eccezione di quanto previsto da specifiche disposizione di legge e salvo diverso accordo tra le parti, nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 27, 28, 29, 30, comma 1,fatta eccezione per il servizio di gestione, e commi 2 e 3, 32, commi 3, 4 e 5, 37, fatta eccezione per il comma 1, lettera d), 38, 39, 40,41, 42, 43, comma 5, lettera b), comma 6, primo periodo e comma 7, lettere b) e c), 44, 45, 47, comma 1, 60, 61 e 62. 2. Per operatori qualificati si intendono gli intermediari autorizzati, le società di gestione del risparmio, le SICAV, i fondi pensione, le compagnie di assicurazioni, i soggetti esteri che svolgono in forza della normativa in vigore nel proprio stato dʼorigine le attività svolte dai soggetti di cui sopra, le società e gli enti emittenti strumenti finanziari negoziati in mercati regolamentati, le società iscritte negli elenchi di cui agli articoli 106, 107 e 113 del decreto legislativo I° settembre 1993, n. 385, i promotori finanziari, le persone fisiche che documentino il possesso dei requisiti di professionalità stabiliti dal Testo Unico per i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso società di intermediazione immobiliare, le fondazioni bancarie, nonché ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni di strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante. 31

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giunta a conclusioni univoche, ritenendo che non possa sottacersi “lʼindubbio limite di una siffatta disposizione normativa nella parte in cui affida ad una dichiarazione autoreferenziale la individuazione di un “operatore qualificato”, soprattutto ove si consideri che da tale qualificazione discendono conseguenze rilevantissime sul piano delle norme di protezione dellʼinvestitore”: (Trib. Milano, VI, 2 aprile 2004). Nessuna pronuncia risulta essere stata resa sinora in relazione alle operazioni finanziarie concluse dagli enti locali. In questo caso la situazione si presenta ancora più complessa perché la dichiarazione non è resa dal legale rappresentante ma dal funzionario preposto ai servizi finanziari che può impegnare lʼente in relazione al singolo contratto, ma non può attestare che lʼente abbia o meno la competenza richiesta dalla norma. Al di là del rischio che si assume colui che dichiara di possedere la specifica competenza in materia finanziaria, è evidente che il profilo in questione non può essere esaminato nel merito in questa sede, ma sicuramente sussistono dubbi in ordine alla validità di siffatta clausola, in assenza della prova dellʼeffettiva competenza di chi ha concluso il contratto e, più in generale, dellʼente stesso. Questa conclusione risulta avvalorata dal recente provvedimento legislativo con il quale è stata recepita nellʼordinamento italiano la cd. Direttiva europea MIFID nel quale è stato espressamente previsto che il Ministero dellʼEconomia individui con apposito regolamento i requisiti di competenza che debbono possedere gli enti territoriali al fine di essere considerati “operatori qualificati” 33 . c Recesso anticipato del Comune e Costo di sostituzione

Nei contratti di finanza derivata agli enti pubblici è accordata la facoltà di recedere anticipatamente, previo pagamento di un Costo di sostituzione, la cui determinazione è rimessa allʼazienda di credito, senza lʼindividuazione di precisi parametri, salvo un generico riferimento a criteri di oggettività. La clausola, considerata la natura del contratto, la lunga durata dello stesso e la particolare qualità dellʼente pubblico presenta profili di criticità poiché dovrebbero essere previsti precisi parametri precisi. Eʼ ben vero che si tratta dellʼapplicazione di attualizzazione dei flussi finanziari attesi in relazione alle variazioni dei tassi, ma stante lʼaleatorietà dei mercati

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Art. 2 del d. lgs. 17 settembre 2007 n. 164.

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finanziari e la natura dellʼente pubblico sarebbe necessario che risultassero chiaramente determinati limiti minimi e massimi. La clausola, considerata la natura del contratto, la lunga durata dello stesso e la particolare qualità dellʼente pubblico presenta profili di criticità poiché dovrebbero essere previsti precisi parametri precisi. Eʼ ben vero che si tratta dellʼapplicazione di attualizzazione dei flussi finanziari attesi in relazione alle variazioni dei tassi, ma stante lʼaleatorietà dei mercati finanziari e la natura dellʼente pubblico dovrebbero risultare chiaramente determinati in sede contrattuale sia i limiti minimi che quelli massimi dell'eventuale costo che l'ente è tenuto a sopportare in caso di anticipato scioglimento del contratto. E proprio in questa situazione nella quale si vengono a trovare numerosi enti che hanno deciso in questi mesi di recedere anticipatamente ed hanno versato agli intermediari finanziari l'importo richiesto da questi ultimi, senza che venissero esplicitati i parametri utilizzati dall'intermediario per calcolare il valore del costo di sostituzione. E' ben vero che, in molti casi, la complessiva operazione porta un saldo positivo in favore dell'ente, ma quest'ultimo, a causa dell'assenza di specifiche valutazioni finanziarie effettuate in modo indipendente non è in grado di stabilire se il valore del costo di recesso sia stato equo.

Le indagini della Corte dei Conti sui risultati della capitolarizzazione di attivi pubblici 1999-2005

Lʼindagine sulle cartolarizzazioni era stata a suo tempo programmata perché la Corte nutriva una duplice preoccupazione. La prima preoccupazione era che lʼesigenza di correggere lʼandamento dei conti pubblici entro scadenze rigide potesse indurre ad allentare il controllo sulla regolarità e sulla convenienza economica delle singole operazioni. La seconda era che le carenze gestionali dellʼAmministrazione potessero portare a trasferire di fatto ai contractors anche le decisioni di policy ed il controllo dei risultati.

Lʼindagine si proponeva di verificare a consuntivo: - Quali degli obiettivi dichiarati fossero stati realmente perseguiti; - la misura in cui gli obiettivi stessi fossero stati conseguiti; CORTE CONTI di governance - la DEI capacità Sezioni riunite in sede di controllo

amministrative responsabili;

Audizione dei processi concretamente dimostrata dalle strutture 45 2009

- la fondatezza dei rischi ipotizzati e lʼadeguatezza delle misure di prevenzione adottate.

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Lʼindagine si proponeva di verificare a consuntivo: - Quali degli obiettivi dichiarati fossero stati realmente perseguiti;

Documenti e informazioni

- la misura in cui gli obiettivi stessi fossero stati conseguiti; - la capacità di governance dei processi concretamente dimostrata dalle strutture amministrative responsabili; - la fondatezza dei rischi ipotizzati e lʼadeguatezza delle misure di prevenzione adottate.

In termini più specifici venivano ipotizzati quattro rischi connessi alle operazioni di cartolarizzazione: - lʼattenzione al solo risultato finanziario di cassa, conseguentemente sacrificando sia la regolarità e la trasparenza delle procedure, sia la convenienza economica; - la sovracollateralizzazione (o sovragaranzia); - la svendita degli attivi di più agevole smobilizzo, piuttosto che di quelli meno produttivi;

AUDIZIONE: UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

- la possibilità di peggioramento del rating del debito pubblico ordinario.

A conclusione dellʼindagine è stato possibile formulare una serie di osservazioni, di ordine sia generale che specifico. Tra queste, a risaltare – in termini in qualche modo riassuntivo - era soprattutto la scarsa trasparenza dei costi effettivamente e globalmente sostenuti e dei risultati realmente conseguiti. Nel caso della cartolarizzazione degli immobili, la scarsa trasparenza ha riguardato addirittura anche la stessa nozione di immobile (appartamento o palazzo?) e la corretta individuazione dei beni interessati allʼoperazione. Non cʼè, infatti, completa coincidenza fra gli immobili oggetto della cartolarizzazione che compaiono in quattro diverse liste di riferimento:

1.

lista degli immobili valutati dallʼAgenzia del Territorio per indicare alla SCIP il

valore delle obbligazioni da emettere; 2.

lista degli immobili contenuti nei decreti dirigenziali dellʼAgenzia del demanio poi

trasferiti alla SCIP; 3.

lista degli immobili degli Enti previdenziali utilizzata per gestire le vendite;

4.

lista degli immobili effettivamente venduti (lista SCIP).

Lʼindagine ha quindi pienamente confermato la caratteristica di opacità che in genere presentano le operazioni di cartolarizzazione già emersa dallʼesperienza di altri paesi e concordemente segnalata dalla dottrina. 186


2.

lista degli immobili contenuti nei decreti dirigenziali dellʼAgenzia del demanio poi

trasferiti alla SCIP; 3.

lista degli immobili degli Enti previdenziali utilizzata per gestire le vendite;

4.

locale e strumenti finanziari derivati lista degli immobili effettivamente vendutiFinanza (lista SCIP).

Lʼindagine ha quindi pienamente confermato la caratteristica di opacità che in genere presentano le operazioni di cartolarizzazione già emersa dallʼesperienza di altri paesi e concordemente segnalata dalla dottrina.

Un secondo ordine di osservazioni conclusive attiene al completo affidamento della gestione dei contratti a fornitori esterni di servizi, con effetti di carenze nel monitoraggio dei costi e dei benefici pubblici e di limitato effetto di internalizzazione di buone pratiche in tema di pianificazione e gestione strategica degli attivi pubblici.

. UTILIZZO èE DIFFUSIONE STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA Con riguardo alle diverseAUDIZIONE cartolarizzazioni, emerso cheDEGLI quelle dei crediti sono risultate più CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

gestibili e meno controverse della cartolarizzazione degli immobili. Per quanto concerne, poi, la cartolarizzazione dei proventi futuri dei giuochi, lʼoperazione è risultata chiaramente costosa ed inidonea a dare un contributo positivo al miglioramento dei conti pubblici. Infatti, non ha avuto nessun effetto positivo sullʼindebitamento netto ed ha, per converso, fatto aumentare il debito per 3 Audizione CORTE DEI CONTI 50 2009 Sezioni riunite in sede di controllo miliardi € nel 2001. Inoltre le cessioni sono state pari ad oltre 9 volte i ricavi ed il rapporto corrispettivo iniziale/corrispettivo totale è stato di appena il 22,3%.

La maggior parte dei rischi ipotizzati sono stati confermati a consuntivo, con lʼeccezione di quello – proposto dalla dottrina per i paesi in via di sviluppo – di peggioramento del rating del debito ordinario: oltre alla già citata scarsa trasparenza, sono stati infatti, confermati i rischi di esclusivo interesse per il solo obiettivo finanziario immediato, delle forzature procedurali e della sovracollateralizzazione.

Nel contempo, sono stati riscontrati rischi inizialmente non espressamente ipotizzati: alcune operazioni non hanno contribuito a ridurre il debito, ma lʼhanno fatto aumentare; lʼAmministrazione è stata esautorata dalla gestione strategica delle operazioni, di fatto completamente affidata alle società veicolo ed agli advisors; si sono configurati conflitti dʼinteresse dei contractors. Si è così avuto il caso di advisors che erano anche operatori sui mercati finanziari e come tali interessati alle operazioni di cartolarizzazione e comunque portati ad evidenziare i vantaggi ed a tenere in ombra i costi ed i rischi per il cedente.

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Ritornando ai rischi inizialmente ipotizzati, è risultato del tutto evidente che la cartolarizzazione degli attivi ha costituito una semplice alternativa allʼaumento delle entrate e/o alla


avuto il caso di advisors che erano anche operatori sui mercati finanziari e come tali interessati alle operazioni di cartolarizzazione e comunque portati ad evidenziare i vantaggi ed a tenere in ombra i costi ed i rischi per il cedente. Documenti e informazioni

Ritornando ai rischi inizialmente ipotizzati, è risultato del tutto evidente che la cartolarizzazione degli attivi ha costituito una semplice alternativa allʼaumento delle entrate e/o alla riduzione della spesa ovvero al ricorso allʼindebitamento e le decisioni di alienare sono state assunte AUDIZIONE: UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA

solo per poter correggere (o non far peggiorare) i conti pubblici dellʼanno e non anche come punto CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI di approdo di una rigorosa analisi costi/benefici.

Le forzature procedurali sono riassumibili nella pratica dellʼadozione della regolamentazione delle operazioni di cartolarizzazione solo dopo che le operazioni si erano già concluse.

CORTE DEI CONTI Il riunite rischio di sovracollateralizzazione Sezioni in sede di controllo

Audizione

51 è stato anchʼesso chiaramente riscontrato a 2009 consuntivo. In pratica, la cessione dei portafogli alla società veicolo è quasi sempre di fatto avvenuta prosolvendo e non pro soluto: in ragione delle sovragaranzie accordate, il rischio della gestione si è solo formalmente trasferito al cessionario, ma è di fatto rimasto in capo al cedente – e cioè allo Stato ed agli enti di previdenza già proprietari degli immobili. Un esempio estremo sotto questo profilo è quello – già ricordato - della cartolarizzazione dei proventi futuri dei giochi del lotto e del superenalotto per la quale si è registrata a consuntivo la cessione di un importo di future entrate (oltre 27 miliardi) superiore a nove volte il corrispettivo iniziale corrisposto dalla società veicolo allo Stato italiano (3 miliardi). Ma vale anche per gli immobili, tantʼè che, secondo lo stesso Dipartimento del Tesoro, per SCIP 2 la sovracollateralizzazione era salita dal 19% al 37% dopo la ristrutturazione ed il nuovo business plan.

Il mancato trasferimento del rischio alla società veicolo trova ora eloquente certificazione nella disposizione dellʼart. 43 bis dellʼA.S. 1305 che pone in liquidazione il patrimonio separato della prima e della seconda operazione di cartolarizzazione degli immobili degli enti previdenziali, trasferendone la proprietà da SCIP ai soggetti che ne erano gli originari proprietari per un corrispettivo pari al valore degli immobili stessi, con la possibilità di procedere alla cessione diretta, anche modificando le procedure di alienazione per rendere più efficiente il processo di vendita. In pratica, il processo di alienazione degli immobili di SCIP 2, già fortemente rallentatosi nei mesi scorsi, si è del tutto bloccato per effetto dellʼeccezionale crisi economica e delle sfavorevoli condizioni del mercato immobiliare e dei mercati finanziari. Di qui lʼimpossibilità, alle scadenze convenute del 26 ottobre e del 26 gennaio, di pagare gli interessi e di rimborsare i bond.

La norma prevede che, qualora le disponibilità degli enti non siano sufficienti al pagamento del corrispettivo dovuto a SCIP, la differenza venga corrisposta, entro il 15 aprile prossimo, dal 188

MEF, mediante unʼanticipazione di tesoreria, da estinguere con lʼutilizzo dei primi proventi 52

Audizione 2009

CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo


scorsi, si è del tutto bloccato per effetto dellʼeccezionale crisi economica e delle sfavorevoli condizioni del mercato immobiliare e dei mercati finanziari. Di qui lʼimpossibilità, alle scadenze convenute del 26 ottobre e del 26 gennaio, di pagare gli interessi e di rimborsare i bond.

Finanza locale e strumenti finanziari derivati

AUDIZIONE. UTILIZZO E DIFFUSIONE DEGLI STRUMENTI DI FINANZA DERIVATA CARTOLARIZZAZIONI DELLE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI

La norma prevede che, qualora le disponibilità degli enti non siano sufficienti al pagamento del corrispettivo dovuto a SCIP, la differenza venga corrisposta, entro il 15 aprile prossimo, dal MEF, mediante unʼanticipazione di tesoreria, da estinguere con lʼutilizzo dei primi proventi Audizione CORTE DEI CONTI rivenienti dalla vendita degli immobili retrocessi agli enti previdenziali. Dallʼultimo rapporto agli 52 2009

Sezioni riunite in sede di controllo

investitori risulta che al 31 dicembre scorso gli immobili invenduti di SCIP 2 erano 13.574, pari al 21,6% del portafoglio originario, per un valore di circa 2,4 miliardi, pari al 30,2% del valore del portafoglio originario.

Lʼanticipazione di tesoreria rischia di protrarsi a lungo posto che: 1)

è difficile ipotizzare che la vendita diretta da parte degli enti possa avere maggior

successo di quella che gli stessi enti hanno effettuato per conto di SCIP; 2)

la maggior parte degli immobili – lʼ87% del numero e lʼ84% del valore – riguarda

unità occupate, e quindi di difficile alienazione.

CORTE DEI CONTI Sezioni riunite in sede di controllo

Audizione 2009

53 189



Norme redazionali

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

191


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4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio Costituzione codice di procedura civile codice penale codice di procedura penale decreto decreto legislativo decreto legge decreto legge luogotenenziale decreto ministeriale decreto del Presidente della Repubblica disposizioni sulla legge in generale disposizioni di attuazione disposizioni transitorie legge fallimentare

192

c.c. c.comm. Cost. c.p.c. c.p. c.p.p. d. d.lgs. d.l. d.l. luog. d.m. d.P.R. d.prel. disp.att. disp.trans. l.fall.


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legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale Corte di Cassazione Sezioni unite Consiglio di Stato Corte d’Appello Tribunale Tribunale amministrativo regionale

C. Cost. Cass. S. U. Cons. St. App. Trib. TAR

3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze e, successivamente, gli estratti.

195


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