Saggi
ISSN 1722-8360
Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009
Diritto della banca e del mercato finanziario
3/2010
Diritto della banca e del mercato finanziario
di particolare interesse in questo fascicolo
• Aiuti di Stato e marcati creditizi • Crisi finanziaria: nuove regole per le banche? • Collocamento di obbligazioni e responsabilità delle banche
luglio-settembre
Pacini Editore
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luglio-settembre
Pacini Editore
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Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria
Comitato di direzione Carlo Angelici, Franco Belli, Mario Bussoletti, Gino Cavalli, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimeri, Alessandro Nigro, Mario Porzio, Niccolò Salanitro, Vittorio Santoro, Luigi Carlo Ubertazzi. Comitato di redazione Sido Bonfatti, Antonella Brozzetti, Vincenzo Caridi, Ciro G. Corvese, Giovanni Falcone, Elisabetta Massone, Francesco Mazzini, Filippo Parrella, Gennaro Rotondo. Segreteria di redazione Daniele Vattermoli Direttore responsabile Alessandro Nigro La sede della rivista è presso la Segreteria del Ce.Di.B. Via dei Crociferi, 44 - 00187 Roma L’amministrazione è presso: Pacini Editore SpA Via Gherardesca - 56121 Ospedaletto - Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it - info@pacinieditore.it
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Sommario 3/2010
PARTE PRIMA Saggi Aiuti di Stato e mercato creditizio fra orientamenti comunitari e interventi nazionali di Sabino Fortunato
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I rapporti partecipativi fra banche e assicurazioni alla luce delle più recenti novità normative, di Ciro Corvese
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Una breve riflessione sul riparto di competenze tra Banca d’Italia e Consob in materia di vigilanza consolidata dopo il recepimento della Mifid, di Antonella Brozzetti
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CONSAP s.p.a.: Gestione dei Fondi di Garanzia e solidarietà, di Paolo Panarelli
» 461.
» 483
» 487
Commenti Bonds e responsabilità delle banche collocatrici – Trib. Roma, 3 novembre 2009 Emissioni obbligazionarie delle società del gruppo Cirio e responsabilità concorrente delle banche lead manager del collocamento, di Francesco Mazzini
Dibattiti Crisi finanziaria: quali regole per la banca? – Incontro di studio del 19 marzo 2010, con interventi di Franco Bel-
li, Claudio Boido, Marina Brogi, Lucia Calvosa, Giuseppe Carriera, Pietro Giovannini, Matteo Mattei Gentili, Alessandro Nigro, Antonio Piras, Gaetano Presti, Vittorio Santoro
PARTE SECONDA
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Legislazione Manovra economica e legge fallimentare. Decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, conv. con l. 30 luglio 2010, n. 122, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, con osservazioni di Alessandro Nigro
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Norme
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redazionali
PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, rassegne, miti e realtĂ
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Aiuti di Stato e mercato creditizio fra orientamenti comunitari e interventi nazionali* Sommario: 1. La crisi sistemica e la politica degli aiuti di Stato nell’Unione Europea. Il richiamo al “grave turbamento dell’economia” (art. 87, par. 3, lett. b, Trattato CE). – 2. I criteri di ammissibilità degli aiuti nel settore finanziario. I limiti soggettivi. – 3. Le tipologie oggettive. – 4. La concessione di garanzie statali a copertura delle passività bancarie. – 5. Gli interventi di ricapitalizzazione. – 6. La liquidazione controllata delle banche e l’acquisizione di attivi bancari deprezzati. – 7. Gli aiuti per il rifinanziamento dell’economia reale. – 8. Gli indirizzi seguiti dagli USA e dagli Stati europei. – 9. Gli interventi attuati dallo Stato italiano.
1. La crisi sistemica e la politica degli aiuti di Stato nell’Unione Europea. Il richiamo al “grave turbamento dell’economia” (art. 87, par. 3, lett. b, Trattato CE). Lo scoppio della bolla speculativa del mercato immobiliare collegata ai mutui subprime, originatasi negli Stati Uniti già nella seconda metà del 2006 e pervenuta ai suoi massimi livelli sul finire del 2008, ha innescato – com’è noto – una crisi finanziaria ed una crisi dell’economia reale a livello globale, tali da evocare i fantasmi della Grande Depressione degli Anni Trenta del secolo scorso. Ma se la crisi finanziaria è stata subito avvertita come “sistemica”, la crisi dell’economia reale ha avuto valutazioni differenziate. Gli interventi dei pubblici poteri hanno avuto ad oggetto immediatamente e in maniera mimetica il settore finanziario, mentre hanno inciso sull’economia reale solo in una seconda fase ed in modo differenziato. È quanto emerge dalle stesse fonti comunitarie sugli “aiuti di Stato”, in particolare dalle Comunicazioni della Commissione Europea del 13 otto-
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Il presente saggio è destinato agli Studi in onore di Piergaetano Marchetti.
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bre 2008 1, del 5 dicembre 2008 2, del 25 febbraio 2009 3 e del 17 dicembre 2008 4 (parzialmente modificata e integrata da una successiva Comunicazione del 25 febbraio 2009 5), intese a giustificare quegli aiuti nel contesto dell’attuale crisi, le prime tre con riferimento al sostegno diretto delle istituzioni finanziarie e la quarta con riferimento al finanziamento dell’economia reale. Gli interventi sono concepiti, peraltro, quali deroghe temporanee e limitate ai principi generali del diritto comunitario, che valorizzano prioritariamente come strumenti di sviluppo economico e sociale il “mercato” e la “concorrenza” e guardano con sfavore agli aiuti statali alle imprese. Nelle indicate Comunicazioni il “carattere sistemico” della crisi è il presupposto essenziale per dare fondamento agli aiuti di Stato in maniera così inconsuetamente diffusa e intensa in base alla clausola dell’art. 87, par. 3, lett. b) del Trattato CE. La Carta comunitaria, infatti, dichiara in via di principio “incompatibili” con il mercato comune gli aiuti concessi dagli Stati o comunque mediante risorse statali, che incidano sugli scambi intracomunitari, favorendo talune imprese o talune produzioni e che falsino o minaccino di falsare la concorrenza (art. 87, par. 1) 6.
1 Comunicazione CE n. 2008/C 270/02 in GUCE 25 ottobre 2008, C 270/8: “L’applicazione delle regole in materia di aiuti di Stato alle misure adottate per le istituzioni finanziarie nel contesto dell’attuale crisi finanziaria mondiale”. 2 Comunicazione CE n. 2009/C 10/03 in GUCE 15 gennaio 2009, C 10/2: “La ricapitalizzazione delle istituzioni finanziarie nel contesto dell’attuale crisi finanziaria: limitazione degli aiuti al minimo necessario e misure di salvaguardia contro indebite distorsioni della concorrenza”. 3 Comunicazione CE n. 2009/C 72/01 del 25 febbraio 2009 e pubblicata in GUCE 26 marzo 2009, C 72/1, “concernente il trattamento degli attivi svalutati nel settore bancario della Comunità”. 4 Comunicazione CE n. 2009/C 16/01 in GUCE 22 gennaio 2009, C 16/1: “Quadro di riferimento temporaneo comunitario per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’accesso al finanziamento nell’attuale situazione di crisi finanziaria ed economica”. 5 Comunicazione CE del 25 febbraio 2009 che “modifica il quadro di riferimento temporaneo comunitario per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’accesso al finanziamento nell’attuale situazione di crisi finanziaria ed economica”. Questa Comunicazione non risulta pubblicata in GUCE, ma esiste un testo consolidato delle due Comunicazioni in GUCE del 7 aprile 2009, C 83/1. 6 Si tratta dei quattro tradizionali elementi costitutivi della fattispecie di aiuto di Stato generalmente vietato, già posti in luce dalla nota sentenza nel caso Altmark della Corte GE del 24 luglio 2003, C-280/00, punto 75 (“In primo luogo deve trattarsi di un intervento dello Stato o effettuato mediante risorse statali. In secondo luogo, tale intervento deve poter incidere sugli scambi tra gli Stati membri. In terzo luogo, deve concedere
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E tuttavia al divieto generale seguono deroghe (art. 87, par. 2 e 3) e procedure autorizzatorie e sanzionatorie (artt. 88-89). In particolare, alle deroghe di diritto 7 si accompagnano deroghe ampiamente discrezionali ad opera della Commissione 8, per effetto di vere e proprie clausole generali che vengono di volta in volta riempite di contenuto dalle decisioni della Commissione medesima, tanto che questa ha finito per elaborare, nel corso degli anni, linee guida che si risolvono – sul piano giuridico – in una preliminare autolimitazione della propria discrezionalità rispetto alle singole fattispecie concrete 9.
un vantaggio al suo beneficiario. In quarto luogo deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza”). 7 Il par. 2 del citato art. 87 dichiara automaticamente compatibili (“sono compatibili”) con il mercato comune: “gli aiuti a carattere sociale concessi ai singoli consumatori, a condizione che siano accordati senza discriminazioni determinate dall’origine dei prodotti” (lett. a); “gli aiuti destinati a ovviare ai danni arrecati dalle calamità naturali oppure da altri eventi eccezionali” (lett. b); “gli aiuti concessi all’economia di determinate regioni della Repubblica federale di Germania che risentono della divisione della Germania, nella misura in cui sono necessari a compensare gli svantaggi economici provocati da tale divisione” (lett. c). 8 Il par. 3 del citato art. 87 dispone che “possono considerarsi compatibili” con il mercato comune altre cinque categorie di aiuti, e in particolare: quelli destinati “a favorire lo sviluppo economico delle regioni ove il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione” (lett. a); quelli destinati “a promuovere la realizzazione di un importante progetto di comune interesse europeo oppure a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro” (lett. b); quelli destinati “ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse” (lett. c); quelli destinati “a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio, quando non alterino le condizioni degli scambi e della concorrenza nella Comunità in misura contraria all’interesse comune” (lett. d); “le altre categorie di aiuti, determinate con decisione del Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata su proposta della Commissione” (lett. e). 9 Nella stessa direzione Della Cananea, Il ruolo della Commissione nell’attuazione del diritto comunitario: il controllo sugli aiuti statali alle imprese, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., p. 399 ss. (ivi, p. 428) che parla di vere e proprie “direttive amministrative”; Chiti, Diritto amministrativo europeo, 2a ed., Milano, 2004, p. 198 secondo il quale le comunicazioni sono equiparabili alle “circolari amministrative” che tuttavia “possono essere disattese solo in virtù di specifica ed accurata motivazione che dia conto delle diverse ragioni di pubblico interesse fatte proprie dalle istituzioni”; e nella giurisprudenza comunitaria Corte GE 24 febbraio 1987, causa C-310/85, punto 20 ss.; Corte GE 26 settembre 2002, causa C-351/98 ove si precisa che “la Commissione è vincolata dalle discipline o dalle comunicazioni da essa emanate in materia di controllo degli aiuti di Stato, nei limiti in cui queste ultime non derogano a norme del trattato e vengono accettate dagli Stati membri” (punto 53). Per una valutazione complessiva del sistema europeo degli aiuti di
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Le Comunicazioni sopra indicate si collocano in questo ambito normativo e fondano una interpretazione degli aiuti, attivati nell’attuale contesto di crisi, come compatibili con il mercato comune in forza del citato art. 87, par. 3, lett. b, in quanto “destinati… a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro”. Il “grave turbamento dell’economia” dell’intero Paese membro (e in verità di tutti i Paesi della Comunità) viene ravvisato proprio nel carattere “sistemico” della crisi, nella sua idoneità ad estendersi in maniera pervasiva e contagiosa a tutti i settori dell’economia. Il settore finanziario, e in ispecie quello degli intermediari finanziari, è dalla Commissione considerato strategico, poiché è volto ad alimentare i flussi delle risorse che affluiscono a tutti i settori dell’economia. La crisi finanziaria mondiale, se per un verso presenta “problemi specifici” legati al mercato creditizio dei mutui ipotecari e alle perdite dovute a strategie eccessivamente rischiose adottate dalle banche, per altro verso solleva “problemi sistemici” collegati all’inaridimento del prestito interbancario, alla crisi di liquidità, al rischio di propagazione all’economia reale e insomma alla “erosione generale della fiducia” nel sistema bancario e finanziario nel suo complesso, problemi che esigono allora interventi pubblici per ripristinare stabilità e corretto funzionamento di quel settore quale nodo essenziale delle economie nazionali e dell’economia mondiale 10.
Stato v. Sinnaeve, How the EU manages subsidy competition, in Markusen, Reining in the Competition for Capital, W.E. Upjohn Institute for Employment Research, 2007, p. 87 ss.; Blauberger, From Negative to Positive Integration? European State Aid Control Through Soft and Hard Law, MPIfG Discussion Paper 08/4 in www.mpifg.de. 10 Cfr. par. 1 della Comunicazione CE del 13 ottobre 2008 (nt. 1). Non s’intende in questa sede compiere un’analisi e una valutazione critica delle cause della crisi, benché si sia pienamente consapevoli che quell’analisi costituisce il presupposto per un’adeguata e corretta impostazione dei “rimedi”. Sul punto si rinvia a Draghi, Audizione del 17 marzo 2009, VI Commissione Finanze Camera dei Deputati nel corso della “Indagine conoscitiva sulle tematiche relative al sistema bancario e finanziario”; Visco, La crisi finanziaria e le previsioni degli economisti, Lezione inaugurale del Master in Economia pubblica tenuta a Roma il 4 marzo 2009, il quale osserva che “se la politica economica ha gravi responsabilità, anche analisi e modelli previsivi hanno mostrato limiti importanti su cui è necessario interrogarsi”; Blundell, Wignall, Atkinson, Hon lee, The Current Financial Crisis: Causes and Policy Issues, Financial Market Trends, OECD 2008. Si vedano anche gli Atti della VI Commissione Finanze e Tesoro del Senato della Repubblica, con le Audizioni di Consob, ABI e Corte dei Conti, relativi alla “Indagine conoscitiva sull’utilizzo e la diffusione degli strumenti di finanza derivata e delle cartolarizzazioni nelle pubbliche amministrazioni”.
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Si deve comunque sottolineare che, se la Comunicazione del 13 ottobre 2008 sembra mostrare scarsa consapevolezza della portata sistemica della crisi anche per molti settori dell’economia reale 11, la successiva Comunicazione del 17 dicembre 2008 segna una svolta nella convinzione che, “al di là del sostegno di emergenza al sistema finanziario, l’attuale crisi mondiale richieda una risposta politica eccezionale” e che essa “comporterà un aumento della disoccupazione, un calo della domanda e un deterioramento delle finanze pubbliche” (par. 4.1). L’art. 87, par. 3, lett. b) diventa così la base giuridica comune agli aiuti pubblici della crisi, tanto nel settore finanziario quanto nel settore dell’economia reale. E si tratta di una decisa novità, poiché i primi interventi risalenti al 2007 e sino ai primi di ottobre del 2008 12 sono stati autorizzati in base all’art. 87, par. 3, lett. c) 13 e con riferimento alle “Linee guida per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà” 14, seguendo un approccio singolare e restrittivo 15 del tutto inidoneo ad affrontare le particolarità e le sfide connesse allo stato di crisi generalizzato.
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Nel par. 11 della Comunicazione la Commissione ritiene, infatti, che “in linea di principio non si possa prevedere il ricorso all’articolo 87, paragrafo 3, lettera b), in situazioni di crisi di altri singoli settori, se non sussiste un rischio analogo che tali situazioni abbiano un effetto sull’economia di uno Stato membro nel suo insieme”. 12 Si tratta dei casi relativi alla crisi della Northern Rock decisi il 5 dicembre 2007 e il 2 aprile 2008; della WestLB decisi il 30 aprile e l’8 agosto 2008; della Sachsen LB deciso il 4 giugno 2008; della Roskilde I deciso il 31 luglio 2008; della Bradford&Bingley deciso il 1 ottobre 2008; della Hypo Real Estate Holding deciso il 2 ottobre 2008; e dell’IKB deciso il 21 ottobre 2008. Si ricorderà che in maniera pionieristica le prime esperienze di aiuti nel settore bancario risalgono alle decisioni relative al Credit Lyonnais e al Banco di Napoli nella seconda metà degli Anni Novanta del secolo scorso. 13 La disposizione consente “gli aiuti destinati ad agevolare lo sviluppo di talune attività o di talune regioni economiche, sempre che non alterino le condizioni degli scambi in misura contraria al comune interesse”. Cfr. sul richiamo alla disciplina degli aiuti per le imprese in difficoltà la stessa Comunicazione CE del 13 ottobre 2008, par. 6 (nt. 1). Per una sintesi degli interventi autorizzati dalla Commissione in quelle che vengono dalla stessa definite le prime due fasi della crisi cfr. State Aid Scoreboard – Spring 2009 Update, Special edition on State Aid interventions in the current financial and economic crisis, COM(2009) 164, 08.04.2009, pp. 5-9. 14 Cfr. Comunicazione CE su “Orientamenti comunitari sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione di imprese in difficoltà”, in GUCE 1 ottobre 2004, C 244/2. 15 Cfr. al riguardo i rilievi di Werner, Maier, Procedure in Crisis? Overview and Assessment of the Commission’s State Aid Procedure during the Current Crisis, in European State Aid Law Quarterly, 2009, p. 177 ss.
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Il richiamo alla nuova e non sperimentata 16 base giuridica ha una triplice funzione. In primo luogo, esso supplisce alla debolezza istituzionale dell’Unione Europea nell’affrontare con provvedimenti unitari, definiti a livello comunitario, la crisi globale che ha colpito l’economia di tutti i Paesi membri oltre che degli altri Paesi avanzati ed emergenti del mondo 17. Attraverso la filosofia degli aiuti di Stato gli interventi sono ricondotti alla competenza e alla specificità dei singoli membri dell’Unione, ma nel contempo vengono coordinati in un quadro di regole e principi comuni che valga a mantenere il vincolo sovranazionale della politica comunitaria quantomeno a livello di orientamenti condivisi 18. In secondo luogo, quel richiamo incardina nella Commissione la competenza applicativa del sistema derogatorio, per un verso ribadendo il coordinamento delle iniziative sulla base dei valori fondanti del “mercato comune” e della “concorrenza” e per altro verso accelerando l’adozione delle misure necessarie ad affrontare la crisi da parte dei singoli Stati membri. Vi sarebbe stata, infatti, la possibilità di invocare, su richiesta di
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L’art. 87, par. 3, lett. b) del Trattato CE ha trovato applicazione in passato una sola volta negli anni Ottanta con riferimento alla Grecia: cfr. decisione del 7 ottobre 1987, in GUCE del 22 marzo 1988, L 76/18 e il XVII Rapporto sulla politica di concorrenza(1987), 1988, par. 186-187. 17 Nonostante molteplici sollecitazioni, il Consiglio Europeo del 7 ottobre 2008 non ha accolto la proposta franco-italiana di istituire un fondo europeo per la gestione comune della crisi; né si è ancora pervenuti ad accentrare nelle mani di un’autorità comunitaria le competenze in materia di vigilanza finanziaria. 18 Analoga valutazione in Tonetti, La disciplina comunitaria e globale degli aiuti a favore del sistema bancario, in Giornale dir. amm., 2009, p. 659 ss. (ivi, pp. 668-669), il quale contesta l’opinione che la Commissione abbia agito in maniera timida e opportunistica nei confronti degli Stati membri, avendo anzi utilizzato la disciplina degli aiuti di Stato alla stregua dello “strumento più incisivo per assicurare il coordinamento delle azioni pubbliche nazionali”. Donde l’invito di alcuni Commissari a considerare la questione degli aiuti di Stato non come il problema della crisi, ma come soluzione alla crisi (“The state aid rules are part of the solution and they are not part of the problem”: così il Commissario Kroes). La stessa componente della Commissione ha sottolineato, nell’intervento tenuto l’8 dicembre 2008 (“The role of state aid in tackling the financial & economic crisis”), che “State aid rules… give national governments the freedom to take aim at the root causes of the crisis, but stop them from shooting themselves in the foot, or their neighbours in the back”. In senso opposto e piuttosto critico sulle debolezze mostrate dalle istituzioni comunitarie a fronte dei rinascenti protezionismi nazionali Lautenberg, State Aid, Nationalism and Financial Protection in response to the Global Crisis: the Cohesion of the EU at the Stake, in Federalismi.it
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ogni singolo Stato membro e a fronte di “circostanze eccezionali” che lo giustifichino, una decisione unanime del Consiglio (piuttosto che della Commissione) per derogare in toto all’art. 87 e ai regolamenti previsti dall’art. 89 19; ma non è chi non veda la complessità e intempestività di una tale procedura e soprattutto il rischio di una completa disarticolazione delle regole sostanziali del quadro comunitario. In terzo luogo, l’art. 87, par. 3, lett. b) contiene implicitamente il limite della “straordinarietà” della misura, destinata a venir meno una volta che il “grave turbamento dell’economia” sia stato superato. Sotto questo profilo le Comunicazioni ribadiscono a più riprese il carattere eccezionale e temporaneo delle misure derogatorie per la crisi. In particolare la Comunicazione del 22 gennaio 2009 individua un “quadro di riferimento temporaneo” per gli aiuti straordinari ammissibili in questa fase, collegando in astratto quella temporaneità alla durata della crisi ma in concreto prefissando un termine ultimo al 31 dicembre 2010 e un termine di verifica intermedia al 31.12.2009, entro cui Commissione e Stati membri dovranno valutare l’eventuale evoluzione positiva della situazione e l’opportunità di por fine alle misure eccezionali 20. La preoccupazione della Commissione europea è legata, dunque, all’esigenza di mantenere il quadro complessivo degli aiuti di Stato nel periodo di crisi nell’ambito dei principi fondamentali dell’acquis comunitario, a questo fine salvaguardando le “regole sostanziali” di tutela del libero scambio e della concorrenza21 e incidendo piuttosto sulle “regole procedurali” mediante una speciale procedura di crisi che velocizzi l’esame e l’autorizzazione degli aiuti consentiti22.
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La procedura è consentita dall’art. 88, par. 2, Trattato CE. Per analoghi rilievi Luja, State Aid and the Financial Crisis: Overview of the Crisis Framework, in European State Aid Law Quarterly, 2009, p. 145 ss. 20 Ma anche la Comunicazione del 13 ottobre 2008 evidenzia che “qualora vi sia un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro del genere sopra descritto, è possibile ricorrere all’articolo 87, paragrafo 3, lettera b), non per una durata indeterminata, ma soltanto fino a quando la situazione di crisi ne giustifichi l’applicazione” (par. 12). 21 La preoccupazione che le “misure statali della crisi” possano trasformarsi in un pericolo distorsivo della concorrenza e in politiche neo-dirigiste di protezionismo nazionale emerge nelle molteplici sedi internazionali in cui la questione è stata affrontata (vedi in particolare le dichiarazioni finali del G7 del 10 ottobre 2008, del G8 del successivo 15 ottobre e del G20 del 15 novembre), e non solo a livello delle istituzioni comunitarie. Sul punto cfr. Tonetti, La disciplina, cit., p. 661. 22 Ha così sostenuto il Commissario Kroes, in un discorso del 17 febbraio 2009: “We need to be flexible on procedures – yes – but not on principle. … Flexibility does not
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2. I criteri di ammissibilità degli aiuti nel settore finanziario. I limiti soggettivi. È in questo contesto che trovano giustificazione i “criteri” dettati dalla Commissione per la valutazione di ammissibilità degli specifici interventi che saranno (e sono stati) predisposti dai singoli Stati membri. Se si guarda in particolare al settore finanziario (ma gli orientamenti si ripetono anche per il finanziamento dell’economia reale), i criteri di ammissibilità – che hanno ad oggetto tanto “regimi generali” (a disposizione di varie o di tutte le istituzioni finanziarie in uno Stato membro) quanto “interventi singolari” (ad hoc per singole imprese) – vengono così declinati:
mean throwing out the rules”. E vedi ancora Werner, Maier, Procedures, cit., p. 177, i quali tuttavia ritengono che la “procedura di crisi” solleva numerose potenziali problematiche in termini di valutazione, certezza giuridica, partecipazione e tutela dei terzi e ritorno agli standard pre-crisi, tali da incidere sul quadro delle stesse regole sostanziali. Quanto alla velocizzazione del processo decisionale da parte della Commissione, gli AA. sottolineano che la Commissione ha mantenuto di fatto una media di un mese per ogni decisione a fronte di un periodo di diciotto mesi ed oltre secondo la procedura normale (pp. 180-181). Sui caratteri della procedura valutativa di crisi v. anche Tonetti, La disciplina, p. 665 s.; nonché State Aid Scoreboard, cit., p. 23 s. La verifica preventiva prevede che gli Stati membri informino tempestivamente la Commissione della “intenzione” di adottare misure e quindi notifichino subito i relativi progetti e nel modo più completo possibile, comunque prima di darvi attuazione. A notifica “completa”, la Commissione s’impegna ad assumere velocemente la decisione, se del caso anche entro ventiquattrore e durante il fine settimana. I presupposti del rapido funzionamento della procedura di crisi sono “close cooperation and full information” da parte degli Stati membri, nel cui ambito s’inseriscono altresì le valutazioni preventive richieste alle Autorità nazionali competenti in materia di stabilità finanziaria. Nel contempo, la Commissione ha istituito un Economic Crisis Team, per i contatti con gli Stati membri, ed ha delegato temporaneamente poteri ad un ristretto numero di Commissari (Kroes, Barroso, Almunia e McCreevy) per autorizzare le cd. “emergency rescue measures”. L’esperienza della procedura di crisi è alla base della accelerazione di un più generale tentativo di semplificazione procedurale da parte delle istituzioni comunitarie nell’esame degli aiuti di Stato (State Aid Action Plan). Il 29 aprile 2009 sono stati adottati dalla Commissione un “Best Practices Code” (cfr. Notice from the Commission – Best Practices Code on the conduct of State aid control proceedings, adopted on 29.04.09, http:// ec.europa.eu/competition/state_aid/reform/reform.html) e una “Simplified Procedure” (cfr. Notice from the Commission on a simplified procedure for treatment of certain types of State aid, adopted on 29.04.09, http://ec.europa.eu/competition/state_aid/reform/reform.html) che dovrebbero trovare applicazione dal 1 settembre 2009. Vedi al riguardo Ungerer, State Aids 2008/2009: 12 months of crisis management and reforms, p. 13 ss. (in http://ec.europa.eu/competition/speeches/text/sp2009_05_en.pdf).
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mirato dev’essere l’aiuto all’obiettivo, strettamente e cioè a porre rimedio al “grave turbamento” dell’economia e non perseguire altre finalità; b) deve altresì essere . deve altresì essere proporzionato allo scopo, ovvero limitato al minimo indispensabile senza andare al di là del fabbisogno necessario; c) deve avere . deve avere carattere non discriminatorio ed oggettivo; d) deve essere corredato di . deve essere misure di salvaguardia, corredato di tese ad evitare eventuali abusi e indebite distorsioni della concorrenza; e) deve avere . deve avere carattere temporaneo e perciò sottoposto a verifiche periodiche e accompagnato da adeguati incentivi all’uscita; f) deve infine essere seguito, a crisi ultimata, da . deve infine misure di adeguamento essere seguito, a crisi ultimata dell’intero settore e/o da piani di ristrutturazione o liquidazione dei singoli beneficiari. Gli indicati criteri sono peraltro commisurati ad un profilo soggettivo e ad un profilo oggettivo, e cioè alla situazione patrimoniale/economica del beneficiario e alla tipologia della misura di intervento programmato. I. In merito al profilo soggettivo acquista rilievo la distinzione fra imprese fondamentalmente sane, “messe in difficoltà esclusivamente dalle condizioni generali di mercato”, e imprese che presentano già – allo scoppio della crisi – difficoltà endogene, derivanti “dal loro particolare modello aziendale o da pratiche commerciali particolari”. La differente situazione soggettiva può in concreto giustificare un adeguamento del criterio sub c) relativo al trattamento oggettivo e non discriminatorio, perché per le imprese del secondo tipo, interessate da perdite derivanti “da inefficienze, da una cattiva gestione delle attività/ passività o da strategie rischiose”, gli interventi potrebbero e dovrebbero ricadere nel “normale quadro degli aiuti al salvataggio” e richiedere da un canto un’ampia ristrutturazione “per ripristinare la redditività a lungo termine”, se non addirittura la liquidazione, e d’altro canto misure compensative volte a limitare le distorsioni della concorrenza. Di contro le imprese illiquide ma fondamentalmente sane ricadono certamente nell’ambito di applicazione delle misure di crisi, avranno bisogno di una ristrutturazione meno sostanziale e le distorsioni della concorrenza che ne derivano saranno di norma più limitate (in tal modo la distinzione soggettiva incide anche sull’applicazione dei criteri sub d) e f)). Peraltro deve riconoscersi che la determinazione della qualificazione del soggetto come fondamentalmente sano o già in difficoltà per problemi endogeni allo scoppio della crisi pone una spinosa e non agevole questione interpretativa. A quale momento occorrerà guardare? Si tratterà evidentemente di una data convenzionale, con tutti i limiti che ciò comporta. La distinzione indubbiamente è funzionale ad evitare fenomea) l’aiuto dev’essere strettamente .
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ni di free riders, di utilizzazioni improprie delle misure di crisi da parte di soggetti le cui perdite non sono correlate alla corrente crisi finanziaria globale, ma a strategie aggressive con assunzione di rischi eccessivi, a cattiva gestione e difetto di supervisione o presenza addirittura di operazioni fraudolente. Ma dal punto di vista tecnico, molte banche non hanno avuto piena consapevolezza dei rischi assunti, per l’acquisizione di titoli più volte oggetto di cartolarizzazione, ora deprezzati 23. Come classificare tali imprese ai fini che ci occupano? La differente situazione soggettiva sul piano economico/patrimoniale può incidere anche nella definizione del criterio di proporzionalità evidenziato sub b), poiché il principio di limitazione al minimo dell’intervento necessario si sposa con la non gratuità dell’intervento e la necessità che sussista un contributo significativo da parte del beneficiario e/o del settore sovvenzionato. In particolare potrà essere prevista una “remunerazione adeguata” tendenzialmente vicina al prezzo di mercato in presenza, ad esempio, di un intervento di garanzia dello Stato e – in caso di escussione – anche la copertura (in via di regresso) di una parte considerevole delle passività in essere. Ma ove il beneficiario non sia immediatamente in grado di corrispondere la remunerazione e/o la parziale copertura della passività garantita, potrebbe introdursi una clausola di recupero (clawback) o di cd. “ritorno a giorni migliori”, per cui ci si impegna al pagamento non appena si sarà in grado di farlo. Parimenti il principio di non discriminazione in caso di intervento di “ricapitalizzazione” induce a considerare positivamente “la valutazione della necessità del sostegno” compiuta da parte delle autorità nazionali di vigilanza finanziaria, il che presuppone l’esame dei requisiti di solvibilità di ciascun potenziale beneficiario. Sulla portata del principio di non discriminazione con riguardo agli interventi di “ricapitalizzazione” delle banche la Commissione è ritornata in maniera molto più dettagliata con la successiva Comunicazione del 15 gennaio 2009 24, dedicata precipuamente a tali interventi, evidenziando che l’acquisizione di azioni (ordinarie e/o privilegiate) da parte dello Stato può perseguire un triplice obiettivo, comunque di carattere sistemico: ripristinare la stabilità finanziaria, garantire l’erogazione di finanziamenti all’economia reale, affrontare il rischio sistemico collegato alla eventuale insolvenza di banche
23 Sulla distinzione fra banche fondamentalmente sane e già in difficoltà e i profili problematici che essa solleva cfr. Luja, State Aid, cit., p. 146 s. 24 Cfr. nt. 2.
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in difficoltà per il loro particolare modello operativo o per la loro strategia di investimento. Allo stesso tempo si sottolinea che l’esigenza di raggiungere un corretto equilibrio fra stabilità finanziaria ed obiettivi di concorrenza leale (fra Stati membri, fra banche e per il ritorno al normale funzionamento del mercato del capitale di rischio) esige ancor più la necessità di distinguere fra banche fondamentalmente sane e con buone prestazioni e banche in difficoltà con prestazioni inferiori. In generale la differenziazione nei regimi e interventi singoli di ricapitalizzazione va commisurata ai “profili di rischio” delle banche beneficiarie, nel senso che le banche con profili di rischio più elevato dovranno sopportare un “prezzo” più elevato per l’intervento 25. Meno sicura è invece un’ulteriore distinzione soggettiva che pure sembra essersi inizialmente affacciata negli orientamenti della Commissione e ripresa altresì nella recente Comunicazione del 25 febbraio 2009 sugli attivi deprezzati 26, e cioè quella fra “banche sistemiche” (o “rilevanti”) e “banche non sistemiche” (o “non rilevanti”). Si è osservato che questa distinzione è comprensibile sul piano politico, ma molto meno sul piano tecnico-giuridico ai fini dell’ammissibilità agli aiuti di Stato fondati sul “grave turbamento dell’economia”. Se si assume che il fallimento di una grande banca può esso stesso determinare il “grave turbamento” dell’intera economia del Paese interessato, la distinzione sembra avere senso. Ma quale banca, anche di piccole dimensioni, in presenza di una crisi globale in atto non è sufficientemente rilevante da richiamare interventi pubblici per porre rimedio al grave turbamento dell’economia? Gli Stati membri hanno di fatto mostrato la tendenza a presumere che
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L’intervento a favore di banche fondamentalmente sane deve mirare agli obiettivi di stimolare la stabilità finanziaria e di sostenere il finanziamento dell’economia reale, subordinatamente alle condizioni specificate dai paragrafi 22-42 della Comunicazione sulla ricapitalizzazione. L’intervento a favore di altre banche con obiettivo di salvataggio è soggetto a condizioni più severe, sia sotto il profilo della remunerazione sia sotto il profilo di prevederne la liquidazione o comunque un piano di ristrutturazione ampia e profonda con cambiamenti nel management e nella corporate governance e misure compensative, piani da sottoporre entro sei mesi dalla ricapitalizzazione e secondo i principi espressi negli orientamenti per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà (vedi i paragrafi 43-45 della citata Comunicazione). 26 La distinzione fra banche d’importanza sistemica e non è ripresa nella Comunicazione citata (nt. 3) come indicazione di opportunità per focalizzare, in situazione di penuria di risorse nel bilancio pubblico, le misure di rilievo degli attivi deprezzati su un “numero limitato di banche d’importanza sistemica”. Attiene dunque all’ordine di priorità degli interventi, piuttosto che al principio di non discriminazione.
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tutte le banche hanno carattere sistemico, di fatto annacquando la distinzione 27.
3. Le tipologie oggettive. II. Passando all’esame del profilo oggettivo, l’attenzione della Commissione nella Comunicazione generale del 13 ottobre 2008 ricade su tre tipologie di diretto intervento a sostegno delle banche (“istituzioni finanziarie”): a) la concessione di garanzie statali a copertura di passività bancarie; b) gli interventi di ricapitalizzazione 28; c) la liquidazione controllata di determinate banche. A queste tipologie deve aggiungersi una quarta, dettagliata nella Comunicazione del 25 febbraio 2009 29 e avente ad oggetto: d) l’acquisizione, sotto molteplici forme, di attivi deprezzati delle banche (si tratta perlopiù dei cd. “titoli tossici”, ma non solo). La garanzia pubblica sui depositi ma anche sui prestiti interbancari ha costituito una delle forme di primo intervento per ripristinare la fiducia nel sistema finanziario e riattivare flussi di liquidità. Essa non comporta un immediato esborso a carico dei bilanci statali, ma espone comunque al rischio di incremento del debito pubblico. Ancor più il rischio si attualizza con gli interventi di sottoscrizione del capitale e con l’acquisizione di attivi deprezzati, operazioni tutte che potrebbero affiancare altresì le misure di liquidazione controllata delle banche. Tali misure potrebbero risultare discriminatorie e favorire comportamenti opportunistici dei beneficiari in vista dell’aiuto di Stato o politiche aggressive ed espansionistiche con l’utilizzo degli aiuti di Stato, il tutto con effetti gravemente distorsivi della concorrenza. Di qui la necessità di un quadro comunitario comune e coordinato che orienti gli Stati membri a regolare gli interventi nella direzione strettamente necessaria a perseguire gli obiettivi di stabilità finanziaria e di riattivazione dei finanziamenti all’economia reale.
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Vedi anche su questi aspetti Luja, State Aid, cit., p. 147 s. Per tali operazioni occorre aver riguardo altresì alla Comunicazione di precisazioni del 15 gennaio 2009 di cui alla nt. 2. 29 Cfr. supra, nt. 3. 28
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I criteri di ammissibilità degli aiuti trovano adeguamento e specificazione in relazione alle particolarità delle singole tipologie sopra indicate.
4. La concessione di garanzie statali a copertura delle passività bancarie. A) Il principio di non discriminazione (criterio sub c) assume un ruolo significativo con riguardo ai regimi generali o interventi singolari di “garanzia” sulle passività delle banche nella determinazione dell’estensione sia dei soggetti beneficiari sia delle passività suscettibili di aiuto. Occorre evitare interventi che possano distorcere la concorrenza tanto sui mercati limitrofi quanto nel mercato interno nel suo complesso, garantendo che l’aiuto possa beneficiare tutti i soggetti costituiti secondo il diritto dello Stato membro interessato comprese le controllate (anche da società madri con sede in altri Stati) e aventi attività significative in detto Stato, e ciò al fine di impedire il verificarsi di negative spill-overs, come la fuga dei depositi nei Paesi che per primi adottino la misura di garanzia (si pensi a quanto accaduto per le banche inglesi a fronte degli interventi a favore delle banche irlandesi). D’altro canto occorre evitare di favorire comportamenti opportunistici dei beneficiari (moral hazard), ciò che si traduce nella selezione delle passività suscettibili di garanzia pubblica. Di qui la legittimità di garanzie sui depositi e titoli di debito dei clienti al dettaglio (per alimentarne la fiducia ed evitare le fughe dei depositanti), di determinati tipi di deposito all’ingrosso e anche di strumenti di debito a breve e a medio termine (purché non altrimenti garantiti, per alimentare il prestito interbancario e la liquidità) e comunque con limitazioni alla garanzia disponibile “eventualmente in rapporto all’entità del bilancio del beneficiario”. Ma di qui anche il divieto di coperture di debiti subordinati o indiscriminatamente di tutte le passività, coperture che potrebbero tradursi nella salvaguardia di azionisti e altri portatori di capitale di rischio, sui quali è invece opportuno e corretto che ricadano le perdite. Il principio di proporzionalità (criterio sub b), per cui l’aiuto dev’essere limitato al minimo indispensabile, comporta che il beneficiario o quantomeno il settore beneficiato sopportino un costo dell’intervento. Si è già ricordato, al paragrafo due che precede, che la garanzia non può essere gratuita e deve basarsi su una “remunerazione adeguata” prossima ad un possibile “prezzo di mercato”, secondo parametri che tengano conto del grado di rischio assunto dal garante e del profilo di credito del garantito; in caso di escussione, una parte considerevole della passività
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deve far carico al privato beneficiario o al settore, immediatamente o comunque anche in un secondo momento mediante l’inserimento di clausole di recupero o di “ritorno a giorni migliori”. La temporaneità della garanzia (criterio sub e) si esprime nella circostanza che la durata del regime di garanzia può estendersi anche sino a due anni, purché sia assicurata una verifica semestrale sulla perdurante giustificazione dello stesso, regolarmente comunicata alla Commissione. Anche dopo i due anni, se permangono le condizioni di crisi, la durata del regime può essere ulteriormente estesa con l’approvazione della Commissione. Quanto alle misure di salvaguardia (criterio sub d), dirette ad evitare abusi e distorsioni della concorrenza, il beneficiario deve impegnarsi a non intraprendere politiche industriali di espansione aggressiva ai danni dei concorrenti che non fruiscono del medesimo aiuto e lo Stato deve adottare misure sanzionatorie dei comportamenti lesivi, compresa la sospensione della garanzia concessa. In via esemplificativa, dovrebbero imporsi restrizioni a forme di pubblicità che sottolineino che la banca gode della garanzia statale o all’utilizzo della garanzia per la fissazione dei prezzi o per espandere le attività; o ancora si potrebbero porre limiti alle dimensioni del bilancio della banca beneficiaria con riguardo a parametri quali il PIL o la crescita del mercato monetario; né potrebbero consentirsi riacquisti di azioni proprie o emissione di nuove stock option per la dirigenza. Il regime temporaneo di garanzia dovrebbe poi essere seguito da misure di adeguamento (criterio sub f)) per il settore nel suo complesso e/o dalla ristrutturazione o liquidazione dei singoli beneficiari. In altre parole, appena la situazione dei mercati finanziari lo permetta e comunque entro sei mesi nel caso di pagamenti da effettuarsi in favore del beneficiario, dovrebbe essere notificato alla Commissione un piano di ristrutturazione o di liquidazione della banca, affinché sia ripristinato il normale funzionamento del mercato.
5. Gli interventi di ricapitalizzazione. B) Gli aiuti sotto forma di “sottoscrizione del capitale” delle banche tendono per un verso a rafforzare il patrimonio di base e di vigilanza e ad incentivare ulteriori investimenti di rischio anche da parte dei privati, perseguendo la stabilità finanziaria del sistema e il ripristino della fiducia; per altro verso mirano ad incrementare le disponibilità per il finanziamento all’economia reale (grazie al miglioramento dei ratios di patrimonializzazione e solvibilità). Le Comunicazioni della Commissione non
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escludono forme addirittura di nazionalizzazione di alcuni intermediari. Ma è evidente che sia nella forma della partecipazione minoritaria e soprattutto maggioritaria sia e ancor più nella forma della nazionalizzazione si pongono rilevanti questioni sul piano della concorrenza fra Paesi membri e fra banche beneficiarie nonché sul piano della governance dell’impresa bancaria e dei suoi rapporti con i condizionamenti politici. I criteri da rispettare per la legittimità di questi aiuti sono fondamentalmente gli stessi fissati nel quadro generale, tenendo conto peraltro della tendenziale irreversibilità dell’intervento. Sulla portata del principio di non discriminazione con riguardo alla “ricapitalizzazione” delle banche si è in parte già detto, a proposito del profilo soggettivo e della distinzione fra banche fondamentalmente sane e banche con difficoltà endogene. Quanto al principio di proporzionalità, la direttiva della Commissione prevede che “i beneficiari dovrebbero contribuire il più possibile con i propri mezzi, compresa la partecipazione privata”, che la ricapitalizzazione deve mirare al “mantenimento dei requisiti minimi di solvibilità rafforzati e/o (con) la limitazione delle dimensioni totali del bilancio dell’istituzione finanziaria” interessata e che il prezzo di emissione degli strumenti (anche sotto forma di warrant, capitale subordinato e così via) deve essere fissato sulla base di una valutazione orientata al mercato 30 e preferibilmente mediante emissione di azioni privilegiate o comunque con l’introduzione di clausole di “recupero” o cd. di “ritorno a giorni migliori”. In realtà la questione del “prezzo” delle misure statali di ricapitalizzazione ha carattere polifunzionale, nel senso che s’interseca con molteplici criteri di ammissibilità dell’aiuto. Questi aspetti trovano un più ampio sviluppo nella Comunicazione del 5 dicembre 2008 dedicata precipuamente alla “ricapitalizzazione” 31. Il principio di non discriminazione induce a differenziare il prezzo con riguardo ai “profili di rischio” di ciascun beneficiario, tenendo conto degli indicatori che discendono dai requisiti normativi di solvibilità e di adeguatezza patrimoniale prospettica, dagli spread dei CDS (Credit Default Swap) e i rating anteriori alla crisi 32.
30 Tuttavia si ammette che “gli attuali livelli di mercato” potrebbero non riflettere necessariamente “quelle che potrebbero essere considerate le normali condizioni di mercato” (par. 24). 31 Cfr. nt. 2. 32 Cfr. Comunicazione citata, par. 13 e 14. La Comunicazione contiene indicazioni dettagliate sulla metodologia di calcolo, accogliendo le raccomandazioni della Banca
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La determinazione del prezzo si combina altresì con il principio di temporaneità dell’intervento, reso di più difficoltosa applicazione dalla tendenziale irreversibilità della misura. Si precisa che “le condizioni di fissazione dei prezzi dovrebbero dare alla banca un incentivo per rimborsare lo Stato non appena terminata la crisi” 33 e che l’incentivo all’uscita del capitale statale mediante una maggiorazione (add-on) del prezzo di ingresso fissato è auspicabile, eventualmente accompagnato da clausole di aumento nel tempo (o di step-up). Ovviamente non si tratta dell’unico meccanismo di uscita, poiché si ipotizzano anche opzioni call o clausole di rimborso o che incoraggino la raccolta di capitale privato, prevedendo ad esempio in sede di pagamento dei dividendi una remunerazione obbligatoria dello Stato (che aumenti nel tempo). Ma anche una politica restrittiva di dividendi potrebbe fungere da incentivo all’uscita 34. Analogamente ai regimi di garanzia, anche i regimi di ricapitalizzazione hanno un limite di durata biennale con verifica semestrale, da attuarsi mediante una relazione alla Commissione sull’attuazione delle misure adottate, con la possibilità di revisione delle misure di salvaguardia e di riclassificazione di una impresa inizialmente considerata fondamentalmente sana fra quelle in difficoltà, abbisognevoli di un piano di ristrutturazione 35. Misure di salvaguardia (a tutela di imprese concorrenti) e misure di adeguamento, anche mediante piani di ristrutturazione, seguono linee simili a quelle già esaminate per gli interventi di garanzia parimenti per la distinzione fra imprese fondamentalmente sane e imprese con difficoltà endogene 36. Va anche sottolineato che le nazionalizzazioni (government takeovers) delle banche non sono trattate autonomamente e ricadono, in quanto aiuti
centrale europea del 20 novembre 2008 (par. 16-18, nonché 26-30) e sviluppando nell’Allegato osservazioni sulla determinazione del prezzo del capitale proprio e sugli indicatori per la valutazione dei profili di rischio. Si prevede anche che ove i conferimenti di capitale statali siano effettuati a condizioni paritarie rispetto a quelli di privati con partecipazioni significative (30% o più), la remunerazione sarà ritenuta automaticamente congrua (par. 21). 33 Vedi par. 19, ma anche 20, 25 e 26, Comunicazione citata, con l’ulteriore precisazione (in nota 2) che “tutti gli incentivi di uscita o incentivi a rimborsare lo Stato… si intendono volti alla sostituzione del capitale statale mediante il capitale privato nella misura necessaria e adeguata nel contesto di un ritorno a normali condizioni di mercato”. 34 Cfr. par. 31-34 Comunicazione citata. 35 Vedi par. 40-42 Comunicazione citata. 36 Cfr. par. 43-45 Comunicazione citata e par. 35 e 42 della Comunicazione del 13 ottobre 2008 (nt. 1).
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di Stato, sotto i regimi generali degli interventi per le istituzioni finanziarie sin qui analizzati (regimi di ricapitalizzazione o, se del caso, di garanzia statale). Il problema fondamentale in caso di nazionalizzazione è collegato alla “remunerazione” dei vecchi azionisti, che deve riflettere non più del valore attuale delle azioni detenute. Ovviamente il divieto di aiuto ex art. 87, par. 1, Trattato CE si applica alle imprese e non agli azionisti persone fisiche non qualificabili come imprese. Nella specie potrebbe trattarsi di azionisti fondi di investimento, imprenditori o gruppi bancari che ricevono una remunerazione più elevata rispetto al valore di mercato 37.
6. La liquidazione controllata delle banche e l’acquisizione di attivi bancari deprezzati. C) Fondi pubblici, sotto forma di contributi o anche solo di garanzia, potrebbero accompagnare altresì “liquidazioni controllate” in casi individuali o come seconda fase di un salvataggio, laddove si renda evidente che la banca non può essere ristrutturata con successo. Anche qui il principio di non discriminazione impone che la scelta del tipo di passività da rimborsare con fondi pubblici segua i criteri già esaminati per i regimi di garanzia, con esclusione di azionisti ed eventualmente di determinati tipi di creditori (portatori di strumenti rappresentativi di capitale di rischio) sempre al fine di non favorire situazioni di moral hazard e rispettare altresì il principio di proporzionalità dell’intervento. Quanto alla temporaneità, è difficile prefissare la durata della liquidazione che deve svolgersi comunque in maniera ordinata e che potrebbe comportare addirittura la prosecuzione dell’attività sino alla revoca dell’autorizzazione, purché non si dia luogo a “nuove attività”, quale misura di salvaguardia a tutela dei concorrenti, del resto implicita al processo liquidatorio. E sempre nell’ottica della salvaguardia della concorrenza, l’eventuale cessione della banca o di sue parti o attività a terzi deve realizzarsi attraverso una procedura aperta e a condizioni di mercato, anche al fine di massimizzare il prezzo. Ove aiuti siano previsti a vantaggio dei terzi acquirenti, occorrerà un esame individuale secondo le regole per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà 38.
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Sul punto Luja, State Aid, cit., p. 152 s. Cfr. par. 43-50 Comunicazione del 13 ottobre 2008 (nt. 1).
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D) La quarta tipologia di intervento pubblico può consistere nella “acquisizione di attivi bancari deprezzati” (impaired assets), tipologia solo accennata nella Comunicazione generale del 13 ottobre 2008 39 ma ampiamente sviluppata nella Comunicazione del 25 febbraio 2009 40. Fra le cause principali della crisi finanziaria vi è stata e vi è – com’è noto – l’incertezza sulla valutazione e sulla localizzazione dei cd. “titoli tossici”, incertezza che si è ben presto estesa anche ad attivi non originariamente tossici ma che – per effetto della spirale al ribasso innescatasi su tutti i mercati – hanno finito per subire perdite per così dire di trascinamento, anche al di là dei loro valori “reali” 41. Rientra innanzitutto nella responsabilità delle stesse banche valutare i rischi collegati agli attivi acquisiti ed assicurarsi di poterli sopportare, assorbendone le eventuali perdite. E le banche hanno adottato misure significative, procedendo a importanti riduzioni di valore degli attivi detenuti, a riclassificarli (passando per esempio, per effetto di modifiche allo IAS 39, strumenti finanziari dalla categoria dei titoli di negoziazione a quella dei titoli disponibili per la vendita o detenuti sino alla scadenza) in modo da non dover evidenziare immediatamente perdite per effetto di valutazioni al fair value comunque inattendibili in mercati illiquidi, a dotare il patrimonio netto di capitale supplementare costituendo riserve ulteriori. Ma tutte queste misure si sono rivelate spesso insufficienti, compresa la ricapitalizzazione mediante investimento pubblico, proprio a causa della segnalata “incertezza” valutativa degli attivi deprezzati e della loro effettiva allocazione e consistenza. Nella Comunicazione si segnalano cifre che danno il senso della enorme gravità del problema. Le svalutazioni di attivi bancari effettuate da metà 2007 al febbraio 2009 ammontano a 1.063 mld. di dollari (737,6 per banche USA e 293,7 per banche europee, comprese quelle svizzere). Ma importanti istituzioni ed economisti hanno compiuto stime ben più elevate: il FMI parla di svalutazioni che dovrebbero attestarsi a circa il doppio di quelle ufficialmente contabiliz-
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Vedi par. 40, ove si precisa che l’acquisto o lo scambio di attivi da parte dello Stato “dovrà avvenire con una svalutazione che rifletta i rischi sottostanti, senza indebite discriminazioni per quanto riguarda i venditori”. 40 Cfr. nt. 3. 41 Per l’elencazione dei possibili attivi bancari e dei meccanismi di formazione delle relative perdite vedi Comunicazione citata alla nt. 3, par. 15, nota 1. Ovviamente, stabilire quale sia il valore “reale” o “effettivo” o “fondamentale” di un cespite non è affatto agevole soprattutto in tempi di crisi generalizzata.
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zate, e cioè a 2.200 mld. di dollari; Nouriel Roubini indica svalutazioni che si attesterebbero addirittura ad oltre il triplo, a circa cioè 3.600 mld di dollari 42. L’incertezza valutativa ed allocativa, che mina sia la stabilità finanziaria dell’intero sistema sia la ripresa del finanziamento all’economia reale 43, costituisce dunque una questione autonoma, non risolvibile mediante aiuti di ricapitalizzazione (che rischierebbero di ripetersi all’infinito, pregiudicando tanto la ristrutturazione del settore bancario nel suo complesso, quanto l’equilibrio già precario dei conti pubblici 44). Essa va direttamente eliminata attraverso interventi di “salvataggio” degli attivi deprezzati, ciò che può avvenire attraverso varie forme come l’acquisto, la concessione di garanzia sul relativo valore, lo scambio di attivi (titoli tossici contro titoli del debito pubblico). Nella misura in cui queste operazioni avvengono a un prezzo superiore al prezzo di mercato o – trattandosi di garanzia – a condizioni che non sarebbero accettate sul mercato da un operatore privato indipendente, esse hanno per effetto o di liberare la banca beneficiaria dalla necessità di registrare una perdita o una riserva per copertura di perdite prevedibili o indennizzarla a posteriori di dette perdite ovvero di liberare il patrimonio di vigilanza per ulteriori utilizzi e danno luogo, pertanto, ad “aiuti di Stato” da assoggettare ai principi generali di necessità, proporzionalità e minimizzazione delle distorsioni della concorrenza, insomma ai criteri già formulati nella Comunicazione generale del 13 ottobre e nella Comunicazione sulla ricapitalizzazione del 5 dicembre 2008, con le specificità definite nella apposita Comunicazione del 25 febbraio 2009 45. Ancora una volta la preoccupazione della Commissione è quella di stabilire principi comuni e condizioni coordinate entro cui l’azione degli Stati membri non finisca per pregiudicare in maniera duratura il ripristino di una situazione normale di mercato, favorendo di contro protezionismo finanziario e frammentazione del mercato interno. E ciò emerge nella definizione delle finalità degli interventi di salvataggio degli attivi deprezzati, i quali, se hanno come obiettivi immediati stabilità finanzia-
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Cfr. Comunicazione cit. par. 6, nota 2. Considerati obiettivi immediati della misura di salvataggio degli attivi deprezzati: così la Comunicazione cit. par. 5-7. 44 Considerati obiettivi di lungo termine, da conciliare con gli obiettivi immediati: cfr. Comunicazione cit. par. 8-12. 45 Comunicazione di cui alla nt. 3, par. 16-18. 43
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ria e riattivazione dei flussi di finanziamento all’economia reale, devono comunque conciliarsi con obiettivi di più lunga durata, quali il ritorno alla normalità concorrenziale dell’intero settore bancario e la sostenibilità dei bilanci pubblici 46. Il salvataggio degli attivi deprezzati è misura paragonabile a quella di ricapitalizzazione, ma allo stesso tempo più pericolosa. Come la prima esso realizza un meccanismo di assorbimento delle perdite e di miglioramento dei fondi propri regolamentari; ma a differenza della ricapitalizzazione, il salvataggio degli attivi deprezzati aumenta il rischio per lo Stato che si puntualizza sui soli attivi deprezzati e non si distribuisce su tutti gli attivi e fondi della banca, eventualmente più redditizi 47. Una precondizione di ammissibilità di ogni regime di salvataggio degli attivi deprezzati, che influisce su tutti i criteri più volte indicati, è il rispetto del principio di trasparenza da parte dell’istante beneficiario. Questi ha l’onere di fornire un’informazione completa, anteriore all’attivazione dell’ intervento pubblico, sulle svalutazioni di ciascun attivo interessato alla misura, sì da poter determinare l’ammontare dell’aiuto e delle perdite subìte dalla banca alla cessione degli attivi 48. L’onere di piena trasparenza, peraltro, sussiste non nei confronti del pubblico, ma nei confronti della Commissione europea, degli esperti indipendenti e delle autorità nazionali. Il valore degli attivi oggetto della misura pubblica, infatti, dev’essere certificato da esperti indipendenti, riconosciuto e validato dalla competente autorità nazionale di vigilanza. A questa informazione deve contestualmente accompagnarsi (ma potrebbe anche seguire dopo l’ammissione al beneficio, in considerazione dei tempi più ampi necessari all’indagine) un esame completo delle attività (anche quelle non oggetto di intervento pubblico) e del bilancio della banca beneficiaria, teso a verificare la profittabilità dell’intervento (examen de la viabilité) per la banca stessa. L’esito dell’esame va comunicato alla Commissione per la valutazione di eventuali necessarie misure di adeguamento 49.
46 La Commissione precisa che l’assenza di un coordinamento preventivo degli interventi statali impone obbligazioni supplementari a posteriori nei controlli degli aiuti di Stato. Cfr. par. 13-14 Comunicazione cit. 47 Vedi par. 21 nota 1 Comunicazione cit. 48 Per la descrizione dettagliata delle informazioni dovute cfr. parte II Allegato III della citata Comunicazione. 49 Par. 19-20 Comunicazione cit.
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Il principio di non discriminazione comporta anche qui una differenziazione applicativa della misura in base al profilo di rischio e alla profittabilità per ciascun beneficiario. Si ricorderà anche che tende qui ad affacciarsi la distinzione non solo fra banche fondamentalmente sane e banche in difficoltà, ma anche fra banche sistemiche e banche non sistemiche, distinzione di dubbia utilità ma che può spingere lo Stato verso un ordine di priorità degli interventi. Quanto alla prima distinzione, l’esame adeguato degli attivi potrebbe portare alla rilevazione di perdite che implicano una situazione di insolvenza tecnica della banca, con la conseguenza che si dovrebbe procedere a qualche forma di gestione amministrativa o liquidatoria forzata della banca e salvo che per ragioni di stabilità finanziaria del sistema non si ritenga che sia opportuno rilevare gli attivi e proseguire l’attività per il tempo necessario ad elaborare un piano di ristrutturazione o procedere ad una liquidazione ordinata. Il principio di non discriminazione (o di oggettività) gioca il suo ruolo altresì nella individuazione degli attivi ammissibili all’aiuto. Ovviamente i cd. titoli tossici (tioli collegati ai mutui subprime americani, a fondi speculativi e a prodotti derivati) sono naturalmente “eleggibili”, ma può essere necessario allargare il paniere anche ad altri titoli deprezzati a seguito della spirale ribassista e di cui la Commissione fornisce un elenco per esigenze di coordinamento a livello comunitario 50, giungendo persino a ritenere ammissibili anche titoli non corrispondenti ai criteri indicati e senza specifica giustificazione, purché contenuti al massimo fra il 10% e il 20% del valore totale degli attivi bancari oggetto di intervento pubblico 51. Ad ogni buon conto, anche in forza del principio di proporzionalità, il peso delle perdite deve ricadere prioritariamente sugli azionisti 52 e, ove l’onere non sia misurabile ex-ante, la banca dovrebbe impegnarsi alla copertura della perdita o dei rischi anche in una fase successiva, mediante la stipula di clausole appropriate 53. Ma l’adeguata ripartizione dei costi fra azionisti creditori e Stato presuppone una “corretta valutazione” degli attivi precedentemente all’intervento pubblico, al fine di quantificare il “prezzo” di cessione degli attivi oggetto di salvataggio e
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Cfr. par. 32 e 33 nonché Allegato III Comunicazione citata. Così il par. 35 della Comunicazione cit.; ma vedi anche i par. 49-50. 52 Quanto agli obbligazionisti può essere considerato adeguato un certo grado di protezione, al fine di preservare stabilità finanziaria e fiducia nel sistema. 53 Cfr. par. 24 Comunicazione cit. 51
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la corretta “remunerazione” dell’intervento, quale che sia la forma che questo possa assumere. Quanto agli indicati profili, va precisato che: la metodologia generale di “valutazione” dev’essere stabilita a livello comunitario, per evitare distorsioni di concorrenza e arbitraggi fra imprese di differenti Stati; le difficoltà valutative potranno suggerire anche le forme di intervento, e così in luogo della cessione degli attivi deprezzati, quella degli attivi valutabili ad una good bank dello Stato o addirittura la nazionalizzazione della banca interessata; il valore di riferimento degli attivi deprezzati dovrebbe essere costituito dal valore corrente di mercato, salvo che la situazione di crisi ne abbia determinato la poca significatività o addirittura l’assenza; il “valore (o prezzo) di cessione” sarà inevitabilmente superiore al valore corrente di mercato, donde l’aiuto di Stato, ma dovrebbe comunque riflettere il sottostante “valore economico reale”, sulla base dei flussi di cassa e secondo un orizzonte temporale di medio/lungo termine; ove sia necessario allontanarsi dal valore economico reale, dovranno seguire una profonda ristrutturazione del beneficiario e clausole di recupero; il prezzo dovrà inglobare una adeguata remunerazione dello Stato; la Commissione si avvarrà di comitati di esperti nel processo valutativo 54. La forma d’intervento più appropriata rientra nella competenza dei singoli Stati membri, ma quale che sia tale forma (cessione diretta degli attivi deprezzati ad una bad bank dello Stato nel rispetto di una rigorosa separazione patrimoniale, funzionale ed organizzativa, con riduzione al minimo di possibili conflitti di interesse; regime di assicurazione o di garanzia statale; regime misto) la ripartizione dei costi dell’intervento deve sortire i medesimi risultati (principio di equivalenza) 55. Come ogni misura di crisi, anche il salvataggio degli attivi deprezzati è caratterizzato dalla temporaneità, non solo perché, secondo quando previsto dalla Comunicazione generale per le banche, la durata del regime di tale intervento è fissato a due anni massimo, con il solito meccanismo di revisione semestrale, ma anche perché la Commissione precisa che il regime specifico di questo aiuto deve prevedere un termine di sei mesi dal momento in cui è reso applicabile nello Stato membro entro cui
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Cfr. par. 37-43 e Allegato IV Comunicazione cit. Cfr. par. 44-46 e Allegato II Comunicazione cit. L’Allegato II contiene una interessante sintesi delle esperienze già in passato maturate nei regimi di gestione degli attivi deprezzati o anomali, secondo il sistema della bad bank o il sistema di assicurazione, negli USA, in Svezia, Francia, Italia, Germania, Svizzera e Repubblica Ceca. 55
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le banche potranno avanzare domanda di ammissione e individuare gli attivi eleggibili (con possibilità di riconduzione successiva per gli attivi la cui scadenza va oltre i sei mesi). E ciò al fine di evitare comportamenti opportunistici delle banche, che non evidenzino immediatamente ogni informazione necessaria con la speranza di avanzare l’istanza in un momento successivo quando la situazione peggiori ulteriormente 56. La partecipazione a tale aiuto potrebbe addirittura essere resa obbligatoria dallo Stato membro, proprio al fine di risolvere alla radice la crisi di fiducia indotta dalla permanente situazione di incertezza più volte segnalata; e comunque, anche se facoltativa, dovrebbe essere accompagnata da adeguati incentivi 57. Anche per gli aiuti collegati al salvataggio degli attivi deprezzati, dovranno attivarsi misure di salvaguardia (utilizzo degli aiuti per riattivare il finanziamento all’economia reale e non per finanziare politiche aggressive di crescita a danno dei concorrenti; politiche restrittive nella distribuzione dei dividendi e nella retribuzione dei manager 58) e misure di adeguamento della banca interessata e/o dell’intero settore, al fine di acquisire una redditività durevole che consenta di proseguire l’attività senza ulteriori aiuti di Stato (un piano di ristrutturazione la cui ampiezza è collegata a molteplici fattori rilevabili altresì dalla relazione sull’esame di profittabilità che la banca deve presentare in sede di domanda di ammissione; una ristrutturazione profonda è normalmente richiesta in presenza di attivi deprezzati che conducano ad un patrimonio netto negativo o ad una situazione di insolvenza tecnica oppure in presenza di aiuti ricorrenti o aiuti già utilizzati per coprire perdite o evitarle o in misura nel complesso superiore al 2% del totale degli attivi della banca ponderati in funzione del relativo rischio e in presenza di violazioni degli obblighi di informativa preliminare) 59.
56 Cfr. par. 26 Comunicazione cit. Una partecipazione al regime di aiuto oltre il semestre potrebbe ammettersi solo nell’eventualità di circostanze eccezionali e imprevedibili, non dipendenti da responsabilità della banca istante, e a condizioni più restrittive quanto – per esempio – al costo e alle misure di compensazione da sopportare (par. 29). 57 Vedi par. 27-28 Comunicazione cit. 58 Vedi par. 30-31 Comunicazione citata; ma anche par. 57-59 ove si precisano anche, quali misure compensative a tutela dei concorrenti anche: la riduzione dimensionale della banca o di sue filiali redditizie o la loro cessione; la sottoscrizione di impegni comportamentali in merito alla limitazione delle attività. 59 Cfr. par. 51-56 Comunicazione cit.
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7. Gli aiuti per il rifinanziamento dell’economia reale. Qualche cenno è opportuno compiere anche sul “quadro temporaneo” degli aiuti di Stato programmabili per favorire il rifinanziamento dell’economia reale, posto che i relativi interventi incidono altresì sul mercato del credito. La crisi degli intermediari finanziari ha, infatti, rapidamente contagiato i settori dell’economia reale per la restrizione del credito (credit crunch) che ne è conseguita, anche nei confronti di imprese fondamentalmente sane. La necessità di rompere il circolo vizioso ha imposto interventi pubblici nei singoli Stati membri al di là delle iniziative di politica generale e delle misure ordinarie di aiuto. Di qui l’esigenza della Commissione europea di dettare un quadro di riferimento per coordinare le iniziative dei singoli Stati e nel contempo ricondurle al rispetto dei principi fondamentali del Trattato comunitario, evitando la frammentazione del mercato interno e il protezionismo. La Comunicazione del 17 dicembre 2008 60, che fa seguito al “Piano europeo per il rilancio economico” 61, ricorda innanzitutto la possibilità di adozione delle misure di politica generale che non ricadono nella nozione di aiuto di Stato (come le proroghe per il pagamento di oneri previdenziali ed assistenziali e anche di imposte; o le misure per i dipendenti; o i sostegni diretti a favore dei consumatori – rottamazione etc. –); nonché la possibilità di utilizzo di aiuti nel quadro degli strumenti ordinari esistenti e secondo la cd. strategia di Lisbona (sostegni pubblici a iniziative di sviluppo sostenibile a medio e lungo termine nei campi della ricerca, sviluppo e innovazione, investimenti soprattutto per le PMI e per le imprese in fase di avvio, formazione, sviluppo regionale e protezione dell’ambiente; cui si aggiungono il cd. Regolamento de minimis e il Regolamento generale di esenzione per categoria) 62. Ma accanto a queste misure e in forza dell’art. 87, par. 3, lett. b) Trattato CE, la Commissione consente misure supplementari e temporanee, applicabili solo sotto forma di “regime”, e non in forma individuale, in via di principio alle imprese sane – non in difficoltà – al
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Vedi supra nt. 4, nonché la successiva Comunicazione del 25 febbraio 2009, cit. alla nt. 5, contenente alcune modifiche alla precedente. 61 Cfr. il documento della Comunicazione della Commissione al Consiglio europeo COM (2008) 800 del 26 novembre 2008. 62 Vedi Sezioni 2 e 3 della Comunicazione cit. a nt. 4.
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1 luglio 2008 e con durata limitata al 31.12.2010 (principio di temporaneità) nel perseguimento di due obiettivi fondamentali: sbloccare la concessione di prestiti alle imprese, consentendo a queste di continuare ad avere accesso ai finanziamenti; stimolare le imprese a proseguire in una politica di investimenti per una crescita durevole e sostenibile dell’economia, soprattutto con riguardo al settore energetico e dei “prodotti verdi” 63. Gli aiuti specifici a ciò finalizzati si riassumono nei seguenti 64: 1) concessione di sussidi (in denaro o altro), al di là dei limiti già previsti dal Regolamento de minimis, per un importo complessivo in un triennio di € 500.000 al lordo di imposte ed ogni altro onere, ivi compresi altri aiuti fruiti dal 1 gennaio 2008 ed esclusi i settori della pesca ed agricoltura; 2) concessione di garanzia statale ai prestiti (sino all’importo del 90%) sia per investimenti che per capitale di esercizio con riduzione del premio da pagare 65; 3) concessione di prestiti di qualsiasi durata e di ogni tipo a tassi agevolati, purché si tratti di contratti conclusi entro il 31 dicembre 2010 e per il pagamento di interessi anteriori al 31 dicembre 2012; 4) concessione di prestiti agevolati per la produzione di cd. “prodotti verdi”, che comporti l’applicazione anticipata delle norme comunitarie a tutela dell’ambiente o che vada al di là delle limitazioni imposte da tali norme; 5) deroga temporanea alle linee guida sugli investimenti in capitale di rischio delle PMI, la cui soglia massima è innalzata per un periodo di dodici mesi da € 1,5 mln. ad € 2,5 mln. e il cui livello di partecipazione degli investitori privati e ridotto dal 50% al 30%; 6) semplificazione dei criteri previsti dalla Comunicazione sull’assicurazione dei crediti all’esportazione 66, al fine di consentire temporaneamente la copertura assicurativa dello Stato dei rischi non cedibili in quanto normalmente assicurabili sul mercato.
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Vedi Sezione 4.1 Comunicazione cit. Per i dettagli vedi la Comunicazione cit., Sez. 4.2-4.7 e 5.1. 65 Le modifiche apportate alla Comunicazione citata da quella successiva del 25 febbraio 2009 riguardano soprattutto il metodo di calcolo del premio sulla garanzia. 66 Vedila in GUCE del 17 settembre 1997, C 281/4. 64
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8. Gli indirizzi seguiti dagli USA e dagli Stati europei. Se il quadro di riferimento comunitario evidenzia lo sforzo della Commissione europea di predisporre linee di indirizzo per le misure di crisi che consentano, a crisi superata, il ripristino delle dinamiche di mercato e di concorrenza secondo i principi tradizionali dell’Unione, qual’è stata la risposta degli Stati membri e in particolare quali gli interventi messi in atto dallo Stato italiano? Va sottolineato che gli interventi degli Stati europei hanno seguito inizialmente linee di indirizzo divergenti dal piano predisposto e messo in atto dagli Stati Uniti, Paese da cui ha avuto origine la crisi. Gli USA, infatti, hanno puntato subito, dopo i primi interventi individuali di salvataggio e prestazioni di garanzia, ad un piano di salvataggio dei titoli tossici, suscitando grandi polemiche e contrasti per una misura che poteva e può tradursi nell’assoluzione degli intermediari finanziari con costi esclusivamente a carico dei contribuenti. A fine 2008 il Congresso americano ha approvato l’Emergency Economic Stabilization Act, che autorizza il Segretario del Tesoro ad adottare il Troubled Asset Relief Program (Tarp) e cioè ad acquistare o impegnarsi ad acquistare titoli problematici (sia quelli collegati ai mutui immobiliari sia quelli che il Segretario del Tesoro nella sua discrezionalità dovesse ritenere necessari), emessi prima del 14 marzo 2008, utilizzando un fondo di ben 700 miliardi di dollari 67. Il provvedimento, concepito inizialmente come strumento a disposizione dell’esecutivo per interventi sostanzialmente insindacabili, ha subìto in sede di approvazione congressuale una serie di temperamenti e correttivi che mirano ad incentivare anche i privati al piano di salvataggio, a ricondurre gli acquisti a meccanismi di mercato e a sottoporre l’operato del Segretario di Stato a numerosi controlli oltre che al sindacato giurisdizionale 68. Quanto agli Stati dell’Unione Europea, da ottobre 2008 a fine marzo 2009 la Commissione ha autorizzato, sulla base delle nuove linee guida per il settore creditizio in forza dell’art. 87, par. 3, lett. b) Trattato CE, 23 regimi generali di aiuto e 10 interventi ad hoc in favore di singole istituzioni finanziarie. In particolare i regimi generali hanno riguardato
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Per l’analisi dell’intervento vedi Napolitano, Il nuovo Stato salvatore: strumenti di intervento e assetti istituzionali, in Giorn. dir. amm., 2008, p. 1083 ss. 68 Vedi sempre Napolitano, Il nuovo Stato, cit., p. 1089 s., il quale individua cinque livelli di controlli legali e politici.
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12 misure di garanzie, 5 di ricapitalizzazione, 1 misura istitutiva di un fondo per il salvataggio di attivi e 5 regimi misti, per un ammontare complessivo – inclusi gli interventi ad hoc – di circa 3.000 miliardi di euro (di cui comunque 2.300 relativi a regimi di garanzia, e quindi rappresentativi del rischio massimo assunto dagli Stati ma non ancora di effettivi esborsi) pari al 24% del PIL europeo 69. In merito, poi, al “Quadro di riferimento temporaneo” per gli aiuti di Stato diretti a riattivare i flussi finanziari verso i settori dell’economia reale, i regimi autorizzati sono 24, di cui 8 relativi ai sussidi sino ad € 500mila, 4 per prestiti ad interessi agevolati, 3 per investimenti in capitale di rischio, 3 per la produzione di prodotti verdi e 6 per misure di garanzia 70. Deve peraltro osservarsi che recentemente si è aperta una nuova fase, che vede accentuarsi gli interventi diretti al salvataggio di attivi anomali (anche mediante costituzione di appositi veicoli, le cd. bad-bank), riavvicinando così le politiche di soccorso degli Stati Europei a quelle degli Stati Uniti 71.
9. Gli interventi attuati dallo Stato italiano. Anche il Governo italiano si è mosso, ovviamente, con alcune misure riconducibili al quadro comunitario degli aiuti di Stato, nell’intento soprattutto di contrastare la sfiducia del pubblico nel sistema bancario e finanziario e solo parzialmente a sostegno dell’economia reale.
69 Per ulteriori dettagli si rinvia al Rapporto della Commissione State Aid Scoreboard, cit., p. 14 ss. Vedi anche la relazione del funzionario della Direzione Generale sulla Concorrenza della Commissione Ungerer, State Aids, cit., p. 3 ss. 70 Cfr. State Aid Scoreboard, cit., p. 21 ss., ove anche riferimenti specifici agli aiuti per i settori automobilistico e del trasporto aereo. 71 Cfr. Ungerer, State Aid, cit., p. 3 s.: “The Union is now entering a new phase of restructuring and crisis management in the banking sector, as the flurry of State aid decisions recently taken has shown. The cleaning up of the balance sheets and required restructuring will be the dominant topic over the next weeks and months”. Anche Draghi, nel suo Intervento del 17 marzo 2009 alla Camera dei Deputati, VI Commissione, nel corso della Indagine conoscitiva sulle tematiche relative al sistema bancario e finanziario, ha osservato: “Gli interventi hanno evitato un collasso del sistema, ma non hanno ancora portato chiarezza sui bilanci di quelle banche che più hanno investito in titoli “tossici”: permane l’incertezza sull’entità e la distribuzione delle perdite nei bilanci di quelle che erano le più grandi banche mondiali. Inoltre è prevedibile che la recessione deteriorerà gli attivi bancari”.
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Secondo la classificazione suggerita da Giulio Napolitano (ripercorrendo l’approccio pragmatico di Mario Nigro sui “moduli organizzativi di pubblicizzazione” del credito risalente ad un’opera di quarant’anni fa 72), si potrebbero inquadrare quelle misure in quattro categorie: a) le misure riconducibili al modulo di pubblicizzazione finanziaria, mediante il quale lo Stato mira a garantire l’esposizione debitoria delle banche per incrementarne la liquidità; b) quelle relative al modulo di pubblicizzazione proprietaria, con cui lo Stato sostiene il processo di ricapitalizzazione e più in generale di ripatrimonializzazione del sistema bancario, considerando la portata strategica del settore; c) quelle relative al modulo di pubblicizzazione funzionale, diretto a riattivare i flussi finanziari verso l’economia reale e indirettamente ad incidere sulla governance delle istituzioni finanziarie; d) e le misure relative al modulo di pubblicizzazione regolamentare, inteso a ridisegnare le regole del sistema finanziario per garantirne la stabilità e prevenire crisi future, soprattutto mediante il rafforzamento dei sistemi di vigilanza anche a livello globale 73. Mentre le ultime misure hanno dichiaratamente carattere strutturale, ma sono al contempo le più difficili da definire e soprattutto da implementare, le prime tre misure hanno carattere dichiaratamente congiunturale (temporaneo ed eccezionale), poiché strumentali al superamento della grave crisi sistemica attraversata dall’economia nazionale e in verità dall’intera economia mondiale. Resta ovviamente la preoccupazione di un forte condizionamento dei meccanismi di mercato, difficile da riassorbire in tempi ragionevolmente brevi alla cessazione dello stato di crisi. A) Alle misure di “pubblicizzazione finanziaria” sono ascrivibili le garanzie statali sui depositi bancari al dettaglio, nonché le garanzie statali sulle passività le operazioni temporanee di scambio di titoli, per agevolare l’accesso delle banche italiane ad una adeguata provvista di liquidità.
72 M. Nigro, Profili pubblicistici del credito, Milano, 1969. L’approccio pragmatico di Mario Nigro si contrapponeva ai tentativi di razionalizzazione sistematica proposti in particolare da Massimo Severo Giannini secondo le formule del credito come “servizio pubblico” (Osservazioni sulla disciplina della funzione creditizia (1939), ora in Giannini, Scritti, II, Milano, Giuffrè, 2002, p. 1 ss.) e, più tardi, come “ordinamento sezionale” (Istituti di credito e servizi d’interesse pubblico (1949), ora in ID., Scritti, III, Milano, 2003, p. 57 ss.; Gli ordinamenti sezionali rivisitati (1992), ora in ID., Scritti, IX, Milano, 2006, p. 127 ss.). 73 Napolitano, L’intervento dello Stato nel sistema bancario e i nuovi profili pubblicistici del credito, in Giornale dir. amm., 2009, p. 479 ss.
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La garanzia sui depositi bancari al dettaglio, che il Ministero dell’Economia e delle Finanze è autorizzato a fornire per 36 mesi (dall’entrata in vigore del d.l. 9 ottobre 2008, n. 155 – convertito nella l. n. 190/2008 – che l’ha introdotta), si affianca ai sistemi di garanzia dei depositanti istituiti con i contributi degli stessi intermediari su basi privatistiche (cfr. artt. 96 e 96-bis Tuf) ed ha carattere integrativo e aggiuntivo della garanzia interbancaria, nel senso che dovrà prima attivarsi la garanzia privata e quindi subentrerà quella statale, ove il fondo risulti insufficiente (art. 4, co. 1, d.l. n. 155/2008) 74. Si tratta, comunque, di una misura destinata ad agire più sul piano psicologico, della ripresa di fiducia dei risparmiatori nel sistema bancario, e per questa via a difenderne la liquidità evitando la corsa al ritiro dei depositi. La concessione di garanzia del Ministero dell’Economia e delle Finanze sulle passività delle banche italiane, purché risultanti da operazioni di finanziamento poste in essere successivamente al 13 ottobre 2008 e aventi durata residua non inferiore a tre mesi e non superiore a cinque anni, persegue più direttamente la finalità di sostenere la liquidità delle banche cercando di riattivare il mercato dei prestiti interbancari; nel contempo se ne ribadisce la temporaneità, poiché il regime è attivabile sino al 31 dicembre 2009 (art. 1-bis, co. 1, d.l. citato, come modificato in sede di conversione 75). Nella stessa linea si muovono le operazioni di scambio temporaneo di titoli di Stato con strumenti finanziari detenuti da banche italiane o passività delle banche italiane controparti (art. 1-bis, co. 2, d.l. cita-
74 La garanzia del fondo interbancario ha origini comunitarie. La regolamentazione comunitaria prevedeva una soglia minima di € 20.000 a depositante, che è stata elevata ad € 100.000 a seguito della crisi (passando per una fase intermedia in cui il tetto è elevato ad € 50.000). L’Italia prevede una soglia superiore, che giunge agli € 103.291,38 per depositante. La versione originaria del d.l. n. 155/2008 limitava la garanzia ai soli depositanti di banche italiane (aventi cioè sede legale in Italia). In sede di conversione la limitazione è stata eliminata, evidentemente nel rispetto del principio comunitario di non discriminazione e al fine di ricomprendervi anche i depositanti di filiali e succursali italiane di banche estere: cfr. il Dossier n. 80 di novembre 2008 del Servizio Studi del Senato sul disegno di legge A.S. n. 1230 per la conversione in legge del d.l. n. 155/2008 (p. 39 ss.), ove anche una ricostruzione dei sistemi di garanzia dei depositi vigenti in Italia e una sintesi di quelli dei principali paesi esteri, nonché i recenti sviluppi in sede comunitaria. 75 La norma in oggetto (art. 1-bis) è stata inserita nel testo del d.l. n. 155/2008 durante la conversione nella legge n. 190/2008, ma proviene dal d.l. del 13 ottobre 2008, n. 157 che è stato contestualmente abrogato ma in concreto trasfuso nel detto provvedimento, facendo salvi gli atti già posti in essere.
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to), operazioni che consentono alle banche che ne fossero temporaneamente sfornite di disporre di strumenti finanziari inclusi nelle categorie ammesse o accettate come garanzia nelle operazioni di prestito presso l’Eurosistema ovvero sul mercato interbancario. La garanzia statale, inoltre, può estendersi anche a favore di altri soggetti che mettano a disposizione di banche italiane titoli stanziabili per operazioni di rifinanziamento presso l’Eurosistema (art. 1-bis, co. 3, d.l. citato), al fine di agevolare il trasferimento di detti titoli fra diversi comparti dell’attività finanziaria, a vantaggio del settore bancario. Queste tre ultime tipologie di intervento sono complementari alle misure di ricapitalizzazione (di cui si dirà fra poco) (art. 1-bis, co. 6) e devono comunque realizzarsi in maniera onerosa per i beneficiari nel rispetto di “condizioni di mercato”, previa valutazione tecnica della Banca d’Italia, intesa sostanzialmente a verificare che l’operazione si risolva in un approvvigionamento di liquidità in un contesto di adeguatezza patrimoniale della banca beneficiaria e di capacità di questa di far fronte alle obbligazioni assunte (art. 1-bis, co. 5). Inoltre i crediti del Ministero dell’Economia e delle Finanze derivanti da tali operazioni sono assistiti da privilegio generale sui beni mobili e immobili, che prevale su ogni altro privilegio (art. 1-bis, co. 4). Il decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 27 novembre 2008, che detta i criteri, le modalità e le condizioni delle dette operazioni 76, completa il quadro di conformità delle misure ai principi sanciti in sede comunitaria, stabilendo (art. 1): a. nel rispetto del principio di proporzionalità che “l’entità delle operazioni poste in essere è
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Vedilo in G.U. 9 dicembre 2008, n. 287. Il d.m. tiene conto in modo più consapevole dei principi sanciti dalla Comunicazione CE del 13 ottobre 2008, e in particolare dei principi di proporzionalità, non discriminazione, temporaneità, nonché delle misure di salvaguardia e di adeguamento dirette a limitare abusi a danno di imprese concorrenti e ad avviare processi di ristrutturazione duratura. Vengono altresì seguite le Raccomandazioni della Banca Centrale Europea del 20 ottobre 2008 sui termini economici della garanzia rilasciata dallo Stato. Le caratteristiche delle passività (strumenti finanziari di debito) delle banche italiane ammissibili alla garanzia statale e il relativo procedimento sono fissati agli artt. 2 e 7 del d.m.; gli artt. 3 e 8 specificano le caratteristiche delle operazioni di scambio di titoli e il relativo procedimento di ammissione; mentre gli artt. 4 e 7 trovano applicazione alle garanzie dello Stato a favore di terzi che forniscano titoli utilizzabili a fini di rifinanziamento con l’Eurosistema. Le caratteristiche della garanzia statale e le condizioni economiche sono sancite dagli artt. 5 e 6; e l’obbligo di presentare un “piano di ristrutturazione” da parte della banca che attiva la garanzia statale è disciplinato dall’art. 9.
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limitata a quanto strettamente necessario per porre rimedio alla attuale grave turbativa dell’economia”, prevedendo un monitoraggio semestrale i cui esiti vanno comunicati alla Commissione Europea, né l’ammontare massimo delle operazioni per “singola banca” può eccedere il patrimonio di vigilanza, incluso il patrimonio di terzo livello; b. nel rispetto del principio di salvaguardia della concorrenza che le banche beneficiarie “devono svolgere la propria attività in modo da non abusare del sostegno ricevuto e conseguire indebiti vantaggi per il tramite dello stesso, in particolare nelle comunicazioni commerciali rivolte al pubblico”, pena l’esclusione dall’ammissione a successive operazioni di sostegno, e che “l’espansione delle attività di bilancio delle banche beneficiarie” a livello di “crescita aggregata” non debba superare determinati limiti. B) Il modulo della “pubblicizzazione proprietaria” si è espresso con la previsione che legittima il Ministero dell’Economia e delle Finanze a sottoscrivere (o a garantire la sottoscrizione di) aumenti di capitale di banche italiane e di società capogruppo di gruppi bancari italiani per le quali la Banca d’Italia abbia accertato una situazione di inadeguatezza patrimoniale. La partecipazione dello Stato assume la forma di azioni senza diritto di voto privilegiate nella distribuzione dei dividendi (sino alla data di eventuale cessione a terzi), con il duplice intento da un canto di non spingere la pubblicizzazione sino al punto di incidere sull’autonomia gestionale dell’impresa bancaria e d’altro canto di offrire allo Stato un’adeguata remunerazione per ripagare i contribuenti del sacrificio sofferto 77. L’intervento pubblico deve essere, comunque, accompagnato da un piano di risanamento (“programma di stabilizzazione e rafforzamento”) della durata minima di trentasei mesi, valutato anch’esso dalla Banca d’Italia e suscettibile di modifiche in corso d’opera, ma pur sempre – per le variazioni sostanziali – previa autorizzazione del Ministero e sentito il parere dell’Autorità di vigilanza (art. 1 d.l. n. 155/2008). La Banca d’Italia valuta inoltre che le politiche dei dividendi, approvate dall’assemblea della banca richiedente, per il periodo di durata del programma di stabilizzazione e rafforzamento, siano coerenti con il programma stes-
77 In sede di conversione è stato precisato che le azioni sottoscritte dallo Stato non vengono computate nel limite complessivo della metà del capitale sociale, proprio a tutte le azioni senza diritto di voto o con voto limitato a particolari argomenti o con voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative (art. 2351, co. 2, c.c.), e che sono riscattabili dall’emittente, purché la Banca d’Italia attesti che l’operazione non pregiudica le condizioni finanziarie e di solvibilità della banca né del gruppo bancario di appartenenza.
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so. Come richiesto dagli orientamenti comunitari, la valutazione delle condizioni per l’intervento del Ministero è dunque effettuata dalla Banca d’Italia, quale organo tecnico che accerta l’inadeguatezza patrimoniale della banca ricapitalizzanda e verifica l’adeguatezza del programma di stabilizzazione e rafforzamento e le politiche distributive dei dividendi. Non si tratta di un intervento ablativo, poiché presuppone l’istanza della banca interessata. Diversamente è a dirsi per le banche nei cui riguardi fossero adottate le “procedure di cui al titolo IV del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385” (testo unico bancario), poiché la competenza a deliberare aumenti di capitale cui partecipi il Tesoro è qui spostata a favore dei Commissari straordinari (previa autorizzazione della Banca d’Italia) e sottratta agli organi decisionali della banca (in particolare all’assemblea) (art. 2 d.l. n. 155/2009) 78. Ove si tratti di banche cooperative, le azioni acquisite dal Ministero possono superare i limiti partecipativi previsti in via ordinaria 79. È in-
78 La norma, anzi, allarga le ipotesi che possono legittimare l’Autorità ad adottare tutti i provvedimenti previsti dal titolo IV del t.u.b., e dunque sia quello di amministrazione straordinaria sia quello di gestione provvisoria che di liquidazione coatta. Viene in particolare aggiunta l’ipotesi di ricorso alle procedure in oggetto in una situazione di grave crisi, anche di liquidità, della banca o della società capogruppo di un gruppo bancario, avente rilevanza sistemica, e che quindi possa recare pregiudizio alla stabilità complessiva del sistema finanziario. “La fattispecie – osserva la Relazione che accompagna il disegno della legge di conversione – ha dunque una connotazione di maggiore flessibilità rispetto a quelle già esistenti, riferendosi a una situazione di «grave crisi» e prescindendo dalla necessità di perdite, essendo sufficiente una crisi di liquidità; l’ampliamento è giustificato dal requisito aggiuntivo del possibile impatto sistemico della crisi”. 79 Il testo originario del d.l. n. 157/2008 prevedeva anche che fossero derogate le disposizioni speciali in materia di esercizio del diritto di voto e la Relazione accompagnatoria specificava che la deroga riguardava “in particolare la regola per cui ogni socio ha un solo voto a prescindere dal numero di azioni possedute”, al fine di “garantire l’esercizio di poteri commisurati alla partecipazione acquisita”. L’abrogazione di tale parte mi sembra discendere dalla contraddizione con quanto previsto per tutte le altre banche. Quanto ai limiti partecipativi nelle banche cooperative, si ricorderà che in via ordinaria, ai sensi dell’articolo 30, comma 2, Tub, la partecipazione al capitale sociale delle banche popolari, da parte di ciascun socio, non può superare lo 0,5 per cento del capitale stesso, mentre, ai sensi dell’articolo 34, comma 4, del medesimo t.u.b., nessun socio di una banca di credito cooperativo può possedere azioni il cui valore nominale superi i 50.000 euro. Il co. 5 dell’art. 1 d.l. n. 155/2009 stabilisce inoltre che la qualità di socio di una banca popolare è acquisita dalla data di sottoscrizione delle azioni da parte dal Ministero, in tal modo derogando alle previsioni in materia di cui all’articolo 30, commi 5 e 6, t.u.b., i quali prevedono che l’ammissione a socio sia subordinata al gradimento da parte del Consiglio di amministrazione della banca.
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fine escluso l’obbligo di promuovere un’offerta pubblica di acquisto in caso di superamento della soglia partecipativa del 30 per cento, anche per acquisiti “di concerto” (in deroga agli articoli 106, comma 1, e 109, comma 1, Tuf) 80. C) Il modulo di “pubblicizzazione funzionale” trova espressione nei cd. “Tremonti bond”, obbligazioni emesse da banche italiane e da società capogruppo di gruppi bancari italiani e sottoscritte dal Tesoro, con la finalità di rafforzare il patrimonio di vigilanza della banca beneficiaria, che deve essere “fondamentalmente sana”, e per questa via riattivare i flussi finanziari necessari ad alimentare l’erogazione del credito verso l’economia reale (art. 12 d.l. 29 novembre 2008, n. 185 convertito nella legge 28 gennaio 2009, n. 2). “Non si tratta in questo caso di operazioni di salvataggio, ma di una misura per rafforzare il sistema e per evitare che, in un contesto macroeconomico fortemente deteriorato, si avvii una spirale perversa tra emergere di sofferenze e restrizione del credito” 81. E proprio per questo si tratta di un intervento temporaneo, attuabile sino al 31 dicembre del 2009 nel rispetto degli orientamenti comunitari, e dunque a condizione che: a. sussista una specifica richiesta dell’emittente, che può essere solo una . sussista una spec banca italiana o una società capogruppo di gruppi bancari italiani, le cui azioni sono negoziate su mercati regolamentati; b. l’operazione risulti “economica nel suo complesso” per il Ministero e . l’operazione risul “tenga conto” delle condizioni di mercato, anche se la remunerazione degli strumenti finanziari così emessi può essere collegata (in tutto o in parte) agli utili distribuibili ex art. 2433 c.c. (donde il vincolo conforme per l’assemblea che decide sulla destinazione degli utili); c. l’operazione persegua le finalità di “assicurare un adeguato flusso di . l’operazione per finanziamenti all’economia e un adeguato livello di patrimonializzazione del sistema bancario”; d. gli strumenti finanziari da emettere siano privi dei diritti di voto e . gli strumenti fina comunque del diritto di nominare un componente indipendente del
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Peraltro il d.l. 29 novembre 2008, n. 185 (convertito nella legge 28 gennaio 2009, n. 2), contenente le “misure urgenti per il sostegno alle famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”, ha modificato gli artt. 104, 104-bis e 104-ter del t.u.f. al fine di rafforzare le difese delle società italiane quotate in caso di lancio di un’offerta pubblica di acquisto o di scambio (cfr. art. 13). 81 Così Draghi nel suo Intervento del 17 marzo 2009 alla Camera dei Deputati (cfr. nt. 71).
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consiglio di amministrazione o del consiglio di sorveglianza o un sindaco ex art. 2351 (ult. co.) c.c.; e. il carattere temporaneo dell’intervento può essere rafforzato dalla .
il carattere temp previsione (statutaria) a favore dell’emittente della facoltà di rimborso o riscatto, purché la Banca d’Italia attesti che l’operazione non pregiudica le condizioni finanziarie o di solvibilità della banca né del gruppo bancario di appartenenza; f. gli strumenti finanziari siano comunque computabili nel patrimonio . gli strumenti fina di vigilanza (core Tier 1) ed abbiano allora lo stesso grado di subordinazione delle azioni ordinarie; al fine di rafforzare questo profilo di patrimonializzazione, se ne può prevedere la convertibilità in azioni ordinarie, su richiesta dell’emittente (l’esercizio della facoltà di conversione è ovviamente sospensivamente condizionato alla delibera di aumento del capitale); g. la sottoscrizione da parte del Ministero è subordinata alla “valutazione . la sottoscrizione d da parte della Banca d’Italia delle condizioni economiche dell’operazione e della computabilità degli strumenti finanziari nel patrimonio di vigilanza”; h. venga sottoscritto un “protocollo d’intenti” fra la banca interessata e . venga sottoscritto il Ministero che impegni la prima al rispetto del livello e delle condizioni di credito da assicurare alle piccole e medie imprese e alle famiglie, di adeguati livelli di liquidità a favore dei creditori delle pubbliche amministrazioni per fornitura di servizi e di beni, di politiche di dividendi coerenti con l’esigenza di mantenere adeguati livelli di patrimonializzazione; i. sul piano della . governance sul piano della della banca beneficiaria, l’emittente adotti un “codice etico” che fra l’altro contenga previsioni in materia di remunerazione dei vertici aziendali (limiti alle stock option e quant’altro). I criteri, le modalità e condizioni di sottoscrizione degli strumenti finanziari sono ulteriormente definiti in un D.M. del 25 febbraio 2009 (in G.U. 7 marzo 2009, n. 55), il quale fa più puntuale applicazione delle linee guida comunitarie e dei criteri di determinazione del costo dell’operazione per il beneficiario raccomandati dalla Banca Centrale Europea. In particolare è disposto che “le banche che ricorrono agli interventi previsti dal (presente) decreto devono svolgere la propria attività in modo da non abusare del sostegno ricevuto senza intraprendere politiche di espansione aggressive incompatibili con gli obiettivi di cui all’art. 12, comma 1, del decreto-legge n. 185, e conseguirne indebiti vantaggi” (art. 1, co. 3) e che “la Banca d’Italia monitora l’espansione delle attività
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di bilancio delle banche interessate” (art. 4, co. 1) 82. La legge prevede, altresì, a tutela della finalità di riattivazione delle linee di credito verso l’economia reale, un monitoraggio sulle operazioni e sui loro effetti sull’economia. A tal fine istituisce speciali osservatori presso le prefetture, con la partecipazione dei soggetti interessati. La Banca d’Italia, a sua volta, fornisce al Ministero dell’Economia dati ed analisi sull’andamento del credito e sui suoi costi, su base regionale, a ulteriore integrazione e completamento delle ampie informazioni disaggregate a livello territoriale già diffuse nelle proprie pubblicazioni. “È essenziale – ha osservato il Governatore della Banca d’Italia 83 – che l’analisi delle condizioni del credito a livello locale non sconfini in un ruolo di pressione sulle banche che spinga ad allentare il rispetto di criteri di sana e prudente gestione nella selezione della clientela. Ritengo che debbano essere evitate interferenze politico-amministrative nelle valutazioni del merito di credito di singoli casi. Il credito è e deve restare attività imprenditoriale, basata su un prudente apprezzamento professionale della validità dei progetti aziendali. Le banche imprudenti prima o poi finiscono in dissesto e smettono anche di far credito. Ma la prova sollecitata dalla crisi è severa e richiede di sapere essere bravi banchieri anche quando l’economia va male. Di fronte all’inevitabile peggioramento della qualità del credito dovuta alla recessione occorrono scelte lungimiranti: non basta tenere i conti in ordine. Un fermo sostegno ai clienti con buon merito di credito evita che una stretta creditizia eccessiva aggravi la recessione e quindi peggiori la posizione degli stessi clienti delle banche”. D) Da ultimo occorre sottolineare la grande difficoltà di por mano agli interventi di “pubblicizzazione regolamentare”, in altre parole a ridisegnare le norme che devono governare nell’immediato dopo-crisi su basi rinnovate i mercati finanziari e più in generale l’economia globale, dando vita a quella che è stata definita la “Bretton Woods” del XXI secolo e così ad un sistema di “Global Legal Standard” per un futuro sostenibile
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Il d.m. prevede anche che il “protocollo di intenti”, a sottoscriversi fra banca interessata e Ministero, venga definito sulla base di un accordo quadro tra il Ministero e l’Associazione Bancaria Italiana e abbia ad oggetto la disponibilità complessiva di credito da concedere a favore delle famiglie e delle piccole e medie imprese, definita tenendo conto delle esigenze di sviluppo dell’economia, della domanda di credito attesa e della necessità di assicurare una prudente allocazione del credito. L’accordo quadro è stato regolarmente stipulato. 83 Cfr. sempre nt. 71.
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che eviti il ripetersi di crisi così estese e disastrose. Ovviamente, nulla impedisce che i singoli Stati o più estese aree regionali (come l’Unione Europea) affrontino il tema con riferimento al proprio ambito di competenza territoriale, ciò che è in parte accaduto e sta accadendo 84. Ma è evidente che, proprio le caratteristiche globali della crisi, rendono del tutto insufficienti sforzi individuali ed esigono regole parimenti globali. Senonché proprio su tale aspetto, al di là dei buoni propositi e delle manifestazioni di intenti o di generici documenti, le divergenze sembrano farsi più profonde. A cominciare dalla denominazione stessa del progetto, che la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha voluto indicare più genericamente come “Global Charter” e il ministro italiano, Giulio Tremonti, ha designato più puntualmente come “Legal Standard” e che, da ultimo, nei documenti ufficiali del G8, tenutosi a L’Aquila dall’8 al 10 luglio 2009, è divenuto meno impegnativamente il “dodecalogo” del cd. “Lecce Framework”, dal documento elaborato dai Ministri delle Finanze degli otto Paesi riuniti a Lecce per i lavori preliminari allo stesso G8. Anche sul grado di vincolatività di questi nuovi “standard” permangono contrasti fra chi ritiene sufficiente un approccio da soft law e chi invoca di contro veri e propri trattati internazionali vincolanti; e così ancora persistono divergenze sui contenuti e soprattutto sulla filosofia di fondo che dovrebbe contrassegnare questo nuovo attivismo delle pubbliche autorità in merito alla eteroregolazione e alla vigilanza della comunità degli affari, quando ancora echeggiano gli inni da poco innalzati alle liberalizzazioni e alla deregolamentazione dei mercati e degli intermediari finanziari. Il percorso non si presenta, dunque, né agevole né breve, come hanno confermato gli esiti del G8 de L’Aquila, il quale da un canto ha riconosciuto che “reforms of financial regulations will be implemented swiftly, ensuring a level playing field” e che “the crisis has revealed the importance of propriety, integrity and transparency regarding the conduct of international business and finance, so as to strengthen business ethics”, ma d’altro canto ha rinviato alle iniziative già intraprese dal-
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Si veda per gli Stati Uniti il documento del Congressional Oversight Panel, Special Report on Regulatory Reform, January, 2009; per la Gran Bretagna Financial Services Authority, The Turner Review: A regulatory response to the global banking crisis; e per l’UE The High-Level Group on Financial Supervision in the Eu, Report, Brussels, 25 febbraio 2009 (c.d. Rapporto de Larosière).
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l’OCSE e da altre organizzazioni internazionali il compito di sviluppare principi e standard comuni delineati nel “Lecce Framework” e per i quali sussiste l’impegno a riprenderli nel G20 di Pittsburgh programmato per il prossimo autunno 85.
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La dichiarazione dei Ministri delle Finanze del G8, riuniti a Lecce il 13 giugno 2009, così si esprime sul punto: “The crisis has revealed the importance of strengthening our commitment to standards of propriety, integrity and transparency. To address these issues in a comprehensive fashion, we agreed on the need to develop the Lecce Framework – a set of common principles and standards regarding the conduct of international business and finance – which builds on existing initiatives and lays the foundation for a stable growth path over the long term (see the attached annex for details). We are committed to working with our international partners to make progress with this initiative, with a view to reaching out to broader fora, including the G20 and beyond. We discussed regulatory reform in our countries and at the international level. We are swiftly implementing the decisions taken at the London Summit and call on others to join our efforts to ensure global financial stability and an international level playing field. We urge the relevant international institutions to closely monitor the implementation of these decisions. We also call on the FSB to develop a toolbox of measures to promote adherence to prudential standards and cooperation with jurisdictions”. Si riporta qui di seguito il cd. “Lecce Framework”: The Lecce Framework: Common Principles and Standards for Propriety, Integrity and Transparency We are in the middle of the worst crisis since the Great Depression. The breadth and intensity of the prolonged downturn have revealed the importance of strengthening our commitment to standards of propriety, integrity and transparency. Excessive risk taking and the violation of these basic principles contributed to undermine international economic and financial stability. This occorre both in areas that relied on self regulation and market discipline and in fields with formal rules and oversight, revealing flaws in the functioning of markets. For the market economy to generate sustained prosperity, fundamental norms of propriety, integrity and transparency in economic interactions must be respected. The magnitude and reach of the crisis has demonstrated the need for urgent action in this regard. Reform efforts must address these flaws in international economic and financial systems with resolve. This will require promoting appropriate levels of transparency, strengthening regulatory and supervisory systems, better protecting investors, and strengthening business ethics. Today, we, the G8 Finance Ministers, discussed the need for a set of common principles and standards for propriety, integrity and transparency regarding the conduct of international business and finance. We have agreed on the objectives of a strategy, “the Lecce Framework”, to create a comprehensive framework, building on existing initiatives, to identify and fill regulatory gaps and foster the broad international consensus needed for rapid implementation. The Lecce Framework recognizes that there is a wide range of instruments, both existing and under development, which have a common thread related to propriety, integrity and transparency and classifies them into five categories: corporate governance, market integrity, financial regulation and supervision, tax cooperation, and transparency of macroeconomic policy and data. Specific issues covered include, inter alia, executive compensation, regulation
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L’OCSE, in effetti, unitamente ad altre quattro organizzazioni internazionali (International Labour Organization – ILO, International Monetary Fund – IMF, World Bank – WB, e World Trade Organization – WTO) si è assunto il compito di effettuare dapprima un “inventario” degli strumenti già esistenti a livello di cooperazione internazionale sul piano economico e sociale 86 e quindi di elaborare i principi comuni da sottoporre all’approvazione dei maggiori Paesi del mondo, su cui peraltro ha aperto un pubblico confronto in rete 87.
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of systemically important institutions, credit rating agencies, accounting standards, the cross-border exchange of information, bribery, tax havens, non-cooperative jurisdictions, money laundering and the financing of terrorism, and the quality and dissemination of economic and financial data. International institutions and for a have already developed a significant body of work addressing a number of important issues in these areas, but, in many cases, the initiatives suffer from insufficient country participation and/or commitment. Today, we agreed to create a coherent framework which builds on work done by the IMF, World Bank, OECD, FSB, FATF, and other international organizations, to strengthen the global market system. To ensure effectiveness, we will make every effort to pursue maximum country participation and swift and resolute implementation. We are committed to working with our international partners to make progress with the Lecce Framework, with a view to reaching out to broader fora, including the G20 and beyond. I documenti si possono rintracciare sul sito ufficiale del G8 2009 de L’Aquila: www. g8italia2009.it/G8/Home/G8-G8_Layout_locale-1199882089535_Home.htm. 86 OECD, A “Global Charter”/”Legal Standard”. An Inventory of Possible Policy Instruments, 19 marzo 2009. 87 Cfr. il sito www.oecd.org/globalstandard/blog, ove alcuni interessanti interventi. L’iniziativa è passata, comunque, per varie tappe sin dagli inizi del 2009, su cui vedi il “Timeline of Global Standard” sempre nel sito dell’OECD.
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I rapporti partecipativi fra banche e assicurazioni alla luce delle più recenti novità normative Sommario: 1. Premessa: limiti e finalità dell’indagine. – 2. Individuazione delle norme applicabili ai rapporti partecipativi tra banche ed imprese di assicurazione. – 3. Le partecipazioni delle banche nel capitale delle imprese di assicurazione. – 3.1. Un po’ di storia. – 3.2. La disciplina attuale: premessa.– 3.2.1. La richiesta di autorizzazioni preventive. – 3.2.2. Gli obblighi di comunicazione. – 4. Le partecipazioni delle imprese di assicurazioni nel capitale delle banche. – 4.1. Un po’ di storia. – 4.2. Problemi per determinate acquisizioni di partecipazioni. – 4.3. Le richieste di autorizzazioni preventive. – 4.4. Gli obblighi di comunicazione. – 4.5. I poteri delle Autorità di vigilanza.
1. Premessa: limiti e finalità dell’indagine. Scopo precipuo del presente saggio è fornire, alla luce delle più recenti novità normative, un quadro d’insieme della disciplina dei rapporti partecipativi tra banche ed imprese di assicurazione con riferimento sia alle partecipazioni delle banche nel capitale delle imprese di assicurazione sia alle partecipazioni delle imprese di assicurazione nel capitale delle banche. La definitiva attuazione della direttiva 2007/44/CE avvenuta nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 21 del 27 gennaio 2010 1 ha posto un
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Il decreto citato nel testo è pubblicato in Gazz. Uff. n. 44 del 23 febbraio 2010. Prima di giungere ad esso, la direttiva aveva già trovato accoglienza nel nostro ordinamento con due provvedimenti amministrativi: il provvedimento Banca d’Italia del 12 maggio 2009 contenente la comunicazione al mercato relativa a “Direttiva 2007/44/CE in materia di acquisto di partecipazioni qualificate in imprese di assicurazione e di riassicurazione, banche e imprese di investimento” e la comunicazione Isvap n. 3 del 2 luglio 2009 concernente “Direttiva 2007/44/CE in materia di acquisto di partecipazioni qualificate in imprese di assicurazione e di riassicurazione, banche e imprese di investimento”.
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ulteriore importante tassello nell’opera di omogeneizzazione della disciplina di tutti gli intermediari finanziari: banche, imprese di assicurazione, sim, sicav ed sgr 2. La materia uniformata concerne la disciplina degli assetti proprietari o, come suol dirsi comunemente, delle partecipazioni a monte degli intermediari finanziari. Obblighi di comunicazione, autorizzazioni, soglie e limiti per l’acquisizione di interessenze nel capitale di tutti gli intermediari finanziari non presentano più alcuna differenza normativa a meno che questa non venga inserita successivamente nella normativa secondaria. La direttiva citata non si occupa, però, delle partecipazioni c.d. a valle ossia delle interessenze che gli intermediari finanziari possano acquisire nel capitale di altre società e, pertanto, per siffatta materia permangono ancora molti differenziali normativi che rilevano, ad avviso di chi scrive, soprattutto nella ricostruzione della disciplina applicabile ai rapporti partecipativi tra banche ed imprese di assicurazione che, soprattutto in passato, hanno costituito oggetto di numerosi studi 3. Tuttavia anche per le partecipazioni a valle delle banche e delle assicurazioni devono essere segnalate importanti novità in punto di legislazione: nel diritto delle assicurazioni, la disciplina delle partecipazioni detenibili dalle imprese di assicurazioniè stata interamente riscritta dal Codice delle assicurazioni private (d’ora in avanti semplicemente Cap) e
2 Il d.lgs. n. 21/2010 si compone di sei articoli: l’art. 1 introduce modifiche alla disciplina degli assetti proprietari delle banche come disciplinati agli artt. 19 ss. t.u.b.; l’art. 2 modifica la disciplina degli assetti proprietari di sim, sgr e sicav dettata agli artt. 15 ss. del t.u.f.; l’art. 3 si occupa di modificare il già più volte rimaneggiato art. 20 l. n. 287/1990; l’art. 4 introduce modifiche alla disciplina degli assetti proprietari delle imprese di assicurazione; l’art. 5 è dedicato alle disposizioni transitorie e finali ed, infine, l’art. 6 contiene le disposizioni finanziarie. 3 Sui problemi connessi ai rapporti partecipativi tra banche ed assicurazioni v., fra i tanti, Corvese, La disciplina giuridica dei rapporti partecipativi fra banche ed assicurazioni, Siena, 1994 al quale si rinvia per ulteriori riferimenti di dottrina cui adde, per i contributi temporalmente successivi, Abi, Banche e assicurazioni, Roma, 1996; Abi, Banca e assicurazione: aspetti giuridici ed economici, Roma, 1997; Nigro, L’integrazione fra attività bancaria e attività assicurativa, Dir. banc., 1997, I, p. 191 ss.; Patroni Griffi, Ricolfi, a cura di, Banche ed assicurazioni fra cooperazione e concorrenza, Milano, 1997; Marchetti, Fortunato e Partesotti, Banche, intermediari finanziari e partecipazioni, in Diritto della banca e del mercato finanziario, I, I soggetti, Bologna, 2000, p. 149 ss.; Desiderio, Banche e assicurazioni, in Diritto dell’economia, a cura di Alpa, De Tilla e Patti, Roma, 2002, p. 361 ss.; Giampaolino, Bancassicurazione. Profili societari e antitrust, ivi, p. 309 ss.; Antonucci, Diritto delle banche, Milano, 2006, p. 179 ss. e Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 2007, p. 588 ss.
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da un apposito regolamento Isvap; nel diritto bancario, la Banca d’Italia ha recentemente emanato un documento di consultazione sulla disciplina delle partecipazioni detenibili dalle banche che contiene importanti novità proprio con riferimento alla materia che qui interessa. Ciò posto il primo passo da compiere è quello di verificare in che termini ed entro quali limiti sia possibile costruirne una. Va, innanzitutto, precisato che nell’ordinamento bancario esiste una disciplina specifica per le partecipazioni, intese sia nel senso di investimenti in azioni o quote rappresentative del capitale di altre società, bancarie e non (partecipazioni delle banche) sia nel senso di acquisizione di azioni o quote da parte di altri soggetti nel capitale delle banche medesime (partecipazioni nelle banche). Quanto detto si ripropone in modo speculare nell’ordinamento assicurativo, dove, anche se più recentemente, è stata introdotta una regolamentazione ad hoc per le partecipazioni delle e nelle società assicurative. Inoltre, v’è da notare che non tutte le disposizioni si riferiscono specificamente all’oggetto del presente lavoro, e ciò accade in particolare nell’ordinamento assicurativo; perciò sarà necessario interpretare la disciplina come se la veste di partecipante o quella di partecipata sia assunta dalla società bancaria o da quella assicurativa. Ciò stante, la trattazione verterà sui due profili fondamentali in cui si articola il problema: da un lato, l’acquisizione di interessenze nel capitale di società assicurative da parte di società bancarie (rapporto banche-assicurazioni) e, dall’altro, l’acquisizione di azioni o quote nel capitale di società bancarie da parte di società assicurative (rapporto assicurazioni-banche).
2. Individuazione delle norme applicabili ai rapporti partecipativi tra banche ed imprese di assicurazione. Per comprendere appieno la complessità dell’argomento ritengo che sia di grande aiuto l’indicazione di tutte le fonti normative, concernenti la materia delle partecipazioni, attualmente vigenti nei due ordinamenti. Pertanto, le disposizioni in parola saranno collocate in due grandi insiemi: l’insieme A corrispondente alle norme relative alle partecipazioni bancarie e l’insieme B contenente le disposizioni in materia di partecipazioni assicurative. Da ciascuno di questi due insiemi è possibile poi ricavare due sottoinsiemi: dall’insieme A il sottoinsieme A.1 che individua le partecipazioni delle banche e il sottoinsieme A.2. che contiene le norme relative alle partecipazioni nelle banche; lo stesso discorso vale per l’insieme B: un sottoinsieme B.1. per le partecipazioni delle società
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assicurative e un sottoinsieme B.2. per le partecipazioni nelle società assicurative.Vediamo in dettaglio le singole disposizioni che li compongono. A. Partecipazioni bancarie. A.1. Partecipazioni delle banche: – art. 1, co. 2, lett. h-quater) t.u.b. che definisce le partecipazioni come le azioni, le quote e gli altri strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi o comunque i diritti previsti dall’articolo 2351, ultimo comma, del codice civile; – art. 53, co. 1, lett. a), b), c), d) e d-bis) t.u.b. che attribuisce alla Banca d’Italia il compito di emanare, in conformità delle deliberazioni del CICR, disposizioni di carattere generale aventi a oggetto l’adeguatezza patrimoniale, il contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni, le partecipazioni detenibili, l’organizzazione amministrativa e contabile e i controlli interni, nonché l’informativa darendere al pubblico sulle predette materie; – art. 53, co. 2 t.u.b. in base al quale le disposizioni emanate ai sensi del co. 1 del medesimo articolo possono prevedere che determinate operazioni siano sottoposte ad autorizzazione della Banca d’Italia; – ild.m. (tesoro) 22 giugno 1993 n. 242632 4;
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Il decreto citato nel testo fu emanato sulla base della delega indicata nell’art. 22, co. 1, lett. a) e c), d. lgs. n. 481/1992 e nell’art. 30, co. 1, lett. d), d. lgs. n. 356/1990. Tutti e due gli articoli appena citati sono stati abrogati dal t.u.b. ma la disposizione di attuazione citata è ancora in vigore e sarà abrogata dal giorno in cui entreranno in vigore le nuove regole contenute nel documento emanato per la consultazione dalla banca d’Italia del dicembre 2009 (così è disposto dall’art. 4 della deliberazione del Cicr del 29 luglio 2008). Nel documento di consultazione si legge che il decreto ministeriale citato “costituì l’occasione per riconoscere alle banche e ai gruppi bancari più ampie possibilità di acquisire partecipazioni, nel rispetto di alcuni limiti di carattere generale volti a contenere i rischi di immobilizzo finanziario e di concentrazione dell’attivo; i limiti stabiliti per le partecipazioni “industriali” tenevano conto, altresì, delle differenti caratteristiche patrimoniali, nonché di struttura del passivo, degli intermediari. Ne è derivata – come più oltre illustrato in maggior dettaglio – una complessa griglia di “soglie autorizzative” e “limiti di detenzione” definiti in ragione: della natura (finanziaria, assicurativa, industriale) del soggetto partecipato; della situazione patrimoniale e delle modalità di raccolta (a medio-lungo termine ovvero “a vista”) della banca; dell’entità della partecipazione in relazione al capitale della società partecipata. Tali criteri normativi avevano per obiettivo principale quello di fronteggiare i rischi derivanti dall’ampliamento delle possibilità operative delle banche; la logica ispiratrice era quella di una graduale e prudente apertura a nuove possibilità operative, del contesto della transizione del sistema bancario verso assetti più aperti e competitivi”.
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– il Titolo IV, Capitolo 9 della circolare n. 229 del 21 aprile 1999 (Istruzioni di vigilanza per le banche); – il Titolo V, Capitolo 1 della circolare Banca d’Italia n. 263 del 27 dicembre 2006 contenente “Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche”; – la deliberazione del CICR n. 276 del 29 luglio 2008 avente ad oggetto “partecipazioni detenibili dalle banche e dai gruppi bancari”; – il Documento di consultazione della Banca d’Italia del 10 dicembre 2009 sulle partecipazioni detenibili dalle banche. A.2. Partecipazioni nelle banche: – l’art. 14, co.1, lett. d), t.u.b. il quale indica come condizione per il rilascio dell’autorizzazione all’attività bancaria che “i titolari delle partecipazioni indicate all’art. 19 abbiano I requisiti di onorabilità stabiliti dall’art. 25 e sussistano I presupposti per il rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art. 19”; – gli artt. 19-24 t.u.b. come modificati dall’art. 1, d.lgs. n. 21/2010; – l’art. 53, co. 4, t.u.b. secondo il quale “la Banca d’Italia, in conformità delle deliberazioni del CICR, disciplina condizioni e limiti per l’assunzione, da parte delle banche, di attività di rischio nei confronti di coloro che possono esercitare, direttamente o indirettamente, un’influenza sulla gestione della banca o del gruppo bancario nonché dei soggetti a essi collegati. Ove verifichi in concreto l’esistenza di situazioni di conflitto di interessi, la Banca d’Italia può stabilire condizioni e limiti specifici per l’assunzione delle attività di rischio”; – il provvedimento Banca d’Italia del 12 maggio 2009 contenente la comunicazione al mercato relativa a “Direttiva 2007/44/CE in materia di acquisto di partecipazioni qualificate in imprese di assicurazione e di riassicurazione, banche e imprese di investimento” 5. B. Partecipazioni assicurative. B.1. Partecipazioni delle assicurazioni: – gli artt. 79-81 Cap; – il regolamento Isvap n. 26 del 4 agosto 2008 recante disposizioni in materia di partecipazioni assunte dalle imprese di assicurazione e di riassicurazione. B.2. Partecipazione nelle assicurazioni:
5 Per un primo commento del documento citato nel testo v. Rotondo, La nuova disciplina delle partecipazioni “non finanziarie” al capitale delle banche: ovvero “prove” di recepimento della direttiva 1007/44/CE, in Dir. banc., 2009, p. 217 ss.
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– gli artt. 68-77 Cap coma modificati dall’art. 4, d.lgs. n. 21/2010; – la comunicazione Isvap n. 3 del 2 luglio 2009 concernente “Direttiva 2007/44/CE in materia di acquisto di partecipazioni qualificate in imprese di assicurazione e di riassicurazione, banche e imprese di investimento”.
3. Le partecipazioni delle banche nel capitale delle imprese di assicurazione. Se una società bancaria vuole acquisire una partecipazione nel capitale di una società assicurativa, le disposizioni a cui è soggetta sono date dagli insiemi di norme A.1 e B.2. Prima di analizzare la disciplina attuale occorre dare un rapido sguardo alla disciplina previgente onde cogliere in modo compiuto le innovazioni introdotte. 3.1. Un po’ di storia. È solo negli anni Novanta che viene inserita nell’ordinamento bancario una disciplina ad hoc per le partecipazioni delle banche nelle assicurazioni. Infatti, il Ministro del Tesoro, con un decreto adottato d’urgenza e datato 4 maggio 1990, aveva affidato alla Banca d’Italia la facoltà di autorizzare le aziende di credito e gli istituti centrali di categoria ad acquisire partecipazioni nel capitale di imprese di assicurazioni 6. La Banca d’Italia, sulla base delle indicazioni fornite dal Ministro, aveva stabilito le prescrizioni per l’assunzione delle interessenze in esame. Innanzitutto, erano stati posti limiti percentuali che si differenziavano a seconda se l’impresa assicurativa esercitasse il ramo vita o il ramo danni, e ciò perché si volevano “contenere gli immobilizzi delle banche nel comparto”. Per il ramo vita, la partecipazione de qua non poteva esse-
6 Fra le motivazioni che avevano spinto a tale soluzione v’era anche la circostanza che nell’ambito del “processo di progressiva integrazione tra i diversi settori in cui si articola l’industria dei servizi finanziari (…) particolare rilevanza rivestono i prodotti assicurativi, specie del «ramo vita», i quali per le crescenti connotazioni finanziarie assunte nel tempo costituiscono forme alternative di investimento del risparmio”. Sul rapporto fra assicurazione sulla vita e intermediazione finanziaria v. Longo, Considerazioni riassuntive sul rapporto tra assicurazione vita e intermediazione finanziaria, in Assicurazioni, 1985, I, p. 499 ss. e Fanelli, Assicurazione sulla vita e intermediazione finanziaria, in Assicurazioni, 1986, I, p. 181 ss.
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re superiore al 20 per cento del patrimonio dell’azienda partecipante, mentre per il ramo danni (e lo stesso valeva per l’ipotesi di esercizio congiunto dei due rami) la partecipazione non poteva superare il 10 per cento del patrimonio suddetto. Inoltre, qualunque fosse il ramo di attività esercitato, ogni singola interessenza nel capitale di un’impresa di assicurazione non avrebbe potuto superare, al valore di bilancio, il 10 per cento del patrimonio della partecipante. Infine, veniva posto anche un limite soggettivo, ossia le partecipazioni di controllo (letteralmente: “di maggioranza assoluta”) potevano essere acquisite solo da aziende di credito di grandi dimensioni. Le citate percentuali facevano emergere come, nonostante il favor per tale tipo di partecipazioni, si avvertiva una certa preoccupazione delle autorità di vigilanza del settore creditizio, specialmente nel caso in cui la partecipazione fosse stata acquisita in“imprese o enti assicurativi” che esercitavano il ramo danni. Se pure è vero che una simile rigidità era stata introdotta, nella circolare del CICR del 1981, per le partecipazioni nelle “società finanziarie di partecipazione”, in questo caso, però, la preoccupazione era quella di evitare commistioni fra la gestione bancaria e quella industriale; preoccupazione che nel caso di imprese di assicurazione non sarebbe dovuta esserci. Il decreto ministeriale citato, inoltre, faceva salvi i principi generali in tema di partecipazioni delle banche dettati dal CICR nella delibera del 1981, di cui il decreto suddetto rappresentava solo un’integrazione. Rimanevano in vita le disposizioni riguardanti il rilascio dell’autorizzazione e gli obblighi di comunicazione; e cioè, la preventiva autorizzazione doveva essere richiesta quando la partecipazione avesse superato il 2 per cento del capitale della partecipata o il 10 per cento del patrimonio dell’azienda partecipante, mentre per tutte le altre partecipazioni, purché ammissibili, era necessaria solo la comunicazione. Agli inizi degli anni Novanta, il legislatore avvertì l’esigenza di inserire anche nell’ordinamento assicurativo strumenti normativi idonei a garantire la trasparenza degli assetti proprietari. Infatti, la l. 9 gennaio 1991, n. 20 7 regolava in modo più compiuto le partecipazioni
7 La materia contenuta nella l. n. 20/1991 maggiormente approfondita in dottrina è stata senza dubbio proprio quella delle partecipazioni delle e nelle imprese di assicurazione e sul punto cfr. Marchetti, La nozione di controllo nell’art. 10 legge 20/1991: la posizione dell’Isvap, in Riv. soc., 1992, p. 1475 ss., Tedeschi, Controllo delle partecipazioni e degli atti compiuti con società del gruppo, in Società, 1991, p. 436 ss.; Morvillo Autorizzazione all’assunzione del controllo di imprese o enti assicurativi e obbligo di
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delle e nelle compagnie assicurative, indicando obblighi a carico dei partecipanti e dei partecipati e poteri per le autorità di vigilanza del settore. Bisogna comunque precisare che già con la legge istitutiva dell’ISVAP (l. 12 agosto 1982, n. 576) si tentò di soddisfare la suddetta esigenza aumentando il flusso e la qualità delle informazioni dalle imprese di assicurazioni alle autorità di vigilanza. Ma nonostante l’ampiezza di tali poteri, la sempre maggiore integrazione tra i settori del sistema finanziario e l’acquisizione di compagnie assicurative da parte di gruppi industriali e finanziari e la conseguente esigenza di un’informazione destinata alla vigilanza più puntuale e tempestiva, “(avevano) rivelato l’inadeguatezza delle disposizioni, che (soddisfacevano) esclusivamente l’esigenza di una informativa sull’azionariato a fini strettamente inerenti all’esigenza di un maggiore controllo sulla gestione a causa della scarsa affidabilità di una parte dell’azionariato” 8. In altre parole, non bastava più la sola collaborazione con le altre autorità, ma era necessario che all’ISVAP venissero attribuiti poteri affidati nella materia de qua alla Banca d’Italia e alla CONSOB. E così fu, tant’è che alcune delle disposizioni della l. n. 20/1991 furono “ricopiate” dal titolo V della legge antitrust ed anche dalla l. n. 281/1985. Va precisato che sia nella l. n. 20/1991 che nelle sue disposizioni applicative, non si faceva esplicito riferimento al fatto che le aziende di credito potessero acquisire interessenze nel patrimonio delle compagnie assicurative; stessa situazione si presenta ora nel Cap e nei regolamenti di attuazione ma, poiché non v’è neppure una esplicita esclusione, le disposizioni verranno lette come se tale circostanza possa verificarsi.
comunicazione delle partecipazioni rilevanti. Brevi note sugli artt. 9, 10 e 11 della legge n. 20 del 9 gennaio 1991, in Assicurazioni, 1991, I, p. 315 ss.; Manghetti, Evoluzione del sistema assicurativo e disciplina della legge n. 20/1991, in Diritto ed economia dell’assicuraz., 1993, p. 649; Corvese, La disciplina del controllo sulle partecipazioni assicurative (prime riflessioni sul titolo II della l. 9 gennaio 1991, n. 20, in Dir. banc., 1993, I, p. 76 ss.; Cavallo Borgia, La comunicazione delle partecipazioni rilevanti in imprese assicurative, in Diritto ed economia dell’assicuraz., 1994, p. 357; Sangiorgio, Il gruppo assicurativo nell’esperienza dell’Isvap, in I gruppi di società, a cura di Balzarini, Carcano e Mucciarelli, Milano, 1996, I, p. 535 ss. ed i contributi raccolti nel volume La disciplina delle partecipazioni societarie nel settore assicurativo dopo le modifiche della legge n. 20/1991, Milano, 1997. 8 Così D. Marchetti, Momenti societari e contenuto del controllo dell’ISVAP, in Riv. soc., 1987, p. 428.
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3.2. La disciplina attuale: premessa. Veniamo cosi alla disciplina attualmente vigente e, per chiarezza di indagine, la distinguiamo a seconda se l’operazione di cui si parla generi un obbligo di comunicazione o quello di richiedere la “preventiva autorizzazione” 9. 3.2.1. La richiesta di autorizzazioni preventive. In determinati casi la banca che vuole acquisire una partecipazione in un’impresa di assicurazione ha l’obbligo di richiedere l’autorizzazione preventiva ad effettuare suddetta operazione, e tale obbligo è previsto, per la fattispecie in esame, sia nell’ordinamento bancario che in quello assicurativo. Poiché la materia è molto complessa teniamo distinte le norme relative ai due ordinamenti. Nell’ordinamento bancario, l’art. 53, co.1, lett. c), t.u.b., così come i precedenti artt. 32 e 35 l. banc. 1936-’38, lascia ampia discrezionalità alle Autorità di controllo del settore nel regolamentare la materia. Nel disciplinare la materia le Autorità di vigilanza (CICR e Banca d’Italia) hanno dovuto realizzare un contemperamento fra due diversi criteri generali: da un lato, “la neutralità della norma”, nel senso che questa non “deve influenzare a priori le scelte dell’imprenditore bancario in ordine
9 Nel documento per la consultazione della Banca d’Italia del dicembre 2009 con riferimento ai rischi delle partecipazioni in imprese finanziarie, strumentali e assicurative si legge che “una menzione particolare meritano le partecipazioni in imprese assicurative. (…). In termini operativi, la partecipazione al capitale di imprese assicurative può consentire agli intermediari bancari di beneficiare di economie di scala e di diversificazione, facendo leva soprattutto sulla complementarità dei prodotti offerti e la possibilità di utilizzare canali distributivi omogenei. Al contempo, possono rilevare importanti problematiche, quali la differenza tra i profili temporali dei rischi caratteristici dei due comparti: da un lato quelli di mercato e di credito, che vengono valutati su orizzonti temporali a breve e medio termine, dall’altro quello assicurativo, valutato su un orizzonte temporale pluriennale. Non meno complessa è la quantificazione della correlazione fra i rischi, rendendo così i potenziali benefici netti della diversificazione di difficile valutazione. In tutti i casi sopra menzionati le attività della partecipante e della partecipata sono spesso destinate a integrarsi, o comunque a coordinarsi tra loro, pertanto la situazione tecnica del soggetto partecipato diventa rilevante ai fini della stabilità del partecipante; ciòè tanto più vero quanto maggiore è la rilevanza dell’operazione. Inoltre, un vaglio dell’Organo di vigilanza volto ad analizzare gli effetti dell’acquisizione sul livello di patrimonializzazione della banca acquirente è opportuno, considerato che la complessità di alcune operazioni di acquisizione può celare effetti negativi sulla complessiva adeguatezza patrimoniale”.
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al modello organizzativo multidivisionale o di gruppo” e, dall’altro lato, il fatto che, in ogni caso, l’investimento in partecipazioni e in immobili non può superare il margine disponibile. La disciplina amministrativa distingue due grandi categorie di soggetti in cui gli enti creditizi possono acquisire partecipazioni: il primo gruppo comprende banche, società finanziarie e strumentali e imprese di assicurazione; nel secondo, invece, con un nomen generico sono collocate le imprese non finanziarie. Sembrerebbe che il criterio seguito nella suddivisione sia quello oggettivo, basato cioè sulla natura delle attività svolte dalle imprese partecipate: le imprese finanziarie e le imprese extrafinanziarie. In realtà la Vigilanza non fornisce una definizione in positivo di impresa finanziaria ma ne dà una negativa: “l’impresa non finanziaria è la società che svolge attività diversa da quella bancaria, finanziaria, assicurativa, ovvero non sia società strumentale”. Argomentando a contrario tutte le imprese che svolgono attività bancaria, finanziaria, assicurativa o attività strumentale alle predette dovrebbero essere imprese finanziarie. Tralasciando la disciplina delle partecipazioni in imprese non finanziarie, alla quale dovrebbe essere dedicato un apposito saggio 10, analizziamo, innanzitutto quali sono le condizioni al verificarsi delle quali la società bancaria deve richiedere l’autorizzazione. In primo luogo, l’acquisizione di interessenze nel capitale di imprese di assicurazione è sottoposta ad una preventiva autorizzazione, che deve essere rilasciata dalla Banca d’Italia, qualora si verifichi che l’ammontare della partecipazione: 1) superi il 10 per cento, il 20 per cento del capitale della società partecipata; 2) determini il controllo; 3) superi il 10 per cento del patrimonio di vigilanza. Queste percentuali sono le stesse nel caso in cui la partecipata sia una banca, una società finanziaria o una assicurativa. Nel caso in cui la veste di partecipata venga assunta da una società assicurativa, però, l’ammontare della partecipazione non può superare il 40 per cento del patrimonio di vigilanza degli enti creditizi; tuttavia tale limite si ritiene concretamente superato dalle previsioni in materia di grandi rischi 11. Nel Documento per la consultazione della
10 Sui rapporti banca-industria v. recentemente Benocci, Fenomenologia e regolamentazione del rapporto banca-industria. Dalla separazione per soggetti alla separazione dei ruoli, Pisa, 2007 e dello stesso a. anche Commento art. 19 t.u.b., in Commentario al testo unico bancario, a cura di Belli, Losappio, Porzio, Rispoli Farina, Santoro, Milano, 2010, p. 188 ss., spec. p. 233 ss. ed ivi ampie indicazioni di bibliografia. 11 V. il Titolo V, Capitolo 1, della circolare Banca d’Italia n. 263 del 27 dicembre 2006 contenente “Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche”.
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Banca d’Italia del dicembre 2009 si legge che l’unico limite che dovrebbe rimanere, una volta entrata in vigore la nuova disciplina delle partecipazioni detenibili dalle banche nelle imprese di assicurazione, sarà il 10 per cento del patrimonio di vigilanza della banca. Secondo quanto stabilito nell’ordinamento assicurativo, considerato anche quanto previsto dall’Isvap nella circolare n. 3/2009 – che, dopo l’attuazione della direttiva 2007/44/CE rimane in vigore, secondo me, quantomeno come circolare interpretativa delle norme primarie non espressamente abrogate – le banche devono richiedere l’autorizzazione all’ISVAP quando l’acquisto comporti l’acquisizione, a qualsiasi titolo, in un’impresa di assicurazione o di riassicurazione di partecipazioni che, tenuto conto delle azioni o quote già possedute: 1) comportano il controllo; 2) comportano la possibilità di esercitare un’influenza notevole sull’impresa stessa ovvero 3) attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10 per cento (art. 68, co. 1, Cap come modificato dall’art. 4, co. 1, lett. d), d.lgs. n. 21/2010 12). Sono altresì soggette ad autorizzazione preventiva le variazioni delle partecipazioni nei casi in cui la quota dei diritto di voto o del capitale raggiunga o superi il 20%, 30%, o 50% ed in ogni caso quando le variazioni comportino il controllo dell’impresa (art. 68, co. 2, Cap come modificato dall’art. 4, co. 1., lett. e), d.lgs. n. 21/2010). In tal modo è stata abrogata la definizione di partecipazione rilevante fornita dall’art. 1, co. 1, lett. oo) Cap 13. Soffermiamoci sulla definizione di controllo che, invece, è rimasta immodificata. Il controllo sussiste, anche con riferimento a soggetti di
12 Per un commento sistematico dell’art. 68 del Cap prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 21/2010 v. Troiano, Commento artt. 68-69, in Il codice delle assicurazioni private, a cura di Capriglione, Padova, I, 2, 2007, p. 98 ss.; Giampaolino, Gli assetti proprietari e i gruppi assicurativi, in Il nuovo Codice delle Assicurazioni, a cura di Amorosino e Desiderio, Milano, 2006, p. 209 ss., spec. pp. 211-216; Regoli, Commento artt. 68-75, in Commentario al codice delle assicurazioni, a cura di Bin, Padova, 2006, p. 146 ss. e, da ultimo, Brestolli, Commento art. 68 Cap, in Commentario breve al Codice delle assicurazioni, a cura di Volpe Putzolu, Padova, 2010, p. 369 ss. Nella previgente legislazione il limite fu innalzato dal 2% al 5% ad opera dell’art. 114 del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174 attuativo della III direttiva CEE vita. Cfr. Marano, «Bancassicurazione» e procedure per l’autorizzazione all’acquisto di partecipazioni: verso una semplificazione?, in Dir. banc., 1997, I, p. 76 ss.; Montalenti, Commento art. 114, in La nuova disciplina dell’impresa di assicurazione sulla vita in attuazione delle terza direttiva, a cura di Partesotti e Ricolfi, Padova, 2000, p. 898 ss. e Morvillo, Le partecipazioni al capitale delle imprese assicuratrici, in Assicurazioni, 1996, I, p. 387 ss. 13 L’abrogazione è avvenuta per opera dell’art. 4, co. 1, lett. a), d.lgs. n. 21/2010.
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versi dalle società, nelle ipotesi previste dall’art. 2359, co. 1 e 2, c.c. ed in presenza di contratti o di clausole statutarie che abbiano come oggetto o per effetto il potere di esercitare l’attività di direzione e coordinamento (v. art. 72, co. 1, Cap). Come già previsto nel t.u.b. all’art. 23, anche l’art. 72 cit. prevede fattispecie presuntive, salvo prova contraria, del controllo, nella forma dell’influenza dominante, in una delle seguenti ipotesi: a) l’esistenza di un soggetto che, in base ad accordi con altri soci, ha il diritto nominare e revocare la maggioranza degli amministratori (nel caso di sistema di amministrazione e controllo di tipo tradizionale o di tipo monistico) o del consiglio di sorveglianza (nell’ipotesi in cui la società abbia optato per il sistema dualistico); b) l’esistenza di un soggetto che dispone da solo della maggioranza dei voti ai fini delle deliberazioni relative alle materie di cui agli artt. 2364 e 2364-bis c.c.; c) il possesso di partecipazioni idonee a consentire la nomina o la revoca della maggioranza dei componenti dell’organo che svolge funzioni di amministrazione o del consiglio di sorveglianza; d) la sussistenza di rapporti, anche tra soci, di carattere assicurativo, riassicurativo, finanziario ed organizzativo atti a produrre uno degli effetti indicati all’art. 72, co. 2, lett. c) Cap; ed infine, d) l’assoggettamento a direzione comune, in base alla composizione degli organi amministrativi o per altri concordanti elementi quali, esemplificativamente, legami importanti e durevoli di riassicurazione 14. Per partecipazioni indirette si devono intendere, ai sensi dell’art. 73 Cap, le partecipazioni acquisite o comunque possedute: a) per il tramite di società controllate, società fiduciarie o per interposta persona; b) a titolo di deposito, garanzia pignoratizia o usufrutto, qualora il depositario, il creditore pignoratizio o l’usufruttuario possa esercitare discrezionalmente i diritti di voto ad esse inerenti; c) oggetto di contratto di riporto o di contratti derivati, sotto determinate condizioni. Tornando al procedimento per il rilascio della autorizzazione, sono state volutamente tralasciate le procedure relative a tale procedimento, poiché, come abbiamo già visto, l’acquisizione di partecipazioni di controllo è sottoposta ad una duplice autorizzazione: una della Banca
14 V. Donati, Volpe Putzolu, Manuale di diritto delle assicurazioni, Milano, 2006, p. 28 ss.; Giampaolino, Gli assetti proprietari, cit., p. 212 s.; Regoli, Commento art. 72, cit., p. 158 ss.; Maugeri, Commento art. 72, in Il codice, a cura di Capriglione, cit., p. 147 ss.; Farsaci, Il “rapporto di controllo” nel diritto delle assicurazioni, in Assicurazioni, 2006, I, p. 197 ss. e Brestolli, Commento art. 72 Cap, in Commentario breve, a cura di Volpe Putzolu, cit., p. 374 ss.
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d’Italia e l’altra dell’ISVAP e, pertanto, la sommatoria di procedimenti richiede un approfondimento. Nell’ordinamento bancario, l’ente creditizio che intende acquisire una partecipazione di controllo in un’altra impresa deve inoltrare alla Banca d’Italia una richiesta di autorizzazione corredata dallo statuto e dagli ultimi bilanci approvati della società partecipata nonché di ogni altra notizia necessaria ad inquadrare l’operazione nell’ambito di piani strategici. Nel rilascio del provvedimento, l’Organo di vigilanza dovrà valutare se la situazione tecnica e organizzativa della richiedente è tale da sopportare un’ulteriore articolazione e se quest’ultima è compatibile con le esigenze della vigilanza su base consolidata. Quest’ultima notazione assume rilievo secondo la Banca d’Italia, specialmente nel caso di partecipazioni in imprese di assicurazione extracomunitarie, perché bisogna valutare “l’adeguatezza della legislazione e dei controlli di vigilanza del Paese d’origine”. Nell’ordinamento assicurativo la specificazione dei poteri dell’ISVAP è prevista dall’art. 68, co. 5 Cap come modificato dall’art. 4, co. 1, lett. h), d.lgs. n. 21/2010 e dalla comunicazione Isvap n. 3/2009. L’ISVAP valuta, al fine di garantire la sana e prudente gestione dell’impresa di assicurazione cui si riferisce il progetto di acquisizione e in modo proporzionale alla probabile influenza del potenziale acquirente sull’impresa medesima, la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria della prevista acquisizione tenendo conto anche dei possibili effetti dell’operazione sulla protezione degli assicurati dell’impresa autorizzata 15. La valutazione viene condotta sulla base dei seguenti criteri: a) la reputazione e la solidità finanziaria del potenziale acquirente (v. art. 77 Cap), in particolare in considerazione del tipo di attività esercitata o prevista dall’impresa di assicurazione cui si riferisce il progetto di acquisizione; b) la reputazione e l’esperienza di coloro che, in esito alla prevista acquisizione, svolgeranno funzioni di amministrazione, direzione e controllo nell’impresa di assicurazione ai sensi dell’art. 76 Cap 16;
15 Nella Relazione al d.lgs. n. 21/2010 si sottolinea l’opportunità del riferimento alla protezione degli assicurati che in ambito assicurativo qualifica gli obiettivi di vigilanza come previsto dall’art. 27 della proposta di direttiva Selvency II. 16 Sul punto mi permetto di rinviare al mio Assetti proprietari e gruppo nel diritto delle assicurazioni: alcuni spunti di riflessione, in Assicurazioni, 2008, I, p. 572 ss. ed ivi ampie indicazioni di bibliografia.
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c) la capacità dell’impresa di assicurazione di rispettare e continuare a rispettare le disposizioni normative e regolamentari di vigilanza. In particolare, il gruppo di cui diventerà parte deve disporre di una struttura che permetta di esercitare una vigilanza efficace, di scambiare effettivamente informazioni tra le autorità competenti e di determinare la ripartizione delle responsabilità tra le autorità competenti; d) l’esistenza di motivi ragionevoli per sospettare che, in relazione alla prevista acquisizione, sia in corso o abbia avuto luogo un’operazione o un tentativo di riciclaggio di proventi di attività illecite o di finanziamento del terrorismo ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2005/60/CE o che la prevista acquisizione potrebbe aumentarne il rischio. Nella comunicazione Isvap n. 3 del luglio 2009 si legge che fino all’entrata in vigore del d.lgs. n. 21/2010, l’ISVAP valuterà le istanze di autorizzazione alla luce dei criteri sopra richiamati – tenendo anche conto delle linee guida applicative emanate dai Comitati di terzo livello: il Committee of European Banking Supervisors (CEBS), il Committee of European Insurance and Occupational Pension Supervisors (CEIOPS) ed il Committee of European Securities Regulators 17 – e delle vigenti disposizioni, in quanto compatibili 18. A queste ultime si fa rinvio anche per la documentazione ivi richiesta a corredo dell’istanza. Relativamente ai tempi per la conclusione del procedimento, l’art. 4, co. 1, lett. h), d.lgs. n. 21/2010 ha eliminato i termini fissati dall’art. 68, co. 5 Cap e tale modifica è stata necessaria al fine di rendere coerente la disciplina nazionale con le previsioni comunitarie (v. l’art. 15-bis della
17 Cfr. Cebs, Ceiops, Cesr, Guidelines for the prudential assessment of acquisitions and increases in holdings in the financial sector required by Directive 2007/44/CE del 18 dicembre 2008 disponibile su http://www. ceiops.eu. 18 Le disposizioni per le quali deve essere valutata la compatibilità sono, in modo specifico: il d.m. 24 aprile 1997, n. 186, il provvedimento Isvap n. 1617 G del 21 luglio 2000 e le Circolari Isvap n. 185 del 20 ottobre 1992 e n. 251 del 3 luglio 1995. Per un tentativo di ricostruzione della disciplina dei requisiti degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale di imprese di assicurazione dopo l’entrata in vigore del testo unico della finanza cfr. Corvese, Commento art. 4 d.lgs. 4 agosto 1999, n. 343, in Il rafforzamento della vigilanza prudenziale nel settore assicurativo, a cura di Partesotti, Padova, 2002, p. 96 ss. e, dopo l’entrata in vigore del Codice, Valensise, Commento artt. 76-78, in Il codice, a cura di Capriglione, cit., p. 190 ss.; Regoli, Commento art. 76, cit., p. 173; Giampaolino, Gli assetti proprietari, cit., p. 221 ss.; Martina, L’accesso all’attività assicurativa, in La regolazione assicurativa. Dal Codice ai provvedimenti di attuazione, a cura di Marano e Siri, Torino, 2009, p. 336 s. e Russo, Commento art. 76, in Commentario breve, a cura di Volpe Putzolu, cit., p. 76 s.
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direttiva 92/49/CEE, l’art. 15-bis della direttiva 2002/83/CE e l’art. 19 della direttiva 2005/68/CE introdotti dalla direttiva 2007/44/CE). Attualmente trovano applicazione le regole dettate dall’Isvap nella comunicazione n. 3/2009 dove i termini sono notevolmente diminuiti: l’Isvap si deve pronunciare entro 60 giorni lavorativi dalla data di invio della comunicazione di avvio del procedimento e un’eventuale sospensione dei termini non può eccedere i 20 giorni lavorativi 19.
19 Nella comunicazione Isvap n. 3/2009 si legge che “Al fine di agevolare lo svolgimento del procedimento di autorizzazione, tenuto conto dei tempi ristretti per l’avvio del procedimento e per la sua conclusione, è fondamentale la piena cooperazione tra il potenziale acquirente e l’ISVAP, da attuare attraverso regola ricontatti, anche in via telematica, da avviare anche prima della formale presentazione dell’istanza di acquisizione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 69, comma 1, del Codice delle assicurazioni circa la comunicazione dell’intendimento di acquisizioni. Ai sensi della disciplina comunitaria, entro due giorni lavorativi dalla ricezione dell’istanza, l’ISVAP invia al potenziale acquirente la comunicazione di avvio del procedimento, attestando l’avvenuta ricezione dell’istanza e di tutte le informazioni richieste e indicando il termine di conclusione del procedimento. Se la domanda è irregolare o incompleta, entro due giorni lavorativi dalla sua ricezione l’ISVAP ne dà comunicazione al potenziale acquirente, indicando le cause dell’irregolarità o dell’incompletezza e chiedendo di produrre gli eventuali documenti mancanti. La comunicazione di avvio del procedimento è inviata entro due giorni lavorativi dalla ricezione della domanda regolarizzata o completata. L’ISVAP si pronuncia sull’istanza entro 60 giorni lavorativi dalla data di invio della comunicazione di avvio del procedimento. Nella comunicazione di avvio del procedimento o successivamente, purché entro 50 giorni lavorativi dall’invio della predetta comunicazione, l’ISVAP può richiedere al potenziale acquirente informazioni ulteriori, qualora ritenga necessari chiarimenti o integrazioni al fine delle proprie valutazioni. La richiesta è effettuata per iscritto precisando le informazioni integrative necessarie. In tali casi, il termine di conclusione del procedimento è sospeso, per una sola volta, fino alla ricezione della risposta del potenziale acquirente. La sospensione non può eccedere i 20 giorni lavorativi. Detto termine può tuttavia essere prorogato fino a un massimo di 30 giorni lavorativi se il potenziale acquirente risiede in un paese extracomunitario o è soggetto a una regolamentazione extracomunitaria, ovvero non è un soggetto vigilato. Al più tardi entro due giorni lavorativi dalla ricezione delle informazioni integrative ovvero dalla scadenza del termine massimo di sospensione senza che siano pervenute le informazioni richieste, l’ISVAP comunica per iscritto al potenziale acquirente la riapertura dei termini di conclusione del procedimento. Eventuali ulteriori richieste di completamento o chiarimento delle informazioni ricevute non comportano una nuova sospensione dei termini. Nel corso del procedimento, l’ISVAP può effettuare approfondimenti istruttori tramite accertamenti ispettivi o acquisire pareri di altre amministrazioni o autoritànazionali ed estere. In tali casi, i termini di conclusione del procedimento non sono sospesi. Tuttavia,
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Nell’ambito del procedimento autorizzativo, notevole rilevanza assumono i protocolli di autonomia disciplinati dall’art. 75 Cap che riprende, in parte, il contenuto dell’art. 12, l. n. 20/91 20. In effetti il procedimento si conclude positivamente non solo per il ricorrere dei requisiti previsti dalla legge, ma anche e soprattutto per il soddisfacimento di determinate condizioni che assicurino sia il sostegno finanziario per la stabilità dell’impresa assicurativa sia l’autonomia di gestione 21. Il protocollo di autonomia si sostanzia in una responsabile dichiarazione che consiste non tanto nella specifica assunzione di un impegno comportamentale verso l’impresa partecipata, quanto nella attestazione delle informazioni rese alla Vigilanza, con particolare riferimento ai collegamenti finanziari dell’azionista rilevante ed allo specifico impegno di costui diretto, da un lato, ad assicurare la correttezza e professionalità della gestione dell’azienda assicurativa, dall’altro, a garantire alla stessa gestione autonomia di azione e di iniziativa.
la mancata tempestiva ricezione di informazioni o pareri che l’ISVAP abbia richiesto ad altre amministrazioni o autoritàe che essa ritenga necessari per il rilascio dell’autorizzazione puòcostituire motivo per il rigetto dell’istanza”. 20 Per un esame critico dei poteri attribuiti all’Istituto con la l. 20/1991, oltre alla bibliografia citata sulla legge (v. supra nt 7), cfr. Grenca, Le funzioni ed i poteri dell’ISVAP, in Previdenza sociale, 1990, 1241 ss.; Jannuzzi, I poteri dell’ISVAP, in Assicurazioni, 1991, I, 31 ss.; Tedeschi, Controllo delle partecipazioni e degli atti compiuti con società di gruppo, in Le Società, 1991, p. 436 ss.; Siri, Il commento, in Corr. giur., 1991, p. 512 ss. 21 Utile indicazione per il contenuto del protocollo era fornita dal d.m. (industria) 24 aprile 1997, n. 186 recante il “regolamento concernente la determinazione dei requisiti di onorabilità e professionalità ai fini del rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività assicurativa, nonché la determinazione dei criteri per la concessione, la sospensione e la revoca delle autorizzazioni all’assunzione di una partecipazione qualificata o di controllo in imprese assicuratrici” ed è pubblicato in Gazz. uff., 28 giugno 1997, n. 149. L’art. 5 di tale provvedimento stabiliva le modalità di presentazione della domanda di autorizzazione, prescrivendo l’allegazione, unitamente ad altri documenti ed attestazioni, di una specifica attestazione con la quale l’azionista si doveva impegnare a: 1) non porre in essere atti o comportamenti contrari all’autonomia gestionale dell’impresa di assicurazione nonché agli interessi degli assicurati e, in generale, a far conoscere gli strumenti e le cautele che si intendono adottare per assicurare l’autonomia della gestione dell’impresa assicurativa; 2) non imporre all’impresa controllata eventuali condizioni che rechino pregiudizio a quest’ultima nell’ipotesi di instaurazione di rapporti contrattuali con la stessa; 3) comunicare tempestivamente all’Isvap ogni successivo atto o fatto che modifichi le informazioni rese, nonché ogni ulteriore circostanza significativa riguardante la propria partecipazione nell’impresa di assicurazione; 4) fornire all’Isvap ogni ulteriore documentazione richiesta ai fini di legge e ad adeguarsi alle indicazioni prescritte dallo stesso Istituto con riferimento all’autonomia gestionale, alla stabilità dell’impresa di assicurazione ed alla sana e prudente gestione. Sul punto v. ora Parrella, Commento art. 75, in Il codice delle assicurazioni private, a cura di Capriglione, cit., p. 182 ss.
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Prima dell’emanazione del d.lgs. n. 21/2010 di attuazione della direttiva 2007/44/CE non esisteva alcuna norma che regolasse in modo specifico la procedura da seguire per questo duplice procedimento di autorizzazione 22. Ora l’art. 68, co. 5-bis, Cap introdotto dall’art. 4, co. 1, lett. i), d.lgs. n. 21/2010 prevede espressamente che l’ISVAP opera in piena consultazione – che sembra, almeno sulla carta, cosa diversa della collaborazione fra le Autorità di vigilanza di cui v’è traccia nel t.u.b., nel t.u.f. e nel Cap 23 – con le altre Autorità competenti, nei casi in cui il potenziale acquirente sia una banca, un’impresa di investimento, una sgr o una sicav autorizzata in Italia 24. Per comprendere il significato della “piena collaborazione” si deve dire che lo stesso strumento di collaborazione deve essere utilizzato nell’ipotesi in cui la procedura di autorizzazione dovesse riguardare una delle imprese indicate all’art. 204, co. 1, lett. b) o c) Cap. L’articolo appena citato – dedicato all’autorizzazione relativa all’assunzione del controllo di imprese di assicurazione e riassicurazione comunitarie – è stato modificato dall’art. 4, co. 1, lett. bb), d.lgs. n. 21/2010 che modifica l’unico comma della disposizione in parola e dall’art. 4, co. 1, lett. cc) del d.lgs. citato che aggiunge due nuovi commi all’art. 204 Cap ossia, testualmente, il co. 1-bis e 2-bis 25. Oltre alla non corretta
22 Per i problemi connessi alla necessità di collaborazione fra le autorità di vigilanza rinvio al mio La disciplina giuridica dei rapporti partecipativi tra banche ed imprese di assicurazione, Siena, 1994, p. 84 ss. cui adde Clarich, Il problema del coordinamento tra autorità di vigilanza, in Banche e assicurazioni, a cura di Cesarini, Varaldo, Torino, 1992, p. 40 s. e Marano, «Bancassicurazione», cit. p. 76 ss. 23 Sul punto v. Costi, Sul coordinamento fra le autorità di vigilanza, in Banca, impr. soc., 2001, p. 417 ss. 24 Si deve precisare che con tale previsione il legislatore nazionale è andato oltre la previsione comunitaria che prevede la piene consultazione solo fra Autorità italiane e le Autorità competenti di altri Stati membri. 25 L’art. 4, co. 1 modifica così l’art. 204 Cap: “aa) la rubrica dell’articolo 204 è sostituita dalla seguente: «(Autorizzazione relativa all’assunzione di partecipazioni in imprese di assicurazione o di riassicurazione)»; bb) all’articolo 204 il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. L’ISVAP, nei casi in cui è previsto il rilascio dell’autorizzazione di cui all’articolo 68, opera in piena consultazione con le Autorità competenti degli altri Stati membri allorché l’acquisizione o la sottoscrizione di azioni sia effettuata da un acquirente che sia: a) una banca, un’impresa di assicurazione, un’impresa di riassicurazione, un’impresa di investimento o una società di gestione ai sensi dell’articolo 1-bis, punto 2, della direttiva 85/611/CEE autorizzati in un altro Stato membro; b) un’impresa madre, come definita secondo le rilevanti disposizioni dell’ordinamen-
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numerazione, visto che dopo l’1-bis c’è l’1-ter e non il 2-bis, c’è un’ulteriore errore posto nell’art. 68, co. 5-bis cit., dove alla fine c’è scritto che nell’ipotesi contemplate dall’art. 204, co. 1, lett. b) e c) trovano applicazione “le disposizioni di cui all’art. 204, co. 2 e 3”. È così che i commi 1-bis e 2-bis (rectius 1-ter) diventano “co. 2 e 3”. È forse necessario un decreto correttivo? Evidenziati così gli errori del legislatore, tentiamo di capire come e quando opera la piena consultazione fra l’Isvap e le Autorità competenti degli altri Stati membri. Ai sensi del primo comma dell’art. 204 Cap, nei casi in cui è previsto il rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art. 68 Cap, l’Isvap opera in piena consultazione con le corrispondenti Autorità degli Stati membri quando l’autorizzazione è richiesta da: 1) un’impresa madre di una banca, di un’impresa di assicurazione, di una impresa di investimento, di una sgr ovvero di una sicav dove la definizione di impresa madre è tratta dalle disposizioni comunitarie in materia di vigilanza supplementare delle imprese appartenentiad un conglomerato finanziario; 2) una persona sia fisica che giuridica controllante uno degli intermediari finanziari sopra citati. Il contenuto della “piena consultazione” è rinvenibile nei nuovi co. 1bis e 2-bis (rectius 1-ter). In primo luogo, l’Isvap scambia con le Autorità competenti tempestivamente tutte le informazioni essenziali o pertinenti per la valutazione (co. 1-bis). A tale riguardo, comunica su richiesta tutte le informazioni pertinenti e, di propria iniziativa, tutte le informazioni essenziali. In secondo luogo, l’Isvap nel provvedimento di autorizzazione indica eventuali pareri o riserve espressi dall’Autorità competente a vigilare sul potenziale acquirente (co. 2-bis). Da quanto detto ci sembra di capire che la “piena consultazione” non
to comunitario sulla vigilanza supplementare delle imprese appartenenti ad un conglomerato finanziario, delle imprese di cui alla lettera a); c) una persona, fisica o giuridica, che controlla una delle imprese di cui alla lettera a)»; cc) all’articolo 204, dopo il comma 1, sono aggiunti, in fine, i seguenti: «1-bis. L’ISVAP scambia con le Autorità competenti tempestivamente tutte le informazioni essenziali o pertinenti per la valutazione. A tale riguardo, comunica su richiesta tutte le informazioni pertinenti e, di propria iniziativa, tutte le informazioni essenziali. 2-bis. L’ISVAP nel provvedimento di autorizzazione indica eventuali pareri o riserve espressi dall’Autorità competente a vigilare sul potenziale acquirente”.
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è altro che una collaborazione per la quale sono state legislativamente indicate alcuni requisiti: a) la tempestività dello scambio di informazioni; b) l’essenzialità e la pertinenza delle informazioni scambiate ed, infine, c) la necessaria indicazione nelprovvedimento di autorizzazione di eventuali pareri o riserve espressi dall’Autorità competente. Se così è tali elementi potrebbero formare oggetto anche della “piena consultazione” fra Banca d’Italia ed Isvap. Infine, per concludere la materia delle autorizzazioni, va detto che nel Documento per la consultazione della Banca d’Italia del dicembre 2009 è stabilito che le partecipazioni acquisite da imprese di assicurazione controllate da banche non rientrano nell’ambito di applicazione delle disposizioni concernenti le partecipazioni detenibili dalla banche ma trovano applicazione le disposizioni in tema di partecipazioni delle imprese di assicurazione e di riassicurazione dettate dal Cap e, ove ricorra un conglomerato finanziario, i controlli della vigilanza supplementare previste dal d.lgs. 30 maggio 2005, n. 142 relativo alla disciplina della vigilanza supplementare sugli enti creditizi, sulle imprese di assicurazione e sulle imprese di investimento appartenenti ad un conglomerato finanziario 26. 3.2.2. Gli obblighi di comunicazione. Con riferimento agli obblighi di comunicazione, riteniamo opportuno distinguere: a) i soggetti tenuti alla comunicazione; b) le partecipazioni oggetto della comunicazione e c) i soggetti destinatari della comunicazione. Per quanto concerne il primo punto, l’obbligo di comunicazione ricade su chiunque intende divenire titolare di una partecipazione come definita all’art. 68, co. 1 Cap in un’impresa di assicurazione o di riassicurazione (art. 69, co. 1, Cap come modificato dall’art. 4, co. 1, lett. m), d.lgs. n. 21/2010). L’obbligo di comunicazione deve essere rispettato anche per tutte le variazioni in aumento o in diminuzione quando la variazione rientra nei limiti indicati con regolamento adottato dall’Isvap. All’Istituto spetta il compito di fissare presupposti, modalità, termini e contenuto delle comunicazioni anche con riguardo alle ipotesi nelle quali il diritto di voto spetta o èattribuito ad un soggetto diverso dal titolare della partecipazione.
26 Per la disciplina dei conglomerati si rinvia a Brozzetti, I conglomerati finanziari, Siena, 2006.
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Nella comunicazione Isvap n. 3/2009, che si ricorda è stata emanata nelle more dell’attuazione della direttiva 2007/44/CE, si legge che la percentuale del 5 per cento, eliminata a seguito della citata attuazione, rimane ai fini della comunicazione all’Isvap ai sensi degli artt. 9, l. n. 20/1991 e 69, co. 1 Cap. Passando all’ordinamento bancario, nel Documento per la consultazione della Banca d’Italia del dicembre 2009 si legge anche che le acquisizioni di partecipazioni in imprese assicurative non soggette ad autorizzazione preventiva in quanto inferiori alle soglie suindicate ma che comunque comportino (considerando anche le azioni, le quote, gli strumenti e i diritti già detenuti) il superamento della soglia dell’1 per cento del patrimonio di vigilanza, sono comunicate alla Banca d’Italia entro 30 giorni dal perfezionamento dell’operazione. L’informativa inquadra l’operazione nelle strategie della banca e fornisce le indicazioni sull’adeguatezza patrimoniale e sul margine disponibile previste nel presente paragrafo con riferimento aicasi di autorizzazione. Infine, una delle più importanti novità di questa disciplina risiede nel potere sanzionatorio attribuito all’ISVAP in caso di ritardo, incompletezza o omissioni delle comunicazioni o nel caso di comunicazioni che contengono indicazioni non veritiere. In caso di omissione delle comunicazioni o di omissione di richiesta di autorizzazione ovvero ancora nell’ipotesi in cui l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata, la sanzione consiste nel congelamento del diritto di voto (art. 74, co. 1 Cap) e, in caso di inosservanza, la deliberazione dell’assemblea è impugnabile a norma dell’art. 2377 c.c. solo se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto astenersi dalla votazione, non si fosse raggiunta la necessaria maggioranza. Fatto importante è che anche l’Isvap è legittimato a proporre impugnazione entro sei mesi dalla deliberazione ovvero, se questa è soggetta ad iscrizione, entro sei mesi dall’iscrizione (art. 74, co. 2 Cap).
4. Le partecipazioni delle imprese di assicurazioni nel capitale delle banche. Veniamo ora alla disciplina delle acquisizioni di partecipazioni nel capitale di enti creditizi da parte di società assicurative. Nel caso di specie, dobbiamo operare l’unione tra l’insieme B.1 contenente le norme sulle partecipazioni delle società assicurative e l’insieme A.2 i cui elementi sono le norme relative alle partecipazioni nelle banche (v. supra par. 1).
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4.1. Un po’ di storia. Prima di vedere la disciplina attuale conviene andare un po’ in soffitta. Partiamo dall’ordinamento assicurativo, nel quale la disciplina degli investimenti in partecipazioni è stata introdotta solo con la l. n. 20/1991, negli artt. 4-8. Non si può considerare precedente specifico la disciplina del controllo delle relazioni finanziarie con società controllate (ex art. 5, co. 1, lett. f), l. n. 576/1982), dato che tali rapporti presuppongono già l’esistenza di una situazione di controllo. La disciplina introdotta dalla l. n. 20/1991, invece, teneva conto di detta necessità e prendeva in considerazione tutte le possibili situazioni derivanti dall’acquisizione di partecipazioni (di minoranza o di controllo) e a ciascuna di esse faceva corrispondere precisi obblighi per i partecipanti e determinati poteri per le Autorità di controllo del settore 27. Attualmente la disciplina è contenuta negli artt. 79-81 Cap e nel regolamento Isvap n. 26 del 4 agosto 2008 recante, appunto, disposizioni in materia di partecipazioni assunte dalle imprese di assicurazione e di riassicurazione. Come avremo modo di vedere fra breve il Cap innova profondamente la disciplina in esame. Per quanto concerne poi il caso specifico delle partecipazioni nelle banche, la disciplina legislativa non la prevede anche se non la vieta esplicitamente; una indicazione indiretta nel senso della ammissibilità delle operazioni in parola la troveremo nella regolamentazione amministrativa della materia attuata dall’ISVAP. Nell’ordinamento bancario, la disciplina della proprietà azionaria degli enti creditizi è stata più volte modificata. Per limitarci alla sola disciplina legislativa, alle disposizioni dettate dal Titolo V della l. n. 287/1990 (l. antitrust 28) si è sostituita quella di cui agli artt. 16-19, d. lgs. n. 481/1992 che è stata a sua volta resa inoperante, dal 1° gennaio 1994, da quella indicata negli artt. 19-25 t.u.b. Queste ultime norme sono state oggetto di profondi cambiamenti introdotti prima dall’art. 14, co. 1, d.l. n. 185/2008 convertito nella l. n. 2/2009 e, recentemente, dall’art. 1, d.lgs. n. 21/2010. L’attenzione sarà rivolta alla disciplina legislativa ed a quella amministrativa attualmente in vigore facendo riferimento, lì dove oppor-
27
Cfr. Corvese, La disciplina, cit., p. 76 ss. e Costi, In tema di partecipazioni delle imprese di assicurazione, in La disciplina delle partecipazioni societarie, cit., p. 63 ss. 28 V., per tutti, Belli e Santoro, Il titolo quinto della legge antitrust: “Norme in materia di partecipazione al capitale di enti creditizi”, in Dir. banc., 1992, II, p. 279 ss.
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tuno, alla disciplina previgente. Anche per questa seconda ipotesi di acquisizione di partecipazioni, come già detto, le norme primarie non fanno riferimento esplicito alle società assicurative come partecipanti e pertanto occorre leggere le norme presenti nel diritto delle assicurazioni come se la partecipata fosse una banca ed interpretare le norme del diritto bancario come se la partecipante fosse un’impresa di assicurazione. All’aspetto specifico che qui interessa è stata invece dedicata la disciplina amministrativa che però non fuga tutti i problemi relativi alla ammissibilità di determinate operazioni e dei quali bisogna dare subito conto. 4.2. Problemi per determinate acquisizioni di partecipazioni. Le questioni dibattute soprattutto in passato e connesse all’ammissibilità di determinate partecipazioni delle imprese di assicurazione nel capitale delle banche sono due: una derivante dall’interpretazione delle regole sulle partecipazioni al capitale delle banche ed un’altra connessa all’acquisizione di partecipazioni di controllo da parte delle imprese di assicurazione. La prima questione derivava dalla circostanza che nella disciplina bancaria esisteva un diverso trattamento a seconda se partecipante al capitale di una banca fosse stato un ente creditizio o finanziario oppure un’impresa esercente attività industriale e ciò aveva fatto sorgere, soprattutto in passato, l’interrogativo se le imprese di assicurazione potessero essere considerate o meno imprese finanziarie. La questione è troppo complessa per poter essere sviscerata tutta in questa sede, ci possiamo soltanto limitare a riferirla 29 e a ricordare che la regolamentazione secondaria ha risolto positivamente la questione asserendo semplicemente che “alle attività finanziarie è assimilata l’attività assicurativa”, così il CICR, nella delibera del 19 luglio 2005 (art. 8, co. 6) ed anche la Banca d’Italia sia nelle istruzioni concernenti l’autorizzazione all’attività bancaria (nel caso in cui la partecipazione venga acquisita al momento della costituzione della società) sia in quelle che riguardano l’acquisizione di partecipazioni durante societate 30. La circostanza che l’attuazione della direttiva 2007/44/CE abbia fatto cadere, in punto di disciplina degli assetti proprietari delle banche, la
29 30
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Sul punto mi permetto di rinviare al mio La disciplina giuridica, cit., p. 95 ss. V. Antonucci, Diritto delle banche, cit., p. 179 s.
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differenza fra imprese finanziarie ed imprese industriali non ha certo risolto la questione della qualificazione delle imprese di assicurazione come intermediari finanziari. Di ciò è prova che nel documento della Banca d’Italia del dicembre 2009 si può leggere che “il dibattito sulla assimilabilità delle imprese assicurative alle imprese bancarie e/o finanziarie è (…) molto ampio: sembra prevalere la tesi che riconosce alle imprese di assicurazione la natura di intermediari finanziari, soprattutto in ragione del fatto che le riserve matematiche nel ramo vita, così come le riserve premi e riserve sinistri nel ramo danni, costituiscono attività finanziarie a fronte di passività finanziarie (il corsivo è nostro) 31. A quanto detto si deve aggiungere che un primo tentativo da parte del legislatore di definire l’impresa finanziaria è stato operato nel Cap dove all’art. 1, co. 1, lett. cc) è stabilito che l’impresa finanziaria è un’impresa costituita da uno dei seguenti soggetti: 1) un ente creditizio, un ente finanziario o un’impresa di servizi ausiliari ai sensi dell’art. 1, punti 5) e 23), della direttiva 200/12/CE; 2) un’impresa di assicurazione, un’impresa di riassicurazione o un’impresa di partecipazione assicurativa ai sensi dell’art. 1, co. 1, lett. t), aa) e cc) Cap; 3) un’impresa di investimento o un ente finanziario ai sensi dell’art. 4, par. 1, punto 1) della direttiva 2004/39/CE ed, infine, 4) un’impresa di partecipazione finanziaria ai sensi dell’art. 2, punto 15) della direttiva 2002/87/CE. Sebbene tale definizione sia stata indotta dal legislatore comunitario 32 essa assume, ad avviso di chi scrive, un importante significato per due ordine di motivi: in primo luogo, è la prima volta che il legislatore comunitario fornisce simile definizione mentre in altre occasioni si era espresso in termini di “settore finanziario” 33 e, in secondo luogo, l’indicazione di
31
Sul punto v. Corvese, L’attività assicurativa e le “altre attivitàfinanziarie”, in Studi sugli intermediari finanziari non bancari, a cura di Rispoli Farina, Napoli, 1998, p. 326 ss. 32 La lettera citata è stata inserita nel Cap dall’art. 1, co. 1, lett. d), d.lgs. 29 febbraio 2008, n. 56 attuativo della direttiva 2005/68/CE relativa alla riassicurazione e recante modifica di altre direttive in materia di assicurazione. 33 V. l’art. 2, punto 8 della direttiva 2002/87/CE sui conglomerati finanziari che definisce il “settore finanziario come quel settore composto da una o più delle seguenti imprese: “a) un ente creditizio, un ente finanziario o un’impresa di servizi bancari ausiliari, ai sensi dell’articolo 1, paragrafi 5 e 23, della direttiva 2000/12/CE (settore bancario); b) un’impresa di assicurazione, un’impresa di riassicurazione o una società di partecipazione assicurativa ai sensi dell’articolo 1, lettera i), della direttiva 98/78/CE (settore assicurativo); c) un’impresa di investimento o un ente finanziario ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 7, della direttiva 93/6/CEE (settore servizi di investimento); d) una società di partecipazione finanziaria mista”. Tale “definizione” non è stata poi recepita in nessun
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“impresa finanziaria” non rileva al fine di nessun altra norma del Cap e, quindi, non ha, come molte altre “elencazioni”, il valore di mera semplificazione – nel senso che si usa un termine onnicomprensivo per non ripetere ogni volta un elenco – ma di una vera e propria definizione. La seconda questione, derivante dall’interpretazione di norme presenti nella disciplina assicurativa, riguarda concretamente la possibilità di attribuire all’attività bancaria la qualifica di attività connessa all’attività assicurativa. Prima dell’emanazione del Codice delle Assicurazioni tale questione era maggiormente avvertita in virtù della esistenza di una previsione normativa in base alla quale le imprese di assicurazione potevano assumere partecipazioni solo in imprese che svolgessero attività connesse all’attività assicurativa; solo in tal modo, secondo l’ISVAP, non sarebbe stato violato il principio dell’esclusività dell’oggetto sociale posto per le imprese in parola dall’art. 5, co. 2, l. n. 295/78 e dall’art. 4, co. 2, l. n. 742/86 34. La questione era già stata presa in considerazione dalle autorità di controllo del settore assicurativo quando, nel 1987, il Ministro dell’Industria costituì due comitati “per lo studio dei problemi concernenti l’oggetto sociale, le attività connesse e la partecipazione in altre imprese delle compagnie di assicurazione” 35. Anche se l’occasio per studiare i problemi suindicati era stata fornita dalla acquisizione, da parte dell’INA, di una partecipazione di controllo nel capitale della Banca di Marino, le conclusioni a cui erano pervenuti i due Comitati avevano assunto portata generale 36. Per quanto concerne più strettamente la definizio-
decreto di recepimento e ciò può essere spiegato dalla circostanza che tale definizione, a differenza, in quella riportata nel testo aveva esclusivamente un obiettivo di semplificazione, per non ripetere cioè ogni volta tutte le imprese si è preferito utilizzare un termine onnicomprensivo“settore finanziario”. 34 Cfr., fra gli altri, Giampaolino, L’organizzazione societaria nella disciplina dell’attività assicurativa, Milano, 2005, p. 120 ss. 35 Si tratta precisamente del “Comitato per lo studio dei problemi concernenti l’oggetto sociale, le attività connesse e le partecipazioni in altre imprese delle compagnie di assicurazione”, costituito dal Ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato con decreto datato 6 ottobre 1987 ed integrato con decreto del 15 dicembre 1987. La relazione conclusiva è pubblicata in Banca, borsa, tit. cred., 1988, I, p. 811 ss. Questo Comitato era stato preceduto da un altro avente per studio il medesimo di quello già indicato e la cui relazione è pubblicata in Giur. comm., 1987, I, p. 842 ss. 36 Sul punto v. Castellano, Indicazioni per una regolazione dei rapporti tra banche, Compagnie di assicurazione ed imprese industriali in Italia, in Giur. comm., 1987, I,
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ne di connessione, a parere del primo comitato, tale termine “sembra ammettere un ampio intervallo di interpretazioni, che vanno da quella più restrittiva che si basa sull’esistenza del rapporto di strumentalità a quella che fa riferimento ad una relazione di accessorietà, per arrivare ad un’accezione in cui rileva l’esistenza (ovvero l’individuazione) di un lato nesso di funzionalità tra attività assicurative ed altre” e alla fine includeva nelle attività connesse anche l’attività bancaria 37. Nella circolare n. 150/1991, l’Isvap aveva accettato tale definizione di connessione, ma ciò non escludeva comunque la possibilità che venisse preclusa l’acquisizione di partecipazioni di controllo anche, ad esempio, in imprese bancarie in quanto, come si poteva leggere nella circolare, “in via generale la connessione va valutata con riferimento alla clausola statutaria dell’oggetto sociale della società controllata” e, continuava l’Isvap, “in ogni caso si sottolinea che occorre dimostrare l’esistenza di una connessione in concreto, non già in via meramente ipotetica ed astratta, e che tale connessione potrà emergere dalla documentazione che la società ha facoltà di trasmettere e, comunque, l’Isvap di richiedere”. Dopo l’entrata in vigore del Cap, la questione in oggetto deve essere posta in altri termini. Il Cap innova profondamente la disciplina in esame. Troviamo la prima novità nella definizione dell’ambito oggetti-
p. 809 ss.; Fanelli, Sulla legittimità dell’acquisto da parte di imprese di assicurazione della partecipazione di imprese con diverso soggetto sociale, in Giur. comm., 1987, I, p. 817 ss.; Guarino, Banca di Marino, art. 4, n. 2, l. 22 ottobre 1986, n. 742. Legittimità dell’acquisto, in Giur. comm., 1987, p. 827 ss. e i pareri pro-veritate di Irti, Schlesinger, Libonati, Jaeger, ibidem, p. 833 ss. Da ultimo v. Capriglione, Commento art. 79, in Il codice, cit., p. 238 s. Fu invocata in quella occasione anche l’applicazione dell’art. 2361 c.c. per distinguere l’esercizio diretto di un’attività dall’esercizio indiretto della medesima; sulla stessa distinzione cfr. più recentemente Bochicchio, L’acquisto del controllo di una banca da parte di una compagnia di assicurazione è legittimo ai sensi dell’art. 2361 c.c., in Assicurazioni, 2005, I, p. 387 ss. 37 A favore della connessione fra attività bancaria ed attività assicurativa, è stato affermato che l’espressione “«operazioni connesse» non equivale ad «operazioni necessarie» poiché esiste connessione tutte le volte che l’operazione risulta, appunto, collegata con l’esercizio della particolare industria assicurativa con un rapporto funzionale (…), nel senso cioè che l’azione dell’impresa sul mercato assicurativo possa trarne ragionevolmente, a breve od a lunga scadenza, un beneficio che valga il suo costo” (così Fanelli, Sulla legittimità dell’acquisto da parte di imprese di assicurazione della partecipazione di imprese con diverso oggetto sociale, cit., p. 821). Sui problemi concernenti i rapporti fra attività assicurativa ed attività affini v., anche, Volpe Putzolu, Le assicurazioni. Produzione e distribuzione, Bologna, 1992, p. 21 ss.
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vo: le imprese di assicurazione e di riassicurazione possono assumere, con l’utilizzo del patrimonio libero, partecipazioni di controllo non solo, com’era in passato, in imprese che svolgono la medesima attività ma anche, ed è questa la novità, in imprese che svolgono attività diverse da quelle consentite alle imprese di assicurazione e di riassicurazione (art. 79, co. 1 Cap) e, quindi, anche in imprese bancarie. La norma mantiene la differenza di disciplina fra le partecipazioni di controllo acquisite nel capitale di imprese che svolgono attività assicurativa come definita ora dall’art. 11 Cap – ivi comprese, quindi, non solo l’attività assicurativa e riassicurativa tradizionalmente intesa, ma anche le operazioni (e non più attività) connesse o strumentali all’esercizio delle suddette attività (v. art. 11, co. 4 Cap) – e le partecipazioni di controllo assunte in imprese che svolgono attività “diverse” non con riferimento all’ammissibilità ma solo per l’applicazione della disciplina autorizzativa. Orbene, posto che solo le partecipazioni del secondo tipo richiedono un’autorizzazione preventiva (v. art. 79, co. 3 Cap), rimane ancora sul campo il problema di trovare una categoria di attività che, sotto determinate condizioni, possano essere riconosciute come connessea quella assicurativa. Nel regolamento Isvap n. 26/2008 non viene riproposta la conclusione cui era giunta lo stesso Istituto nella circolare n. 150/1991 anzi, in sede di consultazione del citato regolamento, l’Isvap non ha accolto un’osservazione svolta dall’Ania – nella quale l’Associazione proponeva di limitare l’obbligo di autorizzazione preventiva ai soli casi di acquisizione del controllo di società che svolgono attività non esercitabili dall’impresa di assicurazione e quindi non comprese tra quelle indicate nel comma 4 dell’art. 11, cit. – chiarendo che l’autorizzazione è richiesta per qualsiasi assunzione di partecipazioni di controllo ad eccezione di quelle in imprese di assicurazione e di riassicurazione italiane (cui già si applica la disciplina della proprietà azionaria delle imprese di assicurazione). E ciò in virtù della circostanza che l’art. 11 cit. parla di “operazioni” e non di “attività” 38 ma anche della considerazione che l’Isvap aveva
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I problemi sono identici a quelli posti dalla previgente disciplina e cioè: 1) che cosa si deve intendere per “operazioni” e 2) qual è il significato da attribuire alla “connessione”. Innanzitutto, deve essere ricordato che il termine operazioni, mutuato dall’art. 8, n. 1, lett. b) della direttiva 73/239/CEE (I direttiva danni), non sta ad indicare “singoli atti”, escludendo così la continuazione ma con tale termine, usato al plurale, il legislatore si è voluto riferire all’attività. Come è stato correttamente affermato “il termine «operazioni», proprio soprattutto dalla scienza e dalla pratica economica, se pure comunemente è usato ad indicare singoli atti, assai spesso è usato altresì in senso, per così dire, collettivo,
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già fornito un’interpretazione restrittiva nelle Disposizioni del codice immediatamente applicabili aggiornato al 30 marzo 2006 39. 4.3. Le richieste di autorizzazioni preventive. Così come abbiamo visto per il rapporto banche-assicurazioni, anche nell’ipotesi di acquisizioni di partecipazioni da parte di imprese di assicurazioni nel capitale di banche, la procedura di rilascio dell’autorizzazione è prevista sia nella disciplina bancaria che in quella assicurativa. Secondo quest’ultima, la banca è tenuta a richiedere preventivamente l’autorizzazione all’Isvap quando la partecipazione comporta il controllo della banca (art. 79, co. 3 Cap). In tal caso trova applicazione l’art. 68, co. 5 (modificato come abbiamo visto sopra), 7 e 8 Cap. L’art. 10 del regolamento Isvap n. 26/2008 ha ulteriormente specificato le condizioni in base alle quali l’Isvap rilascia l’autorizzazione, ossia: la natura e l’andamento dell’attività della società partecipata e la dimensione dell’investimento in relazione al patrimonio libero dell’impresa partecipante. Inoltre si precisa che, nella valutazione degli effetti del controllo, l’Isvap terrà conto anche del rischio di concentrazione degli investimenti, della incidenza di eventuali legami tra le due società coinvolte nell’operazione e altri soggetti e di ogni altro elemento idoneo ad incidere sulla sana e prudente gestione dell’impresa partecipante nonché sull’esercizio di un’efficace azione di vigilanza. Se spostiamo l’attenzione all’ordinamento bancario, occorre innanzitutto precisare che la disciplina è la medesima sia che si tratti di un’acquisizione di partecipazioni al momento della costituzione di una società bancaria sia che l’acquisizione venga realizzata in un momento
e cioè per indicare l’attività economica (nel suo complesso) in uno o più campi” (così Pratis, In tema di divieto di operazioni estranee all’esercizio dell’industria assicurativa, in Assicurazioni, 1962, I, p. 512 nt 4 e cfr. anche Auletta, voce Attività (dir. priv.), in Enc del dir., III, Milano, 1958, p. 981 ss., in particolare p. 982). La “connessione”, invece, può essere considerata come “formulazione giuridica dei concetti economici di strumentalità e complementarità e copre sia gli atti che si pongono in un rapporto di mezzo a fine rispetto a quelli che li agevolano e così «ne realizzano una funzione concorrente e integrativa»” (così Partesotti, Commento agli artt. 1-5, sez. II, in Partesotti e Bottiglieri, Commento alla legge 10 giugno 1978 n. 295 (Nuove norme per l’esercizio delle assicurazioni private contro i danni), in Nuove leggi civ. comm., 1979, p. 1101). 39 Nella circolare interpretativa citata nel testo, in corrispondenza dell’art. 79 Cap si legge: “La preventiva autorizzazione di cui all’art. 79, co. 3 deve intendersi riferita a tutte le acquisizioni che comportino il controllo di società esercenti attività diversa da quella assicurativa e riassicurativi”.
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successivo. Infatti, l’art. 14 t.u.b. indica, fra le condizioni necessarie per il rilascio dell’autorizzazione all’attività bancaria che “(…) sussistano i presupposti per il rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art. 19”. Tuttavia, nel caso in cui l’acquisizione venga effettuata nella fase costitutiva della società basta un solo provvedimento dell’Autorità di vigilanza che valga sia come autorizzazione all’operazione (art. 19 t.u.b.) sia come autorizzazione all’attività (art. 14 t.u.b.). Detto ciò vediamo in dettaglio la disciplina ex art. 19, cit. supponendo che la partecipante sia un’impresa di assicurazione. Quest’ultima deve richiedere l’autorizzazione “preventiva” alla Banca d’Italia quando intende acquisire una partecipazione nel capitale di una banca che comporti il controllo o un’influenza notevole ovvero che attribuisca una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10 per cento (art. 19, co. 1 t.u.b.). Inoltre l’autorizzazione è richiesta preventivamente per le variazioni delle partecipazioni quando la quota dei diritti di voto o del capitale raggiunge o supera il 20 per cento, 30 per cento o 50 per cento e, indipendentemente dalla soglia, quando le variazioni comportano il controllo (art. 19, co. 2 t.u.b.). Si osserva come la disciplina degli assetti proprietari della banche, dopo l’attuazione della direttiva 2007/44/CE, è identica a quella prevista per le imprese di assicurazione e della quale abbiamo già detto 40. Anche in questo caso salta la percentuale del 5 per cento come soglia per l’autorizzazione ma la medesima percentuale diverrà soglia rilevante al fine dell’obbligo di comunicazione 41. Tralasciando gli aspetti tecnici relativi alla procedura di autorizzazione (termine per la presentazione della domanda, modalità di presentazione della comunicazione preventiva, tempi per la conclusione del procedimento che sono previsti nella comunicazione Banca d’Italia del 12 maggio 2009 42) e, poiché anche in questo caso vi sono problemi di raccordo con la disciplina assicurativa, soffermiamo l’attenzione sui criteri ai quali la Vigilanza si deve attenere nel rilascio del provvedimento in esame. Innanzitutto, va verificato il rispetto del principio della “sana e prudente gestione”, attraverso il quale si vuole “tutelare l’impresa bancaria da possibili condotte dannose dei soggetti partecipanti al
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V. supra par. 3.2.1. V. la Comunicazione della Banca d’Italia del 12 maggio 2009, p. 2, nt. 5. 42 Con riferimento specifico ai termini la valutazione delle istanze di acquisizione di partecipazioni da autorizzare la disciplina presente nella comunicazione della Banca d’Italia del maggio 2009 è identica a quella disposta dall’Isvap per la stessa materia e di cui già abbiamo detto. 41
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capitale”. Non viene fornita una definizione del suddetto principio, ma viene indicata “una stretta correlazione tra «qualità dei soci» e gestione della banca”. Quindi, da un lato, viene richiesto il rispetto del requisito di onorabilità e, dall’altro lato, va verificata la correttezza nelle relazioni di affari e l’affidabilità della situazione finanziaria dei partecipanti. A tal fine assumono rilievo: i rapporti di indebitamento che intercorrono tra il soggetto e la banca in cui si intende acquisire la partecipazione; i rapporti che il soggetto richiedente l’autorizzazione ha in essere con altri partecipanti al capitale della banca in modo da non compromettere il principio di separatezza banca-industria. Tutto ciò verrà rilevato attraverso una serie di documenti che i partecipandi invieranno all’organo di Vigilanza. Nel caso in cui vengano meno i presupposti e le condizioni in base ai quali l’autorizzazione è stata rilasciata, la stessa può essere sospesa o revocata (v. art. 19, co. 5 t.u.b. come modificato dall’art. 1, co. 1, lett. d), n. 4, d.lgs. n. 21/2010). Pertanto l’impresa di assicurazione che intende acquisire la partecipazione al capitale di un’impresa di assicurazione è tenuta a richiedere una doppia autorizzazione, una alla Banca d’Italia ed una all’Isvap, nell’ipotesi in cui la partecipazione da acquisire determini il controllo. L’omogeneizzazione delle definizioni di controllo esistenti nei vari ordinamenti del sistema finanziario ha eliminato qualsiasi questione concernente la definizione di controllo da applicare 43. Rimane però aperto il problema delle modalità con le quali puòavvenire il raccordo fra le Autorità di vigilanza, posto che nel d.lgs. n. 21/2010 non v’è alcun riferimento alla “piena consultazione” che, al contrario, ha trovato piena accoglienza nell’ordinamento assicurativo 44. Nella comunicazione della Banca d’Italia del 12 maggio 2009 la “consultazione preventiva” viene presa in considerazione ma solo con riferimento alla collaborazione fra le Autorità degli Stati membri nel caso in cui la partecipazione nel capitale della società bancaria sia acquisita, ad esempio, da un’impresa di assicurazione comunitaria 45. Riteniamo che si tratti di un diverso atteggiamento del legislatore che nel caso di banche si è attenuto strettamente al dettato della direttiva (v. l’art. 5, dir. 2007/44/CE che introduce l’art. 19-ter nella direttiva 2006/48/CE) e che comunque la mancanza di un riferimento alla “pie-
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V. supra par. 3.2.1. V. supra par. 3.2.1. 45 V. comunicazione Banca d’Italia del 12 maggio 2009, p. 7. 44
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na consultazione” può essere colmata considerando che se tale forma di collaborazione deve essere rispettata fra Banca d’Italia ed Autorità competenti degli stati membri a maggior ragione essa deve essere rispettata nelle operazioni che vedono coinvolte contemporaneamente Banca d’Italia e Isvap. 4.4. Gli obblighi di comunicazione. Per quanto riguarda l’obbligo di comunicazione, la novità fondamentale introdotta nell’ordinamento assicurativo è che la comunicazione da successiva diventa preventiva e ciò al fine di raggiungere l’obiettivo del levelling the playing field fra tutti i settori che compongono il sistema finanziario 46. In base all’art. 80, co. 1 Cap la partecipante deve comunicare all’Isvap, tempestivamente l’intenzione di assumere una partecipazione in società quando la partecipazione, da sola o unitamente ad altra già posseduta direttamente o indirettamente, comporti il controllo della società partecipata. Il comma successivo prevede che deve essere comunicata l’intenzione di assumere ogni altra partecipazione, quando la stessa da sola o unitamente ad altra posseduta (èstata eliminata la specificazione “direttamente”), risulti consistente (prima era specificatamente fissata nel 5%) in base al patrimonio netto o al totale degli investimenti dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione o rispetto all’entità dei diritti di voto o alla rilevanza degli altri diritti che consentono di influire sulla società partecipata.
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In base all’art. 5, co. 1, l. n. 20/1991 la partecipante doveva comunicare all’Isvap, entro trenta giorni (il termine previsto nella precedente normativa era di quarantotto ore) dalla data di stipulazione, l’avvenuta assunzione di partecipazioni, assunte direttamente o per il tramite di società controllata o fiduciaria o per interposta persona, quando la partecipazione da sola o unitamente ad altra già posseduta direttamente o indirettamente, comportasse il controllo della società partecipata. Veniva specificato che ai fini del controllo si teneva conto anche delle partecipazioni a titolo di pegno, usufrutto o deposito quando la detenzione inerisse all’esercizio del diritto di voto. Il comma successivo prevedeva l’obbligo di comunicare ogni altra partecipazione assunta con l’impiego del patrimonio libero, quando la stessa da sola o unitamente ad altra posseduta direttamente (questa specificazione è stata aggiunta solo con l’ultima modifica), superasse la soglia del 5%, del capitale sociale dell’impresa ovvero del capitale della società partecipata. L’obbligo di comunicazione sussisteva al tresì per le variazioni in aumento della partecipazione già comunicata che avessero comportato nuovamente il superamento dei suddetti limiti.
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L’ultimo comma attribuisce all’Isvap il potere di disciplinare, con regolamento, i presupposti, le modalità e i termini connessi all’obbligo di comunicazione; nell’esercizio di tale facoltà l’Istituto deve tenere conto dell’esigenza di verificare la concentrazione degli investimenti e la loro influenza sulla struttura patrimoniale dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione. Anche in questa materia la regolamentazione secondaria integra il disposto contenuto nel Codice con riferimento a due profili: 1) l’ambito oggettivo di applicazione dell’obbligo di comunicazione preventiva e 2) la previsione dell’obbligo di comunicazione successiva. Con riferimento al primo profilo, l’art. 14 del regolamento Isvap n. 26/2008 prevede che l’obbligo in parola si applica alle partecipazioni consistenti come definite dall’art. 7 del medesimo regolamento, ossia quelle partecipazioni che “da sole o unitamente ad altre già detenute, direttamente o indirettamente, dall’impresa partecipante risultano pari o superiori al cinque per cento del capitale sociale della società partecipata oppure al cinque per cento del patrimonio netto dell’impresa partecipante”. E fin qui nulla di nuovo, poi aggiunge due specificazioni che riguardano il calcolo della partecipazione consistente in due ipotesi particolari: 1) “nel caso di partecipazione detenuta tramite società controllata”, e 2) “per le imprese partecipanti che redigono un bilancio consolidato”. Circa l’obbligo di comunicazione successiva, l’art. 17 del regolamento Isvap n. 26/2008 prevede che la comunicazione deve avvenire trimestralmente e deve contenere l’elenco delle partecipazioni di controllo e consistenti con opportuna distinzione della parte assegnata alle riserve tecniche e di quella detenuta con patrimonio libero. Passando all’ordinamento bancario, va innanzitutto notato che la disciplina degli obblighi di comunicazione delle partecipazioni acquisite nel capitale delle banche è stata modificata ad opera dell’art. 1, co. 1, lett. e) d.lgs. n. 21/2010 47. La modifica non è di poco momento e concerne, per quel che qui interessa, sia il presupposto che l’oggetto dell’obbligo in parola. Presupposto dell’obbligo di comunicazione non è più la titolarità di una partecipazione nel capitale della banca ma il compimento di operazioni di acquisto o cessione delle partecipazioni. Relativamente
47 Per la modifica citata nel testo cfr., da ultimo, Benocci, Commento artt. 20-21 t.u.b., in Commentario, a cura di Belli, Losappio, Porzio, Rispoli Farina, Santoro, cit., p. 211 ss. ed ivi ampie indicazioni di bibliografia.
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all’oggetto della comunicazione, essendo venuta meno la definizione di partecipazioni rilevanti, come abbiamo già visto per la disciplina degli assetti proprietari delle imprese di assicurazione, ed essendo stato operato un rinvio alle stesse percentuali previste per l’autorizzazione, l’impresa di assicurazione dovrebbe comunicare alla Banca d’Italia: a) l’acquisizione, anche indiretta, di partecipazioni nel capitale della banca superiori alla soglia del 5 (questa soglia rimane solo ai fini dell’obbligo di comunicazione e non per l’autorizzazione 48) 10, 20, 30 o del 50 per cento del capitale della partecipata; c) le variazioni partecipative che consentono il superamento delle soglie del 25, 40, 45 e 55 per cento del capitale della banca e le soglie successive eccedenti quest’ultimo limite nella misura di multipli del 5 per cento (60, 65… 95 per cento) o il raggiungimento del 100 per cento sempre ché sia stata autorizzata la partecipazione relativa alla soglia immediatamente inferiore; b) la riduzione dell’ammontare della partecipazione quando scende al di sotto della soglia fissata per l’obbligo di comunicazione o di autorizzazione. In ogni caso, se l’operazione è soggetta anche all’obbligo di autorizzazione la comunicazione si intende effettuata attraverso la domanda di autorizzazione. Infine, nel calcolo della partecipazione non vengono considerate le azioni prive del diritto di voto (azioni di risparmio), ma vengono incluse le azioni privilegiate che danno diritto al voto in assemblea straordinaria. 4.5. I poteri delle Autorità di vigilanza. Circa i poteri attribuiti alle Autorità di vigilanza riteniamo opportuno soffermarci solo su quelli assegnati all’Isvap e ciò soprattutto perché i poteri della Banca d’Italia nella disciplina degli assetti proprietari sono omogenei a quelli esercitabili dall’Isvap nella citata disciplina in virtù dell’opera di omogeneizzazione più volte ricordata. Per quanto concerne i poteri dell’Isvap, essi hanno ad oggetto tutti i tipi di partecipazioni. In primo luogo, l’art. 81, co. 1, Cap attribuisce all’Istituto un generico potere di richiesta di informazioni ai soggetti comunque interessati al fine di verificare l’osservanza degli obblighi di autorizzazione e di comunicazione. Il controllo dell’Isvap si estende anche alla gestione della partecipazione assicurativa ed ha come parametri: 1) la natura e l’andamento dell’attività svolta dalla società partecipata; 2) la dimensione dell’investimento in relazione al patrimonio libero dell’impresa. Se dall’analisi
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di questi elementi l’Istituto ritiene che dalla partecipazione possa derivare un pericolo alla stabilità dell’impresa, l’Isvap ordina che la partecipazione sia alienata o sia opportunamente ridotta, anche al di sotto del controllo, assegnando a tal fine un termine compatibile con l’esigenza che l’operazione sia realizzata senza alcun pregiudizio per l’impresa partecipante (v. anche l’art. 5 del regolamento Isvap n. 26/2008) 49. L’inosservanza di tali obblighi provoca gravi conseguenze che si presentano come alternative. L’Isvap può: 1) nominare un commissario con i compiti previsti dall’art. 229 Cap (commissario per singoli affari); o, se ricorrono i presupposti di cui all’art. 230 Cap (cioè i presupposti dell’amministrazione straordinaria unitamente a motivi di assoluta urgenza), nominare un commissario per la gestione provvisoria col compito di provvedere ai suddetti adempimenti; 3) o, infine, proporre al Ministro dello Sviluppo economico l’adozione del provvedimento di amministrazione straordinaria o la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività assicurativa. È chiaro che la scelta dipende da una valutazione del tutto discrezionale operata dall’Isvap in merito alla situazione sottoposta a controllo. Infine, in ogni caso la mancata ottemperanza degli obblighi di alienazione o riduzione della partecipazione comporta l’esclusione dell’investimento dagli elementi costitutivi del margine di solvibilità dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione.
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49 Per un commento sistematico degli artt. 80 e 81 del Codice si rinvia a Giampaolino, Assetti proprietari, cit., p. 224 ss.; Portolano, Commento artt. 80-81, in Il codice, a cura di Capriglione, cit., p. 245 ss.; Regoli, Commento artt. 79-81, in Commentario, a cura di Bin, cit. p. 186 ss.; Corvese, Assetti proprietari, cit., p. 579 ss. e Nania, Commento art. 80 Cap e Bonaccorsi di Patti, Commento art. 80 Cap entrambi in Commentario breve, a cura di Volpe Putzolu, cit., rispettivamente p. 383 e p. 384.
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Una breve riflessione sul riparto di competenze tra Banca d’Italia e Consob in materia di vigilanza consolidata dopo il recepimento della Mifid * Sommario: 1. I nuovi ambiti del riparto di competenze: un sintetico inquadramento generale. – 2. Le modifiche alla vigilanza consolidata. – 3. L’emersione di un ruolo “ambiguo” della Consob rispetto ai controlli sui gruppi c.d. eterogenei: una proposta provocatoria.
1. I nuovi ambiti del riparto di competenze: un sintetico inquadramento generale. Il recepimento della direttiva 2004/39/CE c.d. MiFId nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 164 del 17 settembre 2007 ha determinato, fra l’altro, un rimodellamento delle funzioni delle autorità di controllo 1. Le ripercussioni sul testo unico della finanza sono state particolarmente pesanti rispetto alla vigilanza regolamentare (art. 6), mentre per quella informativa (art. 8), ispettiva (art. 10) e di gruppo (art. 12) si è trattato solo di qualche integrazione e/o alcuni ritocchi formali, resi obbligati dalla necessità di coordinare e rendere omogeneo il disposto normativo. Un intervento comune ad alcune delle disposizioni richiamate riguarda l’inserimento della frase «nell’ambito delle rispettive competenze» al posto della precedente «per le materie di rispettiva competenza» 2.
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Destinato agli Studi in onore del Prof. Francesco Capriglione.
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Per un quadro generale si vedano da ultimo gli studi contenuti in De Poli, a cura di, La nuova normativa MIFID, Cedam, Padova, 2009; Frediani, Santoro, a cura di, L’attuazione della direttiva MIFID, Milano, 2009; Irace, Rispoli Farina, a cura di, L’attuazione della direttiva MIFID, Torino, 2010. 2 Va notato che nel passato le due espressioni convivevano all’interno del t.u.f.: si
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La sostituzione ha interessato gli articoli: 8, co. 1; 10, co. 1 e 5; 12, co. 3 e 5, ed attribuisce più coerenza alle norme che organizzano il sistema di vigilanza sugli intermediari operanti nel comparto dei servizi e delle attività d’investimento. Nella definizione del riparto di funzioni tra Banca d’Italia e Consob l’eliminazione del riferimento alle “materie” va infatti collegata alla riformulazione dei principi generali riguardanti finalità, ambiti e soprattutto modalità del loro intervento 3, nonché, più in generale, al diktat comunitario di una “chiara” definizione di ruoli in presenza di più autorità competenti nell’applicazione della MiFId (art. 49, co. 1, della direttiva 2004/39/CE). È noto che il testo unico della finanza aveva cercato di rimediare alla distribuzione di competenze «pasticciata e imprevedibile nella sua resa finale» 4 inizialmente prevista dalla legge n. 1 del 1991 con un rafforzamento del sistema di tipo finalistico 5. Il d.lgs. n. 164 del 2007 rivede nuovamente il modello di riparto funzionale e, probabilmente nell’intento di renderlo maggiormente efficiente, anzitutto inserisce un collegamento più marcato tra attribuzioni alle autorità interessate e obiettivi della vigilanza, ulteriormente ampliati (anche sul piano dei principi). Individua poi una sorta di terra di mezzo ove si presume che vi sia so-
veda ad esempio il co. 1 dell’art. 7 ove ritroviamo la prima riferita agli interventi sui soggetti abilitati. 3 L’impressione complessiva può essere quella di «rimodulazione soft (une douce “rupture”) dell’attività di vigilanza» – così Amorosino, Il sistema delle vigilanze pubbliche in materia di servizi d’investimento dopo il recepimento della direttiva “MiFID”, in La nuova, a cura di De Poli, cit., p. 106 – la quale crea comunque un complesso intreccio tra le finalità da perseguire, sottolineato da molti ed anche dal presidente Cardia, L’attuazione della direttiva MiFID in Italia e nella regolamentazione secondaria, Roma, 21 settembre 2007, in www.consob.it, p. 14. Altri hanno evidenziato un problema di «coerenza interna» delle regole dell’ordinamento finanziario (Costi, Queste norme sono una babele, in www.lavoce.info, del 2 maggio 2007, p. 2) e la presenza di «elementi di evidente incertezza nella individuazione degli scopi perseguiti dalla Banca d’Italia e da Consob» la quale rende «più difficile la legificazione di fini e, con ciò stesso, la better regulation del mercato mobiliare» (Id., Il mercato mobiliare5, Torino, 2008, cit. p. 164). Più in generale, si segnala come vi sia ancora molto da fare «in vista di un pieno adeguamento della disciplina speciale alle esigenze di un agere finanziario che assicuri integrità e stabilità dei mercati, da un lato, e tutela degli investitori, dall’altro»: così Capriglione, La problematica relativa al recepimento della MiFID, in De Poli, op.ult.cit., p. 1 ss., cit. p. 40. 4 Per dirla con Minervini, SIM e riorganizzazione del mercato mobiliare. Alcuni appunti su una legge difficile, in Corr. giur., 1991, p. 129 ss., cit. p. 130. 5 Sul punto si veda ora ampiamente Antonucci, sub art. 2, co. 1, in L’attuazione, a cura di Irace, Rispoli Farina, cit., p. 39 ss., in part. par. 2.
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vrapposizione o difficoltà di separazione delle rispettive competenze e dispone che riguardo ad essa debba applicarsi un «criterio di prevalenza funzionale» 6. Con riferimento infine alle materie aventi tali caratteristiche, obbliga Consob e Banca d’Italia ad operare sulla base di un protocollo d’intesa, che dovrebbe rappresentare la chiave di volta del modello funzionale 7, e mediante il nuovo strumento del regolamento congiunto (previsto dall’art. 6, co. 2-bis). In buona sostanza, il grado di dettaglio assunto dalle disposizioni a carattere prudenziale 8 e la difficoltà – invero emersa anche nel passato – di distribuire in maniera manichea competenze in rapporto agli obiettivi della vigilanza avrebbero reso il termine “materia” inadeguato a regolare su di un piano generale il riparto impostato su base funzionale 9. Ciò anche se tale termine mantiene la sua forza distintiva all’interno delle norme e pertanto può continuare a fornire all’interprete un criterio di valutazione ulteriore rispetto alla delimitazione degli ambiti della vigilanza così come risultanti dalle finalità da perseguire 10.
6 Tanto si legge nella Relazione illustrativa al decreto, sub art. 2, Modifiche all’articolo 5 del TUF. 7 Si veda il Protocollo d’intesa tra Banca d’Italia e Consob del 31 ottobre 2007, emanato in attuazione dell’art. 5, co. 5-bis, t.u.f. 8 Sottolinea come la MiFID nasca in un contesto di «un’armonizzazione che tende al suo grado massimo» C. Comporti, La direttiva europea “MiFID”: le principali innovazioni, in Dir. banc., 2007, II, p. 57 ss., cit. p. 57. Del resto si tratta di un processo che ha connotazione trasversale all’intero settore dell’intermediazione finanziaria; emblematico è anche l’esempio della disciplina sui conglomerati finanziari, ove gli spazi di regolamentazione a livello nazionale risultano piuttosto ridotti, nonché dell’acquisto di partecipazioni al capitale degli intermediari così come regolato dalla direttiva 2007/44/CE. 9 Come si legge nella Relazione al decreto, rispetto alle modifiche apportate all’art. 5 t.u.f., «Nella nuova formulazione non sono più le disposizioni e le materie a essere ripartite tra le due autorità, ma i compiti di vigilanza, secondo il modello funzionale […]. La separazione delle materie appare in taluni casi artificiosa, e ciò non consente sempre una chiara individuazione delle competenze delle Autorità. D’altro canto, la riconduzione di una materia all’esigenza di tutelare la stabilità o a quella di tutelare la correttezza dei comportamenti può essere in parte arbitraria, e ciò può ostacolare l’efficacia di un modello funzionale». Sull’art. 5 t.u.f. si veda ora il commento, anche critico, di Antonucci, sub art. 2, co. 1,cit., p. 44 ss. 10 Si vedano ad esempio l’art. 4, co. 2-ter (che attribuisce alla Consob il ruolo di interfaccia rispetto alle autorità competenti degli altri stati dell’UE “in materia di servizi e di attività di investimento”; qualche considerazione critica sul tema dell’assetto dei controlli nell’ottica della cooperazione tra autorità di vigilanza europee nel paragrafo 3), nonché l’art. 6, co. 1, 2, 2-bis e 2-ter, e l’art. 7, co. 2 (relativamente alla individuazione delle competenze all’interno della vigilanza prudenziale).
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2. Le modifiche alla vigilanza consolidata. Come accennato il decreto n. 164 del 2007 ha modificato anche l’art. 12 del t.u.f. Si tratta di cambiamenti a carattere sia integrativo che formali. Questi ultimi, già segnalati nel precedente paragrafo, comportano che anche l’art. 12 resti influenzato dal rinnovamento che ha investito il riparto funzionale di competenze. Sicché, la definizione dell’assetto dei poteri in tema di vigilanza consolidata propri della Banca d’Italia e della Consob deve anche tener conto del ridimensionamento del canone interpretativo riferito esclusivamente alle “materie” oggetto di regolamentazione. Riguardo ai primi va invece considerato che il co. 5, lett. a), dell’art. 2, del decreto attuativo della MiFID riformula la portata della vigilanza a carattere consolidato spettante alla Banca d’Italia, modificando il co. 1 dell’art. 12 t.u.f. 11. I relativi spazi continuano ad essere individuati tramite il rinvio all’art. 6 del t.u.f. 12, ma dopo la riorganizzazione subita dalla vigilanza regolamentare si sono resi necessari ulteriori collegamenti. I nuovi controlli prudenziali sul gruppo poggiano sul potere della Banca d’Italia di impartire alla società capogruppo disposizioni aventi ad oggetto le materie indicate oltre che nel co. 1, lett. a), e al co. 1-bis 13, dell’art. 6, anche nel successivo co. 2-bis, lett. a), b), c) e g). Pertanto, rispetto al passato gli ambiti dei controlli prudenziali si presentano così ridefiniti: – dopo la sostituzione della lett. a) del co. 1 dell’art. 6 da parte dell’art. 2, co. 2, del d.lgs. n. 164 del 2007, la vigilanza consolidata com-
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Rispetto alla disciplina del gruppo degli intermediari appartenenti al comparto mobiliare, ricordo che gli artt. 11 e 12 t.u.f. sono stati modificati anche dal d.l. n. 297 del 2006, convertito con modificazioni dalla l. n. 15 del 2007; per un primo commento sia consentito rinviare a Brozzetti, Assetti organizzativi e vigilanza consolidata nel settore bancario, dell’intermediazione finanziaria e dei servizi di investimento. Profili evolutivi, Siena, Stamperia della Facoltà di Economia, 2007, p. 262 ss. 12 Su tale norma si vedano da ultimo Falcone, sub art. 2, co. 1, 2, lett. a)-d), in L’attuazione, a cura di Irace, Rispoli Farina, cit., p. 57 ss.; Irace, Nappini, sub art. 2, co. 2, lett. e), 2-bis, 2-ter, ibidem, p. 60 ss. 13 Segnalo che tale comma è stato inserito dall’art. 2 del d.l. n. 297 del 2006, convertito con modificazioni con la l. n. 15 del 2007, e stabilisce che le disposizioni del co. 1, lett. a) (di cui si dirà tra breve), «prevedono la possibilità di adottare sistemi interni di misurazione dei rischi per la determinazione dei requisiti patrimoniali, previa autorizzazione della Banca d’Italia, nonché di utilizzare valutazioni del rischio di credito rilasciate da società o enti esterni».
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prende gli «obblighi delle SIM e delle SGR in materia di adeguatezza patrimoniale, contenimento del rischio nelle sue diverse configurazioni e partecipazioni detenibili». Nella lettera de qua scompaiono quindi i profili della “organizzazione amministrativa e contabile” e dei “controlli interni” (ora assorbiti dai “requisiti generali di organizzazione”, cui si accennerà tra breve) nonché quello della “informativa da rendere al pubblico” sulle materie previste da tale lettera, aspetto quest’ultimo inserito (ma in modo direi incauto 14) dall’art. 2 del d.l. n. 297 del 2006, convertito con modificazioni con la l. n. 15 del 2007; – considerato che il co. 2-bis dell’art. 6 riveste un’importanza cruciale ai fini del riparto di competenze in quanto individua le materie che debbono essere oggetto del già richiamato regolamento congiunto della Banca d’Italia e della Consob, all’interno della vigilanza consolidata le funzioni spettanti alla Banca d’Italia sono circoscritti alla determinazione degli obblighi in tema di (i) requisiti generali di organizzazione, (ii) continuità dell’attività, (iii) organizzazione amministrativa e contabile, compresa l’istituzione della funzione di controllo della conformità alle norme, (iv) audit interno. Peraltro, il rinvio nei termini anzidetti conferma, ma solo in parte, quanto già si evince sul piano dell’esercizio della vigilanza sui soggetti abilitati dal successivo co. 2-ter, lett. a). In buona sostanza, se si pone mente alla revisione degli ambiti della vigilanza e alla riorganizzazione del riparto funzionale di competenze, l’impressione è che la Banca d’Italia, anche se mantiene una posizione centrale in tema di vigilanza sul gruppo 15, vede però condizionata la
14 È noto che la “disciplina di mercato” prevista dal terzo pilastro di “Basilea 2” (la quale integra i requisiti patrimoniali minimi, primo pilastro, e il processo di controllo prudenziale, secondo pilastro) pone tra le sue fondamenta specifici aspetti di informativa al pubblico, volti a fornire una rappresentazione corretta della situazione economicopatrimoniale dei soggetti vigilati nonché ad indicare le caratteristiche generali dei relativi sistemi di gestione e controllo, agevolando così la comparabilità tra intermediari. In sostanza, anche prescindendo dall’art. 2 t.u.f., posto che sulla base della regolamentazione internazionale e comunitaria la trasparenza è in diretta connessione con il profilo dell’adeguatezza patrimoniale (patrimonio di vigilanza, esposizione ai rischi, processi di valutazione dei medesimi) e in generale dell’organizzazione gestionale interna, può ritenersi che essa sia già racchiusa all’interno di alcune delle materie indicate nella lettera a). Il fatto che con il d.l. n. 297 del 2006 l’informativa fosse stata rapportata al totale delle medesime, ricomprendendo anche le partecipazioni detenibili, rappresentava dunque un elemento di incoerenza – ora eliminato – rispetto al diritto comunitario previsto nelle direttive 2006/49/CE e 2006/48/CE (di cui si veda in particolare l’allegato XII). 15 Se ne ha una conferma nel Regolamento della Banca d’Italia in materia di vigilanza prudenziale per le SIM del 24 ottobre 2007, che poggia fra l’altro anche sull’art. 12,
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sua competenza sul piano regolamentare dalla pervasiva presenza della Consob in materie (penso soprattutto all’organizzazione amministrativa e contabile e ai controlli interni) fin dalle origini rientranti nel suo raggio d’azione. Muovendoci poi nell’area della vigilanza consolidata il cui campo di applicazione è rappresentato da gruppi le cui caratteristiche sono sempre più sovranazionali, va anche tenuto presente l’impatto che può avere l’art. 4, co. 2-ter, t.u.f., così come modificato dal decreto n. 164 del 2007, il quale in vista della cooperazione tra autorità di vigilanza competenti attribuisce ora alla Consob un ruolo di primo piano al livello europeo nello scambio di informazioni «in materia di servizi e attività di investimento svolti da soggetti abilitati e di mercati regolamentati» 16.
3. L’emersione di un ruolo “ambiguo” della Consob rispetto ai controlli sui gruppi c.d. eterogenei: una proposta provocatoria. È un dato difficilmente controvertibile che, in presenza di intermediari cross border, organizzazione ed assetti della vigilanza nazionali siano portati a confrontarsi e a ricercare sistemi efficaci di dialogo. La direttiva MiFID vede la luce in un’architettura variegata del sistema di controllo sul mercato mobiliare nei paesi dell’UE 17 e, nell’ottica della realizzazione di un mercato finanziario integrato e unico, il legislatore pretende (come già accennato nel § 1) che in presenza di più di un’autorità com-
commi 3 e 5. Il provvedimento tiene conto delle disposizioni comunitarie previste sia nella direttiva MiFID sia in quelle c.d. CRD-Capital Requirements Directive (la n. 2006/48/ CE e la n. 2006/49/CE, meglio conosciuta come “CAD”, Capital Adequacy Directive), le quali a loro volta assorbono la regolamentazione internazionale sul capitale contenuta in “Basilea 2”. Il Regolamento è di grande interesse anche perché fornisce la prima disciplina organica del gruppo nel comparto dei servizi di investimento dopo l’emanazione del t.u.f. (per un primo commento sia consentito il rinvio a Brozzetti, Assetti, ecc., p. 262 ss.) e aggiorna l’applicazione dei controlli su base consolidata. Ebbene, il provvedimento evidenzia il ruolo di primo piano assunto dalla Banca d’Italia nell’ambito della vigilanza consolidata, all’interno della quale risultano potenziati i poteri dell’organo di vigilanza in quanto orientati, oltre che all’insieme delle società appartenenti al gruppo di SIM, anche ai soggetti a queste unite da legami partecipativi o di controllo. 16 Su tale disposizione si veda ora Rangone, sub art. 1, co. 2, in L’attuazione, a cura di Irace, Rispoli Farina, cit., p. 27 ss. 17 Un autorevole studioso avverte però che la questione “non è solo di architetture”: Vella, Le autorità di vigilanza: non è solo questione di architetture, in Dir. banc., 2007, I, p. 195 ss. Per un visione generale sul tema da ultimo si veda l’amplio lavoro di Monaci, La struttura della vigilanza sul mercato finanziario, Milano, 2008, in part. p. 266 ss.
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petente all’interno di uno stato membro vi sia un’intelligibile definizione dei ruoli nonché una stretta collaborazione 18, e dispone che, allo scopo di «agevolare ed accelerare la collaborazione e più particolarmente lo scambio di informazioni», gli stati membri designino «un’unica autorità competente quale punto di contatto» ai fini della direttiva stessa (art. 56). La scelta da parte del decreto attuativo era quindi dovuta, che la stessa sia caduta sulla Consob appariva altresì scontata. L’averla collocata all’interno dell’art. 4 t.u.f. potrebbe però essere non priva di alcune ripercussioni (ad avviso di chi scrive) discutibili derivanti dal carattere ibrido che ancora caratterizza l’attribuzione di alcune competenze da parte del t.u.f. Il problema è stato sollevato in altra sede nell’ambito dello studio della vigilanza in un’ottica pan-europea e riguarda le conseguenze che, posta la «ineliminabile compresenza della Banca d’Italia e della Consob» nel sistema di vigilanza sulle attività di impresa del t.u.f. 19, la divisione dei ruoli tra le due autorità riversa sulla costruzione di un chiaro assetto della vigilanza supplementare rispetto ai conglomerati finanziari, gruppi c.d. eterogenei regolati dal d.lgs. n. 142 del 2005 attuativo della direttiva 2002/87/CE 20. Tale decreto poggia su un’articolata suddivisione delle autorità in base alle funzioni esercitate, pone tra i criteri che portano all’individuazione del “coordinatore” quello dell’assunzione del ruolo di autorità cui spetta il rilascio dell’autorizzazione alla costituzione di un intermediario “regolamentato” (banca, IMEL, SIM e imprese di assicurazione) e richiede che un’autorità possa definirsi “competente” se preposta all’esercizio della vigilanza a livello sia di singola impresa che di gruppo (art. 1, lett. z). Prima delle modifiche apportate dal decreto attuativo della MiFID poteva affermarsi che le competenze regolamentari della Consob fossero orientate verso profili non toccati dalla vigilanza supplementare, le cui materie rientravano più propriamente nel raggio di azione della Banca d’Italia. Si è però visto che il t.u.f. si presenta
18 Del resto, come efficacemente sottolineato in sede di primo commento alle norme del t.u.f., «divisione dei compiti e coordinamento impediscono alla complessità dell’apparato di produrre schizofrenia»: Belli, Note a margine della vigilanza, in Intermediari finanziari, mercati e società quotate, a cura di Patroni Griffi, Sandulli, Santoro, Torino, 1999, p. 305 ss., cit. p. 316. 19 Così Amorosino, Il sistema, cit. p. 106. 20 Cfr. Brozzetti, Il sistema di vigilanza supplementare sui conglomerati finanziari nel d.lgs. n. 142 del 2005 (parte seconda), in Dir. banc., 2007, I, p. 393 ss., in part. p. 450 ss.
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ora con una maggiore “confusione” dei ruoli sul piano della confezione delle norme idonea a complicare il contesto di riferimento; tuttavia, si è anche accennato al fatto che lo stesso predispone alcune indicazioni circa l’individuazione dell’autorità da considerare responsabile. Proprio la permanenza di distinti canali rispetto all’esercizio concreto della vigilanza (penso in particolare all’art. 6, co. 2-ter) nonché il criterio della prevalenza funzionale nell’attribuzione della relativa responsabilità, di primo acchito portano a ribadire l’opinione circa il riconoscimento in capo alla Banca d’Italia di un ruolo di leader all’interno della vigilanza di gruppo (peraltro ribadita anche nel co. 9, dell’art. 4, t.u.f.) in diretta connessione con i profili rientranti nella vigilanza supplementare relativa ai conglomerati finanziari. Nell’ottica descritta resta quindi valida l’osservazione secondo cui la Consob potrebbe assumere (anche se al momento al livello soltanto teorico) il ruolo di coordinatore – con tutte le conseguenze che ciò comporta – con le armi però spuntate. Infatti, la posizione ambigua della Commissione all’interno della disciplina sui conglomerati finanziari deriva dal fatto che la stessa risulta essere l’organo cui spetta il rilascio dell’autorizzazione alla costituzione di una SIM (art. 19 t.u.f.), e si è visto che questa competenza rappresenta uno dei requisiti di scelta del coordinatore, ma dispone di un ruolo piuttosto marginale nell’ambito della vigilanza consolidata. Con il decreto attuativo della MiFID si è dato corso a importanti modifiche nell’assetto dei controlli e di certo in tale sede il legislatore non avrebbe potuto smontare completamente l’intelaiatura del t.u.f.. Tuttavia, il processo sempre più spinto di consolidamento del sistema finanziario italiano e in parallelo l’aumento del suo grado di integrazione internazionale, portano a chiedersi (ma la domanda vuole essere anche provocatoria 21) se non sia necessario rimediare a quella che – ad avviso di chi scrive – si configura come una stonatura nel sistema di riparto funzionale disegnato dal t.u.f.: l’attribuzione alla Consob della competenza in fase costitutiva di una SIM.
21 Difatti, l’intento è soprattutto quello di puntare lo sguardo sulle debolezze che un sistema misto di controllo pubblico del mercato finanziario (ove si tenta di amalgamare criteri settoriali, riparti funzionali ed elementi di collegialità) fa emergere in rapporto alle nuove esigenze poste alla vigilanza da intermediari con operatività intersettoriale e transnazionale. Sulla necessità del confronto con l’ordinamento comunitario e sui “costi” connessi alla frammentazione della supervisione, si veda per tutti Vella, Le autorità, cit., p. 205 ss.
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Infatti, prescindendo dal potere della Banca d’Italia sancito dall’art. 18 circa la determinazione delle condizioni per l’esercizio dei servizi e delle attività di investimento da parte sia delle banche che degli intermediari finanziari di cui all’art. 107 t.u.b., va sottolineato che il t.u.f. attribuisce alla Banca d’Italia (sentita la Consob) il ruolo di autorità cui spetta il rilascio dell’autorizzazione in fase costitutiva nel comparto della gestione collettiva del risparmio (si veda l’art. 34 per le SGR e l’art. 43 per le SICAV). Se in origine (penso alla legge n. 1 del 1991) le ragioni della scelta della Consob rispetto alle SIM potevano avere un senso alla luce dell’immaturità del nostro ordinamento circa l’“organizzazione a sistema” del comparto mobiliare nonché dell’idea allora ancora prevalente di una divisione del lavoro tra autorità impostata sul profilo “soggettivo”, mi pare che con il tempo gli schematismi ad essa sottesi abbiano perso gran parte del loro valore. È noto che alcuni recenti provvedimenti legislativi hanno cercato di ridimensionare talune delle distorsioni che sul piano del riparto funzionale di competenze si erano stratificate nel tempo con riferimento in particolare alla Banca d’Italia (emblematici per tutti gli esempi in materia di antitrust e di trasparenza). Lo stesso decreto attuativo della MiFID ridefinisce il modello di vigilanza e cerca di ovviare ad alcune delle inefficienze connaturate al carattere “frammentato” del medesimo, spingendo ancor più sulla strada della collaborazione tra autorità e della condivisione nella formazione delle regole. Tuttavia, la permanenza di elementi di ambiguità e di “confusione” nel riparto di competenze fa emergere altre incongruenze sul piano dell’organizzazione di un sistema di vigilanza supplementare sui conglomerati finanziari, che poggia su una composita rete di rapporti di cooperazione e coordinamento, al livello soprattutto internazionale, e necessariamente richiede un assetto dei controlli ove le competenze siano chiaramente definite. Ecco allora che se la soluzione dovesse essere soltanto quella di limitarsi ad individuare un “punto di contatto” per le autorità di vigilanza degli altri stati membri in materia di servizi di investimento, così come disposta su di un piano generale dal co. 2-ter dell’art. 4 t.u.f., mi sembra che nell’ottica dei gruppi, eterogenei e pan-europei, possa rivelarsi parziale (in quanto non risolutiva della debolezza che la Consob ha sul piano della vigilanza consolidata) e insoddisfacente (perché finalizzata solo allo scambio di informazioni). Medio tempore, nell’attesa di riforme più coraggiose a livello sia interno sia comunitario, si potrebbe rimediare alla difficoltà accennata e al contempo rendere più coerente il sistema attuale con un ulteriore livellamento del terreno sul piano della supervisione attraverso un’inversione dei ruoli attuali; si tratterebbe cioè di attribuire: a) alla Banca d’Italia,
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in quanto materia attinente ai controlli prudenziali che tradizionalmente svolge, anche la competenza riguardante l’accesso all’esercizio dei servizi di investimento da parte delle SIM; b) alla Consob, nella stessa materia, il ruolo consultivo ora svolto dalla Banca d’Italia.
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CONSAP s.p.a.: Gestione dei Fondi di Garanzia e solidarietà* SOMMARIO: 1. Struttura e profilo istituzionale di Consap. – 1.1. Fondi Gestiti. – 2. Fonti e criteri di alimentazione dei fondi gestiti. – 3. Segue. Il modello di gestione dei fondi. – 4. Segue. L’autonomia patrimoniale di Consap rispetto ai fondi gestiti. – 5. Natura giuridica dei fondi. – 6. La vigilanza sui fondi gestiti e sulle altre attività di Consap. – 7. Consap società “in house”. – 8. Conclusioni.
1. Struttura e profilo istituzionale di Consap. In analogia a quanto avviene in alcuni dei maggiori Paesi europei (ad es. Francia, Spagna, Belgio, etc.) anche in Italia esiste – all’interno di un mercato sempre più sensibile alle istanze di carattere etico e sociale, anche a seguito della recente crisi dei mercati finanziari - una struttura assicurativa di natura pubblica, “sussidiaria” al settore privato. Consap (Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici) è una società per azioni il cui capitale, interamente pubblico, è posseduto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. È sottoposta al controllo della Corte dei Conti, ai sensi dell’art. 12 della l. 21 marzo 1958, n. 259. Consap rappresenta il modello dell’“assicuratore pubblico” – indispensabile complemento al comparto assicurativo privato – in cui la mutualità è intesa come ripartizione fra collettività e mercato di rischi altrimenti non risarcibili. La funzione che Consap svolge quale “assicuratore pubblico”
* Le opinioni espresse nel lavoro non impegnano in alcun modo l’istituzione di appartenenza. L’A. è grato a Giuseppe Leonardo Carriero, in particolare per il determinante contributo sulla natura giuridica dei Fondi e sul concetto di patrimonio autonomo nonché per gli utili suggerimenti ricevuti. L’A. intende altresì ringraziare i colleghi Paola Cavalieri e Giuseppe Pietrafesa per gli approfondimenti svolti e per lo spessore delle analisi, in particolare per la redazione dei capitoli sull’autonomia patrimoniale, sulla vigilanza sui Fondi e su Consap società “in house”.
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è quella di perseguire efficacemente, in un’ottica di trasparente efficienza gestionale, pregnanti funzioni pubblicistiche (attinenti, ma non solo, al comparto assicurativo) in relazione a quelle tipologie di interventi che, per la loro peculiarità, non possono essere garantiti dal solo mercato e/o la cui gestione presuppone anche una spiccata sensibilità alle problematiche dei danneggiati, garantendo, contestualmente, una rigorosa gestione del denaro della collettività. Ciò a tutela del cittadino come consumatore/utente, tutela che non può comunque prescindere da una capillare informazione che fornisca gli strumenti necessari per porre in essere comportamenti consapevoli, anche attraverso un processo educativo che porti i consumatori a comprendere i rischi e le opportunità di fare scelte informate, al fine di migliorare il proprio livello di protezione. La funzione svolta da Consap può altresì agevolare l’attività del comparto assicurativo, in grado così di elaborare, in modo più efficiente, le proprie strategie, libero da impedimenti strutturali connessi ad attività “estranee”. Ciò, tra l’altro, stimola comportamenti concorrenziali virtuosi che, anche attraverso migliori livelli di servizio e riduzioni tariffarie, non possono che andare a beneficio della collettività. Consap è soggetta al controllo effettivo del socio pubblico, garantito dalla influenza totalitaria che lo stesso esercita in ordine sia agli obbiettivi strategici sia alle decisioni più importanti della società la quale svolge, peraltro, la propria attività quasi esclusivamente nei confronti della Pubblica Amministrazione. In particolare, il Consiglio di Stato, nel parere del 20 aprile 2009, ha avuto modo di precisare che “i compiti affidati alla società eccedono l’ambito del pubblico servizio, concretando l’esercizio di una funzione pubblica in senso stretto”. Originata dalla scissione dell’INA S.p.A., avvenuta in data 24 settembre 1993, a Consap sono state attribuite, in regime di concessione dell’allora Ministero dell’Industria del Commercio e dell’Artigianato (con atti formalizzati nel febbraio 1994), le attività di rilievo pubblicistico – che già formavano oggetto di concessione in favore dell’I.N.A. quale ente pubblico economico successivamente trasformato in S.p.A. con legge 359/92 – di seguito indicate: Cessioni Legali; Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada; Fondo di Garanzia per le Vittime della Caccia; Fondo di sostegno per le Vittime dell’estorsione; gestione del Conto Consortile R.C. Auto; Fondo di previdenza per gli impiegati addetti alle imposte di consumo; gestione delle attività relative ai rischi agricoli speciali. Alle attività ereditate dall’I.N.A. – alcune delle quali cessate nel corso degli anni (cessioni legali, conto consortile e rischi agricoli speciali) se ne sono poi aggiunte altre, che si è inteso attribuire a Consap per legge o per concessione e/o convenzione in quanto attinenti alle finalità istituzionali della società.
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1.1 Fondi gestiti. Il core business della società oggi riguarda, principalmente, la gestione – per conto di varie Amministrazioni – di Fondi di Garanzia e Solidarietà, generalmente istituiti a tutela dell’interesse pubblico alla copertura dei “rischi della collettività” non risarcibili dai normali meccanismi contrattuali. Ciò, per lo più, in virtù di espresse previsioni normative, anche in conseguenza del recepimento di direttive comunitarie, secondo concessioni/convenzioni dei competenti Ministeri. In particolare, i Fondi di Garanzia sono istituiti per non lasciare privi di risarcimento i danneggiati da sinistri per i quali è prevista per legge l’obbligatorietà dell’assicurazione. I Fondi di Solidarietà rispondono all’esigenza di non lasciare privi di tutela le vittime di tipologie di reati particolarmente odiosi e socialmente allarmanti, contribuendo a riportare nell’area della legalità ampie zone dell’economia, coperte da ombre non accettabili alla luce di un’etica civilmente condivisa del responsabile uso del denaro. La gestione dei Fondi di Garanzia e Solidarietà è parte integrante della missione istituzionale di carattere permanente di Consap la cui attività, in molti casi, rappresenta, senza alcuna discrezionalità, la fase terminale di un processo che porta all’erogazione di un “risarcimento” e/o di una “elargizione” agli aventi diritto (ad es.: Vittime dell’estorsione, dell’usura, della mafia, ecc.). I Fondi recentemente attributi alla società (il Fondo per il credito ai giovani e il Fondo di credito per i nuovi nati) rappresentano una novità, in quanto non intervengono in una situazione patologica o di allarme sociale, ma sono istituiti con lo scopo di contribuire “lato sensu” al rilancio dell’economia ed operano nel settore del credito ai soggetti “deboli”. È appena il caso di osservare che tali due Fondi sono tesi a favorire, attraverso il soddisfacimento di bisogni primari, finalità sociali di particolare rilievo. Pertanto, le attività oggi svolte da Consap sono quelle di seguito indicate: Ministero dello Sviluppo Economico: – gestione del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, istituito con la legge 990/69 per garantire il risarcimento dei danni causati dalla circolazione di veicoli e natanti con obbligo di assicurazione, oggi disciplinato dall’art. 285 del Codice delle Assicurazioni Private di cui al d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 e dal Regolamento sulla modalità di gestione del Fondo di cui al Decreto del Ministero dello Sviluppo economico 28 aprile 2008, n. 98, in G.U. n. 129 del 4 giugno 2008; – gestione delle funzioni di Organismo di Indennizzo italiano, attribuito a Consap, nella qualità di gestore del Fondo Strada, con d.lgs n. 190/2003 (ora disciplinato all’art. 296 del d.lgs n. 209/2005);
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– gestione del Fondo di Garanzia per le Vittime della Caccia, istituito con legge n. 157/92 ed ora disciplinato dall’art. 303 del Codice delle Assicurazioni Private d.lgs n. 209/2005 e dal Regolamento di cui al predetto d.m. 28 aprile 2008 n. 98; – gestione del Fondo di previdenza per gli addetti alle cessate imposte di consumo, istituito presso l’INPS dal r.d.l. n. 1138/1936 e destinato a garantire la liquidazione del TFR agli ex dazieri; – funzione di rilascio del certificato di assicurazione a copertura della responsabilità civile per danni da inquinamento da idrocarburi di cui al d.P.R. n. 504/1978, attribuita a Consap con d.m. del 12 gennaio 2006 (cd. “blue card”); – gestione del Fondo di Garanzia per i mediatori di assicurazione e di riassicurazione, in base all’art. 115 del Codice delle Assicurazioni private di cui al d.l. 7 maggio 2005 n. 209 ed al Regolamento di cui al Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico 30 gennaio 2009 n. 19, in G.U. n. 63 del 17 marzo 2009; Ministero dell’Interno: – gestione del Fondo di Solidarietà per le Vittime delle richieste estorsive e dell’usura di cui alla l. n. 44 del 23 febbraio 1999, il cui art. 18 ne prevede la costituzione presso il Ministero dell’Interno ed il successivo art. 19, co. 4, l’attribuzione della gestione a Consap; – gestione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso di cui alla l. n. 512 del 22 dicembre 1999, il cui art. 1 ne prevede la costituzione presso il Ministero dell’Interno ed il successivo art. 3, co. 4, l’attribuzione della gestione a Consap; Ministero dell’Economia e delle Finanze: – gestione del Fondo di Solidarietà per gli acquirenti di beni immobili da costruire di cui all’art. 3, lett. f), della l. n. 210 del 2 agosto 2004 e del d.lgs n. 122 del 20 giugno 2005, il cui art. 12 ne prevede la costituzione presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze ed il successivo art. 15 l’affidamento della gestione a Consap, con la specificazione che essa vi provvede per conto del citato Dicastero; Presidenza del Consiglio dei Ministri: – gestione del Fondo per il credito ai giovani, previsto dal d.l. 2 luglio 2007 n. 8, convertito in legge 3 agosto 2007 n. 127, istituito - ai sensi del co. 6 dell’art. 15 del predetto d.l. n. 8/07 – presso la Presidenza del Consiglio e la cui gestione è attribuita a Consap per effetto della Convenzione stipulata ai sensi dell’art. 1 del regolamento attuativo di cui al Decreto Interministeriale del 6 dicembre 2007; – gestione del Fondo per il credito per i nuovi nati previsto dal d.l. 29 novembre 2008 n. 185, convertito in legge 28 gennaio 2009 n. 2,
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istituito – ai sensi dell’art. 4 co. 1 del predetto d.l. 185/2008 – presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e la cui gestione è attribuita a Consap con Decreto del Responsabile del Dipartimento per le politiche della famiglia in data 21 ottobre 2009, ai sensi dell’art. 1 co. 3 del d.P.C.M. del 10 dicembre 2009 e del relativo Disciplinare che regola i rapporti tra Consap ed il Dipartimento; nonché: – gestione della Stanza di compensazione, prevista dal d.P.R. n. 254 del 18 luglio 2006 nell’ambito della disciplina del risarcimento diretto dei danni derivanti da circolazione stradale; il Ministro dello Sviluppo Economico, con d.m. del 21 marzo 2007, ha preso atto che tale gestione è compatibile con lo svolgimento delle attività in concessione svolte da Consap. Il patrimonio di Consap è autonomo rispetto a quello dei Fondi gestiti, le cui contabilità sono separate. Per garantire la tutela dell’integrità dei Fondi e nel contempo assicurare un margine di redditività agli stessi, Consap impiega le liquidità disponibili dei Fondi esclusivamente in investimenti a redditività certa ed adeguata, anche in base a specifiche previsioni normative. Consap, nella gestione dei Fondi per conto delle varie amministrazioni, percepisce il rimborso delle spese sostenute che sono, anche per espressa previsione normativa (art. 19, co. 5, d.l. n. 78/09), a carico dei Fondi stessi. Nelle concessioni/convenzioni/disciplinari, viene delineata in modo circostanziato l’operatività nonché stabiliti dettagliatamente i compiti affidati alla società da parte delle Amministrazioni concedenti; ciò non solo per i Fondi ma anche per le altre funzioni svolte (“blue card”, Stanza di Compensazione).
2. Fonti e criteri di alimentazione dei Fondi. I Fondi di Garanzia e Solidarietà sono alimentati sia dallo Stato che dai privati, in particolare, dalla collettività degli assicurati per la responsabilità civile obbligatoria (ad esempio: il Fondo Strada da un contributo del 2,5% sui premi r.c. auto; il Fondo di Solidarietà per le Vittime delle richieste estorsive e dell’usura da un contributo sui premi assicurativi, raccolti nel territorio dello Stato, nei rami incendio, responsabilità civile diversi, auto rischi diversi e furto) 1.
1 Il Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada è alimentato, ai sensi dell’art. 285 Codice delle Assicurazioni Private, da un contributo a carico delle Imprese autorizzate
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3. Segue. Il modello di Gestione dei Fondi I Fondi gestiti da Consap – soggetti patrimoniali autonomi e separati – presentano elementi comuni, riconducibili ad un modello organizzativo finalizzato alla tutela di interessi pubblici; in particolare: – gli adempimenti svolti da Consap sono disciplinati da apposite concessioni/ convenzioni/disciplinari di durata pluriennale, stipulate con le competenti Amministrazioni (Sviluppo Economico, Economia, Interno, Presidenza del Consiglio dei Ministri) che esercitano altresì la vigilanza governativa sui Fondi stessi; – è generalmente prevista la presenza di Comitati di “gestione”, con
all’esercizio delle assicurazioni per la r.c. auto e commisurato al premio incassato per ciascun contratto stipulato in adempimento dell’obbligo di assicurazione. Il Fondo è anche alimentato, ai sensi dell’art. 328, co. 4 del Codice delle Assicurazioni private, dagli importi delle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dall’ISVAP. Il Fondo di Garanzia per le Vittime della Caccia è alimentato da un contributo a carico delle Imprese autorizzate all’esercizio della r.c. venatoria, stabilito dall’art. 303 del Codice delle Assicurazioni private e commisurato al premio incassato per ciascun contratto in adempimento dell’obbligo di assicurazione. Il Fondo di Solidarietà per le Vittime delle richieste estorsive e dell’usura è alimentato, ai sensi dell’art. 14 della l. 108/96 e dell’art. 18 della l. n. 44/99, da un contributo statale; da somme rivenienti dalla confisca di beni ordinata ai sensi dell’art. 644, co. 6 c.p.; da donazioni e lasciti da chiunque effettuati; da un contributo sui premi assicurativi raccolti nel territorio dello stato nel ramo incendi, r.c. diversi, auto rischi diversi e furto, relativi a contratti stipulati a decorrere dal 1° gennaio 1990; da una quota delle somme di denaro confiscate ai sensi della l. n. 575/65 e s.m.i.; da una quota pari ad un terzo del ricavato, per ciascun anno, delle vendite relative ai beni mobili o immobili ed ai beni costituti in azienda confiscati ai sensi della medesima legge n. 575/66. Il Fondo di rotazione per la solidarietà alle Vittime dei reti di tipo mafioso è alimentato, ai sensi dell’art.1, lett. a) e b) della l. n. 512/99), da un contributo statale fisso; da un contributo statale determinato sugli introiti realizzati attraverso la confisca di somme o la vendita dei beni confiscati e da un contributo statale straordinario. Il Fondo per la solidarietà per gli acquirenti di beni immobili da costruire è alimentato, ai sensi dell’art. 17 d.lgs 122/05, da un contributo a carico dei costruttori commisurato all’ammontare delle fideiussioni obbligatorie versate. Il Fondo di Garanzia per i mediatori di assicurazione e riassicurazione è alimentato, ai sensi dell’art. 115 del Codice delle Assicurazioni Private, da un contributo a carico dei mediatori di assicurazione e di riassicurazione commisurato all’ammontare delle provvigioni acquisite. Il Fondo di credito ai giovani è alimentato ai sensi del d.l. 81/2007, convertito in l. 127/2007, da un contributo statale per il triennio 2007/2009. Il Fondo di credito per i nuovi nati è alimentato, ai sensi del d.l. 185/09, da un contributo statale per il triennio 2009/2011.
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funzioni di indirizzo e/o consultive e/o deliberative, cui partecipano – spesso presiedendoli – rappresentanti dei Dicasteri concedenti e delle amministrazioni interessate, anche per le finalità del controllo analogo, nonché dei consumatori, in genere designati dal Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti. Nei Comitati siedono anche rappresentanti dell’ISVAP, delle Associazioni di categoria (ANIA, ABI, ANCE) e del CNEL. Consap sfrutta le sinergie e le economie di gestione scaturenti dalla contemporanea concentrazione di più Fondi affini presso un unico soggetto gestore; l’affidamento di attività della specie a Consap consente alle Amministrazioni concedenti di evitare i non trascurabili costi che dovrebbero sostenere per l’impianto e l’avviamento di nuove autonome strutture. Fra le incombenze di cui si fa carico la società, si ricordano, fra l’altro: – l’incasso e la verifica dei contributi da parte dei diversi soggetti tenuti ai versamenti previsti per legge; – l’amministrazione delle disponibilità finanziarie mediante il controllo della liquidità e l’investimento in titoli di Stato, nell’ottica della tutela della integrità patrimoniale dei Fondi cui Consap è tenuta per legge e/o per concessioni ministeriali; – l’istruttoria delle richieste di benefici/provvidenze/indennizzi e la erogazione delle relative somme, in conformità a quanto previsto dalle leggi istitutive dei vari Fondi e secondo le modalità disciplinate nei relativi regolamenti di esecuzione e/o concessioni ministeriali; – l’esercizio della complessa attività di recupero o surroga, laddove prevista, in relazione ai benefici/indennizzi erogati, anche mediante affidamento di tale compito, in via convenzionale, ad Equitalia, mediante iscrizione a ruolo dei crediti; – il presidio dei delicati rapporti con beneficiari/utenza, in un’ottica di multicanalità degli accessi; – l’attività di rendicontazione separata per i Fondi – dotati, come detto, di autonomia patrimoniale rispetto alla Concessionaria – dei fatti relativi alla loro gestione economica (entrate ed uscite) ed alla connessa situazione patrimoniale. I rendiconti, certificati da una società di revisione, vengono trasmessi alle Amministrazioni concedenti. Viene trasmesso a ciascun Ministero concedente anche un preventivo delle entrate e delle uscite di ciascun Fondo, corredato dall’esposizione analitica degli oneri di gestione stimati.
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4. Segue. L’autonomia patrimoniale di Consap rispetto ai Fondi gestiti. Il Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada – come anche gli altri Fondi gestiti – possiede autonomia patrimoniale e contabile rispetto a Consap, che lo gestisce su concessione, per assicurare la sua destinazione agli scopi previsti dal legislatore. In particolare l’art. 4 dell’attuale Regolamento, recante condizioni e modalità di amministrazione, di intervento e di rendiconto del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, di cui al sopra citato d.m. 28 aprile 2008 n. 98, in G.U. 4 giugno 2008, prevede espressamente che “Il Fondo strada è soggetto patrimoniale autonomo e separato. Consap tiene contabilità e scritture separate per le operazioni attinenti alla gestione autonoma del Fondo Strada, nonché una separata amministrazione dei beni ad essa pertinenti, in modo che risulti identificato il patrimonio destinato a rispondere alle obbligazioni del Fondo stesso”. Tale norma rispecchia esattamente il contenuto del previgente art. 39 del d.P.R. 973/1970 (regolamento di esecuzione della legge 990/69). Sul punto, va segnalato che la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 6 luglio 1990, n. 7131, ha avuto modo di chiarire, enunciando al riguardo uno specifico principio di diritto, che “il F.G.V.S. … pur non essendo dotato di personalità, ha un patrimonio autonomo, distinto rispetto agli altri beni o crediti propri dell’I.N.A. (ora Consap), onde essi non possono essere destinati al soddisfacimento di crediti vantati nei confronti del Fondo”. Il Fondo, pertanto, va considerato un “centro autonomo di interessi” che la legge pone a garanzia di una particolare categoria di creditori (le “Vittime della strada”). È stata, quindi, sottolineata l’intangibilità del patrimonio del Fondo da parte di creditori diversi da quelli indicati dalla norma nonché l’ineseguibilità delle sentenze di condanna del Fondo sul patrimonio appartenente a Consap. Appare giuridicamente corretto ritenere il Fondo patrimonio autonomo, giacché formato da tutti i contributi versati dalle imprese assicuratrici, e vincolato, poiché destinato al risarcimento dei danni specificatamente individuati dall’art. 283 del Codice delle Assicurazioni. L’autonomia patrimoniale del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, rispetto a quello della Concessionaria, emerge chiaramente anche dalla lettura degli artt. 5 e 6 del citato Regolamento di cui al d.m. n. 98/2008; infatti Consap ha l’obbligo di tenere scritture contabili distinte e la rendicontazione della situazione patrimoniale del Fondo Strada è disciplinata dalla legge (in essa sono indicati espressamente depositi, crediti, consistenza di cassa, attività mobiliari).
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Analoga autonomia patrimoniale è prevista per la gestione del Fondo Caccia (si vedano i corrispondenti artt. 27 e 28 del suddetto Regolamento di cui al d.m. n. 98 del 2008 che reca le condizioni e modalità di amministrazione, di intervento e di rendiconto anche del Fondo di Garanzia per le Vittime della Caccia). Per quanto concerne la gestione del Fondo mediatori di assicurazione e riassicurazione, l’art. 115 del d.lgs 209/2005, nel prevedere che il Fondo è costituito presso Consap, stabilisce espressamente al comma quarto che “il Fondo costituisce patrimonio separato da quello del soggetto presso il quale è costituito e da eventuali altri Fondi”. Dotati di patrimoni autonomi da Consap sono anche i seguenti Fondi: – Fondo di Solidarietà per le Vittime delle richieste estorsive e dell’usura: l’autonomia patrimoniale emerge in modo chiaro dall’art. 5 del regolamento di cui al d.P.R. n. 455/99 nonché dalla Concessione; – Fondo di Solidarietà alle Vittime dei reati di tipo mafioso: l’autonomia patrimoniale è ribadita dall’art. 7 del regolamento attuativo di cui al d.P.R. n. 284/01 e dalla Concessione; – Fondo per il credito ai giovani: l’autonomia patrimoniale del Fondo è prevista dalla Convenzione in essere con il Dipartimento della Gioventù che stabilisce espressamente, all’art. 3, co. 3, che Consap è tenuta ad utilizzare strutture tecnico-organizzative adeguate alla corretta ed efficace gestione del Fondo e a tutelare l’integrità patrimoniale dello stesso; all’art. 5, che le risorse del Fondo sono accreditate su un apposito conto corrente presso la tesoreria di Stato e che le somme vengono prelevate da Consap, previa autorizzazione del Dipartimento, esclusivamente per le finalità istituzionali del Fondo; – Fondo per il credito per i nuovi nati: anche tale Fondo, la cui operatività ha avuto inizio il 1° gennaio 2010, è dotato di autonomia patrimoniale rispetto a Consap e nel Disciplinare in essere con il Dipartimento delle Politiche della Famiglia si rinvengono norme analoghe a quelle previste per la gestione del Fondo per il credito ai giovani in ordine alla tutela dell’integrità patrimoniale del Fondo (art. 3, co. 2), all’apertura di un apposito conto corrente bancario, le cui disponibilità, per sorte ed interessi, sono destinate esclusivamente ad incrementare il Fondo (art. 5) nonché in ordine alle modalità di preventivo, di rendicontazione e rimborso delle spese di gestione, anche in questo caso a carico del Fondo (artt. 6 e 7); – Fondo di Solidarietà per gli acquirenti di beni immobili da costruire: il co. 2 dell’articolo 15 del d.lgs n. 122 del 20 giugno 2005 sancisce espressamente l’autonomia patrimoniale del Fondo.
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5. Natura giuridica dei Fondi Al riguardo, si pone la delicata (e controversa) questione inerente ai rapporti tra patrimonio e sua soggettività (i cd. “patrimoni senza soggetto”), limitandosi la legge (cfr., ad es., art. 285 d.lgs n. 209/2005, Codice delle assicurazioni private) a stabilire che “il Fondo” (nella specie, di Garanzia per le Vittime della Strada) “è amministrato, sotto la vigilanza del Ministero delle Attività Produttive, da Consap con l’assistenza di un apposito comitato”. È nota, segnatamente con riferimento ai rapporti finanziari e all’attività dei Fondi comuni d’investimento (mobiliari quanto immobiliari), l’ampia oscillazione valutativa della letteratura giuridica in punto di natura o anche solo di qualificazione del patrimonio del Fondo. Da soggetto di diritto (recte, fondazione non riconosciuta) secondo alcuni, il patrimonio è stato, al contrario, da altri qualificato come oggetto di diritti la cui proprietà apparterrebbe – a seconda dei punti di vista – ad una associazione non riconosciuta costituita automaticamente tra i partecipanti ovvero ai partecipanti in regime di comproprietà dell’universitas jurium ovvero, ancora, alla società di gestione in ragione di un sottostante negozio fiduciario che trae origine da una titolarità apparente rispetto ai terzi da parte della stessa società (costituita tramite mandato interno) a fronte della titolarità effettiva dei partecipanti. La successiva evoluzione legislativa della disciplina – nel contemplare espressamente la qualificazione del Fondo in guisa di “patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società” (art. 36, co. 6, t.u.f.) – sembra circoscrivere il dibattito sulla natura giuridica del Fondo alla riconosciuta esistenza di un centro d’imputazione di rapporti giuridici, dotato di autonomia patrimoniale perfetta, che non può (o non può più) far capo alla società di gestione del risparmio che assolve alla diversa (e specifica) funzione di organo del patrimonio attraverso l’esercizio dei poteri rappresentativi nei confronti dei terzi. È tuttavia per lo meno dubbia la riconduzione dei Fondi amministrati da Consap a quelli, nell’uno o nell’altro modo, contemplati dalle leggi in materia finanziaria. Diversamente da quelli – sebbene in maniera frammentaria e disorganica – la disciplina di settore (segnatamente quella portata dal codice delle assicurazioni) insiste non già sull’elemento dell’appartenenza dei beni al principale scopo di regolarne la separazione rispetto a quelli dell’intermediario quanto piuttosto sulla specifica destinazione dei rapporti funzionali al perseguimento degli obiettivi sottesi
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alla loro istituzione ed alla conseguente imputazione delle relative obbligazioni. L’enfasi è perciò sull’attività del Fondo non certo sul regime di appartenenza, in ciò manifestandosi semmai una analogia strutturale della disciplina con quella dei patrimoni destinati a uno specifico affare, introdotta dagli artt. 2447-bis e seguenti, c.c., nell’ambito della riforma delle società di capitali (al netto naturalmente delle peculiarità derivanti dai diversi regimi di responsabilità). È peraltro di manifesta evidenza come siffatti Fondi non possano essere ricondotti né alla categoria della fondazione, mancando di personalità giuridica, né a quella dei comitati o delle associazioni non riconosciute in quanto costituiti ex lege. Si tratta perciò di patrimoni di destinazione che non determinano un processo di personificazione dei Fondi ma solo un’unificazione funzionale dei rapporti giuridici. Il versante dogmatico della soggettività giuridica rimane, negli indicati termini, sullo sfondo. Sul piano dell’effettività rileva invece la possibilità per Consap di esperire le azioni a tutela del patrimonio del Fondo (ad es. attraverso l’ammissione allo stato passivo, cfr. Cass., 17 novembre 2005, n. 23264), di essere destinataria delle somme recuperate a norma dell’art. 292 del codice delle assicurazioni e di svolgere in maniera piena le funzioni gestorie commesse dalla legge.
6. La vigilanza sui Fondi gestiti e sulle altre attività di Consap. Come detto in precedenza, con gli atti concessori formalizzati nel febbraio del 1994, tutte le attività inerenti i servizi assicurativi pubblici, che già formavano oggetto di concessione in favore dell’INA, sono stati trasferiti a Consap. Dall’esame delle concessioni delle singole gestioni speciali affidate a Consap emerge, per quel che qui interessa, la specifica previsione del potere di vigilanza da parte del Ministero concedente. In essi è, infatti, espressamente previsto che “il concessionario è assoggettato al controllo ed alla vigilanza del concedente sullo svolgimento della concessione” e che “la concessione può essere revocata in caso di …accertati e perduranti inadempimenti e mancata osservanza delle disposizioni di legge, del presente atto e delle direttive impartite dal concedente…”. La Concessione relativa alla Gestione del Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada prevede, in particolare, anche un potere di vigilanza dell’ISVAP limitato, peraltro, come sancito nell’art. 12, “agli aspetti ricon-
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ducibili alla tecnica assicurativa” 2. Coerentemente con quanto previsto negli atti concessori, l’allora Ministro dell’Industria, Commercio e Artigianato – con nota del 10 giugno 1994 prot. n. 921539 – ha richiesto a Consap, ai fini di una corrente informativa sull’attività, di trasmettere copia conforme dei verbali delle adunanze e delle deliberazioni del Consiglio di Amministrazione nonché dei verbali delle riunioni del Collegio Sindacale, precisando che la richiesta era riferita alle adunanze ed alle deliberazioni del Consiglio di amministrazione ed alle riunioni del Collegio Sindacale “relative alle attività svolte in concessione”. Il potere di vigilanza previsto e di fatto esercitato dal Ministero dell’Industria del Commercio e dell’artigianato ha poi trovato conferma, anche normativa, nel d.P.R. 18 aprile 1994 n. 385 (pubblicato nella G.U. n. 141 del 18 giugno 1994), avente ad oggetto il Regolamento recante semplificazione dei procedimenti amministrativi in materia di assicurazioni private e di interesse collettivo di competenza del suddetto Ministero, là dove all’art. 2, co. 1, si legge che “il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato esercita la vigilanza sull’ISVAP, sulla Consap e sulla Sportass”. A norma dell’art. 4, co. 4, del d.lgs. 13 ottobre 1998, n. 373, avente ad oggetto la razionalizzazione delle norme concernenti l’ISVAP e il Ministero dell’Industria del Commercio e dell’Artigianato, il suddetto art. 2, co. 1, del d.P.R. n. 385/94 è stato poi sostituito dal seguente articolo: “Il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato esercita la vigilanza sulla Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici S.p.A. (Consap)…”. Sulla base di quanto sopra, si potrebbe ritenere che il Ministero in questione, con l’entrata in vigore di tale norma, abbia acquistato un generale potere di controllo e vigilanza sulla Società, non più riferito soltanto alle attività svolte in concessione per suo conto. Di converso, si può osservare che tale previsione normativa non ha inteso determinare una differente e più ampia attribuzione di poteri di vigilanza al Ministero concedente; ciò in quanto Consap, nel periodo in cui fu emanata la norma, era chiamata a svolgere esclusivamente le attività oggetto delle concessioni conferite dal suddetto Ministero. Pertanto, il potere di vigilanza normativamente previsto in capo al Ministero non poteva che coincidere con quello che in concreto veniva dallo stesso già esercitato sulle attività svolte in concessione da Consap a norma
2 Il Codice delle Assicurazioni stabilisce che le Convenzioni fra le imprese e il Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, sono soggette all’approvazione del Ministro delle Attività Produttive, su proposta dell’ISVAP (art. 286, co. 2).
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dei Disciplinari sopra esaminati. Va a questo proposito precisato che la norma sopra esposta, riguardante la vigilanza del Ministero dell’Industria del Commercio e dell’Artigianato su Consap, risulta peraltro essere stata espunta dall’ordinamento, in quanto l’art. 354 del Codice delle Assicurazioni di cui al d.lgs 7 settembre 2005 n. 209 ha espressamente abrogato sia il citato d.P.R. 385/94 che il successivo d.lgs n. 373/98. Le successive attività e funzioni che nel tempo sono state poi affidate a Consap da parte di altri Dicasteri o Autorità Pubbliche (in base a nuove norme di legge ovvero per convenzioni e/o concessioni) nonché l’avvenuta espressa abrogazione dei sopra citati decreti n. 385/94 e n. 373/98, lasciano ritenere che oggi – anche alla luce del nuovo quadro normativo di riferimento che si è venuto a delineare – continui a perdurare in capo al Ministero dello Sviluppo Economico un potere di vigilanza sulle attività svolte da Consap in ordine agli atti concessori del 1994 ancora vigenti (Fondo Strada, Fondo Caccia – disciplinati ora dal Codice delle Assicurazioni – Fondo ex addetti alle imposte di consumo). Deve ritenersi esistente un eguale potere di vigilanza del Ministero dello Sviluppo Economico anche sulle altre attività e funzioni devolute a Consap dalle norme del Codice delle Assicurazioni per quanto riguarda il Fondo per i mediatori di assicurazione e riassicurazione disciplinato all’art. 115 d.lgs 209/05: ciò, attesa la composizione del relativo Comitato e la vigilanza espressamente sancita nel relativo regolamento attuativo di cui al Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico n. 19 del 30 gennaio 2009, recante le norme per l’amministrazione, la contribuzione e i limiti di intervento del Fondo 3. Inoltre, il suddetto D.M. n. 19/2009 stabilisce, all’art. 16, che il Fondo è posto sotto la vigilanza del Ministero dello Sviluppo Economico, il quale può chiedere in qualunque momento al Fondo notizie e dati sulla gestione del Fondo stesso e disporre accertamenti ove lo ritenga necessario. Un cenno va fatto, per quanto concerne l’argomento trattato, anche alla gestione – affidata a Consap – della Stanza di compensazione prevista dal d.P.R. n. 254 del 18 luglio 2006 nell’ambito della disciplina del risarcimento diretto dei danni derivanti da circolazione stradale di cui
3 Il co. 2 dell’art. 115 del Codice delle Assicurazioni stabilisce che l’amministrazione del Fondo spetta ad un Comitato nominato con decreto del Ministero delle Attività Produttive, composto da un dirigente dello stesso Ministero, con funzione di presidente, da un dirigente del Ministero dell’Economia e delle Finanze, da un funzionario dell’ISVAP, da un funzionario di Consap, da due rappresentanti degli intermediari iscritti nella corrispondente sezione del registro, da un rappresentante delle imprese di assicurazione e riassicurazione.
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all’art. 149 del Codice delle Assicurazioni. Per quanto riguarda detta attività, demandata a Consap e regolata con apposita Convenzione stipulata con l’Ania, non sembra essere ipotizzabile un potere diretto di vigilanza da parte del Ministero dello Sviluppo Economico. Piuttosto il codice delle assicurazioni prevede un potere di vigilanza sul “sistema del risarcimento diretto” di cui all’art. 149, attribuito all’ISVAP a norma del co. 3 dell’art. 150. La ratio di tale previsione normativa, che affida all’ISVAP un compito di vigilanza sul “sistema risarcitorio dell’indennizzo diretto”, risiede nella necessità sentita dal legislatore di veder così meglio assicurata la tutela dei soggetti lesi dai sinistri, il corretto svolgimento delle operazioni di liquidazione dei danni nonché la stabilità delle imprese di assicurazioni. Le considerazioni sopra esposte, suffragate dall’esame delle norme di riferimento, conducono, pertanto, tutte a ritenere che il potere di vigilanza in capo al Ministero dello Sviluppo Economico debba essere inteso come afferente e relativo alle sole attività svolte in concessione da Consap per conto dello stesso Ministero nonché in ordine a quelle attività alla stessa società attribuite per legge, Concessione o Convenzione per le quali la vigilanza del Ministero dello Sviluppo Economico sull’attività o sul Fondo gestito da Consap sia specificatamente prevista dalla legge o dalle concessioni e/o convenzioni. Quanto sopra sembra trovare conferma anche dalla lettura delle norme dettate dal Codice delle Assicurazioni proprio in ordine al Fondo Strada ed al Fondo Caccia; gli artt. 285, co. 1, e 303, co. 1, prevedono rispettivamente che i suddetti Fondi siano amministrati, sotto la vigilanza del Ministero delle Attività Produttive, direttamente da Consap cui è affiancato un apposito Comitato per l’espletamento delle attività di assistenza e collaborazione. Il Regolamento di cui al d.m. n. 98/2008 in materia di vigilanza sul Fondo Strada e sul Fondo Caccia stabilisce, rispettivamente agli artt. 7 e 30, che “Il Ministero dello sviluppo economico può chiedere in qualunque momento al Fondo strada notizie e dati sulla gestione del Fondo stesso e disporre accertamenti ove lo ritenga necessario”. Il medesimo Regolamento ha determinato, inoltre, la nuova composizione di tali comitati – in cui siedono, per la prima volta, i rappresentanti di ISVAP e dei Consumatori – disciplinando anche le condizioni e le modalità di amministrazione e di gestione dei due suddetti Fondi. Consap, pertanto, amministra i Fondi Strada (incluso l’Organismo di indennizzo) e Caccia con l’assistenza dei predetti Comitati, che hanno funzioni consultive nonché competenza a predisporre i rendiconti annuali della gestione, da sottoporre al Consiglio di Amministrazione di Consap. Per quanto riguarda la composizione dei suddetti Comitati, si
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rimanda all’art. 2 e all’art. 40 del Regolamento di cui al d.m. n. 98/2008 per il Comitato del Fondo di Garanzia Vittime delle Strada ed all’art. 25 del medesimo regolamento per quanto concerne la composizione del Comitato del Fondo Caccia. Il Ministero dello Sviluppo Economico, pertanto, proprio anche attraverso la partecipazione dei propri rappresentanti ai cennati comitati (due nel Comitato strada e due nel Comitato Caccia), esplica fattivamente il potere di vigilanza sull’amministrazione dei Fondi previsto negli atti concessori e ribadito per legge nelle norme di riferimento del Codice delle Assicurazioni. Anche in ordine alla funzione di rilascio del certificato di assicurazione a copertura della responsabilità civile per danni da inquinamento da idrocarburi di cui al d.P.R. n. 504/1978, attribuita a Consap con d.m. del 12 gennaio 2006, si precisa all’art. 6 che il Ministero delle Attività Produttive (ora Ministero dello Sviluppo Economico) ha il potere di compiere verifiche sull’andamento delle attività svolte da Consap in relazione ai compiti conferiti dalla legge, al fine di assicurare la regolarità, la tempestività, l’efficienza e l’efficacia del Servizio. Nell’esercizio dell’attività di verifica il predetto Ministero può emanare istruzioni, chiedere chiarimenti e, per fini specifici, impartire disposizioni a Consap. Per quanto riguarda gli altri Fondi gestiti da Consap per conto di altri Dicasteri o autorità governative, laddove ciò sia normativamente previsto sia in sede di legge che di regolamento attuativo o in forza di Convenzione, il Dicastero concedente ovvero l’Autorità governativa presso la quale sia costituito il Fondo dato in gestione a Consap esercitano comunque un potere di vigilanza sulle attività in gestione che, nella maggior parte dei casi, si sostanzia, di fatto, anche nella partecipazione ai Comitati degli stessi Fondi 4.
4 Sul Fondo speciale degli addetti alle abolite imposte di consumo, la Vigilanza è esercitata dal Ministero dello Sviluppo Economico ai sensi dell’art. 10 dell’Atto di Concessione. Sul Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, la Vigilanza è esercitata dal Ministero dello Sviluppo Economico, ai sensi dell’art. 285 del d.lgs. n. 209/2005 e dell’art. 7 del d.m. 98/2008. Sul Fondo di Garanzia per le Vittime della Caccia, la Vigilanza è esercitata dal Ministero dello Sviluppo Economico ai sensi dell’art. 303 d.lgs. n. 209/2005 e ai sensi dell’art. 30 d.m. 98/2008. Sul Fondo di Solidarietà per le Vittime dell’Usura e dell’Estorsione, la Vigilanza è esercitata dal Ministero dell’Interno ai sensi dell’art. 4 dell’Atto di Concessione. Sul Fondo di rotazione per la Solidarietà alle Vittime dei reati di tipo mafioso, la Vigilanza è esercitata dal Ministero dell’Interno ai sensi dell’art. 4 dell’Atto di Concessione. Sul Fondo di Garanzia per i Mediatori di Assicurazione e riassicurazione, la Vigilanza è esercitata dal Ministero dello Sviluppo Economico ai sensi dell’art. 16 d.m. 19/2009. Sul Fondo di Solidarietà per gli acquirenti di beni
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Sotto la vigilanza del Ministero dell’Interno sono infatti il Fondo di Solidarietà per le Vittime delle richieste estorsive e dell’usura ed il Fondo di rotazione per la solidarietà alle Vittime dei reati di tipo mafioso. Per il Fondo Usura si veda l’art. 5, co. 2, del d.P.R. n. 445/99, recante il regolamento di attuazione della legge istitutiva del Fondo Usura; inoltre l’art. 4 dell’Atto di Concessione per la gestione del Fondo a Consap prevede espressamente la vigilanza del Ministero dell’Interno esercitata su Consap al fine di assicurare la regolarità, la tempestività e l’efficacia del servizio, fermi restando gli altri controlli previsti dalla normativa vigente. Per il Fondo Mafia, la materia della vigilanza è disciplinata dall’art. 7, co. 2, del d.P.R. n. 284/01, recante il regolamento di attuazione della legge istitutiva del Fondo Mafia nonché dall’art. 4 dell’Atto di Concessione per la gestione del Fondo a Consap, analogo nella stesura al sopra citato art. 4 dell’Atto concessorio del Fondo Usura. Sotto la vigilanza del Ministero dell’Economia e delle Finanze è posto il Fondo di Solidarietà per gli acquirenti di beni immobili da costruire che, in base alle norme di riferimento, è costituito presso il medesimo Ministero. L’art. 15 comma 2 del d.lgs. 20 giugno 2005 n. 122 stabilisce che la Concessione per la gestione del Fondo si conformi tra l’altro al principio di garantire la verifica periodica, da parte dell’amministrazione concedente, della corrispondenza della gestione del Fondo alle finalità indicate nel decreto. L’art. 14, lett. b), dell’Atto di Concessione prevede la revoca per eventuale inosservanza da parte di Consap delle disposizioni di legge (…) delle clausole dell’Atto concessorio e delle Direttive impartite dal Ministero, previa diffida e contestazione della violazione. Peraltro, il Ministero, per l’attività di vigilanza, si avvale anche del supporto informativo fornito da un proprio rappresentante che siede all’interno del Comitato del Fondo in veste di Presidente 5.
immobili da costruire, la Vigilanza è esercitata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze ai sensi dell’art. 15, co. 2, d.lgs. 122/2005 art. 14, lett. d) dell’atto di Concessione. Sul Fondo per il Credito ai Giovani la Vigilanza, è esercitata dal Dipartimento della Gioventù ai sensi dell’art. 4 della Convenzione. Sul Fondo di Credito per i nuovi nati, la Vigilanza è esercitata dal Dipartimento per la Famiglia ai sensi dell’art. 1 del d.P.C.M. 10 settembre 2009 e dell’art. 4 del Disciplinare. Sul Sistema dell’indennizzo diretto (Stanza di Compensazione), la Vigilanza è esercitata dall’ISVAP ai sensi dell’art. 150, co. 3, d.lgs. n. 209/2005. Sulla funzione di rilascio del certificato di assicurazione a copertura della responsabilità civile per i danni da inquinamento da idrocarburi, la Vigilanza è esercitata dal Ministero dello Sviluppo Economico ai sensi dell’art. 6 del d.m. 23 marzo 2006 di approvazione della vigente Convenzione. 5 Il Comitato in base all’art. 10 del d.m. 2 febbraio 2006 è composto da: un rappresen-
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Sotto la vigilanza del Dipartimento per le politiche Giovanili e le Attività Sportive della Presidenza del Consiglio dei Ministri è posto il Fondo per il credito ai giovani. In proposito l’art. 4 della Convenzione per la gestione del Fondo stipulata tra lo stesso Dipartimento e Consap prevede la vigilanza del Dipartimento che può verificare in ogni momento che il Fondo sia gestito nel pieno rispetto degli obblighi posti a carico del gestore dal Regolamento e dalla Convenzione. Detto articolo stabilisce che, nell’esercizio della sua attività di vigilanza, il Dipartimento può chiedere a Consap chiarimenti ed impartire disposizioni sulla gestione del Fondo. A Consap è stata anche affidata la gestione del Fondo di credito per i nuovi nati istituito – a norma dell’art. 4, co. 1 del d.l. 29 novembre 2008 n. 185, convertito nella l. 29 gennaio 2009 n. 2 – presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Con successivo d.P.C.M. di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze del 10 settembre 2009 sono stati stabiliti i criteri e le modalità di organizzazione e di funzionamento del Fondo in argomento. I co. 3 e 4 dell’art. 1 del predetto decreto stabiliscono che il Dipartimento per le politiche della Famiglia presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, cui peraltro è demandato il potere di vigilanza sul Fondo, si avvale, per le operazioni relative alla gestione amministrativa del Fondo, della prestazione di una società a capitale interamente pubblico affidandole direttamente, ai sensi dell’art. 19, co. 5 del d.l. 1 luglio 2009 n. 78 (convertito in l. 3 agosto 2009 n. 102), l’esecuzione delle attività previste dal decreto stesso mediante apposito Disciplinare. Il co. 4 di detto art. 1 stabilisce espressamente che nel Disciplinare, da sottoscrivere convenzionalmente, vengano tra l’altro stabilite anche le forme di vigilanza sull’attività del gestore, tali da configurare un controllo analogo a quello che il Dipartimento esercita sui propri servizi. In particolare, viene previsto che il Dipartimento esercita nei confronti del gestore poteri di indirizzo, impartendo direttive ed istruzioni anche di carattere tecnico-operativo e può disporre ispezioni anche al fine di verificare il corretto adempimento dei compiti demandati al gestore. Il gestore è tenuto a fornire al Dipartimento tutti i dati e le informazioni concernenti la regolarità, la tempestività l’efficienza e l’efficacia del ser-
tante del Ministero dell’Economia e delle Finanze, con funzione di Presidente; un rappresentante del Ministero della Giustizia; un rappresentante del Ministero dello Sviluppo Economico; un rappresentante dell’ABI; un rappresentante dell’ANIA; un rappresentante dell’Associazione nazionale Costruttori Edili (ANCE); un rappresentante delle associazioni delle vittime; un rappresentante di Consap.
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vizio, con la periodicità richiesta dal Dipartimento. Tali previsioni sono espressamente richiamate all’art. 4 del Disciplinare successivamente sottoscritto da Consap, all’indomani della sua individuazione quale gestore del Fondo, avvenuta con decreto del responsabile del Dipartimento per le politiche della famiglia in data 21 ottobre 2009. In tale decreto si precisa che Consap è stata individuata quale gestore, previa verifica del possesso da parte della società dei requisiti formali e sostanziali previsti dalle disposizioni legislative e regolamentari per l’affidamento delle operazioni relative alla gestione amministrativa del Fondo anche in relazione al citato d.l. n. 78/2009. Tale Fondo costituisce il primo caso di affidamento diretto a Consap da parte di una Pubblica Amministrazione.
7. Consap società “in house”. La disciplina dell’affidamento diretto di attività da parte delle amministrazioni pubbliche a società dalle stesse partecipate (cd. “in house”) è stata costruita quasi interamente dalla giurisprudenza, principalmente comunitaria, e dalla dottrina, in assenza di norme di diritto positivo. La Corte di Giustizia europea ha affermato 6 che una qualsiasi autorità pubblica, ove scelga di perseguire le finalità di interesse pubblico attraverso “propri strumenti, amministrativi, tecnici e di altro tipo”, non deve ritenersi necessariamente “obbligata a far ricorso ad entità esterne non appartenenti ai propri servizi”. E ciò anche nei casi di affidamento di contratti rientranti nell’ambito di applicazione delle Direttive comunitarie in materia di appalti pubblici. In altre parole, ove una pubblica amministrazione intenda svolgere direttamente talune attività (o affidarne l’esecuzione a proprie strutture, anche dotate di autonomia giuridica), la stessa amministrazione deve ritenersi esonerata dall’obbligo di procedere all’affidamento (su gara) a soggetti terzi. Sulla base di tali considerazioni, è stato dunque precisato che deve ritenersi pienamente legittimo, secondo il diritto comunitario, l’affidamento “diretto” di una commessa (quale eccezione alla regola dell’affidamento tramite gara) da parte di un’autorità pubblica ad una entità dalla stessa giuridicamente distinta ma sulla quale la Pubblica Amministrazione eserciti “un controllo analogo
6 Corte di Giustizia Europea, sez. I, 11 gennaio 2005 n. C-26/03 (sentenza “Stadt Halle”).
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a quello che essa esercita sui propri servizi e tale entità realizzi la parte più importante della propria attività con l’autorità o le autorità pubbliche che la controllano”. In un primo momento, il Consiglio di Stato 7 ha seguito criteri interpretativi molto restrittivi per la riconducibilità di una società al modello “in house”, prevedendo, tra l’altro, fra i requisiti indispensabili, la necessità di una partecipazione pubblica totalitaria; l’impossibilità dell’alienazione del capitale sociale a privati; una influenza determinante del socio pubblico sugli obiettivi strategici e sulle decisioni importanti della società; la assenza di una vocazione commerciale della società. Una successiva pronuncia del Giudice comunitario 8 ha poi, peraltro, precisato che, per influenzare in maniera determinante le decisioni della società partecipata da parte dell’autorità pubblica, è sufficiente che gli organi decisionali della società siano composti da delegati della pubblica amministrazione e che, sotto il profilo economico, l’effettività del controllo analogo viene garantita anche in presenza di una partecipazione non totalitaria dell’autorità pubblica al capitale dell’ente affidatario. Tale orientamento è stato condiviso dal Consiglio di Stato con una recente pronuncia (Consiglio di Stato sez. V del 9 marzo 2009, n. 1365), ritenendosi come essenziale, per il rispetto dei principi comunitari, che la pubblica amministrazione attraverso gli organi decisionali da lei designati si sia riservata, oltre a poteri di controllo sulla gestione, anche il potere di approvare in via preventiva tutti gli atti più rilevanti della società, tra cui gli atti da sottoporre all’assemblea straordinaria. Tale controllo sussiste anche laddove non abbia ad oggetto gli atti di ordinaria amministrazione della società nonché nei casi in cui l’autorità pubblica non detenga l’intero capitale societario. Alla luce di quanto precede, Consap appare pienamente riconducibile al modello in house sia sotto il profilo economico, in quanto il capitale è interamente pubblico, sia sotto il profilo gestionale, in quanto soggetta al controllo effettivo del socio pubblico, espletato nelle molteplici forme sopra delineate, sia sotto il profilo sostanziale, in quanto svolge attività prevalentemente per la Pubblica Amministrazione. A seguito del d.l. 1 luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, in l. 3 agosto 2009, n. 102, sono state introdotte disposizioni che disciplinano alcuni aspetti dell’istituto dell’in house providing. In particolare, il
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Consiglio di Stato, 3 marzo 2008, n. 1. Corte di Giustizia Europea, 13 novembre 2008 n. C-324/07.
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co. 5 dell’art. 19 prevede che “le amministrazioni dello Stato, cui sono attribuiti per legge fondi o interventi pubblici, possono affidarne direttamente la gestione, nel rispetto dei principi comunitari e nazionali conferenti, a società a capitale interamente pubblico su cui le predette amministrazioni esercitano un controllo analogo a quello esercitato su propri servizi e che svolgono la propria attività quasi esclusivamente nei confronti dell’amministrazione dello Stato. Gli oneri di gestione e le spese di funzionamento degli interventi relativi ai fondi sono a carico delle risorse finanziarie dei fondi stessi”. Ciò potrà facilitare l’attribuzione diretta a Consap della gestione di ulteriori attività da parte delle Amministrazioni pubbliche. Il Consiglio di Stato si è uniformato al chiarimento normativo affermando, in un recente parere del 9 novembre 2009 – reso in relazione allo schema di regolamento di organizzazione del Fondo di Solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa di abitazione 9 – che, stante quanto disposto dal d.l. 78/2009, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ben può affidare a un soggetto esterno (Consap) la gestione di tale Fondo, rimettendo ad un successivo disciplinare la definizione delle modalità di svolgimento di forme di vigilanza tali da configurare un controllo analogo a quello esercitato dal Dipartimento competente (Tesoro) sui propri servizi. Viene così statuito il principio che prevede che la definizione degli adempimenti connessi all’esercizio del controllo analogo debba avere luogo nell’ambito della concessione/ convenzione/disciplinare. Con recenti modifiche lo Statuto di Consap è stato adeguato, sotto il profilo formale, prevedendo tra l’altro, l’ampliamento dell’oggetto sociale per comprendere le attività affidate dalle Amministrazioni ai sensi dell’art. 19, co. 5 del d.l. 78/09 e stabilendo la inalienabilità delle azioni da parte del MEF.
8. Conclusioni. Alla luce di quanto precede, appare evidente come la Consap sia stata interessata, dalla sua costituzione ad oggi, da una “metamorfosi funzionale” dell’organismo che – originariamente chiamato a svolgere una mera funzione sussidiaria, di complemento al mercato con riguardo
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Istituito dalla Legge n. 244 del 2007 (art. 2, co. 475).
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a circoscritte fattispecie applicative - sconta ora una ampiezza operativa idonea ad abbracciare plurali esigenze meritevoli di tutela, sintomatiche di una più lata, e complessa, accezione di finalità sociali rilevanti. L’istituzione e la gestione dei Fondi per il credito ai giovani e ai nuovi nati rappresenta, sotto questo versante, una emblematica ed eloquente testimonianza. Sul piano strutturale, il modello organizzativo Consap appare in grado di coniugare efficienza e protezione di interessi generali separando rigorosamente e senza commistioni di sorta il momento gestorio – affidato alla logica dell’impresa e sottoposto alla relativa disciplina jure privatorum – dalle funzioni pubbliche di indirizzo e controllo, di pertinenza delle competenti autorità pubbliche. La nitida scansione dei differenti centri decisionali, atti a definire rispettivamente gli obiettivi e gli strumenti dell’operatività, concilia, sapientemente e con grande equilibrio, due essenziali funzioni regolamentari solo apparentemente antitetiche: quella promozionale sul piano sociale e dei valori fondativi (equità) e quella dinamica in punto di efficienza ed economicità. Il corrispondente auspicio è che l’ambito di operatività di Consap possa consolidarsi, crescere ed estendersi anche ad altri settori.
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Bonds e responsabilità delle banche collocatrici
TRIBUNALE DI ROMA, sentenza 3 novembre 2009, n. 24461; Pres. Santamaria, Rel. Pinto; Cirio Holding s.p.a. ed altre (Avv. Confortini, Niccolini, Zaccheo) c. Unicredito Italiano s.p.a. ed altra (Avv. Lener, Vassalli, Dalmartello), Intesa San Paolo s.p.a. (avv. Mirabile, Tavormina, Pedersoli), Banca Euromobiliare s.p.a. ed altra (avv. De Sensi, Bonfatti, Ferrari, Scognamiglio) Amministrazione straordinaria di imprese in crisi – Prosecuzione dell’attività in presenza di stato di insolvenza – Emissione di prestiti obbligazionari – Aggravamento del dissesto – Danno al patrimonio della società – Responsabilità degli organi sociali – Responsabilità concorrente delle banche lead manager nel collocamento dei prestiti – Azione di risarcimento – Legittimazione del commissario straordinario – Sussistenza – Fattispecie (Cod. civ., artt. 2043, 2055; l. fall., art. 43)
I commissari straordinari di società insolventi in amministrazione straordinaria sono legittimati a proporre azione di risarcimento dei danni subiti dalle società medesime e, di riflesso, dalla massa indistinta dei creditori che abbiano subito un depauperamento del patrimonio di dette società per il fatto illecito delle banche che, nella loro qualità di intermediari finanziari nel collocamento di prestiti obbligazionari, in concorso con gli amministratori e i sindaci delle società che tali prestiti hanno emesso, abbiano ritardato l’emersione dell’insolvenza di queste ultime, così determinandone l’aggravamento del dissesto (nella specie, il tribunale ha escluso la corresponsabilità delle banche convenute per l’insussistenza del nesso di causalità fra la condotta delle stesse e l’evento dannoso lamentato, ritenuto ascrivibile esclusivamente al fatto illecito di natura omissiva degli organi sociali al quale neppure indirettamente avevano partecipato le banche convenute). (1)
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(Omissis) Svolgimento del processo e motivi della decisione – 1. Con atto di citazione CIRIO HOLDING spa. CIRIO FINANZIARIA spa (già CIRIO spa), CIRIO DEL MONTE N.V. CIRIO DEL MONTE ITALIA spa. CIRIO FINANCE LUXEMBPURG S.A. CIRIO HOLDING LUXEMBOURG S.A. DEL MONTE FINANCE LUXEMBOURG S.A. CIRIO AGRICOLA spa. CIRIO IMMOBILIARE spa. CIRIO RICERCHE sepa convenivano innanzi a questo tribunale, secondo il procedimento di cui al d.lgs 5/2003, BANCA DI ROMA spa. CAPITALIA spa. UNICREDIT BANCA MOBILIARE spa. BANCA EUROMOBILIARE spa. ABAXBANK spa. INTESA SAN PAOLO spa. CABOTO spa. chiedendone la condanna al risarcimento dei danni per responsabilità extracontrattuale per l’attività da essi svolte, in qualità di “lead manager”, nel collocamento dei sei noti prestiti obbligazionari, danni quantificati in €2.082.249.718,00 derivanti dall’aggravamento del rispettivo dissesto di esse attrici, del danno subito da CIRIO FINANZIARIA spa per la perdita di chance, del danno subito da CIRIO FINANCE LUXEMBOURG S.A., CIRIO HOLDING LUXEMBOURG S.A., DEL MONTE FINANCE LUXEMBOURG S.A., CIRIO FINANZIARIA spa (già CIRIO spa), CIRIO DEL MONTE N.V., in conseguenza del pagamento delle provvigioni riconosciute ai ‘lead manager’ per il collocamento dei bond pari a complessivi € 9.812.000,00”. Si costituivano in giudizio le società convenute instando per il rigetto della domanda. Nella memoria ex art. 6 d.lgs 5/2003 le parti attrici hanno precisate la domanda escludendo di avere agito per ottenere il risarcimento dei danni
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patiti da singoli creditori della società insolvente ed affermando di avere agito per ottenere il ristoro dei danni patiti direttamente nel patrimonio delle società attrici a causa dell’aggravamento dello stato di dissesto. Istruita documentalmente, la causa veniva trattenute in decisione all’audienza indicata in epigrafe con differimento del deposito della sentenza ex art. 281 sexies c.p.c. a norma dell’art. 16 co. 5 d.lgs 5/2003. 2. Preliminarmente si rileva il difetto di legittimazione passiva di BANCA EUROMOBILIARE spa convenuta in giudizio in quanto “già denominata EUROMOBILIARE INVESTMENT BANK spa”. L’attuale denominazione è invece ABAXBANK spa, come risulta dal verbale di assemblea straordinaria del 20.11.2000: ABAXBANK spa, peraltro, è stata convenuta anch’essa nel presente giudizio per l’attività relativa all’emissione di altro prestito obbligazionario, quando già avere così mutato la propria denominazione sociale. 3. Parte attrice ha precisato la propria domanda nella memoria ex art. 6 d.lgs. 5/2003, ribadendo nella comparsa conclusionale: “…sarà sufficiente qui ribadire, da un canto, che l’odierna azione non ha per oggetto una domanda di risarcimento dei danni sofferti dai creditori, ma di quelli patiti direttamente dalle società attrici; d’altro canto, che la pretesa delle odierne attrici non si lega all’abusiva concessione di credito, ma al fatto illecito delle società convenute (nella loro qualità di intermediari finanziari) che, in concorso con gli amministratori e i sindaci delle società emittenti e garanti dei bond, hanno consentito il differimento dell’emersione dell’insolvenza, determinando
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un notevole aggravamento del dissesto delle odierne opponenti”. Così inequivocabilmente e definitivamente inquadrata la domanda, quindi come domanda di risarcimento danni, e tenendo conto della tipologia dei danni lamentati subiti dalla stessa società allorché era ancora in bonis – trattasi, di poste di danno emergente e di lucro cessante subiti dalla società e, di riflesso, dalla massa indistinta dei creditori che avrebbero subito un depauperamento del patrimonio sociale – ritiene il Tribunale che sussista la legittimazione attiva dei commissari straordinari. Trattasi, infatti, di un’azione rientrante fra quelle previste dall’art. 43 L.F., in quanto diretta “alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed avente carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari dell’esito positivo” (principio questo riaffermato anche nella sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite 7029/2006 al cui esame era stata sottoposta una diversa fattispecie). 4. Nel merito la domanda è infondata per insussistenza del nesso di causalità tra la condotta delle convenute e l’evento dannoso lamentato. Tale difetto di nesso causalità è ravvisabile sotto vari profili, ciascuno dei quali sufficiente, da solo, a farne ritenere l’insussistenza. A. La stessa parte attrice nell’atto di citazione (pag. 13) ha dedotto: “ …Come si è già rilevato la condizione di totale il liquidità nella quale si è venuta a trovare Cirio spa all’esito dell’operazione Eurolat nel volgere di pochi mesi sarebbe fatalmente sfociata nell’avvio di una procedura concorsuale. Come rilevano anche i
Commissari Giudiziali nella loro Relazione di fronte a questa drammatica situazione economica e finanziaria, le vie, ragionevolmente percorribili, almeno in astratto, erano due: o la ristrutturazione dell’indebitamento da breve a medio-lungo termine ottenuta con operazioni sul capitale, che consentisse la formazione di risultati economici positivi, ovvero la richiesta al Tribunale – su iniziativa degli amministratori e/o dei sindaci dell’accertamento dello stato di insolvenza”. Nella fattispecie in esame l’eventus damni dedotto è quindi in repporto di causalità immediata e diretta, secondo la stessa prospettazione di parte attrice, con una condotta omissiva di amministratori e sindaci, i quali svrebbero potuto e dovuto chiedere essi stessi al tribunale l’accertamento dello stato di insolvenza nell’ipotesi di impossibilità di una ristrutturazione a medio-lungo termine del debito. In tale ricostruzione l’emissione del prestito obbligazionario si pone come, quindi, come comportamento accessorio ad una decisiva scelta omissiva da parte della società ed è pertanto privo di autonoma incidenza causale. L’emissione del prestito obbligazionario, d’altronde, ha una funzione meramente strumentale e derivata rispetto ad un unico fatto illecito di natura omissiva ascrivibile agli organi sociali, al quale neppure indirettamente hanno partecipato le società convenute e che è il solo in relazione eziologica diretta con l’eventus damni. B. Tuttavia, anche a voler istituire una relazione concausale eziologica autonoma e diretta tra l’emissione del prestito obbligazionario e l’eventus damni, andrebbe comunque escluso
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il nesso di causalità fra quest’ultimo e la condotta illegittima imputata alle società convenute. Va infatti evidenziato che nell’ipotesi di abusiva concessione di credito (che non ricorre nella specie), a fortiori nell’ipotesi di intermediazione, la volizione del soggetto finanziato si pone come elemento causale determinante e pressoché esclusivo nell’erogazione del finanziamento, concesso direttamente o intermediato non rileva. L’attività svolta dalle convenute, ammesso che fosse illegittima, sarebbe stata del tutto priva di efficienza causale nella stessa eziologia dell’evento, senza la partecipazione decisiva e autonoma del soggetto finanziato, avendo carattere, semmai, meramente agevolativo. La scelta del prestito obbligazionario riconducibile comunque ad un atto di volontà non coartato degli amministratori si pone dunque come causa idonea sufficiente ed esclusiva dell’evento. In tale contesto, infatti, la partecipazione delle società convenute al collocamento dei bond ha natura complementare ad una condotta riferibile esclusivamente alla voluntas degli organi sociali. C. Ad abundantiam si osserva che in ogni caso l’asserito aggravamento dello stato di dissesto non è conseguenza immediata e diretta della condotta ascritta alle società convenute non solo per la natura in realtà meramente accessoria a tale condotta, ma anche perché l’eventus damni dedotto è alquanto remoto rispetto alla condotta denunziata come illegittima. Il danno dedotto non è costituito dall’erogazione del finanziamento, a condizioni peraltro non sfavorevoli
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per il debitore – che è l’effetto più prossimo della condotta dei convenuti –, né ovviamente, dalla mancata restituzione del prestito obbligazionario – che costituisce danno solo per i sottoscrittori delle obbligazioni –, né dall’assoggettamento dell’impresa alla procedure concorsuale – in quanto solo posticipata nel tempo, posto che, secondo l’assunto delle stesse attrici, esso sarebbe stato comunque inevitabile. Esso è ravvisato dalle parti attrici in un aggravamento del dissesto sempre a voler ammettere che non vi siano state altre cause o concause dell’aggravamento del dissesto medesimo. Ma questa è in realtà una conseguenza del comportamento ascritto alle società convenute. D’altra parte, come detto, il finanziamento, che costituisce l’effetto diretto della condotta ascritta ai convenuti, non costituiva di per sé un danno, tenuto conto che il tasso passivo per il soggetto finanziario era tutt’altro che sfavorevole. D. Infine, anche a voler attribuire la qualità di concausa all’operato delle società convenute per l’emissione del prestito obbligazionario, si perverrebbe ugualmente ad escludere il nesso di causalità, dovendo comuqnue applicarsi il principio della “causa prossima di rilievo”, ribadito dalla Corte di Cassazione con la sentenza 26997/2005 (“Il nesso causale è elemento costitutivo dell’illecito e rientra tra i compiti del giudice individuale, tra le possibili concause, gli antecedenti in concreto rilevanti per la verificazione del danno, mediante l’adozione di un criterio di selezione la cui scelta – censurabile in sede di legittimità ex art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. Civ. in quanto suscet-
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tibile di essere operata in violazione di norme sostanziali – correttamente (laddove non soccorra la regola della c.d. equivalenza delle cause di cui all’art. 2055 cod. civ.) è effettuata procedendo all’identificazione della c.d. “causa prossima di rilievo” – quale causa di per sé sufficiente”. Precisa, infatti la Suprema Corte “La scelta del criterio selettivo fra le concause, quando non soccorre la regola della cosiddetta equivalenza di esse contenuta nell’art. 2055 cod. civ. è correttamente compiuta secondo quanto dispone il secondo comma dell’art. 42
cod. pen. e quella identificata si configura come causa prossima di rilievo, alla quale è attribuita l’efficacia di causa efficiente esclusiva, o di causa di per sé sufficiente a produrre l’evento, come questa Corte ha ripetutamente ritenuto, sia pure con effetti diversi in relazione alle singole fattispecie: Cass. 15 dicembre 2003, nn. 484: 24 aprile 2001, n. 6023. In virtù di tutti i profili di fatto sopra evidenziati è evidente che l’attività delle convenute non possa costituire causa o concausa prossima di rilievo. (Omissis)
(1) Emissioni obbligazionarie delle società del gruppo Cirio e responsabilità concorrente delle banche lead manager del collocamento 1. La pronuncia che qui si commenta riguarda un aspetto particolare ma non marginale della complessa vicenda del dissesto del gruppo Cirio. I fatti sono fin troppo noti 1 . Qui ci limitiamo perciò a ricordare che il dissesto del gruppo Cirio si manifesta in piena evidenza nel novembre 2002, col mancato pagamento di uno dei sette prestiti obbligazionari (e con la conseguente applicazione delle clausole di cross default anche per i restanti sei) emessi dal gruppo per un importo complessivo di 1.125 milioni di euro. I sette prestiti obbligazionari erano stati tutti collocati sull’euromercato – attraverso offerte riservate a investitori istituzionali – e quotati sulla Borsa del Lussemburgo. Tutti i prestiti erano privi di rating. Oltre ai prestiti obbligazionari sopra menzionati, il gruppo Cirio aveva, al momento dello scoppio della crisi, debiti nei confronti delle banche pari a circa 335 milioni di euro (riferiti a fine 2002), peraltro, notevolmente ridottisi rispetto ai tre anni precedenti (874 milioni di euro circa a fine 1999), a fronte della crescita del debito obbligazionario. Con la sentenza in commento, il Tribunale di Roma ha deciso sulla domanda delle società emittenti, poste in amministrazione straordinaria, le quali, in persona dei rispettivi commissari straordinari, avevano chiesto la condanna al
1 Per una ricostruzione della vicenda, si rinvia a Onado, I risparmiatori e la Cirio: ovvero, pelati alla meta, in Mercato, concorrenza, regole, 2003, p. 499 ss. e a Di Staso, La tutela dell’investitore: i casi Lloyd’s TSB e Cirio, CERADI, novembre 2003 – gennaio 2004.
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risarcimento dei danni per responsabilità extracontrattuale delle banche che avevano svolto attività in qualità di lead manager nel collocamento di sei dei setti prestiti obbligazionari sopra ricordati. Nella comparsa conclusionale, le società attrici avevano ribadito, da un lato, che l’azione da esse promossa non aveva per oggetto una domanda di risarcimento dei danni sofferti dai loro creditori, ma di quelli patiti direttamente dalle società stesse; e, dall’altro, che la loro pretesa di risarcimento non era legata «all’abusiva concessione di credito, ma al fatto illecito delle società convenute (nella loro qualità di intermediari finanziari) che, in concorso con gli amministratori e i sindaci delle società emittenti e garanti dei bond, hanno consentito il differimento dell’emersione dell’insolvenza, determinando notevoli aggravamenti del dissesto delle odierne opponenti». Così precisata la domanda attrice, secondo cui l’illecito ascritto alle convenute non avrebbe integrato una ipotesi di abusiva concessione di credito, bensì altra fattispecie, non meglio identificata ma comunque idonea a causare il (ed effettivamente causa del) differimento della dichiarazione d’insolvenza delle società del gruppo, il Tribunale, pur riconoscendo la legittimazione attiva dei commissari straordinari, ha tuttavia, nel merito, ritenuto infondata la domanda stessa per insussistenza del nesso di causalità tra la condotta addebitata alle banche convenute – quale essa fosse stata cercheremo di capire più avanti – e l’evento dannoso lamentato. 2. Con riguardo al profilo della legittimazione attiva dei commissari straordinari, il Tribunale ne ha ritenuto la sussistenza, trattandosi di un’azione rientrante fra quelle previste dall’art. 43 l.f., in quanto diretta «alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed avente carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari dell’esito positivo» (principio questo riaffermato anche nella sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite 7029/2006 2 al cui esame era stata sottoposta una diversa fattispecie). Quanto alla legittimazione attiva del curatore fallimentare (o del commissario straordinario ovvero del commissario liquidatore) nell’azione di responsabilità per abusiva concessione del credito, com’è noto, alla luce della citata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dato il carattere plurioffensivo dell’illecito, occorre distinguere sotto diversi profili, con riferimento, anzitutto, al danno inferto ai singoli creditori ovvero al patrimonio della società sottoposta a procedura concorsuale.
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In Dir. banc., 2007, I, 149 ss., con nota di A. Nigro, Ancora sulla concessione “abusiva” di credito e sulla legittimazione del curatore fallimentare; conformi Cass., S.U., 28 marzo 2006, nn. 7030 e 7031, la prima pubblicata in Corr. giur., 2006, II, 643 ss., con nota di Fauceglia, Abusiva concessione di credito e legittimazione attiva del curatore: intervengono le Sezioni Unite, e in Foro it., 2006, I, 3417, con osservazioni di Fabiani.
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Con riferimento alla prima forma di responsabilità (danno nei confronti dei singoli creditori), le Sezioni Unite hanno escluso – come del resto ha fatto tutta la giurisprudenza di merito che si è pronunciata sul punto, salvo rare eccezioni 3 – che l’azione di danno da abusiva concessione del credito possa essere configurata come azione di massa per cui è legittimato il curatore. Secondo le Sezioni Unite, l’azione di massa si qualifica per il «carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del suo esito positivo. Essa nell’immediato perviene all’effetto di aumentare la massa attiva, quali che possono essere i limiti quantitativi entro i quali i creditori se ne avvantaggeranno. Essa tende direttamente alla reintegrazione del patrimonio del debitore, inteso come sua garanzia generica e comunque esso sarà suddiviso attraverso il riparto. Non appartiene a tale novero di azioni ogni pretesa che richiede l’accertamento della sussistenza di un diritto soggettivo in capo ad uno o più creditori. Né vi appartiene ogni azione che, per quanto diffusa possa essere una specifica pretesa, necessita pur sempre dell’esame di specifici rapporti e del loro svolgimento, non essendo sufficiente ad assicurare l’eventuale beneficio la mera appartenenza ad un ceto». Non fa parte, quindi, delle azioni di massa, cui è legittimato il curatore, l’azione risarcitoria tesa alla reintegrazione del patrimonio dei singoli creditori, così come le azioni che traggono origine da atti degli amministratori ex art. 2395 c.c. In tale fattispecie il danno dovrà essere valutato caso per caso, sia nell’an che nel quantum, essendo possibile che creditori che hanno diritto di partecipare al riparto non abbiano altresì titolo per il risarcimento di cui si tratta non avendo subìto alcun danno dalla condotta illecita della banca. La stessa circostanza che, nella valutazione del danno, debba distinguersi la posizione dei creditori anteriori – i quali avranno titolo a dolersi per la partecipazione al riparto, pur sempre all’esito delle azioni conservative del patrimonio da ripartire, dei creditori successivi – da quella dei creditori posteriori alla concessione abusiva del credito – i quali avranno titolo a dolersi esclusivamente dell’eventuale incapienza e per tale parte soltanto – rappresenta un indice ulteriore per escludere che possa parlarsi di un’azione indifferenziata come quella di massa.
3. Ci riferisce a Trib. Foggia, 12 dicembre 2000, in Dir. banc., 2002, I, 260, con nota di A. Nigro, Note minime in tema di responsabilità per concessione “abusiva” di credito e di legittimazione del curatore fallimentare, e Trib. Foggia, 7 maggio 2001, in Dir. fall., 2002. II, 510 ss., con nota redazionale di Ragusa Maggiore, che hanno riconosciuto la legittimazione ad agire del curatore, ritenendo che l’azione instaurata da quest’ultimo fosse da qualificare alla stregua di una azione «diretta alla conservazione o ricostruzione del patrimonio del fallito, quale doveva essere, senza l’intervento di atti illegittimi, colposi o dolosi commessi dallo stesso fallito o dai suoi complici». Più precisamente il tribunale ha ritenuto che nella categoria delle azioni di recupero cui è legittimato il curatore «si devono includere non solo i rimedi diretti alla restituzione di determinati beni, illegittimamente usciti dal patrimonio del fallito, in modo reale o simulato, ma anche quelli diretti ad integrare il patrimonio stesso con quegli incrementi che avrebbero dovuto appartenervi, se non fosse intervenuta l’azione illecita del fallito e dei suoi complici».
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Quanto alla seconda forma di responsabilità, quella relativa al danno direttamente inferto al patrimonio dell’impresa insolvente, fermo restando che l’azione spetti al curatore fallimentare (o al commissario liquidatore o al commissario straordinario) dell’impresa sottoposta a procedura concorsuale, in quanto successore nei rapporti dell’impresa stessa e titolare dei diritti sorti in capo a questa (anche se nel caso esaminato dalle Sezioni Unite, tale azione è stata ritenuta inammissibile per ragioni di rito 4), la Suprema Corte, peraltro, ha precisato che, ove l’abuso di credito sia perfezionato con la conclusione di un contratto tra la società sovvenuta e la banca, non sarebbe ammissibile un’azione risarcitoria da parte della società nei confronti della banca, dovendosi, evidentemente, escludere una responsabilità della banca nei confronti di quello stesso soggetto che ha chiesto ed ottenuto il finanziamento e che in tal modo si è reso coautore dell’illecito, anziché vittima del medesimo 5, ma potrebbe ipotizzarsi una responsabilità dei rappresentanti della società per mala gestio. In tale prospettiva, «ove il credito concesso dalla banca avesse determinato il mantenimento in vita artificioso dell’impresa o il ritardo nell’apertura della procedura concorsuale e l’una o l’altra di queste circostanze fosse configurabile come fonte di responsabilità degli amministratori nei confronti della società sovvenuta e dei suoi creditori ai sensi degli artt. 2392 e 2394 c.c., una responsabilità della banca potrebbe essere ricostruita come concorso o complicità della stessa appunto nell’inadempimento degli amministratori» 6: nella fattispecie de-
4. : «[N]ella vicenda in esame – ha affermato la Suprema Corte – il dedotto danno al patrimonio della società non è mai stato allegato autonomamente, ma solo quale indistinto elemento di danno alla massa. Un danno diretto e immediato al patrimonio della fallita, quale presupposto dell’azione che al curatore spetta come successore nei rapporti del fallito e titolare dei diritti sorti in capo a questi, non venne mai dedotto. La questione, come tale, è nuova perché avanzata per la prima volta in questa sede, e pertanto inammissibile». 5. Di figura di responsabilità (quella che fosse invocata dall’imprenditore abusivamente sovvenuto) quanto meno di dubbia ammissibilità, in principio e in generale, ritiene trattarsi A. Nigro, Note minime, cit. p. 299, «visto che la concessione del credito viene, normalmente richiesta dallo stesso debitore, il quale, pertanto, sempre in principio e in generale, non avrebbe certo titolo per dolersi successivamente dell’eventuale pregiudizio che possa essergliene derivato»; in tal senso, v. anche Viscusi, Concessione abusiva di credito e legittimazione del curatore fallimentare all’esercizio dell’azione di responsabilità, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, II, p. 648 ss., a p. 654.; conf. Castiello d’Antonio, Il rischio per le banche nel finanziamento di imprese in difficoltà: la concessione abusiva del credito, in Dir. fall., 1995, I, p. 246 ss., a p 251 ss.; Di Marzio, Abuso e lesione della libertà contrattuale nel finanziamento dell’impresa insolvente, in Riv. dir. priv., 2004, p. 145 ss., a p. 180 ss. 6. A. Nigro, Ancora sulla concessione, cit. p. 159 (ma v. già in tal senso, Id., Note minime, cit., p. 299 ss., per cui la legittimazione del curatore sarebbe poggiata sull’art. 146, testo previgente, l.fall.). L’Autore, tuttavia, rileva come sia necessario «verificare se, nel nuovo assetto dato alle procedure concorsuali con la riforma del 2005-2006, il semplice ritardo nell’apertura del fallimento in presenza di una situazione di insolvenza costituisca
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cisa dal Tribunale di Roma, se non per aver finanziato le società del gruppo Cirio, per averne, quantomeno, favorito – procacciato – il finanziamento mediante il ricorso al mercato dei capitali. 3. Riguardo a tale ultimo aspetto, e dunque venendo al merito, secondo il Tribunale di Roma, come si è già detto, quale che fosse la presunta condotta illecita ascritta alle banche convenute, tale condotta non sarebbe stata capace di porsi in relazione diretta ed autonoma con l’evento dannoso lamentato. «Tale difetto di nesso di causalità – secondo il Collegio romano – è ravvisabile sotto vari profili, ciascuno dei quali sufficiente, da solo, a farne ritenere l’insussistenza». Nel caso di specie, infatti, l’evento di danno sarebbe stato causato unicamente dalla condotta omissiva degli amministratori e dei sindaci delle società attrici, i quali avrebbero potuto e dovuto chiedere essi stessi al tribunale l’accertamento dello stato d’insolvenza, una volta constatata l’impossibilità della ristrutturazione del debito: riferendosi alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, quella condotta omissiva sarebbe stata la “causa prossima di rilievo”, di per sé, sufficiente a costituire l’evento di danno e ad escludere la possibilità di attribuire la qualità di concausa all’operato delle banche convenute. «In tale ricostruzione, ha affermato il Collegio, l’emissione del prestito obbligazionario si pone, quindi, come comportamento accessorio ad una decisiva scelta omissiva da parte della società ed è pertanto privo di autonoma incidenza causale». Ma «anche a voler istituire una relazione concausale eziologica autonoma e diretta tra l’emissione del prestito obbligazionario e l’eventus damni – ha ulteriormente precisato il Tribunale – andrebbe comunque escluso il nesso di causalità tra quest’ultimo e la condotta illegittima imputata alle società convenute. Va infatti evidenziato che nell’ipotesi di abusiva concessione di credito (che non ricorre nella specie), a fortiori nell’ipotesi di intermediazione, la volizione del soggetto finanziato si pone come elemento causale determinante e pressoché esclusivo nell’erogazione del finanziamento, concesso direttamente o intermediato, non rileva». La prima osservazione che ci sembra opportuno fare riguarda, appunto, la qualificazione del comportamento tenuto dalle banche collocatrici: se, in altri termini, l’attività da esse svolta nel quadro della prestazione del servizio di collocamento dei prestiti obbligazionari non fosse per certi aspetti assimilabile ad una forma di finanziamento.
sempre fonte di responsabilità per gli amministratori», atteso che, a tal proposito, «si va registrando dappertutto una crescente attenzione al tema della responsabilità degli amministratori in prossimità dell’insolvenza, tema rispetto al quale si registra una contrapposizione fra soluzioni più rigide e soluzioni più flessibili. Il nostro ordinamento è stato classificato fra quelli che adottano una soluzione rigida: non c’è dubbio però che alla luce del nuovo assetto dato alle procedure di soluzione delle crisi, la condotta degli amministratori debba ormai essere valutata non in base alla sola alternativa “secca” tra proseguire o cessare l’ordinaria gestione, ma anche in relazione alle modalità e finalità attraverso cui la decisione di continuare la gestione di continuare la gestione venga presa e sostenuta».
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Se si guarda alle concrete modalità di emissione e collocamento adottate nel caso di specie, appare arduo escludere che, con il loro operato, le banche che avevano organizzato il (e partecipato al) consorzio di collocamento avessero, nella sostanza, finanziato le società emittenti; resta da vedere, poi, se tale finanziamento fosse anche “abusivo”. Per chiarire questo punto, è sufficiente ricordare che sul mercato degli eurobond, nel quale i titoli obbligazionari Cirio furono emessi, tali titoli erano stati assunti “a fermo” dai membri del sindacato di collocamento, per poi essere da questi rivenduti ad altri intermediari finanziari o direttamente ai propri clienti (anche e soprattutto retail), che ne avessero fatto richiesta, nell’ambito della prestazione del servizio di negoziazione in conto proprio. La sequenza “assunzione a fermo-negoziazione sul mercato secondario” (che, sia detto per inciso, non implicava violazione delle norme in tema di sollecitazione all’investimento) comportava che le banche collocatrici sostanzialmente finanziassero 7 (anche solo per il breve lasso di tempo intercorrente fra l’acquisizione nel loro portafoglio dei titoli di debito sottoscritti e la loro distribuzione presso altri intermediari o fra il pubblico dei risparmiatori) le società del gruppo Cirio. Si potrebbe dire che, con questa sequenza, si assisteva ad una forma estremamente elementare di securitization del finanziamento concesso dalle banche collocatrici, con le note conseguenze in termini di traslazione del relativo rischio su una vasta platea di risparmiatori, ma con la differenza, rispetto ad una normale operazione di concessione di credito, che le obbligazioni, acquistate dalle banche, per essere successivamente rivendute, transitavano, anziché nel proprio “portafoglio bancario”, nel “portafoglio di negoziazione”. Non è certo possibile stabilire in qual misura e per quanto tempo le banche abbiano detenuto le obbligazioni Cirio nel proprio portafoglio, ovvero se le abbiano acquistate su indicazione dei clienti, considerando, altresì, che vi era stata una significativa operatività degli intermediari con la clientela anche nella cosiddetta fase di grey market. Tuttavia, appare verosimile ipotizzare che le banche collocatrici, oltre a fornire alle società del gruppo Cirio il necessario appoggio organizzativo nell’ambito della prestazione dei servizi connessi all’emissione delle obbligazioni, nella misura in cui le assumevano a fermo, realizzassero una vera e propria attività di finanziamento a favore delle società emittenti. Va detto, tuttavia, che, anche così prospettato il ruolo delle banche collocatrici, il Collegio giudicante – che, come si è visto, ha svolto un ragionamento a fortiori – non sarebbe pervenuto a diversa decisione.
7. Sul punto, in dottrina, Cesarini, Intermediazione nel mercato delle nuove emissioni e tecniche consortili, in Riv. soc., 1975, p. 486 ss., a p. 513, secondo il quale, dal punto di vista dei partecipanti al consorzio di collocamento, l’assunzione a fermo dei titoli va «considerata come una operazione di finanziamento mobiliare»; conf. Eroli, I consorzi di collocamento di valori mobiliari, Napoli, 1989, p. 13; Salvatore, I consorzi di collocamento, in Contratto e impresa, 1997, p. 719 ss., a p. 757.
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Peraltro, anche volendo ammettere che la fattispecie esaminata dal Tribunale romano non integrasse un’ipotesi di finanziamento abusivo, bensì, al più, una forma di finanziamento “intermediato”, attraverso la sequenza “assunzione a fermo-negoziazione sul mercato secondario”, sembra a chi scrive difficile accettare l’idea che il comportamento delle banche che hanno organizzato le emissioni sia stato soltanto “accessorio” o “agevolativo” di una decisione omissiva riconducibile esclusivamente alla volontà degli organi sociali. Valgono, in proposito, le osservazioni di Marco Onado, che ha ben individuato talune “colpe” addebitabili alle banche che hanno organizzato le emissioni, soprattutto di quelle in posizione di lead menager, in quanto anch’esse inquadrabili nel novero dei “gatekeepers compiacenti”. «La teoria, la prassi e la regolamentazione dicono che il compito di questi soggetti è quello di valutare, nell’interesse del cliente e del mercato, le migliori condizioni dell’emissione e di compiere ogni sforzo per garantire la veridicità delle informazioni richieste. È vero che le commissioni sono pagate dall’impresa – ha affermato l’Autore –, ma è altrettanto vero che l’intermediario ha doveri anche nei confronti del mercato e degli investitori finali […]. La funzione di advisor che l’organizzazione di un’emissione deve sempre svolgere si è rivelata fallimentare e porta alla solita cinica conclusione: l’operazione è riuscita, il cliente è morto. Il fatto singolare è che le emissioni si sono susseguite sull’arco di oltre due anni, mentre la situazione finanziaria si faceva sempre più critica, senza che nessuna banca partecipante all’organizzazione dell’emissione, quindi in stretto contatto con il management di Cirio, percepisse segni premonitori e avesse la possibilità di sollevare uno dei tanti veli che avvolgevano i rapporti finanziari infragruppo» 8. A questo punto, la domanda che ci si deve porre è se le banche convenute avrebbero potuto (e dovuto) evitare il ricorso al mercato dei capitali di debito da parte delle società del gruppo Cirio, dissuadendo il management delle stesse dal procedere alle emissioni, atteso che conoscevano (o avrebbero dovuto conoscere) la situazione di grave crisi strutturale in cui dette società versavano (tanto più quelle a carico delle quali si sarebbero poi effettuate le emissioni obbligazionarie). Per darsi una risposta, occorre mettere a fuoco il ruolo concretamente svolto, nella veste di lead manager, dalle banche nelle emissioni obbligazionarie sul mercato degli eurobond. Ci si può avvalere, al riguardo, di taluni passi estratti del sintetico quadro, riferibile all’epoca dei fatti di causa, ricostruito dalla Consob in occasione di un’audizione parlamentare sulla diffusione in Italia delle obbligazioni pubbliche argentine 9, ma utile anche per darci lumi sul caso Cirio. «L’emissione e la distribuzione iniziale di eurobond – si legge nel documento della Consob – è un processo che si articola in diverse fasi, che sono in larga
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Così Onado, I risparmiatori e la Cirio, cit., p. 549 ss. Cfr. Camera dei Deputati, Commissione finanze, Audizione informale della Consob sulla diffusione in Italia delle obbligazioni pubbliche argentine, Roma, 27 aprile 2004, All. 2. 9.
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parte codificate da prassi di mercato ispirate da regole adottate su base volontaria. Lo schema tipico utilizzato è in estrema sintesi il seguente: un soggetto (l’emittente) che intende emettere un prestito obbligazionario fornisce mandato ad uno o più intermediari (i lead manager) a studiare le caratteristiche di un’emissione che possa incontrare i favori del mercato (relativamente in particolare a prezzo, cedola, quantitativo) e ad organizzare un sindacato di intermediari (co-lead manager o manager) che potranno sottoscrivere (o assumere a fermo i titoli) e/o distribuire gli stessi a investitori professionali. Si avvia la fase c.d. di origination del prestito da emettere». In questa fase, il ruolo dei lead manager sembra particolarmente rilevante: «vista la connotazione internazionale delle emissioni di eurobond e il know-how pregresso – si legge nella scheda della Consob –, spesso lead manager sono grandi banche estere. Spesso i lead manager sono qualificati anche book runner, per porre in evidenza, l’attività di chi, incaricato di tenere il libro degli ordini, è il principale formatore e fornitore di prezzi sul titolo». Dopo aver dato notizia al mercato di aver ricevuto il mandato dall’emittente – in genere attraverso la pubblicazione di un avviso su uno o più quotidiani economici ovvero sulle pagine di uno o più information provider normalmente consultati dagli operatori (Bloomberg, Reuters, ecc.), «il lead manager “sonda” (pre-marketing) il mercato al fine di individuare l’importo del prestito e le condizioni (di prezzo, di tasso, ecc.) a cui tale prestito potrà essere emesso con successo. In questa fase, generalmente, i lead manager elaborano un documento in cui forniscono, in particolare, una loro valutazione del merito di credito dell’emittente (c.d. “credit opinion”), un giudizio, quindi, sulla capacità finanziaria complessiva dell’emittente e sulla idoneità ad adempiere regolarmente gli obblighi finanziari assumendi». Tale valutazione, contenente una sorta di rating “implicito”, assumeva, quindi, particolare rilievo nel caso, come quello che qui interessa, di emissioni non assistite da un giudizio di rating espresso da apposite agenzie esterne. «Allo stesso tempo – si legge ancora nel documento della Consob –, i lead manager iniziano ad individuare gli intermediari disposti a partecipare direttamente al sindacato, attraverso la sottoscrizione o l’acquisto a fermo di una quota dell’importo del prestito (c.d. “co-lead manager” o “manager”); ciascun co-lead manager o manager inizia a prendere contatti con la propria rete di clienti istituzionali al fine di verificare la loro eventuale disponibilità ad acquistare successivamente la quota da essi sottoscritta o acquistata a fermo attraverso la partecipazione al consorzio di collocamento; la fase di origination si conclude con un incontro tra i lead manager e l’emittente, il c.d. “price talk”, in cui la banca capofila presenta all’emittente i risultati della fase di studio dell’emissione e vengono fissate, in via meramente indicativa, alcune delle caratteristiche dell’operazione (dimensione, rendimento e struttura dei titoli); quindi il lead manager annuncia (di solito, dopo 10/15 giorni dal ricevimento del mandato) il lancio dell’emissione sui principali circuiti telematici (Bloomberg, Reuters, ecc.) […]». È dunque in questa fase che le c.d. originating bank –ovvero, per lo più, in pratica, le stesse banche che poi assumeranno l’incarico di lead manager
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– svolgono un ruolo determinante per la “fattibilità” e il buon esito dell’operazione di emissione. In tale ruolo la dottrina ha individuato un’essenziale funzione di selezione degli emittenti meritevoli di rivolgersi al mercato dei capitali, selezione che deve basarsi su un’indagine approfondita della situazione economica, patrimoniale e di mercato del soggetto che si propone di procedere all’emissione. «L’indagine, che comprende di norma anche una valutazione tecnico-economica degli impianti e revisioni contabili dei bilanci degli ultimi esercizi, ha lo scopo di accertare se sussistono, e se appaiono suscettibili di rimanere invariati nel futuro, i requisiti indispensabili per attuare con successo l’operazione proposta: in primo luogo la solidità della società, la sua posizione concorrenziale rispetto alle altre imprese del settore, le qualità morali e le capacità tecniche e amministrative dei dirigenti» 10. Mediante il giudizio che l’originating bank «pronuncia sulla situazione delle società e degli enti che richiedono la sua opera – giudizio che si manifesta nell’accettazione o nel rifiuto dell’incarico di collocamento – essa in sostanza appare in grado di decidere quali di essi possono avere accesso al mercato dei capitali e quali invece debbono rimanere esclusi, almeno temporaneamente» 11. Tuttavia, occorre ammetterlo, non è affatto certo che quella sopra descritta sia la condotta che dovrebbe qualificare, nella fase preliminare di studio sull’opportunità e sulla fattibilità del “lancio” dell’emissione, l’attività professionale del bonus collocator (ci si passi il neologismo latinizzato), nel senso, cioè, che alle banche cui si propone di assumere l’incarico di lead manager sia imposto un dovere professionale di astenersi dall’accettarlo in presenza di condizioni economico-finanziarie del “candidato” emittente che ne sconsigliano l’assunzione. Se un tale standard comportamentale davvero esistesse, allora bisognerebbe concludere che il ruolo dei lead manager del collocamento potrebbe non essere così ininfluente, sotto il profilo causale, come sembra volerlo considerare la sentenza che qui si commenta. La prassi delle emissioni internazionali conosce, però, soltanto la c.d. clausola “walk-away”, di solito inserita nella mandate letter, che contiene una descrizione dei casi in cui al manager incaricato del collocamento è consentito di non procedere alla sottoscrizione dei titoli da emettere: casi tipici sono costituiti da rilevanti cambiamenti nelle condizioni di mercato o nella creditworthineess dell’emittente 12. Si tratta, comunque, di una facoltà, non di un dovere di astensione, il cui fondamento dovrebbe, allora, ricavarsi dai doveri gravanti sul soggetto “banca”, o derivanti dalle regole generali di correttezza, come pure dal dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., a cui il bonus argentarius, con l’intensità propria dello status professionale cui appar-
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Cesarini, Intermediazione nel mercato, cit., p. 500 ss. Cosi ancora Cesarini, Intermediazione nel mercato, cit., p. 503. 12. Cfr., sul punto, Villar-Garcia, Patel, Legal and Documentation Issues on Bonds Issuences, in Fabozzi- Chouddhry (eds.), The Handbook of European Fixed Income Securities, Hoboken (New Jersey), 2004, p. 881 ss. 11
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tiene, è tenuto, anche quando esso esercita attività diverse da quella bancaria tipica, o da specifiche regole di settore: quelle, in questo caso, che disciplinano la condotta dell’intermediario nella prestazione dei servizi d’investimento e di quelli ad essi accessori, ai sensi del t.u.f. e delle relative disposizioni di attuazione regolamentare. Rispetto a quest’ultima ipotesi, ci si potrebbe chiedere se la condotta delle banche convenute, nella loro qualità di lead manager, in quanto riferibile, oltre che al servizio di collocamento, anche ai servizi connessi all’emissione e, si deve ritenere, al servizio di consulenza alle imprese con riferimento ad operazioni di finanza straordinaria (art. 1, co. 6, lett. d ed e, del t.u.f.), fosse stata conforme alle regole che, ratione temporis, disciplinavano lo svolgimento di detti servizi, ed, in particolare, alla c.d. regola di adeguatezza (suitabitity rule), di cui all’art. 29 del regolamento Consob n. 11522/1998, che imponeva agli intermediari l’obbligo di astenersi dall’effettuare con o per conto degli investitori operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensione. In tale obbligo di comportamento si è ravvisato un indice del tramonto, «nel nostro ordinamento, dell’antica concezione secondo cui nell’accordo contrattuale spettava a ciascuno dei contraenti verificare la convenienza dell’affare rispetto alle proprie esigenze e necessità» 13. La regola che impone all’intermediario la previa valutazione di adeguatezza dell’operazione, e dunque un preciso obbligo di protezione della controparte, segnerebbe, infatti, una profonda modificazione di prospettiva in quanto definisce la correttezza e la praticabilità dell’affare sulla base di una valutazione di compatibilità con le caratteristiche soggettive patrimoniali del cliente. Ora, che le operazioni di emissione obbligazionaria delle società del gruppo Cirio non fossero adeguate (oltre che per la tipologia, quanto meno anche sotto il profilo dimensionale) in relazione alla loro situazione patrimoniale, ci sembra è ampiamente dimostrato; non ci si nasconde, tuttavia, che l’ipotesi qui prospettata si presta a varie obiezioni. La prima obiezione si fonda sulla circostanza, non certo di scarso rilievo, che le emissioni di cui si parla, se la memoria non ci inganna, erano assoggettate alla legge inglese; per superare tale obiezione, dunque, occorrerebbe ricercare se nell’ordinamento inglese di settore esistessero regole, se non identiche, analoghe; ma non è detto che esistessero, dato il basso gradi (allora) di armonizzazione impresso dalla normativa comunitaria. Un’altra obiezione riguarda la circostanza che la disposizione regolamentare sopra richiamata (e l’art. 21 del t.u.f., di cui essa costituiva applicazione) individuava, quale destinataria degli obblighi di protezione previsti dall’ordinamento, la figura dell’investitore, inteso, appunto, come fruitore dei servizi di investimento forniti dall’intermediario, non anche quella dell’emittente/offerente strumenti
13.
Cfr. Inzitari, Le responsabilità della banca nell’esercizio del credito: abuso nella concessione e rottura del credito, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, p. 265 ss., a p. 296.
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finanziari. Tale obiezione, però, forse potrebbe essere superabile tenendo presente che nel servizio di collocamento i fruitori sono riconducibili a due categorie: gli emittenti/offerenti, con i quali si instaura il cosiddetto rapporto “a monte” con gli intermediari collocatori, e gli investitori (sottoscrittori, acquirenti) finali dei prodotti finanziari collocati, con i quali si instaura il c.d. rapporto “a valle” con gli stessi intermediari incaricati della distribuzione. Ora, ci sembra non ci sia alcuna ragione per escludere che le regole di condotta, fra cui quella relativa alla valutazione di adeguatezza, nel caso della prestazione del servizio di collocamento, fossero applicabili anche nei confronti degli emittenti/offerenti; e ciò ancor più se ci si riferisce ai servizi connessi all’emissione e al collocamento, i cui fruitori non possono non essere gli emittenti/offerenti e gli stessi intermediari collocatori; nel caso del servizio di consulenza sopra evocato, poi, l’utente è, per definizione, l’impresa (nel nostro caso, le imprese emittenti). Un’ultima obiezione attiene al fatto che il divieto di cui all’art. 29 del regolamento n. 11522 fosse posto a tutela di un interesse disponibile del cliente, il quale, una volta informato della circostanza e delle ragioni per cui non fosse opportuno procedere alla esecuzione dell’operazione, poteva liberamente derogarvi. D’altra parte, le società del gruppo Cirio erano classificabili quali “operatori qualificati”, ai sensi dell’art. 31 dello stesso regolamento n. 11522/1998 (la Cirio Finanziaria s.p.a., in quanto società quotata; le altre società del gruppo, in quanto i loro legali rappresentanti ne avessero attestato per iscritto il possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari), cosicché, nei loro confronti poteva essere disapplicata la gran parte delle più rilevanti regole di condotta, inclusa la suitabilty rule, previste dal regolamento della Consiob. A tale obiezione, tuttavia, si potrebbe replicare osservando 14 che, anche se l’art. 31 escludeva l’applicazione di talune disposizioni regolamentari di dettaglio, esso non faceva venir meno gli obblighi degli intermediari finanziari che risultavano direttamente dalla legge, posto che un regolamento non poteva andare contra legem. D’altra parte, la stessa norma regolamentare non includeva fra le disposizioni disapplicate quelle contenute nel’art. 26 del Regolamento n. 11522, che prevedeva, tra l’altro, che gli intermediari, nell’interesse degli investitori e dell’integrità del mercato mobiliare, dovessero operare in modo indipendente e coerente con i principi e le regole generali del t.u.f. Dunque, il fatto che una società fosse classificata (o classificabile) quale “operatore qualificato” non escludeva l’applicazione dei criteri generali di cui all’art. 21 del t.u.f., fra i quali, in primo luogo, quello che imponeva all’intermediario di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati e di acquisire le informazioni necessarie dai clienti e di operare in modo che essi fossero sempre adeguatamente informati. Ciò implicava, quanto meno, che le banche lead manager, essendo a conoscen-
14.
Cfr., tra gli altri, Sangiovanni, Contratto di swap e nozione di operatore qualificato, in I contratti, 2007, p. 1093 ss., a p. 1100.
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za (o dovendo esserlo) della situazione di grave crisi strutturale in cui versavano le società del gruppo (tanto più di quelle a carico delle quali si sarebbero effettuate le emissioni obbligazionarie), avrebbero dovuto dissuadere il management delle stesse dal procedervi, o comunque non avrebbero dovuto assumere l’incarico di organizzare le emissioni obbligazionarie, né poi darvi corso. Ma, se si esclude che in capo alle banche convenute sussistesse un dovere di astensione, allora bisognerebbe ipotizzare, con i connessi problemi d’ordine probatorio, che queste ultime fossero riuscite in qualche modo ad ingerirsi nella gestione delle società emittenti, svolgendo, di fatto, poteri di alta amministrazione e direzione strategica 15, capaci, dunque, di condizionare le scelte (anche di carattere omissivo) degli amministrarori. Un’ultima osservazione. Il Tribunale, come si è detto, ha ritenuto che l’aggravamento del dissesto delle società del gruppo Cirio potrebbe essere, ammesso che non vi fossero altre cause o concause, soltanto una conseguenza remota, non immediata e diretta, della condotta ascritta alle convenute; d’altra parte, secondo il Collegio, il finanziamento che costituisce l’effetto diretto di tale condotta «non costituiva di per sé un danno, tenuto conto che il tasso passivo per il soggetto finanziato era tutt’altro che sfavorevole». Questa affermazione sembra riecheggiare l’opinione secondo cui il finanziamento ricevuto dall’imprenditore insolvente, lungi dal rappresentare una diminuzione del patrimonio di quest’ultimo, ne costituirebbe, anzi, un incremento, un arricchimento 16, per cui, il finanziamento, di per sé, non potrebbe che arrecare un vantaggio al finanziato che lo ha percepito. Ora, se così fosse, si dovrebbe escludere in radice ogni conseguenza sanzionatoria in capo al soggetto finanziatore, né si porrebbe il problema dell’accertamento della sussistenza del nesso causale tra la condotta tenuta dalle banche convenute, il ritardo nell’apertura della procedura concorsuale e l’ulteriore deterioramento delle condizioni delle imprese insolventi. In realtà, però, col finanziamento non si crea alcun incremento del patrimonio (netto) del sovvenuto, perché, a fronte di una nuova attività si crea una corrispondente passività, anche se, almeno nell’immediato, aumentano le disponibilità liquide dell’imprenditore 17; ma, quasi sempre, il finanziamento finirà per risolversi in un danno al patrimonio dell’insolvente finanziato, consistente nel
15.
Su tale ipotesi, v. le considerazioni di A. Nigro, Ancora sulla concessione, cit., p. 159 ss. 16. In giurisprudenza, accenni a in questo senso si trovano nelle sentenze: App. Bari, 17 giugno 2002, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, II, 573 ss.; App. Bari, 2 luglio 2002, in Il fallimento, 2002, 1164 ss.; App. Bari, 18 febbraio 2003, in Il fallimento, 2004, 427 ss.; in dottrina, cfr. Castiello d’Antonio, Il rischio per le banche nel finanziamento di imprese in difficoltà: la concessione abusiva del credito, in Dir. fall., 1995, I, p. 246 ss., a p. 251; Lo Cascio, Iniziative giudiziarie del curatore fallimentare nei confronti delle banche, in Il fallimento, 2002, p. 1181 ss. , a p. 1183. 17. Cfr. in tal senso, Viscusi, Profili di responsabilità della banca nella concessione del credito, Milano, 2004, p. 233.
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fatto che l’attivo fallimentare dell’impresa risulterà gravato da quei crediti che sono stati insinuati al passivo e sono sorti quale conseguenza della continuazione di attività del debitore insolvente, per effetto del finanziamento ottenuto 18. Francesco Mazzini
18. In tal senso, tra gli altri, Inzitari, L’abusiva concessione di credito: pregiudizio per i creditori e per il patrimonio del destinatario del credito, consultabile sul sito http://www. ilcaso.it/opinioni/inzitari-19-03-07.pdf, p. 3 ss.
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dibattiti
Crisi finanziaria: quali regole per la banca? Il 19 marzo 2010, presso la sede di Firenze della Cassa di risparmio di S. Miniato, si è tenuto un incontro di studio, organizzato dal Ce.di.b. e dalla rivista, sul tema: “Crisi finanziaria: quali regole per la banca?”. All’incontro, presieduto dal prof. Antonio Piras, dell’Università di Pisa, sono intervenuti: i prof. Franco Belli, Claudio Boido e Vittorio Santoro, dell’Università di Siena; la prof.ssa Lucia Calvosa, dell’Università di Pisa; il prof. Matteo Mattei Gentili, dell’Università di Pavia; il prof. Gaetano Presti, dell’Università Cattolica di Milano; l’avv. Giuseppe Carriero, dell’ISVAP; i prof. Marina Brogi, Pietro Giovannini e Alessandro Nigro, della Sapienza Università di Roma. Ne pubblichiamo gli atti.
Indirizzi di saluto Lucia Calvosa Buonasera a tutti. Porgo il saluto della Cassa di Risparmio di San Miniato SpA a tutti gli intervenuti, ed esprimo il ringraziamento per avere avuto come Cassa il privilegio di potere ospitare l’incontro odierno, che per qualità dei relatori e per attualità del tema onora la nostra banca. Per sottolineare l’importanza di questo incontro, se ancora ve ne fosse bisogno, mi piace ricordare ciò che ha detto recentemente all’Europarlamento il commissario francese Barnier, il quale ha sottolineato che l’economia ha bisogno dei mercati, e la finanza per essere competitiva ha bisogno di nuove regole, di regole tese a garantire la stabilità, l’innovazione, e ad assicurare, o meglio a ripristinare la fiducia che la crisi ha fatto venir meno. Le nuove regole sulle quali oggi ci intratterranno gli illustri relatori dovranno quindi indicare le condizioni per fare emergere un settore finanziario solido, stabile, sano, capace di finanziare l’economia reale. E allora la riforma dei mercati, che, come ha sottolineato il governatore Draghi, deve passare attraverso una regolamentazione
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sistemica, avendo delle implicazioni sistemiche, sarà appunto necessaria come rimedio, diciamo così, al dopo crisi, e al tempo stesso per prevenire crisi future. Quindi ascolteremo con grande interesse i relatori odierni, che io ringrazio; ma consentitemi un ringraziamento particolare al professor Alessandro Nigro, che è il vero organizzatore del convegno, perché io mi sono limitata a mettere a disposizione i locali della banca, e devo dire con grande piacere e soddisfazione, perché sono certa che i lavori odierni saranno proficui.
Antonio Piras Signore e signori, colleghi e amici, assumo la presidenza di questo incontro di studio, che ci porterà ad esaminare un tema di grande attualità quale quello della crisi, e delle regole da individuare per prevenire le crisi e per far fronte alle crisi, ove si siano già verificate. Una qualche considerazione preliminare può essere questa: in primo luogo, sono previste nove, dieci relazioni, considerando sia l’introduzione sia le considerazioni conclusive, o direi finali, del professor Nigro; quindi pregherei coloro che prenderanno la parola di contenere il loro intervento nell’arco di una ventina di minuti. Forse questo ci consentirà di trattare tutti gli argomenti. Argomenti dei quali alcuni sono di carattere generale, come quello su pubblico e privato nell’attività bancaria; e altri sono di carattere più specifico. Pubblico e privato nell’attività bancaria: è come parlare dell’immortalità dell’anima, parlare dell’esistenza di Dio, parlare dell’arte; che cos’è il pubblico e che cos’è il privato nell’attività bancaria? Ma nell’affrontare questo argomento, noi abbiamo la fortuna di avere qui oggi due figli d’arte, dirò così: il primo è il professor Nigro, il quale professor Nigro non solo si è occupato, ormai da diversi anni, di queste tematiche, di questi argomenti; ma è figlio del grande Mario Nigro, il quale ha scritto molti anni fa, nel ’69, un libro che io non esito a qualificare, a definire aureo, Profili pubblicistici del credito, nel quale tutti ci siamo formati e ci siamo abbeverati. Un altro figlio d’arte è il professor Franco Belli, il cui Maestro è stato il professor Paolo Vitale, che nel 1977 ha scritto un altro aureo libro, intitolato Pubblico e privato nell’ordinamento bancario. Quindi consentimi di considerare anche te, caro Franco, figlio d’arte! Ecco, poi ci sarà la trattazione degli argomenti specifici: il rischio degli investimenti, il rischio di credito, banche e derivati. Stanotte, in una pausa d’insonnia, che da qualche tempo a questa parte mi capita sempre più spesso, ho sentito alla televisione su Rai Tre un servizio sui prodotti
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finanziari islamici; non ho capito in realtà di che cosa si tratta, ma certo è che si stanno profilando all’orizzonte anche questi prodotti finanziari islamici, coi quali credo che prima o poi dovremo fare i conti; può darsi che siano più sicuri dei nostri. Ricordate d’altra parte che il ministro Tremonti ebbe a dire che una delle ragioni per le quali il sistema bancario italiano si era retto e si era salvato rispetto ad altri sistemi era dovuta al fatto che i banchieri italiani non sanno l’inglese, e quindi non sapendo l’inglese… non si è avventurato in questo terreno scivoloso, come hanno fatto altri. Comunque questo argomento è un argomento di grande attualità sotto molti profili, basta aprire i giornali e vedere anche quello che è successo in questi giorni a Milano per essere consapevoli di ciò. Argomenti vari, bisogna fissare dei paletti; e credo che i paletti ce li fisserà, nella sua introduzione, il professor Nigro, che ci dirà qual è il significato di questo incontro, e quali sono le tematiche e gli argomenti che verranno oggi trattati.
Introduzione Alessandro Nigro Debbo subito dissipare equivoci e rimuovere preoccupazioni. Sicuramente, non intendo svolgere qui due relazioni, come potrebbe sembrare da quello che è scritto sul programma e da quanto ha detto il collega e amico Nino Piras. Terrò una (breve) relazione conclusiva; per quanto riguarda l’introduzione mi limiterò a qualche battuta, diciamo così, di “ambientazione”. Prima di tutto, però, i doverosi ringraziamenti. Ringraziamenti che vanno, per cominciare, agli organizzatori. La professoressa Calvosa ha minimizzato il suo ruolo: in realtà, senza il suo aiuto e quello della Cassa di S. Miniato non avremmo potuto realizzare l’iniziativa; a lei va quindi la sentita riconoscenza per la generosità e la piena disponibilità che ha assicurato in questa circostanza. Del pari, la Casa editrice Pacini ha collaborato in maniera decisiva alla realizzazione di questo incontro: anche ad essa va la nostra sentita riconoscenza. Ringraziamenti sono dovuti, poi, ai relatori per avere accettato di buon grado, direi quasi con entusiasmo, di partecipare all’iniziativa, affrontando anche il fastidio e il peso di una “trasferta”. E infine un ultimo, ma non meno sentito, ringraziamento va a chi è presente per assistere all’incontro, anche qui in taluni casi assoggettandosi al fastidio ed al peso di un viaggio più o meno lungo.
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Come dicevo, poche battute introduttive, intese soprattutto a rispondere a due domande che mi sono state poste: il perché di questo incontro; il perché della scelta del tema indicato nel programma. Da molto tempo il Centro studi, il CEDIB, e la rivista non organizzavano incontri, seminari o iniziative analoghe, che invece in un primo periodo avevano caratterizzato la vita di queste due entità, fra di loro strettamente connesse. È capitato di ragionare con la Casa editrice Pacini sulle cose che si potevano fare per arricchire il ruolo della rivista. Ne è nata l’idea di organizzare, appunto, un incontro di studio, anche nella prospettiva (perché no?) di ripeterlo, su temi volta a volta diversi, nei prossimi anni. Come tutti sanno, sempre più frequente è il caso di convegni che hanno assunto nel tempo una cadenza annuale, divenendo una sorta di appuntamento fisso per gli specialisti, atteso con sempre maggiore interesse e vissuto con sempre maggiore partecipazione. E chissà che non sia possibile realizzare qualcosa del genere anche nel nostro caso. La scelta, poi, del tema. Si è trattato di una scelta quasi obbligata. La crisi che ci ha colpito – crisi finanziaria e successivamente crisi economica – è ormai al centro dell’attenzione in tutti i contesti ed a tutti i livelli. Essa si rivela sempre più – ho già avuto occasione di dirlo in altra sede – come il frutto di un autentico e generalizzato fallimento: un fallimento del mercato, che si è dimostrato strumento assolutamente inidoneo a governare, assorbire e compensare comportamenti anomali e devianti; un fallimento delle regole, che si sono dimostrate non in grado di prevenire quei comportamenti o di limitarne le conseguenze dannose; un fallimento dei soggetti regolati, che hanno dimostrato di non sapere neppure far bene il proprio mestiere; un fallimento dei regolatori, che hanno mostrato di essere stati colti assolutamente di sorpresa dalla crisi. Proprio perché è frutto di un fallimento generalizzato, la crisi impartisce, io credo, un insegnamento fondamentale. Occorre che tutti – governi, parlamenti, regolatori, operatori, studiosi – si sottopongano ad un autentico “bagno di umiltà”: nel senso che è necessario, a tutti i livelli, ripensare ogni cosa dall’inizio, senza idee precostituite, schemi preconcetti, tabù e così via; che è necessario, in particolare, riconsiderare e rivedere tutte le regole. Magari per arrivare a concludere che quello in cui siamo stati fin qui immersi è il migliore dei mondi possibili, come diceva Pangloss nel famoso Candide; però arrivandoci all’esito di un itinerario chiaro e compiuto. È, questo, un processo indispensabile – ripeto – a tutti i livelli e in tutti i campi coinvolti dalla crisi: lo è soprattutto per quel che riguarda le banche e la loro attività, visto che proprio nelle banche e nel modo in
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cui hanno svolto la loro attività sono rintracciabili le cause della crisi. Quale tema migliore, allora, per una rivista che proprio della regolazione dell’attività bancaria principalmente si occupa? La scelta, infine, dei profili specifici da trattare nell’incontro. Anche qui la scelta è stata in qualche modo necessitata. Quelli individuati sono i profili critici di maggior rilievo nel quadro della tematica generale della posizione e della regolamentazione delle banche in relazione alla crisi finanziaria: è innegabile, mi sembra, che oggi si debba discutere o ridiscutere dei connotati pubblicistici che, piaccia o meno, continuano a contraddistinguere l’attività bancaria; del rischio di credito e della sua cedibilità; del rischio degli investimenti da parte delle banche; dei derivati. Sono profili critici importanti, che si sono ormai imposti all’attenzione dovunque e comunque. È di qualche giorno fa la notizia che al Senato degli Stati Uniti il presidente Obama ha portato, o porterà, un progetto di regolamentazione dove si tratterà della distinzione tra banche d’investimento e banche commerciali, del problema di evitare l’assunzione di rischi eccessivi da parte delle banche, e via discorrendo. La questione dei derivati, poi, si pone ormai su un piano di assoluta emergenza. Certo, si sarebbero potuti considerare altri profili critici: penso a quello del conflitto di interessi, a quello della struttura dei “regolatori”, a quello del controllo sulle agenzie di rating, a quello della struttura degli incentivi (leggi: remunerazione) per i managers e così via. Ci è sembrato però che quelli scelti fossero, comparativamente, i profili più importanti. Tra l’altro ho l’impressione che alcuni dei profili a cui ho appena fatto riferimento vengano, negli attuali dibattiti sulla crisi, usati spesso come diversivo, per stornare l’attenzione da altri profili. Ciò è avvenuto e sta avvenendo, mi pare di poter dire, con riguardo, per esempio, al problema della remunerazione dei managers, in taluni momenti particolarmente enfatizzato: un problema che è certamente importante e delicato, ma che, mi pare di poter dire, nel sistema finanziario globalmente considerato concerne un aspetto non centrale. Concludo, dicendo che non possiamo evidentemente pensare che da questo incontro, data anche la sua brevità, possano scaturire ricette o soluzioni definitive. Sono convinto però che da esso, come cantiere “aperto” di elaborazione di idee, possa venire un serio apporto alla riflessione sui profili critici considerati, anche e proprio sul piano della consapevolezza della necessità di affrontare quei profili. Spesso si ha la sensazione, in certi contesti, che ci sia una tendenza a ritenere che tutti questi, in qualche modo, siano discorsi essenzialmente accademici, che la crisi è stata un “incidente di percorso”, quale può sempre accadere e
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nella storia è accaduto altre volte, e che quindi non è il caso di drammatizzare. Io credo che se trasmetteremo un messaggio di consapevolezza della assoluta esigenza di ripensare appunto a fondo tutta la materia, avremo già soltanto per questo fornito un rilevante contributo all’approfondimento e alla soluzione dei problemi posti dalla crisi. C’è l’esigenza fondamentale, io credo, di fare il massimo sforzo, di analisi e di proposta, per evitare che, in un futuro più o meno prossimo, la crisi possa riprodursi: ed il minimizzare i problemi non costituisce la premessa migliore per soddisfare quella esigenza.
Pubblico e privato nell’attività bancaria Franco Belli Innanzitutto, grazie agli organizzatori di quest’incontro. A Firenze si viene sempre volentieri. Rispetto ai pochi appunti che ho sottomano, Nino Piras mi ha spiazzato due volte. Certamente, ne sono contento perché mi sento in sintonia con lui. Però nello stesso tempo un po’ mi dispiace, per i seguenti due motivi. Anch’io intendevo prendere le mosse da i Profili pubblicistici del credito di Mario Nigro e da Pubblico e privato nell’ordinamento bancario di Paolo Vitale. Come tutti saprete, si tratta di saggi di grandissimo rilievo – apparsi in un’epoca in cui si stava infrangendo il sogno della programmazione economica – che prendendo in considerazione il credito per quello che è, cioè a dire un fattore non eliminabile dello sviluppo economico, riescono a ricucire, sul piano sia delle metodologie di analisi sia del linguaggio, “diritto” ed “economia”. Alcuni dei numerosi spunti contenuti in quelle due opere sono stati successivamente ripresi ed approfonditi; tuttavia, in linea generale e salvo rare eccezioni (penso specialmente a Gustavo Minervini), quella magistrale operazione di ricucitura ha faticato a trovare continuatori. Vuoi fra i giuristi, vuoi fra gli studiosi di economia e di tecnica bancaria. Come già ha fatto Piras, anch’io volevo citare il ministro Tremonti, mettendolo a confronto – fatte le debite, ovvie distinzioni – con Mussolini, che nel 1933, in piena crisi, disse parole molto più ciniche delle sue: meno male che gli italiani non sono ancora abituati a mangiare due volte al giorno. Cinismo a parte Mussolini registrò un dato di fatto, più che comodo per la sua dittatura, mentre Tremonti si è limitato ad esprimere una speranza (anch’essa comoda, senz’altro, per l’attuale governo) o al
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più una sua convinzione personale, del resto in evidente contrasto con altre sue convinzioni, che resta tutta da dimostrare; posto che per quanto riguarda la crisi e i suoi effetti siamo ancora al “caro babbo”, anche per chi resti prigioniero degli aspetti bancari e finanziari e sottovaluti il disastro che si va compiendo sul fronte dell’economia reale. Nell’ottica di quanto ha detto Sandro Nigro, mettendo da parte i peana alle sorti magnifiche e progressive aperte dalla “nuova finanza” che ci torturano da decenni e tentando di ricominciare dal principio per vedere dove si arriva senza preconcetti, vorrei pormi la seguente domanda: fino a che punto le due categorie del “pubblico” e del “privato” (non dico solo in termini giuridici, del “diritto pubblico” e del “diritto privato”), che siamo avvezzi a considerare alla stregua di contrari, lo sono veramente? In altri termini: è possibile oggi, ma anche ieri, individuare uno spartiacque, gracile, ma ad ogni modo capace di tracciare una linea ragionevole di demarcazione tra queste due categorie? Ovviamente per fare questo bisognerebbe essere tranquilli sul significato sostanziale del termine pubblico per un verso e del termine privato per altro verso. Ma lo siamo veramente? Siamo sicuri su che cosa voglia veramente dire nella società, nell’evoluzione della società e quindi come concetto diacronico, il termine pubblico rispetto al termine privato, e viceversa? Io penso che qualche dubbio meriti di essere stanato e coltivato, quando si tratti soprattutto di economia, di impresa e di attività economica in generale, pur lasciando fuori per un attimo le banche e l’attività bancaria. La mia impressione è che il lessico giuridico non ci aiuti molto a sollevare dubbi di questo genere, la mia impressione è che le categorie del pensiero giuridico siano, come categorie appunto, un po’ ossificate, tutto sommato eccessivamente rassicuranti; appaiono scritte sulla roccia, tant’è la loro tendenza a restare immutabili, tanto forte è la loro aspirazione all’eternità. Però se dalla teoria si scende alla pratica, alla legislazione, per non parlare poi della giurisprudenza, le cose cambiano, e lo spartiacque tra pubblico e privato diventa un rebus, diventa molto, ma molto evanescente; non da oggi. Rimanendo all’oggi, guardiamo l’articolo 41 comma 3 della costituzione, che tutti noi conosciamo: la legge determina i programmi e i controlli opportuni, eccetera, eccetera perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. In questa norma quello che conta è il sostantivo “attività economica”, e non invece gli aggettivi qualificativi, pubblica e privata. Se poi si legge il dibattito che si svolse nell’assemblea costituente, si vede forse che la ratio della norma era proprio – e non casualmente, direi – di questo genere.
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Questa tendenziale indifferenza di talune norme di rango importante come la costituzione alla natura giuridica dell’attività economica e dei soggetti che la pongono in essere, si evince anche nel successivo articolo 47. Nel 47 tale indifferenza risulta in particolare, ma non solo, dal comma 1, che ci dice che la repubblica oltre ad incoraggiare e tutelare il risparmio disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Anzi aggiungerei che in questa seconda norma, nell’articolo 47, il grado di indifferenza alla partizione tradizionale pubblico – privato sembra più evidente che non nel 41, per lo meno per tre motivi. In primo luogo, tornando specificamente al credito e all’attività bancaria, si tenga presente che all’atto dell’emanazione della carta costituzionale era particolarmente robusta la porzione di attività creditizia pubblica (in quanto svolta da soggetti a natura giuridica pubblicistica o in mano pubblica, mi riferisco alle banche IRI) rispetto all’attività creditizia svolta da soggetti privati. Ricorderete tutti che Luigi Einaudi, che è stato governatore della Banca d’Italia, nelle considerazioni finali per il 1945 (salvo il vero), a chi diceva che bisognasse fare le nazionalizzazione come stavano facendo in Francia, rispose che il nostro sistema bancario era di tipo pubblicistico all’ottantacinque per cento. Sebbene il governatore Einaudi mettesse in conto anche le banche cooperative, in ogni modo non andava lontano dalla realtà. In secondo luogo, a differenza dell’articolo 41 il 47 non prevede la riserva di legge, il potere-dovere di intervento spetta in questa norma alla repubblica, cioè – dicendola come i professori veri di diritto, i giuristi veri (perché io sono un po’ d’accatto, lo sono stato per quaranta anni e ora lo sono ancor di più, perché ora sono in pensione) – qui interviene lo stato comunità e non invece lo stato apparato. In terzo e ultimo luogo, nell’articolo 41 l’innesto del pubblico sull’attività economica, pubblica o privata che sia, ha come obiettivo il raggiungimento di fini sociali. Viceversa nel 47 non è esplicitata alcuna finalizzazione, al di là certamente di quella dell’incoraggiamento e della tutela del risparmio, finalità che è sicuramente di grandissimo rilievo, come non riconoscerlo? Forse è uno dei fili rossi della nascita dello statuto speciale delle banche, dell’attività bancaria, della legislazione bancaria, perlomeno sin dalla legge bancaria del 1926 se non si vuol risalire all’ordinamento delle casse di risparmio di fine Ottocento; ma non è però necessariamente e sempre il più importante. Si sono storicamente posti, e si potranno porre nel futuro, altri motivi, alla base della disciplina, del coordinamento e del controllo del credito, non ultimo quello dello sviluppo economico e del suo sostegno, non ultimi motivi di altro genere legati magari al “governo” della moneta, che poi ovviamente si
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sono riverberati in seconda e terza battuta sulla tutela del risparmio, ma che non sono direttamente costruiti su quella tutela, su quell’interesse. Pongo, a questo punto, una domanda provocatoria e paradossale: l’attività economica privata, al di là delle citate previsioni di intervento di cui all’articolo 41 cost. per il raggiungimento di fini sociali, è esclusivamente un fenomeno tutto e solo privato? L’attività economica privata è una questione che attiene in via esclusiva ai rapporti intersoggettivi, ove regna l’autonomia, l’autodeterminazione, la pura capacità di contrarre e via andare? Sappiamo tutti che non è vero; già sul piano teorico e alla luce del “dover essere”, tenendo conto del medesimo articolo 41, stavolta del primo e del secondo comma (l’iniziativa economica privata è libera, ma non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana). Tornando al terzo comma della medesima norma, si potrebbe poi argomentare sulla utilità sociale, che è un concetto variabile, è un concetto la cui variazione, che sia evoluzione o che sia involuzione (pensiamo ad esempio al mercato del lavoro) dipende non solo dal mutare dei tempi e dalla congiuntura degli astri, ma anche da scelte riferibili in via diretta o in via indiretta alla res publica. Quindi non solo il pubblico può intervenire con programmi, eccetera, ma che al limite c’è l’obiettivo dell’utilità sociale, che già di per sé può essere un innesto forte di pubblico. Queste cose che sono discusse fin dal tempo del primo topo (come si dice in Toscana), cioè si tratta di problemi che affondano radici nel passato remotissimo; ma venendo ad oggi – tralasciando la vil razza dannata degli iper-liberisti, adoratori della mano invisibile di smithiana memoria che nei secoli è stata distorta e piegata a tutti gli usi, tralasciando, dicevo, questa vil razza dannata, i liberisti a tutti i costi che sono consapevolmente i veri untori della crisi, soprattutto dal lato della finanza – su queste questioni del pubblico e del privato, del mix pubblico e privato nell’attività economica, si fronteggiano già da tempo grosso modo due visioni. L’una sottolinea il ruolo del pubblico, dello Stato, alla stregua di organizzatore delle regole del gioco che si svolge sul libero mercato e alla stregua di arbitro di questo gioco medesimo. L’obiettivo è di mantenere i rapporti tramite cui l’economia privata si dipana, nel campo diciamo del neminem laedere, perlomeno evitando che lo ius utendi si trasformi in ius abutendi. L’altra visione sottolinea invece come lo Stato contemporaneo, e non da oggi, non si limiti a regolare il mercato dall’esterno, ma “lo agisca” come ha scritto a suo tempo Pietro Barcellona – lo so che il verbo è intransitivo… oppure è siciliano, ma i siciliani quando parlano italiano
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parlano bene… l’errore è dunque voluto –, lo agisca tramite interventi normativi primari o secondari, interventi di amministrativizzazione (l’amministrativizzazione del mercato di cui parlavano anche Massimo Severo Giannini e Mario Nigro), che profondamente scompaginano la struttura tradizionale della legge nelle sue caratteristiche di base della generalità e dell’astrattezza, e quindi finiscono oggettivamente per scompaginare le categorie del diritto privato da una parte e del diritto pubblico dall’altra. Dimodoché il giurista (a meno che, come purtroppo spesso succede, non voglia trasformarsi in “legista” – il termine è di Sabino Cassese –, cioè in puro commentatore di norme), non può più permettersi il lusso di collezionare farfalle, appuntandole ordinatamente con spilli sicuri, e distinguendole con altrettanto sicure etichette vergate in bella calligrafia. Questa tesi fu, come dicevo, enunciata da Barcellona; una tesi affascinante, che mi affascinò negli anni Settanta, però ripensandoci, nel tempo, anche questa linea barcelloniana di ragionamento, come quella dello Stato arbitro, che Barcellona assoggettava a critica, non appare del tutto convincente. Devo dire però, a onor del vero, che entrambe le tesi hanno pregi notevoli, sia la prima che individua il dover essere, sia la seconda che pone l’accento sul modo di essere; questo perché, dopotutto, è proprio grazie al rapporto dialettico fra queste due visioni, al loro contrasto e alla loro combinazione, che si sono avuti importanti interventi di regolamentazione del mercato: si pensi, tanto per fare qualche esempio alla rinfusa, alle regole antitrust, alle misure tese a evitare, ove possibile, il moral hazard, al tentativo di regolare i conflitti di interesse (o perlomeno alla presa di coscienza del fatto che tali conflitti esistono), alle normative che intendono porre rimedio alle incompletezze dei contratti, alle asimmetrie informative, eccetera. Tuttavia tornando all’insoddisfazione rispetto alle due tesi accennate (forse il giurista vero direbbe “cennate”? mi fa orrore), dicendola molto, ma molto all’ingrosso, ritengo che entrambe le visioni considerino il pubblico come qualcosa di separato, esterno, estraneo rispetto al privato. Nel bene e nel male il pubblico per così dire si incista come un corpo estraneo nel privato, il pubblico si incunea, come una ciste, come un fossile, come una scoria, s’innesta, insomma al privato ma, alla fine della fiera, rimane pubblico, mentre il privato resta privato. In effetti, le cose come sono oggi ci dicono che non è proprio così; oggi caso mai è il contrario. Basti pensare al ruolo di supremazia delle grandi imprese multinazionali rispetto agli stati nazionali: La ricchezza senza nazioni s’intitola un libricino edito da il Mulino una quindicina di anni fa, scritto – guarda un po’ – da Tremonti, Galgano e Cassese.
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Oggi, insomma, non è più vero – ed è ben evidente che non lo è – il vecchio brocardo secondo cui i patti privati non possono mutare lo ius pubblico; oggi è grande la capacità dei patti privati di modificare il diritto pubblico, di influenzare le legislazioni, se non, come spesso accade, di farsi direttamente legislatore. Ritengo che sia anche importante rammentare che l’intreccio pubblico privato è una costante originaria, direi antropologica della sfera economica; gli antropologi economici dimostrano che appena c’è una tribù ci sono dei meccanismi di produzione, dei meccanismi di ridistribuzione, dei meccanismi di credito e dei meccanismi di scambio, ancorché non monetari, che nascono nella sfera del pubblico piuttosto che nella sfera del privato. Quando si passa agli scambi monetari tutto questo è ancor più evidente; e l’evidenza cresce quando si passa allo svolgimento collettivo d’impresa. Mi domando: ma la lex mercatoria dove la mettiamo? Nel pubblico o nel privato? E più tardi la persona giuridica della società per azioni, primo esempio la compagnia olandese del 1605 (la società per azioni è ancora oggi, una sorta di pozzo di san Patrizio, come negli anni Quaranta notava Ripert, dell’economia capitalistica), dove la mettiamo, nel pubblico o nel privato? Il passaggio dall’autorizzazione préalable (del diritto francese) e dal charter of incorporation (del diritto inglese) al sistema dell’omologazione, che cos’è? Una riduzione del pubblico al privato, o una semplificazione dei rapporti tra il pubblico e il privato? Noi ci arrivammo in ritardo, nel 1882, lo stato di New York c’era arrivato già nel 1821. Bene, mi pare utile ricordare l’insegnamento di Ascarelli: il diritto opera degli uomini e frutto delle loro lotte, dei loro contrasti, delle loro speranze, delle loro tradizioni, è nella storia, né può essere compreso e inteso al di fuori del fluire dell’unità di questa. Ciò posto per ricostruire correttamente l’oggi e scrutare, senza pregiudizi, il futuribile, sarebbe utile partire dall’alba della banca, anche se la banca che conosciamo, la banca contemporanea, forse assomiglia più alle banche fra fine Settecento e inizi Ottocento, che ai monti di credito o alle compagnie bancarie mercantili, come quelle – siamo a Firenze – dei Bardi, dei Peruzzi, ai banchieri dei principi dei secoli tredicesimo, quattordicesimo, fino al 1345, la grande prima crisi. Chiediamoci però: ma questa roba qui che cos’era? Era roba pubblica o era roba privata? Chiarissimamente c’erano tanti aspetti di tipo pubblicistico, nelle banche, ma anche nel mercato della lana, ma anche nella corporazione; queste cose le sappiamo tutti. Veniamo ad oggi. Oggi, la banca, si dice, è un’impresa; ma certo che la banca è un’impresa, ma non ci piove; ed è gioco forza dare ragione a
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Renzo Costi, che nel 1994 sottolineava questo dato di fatto con particolare vigore, perché ancora risuonava l’eco della sentenza della Cassazione del 1981, incentrata sul servizio pubblico in senso oggettivo. Dice Costi: la banca è un’impresa diritto, non è un’impresa funzione. Non possiamo non essere d’accordo, perlomeno in linea di massima; starei però attento a forzare troppo la mano, est modus in rebus: distinzione sì, contrapposizione no. Insomma, io credo che ci sia qualcosa da ripensare, perché molto probabilmente l’impresa funzione (intesa in senso pieno e rigido) non è più un’impresa; mentre, per altro verso, tutte le imprese – anche gli ambulanti di Firenze che in questo momento sono arrabbiati col sindaco Renzi – possono essere funzionalizzate a finalità di mercato, di costruzione di un certo modello, e così via. La banca poi si distingue, se potessimo ripercorrere – ora il tempo non c’è – le tappe della storia bancaria dal 1866, dal corso forzoso (Mario Nigro dice giustamente si tratta della prima legge bancaria italiana), alla legge generale bancaria del 1926 – preceduta da un interessantissimo dibattito sulla tutela del risparmio e su che cosa debba intendersi per “risparmio”, che in certi punti anticipa le considerazioni e le definizioni contenute nelle direttive europee –, alla legge del 1936 e ai suoi contenuti di “governo del credito”, peraltro talora mitizzati, su su sino alla contorta privatizzazione delle banche pubbliche, alla nascita delle fondazioni d’origine e bancaria e all’introduzione della banca c.d. universale con il testo unico del 1993, noi vedremo che la banca è un’impresa sui generis; essa vive bene in un sistema oligopolistico, il suo brodo di cultura è, volere o volare, un sistema di tipo oligopolistico (mi dispiace per chi continui a sognare il paradiso terrestre della concorrenza libera e perfetta). Vedremo soprattutto, poi, che la banca si distingue da qualsiasi altra impresa, commerciale o industriale che sia, perché tratta una merce che merce non è; il denaro non è né un bene di consumo, né un bene di investimento; la moneta è un rapporto sociale, su un ottimo dizionario inglese di economia si legge: “money is a social relation” che, poi, è appunto quello che diceva il buon vecchio con la barba, Carlo Marx, negli scritti economico-filosofici del 1844. É ancor poco dire, sebbene sia di aiuto nell’individuazione della specialità della banca, che la moneta è una “merce di Stato” (proprio questo Schumpeter rimproverava a Knapp: dire che la moneta è una merce di Stato è come dire che il matrimonio è un’istituzione dello Stato); io direi che la moneta è qualcosa di più al di là della “conchiglia” della merce di Stato; è qualcosa di diverso, ma comunque è qualcosa di pubblico. A questo punto le cose si fanno complicate; mi permetto di rimandare ad un mio appunto, Il denaro e l’etica, apparso qualche anno fa sulla nostra
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rivista (Diritto della banca e del mercato finanziario, ora pubblicata dalla Casa editrice Pacini di Pisa); voglio però aggiungere che la moneta è un po’ come la polverina che la fata di Peter Pan si spruzza addosso per volare e spruzza addosso ai suoi protetti per farli volare. Così è nelle banche, in quanto trattano la moneta, i loro beni sono trattati nella moneta, la polverina pubblica (sociale) della fata di Peter Pan le impolvera, le trasfigura fin da subito, fa sì che esse svolgano una funzione monetaria, a vari livelli, a livello di credito di circolazione, a livello di credito di capitale… Presidente – Franco, t’interrompo con un certo fastidio e disagio, perché ti sto ascoltando con immenso piacere, ma ti ricordo che dovresti parlare ancora per cinque minuti, e cercare di tirare, come diresti tu nel tuo ottimo senese, cercando di stare nelle prode! Belli – In realtà si dice stare “alle prode”, perché nelle prode ci sono le “porche”, cioè rudimentali canali di raccolta dell’acque, ma in effetti io mio sono impelagato “nelle prode”, hai ragione. In ogni modo cercherò di concludere o quantomeno di tacere fra pochi minuti. Ecco, la banca interviene nella circolazione del denaro come denaro (si parla della funzione monetaria delle banche, ma la funzione creditizia della moneta?) e nella circolazione del denaro come capitale, cioè nella trasformazione del capitale monetario pro tempore (fermo) in capitale operante. E vi è di più, essa interviene anche nella trasformazione dei fondi, del denaro morto, in capitale monetario e poi in capitale operante, e da qui il grande ruolo del denaro, delle banche, il ruolo schumpeteriano, lo sviluppo economico; il credito lavora su potere d’acquisto a valere su produzione futura; se è olio che fa girare il motore, può essere anche olio che fa girare le crisi. Tutto questo era chiaro fin dall’inizio; una mia carissima amica, la professoressa Piccini, che è una medievista, ha studiato dei documenti a Siena, siamo all’inizio del 1400, dove si parla di pressa dei depositi, e chi è coinvolto? Il governo dei nove, chi è che dà le regole, chi è che ferma la ressa, chi è che mette delle regole ai banchi, ai banchieri, ai cambiavalute? È il governo dei nove; quindi già è chiaro l’intreccio non districabile fra il “pubblico” e il “privato”. Ma per comprendere l’essenza della specificità dell’attività e dell’impresa bancaria, sarebbe stato necessario sottolineare il fatto che l’assunzione del rischio è nelle banche totalmente diversa che in qualsiasi altra impresa, anche, oserei dire, di tipo finanziario. Chiudo (o quasi) con una citazione un po’ datata. É del ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio Giovanni Manna. Siamo nel 1863.
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In una circolare indirizzata alle camere di commercio, che ha come oggetto le istituzioni creditizie, Manna sottolinea come l’amministrazione di una banca non riguardi solo gli interessi degli azionisti, ma riguardi principalmente l’interesse del paese. Ciò rende opportuno, egli dice un organamento del credito, perché le compagnie vengano fuori in forma castigata e severa, e tale da rassicurare perfettamente i capitalisti e gli avventori delle nuove banche. Questo organamento deve essere dominato da un concetto di progresso ordinato e graduale tale da ravvicinare e fondere gli interessi del governo con quelli dell’industria e del commercio. Tutte queste cose, tutte queste cose che io mi sono limitato ad accennare in maniera confusa, il rapporto dialettico pubblico/privato, la grande importanza socio-economica del credito e i pericoli insiti in quest’attività, il pattinare continuamente su ghiaccio sottile, eccetera, nel corso della metà degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta sono state completamente dimenticate, a livello di studiosi e di operatori, a livello nazionale e internazionale. Ancorché, eziandio, siano nate una pletora di regolamentazioni sul piano nazionale, sovranazionale e internazionale. Eppure le regole, almeno in teoria, sarebbero abbastanza semplici: la “merce” che la banca tratta (e dalla quale è trattata) è il denaro, ma anche l’informazione e la fiducia, e quindi – viva la libertà d’impresa, viva tutti! –, l’impresa bancaria va maneggiata con estrema cura, perché è rivolta – con una merce che merce non è e che si differenzia da qualsiasi altra merce o bene (non foss’altro perchè è il compendio di qualsiasi altra merce o bene) – ad un pubblico indifferenziato di persone, fra cui c’è anche la famosa casalinga di Voghera, povera donna, alla quale, non so perché, vengono rifilate tutte le schifezze che la banca riesce a produrre, massime in un malinteso sistema di banca universale. Il lessico, il nuovo linguaggio, ha fatto la sua parte. Si parla di prodotti bancari, ma che vuol dire prodotti bancari? Il linguaggio, che ha preso campo negli ultimi decenni, è un mascheramento; anche il linguaggio barbaro intriso di neologismi e di anglicismi ha fatto in questi anni la sua parte. Non ricordo esattamente chi, ma mi sembra Galbraith, ha detto che l’unica lezione che la storia insegna è che non insegna assolutamente niente. Gli yuppies del 1929 non sono gli yuppies del 2009, ma purtroppo, andando a cose più serie, quelli che si buttavano dai grattacieli americani nel 1929-1930 sono precisamente uguali ai disgraziati imprenditori che si uccidono nel Nord-Est. Vi ringrazio molto per la pazienza.
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II tema specifico, e cioè pubblico e privato nell’attività bancaria, è inserito in una tematica di crisi; diciamo che ci consentirebbe probabilmente di stare qua dal punto di vista che mi riguarda, cioè dal punto di vista tecnico-aziendale, per 365 giorni senza interruzioni, e sicuramente se ne avessimo il tempo questo ci consentirebbe certamente di non avere problemi ad avere argomenti da trattare. E quindi dire che possiamo intrattenerci solo sui titoli dei capitoli, o addirittura dei testi di questa tematica è più che ovvio. E quindi cercherò di essere il più possibile provocatorio, naturalmente andando a sfiorare solamente la profondità di queste tematiche, di cui l’intervento precedente ci ha dato una contezza per quanto riguarda le interpretazioni rispetto alle quali dobbiamo rivolgerci. In buona sostanza, già una difficoltà iniziale è quella di riferire il pubblico e privato al mercato domestico o a quello globale, anche perché il titolo dell’incontro afferisce alla crisi, e la crisi è preminentemente globale, non preminentemente domestica. Il tutto è aggravato dalla circostanza che il cuore della crisi è il sistema bancario, e purtroppo tale oggetto è poco sviluppato nelle tematiche, con una grave complicazione data dal fatto che, non conoscendo la malattia, non si sta neanche curando, e quindi in realtà nulla di quello che ci preoccupa è stato rimosso, in realtà quello che ci preoccupa è qualcosa di base di tutto il sistema, per cui lo stesso problema dei derivati che è così presente nella mente di tutti non è che una seconda linea rispetto ai problemi principali. Quindi cercherò di fare qualche riferimento, intanto partendo da quella che è una nostra idea di quello che è pubblico e privato nell’attività bancaria; pubblico e privato che nell’attività bancaria trova una sua espressione massima di sintesi, perché l’attività bancaria è per sua natura insieme attività pubblica e attività privata, nel senso che si svolgono funzioni monetarie che sono di interesse pubblico, generando l’intermediario degli scambi in generale, e generando la domanda aggregata del sistema. Aggiungasi poi che questa domanda aggregata è funzione delle decisioni prese dalle banche centrali e via dicendo in materia di definizione della domanda aggregata stessa, come è stato praticato dalla crisi del ’29 e di cui l’opera di Keynes costituisce un punto di partenza. Da qui nasce la politica monetaria, e anche quella economica in un senso moderno. D’altra parte l’attività bancaria è un’attività che è svolta da un’impresa, e che ha caratteristiche di interesse privato nello svolgimento gestionale, perché qui anche il più statalista dei presenti rigetterebbe con violenza l’idea che la gestione delle banche sia controllata dall’attività politica; ma vorrei ricordare a tutti quelli che sono molto più giovani di me che fino al ’91, esattamente al 30 giugno del ’91, il primo
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luglio, quando è entrata in vigore la legge Amato, le prime pagine dei giornali non erano dedicate alle nomine bancarie. Chiunque di noi ha memoria, sa che la principale parte delle diatribe sui giornali avveniva in occasione delle nomine bancarie, nomine bancarie di cui dal 1991 non si parla più nei termini di discussione problematica, ma si dà notizia che ci sono state delle nomine bancarie. Premesso questo, quindi, possiamo disquisire in materia di pubblico e privato in relazione alla sua gestione e al suo controllo, alla proprietà e all’equity che alimenta queste aziende, la banca può essere a maggioranza di capitale pubblico, a maggioranza di capitale privato, o misto. Oppure possiamo parlare dell’aspetto pubblico e privato relativamente alle funzioni, come dicevamo prima la funzione monetaria e la funzione creditizia, per rimanere alle due principali, ma io ad esempio appartengo a una certa scuola che definisce la banca un’azienda di produzione che svolge una funzione monetaria, tutte le altre non sono banche, per cui se non svolgono la funzione monetaria non sono banche, anche se oggi vengono chiamate banche anche quelle che non svolgono una funzione monetaria. Ciò premesso, e per fare il volo della farfalla sui fiori, che non può certo essere conclusivo della creazione del miele, perché una farfalla da sola, un’ape da sola non riesce a svilupparne in modo sufficiente, ce ne vogliono molte; quindi rimarrò su questi temi. Noi abbiamo assistito, per fare qualche flash, a una trasformazione agli antipodi del sistema, che apparentemente, non dimentichiamo mai che siamo il paese del Gattopardo, che tutto cambi perché niente cambi, e questo cambiamento ha fatto sì che un sistema che, come diceva correttamente il professor Belli che mi ha preceduto, era a dir di Einaudi per l’85% pubblico. Più recentemente, fino al ’91, era oltre il 90% pubblico con sei banche di diritto pubblico, e sul fatto che fossero pubbliche non ci possono essere dubbi, tre banche di interesse nazionale la cui maggioranza era in mano allo Stato, e una quantità numerosissima di casse di risparmio le cui nomine facevano parte di pacchetti di decisioni afferenti al governo, rispetto alle quali la Banca d’Italia formava le famose terne. Allora fino al 30 giugno 1991 il sistema era integralmente pubblico dal punto di vista istituzionale, funzionalmente aveva delle funzioni monetarie, che hanno delle caratteristiche di interesse generale, possiamo anche chiamarle pubbliche; e funzioni aziendali, come quelle creditizie, che dovevano essere poste in essere con regole di tipo privato. Naturalmente tutto questo viene realizzato da chi gestisce, il quale viene nominato da chi è proprietario, e quindi in un caso dallo stato, dal ministero del Tesoro, il comitato interministeriale, le terne e via dicendo; dall’altro lato il mercato, le società per azioni in cui sono le assemblee che in base alla distribuzione dei
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capitale decidono. Veramente non se ne parla più, ma come avvengono queste nomine bancarie in questo momento potrebbe essere oggetto di una lunga dissertazione, anche semplicemente vedendo i fatti recenti che avvengono in alcune banche. Questa privatizzazione avvenuta tramite lo scorporo dell’azienda bancaria rispetto alle fondazioni, ha lasciato originariamente le fondazioni nel controllo delle banche, senza più l’intervento pubblico centrale nella scelta, ma non affidando questo a un soggetto che ha messo il capitale proprio ma sempre alle istituzioni che erano originariamente pubbliche e che tali erano rimaste, ancorché con una caratteristica diversa, gli americani non capiranno mai che sono le famose fondazioni. Dalla
sala
– Non solo agli americani!
Giovannini – Noi stessi abbiamo dei grossi dubbi! D’altro canto sappiamo perfettamente, non voglio citare nomi, che alcuni personaggi che fino al 1991 determinavano le nomine bancarie, tuttora le determinano; basta leggere i giornali per vedere che continuano a fare quello che facevano prima. In più, sono state poste in essere delle normative attraverso le quali queste fondazioni non dovrebbero intervenire sulla gestione, ma questo è smentito dai giornali tutti i giorni su come avvengono queste nomine. I principali tre gruppi del sistema bancario, in cui sono confluite sempre per scelte politiche un gran numero di banche, determinano queste nomine, attraverso decisioni di fondazioni, le quali non dovrebbero intervenire nella gestione, secondo la norma, e quindi lasciando che il Gattopardo possa dire di avere trasformato, e non avendo trasformato, comunque ha ottenuto di togliere dalle prime pagine dei giornali questo problema come responsabilità politica, che non è poco. Bisognerebbe tuttavia capire quali sono le legittimazioni di rappresentanza attraverso le quali si controllano delle banche senza essere nè holding pubbliche, né holding private. Bisognerebbe vedere effettivamente in che quota una società per azioni privata è una società per azioni di natura subdolamente pubblica. Il direttore generale di una delle più grandi di queste banche, sostiene che si è perso di vista il fatto che l’attività bancaria non è un’attività che deve avere per finalità solo il reddito, per il semplice motivo che svolge delle funzioni pubbliche delle quali non parla più nessuno; e che noi aziendalisti non ne parliamo può essere anche comprensibile, ma che non ne parlino neanche i professori di diritto è abbastanza strano, ecco.
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Nell’ambito invece della nostra competenza tecnica, questo problema non ce l’abbiamo, perché almeno per quanto riguarda la mia particolare convinzione, devo dire che è il primo lavoro che feci nella mia vita, trattando questo argomento, in realtà noi avremmo risolto questo conflitto, all’interno di una banca che ha insieme funzioni pubbliche e funzioni private, rispetto alle quali poi modelli proprietari possono certo essere definiti con maggiore chiarezza di quello che avviene nel nostro paese quando, per dare una spiegazione che è molto endogena, quando nei nostri studi dicevamo che la banca doveva perseguire nella sua gestione il minimo divario dei tassi di interesse, che sembra un’assurdità, che sembra in conflitto con la ricerca della redditività, che appare invece come l’unica finalità che hanno gli attuali banchieri. Il perseguimento del minimo divario significa il minor costo che la collettività ha per l’esercizio del credito, perché la differenza tra tasso medio attivo (costo dei crediti) e tasso medio passivo che si paga sui depositi, è un costo per la collettività: la maggiore efficienza pubblica è realizzata dalla minimizzazione di questo costo. Ma nello stesso tempo questa è la condizione di maggiore efficienza reddituale economica delle banche, perché solo le banche che hanno la migliore clientela sono quelle che hanno una prospettiva di reddito, e quindi più riescono a tenere i tassi attivi vicini ai tassi passivi, così hanno la migliore clientela, perché la migliore clientela è in grado di negoziare i migliori tassi, e quindi si persegue la maggiore redditività. La redditività derivante dai tassi è mediata dal rischio che si va ad assumere, quindi io posso pur erogare dei prestiti al 15%, dopodiché perdo tutto dopo tre anni che li ho erogati. Oltretutto si aggiunge una forte asincronia temporale tra il momento di formazione dei ricavi data dai tassi, e quella dell’emergere dei rischi conseguenti alle scelte. Detto questo, sempre per una rispettosa coerenza con una delle premesse, che non posso essere particolarmente ordinato, m’interesserebbe un momentino rivoltare la questione a livello globale, perché è lì che ci sono i veri problemi. I veri problemi nascono dal fatto che per quanto riguarda la moneta noi operiamo in un sistema a corso forzoso, che rimandando a Mill sarebbe un sistema molto tipico, comunque un sistema molto interessante, proprio perché non è un sistema fiduciario, proprio perché ha un corso forzoso. Finché le economie si basavano su un sistema di scambio domestico, la prevalenza di questo aspetto si generava dal fatto che la Banca d’Italia o le banche centrali in genere non avevano un obbligo di rimborso in nessun termine, una volta stabilito il corso forzoso si assicurava una liquidità della moneta per legge, e poi la salute o meno del sistema monetario e finanziario dipendeva dalla capacità
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di darsi delle regole. I governi che in maniera più o meno evidente, più o meno tra parentesi influivano poi sulle politiche monetarie, tenuto conto che il debito pubblico in qualche modo deve essere collocato, e laddove non può essere collocato in pubblico, può essere collocato presso la banca centrale attraverso l’emissione di carta moneta, che fa parte del sistema finanziario. Quindi abbiamo degli esempi molto interessanti, nella repubblica di Weimar per comprare un pezzo di pane non so quanti miliardi di marchi ci volessero, e così via. Il problema è che noi ci troviamo in una situazione molto più grave e molto più seria, perché attualmente il mercato complessivo degli scambi, definito mercato globale, è molto di più dei mercati domestici, e qualsiasi prodotto interno almeno nella misura del 55-60%, nasce da componenti che provengono dal mercato globale. Quindi se il mercato globale venisse meno, non verrebbe meno una parte, ma verrebbe meno il tutto. Ma qual è la moneta dei sistema globale? È una moneta fiduciaria, interamente fiduciaria, e vorrei su questo soffermarmi non solo sulla struttura attuale del sistema, ma anche sui rischi a cui questo sistema espone la stessa permanenza dell’attuale sistema capitalistico, dovuto alle tensioni generate dal cambiamento nel settore economico, perché le forze in campo hanno cambiato il loro peso con crescente intensità. La stessa formazione e distribuzione dei redditi è diversa in modo straordinario rispetto a quello che era in passato. C’è oggi il BRIC, Brasile, Russia, India e Cina, che contribuiscono alla parte economica della formazione dell’offerta in una misura che non è comparabile rispetto a quella degli anni passati. Allora, datosi che il nostro sistema monetario nasce nel 1944 a Bretton Wood, attraverso l’accordo delle monete convertibili e attraverso il fatto che il dollaro poi fosse convertibile in oro, in sostanza veniva considerato un sistema fiduciario, con però una base in oro nelle riserve degli Stati Uniti, un sistema che è rimasto lo stesso, per cui al netto di quelli che sono entrati nell’euro restano quei partner che c’erano allora, le cui sole monete sono convertibili, secondo le definizioni di Bretton Wood, con la sola eccezione della Slovacchia, che per non so quale stranezza della storia è entrata dentro le monete convertibili, è entrata dentro l’euro, non essendo parte dei paesi originariamente appartenenti a Bretton Wood. Bene, questo sistema ha cessato di avere una sua legittimità il 15 agosto del ’71, quando gli Stati Uniti hanno detto che il dollaro non era più convertibile in oro, per cui non era più un sistema legittimo rispetto agli accordi stessi, ma tutto questo ha sviluppato successivamente una moltiplicazione geometrica, con tempi molto stretti, dei volumi monetari, e quindi del mercato, degli scambi, con un completo disinteresse rispetto al problema che non avesse più una sua legittimità, puramente
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formale, ovviamente, perché già prima era così. Attualmente, quindi, noi abbiamo una moneta fiduciaria che integralmente copre tutta la domanda complessiva aggregata negli scambi internazionali, e cioè debiti di banche private, appartenenti ai paesi dell’accordo di Bretton Wood, che abbiano una statura sufficiente per essere dei debitori accettati negli scambi comunemente dagli operatori. Il che vuoi dire che mai e poi mai un operatore cinese accetterà il debito di una banca russa in pagamento, perché poi non potrà utilizzare questa moneta, questo debito della banca russa per fare degli scambi internazionali, perché nessuno gliela accetterà, o comunque sarebbe molto difficile farla accettare. Tanto la Russia non appartiene a Bretton Wood, tanto la banca russa non ha la statura, mancano entrambe le condizioni. Al contrario, le banche americane o le banche italiane, o le banche inglesi, che fanno parte dell’accordo di Bretton Wood, possono assumere i debiti, che sono la moneta internazionale per cui se solo una di queste banche venisse meno l’intero sistema verrebbe infettato e nei rapporti reciproci terminerebbe la solidità. Tutto questo naturalmente è quello che ha preoccupato così tanto gli Stati, perché una delle cose più sorprendenti è stata la rapidità con cui i governi sono intervenuti, portando il disavanzo pubblico a valori senza precedenti. Mill avrebbe detto che andava bene riferire la circolazione forzosa al prodotto interno lordo o alla formazione della ricchezza, che è un po’ come i nostri accordi famosi di Maastricht del 3%. Ma chi se li ricorda più? Sapete qual è il rapporto di Maastricht sulla Gran Bretagna, In questo momento? Il 12%! L’Italia è uno dei paesi migliori, pensate che sta solo al 5%, ma pensate che se l’avessimo fatto prima della crisi, ci avrebbero cacciato! E questo per un’idea molto giusta, secondo cui tu non puoi fare debiti di più del 3%, nella formazione di ricchezza di quel periodo. E questa rapidità con cui i vari governi sono intervenuti forse non è stata compresa bene, ma voi capite che cosa era in discussione, essendo in discussione la moneta fiduciaria complessiva … quanto manca, cinque minuti! Abbiamo sfiorato solo qualche fiore, mi fa molto comodo, perché se no poi stringevo questa ultima cosa che è molto importante. Allora, rispetto a questo il problema non solo non è risolto, ma è fortemente aggravato ogni giorno che passa, perché il problema è la ripartizione del potere: potere economico, potere politico, potere monetario e potere finanziario, che sono tutti strettamente legati. Allora, noi sappiamo che attualmente il sistema è basato su un euro che ha sintetizzato una buona parte dei paesi di Bretton Wood, più i paesi residui, il principale è il dollaro, il Giappone, la sterlina, eccetera. Questo fatto che la moneta fiduciaria, ancorché con delle tecniche particolari, sui conti nostri e loro, sul fatto che i depositi
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devono essere a tempo, per una serie di questioni che non sono certo in grado di spiegare qua, alimenta flussi finanziari che per quanto riguarda la disponibilità monetaria deve essere ripartita tra questi paesi, il che crea un privilegio essendo una moneta capitale. Dopodiché il monopolio che abbiamo tutti quanti consente al paese più importante, che sono gli Stati Uniti, di creare mensilmente ormai da dieci anni, adesso negli ultimi giorni non so cosa è successo, circa 60 miliardi di dollari di buco, tra domanda, offerta e debiti con l’estero, regolarmente compensato da 80 miliardi di flussi di capitale, che poi sono pareggiati da 20 miliardi di investimenti di capitale. Questi 80 miliardi al mese moltiplicati per tutti i mesi, per gli anni, continuano sempre, senza sosta. Naturalmente il fatto che il dollaro sia la principale moneta, significa che le banche degli Stati Uniti rappresentano la principale componente fiduciaria del sistema, dopodiché anche noi abbiamo dei piccoli vantaggi, appartenendo al club. Gli altri, tipo la Cina, sono costretti a utilizzare la nostra moneta, specie se sono paesi esportatori, come la Cina in particolare, tutto quello che loro non riescono a reinvestire nella bilancia delle partite correnti lo debbono investire o direttamente in moneta, o in titoli finanziari, che sono tutti denominati più o meno presso le nostre banche. Tutto questo la Cina non lo gradisce, vista la sua componente sugli scambi, non può dichiarare, oltre quello che ha ripetutamente fatto, che questo sistema deve essere riformato, una riforma che comporterebbe la fine della leadership occidentale, e americana; d’altro canto non lo può fare perché ha investito fino adesso, il principale capitalista che ha investito negli Stati Uniti è la Cina; d’altro canto non può neanche accettare politicamente questa posizione, per cui i cinesi sono molto intelligenti, molto non so, io non vorrei dire pericolosi, mi pare che adesso sono quattordici mesi che loro non rinnovano titoli di bond americani a dieci anni per 100 miliardi dollari al mese, deconsolidando il debito pubblico americano, e naturalmente lo fanno a modo cinese, col metodo della tortura goccia a goccia! Ricordiamoci che l’Italia nel 1980 ha fatto la strada contraria, perché dal ministro Goria in poi, Andreatta, eccetera, è riuscita finalmente a rimettere in circolazione il debito pubblico, partendo dai famosi bond e arrivando al prolungamento delle scadenze, per cui stiamo qua. Quindi il vero problema della crisi è che ancora la crisi non c’è stata, perché è una crisi della leadership in cui il controllo della moneta è centrale, ma non si può toccare assolutamente nulla senza che il sistema vada a pezzi; come si potrà eventualmente trovare un equilibrio, non lo so, e questo tra pubblico e privato non lo so!
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Gli investimenti delle banche Gaetano Presti Gli investimenti più rischiosi delle banche sono i crediti; e anche la recente crisi nata dai mutui sub-prime lo ha confermato. Dovremmo allora, per evitare il ripetersi di crisi bancarie, vietare alle banche di svolgere l’attività di erogazione del credito? La domanda non è così folle come potrebbe sembrare. Oggi è di moda l’espressione narrow banking per alludere all’auspicio che le banche dovrebbero tornare a fare il loro lavoro tipico, cioè raccolta del risparmio ed erogazione del credito 1. Ma, se si torna indietro nel tempo appena un po’, si vede che l’espressione non ha un significato univoco e che, anzi, nel passato essa è stata utilizzata, al fine di limitare i rischi d’instabilità e illiquidità, proprio per indicare (e auspicare) che le banche dovrebbero limitarsi alla raccolta del risparmio e alla gestione dei servizi di pagamento e impiegare l’attivo solo in titoli a breve termine di elevato standing (titoli di Stato) 2. Ancora all’inizio di questo millennio si è discusso se alle banche, o meglio – per evitare equivoci terminologici – alle istituzioni che raccolgono risparmio presso il pubblico, dovesse essere precluso, o quanto meno fortemente ristretto, l’esercizio del credito 3. Il quadro di riferimento è, quindi, assai fluido e non si riduce necessariamente alla sola alternativa tra banca universale e banca specializzata o, per usare le parole di Lord Turner, presidente della Financial Services Authority, della separazione tra utility banking e casino banking 4. In questo contesto si collocano le ultime prese di posizione di Barack Obama. Come è noto il presidente degli Stati Uniti a metà gennaio di
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Sul punto, per tutti, v.: Onado, Regole dopo la crisi? No, grazie, in Mercato Concorrenza Regole, 2009, p. 559 ss., e il Governatore della Bank of England Mervyn King (Speech to Scottish business organisations, Edinburgo, 20 ottobre 2009, in www.bankofengland.co.uk/publications/speeches/2009/speech406.pdf). 2 Cfr. Friedman, A program for monetary stability, Fordham University Press, 1960. 3 Kobayakawa e Nakamura, A theoretical analysis of narrow banking proposals, in Monetary and economic studies, maggio 2000. 4 Financial Services Authority, The Turner Review, A regulatory response to the global banking crisis, marzo 2009, p. 43 e 94.
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quest’anno, nel giro di pochi giorni, ha formulato tre proposte 5 che, in un periodo di stasi della discussione parlamentare, talvolta paragonata a un‘odissea, sulla riforma del sistema finanziario statunitense, hanno animato il dibattito: a). in primo luogo, istituire la c.d. financial crisis responsibility fee: cioè un’imposta di durata decennale funzionale a far recuperare al contribuente americano quello che si stima sarà il costo finale del TARP 6. L’imposta è prevista a carico delle banche e assicurazioni con un totale dell’attivo superiore a 50 miliardi di dollari e sostanzialmente colpirebbe con l’aliquota dello 0,15% il passivo diverso dal patrimonio netto e dai depositi (le riserve tecniche per le assicurazioni): quindi, un disincentivo alla crescita finanziata con capitale di credito raccolto sul mercato 7; b) .in secondo luogo, impedire alle banche, intese come le istituzioni che raccogono depositi presso il pubblico e godono della c.d. safety net “to own, invest, or sponsor hedge funds, private equity funds, or proprietary trading operations for their own profit, unrelated to serving their customers” 8. Ed è questa la proposta che riguarda gli investimenti sulla quale poi dovremo tornare più analiticamente 9; c) .infine, aggiungere al già esistente cap stabilito dal Riegle-Neal Interstate Banking and Branching Efficiency Act del 1994, secondo cui nessuna banca può detenere più del 10% del totale nazionale dei depositi, un ulteriore tetto che “should apply to wider forms of funding employed by large financial institutions”. Quindi, ancora dal lato della
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Dette misure sono state annunciate il 14, 16 e 21 gennaio 2010 e i relativi documenti (da cui sono tratte le citazioni) sono consultabili nella sezione briefing room del sito www.whitehouse.gov. 6 Il costo complessivo del TARP (Troubled Asset Relief Program) è attualmente stimato in 117 miliardi di dollari, importo notevole, ma comunque sensibilmente inferiore ai 700 miliardi che erano stati originariamente stanziati. 7 Si tratta, quindi, di un intervento teso sì a disincentivare la crescita degli intermediari, ma intervenendo sul lato del passivo e non su quello degli investimenti. 8 La citazione, come quella successiva, è tratta dagli interventi del presidente Obama citati alla nota 5. 9 Per un primo esame delle misure proposte da Obama v. Regulating banks. Garrottes and sticks, in The Economist del 30 gennaio 2010 nonché, in Italia, Penati, Banche, i punti deboli del piano Obama, in La Repubblica del 30 gennaio 2010, e Spaventa, Perché non va la cura Obama sulle banche, in La Repubblica. Affari e finanza del 8 febbraio 2010.
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provvista, un secco limite all’aumento delle dimensioni, benché limitato solo alla growth by acquisitions 10. Non interessa qui vedere quali sono stati i motivi strettamente politici che hanno indotto Obama a formulare queste proposte. Certamente hanno giocato un ruolo non marginale le difficoltà politiche del momento 11, il malcontento popolare per i cospicui utili realizzati dalle grandi banche, per buona parte destinati a bonuses in favore dei loro esponenti, a fronte di una crisi da loro stesse provocata e che ha causato la perdita di milioni di posti di lavoro, la tradizionale avversione della democrazia americana per tutto ciò che è troppo grande nell’economia e la ricorrente, anche demagogica, contrapposizione tra Wall Street e Main Street. È invece utile ricordare che, per quanto tali eventi possano avere agevolato la decisione politica, questa non è stata improvvisata, ma è frutto del pensiero di uno dei più influenti e reputati consiglieri del presidente, l’ex presidente della Federal Reserve Paul Volcker, di certo non accusabile di essere un incompetente populista pregiudizialmente avverso alle banche. Vediamo, allora, quanto il dibattito suscitato da quelle proposte può essere utile per ciò che oggi dibattiamo; sottolineando, peraltro, preliminarmente che dalle stesse proposte del presidente Obama 12 emerge chiaramente come il discorso sugli investimenti delle banche, cioè sull’attivo, non possa andare disgiunto da quello sulla provvista, cioè sul passivo. Anche dal punto di vista della stabilità e della liquidità, rischi e opportunità si collocano su entrambi i versanti e difficilmente l’uno può essere affrontato senza considerare l’altro. D’altra parte, con buona pace dei fautori della visione più ristretta del narrow banking, il cuore del ruolo della banca consiste proprio nell’intermediazione che fa incrociare chi offre e chi richiede risorse finanziarie con contrapposte preferenze temporali.
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Per quest’ultima precisazione v. l’intervento di Wolin, Deputy Secretary of the Treasury, del 2 febbraio 2010 avanti il Committee On Banking, Housing And Urban Affairs del Senato degli Stati Uniti nell’audizione sul tema “Prohibiting Certain High-Risk Investment Activities by Banks and Bank Holding Companies”. 11 Basta ricordare lo stallo della riforma sanitaria e di quella del settore finanziario e l’esito negativo delle elezioni suppletive in Massachusetts. 12 Nel frattempo, con alcuni temperamenti, divenute legge grazie all’approvazione del Dodd-Frank Wall Street Reform And Consumer Protection Act derivante dal coordinamento del testo approvato dal Congresso degli Stai Uniti il 2 dicembre 2009 (H.4173 The Wall Street Reform and Consumer Protection Act of 2009) con quello approvato il 20 maggio 2010 dal Senato (S.32117 The Restoring American Financial Stability of 2010).
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Partirei da una premessa che condivido con il prof. Nigro 13, nostro ospite e coordinatore e che esprimo in estrema sintesi: le banche sono imprese, ma non imprese come tutte le altre; non è dunque scandaloso porre limiti alla loro attività, anche per quanto riguarda gli investimenti; il mercato è fondamentale, ma non può essere l’unico metro di misura e fonte di regolazione dell’attività bancaria. Il tema fattuale di fondo può riassumersi così: l’analisi della crisi ha dimostrato che gran parte dei titoli tossici derivanti dalla cartolarizzazione dei mutui non erano collocati presso il pubblico ma nei portafogli di banche commerciali e di investimento 14. Se ci si chiede perché molte banche si sono imbottite di titoli tossici, probabilmente la risposta è perché così guadagnavano di più, o meglio pensavano di guadagnare di più. Il quesito riguarda allora la ragione per cui il rischio è stato così chiaramente, per lo meno con il senno di poi, sottovalutato. La risposta è articolata 15: d).la sempre maggiore concessione di crediti destinati a non rimanere nel portafoglio della banca erogatrice, ma a essere cartolarizzati e “distribuiti” sul mercato 16 ha fatto venir meno il fondamentale incentivo per la banca finanziatrice alla corretta erogazione del credito con conseguente peggioramento della qualità di quest’ultimo e, a seguire, dei titoli in cui esso veniva “insaccato” 17;
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A. Nigro, Crisi finanziaria, banche, derivati, in Dir. Banc., 2009, I, p. 13 ss. 14 Si tratta di una constatazione che non riguarda le banche italiane che, infatti, hanno complessivamente avuto meno problemi di stabilità rispetto a quelle straniere, soprattutto a quelle americane e inglesi. Tuttavia, ed è il risvolto della medaglia, è noto che in taluni importanti casi le banche italiane si sono liberate dal rischio di credito nei confronti di imprese prossime alla crisi collocando presso il pubblico titoli di elevata opacità, così traslando il rischio a carico dei propri clienti. 15 Cfr. Diamond e Rajan, The credit crisis: conjectures about causes and remedies, NBER working paper series n. 14739, febbraio 2009. 16 È il noto fenomeno dell’originate to distribute, che forse – visto l’impiego delle tecniche di cartolarizzazione – meglio dovrebbe chiamarsi originate to securitize. Sul punto, per tutti v. Cesarini, Il ruolo delle banche: controllo del rischio di credito e collocamento di strumenti finanziaria, in Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, a cura di, La crisi finanziaria: banche, regolatori, sanzioni, Milano, Giuffré, 2010, p. 21 ss. 17 Il meccanismo può essere descritto nel seguente modo. La banca finanziatrice cede un pool di crediti a un’apposita società veicolo la quale finanzia il loro
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e). questo fenomeno non ha però impedito l’acquisto di questi titoli da parte di altre banche che trovavano conveniente l’operazione. Per un verso, il malfunzionamento delle agenzie di rating e l’eccesso di confidenza sia da parte dei pubblici poteri sia da parte degli operatori privati, ivi incluse le istituzioni finanziarie, sulle loro valutazioni ha causato che le tranches seniores delle cartolarizzazioni avessero a parità di rendimento con titoli tradizionali un rating migliore e, corrispettivamente, a parità di rating, rendimenti maggiori18. Per altro verso, è mancata la percezione del rischio, cioè del fatto che i maggiori rendimenti, in realtà, altro non erano che il compenso per un rischio occulto: e ciò sia per la difficoltà di comprendere tale rischio da parte dei risk managers delle banche acquirenti e, più in generale, lo scarso potere effettivo di questa funzione; sia per l’idoneità di queste operazioni a far immediatamente emergere plusvalenze suscettibili di tramutarsi in performances tali da far scattare più che allettanti bonuses per gli esponenti aziendali 19; sia, ancora, per la trascuratezza generale sul rischio di liquidità e di mercato connesso a questi titoli (la c.d. prociclicità) e alla loro connessione con erogazioni di credito assai generose (i citati mutui sub-prime). A voler essere maliziosi, poi, si può citare il possibile scambio “perverso” tra istituzioni finanziarie: secondo il Fondo Monetario Internazionale 20 degli 1,2 trilioni di dollari di mutui sub-prime emessi a fine 2007,
acquisto sul mercato, con l’emissione di titoli obbligazionari, i cui capitale e interessi verranno pagati con il cash flow generato dai crediti acquistati. Il meccanismo, oltre al bundling di diverse attività sottostanti e alla loro cartolarizzazione, comprende anche il cd. slicing. I titoli emessi, infatti, vengono ripartiti in tranches gerarchicamente ordinate, ciascuna delle quali è soggetta in via successiva al rischio di default dei debitori sottostanti di modo che le tranches privilegiate (senior) subiranno perdite se e solo se i defaults sugli underlying assets saranno di entità tale da non essere assorbiti dalle tranches subordinate (junior) che, quindi, sopportano in prima battuta il pericolo di insolvenza dei debitori. 18 Cfr. Presti, Le agenzie di rating: dalla protezione alla regolazione, in Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, a cura di, I nuovi equilibri mondiali: imprese, banche, risparmiatori, Milano, Giuffré, 2009, p. 75 ss. (e in Jus, 2009, p. 65 ss.). 19 Cfr. Presti, Mezzi e fini nella nuova regolazione finanziaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, p. 208 ss. (e in Dopo la crisi: conseguenze economiche, finanziarie e sociali, Milano, 2010, p. 59 ss.). 20 Fondo Monetario Internazionale, Containing Systemic Risks and Restoring
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il 75% era stato cartolarizzato e di questo l’80% aveva ricevuto la magica tripla A: cioè il 60% del credito a rischio magicamente, con la collaborazione delle agenzie di rating, era stato trasformato in titoli sedicentemente a prova di bomba. Il che ovviamene può avere comportato un fenomeno analogo a quello che abbiamo visto nelle nostre squadre di calcio ove per anni i bilanci sono stati sistemati scambiando alla pari Stanlio con Ollio, ma valutandoli entrambi come fossero Maradona. In altri termini, se mi tengo i miei crediti in bilancio, mi costano molto in termini di capitale perché sono rischiosi; ma se li cartolarizzo e un altro operatore acquista la tranche senior AAA gli costa molto meno … e naturalmente viceversa. La distorsione sul lato dell’attivo ha provocato un analogo difetto su quello del passivo che, a sua volta, ne ha amplificato gli esiti. Proprio la scarsa fiducia sull’idoneità dei meccanismi di governance a consentire la percezione e l’emersione del rischio ha fatto sì che vi fosse un notevole spread tra la raccolta a breve sui mercati e quella a lungo termine (sia di credito che di rischio). Il minor costo della raccolta a breve sui mercati, incrementata anche – a livello macroeconomico – dal gap spaventoso tra paesi formiche eccedentari e paesi cicale deficitari, ha sì consentito guadagni a breve termine, ma ha anche reso più volatile la provvista che, infatti, non appena aperta la crisi, si è liquefatta, amplificando la crisi generata sul lato attivo del bilancio. L’esperienza, insomma, insegna che la celebre legge di Murphy (se qualcosa può andare male, lo farà) si applica anche alla finanza: la tossicità di un prodotto finanziario non ne impedisce affatto l’appetibilità sul mercato e neppure l’acquisto da parte di soggetti a loro volta fabbricanti di prodotti finanziari tossici. Come a dire: se si possono produrre e vendere uova marce, non è affatto escluso che anche altri contadini le comprino e le mangino. Di fronte a questo scenario il presidente degli Stati Uniti, oltre al campionario di tutti gli strumenti di cui si discute a livello internazionale 21, ha proposto una misura che di primo acchito sembrerebbe voler
Financial Soundness, aprile 2008, 59, consultabile alla pagina web www.imf. org/external/pubs/ft/gfsr/2008/01/index.htm. 21 La latitudine degli strumenti utilizzati negli USA è dimostrata quantitativamente dalle dimensioni della versione finale della legge di riforma, il DoddFrank Wall Street Reform And Consumer Protection Act: tale provvedimento
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riesumare il Glass-Steagall Act del 1933 messo in pensione dal GrammLeach-Bliley Act del 1999: ripristinare cioè la secca separazione tra l’attività bancaria e quella di mercato mobiliare 22. Per la verità, va subito precisato che non è esattamente così: alle banche, infatti, non verrebbe vietata tout court l’attività mobiliare, ma solo il c.d. proprietary trading (prop trading). La proposta parte da questa premessa: le banche commerciali sono assistite da una safety net (l’assicurazione sui depositi, l’intervento quale lender of last resort della Fed) che si giustifica con l’interesse pubblico (il servizio che le banche nella loro attività core prestano ai clienti). Non è però giustificato che chi si avvale di questa safety net a spese del contribuente, che significa tra l’altro potersi finanziare a un costo inferiore perché i finanziatori, contando sulla rete di protezione, richiedono tassi minori, svolga poi attività che “put taxpayer money at risk by operating hedge funds and private equity funds and making riskier investments to reap a quick reward” 23. A questa ragione di fondo si aggiunge poi che occorre evitare il sorgere di un conflitto di interessi in quanto “it is not appropriate for them [le banche
legislativo, approvato definitivamente dal Senato il 15 luglio 2010, consta di 2.319 pagine e di cinquecentotrentatre articoli (molti dei quali, a loro volta, richiedono una normativa secondaria da parte delle Autorità di settore). Solo esemplificativamente si può ricordare che la legge prevede il riassetto della vigilanza (con, tra l’altro, l’istituzione di una nuova agenzia di protezione dei consumatori, il Consumer Financial Protection Bureau, allocato presso la Federal Reserve e di un Financial Stability Oversight Council dedicato alla vigilanza sui rischi sistemici), l’aumento della qualità e quantità del capitale, la diminuzione della leva finanziaria, il potenziamento della liquidità degli intermediari, la riduzione dei rischi di controparte per i prodotti derivati favorendo i mercati regolamentati con controparte centrale, la riduzione della prociclità dei comportamenti e delle regole contabili, la previsione di meccanismi efficienti di resolution delle crisi, nuove regole di corporate governance (in particolare per quanto concerne la nomina degli amministratori e i compensi dei managers), un ulteriore inasprimento delle disposizioni sulle agenzie di rating, ecc. 22 Va ricordato che l’ipotesi di riesumare il Glass-Steagall Act ha trovato subito il secco contrasto di quasi tutti: Committee On Capital Markets Regulationthe Global Financial Crisis, A Plan for Regulatory Reform, maggio 2009, p. 191 ss.; Kregel, No going back: why we cannot restore Glass-Steagall’s segregation of banking and finance, Levy economics institute of Bard College, n. 107, 2010. 23 La citazione, come quelle che seguono nel paragrafo, è tratta dagli interventi di Barack Obama citati alla nota 5.
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che fruiscono della safety net] to turn around and use that cheap money to trade for profit. And that is especially true when this kind of trading often puts banks in direct conflict with their customers’ interests”. La conclusione è secca: “we cannot accept a system in which shareholders make money on these operations if the bank wins but taxpayers foot the bill if the bank loses” e da questa discende la c.d. “Volcker Rule” 24: “Banks will no longer be allowed to own, invest, or sponsor hedge funds, private equity funds, or proprietary trading operations for their own profit, unrelated to serving their customers”. Molte critiche sono state formulate nei confronti di questa proposta. Anzitutto se ne è rilevata la genericità, in particolare sul punto cruciale della definizione precisa di cosa sia il prop trading unrelated to serving their customers 25. E i casi, si è detto, sarebbero due: o si usa una narrow definition 26, e allora la regola servirebbe a poco in quanto resterebbe fuori quella forma di prestiti indiretti che sono rappresentati proprio dai titoli cartolarizzati in cui si annidano i maggiori rischi; oppure si usa una broad definition 27, ma allora nel divieto rientrerebbe, oltre alla securitization, anche l’attività di market making. Si correrebbe, pertanto, il rischio di precludere alle banche un’attività essenziale non solo per la realizzazione dei loro profitti, ma anche per l’ordinato funzionamento dei mercati finanziari e, in ultima analisi, vista la tradizionale attività in proprio delle banche sui titoli pubblici, per il finanziamento degli Stati
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Sulla quale v. l’intervento dello stesso Volcker del 2 febbraio 2010 avanti il Committee On Banking, Housing And Urban Affairs del Senato degli Stati Uniti nell’audizione sul tema “Prohibiting Certain High-Risk Investment Activities by Banks and Bank Holding Companies”. 25 Ma anche altri profili sono stati bollati come eccessivamente generici: per esempio cosa debba intendersi per sponsorship di un hedge fund. 26 “Too narrow a definition, limited to discrete internal hedge fund and private equity activity undertaken by banks for their own accounts, is unlikely to lead to material reduction of risk, since these activities account for only a small fraction of most banks’ operations” (Scott, intervento del 4 febbraio 2010 avanti il Committee On Banking, Housing And Urban Affairs del Senato degli Stati Uniti nell’audizione sul tema “Implications of the ‘Volcker Rules’ for Financial Stability”). 27 “Defining proprietary trading too broadly, meanwhile, might seriously impair the basic function of modern banks as market-makers in government and nongovernment securities, and as securitizers of consumer debt” (Scott, ibidem).
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sovrani 28. D’altro canto, la stessa attività di cartolarizzazione è anch’essa, al netto di distorsioni, importante: lo stesso presidente Obama ha detto che deve essere rinvigorita perché è essenziale per l’efficiente funzionamento del mercato creditizio. E, in altra prospettiva, ci si può chiedere come si concilierebbe il limite con la percentuale di titoli cartolarizzati che, secondo tutti progetti, in futuro la banca cartolarizzatrice dovrebbe mantenere in portafoglio per continuare ad avere “skin in the game” 29. Su quest’ultimo aspetto può replicarsi che un conto è il divieto di trading sui titoli derivanti dalla cartolarizzazione dei mutui, altro è l’obbligo per l’originator di mantenere una quota significativa di interesse nell’andamento dei crediti cartolarizzati. Resta, tuttavia, il problema di fondo della definizione di prop trading per far sì che il divieto sia, insieme, efficace, ma non tale da precludere alle banche attività utili per l’interesse generale. Certamente condivisibile è, invece, l’osservazione che, in realtà, il prop trading (se si eccettuano i titoli da cartolarizzazione dei mutui) non è stato all’origine della crisi. Le perdite della crisi sono dovute per il 34% all’attività creditizia immobiliare diretta (577 miliardi di dollari), per il 20% ad altra attività creditizia (338 miliardi di dollari), per il 31% all’attività creditizia immobiliare indiretta, cioè alle cartolarizzazioni dei mutui (519 miliardi di dollari) 30. Tuttavia, anche se per la
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Ferguson, Ascesa e declino del denaro, Mondadori, Milano, 2009. Del resto, neppure il Glass-Steagall Act precludeva questa tipologia di attività. 29 Al riguardo oggi v. la section 941 del Dodd-Franck Act secondo cui “Not later than 270 days after the date of enactment of this section, the Federal banking agencies and the Commission shall jointly prescribe regulations to require any securitizer to retain an economic interest in a portion of the credit risk for any asset that the securitizer, through the issuance of an asset-backed security, transfers, sells, or conveys to a third party”. Nello stesso senso, al fine di allineare l’interesse del securitizer con quello degli acquirenti, sono anche le proposte del Financial Stability Board. A livello europeo si può ricordare l’obbligo di mantenere un interesse economico netto non inferiore al cinque per cento di ogni tranche previsto nella Direttiva 2009/111/CE del 16 settembre 2009 che modifica le direttive 2006/48/CE, 2006/49/CE e 2007/64/CE per quanto riguarda gli enti creditizi collegati a organismi centrali, taluni elementi dei fondi propri, i grandi fidi, i meccanismi di vigilanza e la gestione delle crisi (v., in particolare, l’art. 1 che modifica la direttiva 2006/48/CE, tra l’altro introducendo una nuova sezione 7 “Esposizioni sul rischio di credito trasferito”). 30 Scott, ibidem.
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crisi cominciata nel 2007 il prop trading in senso stretto non è stato la causa principale 31 (così come, del resto, non lo sono stati neppure gli strumenti finanziari derivati e gli hedge funds), non sembra che ciò rappresenti un motivo decisivo per non intervenire. L’intrinseca pericolosità di tale attività, le perverse connessioni con l’attività bancaria in senso stretto, la moltiplicazione dei conflitti di interesse (giustamente sottolineata sia dal presidente Obama sia da Volcker nella sua audizione al Senato) sono tutti motivi che giustificano un intervento per ridurre il rischio di una nuova crisi e assicurare il miglior funzionamento del mercato. Tre in definitiva sembrano le giustificazioni idonee a sorreggere un divieto di prop trading unrelated to serving their customers. La prima è il problema del conflitto di interessi. Se la banca stessa opera in proprio, inevitabilmente entra in conflitto con i suoi clienti per i quali presta il servizio di intermediazione sui medesimi titoli. Non è che uno dei molteplici conflitti di interesse che caratterizzano l’attività mobiliare della banca 32, ma la Volcker Rule può essere un buon inizio per smentire la litania che nell’attività finanziaria i conflitti di interesse non possono essere eliminati, ma solo gestiti. È banale osservare che la tesi della c.d. ineliminabilità dei conflitti è solo un’argomentazione politica che sta a valle della scelta c.d. efficientistica di consentire alle banche una pluralità di attività; ed è altrettanto banale ricordare che la supposta maggiore efficienza di tale scelta dovrebbe essere accompagnata dall’individuazione degli interessi che da essa traggono vantaggio: che siano quelli dei risparmiatori è lecito dubitare. La seconda è il problema della concorrenza e delle pari opportunità. Consentire a chi si avvale della safety net di svolgere attività unrelated to serving their customers introduce una distorsione nel meccanismo competitivo tra operatori. Ci si può chiedere se sia corretto affrontarlo solo dal punto di vista dell’attivo; ma la proposta di Obama, come si ricordava all’inizio, riguarda anche il passivo delle banche.
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E, più in particolare, non lo è stato quello svolto dalle banche commerciali che raccolgono depositi giacché le istituzioni maggiormente colpite sono state le investment banks. 32 In termini generali, si rinvia a Presti e Rescigno, Il conflitto di interessi nella prestazione dei servizi di investimento: diagnosi e terapie, in Banche, servizi di investimento e conflitti di interesse, a cura di Anolli, Banfi, Presti, Rescigno, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 11 ss.
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La terza, infine, è il noto problema del too big to fail. Precludere alle banche l’attività di prop trading significa, infatti, porre un argine al loro gigantismo e, quindi, limitare l’azzardo morale legato al raggiungimento di dimensioni che rendono improponibile il fallimento. Alcuni dati empirici sono impressionanti 33; e si può seriamente dubitare che le motivazioni usualmente addotte per consentire il perseguimento di sempre maggiori dimensioni (necessità di grandi banche per grandi clienti, protezione degli operatori nazionali rispetto a quelli esteri, economie di scala e di scopo, assicurare liquidità ai mercati) siano davvero adeguate e, comunque, tali da superare l’inconveniente dell’impossibilità di fatto di essere assoggettate a fallimento (con la conseguenza dell’intervento pubblico, a spese dei contribuenti, per il salvataggio delle macro-imprese in difficoltà). D’altra parte, non può nascondersi che ancora più importante di quella delle dimensioni è la questione dell’interconnessione, cioè del chain-reaction risk che prescinde dalle dimensioni e anche dalla natura sussidiata del passivo. Ci si deve allora chiedere se sia corretto limitare la preclusione dell’attività di rischio in proprio alle sole banche, cioè a soggetti comunque vigilati, e non estenderla anche al c.d. sistema bancario ombra. Quest’ultima osservazione porta a ricordare l’osservazione secondo cui vietare il prop trading alle banche comporterebbe il pericolo che per potere esercitare quell’attività alcuni intermediari avviino un processo di de-banking per cui alla fine ci si troverebbe sì senza la commistione tra “passivo garantito” e attività di rischio unrelated to serving the customers, ma anche con l’inopportuna concentrazione di una tipologia di attività particolarmente rischiosa svolta da soggetti meno
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Vedi Johnson, intervento del 4 febbraio 2010 avanti il Committee On Banking, Housing And Urban Affairs del Senato degli Stati Uniti nell’audizione sul tema “Implications of the ‘Volcker Rules’ for Financial Stability”: le sei maggiori banche USA avevano attivi di bilancio pari al 17% del PIL nel 1995, al 55% nel 2006, al 63% nel 2009. Altrove la situazione è ancora peggiore: RBS aveva un attivo di bilancio pari al 125% del PIL del Regno Unito; le sei maggiori banche britanniche arrivavano al triplo del PIL; tutte insieme al sestuplo. In Islanda l’attivo complessivo delle banche arrivava a un importo oscillante tra 11 a 13 volte il PIL. In Svizzera le due maggiori avevano un attivo pari a otto volte il PIL. Negli USA, infine, le maggiori tre banche hanno il 40% del mercato dell’underwriting; le quattro maggiori il 50% di quello dei mutui e il 67% di quello delle carte di credito; le cinque maggiori controllano il 95% del mercato dei derivati OTC.
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vigilati 34. Ne risulta l’opportunità che le regole sul prop trading non vengano limitate alle sole banche, ma – benché con regole non necessariamente eguali – siano estese anche ad altre istituzioni finanziarie. Per quanto gli Stati Uniti siano tuttora il maggior mercato finanziario mondiale, è evidente infine che un intervento unilaterale che non sia accompagnato dal consenso internazionale presenterebbe il grave rischio di stimolare arbitraggi normativi e, in conclusione, di aumentare l’entropia del sistema finanziario mondiale. Le proposte del presidente americano sono state accolte con favore da importanti esponenti del Regno Unito (in primis dal Governatore della Bank of England citato in apertura), dalla Banca centrale europea e dal Financial Stability Board. Meno favorevoli sono state le reazioni del comitato di Basilea, della Germania e della Francia. Il Presidente francese, intervenendo il 27 gennaio 2010 al World Economic Forum Annual Meeting di Davos-Klosters ha senza reticenze dichiarato: “Je suis d’accord avec le Président Obama quand il juge nécessaire de dissuader les banques de spéculer pour elles-mêmes ou de financer des fonds spéculatifs. Mais ce débat ne peut pas être tranché par un seul pays quel que soit son poids dans la finance mondiale. Ce débat, c’est au sein du G20 qu’il doit être tranché” 35. S’intrecciano, quindi, temi politici e temi tecnici. Da un lato, la costruzione del nuovo ordine finanziario mondiale non può essere frutto di una scelta unilaterale americana. Dall’altro, è ancora aperto il tema se sia preferibile vietare determinate forme di attività alle banche oppure continuare a consentirle, solo rendendole più onerose tramite l’internalizzazione dei rischi prospettici in costi attuali per gli operatori: che è poi l’opzione sulla quale si sta muovendo il comitato di Basilea 36. [Nelle more tra lo svolgimento dell’incontro in cui questo contributo è stato presentato e la pubblicazione la proposta di Obama, come già si è accennato, è divenuta legge. Non è certo questa la sede per presentare il Dodd-Frank Wall Street Reform And Consumer Protection
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Scott, op. loc. cit. Il discorso può essere letto nella sua versione integrale sul sito www.voltairenet.org. 36 Cfr. Onado, op. cit. Va ricordato che il tema del prop trading è uno di quelli per i quali, allo stato, vi è maggiore scollamento tra l’impostazione europea e quella statunitense. 35
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Act, complesso atto normativo che si estende per 2.319 pagine, consta di cinquecentotrentatre articoli (molti dei quali, a loro volta, richiedono una normativa secondaria da parte delle Autorità di settore) e tocca una molteplicità di argomenti (v. supra, nota 21). Mi limito, pertanto, a riassumere cosa è stato previsto per il prop trading che, come raccontato anche dalle cronache 37, è stato fino all’ultimo uno degli argomenti più discussi e controversi e per il quale alla fine, anche allo scopo di ottenere il voto decisivo di alcuni senatori repubblicani, si è realizzato un articolato compromesso tra fautori e detrattori; compromesso che pare abbia lascia insoddisfatto lo stesso Paul Volcker da cui la neo introdotta regola, nonostante il suo lamentato annacquamento 38, prende il nome. Premesso che il Dodd-Frank Wall Street Reform And Consumer Protection Act risulta dalla sintesi tra il testo approvato dal Congresso degli Stati Uniti il 2 dicembre 2009 (H.4173 The Wall Street Reform and Consumer Protection Act of 2009) e quello approvato il 20 maggio 2010 dal Senato (S.32117 The Restoring American Financial Stability of 2010), la materia che qui interessa è regolata dalla section 619 che ha introdotto una nuova section 13 “Prohbitions On Proprietary Trading And Certain Relationsidps With Hedge Funds And Private Equity Funds” del Bank Holding Company Act of 1956. L’inizio della norma è assai perentorio: secondo il paragrafo (a): “Unless otherwise provided in this section, a banking entity 39 shall not (A) engage in proprietary trading 40; or (B) acquire or retain any equity, partnership,
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Per tutti v.: Not all on the same page, in The Economist del 3 luglio 2010; Bang or whimper, in The Economist del 26 giugno 2010. 38 Per la verità, il giudizio non sembra poter essere così univoco giacché per alcuni versi la norma è particolarmente severa. Vero è però che vi sono punti deboli per le possibili eccezioni rimesse alle Autorità di settore, per i lunghi tempi di adeguamento, per i c.d. investimenti de minimis consentiti. 39 Secondo il paragrafo (h)(1) “The term ‘banking entity’ means any insured depository institution (as defined in section 3 of the Federal Deposit Insurance Act (12 U.S.C. 1813)), any company that controls an insured depository institution, or that is treated as a bank holding company for purposes of section 8 of the International Banking Act of 1978, and any affiliate or subsidiary of any such entity”. La nozione è, quindi, assai ampia e si estende alle subsidiaries. 40 Secondo il paragrafo (h)(4): “The term ‘proprietary trading’, when used with respect to a banking entity or nonbank financial company supervised by the Board, means engaging as a principal for the trading account of the banking entity or nonbank financial company supervised by the Board in any trans-
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or other ownership interest in or sponsor 41 a hedge fund or a private equity fund”. Le nonbank financial companies supervised by the Board 42 sono, invece, soggette (come sarà stabilito dalla normativa secondaria) a requisiti di capitale addizionali e a ulteriori limiti quantitativi. Il dettaglio preciso dell’estensione del divieto è lasciato, tuttavia, alla normativa secondaria. Il paragrafo (b), infatti, prevede che: “Not later than 6 months after the date of enactment of this section, the Financial Stability Oversight Council shall study and make recommendations on implementing the provisions of this section”. Solo dopo questa attività di studio, e più precisamente “not later than 9 months after the completion of the study … the appropriate Federal banking agencies, the Securities and Exchange Commission, and the Commodity Futures Trading Commission, shall consider the findings of the study … and adopt rules to carry out this section”. L’entrata in vigore della nuova normativa è differita ed è, in prima battuta, legata all’emanazione della normativa secondaria. Essa avrà effetto “on the earlier of (A) 12 months after the date of the issuance of final rules under subsection (b); or (B) 2 years after the date of enactment of this section”. Conseguentemente, il termine di adeguamento delle banche e delle nonbank financial company supervised by the Board è, in linea generale (e salva l’ipotesi di possibili deroghe), fissata in “not later than 2 years after the date on which the requirements become effective”. La regola, insomma, c’è, ma i tempi della sua applicazione pratica sono particolarmente diluiti nel tempo.
action to purchase or sell, or otherwise acquire or dispose of, any security, any derivative, any contract of sale of a commodity for future delivery, any option on any such security, derivative, or contract, or any other security or financial instrument that Commission, and the Commodity Futures Trading Commission may, by rule as provided in subsection (b)(2), determine”. 41 Secondo il paragrafo (h)(5): “The term to ‘sponsor’ a fund means (A) to serve as a general partner, managing member, or trustee of a fund; (B) in any manner to select or to control (or to have employees, officers, or directors, or agents who constitute) a majority of the directors, trustees, or management of a fund; or (C) to share with a fund, for corporate, marketing, promotional, or other purposes, the same name or a variation of the same name”. Anche qui la nozione utilizzata pare alquanto estesa. 42 Secondo il paragrafo (h)(3): “The term ‘nonbank financial company supervised by the Board’ means a nonbank financial company supervised by the Board of Governors, as defined in section 102 of the Financial Stability Act of 2010”.
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Fin d’ora, tuttavia, la legge elenca una serie di attività permesse e di attività vietate (e, si tratta, quindi, dei confini entro i quali potrà muoversi la normativa secondaria). Le attività permesse secondo il paragrafo (d) sono: (A) il trading di titoli di Stato e di titoli a questi assimilati; (B) il trading di securities “in connection with underwriting or market-making-related activities, to the extent that any such activities permitted by this subparagraph are designed not to exceed the reasonably expected near term demands of clients, customers, or counterparties”; (C) le attività di copertura di rischi; (D) il trading svolto “on behalf of customers”; (E) gli investimenti in “small business investment companies”; (F) il trading effettuato da una “regulated insurance company directly engaged in the business of insurance for the general account of the company and by any affiliate of such regulated insurance company, provided that such activities by any affiliate are solely for the general account of the regulated insurance company”, purché ricorrano determinate condizioni indicate in dettaglio; G) a determinate condizioni l’attività di “organizing and offering a private equity or hedge fund, including serving as a general partner, managing member, or trustee of the fund and in any manner selecting or controlling (or having employees, officers, directors, or agents who constitute) a majority of the directors, trustees, or management of the fund, including any necessary expenses for the foregoing”; (H) il proprietary trading svolto “solely outside of the United States” da una banking entity che non sia direttamente o indirettamente controllata da una banca americana; (I) l’acquisizione o la titolarità “of any equity, partnership, or other ownership interest in, or the sponsorship of, a hedge fund or a private equity fund” svolta “solely outside of the United States” da una banking entity che non sia direttamente o indirettamente controllata da una banca americana e a condizione che “no ownership interest in such hedge fund or private equity fund is offered for sale or sold to a resident of the United States”; ( J) infine, ed è una clausola finale di enorme importanza “such other activity as the appropriate Federal banking agencies, the Securities and Exchange Commission, and the Commodity Futures Trading Commission determine, by rule, as provided in subsection (b)(2), would promote and protect the safety and soundness of the banking entity and the financial stability of the United States”.
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Tutte queste attività sono, o possono essere, permesse solo a condizione che non si realizzi uno di questi eventi: “(i) would involve or result in a material conflict of interest … between the banking entity and its clients, customers, or counterparties; (ii) would result, directly or indirectly, in a material exposure by the banking entity to high-risk assets or high-risk trading strategies (as such terms shall be defined by rule as provided in subsection (b)(2); (iii) would pose a threat to the safety and soundness of such banking entity; or (iv) would pose a threat to the financial stability of the United States”. Anche qui le regole di dettaglio sono delegate alle Autorità di settore. Infine, e senza la clausola di salvaguardia appena riportata, è anche permesso che una “banking entity may make and retain an investment in a hedge fund or private equity fund that the banking entity organizes and offers, … for the purposes of (i) establishing the fund and providing the fund with sufficient initial equity for investment to permit the fund to attract unaffiliated investors; or (ii) making a de minimis investment”. L’attività (i) è soggetta alla condizione che “(i) A banking entity shall actively seek unaffiliated investors to reduce or dilute the investment of the banking entity to the amount permitted under clause (ii)”; quella sub (ii) alla condizione che “(ii) Notwithstanding any other provision of law, investments by a banking entity in a hedge fund or private equity fund shall (I) not later than 1 year after the date of establishment of the fund, be reduced through redemption, sale, or dilution to an amount that is not more than 3 percent of the total ownership interests of the fund; (II) be immaterial to the banking entity, as defined, by rule, pursuant to subsection (b)(2), but in no case may the aggregate of all of the interests of the banking entity in all such funds exceed 3 percent of the Tier 1 capital of the banking entity”. In ogni caso ”the aggregate amount of the outstanding investments by a banking entity under this paragraph, including retained earnings, shall be deducted from the assets and tangible equity of the banking entity, and the amount of the deduction shall increase commensurate with the leverage of the hedge fund or private equity fund”. Infine, il paragrafo (g)(2) prevede che “Nothing in this section shall be construed to limit or restrict the ability of a banking entity or nonbank financial company supervised by the Board to sell or securitize loans in a manner otherwise permitted by law”. In conclusione, se è vero che la Volcker Rule è stata introdotta nell’ordinamento statunitense ed è uno dei punti qualificanti della nuova legislazione, è anche vero che i tempi di attuazione sono particolarmente lunghi e che, nel frattempo, la regola dovrà essere meglio dettagliata dalle Autorità di settore le quali hanno ampi margini per la sua sintonia
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fine. Restano, quindi, le preoccupazioni che essa, a seconda dell’esito finale della normativa secondaria, possa rivelarsi over-inclusive qualora prevalga un orientamento punitivo o, al contrario, under-inclusive qualora, come sembra più probabile, le lobbies interessate riescano a ottenere un trattamento di riguardo dalle Autorità].
Matteo Mattei Gentili La qualità e quantità degli investimenti bancari determinano l’entità dei rischi che l’istituto si assume. La stabilità di un’azienda di credito, a passivo costante, dipende dalla composizione dell’attivo, per conseguenza l’attenzione dei regolatori è principalmente focalizzata su questo aspetto. Con una sovrasemplificazione potremmo affermare che il principio di fondo delle statuizioni di Basilea è quello di pesare il livello di rischi generato dall’attivo ed assicurarsi che sia efficacemente bilanciato da un adeguato volume di mezzi propri. La stabilità aziendale nella logica regolamentare in questione riposa sull’equilibrio fra rischi e patrimonio. L’architettura complessiva che ne deriva si caratterizza quindi per un’elevata flessibilità, posto che, in linea teorica, gli intermediari possono sempre optare fra una riduzione dei rischi e un incremento del capitale. Un diverso approccio al problema del controllo sulla stabilità è quello fondato su divieti e obblighi. In questo modello il sistema di regole mira a ottenere la stabilità degli intermediari vietando le categorie di investimenti a maggior contenuto di rischio. Gran parte delle regolamentazioni approntate dopo la crisi del millenovecentoventinove si articolavano secondo questa logica, che presenta una maggiore rigidità. È naturale che la recente crisi finanziaria abbia indotto a una riflessione sull’opportunità di ritornare a questo modello di controllo, che alcuni ritengono maggiormente capace di tutelare la stabilità del sistema. È necessario avere sempre presente che ogni attività economica origina dei circuiti monetari che generano fisiologicamente rischi di varia natura (operativi, di controparte, di prezzo, di liquidità…). Questi non possono essere cancellati, se non sopprimendo l’attività che li genera. Se non s’intende seguire questa via, che evidentemente determina il contenimento dell’economia, è necessario prendere atto dalla loro esistenza e interrogarsi su come possono essere allocati nel modo migliore per la collettività. Questo significa che, in linea generale, dobbiamo valutare quale fra i macro operatori del sistema: famiglie, imprese, amministrazione pubblica e istituzioni finanziarie, sia più adatto ad acquisirli, quindi a selezionarli, monitorarli e gestirli.
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È mia opinione che la soluzione più razionale per la stabilità complessiva del sistema sia quella oggi vigente, che prevede l’accollo di gran parte dei rischi all’industria finanziaria, in particolare a banche e assicurazioni, con l’amministrazione pubblica nel ruolo di controllore e garante di ultima istanza. Pare lecito dubitare che famiglie e imprese abbiano il desiderio e la capacità di farsi carico di un maggior onere in termine di rischi. La stragrande maggioranza delle famiglie non possiede le competenze e i mezzi finanziari necessari. Le imprese sono impegnate a fronteggiare i rischi tipici dell’attività produttiva. La pubblica amministrazione non ha mai dimostrato particolare efficacia in materia e sembra quindi poco opportuno che possa svolgere un ruolo più diretto. In sostanza, divieti all’assunzione di rischi da parte dell’industria finanziaria determinano o riduzione di attività economiche o trasferimento di rischi a famiglie e imprese e pubblica amministrazione o una combinazione di questi eventi. In Italia, come in altri paesi, esiste una lunga esperienza di funzionamento di sistemi di controllo fondati su divieti. La stabilità del sistema, vigente la legge bancaria del ’36, è stata assicurata, in larga misura, precludendo alle aziende di credito la possibilità di assumere taluni rischi, ma al prezzo di un contenimento delle attività. Questo modello ha determinato soprattutto una forte limitazione dei finanziamenti a media e lunga scadenza e di quelli a titolo di capitale, con le inevitabili conseguenze sugli investimenti, sull’attività delle imprese ed in definitiva sull’intera economia. È evidente che ogni regolamentazione deve trovare un punto di equilibrio fra gli obiettivi di stabilità e quelli di efficienza e di efficacia dell’industria finanziaria chiamata a fornire risposte alle richieste dei datori e dei prenditori di fondi ed ad accollarsi i rischi che ne derivano. Gli accadimenti hanno dimostrato i limiti del modello regolamentare vigente, anche prescindendo dalla circostanza che, al manifestarsi della crisi in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, esso non fosse ancora completamente applicato. Questo non significa che sia necessaria la sua sostituzione e il ritorno ad un sistema fondato su divieti. Per quanto è possibile conoscere sui lavori in corso, è lecito immaginare una prossima “Basilea 3” che si caratterizzi come uno sviluppo del modello in essere e faccia tesoro dell’esperienza per definire una più appropriata ponderazione dei rischi generati dagli investimenti delle banche e della quantità e qualità di capitali necessari per fronteggiarli. Allo stesso modo si sta riconsiderando la regolamentazione del patrimonio di vigilanza per orientarla verso configurazioni più restrittive, o semplicemente più ortodosse. Nel senso di considerare capitale solo gli elementi patrimoniali che effettivamente sono in grado di assorbire le perdite.
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La regolamentazione attuale presenta, purtroppo, anche gravi carenze sotto il profilo logico che gli eventi hanno reso palesi. Il principio di parametrare il capitale ai rischi è valido solo per una categoria di rischi, quelli economici, la cui manifestazione determina un impatto negativo sulla redditività che, in ultima analisi, deve essere adeguatamente assorbito dal patrimonio. I mezzi propri sono una grandezza appropriata per fronteggiare questa tipologia di rischi, non lo sono invece in misura significativa per affrontare quelli finanziari. Gli squilibri fra i flussi in entrata e in uscita derivano dal livello di trasformazione delle scadenze attuato dagli intermediari e possono essere contenuti solo limitandone la misura e imponendo loro il mantenimento di appropriate riserve di liquidità. Il complesso regolamentare di Basilea 2, ignorando i rischi finanziari ha esposto il sistema a condizioni di forte vulnerabilità da crisi di liquidità. La vicenda Northern Rock, istituto specializzato nell’erogazione di mutui ipotecari a lunga scadenza utilizzando una significativa percentuale di raccolta a breve termine, rappresenta un caso evidente di instabilità da squilibrio finanziario e costituisce un esemplare oggetto di riflessione su questo tema. È lecito sperare in interventi di regolamentazione che limitino il rischio di squilibri finanziari e che impongano riserve di liquidità parametrate alla dinamica dei flussi in entrata e in uscita delle singole banche, non alla consistenza della passività, poiché la stabilità della raccolta non dipende che parzialmente dalle caratteristiche degli strumenti finanziari utilizzati. Un’ulteriore lacuna della regolamentazione in essere è relativa a quelle prassi che vengono identificate con il modello operativo dell’originate to distribute. Questo si realizza attraverso la cartolarizzazione e la cessione di quote dell’attivo, con il duplice scopo di ottenere, sia un flusso di fondi, sia il trasferimento agli acquirenti dei titoli dei relativi rischi, di credito e di prezzo. Mentre l’afflusso di mezzi appare del tutto funzionale all’efficacia complessiva del sistema, poiché agevola il mantenimento dell’equilibrio finanziario dell’intermediario, il trasferimento dei rischi presenta importanti controindicazioni. La cessione di questi titoli ad acquirenti spesso non in grado di valutarli correttamente provoca due effetti parimenti negativi: -. favorisce la distribuzione di rischi oltre il perimetro dell’industria finanziaria, anche a controparti abituate a ritenere le aziende di credito degli interlocutori deputati a fornire ai clienti “sicurezze” anche sul piano psicologico. Ne consegue, a prescindere dalle asimmetrie di competenza, una capacità valutativa degli acquirenti assai limitata; -.determina nell’istituto originatore un atteggiamento inevitabilmente più superficiale nella stima dei rischi, per la consapevolezza che me-
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diante il processo di cartolarizzazione saranno trasferiti in capo ad altri. Inoltre, anche quando la valutazione venisse approfondita nel modo più scrupoloso, la cessione a terzi fa venir meno l’interesse per la banca originante di porre in essere il monitoraggio ex post sul credito, o lo rende addirittura impraticabile; questa attività, come è noto costituisce una fase essenziale del processo del credito e normalmente consente il contenimento delle insolvenze in misura non trascurabile. La revisione della regolamentazione potrebbe limitare gli effetti indesiderabili delle cartolarizzazioni stabilendo che il rischio di credito debba restare in tutto o in parte significativa in capo all’istituto originatore. È evidente che, nei casi di livelli di cartolarizzazione successivi al primo, aumentano ulteriormente le asimmetrie informative e quindi i rischi per i sottoscrittori dei titoli che ne risultano. Tale circostanza richiede una riflessione particolarmente attenta da parte di acquirenti e regolatori. Un’altra eccezione ragionevole alla logica del modello Basilea potrebbe essere individuata nel divieto di operazioni particolarmente aleatorie quali le partecipazioni al capitale degli hedge funds, di società di private equity, o altri investimenti paragonabili. In ogni caso, il limite più efficace all’assunzione di rischi resta l’obbligo di contenere la leva finanziaria complessiva, entro un rapporto massimo fra il totale dell’attivo e i mezzi propri. L’assenza di questo tipo di vincolo ha certamente creato condizioni particolarmente favorevoli alla dilatazione degli attivi e quindi all’instabilità del sistema. Peraltro, questo tema pare essere ben presente a coloro che stanno operando sulla revisione delle regole e sembra esistere un generale consenso sull’opportunità di fissare un leverage ratio. È stata anche autorevolmente proposta una sorta di ritorno al passato, con la separazione fra banche di investimento e banche commerciali e la tradizionale delimitazione dei rispettivi ambiti operativi. L’obiettivo dichiarato è quello di contenere drasticamente il perimetro degli investimenti delle banche commerciali e quindi le loro probabilità di dissesto. Questo modello ha una base di razionalità, poiché di fatto determina una riduzione della trasformazione delle scadenze e quindi dei rischi di instabilità che ne derivano. Peraltro, i sostenitori della proposta sostengono che adottando questo modello le autorità potrebbero anche limitare gli eventuali interventi di salvataggio alle sole banche commerciali, le uniche coinvolte nel sistema dei pagamenti. Esse non sarebbero invece obbligate ad assicurare la solvibilità delle banche di investimento, in quanto esterne al circuito monetario. Queste considerazioni, che potrebbero apparire ragionevoli per le esperienze del passato, si fondano sull’ipotesi che sia possibile la creazione di compartimenti sta-
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gni nell’ambito dell’industria finanziaria, ignorando la molteplicità delle interrelazioni che da tempo collegano le sue diverse componenti. Inoltre, sembra trascurare il peso della componente emotiva del mercato, assolutamente determinante nelle scelte degli operatori, anche in quelli professionali. È il comportamento dei clienti, e più in generale delle controparti, che determina il dissesto o la sopravvivenza di un intermediario. È difficile immaginare che, nelle circostanze attuali, l’insolvenza di una banca d’investimento non determini situazioni di panico e quindi meccanismi di contagio solo perché non raccoglie depositi monetari. La stabilità dell’industria finanziaria, quindi la sua capacità di trasformare i rischi di credito e quelli legati alla trasformazione delle scadenze, riposa in primo luogo sulla fiducia del pubblico. Per questo è necessario che le aziende di credito assolvano sempre, e in via continuativa, ai propri impegni nei confronti della clientela, confermando in questo modo la loro solvibilità. Taluni, condizionati dal comprensibile timore che crisi sistemiche comportino onerosi salvataggi a carico del pubblico erario, mostrano preoccupazione per le dimensioni dei maggiori istituti, nella convinzione che anche all’industria finanziaria si applichi la regola del too big to fail. Questa credenza, pur diffusa, mostra scarsa conoscenza della peculiarità del settore, e in particolare degli equilibri gestionali delle aziende di credito. Ribaltando il noto assunto, potremmo affermare che nessuna banca è abbastanza piccola per fallire, se con questo termine s’intende il mancato adempimento degli obblighi verso i clienti. Questo evento smentirebbe l’assioma per cui la banca presenta un rischio controparte sostanzialmente nullo e proprio per tale ragione costituisce un prezioso elemento di certezza per tutti gli operatori. La sicurezza che l’intermediario offre al mercato costituisce la sua principale ragion d’essere e il suo maggior contributo al funzionamento del sistema economico. Per tale motivo la banca è l’interlocutore privilegiato nelle transazioni monetarie e per questo percepisce compensi. Il venir meno di questa convinzione porterebbe ad un ostacolo alle transazioni, ad una diffusa percezione di incertezza e quindi ad un incremento dei premi per il rischio, con un innalzamento complessivo del sistema dei tassi. Il luogo comune del too big to fail è completamente inappropriato, se applicato all’industria finanziaria. Per ragioni a tutti note, la stabilità del settore costituisce un bene collettivo indispensabile al funzionamento dell’economia. Questa dipende prevalentemente dai comportamenti del pubblico, che sono condizionati dagli aspetti emotivi, e quindi dai convincimenti maturati in base all’esperienza storica.
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Il meccanismo del contagio viene sterilizzato solo attraverso interventi che evitano che le crisi determinino perdite o anche solo significativi disagi alla clientela e interruzioni nel circuito dei pagamenti e pertanto consolidino nel pubblico la certezza circa l’affidabilità delle banche. I rischi di moral hazard da parte delle aziende di credito, legati alla convinzione di essere al riparo da rischi di fallimento, possono essere efficacemente affrontati sanzionando con severità azionisti e management. Non è necessario, ma solo dannoso, estendere le sanzioni ai creditori. In astratto, si potrebbe ritenere che anche questi ultimi debbano farsi parte diligente selezionando le banche più solvibili. In concreto, è assai improbabile che il pubblico sia in grado di esprimere una qualche valutazione in merito all’affidabilità di un’azienda di credito, posto che le caratteristiche dell’attività bancaria rendono tale compito spesso assai arduo anche per le società di rating e gli operatori professionali. L’esperienza del nostro Paese dimostra come le autorità di vigilanza possano affrontare efficacemente le crisi evitando fenomeni di contagio e mantenendo indenni i creditori. Anche in casi di dissesti gravi e di ampia notorietà, non si sono create situazioni di panico grazie a interventi che hanno consentito il regolare adempimento dei contratti in essere. Tutto questo ha comportato un impegno per l’erario limitato, e comunque molto inferiore a quello che sarebbe derivato da un dissesto non gestito. Regolamentare gli investimenti delle banche significa definire quantitativamente e qualitativamente i rischi che esse possono assumersi. La materia non è semplice poiché si tratta di ricercare un punto di equilibrio fra obiettivi di stabilità e di efficienza del sistema finanziario. Una scelta di tipo restrittivo riduce le probabilità di dissesti, ma determina una contrazione delle attività che generano questi rischi o il loro accollo a famiglie, imprese e pubblica amministrazione. Se si considera la complessità delle decisioni e la necessità che le nuove regole siano condivise da molti paesi con situazioni e interessi diversi, divengono comprensibili i lunghi tempi di gestazione dei provvedimenti in materia. In conclusione le difficili vicende del recente passato ci ricordano che le crisi bancarie devono essere gestite con rapidità e attraverso modalità che non determinino danni alle controparti, pena una rapida diffusione del contagio. Esse, comunque, possono essere prevenute con un’adeguata regolamentazione delle attività e quindi dei rischi che le aziende di credito possono assumersi. Lo stress test della crisi finanziaria ha dimostrato che la regolamentazione attuale è incompleta e inadeguata. Le maggiori carenze appaiono quelle legate ai rischi di liquidità, alle carto-
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larizzazioni e alla assenza di limiti di indebitamento. È inoltre certamente necessario un processo analitico di revisione critica che conduca ad un adeguamento nelle ponderazioni di rischio delle diverse tipologie di attività e delle regole di composizione del patrimonio di vigilanza. Occorre avere sempre ben presente che la principale funzione dell’industria finanziaria è quella di accollarsi dei rischi, e quindi che gli obiettivi di stabilità vanno contemperati con quelli di sostegno dell’economia. Le varie proposte di revisione regolamentare dovranno quindi essere sottoposte ad un’analisi d’impatto per valutarne gli effetti quantitativi e calibrare di conseguenza i diversi provvedimenti.
Banche e rischio di credito Giuseppe Carriero L’argomento oggetto di questa relazione sconta, come del resto l’insieme delle tematiche nella quali s’articola la giornata di studio, la necessaria sua inerenza al più vasto contesto della crisi finanziaria (poi anche economica e sociale) che ha origine, senza alcuna contestuale consapevolezza in ordine alle sue dirompenti conseguenze 1, nell’estate del 2007 con l’insolvenza dell’American Home Mortgage e deflagra irrimediabilmente nel settembre del 2008 con l’ammissione di Lehman Brothers alle procedure concorsuali previste dal Bankruptcy Code degli Stati Uniti d’America. Sotto l’indicato versante ho in altra sede già osservato che, per quanto forse abusato, il sostantivo che meglio esprime essenza e dimensione del fenomeno rimane quello di “fallimento” 2. Del mercato finanziario quanto ad autopoiesi, efficienza e “distruzione creativa”; dei protagonisti (banche e istituzioni finanziarie), incapaci di valutare i propri rischi e perciò di adempiere al relativo statuto imprenditoriale, teso proprio al monitoraggio
1
Sulle c.d. “previsioni fallite” degli economisti e sullo stupore della regina Elisabetta nella nota visita alla London School of Economics (“Why did nobody notice it?”), v., per tutti, Petrini, Processo agli economisti, Milano, 2009. Il punto di vista della Banca d’Italia è espresso da Draghi, Gli economisti e la crisi, Intervento alla 50 riunione della Società italiana degli economisti, Roma, 22 ottobre 2009. 2 Rinvio al mio La crisi dei mercati finanziari: disorganici appunti di un giurista, in Dir. banc., 2009, p. 197 ss.
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del merito di credito; dei regolatori – dotati di poteri vastissimi – manifestamente impreparati a prevedere le conseguenze sottese alla c.d. finanza innovativa. Soprattutto, per quello che in questa sede rileva in punto di disciplina del rischio creditizio, delle regole, numerose e pervasive sul piano quantitativo quanto facilmente aggirabili su quello strutturale e dell’enforcement, non in grado di prevenire o limitare comportamenti anomali e devianti 3. Regole peraltro plurali quanto alle relative fonti, visto il cumulativo, spesso disorganico concorso del diritto sovranazionale con quello europeo, di quello statuale con le fonti sub primarie delegate alle c.d. autorità amministrative indipendenti, alle quali sommare le norme del c.d. “diritto mite” 4: soft law, fonti negoziali di autodisciplina, nuova lex mercatoria, raccolte di principi dei contratti commerciali internazionali. Forse mai nella storia così tante regole e così tanti organismi (pubblici e privati) hanno governato l’attività di banca, finanza, mercati assicurativi. Forse mai in maniera così inefficiente. Regole tuttavia non di sistema, non espressive di una linea di policy unitaria a tutela di interessi generali, non utili a segnalare direzioni di marcia. Piuttosto burocratiche proliferazioni legislative o pseudo legislative spesso frutto delle esigenze dei protagonisti del mercato o di gruppi di pressione. In ogni caso non in grado di evitare il fallimento del mercato 5. Norme quindi “inutili” che – come Montesquieu avvertiva – “indeboliscono quelle necessarie”.
3
V., al riguardo, Rossi, Crisi del capitalismo e nuove regole, in Riv. soc., 2009, p. 929 ss.; Macchiati, L’interesse pubblico nella regolamentazione finanziaria. Lezioni dalla recente crisi e problemi aperti, in Mercato, concorrenza, regole, 2009, p. 223 ss.; A. Nigro, Crisi finanziaria, banche, derivati, in Dir. banc., 2009, p. 13 ss.; AA.VV., Un anno con tredici lune: crisi e diritto, in Analisi giuridica dell’economia, 2009, p. 3 ss.; Onado, Regole dopo la crisi? No, grazie, in Mercato, concorrenza, regole, 2009, p. 559 ss.; Mattei, Senza diritto, che mercato è?, in Il Sole 24 ore del 5 giugno 2009; Siclari, Crisi dei mercati finanziari, vigilanza, regolamentazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 2009, p. 45 ss.; Visentini, Le nuove frontiere del diritto commerciale nella crisi economica, in Dir. fall., 2009, p. 593 ss. 4 L’espressione corrisponde al fortunato saggio di Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1993. 5 Come è costretto a confessare Posner, A failure of Capitalism: The crisis of ’08 and the Descent into Depression, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2009, sul quale testo v. Baffi, Un libro che mira a spiegare cause, conseguenze e rimedi della crisi finanziaria 2008, in Apertacontrada.it, 2008.
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E tuttavia, squarciato il velo della territorialità della norma giuridica a fronte della universalità del mercato, emerge con chiarezza che tale particolarismo legislativo sottende, è funzionale al dogma della incontrovertibilità dell’economia mercatista con conseguente soluzione di continuità tra norme e interessi, bisogni e affari, valori e finanza. L’assunto è nel senso che l’economia, politicamente neutra, sia regolata da proprie leggi naturali: non abbia bisogno di un diritto altro da sé. I suoi sacerdoti non sono i giuristi, ma tecnici ed esperti in grado di decidere, non di inutilmente discutere. Essi, in quanto conoscitori di quelle leggi e di quei meccanismi, rappresentano i soli in grado di interpretarli e declinarli correttamente. “Il mercato” – è stato efficacemente osservato – è “il criterio di tutti i criteri, la misura di ogni giudizio. Singolare, ma non inattesa, combinazione di naturalismo e tecnocrazia… Se c’è una vincolante oggettività – nel nostro caso, le leggi dell’economia di mercato – è inutile sciupare tempo ed energie nei dibattiti parlamentari. I tecnocrati ne prendono il luogo e riducono al silenzio la clasa discutidora” 6. Non a caso è predicato, nell’ambito della Western Legal Tradition, il primato della common law in quanto in grado di assicurare e difendere il primato dell’autonomia dei privati. Nel senso indicato viene altresì fornita distorta lettura alle valutazioni della Banca Mondiale che, dal 2002, pubblica i noti rapporti Doing Business, comunemente (ed erroneamente) intesi quali indicatori della qualità degli ordinamenti giuridici. Da essi si fa discendere un assai aspro confronto tra common law e civil law smentito dalla convergenza tra gli ordinamenti 7 non avvedendosi, per un verso, che il diritto non è misurabile perché espressione di una cultura (e le culture sono tra loro incommensurabili); per altro verso, che tali rapporti evitano accuratamente l’uso di indicatori che attengano al grado di democraticità del sistema e, più in generale, della qualità della vita, essendo il loro obiettivo limitato a misurare i costi transattivi imposti all’impresa in quanto guide rivolte agli investitori stranieri. Il contratto sociale viene, di conseguenza, ridotto a un unico Titolo: quello delle relazioni economiche. In siffatta guisa il pluralismo normativo serve a occultare un’ideologia (appunto quella mercatista) che
6 Negli indicati termini Irti, Crisi mondiale e diritto europeo, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, p. 1244. 7 E v. il magistrale saggio di Gambaro, Common law e civil law: evoluzione e metodi di confronto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2009, p. 7 ss. nonché Shleifer, I fondamenti giuridici della corporate governance e della regolamentazione del mercato, Roma, 2008, soprattutto p. 197 ss.
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non ama dichiararsi quanto piuttosto nascondersi. Il diritto (che naturalmente è cosa diversa dalla legge: scire leges non est verba eorum tenere, sed vim ac potestatem) diviene sovrastruttura: “comunismo e capitalismo mostrano un’intrinseca fraternità e si ritrovano insieme nel postulare una struttura economica capace di determinare tutte le forme di vita” 8. La sostanziale assenza di regole portatrici di valori basici diversi da quelli di mercato che da tale ideologia è derivata, il progressivo smantellamento dei previgenti presidi di ordine pubblico economico (da Bretton Woods al Glass – Steagall Act), la “miopia finanziaria” che si è sommata alla “miopia macroeconomica” 9 sono efficacemente testimoniate dal commiato di Alan Greenspan di fronte ai banchieri centrali europei al termine del suo mandato alla guida della Federal Reserve americana. “Quella di Greenspan voleva essere una battuta di spirito, ma si è rivelata un’esatta fotografia di ciò che si sarebbe verificato. Il banchiere USA… spiegò di aver lasciato al suo successore tre buste, una per ogni futura crisi. Nella prima c’era scritto ‘dai la colpa al mercato’ e nella seconda ‘dai la colpa al governo’. Nella terza, infine, ‘prepara tre buste’” 10. In termini elementari di tecnica bancaria, per rischio di credito s’intende il “rischio d’insolvenza della clientela finanziata da una banca, cioè il rischio di perdita totale o parziale dei relativi crediti, per capitali prestati e interessi maturati” 11. La cautela nel controllo del rischio consiste, anzitutto, nella valutazione del “merito di credito” (oggetto sociale precipuo di questa attività d’impresa). Specifici strumenti contrattuali (garanzie reali e/o personali) sono tradizionalmente tesi ad attenuare tale rischio. Perché il rischio d’insolvenza del sovvenuto non si traduca nel rischio d’insolvenza della banca sono contemplati appositi fondi rischi sui crediti erogati. Il rischio di credito può essere, in tutto o in parte, trasferito tramite le procedure di c.d. cartolarizzazione dei crediti. Cartolarizzare i crediti significa porre in essere una tecnica finanziaria complessa volta a realiz-
8
Irti, op. e pag. cit. Cfr. Santini, Miopia macroeconomica e miopia finanziaria, in AA.VV., Seminari di aggiornamento professionale, a cura di Alpa, Napoli, 2009, p. 337 ss. 10 Paronetto, Francesco Micheli: c’e una bolla enorme, in Il Sole 24 ore del 16 dicembre 2009. 11 Traggo questa definizione dal Nuovo dizionario di banca, borsa e finanza, Roma, 2002. 9
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zare un processo attraverso il quale attività a liquidità differita (crediti o altre attività finanziarie non negoziabili) vengono convertiti in strumenti finanziari rappresentati da titoli negoziabili, collocabili sul mercato attraverso la loro cessione a un soggetto specializzato. Ciò determina, in buona sostanza, il trasferimento dei flussi finanziari (e dei sottesi rischi) dal mercato del credito al mercato dei capitali. Può realizzarsi anche prescindendo dalla cessione dei crediti. Ciò avviene attraverso meccanismi di c.d. “cartolarizzazioni sintetiche” consistenti nella conclusione di uno o più contratti derivati creditizi con una società veicolo venditore di protezione (protection seller), la quale a sua volta trasferisce a terzi il rischio così assunto attraverso altri contratti derivati o attraverso l’emissione di titoli (credit linked notes). Queste operazioni sono sottratte alla portata applicativa della disciplina ex l. n. 130/1999 in quanto esulano dall’oggetto sociale delle società veicolo come regolato dalla legge. Soggiungo che l’art. 3 della legge prevede, riguardo a queste società, il requisito dell’oggetto sociale esclusivo che viene dalla dottrina interpretato rigidamente, nel senso della impossibilità per il veicolo di svolgere addirittura attività connesse o strumentali 12. Da ciò derivano forti elementi di dubbio sulla liceità (in senso civilistico) di operazioni della specie che, ove poste in essere dalle stesse società veicolo della l. 130/99, sarebbero in forte odore di possibile nullità per contrasto con norme imperative. Sotto il versante economico – finanziario, le operazioni di cartolarizzazione (come, del resto, quelle in derivati) realizzano, ad opera del cedente, una attenuazione del suo rischio di credito utile a determinare il possibile investimento di parte del patrimonio così liberato per altri impieghi produttivi; da parte dell’acquirente dei titoli cartolarizzati producono l’integrazione del proprio portafoglio dei crediti con un’esposizione verso soggetti o settori economici in precedenza non affidati. Possono da ciò derivare utili sinergie, incrementi di operatività, crescite dimensionali, miglior soddisfacimento della domanda di credito da parte di imprese e famiglie. Occorre tuttavia presidiare la stabilità dell’intermediario e, soprattutto, del sistema finanziario, esposto al noto effetto domino. A ciò sono sostanzialmente deputate le regole sul capitale fissate nell’Accordo di Basilea II del giugno 2004 e delle direttive 2006/48/Ce e 2006/49/Ce del
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Cfr. Marcucci e Papa, Cartolarizzazione dei crediti, in Commentario breve al codice civile. Leggi complementari a cura di Alpa, Zatti, II, Padova, 2006, p. 443 ss. e dottrina ivi richiamata.
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14 giugno 2006. Queste regole, rifluite nelle Istruzioni di vigilanza della Banca d’Italia (Circ. 263/06), contengono discipline di attenuazione del rischio di carattere quantitativo e qualitativo. In sintesi estrema, le prime calcolano il requisito patrimoniale a fronte del rischio di credito sulla scorta, a seconda dei casi, di una ponderazione che dipende dal rating attribuito da un’agenzia esterna ovvero attraverso uno degli approcci dettagliatamente regolato dalla disciplina prudenziale (metodo c.d standardizzato ovvero basato su rating interni). Ulteriori regole riguardano i diversi profili di rischio che, a seconda dei casi, gravano (ancorché in parte) sull’intermediario – acquirente con riferimento alla categoria di titoli sottoscritti (junior, il cui rimborso è subordinato all’avvenuta restituzione del capitale, ovvero mezzanine e senior) in funzione del grado crescente di priorità nel rimborso; sul cedente con riguardo alla qualificazione giuridica dell’operazione (cessione pro solvendo o pro soluto). Sul piano qualitativo, rilevano regole aventi a oggetto assetti organizzativi e di controllo interno. Quanto tale regolamentazione sia adeguata ed efficace è difficile dire, visto che proposte di modifica di Basilea II sono nel senso di rendere queste regole più rigide quanto a dotazione del capitale e ad aliquote di mantenimento del rischio di credito, cinque per cento, in capo al cedente 13. In ogni caso, essa fornisce risposta alla sola istanza di stabilità “atomistica” dell’intermediario bancario, omettendo del tutto di fare i conti con i profili di vigilanza “molecolare” sottesi al rischio sistemico proprio di intermediari della specie. La recente crisi finanziaria ha invece fatto emergere proprio questa lacuna, alla quale si tenta ora (in punto di assetti generali della regolamentazione) di porre rimedio, (sulla scorta del c.d. “rapporto de Larosière”) attraverso la vigilanza c.d. di “macro stabilità” affidata all’European System of Financial Supervisors, composto – tra l’altro – da tre nuove autorità di vigilanza dotate di personalità giuridica. La proposta della Commissione, approvata dall’Ecofin il 2 dicembre 2009, si basa sulla istituzione di un Consiglio Europeo per il Rischio Sistemico (European Systemic Risk Board – ESRB), organismo privo di personalità giuridica e composto dai governatori delle banche centrali, dal governatore della BCE, dai presidenti delle nuove autorità europee
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Cfr. Cebs, Call for tecnical advice on the effectiveness of a minimum retention requirement for securitisation, 2009.
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di vigilanza finanziaria e nazionali, con sede a Francoforte. Disporrà, al suo interno, di un comitato ristretto di otto membri, composto dal presidente della BCE, da un vice presidente, da due banchieri centrali, da un commissario UE e dai tre presidenti delle nuove Authorities. Deputato alla vigilanza macro prudenziale di stabilità a livello europeo, avrà accesso a tutte le informazioni rilevanti in ordine alla solidità delle istituzioni finanziarie, potrà diramare segnali d’allarme ed emanare raccomandazioni specifiche, seppure non vincolanti, incluse quelle di natura legislativa in caso di crisi. Oltre che gli Stati, destinatari di tali raccomandazioni potranno essere le stesse autorità europee di vigilanza microprudenziale, per le quali è previsto l’applicazione del criterio comply or explain, con conseguente obbligo di motivare la mancata applicazioni delle raccomandazioni. Insieme al Consiglio è contemplata la costituzione del Sistema Europeo delle Autorità di Vigilanza Microprudenziale (European Sistem of Financial Supervisors – ESFR) che comprende: 1) un comitato di coordinamento; 2) tre nuove autorità di vigilanza europee dotate di personalità giuridica (rispettivamente, la European Banking Authority, la European Insurance and Occupational Pension Authority e la European Securities Authority) che derivano dalla trasformazione e dal potenziamento degli attuali Comitati di terzo livello (CEBS, CEIOPS, CER); 3) le autorità di vigilanza nazionali. Oltre a emanare regole vincolanti tese a costruire un “libro unico delle regole europee”, le nuove autorità potranno intervenire in caso di manifesta violazione del diritto comunitario, emanando raccomandazioni vincolanti per le autorità nazionali e disporre di veri e propri poteri di supervisione per soggetti la cui attività è strutturalmente transfrontaliera. La vigilanza sui singoli operatori rimane invece affidata alle autorità nazionali. La proposta originaria è stata fortemente depotenziata con una soluzione di compromesso che prevede: i) che prima di presentare una proposta, l’Authority dovrà averne valutato l’impatto sulle finanze pubbliche del paese destinatario, che potrà chiedere di modificarla; ii) in caso di conferma, il paese potrà appellarsi all’Ecofin; iii) nel caso di ulteriore conferma, il paese potrà ulteriormente appellarsi al Consiglio europeo dei capi di governo UE, che potranno decidere di rinviare ancora all’Ecofin per la parola finale. Il tutto entro e non oltre sei settimane. Anche in quanto particolarmente farraginoso e burocratico, l’assetto proposto corre seri rischi di ineffettività a fronte di possibili future crisi che impongono sempre soluzioni immediate. Ma, ancora una volta, la cultura del procedimento prevale rispetto a quella del risultato,
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purtroppo non solo a livello europeo 14. Mette intanto conto osservare che lo stesso parlamento europeo ha espresso forti critiche al progetto, proponendo la limitazione della clausola di salvaguardia a limitati casi tassativamente definiti; una sede unica per le diverse autorità; poteri preminenti delle autorità di vigilanza microprudenziale europee rispetto a quelle nazionali in caso di conflitti; vigilanza esclusiva delle autorità europee per i grandi gruppi transfrontalieri. Ma questo è solo un corno del problema e forse, per il giurista, neanche il più importante. Quanto al rischio di credito, ineludibili più strutturali (e finora inevase) domande derivano dagli eventi recenti. Possono forse compendiarsi nelle tre seguenti: 1. è conforme all’oggetto sociale della banca la cessione dei propri crediti 15? In altre parole, è coerente con la funzione economico – sociale (cioè con la causa) degli schemi negoziali tipici di questo intermediario l’impiego di contratti atipici e innominati di trasferimento del rischio (segnatamente derivati del credito) potenzialmente in grado di alterare l’ordine pubblico economico e perciò in forte sospetto di coerenza con la tutela dell’autonomia negoziale a fronte di una possibile causa illecita (art. 1343 cod. civ)? Ancora, sotto il versante sostanziale, è efficiente oltre che eticamente corretto trasferire il rischio che si è assunti nello svolgimento della specifica attività d’impresa dal proprio interno al mercato, sottraendosi così al conseguente monitoraggio dello stesso, certo più efficace di quello del mercato in ragione del ruolo istituzionale di insider ricoperto? 2. nell’affermativa, è soluzione idonea a preservare valori fondanti della collettività quali quello della tutela del risparmio il rimettere la definizione delle regole agli stessi operatori? 3. può il giudizio essere attribuito nella sua interezza alle società di rating che continuano a rappresentare uno tra i principali imputati della crisi?
V. le audizioni di fronte alla VI Commissione Finanze della Camera di Consob, Banca D’Italia, Isvap, rispettivamente del 16 settembre e del 16 e 17 dicembre 2009. 15 Amplius cfr. su tale profilo Merusi, Per un divieto di cartolarizzazione del rischio di credito, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, p. 253 ss. Contra Rossi, Crisi del capitalismo, cit., p. 940. 14
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Sotto questi profili mi sembra che il dibattito sia ancora aperto e che la crisi abbia solo provveduto, parafrasando Kirkmann, a mandare al macero intere biblioteche. Senza rimpianti per quei libri.
Claudio Boido In questi ultimi mesi la relazione “Banche e Rischio di credito”, ha suscitato un notevole interesse tra i seguenti soggetti economici: banche, imprese e regulators. Nell’affrontare il tema è opportuno, in via preliminare, effettuare una distinzione tra le banche di matrice anglosassone e quelle italiane. Osservando i risultati, nel corso dell’ultimo decennio, è evidente che le prime si sono orientate prevalentemente sul mercato finanziario per la ricerca dei profitti, dando maggiore rilievo nella loro attività: •. Alla spinta eccessiva al processo di cartolarizzazione dell’attivo (per i crediti ipotecari e per quelli al consumo), che ha contribuito all’espansione della bolla dei mutui subprime e che potrebbe creare le premesse per ulteriori problemi sul segmento delle carte di credito; •. Al ricorso al mercato per ottenere la liquidità, (sulla base del favorevole andamento dei tassi di interesse) sostituendo parzialmente o quasi integralmente la tradizionale raccolta di depositi presso la clientela (la crisi finanziaria di liquidità del settembre 2008 è stata superata per i ripetuti interventi delle banche centrali); •. All’impiego sostenuto di strumenti derivati (con l’implementazione dei credit derivatives e in particolare dei credit default swaps, cresciuti in termini di volume e di volatilità al punto da sollecitare la creazione di una clearing house per ridurre il rischio controparte); •. All’utilizzo eccessivo del leverage ratio (nelle Big Five: Bear Stearns, Goldman Sachs, Lehman Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley la leva finanziaria ha raggiunto valori superiori a 40); Viceversa le banche italiane hanno: •. Utilizzato in modo prudente la cartolarizzazione; •. Mantenuto il modello di business tradizionale prediligendo i depositi per raccogliere liquidità, risentendo in modo ridotto della crisi finanziaria; •. Impiegato gli strumenti derivati, senza arrivare agli eccessi del mondo anglosassone, anche se di fatto hanno contribuito al rischio sistemico;
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•. Fatto un utilizzo contenuto del leverage ratio, poiché nei banchieri italiani sopravvive prevalentemente il modus operandi legato alla banca tradizionale. Il modello di business delle banche italiane ha consentito loro di contenere sia la crisi di liquidità del 2008, per la significatività del peso dei depositi e delle emissioni di valori mobiliari tra le modalità di raccolta, che la crisi del mercato finanziario per la presenza prevalente nell’attivo di impieghi, rispetto a quella di titoli con un elevato profilo della relazione rischio/rendimento (infatti la composizione del portafoglio titoli di una banca italiana comprende quasi esclusivamente titoli di Stato). Nel corso del 2009 la composizione dell’attivo dello stato patrimoniale della banca è stata oggetto di attenzione per ciò che ha riguardato: •. La quantità del credito (rispetto ai volumi dei periodi precedenti); •. La qualità dei prenditori dei fondi (è chiaro il peggioramento della qualità dei prenditori); •. Il costo dei finanziamenti (riflette la dinamica dell’andamento dei tassi di interesse). La valutazione del merito creditizio rimane un punto centrale nella gestione bancaria e rappresenta un elemento imprescindibile, per la ricerca della redditività e dell’equilibrio finanziario. Peraltro il tema della corretta valutazione del merito creditizio in Italia è da sempre oggetto di interesse e di approfondimenti da parte di illustri studiosi della disciplina 1. Nell’attività tipica di concedere un finanziamento la banca deve effettuare un’analisi preventiva e rigorosa per accertare la capacità di produrre reddito da parte del prenditore e deve controllare che questa condizione iniziale sia mantenuta per l’intera durata del rapporto. Quale dovrebbe essere il fine della banca nell’attività di concessione del finanziamento? Una scuola di pensiero prevalente ritiene che sia centrale la redditività dell’operazione, senza tralasciare l’obiettivo di ridurre e/o sterilizzare le possibili perdite su crediti, ma in molti contesti sociali si argomenta che la banca dovrebbe contribuire a favorire lo sviluppo economico del tessuto locale in cui opera anche a svantaggio della sua redditività. Qual è il livello qualitativo dei flussi informativi, che dovrebbero contribuire al perseguimento del risultato?
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Caprera 1954, Dell’Amore 1964, Demattè 1975, Bianchi 1986, Forestieri 1991.
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L’informazione sulla situazione del prenditore dei fondi dovrebbe consentire alla banca di conoscere la situazione economica finanziaria, basata sui dati correnti. In realtà i database utilizzati non presentano un’elevata affidabilità poiché, nella maggior parte dei casi sono riferiti agli ultimi dati di bilancio disponibili e non considerano l’incidenza delle variazioni delle grandezze macroeconomiche (variazioni sul mercato dei tassi di interesse, sui cambi e sulle commodities) sui risultati economici del soggetto prenditore dei fondi. Negli ultimi anni molte banche estere hanno superato il problema della valutazione qualitativa del merito creditizio del prenditore di fondi modificando il loro modello di business. Da quello originate to hold (OTH, ove la banca è investitore finale), che si basa sulla capacità del datore di fondi di selezionare i prenditori affidabili e di monitorare in tempo reale le possibili evoluzioni dallo scenario iniziale, si è passati all’originate to distribuite (OTD, ove la banca è intermediario) che consente di alleggerire la fase di screening del prenditore (la valutazione ex ante) e di evitare quella di monitoring (la valutazione ex post), poiché il datore di fondi cede i crediti a un soggetto terzo. Di conseguenza la banca, con la cessione dei crediti in portafoglio, riduce apparentemente i suoi problemi di risk management trasferendoli, con i derivati ad altri soggetti, ma di fatto alimenta il rischio sistemico in quanto le controparti finali sono un numero ristretto di banche e le loro difficoltà si ripercuotono sull’intero settore bancario. L’applicazione dell’OTD supera i problemi connessi sia all’asimmetria informativa ex-ante (adverse selection) che ex post (moral hazard), poiché il modello di business non si pone l’obiettivo di una sana ed equilibrata politica di raccolta/impieghi, ma si basa sulla ricerca della massimizzazione del profitto nel breve termine (che viene ulteriormente esasperata facendo lievitare il rapporto fra attività e patrimonio, ovvero il leverage ratio). La valutazione del rischio per ciò che concerne gli strumenti finanziari presenti nei portafogli della banca viene delegata a soggetti esterni (banche di investimento e/o agenzie di rating) che non hanno gli stessi incentivi della corretta valutazione che sono propri della banca del modello OTH nel ruolo di investitrice finale. In questo nuovo processo di selezione dei prenditori giocano un peso significativo le agenzie di rating che forniscono un contributo rilevante nella definizione dei flussi informativi. Le società di rating esprimono un parere sul merito creditizio del prenditore e valutano la capacità di rimborsare il debito nei tempi e nelle modalità stabilite. Il loro ruolo diventa duplice, poiché da un lato influenzano i giudizi di merito creditizio da parte del mercato e dall’altro offrono consulenza agli emittenti. Infatti gli operatori sono attratti da un giudizio facilmente comprensibile, dalla reputazione della società sul rating espresso e non sempre tengono
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nel giusto peso delle corrette modalità di formazione del merito creditizio finale, che spesso si basa su dati passati senza che vengano effettuate delle stime sull’impatto nella valutazione del verificarsi di scenari futuri (emblematico al riguardo il caso della Lehman Brothers, le cui obbligazioni sono state mantenute fino al venerdì precedente alla dichiarazione di default della banca americana nel paniere proposto da Pattichiari). Le stesse società di rating suggeriscono agli emittenti le modalità per ottenere una valutazione più favorevole dei giudizi di merito, che influenzano il valore degli strumenti finanziari proposti sul mercato, alterando in questo modo la trasparenza e la correttezza della valutazione proposta. La variazione nel modello di business tradizionale, applicato nelle operazioni tipiche di concessione di finanziamento ai prenditori, ha contribuito, abbassando il livello di attenzione sulla qualità dei prenditori, alla crisi finanziaria sui mercati finanziari internazionali. La conseguenza tangibile è stata quella di aver provocato una contrazione e un irrigidimento nelle procedure di concessione di finanziamento alle imprese. Come abbiamo anticipato in premessa, i dati internazionali presentano un effetto amplificato rispetto alla realtà delle banche italiane, che peraltro stanno risentendo della crisi finanziaria nei rapporti con i prenditori finali. Ritornando ai tre punti sopra richiamati (quantità, qualità e costo), si può evidenziare che la quantità di credito è rimasta quasi invariata, mentre scende la qualità (si rimarca un crescente incremento delle sofferenze). A settembre 2009, le sofferenze lorde sono risultate pari a 55 miliardi di euro, 3,1 miliardi in più rispetto ad agosto 2009 e 11,1 miliardi in più rispetto a settembre 2008 (+ 25,4% la variazione annua). In rapporto agli impieghi esse risultano pari al 3,1% (2,5% a settembre 2008 e 2,27% a novembre 2008 quando hanno raggiunto un punto di minimo). Inoltre si registra un incremento delle perdite su crediti: nel primo semestre del 2009 le rettifiche di valore netto per deterioramento sono state pari ad 8,5 miliardi e potrebbero raddoppiare a fine anno. Secondo le previsioni dell’ABI e degli Uffici Studi delle principali banche le perdite su crediti, pari a 5,5 miliardi a fine 2007 e a 9,9 miliardi nel 2008 raggiungeranno i 18 miliardi annui nel medio periodo. I dati della crisi e delle difficoltà in cui si dibattono le imprese sono evidenti dalla lettura dell’Osservatorio Trimestrale pubblicato dalla CERVED 2 relativo al quarto trimestre 2009.
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Cerved Febbraio 2010 “Osservatorio Trimestrale” quarto trimestre 2009.
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Nel 2009 risultano aperte 2900 procedure fallimentari con un incremento del 15% sui dati del 2008 (che già risente della crisi) e ben del 43% sui dati 2007. Nel 2009 incrementa del 23% il numero dei fallimenti (9000) rispetto ai dati 2008 con un picco del 31% nel settore immobiliare (segmento costruzioni). L’impennata dei fallimenti ha toccato in modo particolare il Nord nella misura del 25%. Si manifesta una forte impennata nel segmento delle PMI (il 75% ha un attivo inferiore a 2 milioni di euro nei tre anni precedenti la crisi). I fallimenti sono aumentati del 19% tra le aziende che non hanno presentato un bilancio, del 23% tra quelle con un attivo inferiore a 2 milioni di euro, del 41% tra quelle con un attivo compreso tra 2 e 10 milioni, del 44% per la fascia 10-50 milioni e del 20% per le società maggiori. Inoltre i dati relativi al concordato preventivo (+ 33% rispetto al quarto trimestre 2008) e il dato annuale confermano una crescita del 62% rispetto al 2008. Nel periodo 2001-2009 il rapporto domanda di concordato/aperture di procedure fallimentari è passato da 1/46 a 1/10. È da rilevare, rispetto ai dati sul fallimento, che è prevalente la presenza di imprese medio-grandi (70% attivo tra 10 e 50 mln e 75% attivo superiore a 50 mln). Tra il 2005 e il 2009 cambiano sede sociale 1500 società con l’obiettivo di rendere più difficoltosa l’azione di recupero crediti. Alla frequenza del trasferimento della sede legale viene associata la probabilità di default, per cui il valore è pari al 24% nel caso di un trasferimento all’anno. Questo dato balza all’85% nei casi in cui si manifestano più variazioni di sede nello stesso periodo di esercizio. Pur assistendo a un lieve miglioramento rispetto all’ultimo quadrimestre 2009, è pur vero che appare ancora arduo sostenere che la crisi economico-finanziaria internazionale sia risolta. La situazione italiana presenta, dal lato banche, un quadro lievemente migliore pur palesando una tendenza stringente alle condizioni di concessione del credito alle imprese. Nel corso del 2009 le banche italiane hanno potenziato il loro patrimonio (aumenti di capitale, dismissioni di attività non strategiche, ridotta o nulla distribuzione degli utili, interventi pubblici 3) il core tier I ratio è passato da fine 2008 a settembre 2009 d 5,8 a 7,3, se riferito ai prime cinque gruppi. La migrazione del rischio da parte delle
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Il ricorso ai cosiddetti “Tremonti Bonds” è stato esercitato da: MPS (1,9 mld euro), BPI (1,45 mld euro), BPM (500 mln euro) e Credito Valtellinese (200 mln euro).
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banche italiane si evince dal ridotto utilizzo del leverage ratio rispetto alle banche internazionali: infatti il dato, riferito a giugno 2008, risulta pari a 24 contro la media europea pari a 34. Gli utili dimezzati rispetto al 2008 e la già rimarcata crescita delle nuove sofferenze confermano la presenza di un trend decrescente, che fornisce una chiave di lettura per la riduzione dei prestiti alla clientela. Gli effetti del peggioramento si sono trascinati anche nel quarto trimestre a conferma della crisi delle imprese affidate e dei mancati pagamenti delle rate di rimborso previste. La situazione di crisi, che mostra dei piccoli segnali di ripresa, è confermata dai dati sul PIL resi noti da Banca d’Italia nel Bollettino di gennaio 2010 e relativi al periodo 2008-2010. P.I.L. ITALIA AREA EURO USA CINA
2008 -1,00% 0,50% 0,40% 9%
2009 -4,80% -3,50% -2,50% 8,50%
2010 0,70% 1,30% 2,70% 9,60%
Fonte: Bollettino Banca d’Italia 2010 gennaio
Le previsioni mostrano quindi una crescita modesta del PIL, ciò renderebbe necessario ridurre la stretta creditizia per stimolare la produttività del sistema industriale. Alcuni dati, pubblicati il 15 marzo 2010 da Il Sole 24 Ore, riferiti alle provincie italiane ove è presente in misura più rilevante l’industria manifatturiera (Biella, Ancona e Belluno), mostrano che in quei distretti si è riscontrato un calo dei prestiti di oltre il 20%. Il dato della contrazione dei crediti viene confermato dai consuntivi a dicembre 2009, ove si segnala un segno negativo dello 0,7% su base nazionale, e in particolare con una diminuzione del 1,3% al Nord e un incremento del 2,7% nel Meridione. L’andamento negativo di concessione di finanziamenti riguarda le imprese (-3%) rispetto al 2008, giustificato dalla fase recessiva dell’economia e dal timore che i prenditori di fondi non siano in grado di garantire il pagamento degli importi convenuti. Il problema della riduzione dei prestiti si potrebbe acuire anche nel primo semestre del corrente anno, quando nelle procedure di valutazione, al fine di concedere il finanziamento richiesto, entreranno i dati di bilancio al 31.12.2009. Il rapporto BCE sull’accesso al credito conferma questa tendenza delle banche operanti nell’Area Euro; nel secondo semestre 2009 le banche hanno aumentato il costo dei finanziamenti alle imprese e il 42% dei
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prenditori dei fondi ha lamentato un peggioramento della disponibilità del credito. Il dato italiano sull’insoddisfazione a far fronte alle richieste di finanziamento passa dal 26% al 29% a ciò si associa una tendenza generale ad aumentare il livello degli spread e delle garanzie richieste da parte delle banche con un allungamento dei tempi di risposta alla pratica di finanziamento. Il lungo e costoso iter porta in molti casi al diniego del finanziamento. Pur riconoscendo alcune qualità alle banche italiane caratterizzate per: •. una buona qualità degli attivi; •. una scarsa esposizione alle crisi internazionali; •. una buona raccolta al dettaglio; •. un livello di indebitamento moderato sia da parte delle famiglie che delle imprese. È evidente, anche in Italia, la presenza di un incremento del rischio dei prestiti tradizionali (sulla base dell’osservazione del rapporto fra nuove sofferenze e impieghi e delle crescenti difficoltà nel comparto del leasing). Questo scenario è portatore di nuove preoccupazioni, sia per la presenza di tensioni sui mercati finanziari, che per il peggioramento delle prospettive economiche con un aumento della selettività da parte dei datori di fondi. Le difficoltà si manifestano, in termini concreti, con un arretramento delle richieste da parte delle imprese e delle famiglie. Il rallentamento si è palesato, in misura maggiore per la clientela delle grandi gruppi bancari, rispetto a quella delle banche maggiormente radicate sul territorio, che riescono a percepire con maggiore precisione e puntualità la presenza di eventuali cambiamenti nella struttura economico-finanziaria delle imprese richiedenti, anche se hanno dimensioni ridotte. In questo contesto il canale bancario rappresenta la forma preferita dalle imprese per sostenere i ridimensionati piani di investimento rispetto ai mercati dei capitali, ove trovano maggiori difficoltà quelle caratterizzate da una fragile struttura finanziaria. È corretto porsi la domanda, se la banca locale risenta meno degli effetti della crisi rispetto ai grandi gruppi bancari presenti in Italia. È evidente da un lato che le grandi banche subiscono un maggior impatto dalla crisi, poiché in termini di raccolta una parte ampia proviene dai mercati internazionali all’ingrosso, in molti casi i processi di aggregazione hanno comportato un’analisi più attenta del portafoglio crediti che di fatto ha imposto una riduzione delle esposizioni verso il prenditore di fondi, precedentemente affidato da più banche. Dall’altro lato il forte radica-
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mento sul territorio da parte delle banche locali ha contribuito a offrire una risposta più adatta alle esigenze di medio-piccole realtà imprenditoriali, anche per la capacità di valutare il merito creditizio sulla base di un consolidato e consueto rapporto con la clientela. Infatti ritroviamo tratti comuni rappresentati da bassi livelli di capitalizzazione, da una capacità di investimento limitata e da una redditività contenuta. In questi contesti territoriali non è desueto trovare che il patrimonio personale dell’imprenditore sia impiegato come garanzia del finanziamento concesso. Nelle realtà più grandi il mantenimento di un aggiornato e corretto flusso informativo risulta complesso e costoso, poiché richiede la tempestiva raccolta di una massa elevata di informazioni qualitative e quantitative, il loro inserimento nei modelli valutativi e la possibilità di variare discrezionalmente i punteggi automatici attribuiti dai sistemi di rating utilizzati. Tale modifica discrezionale (il cosidetto override) benché sia prevista e regolamentata dalle autorità di vigilanza non viene utilizzata, con la frequenza che richiederebbe il manifestarsi improvviso di variazioni del set informativo a disposizione dell’intermediario, ai fini di valutare correttamente il merito creditizio del prenditore di fondi. Le stesse misure di controllo del rischio, che prevedono l’utilizzo di modelli VAR, si fondano su un’ipotesi di efficienza dei mercati e quindi nella certezza di attribuire un valore corretto agli strumenti finanziari in portafoglio e sulla presenza di una domanda che abbia elasticità infinita in corrispondenza del prezzo stimato. I fatti del biennio 2007-2008 non hanno confermato quanto sopra affermato, mettendo in discussione i modelli più diffusi di risk management. Basilea 3 panacea di tutti i mali? È innegabile che in questi ultimi mesi si sta accentuando sulle banche una pressione per migliorare e incrementare il livello di capitalizzazione, a ciò si associa un generale rallentamento dell’economia, che comporta un aumento del rischio di credito e una maggiore rigidità nella concessione dei finanziamenti. Nel corso del 2009, a seguito di riflessioni e dibattiti, è emersa la necessità di rivisitare l’impianto di Basilea 2 al fine di apportare le modifiche e i miglioramenti opportuni per renderlo più flessibile alle situazioni di crisi finanziarie. Senza entrare nella descrizione analitica dei problemi sotto osservazione, possiamo sintetizzare i seguenti punti: •. il patrimonio di base (Tier 1) dovrà essere composto in misura predominante da azioni ordinarie e riserve di utili, al fine di essere meglio capace di assorbire le perdite. Gli strumenti ibridi (che in base alle norme attuali potevano rappresentarne fino al 15%) verranno progressivamente eliminati dal patrimonio di base;
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•. è prevista l’introduzione di un leverage ratio sull’attivo non ponderato per il rischio come misura aggiuntiva rispetto ai requisiti basati sul rischio di Basilea 2, con possibile sua inclusione nei requisiti di Primo pilastro; •. a seguito dei problemi manifestati, è stato inserito un requisito minimo per il rischio di liquidità nella forma di un coefficiente minimo di copertura in caso di stress, che impone alle banche una copertura di trenta giorni a fronte di forte instabilità dei mercati, supportato e affiancato da un coefficiente strutturale di liquidità a più lungo termine; •. in ottica anti – ciclica è prevista l’ introduzione di uno schema per riserve patrimoniali “tampone”, da accantonare nelle fasi espansive, in aggiunta ai requisiti minimi; •. sono inoltre formulate alcune raccomandazioni per ridurre il rischio sistemico associato alla gestione delle crisi di banche crossborder. Dopo aver espletato la fase di consultazione e dell’analisi di impatto e la stesura delle regole, che avverrà nel corso del corrente anno, le innovazioni introdotte dovrebbero andare a regime entro il 2012. Le recenti indicazioni 4 del Comitato di Basilea in tema di governance evidenziano che il Consiglio di Amministrazione deve intervenire approvando e supervisionando la strategia della banca sul rischio e di conseguenza richiedendo che i componenti abbiano un’adeguata e rilevante esperienza delle attività operative della banca. Il chief risk officer dovrà avere status, indipendenza, risorse e accesso al c.d.a. al fine di rappresentare in modo chiaro e puntuale i rischi a cui di volta in volta e in coincidenza con i diversi scenari di mercato potrebbe essere esposta la banca. Al c.d.a. spetterà l’elaborazione dei sistemi di retribuzione in modo da allineare i compensi con un’assunzione di rischi prudente, come prescrive il Financial Stability Board. La continua costante ricerca del profitto, per logiche spinte da istanze individuali del top management, ha portato le banche a ricercare modelli di business volti alla redditività di breve periodo motivando la loro applicazione in termini di efficienza. Non dobbiamo dimenticare che la corretta ricerca del profitto dovrebbe tener conto del benessere collettivo (famiglie) e contribuire allo sviluppo e alla crescita economica della nazione (imprese).
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Marzo 2010.
Marina Brogi
Se la ricerca del profitto resterà il fine esclusivo dell’attività bancaria dovremo prepararci ad assistere nuovamente a crisi finanziarie, i cui effetti finali potrebbero avere una portata più ampia rispetto alle crisi passate.
Banche e derivati Marina Brogi Grazie, presidente di questo invito, i temi importanti sono spesso al crocevia di discipline diverse, e fra economia aziendale e diritto c’è veramente molto da raccontarsi. Io non ritengo che il diritto sia una sovrastruttura, anzi consentitemi di dirvi che la crisi cominciata nel 2007 ha dimostrato che il libero mercato può non essere un mercato senza regole. I mercati non sono perfetti, possono sbagliare, ed è per evitare o contenere quegli sbagli che servono le regole. Più specificatamente, qualunque prezzo venga fatto sul mercato è all’incrocio fra domanda e offerta e pertanto può non essere per nulla rappresentativo del valore. L’esempio che faccio sempre in aula ai miei studenti – ho l’onore, il privilegio, di insegnare alla Sapienza – è che se il Colosseo fosse messo in vendita dallo Stato italiano e nessuno lo volesse comprare, avrebbe un prezzo di mercato pari a zero. Chi di noi può pensare che il Colosseo abbia un valore pari a zero? Nessuno, è ovvio. Tuttavia, questo esempio ci ricorda che il mercato “prezza” sulla base di domanda e offerta. La liquidità è alla base della qualità di quel prezzo, la liquidità assicura che i prezzi fatti siano fattibili (Bianchi 1958; p. 37 e ss.). In presenza di condizioni di mercato non ordinate, di illiquidità, nel caso di dislocated markets i prezzi possono divergere molto dal valore. Buone regole possono contribuire alla liquidità e all’ordinato funzionamento del mercato? Secondo me sì. Fatta questa premessa, il mandato è di parlare 20 minuti e il tema è estremamente vasto. Mi concentrerò allora su tre punti, particolarmente rilevanti nel rapporto tra banche e derivati, che spero possano fornire qualche spunto per le future regole sui derivati. L’intervento, da aziendalista studioso di economia delle aziende di credito e di economia del mercato mobiliare, persegue l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su pochi concetti chiave, quelli che probabilmente richiederebbero maggiormente un intervento normativo o un affinamento delle norme esistenti, adottando al tempo stesso un approccio sistemico.
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Quest’ultimo è necessario per tre motivi: 1. macroeconomico, in quanto i mercati sono globali e interconnessi e pertanto eventuali regole devono essere condivise perché in caso contrario sono facilmente aggirabili; 2. le esternalità del ruolo svolto da mercati e intermediari finanziari a sostegno dell’economia. Sul mercato dei capitali, in particolare sul mercato del capitale proprio, tutte le aziende sono in competizione fra di loro. Se le banche non sono solide – non hanno cioè dotazioni patrimoniali sufficienti – non possono trasmettere gli impulsi di politica monetaria e non danno credito alle imprese, anche in presenza di tassi bassi e grandi immissioni di liquidità, come è successo l’anno scorso; 3. le specificità delle banche che discendono dal loro essere collegate a sistema. Tre sono anche le tappe del ragionamento su derivati e regole: che cosa s’intende per derivati (la definizione consente di dimostrare che i derivati non sono tutti uguali e anche gli operatori che li usano perseguono obiettivi molto differenti); il rapporto tra derivati e regole, in particolare le regole per le banche (partendo dalle regole contabili e passando attraverso le regole della vigilanza prudenziale); alcune osservazioni conclusive con qualche stimolo, spero, per quanto riguarda la riforma delle regole per la banca e per la finanza. Partendo dal primo aspetto – la definizione – nel Glossario della relazione annuale 2008 della Banca d’Italia (p. 364) gli strumenti derivati vengono definiti come “attività finanziarie il cui valore è determinato da quello di altri titoli scambiati sul mercato”. “Tra gli strumenti negoziati sui mercati regolamentati si ricordano i futures e le opzioni, tra quelli scambiati sui mercati over-the-counter si ricordano gli swap e i contratti forward”. Nello stesso Glossario – oltre che in derivati su crediti, credit default swaps – il termine derivati appare anche nella definizione di cartolarizzazione, opzioni, titoli sintetici e titoli strutturati. Nel Testo unico della finanza si fa anche riferimento ai derivati su merci, oltre che ai derivati su strumenti finanziari. La definizione è amplissima e include strumenti molto diversi come swaps, future, opzioni, credit default swaps e così via, che vengono negoziati su mercati assai differenti. L’importanza dei derivati discende dalla loro diffusione: nel 2007 il valore nozionale complessivo dei derivati aveva raggiunto 10 volte il prodotto mondiale, dati più recenti stimano 9 volte. Volendo concentrare l’attenzione sui derivati più rischiosi, a fine 2007, i credit default swaps (noti con il loro acronimo CDS) in 10 anni avevano
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raggiunto un valore nozionale di 60 mila miliardi di dollari, poi sceso a 40 mila miliardi di dollari. Nella teoria economica, sulla base degli obiettivi perseguiti e della propensione al rischio del soggetto che compra o vende lo strumento derivato, si distingue tra trader/dealer, arbitraggista, hedger. Esistono altre definizioni di derivati meno asettiche e molto critiche, come quella di Buffett (2003) che li ha etichettati come “armi finanziarie di distruzione di massa” oppure, più recentemente, Stiglitz (2010) che ha sostenuto che “i derivati sono strumenti complessi, poco trasparenti e venduti fuori borsa”. Le posizioni critiche risentono del fatto che i derivati si prestano a utilizzi distorti, come sostenuto anche da Draghi (2008b; p. 21): “L’esperienza della crisi ha confermato che i prodotti derivati, in generale gli strumenti innovativi per il trasferimento del rischio, sono armi a doppio taglio. Se usati in modo accorto e prudente permettono agli operatori di coprire e diversificare il rischio e possono contribuire a ridurre la fragilità del sistema; se adoperati senza adeguata considerazione dei rischi consentono una moltiplicazione senza controllo della leva finanziaria”. Anche Buffet fa implicito riferimento alla leva mentre Stiglitz identifica altri difetti, alcuni dei quali però sono forse risolvibili con un’adeguata regolamentazione. Occorre anche sottolineare come, proprio perché sono complessi e poco trasparenti, la larghissima diffusione dei derivati possa minare la fiducia, elemento fondamentale per la stabilità dei sistemi finanziari come già sottolineato da Keynes (1936; p. 149): “Lo Stato di fiducia come lo definiscono loro, è una questione a cui gli uomini pratici dedicano sempre la massima attenzione. Ma gli economisti non l’hanno analizzato accuratamente”. Sui derivati ci sono punti di vista assolutamente diversi. Se consideriamo ad esempio i più controversi, i CDS, solo negli ultimi giorni, forse anche grazie alla crisi del debito greco, Wolfgang Munchau e Marco Onado si sono espressi pubblicamente per l’abolizione dei CDS “nudi” sui titoli di Stato in quanto scommesse pure. Al contrario, secondo Hart e Zingales, i CDS aiutano le banche in difficoltà in quanto possono essere utilizzati come parametri per far scattare la conversione delle obbligazioni in capitale, mentre Zingales propone i CDS come indicatore di solvibilità da utilizzare per decidere se erogare i bonus ai manager. In realtà, l’efficacia dei prezzi fatti sui CDS come stimatori del rischio d’insolvenza dipende dalla liquidità del mercato che, a sua volta, dipende dall’esistenza di una situazione di mercato ordinata. Dobbiamo anche
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Dibattiti
intenderci sul concetto di mercato: l’essenza di un mercato è data dalla possibilità di vendere o comprare senza alterare il prezzo, implicitamente si fa riferimento alla concorrenza perfetta mentre talvolta i mercati finanziari possono essere oligopoli. Il mercato dei derivati è sicuramente un oligopolio con la presenza delle quattro principali banche americane ( JP Morgan, Goldman Sachs, Bank of America, Citibank) che intermediano da sole il 90% dei derivati over-the-counter, pari a 202 mila miliardi di dollari secondo i dati dell’agenzia USA Comptroller of the currency. Passiamo ora al secondo punto, derivati e regole. Ma quali regole? In materia di derivati e regole, occorre considerare le regole contabili, le regole per i mercati e le regole per le banche. Alcune regole sono da modificare perché introducono incentivi distorti (ad esempio regole contabili), altre regole vanno introdotte perché dovrebbero indurre comportamenti virtuosi (ad esempio regole sull’introduzione di una controparte centrale per i CDS), altre regole vanno rafforzate per stabilizzare il sistema (ad esempio adeguata patrimonializzazione delle banche). Partiamo dalle regole contabili. Il rapporto tra derivati e regole contabili è sempre stato difficile dai tempi in cui i derivati venivano contabilizzati nei conti d’ordine ed erano pertanto strumenti off balance sheet. Anzi si può ritenere che i derivati siano stati “inventati” per aggirare vincoli contabili. Va rilevato che in casi recenti (Grecia, enti pubblici italiani, e così via) spesso i derivati sono stati utilizzati per aggirare le regole contabili sfruttando alcuni limiti nella regolazione esistente. I derivati sono diventati etichette per spostare in avanti/camuffare debiti futuri, ma questa è un’altra storia, anche se non pare sbagliato il divieto di utilizzo dei derivati da parte degli enti locali. Un aspetto invece da chiarire riguarda il rapporto tra fair value e marking-to-market. La migliore evidenza del fair value è il valore di mercato. Per questo motivo spesso fair value e mark-to-market tendono ad avere contorni sfumati. In realtà, i due concetti sono diversi, il mark-to-market o marking-to-market è una tecnica che implica la valorizzazione al mercato. Si tratta di un esercizio utile per prendere decisioni, per segnalare al mercato eventuali plusvalenze non realizzate, ma non si presta altrettanto come principio contabile, in particolare se combinato con coefficienti minimi patrimoniali, anch’essi sostanzialmente prociclici, Brogi (2009; p. 264 e ss.). Una norma come il fair value applicata in maniera più ampia al bilancio bancario che cosa determina? Determina l’illusione per i banchieri di
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potersi rivolgere al mercato per avere liquidità, considerato che porzioni significative dell’attivo sono espresse al valore di mercato. Le banche non hanno mantenuto buffer di liquidità adeguati (in quanto costosi in termini di costo-opportunità) dato che, in caso di bisogno, sembrava sufficiente, vendere parte del portafoglio titoli. Il risultato è stato che, in momenti di tensione sul mercato interbancario, le banche che avevano bisogno di liquidità si sono trovate a svendere titoli mentre altre banche hanno registrato una riduzione nel valore dei loro attivi senza che avessero venduto neanche un titolo. Allora, quando si pensa al disegno delle regole non basta ragionare sugli effetti che si vogliono indurre, ma anche agli effetti distorti che si potrebbero produrre, ed è proprio questa la grande sfida che deve vedere alleati aziendalisti e giuristi. L’adozione del fair value può risultare destabilizzante per il sistema bancario, pertanto è auspicabile mantenere la possibilità di riclassificare gli strumenti finanziari così come concesso dal Regolamento 1004/2008 o addirittura che lo IASB prevedesse principi contabili speciali per le banche che tengano conto delle loro peculiarità. Al contrario, il mark-to-market può essere una tecnica a supporto della stabilità. Nei mercati future il marking-to-market consente alla Cassa di compensazione e garanzia di frapporsi tra gli operatori, assumendosi il rischio di controparte e richiedendo dei margini iniziali di garanzia. Grazie alla valorizzazione al mercato nel continuo, la clearing house è in grado di chiudere automaticamente le posizioni in perdita, per le quali non sono stati reintegrati i margini, prima che si verifichino dei problemi di insolvenza e si propaghi il contagio. Un meccanismo di questo tipo, basato su una controparte centrale e il marking-to-market, sarebbe fra le regole da introdurre per il mercato dei CDS. Più in generale occorre un miglioramento delle norme sui mercati dei derivati, come sostenuto da Draghi (2010a; p. 13) “Ci auguriamo che i lavori della Commissione europea volti a definire un quadro legislativo armonizzato possano contribuire presto ad accrescere la trasparenza, la liquidità e la stabilità del mercato su cui si scambiano i derivati, specie quello dei credit default swaps, che più si presta a manipolazioni speculative”. Con riguardo alle regole sui derivati per le banche, il primo aspetto attualmente al centro del dibattito riguarda la proposta di separazione dell’attività bancaria tradizionale dall’attività di trading, incluso il trading su derivati. Permettetemi sui questo punto di citare il mio Maestro, Tancredi Bianchi (2009) che nella sua Lectio Magistralis di accettazione dei saggi scritti dai colleghi in occasione dei suoi 80 anni ha sottolineato che: “La sovrastruttura finanziaria determinata dalla moltiplicazione di prodotti derivati
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genera, insieme con il ricercato pareggiamento di rischi operativi, una sistematica negoziazione, correlata, di “scommesse” finanziarie da collocare presso risparmiatori e investitori. Ancorché tali scommesse siano note alle controparti, non rientrano, a mio parere, nell’attività bancaria” (p. 34). E ancora, le banche “possono essere emittenti e negoziatori di prodotti finanziari derivati, rappresentati da valori mobiliari, ma solo per cercare il pareggiamento di rischi della clientela affidata, purché trattasi di pericoli ragionevolmente probabili, onerosi in caso di sinistro e non “connaturati” con l’attività economica esercitata dai clienti; non debbono essere emittenti e negoziatori di prodotti finanziari derivati che siano, per la controparte, ancorché consapevole e informata, pure ‘scommesse’ o quasi, giacché il gioco delle scommesse non è attività bancaria; e così via” (p. 36). Nel caso in cui non si optasse per la corretta delimitazione dell’attività bancaria in strumenti derivati, occorre assicurare un’adeguata patrimonializzazione e una compiuta comprensione del livello dei rischi. Per quanto riguarda il primo aspetto, concentriamo l’attenzione su due esempi di worst-practice e di insufficiente capitalizzazione: AIG e Lehman Brothers. AIG, salvata dallo Stato americano con un esborso di 180 miliardi di dollari, rappresenta un buon esempio di sottocapitalizzazione. AIG, per la cronaca, si stima fosse il ventesimo operatore sul mercato del CDS, aveva sottoscritto 3200 miliardi di dollari di crediti default swap, cifra grossa ma non enorme rispetto al mercato. Il tasso medio d’insolvenza implicito nei contratti che aveva sottoscritto era dello 0,5%, che sta a significare che in 5 casi su 1000 prevedeva di dover pagare la controparte. Se si fosse verificato esattamente il livello di insolvenze implicitamente previsto nei contratti che aveva sottoscritto, in quella che si può ritenere sarebbe stata la situazione normale e non una situazione particolarmente avversa, AIG avrebbe dovuto sostenere un esborso di 16 miliardi di dollari (pari al 5 per mille di 3200 miliardi di dollari), una cifra improponibile considerando che AIG aveva un patrimonio complessivo di 25 miliardi di dollari. C’è stato un ulteriore problema: nel 2008 il tasso di insolvenza, immaginato da AIG allo 0,5%, è salito al 7%, e allora per far fronte ai suoi obblighi AIG avrebbe dovuto pagare 225 miliardi di dollari, oltre nove volte il patrimonio di cui poteva disporre. Va peraltro sottolineato che il fatto che il tasso di insolvenza possa arrivare al 7% non è in se impensabile, anzi! Nelle regole di Basilea I – e anche Basilea II metodo standard – quant’è il capitale che le banche devono accantonare ogni 100 euro di prestito? L’8%, e questa percentuale è stata scelta perché statisticamente, osservando orizzonti temporali lunghi, effettivamente sul credito si può arrivare al 8% di perdita, in un dato anno. AIG non era un intermediario regolamentato, stile Basilea, aveva
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largamente sottostimato i rischi cui era soggetta ed era fortemente sottocapitalizzata. Lo stesso ragionamento vale anche per la Lehman Brothers, che non aveva capitali sufficienti a sostenere le eventuali perdite delle sue attività. Lehman aveva all’attivo Mortgage Backed Securities (che sembravano tripla A, e poi tripla A non erano) raccoglieva tassi bassi, aveva uno spread del 3%, faceva degli enormi profitti a fronte di un patrimonio insufficiente. Draghi (2008a; p. 17) sostiene che “assieme all’adeguatezza del patrimonio e dell’organizzazione, il terzo presidio cui è affidata la stabilità del sistema bancario è la qualità del governo societario”, pertanto un corretto governo societario dovrebbe condurre ad una compiuta comprensione dei rischi assunti e del tipo di attività svolta. Con riguardo alla governance, Bianchi (2009) sottolinea come “l’attività in prodotti derivati debba essere rigorosamente vigilata dagli organi di governance, affinché non si traduca in un esercizio di compravendita di ‘scommesse’” (p. 36). “La saggezza sta nel comporre le antitesi dei potenziali conflitti di interesse tra tutti gli stakeholders; l’imprudenza sta nel privilegiare l’unilateralità degli interessi degli shareholders, ricercando, a tal fine, il rispetto non puntuale delle norme di vigilanza prudenziale; la saggezza, ancora, sta nel non introdurre operazioni rischiose, di pura sorte, come molti prodotti finanziari derivati, nelle relazioni di clientela, alla caccia di ricavi per commissioni e provvigioni; l’imprudenza sta nel perseguire alti gradi di redditività non sostenibili nel medio/lungo termine” (pp. 13-14). Le banche hanno sottostimato i rischi dei derivati e delle cartolarizzazioni, occorrono norme di governance più stringenti affinché i rischi siano compiutamente compresi con un rafforzamento del ruolo del consiglio di amministrazione e della responsabilità degli amministratori e dell’organizzazione interna. Cinque minuti? Mi avvio alle conclusioni. Alcuni spunti, guardando avanti: libero mercato non significa mercato senza regole, anzi i mercati regolamentati sono più tutelanti per i risparmiatori. La crisi del 2007-08 cade alla fine di un lungo percorso di deregolamentazione negli USA e in Europa. Negli USA vi fu un importante tentativo di regolamentazione dei derivati alla fine degli anni ’90, Greenspan – Rubin – Summers si opposero al piano della Commodities Futures Trading Commission (un’agenzia indipendente con il mandato di regolamentare i mercati dei future e delle opzioni) di regolamentare i deri-
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vati tra il 1998-99. Insistettero che un mercato libero dei CDS avrebbe assicurato un’assunzione di rischi efficiente. Coloro che si opposero alla regolamentazione sottolinearono i rischi di delocalizzazione del mercato. Questa esperienza dimostra la necessità del coordinamento internazionale nella riforma delle regole per il sistema finanziario. L’introduzione di regole uniformi è un problema politico internazionale, tuttavia recentemente sono emerse posizioni diverse già solo in Europa. A gennaio, il Commissario UE designato al mercato interno, Michel Barnier, ha confermato che l’esecutivo europeo proporrà iniziative legislative sui prodotti derivati e la creazione delle Camere di compensazione e il ministro francese Cristine Lagarde durante il convegno Aspen a Venezia (6 marzo) ha sollecitato un’azione europea più forte sui derivati. Gli inglesi potrebbero, invece, avere una posizione diversa sui CDS e sulla creazione di una Cassa compensazione e garanzia europea (come nel caso delle norme sugli hedge fund e sul private equity). Anche l’Associazione europea dei tesorieri d’impresa ha inviato una lettera a favore dei derivati su misura (non regolamentati e senza controparte centrale), probabilmente dovuta alla preoccupazione che i costi delle regole vengano traslate dalle banche alle imprese. Alle regole ha dedicato spazio anche il governatore Draghi che mercoledì pomeriggio (17 marzo) ha riferito come presidente del Financial Stability Board alla Committe on Economic and Monetary Affairs of European Parliament. Secondo Draghi (2010b; p. 6) gli aspetti da considerare nella regolamentazione dei derivati OTC sono: quali derivati debbano essere standardizzati e soggetti ad un obbligo di negoziazione nei confronti di una clearing house e quali utenti finali possano essere esonerati da questi obblighi. Il Governatore ha poi anche sottolineato l’importanza della trasparenza per un’adeguata vigilanza. Laddove i derivati non sono standardizzati e non vengono negoziati per mezzo di una clearing house occorre richiedere maggiori dotazioni patrimoniali e massima trasparenza. In estrema sintesi, per favorire il superamento della crisi e ripristinare la fiducia occorre sia introdurre nuove tutele, sia modificare quelle norme e prassi che hanno contribuito a minare la stabilità del sistema adottando un approccio sistemico che consideri simultaneamente strumenti, mercati e intermediari. Per quanto riguarda il primo aspetto – l’introduzione di nuove regole – occorre rafforzare i meccanismi di salvaguardia, incrociando le tutele relative al singolo intermediario con le tutele per il mercato, ad esempio: in primo luogo prevedendo, laddove i mercati OTC diventano così gran-
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di da poter minare la stabilità del sistema, l’introduzione di una clearing house, come sarebbe auspicabile fare per i derivati di credito; in secondo luogo, imponendo alle agenzie di rating regole più stringenti e trasparenti sulle loro indicazioni; in terzo luogo, verificando periodicamente che gli attori del mercato finanziario siano tutti soggetti a vigilanza e a regole prudenziali. Relativamente al secondo aspetto – modifica delle norme e delle prassi che hanno contribuito a minare la stabilità del sistema – la recente crisi dei mercati finanziari e la sua propagazione all’economia reale è stata favorita anche dall’introduzione degli IAS e dalla progressiva riduzione nella dotazione patrimoniale delle banche. Oltre alla modifica degli IAS citata prima, va modificata Basilea II, nell’ottica di attenuare la prociclicità, rafforzando anche il patrimonio delle banche. L’aspetto maggiormente tradito dello spirito del cambiamento dalla legge bancaria del ’36 al testo unico bancario del ’93 è il fatto che si pensava che con il nuovo testo unico – e con la privatizzazione – le banche avrebbero avuto una dotazione patrimoniale maggiore: lo Stato non poteva ripatrimonializzarle, ma ci avrebbe pensato il mercato. Questo non è avvenuto, alcune banche hanno raggiunto un ROE del 25%, assumendosi evidentemente dei rischi, tali da giustificare una remunerazione del capitale del 25%, e distribuendo sostanziosi dividendi non solo in Italia, ma anche all’estero. Nell’aprile del 2008 – a crisi già cominciata – sono stati distribuiti dalle prime dieci banche italiane quotate 10,5 miliardi di dividendi; sei mesi dopo, Tremonti andava a Bruxelles a farsi autorizzare i Tremonti bond per le sole banche quotate – perché il problema erano appunto le quotate – per un ammontare complessivo stimato fra i dieci e i dodici miliardi quando invece sarebbe stato sufficiente non distribuire i dividendi. Sicuramente il mercato spinge le banche ad assumersi rischi, allora: in primo luogo, serve il coefficiente dimensionale – come era stato previsto in Italia all’inizio di Basilea I – e la leva complessiva va normata; in secondo luogo, è utile imporre alle banche un buffer di capitale oltre il minimo regolamentare. Allorché una banca non abbia questo ulteriore cuscinetto patrimoniale, non potrà distribuire dividendi. In conclusione, le misure devono essere adottate da tutti gli intermediari in tutti i paesi, non solo perché vogliamo che le nostre banche possano competere ad armi pari ma perché, se consentiamo di aggirare le regole, il sistema non sarà mai stabile. Non è pertanto un tema di patriottismo, ma un tema di stabilità. Non voglio concludere in chiave negativa. La crisi, infatti, può anche essere vista come un’occasione per un cambiamento in meglio, come
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sosteneva Einstein nel 1955, “senza la crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia; dobbiamo finirla una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa, la tragedia di non voler lavorare insieme per superarla”. Desidero ancora ringraziare la nostra presidente, la prof.ssa Calvosa, il professor Nigro, e il prof. Piras che ha moderato la tavola rotonda e che mi ha consentito di parlare in questa occasione per ragionare insieme su temi secondo me molto importanti5∗.
Vittorio Santoro Grazie. Credo che le mie osservazioni siano pressoché superflue, sia perché data l’ora la platea si è ridotta, sia perché alcune considerazioni sono state appena anticipate dalla prof. Brogi. In ogni caso, credo che,
Riferimenti: Banca d’Italia, Glossario alla relazione, 2008. Bianchi, Mercato finanziario e Borsa Valori, Milano, Giuffrè, 1958. Bianchi, Considerate la vostra semenza, Lectio Magistralis, mimeo, 2009. Brogi, “IAS, fair value e coefficienti patrimoniali nelle banche”, in Saggi in onore di Tancredi Bianchi “Banche, sistema , modelli”, a cura di Comana, Brogi, Vol. I, Roma, Bancaria Editrice, 2009. Draghi, Considerazioni finali, 31 maggio 2008a. Draghi, Un sistema con più regole, più capitale, meno debito, più trasparenza, 21 ottobre 2008b. Draghi, Intervento del Governatore della Banca d’Italia al convegno AIAF, ASSIOM, ATIC FOREX, 13 febbraio 2010a. Draghi, Modernisation of the Global Financial Architecture: Global Financial Stability, intervento alla Committe on Economic and Monetary Affairs of European Parliament, 17 marzo 2010b. Hart, Zingales, “Raccolta di capitale e livello dei valori. Perché i Cds aiutano le banche in difficoltà”, in Il Sole 24 Ore, 9 febbraio 2010. Keynes, The General Theory of Employment, Interest and Money, London, Macmillian, 1936. Műnchau, “è ora di abolire i credit default swap”, in Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2010. Onado, “Vestiamo di regole quei Cds ‘nudi’”, in Il Sole 24 Ore, 13 marzo 2010. Zingales, “Per le regole sui bonus una lezione da Goldman”, in Il Sole 24 Ore, 12 dicembre 2009. Zingales, “Chi combatte i Cds teme solo la verità del mercato”, in Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2010. ∗
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con sollievo di tutti, dopo un pomeriggio denso di relazioni, sia bene imprimere un motus in fine velocior. Toccherò solo tre punti: 1) rammenterò i fatti che hanno determinato la crisi; 2) porrò una questione terminologica in ordine al significato di derivati finanziari; 3) terminerò con due proposte di possibile evoluzione del sistema. 1) I fatti sono quelli che hanno ricordato tutti, in sintesi: le banche, negli Stati Uniti, in seguito all’abrogazione del Glass-Steagal Act, hanno goduto di una libertà maggiore che non nel passato nell’erogazione dei prestiti, fino al punto che non vi è stata più distinzione fra banche commerciali e banche di investimento. I loro attivi hanno incorporato posizioni molto rischiose, cosicché all’approssimarsi della crisi nel mercato del credito, alle prime avvisaglie di problemi in ordine a sofferenze su prestiti, in particolare nel settore immobiliare, le banche hanno proceduto a ripulire i loro attivi di bilancio, rivendendo le loro posizioni di credito più rischiose a investitori non soggetti a controlli, ovvero, quando controllati, non in grado di riconoscere il rischio insito in strumenti finanziari sempre più sofisticati. Paradossalmente proprio le regole di Basilea I (Basilea II era appena agli esordi e soprattutto non era stata ancora applicata negli Stati Uniti) hanno contribuito ad accelerare in certa misura l’esito nefasto della crisi. Basilea I, infatti, ha introdotto requisiti meno flessibili di patrimonializzazione in relazione ai mutui; ciò ha spinto le banche al moral hazard, vale a dire a creare prodotti sempre più sofisticati e meno comprensibili, proprio al fine di riacquisire quella flessibilità che le regole di Basilea sottraevano loro. In tale fase le banche, da un lato, hanno camuffato i rischi maggiori impacchettandoli in derivati con sottostante di qualità migliore; d’altro lato, hanno creato speciali “veicoli” (società partecipate o collegate) dotati di alto rating proprio per il fatto di essere di proprietà delle medesime banche e a tali veicoli hanno ceduto le posizioni più rischiose. Tali modalità operative si sono sviluppate nel mercato americano, e per l’intima connessione in quello inglese. Tuttavia, gli altri mercati non ne sono rimasti immuni per effetto della globalizzazione e per effetto competitivo. Nessuno è voluto rimanere fuori a guardare quello che sembrava un’orgia di facili profitti. D’altra parte non è pensabile tenere separati i mercati di questi paesi dai mercati di tutti i paesi avanzati, con particolare riguardo a quelli europei e a quello italiano. Si ha voglia a dire in Italia la situazione è migliore, in effetti la crisi è giunta anche da noi, e le maggiori nostre banche, in una misura maggiore o minore, sono state partecipi del fenomeno descritto. D’altra parte, sono proprio i principi economici della
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concorrenza che, in assenza di regole di vigilanza, hanno spinto le banche di tutti i paesi a imitare quelle americane e inglesi nell’uso spregiudicato di una leva finanziaria molto accentuata, ma è noto che al manifestarsi della crisi è almeno altrettanto ampio il deleverage. La globalizzazione dei mercati impedisce che si possa realizzare un’adeguata protezione degli investitori retail, salvo che si raggiunga un soddisfacente grado di omogeneizzazione tra gli ordinamenti, l’obiettivo non è facilmente realizzabile. Gaetano Presti ci ha parlato della situazione dall’altra parte dell’Oceano, altri relatori si sono soffermati un po’ più sulle cose europee; ma al di là di qualche dato di fondo comune a tutte gli interventi degli Stati di fronte al dilagare della crisi economica, le difformità fra gli ordinamenti sono enormi. Piuttosto che offrire un’omogenea protezione degli investitori, vi è stata una gara a offrire una protezione al ribasso. D’altra parte se un ordinamento volesse optare per una difesa più rigorosa degli investitori retail, non sarebbe in grado di proteggere efficacemente nemmeno i propri cittadini-risparmiatori. Le regole di protezione varrebbero, secondo i principi di diritto internazionale privato, quando l’emittente o intermediario raggiungano l’investitore nei confini dello Stato che offre la protezione più rigorosa, non varrebbero nel caso inverso. Ma gli intermediari spregiudicati sono abili a sollecitare l’interesse dei risparmiatori attraverso pubblicità accattivanti di prodotti finanziari che promettono interessi da favola; pubblicità che sono sotto gli occhi di tutti in internet o sono prospettate in modo aggressivo con strumenti anche più tradizionali quali la posta o il telefono. Consentitemi un esempio personalissimo: alcuni anni fa, sono stato ripetutamente contattato telefonicamente direttamente da New York da un promotore che parlava esclusivamente in lingua inglese, il quale mi proponeva investimenti dai contorni ambigui ma, a suo dire, economicamente vantaggiosissimi. Per fortuna mi sono guardato bene dall’investire; ma ricordo l’episodio per sottolineare l’aggressività degli intermediari verso una platea casuale e distante dai mercati di origine e dalla quale si pretende di estorcere una proposta di investimento; badate bene non si chiede, invece, di accettare una proposta, con le conseguenze sopra evidenziate in ordine alla legge applicabile. Questo genere di aggressività si è manifestata nelle forme peggiori esattamente prima dello scoppio della crisi, quando ormai gli intermediari erano consapevoli di avere degli attivi solo figurativi di cui occorreva disfarsi rapidamente, trasferendo i titoli tossici dagli originatori in grado di riconoscere il rischio, a soggetti che non sono più in grado di riconoscerlo, vale a dire a intermediari più deboli o, infine, a investitori retail.
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Fatto è che le stesse autorità di controllo, sia pure in gradi diversi da paese a paese, ipnotizzate dal valore taumaturgico del “mercato”, hanno lasciato mano libera agli originatori dei titoli derivati fino al punto che non sono state più in grado di comprendere, esse stesse, il grado di rischio insito in molti strumenti derivati. Tra i gate keepers che hanno fallito la loro missione in prima linea devono essere ricordate le agenzie di rating, che, al di là dei casi di dolo, hanno fallito nella loro missione cadendo in gravi negligenze professionali. 2) Dipende tutto ciò dall’uso stesso dei derivati? Certo, questi strumenti hanno la caratteristica di accrescere la leva finanziaria in periodo di crescita, ma anche di ridurla fortemente in periodi di crisi, ciò rappresenta di per sé un fattore di rischio. Possiamo pensare, come qualcuno anche oggi ha adombrato, di risolvere drasticamente il problema azzerando la storia e tornando indietro ad un mondo della finanza senza derivati? Io credo, come già altri oggi ha sottolineato, che questo scenario è impensabile, sarebbe come dire che è meglio un mondo senza dinamite (che pure è utile ad es. nelle miniere, nelle grandi opere pubbliche). Credo che la storia non possa tornare indietro, pertanto dobbiamo imparare a gestire i derivati come abbiamo imparato a maneggiare l’esplosivo. A tal fine il primo passo da compiere è comprendere di cosa parliamo. Mi piace partire da un bel saggio di Eugenio Barcellona, recentemente apparso sulla rivista Banca e borsa, nel quale l’a. afferma che anche le azioni di società sono dei derivati (in particolare l’a. afferma che “lo scambio azionario è il contratto con il quale […] si scambiano un flusso monetario certo (il prezzo) con un flusso monetario incerto (le aspettative di utili)”). Se così è, tuttavia, è innegabile che di strada se ne è fatta da un mercato in cui si scambiavano solo azioni (e obbligazioni) ai mercati in cui si scambiano derivati. In ordine a questi ultimi le definizioni sono così ampie da essere poco utili in termini giuridici, si afferma ad esempio che: i tipi di strumenti derivati sono illimitati e possono contenere tutte le clausole in ordine alle quali le parti trovino un accordo al fine di scambiare un prezzo contro l’assunzione di un rischio. La ricerca nella legislazione europea, come in quella nazionale, di una nozione di derivato, o di nozioni di vari tipi di derivati, è vana. Si può, invece, constatare come il legislatore europeo (a cui quello nazionale deve adeguarsi) nelle direttiva Market abuse e Mifid, ne hanno ampliato l’elenco su base casistica, in ciò assecondando la tendenza degli operatori “all’innovazione finanziaria” o se si preferisce “all’uso sfrenato
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della fantasia operativa”. Questo fatto di per sé testimonia della complessità del fenomeno. Presidente – Scusa Vittorio, se sai qualcosa su quelli islamici a cui ho fatto accenno stamattina… Santoro – Non mi sembra che siano derivati, loro sono più saggi di noi da questo punto di vista! I derivati finanziari, infatti, contravvengono il divieto di transazioni aleatorie e quello di vendita del rischio. Dicevo che il legislatore europeo tende ad allargare il novero degli strumenti finanziari derivati per assecondare l’innovazione finanziaria, ma la crisi attuale ha posto bruscamente all’ordine del giorno l’esigenza di mettere ordine nella materia. A tale operazione si è recentemente accinto il CESR (Committee of Securities Regulators) partendo da concetti semplici e, credo, condivisibili vale a dire che i mercati per funzionare al meglio hanno bisogno: 1) della standardizzazione dei prodotti; 2) dello scambio d’informazioni tra autorità di controllo. Tuttavia, di fronte all’innovazione finanziaria le regole sull’ammissibilità del prodotto alla negoziazione così come quelle relative allo scambio di informazioni si devono continuamente adeguare, per evitare che siano aggirate con il pretesto che si tratta di prodotti diversi da quelli già regolati e, pertanto non soggetti ad alcun tipo di regola. Il documento CESR (09/987 del gennaio 2010) prevede la standardizzare dei derivati over the counter, che in realtà è una sorta di contraddizione in termini, perché in pratica l’OTC è uno strumento che non dovrebbe prestarsi a nessuna standardizzazione ex ante, proprio per questo la proposta del CESR è tanto più meritevole. Nel documento si prospetta la necessità che le autorità di controllo dei vari paesi dell’Unione europea siano reciprocamente informate in ordine ai prodotti finanziari che circolano sui rispettivi mercati sulla base di un report unico nel quale andranno inserite le principali notizie relative ai derivati contrattati nei vari paesi. L’auspicio sotteso è che le indicazioni, che dovranno essere inserite nel report, saranno, a loro volta, richieste da ciascuna autorità di controllo agli operatori, i quali, dunque, saranno autorizzati ad immettere nel mercato solo quei prodotti che rispondano alle informazioni standard presenti nel format. A tal fine, il CESR elenca tipi di derivati OTC che si possono standardizzare e le informazioni che è necessario fornire per raggiungere l’obiettivo della standardizzazione. Qui mi limito a riportare, per il tempo limitato a mia disposizione, l’elenco dei derivati che, secondo il CESR, è possibile standardizzare,
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essi sono: Options; Futures; Warrants; Total return swap; Spread bets (sono nell’elenco quelli meno noti, preciso pertanto che sono simili ai contracts for difference, e hanno talvolta come sottostante un equity, e sono caratterizzati da una leva finanziaria importante); alcuni tipi di Swaps; Credit default swap; infine, i Complex derivatives (con le limitazioni che dirò poi). All’esito della Consultazione CESR, si propone di standardizzare i suddetti prodotti attraverso l’obbligatoria indicazione degli elementi seguenti: a) il codice ISO, che altro non è che una sorta di bollino blu; b) il tipo di derivato; c) le tipologie di derivati sottostanti; d) con riferimento alle option, se siano put o call; e) se vi sia un moltiplicatore del prezzo; f) il prezzo strike, vale adire il prezzo al quale si può esercitare il diritto; g) infine, il termine entro il quale il diritto può essere esercitato. In verità, i Complex derivatives non si prestano ad essere facilmente classificati secondo lo schema sopra sintetizzato; sicché il CESR suggerisce che le autorità di controllo nazionali non ammettano normalmente che siano negoziabili questo tipo di derivati, ma soggiunge che se proprio dobbiamo aprire la porta anche ai derivati complessi lo si faccia solo per: 1) quei derivati complessi la cui funzione put o call non è classificata alla stipula; 2) quei derivati in forma di option con variabili sia put che call, ove l’acquirente sceglierà, a una data futura, se l’opzione debba essere put o call; 3) quei derivati in forma di option e di warrant, dove il prezzo strike non è noto alla stipula, ma basato su un prezzo corrente del periodo considerato. Già da questa mera elencazione di indicazioni, abbiamo un quadro molto complicato delle clausole che possono afferire ai derivati complessi, al di là del quale la standardizzazione non pare al CESR più praticabile. Oltre tale limite, la circolazione di strumenti derivati dovrebbe essere vietata, oppure, come con più realismo sembra suggerire il CESR, limitata ad una contrattazione tra soggetti professionalmente qualificati e specificamente specializzati. È evidente che l’auspicato nuovo corso dovrebbe inserirsi nel quadro di una riforma europea che preveda importanti modifiche di direttive, in particolare, market abuse e mifid, in senso meno liberale che nel passato. 3) Quanto infine alle due proposte che vi annunciavo in apertura, vorrei, in primo luogo, far notare che gli stessi controllori del mercato (includendo in questi le agenzie di rating) spesso, se non sempre, non sono in grado di conoscere perfettamente le caratteristiche dei prodotti più complessi, si affidano, a scatola chiusa, alle dichiarazioni degli emittenti e degli intermediari. Questa rinuncia a priori ad esercitare in modo appropriato le funzioni di controllo non è più tollerabile; occorre, pertanto, prevedere che, quando s’immettono dei prodotti sul merca-
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to, l’emittente o l’intermediario debba chiedere una specifica autorizzazione, che dovrebbe essere rilasciata se, e solo se, siano chiarite le caratteristiche del prodotto (affinché, poi, l’autorità di controllo indichi le informazioni che dovranno essere trasferite al mercato). In secondo luogo, poiché, quando il prodotto è complesso, vi è un onere finanziario da sostenere già solo per spiegare il modo in cui è costruito un derivato finanziario, tali oneri dovranno essere caricati sugli emittenti e sugli intermediari interessati. Se non è possibile raggiungere tale risultato, il prodotto non dovrà essere immesso sul mercato, questo è un punto fondamentale, che potrà essere facilitato dalle accennate regole di standardizzazione promosse dal Cesr. La seconda proposta è quella già avanzata dalla prof.ssa Brogi, con la quale mi trovo perfettamente concorde, sicché sarò telegrafico: è necessario istituire un sistema di controparte centrale anche per i derivati OTC più pericolosi, come d’altra parte già accade per altri derivati. Io credo che il sistema di controparte centrale debba essere esteso il più possibile. Esso, infatti, è un meccanismo che assicura liquidità al sistema, e garantisce rispetto all’insolvenza dei soggetti aderenti, sicché qualora qualche intermediario abbia problemi di liquidità o, nei casi più gravi, fallisca, il sistema di controparte centrale, nel primo caso, l’aiuta a superare la difficoltà ovvero, nel secondo caso, lo espelle dal sistema ricalcolando le posizioni reciproche degli altri aderenti, evitando in definitiva che la crisi si contagi agli altri operatori. Molti ritengono che questo sistema non sia estensibile ai derivati OTC per definizione fuori mercato, ma mi piace segnalare che un parere opposto è stato espresso dall’associazione internazionale tra gli operatori specializzati in swap. Ho qui terminato in ordine ai tre punti che mi ero proposto, però consentitemi ancora un’osservazione conclusiva. Oggi si è parlato molto di mercati e dell’opportunità che essi siano più o meno regolamentati. Io vorrei sottolineare che il mercato in quanto tale non esiste: non possiamo concepire se non un mercato che abbia delle regole, regole che altro non sono che meccanismi di manipolazione di tendenze e comportamenti che se non corretti andrebbero in altre direzioni. Dico questo perché la vera scelta che abbiamo di fronte è la seguente: 1) lasciare ancora che il mercato sia autoregolamentato, vale a dire manipolato dagli stessi operatori che su di esso hanno una posizione oligopolistica, ma mi sembra che oggi nessuno abbia espresso questa posizione; 2) imporre una regolamentazione esterna rigorosa, affidata possibilmente ad una competenza sopranazionale, nell’ottica di proteggere gli investitori e di assicurare il regolare finanziamento alle imprese.
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Sia chiaro che anche in questa seconda ipotesi il mercato sarà “manipolato” ma, in questo caso, non in funzione dell’interesse di pochi operatori bensì in funzione di un interesse più generale, per garantire stabilità e sicurezza. Perché una tale regolamentazione funzioni efficacemente, il regolatore del mercato dovrebbe avere una competenza sopranazionale. Forse in Europa stiamo muovendo i primi passi (troppo lenti) per costruire un sistema europeo unico, ma anche ciò non sarà sufficiente se non vi sarà un efficace coordinamento e un’unità di intenti con i regolatori di oltreoceano.
Considerazioni conclusive Alessandro Nigro Vorrei iniziare queste rapide considerazioni conclusive rilevando che tutti i relatori si sono collocati – mi parrebbe – nell’ottica che indicavo all’inizio dell’incontro, quella cioè di tentare un’analisi dei problemi nascenti dalla crisi, con riferimento alle banche, in una dimensione per così dire “laica”, ovvero senza tabù, senza pregiudizi, senza idee preconcette. E rilevando ancora che se, nella trattazione dei singoli argomenti, c’è chi ha mostrato (volendo usare degli stereotipi) una posizione più conservatrice e chi, invece, una visione più rivoluzionaria, tutti però, in misura minore o maggiore, hanno convenuto – mi parrebbe – non soltanto sull’esistenza e sulla gravità dei problemi sollevati dalla crisi ma anche sulla necessità di interventi più o meno drastici, più o meno rivoluzionari, appunto. Nella varietà di voci e di approcci non sono mancate, ovviamente, divergenze anche vistose. Mi sembra da segnalare, per esempio, il contrasto fra la visione pessimistica di Pietro Giovannini, secondo il quale, da un lato, il cuore della crisi non sarebbe stato neppure compreso fino in fondo e, dall’altro, la vera crisi, in realtà, non ci sarebbe ancora stata; e quella ottimistica di Marina Brogi, che invita a considerare la crisi come sfida e occasione propizia per rivedere le regole. Sono emerse, peraltro, anche interessanti consonanze. Con riferimento, sempre per esempio, alle cartolarizzazioni, che evidentemente pongono problemi particolarmente sentiti, tutti quelli che hanno toccato l’argomento (Presti, Mattei Gentili, Carriero, Boido, Brogi) sono stati dell’avviso della necessità di un intervento che introduca correttivi all’utilizzazione di quello strumento da parte delle banche.
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Quasi tutti gli interventi, poi, hanno posto in luce la difficoltà, in qualche misura, di “isolare” i singoli problemi: una difficoltà che c’è sempre e comunque, ma che nel nostro caso è emersa in tutta la sua rilevanza, anche in relazione alle differenti dimensioni da considerare (quella nazionale; quella internazionale) con riguardo sia alla crisi sia ai meccanismi di intervento. Sono stati coinvolti, potremmo dire, i massimi sistemi. È stato toccato il tema del “pubblico” e “privato” non solo nell’attività bancaria e nella relativa regolamentazione, ma nell’impresa, e quindi nell’attività economica, in genere. È apparsa l’esigenza di ripensare o ridefinire la nozione stessa di banca, per individuare l’ambito rispetto a cui ragionare. Si sono evocati i problemi legati all’evoluzione dell’impresa, in relazione alle dimensioni che la medesima può assumere, problemi che, di nuovo, non riguardano solo l’impresa bancaria. L’Unicredit è troppo grande per fallire, ma anche la FIAT è troppo grande per fallire: e questo, evidentemente, ha tutta una serie di implicazioni e di corollari. Fra l’altro, va anche considerato un altro aspetto, che non mi pare sia stato qui evocato, ma che occorre abituarsi a tenere presente: la dimensione delle imprese rileva con riferimento a tutti i “rimedi”, per così dire, alle crisi: quindi, se è giusto porsi il problema se un’impresa sia troppo grande per fallire, in relazione alle ripercussioni che ne deriverebbero, ci si deve anche porre il problema se un’impresa sia troppo grande anche per essere aiutata dallo Stato. Sotto questo profilo, emerge in tutta la sua importanza la problematica, che qui non è stata considerata, perché non la si poteva considerare, del “frazionamento” delle grandi imprese, specificamente di quelle bancarie. Vengo a qualche riflessione che trae spunto da quello che abbiamo sentito in ordine ai diversi argomenti. Sul tema “pubblico”/”privato” nell’attività bancaria. Franco Belli ha evidenziato due cose. La prima che le categorie del “pubblico” e del “privato” né possono essere delimitate in modo rigido né possono essere frontalmente contrapposte: nella realtà, in particolare nella realtà dell’attività economica, il “pubblico” e il “privato” s’intrecciano e si frammischiano (il relatore ha usato la suggestiva espressione “si incistono”). La seconda è che l’intreccio “pubblico”/”privato” è particolarmente intenso nella banca: e lo è perché l’attività bancaria ha a oggetto una “merce pubblica”. Questo non significa – ha precisato Belli – che la banca non sia impresa: certamente lo è, ma si tratta di un’impresa dai connotati assolutamente peculiari. Anche Giovannini si è collocato sulla stessa linea, là dove ha sottolineato che l’attività bancaria è per sua natura insieme attività pubblica e
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attività privata e criticato, poi, il fatto che si sia perso di vista il dato delle funzioni “pubbliche” della banca. I rilievi di entrambi i relatori mi trovano perfettamente d’accordo. Credo che si debba abbandonare una volta per tutte l’idea che la banca sia un’impresa privata come le altre, che in principio essa debba essere trattata come le altre e che quindi qualsiasi limitazione al modo di essere e di operare della banca debba essere riguardata come una sorta di eccezione, come una sorta di espropriazione di un pezzo di autonomia. Ritengo che questa sia un’idea profondamente errata, perché la banca non è un’impresa come tutte le altre, per la specificità del suo paradigma imprenditoriale e del bene che ne costituisce l’oggetto e per la conseguente, ineliminabile, sua valenza pubblicistica o, se si preferisce, rilevanza per l’interesse collettivo: una valenza e una rilevanza che si manifestano, oserei dire, più ancora che sul versante della raccolta del risparmio, sul versante dell’erogazione del credito. Ho avuto altre volte occasione di sottolineare che mi sembra riemersa l’attualità e la correttezza dell’espressione usata nella vecchia legge bancaria del ’36, che definiva la raccolta del risparmio fra il pubblico e l’esercizio del credito come “funzioni di interesse pubblico”: una formula, dove era chiaro il senso della distinzione tra la funzione pubblica e la funzione di interesse pubblico, che era ed è perfettamente calzante con i connotati della fattispecie “attività bancaria” e che, per questo, meriterebbe – in una futura revisione del testo unico bancario – di ritrovare il suo posto nella normativa (e di ritrovarlo precisamente accanto alla formula dell’attuale art. 10, dove si precisa la natura di impresa dell’attività bancaria: formula quest’ultima certamente superflua, se presa a sé, ma che recupererebbe una precisa ragion d’essere ove posta accanto a quella dell’art. 1 l. banc., in un rapporto allora di reciproca complementarietà). Proprio alla luce di tutto questo si giustifica e si comprende, in particolare, l’intervento dello Stato nelle situazioni di crisi. Il fatto che tutti gli Stati siano intervenuti, con una sintonia impressionante e significativa (Giovannini ha parlato di “sorprendente rapidità di intervento”), per salvare le banche, con strumenti diversi ma aventi tutti il medesimo obiettivo, credo che dimostri la ineliminabile componente pubblicistica dell’attività bancaria, non soltanto sotto il profilo della tutela dei depositanti, che in questo caso veniva meno in considerazione, quanto sotto il profilo della tutela della funzione creditizia. Non a caso i meccanismi di soccorso per le banche italiane sono stati ancorati, come è noto, proprio al mantenimento e al rafforzamento della funzione creditizia.
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Quanto fin qui detto significa e comporta che, là dove la tutela della funzione creditizia lo richieda, ben possono o debbono essere imposte limitazioni anche incisive all’attività e al modo di essere delle banche. Le considerazioni fin qui fatte mi consentono di passare al secondo argomento, quello relativo agli investimenti. Come i relatori hanno ben colto, il titolo dato al tema non era da riferire agli investimenti della banca intesi in senso generico, perché è chiaro che l’investimento principe della banca – ed è stato sottolineato – è nel credito che viene erogato. Il discorso doveva riguardare – e ha in effetti riguardato – l’impiego da parte della banca di propri capitali in investimenti sul mercato mobiliare: che è, poi, quello che ha determinato, fondamentalmente, i problemi. I problemi, infatti, sono nati in relazione al fatto che le banche – come ci ha chiarito anche Presti – da un lato hanno creato e messo in circolazione titoli “tossici” e, dall’altro, questi titoli hanno esse stesse acquistato, non tanto per rivenderli ai clienti o per conto dei clienti, ma per sé, come forma di impiego delle proprie disponibilità. Di qui, il problema di stabilità patrimoniale della banca, derivante dal fatto che si fosse “imbottita”, come si è detto, appunto di titoli “tossici”. Presti ha richiamato la proposta Obama, secondo la quale dovrebbe essere preclusa alle banche commerciali la possibilità di svolgere attività di trading in proprio, in base alla considerazione, da un lato, che le banche commerciali sono assistite da una rete di sicurezza che non può tradursi in una protezione, a spese dei contribuenti, di chi svolga un’attività a rischio nel proprio interesse e, dall’altro, che non si può consentire che chi raccoglie a buon mercato denaro fra il pubblico usi poi questo denaro, anziché per la funzione creditizia, per eseguire trading a proprio profitto. Mi sembra che la strada da seguire sia proprio questa, se si vuole essere coerenti fino in fondo con l’idea che il cuore dell’attività delle banche (la ragion d’essere della loro esistenza) sia l’attività bancaria in senso stretto. Il resto è un “collaterale” che può essere gestito dalla banca liberamente finché non ponga in crisi l’esercizio della funzione creditizia. Se, come si è visto nei casi venuti all’attenzione di tutti, gli investimenti sul mercato mobiliare delle disponibilità delle banche ha messo a rischio lo svolgimento della funzione creditizia, allora evidentemente bisogna regolare in maniera più appropriata e più stringente di quanto è avvenuto fino ad ora quel tipo di investimenti. Tanto più ove si consideri che, operando come hanno operato, le banche hanno oltretutto dimostrato di non essere neppure capaci di gestire quel tipo di investimenti.
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Mattei Gentili – oltre a richiamare l’esigenza di prestare attenzione alla qualità dei fondi propri delle banche – ha fortemente premuto sul tasto dell’interconnettività tra l’attività bancaria e l’attività finanziaria: a suo avviso ormai le imprese finanziarie debbono fare tutto, quindi chi fa banca deve poter fare anche attività di investimento, intesa come attività di intermediazione nell’investimento (e non come investimento in proprio). Secondo Mattei Gentili – è una scuola di pensiero accreditatissima – non è possibile tornare indietro, non è possibile cioè tornare al mondo di prima, in cui le banche non potevano svolgere attività di intermediazione finanziaria. Personalmente, non sono affatto convinto di quest’inscindibilità. Anzi, ho avuto occasione di scrivere che occorrerebbe separare rigorosamente l’attività bancaria e l’attività di intermediazione finanziaria, da riservare a soggetti distinti dalle banche e con esse non collegate. Questo per vari ordini di ragioni. La prima e più importante è che le banche debbono tornare a concentrarsi, rigorosamente, sul loro oggetto tipico, cioè sull’intermediazione creditizia che ne costituisce la stessa ragion d’essere; ma c’è anche l’esigenza di ridurre i conflitti di interesse e quella di contribuire ad evitare il “gigantismo” delle imprese finanziarie. Il rischio di credito. Il discorso riguarda ovviamente, in primo luogo, le cartolarizzazioni. C’è stata una proposta drastica di Fabio Merusi, che tutti avrete letto su Banca, borsa e titoli di credito: quella di proibire per legge la cartolarizzazione sotto qualsiasi forma del rischio di credito. Questa proposta, in maniera forse un po’ troppo semplicistica, è stata liquidata come “stravagante” e priva di consistenza, in un saggio pubblicato nella Rivista delle società, da Guido Rossi, il quale ha detto, in sostanza, che le cartolarizzazioni sono indispensabili. Personalmente credo che si debba distinguere fra cartolarizzazioni in generale e cartolarizzazioni da parte delle banche. Credo che, in effetti, non interessi né tanto meno preoccupi il fatto che la FIAT o l’INPS cartolarizzino o meno i loro crediti; che interessi invece e preoccupi (o dovrebbe preoccupare) che le banche cartolarizzino i propri crediti, spogliandosi così del rischio di credito. La ragione per la quale si può sostenere (e io sono di questo avviso) che le banche non dovrebbero spogliarsi del rischio di credito è stata chiarita efficacemente da chi ha parlato dell’argomento in questo nostro incontro. Da un lato, c’è una sorta di “tradimento” della stessa funzione della banca (Carriero è arrivato ad adombrare una vera e propria illiceità di questo meccanismo): erogare il credito significa non limitarsi al momento dell’erogazione, ma anche gestire il credito erogato, perché
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il fatto che la banca debba gestire il credito, dopo averlo concesso, ridonda per così dire all’indietro, sotto il profilo dell’attenzione nella valutazione dei presupposti per la concessione del credito (come è stato giustamente sottolineato da Mattei Gentili: se io concedo il credito sapendo che poi me ne libererò, sono indotto o posso essere indotto a concedere più facilmente il credito). Dall’altro, nel sistema generale, venuto meno il monitoraggio da parte di chi ha concesso il credito, restano totalmente prive di controllo l’evoluzione del rapporto e l’attività del debitore, perché tale controllo non possono certo svolgere i cessionari che non hanno più alcuna relazione con i debitori originali. Quindi: scarso controllo all’origine del rapporto creditizio, nessun controllo durante lo svolgimento di esso, salvo il “controllo” – si fa per dire – delle agenzie di rating (di cui ci hanno parlato Carriero, Boido e Brogi). Di qui, la giustificazione quanto meno di misure “correttive” come quelle alle quali hanno accennato sia Mattei Gentili, sia Carriero, sia Brogi (per esempio: quella di imporre all’originante di conservare una quota dei crediti cartolarizzati). Ma direi che sarebbe pienamente giustificato anche il divieto tout court per le banche di cessione del rischio di credito. Salvo, naturalmente, che esse restino responsabili in toto della sorte del credito, pur dopo avere cartolarizzato. Il sistema lo consente: in questo modo, però, la convenienza dello strumento per le banche sarebbe, come è ovvio, fortemente ridotta. Ultimo tema: i derivati. Credo che sia nota a tutti la mia posizione sui derivati. Ho sempre detto e scritto di considerare i derivati prodotti altamente pericolosi e di condividere in pieno l’affermazione di Buffett secondo il quale i derivati sono “armi di distruzione di massa”; di non capire perché un sistema il quale vieta la vendita e la circolazione di automobili che non siano omologate, un sistema il quale non permette a tutti la vendita di veleni, un sistema il quale vigila pesantemente sulla vendita di armi, consenta poi la creazione e la libera circolazione, senza vincoli di alcun genere, di prodotti finanziari dal contenuto spesso sconosciuto, dalla difficile decifrabilità, sovente privi di un prezzo preciso ed anzi della possibilità stessa di avere un prezzo preciso. Di ritenere, infine, che un mercato finanziario il quale voglia essere integro e affidabile non possa tollerare la utilizzazione e circolazione senza limiti di simili strumenti. Aggiungo che non può non sorprendere la circostanza che, fino all’esplosione della crisi, nessuno, a cominciare dagli stessi legislatori e regolatori, avesse mostrato di rendersi conto della valenza di questi prodotti: tant’è che ne era stata predicata la utilità come fattore di progresso e addirittura – come ci ha ricordato Boido – ne era stata ufficialmente con-
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sigliata, in qualche momento, l’utilizzazione come strumenti per mitigare il rischio. La strada a questo punto mi pare inevitabile: non divieto dei derivati in qualsiasi forma e in quanto tali, sempre e in assoluto; necessità, invece, di un controllo, di una regolamentazione. Naturalmente, come ha evidenziato anche Brogi, non tutti i derivati dovrebbero essere regolamentati allo stesso modo; e mi pare, d’altra parte, che – ce lo ha detto sempre Brogi – si stiano profilando, rispetto ad alcuni tipi di derivati (i CDS), spinte per la introduzione del meccanismo della controparte centrale, a cui ha fatto riferimento anche Santoro, che quanto meno assicura la liquidità del sistema e garantisce la solvibilità dei partecipanti. Ascoltare appunto dal professor Santoro le proposte che circolano a livello di CESR mi ha confortato, perché tali proposte mostrano un evidente progresso rispetto a una situazione che pareva inizialmente caratterizzata dal rifiuto, pur dopo l’esplosione della crisi, di qualsiasi idea di porre dei vincoli alla innovazione finanziaria, assurdamente giudicata come fonte di effetti benefici sempre e comunque. Evidentemente, il dibattito che si è aperto, a tutti i livelli, su questo particolare segmento del mercato finanziario sta producendo qualche effetto positivo. Mi convincono pienamente le precisazioni che ha fatto Santoro: il fatto cioè che occorra il “bollino di entrata” e la standardizzazione; il fatto che i prodotti non standardizzabili debbono essere resi intellegibili, a spese dell’emittente; e il fatto che, se l’emittente non è in condizioni di renderli intellegibili, i prodotti siano oggetto di divieto di circolazione. Aggiungo che mi parrebbe necessario riprendere la vecchia distinzione fra derivati con funzione di copertura e derivati puramente speculativi, per assoggettare le due categorie a discipline diverse. So bene che la speculazione in qualsiasi mercato è ineliminabile e che un certo tasso di speculazione può essere anche considerato positivo. I nostri mercati finanziari, però, sono già caratterizzati da quel tasso: arricchirli con strumenti di puro azzardo non mi parrebbe consigliabile; tanto più quando tali strumenti abbiano raggiunto le dimensioni spaventose di cui abbiamo sentito (multipli del prodotto lordo mondiale!). Un punto mi parrebbe in ogni caso fondamentale. Ed è che, al di là di ogni regolamentazione dei derivati in quanto tali, alle banche dovrebbe essere rigorosamente precluso – ho già toccato il punto in precedenza – l’investimento in simili strumenti. Come ho scritto in altra occasione, è “tragico” che proprio le banche, le quali dovrebbero avere nel loro codice genetico la gestione e il controllo del rischio, siano cadute vittime di un inadeguato controllo dei rischi assunti investendo in titoli “tossici”. Occorrerebbe evitare che una simile “tragedia” possa riproporsi.
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Concludo osservando, proprio alla luce di quanto abbiamo ascoltato in questo incontro, che il ripensamento e la revisione, dopo la crisi e per effetto della crisi, delle regole destinate a governare l’attività delle banche dovrebbe muovere da due premesse assiomatiche fondamentali: la prima – espressa con chiarezza da Giovannini – che le banche non possono e non debbono avere come unico obiettivo il profitto, prescindendo dal modo in cui tale profitto venga a realizzarsi; la seconda – connessa alla prima e spesso enunciata nel dibattito apertosi negli Stati Uniti – che la banca è al servizio del pubblico (la collettività), non il pubblico (la collettività) al servizio della banca.
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PARTE seconda Legislazione, documenti e informazioni
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Manovra economica e legge fallimentare Con il d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla l. 30 luglio 2010, n. 122, il governo, nel quadro della c.d. manovra economica, ha ritenuto, inopinatamente, di intervenire anche in materia di procedure concorsuali: lo ha fatto con l’art. 29, comma 2, che contempla una serie di modifiche all’art. 182- ter l.fall., il quale regola com’è noto la transazione fiscale; lo ha fatto con l’art. 48, che detta una serie di disposizioni integrative, da un lato, della disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione e, dall’altro, della disciplina penale fallimentare. Continua, così, lo stillicidio di modifiche alla legge fallimentare riformata, che, essa stessa frutto di ben tre diversi interventi normativi succedutisi nel tempo, era stata già interessata da ritocchi nel 2008 e nel 2009: un primo ritocco era stato infatti apportato dall’art. 32 del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, conv. con l. 28 gennaio 2009, n. 2 (concernente misure urgenti per il sostegno a famiglie, ecc.), che aveva già modificato l’art. 182-ter l.fall., in materia di transazione fiscale; un altro ritocco è stato apportato dall’art. 61 l. 18 giugno 2009, n. 69 (recante disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, ecc.), che ha modificato gli art. 125 e 128 l.fall. per regolare l’ipotesi della presentazione di più proposte di concordato fallimentare. Si tratta di una vicenda sempre più comune nel nostro ordinamento, nel quale l’instabilità normativa sembra essere divenuta la regola; ma non per questo meno deprecabile. Tanto più quando, come in larga parte è accaduto nel nostro caso, le modifiche, da un lato, risultino essere il frutto non di un disegno complessivo meditato, coerente e condiviso, ma semplicemente della volontà di approfittare dell’occasione offerta da percorsi legislativi “blindati” per inserire frettolosamente regole (o “brandelli” di regole), ispirate da, o gradite a, questo o quel centro di interessi e, dall’altro, appaiano in molti punti caratterizzate da vistose incertezze di idee, per non dire da veri e propri deficit di capacità tecnica. *** Limitando qui l’attenzione all’art. 48, il primo comma del medesimo introduce un art. 182-quater recante la disciplina, come testualmente risulta dalla rubrica, della “prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti”. Si tratta di una disciplina articolata, che
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individua quattro categorie di crediti prededucibili (o “parificati ai prededucibili”) ai sensi dell’art. 111 l.fall., ciascuna assoggettata ad un proprio regime: – i crediti derivanti da finanziamenti bancari effettuati “in esecuzione di un concordato preventivo …ovvero di un accordo di ristrutturazione omologato”, che sono tout court dichiarati prededucibili (è la c.d. “nuova finanza”); – i crediti derivanti da finanziamenti effettuati dai soci, che, in deroga agli art. 2467 e 2497-quinques c.c., sono prededucibili “fino a concorrenza dell’ottanta per cento del loro ammontare”; – i crediti derivanti da finanziamenti bancari effettuati “in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti” (i c.d. “finanziamenti-ponte”), che sono dichiarati “parificati ai prededucibili” a due condizioni: che i finanziamenti siano previsti nel piano o nell’accordo e “purché la prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo ovvero l’accordo sia omologato”; – i crediti relativi ai compensi spettanti al professionista incaricato di predisporre la relazione di cui agli art. 161 e 182-bis, che, analogamente, sono dichiarati prededucibili a condizione che “ciò sia espressamente disposto nel provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo ovvero l’accordo sia omologato”. Questa disposizione solleva un’autentica valanga di perplessità: ci si può limitare ad evidenziare qui quelle più rilevanti. Innanzi tutto. Non c’è dubbio che il legislatore della manovra economica, con il nuovo art. 182-quater, abbia voluto accogliere le indicazioni di chi, fin dall’introduzione nel 2005 degli accordi di ristrutturazione, sottolineava come fosse necessario completare la disciplina di questa nuova figura con la regola della prededucibilità dei crediti sorti in connessione con la medesima nel fallimento che fosse successivamente intervenuto. Non si comprende però perché quel legislatore non si sia limitato a prevedere appunto la prededucibilità dei crediti sorti in connessione con gli accordi ed abbia invece scelto di regolare anche la prededucibilità dei crediti sorti in connessione con il concordato preventivo, che già trovava la sua disciplina nell’art. 111 (per il cui comma 2 “Sono considerati crediti prededucibili… quelli sorti in occasione o in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge”, e quindi, appunto, anche e proprio i crediti sorti in occasione o in funzione del concordato preventivo). Si tratta di una scelta tutt’altro che innocua, perchè pone subito il problema di quale sia il rapporto fra, appunto, l’art. 111 ed il nuovo art. 182-quater. L’interrogativo di fondo è semplice: la nuova disposizione, per ciò che riguarda i crediti connessi al concordato preventivo, costituisce semplice specificazione dell’art. 111 di cui non esaurisce la portata, e quindi con carattere esemplificativo; o invece individua le categorie di crediti prededucibili ai sensi dell’art. 111, con carattere di tassatività? Se si accogliesse la prima alternativa, da un lato, la disposizione di cui ci stiamo occupando diventerebbe inutile, posto che tutti i crediti sorti in occasione o in funzione del concordato preventivo, anche diversi da quelli
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espressamente indicati nell’art. 182-quater o comunque non rispondenti alle condizioni in questa norma indicate, sarebbero (resterebbero) prededucibili; dall’altro, si dovrebbe arrivare a ravvisare nello stesso art. 182-quater due logiche antitetiche, posto che, per ciò che riguarda i crediti connessi con gli accordi di ristrutturazione, l’elencazione contenuta nella disposizione ha sicuramente carattere tassativo. La seconda alternativa, quella della tassatività dell’elencazione anche per quanto riguarda il concordato preventivo, certamente preferibile in termini di razionalità astratta, ha un evidentissimo costo: qualsiasi credito diverso da quelli indicati nella nuova disposizione, pur se sorto in occasione o in funzione di un concordato preventivo e pur se finora pacificamente ritenuto prededucibile, sarebbe, da oggi in poi, escluso dalla prededucibilità nell’eventuale successivo fallimento. Di qui una empasse che darà filo da torcere agli interpreti. Si tratta di una empasse – e con ciò viene in considerazione un secondo profilo – che rende ancor più ingiustificata di quanto a prima vista appaia la “selezione” dei crediti destinati a beneficiare della prededuzione. È certamente vero che sia la c.d. nuova finanza (quella di cui al primo comma dell’art. 182quater) sia i c.d. finanziamenti ponte (quelli di cui al secondo comma di tale disposizione) possono giocare un ruolo determinante nei tentativi di soluzione concordata della crisi. Ma un ruolo altrettanto determinante potrebbero giocare, per esempio, i crediti dei fornitori, che restano invece sicuramente esclusi con riguardo agli accordi di ristrutturazione; e che potrebbero ritenersi esclusi anche con riguardo al concordato preventivo, ove dovesse accogliersi la seconda delle letture prima prospettate. Il dubbio di incostituzionalità pare, a questo punto, più che fondato. In terzo luogo. Nel secondo comma, si è visto, si stabilisce che taluni crediti sono “parificati ai prededucibili”. Qui il redattore della norma ha manifestato appieno l’incertezza di idee di cui si parlava prima. La prededucibilità non è una qualità intrinseca ad un credito: è una condizione che la legge fa ad un credito, in una certa situazione, in termini di possibilità di soddisfacimento rispetto ad altri crediti. Non può allora esistere una categoria di crediti “parificati ai prededucibili”: i crediti “parificati ai prededucibili” sono puramente e semplicemente crediti prededucibili. Ancora. Fra i crediti prededucibili sono stati inclusi i crediti da finanziamenti dei soci (limitatamente, si deve ritenere, ai finanziamenti effettuati in esecuzione del piano o dell’accordo, visto il riferimento, nel terzo comma, al solo primo comma e non anche al secondo), quegli stessi crediti cioè che, in base al diritto comune, sono postergati al soddisfacimento di tutti gli altri creditori. La disposizione ha cura di esordire con l’espressione “In deroga agli art. 2467 e 2497-quinquies del codice civile”: ma qui si è in presenza di qualcosa di più di una deroga. L’ordinamento considera con particolare disfavore il comportamento dei soci che, in presenza di una situazione di crisi della società, preferiscono fornire alla medesima capitali di credito anziché capitali di rischio: e sanziona questo comportamento con la postergazione di tali crediti. Con la disposizione in questione si mira, invece, ad incentivare simili comportamenti,
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con un vero e proprio capovolgimento allora di prospettiva, che non trova adeguata giustificazione nel semplice obiettivo di favorire soluzioni concordate della crisi. Senza considerare, poi, l’assurdità della scomposizione del credito dei soci in due frazioni: l’una, “fino alla concorrenza dell’ottanta per cento” (che non si comprende nemmeno che cosa esattamente significhi e comporti: chi, in che momento ed in relazione a che cosa deve stabilire la esatta percentuale del credito alla quale riferire la regola?), beneficiaria della prededuzione; l’altra, data dal residuo, che resta soggetta alla postergazione! Il redattore della disposizione si è chiaramente ispirato a talune regole recentemente introdotte nell’InsO tedesca (ma già presenti, in realtà, nella legge tedesca sulle società a responsabilità limitata). Queste regole, però, ha malamente tradotto. Perché il § 39.4 dell’InsO prevede sì un regime di favore per i prestiti concessi dai soci nell’ambito di un’operazione di risanamento: ma tale regime, da un lato, riguarda solo coloro che sono diventati soci nell’ambito di quell’operazione e, dall’altro, comporta soltanto la non applicazione della regola della postergazione. Infine (ma si potrebbe in realtà continuare). Per due delle quattro categorie di crediti considerate dalla disposizione (i crediti da finanziamenti-ponte ed i crediti del professionista) la prededucibilità è subordinata a ciò che essa sia espressamente disposta nel provvedimento con cui il tribunale ammette il debitore al concordato preventivo (nel caso di crediti concessi in relazione ad un accordo di ristrutturazione la condizione – sembrerebbe, la formulazione della norma essendo tutt’altro che impeccabile – è invece diversa, non si sa perché, ed è data dalla semplice omologazione dell’accordo). Si tratta di una condizione a dir poco singolare ed uno spirito malizioso potrebbe essere indotto a pensare che per il redattore della disposizione la condizione di prededucibilità, con buona pace dell’art. 111 pur espressamente richiamato, sia rilevante anche e proprio nell’ambito del concordato preventivo. Al di là di ogni malizia, comunque, è sicuro che il giudice che provvede sull’ammissione al concordato preventivo non può “disporre” alcunché con riferimento ad una futura ed eventuale procedura di fallimento che dovesse essere successivamente aperta. Talchè l’espressione adottata parrebbe dover essere considerata frutto di una difettosa formulazione ed interpretata più ragionevolmente nel senso che il tribunale, nel provvedere sull’ammissione al concordato preventivo, dovrà – ovviamente, se richiesto – verificare che quei crediti siano sorti in funzione di quell’ammissione ed espressamente darne atto, spettando poi agli organi della futura ed eventuale procedura fallimentare il disporne la prededucibilità. *** Il decreto del 2007, il c.d. correttivo, aveva integrato l’art. 182-bis con un terzo comma in base al quale dalla data della pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso per l’omologazione degli accordi di ristrutturazione e per sessanta giorni i creditori anteriori non possono iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive sul patrimonio del debitore. Una parte della dottrina aveva
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lamentato che il “blocco” non fosse stato esteso alla fase delle trattative anteriore alla stipulazione dell’accordo: il legislatore della manovra economica ha ritenuto, evidentemente, di recepire questa “doglianza” e, con il secondo comma dell’art. 48, ha aggiunto all’art. 182-bis quattro nuovi commi, che disciplinano la richiesta da parte del debitore e la concessione da parte del tribunale del “blocco”, appunto, delle azioni esecutive e cautelari nel corso delle trattative e prima della conclusione e del deposito dell’accordo di ristrutturazione. Questo nuovo subprocedimento – si apre con il deposito presso il tribunale, da parte dell’imprenditore, dell’istanza di sospensione, corredata dalla documentazione di cui all’art. 161 l.fall., dalla proposta di accordo, dalla dichiarazione del medesimo imprenditore attestante che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il 60% dei crediti e dalla dichiarazione del professionista che la proposta, se accettata, è idonea ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno negato la disponibilità a trattare; e con la pubblicazione di tale istanza nel registro delle imprese, la quale istanza “produce l’effetto del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari, nonché del divieto di acquisire titoli di prelazione, se non concordati, dalla pubblicazione”; – prosegue con la fissazione dell’udienza da parte del tribunale, previa verifica della completezza della documentazione depositata, con comunicazione ai creditori della documentazione stessa; – si conclude con l’udienza nella quale il tribunale, riscontrata la sussistenza dei presupposti per pervenire ad un accordo con le “maggioranze” previste e delle condizioni per il regolare pagamento dei creditori “estranei”, dispone con decreto motivato il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prelazione se non concordati ed assegna il termine di non oltre sessanta giorni per il deposito dell’accordo di ristrutturazione e della relazione redatta dal professionista. Anche queste disposizioni sollevano non poche perplessità. Innanzi tutto, vi è da dubitare della stessa opportunità dell’estensione del “blocco” delle azioni cautelari ed esecutive anche alla fase della formazione dell’accordo. Il meccanismo degli accordi rinveniva fin qui uno dei suoi connotati distintivi (che ne costituiva probabilmente il pregio maggiore) nella nitida scansione fra la fase privatistica della formazione degli accordi, interamente affidata ai diretti interessati e sottratta ad ogni pubblicità, e la fase processuale/pubblicistica, concernente esclusivamente la sfera degli effetti di quegli accordi, il “blocco” delle azioni esecutive e cautelari trovando allora la sua specifica funzione nell’esigenza di prevenire azioni di “disturbo” rispetto all’esecuzione degli accordi medesimi. Con la modifica introdotta, quella scansione può perdere la sua nitidezza e la componente processuale/pubblicistica penetrare, inopportunamente, nella fase privatistica. Il “blocco” delle azioni esecutive e cautelari qui assolve alla funzione – chiaramente indicata del resto nella relazione al d.l. – di prevenire azioni di “disturbo” rispetto alla conclusione dell’accordo: con il che, a ben vedere, si traduce in un fattore di “distorsione” della libera determinazione delle parti.
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Vi è da dubitare, in secondo luogo, della razionalità del nuovo regime. Per effetto della modifica introdotta, si viene ad avere, nell’ipotesi di presentazione da parte del debitore di quella che la legge chiama istanza di sospensione, un sistema complesso che vede tre distinti, anche se consecutivi, periodi di “blocco”: il primo, automatico, che scatta con la pubblicazione della suddetta istanza nel registro delle imprese ed è di durata indeterminata; il secondo, che scatta con il decreto motivato del tribunale ed ha la durata massima di sessanta giorni; il terzo, di nuovo automatico, che scatta con la pubblicazione dell’accordo nel registro delle imprese. Va ricordato, a questo riguardo, che la versione originaria del decreto legge non contemplava il primo periodo, il “blocco” potendo intervenire solo con il decreto del tribunale. In sede di conversione ci si è resi conto di quello che avrebbe dovuto apparire evidente fin dall’inizio e cioè che la pubblicazione dell’istanza di sospensione nel registro delle imprese avrebbe di per sé indotto i creditori estranei alle trattative ad assumere iniziative sul piano cautelare o esecutivo: di qui, la anticipazione del “blocco” alla pubblicazione stessa e, quindi, la sequenza, quanto meno bizzarra, di cui si è detto. Sarebbe stato probabilmente il caso, in sede di conversione, di ripensare a fondo il sistema e di articolare una diversa sequenza che mantenesse la centralità del decreto del tribunale: per esempio, stabilendo che l’istanza fosse soltanto presentata al tribunale e non anche pubblicata nel registro delle imprese; che su tale istanza il tribunale, esperiti gli opportuni accertamenti ma senza alcun contraddittorio con i creditori, si dovesse pronunziare; che il decreto fosse pubblicato nel registro delle imprese e comunicato a tutti i creditori; che tale decreto fosse reclamabile. Detto in altre parole: se la tutela dei diritti dei creditori estranei alle trattative deve essere sacrificata, meglio che lo sia all’esito di una verifica da parte del giudice sia pure senza contraddittorio, anziché per effetto automatico della pubblicazione di un’istanza nel registro delle imprese. Molti sono, in terzo luogo, i profili di “criticità” della nuova disciplina. Così, per esempio, con riguardo all’oggetto del procedimento dinanzi al tribunale: non è chiaro, infatti, che cosa significhi esattamente “sussistenza dei presupposti per pervenire ad un accordo”, se cioè sia sufficiente che vi siano trattative con creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti (che non è, ricordiamo, una “maggioranza”, come impropriamente ritiene il legislatore, ma una “soglia”) sulla base di una proposta da quei creditori astrattamente accettabile o se sia necessaria l’esistenza anche di concrete prospettive di pervenire in tempi ristretti all’accordo; non è chiaro se l’indagine del tribunale, e quindi la discussione all’udienza, debba riguardare anche l’attuabilità in generale del futuro accordo o solo la “sussistenza delle condizioni per il regolare pagamento dei creditori” estranei; non è chiaro, ancora, se – trattandosi di un procedimento sostanzialmente cautelare – il tribunale debba verificare anche la effettiva sussistenza del pericolo di azioni di disturbo. Le nuove disposizioni, poi, nulla dicono circa l’eventualità, pur possibile, che il tribunale respinga l’istanza di sospensione: fermo restando che anche in questo caso si dovrà provvedere con decreto, la cessazione del “blocco” derivato automaticamente dalla pubblicazione nel registro delle imprese dell’istanza di
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sospensione è destinata a prodursi a sua volta automaticamente per effetto del decreto negativo o il tribunale dovrà disporre espressamente quella cessazione? Ancora, è mancato il coordinamento fra la nuova e la vecchia disciplina in punto di oggetto del “blocco”. In base alla nuova disciplina, il “blocco” destinato ad operare nella fase delle trattative comprende, oltre al divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari, anche il “divieto di acquisire titoli di prelazione se non concordati”; in base alla vecchia disciplina, il “blocco” destinato ad operare nella fase dell’esecuzione dell’accordo comprende solo il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari. Con una divergenza, allora, non facilmente spiegabile. Infine (ma anche qui si potrebbe continuare). Non avrebbe guastato, prima di introdurre frettolosamente queste (non irrilevanti) innovazioni, riflettere a fondo sull’oggetto stesso del divieto di cui si sta parlando. Si continua tralatiziamente a prevedere, oltre al divieto di iniziare, anche quello di proseguire le azioni esecutive, trascurando di considerare che l’improseguibilità di un’azione esecutiva si traduce nell’estinzione del relativo giudizio e che un simile drastico esito – il quale magari viene dopo anni di giudizio e nell’imminenza del momento conclusivo della vendita o dell’assegnazione – ha senso e giustificazione solo con riferimento ad ipotesi in cui il “blocco” sia sostanzialmente definitivo (così era in passato, con riferimento al “blocco” conseguente alla domanda di ammissione a concordato preventivo; così è attualmente con riferimento al “blocco” conseguente alla dichiarazione di fallimento), mentre non si giustifica in ipotesi di “blocco” solo temporaneo, perché allora si traduce in un puro e semplice pregiudizio per i creditori, costretti, dopo la fine del periodo, ad iniziare ex novo le procedure estinte, con perdita di tempo e di denaro. Le nuove norme parlano, appropriatamente sotto questo aspetto, di “istanza di sospensione”: sarebbe stato il caso, allora, di prevedere, accanto al divieto di iniziare azioni esecutive, semplicemente la sospensione, appunto, delle azioni esecutive già iniziate. Anche per limitare – va aggiunto – il rischio di utilizzazioni strumentali del nuovo meccanismo. *** In sede di conversione, è stato aggiunto nell’art. 48 un comma 2-bis (chissà perché non un comma 3) che inserisce nella legge fallimentare un art. 217-bis per il quale “non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione” di un concordato preventivo, di un accordo di ristrutturazione o di un piano attestato le disposizioni di cui agli art. 216, terzo comma (in materia di c.d. bancarotta preferenziale) e 217 (in materia di bancarotta semplice). Questa nuova disposizione colma una lacuna particolarmente avvertita. Da tempo si sottolineava, infatti, l’esigenza di intervenire per ridurre i rischi di natura penale derivanti dalle soluzioni negoziate delle crisi di impresa (in particolare: imputazioni di bancarotta semplice per aver aggravato il dissesto dell’impresa; imputazioni di bancarotta preferenziale per i pagamenti eventualmente effettuati a favore di taluni soltanto dei creditori). Nella dottrina, per
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la verità, si erano andati delineando, con particolare riferimento al reato di bancarotta preferenziale, orientamenti secondo i quali la disciplina introdotta dalla riforma, con l’esenzione dalla revocatoria degli atti e dei pagamenti compiuti in esecuzione del concordato preventivo, degli accordi di ristrutturazione e dei piani attestati, e quindi con una valutazione positiva di tali atti in termini di meritevolezza, avrebbe inciso sulla stessa fattispecie incriminatrice: ma tali orientamenti non potevano ovviamente offrire alcuna sicurezza. Naturalmente la nuova norma conferma l’esigenza di interpretare in modo rigido il collegamento fra l’atto o il pagamento ed il piano o l’accordo: nel senso che tale collegamento deve sussistere ex ante e che quindi l’atto o il pagamento – per rimanere sottratto alla disciplina penale, così come per poter fruire dell’esonero da revocatoria – deve essere espressamente contemplato nel piano o nell’accordo. [Alessandro Nigro]
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I D.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con l. 30 luglio 2010, n. 122, recante misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica (Omissis) Art. 29 (Concentrazione della riscossione nell’accertamento) (Omissis) 2. All’articolo 182-ter del Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo comma, dopo le parole «con riguardo all’imposta sul valore aggiunto» sono inserite le seguenti: «ed alle ritenute operate e non versate»; b) il secondo periodo del sesto comma è sostituito dai seguenti: «La proposta di transazione fiscale, unitamente con la documentazione di cui all’articolo 161, è depositata presso gli uffici indicati nel secondo comma, che procedono alla trasmissione e alla liquidazione ivi previste. Alla proposta di transazione deve altresì essere allegata la dichiarazione sostitutiva, resa dal debitore o dal suo legale rappresentante ai sensi dell’articolo 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, che la documentazione di cui al periodo che precede rappresenta fedelmente ed integralmente la situazione dell’impresa, con particolare riguardo alle poste attive del patrimonio»; c) dopo il sesto comma è aggiunto il seguente: «La transazione fiscale conclusa nell’ambito dell’accordo di ristrutturazione di cui all’articolo 182-bis è revocata di diritto se il debitore non esegue integralmente, entro 90 giorni dalle scadenze previste, i pagamenti dovuti alle Agenzie fiscali e agli enti gestori di forme di previdenza e assistenza obbligatorie». (Omissis) Art. 48 1 (Disposizioni in materia di procedure concorsuali)
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In grassetto le modifiche introdotte in sede di conversione.
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1. Dopo l’art. 182-ter del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, è inserito il seguente: «Art. 182-quater (Disposizioni in tema di prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo, negli accordi di ristrutturazione dei debiti). I crediti derivanti da finanziamenti in qualsiasi forma effettuati da banche e intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui agli articoli 106 e 107 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, in esecuzione di un concordato preventivo di cui agli articoli 160 e seguenti ovvero di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo l82-bis) sono prededucibili ai sensi e per gli effetti dell’articolo 111. Sono parificati ai prededucibili ai sensi e per gli effetti dell’articolo 111, i crediti derivanti da finanziamenti effettuati dai soggetti indicati al precedente comma in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, qualora i finanziamenti siano previsti dal piano di cui all’articolo 160 o dall’accordo di ristrutturazione e purché la prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo ovvero l’accordo sia omologato. In deroga agli articoli 2467 e 2497-quinquies del codice civile, il primo comma si applica anche ai finanziamenti effettuati dai soci, fino a concorrenza dell’ottanta per cento del loro ammontare. Sono altresì prededucibili i compensi spettanti al professionista incaricato di predispone la relazione di cui agli articoli 161, terzo comma, 182-bis, primo comma, purché ciò sia espressamente disposto nel provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo ovvero l’accordo sia omologato. Con riferimento ai crediti indicati ai commi secondo, terzo e quarto, i creditori sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze per l’approvazione del concordato ai sensi dell’articolo 177 e dal computo della percentuale dei crediti prevista all’articolo 182-bis, primo e sesto comma». 2. Dopo il comma quinto dell’articolo 182-bis del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, sono aggiunti i seguenti: «Il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive di cui al terzo comma può essere richiesto dall’imprenditore anche nel corso delle trattative e prima della formalizzazione dell’accordo di cui al presente articolo, depositando presso il tribunale competente ai sensi dell’art. 9 la documentazione di cui all’articolo 161, primo e secondo comma, e una proposta di accordo corredata da una dichiarazione dell’imprenditore, avente valore di autocertificazione, attestante che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti e da una dichiarazione del professionista avente i requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare. L’istanza di sospensione di cui
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al presente comma è pubblicata nel registro delle imprese e produce l’effetto del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari, nonché del divieto di acquisire titoli di prelazione, se non concordati, dalla pubblicazione. Il tribunale, verificata la completezza della documentazione depositata, fissa con decreto l’udienza entro il termine di trenta giorni dal deposito dell’istanza di cui al sesto comma, disponendo la comunicazione ai creditori della documentazione stessa. Nel corso dell’udienza, riscontrata la sussistenza dei presupposti per pervenire a un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggioranze di cui al primo comma e delle condizioni per il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare, dispone con decreto motivato il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prelazione se non concordati assegnando il termine di non oltre sessanta giorni per il deposito dell’accordo di ristrutturazione e della relazione redatta dal professionista a norma del primo comma. Il decreto del precedente periodo è reclamabile a norma del quinto comma in quanto applicabile. A seguito del deposito dell’accordo di ristrutturazione dei debiti nei termini assegnati dal tribunale trovano applicazione le disposizioni di cui al secondo, terzo, quarto e quinto comma». 2-bis. Dopo l’art. 217 del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, è inserito il seguente: “Art. 217-bis (Esenzioni dai reati di bancarotta). 1. Le disposizioni di cui all’articolo 216, terzo comma, e 217 non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo di cui all’articolo 160 o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis ovvero del piano di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d)”. II Relazione (Omissis) Art. 29 (Omissis) La normativa di cui al comma 2 prevede, alla lettera a), che, in sede di transazione fiscale, anche le somme relative a ritenute operate e non versate siano oggetto esclusivamente di un’eventuale dilazione e non di falcidia, al pari dell’intera imposta sul valore aggiunto. Tale previsione trova il suo fondamento nel fatto che anche le ritenute operate dal sostituto d’imposta a titolo di acconto sono poi utilizzate in detrazione dal sostituito, in diminuzione del proprio debito tributario. Occorre poi osserva-
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re che anche le ritenute d’acconto sono somme di terzi, che il sostituto trattiene allo scopo di riversarle allo Stato. Le analogie con l’imposta sul valore aggiunto rendono irragionevole una disparità di trattamento. La misura consente, altresì, di assicurare trasparenza nei rapporti tra il contribuente che acceda alla transazione e i prestatori d’opera di cui si è avvalso e sulle cui retribuzioni ha operato le ritenute. La previsione di cui alla lettera b) consente di ovviare ad una incertezza nella pratica applicazione della norma, precisando che i documenti relativi al piano di ristrutturazione dei debiti e al pagamento dei creditori, che devono obbligatoriamente accompagnare la proposta di concordato preventivo ai sensi dell’articolo 161 della legge fallimentare nel cui ambito sia prevista la transazione fiscale, devono essere presentati anche quando la transazione sia inserita nell’ambito di un accordo di ristrutturazione del debito in base all’articolo 182-bis della medesima legge fallimentare, attesa l’identità delle situazioni. La norma precisa inoltre che, nel caso di accordo stragiudiziale di ristrutturazione, dove, a differenza che nel concordato preventivo, non vi è il commissario giudiziale che svolga le attività di cui agli articoli 171, 172 e 173 della legge fallimentare (verifica dei crediti e dei debiti, inventario ed analisi della contabilità), il debitore rilascia una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà con la quale, comunque in un’ottica volta a non aggravare irragionevolmente il procedimento, si assume personalmente la responsabilità di attestare la veridicità e la completezza dei dati aziendali riportati in contabilità, a maggior tutela e garanzia dei terzi. Con la lettera c) s’introduce la previsione di una possibile revoca di diritto, per le sole transazioni fiscali concluse nell’ambito degli accordi di ristrutturazione, attesa la natura stragiudiziale di detti accordi. Infatti, anche al fine di contrastare possibili abusi, tenendo altresì conto del fatto che il contribuente potrebbe sottrarsi ai propri obblighi tributari o contributivi anche dopo l’esecuzione del piano di ristrutturazione del debito, è opportuno prevedere che un inadempimento significativo e rilevante, quale l’omesso pagamento delle somme dovute entro un ragionevole termine dalla scadenza fissata (novanta giorni) sia di per sé decisivo per determinare la revoca della transazione. Tale previsione normativa, che opera per i soli omessi pagamenti dovuti alle Agenzie fiscali ed agli enti previdenziali, assicura altresì uniformità di comportamenti tra gli enti pubblici interessati e consente di incentrare le valutazioni di opportunità della transazione fiscale e contributiva soprattutto sulla relativa convenienza dal punto di vista economico e finanziario, non costituendo la prosecuzione dell’attività di impresa che, altrimenti, costituirebbe un presupposto necessario per garantire eventuali pagamenti dilazionati. (Omissis) Art. 48 La disposizione di cui al comma 1 è volta a favorire e promuovere l’erogazione di nuovi finanziamenti all’impresa in difficoltà da parte sia di intermediari bancari e finanziari che dei soci. Nella prassi applicativa, infatti, se diffusi sono gli
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accordi nei quali creditori e soci sono soliti rinunciare a parte dei crediti esistenti ovvero concedere moratorie in funzione del risanamento dell’impresa, più complesse sono le determinazioni in ordine all’erogazione di nuovi finanziamenti. Questi ultimi comportano un ulteriore accrescimento del rischio di credito da parte del finanziatore e il riconoscimento, sia pur in presenza di specifiche condizioni, del beneficio della prededucibilità potrebbe rappresentare un importante incentivo nella loro erogazione a sostegno dell’impresa. La prededuzione è stata limitata, a tutela della massa dei creditori, solo con riferimento agli strumenti di risanamento configurati dalla nuova legge fallimentare che prevedono l’intervento dell’autorità giudiziaria. La norma tutela i finanziamenti erogati in attuazione degli accordi (concordatari ovvero di ristrutturazione dei debiti), affiancando ad essa quella relativa ai finanziamenti-ponte concessi ed erogati dagli intermediari nella fase precedente il deposito delle domande di ammissione alla procedura di concordato preventivo di cui agli artt. 161 e di omologa degli accordi di ristrutturazione di cui all’art. 182-bis, in considerazione del fatto che la formazione del piano o dell’accordo richiede un periodo anche non breve, in cui il finanziamento può essere essenziale per conservare all’impresa prospettive di continuità aziendale. Lo stesso spirito è alla base del riconoscimento della prededuzione ai finanziamenti dei soci, che comporta l’esigenza di derogare alle disposizioni codicistiche in tema di postergazione e in particolare agli artt. 2467 e 2497-quinquies c.c. Si ritiene infine che il beneficio della prededuzione debba essere riconosciuto al compenso del professionista incaricato dell’attestazione di fattibilità/ragionevolezza dell’accordo, conformemente a quanto previsto dalle nuove disposizioni di legge più volte citate. La disposizione di cui al comma 2 integra la disciplina degli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182-bis, nell’ottica di introdurre elementi di flessibilità ed efficienza Nel caso degli accordi di ristrutturazione, la disciplina oggi vigente consente all’imprenditore in crisi che abbia raggiunto un’intesa con la maggioranza qualificata dei creditori di chiederne l’omologa al tribunale, beneficiando nel frattempo della sospensione delle azioni esecutive e cautelari per un periodo di sessanta giorni. Tuttavia, la prassi applicativa evidenzia come momento cruciale e critico sia anche quello delle trattative, nel corso delle quali è del pari importante eliminare eventuali azioni di disturbo e consentire alle parti in trattativa di fotografare con certezza i beni patrimoniali dell’impresa per determinare le misure concretamente realizzabili per la ristrutturazione dei debiti. La norma proposta mira a garantire la sospensione delle azioni esecutive e cautelari in corso anche durante le trattative, preservando al contempo i diritti dei creditori estranei, atteso che la predetta sospensione è decisa dal giudice all’esito di un’udienza alla quale sono chiamati a partecipare tutti i creditori.
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Norme redazionali
I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)
II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …
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Norme redazionali
4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).
III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio Costituzione codice di procedura civile codice penale codice di procedura penale decreto decreto legislativo decreto legge decreto legge luogotenenziale decreto ministeriale decreto del Presidente della Repubblica disposizioni sulla legge in generale disposizioni di attuazione disposizioni transitorie legge fallimentare
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c.c. c.comm. Cost. c.p.c. c.p. c.p.p. d. d.lgs. d.l. d.l. luog. d.m. d.P.R. d.prel. disp.att. disp.trans. l.fall.
Norme redazionali
legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)
l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.
2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale Corte di Cassazione Sezioni unite Consiglio di Stato Corte d’Appello Tribunale Tribunale amministrativo regionale
C. Cost. Cass. S. U. Cons. St. App. Trib. TAR
3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.
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Norme redazionali
Diritto industriale Diritto dell’informazione e dell’informatica Economia e credito Enciclopedia del diritto Enciclopedia giuridica Treccani Europa e diritto privato Foro italiano (il) Foro napoletano (il) Foro padano (il) Giurisprudenza commerciale Giurisprudenza costituzionale Giurisprudenza italiana Giurisprudenza di merito Giustizia civile Il fallimento Jus Le società Notariato (11) Novissimo Digesto italiano Nuova giurisprudenza civile commentata Nuove leggi civili commentate (le) Quadrimestre Rassegna di diritto civile Rassegna di diritto pubblico Rivista bancaria Rivista critica di diritto privato Rivista dei dottori commercialisti Rivista del notariato Rivista della cooperazione Rivista di diritto civile Rivista del diritto commerciale Rivista di diritto internazionale Rivista di diritto privato Rivista di diritto processuale Rivista di diritto pubblico Rivista italiana del leasing Rivista delle società Rivista giuridica sarda Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Vita notarile
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Dir. ind. Dir. inform. Econ. e cred. Enc. dir. Enc. giur. Europa e dir. priv. Foro it. Foro nap. Foro pad. Giur. comm. Giur. cost. Giur. it. Giur. merito Giust. civ. Il fallimento Jus Le società Notariato Noviss. Dig. it. Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civ. Quadr. Rass. dir. civ. Rass. dir. pubbl. Riv. banc. Riv. crit. dir. priv. Riv. dott. comm. Riv. not. Riv. coop. Riv. dir. civ. Riv. dir. comm. Riv. dir. internaz. Riv. dir. priv. Riv. dir. proc. Riv. dir. pubbl. Riv. it. leasing Riv. soc. Riv. giur. sarda Riv. trim. dir. proc. civ. Vita not.
Norme redazionali
4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesinger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, Torino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume
IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze e, successivamente, gli estratti.
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Finito di stampare nel mese di Ottobre 2010 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300 www.pacinieditore.it
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