Diritti della banca e del mercato finanziario 3/2012

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ISSN 1722-8360

di particolare interesse in questo fascicolo

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

3/2012

Saggi

• Le pratiche commerciali scorrette nel settore del credito • Sanzioni amministrative pecuniarie e attività finanziarie • Novità nella legge fallimentare • Sistemi organizzati di negoziazione

luglio-settembre

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro. Nell’anno 2011, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Alberto Baccini, Emilio Beltrán, Stefania Pacchi, Antonio Piras, Michele Sandulli, Antonella Sciarrone Alibrandi, Maurizio Sciuto, Giuseppe Terranova, Francesco Vella.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

Comitato di direzione Carlo Angelici, Franco Belli, Sido Bonfatti, Mario Bussoletti, Gino Cavalli, Salvatore Maccarone, Fabrizio Maimeri, Alessandro Nigro, Mario Porzio, Ángel Rojo, Niccolò Salanitro, Vittorio Santoro, Luigi Carlo Ubertazzi. Comitato di redazione Antonella Brozzetti, Vincenzo Caridi, Ciro G. Corvese, Giovanni Falcone, Elisabetta Massone, Francesco Mazzini, Donato Ivano Pace, Filippo Parrella, Gennaro Rotondo. Segreteria di redazione Daniele Vattermoli Direttore responsabile Alessandro Nigro La sede della rivista è presso la Segreteria del Ce.Di.B. Corso Vittorio Emanuele II, 173 - 00186 Roma L’amministrazione è presso: Pacini Editore SpA Via Gherardesca - 56121 Ospedaletto - Pisa Tel. 050 313011 - Fax 050 3130300 www.pacinieditore.it - info@pacinieditore.it

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SOMMARIO 3/2012

Franco Belli

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PARTE PRIMA Saggi Principio di specialità e applicabilità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel settore del credito, di Vincenzo Meli Sul concetto di “chiarezza” nei rapporti bancari, di Umberto Morera L’esecuzione del concordato preventivo con cessione dei beni e di risanamento, di Stefania Pacchi L’apporto a fondo immobiliare, di Giuseppe Alberto Rescio I sistemi organizzati di negoziazione nella proposta di revisione della MiFID: un primo raffronto con le altre sedi di negoziazione, di Donato Ivano Pace

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Dibattiti Le sanzioni amministrative pecunarie nelle attività finanziarie – Incontro di studio del 10 maggio 2012, con interventi di Giuseppe Carriero, Marcello Clarich, Marco Fratini, Enrico Galanti, Umberto Morera, Alessandro Nigro, Alessandra Sandulli, Vittorio Santoro

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Commenti Pratiche commerciali scorrette e credito al consumo – Consiglio di Stato, Ad. Plen., 11 maggio 2012, n. 14, con nota redazionale

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PARTE SECONDA Legislazione Nuove modifiche alla legge fallimentare – D.l. 22 giugno 2012, n. 83, coord. con le modifiche introdotte dalla l. di conversione 7 agosto 2012, n. 134, recante misure urgenti per la crescita del paese, con osservazioni di Alessandro Nigro Norme

redazionali

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» 71


Il 6 novembre di quest’anno è mancato Franco Belli, condirettore del Diritto della banca e del mercato finanziario. Ci sarà occasione e modo, nel prossimo futuro, di delinearne adeguatamente, anche e proprio sulla Rivista, la figura di uomo e di studioso. Qui preme ricordare che Franco Belli ha partecipato fin dall’inizio all’“avventura” del Ce.di.b. prima e della Rivista poi: e dell’uno e dell’altra ha sempre costituito uno dei fondamentali punti di riferimento. La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile: e solo la memoria di una figura fuori del comune, per la sua vastissima cultura e vivacità intellettuale, per la poliedricità del suo ingegno e dei suoi interessi, per la sua curiosità e la sua arguzia, per la dolcezza e disponibilità nei rapporti umani potrà lenire in parte il dolore per la perdita. La Direzione

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PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



SAGGI

Principio di specialità e applicabilità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel settore del credito Sommario: 1. Il problema. – 2. Il parere del Consiglio di Stato sulla disciplina applicabile alle pratiche scorrette nel mercato finanziario: specialità “per materie” o “per settori” versus specialità tra norme. – 3. Il caso Accord: la sentenza del TAR Lazio, n. 12277/10. – 4. segue: La sentenza del Consiglio di Stato n. 3763/11. – 5. La rimessione all’Adunanza Plenaria: il recupero del principio di specialità tra norme. – 6. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 14/2012. – 7. Titolo VI del t.u.b., Disposizioni della Banca d’Italia sulla trasparenza e disciplina delle pratiche commerciali scorrette: a) raffronto strutturale tra le fattispecie. – 8. segue: b) raffronto tra i sistemi sanzionatori.

1. Il problema. La questione se la presenza di una disciplina settoriale dell’attività creditizia, recante anche disposizioni a tutela del cliente/consumatore (nel testo attualmente vigente, artt. 115-128 ter, t.u.b.), escluda l’applicazione della disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette (artt. 18-27 quater, cod. cons.) è stata senza eccezioni risolta in senso negativo dalla giurisprudenza amministrativa, fin dalle prime pronunce in cui essa si è posta 1. Le argomentazioni poste a fondamento di tale

1.

Si vedano TAR Lazio, Sez. I., 21 marzo 2011, n. 2409; Id., I, 18 aprile 2011, n. 3363; Id., 19 maggio 2010, n. 12277; Id., 19 maggio 2010, n. 12281; Cons. St., Sez. VI, 26 giugno 2011, n. 3763 (che ha confermato in appello la citata TAR Lazio, n. 12277/10) e Id., 24 agosto 2011, n. 4800 (che ha confermato in appello la citata TAR Lazio, n. 12281/10). In dottrina, sull’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel settore del credito, si vedano Genovese, Il contrasto delle pratiche commerciali scorrette nel settore bancario. Gli interventi dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, in Giur. comm., 2011, I, p. 200 e in La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, a cura di Meli e Marano, Torino,

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soluzione hanno però costantemente destato perplessità, tanto da manifestarsi ad un certo punto l’esigenza – in questo come in altro settore, anch’esso oggetto di una organica disciplina regolatoria 2 – di una pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 3. L’urgenza di tale intervento chiarificatore, pur in assenza di un reale rischio di contrasti giurisprudenziali, non si comprende se non si considerano le difficoltà che le corti hanno incontrato nel tradurre in pratica il criterio di coordinamento tra disciplina generale e discipline settoriali nel campo della tutela del consumatore 4, dettato nel parere col quale, nel 2008, la Prima Sezione del Consiglio di Stato aveva escluso l’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette 5. Come si avrà modo di illustrare più ampiamente, l’Adunanza Plenaria, con riferimento al settore del credito, confermerà sì l’indirizzo giurisprudenziale nel senso dell’applicazione concorrente della disciplina gene-

2011, p. 41; Meli, L’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel “macrosettore credito e assicurazioni”, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, I, p. 334. Sulla giurisprudenza di cui si discute nel testo, si veda Caronna, Le pratiche commerciali scorrette e il credito ai consumatori, in Banc., 2011, p. 54. 2. Ci si riferisce a quello delle comunicazioni elettroniche, sul quale l’Adunanza Plenaria si è pronunciata con le sentt. n. 11, 12, 13, 15, 16 dell’11 maggio 2012. 3. Cons. St., Ad.plen., 11 maggio 2012, n. 14, pubblicata infra, p. 569, con nota redazionale. Si veda la assai argomentata ordinanza di rimessione, Cons. St., Sez. VI, ord. 13 dicembre 2011, n. 6522. La sentenza impugnata, infine confermata, era TAR Lazio, Sez. I, 18 gennaio 2010, n. 306, pronunciata su ricorso avverso il provv. dell’Autorità, n. 19761, del 16 aprile 2009, PS1821 – Agos-Acquisto televisore. 4. Si vedano Cons. St., Sez. VI, 31 gennaio 2011, n. 720 (sulla relazione con la disciplina regolatoria in materia di energia elettrica); TAR Lazio, Sez. I, 9 maggio 2011, n. 3954 (con riferimento alle competenze del ministero delle infrastrutture); TAR Lazio, Sez. I, 16 giugno 2011, n. 5386 (in tema di pacchetti viaggio); TAR Lazio, Sez. I, 28 febbraio 2011, n. 1811 (in riferimento alla legislazione nel settore degli alimentari). Particolarmente rilevanti le pronunce riguardanti la disciplina delle comunicazioni elettroniche. Si vedano, TAR Lazio, Sez. I, 18 gennaio 2011, n. 395; TAR Lazio, Sez. I, 21 giugno 2011, n. 5383. 5. Cons.St., Sez. I, 3 dicembre 2008, n. 3999/2008. Su tale parere, si vedano Libertini, La tutela della libertà di scelta del consumatore e i prodotti finanziari, in Diritto, mercato ed etica. Dopo la crisi. Omaggio a Piergaetano Marchetti, Milano, 2010, p. 551; Clarich, La competenza delle autorità indipendenti in materia di pratiche commerciali scorrette, in Giur. comm., 2010, I, p. 688; Arnaudo, Concorrenza tra autorità indipendenti. Noterelle bizzarre intorno a un parere del Consiglio di Stato, in Giur. comm., 2010, I, p. 916; Parcu, Tutela dei risparmiatori: meno spazio per l’Antitrust, in Consumatori, diritto e mercato, 2009, p. 80; Polito, Consob e AGCM? Un breve commento al parere del Consiglio di Stato n. 3999/2008, in Diritto.it; Meo, Consumatori, mercato finanziario e impresa: pratiche scorrette e ordine giuridico del mercato, in Giur. comm., 2010, I, p. 720; Tola, Pratiche commerciali scorrette e prodotti finanziari, in La Tutela, a cura di Meli e Marano, cit., 106 ss.

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rale e di quelle settoriali, ma, da un lato, lo supporterà con argomenti alternativi (e più convincenti) rispetto a quelli proposti nel ricordato parere; dall’altro, avrà cura di precisare che la soluzione è adottata sulla base della disciplina del t.u.b. vigente all’epoca degli eventi giudicati (la quale, medio tempore, è stata sensibilmente modificata, per effetto del d.lg. 13 agosto 2010, n. 141), dando altresì rilevanza a talune connotazioni specifiche della pratica commerciale che era stata in concreto sanzionata dall’Autorità. Ciò come a dire che, precisato lo strumentario logico-giuridico da utilizzare per affrontare, d’ora in poi, la questione, a differenza di quanto emerge con riferimento alle pronunce nel settore delle comunicazioni elettroniche 6, il Consiglio di Stato non esclude che la soluzione finora ad essa data possa essere in futuro ripensata.

2. Il parere del Consiglio di Stato sulla disciplina applicabile alle pratiche scorrette nel mercato finanziario: specialità “per materie” o “per settori” versus specialità tra norme. Una premessa s’impone. Nel quindicennio che precede l’introduzione della normativa sulle pratiche commerciali scorrette, caratterizzato dall’esclusiva vigenza della disciplina della pubblicità ingannevole (e poi anche comparativa illecita) 7, la questione dei possibili incroci tra disciplina generale ed eventuali discipline settoriali era rimasta confinata all’interpretazione della norma che prevedeva una deroga all’applicazione della prima nelle sole ipotesi in cui la pubblicità venuta all’esame dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato fosse stata assentita con provvedimento amministrativo, preordinato anche alla verifica

6.

Con le sentenze citate alla nota 2, il Consiglio di Stato ha dichiarato inapplicabile la disciplina delle pratiche commerciali scorrette ad una serie di pratiche sanzionate anche dalla legislazione di settore, con conseguente competenza esclusiva dell’Autorità per le garanzie delle comunicazioni. 7. Introdotta nel nostro ordinamento con il d.lg. n. 74/92, in attuazione della direttiva 84/450/CEE. La disciplina fu poi assorbita dal codice del consumo, per esserne di nuovo espunta, allorché in esso fu introdotta quella delle pratiche commerciali scorrette. Attualmente, la pubblicità ingannevole è oggetto del d.lg. n. 145/07, che riserva la relativa tutela alle relazioni business to business. Le condizioni di liceità della pubblicità comparativa furono introdotte nella disciplina con il d.lg. n. 67/2000, attuativo della direttiva 97/55/CE.

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del carattere non ingannevole della stessa. In tal caso, infatti, strumento per la tutela dei soggetti e delle organizzazioni interessati era (ed è tuttora) il ricorso al giudice amministrativo avverso detto provvedimento di assenso 8. Sulla base di tale norma, l’Autorità e il giudice amministrativo hanno ritenuto che i soli casi di esclusione dall’applicazione della disciplina generale fossero quelli relativi a messaggi pubblicitari di prodotti finanziari, autorizzati dalla Consob, e di presidi medico-chirurgici, autorizzati dal Ministro per la Salute 9. Ogni altro tentativo di estendere la deroga è stato respinto 10. Norma analoga è poi stata riprodotta all’interno della nuova disciplina delle pratiche commerciali scorrette (art. 27, co. 14, cod. cons.). Al varo della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, caratterizzata dalla estrema ampiezza delle fattispecie di illecito considerate, lo stesso legislatore comunitario aveva tuttavia avvertito l’accresciuto rischio che si generassero incroci e sovrapposizioni con altre normative, anch’esse di fonte comunitaria, parimenti votate alla tutela del consumatore. La direttiva 2005/29/CE conteneva, dunque, previsioni derogatorie alla propria generale applicabilità, per il caso in cui profili specifici di scorrettezza (rectius, di “slealtà”) fossero disciplinati sulla base di normative comunitarie settoriali 11. Nel recepimento in Italia, ciò si è tradotto nella previsione di cui all’art. 19, co. 3, cod. cons., per cui “In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”. A tale norma non era stata

8. Art. 7, co. 12 del d.lg. n. 74/92, poi divenuto poi art. 26, co. 12, del cod. cons., nella versione precedente l’attuazione della direttiva 2005/29/CE); norma riprodotta, mutatis mutandis, nell’art. 8, co. 14, d.lg. n. 145/07. Per una più ampia individuazione dei conflitti sollevati dinanzi all’Autorità e alla giurisprudenza amministrativa sulla base di tale previsione, si rinvia a Meli, L’applicazione, cit. 9. Per i primi, si veda PI1738/98, Banca di Roma. Per i secondi, TAR Lazio, Sez. I, 23 giugno 2003, n. 5519/03. 10. Si veda Meli, L’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel macrosettore «credito e assicurazioni», cit. 11. In particolare, la disciplina generale, posta dalla direttiva, è destinata ad applicarsi solo laddove non esistano “norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali” (Considerando 10), dovendo arretrare in caso di contrasto con discipline specifiche (Articolo 9).

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per la verità dedicata rilevante attenzione in dottrina 12, né sulla sua base erano state, nella prassi e nella giurisprudenza, mosse contestazioni rispetto alla applicabilità della disciplina generale in tutti i settori. È stata, paradossalmente, la stessa Autorità, improvvisamente investita da numerose segnalazioni per pratiche scorrette, inviate da risparmiatori vittime delle conseguenze del default di primari operatori finanziari, a sollevare presso il Consiglio di Stato il dubbio sulla propria competenza a trattarle (rectius, sull’applicabilità della disciplina generale al settore in questione). Rilevava l’Autorità, nella relazione di accompagnamento al quesito, come la tutela della correttezza delle informazioni al pubblico e della trasparenza e correttezza dei comportamenti dei relativi operatori nel mercato finanziario trovi già espressione in una serie di norme del Tuif e dei Regolamenti emittenti e intermediari, emanati dalla Consob. Disciplina, almeno in parte, di fonte comunitaria; il che costituiva, nella prospettazione dell’Autorità, il trait d’union con le citate previsioni derogatorie della direttiva 2005/29/CE, la quale, sul punto, evidenziava una certa insistenza proprio sulla specificità dei servizi finanziari (Considerando 9, 10; art. 3, n. 9). L’Autorità indicava però anche una sponda di diritto squisitamente interno, rappresentata dai principi generali in materia di concorso tra norme amministrative sanzionatorie, richiamando l’istituto del cd. concorso apparente di norme, la regola del ne bis in idem sostanziale e la soluzione fornita dall’art. 9 della l. n. 689/81 in termini di specialità. Con ciò la questione veniva instradata nell’ambito di una delle tematiche più controverse del diritto sanzionatorio (penale e amministrativo), rispetto alla quale la copiosa giurisprudenza della Suprema Corte, espressasi più volte a Sezioni Unite, è apparsa tutt’altro che uniforme e priva di ambiguità 13. Se si vuole delineare, in estrema sintesi, lo stato dell’arte sulla materia, l’indagine volta a verificare e risolvere, sulla base dell’art. 9, l. 689/81 (o dell’art. 15 c. p., che è espressione del medesimo principio), un problema di ne bis in idem, presuppone, innanzitutto, il riscontro dell’esistenza di “uno stesso fatto” (“stessa materia” nella dizione utilizzata dall’art. 15

12. Per una discussione sui conflitti che la direttiva (e la sua attuazione) lasciava irrisolti, si veda De Cristofaro, L’attuazione della direttiva 2005/29/Ce nell’ordinamento italiano: profili generali, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, a cura di De Cristofaro, Torino, 2008. 13. Sul versante penalistico, si veda Fiandaca, Commento all’art. 15, in Commentario breve al codice penale5, a cura di Crespi, Forti e Zuccalà, Padova, 2008, par. 5.

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cod. pen.), l’apparente sussistenza di due norme, sulla base delle quali esso potrebbe essere sanzionato, con sanzioni della stessa natura, la scelta dell’unica norma applicabile, sulla base dell’individuazione di elementi specializzanti. Sotto il primo profilo, nella giurisprudenza penale, sono riscontrabili un primo indirizzo, che riferisce la locuzione “stessa materia” all’identità degli interessi protetti dalle norme in questione 14, ed un secondo, che risulta attualmente prevalente, secondo il quale si devono confrontare le fattispecie previste dalle disposizioni incriminatrici apparentemente concorrenti 15. A tale proposito, la giurisprudenza ritiene che si debba condurre un confronto strutturale tra le fattispecie astrattamente individuate dalle norme e non considerare i fatti da sanzionare in concreto, naturalisticamente intesi 16. Quanto al rapporto di specialità, esso “è un rapporto di continenza strutturale fra due norme, nel senso che le relative fattispecie possono inscriversi – come due cerchi concentrici aventi un raggio disuguale – l’una nell’altra; una di esse contiene in sé tutti gli elementi presenti nell’altra e, allo stesso tempo, presenta uno o più elementi specializzanti, per specificazione o per aggiunta; la fattispecie speciale ha un’area di applicazione logicamente minore rispetto a quella della fattispecie generale”; perché tale rapporto sia riscontrabile, “è indispensabile che tra le fattispecie raffrontate vi siano elementi fondamentali comuni, ma una di esse abbia qualche elemento caratterizzante in più che la specializzi rispetto all’altra” 17. Elemento, questo, che, come ricordato dalla Suprema corte 18, viene, di volta in volta, individuato nei diversi corpi normativi in cui le norme sono ricomprese (per es., codice civile e legge fallimentare), nella specialità tra soggetti (per es., artt. 616 e 619 c.p.), nel maggior numero di elementi specializzanti, posseduti da una fattispecie, rispetto ad un’altra.

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Si veda Cass. pen., Sez. Un., 21 aprile 1995, n. 9568. Si vedano, oltre alla giurisprudenza richiamata dall’Autorità nella richiesta di parere, Cass. pen., S.U., 19 aprile 2007, n. 16568; Cass. civ., 22 gennaio 2008, n. 1299; Cass. pen., S.U., 28 ottobre 2010, n. 1963; Cass. pen., 13 dicembre 2011, n. 9541. 16. Nello stesso senso, si veda C. Cost., 3 aprile 1987, n. 97, con riferimento alla disciplina prevista dal citato art. 9, l. n. 689/81, secondo la quale, per risolvere il problema del concorso apparente “vanno confrontate le astratte, tipiche fattispecie che, almeno a prima vista, sembrano convergere su di un fatto naturalisticamente inteso”. 17. Si veda Cass. pen., 15 gennaio 2008, n. 2168. In termini analoghi, anche C. Cost., 5 maggio 1994, n. 174. 18 Cass. pen, S.U., n. 1963/10, cit. 15.

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Orbene, nel porre il proprio quesito, l’Autorità evidenziava che “l’applicazione del principio di specialità porterebbe a propendere per la conclusione che non si possano irrogare, per la medesima condotta valutata sotto il medesimo profilo (la scorrettezza, informativa e/o di condotta, nella prestazione di servizi finanziari), due sanzioni aventi medesima natura (pecuniaria), l’una comminata dall’organo con competenza speciale di settore (la CONSOB) e l’altra dall’organo con competenza generale (l’Autorità garante della concorrenza e del mercato)”. Il Consiglio di Stato, pur esprimendo parere nel senso auspicato dall’Autorità, disattendeva però la riferita impostazione e, dopo avere ritenuto che “l’interesse generale da curare risulti in concreto il medesimo per entrambi gli interventi”, declinava in termini alternativi il principio di specialità. Affermava, infatti, che “anche per evitare frammentarietà che ripeterebbero la questione a livello operativo, il confronto a questo proposito è tra due ordinamenti di settore, non tra due strumentazioni operative (…). La questione insomma non è quella delle diverse strumentazioni e della loro non integrale sovrapponibilità, ma quella dell’identificazione, grazie a questo principio generale, di quale dei due ordinamenti si debba qui invocare, dal che discende l’applicazione dell’inerente strumentazione di intervento”. Applicava, cioè, non un criterio di specialità “tra norme”, bensì “per materie” o “per settori”, in virtù del quale, condizione necessaria per escludere l’applicabilità della disciplina generale del Codice del consumo sarebbe l’esistenza di una compiuta normativa di settore. Non ragionava, dunque, in termini di ne bis in idem sostanziale, bensì formale 19. È facile comprendere come in tal modo, sul piano operativo, la soluzione rischiasse di risultare insoddisfacente, ora per eccesso (è ben possibile che una normativa settoriale compiuta non sanzioni comunque determinati comportamenti che il codice del consumo considera pratiche scorrette), ora per difetto (è possibile che, pur in assenza di una compiuta normativa settoriale, sussistano plessi di norme o isolate disposizioni sanzionatorie che, per le medesime fattispecie, duplicano quelle del codice del consumo), ma, più in generale, che la soluzione del conflitto finisse con l’essere affidata ad opinabilissime valutazioni, idonee a fondare qualunque esito.

19. Come rilevato criticamente da un’attenta dottrina (Clarich, La competenza, cit., p. 697 ss.), con ciò veniva riesumata la teoria degli ordinamenti giuridici sezionali, nata con riferimento all’attività creditizia, ma anche superata, proprio con riferimento alla medesima attività, a seguito delle trasformazioni indotte dal diritto comunitario.

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Forte è la sensazione che, respinta la stessa configurabilità di un concorso apparente di norme, e, dunque, la (ragionevolissima) soluzione in termini di ne bis in idem sostanziale proposta dall’Autorità 20, la scelta di escludere l’applicazione delle norme del codice del consumo nel settore dei prodotti finanziari e mantenerla in quello del credito o delle comunicazioni elettroniche o dell’energia o delle assicurazioni 21 abbia finito col rappresentare una scelta lato sensu politica. Non può sorprendere come simile impostazione, liberando gli interpreti dalla necessità di verificare, caso per caso, la sussistenza di “un medesimo fatto” illecito e di un apparentemente duplice apparato di norme deputate a sanzionarlo, abbia fornito lo spunto per il moltiplicarsi di rivendicazioni di “specialità” in tutti quei settori nei quali – per la crescente tendenza alla regolazione amministrativa – sia argomentabile la sussistenza di “una compiuta ed organica disciplina della materia”.

20.

In favore della quale si esprime Libertini, La tutela, cit. Per il Consiglio di Stato, invece, “si pone la questione, più radicale, della stessa legittimazione ad intervenire – cioè della competenza tra due autorità –, vale a dire del ne bis in idem formale, questione che per sua natura precede ogni dubbio sulla norma sanzionatoria sostanziale da applicare al singolo caso”. 21. Si pensi, ad es., al d.lg. n. 209/05, Codice delle assicurazioni, il cui Titolo XIII, “Trasparenza delle operazioni e protezione dell’assicurato”, contiene due norme, l’art. 182 e l’art. 183, dedicate, rispettivamente, alla “Pubblicità dei prodotti assicurativi” e alle “Regole di comportamento”, la prima delle quali prevede che “1. La pubblicità utilizzata per i prodotti delle imprese di assicurazione è effettuata avendo riguardo alla correttezza dell’informazione ed alla conformità rispetto al contenuto della nota informativa e delle condizioni di contratto cui i prodotti stessi si riferiscono” e la secondo che “1. Nell’offerta e nell’esecuzione dei contratti le imprese e gli intermediari devono: a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza nei confronti dei contraenti e degli assicurati; b) acquisire dai contraenti le informazioni necessarie a valutare le esigenze assicurative o previdenziali ed operare in modo che siano sempre adeguatamente informati”. Per un (fallito) tentativo di escludere le competenze dell’Autorità in materia di pratiche scorrette, a fronte della disciplina settoriale delle assicurazioni, si veda il provv. n. 21054, del 28 aprile 2010, PS2977, Allianz RAS – Pubblicità comparativa. Favorevole a tale esclusione Romagnoli, La repressione delle pratiche commerciali scorrette tra poteri dell’Autorità garante per la concorrenza e del mercato e competenze dell’Isvap, in Meli e Marano (a cura di), op. cit., p. 195; si veda anche Massa, Commento all’art. 19, in Codice del consumo2, a cura di Cuffaro, Milano, 2008, p. 98. Per una trattazione generale sul tema della trasparenza nell’offerta di prodotti finanziari da parte delle imprese assicurative, si veda Martina, Competenze in materia di trasparenza delle condizioni contrattuali dei prodotti finanziari emessi dalle imprese di assicurazione e dei fondi pensione, in La tutela del risparmio nella riforma dell’ordinamento finanziario, a cura di De Angelis e Rondinone, Torino, 2008, p. 509.

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Non può sorprendere neppure l’imbarazzo palese delle corti amministrative, esposte continuamente al rischio di contraddirsi; rischio scongiurato solo a prezzo di acrobazie argomentative, non sempre convincenti sul piano logico prima che su quello giuridico. Non a caso, proprio la successiva giurisprudenza in tema di tutela dei consumatori contro la scorrettezza nel settore del credito evidenzia una tensione tra passaggi argomentativi che trovano appiglio nel parere n. 3999/08 e altri che esprimono la tendenza a battere sentieri diversi da quello in esso indicato.

3. Il caso Accord: la sentenza del TAR Lazio n. 12277/10. Nel primo caso giunto fino al Consiglio di Stato, il ricorso al giudice amministrativo aveva riguardato la sanzione di una pratica commerciale posta in essere nell’ambito del credito al consumo, riguardante l’offerta di carte di credito revolving 22. È nei giudizi promossi dinanzi al TAR Lazio che i professionisti destinatari di sanzioni da parte dell’Autorità contestano per la prima volta l’applicabilità della disciplina delle norme del codice del consumo in tema di pratiche commerciali scorrette, richiamando, quale normativa speciale regolante la stessa materia, gli artt. 122, 123, 124, 125, 128 del t.u.b., nonché la circolare 4 marzo 2003 del CICR in materia di trasparenza. Il Tribunale amministrativo respinge la censura, fondando l’applicabilità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette sull’affermazione

22. Provv., n. 19983, del 18 giugno 2009, PS2760 – Accord-Carta Auchan Accord. Dalla collaborazione tra un’impresa operante in tale settore, la Accord, e note imprese titolari di catene di supermercati (Auchan e Sma), era scaturita la commercializzazione in cobranding di carte di credito revolving, utilizzabili presso i rispettivi punti vendita delle due catene di supermercati, ma anche, in generale, nel circuito Mastercard. Oggetto delle censure dell’Autorità erano diversi profili di ingannevolezza nell’offerta di tali carte. In particolare, secondo quanto accertato nel procedimento, ai consumatori ai quali la carta di credito veniva offe erano fornite informazioni non rispondenti al vero, inesatte o incomplete in relazione 1) alla natura revolving e alle modalità di utilizzo della carta; 2) alla circostanza che la carta insistesse su una linea di credito per un importo massimo autorizzato rimborsabile mediante rate e che il pagamento delle stesse, per la quota capitale, ricostituisse a favore del cliente una disponibilità di spesa pari all’importo saldato; 3) alla natura facoltativa della adesione all’assicurazione relativa alla copertura del rischio del credito.

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di una diversità degli interessi che sarebbero da questa tutelati, rispetto a quelli tutelati dalle norme del t.u.b.: l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato “tutela in maniera diretta la libertà di autodeterminazione dei consumatori e, indirettamente, l’interesse pubblico alla realizzazione di un mercato pienamente efficiente e concorrenziale”, mentre le norme che disciplinano il credito al consumo, con particolare riguardo agli obblighi di trasparenza che gravano sugli intermediari finanziari, debbono “essere raccordate alla specifica finalità dell’attività di vigilanza affidata alle autorità creditizie, che è principalmente quella di garantire la ‘sana e prudente gestione dei soggetti vigilati’, la ‘stabilità complessiva’ nonché l’efficienza e la competitività del sistema finanziario, unitamente all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia (art. 5, co. 1, t.u.b.)”. Secondo il giudice amministrativo, poi, l’attività regolatoria sarebbe volta a delineare, ex ante, il quadro degli obblighi specificamente gravanti sugli operatori vigilati (cioè, in sostanza, a definire gli obblighi tipici di quella specifica professione), mentre le competenze esercitate dall’Autorità, sulla base del codice del consumo, definirebbero un modello (sottinteso: generale) di “professionista diligente”, “applicato di volta in volta, nelle fattispecie concrete, dall’Autorità antitrust”. Conclude il TAR Lazio che, “In sostanza, le due Autorità sono fisiologicamente destinate ad operare in maniera complementare, posto che se – come già più volte rilevato dalla Sezione – l’esistenza di un quadro regolatorio evidenzia l’elevato grado di professionalità richiesto alle imprese operanti nel settore, tale disciplina, tuttavia, non esaurisce ogni possibile regola di comportamento esigibile dalle imprese medesime a tutela della libertà di scelta e di autodeterminazione del consumatore”. Come si vede, il giudice mutua dal parere del Consiglio di Stato del 2008 l’assegnazione di un ruolo rilevante alla natura degli interessi tutelati e soprassiede, ancora in linea con l’indirizzo espresso nel parere, alla puntuale verifica della sovrapposizione di fattispecie e strumenti sanzionatori tra disciplina generale e disciplina speciale 23. Tuttavia, pur non approfon-

23. Invero, in un passaggio della motivazione, il TAR Lazio afferma che non vi è “completa sovrapposizione tra le norme del testo unico bancario poste a tutela dei consumatori e quelle del Codice del Consumo”, ma, subito dopo, chiarisce il senso di tale affermazione, riportandosi, per un verso, ancora una volta alla supposta “diversità degli interessi pubblici primari affidati, rispettivamente, alle cure delle due Autorità indipendenti”, per un altro, appunto, non argomentando in concreto sulla “la diversità degli strumenti di intervento e di tutela”.

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dendolo, non rinuncia a porre il tema della parzialità dell’attività di regolazione, in termini di costruzione degli obblighi degli operatori del settore, rispetto alla portata generale della disciplina del codice del consumo.

4. segue: La sentenza del Consiglio di Stato n. 3763/10. La tensione con il parere del 2008 si manifesta con ben maggiore evidenza nella sentenza del Consiglio di Stato che decide in appello il caso Accord, nella quale, in effetti, l’impostazione del parere viene completamente disattesa e si accede alla costruzione in chiave di concorso apparente di norme e di ne bis in idem sostanziale. Il Consiglio di Stato osserva, innanzitutto, che “nella fattispecie in esame parrebbero convergere esigenze di tutela del consumatore generico ed esigenze di tutela del cliente del sistema creditizio”. È vero che qui si è in presenza di una pratica attinente al credito al consumo, ma, in realtà, nel caso di specie, per il tipo di operazione promozionale posta in essere, si sovrappongono profili di finanziamento e profili strettamente attinenti a ben individuati atti di consumo. Le carte di credito sono offerte “in stretta connessione, ambientale e funzionale, con decisioni di natura propriamente commerciale del medesimo consumatore, cioè con altri atti di consumo, finanziabili mediante l’utilizzazione di quello strumento di pagamento. La pratica commerciale di cui si tratta, per quanto sia formalmente incentrata sull’invito all’acquisto della carta, nondimeno concerne nella sua finalità effettiva l’uno e l’altro aspetto”. “In questo assetto, dominante però risulta il fatto, cui l’operazione è finalizzata, della connessione con altri atti di consumo: e questo assorbe, per quanto qui interessa, i profili inerenti il credito e il risparmio. Infatti, dal punto di vista tipologico, la vicenda riguarda, per contesto e carattere sociale, il consumatore generico, non già il risparmiatore o colui che, di sua iniziativa, intende accedere al credito per investimenti o per ragioni diverse da quel consumo” 24. In pratica, con ciò il Consiglio di Stato nega in radice la configurabilità di un “medesimo fatto”, di cui all’art. 9, l. n. 689/81. Giusta o sbagliata che sia tale scelta, la questione potrebbe chiudersi qui. Il Collegio, invece, si

24. Per giungere a tale conclusione, i giudici amministrativi devono sorvolare sulla circostanza che, in realtà, le carte in questione erano utilizzabili anche al di fuori degli esercizi commerciali che le offrivano (si vedano i par. 5, 8, 20, 22 del provvedimento dell’Autorità).

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sforza di escludere anche la sussistenza di norme settoriali che, in apparenza, siano applicabili al caso in questione. Formula così una serie di affermazioni che lasciano perplessi, perché contrastanti con l’interpretazione pacifica delle norme in materia di pratiche scorrette, come quella della estraneità al loro ambito di applicazione della fase di svolgimento delle vicende negoziali 25 o della distinzione tra “consumatore generico”, tutelato dal codice del consumo, e “cliente del sistema creditizio”, la cui tutela diversamente connoterebbe la normativa settoriale 26.

25. Tutt’altro che convincente è, ad esempio, l’affermazione secondo la quale la disciplina delle pratiche ingannevoli “riguarda non la singola e concreta vicenda negoziale – cui parrebbero riferirsi gli assunti dell’appellante privata in punto di informazione della controparte – ma il ben più ampio, e soprattutto anticipato, concetto di pratiche commerciali: e dunque una prassi adottata nella fase di contatto comunicazionale prodromica all’acquisto, ed è volta a prevenire scelte svantaggiose generate dall’asimmetria informativa rispetto all’offerente”. È appena il caso di rilevare, a sua confutazione, che l’art. 18, lett. d), cod. cons., definisce pratica commerciale “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori” e l’art. 19 cod.cons. dichiara la disciplina applicabile alle pratiche commerciali scorrette “poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto” L’onnicomprensività della nozione di “pratica commerciale” è pacificamente ritenuta in dottrina; si vedano, Minervini, Il codice del consumo e la direttiva sulle pratiche commerciali sleali, in Le pratiche commerciali sleali – Direttiva comunitaria e ordinamento italiano, a cura di Minervini e Carleo, Milano, 2007, p. 77; Di Nella, Prime considerazioni sulla disciplina delle pratiche commerciali aggressive, in Contratto e impresa/Europa, 2007, p. 49; Bargelli, La nuova disciplina delle pratiche commerciali tra professionisti e consumatori: ambito di applicazione (art. 18, lett. A-D) e art. 19, co. 1°, c.cons., in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, a cura di De Cristofaro, Torino, 2008, p. 97 ss.; Angelini, Commento all’art. 18 cod. cons., in Codice del consumo, a cura di Cuffaro, cit., p. 89; Meli, Pratiche commerciali scorrette, in corso di pubblicazione in Enc.giur.Treccani, online. Essa è indiscussa nella prassi dell’Autorità (e, del resto, era già preannunciata fin dall’avvio della propria attività: si veda, già la Relazione annuale sull’attività svolta nel 2007) e nella stessa giurisprudenza del Consiglio di Stato (si veda Sez. VI, 26 settembre 2011, n. 5368: “La legge impone al professionista l’obbligo di correttezza anche nella fase successiva alla stipula del contratto, e quindi nelle vicende relative alla sua esecuzione”). 26. È evidente che, di fronte ad una pratica commerciale individuata con riferimento a relazioni specifiche, non esiste il “consumatore generico”: il cliente, utilizzatore di un determinato bene o utente di un determinato servizio, non è altro che il consumatore, rilevato in concreto, in relazione ad una vicenda contrattuale che da potenziale si è tradotta in attuale. Tra l’altro, la distinzione trova adesso esplicita smentita – proprio nel settore del credito – nel nuovo art. 21, co. 3 bis, cod. cons., che considera scorretta “la pratica commerciale di una banca, di un istituto di credito o di un intermediario finanziario che, ai fini della stipula di un contratto di mutuo, obbliga il cliente alla

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L’argomento, al quale il TAR aveva attribuito grande rilievo, della supposta diversità degli obiettivi di tutela perseguiti dalle due normative in potenziale conflitto, nella sentenza del Consiglio appare in posizione defilata 27. Va rilevato, in proposito, che, nelle more del giudizio, attraverso il d.lg. n. 141/2010, l’art. 127 t.u.b. era stato profondamente modificato. Nella sua nuova versione, esso recita “Le Autorità creditizie esercitano i poteri previsti dal presente titolo [cioè il Titolo VI, Trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti: n.d.a.] avendo riguardo, oltre che alle finalità indicate nell’articolo 5, alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela” 28. Come si avrà modo di illustrare più ampiamente, il tema della successione delle norme nel tempo, fin qui ignorato, verrà esplicitamen-

sottoscrizione di una polizza assicurativa erogata dalla medesima banca, istituto o intermediario (norma introdotta dall’art. 36 bis d.l. n. 201/2011 conv. in l. 22 dicembre 2011, n. 214) ovvero all’apertura di un conto corrente presso la medesima banca, istituto o intermediario (frase aggiunta dall’art. 28, co. 3, d.l. n. 1/2012 conv. in l. 24 marzo 2012, n. 27, recante Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività). 27. V’è però da rilevare che, nella seconda sentenza pronunciata nel 2011, emessa in riferimento ad un provvedimento dell’Autorità che aveva sanzionato il ritardo dei una banca a procedere alla cancellazione dell’ipoteca dopo l’estinzione del mutuo garantito, lo stesso Consiglio di Stato riporta in primo piano la distinzione tra finalità di tutela del consumatore e finalità di vigilanza sulla sana e prudente gestione. Vi si legge: “è indubitabile che le norme contenute nel citato Testo Unico perseguano in prima battuta il fine (principio cardine della vigilanza bancaria esplicitato dall’art. 5, d.lg. n. 385 del 1993) della sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, dalla stabilità complessiva del sistema finanziario, dall’osservanza delle disposizioni in materia creditizia” (Sez. VI, sent. n. 4800/11, cit.). 28. Con il Titolo VI del t.u.b. è stata resa omogenea la normativa emanata in tema di operazioni e servizi bancari e finanziari, credito al consumo, regole generali e controlli. In esso sono confluite normative emanate in tempi diversi, per un ricognizione dei quali, si veda Picciolini, Commento all’art. 115 t.u.b., in Commentario al Testo Unico delle Leggi in materia bancarie e creditizia3, diretto da Capriglione, t. III (artt. 98-126), Padova, 2012, p. 1665. Sull’art. 127 t.u.b., si veda Baldassarre, Commento all’art. 127 t.u.b., in Commentario al Testo Unico delle Leggi in materia bancarie e creditizia, cit., t. IV (artt.126bis-162), p. 2012 ss. In diverse pronunce, pur successive alla novella legislativa, il TAR Lazio ha continuato ad individuare quale finalità della vigilanza, anche con riferimento alle disposizioni del Titolo VI del t.u.b., la sana e prudente gestione dei soggetti vigilati: si vedano TAR Lazio, Sez. I, 18 gennaio 2011, n. 449; TAR Lazio, Sez. I, 21 marzo 2011, n. 2409; TAR Lazio, Sez. I, 18 aprile 2011, n. 3363; TAR Lazio, Sez. I, 15 luglio 2011, nn. 6354, 6356, 6360. Soluzione probabilmente corretta, alla luce del principio tempus regit actum, considerato che i fatti in causa si erano svolti prima della detta novella.

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te affrontato dall’Adunanza Plenaria, la quale, decidendo un altro caso in materia di credito al consumo, affermerà di dover comunque considerare la precedente versione dell’art. 127 t.u.b., che era quella vigente all’epoca dei fatti di cui in causa.

5. La rimessione all’Adunanza Plenaria: il recupero del principio del principio di specialità tra norme. Con la sentenza Accord, la Sesta Sezione del Consiglio di Stato si è già mostrata ben consapevole degli insoddisfacenti esiti riversatisi in sede giurisdizionale per effetto della scelta di adottare quale criterio il principio di specialità “per materie” o “per settori”. In un’occasione successiva, anch’essa riguardante pratiche scorrette nel settore del credito al consumo 29, facendo peraltro seguito ad una serie di analoghe iniziative riferite al settore delle comunicazioni elettroniche 30, la Sezione ha dunque deciso di rimettere la questione all’Adunanza Plenaria, con il malcelato obiettivo di approdare al ribaltamento dell’infelice parere reso dalla Prima Sezione. Nelle ordinanze di rimessione, il Consiglio di Stato richiama espressamente l’istituto del concorso apparente di norme sanzionatorie e l’art. 9 della l. n. 689/81, e suggerisce la regola che, a suo avviso, si dovrebbe applicare per decidere in termini di specialità il problema della coesistenza tra la disciplina generale e quella settoriale: “Salvo che non possa concludersi per la reale completezza ed esaustività della normativa di settore nell’individuare le fattispecie sanzionatorie e nel delineare le conseguenti misure inibitorie e repressive, la stessa è destinata quindi a trovare applicazione soltanto in caso di verificato contrasto con quella generale e sempre che rechi la disciplina di aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, regolando una fattispecie omogenea a quella individuata dalla normativa generale ma da quella distinta per un elemento specializzante, di aggiunta o di specificazione della fattispecie stessa. Diversamente, deve trovare applicazione la normativa generale, secondo la logica della complementarità delle discipline”.

29.

Il provv. era il n. 21595, del 23 settembre 2010, PS2793 – Agos-Polizza assicurazione

vita. 30.

Cons. St., Sez. VI, ordd. 12 ottobre 2011, nn. 5522, 5523, 5526 e 13 dicembre 2011, n. 6527.

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Accenna anche ad un ulteriore profilo, che poi si smarrirà nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria, concernente la possibile interpretazione della prima frase al co. 1, dell’art. 123 t.u.b., “Fermo restando quanto previsto dalla parte II, titolo III, del Codice del consumo”, nel senso dell’attribuzione all’autorità di settore della competenza ad applicare anche le norme del codice del consumo. Con ciò, il problema dei confini tra l’una e l’altra disciplina degraderebbe a semplice questione di competenza ad applicare quella generale 31.

6. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 14/2012. La pronuncia dell’Adunanza Plenaria comincia col delineare in termini netti l’alternativa tra la specialità “per materie” o “per settori”, di cui al parere reso dalla Prima Sezione, e la specialità “tra norme, da valutare caso per caso in rigorosa applicazione dell’art. 9 della l. 24 novembre 1981, nr. 689 (Modifiche al sistema penale), considerato assieme all’art. 15 cod. pen. espressione di un principio immanente dell’ordinamento

31. La possibilità che la competenza ad applicare la normativa generale sulle pratiche commerciali scorrette venga attratta dall’autorità di settore è posta, esattamente negli stessi termini, riguardo al settore delle comunicazioni elettroniche; la norma in questione diviene l’art. 70, co. 6, cod. comunicaz. Elettroniche (“Rimane ferma l’applicazione delle norme e delle disposizioni in materia di tutela dei consumatori”). Si veda l’ord. n. 6527/11, cit. Nell’estate del 2012 il legislatore è intervenuto con una norma che tocca tale tema, anche se, probabilmente, il fine perseguito era più ambizioso. Si tratta dell’art. 23, co. 12-quinquiesdecies, d.l. 6 luglio 2012, n. 95, con l. 7 agosto 2012, n. 126, che, nell’elevare a 5.000.000,00 le “sanzioni di cui all’articolo 27, commi 9 e 12, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, in materia di pratiche commerciali scorrette”, aggiunge l’inciso “la competenza ad accertare e sanzionare le quali è dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, escluso unicamente il caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere in settori in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati”. Non è escluso che l’intento del legislatore fosse quello di replicare all’Adunanza Plenaria, in particolare restringendo la “falla” già aperta nel settore delle comunicazioni elettroniche e che, potenzialmente, potrebbe aprirsi, come abbiamo visto, in quello del credito. In realtà a chi scrive pare che, se questa era l’intenzione, la norma manchi completamente l’obiettivo. Essa, infatti, appare piuttosto affrontare il tema della competenza soggettiva ad applicare la disciplina generale delle pratiche scorrette di cui al codice del consumo (è quella che viene esplicitamente richiamata); con ciò, ha il solo effetto di dettare le condizioni – tutte da interpretare – alle quali l’Autorità garante potrebbe addirittura cedere ad un’autorità settoriale la propria competenza ad applicare la disciplina generale.

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connesso al ne bis in idem sostanziale”, preferita dalla Sezione remittente. Sgomberato poi il campo dall’argomento fondato sulla identità degli interessi tutelati dalle due normative, quale emergerebbe dalla modifica dell’art. 127 t.u.b., per effetto del d.lg. n. 141/2010 32 (dato che questo, nel caso di specie, risulterebbe inapplicabile ratione temporis) l’Adunanza Plenaria afferma – come era facile attendersi – l’accoglimento del principio di specialità tra norme, alla luce del quale occorre impostare il rapporto tra la disciplina contenuta nel Codice del consumo e quella dettata dal t.u.b.. Ciò detto, osserva che “il t.u.b. – quanto meno nella versione vigente all’epoca dei fatti per cui è causa – non contiene alcuna disposizione intesa a perseguire, direttamente o indirettamente, finalità di tutela del consumatore”; tuttavia, rinuncia ad intraprendere un confronto puntuale tra le fattispecie contenute nel t.u.b. e le disposizioni in materia di pratiche commerciali scorrette sanzionate dal Codice del consumo, nonché tra i due sistemi sanzionatori 33. L’Adunanza Plenaria

32.

In riferimento alla quale, osserva, peraltro, il Consiglio di Stato, con un obiter dictum, che essa “adottata in attuazione di un’apposita direttiva europea dedicata alla disciplina dei “contratti di credito”, costituisce forse il primo passo in vista della trasformazione del t.u.b. in una disciplina di settore tendenzialmente esaustiva”. 33. È questo il percorso argomentativo seguito nelle coeve decisioni della stessa Adunanza Plenaria riguardanti il settore delle comunicazioni elettroniche. In queste (le ricordate 11, 12, 13, 15, 16 del 2012), osservazione preliminare è come occorra “evidenziare come il Codice delle comunicazioni elettroniche faccia espresso riferimento in numerosi articoli alla tutela del consumatore”; segue una puntuale ricognizione di tali norme, che comprende, oltre alle fonti primarie, la delibera n. 664/06/CONS dell’AGCOM. Posta tale premessa, l’Adunanza, ricordato, oltre all’art. 19, co. 3, cod. cons., sul rapporto tra normativa delle pratiche scorrette e normative diverse di fonte comunitaria e il principio di specialità, ex art. 9 l. n. 689/81 (e 15 c. p.), procede ad una disamina delle norme che, nella disciplina di settore, sanzionano il comportamento contestato dall’Autorità come pratica scorretta. Quindi, ritiene “assolutamente decisivo” che la normativa di settore attribuisca all’AGCOM poteri di vigilanza, regolamentazione e sanzione, relativo agli obblighi previsti dalle suddette norme; poteri che l’AGCOM ha effettivamente esercitato. Respinge quindi la prospettazione dell’Autorità, secondo la quale la normativa settoriale non coprirebbe tutte le possibili fattispecie di pratica scorretta, osservando il rischio di lacune o deficit di tutela è scongiurato, innanzitutto dalla presenza di clausole generali (quale quella di cui l’art. 2, co. 4, della ricordata delibera n. 664/06 di AGCOM, secondo cui l’operatore deve rispettare “i principi di buona fede e di lealtà in materia di transazioni commerciali, valutati alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori particolarmente vulnerabili”). Afferma, infine, che “inoltre e principalmente occorre in proposito fare riferimento al co. 6 dell’art.70 del Codice delle comunicazioni elettroniche, secondo cui rimane comunque ferma l’applicazione delle norme e delle disposizioni in materia di tutela del consumatore”, ritenendo che si tratti “di un rinvio dinamico ad ogni altra disposizione di tutela del consumatore, rinvio che garantisce

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torna, invece, ancora una volta, all’art. 5 del t.u.b., “laddove i poteri di vigilanza e repressivi attribuiti alla Banca d’Italia sono stati ricondotti ‘…alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia’”, per dedurre che “Risulta dunque confermato che il d.lgs. n. 385 del 1993, nella versione che qui interessa, era volto a perseguire finalità le quali, ancorché genericamente riconducibili al corretto e trasparente funzionamento del mercato nel settore di riferimento, non comprendono fra di esse la tutela del consumatore in quanto tale”, e concludere che “In particolare, resta fuori dall’area del controllo e delle possibili sanzioni la fase antecedente il contatto diretto tra operatore finanziario e risparmiatore finalizzato all’acquisto di un prodotto finanziario presso lo sportello bancario o presso gli uffici dell’operatore”. Con ciò, quel raffronto che, con maggiore linearità, avrebbe dovuto costituire l’oggetto di una verifica della specialità delle norme del t.u.b. rispetto a quelle del codice del consumo, viene evocato, ma non svolto. Nessun dubbio, tuttavia, che l’opzione della specialità per materie o per settori, di cui al parere del 2008, possa considerarsi (ed è scelta assolutamente condivisibile) archiviata. Resta la soluzione in concreto fornita al caso all’esame, condizionata, come si è rilevato, dalla necessità di attenersi al principio tempus regit actum, e da una ricostruzione della pratica esaminata in termini tali da far prevalere profili ricadenti nella disciplina generale della pratiche scorrette. Acquisito il metodo, l’interprete non può non chiedersi, dunque, quale sarebbe la soluzione laddove si dovesse decidere un caso che fosse già maturato nel mutato contesto normativo e riguardasse anche ipotesi di credito non direttamente collegate ad operazioni commerciali di altro genere (ad esempio, la promozione pura e semplice di una carta di credito).

la chiusura del sistema ed esclude a priori il rischio più volte paventato da Antitrust di possibili lacune della tutela stessa”. Quanto al sistema sanzionatorio, l’Adunanza Plenaria, osservato che un eventuale deficit sanzionatorio non potrebbe comunque rilevare rispetto alla individuazione dell’Autorità competente, comportando semmai l’obbligo di sollevare una questione di costituzionalità, rileva che le sanzioni previste dalla normativa settoriale in questione non sono meno severe di quelle previste dalla disciplina generale sulle pratiche commerciali scorrette e che all’AGCOM sono attribuiti poteri inibitori e conformativi, in fatto più volte esercitati “che non consentono di ritenere che la tutela apprestata da AGCOM possa ritenersi nel complesso qualitativamente inferiore a quella attribuita ad Antitrust”.

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Allo scopo, si deve operare un confronto tra le fattispecie di cui alla disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette e quelle descritte dalla nuova disciplina del Titolo VI del t.u.b., dedicata alla “Trasparenza dei rapporti contrattuali e dei rapporti con i clienti”, scaturita dal d.lg. n. 141/10. Nel far ciò, tuttavia, non ci si può limitare alla disciplina direttamente apprestata dal t.u.b., ma bisogna analizzare anche le norme regolamentari che, sulla base della stessa legge, la autorità creditizie sono chiamate ad emanare. Si dovrà dunque volgere l’attenzione alle “Disposizioni in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti”, attualmente nella versione emanata dalla Banca d’Italia il 20 giugno 2012, sulla base di quanto disposto in talune norme del Titolo VI del t.u.b. 34, nel contesto delineato dal CICR (Decreto d’urgenza del Ministro-Presidente, del 3 febbraio 2011, n. 117).

34

Si vedano, in particolare: - l’art. 123, co. 2: “La Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR, precisa le caratteristiche delle informazioni da includere negli annunci pubblicitari e le modalità della loro divulgazione”; l’art. 124, co. 7: “La Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR, detta disposizioni di attuazione del presente articolo, con riferimento a: a) il contenuto, i criteri di redazione, le modalità di messa a disposizione delle informazioni precontrattuali; b) le modalità e la portata dei chiarimenti da fornire al consumatore ai sensi del comma 5, anche in caso di contratti conclusi congiuntamente; c) gli obblighi specifici o derogatori da osservare nei casi di: comunicazioni mediante telefonia vocale; aperture di credito regolate in conto corrente; dilazioni di pagamento non gratuite e altre modalità agevolate di rimborso di un credito preesistente, concordate tra le parti a seguito di un inadempimento del consumatore; offerta attraverso intermediari del credito che operano a titolo accessorio”; l’art. 125 bis, co. 4: “Nei contratti di credito di durata il finanziatore fornisce periodicamente al cliente, su supporto cartaceo o altro supporto durevole una comunicazione completa e chiara in merito allo svolgimento del rapporto. La Banca d’Italia, in conformità alle deliberazioni del CICR, fissa i contenuti e le modalità di tale comunicazione”; l’art. 126 quater, co. 1: “La Banca d’Italia disciplina: a) contenuti e modalità delle informazioni e delle condizioni che il prestatore dei servizi di pagamento fornisce o rende disponibili all’utilizzatore di servizi di pagamento, al pagatore e al beneficiario. Le informazioni e le condizioni sono redatte in termini di facile comprensione e in forma chiara e leggibile. In particolare, l’utilizzatore dei servizi di pagamento è informato di tutte le spese dovute al prestatore di servizi di pagamento e della loro suddivisione. Sono previsti obblighi di trasparenza semplificati nel caso di utilizzo di strumenti di pagamento che riguardino operazioni o presentino limiti di spesa o avvaloramento inferiori a soglie fissate dalla stessa Banca d’Italia; b) casi, contenuti e modalità delle comunicazioni periodiche sulle operazioni di pagamento”.

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7. Titolo VI del t.u.b., Disposizioni della Banca d’Italia sulla trasparenza e disciplina delle pratiche commerciali scorrette: a) raffronto strutturale tra le fattispecie. Cominceremo col ricordare che la disciplina dettata dal codice del consumo in materia di pratiche commerciali scorrette è generale sotto diversi aspetti. In primo luogo, essa riguarda, appunto, le “pratiche commerciali”, e cioè, “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori” (art. 18, lett. d, cod. cons.), “poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto” (art. 19, cod. cons.). Si può trattare, dunque, di dichiarazioni o comportamenti materiali, azioni o omissioni, non essendo rilevante la natura, negoziale o meno, né la fase temporale di un eventuale rapporto in corso 35. Per limitarsi al tema dell’informazione, pratica commerciale non è, dunque, la sola pubblicità, ma anche ogni comunicazione intervenuta tra professionista e consumatore, ivi comprese quelle rese nell’ambito di un rapporto contrattuale, in qualunque fase esso si trovi. In secondo luogo, è scorretta ogni pratica, commissiva o omissiva, “contraria alla diligenza professionale ed (…) idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”. La scorrettezza viene poi tipizzata in ingannevolezza (artt. 21 e 22 cod. cons.) e aggressività (artt. 24 e 25 cod. cons.). In sintesi, non v’è dubbio che la disciplina delle pratiche scorrette investa qualunque profilo dei rapporti tra professionista e consumatori, attuali o potenziali, e, tolte le ipotesi di pratiche vietate per se, contenute nelle black list (artt. 23 e 26), risulti costruita secondo degli standard (o concetti giuridici indeterminati, clausole generali, principi generali, norme elastiche o nozioni a contenuto variabile, che dir si voglia) 36.

35. Per una ricognizione delle opinioni su tale punto, si veda Angelini, Commento all’art. 18 cod. cons., in Codice del consumo2, a cura di Cuffaro, cit. p. 89. 36. Si veda, sul tema, Denozza, Norme, principi e clausole generali nel diritto commerciale: un’analisi funzionale, in Riv.crit.dir.priv., 2011, p. 29.

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La scorrettezza di una pratica commerciale, in particolare, presuppone, cumulativamente, a) la contrarietà ad un parametro definito come “diligenza professionale”, declinato, sia in generale, sia con specifico riferimento ai settori nei quali si è sviluppata la pratica indagata. b) l’idoneità a pregiudicare il comportamento economico b1) non di qualunque consumatore, bensì di quello medio (cioè, “normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto”, secondo il Considerando 18 della direttiva 2005/29/CE), e b2) “in misura apprezzabile” 37. Delineato il quadro che emerge dalla disciplina generale, le norme del Titolo VI del t.u.b., che potrebbero interessare ai fini di un confronto con la disciplina generale, si trovano nel Capo I, “Operazioni e servizi bancari e finanziari”, nel Capo II, “Credito ai consumatori”, nel Capo II bis, “Servizi di pagamento”. Le disposizioni rilevanti del t.u.b. sono, in particolare, raggruppabili in due tipologie: - disposizioni che attengono all’informazione, generale, precontrattuale e contrattuale; - disposizioni che attengono al recesso dai contratti in corso.

Quanto alle previsioni delle due black list di pratiche ingannevoli e aggressive, il riscontro della scorrettezza prescinderebbe (Considerando 17 della direttiva), da ogni valutazione circa la sussistenza dei requisiti previsti per il giudizio generale di scorrettezza e, segnatamente, della contrarietà alla diligenza professionale, dell’idoneità ad ingannare o condizionare, di quella ad influenzare il comportamento economico del consumatore medio (in tal senso, De Cristofaro, Il divieto di pratiche commerciali scorrette e i parametri di valutazione, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, a cura di De Cristofaro, cit., p. 140; Massa, Commento all’art. 24 cod. cons., in Codice del consumo2, a cura di Cuffaro, cit., p. 138). Il condizionale è però d’obbligo, dato che, in realtà, il disegno si rivela illusorio. Se, infatti, ben può il legislatore vietare o imporre determinati comportamenti in sé considerati (dettare, cioè, delle rules in luogo di standards), difficile è sottrarsi ad una valutazione di idoneità all’inganno o all’indebito condizionamento laddove la stessa identificazione della pratica vietata la imponga, riproponendo il problema dei criteri, oggettivi e soggettivi, di valutazione della scorrettezza. Questo è quanto avviene per diverse ipotesi di illeciti nelle black list (si vedano, con riferimento alle pratiche in ogni caso ingannevoli, Meli, voce Pubblicità ingannevole, in Enc. giur., XXV, Roma, 2006; con riferimento a quelle aggressive, La Rocca, Commento all’art. 26 cod. cons., in Codice del consumo2, a cura di Cuffaro, cit., p. 160 ss.). 37. Sull’interpretazione di tali prescrizioni e sulla loro considerazione nelle prassi e nella giurisprudenza, si rinvia a Meli, Le clausole generali relative alla pubblicità, in AIDA, 2008, p. 257 e Id., “Diligenza professionale”, “consumatore medio”e regola di de minimis nella prassi dell’Agcm e nella giurisprudenza amministrativa, in La Tutela, a cura di Meli e Marano, cit., p. 1.

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Al primo gruppo possono ascriversi: gli art. 116 e 123, rubricati “Pubblicità”; l’art. 117, rubricato “Contratti”; l’art. 119, rubricato “Comunicazioni periodiche alla clientela”; l’art. 124, rubricato “Obblighi precontrattuali”; l’art. 125 bis, rubricato “Contratti e comunicazioni”; l’art. 126 quater, rubricato “Informazioni relative alle operazioni di pagamento e ai contratti”. Al secondo gruppo possono ascriversi gli artt. 120 bis, 125 quater, 126 septies, laddove essi dispongono, appunto, in tema di recesso dai contratti. Orbene, come si vede, la diversità tra le norme in materia di trasparenza e correttezza contenute nel t.u.b. e quelle generali del codice del consumo sembrerebbe evidente. In particolare: - in taluni casi, il t.u.b. detta delle rules e il codice del consumo, come si è detto, se si escludono talune fattispecie di pratiche in ogni caso scorrette (quelle delle black list), degli standards; ciò è evidente per tutte le norme che traducono l’obbligo di trasparenza nella contrattazione in obbligo di adottare la forma scritta e di consegnare al cliente copia del contratto (art. 117), o di fornirgli comunicazioni iniziali e periodiche (art. 119) o di fornirgli le informazioni necessarie “su supporto cartaceo o su altro supporto durevole attraverso il modulo contenente le ‘Informazioni europee di base sul credito ai consumatori’” (art. 124, co. 1; similmente l’art. 125 bis); - talvolta, il t.u.b., pur definendo uno standard di trasparenza, sembra riferirlo ad un limitato elenco di contenuti che appare tassativo; è il caso delle due norme in materia di pubblicità, l’art. 116 e l’art. 123. Il primo comma dell’art. 116 fornire certo una regola generale di correttezza della pubblicità 38, ma questa appare limitata al “rendere noti in modo chiaro

38. Alla luce delle “Disposizioni in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti”, emanate dalla Banca d’Italia (11 febbraio 2011), possono considerarsi superati i dubbi circa l’estensione della nozione di “pubblicità”, di cui alle citate norme del t.u.b. (se cioè si riferisse solo alle comunicazioni diffuse alla clientela ovvero alla massa indifferenziata di utenti (sul tema, si veda, da ultimo, Urbani, Commento all’art. 16 t.u.b., in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit., p. 1673 ss., la cui opinione è in senso restrittivo; sulla pubblicità di cui all’art. 123 t.u.b., si vedano Alpa e Gaggero, Commento all’art. 123 t.u.b., in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit., p. 1848 ss.). Al par. 3, della Sezione I, “annuncio pubblicitario” è definito

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ai clienti i tassi di interesse, i prezzi e le altre condizioni economiche relative alle operazioni e ai servizi offerti, ivi compresi gli interessi di mora e le valute applicate per l’imputazione degli interessi”. Se, ad avviso di chi scrive, “rendere noti in modo chiaro” comprende, oltre al divieto di fornire informazioni oggettivamente false o lacunose, anche l’obbligo di presentare dette informazioni con modalità non ingannevoli, l’elencazione della tipologia di informazioni soggette a detto obbligo di chiarezza appare tuttavia limitata 39. Lo stesso può dirsi per l’art. 123 t.u.b. - altra volta ancora, il rispetto di uno standard valutativo della correttezza dell’informazione sembra ristretto al conseguimento di un determinato obiettivo conoscitivo; si pensi all’art. 124, co. 1, t.u.b., in cui si prescrive che “Il finanziatore o l’intermediario del credito, sulla base delle condizioni offerte dal finanziatore e, se del caso, delle preferenze espresse e delle informazioni fornite dal consumatore, forniscono al consumatore, prima che egli sia vincolato da un contratto o da un’offerta di credito, le informazioni necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato, al fine di prendere una decisione informata e consapevole in merito alla conclusione di un contratto di credito”. L’espressione fa sorgere il dubbio che l’obbligo di informazione sia qui funzionale ad una trasparente illustrazione delle diverse offerte disponibili sul mercato, potendone restare fuori ogni altro aspetto relativo alla completezza informativa. In conclusione, è arduo reperire tra le norme testé esaminate, un principio generale di correttezza o non ingannevolezza, negli stessi termini in cui esso è dettato nel codice del consumo.

il “messaggio, in qualsiasi modo diffuso, avente lo scopo di promuovere la vendita di prodotti e la prestazione di servizi, salvo quanto previsto dalla sezione VII, paragrafo 4”; e il par. 4 citato definisce gli annunci pubblicitari come “tutti i messaggi, in qualsiasi forma diffusi, aventi natura promozionale, e ogni altra documentazione non personalizzata avente la funzione di rendere note le condizioni dell’offerta alla potenziale clientela”. Il che, evidentemente, fa propendere per l’interpretazione estensiva. Sulla complessità degli obblighi informativi delle banche, alla luce delle ultime modifiche legislative, intervenute con il d.lg. n. 141 del 2010, si veda Nigro, Linee di tendenza delle nuove discipline di trasparenza. Dalla trasparenza alla “consulenza”?, in Dir. banc., 2011, p. 11. 39. Ammesso che lo stessa carattere di tassatività si voglia attribuire alle elencazioni di cui all’art. 21 cod. cons., non può sfuggire la percepibile diversità di ampiezza dell’area informativa presa in considerazione. In tal senso mi ero espresso in Meli, voce Pubblicità ingannevole, in Enc. giur., cit., ma oggi dubiterei di quella affermazione. Si veda anche Massa, Commento all’art. 21 cod. cons., in Codice del consumo, a cura di Cuffaro, cit., p. 116.

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Diversa valutazione deve formularsi per il gruppo di norme che mira ad assicurare al consumatore/cliente il diritto di recesso dal contratto (i ricordati artt. 120 bis, 125 quater, 126 septies). In tutte si afferma che il cliente/utilizzatore ha diritto di recedere dal contratto senza penalità e senza spese. Pochi dubbi, considerata anche l’origine di due delle tre norme 40, che esse tutelino il cliente non solo rispetto a possibili previsioni contrattuali pregiudizievoli del diritto di recedere gratuitamente, ma contro qualunque ostacolo, anche non contrattuale, all’esercizio di tale diritto di recesso; ostacolo che può consistere non solo nella richiesta, in via di fatto, della corresponsione di somme a vario titolo, ma anche in ritardi ingiustificati nella chiusura della posizione del cliente 41, richieste pretestuose di documenti, ecc., ecc. Non può sfuggire la sovrapponibilità di tali disposizioni con l’art. 25, lett. d), cod. cons., che, tra gli elementi da prendere in considerazione per determinare se una pratica commerciale comporti molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, indica “qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti con-

40. L’art. 120 bis trova il suo antecedente nell’art. 10, co. 2, del cd. decreto Bersani (d.l. n. 223/06, conv. In l. n. 248/06); l’attuale testo è frutto del d.lg. n. 141/10. Su tale norma, si vedano Mucciarone e Sciarrone Alibrandi, Commento all’art. 120 bis t.u.b., in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancarie e creditizia, cit., t. III, p. 1762 ss. L’art. 126 septies rappresenta invece il risultato del recepimento dell’art. 45 della Direttiva 2007/64/CE sui servizi di pagamento, il cui par. 1 recita “I contratti quadro possono essere sciolti in qualsiasi momento dall’utilizzatore di servizi di pagamento, salvo qualora sia stato convenuto contrattualmente un periodo di preavviso che non può essere superiore ad un mese”. Sul tema, si veda De Poli, Commento all’art. 126 septies t.u.b., in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancarie e creditizia, cit., t. IV, p. 2004 ss. Sull’art. 125 quater, si veda Tucci, Commento all’art. 125 quater t.u.b., in Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancarie e creditizia, cit., t. III, p. 1902 ss. 41. Rilevano Mucciarone e Sciarrone Alibrandi, op. ult. cit., 1766, come l’esperienza dell’ABF segnali casi in cui, dopo il ricevimento della comunicazione del recesso da parte del correntista, la banca abbia continuato a mantenere aperto il conto, addebitando le relative competenze contrattuali e comunicando il saldo al cliente soltanto con l’estratto conto. È il caso di aggiungere che casi del genere sono stati oggetto di procedimenti per pratiche commerciali scorrette da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato: si vedano, ad es., n. 21321, del 7 luglio 2010, PS2624 – Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza-Estinzione c/c e del . 21414, del 28 luglio 20120, PS1750 – Unicredit Banca di Roma – Ostruzionismo chiusura c/c. In entrambi i casi, peraltro, l’Autorità non ha irrogato la sanzione pecuniaria, con motivazioni non convincenti (si veda Meli, L’applicazione, cit., p. 370).

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trattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto o quello di cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista”. Un po’ paradossalmente, dunque, l’unico caso acclarato di sovrapposizione non riguarda aspetti relativi all’informazione, bensì l’ambito delle cd. pratiche aggressive. Veniamo adesso alle ultime “Disposizioni in materia di trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari. Correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti”. In tali Disposizioni compare, in effetti, qualche richiamo a regole di trasparenza e correttezza, prima espressa o in via generale e poi, sulla base dei richiami operati dalle singole norme del t.u.b. ai poteri regolamentari, con riferimento a specifici servizi. Sotto il primo aspetto, la Banca d’Italia rileva, nella Premessa (par. 1.1), che “Le disposizioni in materia di trasparenza (Titolo VI del t.u.b.; delibere del CICR citate nel par. 2 e il presente provvedimento) si applicano – salva diversa previsione – a tutte le operazioni e a tutti i servizi disciplinati ai sensi del Titolo VI del t.u.b. (incluso il credito al consumo e i servizi di pagamento) aventi natura bancaria e finanziaria offerti dagli intermediari, anche al di fuori delle dipendenze (‘fuori sede’) o mediante ‘tecniche di comunicazione a distanza’”. Con ciò, esclude che la tutela sia limitata al cliente, all’interno del rapporto o a ridosso del medesimo (tutela in fase contrattuale o pre-contrattuale). Tra i principali strumenti di trasparenza (par. 1.2) indica, in primo luogo, forme di pubblicità su tassi, prezzi e altre condizioni contrattuali praticate per le operazioni e per i servizi e sui principali strumenti di tutela previsti in favore dei clienti 42. Ancora, dunque, si esprime, in prima battuta, in termini di tutela generale relativa ad ogni modalità e contenuto pubblicitari 43, per poi alternare riferimenti a regole di tutela di contenuto puntuale, a riferimenti a standards generali. E, in effetti, la disciplina scaturente dalle disposizioni, con riferimento ai diversi servizi disciplinati dal Titolo VI del t.u.b., appare evidenziare

42. Gli altri strumenti elencati sono: requisiti di forma e contenuto minimo dei contratti; forme di tutela nei casi di variazione delle condizioni contrattuali e comunicazioni periodiche idonee a informare il cliente sull’andamento del rapporto contrattuale; regole specifiche per il caso di impiego di tecniche di comunicazione a distanza; requisiti organizzativi volti a presidiare i rischi legali e di reputazione degli intermediari attraverso il mantenimento di rapporti trasparenti e corretti con i clienti. 43. Tra le definizioni (p. 7 delle Disposizioni), la pubblicità è effettivamente definita in termini generali, prevedendosi che è “annuncio pubblicitario” il “messaggio, in qualsiasi modo diffuso, avente lo scopo di promuovere la vendita di prodotti e la prestazione di servizi, salvo quanto previsto dalla sezione VII, paragrafo 4”.

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un alternarsi di rules e standards, di riferimenti al cliente nell’ambito (o in occasione) di un ben individuato rapporto contrattuale, a riferimenti ai consumatori (cioè, alla platea dei possibili destinatari di offerte nel suo complesso). Sono anche riscontrabili talune chiare sovrapposizioni alla disciplina delle pratiche scorrette. Una Disposizione sovrapponibile ad analoga disposizione in tema di pratiche scorrette è, ad es., quella di cui al par. 5, nella Sezione II (Pubblicità e informazione precontrattuale) 44, secondo la quale “Gli annunci pubblicitari devono essere chiaramente riconoscibili come tali. In particolare, essi specificano: la propria natura di messaggio pubblicitario con finalità promozionale; la necessità di fare riferimento, per le condizioni contrattuali, ai fogli informativi, indicando le modalità con cui questi ultimi sono messi a disposizione dei clienti”. Il divieto generale delle comunicazioni pubblicitarie non riconoscibili, già espresso in termini analoghi nell’art. 5 del d.lg. n. 145/07, in materia di pubblicità ingannevole e comparativa illecita 45, è presente anche nella disciplina delle pratiche scorrette, sia pure frammentato tra più norme 46. Ancora, assai simile a quanto previsto all’art. 26, lett. c), cod. cons., che considera di per sé aggressivo “effettuare ripetute e non richieste sollecitazioni commerciali per telefono, via fax, per posta elettronica o mediante altro mezzo di comunicazione a distanza” è la fattispecie delle “Comunicazioni non richieste”, di cui alla Sezione V delle Disposizioni, dedicata alle Tecniche di comunicazione a distanza. Alla luce di quanto osservato, non si può negare che la Banca d’Italia, con le Disposizioni, abbia apprestato anche una vera e propria disciplina generale della trasparenza e correttezza, diretta a tutelare clienti e

44.

Analoga previsione si trova nella disposizione 3 della Sezione IX (Cambiavalute). “La pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale. La pubblicità a mezzo di stampa deve essere distinguibile dalle altre forme di comunicazione al pubblico, con modalità grafiche di evidente percezione”. 46. L’ingannevolezza per difetto di trasparenza è, innanzitutto, considerata nel co. 2 dell’art. 22, cod. cons., per il quale “è altresì considerata un’omissione ingannevole quando un professionista (…) non indica l’intento commerciale della pratica stessa qualora quest(o) non risulti(no) già evidente dal contesto”. Una specifica forma di non trasparenza è prevista nella black list delle pratiche ingannevoli, all’art. 23, lett. m), per cui “salvo quanto previsto dal d.lg. 31.07.05, n. 177, e successive modificazioni, impiegare contenuti redazionali nei mezzi di comunicazione per promuovere un prodotto, qualora i costi di tale promozione siano stati sostenuti dal professionista senza che ciò emerga dai contenuti o da immagini o suoni chiaramente individuabili per il consumatore”. Infine, il difetto di trasparenza può riguardare anche “la natura, le qualifiche e i diritti del professionista o del suo agente, quali l’identità …, lo status …” del professionista (art. 21, lett. f). 45

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consumatori, con ciò raccogliendo l’indicazione del nuovo art. 127 t.u.b. Del resto, non si comprenderebbe la portata concreta di tale norma se ci si limitasse a leggervi affermazioni di principio, prive di ricadute concrete sulle modalità di enforcement della normativa, invece di individuarvi la base per l’azione regolamentare delle attività creditizie, a complemento della normativa primaria del t.u.b. Quanto poi l’attività effettiva di enforcement della Banca d’Italia abbia tenuto fede a simili premesse, almeno in termini di provvedimenti emessi, è altra questione. Un esame dei Bollettini di vigilanza nel periodo successivo all’entrata in vigore del d.lg. n. 141/10, fino agli ultimi, evidenzia, per quel poco che si può comprendere guardando alle norme applicate, con decisioni estremamente sintetiche, un numero esiguo di provvedimenti sanzionatori per violazioni attinenti a trasparenza e correttezza nei confronti dei consumatori/clienti. Constatazione notevole, se si pensa al contestuale iperattivismo dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato nella repressione di pratiche scorrette nel settore del credito 47. L’impressione è che la Banca d’Italia raramente si spinga oltre l’esercizio di un’attività di orientamento e di ammonimento, riconducibile alla moral suasion e che preferisca non invadere il campo dell’Autorità, lasciando che la tutela contro la scorrettezza, anche in questo settore, si svolga sotto l’egida del codice del consumo 48. Ciò non può, tuttavia, porre in ombra che – salvo quanto si dirà appresso – gli strumenti normativi per esercitare una forma più accentuata di tutela di clienti e consumatori concorrente con quella esercitata dall’Autorità in applicazione del codice del consumo, ci sarebbero. Tirando le fila del discorso, il dubbio che, il nuovo Titolo VI e le Disposizioni della Banca d’Italia sulla trasparenza presentino taluni elementi di sovrapponibilità alla disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette non può esser del tutto fugato e si può, dunque, com-

47

Si veda Meli, L’applicazione, cit. È da ricordare che il 23 febbraio 2011, l’Autorità e la Banca d’Italia hanno sottoscritto un Protocollo di intesa in materia di tutela dei consumatori nel mercato bancario e finanziario, nel quale le due istituzioni riconoscono le rispettive competenze e ravvisano “l’opportunità di realizzare, mediante lo scambio di informazioni. un coordinamento (…) che consenta ad ognuna di tener conto delle iniziative assunte dall’altra al fine di: assicurare un’efficace tutela dei consumatori nei rapporti con intermediari bancari e finanziari; - contenere gli oneri che gravano sugli intermediari in ragione dell’esercizio dell’attività di vigilanza”. 48.

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prendere la posizione interlocutoria dell’Adunanza Plenaria, la quale, nel decidere una vicenda passata, compresa all’interno di un diverso scenario, ha preferito non anticipare valutazioni che andranno, quando se ne presenterà l’occasione, aggiornate al nuovo contesto normativo nel frattempo determinatosi (considerato che questo potrebbe ulteriormente evolversi, quanto meno sul piano regolamentare).

8. segue: b) raffronto tra i sistemi sanzionatori. Vi è, tuttavia, un altro aspetto che, stranamente, sembra essere sfuggito alla giurisprudenza amministrativa e che, però, non può essere ritenuto irrilevante nella valutazione della eventuale portata escludente delle prescrizioni del t.u.b. in tema di tutela del cliente/consumatore rispetto a quelle generali del codice del consumo: si tratta degli esiti di un raffronto tra i sistemi sanzionatori. Una questione di concorso apparente di norme si può porre laddove le sanzioni previste dalle norme concorrenti abbiano la stessa natura. Che tale requisito ricorra nel caso di specie non è dubbio, se si guarda al profilo oggettivo delle sanzioni: in entrambi i plessi normativi posti in raffronto si è in presenza di sanzioni amministrative pecuniarie. Né potrebbero rilevare, ai fini della soluzione della questione all’esame, la diversa misura delle sanzioni edittali (alquanto più basse nel t.u.b.) 49. V’è, tuttavia, una differenza tra la disciplina delle pratiche commerciali scorrette e quella del t.u.b., che riguarda l’applicazione soggettiva delle sanzioni, e ad avviso di chi scrive, mette in discussione l’intera ipotesi di una convergenza dei due sistemi, anche in relazione a quei limitati aspetti per cui essa potrebbe configurarsi. Il soggetto agente nell’illecito di pratiche commerciali scorrette è individuato dal codice del consumo nel “professionista”. Egli è il destinatario del relativo procedimento, dell’ordine di cessazione della

49. Nel confrontare il quadro sanzionatorio del codice delle comunicazioni elettroniche con quello del codice del consumo, l’Adunanza Plenaria (sentt. n. 11, 12, 13, 15, 16 del 2012, cit.) ha ricordato che “un eventuale deficit dal punto di vista sanzionatorio non potrebbe comunque riverberare effetto alcuno in ordine alla individuazione dell’autorità competente nel caso in esame (comportando, semmai, l’obbligo di sollevare una eccezione di illegittimità costituzionale sul punto”.

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pratica, dell’eventuale ordine di pubblicazione, nonché delle sanzioni pecuniarie. Tale figura è, dall’art. 18, lett. b) cod. cons., definita come “qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista” 50. Chi rappresenta o, comunque, collabora con il professionista può essere attratto nella categoria, quando, evidentemente, siano individuabili profili di riconducibilità a lui della pratica e non si può escludere neppure che anche chi collabora con il professionista in posizione di dipendenza rientri nella nozione e possa esser destinatario di sanzioni per pratiche commerciali scorrette (anche se non pare che l’Autorità abbia mai preso in considerazione tale ipotesi) 51. Il sistema delle pratiche commerciali scorrette, però, non solo non esclude che il dominus negotii sia sanzionato, ma, anzi, questa rappresenta l’ipotesi normale (in qualche modo, l’art. 18, lett. b, con l’uso della congiunzione “e”, vede l’ausiliario come professionista “aggiunto”).

50.

Sulla non perfetta coincidenza tra tale definizione e quella generale, fornita dall’art. 3, lett. c), cod. cons., che parla di “intermediario” veda Bargelli, La nuova disciplina delle pratiche commerciali: ambito di applicazione, in Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo, a cura di De Cristofaro, cit., p. 122 s., che la ritiene però non rilevante. Sotto il regime della disciplina delle pratiche scorrette, ci si chiede quando la pratica posta in essere attraverso ausiliari autonomi possa essere imputata (anche) al professionista. Nella giurisprudenza amministrativa in tema di pratiche scorrette, i criteri di imputazione della pratica sono a) la responsabilità nella predisposizione e diffusione della pratica; b) il vantaggio economico (si vedano TAR Lazio, Sez. I, 18 gennaio 2011, n. 395; Id., 23 febbraio 2011, n. 1691; Id., 16 giugno 2011, nn. 5388, 5389, 5391). Il professionista risponde in ogni caso del fatto degli ausiliari quando è riscontrabile una sua culpa in vigilando (si vedano, di recente, Cons. St., Sez. VI, 24 marzo 2011, nn. 1809, 1810, 1811, 1812, 1813; Id., 21 settembre 2011, n. 5306, 5307, 5363). Pacificamente la giurisprudenza ammette il concorso nell’illecito di scorrettezza, tra soggetti coinvolti a diverso titolo nella realizzazione della pratica. Si vedano TAR Lazio, Sez. I, 15 luglio 2011, n. 6354; Cons. St., Sez. VI, 29 marzo 2011, n. 1897; 6 giugno 2011, n. 3353; Id., 24 agosto 2011, n. 4800). Sul tema delle pratiche scorrette poste in essere attraverso terzi, si veda Meli, L’applicazione, cit. 51. La tendenza è quella di ricomprendere nella nozione chiunque agisca nell’interesse del professionista. Si vedano Angelini, Commento all’art. 18 cod. cons., in Codice del consumo2, a cura di Cuffaro, cit., p. 87; Calvo, Commento all’art. 18 cod. cons., in Codice del consumo. Annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di Capobianco e Perlingieri, Napoli, 2009, cit., p. 69. Con riferimento all’art. 3, pare invece prevalere l’opinione negativa: si vedano, in tal senso, Chinè, Commento all’art. 3 cod. cons., in Codice del consumo, a cura di Cuffaro, cit. p. 2008; Capobianco, Commento all’art. 3 cod. cons., in Codice del consumo. Annotato con la dottrina e la giurisprudenza, cit., p. 23.

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Il sistema sanzionatorio che assiste le prescrizioni del Titolo VI del t.u.b. presenta un quadro alquanto differente 52. Tutte le sanzioni di cui all’art. 144 t.u.b. (Altre sanzioni amministrative pecuniarie), poste a presidio delle sopra ricordate norme a tutela della trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti, sono irrogate “Nei confronti dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione, nonché dei dipendenti”, ai sensi del comma 5 della medesima norma, “anche a coloro che operano sulla base di rapporti che ne determinano l’inserimento nell’organizzazione della banca o dell’intermediario finanziario, anche in forma diversa dal rapporto di lavoro subordinato”. Responsabili degli illeciti amministrativi e destinatari delle sanzioni pecuniarie non sono, dunque, mai le banche, le società, gli enti interessati, bensì solamente le persone fisiche cui gli atti lesivi sono causalmente attribuibili 53. È vero che l’art. 145, in tema di applicazione delle sanzioni, al co. 10, prevede che “Le banche, le società o gli enti ai quali appartengono i responsabili delle violazioni rispondono, in solido con questi, del pagamento della sanzione e delle spese di pubblicità previste dal primo periodo del co. 3”, ma aggiunge che essi “sono tenuti a esercitare il regresso verso i responsabili”. In conclusione, la sanzione non può consolidarsi nei confronti del dominus negotii, che, in pratica, ne diviene un mero esattore 54. A me pare che tale profilo sia decisivo, al fine di escludere – anche per quei profili per i quali residuassero dubbi – che la disciplina del t.u.b., anche dopo le modifiche in senso maggiormente pro-consumeristico, possa essere considerata duplicativa di quella sulle pratiche commerciali scorrette e che, in nome del principio di specialità, quest’ultima debba arretrare di fronte alle previsioni a tutela della trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti, in quella contenute.

Vincenzo Meli

52.

Si vedano, sul tema, Clarich, Le sanzioni nel testo unico in materia bancaria e creditizia: profili sostanziali e processuali, in Banca, impresa, soc., 1995, I,p. 65; Mattarella, Le sanzioni amministrative nel nuovo ordinamento bancario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, p. 679; Condemi, Commento agli artt. 144 e 145 t.u.b., in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, cit., t. IV (artt. 126-bis-162), p. 2368 ss. 53. Le banche, le società, gli enti interessati, sono, invece, destinatari delle misure inibitorie contemplate dall’art. 128 ter t.u.b. e, nell’ambito dei sistemi di pagamento, dell’art. 145. 54 Così, Mattarella, op.cit., p. 713.

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Sul concetto di «chiarezza» nei rapporti bancari * Sommario: 1. La recente introduzione del concetto di chiarezza nell’ordinamento bancario e finanziario. – 2. Il concetto di chiarezza, in generale. – 3. Il concetto di chiarezza nel settore bancario e finanziario. I caratteri congiunti della percepibilità e della comprensibilità del dato oggetto dell’informazione. – 4. Segue. Il “trattenimento” del dato oggetto dell’informazione in capo al destinatario della stessa. I deficit della normativa di settore. – 5. La semplificazione del linguaggio dell’informazione richiesta dalle nuove regole di trasparenza.

1. – La recente introduzione del concetto di chiarezza nell’ordinamento bancario e finanziario. Perché un intervento su questo argomento, in apparenza marginale? Perché oggi il concetto di chiarezza è entrato – direi prepotentemente – nel nostro ordinamento bancario e finanziario. Precedentemente, questo concetto lo potevamo invero riscontrare soltanto nell’àmbito del noto principio di redazione del bilancio, all’art. 2423 del c.c.; legge ove non vi è alcuna disposizione (esclusa, appunto, quella sul bilancio) che evochi in qualche modo il concetto di chiarezza. Al contrario, nel Testo Unico bancario e nel Testo Unico della finanza troviamo oggi molte disposizioni che riguardano la chiarezza. Il concetto è infatti presente nelle disposizioni primarie relative: (i) alla pubblicità delle condizioni e dei costi dei prodotti dei servizi bancari (artt. 116 e 123 t.u.b.); (ii) alla rendicontazione di ciò che la banca o il finanziatore del consumatore hanno fatto nel periodo precedente (artt. 119 e 125-bis t.u.b.);

* Lo scritto, eliminate le parole di circostanza, riproduce l’intervento dell’autore al Convegno «La trasparenza bancaria, oggi. Novità in tema di rapporti banca-cliente», svoltosi nei giorni 6 - 7 ottobre 2011 presso l’Università degli Studi di Macerata.

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Saggi

(iii) agli obblighi precontrattuali del finanziatore o dell’intermediario nei rapporti di credito al consumatore (art. 124 t.u.b.); (iv) ai contenuti dei contratti di credito al consumatore (art. 125-bis t.u.b.); (v) alle informazioni ed alle condizioni relative alle operazioni di pagamento (126-quater t.u.b.); (vi) alle comunicazioni pubblicitarie relative ai servizi ed alle attività di investimento (art. 21, co. 1, lett. c, t.u.f.); (vii) alle informazioni contenute nei prospetti di offerte al pubblico di fondi aperti o di azioni Sicav (art. 98-ter t.u.f.). Tornando in particolare al Testo Unico bancario ed alla trasparenza delle condizioni contrattuali, il concetto di chiarezza è poi evocato decine di volte nelle disposizioni secondarie contenute nelle Istruzioni di vigilanza emanate dalla Banca d’Italia. Insomma, è evidente come il concetto di chiarezza sia entrato prepotentemente nel contesto normativo (sia primario che secondario) che regola in generale i rapporti intermediario-cliente.

2. – Il concetto di chiarezza, in generale. Prima di individuare l’area applicativa del concetto di chiarezza nel nostro comparto, cerchiamo comunque di capire che cosa – in generale – significhi «chiarezza». Non intendo certo qui tediarvi ripercorrendo le dotte analisi svolte in argomento da Umberto Eco e dai filosofi del linguaggio; né voglio addentrarmi nei meandri specialistici delle complesse indagini che vengono da tempo svolte sui linguaggi così detti “tecnici”. Mi limito soltanto a notare come il concetto di chiarezza sia all’evidenza sempre relativo; mai assoluto. Ove poi la relatività dev’essere apprezzata in una duplice prospettiva: sia nell’ottica del soggetto da cui proviene il dato da valutare, sia in quella del soggetto che recepisce tale dato. Se io ad esempio in questo momento parlassi perfettamente cinese, non sarei molto chiaro per voi; ma se in questa sala vi fosse un cinese che parla poco l’italiano, per lui diventerei sicuramente più chiaro. Così come se io conoscessi perfettamente l’arabo, sarebbe senz’altro più chiaro per me ascoltare una conferenza di un arabo che parla nella sua propria lingua, piuttosto che ascoltare lo stesso arabo che si sforza di parlare in un italiano stentato.

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Umberto Morera

Ed appurato che alla base di tutto vi è un’evidente relatività del concetto di chiarezza, da giurista – e sempre su di un piano generale per tentare di imbastire un intervento sistematicamente accettabile – ho voluto indagare se da qualche parte vi fosse mai un dato positivo sulla chiarezza delle regole. Con un certo stupore, lo confesso, ho trovato che una norma invero c’è, anch’essa piuttosto recente: l’art. 3 della l. 69/2009, che ha introdotto nella l. 400/1988 sulla disciplina dell’attività di Governo, nel Capo sulla funzione normativa, un articolo intitolato «chiarezza nei testi normativi». Alla soddisfazione per questa inaspettata scoperta è tuttavia subito seguita una profonda delusione: la norma non era assolutamente di facile comprensione, era assai poco intuibile nella sua effettiva portata; in altre parole, non era affatto … chiara. Insomma, avevo trovato una norma sulla chiarezza delle norme, che era … oscura. E forse diventa a questo punto fin troppo facile citare Edoardo Sanguineti, quando ammoniva che «la nozione di chiarezza, per nostra disgrazia, pare essere fatalmente oscura».

3. – Il concetto di chiarezza nel settore bancario e finanziario. I caratteri congiunti della percepibilità e della comprensibilità del dato oggetto dell’informazione. Ma torniamo al nostro orticello di cose bancarie, e vediamo se almeno riusciamo a comprendere in quale prospettiva viene oggi evocato il concetto di chiarezza dal nostro legislatore primario e secondario in questo specifico settore. La prospettiva sembra essere essenzialmente quella della chiarezza dell’informazione; in particolare (anzi, quasi esclusivamente) quella resa unilateralmente dall’intermediario al cliente. Debbono infatti essere chiare le offerte, le comunicazioni, le spiegazioni ed i prospetti, resi appunto dall’intermediario. Soltanto in un unico caso – all’art. 125-bis, co. 1, t.u.b. – la chiarezza costituisce elemento richiesto non già per l’informazione resa unilateralmente dall’intermediario, bensì per il contenuto dei contratti di credito ai consumatori; divenendo pertanto elemento essenziale e necessario di una pattuizione negoziale; con poi tutti i conseguenti problemi in punto di possibile sanzione in ipotesi di “oscurità” del patto negoziale, ma questo è un altro discorso. Ed appurato che l’indagine ha mostrato, nel complesso, come la chiarezza sia carattere richiesto per l’informazione che la banca fornisce al

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cliente (sia in via preventiva, che contestuale, che consuntiva), vediamo adesso in quale specifico senso. Analizzando le Istruzioni di vigilanza, troviamo fortunatamente il concetto di chiarezza nel § 1.3, dedicato ai “Principi generali”. Con questa disposizione, la Banca d’Italia impone che le informazioni alla clientela siano rese in modo: corretto, chiaro, esauriente ed adeguato (alla forma di comunicazione utilizzata; nonché alle caratteristiche dei servizi e della clientela). Visti i suddetti quattro caratteri, evocati distintamente, mi sembra innanzitutto indiscutibile che la chiarezza dell’informazione sia concetto non coincidente con quelli di correttezza, di completezza e di adeguatezza dell’informazione. Il nostro concetto dovrà allora coincidere, inevitabilmente, con qualcosa di diverso. Dopo una qualche riflessione, mi sono convinto che il concetto di chiarezza, perlomeno nel contesto applicativo che interessa, coincide con quello – per così dire “composto” – di (agevole ed immediata) percepibilità e comprensibilità. Pertanto, laddove il dato dell’informazione non sia percepibile, anche se magari risulta perfettamente comprensibile (è ad esempio l’ipotesi di un’informazione scritta in modo comprensibile, ma posizionata in un luogo di difficile accesso per il destinatario), l’informazione non possiederà il necessario requisito della chiarezza. Così come, parimenti, se il dato dell’informazione è perfettamente percepibile (perché magari evidenziato con caratteri grafici e criteri di impaginazione che assicurano elevati livelli di leggibilità) ma al contempo, a causa del lessico adoperato, risulta di difficile comprensibilità, l’informazione non avrà il requisito della chiarezza. La chiarezza deve quindi a mio avviso coincidere con il carattere della percepibilità, unito a quello della comprensibilità. Ed a ben vedere mi sembra che questo risultato riesca a trovare un’agevole applicazione relativamente a tutte le disposizioni di vigilanza in cui il concetto di chiarezza viene evocato.

4. – Segue. Il “trattenimento” del dato oggetto dell’informazione in capo al destinatario della stessa. I deficit della normativa di settore. È comunque evidente come questo pur importante risultato, questo primo punto fermo, non basti, non possa ritenersi sufficiente.

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Umberto Morera

Si impone invero una considerazione, fondamentalmente critica; la quale parte dall’evidente constatazione che se un’informazione giunge in maniera chiara al suo destinatario (poiché sussistono i rilevati caratteri delle percepibilità e della comprensibilità, appunto), ciò non è assolutamente sufficiente in una corretta ottica di tutela (del destinatario dell’informazione). È infatti altresì necessario che l’informazione rimanga presso il destinatario; che venga da costui ricordata; perlomeno per tutto il tempo in cui potrebbero verificarsi i rischi in virtù dei quali gli era stata fornita. Al riguardo, ricordo come un importante studio di psicologia cognitiva, compiuto di recente sui livelli di percezione e memorizzazione, abbia provato che le persone ricordano circa: l’80 per cento di ciò che dicono; il 40 per cento di ciò che vedono; il 20 per cento di ciò che sentono; e soltanto il 10 per cento di ciò che leggono. Del resto, che l’informazione verbale sia molto più efficace (beninteso in senso cognitivo, non giuridico) di quella scritta, è confermato anche da consolidati studi di antropologia. Milioni di anni di evoluzione hanno condotto l’uomo a privilegiare il recepimento di un’informazione faccia a faccia ed il passaparola. I modelli di apprendimento dell’informazione, ormai radicati nelle nostre menti, si basano fondamentalmente sul fatto che di fronte a noi ci siano la voce, le espressioni facciali e le emozioni di un’altra persona. Poiché tutto questo all’evidenza non c’è nell’àmbito di un’informazione scritta, le persone sono in genere molto meno reattive di fronte a questo diverso tipo di informazione. Non si riesce in effetti ad attribuire alle informazioni scritte lo stesso peso emozionale di quelle ottenute nello scambio verbale, faccia a faccia. Il che finisce per comportare che, nella prospettiva dell’assorbimento dell’informazione, il vecchio brocardo scripta manent, verba volant (di chiara matrice giuridico-formale), dovrà considerarsi invertito; ove allora, in realtà, molto più correttamente si dovrebbe dire … verba manent, scripta volant. Questi rilevanti profili non sembrano tuttavia esser stati tenuti in considerazione più di tanto dal nostro regolatore, il quale sembra non considerare i differenti livelli di impressione nelle nostre menti delle informazioni, a seconda delle diverse tipologie di veicolazione delle stesse. Nella normativa primaria e secondaria manca infatti del tutto una differenziazione, od anche soltanto una gradualità di disciplina rispetto alle diverse possibili tipologie di informazioni (scritte, verbali, visive, o miste); e questo, almeno nell’ottica del necessario trattenimento (ricordo) dell’informazione, mi sembra un difetto sostanziale dell’attuale normativa di settore.

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5. – La semplificazione del linguaggio dell’informazione richiesta dalle nuove regole di trasparenza. Il poco tempo a disposizione non mi consente di addentrarmi nelle pieghe della c.d. finanza comportamentale, dai cui risultati raggiunti un legislatore evoluto nel campo finanziario ormai credo non possa comunque più prescindere, ma consentitemi soltanto un’ultima riflessione, che prende spunto da detti studi; riflessione che peraltro consente di recuperare un sicuro profilo di positività in relazione al recente intervento di regolazione della trasparenza. Sono ben noti gli esperimenti cognitivi che dimostrano come l’eccesso di informazione faccia male alla (effettiva) conoscenza. Proprio in quest’ottica sembra oggi muoversi la Banca d’Italia, che ha adottato strategie di intervento (finalmente) ispirate alla semplificazione della documentazione. Ma se di certo una minor documentazione conduce ad una miglior informazione, occorre anche rimarcare che ridurre la quantità di informazione non può affatto bastare. Occorre semplificare anche il lessico, il linguaggio stesso dell’informazione, sinora troppo complesso, ed agevolare quindi il requisito della “comprensibilità” (oltre a quello della “percepibilità”). Ecco allora che le nuove regole di vigilanza richiedono opportunamente: (i) un uso semplice dei verbi (indicativo e non già congiuntivo); (ii) un uso di forme attive e non passive; (iii) frasi brevi e semplici, possibilmente discorsive; (iv) costante evidenziazione del “soggetto”; (v) utilizzo di parole di uso comune; (vi) limitazione delle parentesi e dei riferimenti normativi, (vii) termini tecnici e sigle spiegati in glossari o legende. Mi sembra senz’altro questa la strada giusta per arrivare alla sospirata chiarezza, ben coniugando il necessario elemento della percepibilità con quello della comprensibilità. Ma il vero problema di fondo, al di la di ogni possibile strumento di semplificazione, chiarificazione ed impressione, è rappresentato pur sempre dai “sensi” del destinatario dell’informazione. Sensi che, al di là dei contenuti e della chiarezza più o meno marcata dell’informazione, troppo spesso non risultano … “attivati”. E allora siamo punto e a capo. Ma questo è il tema di un altro, forse più complesso ed affascinante, incontro di studio.

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L’esecuzione del concordato preventivo con cessione dei beni e di risanamento* 1. La relazione che mi è stata assegnata è dedicata all’esecuzione del concordato preventivo impostato su piani di diverso contenuto come quello con cessione dei beni e quello di risanamento. Si tratta di due modelli estremamente distanti l’uno dall’altro non solo per il contenuto della proposta concordataria, ma anche per quanto riguarda il destino che il debitore traccia per il proprio futuro imprenditoriale. Sono invece potenzialmente vicini per ciò che concerne l’obiettivo ultimo – la conservazione di valori – attuabile a prescindere dal mantenimento della titolarità. Oggi un piano concordatario può disegnare un iter liquidativo in funzione di un soddisfacimento programmato dei creditori e con o senza conservazione della continuità aziendale, oppure tendere grazie anche ad operazioni sul capitale e sull’organizzazione, a riequilibrare la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’impresa che prosegue, traendo dallo sfruttamento diretto delle potenzialità aziendali i mezzi per soddisfare i creditori. I creditori possono trarre soddisfacimento: a) dalla stessa prosecuzione dell’attività, talvolta riposta nelle loro mani grazie all’attribuzione di strumenti partecipativi ad un’iniziativa economica che si avvale del complesso aziendale ceduto dall’impresa debitrice; b) da un concordato liquidativo secondo modelli (magari poco trasparenti) che consentono la conservazione di valori attraverso il passaggio di mano del complesso aziendale – transitato da un affitto durante la procedura – ad altro im-

*

Relazione al Convegno «Soluzioni negoziali e istituti “preconcorsuali” nella gestione delle crisi di impresa» (Lanciano 7 - 8 ottobre 2011)

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prenditore; c) da un iter di risanamento che conduce alla conservazione sulla scena economica del medesimo imprenditore 1. Nell’attuale assetto dell’ordinamento delle crisi quello della conservazione dei valori si presenta da alcuni anni come obiettivo pervasivo 2, tanto che oggi la procedura concordataria, fruibile nelle più svariate situazioni e adattabile a scelte di diverso indirizzo, considera l’obiettivo della salvaguardia dell’impresa, e non solo dell’azienda, armonizzabile con quello, prioritario, della tutela degli interessi dei creditori e perfino nel fallimento la conservazione delle utilità aziendali esistenti deve essere perseguito 3 prioritariamente sempre che non rechi pregiudizio ai creditori.

1 Possiamo, così, dire che “la composizione dei conflitti di interessi tra le differenti parti coinvolte nella crisi di una impresa è definitivamente affidata alle rispettive capacità di proporre più idonee architetture finanziarie e patrimoniali ed alle contrapposte capacità di comprenderle ed approvarle esprimendo necessariamente un proprio voto favorevole” (Jachia, Il concordato preventivo e la sua proposta, in Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di Fauceglia e Panzani, 3 Torino, 2009, p. 1581). 2. Questo mutamento è stato colto anche da una recente sentenza della Corte Cost., 22 luglio 2010, n. 270 (sulla concentrazione Alitalia – Air One), in Foro it., 2010, I, 2901, là dove afferma che si tratta di una “nuova modalità di approccio della crisi dell’impresa che caratterizza il nostro ordinamento, alla quale è stata ispirata anche la riforma della legge fallimentare, connotata dal superamento della concezione liquidatoria dell’impresa, in favore di quella diretta alla conservazione del valore dell’azienda, per fini di utilità sociale (tra questi la tutela del lavoro) conseguibile anche mediante cessioni e concentrazioni”. 3. L’art. 105, co. 1, l.fall. è chiara espressione di tale indirizzo legislativo: “La liquidazione dei singoli beni ai sensi degli articoli seguenti del presente capo è disposta quando risulta prevedibile che la vendita dell’intero complesso aziendale, di suoi rami, di beni o rapporti individuabili in blocco non consenta una maggiore soddisfazione dei creditori”. È attorno alla conservazione dell’azienda o di suoi blocchi identificabili come rami – attraverso la cessione unitaria, ove questa non confligga con l’obiettivo prioritario del miglior soddisfacimento possibile dei creditori – che si dipana oggi la liquidazione fallimentare. La disciplina del fallimento mostra finalmente che la liquidazione concorsuale non è incompatibile con operazioni tese a valorizzare il complesso aziendale quali tappe funzionali alla cessione unitaria dell’azienda. Così attraverso l’esercizio provvisorio o l’affitto d’azienda il fallimento si propone anche quale procedura ricostruttiva dell’esistente anziché distruttiva come nel passato. La nuova normativa si muove sul filo di quella illuminata giurisprudenza che, pur in assenza di una specifica disciplina dell’affitto, aveva diverse volte cercato (alcuni dubbi erano stati avanzati in dottrina sull’utilizzo dell’affitto d’azienda da parte del curatore. La l. 23 luglio 1991, n. 223 recante “Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro” prevedendo all’art. 3, co. 4, che “ L’imprenditore che, a titolo di affitto, abbia assunto la gestione anche parziale, di aziende appartenenti ad imprese assoggettate alla procedura di cui al co. 1 (fallimento, liquidazione coatta, amministrazione straordina-

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È su quest’ultimo punto – in particolare sull’analisi e sulla sistemazione dei variegati interessi dei creditori – che la riforma si è soffermata superando alcuni capisaldi e giungendo così a proporre nuove soluzioni. In questa rielaborazione è emerso che: 1) la conservazione dei valori esistenti non è incompatibile con il soddisfacimento dei creditori; 2) i

ria, concordato preventivo con cessione dei beni) può esercitare il diritto di prelazione nell’acquisto delle medesime” aveva sgombrato il campo in via definitiva dalle perplessità) in una procedura che si presentava con vocazione afflittiva per l’imprenditore, per l’impresa e anche, se pure fuor di ogni logica, per l’azienda, di non distruggere valori utili sia per il miglior realizzo fallimentare sia a fini sociali per gli effetti sull’occupazione e la produzione. Da un lato con l’affitto d’azienda si incrementa immediatamente la massa attiva attraverso il canone e dall’altro si amministra prospetticamente un valore. Sotto questo aspetto la procedura fallimentare si presenta oggi anche come procedura di gestione, anziché di mera conservazione, del patrimonio. Il nuovo art. 104-bis l.fall. prevede e regola l’affitto d’azienda o di suoi rami, disponendo che il curatore può addivenire a questa scelta prima di aver delineato e scandito tutte le tappe della procedura e quindi anche prima della presentazione del programma di liquidazione, che è pianificazione omnicomprensiva di tutto quanto può essere trasformato in denaro o può incrementare la massa attiva o, comunque, può influire (in termini di rischio) sul patrimonio destinato al soddisfacimento dei creditori. Anche l’utilizzazione dell’impresa o della sola azienda, in quanto scelte strategiche capaci di creare mutamenti nel patrimonio inserendo però elementi di rischio – più evidenti nell’esercizio provvisorio ma comunque non estranei neppure all’affitto d’azienda – e indirizzando in qualche misura la liquidazione e/o i suoi risultati, debbono quindi essere previste, accompagnate da idonea motivazione da parte del curatore, nel programma ex art. 104 ter. Comprensibile è allora la scelta del legislatore di consentire l’esercizio provvisorio e l’affitto d’azienda fin dalle battute iniziali della procedura, se giudice e/o curatore abbiano già individuato potenzialità nell’azienda. In ogni modo si tratta di scelte che implicano una visione a tutto campo della procedura fallimentare in termini di rischi (oltre che costi)-benefici. È evidente che l’affitto espone la procedura a minori rischi di quanto non possa essere l’effetto dell’esercizio provvisorio che è a cura della curatela e per questo motivo riceve maggiori assensi. A volte però, nonostante ciò, l’esercizio provvisorio potrebbe essere utilizzato in attesa che si realizzino le condizioni dell’affitto, ragion per cui i due strumenti possono supportarsi vicendevolmente cercando di raggiungere l’obiettivo della vendita unitaria. Potrebbe poi affiancarsi – non raffigurandosi nella fattispecie una violazione del diritto di concorrenza sancito dall’art. 2557, co. I ed esteso all’affitto in virtù del co. IV dello stesso articolo poiché la norma si dirige alle ipotesi di inizio di nuova impresa – all’affitto di un ramo (per il quale si programma la cessione), l’esercizio provvisorio dell’altra parte dell’azienda. Certo il sentiero non è scevro da pericoli sia per l’azienda sia per i creditori. Per questo l’art. 104 bis, più che rendere attraente l’affitto per gli imprenditori in bonis, introduce cautele a protezione dei creditori. Questa volta l’autonomia privata deve cedere dinanzi alla legge del concorso che impone ritmi e regole in funzione della miglior tutela dei creditori.

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creditori non sono necessariamente antagonisti del recupero dell’azienda o dell’impresa, essendo anzi spesso interessati a mantenere un interlocutore economico; 3) i creditori (chirografari), in ragione dei diversi interessi dei quali sono portatori, possono accettare trattamenti diversificati; 4) non vi è ragione di assicurare ai privilegiati più di quanto realizzerebbero dalla liquidazione del bene; 5) l’armonizzazione degli interessi è possibile solo attraverso la condivisione delle scelte raggiunta ad un tavolo di trattative liberamente condotto dal debitore e dai creditori e non guidato, quindi, dall’autorità giudiziaria che opera soltanto una supervisione, in punto di regolare svolgimento del procedimento seguito dalle parti. A fronte di una visione plastica degli interessi dei creditori, che legittima trattamenti “su misura” e, quindi, diversificati, si stagliano piani e proposte concordatarie 4 estremamente flessibili perché il legislatore li ha liberati da contenuti, schemi, tipologie, durata ed importi di soddisfacimento prefissati. Il nuovo ordinamento della crisi si è spinto più in là, non vincolando l’imprenditore né a mettere a disposizione tutti i suoi beni – così come sulla base del principio civilistico della responsabilità patrimoniale sarebbe imposto – né a proporre una determinata percentuale in un certo lasso temporale, né ad offrire un pagamento potendo, invece, prevedere assegnazioni ai creditori di strumenti finanziari, e tra questi anche di azioni o quote di società costituite ad hoc per traghettarvi le attività dell’impresa proponente il concordato. Il soddisfacimento dei creditori rimane come l’unico obiettivo fissato esplicitamente dalla norma 5, ma

4.

La decisione del debitore di risolvere la sua crisi ricorrendo allo strumento concordatario si riflette nella redazione: a) di una proposta economica indirizzata ai creditori, b) di un piano operativo – nel quale è analiticamente articolata e motivata la scansione delle operazioni che condurranno all’adempimento della proposta – accompagnato da un’attestazione di fattibilità di un professionista che fornisce supporto informativo agli stessi creditori e al giudice e c) di una domanda rivolta al giudice. Ogni riflessione sul concordato preventivo non può che muovere dall’oggetto dell’offerta concordataria e dal programma attraverso il quale tale offerta potrà calarsi dal momento propositivo a quello fattuale. L’art. 160 è incentrato su questi due momenti dei quali protagonista è l’imprenditore-debitore. Proposta e piano sono interconnessi, la prima non potendo essere valutata senza il secondo (il supporto documentale, la guida) che illustra come si possa giungere al risultato descritto. 5. Quest’ultimo è un segnale forte da parte del legislatore, volendo evitare non solo concordati nei quali non si realizzi – a differenza del fallimento dove lo spossessamento spiega i suoi effetti in senso assoluto e dove il curatore può procedere alla ricostituzio-

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convive con quello della conservazione 6 alla quale il ceto creditorio può collaborare assumendo il rischio della partecipazione ad una newco. In cambio dell’acquisita libertà di manovra, la legge impone però all’imprenditore nitidezza e trasparenza d’intenti. Tutto è possibile se chiaramente e analiticamente esposto in un documento programmatico che contenga l’esplicazione non solo degli strumenti giuridici ma anche delle operazioni economiche e finanziarie, esattamente qualificate e quantificate con la loro scansione temporale descrivendone i risultati attesi 7. È dall’art. 160 l.fall. che emerge il piano come l’architettura sulla quale si impernia la proposta rivolta ai creditori. Tale documento illustra il percorso negoziale, finanziario, economico e – a seconda della sua tipologia – anche imprenditoriale che potrà consentire al proponente

ne del patrimonio grazie all’utilizzo delle azioni revocatorie e risarcitorie – alcun tipo di soddisfacimento, ma anche concordati che servano all’imprenditore per abbattere i suoi debiti ma non per risolvere una crisi che non esiste. È evidente che tutto si svolge nell’ambito privatistico con grandi e flessibili margini di manovra che – se pur con limiti e precauzioni – possono riguardare non solo i creditori chirografari (mediante il classamento) ma anche i creditori privilegiati quando si possa proporre loro, a causa del divario tra valore di mercato del bene ed importo del credito su di esso garantito, un soddisfacimento decurtato. 6. Come altrove ho affermato (rinvio a Debitore, creditori e patrimonio: legislazioni a confronto. Alcune riflessioni a partire dall’opera di Ariel Angel Dasso «Derecho concursal comparado», in Dir. fall., 2011, I, p. 286) nelle recenti norme italiane dedicate alla regolamentazione della crisi dell’impresa di dimensione “normale” – a differenza di come si sono mossi legislatori di altri ordinamenti concorsuali e di quanto è stabilito nell’art. 1 del d.lgs. 270/1999 (“L’amministrazione straordinaria è la procedura concorsuale della grande impresa commerciale insolvente, con finalità conservative del patrimonio produttivo, mediante prosecuzione, riattivazione o riconversione delle attività imprenditoriali”) – non è stata tradotta in un principio chiaramente enunciato “la nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa” nonostante questa “meta” sia incisivamente affermata nella Relazione di accompagnamento fin dall’esordio. 7. Il piano diventa così la indefettibile «mappa di riferimento della procedura concordataria» da un lato assumendo «il ruolo di strumento principe dal quale desumere le linee di ingegneria finanziaria che l’imprenditore intende attuare al fine di superare quello stato di crisi ovvero di insolvenza in cui il medesimo si è venuto a trovare in conseguenza del deteriorarsi dell’equilibrio economico» (Mandrioli, Struttura e contenuti dei «piani di risanamento» e dei «progetti di ristrutturazione» nel concordato preventivo e negli accordi di composizione stragiudiziale delle situazioni di «crisi», in Le nuove procedure concorsuali per la prevenzione e la sistemazione delle crisi di impresa, Milano, 2006, p. 458), dall’altro costituendo sia «l’elemento focalizzante della successiva relazione del professionista» sia la base informativa per i creditori e per il giudice (così Trib. Monza, 21 luglio 2006 (inedito) citata in Codice commentato del fallimento, diretto da Lo Cascio, Milano, 2008, sub art. 160, p. 1430).

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di adempiere l’obbligazione concordataria. Sotto questo aspetto il piano rende edotti i creditori sul supporto operativo della proposta. Ai creditori è rimesso, però, anche il giudizio di convenienza ed a tal fine vengono supportati da controlli di fattibilità del piano non solo iniziali ma anche in itinere, affidati a soggetti di differente investitura. La legge prevede in sequenza tre controlli chiave: a) un controllo preliminare di fattibilità del piano; b) un controllo di legittimità sostanziale della proposta documentalmente corredata da parte del tribunale; c) un controllo prognostico sulla proposta da parte del commissario giudiziale che, muovendo da un lato dalla storia dell’impresa, della gestione, della crisi e dall’altro dall’analisi del patrimonio e delle risultanze contabili offre ai creditori un quadro e una valutazione su ciò che andranno a discutere in adunanza. Si tratta di controlli “tecnici” funzionali all’informazione affinché i creditori possano valutare la convenienza della proposta per loro analizzata da “tecnici” in collegamento: 1) al piano; 2) al procedimento; 3) al patrimonio e allo stato dell’impresa. In ciò non si esaurisce però la tutela dei creditori. Nella stessa misura in cui i creditori non sono soddisfatti dalla presentazione di una proposta conveniente supportata da un piano fattibile e inserita in un procedimento regolare, bensì dall’ adempimento, così la proposta non può considerarsi completa se manca la fissazione e la descrizione dell’iter esecutivo di detta proposta. In tale punto sono posti limiti, competenze e controlli attraverso l’individuazione dei soggetti investiti compiti esecutivi. Come diversi possono essere i modelli di piani, così diverse sono, però, le operazioni che in quella fase dovranno e/o potranno essere compiute. Un concordato a geometria variabile come l’attuale si riflette sull’organizzazione della fase esecutiva che necessita di essere ogni volta plasmata alla fattispecie se pur nel quadro di una necessaria vigilanza sugli adempimenti previsti nel piano senza tuttavia una reintroduzione surrettizia in questa fase di controlli sul merito della proposta già votata dai creditori. Tali prescrizioni possono essere essenziali per la valutazione di un piano sia sotto il profilo della convenienza, sia sotto il profilo della tutela apprestata agli interessi in giuoco. Il discorso è delicato in un concordato liquidativo-satisfattivo dove l’esecuzione impone controlli di regolarità e di funzionalità sulle operazioni di vendita, ma lo è forse di più in un concordato di risanamento nel quale l’esecuzione può consistere esclusivamente nella gestione dell’impresa. Come la fase precedente all’omologazione, scandita dalla legge, impone controlli per atti e attività (oltre a quelli descritti sui documenti)

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per sventare e colpire eventuali “atti pregiudizievoli”, così la fase successiva diretta ad eseguire il piano e ad adempiere alla proposta, non può essere priva di controlli sulla realizzazione del piano così come è stato presentato e approvato dai creditori. La libertà, e quindi varietà, di contenuto della proposta concordataria oggetto di una condivisione protetta non esime la fase esecutiva da controlli, per salvaguardare l’interesse dei creditori all’adempimento nei termini fissati. Il legislatore del ’42 e poi quello della riforma hanno posto un principio generale per l’esecuzione del concordato ed alcuni principi per l’esecuzione del concordato con cessione dei beni. I principi coniati nel ’42 a fronte di due soli modelli concordatari (con garanzia e con cessione dei beni) e ripresi con poche e non chiarificatrici aggiunte nel 2005-2007 non solo sono insufficienti a coprire la possibile varietà di piani concordatari ma soprattutto sembrano essere stati posti con scarsa consapevolezza del mutato terreno in cui andavano ad operare. In sostanza se le modalità dell’esecuzione qualificano un piano oggi rimesso alla disponibilità del proponente ed alla condivisione con i creditori ci chiediamo: 1) se il piano debba (e non possa) contenere l’indicazione delle modalità esecutive; 2) se la flessibilità del piano e l’ampio spazio di manovra riservato all’autonomia privata riguardino anche la predisposizione della fase esecutiva; 3) fino a dove possa spingersi la negozialità e quali siano – se vi siano – i limiti che l’autonomia privata incontra nella redazione di un piano concordatario con riferimento alla organizzazione della fase esecutiva; 4) se l’obiettivo della conservazione che si estrinsechi in un piano di risanamento dell’impresa imponga – o almeno consigli – una qualche regolamentazione della fase esecutiva, atteso che la disciplina è muta al riguardo; 5) se l’autorità giudiziaria, nell’ambito del potere di controllo di regolarità ad essa demandato in sede di omologazione possa modificare le disposizioni del piano concordatario già approvato dai creditori o integrarlo in modo da mutarne sostanzialmente le linee esecutive. 2. Conclusa la fase dei controlli sulla procedura che culmina con l’omologazione, si apre una fase autonoma contraddistinta “da atti negoziali ed operazioni materiali collegati sotto il profilo economico e tesi all’adempimento del concordato”. Fino al 2005, sussistendo due soli modelli concordatari (per garanzia e con cessione dei beni) peraltro governati dalla legge e gestiti dalla presenza “forte” dell’autorità giudiziaria con nessuna apertura all’autonomia privata, tale fase esecutiva conosceva essenzialmente operazioni di liquidazione, di prestazione di garanzie

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(promesse ma fino a quel momento non ancora prestate) e di pagamento. Due le norme regolatrici dell’esecuzione poste dal legislatore del ’42: gli artt. 185, norma generale a presidio della corretta esecuzione e 182 per la specificità del concordato con cessione dei beni. La disciplina dell’esecuzione del concordato preventivo tout court non è stata incisa dalla riforma che ha mantenuto la già laconica disposizione contenuta nell’art. 185 l.fall., tutta incentrata su un ruolo del commissario giudiziario – disegnato nel ’42 come custode del corretto adempimento e informatore del giudice delegato, a sua volta privato del ruolo attivo che il secondo comma dell’articolo citato continua ad attribuirgli nonostante il chiaro disposto dell’art. 180, co. 6 – oggi sospeso tra il pozzo dell’art. 186 e il pendolo dell’art. 173. Una laconicità che deve fare i conti con l’attuale plasticità del concordato preventivo che si traduce in una “maggiore complessità (potenziale) dei piani concordatari” e conseguentemente “in una corrispondente maggiore complessità degli scenari esecutivi” 8 i quali potrebbero essere compatibili con modalità diverse di sorveglianza e di informazione (quella di cui all’art. 185 costituendo il minimum dal quale non si può prescindere) 9, di volta in volta stabilite nel piano e/o integrate dal Tribunale sulla base del potere di controllo sulla regolarità che gli compete (argomentando ex art. 185 “Dopo l’omologazione del concordato, il commissario giudiziale ne sorveglia l’adempimento, secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione”) 10. Ritengo che la sorveglianza sulla corretta esecuzione del concordato non sia incompatibile con l’attuale assetto concordatario imperniato sull’esaltazione dell’autonomia privata né, tanto meno, sulla pienezza della capacità dispositiva riacquistata dal debitore con l’omologazione. Ciò che a mio avviso deve essere segnalato è che deve trattarsi di un controllo di conformità, una verifica che le operazioni poste in essere siano quelle previste nel piano secondo tempi, cadenze ed importi in esso previsti.

8.

Filocamo, Esecuzione del concordato, a cura di Ferro, in La legge fallimentare, Padova, 2011, p. 2222; Guglielmucci, La riforma in via d’urgenza della legge fallimentare, Torino, 2005, p. 115. 9. Fauceglia, Esecuzione, risoluzione e annullamento del concordato preventivo, in Fallimento e altre procedure concorsuali, a cura di Fauceglia e Panzani, cit., pp. 17581759; Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti,in Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, 2007, p. 150. 10. Sul punto cfr. anche Filocamo, Esecuzione del concordato, cit., pp. 2224-2225.

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Anzi credo che il proponente – come tornerò a dire più avanti – potrebbe trovare il sostegno ad un piano di risanamento proprio in una modulazione della sorveglianza nella fase in cui dovrebbe cessare il controllo continuativo del commissario giudiziale e l’integrazione dei poteri del debitore da parte del giudice delegato. Il principio espresso nell’art. 185 l.fall., secondo cui nella fase esecutiva del concordato il commissario giudiziale svolge una funzione di sorveglianza e di informazione, è da ritenersi applicabile in generale ad ogni modello concordatario, salvo poi dover tener conto della particolare modulazione che la fase esecutiva può assumere in presenza di cessione dei beni o, come è possibile ritenere, di un piano di risanamento. 3. Per determinare la disciplina applicabile alla fase esecutiva di un concordato preventivo 11 dobbiamo così muovere dall’identificazione del modello seguito nel relativo piano. Quello con cessione dei beni richiama alla mente – almeno nella sua denominazione – uno dei due “vecchi” modelli concordatari (l’altro è quello con garanzia disciplinato nell’art. 160, co. 2, n. 1, della legge fallimentare del 1942, modello che tuttora può essere utilizzato dal proponente che voglia impegnarsi ad un certo soddisfacimento, eventualmente avvalendosi anche di garanzie di terzi, ma conservando nelle proprie mani ogni potere relativo all’esecuzione dell’accordo) ed in esso può coincidere in tutto o in parte a seconda che l’imprenditore intenda realizzare l’obiettivo del soddisfacimento dei suoi creditori con la cessione del “complesso dei beni” o invece di alcuni beni soltanto insieme ad altra modalità satisfattiva; intenda prevedere la cessione dei beni ai creditori assumendosi personalmente l’incarico di procedere alla liqui-

11. Un discorso sulla fase esecutiva del concordato preventivo deve tener conto di diverse tematiche: a) la presenza di una disciplina (comunque lacunosa) dedicata a questa fase racchiusa negli artt. 182 e 185, in parte rimasta inalterata dopo la riforma e quindi generatrice di consistenti dubbi interpretativi perché viene a dover essere applicata ad una procedura marcatamente difforme da quella precedentemente regolamentata, in parte integrata da disposizioni che però risultano di difficile lettura nella misura in cui possa derivarne un ribaltamento dell’impostazione di fondo del nuovo concordato; b) la difficoltà di costruire nuovi schemi esecutivi utilizzando norme di vecchi schemi; c) l’esigenza, ma nel contempo la difficoltà, di tracciare binari di indirizzo sia all’autonomia privata che al Tribunale affinché sia salvaguardata la formula negoziale nel rispetto però dei diritti dei creditori; d) l’incidenza del proseguimento dell’attività, soprattutto quando essa costituisca il baricentro del piano come accade, appunto, nel concordato di risanamento, sull’adempimento dell’obbligazione assunta dal proponente.

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dazione, ovvero offrire la cessione dei beni e chiedere la nomina di un liquidatore giudiziale, o ancora intenda proporre la cessione dei beni e chiedere la nomina di un liquidatore ma affinché esegua tutta una serie di atti già previsti, in esecuzione di impegni già assunti dal debitore, quali contratti preliminari di compravendita subordinati all’omologa del concordato. Con un concordato con cessione dei beni ai creditori (di tutto il patrimonio comprendente il compendio aziendale) si può realizzare nel contempo la conservazione di valori attraverso un contratto di affitto di azienda “ponte” contenente un’offerta irrevocabile di acquisto condizionata al passaggio in giudicato della sentenza di omologazione del concordato preventivo. Peraltro anche con la cessione dei beni ad un assuntore-terzo, che non sia un mero speculatore, si può realizzare la conservazione del valore aziendale nel caso in cui il complesso produttivo sia utilizzato per l’esercizio di un’impresa già esistente o costituita ad hoc. L’azienda sarà comunque trasferita ad altro soggetto, che può essere una società già esistente o anche una società di nuova costituzione. In entrambi i casi sarà esercitata un’impresa che si avvale dell’azienda acquistata alla quale potranno essere apportate modifiche alla struttura per adeguarla al settore, alla dimensione, al mercato della società acquirente. A questa potrebbero partecipare i creditori concordatari da soli o al fianco di terzi o di “brandelli” più o meno consistenti della proprietà cedente. Talvolta partecipano alla newco soci o manager della società in concordato o di una società del gruppo insieme ad un finanziatore, magari istituzionale, garante sia della riuscita che della trasparenza dell’operazione. La legge non pone preclusioni a siffatte partecipazioni che assicurano la conoscenza del mercato e quella continuità senza le quali lo start-up dell’iniziativa potrebbe essere più lento e più rischioso. Con questo tipo di concordato, spesso necessitato dal livello raggiunto dalla crisi, che impone una decisa ristrutturazione dei debiti, oltre che dall’esigenza di presentarsi con un volto nuovo – se l’obiettivo è raggiunto – vi è continuità aziendale. Da parte di diversi settori questi tipi di concordato sono guardati però con malcelato sospetto in quanto serpeggia il dubbio che il debitore “ricompri” l’azienda a un prezzo inferiore a quello che un soggetto veramente terzo avrebbe potuto pagare. Alcuni creditori sono restii ad accettarli. 4. In certi casi la trasparenza “paga” di più. Quando un’analisi meticolosa della situazione finanziaria, economica, strutturale e di mercato lo consenta e inoltre permanga la fiducia nell’imprenditore, sarà pos-

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sibile optare per un concordato accompagnato da un piano di risanamento diretto, portato avanti cioè dallo stesso imprenditore proponente. A differenza del concordato con cessione dei beni che attua la continuità aziendale attraverso l’affitto d’azienda e la successiva cessione, e nel quale il risanamento ha ad oggetto l’esposizione debitoria (e perciò è chiamato di risanamento indiretto), nell’ipotesi del concordato di risanamento (diretto) oggetto dell’intervento è il complesso aziendale che alla fine rimane nella titolarità del proponente il concordato. In questo caso si realizzerà la continuità imprenditoriale. Attraverso la procedura concordataria l’attività, esercitata dallo stesso imprenditore, rispettando cadenze e operazioni previste nel piano, viene posta sotto controllo degli organi mentre il pregresso è congelato e le azioni esecutive sono bloccate, senza impedimenti però per una eventuale nuova finanza funzionale all’esecuzione. In un concordato di risanamento diretto, la proposta ai creditori potrà concretizzarsi o 1) in una moratoria funzionale al ripristino della solvibilità o 2) in una ristrutturazione dei debiti con soddisfacimenti programmati dei creditori. L’alternativa è possibile dal momento che il concordato preventivo attuale fissa il suo obiettivo nel soddisfacimento dei crediti consentendo, però, attraverso diversi e flessibili percorsi, la ristrutturazione dei debiti. Siamo quindi dinanzi ad un modello – quello del concordato preventivo di risanamento – che se per un verso è indubbiamente accostabile all’abrogata amministrazione controllata, per un altro non conosce i limiti che compromettevano l’esito di quella procedura. È sufficiente pensare che nel concordato di risanamento, a differenza dell’amministrazione controllata, è possibile: a) cedere beni non strumentali o anche rami d’azienda non utili al piano; b) proporre una ristrutturazioni dei debiti o, in alternativa, il pagamento integrale se pur rinviato al momento del programmato ripristino della solvibilità; c) accedere a una nuova finanza che darà luogo a crediti prededucibili anche in un eventuale successivo fallimento; d) usufruire di un arco temporale più ampio entro cui programmare il risanamento. Il soddisfacimento però – a differenza dell’amministrazione controllata – dovrà avvenire sempre e comunque all’interno della procedura concordataria. La continuazione dell’attività è il perno del concordato di risanamento in quanto è direttamente utile a risanare l’azienda e indirettamente a soddisfare i creditori. Il cuore del piano è costituito dalla descrizione del percorso imprenditoriale che si reputa funzionale al risanamento, in quanto ciò che può far convergere gli interessi dei creditori è il progetto di continuazione dell’impresa.

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Questo è il punto sul quale i protagonisti di un tale piano debbono riflettere. Nel concordato di risanamento i creditori potrebbero essere attratti da un soddisfacimento differito ma integrale trascurando il fatto che l’adempimento di tale proposta è legata all’esito dell’esercizio dell’impresa sulla quale pesano in ogni caso variabili più numerose di quante possano incidere sulla liquidazione del patrimonio in un concordato con cessione dei beni, nel quale l’esercizio dell’impresa è invece marginale e sopratutto residuale quando sia svolta dallo stesso proponente per terminare produzioni in corso o addirittura irrilevante come quando sia portata avanti in un affitto d’azienda. Ne discende che in un concordato di risanamento rispetto all’esercizio dell’impresa non vi è differenza tra la fase della procedura e la fase esecutiva, perché in entrambe – e non potrebbe essere diversamente – l’attività prosegue. Così non è nel concordato con cessione dei beni nel quale la scansione e la differenza funzionale tra le due fasi è netta. 5. La differenza tra un piano di concordato con cessione dei beni e un piano di concordato di risanamento in senso proprio si riflette sulla conformazione della fase di esecuzione tenendo presente che dal punto di vista normativo mentre per il concordato con cessione dei beni è presente una traccia di disciplina racchiusa negli artt. 182 e 185, per il concordato di risanamento è l’interprete che deve ricostruirlo nel solco del nuovo sistema e, quindi, di una assoluta autonomia del proponente che deve essere assunta anche come chiave di lettura delle norme, quando presenti,(gli artt. 182 e 185) o della ricostruzione della fase esecutiva nel caso di silenzio del legislatore. Se nel concordato con cessione dei beni, la fase esecutiva, consistendo esclusivamente nella concretizzazione degli atti volti al soddisfacimento dei creditori dopo che l’eventuale prosecuzione dell’attività da parte del proponente – funzionale all’esaurimento di produzioni in corso – temporalmente circoscritta alla fase della procedura, sarà ormai cessata, ha una chiara conformazione, così non è nell’altro modello concordatario. Nel concordato c.d. “di risanamento”, infatti, nel quale il soddisfacimento è legato inscindibilmente all’esercizio dell’impresa attorno al quale ruota la soluzione stessa della crisi di modo che l’attività transita dall’ammissione, percorre la fase della procedura giungendo, senza soluzioni di continuità, alla fase esecutiva, ci chiediamo come quest’ultima fase possa essere conformata. In sostanza la domanda che sorge è se l’esecuzione di un concordato preventivo, funzionale comunque al soddisfacimento dei creditori, possa

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consistere nella stessa attività d’impresa, anziché in una monetizzazione del patrimonio o in un immediato soddisfacimento e inoltre quale sia il regime applicabile a una siffatta fase. Ma non è tutto. Se infatti in quest’ultimo tipo di piano l’attività, costituendo formula ad un tempo necessaria sia per conservare valori e titolarità, sia per ripristinare la solvibilità – come era nella abrogata amministrazione controllata – fluisce senza cesure, come è possibile riconoscervi diverse fasi e per giunta con diversi obiettivi e controlli? Potremmo ipotizzare che in questo tipo concordatario, fin dall’ammissione, l’esercizio dell’attività costituisca esecuzione del piano. Se così è, tenendo presenti le peculiarità evidenziate, dobbiamo adesso esaminare la disciplina disponibile in punto di esecuzione del concordato preventivo tout court e del modello con cessione dei beni per vedere se possa essere applicata alla fase esecutiva del concordato di risanamento. 6. Iniziando dall’art. 182 l.fall., ricordiamo che anche per questa norma il legislatore – anziché costruire una nuova norma tenendo conto delle caratteristiche dell’attuale concordato preventivo nel quale la cessione dei beni, scandita o meno in operazioni raffigurate puntualmente nel piano, può esaurire la proposta rivolta ai creditori oppure al contrario può costituire uno soltanto degli strumenti satisfattivi previsti 12, di modo che, in questo secondo caso, il concordato sarà da ritenere con cessione di beni e non con cessione dei beni – ha scelto la strada di intervenire sul tessuto vecchio 13. Il primo comma dell’art. 182 l.fall. dispone che: “Se il concordato consiste nella cessione dei beni e non dispone diversamente, il tribunale

12. Un’apertura verso soluzioni miste (cessione di parte e dei beni e prosecuzione dell’attività d’impresa) è stata manifestata da Trib. Palermo, 18 maggio 2007, in Il fallimento, 2008, 75 ss. 13. L’art. 182 durante la vigenza della legge del ’42 è stato ritenuto applicabile oltre che all’ipotesi letteralmente prevista del concordato con cessione dei beni – anzi precisamente dell’intero patrimonio del debitore – anche alle forme miste, nelle quali l’offerta della cessione dei beni si accompagnasse all’offerta di pagamento in percentuale. Si ammetteva – e sul punto si era pronunciata la Cass., n. 2295 del 1978 – la cessione anche di beni di terzi. Si discuteva se si dovessero comprendere anche i beni sopravvenuti: in senso positivo, in giurisprudenza, Trib. Belluno, 9 luglio 1994 e in dottrina Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, p. 486; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, IV, Milano, 1974, p. 2232. In senso contrario, in dottrina, Bonsignori, Concordato preventivo, in Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, 1979, p. 70.

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nomina nel decreto di omologazione uno o più liquidatori e un comitato di tre o cinque creditori per assistere alla liquidazione e determina le altre modalità della liquidazione”. Una lettura della norma diretta a contestualizzarla nel nuovo sistema non può non prendere atto di un potere attribuito al proponente di congegnare la fase esecutiva e parallelamente di una legittimazione integrativa del tribunale 14. Sorge a questo punto il dubbio che il piano debba contenere tali disposizioni dal momento che – per quanto già osservato – “l’interesse” che un piano presenta per i creditori sarà riferibile anche alle modalità esecutive 15. Ritengo quindi che i creditori debbano pronunciarsi anche su tali modalità le quali, allora, dovranno far parte necessariamente del contenuto del piano. Al tribunale spetta soltanto il compito di integrare non di compilare una parte necessaria del piano né tanto meno di modificare ciò che i creditori hanno ormai approvato perché “al tribunale non è mai consentito modificare la proposta concordataria, con l’effetto che il decreto di omologazione interviene su un <pacchetto> preconfezionato” 16. Il legislatore del 2007 ha cambiato la rubrica dell’art. 182 l.fall. che è passata da “provvedimenti in caso di cessione dei beni” a “provvedimento in caso di cessione di beni”, con ciò sembrando prendere atto delle variegate strutture di un piano concordatario nel quale può essere inserita anche una cessione di beni. Come già ricordato – caduto l’obbligo di rispettare una proposta-

14.

Fabiani, Concordato preventivo con cessione dei beni e predeterminazione delle modalità della liquidazione, in Il fallimento, 2010, pp. 593-601. precisa che: “Nel caso di necessarie integrazioni l’intervento del Tribunale dovrà comunque muoversi nel solco tracciato dal piano, non potendo essere occasione per deviarvi. Dinanzi ad un piano, contenente anche l’articolazione della liquidazione, e ad una proposta approvati dai creditori, il tribunale, in assenza di opposizioni, è tenuto ad omologare la domanda concordataria rispettando in toto ciò che le parti hanno condiviso e quindi astenendosi da disporre nuovamente e/o diversamente da quanto ormai è oggetto dell’incontro delle volontà delle parti”. 15. Diversamente Fabiani, Concordato, cit.: “Il piano concordatario – merita sempre ricordarlo – non deve necessariamente, pur avendone la facoltà di farlo, neppure scendere nei dettagli della sua esecuzione. Ciò che conta è che i creditori siano posti in grado di valutare attraverso la lettura del piano, così come è stato confezionato, se la proposta ad esso collegata potrà essere adempiuta e se è conveniente. Appartiene, infatti, ai creditori la decisione di bocciare piani non sufficientemente chiari, incompleti, magari nebulosi, su tutti i passaggi che dovrebbero portare all’adempimento della proposta”. 16 Fabiani, Diritto fallimentare, Bologna-Roma, 2011.

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tipo preconfezionata per legge destinata ad assicurare il pagamento di una certa percentuale del credito e dovendo oggi il debitore assicurare un soddisfacimento variamente rappresentabile a seconda dell’interesse che muove il creditore concordatario e che può conciliarsi (o addirittura coincidere) con l’interesse del debitore a perseguire un tentativo conservativo (proprio o improprio) – la cessione di tutto il patrimonio, in ossequio al principio scolpito nell’art. 2740, è divenuta una possibilità cessando di costituire un obbligo. Tuttavia poi osserviamo l’incipit del primo comma che è rimasto inalterato e così svanisce l’attesa di una disciplina adeguata alla fattispecie concordataria che contenga una cessione di beni, la quale potrebbe ricomprendere la fattispecie in cui il debitore ha destinato – in rispetto dell’art. 2740 c.c. – tutto il proprio patrimonio al soddisfacimento dei creditori. Il fatto che il primo comma del 182 faccia riferimento alla cessione dei beni (la quale non può ricomprendere l’ipotesi ridotta di cessione di beni), induce a ritenere che non costituisca norma di portata generale applicabile indifferentemente in ciascuna delle due fattispecie. Soltanto quando il piano ruoti attorno alla cessione del patrimonio del debitore ai creditori si applicherà – nei limiti e alle condizioni che vedremo – la disciplina racchiusa nell’art. 182 l.fall. Così è sicuramente da escludersi l’applicazione di tale disciplina nel caso 17 in cui il proponente assicuri il pagamento integrale dei creditori privilegiati ed in percentuale di quelli chirografari mediante il realizzo di cespiti patrimoniali al quale provvedano gli stessi legali rappresentanti del debitore. In tal caso, infatti, saremmo dinanzi ad un concordato preventivo con garanzia la cui esecuzione, in quanto tale, è rimessa totalmente al debitore senza che si possano porre neanche dubbi circa l’applicabilità dell’art. 182. Parimenti non può qualificarsi “con cessione dei beni” la proposta di concordato che pur prevedendo la sostanziale dismissione nel tempo del patrimonio sociale si prefigga nell’immediato – proprio al fine di reperire le risorse finanziarie indispensabili all’esecuzione del piano – il proseguimento dell’attività e quindi la diretta gestione del patrimonio sociale con finalità conservative. In tale ipotesi, non appare né corretta, né necessaria la nomina di un liquidatore giudiziale e di un comitato dei creditori 18 ex art. 182 l.fall., dovendosi ritenere sufficiente la funzione di controllo che sarà svolta dal commissario giudiziale ai sensi dell’art. 185 l.fall.

17. 18.

La fattispecie è stata esaminata da Trib. Milano, 29 dicembre 2005, in www.ilcaso.it. In tal senso si è pronunciato Trib. Mantova, 15 luglio 2008, in www.ilcaso.it.

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7. La laconica norma del ’42, in virtù dell’inciso che rimetteva all’autonomia privata la previsione di un iter diverso avente soltanto il limite di dover assicurare il soddisfacimento dei creditori secondo tempi e importi previsti nella proposta omologata, aveva carattere dispositivo e di questo la dottrina non pareva dubitare 19. La situazione anteriore alla riforma era tale per cui la Cassazione aveva avuto modo di osservare come “il liquidatore non fosse condizionato da alcuna limitazione, nell’esercizio delle funzioni cui risultava preposto – al di là della sorveglianza del commissario giudiziale e della direzione del giudice delegato – e conseguentemente libero risultava nella scelta delle forme ritenute più utili per conseguire il miglior realizzo nell’interesse della massa concorsuale, conservando la piena capacità negoziale, senza alcuna necessità di preventive autorizzazioni”20. In tal senso, anche le modalità di vendita dei beni potevano collocarsi nell’area della più ampia discrezionalità, al di fuori di rigorose procedimentalizzazioni che la legge fallimentare, invece, contempla per le liquidazioni immobiliari nel fallimento, allorché considera come forme possibili la vendita con incanto e quella senza incanto e privilegia la prima come ordinaria forma di vendita, assegnando a quella senza incanto un ruolo subordinato 21. Tale orientamento è stato confermato – relativamente ad un concordato che si collocava nel periodo a cavallo tra il 2005 e il 2007 – dalla stessa Cassazione con la sentenza 20 gennaio 2011, n. 134522, sottolineando, nell’alveo di una lettura privatistica del concordato, che l’accordo raggiunto tra il proponente ed i creditori riveste carattere prevalente rispetto ad ulteriori valutazioni e che, quindi, se i creditori hanno accettato che la fase di esecuzione possa svolgersi senza dei criteri prefissati e secondo le modalità ritenute più opportune dal liquidatore, nessun intervento integrativo è consentito al tribunale.

19. Maffei Alberti, Commentario breve alla legge fallimentare, Padova, 2000, p. 725. L’apertura a modalità diverse attiene alla nomina dei liquidatori e del comitato dei creditori: sul punto Ferrara e Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, p. 217 il quale indica come esempio il caso in cui “nello stesso concordato siano designati i liquidatori ed il comitato dei creditori, oppure sia previsto che la nomina degli uni e degli altri venga fatta successivamente dagli stessi creditori, che ne determineranno i compiti”. 20 Cass., 11 agosto 2000, n. 10693, in Il fallimento, 2001, 906. 21 Sul punto cfr. Cass., 11 agosto 2000, n. 10693, cit. 22. In Il fallimento, 2011, 533 con nota favorevole di Lo Cascio, Il liquidatore giudiziale nel concordato preventivo: segnali di privatizzazione dell’istituto.

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La Corte, a supporto del proprio convincimento, aveva anche osservato che se un liquidatore, in assenza di indicazioni da parte della proposta di concordato e della sentenza di omologazione, può liberamente decidere le modalità più idonee per l’esecuzione del concordato, ben può ritenersi che la stessa proposta di concordato possa attribuire direttamente al liquidatore tale ampio potere discrezionale sulle modalità esecutive. Il legislatore ha inizialmente (nel 2005) integralmente ripreso l’unico comma con cui il legislatore del 1942 aveva disciplinato la fattispecie concordataria ma è intervenuto poi nel 2007, non solo per correggere il nomen del provvedimento giurisdizionale che chiude la procedura, ma anche – secondo quanto si legge nella Relazione di accompagnamento al d.lgs. 169/2007 – per “dettare una più completa e razionale disciplina della liquidazione dei beni ceduti ai creditori col concordato, garantendo che le operazioni di liquidazione si svolgano correttamente ed efficacemente nell’interesse dei creditori. In particolare, l’ampliamento dell’uso degli strumenti negoziali e la maggiore scioltezza che caratterizzano la nuova disciplina della liquidazione dell’attivo nel fallimento inducono ad estendere tale disciplina alla fase liquidatoria del concordato preventivo, la quale allo stato è rimessa alla discrezionalità del liquidatore ed alle “modalità” non meglio individuate che dovrebbero essere stabilite dal tribunale ai sensi del primo comma dell’art. 182”. Con l’intervento correttivo il legislatore, aggiungendo ulteriori quattro commi all’art. 182 l.fall., ha disposto che si applichino, in quanto compatibili 23: 1) ai liquidatori le norme che disciplinano la nomina, l’accettazione dell’incarico, la revoca, la responsabilità, il compenso ed il rendiconto del curatore (artt. 28, 29, 37, 38, 39 e 116 l.fall.); 2) al comitato dei creditori gli artt. 40 e 41 l.fall., aggiungendo che il tribunale, competente nella fattispecie a nominare tale organo, è anche competente per la sostituzione dei membri; 3) alle procedure di vendita – per introdurre

23. Secondo alcuni (Mandrioli, La riforma organica delle procedura concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, Milano, 2008, p. 729) la clausola della “compatibilità” consente di valutare caso per caso l’applicabilità o meno delle disposizioni sopra richiamate, tenendo conto delle peculiari caratteristiche del piano di concordato, che rappresenta senza dubbio l’elemento determinante della nuova disciplina del concordato preventivo. Pertanto, se nel piano è già stato individuato l’acquirente del bene o il cessionario di azienda, una volta intervenuta l’approvazione dei creditori e l’omologazione, non sarebbe più consentito fare applicazione delle “procedure competitive” di cui all’art. 107 l.fall. D’Orazio (Pacchi, D’Orazio e Coppola), Il concordato preventivo, in Le riforme della legge fallimentare, a cura di Didone, Torino, 2009, p. 1890).

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quella che a detta di alcuni 24 potrebbe definirsi come la “fallimentarizzazione” delle vendite concordatarie – gli artt. da 105 a 108-ter l.fall. Oltre a ciò nel quarto comma dispone che le vendite delle aziende e dei rami d’aziende, dei beni immobili ed altri beni iscritti nei pubblici registri, nonché le cessioni di attività e passività dell’azienda o di beni o rapporti giuridici individuabili in blocco debbano essere autorizzate dal comitato dei creditori. Motivo dell’ampliamento della disciplina sarebbe, in primo luogo, quello di evitare difformità tra i diversi modelli di concordati con cessione dei beni rispetto alla fase liquidativa, applicando norme sulle vendite fallimentari che contengono principi sedimentati sulla trasparenza, efficienza, e convenienza di tali operazioni quando la linea guida sia quella della conservazione dei valori. In secondo luogo il legislatore del correttivo avrebbe inteso perseguire l’ulteriore intento (nel quarto comma) di conferire al comitato dei creditori un controllo autorizzativo sui singoli atti della liquidazione che rafforzasse quello svolto nella fase esecutiva dal commissario giudiziale. L’organo rappresentativo dei creditori dovrà essere nominato tutte le volte in cui il concordato preventivo rechi una componente liquidativa del patrimonio del debitore 25 ed anche ove tale componente non risulti quella maggioritaria nell’economia della procedura, purché sia direttamente finalizzata a ripartire il ricavato tra i creditori concorrenti; al contrario non potrà ritenersi necessaria la nomina di un liquidatore da parte del Tribunale tutte le volte in cui la liquidazione (anche) di parte del patrimonio del debitore non sia direttamente finalizzata a soddisfare i creditori, come nel caso di un concordato di risanamento ove la liquidità sia utilizzata per finanziare la prosecuzione dell’attività d’impresa. Il comitato dei creditori vede, comunque, accrescere anche nell’ambito concordatario i propri poteri “in sintonia”, come recita la Relazione di accompagnamento al d.lgs. 169, “col nuovo regime degli organi del fallimento, a maggior tutela del ceto creditorio”. Siamo in sostanza passati da un art. 182 del 1942 che, in linea con i tratti di un comitato dei creditori privo anche nella procedura maggiore di poteri gestionali, attribuiva a tale organo il compito di assistere alla

24. Ambrosini, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Tratt. dir. comm. diretto da Cottino, 11, I, Padova, 2007, 25 Trib. Roma, 25 gennaio 1986, in Dir. fall., 1988, II, 821.

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liquidazione, ad una norma quale l’attuale che introduce nella fase esecutiva del concordato uno specifico potere autorizzatorio del comitato. Il quarto comma dell’art. 182 prevede infatti che il liquidatore debba munirsi dell’autorizzazione del comitato dei creditori per procedere a vendite di aziende o rami di aziende, di beni immobili e di altri beni iscritti in pubblici registri, nonché a cessioni in blocco di attività e passività dell’azienda o di beni o rapporti giuridici. Se l’intento può apparire lodevole ove si ponga mente all’obiettivo prioritario della proposta concordataria – il soddisfacimento dei creditori appunto – lascia invece fortemente perplessi laddove si ricordi il tratto caratterizzante il nuovo concordato preventivo di strumento flessibile e liberamente disponibile dalle parti. “Desta perplessità la previsione dell’autorizzazione del comitato dei creditori in una procedura che in passato era maggiormente duttile rispetto al fallimento, in quanto il liquidatore doveva, nell’esecuzione del concordato, attenersi alle disposizioni del tribunale, il quale poteva anche lasciarlo libero di vendere i beni senza particolari formalità (anche con la trattativa privata, e questo era un elemento di grande efficienza della fase esecutiva). L’autorizzazione necessaria del comitato dei creditori (rispondente, invero, ad una logica di maggiore fiducia del legislatore nell’operato dell’organo privato) e la necessità di seguire, in quanto compatibili, le norme sulla liquidazione fallimentare, ivi compreso l’art. 107 l.fall. (che richiama, a sua volta, le disposizioni del codice di procedura civile in quanto compatibili) rischiano di minare alla base l’efficienza della procedura” 26. Occorre aggiungere che il concordato preventivo si caratterizza per tutta una serie di controlli, che sfociano e si riassumono nel giudizio di omologazione, condotti da soggetti che esprimono i vari e contrapposti interessi presenti nella procedura. Con tale assetto è perfettamente compatibile un’attività di “vigilante”assistenza sulle operazioni di liquidazione che si spinga ad atti d’ispezione sulla documentazione del liquidatore 27, a richieste di notizie e chiarimenti e che finalmente si esprima con autorizzazioni dirette a verificare il puntuale rispetto del piano concor-

26.

D’Orazio (Pacchi, D’Orazio e Coppola), Il concordato preventivo, cit., p. 1890. Adesso espressamente consentiti dalla previsione contenuta nel co. 4 dell’art. 41 (“Il comitato ed ogni componente possono ispezionare in qualunque momento le scritture contabili e i documenti della procedura ed hanno diritto di chiedere notizie e chiarimenti al curatore e al fallito”). Così anche alla luce della pregressa disciplina Bonsignori, Concordato preventivo, in Comm. Scialoja-Branca. Legge fall., a cura di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, 1979, p. 455. 27.

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datario. Ne risulta un potere di controllo sia sull’attività del liquidatore sia sugli atti di liquidazione 28. In tal senso a seconda del significato che si attribuisca all’autorizzazione del comitato potrebbe scaturire “una limitazione della liberta contrattuale delle parti private e rischia di diminuire la concreta appetibilità dell’istituto” 29 che disegnato dal legislatore in chiave fortemente privatistica pare contrastare con le funzioni rimesse al comitato (e poi anche al liquidatore) che secondo alcuni avrebbero una chiara matrice pubblicistica 30. Non pare tuttavia che possa essere dimenticato che il piano può aver dettagliato ogni momento della liquidazione fino all’indicazione puntuale delle modalità e degli acquirenti di singoli beni (anche immobili) o di complessi di beni o rapporti giuridici, talora allegando la proposta irrevocabile di acquisto da parte di un terzo condizionata all’omologazione del concordato. In tale ipotesi ci possiamo chiedere se l’autorizzazione del comitato sia sempre necessaria. Da una parte abbiamo infatti una disposizione, come quella di cui al co. 4 dell’art. 182, che pare dettata in via generale, dall’altra abbiamo però la previsione di un controllo su atto già “ipercontrollato” che può appesantire l’iter ritardandone la conclusione. Credo allora che se vogliamo rispettare entrambe le esigenze nonché la filosofia di fondo del concordato preventivo, non resti che affermare un controllo di conformità e non di merito. Concordo pertanto con quella parte della dottrina che ritiene che, “in realtà, le autorizzazioni del comitato dei creditori previste dall’art. 182 l.fall. costituiscano meri atti dovuti, in quanto le stesse non possono certo rimettere in discussione il contenuto del piano di concordato già approvato dai creditori in sede di votazione ed omologato dal tribunale. Il comitato dei creditori non può, quindi, contrastare, con il rifiuto, vendite e cessioni previste espressamente dal piano concordatario” 31. In verità, come qualcuno ha già osservato, “nonostante gli intenti del legislatore, è evidente che la nuova disciplina comporta un irrigidimen-

28.

Vitiello, Sub art. 182, in Codice commentato del fallimento, diretto da Lo Cascio, cit., p. 1602. 29 Zanichelli, I concordati giudiziali, Torino, 2010, p. 292. 30. Di Cecco, Sub art. 182, in Nigro, Sandulli e Santoro, La legge fallimentare dopo la riforma, III, Torino, 2010, p. 2236. 31. D’Orazio, (Pacchi, D’Orazio e Coppola), Il concordato preventivo, cit., pp. 1890-1891. In tal senso anche Mandrioli, La riforma organica delle procedura concorsuali, a cura di Bonfatti e Panzani, cit., 732.

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to nella liquidazione e limitazioni prima non previste” 32 rimettendo in discussione la valorizzazione dell’autonomia privata che permea di sé l’art. 160. Altrettanto importante è notare che tale più recente disciplina, imperniata su controlli e requisiti, va ad innestarsi in una sistema caratterizzato dall’attribuzione all’autonomia privata di poteri normativi che possono esprimersi nella redazione di ogni punto ed elemento del piano così come l’art. 160 l.fall. prevede. 8. Dopo l’intervento correttivo del 2007 notiamo che l’art. 182 appare dotato di due anime diverse: l’una (quella di cui al primo comma) dalla quale, leggendo alla luce del nuovo sistema la norma che fa salve le diverse modalità della liquidazione fissate nel piano, appare che il debitore può prescindere dal modello legale di liquidazione, avendo questo carattere suppletivo e derogabile, e può prevedere le dismissioni dei cespiti secondo modalità dallo stesso predeterminate; l’altra, esattamente contrapposta, che pone le clausole del piano ad un vaglio di tenuta rispetto alle prescrizioni di legge, che sarebbero applicabili in ogni caso, e non soltanto quando il tribunale debba intervenire a dettare o integrare la regolamentazione della liquidazione per mancanza o insufficienza delle indicazioni del proponente. Di questo orientamento è espressione una recente decisione della Corte di Cassazione 33, secondo cui se da un lato la designazione del liquidatore può costituire oggetto della proposta del debitore volta a fissare le modalità di esecuzione del piano, dall’altro è indispensabile il rispetto dei requisiti soggettivi previsti per la nomina a curatore, richiamati dall’art. 182 l.fall., tra cui le incompatibilità di cui all’art. 28 l.fall. Più in generale la Cassazione ha statuito che ogni qual volta i criteri di esecuzione proposti dal debitore siano contra legem, essi devono essere disattesi dal tribunale. Tale orientamento, favorevole a porre un filtro in sede di omologazione sulle disposizioni circa le modalità di liquidazione e la nomina del liquidatore, peraltro già approvate dai creditori, era già emerso da alcune decisioni di merito. Addirittura una recente pronuncia di una corte di merito 34, pur riconoscendo la possibilità che il debitore stesso nell’ambito del piano in-

32.

De Simone, Le vendite immobiliari nel concordato preventivo, in www.ilcaso.it. Cass., 15 luglio 2011, n. 15699, in www.ilcaso.it. 34 Trib. Novara, 6 giugno 2011, in www.ilcaso.it. 33

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dichi la persona che assumerà l’incarico di liquidatore e stabilisca esplicite previsioni circa le modalità di liquidazione dei beni, riteneva che il tribunale non solo non fosse vincolato da tali indicazioni ma anche che potrebbe rispettarla “qualora il soggetto indicato abbia ben cooperato con gli organi della procedura, non siano state individuate ragioni ostative alla sua nomina e, soprattutto, nel caso in cui lo svolgimento di detta funzione abbia luogo senza corrispettivo e quindi con indubbio vantaggio economico per i creditori”. 9. A questo punto del discorso occorre però considerare anche le altre norme fissate nei successivi commi dell’art. 182, che dettano criteri per la nomina del liquidatore e del comitato dei creditori, disegnandone i poteri mediante richiamo delle disposizioni, in quanto compatibili, che regolano l’attività del curatore e del comitato dei creditori nel fallimento, nonché di alcuni principi che presiedono alle vendite fallimentari e che ora dovrebbero orientare l’operato del liquidatore concordatario. Dobbiamo innanzi tutto chiederci se tali disposizioni si applichino in ogni caso e quindi anche al piano nel quale l’autonomia privata abbia puntualizzato ogni dettaglio anche esecutivo di modo che esso dovrebbe essere raddrizzato in sede di omologa – ammesso e non concesso che il tribunale abbia tale potere – per conformarlo alle disposizioni di cui all’art. 182 commi secondo e ss. o, se invece, costituiscano i binari entro i quali deve muoversi l’autorità giudiziaria quando sia investita – nel silenzio del piano – del potere di riempire quegli spazi in punto di liquidazione 35. In verità non pare 36, neppure ipotizzando dal richiamo all’art. 105 la possibile conferma della preesistente assimilabilità della fase esecutiva del concordato per cessione dei beni del debitore ad un procedimento di vendita coatta 37, possa farsi discendere l’applicabilità dei suddetti principi nel caso in cui sia lo stesso piano concordatario a fissare le regole della liquidazione. Nel caso, ad esempio, che un piano concordatario preveda una vendita privatistica già delineata in tutte le pattuizioni dell’intero patrimonio per soddisfare con l’intero ricavato i creditori, non sarà invocabile

35

Filocamo, Esecuzione del concordato, cit., p. 2224. Nardecchia, La liquidazione del concordato preventivo con cessione dei beni dopo il d.lgs., n. 169/2007, in Il fallimento, 2010, 341-347. 36 In tal senso anche Fabiani, Diritto fallimentare, cit., p. 677. 37 Cass., S.U, 16 luglio 2008, n. 19506, in www.ilcaso.it.

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l’art. 182 l.fall. non rientrando il piano nella fattispecie concordataria con cessione dei beni. Assistiamo per vero allo spalancarsi di due diversi scenari: uno nel quale le regole negoziali si impongono a tutto campo, ed uno nel quale, in assenza delle prime, prende corpo uno schema di liquidazione giudiziale che è poi quello che si applica nella procedura concorsuale liquidativa-satisfattiva non concertata: il fallimento.

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L’apporto a fondo immobiliare* Sommario: 1. L’apporto. – 2. L’apporto a fondo immobiliare. – 3. L’apportante. – 4. I fondi immobiliari e le carenze del sistema pubblicitario. – 5. La partecipazione della SGR all’atto di apporto. – 6. Il tempo dell’apporto. – 7. L’oggetto dell’apporto e la documentazione richiesta. – 8. L’esecuzione dell’apporto e la variante dell’apporto condizionato. – 9. L’accollo di debiti connessi con l’oggetto dell’apporto.

1. L’apporto. Il termine “apporto” ricorre in fattispecie disparate. Nel diritto societario compare nell’art. 2346, co. 6, c.c. a proposito degli apporti di soci e terzi alla base della emissione di strumenti finanziari partecipativi; ma se ne fa uso abituale per designare sia gli apporti dei soci che non sono immediatamente imputati a capitale sociale, e quindi in ciò contrapposti ai conferimenti, ma pur sempre integranti il patrimonio sociale (dagli apporti a titolo di sovrapprezzo a quelli c.d. in conto capitale o a fondo perduto, ecc.) 1, sia gli apporti con cui si costituisce un patrimonio destinato (art. 2447-bis c.c.), a loro volta comprensivi tanto di quelli realizzati con beni o proventi sociali quanto di quelli effettuati da singoli soci o terzi 2. * Relazione al Convegno «L’evoluzione dei fondi comuni immobiliari», promosso dalla Fondazione per il Notariato, Milano, Università Bocconi, 3 febbraio 2012, in corso di pubblicazione con i relativi Atti nei Quaderni della Fondazione. 1 In tema cfr. Rubino De Ritis, Gli apporti “spontanei” in società di capitali, Torino, 2001, passim, e, tra i più recenti, Tombari, “Apporti spontanei” e “prestiti” dei soci nelle società di capitali, in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, 1, Torino, 2006, p. 553 ss., e Bione, Note sparse in tema di finanziamento dei soci e apporti di patrimonio, in Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze. Studi in onore di Giuseppe Zanarone, diretti da Benazzo, Cera e Patriarca, Assago, 2011, p. 37 ss. 2. Cfr., tra i molti, Colombo, La disciplina contabile dei patrimoni destinati, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, p. 31 ss.; Niutta, I patrimoni e finanziamenti destinati, Milano, 2006, p. 19 ss.

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Fuori dal diritto societario, il termine, e il concetto che esso sottintende, torna in gioco sia nell’ambito del diritto dell’impresa, come nel caso dell’apporto dell’associato all’associante nell’associazione in partecipazione (art. 2549 c.c.), sia in altri ambiti a cui l’impresa può rimanere estranea: di “apporto” o “conferimento” si discorre, ad esempio, con riguardo (i) alla dotazione o alle contribuzioni a favore di enti non lucrativi di diritto privato (fondazioni, associazioni) finalizzate alla formazione del patrimonio di cui all’art. 16 c.c. o del fondo comune di cui all’art. 37 c.c., (ii) alla inclusione di beni nel fondo patrimoniale da parte di coniugi o terzi ex art. 167 c.c. 3, (iii) alla costituzione di beni in trust per le più varie finalità tutte le volte che ciò si reputi ammissibile 4, e (iv) alla destinazione di beni immobili o mobili registrati alla realizzazione di interessi meritevoli di cui all’art. 2645-ter c.c. 5. In tutte queste fattispecie, non diversamente da quanto accade nell’apporto (o conferimento) a fondo comune di investimento, il termine designa (insieme o alternativamente) un atto giuridico, parte dell’oggetto di un atto giuridico (a volte, una “prestazione”) e l’effetto di un atto giuridico, con cui si produce il distacco di un bene o, più esattamente, di una situazione giuridica attiva da un patrimonio (che potrebbe già essere affetto da un qualche vincolo di destinazione, così come potrebbe non esserlo ancora) e la sua confluenza in altro patrimonio variamente affetto da vincoli di destinazione: l’apporto, infatti, si realizza a beneficio dell’unico patrimonio di un ente ovvero di uno dei patrimoni separati di un ente o di una persona fisica, a seconda che il bene/diritto apportato confluisca nel patrimonio autonomo generale di società o enti non lucrativi ovvero in fondi/patrimoni separati affetti da vincoli di destinazione di persone fisiche o di soggetti diversi da queste. Ergo, l’apporto determina sempre, contemporaneamente: - uno spostamento patrimoniale, ancorché talora tra patrimoni impu-

3.

Cfr., ad es., Domenici, Il fondo patrimoniale: negozio di protezione dei beni familiari, in Notariato, 2011, p. 549 ss. 4. In tema cfr., da ultimo, Gatt, Il trust c.d. interno: una questione ancora aperta, in Notariato, 2011, p. 280 ss. 5. Naturalmente, in quanto alla destinazione si accompagni la separazione patrimoniale: tra i più recenti, in argomento, cfr. Gentili, La destinazione patrimoniale. Un contributo della categoria generale allo studio delle fattispecie, in Riv. dir. priv., 2010, p. 58 ss.; Ghironi, La destinazione di beni a uno scopo nel prisma dell’art. 2645-ter c.c., in Riv. not., 2011, p. 1115 ss.

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tabili a soggetti diversi, talaltra tra più masse patrimoniali imputabili ad uno stesso soggetto, e – l’apposizione o la modifica di un vincolo di destinazione: il vincolo viene per la prima volta apposto se il patrimonio di provenienza non sia affetto da alcun vincolo di destinazione, come avviene quando l’apportante sia una persona fisica priva di patrimoni separati; il vincolo viene invece modificato se il bene apportato era già incluso in una massa patrimoniale interessata da altro vincolo di destinazione 6. Il concetto di apporto non implica, per contro, alcuna necessaria conseguenza in termini di pretese dell’apportante né sul o al bene oggetto dell’apporto dopo l’esecuzione dello stesso (es. diritto alla restituzione o diritto al godimento) né in relazione al patrimonio in cui è confluito l’apporto (es. diritti di amministrazione del patrimonio, di percezione dei frutti/utili derivanti dalla relativa gestione, ecc.): ogni considerazione al riguardo va effettuata all’interno delle diverse fattispecie di cui l’apporto rappresenta un elemento.

2. L’apporto a fondo immobiliare. La normativa di settore 7 utilizza indifferentemente i termini “apporto” e “conferimento” per designare l’atto giuridico (o parte del suo oggetto o il relativo effetto) con il quale un bene entra a far parte di

6.

Le scelte terminologiche sono ovviamente convenzionali. Si può benissimo – con Spada, Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in RDS, 2007, p. 18 ss.; Id., La provvista finanziaria tra destinazione ed attribuzione, in Il diritto delle società oggi, cit., p. 7 ss. – discorrere di “apporto-attribuzione” quando si realizza uno spostamento patrimoniale tra masse imputabili a diversi soggetti di diritto e di “apporto-destinazione” quando si realizza uno spostamento patrimoniale tra masse imputabili ad uno stesso soggetto: resta però fermo che in entrambi i casi si riscontra tanto uno spostamento patrimoniale nel senso chiarito, quanto la destinazione del bene che ne è oggetto alle finalità proprie di un ente o di una massa separata giusto in funzione del perseguimento di date finalità. 7. Ci si riferisce alla normativa primaria inclusa nell’art. 36 ss. t.u.f. e alla normativa secondaria principalmente rappresentata dal d.m. (Ministero del Tesoro), 24 maggio 1999, n. 228, e dal regolamento di Banca d’Italia (d’ora innanzi, reg. BI), 14 aprile 2005, nei testi attualmente vigenti a seguito delle numerose modifiche e integrazioni successive. Tra quest’ultime rivestono particolare importanza quelle apportate con il d.m. (Ministero dell’Economia e delle Finanze), 5 ottobre 2010, n. 197. Per un quadro complessivo della normativa di settore si rinvia a V. Troiano, Commento agli artt. 36, 37, Il Testo Unico della Finanza, a cura di fratini e Gasparri, t. I, Assago, 2012, p. 565 ss.

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un fondo di investimento a fronte dell’emissione di quote del fondo a favore dell’apportante: ad esempio, per il termine “apporto” v. l’art. 14bis l. 86/1994 (fondi con apporti immobiliari da parte di enti pubblici), mentre per il termine “conferimento” v. l’art. 37, co. 1, lett. d-bis, t.u.f. La interscambiabilità dei due termini qui dipende dal non esserci un “capitale” del fondo dalle funzioni e caratteristiche paragonabili a quelle del capitale sociale: se rispetto al capitale sociale è doveroso distinguere tra attribuzioni in questo conteggiabili, dette conferimenti, e attribuzioni ivi non conteggiabili, dette apporti, con riguardo al fondo comune di investimento la distinzione non ha motivo di riproporsi, poiché è lecito distinguere soltanto tra beni inclusi nel fondo a fronte di quote emesse (e allora apportati o conferiti nel fondo) e beni che non vi vengono affatto introdotti e che quindi ne rimangono fuori oppure che vi vengono introdotti per una causa differente (ad es. beni acquisiti dal fondo contro il pagamento di un prezzo o con scambio di beni ivi esistenti diversi dal danaro). In ipotesi di apporto a fondo immobiliare – ma non sembra che quanto si va a precisare muti se si considera l’apporto a fondo di investimento di altro tipo – le riflessioni che seguono inducono a ritenere che l’atto di apporto debba permettere l’individuazione dei seguenti elementi essenziali: (i) l’apportante; (ii) il fondo nel quale quanto apportato confluisce; (iii) la SGR che lo ha istituito; (iv) se diversa, la SGR che lo gestisce; (v) l’oggetto dell’apporto; (vi) in proporzione all’apporto e sulla base del regolamento del fondo, le quote emesse a fronte dell’apporto e, con esse, i diritti patrimoniali e amministrativi spettanti all’apportante; (vii) il regolamento del fondo che disciplina i rapporti tra i soggetti interessati. A tali elementi essenziali possono affiancarsi clausole accessorie di vario genere. Un accordo collaterale opzionale di frequente ricorrenza negli apporti immobiliari è costituito, ad esempio, dall’accollo al fondo di debiti “gravanti” sui beni apportati.

3. L’apportante. In linea astratta chiunque può rivestire la posizione di apportante. Tuttavia occorre tenere conto delle limitazioni circa i partecipanti al fondo presenti nel relativo regolamento e di quelle poste dalla normativa di settore. Sotto il primo profilo (limitazioni indotte dalle caratteristiche del fondo) può darsi che la partecipazione al fondo sia consentita soltanto a particolari soggetti, ad es. ai soli investitori qualificati se il fondo è “riser-

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vato”: poiché a fronte dell’apporto si ricevono quote di partecipazione al fondo, le limitazioni alla partecipazione si traducono in limitazioni dei soggetti apportanti. L’unica eccezione potrebbe essere rappresentata dall’assegnazione della quota di partecipazione a soggetto, dotato dei richiesti requisiti, diverso dall’apportante, in ipotesi privo di quei requisiti, se da questi indicato come beneficiario delle quote emesse a fronte dell’apporto secondo lo schema del contratto a favore del terzo: ciò sul presupposto dell’esistenza di idoneo interesse e causa giustificativa dell’attribuzione delle quote nel rapporto tra apportante e assegnatario delle quote stesse, in quanto tale attribuzione viene deviata rispetto alla sua naturale destinazione verso l’autore dell’apporto. Sotto il secondo profilo (limitazioni poste dalla normativa di settore) occorre considerare, per un verso, che norme di disciplina parzialmente divergenti possono concernere l’apporto e la partecipazione di particolari soggetti: Stato, enti pubblici, società da loro interamente possedute (v. art. 14-bis l. 86/1994; art. 13 d.m. 228/1999) 8; e, per altro verso, che una posizione delicata ricoprono alcuni soggetti in posizione di “conflitto di interessi”. In particolare, per i soci delle SGR interessate al fondo o di società facenti parte del relativo gruppo di appartenenza il divieto di partecipare al fondo, stabilito in generale dall’art. 12, co. 3, d.m. 228/1999, è sostituito nei fondi immobiliari da un permesso condizionato al rispetto di alcune cautele (v. art. 37, co. 2, lett. b, t.u.f., e art. 12-bis, co. 4, d.m.

8. Peraltro non è del tutto chiaro in che cosa consistano le diversità di disciplina, dal momento che la seconda disposizione citata (art. 13), nel secondo comma, dichiara che ai fondi di cui all’art. 14-bis si applicano tutte le disposizioni relative ai fondi chiusi immobiliari, fatti salvi i limiti di cui appresso nel testo, nonché le disposizioni speciali dell’art. 14-bis “in quanto compatibili con le disposizioni del presente regolamento” (il d.m. 228/1999) “e non penalizzanti rispetto ai fondi con apporto privato”. Sorge allora il legittimo dubbio se tra le disposizioni venute meno perché “penalizzanti rispetto ai fondi con apporto privato” vi sia quella del terzo comma dell’art. 14-bis, che impone la previsione, nel regolamento del fondo, dell’obbligo, per chi conferisce in natura, di apportare anche danaro in misura non inferiore al cinque per cento del valore del fondo, salve le eccezioni ivi previste. Ancora, per quanto al rinvio, contenuto nell’art. 14-bis, co. 4, alle modalità e alle forme di cui all’art. 2343 c.c. circa la relazione di stima da redigere per gli apporti immobiliari, mentre nulla si oppone al mantenimento di tale rinvio per quanto al contenuto della relazione e alla sua asseverazione, non sembra che il rinvio possa tuttora operare con riguardo alla nomina giudiziale degli esperti: l’art. 17, co. 10, d.m. 228/1999 lascia agevolmente intendere che anche per i fondi di cui all’art. 14-bis l. 86/1994 è la SGR a decidere di quali esperti avvalersi.

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228/1999)9. Viceversa permane anche nei fondi immobiliari il divieto assoluto di partecipazione per amministratori, direttori generali e sindaci delle SGR interessate al fondo o di società facenti parte del relativo gruppo di appartenenza (l’art. 12, co. 3, d.m. 228/1999 sul punto non risulta derogato dal successivo art. 12-bis, co. 4, come invece accade per i soci delle SGR) 10. Nessuna menzione normativa si riscontra circa la possibilità o il divieto che apportante sia la stessa SGR che istituisce o gestisce il fondo, la quale potrebbe in linea astratta spostare nella massa patrimoniale costituita dal fondo alcuni beni già facenti parte del proprio patrimonio generale (o di altre masse separate ad essa imputabili), al cui posto entrerebbero le quote di partecipazione al fondo emesse a fronte dell’apporto. Questa eventualità potrebbe in concreto presentarsi là dove una s.p.a. dotata di ingente patrimonio immobiliare, previa modifica dell’oggetto sociale per divenire una SGR, decida di promuovere l’istituzione di un fondo immobiliare, determinandone le regole di funzionamento, per conferirvi tutto o parte del proprio patrimonio immobiliare. Dubbi sull’ammissibilità dell’operazione potrebbero forse provenire dall’osservazione che gli amministratori della società in questione si troverebbero a gestire da un lato il fondo, dall’altro le quote di partecipazione emesse dal fondo a favore della società costituente (finché queste restino di sua titolarità), con conseguente pericolo di conflitto di interessi. Tuttavia il pericolo segnalato potrebbe essere fortemente ridotto, se non azzerato, avendo cura di attribuire i poteri di gestione del fondo a SGR diversa da quella che lo ha istituito e di non riservare nel regolamento del fondo alla SGR che lo ha istituito poteri significativi nel rapporto con i partecipanti al fondo. Pure potrebbe essere utile che quei poteri che comunque dovessero spettare alla SGR costituente (in ipotesi diversa da quella gerente) venissero esercitati per delega di gestione da amministratori esecutivi diversi da coloro a cui viene attribuita

9.

Per quanto specificamente attiene ai conferimenti, le cautele consistono in una limitazione del valore dei beni da apportare (anche considerando quelli ceduti con altre strutture contrattuali) al fondo e delle operazioni complessivamente effettuate rispetto al valore dell’intero fondo. 10. L’eventuale ricorso, anche in questi casi, alla dissociazione tra apportante e assegnatario delle quote comporterebbe qui profili di problematicità decisamente maggiori, poiché alto sarebbe il rischio dell’operazione motivata da intenti elusivi ove l’assegnatario rivesta, sia pure in modo non palese, il ruolo di fiduciario o persona interposta agente nell’interesse dell’apportante.

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la delega per la gestione della massa patrimoniale in cui sono incluse le quote di partecipazione al fondo. A queste condizioni all’ipotesi che qui si discute merita di essere esteso non già il divieto assoluto sancito per la partecipazione al fondo di amministratori, direttori generali e sindaci delle SGR interessate, bensì in via analogica il complesso delle cautele che accompagnano la permessa partecipazione al fondo immobiliare dei soci di tali SGR 11.

4. I fondi immobiliari e le carenze del sistema pubblicitario. Quali fondi chiusi, caratterizzati dalla possibilità di emissioni successive di quote e di rimborsi anticipati, soggetti alle specifiche regole contenute nell’art. 12-bis d.m. 228/1999, i fondi immobiliari presentano un’apprezzabile diffusione nel panorama italiano: al 30 giugno 2011 Assogestioni censisce 163 fondi immobiliari rispetto alla cui istituzione e gestione risultano coinvolte 24 SGR 12. Una realtà di questo genere, atta ad incidere significativamente tanto sulla imputazione e circolazione della ricchezza immobiliare quanto sulla emissione e circolazione di strumenti finanziari ad essa correlati (le quote di partecipazione), dovrebbe essere oggetto di efficienti regole di disclosure. Invece si deve prendere atto che non vi è un sistema di pubblicità dei fondi in quanto tali, che permetta ad ogni soggetto interessato di ricostruire, partendo dalla denominazione del fondo, chi sia la SGR che lo ha istituito, chi sia quella che lo gestisce e quali siano le relative regole di funzionamento, oltre che i beni che vi sono inclusi. Le uniche prescrizioni a natura in senso lato pubblicitaria (rectius, informativa) sono l’iscrizione delle SGR in apposito albo presso Banca d’Italia (art. 35 t.u.f.), l’obbligo delle SGR di mettere a disposizione del pubblico presso la propria sede alcuni documenti contabili (il rendiconto annuale della gestione, la relazione semestrale e il prospetto con il valore aggiornato delle quote), nonché, per i fondi immobiliari, l’obbligo di definire nel

11. Ciò significa che all’apporto della stessa SGR deve affiancarsi l’apporto di altri partecipanti al fondo onde evitare di superare i limiti posti dall’art. 12-bis, co. 4, lett. a e b. 12. Informazioni tratte dal sito www.assogestioni.it. Per un inquadramento generale dei fondi immobiliari cfr. Genco, Fondi comuni di investimento immobiliare, in Dig. disc. priv. sez. comm., agg. *, Torino, 2000, p. 345 ss.; Merola, I fondi immobiliari, Milano, 2004, pp. 4 ss. e 195 ss.; Lemma, I fondi immobiliari tra investimento e gestione. Parte generale, Bari, 2006, pp. 23 ss. e 163 ss.

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regolamento le modalità per dare informazioni sulle relazioni di stima, sugli atti di conferimento e sui soggetti conferenti (oltre che su altri acquisti, su cessioni, ecc.: art. 3 d.m. 228/1999). In concreto ciò significa che ogni soggetto interessato ad operare con il fondo ha l’onere di richiedere ogni informazione al riguardo alla SGR che afferma di gestirlo, avendo come conferma di tali poteri gestori esclusivamente quanto risulta dal regolamento del fondo nel testo che gli viene prodotto dallo stesso soggetto di cui si dovrebbero verificare i poteri. La veridicità/attualità della documentazione prodotta viene, dunque, esplicitamente o implicitamente (auto)dichiarata dalla SGR: chi volesse verificarne l’attendibilità potrebbe soltanto al più specificamente interrogare in proposito Banca d’Italia, alla quale spetta l’approvazione del regolamento del fondo, oltre che di ogni sua modifica successiva 13. Basato com’è su di una sostanziale autolegittimazione delle SGR che istituiscono o gestiscono fondi, il sistema informativo dei fondi immobiliari non risulta né efficiente, data la difficoltà per i terzi di disporre rapidamente di informazioni sicure e verificate, né coerente con analoghe iniziative volte alla creazione di masse patrimoniali affette da vincoli di destinazione da parte di società azionarie: si consideri che per l’art. 2447-quater, co. 1, c.c. la delibera costitutiva di un patrimonio destinato, completa di ogni dato richiesto dall’art. 2447-ter c.c., deve essere iscritta nel registro delle imprese previo espletamento dei controlli di cui all’art. 2436 c.c., laddove nulla di simile viene prescritto per la delibera dell’organo amministrativo della SGR che istituisce il fondo e ne approva il regolamento 14. Tantomeno alcuna norma dispone l’iscrizione del fondo come tale nel registro delle imprese o in altri registri, albi o ruoli gestiti da pubbliche autorità.

13. Ma si noti che l’approvazione potrebbe talora avvenire “in via generale”, per adesione a modelli predefiniti: cfr. art. 39, co. 3-bis, t.u.f. 14. Sulla competenza, in proposito, dell’organo amministrativo, salvo che lo statuto della SGR disponga diversamente, cfr., tra gli altri, Salanitro, Società per azioni e mercati finanziari3, Milano, 2000, p. 237; V. Troiano, op. cit., p. 584, ricordando come alcuni statuti prevedano l’autorizzazione dell’assemblea ordinaria. Secondo Cavanna, Fondi comuni di investimento e SICAV, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 16*, 2a ed., Torino, 2008, p. 18, nt. 61, l’istituzione del fondo è “atto di impresa, rientrante tra le inderogabili prerogative dell’organo amministrativo”; tuttavia, nei limiti in cui si ritenga possibile trarre argomenti in via analogica dall’art. 2447-ter, co. 2, c.c., non si può escludere che lo statuto possa prevedere non già una semplice autorizzazione, ma una esclusiva competenza assembleare in materia (ad es., sulla base di un progetto di regolamento predisposto dall’organo amministrativo).

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Poiché la citata disposizione sulla pubblicità della costituzione dei patrimoni destinati è sopravvenuta, a seguito della riforma societaria del 2003, rispetto alla emanazione della normativa sui fondi (anche) immobiliari, si potrebbe ipotizzare l’applicabilità analogica dell’art. 2447-quater c.c. alla delibera istitutiva dei fondi, per concludere che la relativa efficacia deve intendersi subordinata, oltre che all’autorizzazione di Banca d’Italia, all’iscrizione della delibera con l’annesso regolamento nel registro delle imprese; e lo stesso potrebbe affermarsi per le eventuali successive modifiche 15. Resta fermo, tuttavia, che, se e finché l’ipotesi appena esposta non venisse approfondita e confermata, i fondi esistenti e di futura istituzione continuerebbero a soffrire della mancanza di un efficace sistema pubblicitario nonostante la loro piena operatività 16. Anche alla luce di queste premesse in ogni caso pare imprescindibile che nell’atto di apporto per un verso venga identificato il fondo destinatario dell’apporto e che per altro verso venga identificata la SGR alla quale esso è collegato e tramite la quale, come si è visto, sono reperibili le informazioni sul fondo. Sotto il primo profilo non è concepibile un apporto a (se mai fosse concepibile un acquisto per) “fondo da nominare”, nel quale cioè la SGR si riservi di nominare in un momento succes-

15.

Un elemento di differenza ostacolante il ragionamento analogico potrebbe essere rappresentato dal fatto che il patrimonio destinato è ricavato, per lo più, all’interno del patrimonio generale della società che lo istituisce (per apporto-destinazione), assumendo gli apporti-attribuzione dei terzi un connotato di mera eventualità (tanto che non si registrano opinioni unanimi circa l’ammissibilità, per il vero non espressamente negata da alcuna norma, di un patrimonio destinato costituito esclusivamente con appositi apporti di terzi: cfr., in senso favorevole, Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nella società per azioni, Milano, 2008, p. 92 s.; in senso contrario, R. Santagata, Patrimoni destinati e rapporti intergestori, Torino, 2005, p. 25 s.); mentre il fondo immobiliare è costituito, di regola, mediante apporti di terzi, anche se – come precedentemente rilevato – non sembra escluso, entro certi limiti, l’apporto-destinazione della stessa SGR costituente. Tra l’altro, ciò fa sì che di norma (cioè, salvo che nell’ultimo caso menzionato) nella istituzione del fondo non si ponga il problema della tutela dei creditori della SGR potenzialmente pregiudicati dalla separazione patrimoniale, risolto nel patrimonio destinato con il diritto di opposizione di cui all’art. 2447-quater, co. 2, c.c. Il parallelo con i patrimoni destinati è comunque, per altri fini, presente anche nella sentenza della Corte Suprema citata a nt. 17. 16 Peraltro, anche se si dovesse ritenere corretta l’estensione analogica dell’art. 2447-quater, co. 1, c.c., rimarrebbe il problema dei fondi istituiti con delibera anteriore all’introduzione della norma citata, sicché ben difficilmente si potrebbe giungere ad una soluzione del tutto soddisfacente con i soli strumenti dell’interpretazione dell’attuale quadro normativo.

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sivo in quale dei diversi fondi da essa gestiti debba confluire l’apporto: vi sono di ostacolo sia l’impossibilità di emettere quote a fronte dell’apporto finché il fondo non venga individuato, con conseguente carenza di un elemento essenziale dell’atto di apporto, sia la non risolvibilità del problema del difetto della dichiarazione di nomina nel termine stabilito, non potendo in tal caso concepirsi un apporto al patrimonio generale della SGR in applicazione analogica dell’art. 1405 c.c. 17. Sotto il secondo profilo la necessità di identificazione concerne sia la SGR che ha istituito il fondo interessato dall’apporto sia, ove diversa, la SGR che lo gestisce.

5. La partecipazione della SGR all’atto di apporto. Premesso che dall’atto di apporto (o dai relativi allegati) deve risultare la SGR istitutiva del fondo e, se diversa, quella che lo gestisce, occorre chiarire quale delle due società, se diverse, abbia il potere di partecipare all’atto di apporto al fine di acconsentirvi ed emettere le quote di partecipazione al fondo, oltre a convenire ogni altra pattuizione accessoria.

17. Nel caso alla base di Cass., 15 luglio 2010, n. 16605, in Giur. it., 2011, 331, con nota di Boggio, Fondi comuni di investimento, separazione patrimoniale, interessi protetti e intestazione di beni immobili, ivi, p. 333 ss., in Società, 2011, 1057, con commento di Sansone, La natura giuridica del fondo comune di investimento: una questione superata?, ivi, p. 1058 ss., e in Giur. comm., 2011, 1128, con note di Scano, Fondi comuni immobiliari e imputazione degli effetti dell’attività di investimento, ivi, p. 1133 ss., e di Ghigi, Separazione patrimoniale e fondi comuni di investimento, ivi, p. 1146 ss., la SGR aveva dichiarato di partecipare all’incanto per la vendita di immobili al miglior offerente “per conto di uno o più fondi da essa gestiti”, procedendo alla “nomina” del fondo soltanto al momento del versamento del prezzo dopo l’aggiudicazione. Secondo Boggio, op. cit., 339, che si richiama sul punto a Ferri jr, Patrimonio e gestione. Spunti per una ricostruzione sistematica dei fondi comuni di investimento, in Riv. dir. comm., 1992, I, p. 77 ss., la SGR “ha il dovere di procurare…l’immediata efficacia del regime di separazione patrimoniale a tutela dei partecipanti al fondo” e “non può lecitamente rimandare ad un secondo momento il compimento delle formalità pubblicitarie per rendere opponibile ai terzi l’esistenza della separazione patrimoniale”. Sostanzialmente nello stesso senso, pur nel quadro di una diversa impostazione, Scano, op. cit., p. 1143 s., testo e nt. 47, per il quale, se la partecipazione all’incanto per conto di uno dei fondi gestiti può essere “sufficiente…ai fini di comunicare ai terzi che nel caso concreto il soggetto [la SGR] non intende riversare gli effetti del negozio nel proprio patrimonio”, la designazione del fondo interessato “non deve essere solo genericamente anticipata, ma per tempo realizzata: e ciò… non può dirsi avvenuto nel caso di specie, in considerazione… del suo compiersi posteriormente all’aggiudicazione”.

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Anche quando la dissociazione tra istituzione e gestione del fondo sia prevista ab origine, varie indicazioni normative mostrano che il collegamento del fondo con la SGR che lo istituisce non è meramente genetico, ma permane per tutta la sua durata. In primo luogo, nell’art. 36, co. 4 e 5, t.u.f. si legge che nell’esercizio delle proprie “funzioni” la società promotrice e istitutrice del fondo agisce in modo indipendente rispetto al gestore (ove diverso) e alla banca depositaria ed assume con il gestore responsabilità solidale verso i partecipanti per l’adempimento degli obblighi posti a carico di tali soggetti: ciò per tutta la durata del fondo 18. In secondo luogo, con il sancire che la durata del fondo “non può in ogni caso essere superiore al termine di durata della SGR che li ha promossi e istituiti”, l’art. 6 d.m. 228/1999 conferma l’esistenza di un legame stretto e costante tra fondo e SGR che lo istituisce, evincendosi che il fondo, salve le eccezioni consentite19, non può sopravvivere al soggetto che lo ha costituito: il che, tra l’altro, rappresenta il più forte argomento a favore della tesi, di recente accolta dalla Cassazione 20, che

18.

Sui differenti modelli organizzativi del fondo e sul ruolo permanente della SGR che lo istituisce cfr. Miola (e Briolini), in Testo unico della finanza. Commentario diretto da Campobasso, 1, Intermediari e mercati, Torino, 2002, sub art. 36, p. 321 ss. 19. Si pensi all’incorporazione o alla scissione della SGR istitutrice a favore di altra SGR (incorporante/beneficiaria) che ne “eredita” la posizione; o alla fusione tra fondi di diverse SGR ai sensi dell’art. 36, co. 7, t.u.f. e del reg. BI 14 aprile 2005 (tit. V, cap. V) quando ne derivi la sostituzione della SGR istitutrice; o ancora alla “sostituzione della società promotrice” che fosse espressamente prevista dal regolamento del fondo (reg. BdI 14 aprile 2005, tit. V, cap. I, 4.1.2) o che venisse deliberata dall’assemblea dei partecipanti ai sensi dell’art. 37, co. 2-bis, t.u.f. (su cui cfr. Carrière, Problemi aperti di fund governance dei fondi chiusi, in RDS, 2011, p. 39 ss.). È bene precisare che in tutte queste vicende il fondo non si svincola da un rapporto continuo e necessario con una società avente il ruolo della SGR istitutrice; semplicemente si verifica il mutamento (della titolarità) della “posizione organizzativa” (cioè dell’insieme dei poteri, doveri e responsabilità) quale spettante alla SGR promotrice/istitutrice (a quella originaria subentra un’altra) in base alle norme vigenti e al regolamento del fondo interessato: sicché l’eventuale modifica dell’imputazione del fondo (v. il testo e la nota successiva) si realizza soltanto come conseguenza di tale mutamento organizzativo, e non già quale effetto perseguito con un atto traslativo da soggetti rispettivamente interessati e miranti ad alienare e ad acquistare una determinata massa patrimoniale. 20. Cass., 15 luglio 2010, n. 16605, cit., favorevolmente annotata sul punto da Boggio, op. cit., p. 334 ss., da Ghigi, op. cit., p. 1150 ss., e da Sansone, op. cit., p. 1062 ss., ai quali si rinvia per ulteriori riferimenti e per il quadro delle teorie ricostruttive della natura del fondo comune d’investimento. Critico, invece, il commento di Scano, op. cit., p. 1134 ss., per il quale il fondo rappresenta un autonomo centro di imputazione di situazione

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porterebbe ad identificare nella SGR costituente il soggetto “destinatario” dell’apporto, in quanto l’apporto confluirebbe in una massa patrimoniale imputabile alla SGR istitutrice, sebbene totalmente separata sia dal suo patrimonio generale sia dalle eventuali altre masse costituite per effetto dell’istituzione di altri fondi 21. In terzo luogo l’art. 39, co. 1, t.u.f. è esplicito nell’attribuire al regolamento del fondo la competenza a definire la ripartizione dei compiti tra società promotrice e società gerente, se diversa dalla prima. Ne deriva che la risposta al quesito posto – quale SGR debba prendere parte all’atto di apporto – deve cercarsi innanzitutto nel regolamento del fondo, dal quale si dovrebbe sempre ricavare quali poteri e doveri (ulteriori rispetto a quelli di fonte normativa) sono posti in capo alla SGR promotrice/ costituente e come essi si coordinino con quelli spettanti alla SGR che gestisce il fondo, ove diversa dalla prima, nonché con quali modalità nei fondi immobiliari “gli investitori sottoscrivono le quote mediante il conferimento di beni immobili, diritti reali immobiliari e partecipazioni in società immobiliari” 22.

giuridiche, pur non costituendo soggetto a sé stante (sempre che sia possibile attribuire alla soggettività giuridica un significato ulteriore o diverso rispetto a quello kelseniano di individuazione di un centro di imputazione di situazioni giuridiche). 21. Chi pensasse di ridimensionare la portata dell’art. 6 d.m. 228/1999 con l’osservare che la norma citata esprime soltanto l’esigenza che nell’interesse degli investitori il programma venga realizzato da chi l’ha promosso ed iniziato, pur concernendo un patrimonio che nella sua “vita” non è imputabile, riconducibile o altrimenti “legato” alla SGR promotrice, dovrebbe chiarire perché mai soltanto qui viene avvertita un’esigenza di questo tipo: non risulta, infatti che per la costituzione di soggetti giuridici (o autonomi centri di imputazione) per l’esercizio di un’attività, da chiunque promossi e destinati a raccogliere investimenti e finanziamenti di altri soggetti, si sia mai avvertita l’esigenza di parametrare la “vita” di tali soggetti (la persistenza di tali centri di imputazione) a quella dei promotori: chi è davvero (soggetto/centro di imputazione) autonomo, è fornito dall’ordinamento dei mezzi giuridici per sopravvivere a chi l’ha creato e a chiunque altro, finché perdurano gli interessi che ne giustificano l’esistenza. 22. V. reg. BdI 14 aprile 2005, tit. V, cap. I, 4.1.1 e 4.2.2. Dal regolamento si ricavano denominazione, durata e caratteristiche del fondo, individuazione delle SGR costituente e gerente, indicazione delle modalità di svolgimento del rapporto nei confronti dei partecipanti al fondo, criteri di gestione del fondo e degli investimenti e quant’altro stabilito dall’art. 39 t.u.f. È quindi assai opportuno che tale documento, oltre a dover essere esaminato dal notaio rogante per la redazione e/o il controllo dell’atto, venga allegato all’atto di apporto o almeno che ivi l’apportante se ne dichiari a conoscenza. Sul regolamento del fondo cfr., da ultimo, Leggieri, Commento all’art. 39, in Il Testo Unico della Finanza, a cura di Fratini e Gasparri, t. I, p. 592 ss.

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6. Il tempo dell’apporto. Non si può peraltro escludere che il regolamento di uno specifico fondo non contenga esplicite indicazioni su chi debba intervenire negli atti di apporto. Di primo acchito verrebbe da optare per una soluzione diversa a seconda che si tratti di apporto “in fase costitutiva” ovvero “in fase successiva” (art. 37, co. 1, lett. d-bis, t.u.f.; art. 12-bis, co. 3, d.m. 228/1999): nella prima ipotesi parrebbe coerente affermare la competenza della SGR promotrice/costituente, mentre nella seconda ipotesi, a costituzione ormai avvenuta, potrebbe sembrare logico riconoscere la competenza della SGR che gestisce il fondo. Ma si tratta di vedere se questa prima impressione meriti conferma al termine di un’analisi dei dati emergenti dalla normativa di settore. La realizzazione dell’apporto in fase costitutiva, ovvero in fase di prima emissione delle quote di partecipazione, presuppone che la SGR promotrice abbia adottato la delibera istitutiva del fondo e che Banca d’Italia abbia approvato il relativo regolamento (art. 39, co. 3, t.u.f.) 23. L’approvazione del fondo da parte dell’Autorità di vigilanza potrebbe in alcuni casi avvenire “in via generale” (art. 39, co. 3-bis, t.u.f.), cioè non richiedere un apposito provvedimento; tuttavia la vigente normativa regolamentare dell’autorità di vigilanza per lo più non rinuncia all’approvazione specifica dei singoli fondi, ma prevede la distinzione tra tempi ordinari di approvazione (i quali comunque si giovano del silenzioassenso, decorsi tre mesi dalla presentazione senza provvedimento di diniego, come prevede il citato co. 3-bis dell’art. 39 t.u.f.) e tempi più contenuti (sessanta giorni) per i regolamenti redatti secondo “schemi riconosciuti”, cioè “secondo schemi di testo ritenuti compatibili con le vigenti disposizioni di Banca d’Italia” 24.

23.

In generale è ricorrente l’affermazione secondo cui soltanto dopo l’approvazione del regolamento si può procedere alla raccolta del risparmio fra il pubblico attraverso il collocamento dei documenti rappresentativi delle partecipazioni al fondo: cfr., ad es., Costi, Il mercato mobiliare7, Torino, 2010, p. 190. 24. Lo stesso vale per i c.d. schemi semplificati di fondi aperti: cfr. reg. BdI 14 aprile 2005, tit. V, cap. II, nella premessa alla sez. I, e – per i termini abbreviati – nella sez. II, 2. I termini sono peraltro suscettibili di interruzione e sospensione. I soli fondi “riservati”, in presenza delle condizioni di cui al tit. V, cap. II, sez. II, par. 2, sono suscettibili di approvazione in via generale, fermo restando il potere di Banca d’Italia di vietare l’istituzione del fondo, per ragioni connesse alla situazione patrimoniale, reddituale, finanziaria o organizzativa della SGR, indipendentemente dall’approvazione “in via generale” del relativo regolamento.

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Non pare dubbio che l’approvazione di Banca d’Italia condizioni l’efficacia della delibera istitutiva. E ciò comporta anche la momentanea inefficacia di un atto di apporto che fosse stipulato dopo la delibera istitutiva del fondo, che implica l’adozione del relativo regolamento, ma prima della necessaria approvazione di quest’ultimo da parte dell’autorità di vigilanza. Tuttavia, in questo lasso di tempo è perfettamente concepibile un atto di apporto sottoposto alla condizione sospensiva non retroattiva dell’approvazione del regolamento del fondo, con conseguente efficacia del trasferimento dei beni apportati e correlata emissione delle quote di partecipazione differite alla realizzazione dell’evento descritto 25: nel qual caso all’atto di apporto non potrebbe che intervenire la SGR promotrice, poiché la SGR (futura) gerente ricava i propri poteri dalla delibera istitutiva del fondo, al momento inefficace. Una volta intervenuta l’approvazione del regolamento, invece, l’apporto in fase costitutiva potrebbe essere considerato tanto un elemento della fattispecie costitutiva, con conseguente partecipazione all’atto della SGR costituente, quanto un primo atto di gestione successivo alla costituzione, con conseguente partecipazione all’atto della SGR gerente. La prima opzione trova conforto nella constatazione che prima dell’apporto non c’è alcun fondo, la cui esistenza come fondo “comune”, anzi, richiederebbe la pluralità dei partecipanti 26. La seconda opzione trae sostegno dalla possibilità che il concetto di gestione del fondo venga ampliato sino a comprendere ogni atto idoneo alla determinazione della sua consistenza iniziale e successiva, allora potendo includervi anche il primo atto di apporto 27. Invero si possono identificare due nozioni di “costituzione” del fondo. Una prima nozione attiene alla creazione dei presupposti per la separazione patrimoniale e per l’insorgenza dei rapporti di partecipazione:

25

Sull’apporto sottoposto a condizione v. infra, par. 8. Cfr. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare5, Torino, 2010, p. 190 s. Osserva peraltro V. Troiano, op. cit., p. 571 s., che la normativa fiscale (art. 32, co. 3, d.l. 31 maggio 2010 n. 78, come modificato dall’art. 8, co. 9, lett. b, d.l. 13 maggio 2011 n. 70, convertito con modificazioni dalla l. 12 luglio 2011 n. 106) sembrerebbe ammettere la configurabilità di fondi con un unico partecipante in casi particolari (c.d. fondi istituzionali). 27. Infatti, per l’art. 14-bis, co. 1, l. 86/1994 “le quote del fondo possono essere sottoscritte, entro un anno dalla sua costituzione, con apporto di beni immobili…” da parte dello Stato, di enti pubblici e di società interamente possedute dagli stessi: dunque, per tale disposizione gli apporti sembrano situarsi al di fuori dell’ambito strettamente costitutivo. 26.

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essa si ricollega alla delibera istitutiva e alla successiva approvazione del regolamento da parte di Banca d’Italia, e niente vieta di ritenere che la SGR gerente, se diversa da quella promotrice, già da questo momento acquisti i poteri ad essa destinati. Una seconda nozione si incentra sulla creazione della massa patrimoniale separata (con una pluralità di partecipanti): questa seconda nozione finisce per ricondurre alla fase costitutiva tutti gli atti di apporto, anche quelli effettuati in fase successiva alla prima emissione 28, rispetto ai quali, pertanto, non risulta incongruo riconoscere e mantenere il ruolo propulsivo della SGR costituente, accanto a quello della SGR gerente. In definitiva, se il regolamento non dovesse risolvere il dilemma, può affermarsi che, ad avvenuta approvazione del regolamento del fondo, entrambe le SGR, promotrice e gerente, godono della legittimazione (concorrente e disgiuntiva) a partecipare agli atti di apporto, sia in fase di prima emissione delle quote di partecipazione sia in fase successiva 29.

28.

Nei tempi stabiliti dal regolamento del fondo entro i limiti di cui all’art. 14, co. 2, d.m. 228/1999: ventiquattro mesi dall’approvazione del regolamento. 29. Totalmente indipendente dalla soluzione del problema di cui al testo è quello della individuazione delle modalità con cui effettuare la trascrizione dell’apporto di beni immobili nei competenti registri. La migliore soluzione in astratto di quest’ultimo problema sarebbe la diretta trascrizione a favore del fondo, poiché di ciò si dovrebbe dare conto ai terzi interessati alla circolazione del bene: del patrimonio (autonomo) nel quale esso confluisce. Non dovrebbero invece occuparsi i registri immobiliari della individuazione del soggetto dotato del potere di decidere gli atti gestori del fondo e della legittimazione a compiere atti giuridici con effetto sulla consistenza del fondo: di ciò altrove dovrebbero rinvenirsi idonee informazioni (si confronti il caso di specie con quello dell’acquisto di un immobile da parte di un minore o di una società: la trascrizione individua il patrimonio in cui il bene entra, non già i soggetti – genitori, tutore, amministratori – cui compete il potere gestorio e rappresentativo; per questi ultimi soccorrono altri sistemi pubblicitari). Sennonché per un verso, pur rilevando l’effetto sulle masse patrimoniali coinvolte (cfr. Gazzoni, La trascrizione immobiliare2, t. I, Milano, 1998, p. 101 s.), la trascrizione funziona su base soggettiva, con conseguente necessità di individuare il soggetto “a favore” del quale si realizza l’apporto. Per altro verso già si è evidenziato come manchi una sistema di pubblicità dei fondi in quanto tali, che permetta ai terzi di trarre informazioni verificate da autorità competenti sulla relativa regolamentazione, funzionamento, amministrazione, ecc. (v. par. 4). Sotto il primo profilo sembra, allora, che – alla luce di Cass., 15 luglio 2010, n. 16605, cit., e delle considerazioni svolte nel par. 5 – il “soggetto a favore” debba identificarsi sempre nella SGR che istituisce e promuove il fondo, ancorché diversa dalla SGR che lo gestisce e quantunque non fosse intervenuta nell’atto di apporto: ma si deve anche dare conto del suo essere destinataria dell’apporto in quanto costituente quel determinato fondo in cui il bene confluisce (SGR X per il fondo Y). Sotto il secondo profilo è bene che la nota di trascrizione contenga idonee informazioni, ove possibile (quadro D), per supplire alla mancanza di altri sistemi

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7. L’oggetto dell’apporto e la documentazione richiesta. Secondo l’art. 12-bis, co. 3, d.m. 228/1999, “la sottoscrizione delle quote del fondo immobiliare o delle quote di un comparto del fondo stesso può essere effettuata, ove il regolamento del fondo lo preveda, sia in fase costitutiva che in fase successiva alla costituzione del fondo, mediante conferimento dei beni di cui all’art. 4, co. 2, lett. d)”, del medesimo decreto, vale a dire di: “beni immobili, diritti reali immobiliari, e partecipazioni in società immobiliari, parti di altri fondi immobiliari, anche esteri” 30. Viene però da chiedersi se oggetto dell’apporto possano essere soltanto questi elementi patrimoniali – come parrebbe desumersi dalla lettera della disposizione 31 – o se, in una certa misura, sia consentito apportare elementi diversi dai precedenti (e dal denaro) 32. La norma va infatti confrontata con quanto dispone l’art. 37, co. 1, lett. d-bis, t.u.f., a proposito delle indicazioni da riportarsi nel regolamento del fondo su acquisti e conferimenti di beni, quando si tratti “di fondi che investano esclusivamente o prevalentemente in beni immobili, diritti reali immobiliari e partecipazioni in società immobiliari”. La riconosciuta ammissibi-

informativi idonei, segnalando anche chi al momento ricopra la posizione di SGR che gestisce il fondo. 30. Per società immobiliari si intendono le “società di capitali che svolgono attività di costruzione, valorizzazione, acquisto, alienazione e gestione di immobili” (art. 1, lett. g-bis, d.m. 228/1999). Le “partecipazioni”, dopo la riforma societaria del 2003, devono probabilmente ritenersi inclusive degli strumenti finanziari partecipativi; e per tale estensione depone anche l’aggiunta, tra i beni di tipo in senso lato “immobiliare” oggetto di conferimento, anche delle parti di (cioè delle quote di partecipazione a) fondi immobiliari, di evidente natura finanziaria. 31. Il cui contenuto opzionale, espresso nella struttura della frase dalle parole “la sottoscrizione può essere effettuata”, pare riferirsi al tempo della sottoscrizione (in fase costitutiva o successiva) e all’oggetto dell’apporto, ma sotto quest’ultimo profilo limitatamente alla liberazione delle quote in danaro (v. nota successiva): per quanto ai beni diversi dal danaro, la lettera della disposizione non sembra consentire alternative rispetto a quelle ivi riportate. 32. Non è dubbio che i fondi immobiliari, in quanto fondi chiusi, siano tra i destinatari dell’art. 14 d.m. 228/1999, e pertanto può sempre prevedersi che la relativa partecipazione si acquisisca “mediante versamento di un importo corrispondente al valore delle quote di partecipazione” (co. 1), cioè mediante apporto in denaro: in tal caso, e nel caso in cui gli apporti siano misti (parte in danaro, parte in beni di natura immobiliare), occorre che gli investimenti immobiliari siano effettuati e raggiungano le previste dimensioni in rapporto al patrimonio complessivo entro ventiquattro mesi dall’avvio dell’operatività del fondo (art. 12-bis, co. 2, d.m. 228/1999).

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lità di fondi “prevalentemente” immobiliari dovrebbe essere compatibile con apporti, in questi fondi, aventi un oggetto diverso da quanto specificato entro i limiti stabiliti per gli investimenti successivi: così come la gestione del fondo potrebbe svolgersi con criteri tali da aversi a regime (non più di) un terzo 33 del patrimonio complessivo rappresentato da beni diversi da quelli sopra menzionati, parallelamente dovrebbe sin dall’inizio essere ammissibile l’apporto di beni diversi purché in misura tale da non superare la soglia massima stabilita dalla normativa applicabile e in linea con il programma di investimento stabilito nel regolamento del fondo. L’interpretazione sistematica dovrebbe, pertanto, indurre a correggere l’ingannevole risultato di un’interpretazione meramente letterale dell’art. 12-bis, co. 3, d.m. 228/1999. Ciò premesso, con riguardo alla identificazione dell’apporto di natura immobiliare si assiste alla discutibile distinzione tra “beni immobili” e “diritti reali immobiliari”, come se a proposito dei primi si possa prescindere dalla identificazione del diritto sul bene confluito nel fondo: nel qual caso non si saprebbe quali facoltà siano esercitabili in relazione a tali beni dalla SGR gerente a beneficio dei partecipanti. Invero questa distinzione va con ogni probabilità risolta in quella tra diritto di proprietà, a cui la citazione dei beni immobili tout court intende alludere, e diritti reali su cosa altrui. Questi ultimi, a loro volta, sembrano da ritenersi limitati ai diritti reali di godimento (suscettibili di essere assoggettati alla programmata attività di investimento), poiché non sembra che la concessione di un diritto di ipoteca a garanzia del pagamento di debiti del fondo possa integrare una causa sufficiente per la sottoscrizione delle relative quote. Ne rimangono esclusi anche i diritti personali di godimento, dal momento che non si può pensare che questi ultimi siano ricompresi insieme al diritto di proprietà nel concetto di apporto di beni immobili come tali (per quale motivo si dovrebbero tenere distinti la proprietà e i diritti personali di godimento, da un lato, e i diritti reali su cosa altrui, dall’altro?) 34. La ragione di queste restrizioni sembra riposare su ciò, che

33.

In alcuni casi, non più del 49%: cfr., per i limiti dimensionali e i relativi presupposti di applicazione, l’art. 12-bis, co. 2, d.m. 228/1999. 34. Ne è ulteriore conferma l’espressa inclusione, tra i diritti immobiliari in cui possono investire i fondi in esame, in quanto riconducibili o assimilabili ai diritti reali, di “quelli derivanti da contratti di leasing immobiliare con natura traslativa e da rapporti concessori” (si sottintende: in capo all’utilizzatore e al concessionario): art. 1, co. 1, lett. d-bis, d.m. 228/1999. Va da sé che tali selezionati diritti su immobili vanno allora considerati anche inclusi tra i “diritti reali” che possono essere oggetto di apporto. Per

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gli esclusi apporti di natura immobiliare, pur potendo arrecare indubbie utilità al fondo e ai suoi partecipanti, non consentono al gestore del fondo di compiere atti di gestione produttiva (di reddito) e, all’occorrenza, di disinvestimento dei beni oggetto di apporto 35. Con riferimento agli apporti diversi dal danaro l’art. 12-bis, co. 3, d.m. 228/1999 contiene specifiche prescrizioni volte ad evitare per un verso la sopravalutazione dell’oggetto dell’apporto 36 e per altro verso l’acquisizione di beni non funzionali al programma stabilito e promosso. Sotto il primo profilo, con la sola eccezione degli apporti di beni negoziati in mercati regolamentati 37, il cui valore può più facilmente essere verificato alla luce delle rilevazioni ufficiali, si richiede una relazione di stima riferita a data non inferiore a trenta giorni rispetto alla data dell’atto, redatta da esperti indipendenti. In specie, la valutazione deve essere affidata dalla SGR competente ad una società ovvero ad un collegio di almeno tre persone fisiche dotate dei requisiti di cui all’art. 17 d.m. 228/1999. Sotto il secondo profilo si richiede, senza eccezioni, una valutazione di un intermediario finanziario (che potrebbe coincidere con l’esperto a cui è demandata la relazione di stima, se ne ha i requisiti) che accerti la compatibilità e la redditività dell’apporto rispetto alla politica di gestione del fondo in relazione all’attività di sollecitazione all’investimento svolta dal fondo stesso.

l’individuazione, nell’ambito dei contratti di leasing, di quelli aventi “natura traslativa”, qui richiamata per connotare di “realità” la posizione dell’utilizzatore, cfr., per tutte, Cass., 28 agosto 2007, n. 18195, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, 692, con nota redazionale ricca di riferimenti, e da ultimo Cass., 27 settembre 2011, n. 19732, in Foro it., 2012, I, 124. 35. Ovviamente ciò non esclude che quanto non sia apportabile da sé solo, confluisca nel fondo per effetto di vincoli di accessorietà e pertinenzialità con l’oggetto dell’apporto, come accadrebbe per i diritti personali di godimento spettanti su aree contigue o spazi condominiali al proprietario di un immobile conferito nel fondo. 36. Non anche, invece, la sua sottovalutazione, come afferma V. Troiano, op. cit., p. 578: gli esperti devono attestare che il valore dell’apporto “non è inferiore” rispetto alle quote sottoscritte, attestazione compatibile anche con una significativa superiorità del valore dell’apporto rispetto alle quote assegnate a fronte; l’intervento degli esperti è, dunque, a tutela non già della posizione dell’apportante, bensì di quella degli altri partecipanti (attuali e futuri) e, più in là, di tutti coloro che agiscono nel mercato in cui le quote vengono scambiate. 37. Il che può avvenire almeno, anche se non si dovessero ritenere ammissibili apporti diversi da quelli di natura immobiliare, per le partecipazioni (azioni e strumenti finanziari partecipativi) in società immobiliari e per le quote in altri fondi immobiliari.

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Non vengono determinate le conseguenze della inosservanza delle suddette prescrizioni formali: il dubbio è se la loro violazione determini l’invalidità dell’atto di apporto o la semplice responsabilità della SGR competente e dei relativi amministratori. Qualche elemento utile per indirizzare l’interprete può forse trarsi dal confronto tra la norma dell’art. 12-bis, co. 3, cit., e quella dell’art. 2343, co. 1, c.c., concernente la relazione di stima dei conferimenti in natura nella s.p.a. Quest’ultima disposizione prevede che la relazione di stima debba essere presentata dal conferente e allegata all’atto costitutivo, divenendone parte integrante. Invece la prima disposizione non pone un legame altrettanto stretto tra atto di conferimento e documentazione a supporto (relazione dell’esperto e valutazione dell’intermediario): essa si limita a porre una regola di condotta della SGR competente e dei relativi amministratori con l’esigere che “il fondo immobiliare nel caso di conferimenti deve: a) acquisire…un’apposita relazione di stima…; b) acquisire la valutazione di un intermediario…”; né se ne dispone l’allegazione all’atto di apporto (ancorché tale allegazione, o almeno un richiamo in atto dell’avvenuta acquisizione della documentazione in parola, sia senz’altro opportuna), bensì la messa della relazione di stima a disposizione di ogni interessato, anche dopo la realizzazione dell’apporto, con le modalità stabilite nel regolamento del fondo 38. Tutto ciò induce a pensare che le violazioni di queste regole di condotta, se certamente si traducono in responsabilità di chi gestisce il fondo e i rapporti con i partecipanti, non causano anche necessariamente ed automaticamente l’invalidità o l’inefficienza dell’atto di apporto 39, sanzione che sarebbe spesso controproducente per gli altri interessati al fondo, ma piuttosto l’esigenza di un eventuale riequilibrio nel rapporto di partecipazione: un obbligo di integrazione dell’apporto che fosse stato sopravalutato o una corrispondente riduzione delle quote emesse a fronte, se non siano state ancora oggetto di circolazione.

38.

Così l’art. 3, co. 5-bis, d.m. 228/1999, ove la stessa distinta indicazione, in ordine a tali forme di pubblicità, delle relazioni di stima e degli atti di conferimento, sembra confermare la non indispensabilità dell’allegazione della relazione di stima all’atto di apporto. 39. E ciò particolarmente per quanto attiene alla valutazione della coerenza dell’apporto con la politica di gestione del fondo, il cui difetto o i cui vizi non dovrebbero mai ricadere su di un apportante incolpevole e inconsapevole. Tuttavia anche per la relazione di stima va ricordato che nella stessa s.p.a. si ritiene che la sua omissione non comporti la nullità dell’atto costitutivo o del conferimento (salvo che ne risulti indeterminato l’oggetto), bensì la mancanza di una condizione per l’iscrizione nel registro delle imprese: sul punto cfr. Miola, I conferimenti in natura, in Tratt. soc. per az., diretto da Colombo e Portale, 1***, Torino, 2004, p. 448 ss.

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8. L’esecuzione dell’apporto e la variante dell’apporto condizionato. Sul piano della esecuzione dell’apporto viene da chiedersi se esso debba condurre ad una immediata confluenza del bene-oggetto nel fondo o se siano ammessi anche apporti ad effetti obbligatori o ad effetti reali differiti (es. apporto di beni futuri, di beni altrui, apporti sottoposti a termine iniziale o a condizione sospensiva). Mentre per le quote da liberarsi mediante versamenti in danaro indicazioni chiare sull’esecuzione del conferimento provengono dall’art. 14, co. 5, d.m. 228/1999 40, nulla si legge relativamente agli apporti “in natura”. Benché non sia possibile invocare in via analogica il principio di liberazione immediata tipico delle società di capitali (strettamente connesso al principio di integrità del capitale, assente nei fondi comuni), il complesso della normativa applicabile e la necessità di tutelare l’affidamento dei terzi nella circolazione delle quote di partecipazione al fondo non sembrano consentire l’assegnazione di quote e il riconoscimento dei diritti patrimoniali/amministrativi ad esse connessi se non a fronte della entrata nel fondo degli immobili, dei diritti reali immobiliari o delle partecipazioni oggetto dell’apporto 41: la mera assunzione di un obbligo di conferire non pare a tal fine sufficiente. Se gli effetti reali dell’apporto vengono differiti, occorre pertanto procedere ad identico differimento dell’emissione e dell’assegnazione delle corrispondenti quote entro il termine massimo consentito dall’art. 14, co. 2, d.m. 228/1999 e dal regolamento del fondo. Tale differimento, peraltro, deve tenere conto della esigenza normativa che la relazione di stima sia aggiornata a data non inferiore a trenta giorni: il termine è rapportato alla data dell’atto poiché presuppone la contestuale entrata del bene nel fondo; ma, se l’entrata viene differita, la valutazione in essa contenuta potrebbe risultare superata da fatti in-

40. Vi si prevede che il versamento va effettuato entro il termine stabilito nel regolamento del fondo e, in caso di fondi riservati, anche in più soluzioni purché il sottoscrittore si impegni a versare a richiesta della SGR in base alle esigenze di investimento del fondo. 41. Tra l’altro, la stessa esigenza che i beni siano stimati comporta una implicita restrizione, nel senso che viene impedito l’apporto di beni, ad esempio quelli futuri, pur in astratto conferibili, nella misura in cui questi, proprio in quanto non ancora esistenti, risultino non adeguatamente valutabili. Sulla idoneità della relazione di stima a selezionare l’oggetto dei conferimenti, limitandoli a quelli suscettibili di un’attendibile valutazione economica, cfr., per tutti, Miola, I conferimenti in natura, cit., p. 37 s., testo e nt. 85.

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tervenuti nel periodo, ben più lungo di trenta giorni, intercorrente tra il giorno di riferimento della stima e il giorno in cui il fondo si accresce del bene apportato. Viene da osservare che il rischio di eventi sopravvenuti che potrebbero imporre un aggiornamento della stima è in una certa misura inevitabile (anche nei trenta giorni) e può essere fronteggiato richiamando l’obbligo della SGR competente a vigilare sulla perdurante adeguatezza della stima in presenza di nuovi fatti incidenti sulla stessa e rilevabili anche da non esperti in materia. Ma ciò non toglie che la stessa posizione di un preciso termine di “validità” della stima dovrebbe comportare la necessità di procedere ad una verifica della stima (cioè di persistenza della sua idoneità a soddisfare le finalità di legge), se si superano i trenta giorni di tolleranza. Sotto questo profilo potrebbe essere doveroso – per non incorrere nelle conseguenze individuate nel par. 7 – condizionare l’efficacia dell’atto di apporto ad un aggiornamento della relazione di stima con conferma della relativa valutazione, o in caso contrario con proporzionale riduzione delle quote emesse a fronte, onde non tradire, nella sostanza, la portata dell’art. 12-bis, co. 3, lett. a, d.m. 228/1999. Più precisamente tale aggiornamento si rende doveroso nei casi di apporto a termine iniziale e con condizione sospensiva non retroattiva: casi nei quali né il bene né le relative utilità entrano nel fondo prima del verificarsi dell’evento. L’aggiornamento della stima non sembra, invece, necessario in caso di condizione sospensiva retroattiva, poiché la realizzazione dell’evento qui determina una situazione corrispondente all’apporto immediato: il bene e i relativi frutti si imputano al fondo a partire dalla data dell’atto di apporto 42. In questa cornice va, ad esempio, inquadrato l’apporto di immobili di interesse storico, culturale, artistico soggetti a prelazione dello Stato, e pertanto non suscettibili di entrare nel fondo finché non spira il termine per l’esercizio della prelazione di cui all’art. 60 d.lgs. 42/2004. Per un verso, l’emissione ed attribuzione delle quote all’apportante dovrà essere sottoposta ad identica condizione, a meno che non si convenga di liberare le quote con danaro (o altri beni nei limiti consentiti, purché

42. Se poi si ha cura di disciplinare, nell’atto di apporto, le modalità di amministrazione del bene nel periodo di pendenza della condizione in modo da salvaguardare l’interesse del fondo beneficiario e del relativo programma di gestione, la situazione non presenterebbe apprezzabili differenze e rischi rispetto all’apporto con efficacia immediata: salvo, ovviamente, il rischio della mancata realizzazione dell’evento condizionante, fronteggiato dall’identica condizione apposta all’emissione e all’assegnazione delle quote.

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debitamente stimati) per il caso che la prelazione venga esercitata: un apporto alternativo, dunque, sottoposto alla condizione risolutiva del mancato esercizio della prelazione, con conseguente efficacia dell’apporto immobiliare principale. Per altro verso, la relazione di stima, che si riferisse a data anteriore per più di trenta giorni rispetto alla verifica dell’evento condizionante (riscontro del mancato esercizio della prelazione nel termine di legge), non richiederebbe un aggiornamento per conferma, con apposizione di una ulteriore condizione, se – come generalmente accade in questi casi – la condizione sospensiva opera retroattivamente, a far data dall’atto di apporto, con piena spettanza, al fondo, di ogni frutto e utilità nel frattempo maturati.

9. L’accollo di debiti connessi con l’oggetto dell’apporto. Di frequente capita di constatare l’inserimento, negli atti di apporto, di clausole finalizzate a realizzare l’accollo, al fondo, di debiti connessi all’oggetto dell’apporto. Potrebbe trattarsi, ad esempio, di debiti contratti dall’apportante per la gestione e la manutenzione degli immobili apportati o di debiti inerenti alle partecipazioni apportate, come i debiti da mancata esecuzione integrale dei conferimenti in danaro nella società immobiliare partecipata. Potrebbe anche trattarsi di debiti garantiti da diritti reali (ipoteca su immobili, pegno su partecipazioni) gravanti sul bene oggetto dell’apporto: il che particolarmente giustifica l’accollo in capo a chi, dopo l’apporto, sopporterebbe le conseguenze del mancato pagamento, con il rischio di escussione delle garanzie reali. Va da sé che in tali casi, ai fini della determinazione delle quote emesse a fronte, occorrerà considerare il valore netto dell’apporto, defalcando dal valore del bene l’importo del debito accollato. Qualche riflessione merita l’accollo di debiti che non hanno alcun rapporto con il bene apportato diverso da quello che deriva dalla costituzione della garanzia reale e che originano da finanziamenti effettuati a favore dell’apportante poco prima dell’atto di apporto: in tali finanziamenti già si prevede che, a seguito dell’apporto e dell’accollo del debito ex mutuo al fondo, l’apportante sarà liberato e il contratto di finanziamento svolgerà i propri effetti soltanto nei confronti del fondo. In questi casi l’effetto ultimo non differisce da quello che si sarebbe verificato se il finanziamento fosse stato fin dall’inizio accordato al fondo ed impiegato per l’acquisto di parte dei beni ivi apportati. Infatti l’apportante, a fronte dei beni conferiti, in parte riceve le quote emesse ed in parte si soddisfa conservando definitivamente il danaro ricevuto con il finanzia-

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mento, senza dover più restituire alcunché: non diversamente da ciò che sarebbe avvenuto se il finanziamento fosse stato direttamente accordato al fondo e questi lo avesse impiegato per pagare il prezzo d’acquisto di parte dei beni conferiti. Se il finanziamento in ultima analisi ricade sul fondo e gli permette di “comprare” parte dei beni apportati, occorre evitare che l’operazione così articolata porti alla elusione di norme che dovessero limitare l’assunzione di finanziamenti da parte del fondo o i relativi acquisti. Segnatamente viene in considerazione l’art. 12-bis, co. 7, d.m. 228/1999, per il quale i fondi immobiliari (non speculativi) possono assumere prestiti sino ad un valore del sessanta per cento del valore degli immobili, dei diritti reali immobiliari, delle partecipazioni in società immobiliari e delle parti di fondi immobiliari, e del venti per cento degli altri beni ivi esistenti: ai fini del raggiungimento e dell’eventuale superamento delle predette soglie occorre allora conteggiare anche i finanziamenti indirettamente assunti mediante gli accolli sopra descritti. Quanto precede aiuta anche a confermare l’interpretazione che già conforta la lettera dell’art. 12-bis, co. 4, d.m. 228/1999, là dove si fa divieto di compiere operazioni di cessione, conferimento e acquisto con soci della società di gestione del fondo o delle società che fanno parte del relativo gruppo di appartenenza oltre i limiti dimensionali stabiliti mediante un rapporto tra il valore dei beni interessati e il valore dell’intero fondo: anche in forza di quanto sopra rilevato non v’è da dubitare che il valore dei beni apportati da questi soggetti deve essere inteso come equivalente al valore dell’apporto (non già al netto, bensì) al lordo dei debiti accollati.

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I sistemi organizzati di negoziazione nella proposta di revisione della MiFID: un primo raffronto con le altre sedi di negoziazione* Sommario: 1. Premessa. – 2. Definizione e principali caratteristiche. Sviluppo dell’indagine. – 3. Le fattispecie “mercato regolamentato” e “sistema multilaterale di negoziazione”. – 4. Raffronto tra sistema organizzato di negoziazione, mercato regolamentato e sistema multilaterale di negoziazione: il ruolo della “discrezionalità”. – 4.1. Discrezionalità e regole di comportamento. Ai confini tra mercato e servizio d’investimento. – 5. In house matching, sistema organizzato di negoziazione, internalizzatore sistematico.

1. Premessa. «Per quanto le borse tendano ad attuare un monopolio o quasi, di fatto o di diritto, esse devono subire la concorrenza, più o meno intensa, di istituzioni similari, più o meno tollerate, e delle banche, come pure del commercio fuori borsa. Un’esperienza ormai più che secolare ha dimostrato (…) che, ad onta di tutte le proibizioni, il mercato libero finisce quasi sempre per ricostituirsi, in una forma qualsiasi, e tanto più presto, quanto più si intensifichi il monopolio del mercato ufficiale» 1. Così era un secolo fa quando a «Nuova York il commercio dei valori fuori borsa si pratica[va] di giorno, la sera e a notte tarda nei fondachi e in alcuni grandi alberghi, nei clubs, dotati, come le banche, le agenzie di affari, le redazioni dei giornali, ecc., di apparecchi automatici, che segna[va]no via via i corsi di borsa, e dotati pure di telefoni e di quanto [potesse] facilitare la trasmissione di ordini…»; in Russia, «ad onta delle

* Le opinioni espresse dall’autore sono personali e non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza (Consob). 1 De Pietri Tonelli, La Borsa, Milano, 1928, p. 73.

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pene inflitte dal governo dei sovietti russi, nelle “borse sotterranee” di Leningrado e di Mosca si [continuava] a contrattare…»; ad «Atene, ad onta delle minacce di morte fatte ai direttori di banca, implicati in operazioni di speculazione sui cambi, queste non si sono impedite»; a «Vienna mentre i sensali giurati opera[vano] nei loro stalli, quelli liberi fa[cevano] molti affari nella Kulisse; in Germania, «durante l’inflazione la limitazione del commercio dei cambi a favore della Reichsbank ha fatto prosperare, ad onta delle persecuzioni della polizia, la “borsa nera” in cui gli israeliti facevano operazioni di cambio a miglior mercato e senza limiti» 2. E così, in una prospettiva analoga, si ripete oggi. Nonostante la direttiva MiFID abbia fortemente rivoluzionato il mercato degli strumenti finanziari, bilanciando l’eliminazione della regola della concentrazione degli scambi 3 con la regolamentazione delle alternative trading venues che con il tempo si erano via via diffuse (sistemi multilaterali di negoziazione, internalizzatori) 4, molte delle contrattazioni finanziarie

2

De Pietri Tonelli, La Borsa, cit., p. 74 ss. La possibilità, per gli stati membri, di disporre che «le transazioni relative ai servizi di investimento siano eseguite su un mercato regolamentato» era prevista all’art. 14, par. 3, dir. 93/22/CE (direttiva ISD). Il legislatore italiano – confermando la scelta operata dall’art. 11 l. n. 1/1991 – aveva esercitato tale facoltà e attribuito alla Consob il potere di «disciplinare con regolamento le ipotesi in cui la negoziazione degli strumenti finanziari trattati nei mercati regolamentati italiani deve essere eseguita nei mercati regolamentati» (v. art. 21, co. 2, d.lgs. n. 415/1996, poi confluito all’art. 25, co. 2, t.u.f.). La Consob, a sua volta, aveva provveduto a regolamentare la concentrazione degli scambi all’art. 7 Reg. mercati n. 11768/1998. Il d.lgs. n. 164/2007, adeguandosi alle disposizioni della direttiva MiFID (che non ripropone più la regola prevista all’art. 14, par. 3, dir. 93/22/CE), ha modificato l’art. 25 t.u.f., eliminando la regola di cui al previgente comma 2. Cfr., per tutti, Capriglione, Intermediari finanziari, investitori, mercati. Il recepimento della MiFID. Profili sistematici, Padova, 2008, p. 221 ss. e 250 ss.; sulla previgente regola della concentrazione degli scambi cfr. Giudici, La regola della concentrazione e il diritto antitrust, in Ferrarini e Marchetti, a cura di, La riforma dei mercati finanziari. Dal decreto Eurosim al Testo Unico della Finanza, a cura di Ferrarini e Marchetti, Roma, 1998, p. 549 ss.; Onado, Mercati e intermediari finanziari, Bologna, 2000, p. 486 ss.; Brancadoro, Strumenti, cit., p. 198 ss.; Cirillo, sub art. 25, in Commentario al Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, Padova, 1998, vol. I, p. 26 ss.; Briolini, sub art. 25, in Testo unico della finanza, commentario diretto da Campobasso, Torino, 2002, vol. 1, Intermediari e mercati, p. 229 ss. 4. Sulla frammentazione del mercato degli strumenti finanziari così come determinatasi in seguito alla MiFID e sui rapporti tra aree di negoziazione vigilate e aree OTC cfr., di recente, l’analisi di Fioravanti e Gentile, L’impatto della frammentazione degli scambi azionari sui mercati regolamentati europei, in Quaderni di Finanza della Consob, n. 3.

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si svolgono tuttora in sedi di negoziazione – non illecite come le borse “sotterranee” o “nere” della Leningrado di un secolo fa, ma altrettanto “oscure”, tanto da meritarsi l’appellativo di “dark pools” – che sfuggono all’ambito di applicazione della direttiva MiFID o beneficiano di esenzioni dal regime di trasparenza pre-trade 5. Ne è consapevole lo stesso legislatore europeo che, a soli pochi anni dall’entrata in vigore della direttiva MiFID, è pronto a nuove misure d’intervento. Il 20 ottobre 2011 la Commissione europea, infatti, – alla luce di alcune “consulenze tecniche” rese nel 2010 dal Comitato delle autorità europee di regolamentazione dei valori mobiliari (CESR) 6, oggi sostituito dall’ESMA 7 – ha presentato (al termine di una consultazione pubbli-

69, luglio 2011, p. 7 ss., nonché il Bolletino statistico della Consob, settembre 2012, n. 1, in part. p. 5 s. 5. All’interno delle “dark pools” vengono comunemente ricondotte sia i broker crossing systems (sui quali ci si soffermerà nel prosieguo) sia sedi di negoziazione regolamentate dalla MiFID nella misura in cui beneficiano, in base alla direttiva medesima, di esenzioni dal regime di trasparenza pre-trade [in merito alle quali cfr. Alemanni, La concorrenza tra trading venues a seguito dell’introduzione della MiFID, in Frediani e Santoro, a cura di, L’attuazione della direttiva MiFID, Milano, 2009, p. 16 s.; D’Ippolito, Il regime di trasparenza per i mercati regolamentati, gli MTF e le imprese di investimento, in del Bene, a cura di, Strumenti finanziari e regole MiFID, Milano, 2009, p. 355 ss.]. Nel «Glossary of useful terms linked to markets in financial instruments», curato dalla Commissione europea e disponibile sulla pagina del portale UE dedicato al mercato interno (in particolare al link http://ec.europa.eu/internal_market/securities/docs/glossary_en.pdf) le “dark pools” sono definite come quelle «trading systems where there is no pre trade transparency of orders in the system (i.e. there is no display of prices or volumes of orders in the system). Dark pools can be split into two types: systems such as crossing networks that cross orders and are not subject to pretrade transparency requirements, and trading venues such as regulated markets and MTFs that use waivers from pre-trade transparency not to display orders». Si tratta in entrambi i casi di ipotesi in cui le negoziazioni avvengono senza l’utilizzo di un book di negoziazione (trasparenza pre-trade). Sul fenomeno delle dark pools cfr. Buti, Rindi e Werner, Diving into Dark Pools, 28 novembre 2011, in Fisher College of Business Working Paper Series, 2010-10, reperibile in http://ssrn.com. 6. Tali “consulenze” sono reperibili sul portale dell’ESMA (www.esma.europa.eu). Con particolare riferimento alla materia, qui affrontata, delle sedi di negoziazione v. i documenti CESR/10-975 («CESR Technical Advice to the European Commission in the Context of the MiFID Review: Equity Markets») e CESR/10-1096 («CESR Technical Advice to the European Commission in the Context of the MiFID Review-Standardisation and Organised Platform Trading of OTC Derivatives». 7. Sulla recente riforma del sistema europeo di vigilanza sul mercato finanziario, che ha portato – con il Reg. UE n. 1095/2010 – alla creazione dell’European Securities and Markets Authority (ESMA), cfr. Moloney, The European Securities and Markets Authority and institutional design for the EU financial market, in European Business Organiza-

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ca, avviata l’8 dicembre 2010 con la diffusione del documento «Public consultation. Review of the Markets in Financial Instruments Directive (MiFID)» e chiusa il 2 febbraio 2011) una proposta di revisione della direttiva 2004/39/CE, che si articola, dal punto di vista strutturale, in un Regolamento (MiFIR 8) e in una nuova direttiva MiFID 9, all’interno dei quali dovrebbe confluire, novellata e integrata, la disciplina attualmente contenuta nella direttiva vigente 10. Tra le novità di maggiore interesse presenti nella proposta della Commissione europea e volte a «rispettare l’impegno del G20 11 di dedicarsi agli aspetti meno regolamentati e più nebulosi del sistema finanziario» 12 va annoverata l’introduzione di una nuova sede di negoziazione, che si porrà accanto a quelle, attualmente disciplinate dalla direttiva MiFID, di mercato regolamentato, sistema multilaterale di negoziazione e internalizzatore sistematico: si tratta del “sistema organizzato di negoziazione” (OTF, acronimo di organised trading facility), che potrà essere gestito sia da imprese di investimento sia da gestori di mercati regolamentati 13. Nelle intenzioni della Commissione europea la nuova categoria dovrebbe essere idonea a «comprendere tutti i tipi di esecuzione organizzata e organizzazione di negoziazione che non corrispondono alle funzionalità o alle specifiche normative delle sedi esistenti», tra i quali sono

tion Law Review, 2011, p. 41 ss. e 177 ss.; Kull, Legal Implications of the Establishment of the European Securities and Markets Authority, 8 agosto 2011, working paper, reperibile in http://ssrn.com; Wymeersch, The Institutional Reforms of the European Financial Supervisory System, an Interim Report, 25 gennaio 2010, in Ghent University - Financial Law Institute Working Paper Series, 2010-01, reperibile in http://ssrn.com; D’ambrosio, Le Autorità di vigilanza finanziaria dell’Unione, in Dir. banc., 2011, II, p. 109 ss.; Occhiena, La riforma della vigilanza finanziaria dell’Unione europea, in Dir. econ., 2010, p. 637 ss.; Godano, Le nuove proposte di riforma della vigilanza finanziaria europea, in Dir. Unione europea, 2010, p. 75 ss. 8 MiFIR è l’acronimo di Markets in Financial Instruments Regulation. 9. V., rispettivamente, le proposte n. 2011/0296 e 2011/0298, reperibili alla pagina del portale della UE dedicata alla MiFID: http://ec.europa.eu/internal_market/securities/isd/ mifid_en.htm. 10. Clausen e Sørensen, Reforming the Regulation of Trading Venues in the EU Under the Proposed (MiFID II) – Leveling the Playing Field and Overcoming Market Fragmentation?, 13 marzo 2012, in Nordic and European Company Law Working Paper Series, n. 10-23, reperibile in http://ssrn.com, p. 7 ss. 11 Si tratta del G20 tenutosi a Pittsburgh il 24 e 25 settembre 2009. 12. Cfr. la Relazione della Commissione europea alla proposta di nuova direttiva MiFID (§ 1, p. 2). 13 V. art. 5 proposta di nuova direttiva MiFID.

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espressamente annoverati i «sistemi di broker crossing» (descritti come «sistemi elettronici interni di messa a confronto utilizzati da imprese di investimento che eseguono gli ordini dei clienti a fronte di ordini di altri clienti») 14, nonché i «sistemi per la negoziazione di derivati sufficientemente liquidi e ammessi alla compensazione». L’obiettivo è rafforzare, rispetto a quanto già operato dalla direttiva 2004/34/CE, le condizioni di level playing field tra le varie sedi di negoziazione esistenti (neutralizzando così le residue cause di «breach of competition» tra trading venues che offrono servizi equivalenti 15) e attrarre, come prima osservato, nell’area della regolamentazione (vigilanza e trasparenza) alcune “vasche oscure” degli scambi di strumenti finanziari. L’introduzione, della disciplina dei sistemi organizzati di negoziazione, nella misura in cui amplia il ventaglio dei mercati di strumenti finanziari soggetti a vigilanza, rappresenta, inoltre, uno strumento volto a rendere più agevole e più efficace il progetto, contenuto nella proposta di Regolamento MiFIR, di far transitare – in una prospettiva analoga

14. Sulle caratteristiche dei broker crossing systems (BCS) cfr. Harris, Trading Exchanges, Oxford, 2003, p. 132 ss.; Hendershott e Mendelson, Crossing Networks and Dealer Markets: Competition and Performance, in The Journal of Finance, vol. LV, n. 5, 2000, p. 2071 ss.; Mao, A Glimpse into the Dark: Price Formation, Transaction Cost and Market Share of the Crossing Network, 9 giugno 2011, working paper, reperibile in http://ssrn. com; Hendrick, The Changing Role of Exchange, in Schwartz, a cura di, Global Equity Markets. Technological, Competitive, and Regulatory Challenges, New York, 1995, p. 44 s. Per una descrizione dei broker crossing system v. il citato documento CESR/10-975 («CESR Technical Advice to the European Commission in the Context of the MiFID Review: Equity Markets»), p. 43: «A number of investment firms in the EU operate systems that match client order flow internally. Generally, these firms receive orders electronically, utilize algorithms to determine how they should best be executed and then pass the business through an internal system that will attempt to find matches. Some systems match only client orders, while others (depending on the client instructions/permissions) also provide matching between client orders and “house” orders». 15. Gomber e Pierron, MiFID. Spirit and Reality of a European Financial Markets Directive, settembre 2010, working paper, reperibile in http://ssrn.com, p. 4. Sul punto v. anche la Relazione della Commissione europea alla proposta di Regolamento MiFIR (§ 3.4.1, p. 7): «Un obiettivo centrale della proposta è garantire che tutte le negoziazioni organizzate siano condotte in sedi di negoziazione regolamentate: mercati regolamentati, sistemi multilaterali di negoziazione (MTF) e sistemi organizzati di negoziazione (OTF). A tutte le suddette sedi saranno applicati i medesimi requisiti di trasparenza pre- e postnegoziazione. Similmente, sono pressoché identici anche i requisiti afferenti [agli] aspetti organizzativi e [alla] sorveglianza del mercato applicabili alle tre sedi di cui sopra. Una tale situazione garantirà delle condizioni di parità in presenza di attività analoghe da un punto di vista funzionale in grado di far incontrare gli interessi di negoziazione di terzi».

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al “Dodd-Frank Act” 16 – taluni contratti derivati standardizzati per le (più trasparenti e sicure) sedi di negoziazione regolamentate, al fine di consentirne il regolamento attraverso gli istituti di controparte centrale 17.

2. Definizione e principali caratteristiche. Sviluppo dell’indagine. Le intenzioni del legislatore europeo appaiono condivisibili e si può esprimere apprezzamento per un progetto teso ad una maggiore erosione delle “dark pools” del mercato finanziario. Va però rilevato che la categoria “sistema organizzato di negoziazione” è definita in modo poco chiaro, soprattutto se confrontata con le altre sedi di negoziazione. Secondo la proposta della Commissione europea, la definizione di sistema organizzato di negoziazione – così come quella delle altre trading venues, nonché dell’internalizzatore sistematico (che non viene più annoverato tra le “sedi di negoziazione” ma, assieme a queste, nella più ampia categoria delle “negoziazioni organizzate” 18) – dovrebbe confluire all’interno del Regolamento MiFIR. Per sistema organizzato di nego-

16. Sulle criticità cui hanno dato luogo negli Stati Uniti d’America le negoziazioni dei derivati e sulle soluzioni nel tempo adottate cfr. Scalcione, The Derivatives Revolution. A Trapped Innovation and a Blueprint for regulatory reform, Alphen aan den Rijn, 2011, p. 81 ss., 157 ss., nonché, per ciò che attiene alla riforma del 2010, p. 343 ss.; cfr., inoltre, Culp, The Treasury Departmen’s Proposed Regulation of OTC Derivatives Clearing & Settlement, 2 ottobre 2009, in Chicago Booth School of Business Research Paper Series, n. 2009-30, reperibile in http://ssrn.com, p. 2 ss.; De Poli, La “Dodd-Frank Wall Street Reform” e la protezione degli investitori: prime note, in Crisi finanziaria e protezione degli investitori. Il “Dodd-Frank Wall Street Reform Act”, Quaderni del Centro Studi De Poli, n. 1, 2010, reperibile in www.studiodepoli.it, p. 19 ss. 17. Gli artt. 24 ss. del progetto di Regolamento MiFIR prevedono (sulla scia di quanto suggerito dal CESR nella citata “Technical Advice” n. 10-1096) che gli strumenti finanziari derivati standardizzati, individuati dall’ESMA in base ad una particolare procedura, debbano essere negoziati – se le contrattazioni avvengono tra controparti finanziarie e non finanziarie che superano i limiti di negoziazione previste dal Regolamento europeo EMIR – in un mercato regolamentato, in un sistema multilaterale di negoziazione o in un sistema organizzato di negoziazione. Sulla necessità che i derivati siano necessariamente negoziati su piattaforme vigilate e regolati per il tramite di “controparti centrali” cfr. in dottrina Santoro, Crisi finanziaria: quali regole per la banca, in Dir. banc., I, 2010, p. 570 ss. 18. È questa l’espressione (nel cui ambito vengono ricompresi i mercati regolamentati, i sistemi multilaterali di negoziazione, i sistemi organizzati di negoziazione e gli internalizzatori sistematici) utilizzata al § 3.4.1 della citata Relazione della Commissione europea al progetto di Regolamento MiFIR.

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ziazione dovrà intendersi «qualsiasi sistema diverso da un mercato regolamentato o sistema multilaterale di negoziazione gestito da un’impresa di investimento o da un gestore del mercato che consente l’interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti» 19. Già ad una prima lettura appare evidente che si tratta di una definizione che si allinea molto a quelle di mercato regolamentato e di sistema multilaterale di negoziazione (MTF 20), contenute nella MiFID vigente e riprodotte senza modificazioni nella proposta di revisione in esame 21. Prima di proseguire nel discorso è utile, tuttavia, soffermare l’attenzione sul considerando 8 della proposta di Regolamento MiFIR 22, che fornisce un raffronto con le altre sedi di negoziazione sotto il profilo della discrezionalità e della neutralità. Si prevede, infatti, che, mentre «i mercati regolamentati e i sistemi multilaterali di negoziazione sono caratterizzati dall’esecuzione non discrezionale delle operazioni, il gestore di un sistema organizzato di negoziazione ha discrezione sulla modalità di esecuzione di un’operazione». Ne deriva che i gestori di un sistema organizzato di negoziazione, differentemente da quanto avviene per i mercati regolamentati e i sistemi multilaterali di negoziazione, saranno soggetti alla disciplina sulla protezione dell’investitore, in particolare alle «norme di comportamento e [a]gli obblighi relativi all’esecuzione alle migliori condizioni e alla gestione degli ordini dei clienti». Viene, inoltre, precisato che, «poiché un sistema organizzato di negoziazione costituisce una vera e propria piattaforma di negoziazione, il gestore della piattaforma dev’essere neutrale», con la conseguenza che allo stesso «non va consentita l’esecuzione nel sistema (…) di operazioni tra molteplici interessi di acquisto e di vendita di terzi comprendenti ordini di clienti fatti incontrare nel sistema a fronte di capitale proprio». Quanto previsto dal considerando in esame trova poi attuazione all’art. 20 della proposta di nuova direttiva MiFID, sul quale ci si soffermerà nel prosieguo. Orbene, i dati fin qui raccolti rappresentano un quadro abbastanza completo per tentare una prima ricostruzione della categoria di sistema

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V. art. 2, par. 1, n. 7, del progetto di Regolamento MiFIR. MTF e l’acronimo di Multilateral Trading Facility. 21 V. infra par. 3. 22. V. anche il § 3.4.1 della citata Relazione della Commissione europea al progetto di Regolamento MiFIR. 20

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organizzato di negoziazione e dei suoi rapporti con le altre “negoziazioni organizzate”. A tal fine sarà indispensabile, nel procedere all’analisi, tenere ben distinti gli elementi della fattispecie (volti a individuare l’ambito di applicazione, vale a dire i fenomeni della realtà che il legislatore intende “catturare” e regolamentare) dai semplici elementi della disciplina. Tale prospettiva, che rappresenta il presupposto logico di ogni analisi normativa, appare particolarmente necessaria in questa sede, visto che, per un verso, è la stessa proposta normativa in esame che appare non particolarmente chiara sul punto, per l’altro, proprio con riferimento al sistema organizzato di negoziazione, si registra una certa confusione tra i primi commentatori.

3. Le fattispecie “mercato regolamentato” e “sistema multilaterale di negoziazione”. Come prima accennato, la definizione di sistema organizzato di negoziazione si allinea a quella di mercato regolamentato e di sistema multilaterale di negoziazione. L’analisi di queste ultime categorie rappresenta, dunque, il punto di partenza dell’indagine. Mercato regolamentato e sistema multilaterale di negoziazione sono categorie quasi sostanzialmente sovrapponibili. Nel raffrontare le relative definizioni normative 23 si individua agevolmente un nucleo comune,

23.

Le definizioni di mercato regolamentato e sistema multilaterale di negoziazione sono contenute all’art. 4, par. 1, n. 14 e 15, dir. MiFID (attuato dal d.lgs. n. 164/2007 all’art. 1, co. 1, lett. w-ter, e 5-octies, t.u.f.): tali definizioni confluiranno all’art. 2 del Regolamento MiFIR. In particolare si intende per “mercato regolamentato”: il «sistema multilaterale, amministrato e/o gestito da un gestore del mercato, che consente o facilita l’incontro, al suo interno e in base alle sue regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti relativi a strumenti finanziari ammessi alla negoziazione conformemente alle sue regole e/o ai suoi sistemi, e che è autorizzato e funziona regolarmente»; per “sistema multilaterale di negoziazione” il «sistema multilaterale gestito da un’impresa di investimento o da un gestore del mercato che consente l’incontro, al suo interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti». Sulle fattispecie di mercato regolamentato e sistema multilaterale di negoziazione cfr. Motti, Mercati regolamentati, sistemi multilaterali di negoziazione e internalizzatori sistematici, in D’Apice, a cura di, L’attuazione della MiFID in Italia, Bologna, 2010, p. 681 ss.; Id, Tipologia e disciplina delle “trading venues”, in Frediani e Santoro, L’attuazione della direttiva MiFID, cit., p. 35 ss.; Alemanni, La concorrenza tra trading venues a seguito dell’introduzione della MiFID,

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essendo entrambi un «sistema multilaterale (…) che consente (…) l’incontro, al suo interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo da dare luogo a contratti». Elemento centrale di tale sotto-fattispecie è il “sistema”, che può essere definito come il complesso delle regole e delle strutture tecniche volte a consentire l’incontro degli interessi di acquisto e di vendita degli strumenti finanziari 24.

ibid., p. 13 ss.; Capriglione, Intermediari, cit., p. 181 ss. e 279 ss.; La Manno, I mercati regolamentati e le altre sedi di negoziazione nel nuovo contesto normativo: definizioni, in Strumenti finanziari, cit., p. 281 ss.; Tarola, Sistemi multilaterali di negoziazione. Caratteristiche e regole applicabili, ibid., p. 314 ss.; Costi, Il mercato mobiliare7, Torino, 2010, p. 225 ss. e 254 ss.; Id, La direttiva 2004/39/CE (c.d. MiFID) e l’ordinamento italiano, in Scambi su merci e derivati su commodities, a cura di Lamandini e Motti, Milano, 2006, p. 22 ss.; Vella e Ragno, L’organizzazione e la governance dei mercati e dei sistemi multilaterali di negoziazione nella nuova disciplina comunitaria, ibid., p. 110 ss.; De Mari e Spada, Intermediari e promotori finanziari, Bologna, 2005, p. 110 ss.; Sepe, Organizzazione, funzionamento e vigilanza sui mercati, in Capriglione, a cura di, L’ordinamento finanziario italiano, Padova, 2010, t. II, p. 976 ss. e 1046 ss.; Polato e Floreani, Listing, trading e post trading nel mercato azionario italiano, Torino, 2008, p. 53 ss.; Giraud e D’Hondt, MiFID. Convergence towards a unified European capital markets industry, Londra, 2006, p. 94 ss. 24. Entrambi gli elementi (organizzazione giuridica e struttura tecnico-logistica) sono necessari al fine di individuare un “sistema”. Alcuni dubbi interpretativi potrebbero tuttavia essere generati, a primo acchito, dal cons. 6 dir. MiFID (in futuro cons. 6 Reg. MiFIR) che, a proposito dei mercati regolamentati e dei sistemi multilaterali di negoziazione, in primo luogo precisa che «Il termine “sistema” comprende tutti i mercati che sono costituiti da una serie di regole e da una piattaforma di negoziazione», ma aggiunge poi che vi rientrano anche «quelli che funzionano esclusivamente in base a una serie di regole». Sembrerebbe, dunque, che, ai fini dell’individuazione delle fattispecie in esame, un sistema si identifichi solo con l’organizzazione giuridica degli scambi, venendo così la gestione delle infrastrutture di negoziazione collocata in un ambito ulteriore, non precisamente definito. Un mercato, tuttavia, qualsiasi esso sia, si caratterizza proprio per la raccolta e l’incrocio degli interessi di acquisto e di vendita, così da generare contratti. Anche un sistema di negoziazione di strumenti finanziari, dunque, non può non essere caratterizzato ontologicamente da una piattaforma di scambio. Invero, se si continua nella lettura del considerando, pare che il discorso si sposti dal piano della fattispecie a quello della disciplina. Si prevede, infatti, che «I mercati regolamentati e i sistemi multilaterali di negoziazione non sono tenuti a gestire un sistema “tecnico” per il confronto (matching) degli ordini. Un mercato costituito esclusivamente da una serie di regole (…) è un mercato regolamentato o un sistema multilaterale di negoziazione ai sensi della presente direttiva e le operazioni concluse in base a tali regole sono considerate come concluse nell’ambito del sistema di un mercato regolamentato o di un sistema multilaterale di negoziazione…». Orbene, mi pare che quando il considerando faccia riferimento alla

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Si tratta, in particolare, di un sistema di “negoziazione” in cui, cioè, l’incontro delle proposte di acquisto e di vendita genera “contratti”. Tale elemento distingue il sistema in esame dalla mediazione, vale a dire l’attività consistente nel «mettere in contatto due o più investitori, rendendo così possibile la conclusione di un’operazione fra di essi» 25. Mentre nella mediazione l’impresa di investimento si limita a mettere “in contatto”

circostanza che i mercati “non sono tenuti” a gestire un sistema tecnico di matching (il matching in tale contesto va inteso come incrocio degli interessi di acquisito e di vendita in modo da dare luogo ad un contratto e non va confuso con il servizio, relativo alla fase di post trading, di riscontro e rettifica, talvolta indicato con la medesima terminologia: cfr. Polato e Floreani, Listing, cit., p. 303) voglia semplicemente affermare che la gestione della piattaforma di negoziazione può essere esternalizzata (tale attività, peraltro, solo in quanto afferente alla gestione “tipica” seguirà il regime dell’outsourcing definito dalla MiFID; in merito all’esternalizzazione dell’organizzazione logistica cfr. Motti, Mercati, cit., p. 699 s.). Il considerando si preoccupa, allora, di “rassicurare” sul fatto che, nonostante la delega a terzi della gestione della piattaforma, i contratti si considereranno in ogni caso eseguiti sul mercato. Un conto, dunque, è la presenza di una struttura logistica degli scambi, che non può mancare ai fini dell’esistenza del mercato, altro conto è il soggetto che in concreto la gestisce, che può essere anche diverso da colui che predispone le regole di funzionamento. Se si condivide l’impostazione qui seguita, a ben vedere dal considerando citato si trae un ulteriore corollario: operando un ragionamento a contrario, si rileva che, se è espressamente prevista la possibilità di esternalizzare l’organizzazione tecnico-logistica degli scambi, vuol dire che non è esternalizzabile quella giuridica: la predisposizione del regolamento del mercato non può essere affidata, dunque, nemmeno in regime di outsourcing, a terzi. Tale regola ha un logico fondamento nel rilievo para-pubblicistico che assumono i regolamenti dei mercati, che contribuiscono a definire, assieme alla disciplina pubblicistica, la regolamentazione del mercato finanziario. Infine, va segnalato, a conferma della ragionevolezza della tesi qui sostenuta, che la contemporanea presenza di un complesso di regole e di una piattaforma tecnica di scambio era stata ritenuta necessaria dalla Consob per l’individuazione delle caratteristiche dei “sistemi di scambi organizzati” (SSO) di cui al previgente art. 78 t.u.f. (per riferimenti bibliografici v. infra nt. 35); in particolare, nella Comunicazione Consob n. 98097747 del 24 dicembre 1998 era previsto che per sistema di scambi organizzato doveva intendersi «un insieme di “regole” e di “strutture”, anche automatizzate, che consente in via continuativa o periodica: a) di raccogliere e diffondere proposte di negoziazione di strumenti finanziari, e b) di dare esecuzione a dette proposte con le modalità previste dal sistema». 25. Così si esprime il cons. 20 dir. MiFID (v. cons. 29 proposta di nuova direttiva MiFID), che non qualifica espressamente tale attività come “mediazione” (operazione che è invece operata a livello nazionale all’art. 1, co. 5-sexies, t.u.f.), ma la associa all’attività di ricezione e trasmissione di ordini (in merito alla quale cfr. per tutti Gnoni, Ricezione trasmissione di ordini, in L’attuazione della MiFID, cit., p. 231 ss.). In merito alla nozione di mediazione cui si faceva riferimento prima della direttiva MiFID (per comprendervi talune attività gestorie di sistemi di negoziazione), nonché sul significato che alla luce delle novità legislative intervenute va oggi alla stessa assegnato cfr. Motti, Mercati regolamentati, cit., p. 676 ss. e 683 s.

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due soggetti, con la conseguenza che la conclusione dell’operazione è meramente eventuale (il contatto deve, infatti, rendere solo “possibile” la conclusione del contratto) e si pone al di fuori del servizio (potrà avvenire anche altrove, mediante l’ausilio di un altro intermediario), nei sistemi di negoziazione la conclusione del contratto è “necessaria” e avviene “sul” sistema. Per rientrare nell’ambito di applicazione della normativa, il sistema di negoziazione deve inoltre avere le caratteristiche della “multilateralità”. Un sistema è multilaterale se vi è una pluralità di interessi di acquisto e di vendita che si interfacciano reciprocamente. I sistemi multilaterali si contrappongono, dunque, a quelli bilaterali (tra i quali rientrano gli internalizzatori sistematici), in cui gli interessi di acquisto e di vendita dei terzi sono direzionati tutti verso un’unica controparte 26. La multilateralità, come verrà chiarito meglio in seguito, non va confusa con la neutralità, che è un attributo del gestore (non del sistema) e afferisce al profilo della partecipazione del gestore agli scambi sulla propria piattaforma (multilaterale) 27. Il “sistema” in esame si caratterizza, infine, a livello di fattispecie, per il fatto che gli interessi si incrociano in modo non discrezionale. L’espressione “regole non discrezionali”, come suggerito dal cons. 6 dir. MiFID 28, sta a indicare che «le regole non lasciano all’impresa di investimento che gestisce un sistema multilaterale di negoziazione alcuna discrezionalità su come possano interagire gli interessi». Insomma, gli ordini di segno inverso si incrociano, dando vita a contratti, in base a regole prestabilite e in modo oggettivo, senza, cioè, che il gestore possa intervenire in corso di negoziazione per condizionare l’abbinamento delle proposte di vendita con quelle di acquisto 29. È bene precisare fin d’ora, ma sul pun-

26. Una definizione della multilateralità e della bilateralità del sistema era contenuta, a proposito dei sistemi di scambio organizzati, nella già citata Comunicazione Consob n. 98097747 del 24 dicembre 1998: in particolare era previsto che «si intendono per: “sistemi multilaterali” i sistemi (…) nei quali opera una molteplicità di operatori in diretta concorrenza tra loro; (…) “sistemi bilaterali” i sistemi (…) in cui un singolo operatore espone le proprie proposte che possono essere accettate dagli altri operatori». 27 V. infra par. 5.1. 28. Il contenuto di tale considerando dovrebbe confluire nel cons. 6 Regolamento MiFIR. 29. Si ragiona in tale contesto con riferimento all’incontro, sulla piattaforma di negoziazione, degli interessi di acquisto e di vendita di strumenti finanziari. La discrezionalità è invece elemento caratterizzante altre competenze del gestore del mercato, in particolare quelle di vigilanza. A volte è riconosciuta espressamente (come all’art. 35, par. 4, Reg. n

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to si tornerà in modo più approfondito nel prosieguo 30, che il requisito dell’assenza di discrezionalità è collocato all’interno della definizione di mercato regolamentato e di sistema multilaterale di negoziazione e assurge, in tal guisa, ad elemento selettivo dei fenomeni della realtà che si inquadrano nella categoria di sistemi multilaterali. Ne deriva che solo le sedi di negoziazione ad incrocio non discrezionale degli ordini rientrano nelle fattispecie e, dunque, nell’ambito di applicazione della disciplina relativa ai mercati regolamentati e sistemi multilaterali di negoziazione. Come messo in luce da un esaustivo approfondimento in dottrina 31, l’elemento distintivo, a livello di fattispecie, tra tali sedi di negoziazione è ravvisabile – al di là di differenze meramente formali o comunque non rilevanti presenti nelle rispettive definizioni normative, nonché dei profili relativi alla tipologia di gestore 32 – «nel diverso valore del prov-

1287/2006/CE, ove si fa riferimento a decisioni assunte dai gestori, pur entro determinati limiti, «a loro discrezione»), altre volte è connaturata ai compiti attribuiti alla s.g.m.: in diverse occasioni, infatti, la legge lascia al gestore un margine di autonomia nell’esercizio delle funzioni di sua spettanza, che si esplica attraverso poteri di “valutazione e ponderazione” degli interessi privati e pubblici coinvolti, nonché di “scelta” dello strumento di intervento ritenuto più opportuno (si pensi, a titolo esemplificativo, alla necessità, prevista dall’art. 17, co. 1, Reg. mercati Consob – di attuazione dell’art. 41, par. 1, dir. MiFID –, che la s.g.m. ponderi le decisioni relative all’ammissione, alla sospensione e alla revoca di strumenti finanziari in relazione «agli interessi degli investitori o al funzionamento ordinato del mercato». Sia consentito rinviare sul punto, anche per i dovuti riferimenti bibliografici, a Pace, Ammissione sospensione esclusione dai mercati regolamentati. Poteri della Consob e delle società di gestione dei mercati, Milano, 2012, p. 115 ss. 30 V. infra par. 4. 31 Cfr. Motti, Mercati, cit., p. 681 ss. 32. Cfr. Sepe, Organizzazione, cit., p. 1003 ss.; Motti, Mercati, cit., p. 686. In particolare, se si eccettuano espressioni in qualche misura “tautologiche” o che paiono muoversi più sul piano della disciplina che della fattispecie (regolarità di funzionamento e ammissione a negoziazione in base alle regole del sistema), va sottolineato che nella definizione di mercato regolamentato è previsto che il sistema «consente o facilita» l’incontro al suo interno degli interessi di acquisto o di vendita, mentre per i sistemi multilaterali di negoziazione la norma si limita a prevedere che il sistema «consente» l’incontro. Tale differente formulazione pare più il frutto di un’imprecisione nella redazione delle due definizioni, che di un’effettiva volontà di diversificazione da parte del legislatore europeo. I due termini esprimono, infatti, concetti sostanzialmente sovrapponibili. Qualora, in senso contrario, si volesse valorizzare il dato formale, si potrebbe al più sostenere che con i termini “consentire” e “facilitare” il legislatore voglia far riferimento alla circostanza che l’incontro delle proposte di negoziazione avvenga, rispettivamente, su una piattaforma gestita dall’operatore del mercato (in tal caso il sistema consente in via diretta l’incontro) o su una piattaforma gestita da un soggetto terzo in regime di esternalizzazione (l’incontro è in tal caso solo “facilitato” dal sistema, che è comunque il tramite della conclusione

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vedimento autorizzativo, che rappresenta un elemento costitutivo della fattispecie limitatamente ai mercati regolamentati». Solo per questi è previsto, infatti, a livello di definizione, che il «sistema multilaterale (…) è autorizzato». L’autorizzazione, mentre per i sistemi multilaterali di negoziazione è legata all’attività gestoria, per i mercati regolamentati ha ad oggetto il mercato stesso 33. Alla luce di quanto osservato va sostenuto che: i) per un verso, qualora si voglia gestire un «sistema multilaterale (…) che consente (…) l’incontro, al suo interno e in base a regole non discrezionali, di interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo dare luogo a contratti», si può optare – ferme restando le riserve di attività legate alla tipologia di gestore 34 e, naturalmente, le ulteriori condizioni previste dall’ordinamento per lo svolgimento di tali attività – o per il riconoscimento del sistema come mercato regolamentato (attraverso l’autorizzazione al mercato rilasciato dall’autorità pubblica), o per l’autorizzazione allo svolgimento dell’attività di gestione di un sistema multilaterale di negoziazione; ii) per l’altro, in caso si gestisca un sistema avente le caratteristiche descritte sub i) senza autorizzazione (in via di fatto), si configurerà uno svolgimento abusivo dell’attività di gestione di un sistema multilaterale di negoziazione (giammai di un mercato regolamentato) 35.

del contratto): anche in tale prospettiva, tuttavia, le differenze, a livello di definizione, tra le sedi di negoziazione in esame si annullano, ove si consideri che, come prima rilevato, entrambe le modalità con cui si provvede a fornire il servizio di matching sono legate alla nozione di “sistema” adottata dalla direttiva MiFID e sono proprie, dunque, anche dei sistemi multilaterali di negoziazione. 33. Nel caso di mercati regolamentati gestiti da una medesima società di gestione vi è, dunque, necessità di un’autorizzazione per ogni mercato: cfr. Motti, I mercati regolamentati di strumenti finanziari, in Intermediari finanziari, mercati e società quotate, a cura di Patroni Griffi, Sandulli e Santoro, Torino, 1999, p. 384 s. Sottolinea come sarebbe in facoltà degli stati membri prevedere un sistema che distingua formalmente l’autorizzazione all’attività di gestione di un mercato regolamentato dall’autorizzazione al mercato stesso e che, in ogni caso, tale differente rilevanza del provvedimento autorizzatorio emerge comunque in modo netto, ove si consideri che la s.g.m. che intenda gestire un altro mercato regolamentato debba dotarsi di un’ulteriore autorizzazione, Sepe, Organizzazione, cit., p. 1005 (nt. 23) e 1024 s. 34. In merito allo statuto dei gestori delle diverse sedi di negoziazione cfr. Motti, Mercati, cit., p. 689 ss. 35. Ciò resta valido anche nel caso di una società di gestione di un mercato regolamentato (regolarmente autorizzato) che decida di gestire un ulteriore sistema di negoziazione senza autorizzazione. Prima dell’attuazione della direttiva MiFID, che ha imposto l’autorizzazione per la gestione dei sistemi multilaterali di negoziazione, si riteneva, alla

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Prima di proseguire nel discorso e analizzare, per i profili che qui interessano, la proposta di revisione della MiFID, preme svolgere un’ulteriore considerazione. Alla luce di quanto finora osservato, la “terminologia” adoperata dal legislatore per identificare le categorie in esame (“mercato regolamentato” e “sistema multilaterale di negoziazione”) non ha, di per sé, un’effettiva capacità distintiva tra le stesse e può, di conseguenza, creare una certa confusione nell’analisi della normativa. A parte la considerazione per cui, al pari di un mercato regolamentato, anche il sistema multilaterale di negoziazione costituisce una forma di “mercato” di strumenti finanziari ed è soggetto ad una regolamentazione da parte dell’ordinamento (sebbene meno intensa rispetto al primo), va osservato che anche il mercato regolamentato rappresenta un “sistema di negoziazione” “multilaterale”, nel senso sopra descritto. La decisione del legislatore, dunque, di utilizzare il nucleo comune alle fattispecie in esame (ovverosia il sistema di negoziazione multilaterale) come denominazione di una sola di esse (sistema multilaterale di negoziazione) non appare una scelta felice. Ciò risulta ancora più evidente alla luce della nuova categoria prevista dal progetto di revisione della MiFID che, come si vedrà tra breve, rientra anch’essa tra i sistemi di negoziazione aventi le caratteristiche della multilateralità.

4. Raffronto tra sistema organizzato di negoziazione, mercato regolamentato e sistema multilaterale di negoziazione: il ruolo della “discrezionalità”. Delineati i tratti fondamentali, a livello di fattispecie, delle sedi di negoziazione multilaterali attualmente disciplinate dall’ordinamento, si può ora procedere ad un raffronto con la categoria di “sistema organizzato di negoziazione”, così come delineata nella citata proposta della Commissione europea di revisione della MiFID. Dalla definizione si deduce in primo luogo che la fattispecie in esame avrà carattere residuale: il sistema organizzato di negoziazione è

luce della previgente disciplina dei sistemi di scambio organizzati di cui all’art. 78 t.u.f., che la gestione di mercati di strumenti finanziari non costituisse attività riservata, essendo lecitamente esercitabile anche in assenza dell’autorizzazione: cfr. Motti, I mercati, cit., p. 384 s. Sulla previgente disciplina degli scambi organizzati di strumenti finanziari cfr. inoltre Francario, sub art. 78, in Testo unico, cit., vol. 1, Intermediari e mercati, p. 645 ss.

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definito, infatti, nel progetto di Regolamento MiFIR come «qualsiasi sistema “diverso” da un mercato regolamentato o sistema multilaterale di negoziazione». È necessario, dunque, individuare gli elementi di affinità con le nozioni di mercato regolamentato e di sistema multilaterale di negoziazione (che necessariamente devono sussistere, quantomeno in un nucleo minimo, visto che altrimenti la clausola di residualità non avrebbe senso), nonché quelli di divergenza. Quanto ai primi, il nucleo che il sistema organizzato di negoziazione condivide con le categorie di mercato regolamentato e sistema multilaterale di negoziazione è rappresentato dal «sistema (…) che consente (…) l’interazione 36 tra (…) interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo dare luogo a contratti». La nozione di “sistema di negoziazione” è stata già analizzata a proposito delle definizioni di mercato regolamentato e di sistema multilaterale di negoziazione e si può, dunque, rinviare alle precedenti osservazioni 37. Ulteriore elemento comune è rappresentato dalla multilateralità del sistema. Invero, nella definizione tale carattere non è richiamato espressamente, ma si deduce agevolmente ove si ponga attenzione all’espressione “interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi”: certo, la generica “presenza” di “interessi di terzi” non esclude la bilateralità della piattaforma (visto che sui sistemi bilaterali a relazionarsi con l’unica controparte sono pur sempre interessi di terzi), come pure il carattere “multiplo” di tali interessi (si pensi a sistemi bilaterali che riescono a gestire contemporaneamente più interessi di acquisto o di vendita); tuttavia, il richiamo alla multilateralità è insito nel riferimento all’ “interazione” tra gli interessi medesimi: il sistema organizzato di negoziazione, cioè, è un sistema in cui le proposte di acquisto e di vendita dei terzi si interfacciano, sebbene in modo “pilotato” dal gestore, reciprocamente (come in un sistema multilaterale, appunto) e non solo nei confronti di un’unica parte (come avviene invece nelle piattaforme bilaterali). L’elemento di sostanziale di diversità – oltre all’assenza, analogamente ai sistemi multilaterali di negoziazione, dell’autorizzazione quale ele-

36. Per i mercati regolamentati e i sistemi multilaterali di negoziazione è adoperato il termine, sostanzialmente sovrapponibile, di “incontro”. 37 V. supra par. 3.

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mento “costitutivo” del mercato 38 – è rappresentato dal fatto che solo nelle definizioni di sistema multilaterale di negoziazione e mercato regolamentato è previsto che l’incrocio degli interessi di terzi avvenga in modo non discrezionale. Tuttavia, nella definizione di sistema organizzato di negoziazione non si prevede nemmeno che, all’opposto, l’incontro degli interessi di acquisto e di vendita di terzi avvenga in base a regole discrezionali. Ad una prima lettura ciò potrebbe indurre a ritenere che, non essendo espressamente prevista la discrezionalità tra gli elementi della fattispecie, rientrino nella definizione di sistema organizzato di negoziazione anche sistemi per così dire “ibridi”, in cui, cioè, vi sono, per taluni ordini (in relazione al prodotto o all’operatore), criteri oggettivi di matching e, per altri, criteri discrezionali 39, mentre confluirebbero nella categoria di sistema multilaterale di negoziazione e mercato regolamentato i sistemi in cui l’incrocio delle proposte di negoziazione avviene solo in base a criteri oggettivi. Una simile impostazione, tuttavia, non soddisfa appieno. Già da un punto di vista degli equilibri tra fattispecie, si creerebbero delle sovrapposizioni di categoria prive di ragionevolezza. La categoria di sistema multilaterale di negoziazione (e a monte quella di mercato regolamentato) verrebbe depotenziata, in quanto vi sfuggirebbero sistemi in cui l’incrocio degli ordini avviene in modo oggettivo per il solo fatto che ad esso si accompagni, per talune ipotesi, un meccanismo di incontro di natura discrezionale. In una prospettiva diversa, poi, si può osservare che basterebbe creare, all’interno del “sistema”, delle aree di matching discrezionale, perché lo stesso non sia inquadrato dall’ordinamento come sistema multilaterale di negoziazione, ma come sistema organizzato di negoziazione, soggetto ad una regolamentazione più blanda. In attesa che nella versione definitiva del Regolamento MiFIR il punto sia oggetto di una precisazione da parte del legislatore europeo, ritengo che ci possano essere comunque gli estremi per ricavare

38. Si è visto (supra par. 3) che per il mercato regolamentato l’autorizzazione, diversamente dal sistema multilaterale di negoziazione, è elemento costitutivo della fattispecie. 39. Ne deriverebbe che: a) in caso di sistema ad incrocio non discrezionale, si tratterà necessariamente di un sistema multilaterale di negoziazione (ovvero di un mercato regolamentato, se il gestore ne chiede il riconoscimento come tale); b) in caso di sistema ad incrocio non discrezionale o di incrocio ibrido, necessariamente di un sistema organizzato di negoziazione.

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in via interpretativa la discrezionalità nell’incrocio degli ordini quale elemento della fattispecie. Vanno, infatti, valorizzati il riferimento, nella definizione di sistema organizzato di negoziazione, alla “diversità” rispetto al mercato regolamentato e al sistema multilaterale di negoziazione (che con il primo condividono la natura di “sistemi che consentono l’interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo dare luogo a contratti”), nonché la circostanza, appunto, che se si confrontano le definizioni l’unico elemento di diversità è rappresentato, come prima rilevato, dal mancato riferimento per il sistema organizzato di negoziazione alla non discrezionalità nell’incrocio degli ordini. Si aggiunga, poi, che il considerando 8 del progetto di Regolamento MiFIR fa della discrezionalità l’elemento di differenziazione più rilevante rispetto alle altre sedi di negoziazione multilaterali, omettendo, peraltro, qualsiasi riferimento a sistemi “ibridi”. Alla luce di quanto sinora osservato appaiono non corrette le critiche mosse dai primi commentatori alla proposta della Commissione europea di introdurre e disciplinare la categoria di sistema organizzato di negoziazione. È stato rilevato, in particolare, che la discrezionalità dell’incrocio degli ordini nei sistemi organizzati di negoziazione rappresenta un elemento di disparità di trattamento rispetto alle altre sedi di negoziazione, che sono, invece, tenute al matching oggettivo. Vi sarebbe, dunque, una violazione delle regole di concorrenza e di level playing field 40. È evidente, tuttavia, che tali osservazioni muovono da un presupposto errato, confondendo elementi della fattispecie con elementi della disciplina. La non discrezionalità o la discrezionalità

40. Cfr. Clausen e Sørensen, Reforming, cit., p. 23, che rilevano: «…a closer analysis reveals that there are differences between the regulation of regulated markets and MTFs on the one hand and OTFs on the other hand. This is primarily because OTFs have the possibility of matching clients’ orders on a discretionary basis, whereas regulated markets and MTFs are obliged to have non-discretionary, predetermined rules for the execution of orders in their systems. OTFs will thus be able to offer a service to traders and investors which regulated markets and MTFs cannot, giving OTFs a competitive advantage over regulated markets and MTFs. While there is an unlevel playing field between regulated markets and MTFs under MiFID 2004, it seems that proposed reforms of the regulation on markets for financial instruments will lead to a new unlevel playing field, namely between regulated markets and MTFs on the one hand and OTFs on the other». Si vedano, inoltre, le osservazioni della FESE (Federation of European Securities Exchanges) nel documento “FESE Position on the Mifid II Proposal”, 31 gennaio 2012, reperibile in www. fese.be, p. 10.

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del matching rappresentano – così come sono formulate le definizioni di mercato regolamentato, sistema multilaterale di negoziazione e, in base all’interpretazione qui proposta, sistema organizzato di negoziazione – elementi della fattispecie, nel senso che sono volti a identificare i fenomeni della realtà cui applicare una particolare disciplina (in termini di requisiti organizzativi, regole di trasparenza, vigilanza pubblica, etc.). Non si tratta, dunque, di concedere la discrezionalità o di imporre la non discrezionalità, perché queste già esistono, ma al più di disciplinarle 41. Qualora, in senso contrario, si ritenesse la discrezionalità un elemento della disciplina e non della fattispecie, non vi sarebbe differenza alcuna sul piano delle categorie tra sistema organizzato di negoziazione e gli altri sistemi multilaterali, essendo tutti, come rilevato, “sistemi che consentono l’interazione tra interessi multipli di acquisto e di vendita di terzi relativi a strumenti finanziari, in modo dare luogo a contratti”. In particolare – visto che a livello di fattispecie l’autorizzazione (al pari di un sistema multilaterale di negoziazione e differentemente da un mercato regolamentato) non costituisce un elemento costitutivo del sistema – la “categoria” di sistema organizzato di negoziazione sarebbe una duplicazione di quella di sistema multilaterale di negoziazione. Tali sistemi diventerebbero, in altre parole, dei contenitori identici e le categorie “sistema multilaterale di negoziazione” e “sistema organizzato di negoziazione” verrebbero ridotte a mere “etichette” della (diversa) disciplina ivi contenuta. L’approccio qui criticato dimostra, inoltre, i suoi fattori di debolezza anche se ci si pone nella prospettiva di individuare le fattispecie di abusivismo cui si andrà incontro nel caso di svolgimento delle attività di gestione di tali sistemi di negoziazione in via di fatto. Se si condivido-

41.

In tale ottica vanno lette quelle disposizioni, presenti nella direttiva MiFID, che impongono ai gestori dei mercati regolamentati e dei sistemi multilaterali di negoziazione di dotarsi di «regole e procedure trasparenti e non discrezionali che garantiscano una negoziazione corretta e ordinata nonché di criteri obiettivi che consentano l’esecuzione efficiente degli ordini» [art. 39, lett. e): la norma è dettata per i mercati regolamentati; per i sistemi multilaterali di negoziazione v., in modo sostanzialmente conforme, l’art. 14, par. 1]. Il cuore di tali disposizioni non va tanto individuato nell’imposizione di regole non discrezionali (che, infatti, già esistono a livello di fattispecie), ma nella previsione di determinati standard qualitativi di tali regole, che devono essere formulate in modo da garantire una negoziazione corretta e ordinata, nonché un’esecuzione efficiente degli ordini.

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no le argomentazioni da me proposte, è agevole concludere nel senso che, se un’impresa gestisca senza autorizzazione un sistema multilaterale incrociando gli ordini secondo criteri non discrezionali, si configurerà un esercizio abusivo di un sistema multilaterale di negoziazione; nel caso, invece, gestisca in via di fatto un sistema ad incrocio discrezionale (come un broker crossing system), un esercizio abusivo di un sistema organizzato di negoziazione. Tale differente accertamento risulterebbe, invece, impossibile nel caso in cui si ritenesse che le “categorie” di sistema organizzato di negoziazione e sistema multilaterale di negoziazione coincidano. 4.1. Discrezionalità e regole di comportamento. Ai confini tra mercato e servizio d’investimento. La discrezionalità di cui si è finora discusso ha ad oggetto l’incrocio degli interessi di vendita e di acquisto dei soggetti che accedono al sistema. Si è accennato, in particolare, al fatto che in un sistema organizzato di negoziazione gli ordini di segno opposto relativi ad un determinato strumento finanziario non si incrociano in modo automatico e in base a prestabiliti criteri oggettivi di gestione del “book”, ma sulla base di una decisione assunta (anche con l’ausilio di software informatici) di volta in volta dal gestore. Discrezionalità, è bene osservare, non significa arbitrio, né ovviamente discriminazione, con la conseguenza che, per un verso, la libertà decisionale del gestore non può prescindere da taluni criteri guida, per l’altro, deve assicurare una parità di condizioni in relazione a situazioni equivalenti. Come si vede, il discorso si sta pian piano spostando dalla fattispecie (discrezionalità nell’incrocio degli ordini) alla disciplina (limiti all’esercizio del potere discrezionale). Ed è proprio questo, come prima anticipato, uno degli obiettivi della proposta della Commissione europea, che prevede la soggezione dei gestori di un sistema organizzato di negoziazione alla disciplina sulla protezione dell’investitore 42. Non si intende in questa sede procedere ad un’analisi puntuale delle regole di condotta delineate nel progetto di revisione della MiFID 43, ma è utile osservare come le stesse vanno al di là dell’obietti-

42

V. il cons. 8 della proposta di Regolamento MiFIR. La norma di riferimento è l’art. 20 del progetto di nuova direttiva MiFID. La disposizione, invero, non prevede regole di comportamento specifiche per i sistemi organiz43.

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vo di assicurare la tutela dell’investitore a fronte della discrezionalità nell’incrocio degli ordini. Oltre, infatti, a norme di comportamento che si inquadrano in modo lineare in tale progetto («Obbligo di eseguire gli ordini alle condizioni più favorevoli per il cliente» e «Regole per la gestione degli ordini dei clienti») ve ne sono altre, mutuate anch’esse dalla disciplina dei servizi di investimento, che si pongono invece su un piano diverso: si tratta, in particolare, dei «Principi di carattere generale e informazione del cliente» nonché della «Valutazione dell’idoneità e dell’adeguatezza…». A primo impatto l’applicazione di queste ultime norme di comportamento in capo ai gestori di un sistema organizzato di negoziazione potrebbe risultare non solo non conforme agli obiettivi dichiarati, ma altresì “fuori luogo”, in quanto volte a disciplinare una fase che in un mercato si dà in genere già per presupposta, vale a dire la “scelta” dell’investimento. Gli obblighi informativi e la valutazione dell’idoneità e dell’adeguatezza devono, infatti, essere assicurati al momento in cui si matura la decisione di acquistare o vendere uno strumento finanziario (ovverosia dall’intermediario nei rapporti con il cliente) e non in quello, successivo, in cui a tale decisione viene data esecuzione (vale a dire nell’ambito della piattaforma scelta dall’intermediario). In altri termini, quando ad un sistema di negoziazione perviene un ordine di acquisto o di vendita, la relativa operazione è stata già oggetto di un giudizio di “idoneità” o “adeguatezza” da parte dell’intermediario, che ha altresì provveduto a informare in modo appropriato il cliente. Pretendere che medesima attività sia svolta anche dal gestore della piattaforma darebbe luogo ad un’inutile duplicazione. Tali osservazioni sono indubbiamente corrette, ma il sistema delineato nel progetto di revisione della MiFID riacquista linearità ove si consideri che lo stesso pare riconoscere la possibilità di accesso al sistema organizzato di negoziazione non solo agli operatori abilitati (che svolgono attività di negoziazione per conto dei clienti o in relazione ad ordini di clienti) o a soggetti dotati di taluni requisiti di professionalità

zati di negoziazione, ma si limita a richiamare le norme stabilite in materia di servizi di investimento (artt. 24, 25, 27 e 28). Sebbene vi siano taluni profili di affinità, come verrà chiarito tra breve, tra l’attività di gestione di un sistema organizzato di negoziazione e un servizio di investimento, sarebbe invece più opportuno disegnare delle norme di comportamento ad hoc, che tengano comunque in debito conto le specificità del sistema organizzato di negoziazione.

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(come quelli indicati all’art. 25, co. 2, t.u.f. 44), ma anche a investitori retail 45. Per questi ultimi, dunque, verrebbe meno il supporto alla decisione da parte dell’intermediario e vi sarebbe, dunque, la necessità che allo stesso supplisca un soggetto diverso, ovverosia il gestore della piattaforma 46. Rimane, tuttavia, il fatto che la proposta della Commissione europea, riconoscendo la possibilità di accesso al sistema organizzato di negoziazione anche agli investitori e imponendo ai relativi gestori l’adempimento delle regole di condotta, fa della gestione di un sistema organizzato di negoziazione un’attività che si pone al confine tra il “mercato” e il “servizio di investimento”.

5. In house matching, sistema organizzato di negoziazione, internalizzatore sistematico. L’ambivalenza del sistema organizzato di negoziazione (che, come appena rilevato, si pone ai confini tra il mercato e il servizio di investimento) è in realtà ancor più evidente ove lo si ponga in relazione alla figura dell’internalizzatore sistematico 47 (associato dalla dottrina ad una

44.

Sull’accesso ai mercati regolamentati di soggetti diversi dagli intermediari abilitati cfr. Tarola, Sistemi multilaterali, cit., p. 323 ss. 45. Nel progetto di revisione della MiFID, per identificare i soggetti che accedono al sistema non si adopera l’espressione “operatori”, utilizzata per gli altri sistemi multilaterali di negoziazione, bensì quella di “clienti”. 46. Le regole di condotta in esame, relative all’informazione sui rischi e al giudizio di idoneità e adeguatezza, dovrebbero, dunque, trovare applicazione solo se ad accedere al sistema sono investitori che non posseggono nemmeno i requisiti di cui all’art. 25, co. 2, t.u.f. Al contrario, per i soggetti che rientrano tra i parametri di professionalità, organizzazione, competenza previsti in tale disposizione è agevole rilevare che, se l’ordinamento concede loro la possibilità di accesso ad un mercato regolamentato senza necessità alcuna che le relative scelte d’investimento siano supportate dal gestore del mercato, identica soluzione, per coerenza, debba essere applicata quando il sistema di negoziazione cui accedono è un sistema organizzato di negoziazione: come bilanciamento della discrezionalità di cui è dotato il gestore di un sistema organizzato di negoziazione sono sufficientemente tutelanti le norme, prima citate, della gestione degli ordini e della best execution. 47. L’internalizzatore sistematico è definito all’art. 4, par. 1, n. 7, dir. MiFID (attuato all’art. 1, co. 5-ter, t.u.f.) come l’«impresa di investimento che in modo organizzato, frequente e sistematico negozia per conto proprio eseguendo gli ordini del cliente al di fuori di un mercato regolamentato o di un sistema multilaterale di negoziazione». Tale

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forma di “commercio” più che di “mercato” 48) con cui condivide, in parte, una medesima origine. Il broker crossing system (che nel progetto di revisione della MiFID si configura come un sistema organizzato di negoziazione) e l’internalizzazione sistematico rappresentano, infatti, le due modalità con cui viene effettuato il c.d. “in house matching”, vale a dire l’esecuzione degli ordini di negoziazione dei clienti “in casa” dell’intermediario, che provvede a soddisfare gli interessi di acquisto e di vendita non rivolgendosi ad una piattaforma di negoziazione terza, ma ponendosi esso stesso in contropartita diretta con il cliente (internalizzatore) oppure incrociando gli ordini, di segno opposto, dei clienti (broker crossing system) 49. Nella pratica, peraltro, il termine internalizzatore è talvolta utilizzato, in senso onnicomprensivo, come sinonimo di in house matching 50. La direttiva MiFID, nel definire internalizzatore il soggetto che esegue gli ordini dei clienti al di fuori di un mercato regolamentato o di un sistema multilaterale di negoziazione «negozia[ndo] per conto proprio», ha assoggettato a disciplina solo la prima modalità di “in house matching”. La proposta di revisione della MiFID colma, dunque, tale vuoto normativo, attraendo nella regolamentazione, in qualità di sistema organizzato

definizione è stata confermata nel progetto di Regolamento MiFIR (art. 2, par. 1, n. 3), ove si prevede solo l’aggiunta del sistema organizzato di negoziazione tra le sedi di negoziazione in cui l’impresa non esegue gli ordini. Sull’internalizzatore sistematico cfr. Motti, Mercati regolamentati, cit., p. 685 ss.; Id, Tipologia e disciplina, cit., p. 44 ss.; Giraud e D’Hondt, MiFID, cit., p. 94 ss.; Costi, Il mercato, cit., p. 257 ss.; Id, La direttiva 2004/39/CE, cit., p. 22 ss.; Vella e Ragno, L’organizzazione e la governance dei mercati e dei sistemi multilaterali di negoziazione nella nuova disciplina comunitaria, ibid., p. 106 ss.; Sepe, Organizzazione, cit., p. 1051 ss.; Tarola, Gli internalizzatori sistematici, in Strumenti finanziari e regole MiFID, cit., p. 336 ss.; Polato e Floreani, Listing, cit., p. 57 ss.; Davies, Doufour e Scott-Quin, The MiFID: Competition in a New European Equity Market Regulatory Structure, in Ferrarini e Wymeersch, a cura di, Investor Protection in Europe. Corporate Law Making, the MiFID and Beyond, Oxford, 2006, p. 166 ss.; Ferrarini e Recine, The MiFID and Internalisation, ibid., p. 235 ss.; De Mari e Spada, Intermediari e promotori, cit., p. 63 ss. 48 Cfr. Motti, Tipologia e disciplina, cit., p. 44. 49 Davies, Doufour e Scott-Quin, The MiFID, cit., p. 166. 50. Davies, Doufour e Scott-Quin, The MiFID, cit., p. 166. Cfr. anche Motti, Tipologia, cit., p. 44 che, a proposito dell’internalizzatore, rileva come tale figura «evoca immediatamente i vecchi “borsini” delle banche, ossia la prassi di incrociare gli ordini della clientela al proprio interno o in alternativa di attingere al proprio portafoglio per l’esecuzione degli ordini, ricorrendo all’esecuzione in Borsa soltanto per la parte eccedente».

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di negoziazione, anche i sistemi in cui il gestore non si pone in contropartita diretta ma abbina, in modo discrezionale, l’ordine di un cliente con quello di segno opposto di un altro cliente. Le affinità tra il sistema organizzato di negoziazione e l’internalizzatore sistematico si arrestano, tuttavia, a tale profilo. Le differenze a livello di fattispecie tra le sedi di negoziazione in esame emergono in modo netto, trattandosi, nel primo caso, di un sistema multilaterale (in cui gli interessi di acquisto e di vendita dei soggetti che accedono al mercato si incrociano reciprocamente), nel secondo caso, di un sistema bilaterale (in cui gli interessi dei terzi si interfacciano con un’unica controparte: l’impresa d’investimento). Tali caratteristiche devono essere tenute ben presenti, qualora il discorso si sposti sul profilo della neutralità. Va, infatti, rilevato che, mentre l’assenza di neutralità è per gli internalizzatori sistematici un elemento “naturale” della fattispecie, essendo gli stessi, per definizione, dei negoziatori in conto proprio, al contrario, la neutralità non è prevista come elemento della fattispecie per le sedi di negoziazione multilaterali. Ne deriva che il gestore, in assenza di un divieto legislativo in tal senso, potrebbe in teoria utilizzare, al pari degli altri operatori, la propria piattaforma di scambio per effettuare operazioni in conto proprio o di terzi (si tratterebbe di una forma di “autoconsumo”) 51: naturalmente tale utilizzo deve avvenire secondo le regole del sistema, vale a dire rispettando il carattere della multilateralità, ossia facendo in modo che i propri ordini confluiscano nel flusso indefinito degli ordini altrui, intersecandosi a vicenda. Orbene, qualora ciò fosse concesso al gestore di un sistema organizzato di negoziazione 52, le differenze rispetto all’internalizzatore sistematico rimarrebbero comunque nette: il gestore, infatti, parteciperebbe agli scambi ma non sarebbe, come invece nei sistemi bilaterali (internalizzatore sistematico), l’unica controparte. Sul punto la proposta di nuova direttiva MiFID adotta una soluzione di compromesso. È espressamente 53 fatto divieto ai gestori di un siste-

51.

Ne è conferma il fatto che nella proposta di revisione della MiFID, come si accennerà tra breve, è avvertita l’esigenza di inibire (tra l’altro in modo parziale) l’operatività del gestore di un sistema organizzato di negoziazione sulla propria piattaforma. 52. Con riferimento ai limiti all’operatività del gestore di un mercato regolamentato e di un sistema multilaterale di negoziazione sulla piattaforma dallo stesso gestita cfr. Motti, Mercati, cit., p. 684. 53 V. art. 20, par. 1, progetto di nuova direttiva MiFID.

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ma organizzato di negoziazione di impegnare capitale proprio per dare esecuzione, sul sistema di negoziazione dagli stessi gestito, agli ordini dei clienti: in modo implicito viene, dunque, riconosciuta la possibilità per il gestore di agire impegnando capitali altrui (regola della neutralità “relativa”) 54.

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54. Tale regola solleva alcuni profili di criticità di non poco conto, sia sul fronte dei conflitti di interesse in cui si verrà a trovare il gestore della piattaforma (conflitti che saranno, peraltro, amplificati dalla circostanza, come prima osservato, che l’incrocio degli interessi di acquisto e di vendita non segue prestabiliti criteri oggettivi, ma è effettuato in modo discrezionale dal gestore medesimo), sia su quello della qualificazione giuridica e del relativo regime dell’impiego di capitali altrui da parte del gestore della piattaforma. Con particolare riguardo a tale specifico aspetto, ritengo che, nel caso in cui l’agire utilizzando capitali altrui presenti i profili della professionalità e dell’organizzazione e si rivolga al pubblico (in merito a tali elementi cfr. Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare6, Torino, 2012, p. 108 ss.), si renda necessaria un’autorizzazione specifica alla prestazione del servizio di negoziazione per conto terzi (esecuzione di ordini per conto dei clienti): è evidente che ciò genererà asimmetrie e disparità di trattamento tra gestori di sistemi organizzati di negoziazione, visto che, come prima accennato, un sistema organizzato di negoziazione può essere gestito non solo dalle imprese di investimento ma anche dalle società di gestione dei mercati, cui è inibita, però, la prestazione di servizi di investimento. I gestori di sistemi organizzati di negoziaione che siano gestori di mercati regolamentati potranno, dunque, agire impegnando capitali altrui solo finché tale operatività non configuri un servizio d’investimento. Al contrario, vi saranno sistemi organizzati di negoziaione in cui il gestoreimpresa d’investimento avrà un’operatività più ampia.

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Le sanzioni amministrative pecuniarie nelle attività finanziarie Il 10 maggio 2012, presso la Facoltà di Economia della Sapienza, Università di Roma, si è tenuto un incontro di studio, organizzato dal Ce.di.b. e dalla rivista, sul tema delle “Sanzioni amministrative pecuniarie nelle attività finanziarie”. All’incontro, presieduto dal prof. Vittorio Santoro, dell’Università di Siena, sono intervenuti l’avv. Giuseppe Carriero della Banca d’Italia, il prof. Marcello Clarich dell’Università LUISS Guido Carli di Roma, il dott. Marco Fratini della Consob, l’avv. Enrico Galanti della Banca d’Italia, il prof. Umberto Morera dell’Università Tor Vergata di Roma, il prof. Alessandro Nigro della Sapienza Università di Roma, la prof.ssa Maria Alessandra Sandulli dell’Università di Roma Tre. Ne pubblichiamo gli atti

Indirizzi di saluto Vittorio Santoro Tocca a me, come da programma, il coordinamento di questo intenso pomeriggio di lavoro, che si iscrive ormai in un appuntamento annuale diventato al terzo anno una consuetudine: gli incontri della rivista Diritto della banca e del mercato finanziario, per la cui organizzazione dobbiamo rendere merito alla solerzia del prof. Nigro. Consentitemi di fare una riflessione iniziale, vale a dire che i temi proposti in questi primi tre anni di incontri sono legati tra di loro da un filrouge. Siamo partiti con il tema della crisi economico-finanziaria, poi, abbiamo parlato l’anno scorso del finanziamento delle imprese appunto in crisi; quest’anno discutiamo di sanzioni amministrative. Tale ultimo tema potrebbe sembrare ellittico rispetto ai due precedenti, ma io credo che si leghi a un aspetto della crisi, vale a dire il profilo della efficienza e dell’efficacia dell’azione dei regolatori, che in questo clima di crisi costituisce, a mio avviso, un aspetto importante. In ogni caso, tutti i temi proposti nei tre anni colgono problematiche molto vive nel dibattito giuridico.

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Dibattiti

Detto questo, non pongo altro tempo in mezzo: abbiamo di fronte, infatti, un programma intenso. Il prof. Nigro mi suggeriva di assegnare a ciascun relatore venti minuti di tempo, me ne scuso ma sarò costretto a essere severo con tutti nell’interesse ovviamente della buona riuscita di questa giornata di studio. Nel ringraziare gli ascoltatori per la loro partecipazione, do senz’altro la parola al prof. Nigro per svolgere l’introduzione.

Introduzione Alessandro Nigro Il programma prevede una mia introduzione. Desidero rassicurare subito tutti: sarà – come nelle precedenti occasioni – una introduzione molto semplice e rapidissima, con poche battute ancora una volta di “ambientazione”. Prima, però, i doverosi ringraziamenti del Centro Studi, della Rivista e miei personali. Ringraziamenti, innanzi tutto, alla casa editrice Pacini, il cui intervento è stato, come sempre, decisivo per la realizzazione dell’incontro. Ringraziamenti vanno, poi, alla Facoltà di economia che ci ospita ed al suo Preside. Ringraziamenti, ancora, sono dovuti a chi mi ha aiutato nell’organizzazione. Ringraziamenti vanno naturalmente ai relatori, tutti amici e colleghi valorosissimi, che hanno accettato di buon grado di partecipare all’iniziativa e dei quali avremo modo di apprezzare l’impegno. Ringraziamenti, infine, sono dovuti a chi è presente all’incontro, che certamente soddisferà in pieno tutte le aspettative. Ho accennato a precedenti occasioni: devo quindi spiegare subito il perché di questo accenno, completando quanto già ricordato da Vittorio Santoro. Qualche anno fa, nel ragionare con la casa editrice Pacini sulle iniziative che si potevano prendere per potenziare il ruolo della rivista Diritto della banca e del mercato finanziario, venne l’idea di organizzare – insieme con il Ce.di.b. – un incontro di studio su un tema di interesse della rivista medesima, anche nella prospettiva di ripetere l’iniziativa, negli anni successivi, su temi volta a volta diversi. La prospettiva si è concretizzata: al primo incontro, tenuto a Firenze nel marzo 2010, sul tema «Crisi finanziaria: nuove regole per le banche?», è seguito un incontro, nell’anno successivo sempre a marzo e sempre a Firenze, dal titolo «Finanziamenti bancari alle imprese in crisi fra prededuzione e subordinazione». Segue, a distanza di un anno, l’in-

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Alessandro Nigro

contro di oggi, caratterizzato da qualche variazione quanto al tempo (maggio e non marzo) e al luogo (Roma, anziché Firenze), ma rimasto immutato nello spirito e nella strutturazione, caratterizzata dalla concentrazione degli interventi dei relatori in una dimensione temporale circoscritta (con soddisfazione, crediamo, di tutti: di chi parla e di chi ascolta). Siamo dunque alla terza tappa di un percorso più lungo, destinato – mi auguro – a proseguire nel tempo. Qualche parola sul tema che è stato prescelto. Non vi è dubbio che, specie negli ultimi tempi, lo strumento delle sanzioni amministrative pecuniarie abbia assunto un ruolo sempre più rilevante nella disciplina delle attività lato sensu finanziarie, quale disegnata dalle normative di settore o sub settore (quello bancario, quello dell’intermediazione mobiliare, quello assicurativo). Un ruolo sempre più rilevante anche in chiave di tutela di interessi diversi da quelli pubblici tradizionali: mi riferisco, per esempio, alla recente modifica del t.u. bancario in punto di trasparenza delle relazioni banca-cliente, in cui l’anello di chiusura del sistema, ispirato ad esigenze di protezione dei clienti, è rappresentato proprio dalle sanzioni pecuniarie come alternativa ai tradizionali rimedi civilistici. Questa crescente rilevanza delle sanzioni amministrative, anche e proprio di quelle pecuniarie, trova conferma – se ve ne fosse bisogno – in ciò che la Commissione europea ha iniziato da qualche anno ad interessarsi del tema, rimasto fino a poco tempo fa sostanzialmente ignorato dalla normativa comunitaria. Infatti, con una comunicazione del 2010, dal significativo titolo «Potenziare i regimi sanzionatori nel settore dei servizi finanziari», la Commissione ha previsto iniziative legislative dell’UE per fissare norme minime comuni in materia. Nel luglio del 2011, poi, la Commissione ha pubblicato una proposta di direttiva concernente, fra l’altro, la vigilanza prudenziale degli enti creditizi e delle imprese di investimento, uno dei cui elementi di novità è costituito proprio dall’introduzione di disposizioni sulle sanzioni, nell’assunto, come si dice espressamente, che «Regimi sanzionatori efficaci, proporzionati e dissuasivi sono di fondamentale importanza per assicurare il rispetto delle norme UE in materia». È il caso di sottolineare che in tale proposta proprio alle sanzioni pecuniarie viene assegnato un ruolo centrale, con la previsione di importi rilevantissimi (per le persone giuridiche fino al 10% del fatturato complessivo annuo; per le persone fisiche fino a 5 milioni di euro), di gran lunga più elevati – si può per inciso notare – di quelli contemplati nel nostro ordinamento.

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Dibattiti

Il tema dunque è, mi sembra di poter dire, di particolare importanza. Ma è anche particolarmente delicato. Le discipline di subsettore, per la parte che qui interessa, si presentano con caratteri di notevole sommarietà e prospettano, anche in relazione a questo, non poche e non secondari nodi problematici. Per esempio: il rapporto fra queste discipline specifiche e la disciplina generale fornita dalla l. n. 689 del 1981; la rispondenza delle fattispecie sanzionatorie previste dalle disposizioni di settore ai principi di legalità e tassatività; la piena rispondenza delle regole procedimentali al principio del “giusto procedimento” (o forse sarebbe meglio dire del “giusto processo”, ai sensi dell’art. 111 Cost.); la sindacabilità da parte del giudice dell’opposizione degli accertamenti e delle valutazioni tecniche su cui si fondano le sanzioni; ecc. Nodi problematici che si sono nel tempo addirittura accresciuti: oggi, per esempio, è divenuto particolarmente “tormentato” – per effetto di recenti, singolari, scelte del nostro legislatore – il profilo della competenza giurisdizionale in materia. Mi pare, dunque, che la scelta del tema delle sanzioni pecuniarie nel settore finanziario come argomento di riflessione e di dibattito sia ampiamente giustificata. Tanto più ove si consideri, da un lato, che la letteratura in argomento è decisamente scarsa; e, dall’altro, che il contributo della giurisprudenza è stato finora assai modesto, per non dire quasi nullo. Talvolta, anzi, questo contributo è stato addirittura controproducente: e mi riferisco all’autentico “pasticcio” creato recentemente dalle Sezioni Unite – v. le sentenze n. 20930, 20931, 20932, 20933, 20934 del 2009 – in punto di legittimazione all’opposizione da parte dei destinatari delle sanzioni ai sensi dell’art. 195 t.u.f. Naturalmente e come sempre non ci si può attendere da un convegno, da un incontro di studio – per alta che sia la qualità dei relatori: e nel nostro caso è sicuramente altissima – la soluzione finale di tutti i problemi ed il definitivo dissolvimento di tutti i dubbi. È però importante che ci si avvii almeno sulla strada di un processo di chiarimento e approfondimento a tutto campo, che nel nostro caso risulta assolutamente indispensabile data la crescente importanza che questo segmento dell’ordinamento va assumendo. E su questo piano i risultati del nostro incontro saranno, io credo, di assoluto rilievo.

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Sanzioni amministrative e disciplina delle attività finanziarie * Umberto Morera 1. Dichiaro subito sentimenti contrastanti nell’introdurre questo interessante incontro di studio. Da un lato, debbo ammettere una certa familiarità con la materia delle sanzioni amministrative nel settore bancario e finanziario. Molto spesso, infatti, sono stato impegnato nella difesa giudiziaria dei soggetti sanzionati; e poi io stesso, avendo ricoperto (e ricoprendo) ruoli gestionali all’interno di intermediari, ho rischiato (e rischio) di subire sanzioni amministrative. Dall’altro lato, confesso che mai prima d’ora mi ero fermato a riflettere a fondo sull’effettiva funzione delle sanzioni nel settore bancario e finanziario; sicché temo rischierete di ascoltare qualche pensiero ancora in formazione; e di ciò mi scuso in anticipo. A mia parziale discolpa, posso soltanto invocare un concorso di colpa (in eligendo) di Alessandro Nigro; il quale, piuttosto inavvedutamente, ha pensato di coinvolgere me tra i ben più esperti relatori di oggi. Dico anche che limiterò necessariamente il mio intervento (alla luce poi del ridotto tempo che mi è stato concesso, e che intendo rispettare) alle sole sanzioni amministrative pecuniarie previste dal t.u.f. e dal t.u.b. ove rilevano le potestà sanzionatorie della Banca d’Italia e della Consob. Non tratterò pertanto le aree di competenza dell’ISVAP e della COVIP; né poi il settore delle sanzioni amministrative previste nell’ambito della peculiare disciplina antiriciclaggio. 2. Premesso questo, credo opportuno prendere le mosse del mio intervento rimarcando che il c.d. mercato finanziario, in cui si svolgono le attività finanziarie ed ove convergono i pertinenti flussi di ricchezza (risparmi, investimenti, frutti, crediti, ecc.), deve essere visto come luogo virtuale (o meglio: concettuale), ideato – ma soprattutto considerato e utilizzato – per “delimitare” quanto più possibile il campo d’azione di detti flussi di ricchezza: al fine principale di fornire confini precisi per una corretta e sicura applicazione delle regole di protezione dei soggetti che in quel mercato effettivamente agiscono (intermediari, risparmiatori, investitori). *

Ringrazio l’avv. Giuseppina Satta per gli stimoli e le intelligenti riflessioni che, nell’ambito di un costruttivo scambio di idee, hanno contribuito al formarsi di questa relazione.

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Regolamentare in modo corretto e sicuro il funzionamento del mercato finanziario rappresenta peraltro esigenza imprescindibile al fine di tutelare in genere la stabilità e la credibilità del mercato stesso; anche poi per acquisire di conseguenza, nel suo ambito, sempre più consistenti quote di ricchezza. Ciò detto, appare all’evidenza fondamentale: (i) assicurare la produzione di precise regole di condotta rivolte agli operatori che agiscono in detto mercato; (ii) assicurare un costante controllo sull’osservanza di dette regole; (iii) assicurare una concreta possibilità di sanzionare coloro che le violano. Costituisce principio tanto ovvio quanto fondamentale quello per cui la forza di una regola si misura anche (se non principalmente) sull’effettività dell’irrogazione della sanzione conseguente alla sua violazione. Tutta l’attività cui ho appena accennato risulta garantita dal nostro ordinamento, che affida alla Consob ed alla Banca d’Italia i tre fondamentali poteri: (a) di regolamentazione (c.d. vigilanza regolamentare); (b) di vigilanza (suddivisa, tipicamente, in vigilanza informativa ed ispettiva); (c) di irrogazione delle sanzioni. Poteri che ciascuna di dette autorità svolge in via “unitaria”; laddove invece, come noto, detti poteri vengono solitamente esercitati da soggetti diversi. A ben vedere, allora, mi sembra che un’indagine sulle logiche sottostanti le potestà sanzionatorie di Consob e di Banca d’Italia non possa ignorare le altre, distinte, funzioni assegnate a dette autorità: appunto quella regolamentare e quella di vigilanza. Il peculiare “accorpamento”, in capo ad un unico soggetto (Consob o Banca d’Italia), dei tre poteri di regolamentazione, di vigilanza e di irrogazione delle sanzioni finisce in effetti per determinare che l’esercizio e la valutazione di ognuno di detti poteri non possa in un certo senso prescindere dall’esercizio e dalla valutazione (o, perlomeno, considerazione) degli altri due. Non è un caso che taluno, riferendosi a detti tre poteri, abbia parlato di espressione di una funzione unitariamente costruita. Se questo è vero, ecco allora che, nel settore finanziario, le sanzioni amministrative pecuniarie non potranno avere soltanto le tipiche e consuete funzioni deterrente ed afflittiva. Avranno necessariamente anche una funzione diversa. E la diversità, la peculiarità della funzione sanzionatoria sta tutta nel fatto che quest’ultima, per così dire, “completa” le funzioni di regolamentazione e di vigilanza. Nel senso che, laddove le funzioni di regolamentazione e di vigilanza dovessero in ipotesi fallire (in quanto: (i) la regola non ha avuto di per sé

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la forza di impedire la concreta violazione della stessa; (ii) la vigilanza – informativa o ispettiva – non è riuscita ad impedire la violazione), la terza funzione (quella sanzionatoria) non potrà in principio mai fallire: ove in effetti il soggetto che ha compiuto la violazione della regola subisce in ogni caso perlomeno la punizione (con poi valenza sia sul piano economico che su quello reputazionale). Dovendosi peraltro presumere che il soggetto sanzionato riprenderà ad operare nel più puntuale rispetto delle regole. In un certo senso, quindi, il potere sanzionatorio esercitato dalle autorità nel settore finanziario si presenta come intimamente connesso a quelli di regolamentazione e di vigilanza, apparendo come una sorta di “proiezione” dei primi due; con funzione, appunto, non soltanto deterrente ed afflittiva. E ciò – il punto mi sembra davvero fondamentale – a garanzia della piena effettività dell’attività (regolamentare e di vigilanza) svolta da quella stessa autorità chiamata poi (anche) a sanzionare. A chiusura di questa parte del discorso, va necessariamente anche rilevato che il Legislatore, al fine di essere massimamente coerente con la suddetta impostazione e per conferire una forza ancor maggiore a detta logica “unitaria”, ha di recente rafforzato il sistema dei poteri di regolamentazione, di vigilanza e di irrogazione della sanzione: attribuendo oggi una potestà sanzionatoria piena e “diretta” in capo alla Banca d’Italia ed alla Consob (senza quindi l’intervento di altri soggetti). È noto infatti che prima del recepimento della Direttiva 6/2003 sull’abuso di mercato, avvenuto nel 2005, le autorità di vigilanza in questione avevano soltanto un potere di proposta al M.E.F. per l’irrogazione della sanzione (artt. 145 t.u.b. e 195 t.u.f. con perlomeno formale suddivisione dei compiti tra organo tecnico da un lato (accertante la violazione e proponente l’applicazione della sanzione) ed organo politico dall’altro (irrogante la sanzione). Ed è anche importante sottolineare come detto trasferimento del potere sanzionatorio dal M.E.F. alla Banca d’Italia ed alla Consob sia stato formalmente “bilanciato” dal nostro Legislatore attraverso l’introduzione, “a sistema”, di una serie di regole poste a garanzia dei soggetti destinatari dell’azione sanzionatoria. In particolare, l’art. 24 l. 262/2005 ha espressamente previsto che i procedimenti sanzionatori (di entrambe le ridette autorità) debbano svolgersi nel rispetto dei principi: del contradditorio; della conoscenza degli atti istruttori; della verbalizzazione; della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie (e cfr. Delibera Consob 5 giugno 2005, n. 15131; Delibera Consob 21 giugno 2005, n. 15086; Provvedimento Banca d’Italia 27 giugno 2011).

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3. Ciò detto in estrema sintesi sul piano generale dell’inquadramento della funzione sanzionatoria nell’ambito della (triplice) complessa funzione affidata alle autorità in questione, mi sembra utile passare adesso a verificare la struttura delle due discipline nell’ambito della quale è dettata la funzione sanzionatoria, rispettivamente di Banca d’Italia e di Consob. Mi riferisco: i) al t.u.b., ove tutta la materia sanzionatoria è unitariamente “raccolta” nel Titolo VIII, comprendente sia le sanzioni penali che quelle amministrative. Ove poi le sanzioni amministrative pecuniarie sono previste dagli artt. 133, 139, 140 e 144; ii) al t.u.f., che invece mostra un’articolazione forse più organica, distinguendo nella Parte V: a) le sanzioni penali (Titolo I); b) l’abuso di informazioni privilegiate, le manipolazioni del mercato (Titolo I bis) e le connesse le sanzioni penali (Capo II) ed amministrative (Capo III); c) le sanzioni amministrative (Titolo II). Per quanto concerne il procedimento sanzionatorio, vi è una piena simmetria fra quanto previsto dal t.u.b. (art. 145) e quanto previsto dal t.u.f. (artt. 187-septies e 195); a parte la poco comprensibile duplicazione del medesimo schema procedurale in due differenti disposizioni (artt. 187-septies e 195 t.u.f.). In estrema sintesi, il (comune) schema procedimentale sanzionatorio prevede: (i) una fase iniziale di contestazione degli addebiti ai (presunti) responsabili e all’intermediario, rappresentativa dell’apertura del procedimento sanzionatorio; (ii) una fase intermedia di istruzione e di contradditorio tra l’autorità ed i (presunti) responsabili, i quali possono essere sentiti e possono produrre “controdeduzioni” a difesa; (iii) una fase finale decisoria, nell’ambito della quale l’autorità decide se applicare la sanzione, ovvero se archiviare il procedimento. A tutti gli illeciti amministrativi, previsti sia dal t.u.f. che dal t.u.b., si applicano poi, in quanto compatibili e salvo diversa previsione, i principi e le disposizioni contenuti nella legge 689/1981, la quale, come noto, costituisce la normativa base in materia di sanzioni amministrative. E cioè, principalmente: il principio di legalità (art. 1); il principio di personalità e colpevolezza dell’illecito (art. 3); il principio di non trasmissibilità dell’obbligazione agli eredi (art. 7); il principio di cumulo giuridico e materiale tra le sanzioni (art. 8). Mentre invece alcuni profili, nel settore che interessa, sono trattati dal t.u.f. e dal t.u.b. con disposizioni del tutto peculiari rispetto alla l. 689/1981.

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In particolare: a) la pubblicazione generalizzata della sanzione (art. 187-septies, co. 3, t.u.f.; art. 195, co. 3, t.u.f.; art. 145, co. 3, t.u.b.); b) l’obbligo (e non già il diritto, così come invece previsto dall’art. 6, l. 689/1981) dell’intermediario di agire in regresso nei confronti dei trasgressori per il recupero delle somme corrisposte (art. 195, co. 9, t.u.f.; art. 145, co. 10, t.u.b.); c) l’esclusione del beneficio del pagamento in misura ridotta previsto dall’art. 16 l. 689/1981 (art. 145, co. 11, t.u.b.; artt. 188, 190, 191, 192-ter, 196 t.u.f.); d) la discrezionalità più elevata nella determinazione della sanzione tra un limite minimo ed un limite massimo (laddove poi: i) sussiste un considerevole divario tra la sanzione minima e quella massima, ben superiore al limite del decuplo previsto dall’art. 10 l. 689/1981; ii) e risultano altresì applicabili non soltanto i criteri di cui all’art. 11 l. 689/1981, ma anche criteri ulteriori, specificatamente previsti da appositi provvedimenti emanati dalle autorità). Il tempo corre e mi avvio alla conclusione. 4. Appurati i profili essenziali della disciplina delle sanzioni amministrative previste dal t.u.f. e dal t.u.b., sia in punto di funzione, che in punto di disciplina, credo utile in chiusura evidenziare alcuni profili che mi sembrano presentare ancora delle criticità, più o meno marcate. 4.1. Innanzitutto, permangono dubbi circa la conformità al principio di legalità del processo di delegificazione attuato in materia dal t.u.f. e dal t.u.b. Come noto, l’art. 1, l. 689/1981 prevede la riserva di legge in materia di sanzioni amministrative. Si tratta di riserva che discende chiaramente dall’art. 25, co. 2, Cost., il quale vieta l’applicazione di una sanzione punitiva se questa non è prevista da una legge; così implicitamente non riconoscendo alcuna potestà in materia sanzionatoria a fonti secondarie (quali, appunto, i Regolamenti o le Circolari della Consob e della Banca d’Italia). Il che naturalmente non esclude certo l’etero-integrazione del precetto normativo da parte della normazione secondaria; a condizione tuttavia che il precetto stesso sia sufficientemente individuato dalla fonte primaria. Sebbene sul punto i prevalenti orientamenti tendano a ritenere tale modus procedendi (delegificazione prima, ed etero-integrazione poi)

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non soltanto legittimo, ma persino inevitabile (alla luce dell’eccessivo tecnicismo che impone la messa a fuoco delle singole condotte illecite), la mia personale impressione è che gli operatori di settore continuino a trovarsi in difficoltà nel ricomporre ad unità il coacervo normativo con cui quotidianamente sono chiamati a confrontarsi. In quest’ottica, credo occorra riflettere sull’opportunità di elaborare un nuovo e più semplice assetto sanzionatorio, in cui le singole fattispecie siano definite in modo assolutamente preciso (anche poi nel rispetto dell’art. 4, co. 2, t.u.b.), possibilmente con l’ausilio di criteri di determinazione della sanzione meno discrezionali (quand’anche talvolta meno casuali) rispetto a quelli attuali. 4.2. Sotto diverso profilo, ho qualche dubbio sull’effettiva osservanza del principio del contradditorio nei procedimenti sanzionatori instaurati dalla Consob e dalla Banca d’Italia. Come visto, dal 2005 è imposta una netta distinzione tra la fase istruttoria e la fase decisoria, senza tuttavia disciplinarne le modalità attuative; sicché tale aspetto è oggi regolato soltanto dalle disposizioni secondarie. Senza qui voler entrare nel merito delle scelte amministrative adottate da ciascuna autorità, credo sufficiente rilevare che, nel momento di passaggio dalla fase istruttoria a quella decisoria, Consob e Banca d’Italia non sono tenute ad informare gli interessati della proposta di sanzione formulata dai competenti (sub)organi. Sorge allora spontaneo il dubbio sull’effettivo rispetto del principio del contradditorio; principio che, come risaputo, dovrebbe essere sempre garantito in ogni stato del procedimento e, dunque, anche nella fase finale (quella decisoria, appunto). Il contradditorio, di fatto, appare limitato alla sola fase istruttoria ed agli interessati è preclusa qualsiasi successiva difesa innanzi al (sub)organo cui è attribuita la decisione. Le Sezioni Unite (Cass., 30 settembre 2009, n. 20935) si sono invero espresse al riguardo, affermando che fase istruttoria e fase decisoria rappresentano due momenti di un procedimento unitario; per cui nella fase decisoria non potrebbero trovare applicazione i princìpi del diritto di difesa, che vengono già garantiti nella precedente fase istruttoria. Tale impostazione, oggi accolta da gran parte della dottrina, non mi sembra convincente. Se infatti è vero che la reiterazione del contradditorio nella fase decisoria potrebbe comportare un aggravamento del procedimento sanzionatorio a discapito dell’esigenza di celerità ed effettività dell’attività amministrativa, mi sembra altresì innegabile che la fase valutativa propria

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del (sub)organo deputato alla determinazione della sanzione dovrebbe pur sempre consentire la replica (e quindi la difesa) dell’interessato in ordine alle conclusioni raggiunte dal distinto (sub)organo che ha invece curato la fase istruttoria. 4.3. Ad oggi manca poi una disciplina concernente la devoluzione delle somme ricavate dall’esecuzione delle sanzioni irrogate. L’unica disposizione in punto mi sembra l’art. 27, l. 262/2005, in forza della quale il governo è stato delegato ad adottare uno o più decreti per l’istituzione di un Fondo di Garanzia per i risparmiatori e gli investitori (d.lgs. n. 179/2007). È ivi previsto che il finanziamento del Fondo avvenga esclusivamente con il versamento della metà degli importi delle sanzioni irrogate per la violazione delle norme di cui alla Parte II del t.u.f. (disciplina degli intermediari). A mio avviso, la previsione avrebbe potuto essere ben più incisiva, disponendo una più mirata destinazione dei proventi delle sanzioni amministrative derivanti da tutte le infrazioni in materia finanziaria e bancaria (in materia assicurativa, l’art. 328 Codice delle assicurazioni (d.lgs. 209/2005) prevede espressamente il vincolo di destinazione delle somme riscosse dal pagamento delle sanzioni inflitte in applicazione degli articoli di cui al Capo IV, a favore della CONSAP per la gestione autonoma del Fondo di garanzia delle vittime della strada). 4.4. Un’ultima notazione. Ai sensi dell’art. 187-octies, co. 6, t.u.f. in materia di abuso di informazioni privilegiate e manipolazione del mercato, è attribuito alla Consob, qualora sussistano elementi che facciano presumere l’esistenza di violazioni della relativa normativa, il potere di ordinare in via cautelare la cessazione della condotta (presunta) illecita. Tale potere non risulta tuttavia attribuito in via generale alla Consob ed alla Banca d’Italia anche in relazione alle ulteriori fattispecie sottoposte al loro controllo. Qualcuno ha criticato questa limitativa scelta di policy; suggerendo l’attribuzione di un più diffuso potere inibitorio in capo alla Consob ed alla Banca d’Italia. Personalmente, non credo che detto potere inibitorio vada incoraggiato ed ampliato. Se infatti è indubbio che, almeno in principio, l’attribuzione di un tale potere di ingiunzione cautelare potrebbe senz’altro rappresentare un efficace strumento di prevenzione nell’ottica di evitare “a monte” il

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compimento della violazione a valle (con poi conseguente irrogazione di una sanzione), occorre tuttavia domandarsi se – in materia di corrente e normale attività (bancaria o finanziaria) – l’inibizione di attività (potenzialmente sanzionabili) sia davvero un bene, ovvero se non finisca per rappresentare un strumento eccessivo di regolamentazione. Con poi il rischio di applicazioni incontrollate.

Le sanzioni amministrative nel settore bancario * Enrico Galanti Ringrazio il prof. Nigro per avere pensato a me per questo intervento al quale potrei dare il sottotitolo Cinque pezzi facili su sorvegliare e punire, perché dividerò le mie considerazioni in cinque punti.

1. Storia. Ritengo utile introdurre l’argomento con qualche flash storico 1. Iniziamo quindi dalla l.b. del 1926 che, inserendo per la prima volta nell’ordinamento lo strumentario degli istituti di vigilanza (capitale minimo, ROB, limite di fido, obblighi informativi, ecc.), a chiusura del sistema, prevede, che in caso di violazione delle sue disposizioni rilevata dalla Banca d’Italia che ne da comunicazione al Ministro, un potere di: “provvedere, con proprio decreto, all’applicazione di pene pecuniarie”, stabilite in cifra fissa ovvero in misura percentuale rispetto all’infrazione rilevata. È anche previsto che: “Qualora la violazione delle norme predette rivesta, a giudizio insindacabile del Ministro, carattere di eccezionale gravità, può essere anche disposta la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’azienda”. Si è quindi di fronte ad una revoca-sanzione, mentre ancora non sono previste procedure di crisi speciali. Il modello non manca di tratti di tipo autoritario in sintonia con il clima del venten*

Le opinioni espresse sono esclusivamente dell’autore e non impegnano l’istituto di appartenenza (Banca d’Italia) 1. Per una più ampia ricostruzione storica della materia, cfr. Ceci Iapichino, Le sanzioni amministrative, in Diritto delle banche e degli intermediari finanziari, a cura di Galanti, Padova, 2008, p. 1421. per un’ampia trattazione in materia di sanzioni bancarie, cfr., di recente, Baldassarre, in Le sanzioni delle autorità amministrative indipendenti, a cura di Fratini, Padova, 2011, p. 471 ss.

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nio dato che: “Contro l’applicazione delle sanzioni … non è ammesso alcun gravame né in sede amministrativa, né in sede giudiziaria”. La l.b. del 1936-38, introducendo provvedimenti speciali di gestione delle crisi, li differenzia dalle sanzioni amministrative pecuniarie e, significativamente, colloca queste ultime nell’ambito delle “Sanzioni penali” (Tit. VIII) insieme ai reati veri e propri. A tale legge risale un’ampia delega di normativa secondaria alle autorità di controllo (contenuta nell’art. 32, che trova oggi corrispondenza nell’art. 52 t.u.b.) e, di conseguenza, la copertura tramite sanzione amministrativa pecuniaria non solo delle violazioni della legge primaria ma anche di tutte le disposizioni di normativa secondaria emanate dall’autorità di controllo in base alla legge stessa (art. 87, co. 1, lett. b). Tale sistema verrà mantenuto nel t.u.b. ed è stato criticato da parte della dottrina che lo ha ritenuto non del tutto conforme ai principi di determinatezza e tassatività sanciti dalla l. n. 689/1981 2 ancorché la giurisprudenza l’abbia sempre ritenuto in linea con tali principi 3. Essa tiene fermo lo schema procedimentale basato sull’istruttoria e la proposta dell’autorità tecnica (BdI) e la decisone di quella politica (decreto del Ministro del tesoro, su autorizzazione del CICR) ed introduce la fase giurisdizionale del reclamo alla Corte di appello di Roma quale giudice unico che segue il rito dei procedimenti civili in camera di consiglio. Tale ultima previsione comporterà poi, nel tempo, che, sino alle modifiche al giudizio di cassazione introdotte dal d.lgs. n. 40/2006, il decreto della Corte d’appello sia ricorribile in sede di legittimità solo con il ricorso straordinario ex art. 111 Cost. e, quindi, non per tutti i motivi previsti dall’art. 360 c.p.c. 4. La terza tappa di questo percorso storico può essere considerata l’emanazione della legge generale sulle sanzioni amministrative, la n. 689/1981 che, secondo alcuni 5, mutua alcuni schemi procedimentali proprio dalla l.b. e, comunque, non cambia il quadro di riferimento di settore, svolgendo un ruolo integrativo e suppletivo a livello di principi generali ed anche di singole disposizioni procedimentali

2. Cfr., ad es., Mattarella, Le sanzioni amministrative bancarie, in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, p. 695. 3. Oltre a numerose pronunce della Corte di appello di Roma e ad alcune della Corte di Cassazione, cfr. anche la fondamentale Corte Cost. 4.3.1999, n. 49. 4. Limitazione questa considerata non contraria alla Costituzione da Corte Cost. n. 49/1999, cit. 5 Ceci Iapichino, Le sanzioni, cit., p. 1436.

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che si applicano ove la l.b. (in quanto legge speciale) non disponga diversamente. Sul piano applicativo, la dottrina segnala che, dopo un certo attivismo iniziale, la Vigilanza fa scarso uso del potere sanzionatorio che viene invece rivalutato a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, in concomitanza al passaggio, in ossequio agli orientamenti comunitari, dalla vigilanza strutturale a quella prudenziale, caratterizzata da un minor grado di discrezionalità 6. Quasi che le autorità di controllo avessero voluto compensare la perdita di parte della loro discrezionalità con il maggior utilizzo dello strumento sanzionatorio a garanzia dell’efficacia di un sistema di regole basato sull’applicazione di parametri più oggettivi. Va quindi ricordato come il ns. ordinamento, già per effetto della l.b. del 1936-38, debba considerarsi adeguato a quella previsione della II Dir. banche (la DIR. 89/646/CEE), secondo la quale: “gli Stati membri prevedono che le rispettive autorità competenti possano erogare sanzioni nei confronti degli enti creditizi, o dei loro dirigenti responsabili …” (art. 17). Il t.u.b. (d.lgs. n. 385/1993), preceduto dal d.lgs. n. 481/1992, si limita quindi a razionalizzare e aggiornare l’impianto della precedente l.b. che viene tuttavia lasciata fermo nelle sue linee fondamentali, tramite: a) la miglior collocazione sistematica della materia (nel Tit. VIII) con una più chiara distinzione fra reati (essenzialmente l’abusivismo) e sanzioni amministrative pecuniarie; b) l’individuazione dei soggetti responsabili basata sul criterio funzionale (coloro che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo nonché dei dipendenti), anziché su quello soggettivo-nominalistico (dirigenti, liquidatori, commissari, institori, impiegati, sindaci); c) l’adeguamento dell’importo delle sanzioni con ampia differenza fra il minimo ed il massimo (attualmente da € 2.580 a € 129.110) con esclusione della facoltà di pagamento in misura ridotta prevista dall’art. 16 della l. n. 689/1981 e previsione della pena accessoria della pubblicazione (sul bollettino di Vig., o anche su 2 quotidiani, in caso di violazione di disposizioni sulla trasparenza), con conseguente maggior afflittività, anche sul piano reputazionale, della sanzione; d) una migliore definizione del procedimento con: la previsione della fase delle contestazioni e delle controdeduzioni dell’interessato (in ossequio ai principi e sulla falsariga delle disposizioni della l. n. 689/1981) e l’abolizione del parere del CICR. Dopo l’emanazione del t.u.b. un fenomeno importante, al quale accennerò appena per non invadere il campo del collega della CONSOB, è

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Ceci Iapichino, Le sanzioni, cit., p. 1436, nt. 21.


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quello dell’estensione degli istituti e dei meccanismi procedimentali bancari al settore finanziario e del mercato mobiliare (la l. n. 216/1974 conteneva solo norme penali e la l. n. 1/1991 istitutiva delle SIM adottava un sistema misto di sanzioni amministrative pecuniarie ed interdittive) che anzi diventerà poi campo di sperimentazioni ed innovazioni che verranno trasferite, con un movimento di tipo circolare, al settore bancario. Va quindi ricordata la l. n. 262/2005 (c.d. riforma del risparmio) che trasferisce alle autorità di controllo (Banca d’Italia, CONSOB), che prima formulavano una proposta al Ministro dell’economia, ad adottare direttamente i provvedimenti sanzionatori (art. 26). L’ultima tappa di questo percorso storico può essere considerata il cambio di giurisdizione con l’attribuzione da parte del c.p.a. dei reclami in materia di sanzioni alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, a far data dal 16.9.2011 7. Anche qui non vorrei sconfinare nel territorio del prof. Clarich al quale vorrei però porre un quesito sul senso della giurisdizione estesa al merito ex art. 134, co. 1, lett. c) c.p.a. A mio modesto avviso potrebbe trattarsi di un caso in cui il Legislatore minus voluit quam dixit, nel senso che la possibilità del giudice di estendere il proprio sindacato al merito dovrebbe ritenersi limitata alla quantificazione della pena (con il conseguente potere di rideterminarla direttamente, come già facevano le Corti d’appello), senza estendersi – al di la di quanto non avvenga già in base al sindacato intrinseco ma non così forte da toccare il cuore delle determinazioni amministrative – alle valutazioni discrezionali sulla configurabilità della sanzione o se sanzionare o meno. Lui concorda con questa impostazione?

7.

Va dato qui conto del fatto che, successivamente allo svolgimento del seminario, la Corte costituzionale, con sentenza del 27.6.2012, n. 163, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale degli articoli 133, comma 1, lettera l), 135, comma 1, lettera c), e 134, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con cognizione estesa al merito e alla competenza funzionale del TAR Lazio – sede di Roma, le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), e dell’art. 4, comma 1, numero 19), dell’Allegato numero 4, del medesimo d.lgs. n. 104 del 2010». La sentenza, che è motivata in base ad un vizio di eccesso di delega, crea incertezza anche per quanto riguarda la perdurante giurisdizione del giudice amministrativo sulle sanzioni bancarie (ex art. 145 t.u.b.), formalmente non toccate dalla pronuncia ma “trasferite” al giudice amministrativo in base alla stessa norma di delega ritenuta non rispettata dalla Corte costituzionale.

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Dibattiti

2. Dati. Irregolarità rilevate “in ispezione’ Il Gruppo Esame Irregolarità 2008 2009 (ispettivo) Numero revisioni ispettive 196 193 Riunioni GEI 196 193 N. intermediari oggetto 76 91 di procedure sanzionatorie (38%) (47%) Riferimenti altre Autorità 137 145 di cui: Ag 94 103 di cui: COSOB 22 22 di cui: UIF 21 20

2010

2011

215 215 109 (50%) 162 99 18 45

203 172 77 (37,9%) 100 70 13 17

di cui: 2011 I° sem. II° sem. 125 78 125 47 46

31

Ritengo ora utile mostrare un po’ di dati inediti che ritengo indispensabili per inquadrare il fenomeno e per capire: “Di cosa parliamo quando parliamo di sanzioni bancarie” 8. La prima tabella riguarda le pratiche provenienti dall’Ispettorato esaminate nel corso delle riunioni dell’apposito gruppo per l’esame delle irregolarità. La riga interessante è la terza. Mostra il numero di procedure sanzionatorie aperte ogni anno sulla base dei rapporti ispettivi. Fra parentesi è segnato il dato percentuale che oscilla fra il 37-38 ed il 50%. Il che vuol dire che su 100 rapporti ispettivi si hanno sino ad un massimo di 50 avvii di procedure sanzionatorie (una ogni due rapporti). Irregolarità rilevate “a distanza’ Il Gruppo Esame Irregolarità 2008 2009 2010 2011 (cartolare) Numero segnalazioni esaminate 265 358 305 225 Riunioni GEI 30 37 31 24 proposte di: avvio procedura sanzionatoria 34 (13%) 74 (21%) 51 (17%) 30 (13%) riferimenti in CEI 19 (7%) 30 (8,4%) 40 (13%) 9 (4%) segnalazioni ad altre Autorità 22 (8,3%) 46 (13%) 82 (27%) 92 (41%) Altro (es. archiaviazioni) 190 208 132 94

8.

di cui: 2011 I° sem. II° sem. 126 99 11 13 22 7 42

8 2 50

I dati delle prime due tavole derivano dalle statistiche di lavoro del Servizio Vigilanza REA (ringrazio la dr.ssa Alfonsina Orefice per la loro disponibilità). Essi sono stati riscontrati con alcuni dati di lavoro dell’Ispettorato Vigilanza, cortesemente fornitimi dal dr. Domenico Roselli. Le statistiche della terza tavola sono quelle del Servizio Consulenza legale (l’Avvocatura della Banca d’Italia).

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La seconda tabella mostra le irregolarità riscontrate in base alla c.d. “Vigilanza cartolare” (segnalazioni periodiche o loro mancato invio, rapporti degli ispettorati interni, del Collegio sindacale o del Revisore ex art. 52 t.u.b., ecc.). Anche in questo caso, la terza riga mostra il numero di procedimenti sanzionatori avviati ogni anno e le relative percentuali rispetto alle segnalazioni. Come si vede, si va dal 13 al 21%, che è come dire, al massimo un avvio di procedura ogni quattro segnalazioni. Provvedimenti sanzionatori e opposizioni 2008

2009

2010

2011

Provvedimenti sanzionatori emessi

58

113

145 (*)

116 (**)

Ammontare delle sanzioni inflitte (in mln di euro)

9

9,7

18,2

15,7

Opposizioni

66

39

96 (66,2%)

82 (70,6%)

(*) Nel complesso i procedimenti sanzionatori chiusi nel 2010 sono stati 194; n. 49 procedimenti (25%) si sono conclusi con l’archiviazione. (**) I procedimenti sanzionatori chiusi nel 2011 sono stati 137; n. 21 procedimenti (15%) si sono conclusi con l’archiviazione.

La terza tabella mostra il numero di provvedimenti sanzionatori emessi ogni anno e le relative opposizioni. Ovviamente, dato il termine di 60 gg. per il ricorso, i dati relativi alle opposizioni non possono essere giustapposti meccanicamente a quelli dei provvedimenti, ma, siccome si prendono in considerazione svariati anni, fare delle percentuali ha comunque un senso. Qui, il primo dato interessante è quello relativo alle archiviazioni (cfr. le note evidenziate con asterischi) che sono, per gli ultimi due anni disponibili (2010 e 2011), rispettivamente del 25 e del 15%. Ciò sembra testimoniare che il procedimento non è un mero rituale, atteso che sino ad uno su quattro di essi si chiude con un’archiviazione a seguito dell’esame delle ragioni addotte dagli esponenti con le controdeduzioni. Dall’esame dei dati della Consulenza legale è possibile anche ricavare i tassi di soccombenza che sono i seguenti: nel 2009 su 87 decreti emessi all’esito di altrettanti giudizi si è avuto solo un annullamento e 16 riforme parziali (per lo più rideterminazioni della pena pecuniaria) il che porta, rispettivamente, ad un tasso di soccombenza del 98,50% (se consideriamo quella totale) dell’82% (se consideriamo anche la soccombenza parziale). Nel 2010 abbiamo un solo annullamento giudiziale a fronte di 33 pronunce (tasso di soccombenza del 97%). Nel 2011 due annullamenti su 37 pronunce (tasso di soccombenza del 95%). Come si

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può interpretare questa buona resistenza dei provvedimenti sanzionatori al controllo giudiziale? Direi innanzitutto con il fatto che le procedure sanzionatorie vengono avviate a fronte di irregolarità serie e diffuse e che, quindi, i relativi provvedimenti sono solidamente motivati. Ciò risulterà più chiaro da quanto si osserverà fra poco in punto di discrezionalità dell’autorità di controllo nell’avvio della procedura. Una seconda spiegazione potrebbe risiedere nell’esistenza di un’avvocatura interna altamente specializzata e adusa a difendere l’ente in cause del genere.

3. Discrezionalità. Vorrei ora parlare brevemente, non più di qualche suggestione perché il tempo fugge, sulla discrezionalità nell’esercizio del potere sanzionatorio. Tutti sanno che dottrina e giurisprudenza si sono spesso divise sul tema. Per semplificare si può dire che si contrappongano due tesi: quella più rigoristica, che ritiene la discrezionalità dell’Amministrazione nell’esercizio del potere sanzionatorio di tipo tecnico nel decidere se la fattispecie concreta rientra in quella sanzionabile e poi, al massimo, limitata alla quantificazione della pena pecuniaria 9 e quella che invece ritiene l’Amministrazione dotata di discrezionalità anche in ordine all’an della sanzione – una volta constatato che la fattispecie concreta rientra in quella sanzionabile 10. La prima tende ad equiparare l’esercizio del potere sanzionatorio alla giurisdizione e ricorda il P.M. che ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.) – la seconda sottolinea che un conto è l’obbligo di procedere, altro quello di irrogare comunque la sanzione. Questa seconda fase, come tutta l’attività amministrativa, non è sottratta all’esercizio di un potere che rimane discrezionale.

9. A favore di questa tesi: Capaccioli, Principi in tema di sanzioni amministrative: considerazioni introduttive, in Le sanzioni in materia tributaria, Milano, 1979, p. 125 e Desiderio, Giurisprudenza e dottrina sulle sanzioni amministrative della legge bancaria alla verifica della nuova legge di depenalizzazione, in Giust. civ., 1984, II, p. 234. Per un approfondito esame delle varie posizioni dottrinali sul punto, cfr. Condemi, Le sanzioni amministrative bancarie e la giurisprudenza della Corte di appello di Roma, Banca d’Italia, Quad. ric. giur., n. 22, Roma 1991, p. 23 ss. 10. Questa tesi, è sostenuta, fra gli altri da Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924 e da Bassi, Sanzioni amministrative e interesse pubblico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1981, I, p. 484.

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La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha, in passato, sostenuto la prima tesi ma mancano pronunce recenti mentre quella amministrativa, prima dell’emanazione del C.P.A., tendeva ad analizzare il tema ai fini del riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, distinguendo tra sanzioni punitive e misure ripristinatore, riconoscendo solo nel secondo caso la giurisdizione del giudice amministrativo in quanto, nel caso di sanzioni punitive, è configurabile un carattere meramente afflittivo ed un collegamento al verificarsi concreto della fattispecie legale, restando esclusa ogni discrezionalità in ordine alla loro irrogazione se non quanto alla misura 11. Mi sembra che questo quadro debba essere rimeditato proprio alla luce dell’entrata in vigore del C.P.A. che, nelle materie, che ci interessano, ha devoluto anche le mere sanzioni pecuniarie alla giurisdizione amministrativa esclusiva. Va detto subito che la Banca d’Italia, nell’esercizio del potere sanzionatorio riconosciutole dalla legge, da sempre, più per buon senso pratico che per adesione ad una teoria ben precisa, ritiene questo esercizio non scevro da discrezionalità. In questo caso di tratta di un utilizzo della discrezionalità che mi sembra appropriato definire in bonam partem giacché, se così non fosse, essa si vedrebbe costretta ad applicare sempre e comunque una sanzione, anche nei casi di violazioni minime che non abbiano messo a rischio il bene tutelato, salvo poi applicare, in concreto, il minimo della pena edittale. Quelle statistiche che abbiamo visto sarebbero, allora, assai diverse, il numero di decreti sanzionatori ben più alto, gli intermediari vessati da una raffica di provvedimenti sanzionatori, i giudici sommersi di ricorsi: l’intero sistema rischierebbe una perdita di efficacia e credibilità 12. Devo dire che questo approccio mi sembra del tutto giustificato alla luce di due considerazioni.

11.

Cons. St., sez. VI, 9.8.1986, n. 642; Cons. giust. amm. sic., sez. giurisdiz., 21.11.1997, n. 497; TAR Lazio, sez. I, 27.9.1999, n. 2131; TAR Lazio, sez. II, 3.3.2005, n. 1641; TAR Lazio, sez. I, 15.2.2006, n. 1110 (in materia di sanzioni CONSOB nei confronti dei promotori finanziari la cui cognizione spetterebbe al giudice ordinario «non sussistendo nella scelta della sanzione alcuna discrezionalità amministrativa»); TAR Veneto, sez. II, 18.1.2007, n. 129. 12. È interessante notare come la successiva relazione dell’avv. Carriero evidenzi il fatto che un simile principio, al quale la Banca d’Italia si attiene per una prassi risalente, è stato codificato dal codice delle assicurazioni (d.lgs. 7.9.2005, n. 209) il cui art. 326, co. 1 prevede che: «L’ISVAP, ad eccezione dei casi di assoluta mancanza di pregiudizio per il tempestivo esercizio delle funzioni di vigilanza o per gli interessi degli assicurati e degli altri aventi diritto a prestazioni assicurative … provvede alla contestazione degli addebiti …».

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La prima è che la l. n. 689/1981, che detta i principi della materia, non contiene nessuna norma che imponga all’amministrazione di sanzionare sempre e comunque qualora riscontri una violazione anche minima. Così come non contiene un altro principio cardine del diritto penale, quello dell’applicazione della legge successiva più favorevole al reo. E, difatti, la giurisprudenza ritiene che in materia si applichi piuttosto il principio tempus regit actum. La seconda è che siamo in presenza di una materia particolare, la vigilanza sulle banche, dove l’amministrazione fa applicazione di scienze non esatte (la ragioneria, l’aziendalistica) e di criteri giuridici (per lo meno in parte) indeterminati (la “sana e prudente gestione”, l’adeguatezza degli assetti organizzativi ecc.,) che costituiscono il cuore della discrezionalità. Una cosa è infatti la circolazione stradale, o la tutela dall’inquinamento atmosferico dove anche aver superato di poco le soglie di tolleranza fissate dalla legge può rilevare ai fini sanzionatori (chi non ha mai preso una sanzione per aver sforato anche di poco i limiti di velocità?). Altra cosa è la Vigilanza sugli intermediari dove l’infrazione va sempre contestualizzata e rapportata da un lato all’andamento complessivo del soggetto e, dall’altro, all’idoneità del suo comportamento ad inficiare quella trasparenza che deve sempre esistere fra l’intermediario stesso e la Vigilanza. Non ogni infrazione, anche minima, dovrà, allora, essere colpita da sanzione. Si pensi, ad esempio, alla segnalazione delle partite anomale non a voce propria (una delle infrazioni riscontrate e sanzionate più di frequente). È chiaro, ai fini sanzionatori, non saranno rilevanti tutte le rettifiche ispettive ma solo quelle che, per il loro ammontare, non abbiano consentito alla Vigilanza un corretto apprezzamento del livello complessivo di rischio dell’intermediario. L’utilizzo di una prudente discrezionalità, attenta all’osservanza di una sostanziale parità di trattamento, è così in grado di conciliare l’esigenza che tutte le disposizioni di vigilanza siano assistite da sanzioni (e quindi perfectae) con quella di colpire, nel caso concreto, solo i comportamenti che abbiano comportato un effettivo rischio o una lesione per il bene tutelato.

4. Trasparenza e “rilevante inosservanza”. Il quarto argomento che volevo affrontare è di particolare attualità e riguarda il significato da attribuire all’espressione “rilevante inosservanza” o “condotte… che rivestano carattere rilevante” che figura-

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no nel nuovo testo art. 144, co. 3 e 3-bis, come modificato dal d.lgs. n. 141/2010. E cioè che senso dare a questo inedito parametro della rilevanza recentemente introdotto dal legislatore per la sanzionabilità delle infrazioni in materia di trasparenza bancaria e nella prestazione dei servizi di pagamento 13. Qui, per brevità, imposterò il discorso in modo unitario per quanto riguarda la trasparenza nell’ambito dei servizi di pagamento e quella bancaria ricordando tuttavia che questo parametro fu introdotto per la prima volta (ad opera dell’art. 32 del d.lgs. 27.1. 2010 n. 11 di attuazione della PSD proprio nell’ambito dei servizi di pagamento e che tale materia è, appunto, di diretta derivazione comunitaria. Nel momento in cui, come si è visto, anche l’applicazione in generale delle sanzioni bancarie è connotata da quella discrezionalità che ben consente di non sanzionare violazioni che per la loro tenuità si connotino come irrilevanti che senso dare a questo nuovo parametro della rilevante inosservanza introdotto dal legislatore solo per quanto riguarda alcune materie? La dottrina che si è occupata dell’attuazione della PSD ha evidenziato l’opportunità che i criteri di definizione della rilevante inosservanza siano definiti dalla normativa secondaria mettendo altresì in luce come non sia sufficiente fare ricorso ai parametri di qualificazione della gravità della violazione previsti dalla legge per guidare il giudice o l’amministrazione in sede di quantificazione della pena (art. 133 c.p. o 11 l. n. 689/1981) 14. In attesa che i criteri di individuazione della gravità vengano definiti dalla Banca d’Italia, autorità chiamata ad applicare le sanzioni, con le nuove Istruzioni di Vigilanza sulle sanzioni, ritengo utile cercare di risalire alla ratio, cercare cioè di capire perché il legislatore nel momento stesso in cui faceva assurgere la “trasparenza delle condizioni contrattuali” e la “correttezza dei rapporti con la clientela” a finalità della vigilanza (nuovo art. 127, co. 1, t.u.b.) ha sentito il bisogno di prevedere che, ai fini della sanzionabilità, la violazione di queste norme debba essere rilevante.

13. Sulla nuova disciplina in materia di trasparenza, cfr. Nigro, Linee di tendenza delle nuove discipline di trasparenza. Dalla trasparenza alla consulenza?, in Dir. banc., 2011, p. 11 e Baldassarre, Commento all’art. 127, in Commentario al t.u.b. a cura di Capriglione, Padova, 2012, p. 2012 ss. Per gli aspetti sanzionatori, cfr. Condemi, Commento all’art. 144, ivi, p. 2389 ss. 14. D’Ambrosio, Commento all’art. 32 del d.lgs. n. 11/2010, in La Nuova disciplina dei servizi di pagamento, Torino, 2011, p. 390 ss.

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Possiamo allora ipotizzare varie ragioni. La prima è, forse, che la trasparenza stessa, per quanto di importanza sempre crescente, non rientra fra le finalità primarie della vigilanza e, sembra significativo, dal punto di vista sistematico, che questa integrazione non sia avvenuta inserendo trasparenza e correttezza nelle finalità elencate all’art. 5 ma facendone autonoma e più limitata menzione nell’articolo dedicato alle norme generali in materia di trasparenza. La seconda è che, in questa materia, l’azione dell’autorità si inserisce nel delicato rapporto banca cliente che la legge già presidia da un lato con sanzioni di tipo civilistico 15, spessissimo attivate dall’O.d.V. stesso all’esito delle ispezioni di trasparenza sui singoli sportelli – va qui sottolineato come “l’ordine di restituzione delle somme indebitamente percepite” ora espressamente previsto dall’art. 128-ter, co. 1, lett. a t.u.b. appartenesse già da tempo alla prassi di Vigilanza – e, dall’altro, con sanzioni inibitorie anche limitate a “singole aree o sedi secondarie” (cfr. sempre art. 128-ter, co. 1, lett. a t.u.b.). La sanzione pecuniaria, in quest’ottica di graduazione, starebbe quindi in una posizione intermedia fra quella civilistica e quella inibitoria, in ossequio al principio di proporzionalità. Penso allora che, tenendo anche presente la prassi dell’O.d.V. in materia di controlli di trasparenza, che è quella di procedere con verifiche mirate sugli sportelli, un primo criterio di rilevanza possa senz’altro essere quello relativo alla diffusione della violazione nel senso che, in presenza di una rete di vendita un minimo estesa, non potrebbe essere considerata rilevante una violazione riscontrata in un numero limitato di sportelli. Va tenuto presente che la diffusione attiene spesso anche alla causa delle violazione nel senso che se questa è estesa, o addirittura generalizzata, spesso le carenze dipenderanno dal centro e non dalla periferia (tipico il mancato aggiornamento di procedure ed applicazioni informatiche). Penso che un secondo criterio di qualificazione della gravità che emerge dalla prassi applicativa possa essere individuato nel permanere o meno dell’irregolarità rispetto ad un precedente accertamento, quindi in altre parole della sua reiterazione (il che trova espliciti agganci normativi sia nell’art. 8-bis della l. n. 689/1981 che 133, co. 2 n. 2 c.p. che fa riferimento ai “precedenti”). È ovvio infatti che, in presenza di una nor-

15. Sull’importanza delle sanzioni civilistiche nella nuova disciplina della trasparenza Dolmetta, Funzione di compliance e vigilanza bancaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, I, p. 125. (in partic. par. 4, p. 134 ss.).

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mativa tanto dettagliata e pervasiva quanto soggetta a continui cambiamenti (che di solito arricchiscono le forme di tutela del contraente debole) un conto è che una determinata violazione venga riscontrata una volta un conto che essa persista e non venga eliminata sia nelle azioni di c.d. follow up ispettivo sia, a maggior ragione, in una successiva verifica.

5. Autorità europee. Mi piace concludere questo mio intervento con alcuni brevi accenni alle problematica della sanzionabilità dei Regolamenti emanati dalla Commissione UE su proposta dell’EBA e delle decisioni di quest’ultima ai sensi del Regolamento UE n. 1093/2010 istitutivo dell’EBA. È chiaro infatti che dobbiamo sempre più pensare all’insieme delle autorità europee di Vigilanza come entità che producono un diritto immediatamente applicabile negli Stati membri, senza più la mediazione della Direttiva da recepire poi in disposizioni nazionali. È altrettanto chiaro che essendo, di regola, le autorità dell’Unione sprovviste, di poteri sanzionatori diretti salvo eccezioni (antitrust, aviazione civile, prodotti farmaceutici, e l’ESMA esclusivamente per quanto riguarda le agenzie di rating) le sanzioni stesse dovranno essere previste dai singoli Stati membri. Questa opzione sembra infatti necessaria al fine di assicurare quell’effettiva applicazione degli atti delle Autorità europee richiesta dall’art. 17 del Regolamento istitutivo EBA e, più in generale, per tener fede al principio di leale cooperazione, sancito dall’art. 4 TUE che impone agli Stati membri di assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Unione 16. Ritengo che il modo migliore di assicurare questo presidio sanzionatorio nazionale alle disposizioni europee sia, per quanto riguarda le banche (ma la soluzione dovrebbe essere analoga ed omogenea anche negli altri settori), l’introduzione nel t.u.b. di una norma sanzionatoria parallela all’art. 144 nella quale operare un richiamo alle fonti dell’Unio-

16. Come ha ricordato CGCE, sentenza 21 settembre 1989, causa 68/88, Commissione c. Grecia. In tale pronuncia i giudici comunitari hanno ritenuto che gli Stati membri, pur conservando la scelta delle sanzioni, debbano assicurare che le violazioni del diritto comunitario siano sanzionate, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza e che, in ogni caso, conferiscano alla sanzione stessa un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva.

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ne ai sensi delle relative disposizioni (artt. 10 e 15 del Reg. istitutivo EBA) e nelle stesse materie per le quali la legge già assicura copertura alle disposizioni delle autorità di controllo nazionali. Utile sarebbe, probabilmente, anche un aggiornamento dell’art. 6 del t.u.b. in materia di rapporti con il diritto comunitario che tenga conto della crescente efficacia diretta delle fonti dell’Unione in materia bancaria e del ruolo di integrazione e di garanzia dell’efficacia che l’ordinamento interno è chiamato a svolgere.

Le sanzioni amministrative nel settore assicurativo Giuseppe Carriero 1. La problematica identificazione delle finalità sanzionatorie. 1. Sulla scorta degli indirizzi e dei principi contenuti nell’art. 4, co. 1, lett. h) della legge di delega n. 229 del 29 luglio 2003, il codice delle assicurazioni private ha razionalizzato e modernizzato l’assetto strutturale e funzionale relativo alla materia sanzionatoria (in precedenza asimmetrico e frammentario anche in quanto disperso nei molteplici rivoli di non sempre coerenti disposizioni legislative) soprattutto enfatizzando il nesso tra la misura repressiva e gli interessi pubblici sottesi alla sua adozione, risultando questa organicamente inserita nel plesso degli strumenti conferiti all’autorità di settore per il perseguimento della funzione di controllo del relativo mercato. Molteplici indicatori normativi militano nel senso indicato. La stessa giurisprudenza di legittimità non esita ad affermare l’immanenza del potere autoritativo dell’autorità pubblica non solo a fini di “accertamento della sussistenza dell’illecito, nell’identificazione dell’autore e del responsabile di esso, nell’applicazione della relativa sanzione”, ma anche “nella determinazione della misura della sanzione che, pur stabilita ex lege nel tipo e nei due estremi quantitativi, rimane, non di meno, rimessa, per ciascun caso concreto, all’ampia discrezionalità nella scelta tra il minimo e il massimo edittali” 17. Tale complementarità dovrebbe caratterizzare (anche in quanto, sul piano positivo, indotta dalla devoluzione operata dalla legge sulla tutela

17.

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Così Cass., 29 novembre 2007, n. 24816, in Assicurazioni, 2008, II, 2, 125.


Giuseppe Carriero

del risparmio alle rispettive autorità di settore della competenza esclusiva in materia) l’intero mercato finanziario e così determinare ricadute importanti sul piano dell’efficacia delle linee di policies perseguite nell’adozione del procedimento sanzionatorio in termini di loro idoneità a soddisfare, nel rispetto dei diritti soggettivi incisi, gli stessi obiettivi della supervisione. Dovrebbe altresì imporre nuove metodiche di analisi, non essendo scontato che l’incremento dei procedimenti sanzionatori (e degli ammontari monetari comminati) rappresenti sempre un significativo indicatore dell’efficienza del sistema, potendosi anzi (almeno sotto il versante teorico) argomentare un rapporto tra i due insiemi inversamente proporzionale, nel quale maggiori sanzioni potrebbero – per contro – essere segnaletiche di importanti inefficienze di sistema. Mancano tuttavia (e se ne avverte la lacuna) indagini empiriche utili a indirizzare il legislatore nelle future rivisitazioni (ora prevalentemente di matrice europea) della disciplina. Manca soprattutto, anche in questa materia, una visione d’insieme del mercato finanziario unitariamente inteso.

2. Disciplina e giurisdizione dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 20 giugno 2012. Passando, con la sintesi del caso, a identificare le principali caratteristiche della disciplina sanzionatoria assicurativa e le relative differenze (o analogie) con le corrispondenti norme in essere nei settori bancario e mobiliare, è indispensabile muovere dall’art. 325 del codice delle assicurazioni il quale (diversamente da t.u.b. e t.u.f., nonché dalla stessa l. n. 689/1981) identifica quali destinatari delle sanzioni (al netto della residuale eccezione rappresentata dalla violazione da parte degli incaricati, a diverso titolo, dei controlli sulla società) le imprese di assicurazione e gli intermediari per le violazioni dei propri dipendenti e collaboratori. Trattasi di responsabilità diretta ed esclusiva tesa, per un verso, a operare un’importante semplificazione quanto all’individuazione del responsabile; per altro verso a uniformare questa disciplina alle più recenti evoluzioni legislative in materia di diritto penale dell’impresa 18. La responsabilità di imprese e intermediari torna a essere indiretta nei soli casi in cui i destinatari delle sanzioni “dimostrino che la violazione è

18.

V. il parere del Consiglio di Stato sullo schema del codice delle assicurazioni, 14 febbraio 2005, n. 11603 e la stessa relazione illustrativa.

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stata commessa da propri dipendenti o collaboratori con abuso dei doveri di ufficio e per trarne personale vantaggio” (art. 325, co. 2), nonché quando l’inosservanza “sia stata posta in essere da soggetti ai quali siano state affidate funzioni parzialmente comprese nel ciclo operativo delle imprese di assicurazione o riassicurazione” (art. 325, co. 3). Ulteriore importante prescrizione che conferma sia la maggiore modernità del codice rispetto ai corrispondenti insiemi disciplinari di banca e finanza sia, per tabulas, la ricorrenza di discrezionalità amministrativa pure in un contesto (quale quello in rassegna) pregno di diritti soggettivi è quella contenuta nell’art. 326, dove “l’assoluta mancanza di pregiudizio per il tempestivo esercizio delle funzioni di vigilanza o per gli interessi degli assicurati e dei loro aventi diritto a prestazioni assicurative” rappresenta una causa di non punibilità riguardo a fatti formalmente conformi al tipo legislativamente previsto ma sostanzialmente giudicati inoffensivi quanto al perseguimento delle finalità di supervisione. Anche in ragione di tale espressa esimente e della sottesa rimessione all’Isvap della valutazione del pubblico interesse prevalente nella relativa comparazione (il giudizio sulla mancanza di pregiudizio, che deve essere “assoluta”, quindi totale, è sindacabile nei noti limiti costruiti dalla giurisprudenza amministrativa), mi sembra che la conseguente devoluzione delle controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sancita dall’art. 326, co. 7 sia – come detto – necessitata. Questa disposizione anticipa la scelta poi adottata con il codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 del 2010) di attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (con cognizione estesa al merito) e alla competenza funzionale del Tar del Lazio (sezione di Roma) anche le omologhe controversie in materia di sanzioni amministrative bancarie (irrogate dalla Banca d’Italia) e del mercato mobiliare (irrogate dalla Consob). È noto, per la sua risonanza anche nell’ambito dei mezzi di comunicazione di massa, che il giudice delle leggi, con la recente sentenza n. 162 del 20 giugno 2012 19, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle relative norme limitatamente alle sanzioni irrogate dalla Consob sia – sul piano formale – per l’eccesso di delega in parte qua ravvisato per non avere il legislatore delegato tenuto conto, “nel momento in cui interveniva in modo innovativo sul riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e

19. V., ad es., Il Sole 24 ore del 28 giugno 2012, Sanzioni Consob, la competenza è del giudice ordinario, p. 37. La decisione della Corte, successiva all’incontro di studio, è intervenuta mentre veniva approntato il testo scritto della relazione svolta.

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giudici amministrativi”, del diritto vivente rappresentato dalla diversa giurisprudenza della Corte costituzionale e delle magistrature superiori sia – su quello sostanziale – perché tali sanzioni vanno applicate “sulla base di criteri che non possono ritenersi espressione di discrezionalità amministrativa”. In attesa della quasi certa seconda puntata attinente al sindacato sulle non dissimili prescrizioni in materia bancaria, mette conto anticipare che omologhi risultati non dovrebbero essere estensibili al settore assicurativo. Diversamente dalla giurisprudenza formatasi nel settore mobiliare (e in quello bancario), gli orientamenti delle magistrature superiori 20 hanno – con riferimento alla giurisdizione amministrativa già sancita dall’art. 6, l. 5 marzo 2001, n. 57 – confermato la coerenza con i principi della legge fondamentale e dell’assetto ordinamentale dell’attribuzione al giudice amministrativo delle controversie sui relativi provvedimenti sanzionatori. Argomentando (è appena il caso di ribadirlo) proprio in ragione della riconosciuta discrezionalità in capo all’autorità di supervisione che con il codice delle assicurazioni private sicuramente si accresce, certo non affievolisce. La decisione della Corte costituzionale corre peraltro il rischio di sollevare problemi interpretativi non banali in ordine al giudice competente. Ricordo solo incidentalmente che, a seguito della devoluzione al giudice amministrativo della giurisdizione relativa a “blocchi di materie” operata col d. lgs. 31 marzo 1998, n. 80 prima, con la l. 21 luglio 2000, n. 205 poi, dottrina e giurisprudenza si interrogarono (con esiti contrastanti) circa l’eventuale passaggio a questo giudice delle attribuzioni contemplate dalle leggi speciali (artt. 144 t.u.b. e 195 t.u.f.) a favore della(e) corte(i) d’appello in ordine alla materia sanzionatoria. Tanto che, a fronte della conseguente incertezza, il legislatore sentì il bisogno di ribadire – in sede di riforma della disciplina processuale del diritto societario – la esclusiva appartenenza alla corte d’appello di tutte le controversie sanzionatorie in materia bancaria e finanziaria (art. 1, co. 2, d.lgs. n. 5 del 17 gennaio 2003). Questa norma è stata tuttavia abrogata dall’art. 54 della l. 18 giugno 2009, n. 69 di delega al governo della riforma dei riti del processo civile e il successivo decreto delegato 1° settembre 2011, n. 150 ha stabilito, all’art. 6, che l’opposizione alle ordinanze ingiunzione si svolga secondo il rito del lavoro innanzi, a seconda delle competenze, al giudice di pace o al tribunale. Da ciò il legittimo dubbio che, in luogo della corte d’appello, sia ora competente a

20.

Trattasi della già menzionata Cass., 24816/2007 con riferimento a Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204, in Foro it., 2004, I, 2594.

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decidere dette controversie questo diverso giudice facendo applicazione dell’indicato nuovo rito. Il problema, di non facile soluzione, appartiene all’esperto di diritto processuale. In ogni caso, quand’anche (come ritengo preferibile) si concluda per la competenza della corte d’appello, il rischio, che avevo in passato avuto modo di segnalare 21, è che – a fronte di un mercato (quello finanziario) unico (ancorché segmentato in partes tres) al quale partecipano intermediari polifunzionali – venga riproposta (pure a fronte della ridetta devoluzione dei procedimenti sanzionatori alla competenza delle autorità settoriali) una anacronistica divaricazione di riti e giudici priva di ogni ragionevolezza. Con costi (in termini di tempi, di specialità dei procedimenti, di diversità degli orientamenti giurisprudenziali) a totale carico della collettività. Tornando al codice delle assicurazioni, è da segnalare che il menzionato co. 7, sub art. 326 prevede altresì la innovativa (e, con riferimento agli altri comparti, inedita) norma che devolve ex lege la difesa dell’Isvap ai propri legali nelle controversie de quibus. Ciò implica l’inderogabile necessità di contemplare, nell’organigramma dell’Istituto, un apposito settore composto da avvocati iscritti nell’elenco speciale annesso all’albo e organizzato secondo le norme che regolano l’esercizio della relativa attività. Da ultimo, in questa fugace e auspico non troppo approssimativa rassegna degli istituti più innovativi del codice, merita speciale menzione l’art. 327 nella parte in cui consente al trasgressore, in un particolare caso di concorso materiale omogeneo (che consegue all’accertamento di più violazioni della stessa disposizione attraverso una pluralità di azioni o omissioni) determinato dalla medesima disfunzione organizzativa, di evitare i rigori connessi all’applicazione del cumulo materiale delle sanzioni. In questo caso può infatti essere applicata un’unica sanzione d’importo inferiore alla sommatoria di quelle previste per i singoli illeciti ove egli ponga in essere un’opera di eliminazione strutturale delle cause della rilevata violazione, validata dall’Isvap.

3. Le principali regole del procedimento. Originariamente strutturato dalla legge istitutiva della vigilanza sulle assicurazioni private (l. n. 576/1982) in termini non dissimili da quanto

21.

V. il mio Mifid, attività assicurativa, autorità di vigilanza, in Dir. banc, 2008, p. 425 ss, ora anche in Scritti di diritto dell’economia, Milano, 2010, p. 283 ss.

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contemplato (per le sanzioni bancarie) dalle corrispondenti disposizioni contenute nella legge del 1936 (r.d. n. 375/1936 e successive modificazioni) prima, nel testo unico poi e – quanto al mercato mobiliare – dal corrispondente testo unico della finanza, il procedimento sanzionatorio viene, con il codice delle assicurazioni, ad assumere connotazioni affatto peculiari. Il già menzionato art. 326 circoscriveva l’intervento dell’autorità di settore alle fasi dell’accertamento e della contestazione dell’illecito, devolvendo (a fronte del reclamo avverso la contestazione degli addebiti) la valutazione dei fatti contestati a una Commissione consultiva (nominata dal ministro dello sviluppo economico e composta da un magistrato che la presiedeva e da due dirigenti, di derivazione dello stesso ministero e dell’Isvap). Tale organismo, acquisite le risultanze istruttorie, esaminati gli scritti difensivi e sentite le parti, poteva disporre l’archiviazione della contestazione; chiedere l’integrazione dell’istruttoria o trasmettere al ministro (competente all’adozione dell’ordinanza ingiuntiva) la proposta motivata di determinazione della sanzione amministrativa. La separazione tra momento istruttorio e momento decisorio acquisiva così totale e manifesta evidenza non solo sotto il versante soggettivo ma anche sotto quello oggettivo, essendo rimessa a tale imparziale organismo la valutazione della completezza istruttoria e la sua idoneità, in un contesto di procedimento “giusto” e nel pieno rispetto del diritto di difesa, a poter determinare l’adozione del provvedimento finale. Questo innovativo procedimento, ispirato a omologhi modelli di derivazione transalpina, ha avuto vita brevissima giacché, ad appena quindici giorni dalla sua entrata in vigore con il codice (avvenuta il primo gennaio del 2006), è stato radicalmente modificato dalla legge sulla tutela del risparmio (n. 262/2005) e dalla conseguente devoluzione – anche nel comparto assicurativo – del potere decisorio alle autorità di settore. Le fonti che disciplinano il procedimento sanzionatorio sono rappresentate, oltre che dal codice delle assicurazioni private, dalla legge sulla tutela del risparmio, dal regolamento dell’Isvap n. 1/2006 e dalla l. 24 novembre 1981, n. 689, la quale agisce in guisa di disciplina suppletiva (o di default rule) per i profili non diversamente regolamentati. Non trovano invece applicazione, per la giurisprudenza amministrativa, le regole del procedimento stabilite dall’omologa legge 7 agosto 1990, n. 241 (e successive modificazioni e integrazioni), costituendo la l. n. 689/1981 disciplina speciale prevalente con garanzie “di livello non inferiore a quelle stabilite da quest’ultima legge” 22.

22

Cfr. TAR Lazio, sez. I, 2 luglio 2008, nn. 8662 e 8786.

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L’avvio del procedimento è disciplinato dall’art. 3 del regolamento Isvap. Prevede che i servizi dell’istituto che rilevino fatti suscettibili di sanzione predispongano l’atto di contestazione, il quale va notificato ai destinatari entro 120 giorni (180 per i residenti all’estero) dall’accertamento dei fatti. La componente valutativa dell’attività di accertamento, siccome non prefissata per legge, “è soggetta a un apprezzamento di congruità e ragionevolezza in base alla complessità oggettiva e soggettiva della fattispecie violata, al grado di conoscenza dell’illecito già maturata in sede acquisitiva, nonché alla rilevanza oggettiva dell’adempimento accertativo” 23. La notifica dell’atto di contestazione segna la data d’avvio del procedimento. L’atto dovrà contenere l’esposizione delle circostanze giuridiche e fattuali della violazione riscontrata; il termine entro il quale l’interessato può esercitare i diritti d’intervento e di partecipazione al procedimento; l’indicazione del responsabile del procedimento. L’istruttoria, regolata dall’art. 4, è caratterizzata dall’acquisizione da parte delle competenti strutture dell’istituto del materiale afferente a tale fase del procedimento. Entro 60 giorni dalla notifica della contestazione, i destinatari possono far pervenire memorie difensive e formulare richiesta di essere sentiti personalmente o per il tramite di propri rappresentanti. È appena il caso di ricordare che possono accedere al fascicolo e alla relativa documentazione senza alcuna opponibilità del segreto d’ufficio 24. Entro i successivi 90 giorni dal ricevimento delle memorie difensive (o, se successiva, dall’audizione personale), le risultanze istruttorie vengono compendiate in una relazione motivata che conclude questa fase del procedimento e, con la trasmissione al servizio sanzioni, apre la fase conclusiva (quella decisoria) dello stesso. Questo servizio, “verificata la ritualità e la completezza degli adempimenti istruttori compiuti e valutate le risultanze dell’istruttoria dei servizi dell’istituto, predispone gli atti conclusivi del procedimento sanzionatorio sottoponendoli al presidente per la decisione” finale (art. 5), che è adottata e notificata entro 90 giorni dal ricevimento (da parte del ridetto servizio) della relazione istruttoria. Si ricorda che una giurisprudenza di merito (peraltro formatasi sul non dissimile procedimento sanzionatorio regolato dalla Consob) ha fat-

23.

Scalise e Mariano, L’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo (Isvap), in Le autorità amministrative indipendenti, Trattato di diritto amministrativo, a cura di Cirillo e Chieppa, Padova, 2010, p. 901. 24. V. Corte Cost., 3 novembre 2000, n. 460, in Foro it., 2001, I, 3055 e Cons. St., Sez. VI, 7 novembre 2006, n. 6562, in Giur. it., 2007, 743 ss.

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to discendere la violazione del principio del contraddittorio dalla circostanza che non è tutelato il diritto dell’interessato all’ostensione della relazione istruttoria e delle conclusioni del servizio sanzioni 25. Diversamente opinando, i giudici di piazza Cavour con una successiva decisione a sezioni unite hanno tuttavia ribadito la coerenza di tale preclusione con la disciplina primaria e con gli stessi principi affermati nella legge sulla tutela del risparmio sia perché il procedimento de quo continua a essere amministrativo e non giurisdizionale; sia perché il rispetto del principio del contraddittorio non implica la necessità di interlocuzione in ogni fase del procedimento; sia infine perché la tutela di tale principio in fase endoprocedimentale è da ritenersi rispettata se e nella misura in cui il contraddittorio si appunti sull’atto che cristallizza, sulla scorta degli elementi in fatto, il thema probandum, vale a dire l’atto di contestazione 26. La separazione della fase istruttoria da quella decisoria è, presso l’Isvap, offerta dalla riferimento del servizio sanzioni – per il tramite del responsabile del coordinamento giuridico – al solo presidente. I termini del procedimento, tranne quello finale della conclusione in due anni dal suo avvio, sono ordinatori.

Le sanzioni amministrative pecuniarie nel settore finanziario Marco Fratini Premessa Il tema delle sanzioni amministrative pecuniarie nel settore finanziario, esaminato in una prospettiva attualizzante e futuribile, può essere idealmente suddiviso e articolato in tre parti: i) in prima battuta, si esaminerà il quadro normativo europeo sul tema; ii) la seconda parte è destinata all’analisi delle prospettive di riforma di tale quadro normativo, per poi sottoporre a virtuale prova di resistenza il quadro normativo

25. V., in particolare, App. Genova, 21 febbraio 2008, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, 76 con nota di Lener. Sulla questione, in dottrina, Grossi, Il procedimento sanzionatorio Consob al vaglio delle corti di merito, in Società, 2008, p. 860, e Schiona, Le garanzie procedimentali nell’impugnazione di sanzioni amministrative pecuniarie da parte dell’Isvap, in Assicurazioni, 2009, I, 339 ss. 26. Cass., 30 settembre 2009, n. 20935, in Foro it., Rep. 2009, voce Intermediazione finanziaria, n. 158.

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nazionale in tema di sanzioni nel settore finanziario alla luce della prospettiva di riforma del quadro normativo europeo, al fine di verificare se l’ordinamento nazionale possa risultare compatibile con la riforma della cornice normativa europea 27; iii) la terza parte è dedicata alle prospettive di riforma dell’assetto normativo nazionale, alla luce della legge comunitaria per il 2010, che ha delegato il Governo ad adottare una riforma del sistema sanzionatorio finanziario ispirata ai seguenti principi: la revisione dei minimi e dei massimi edittali, l’estensione dell’istituto degli impegni, previsto in materia di antitrust, per le violazioni procedurali e organizzative poste in essere dagli intermediari finanziari, l’estensione e l’applicazione generalizzata dell’istituto dell’oblazione, l’introduzione del principio penalistico del favor rei.

1. Il quadro normativo europeo delle sanzioni amministrative nel settore finanziario. Procedendo con ordine e traendo l’abbrivo dalla ricostruzione del quadro normativo europeo, occorre evidenziare che nella costruzione

27. La prospettiva di riforma del quadro normativo europeo interessa l’intero sistema del diritto dei mercati finanziari, investendo sia il settore degli intermediari, sia i mercati regolamentati, sia il settore degli emittenti quotati. Nel dettaglio, sono state elaborate in sede europea le seguenti proposte: a) proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (n. COM (2011) 651 definitivo); b) proposta di Direttiva (c.d. MAD II) del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle sanzioni penali in caso di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato (n. COM (2011) 654 definitivo); c) proposta di Regolamento (c.d. MiFIR) del Parlamento europeo e del Consiglio sui mercati degli strumenti finanziari e che modifica il regolamento (EMIR) sugli strumenti derivati OTC, le controparti centrali e i repertori di dati sulle negoziazioni (COM(2011) 652); d) proposta di Direttiva (c.d. MiFID II) del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai mercati degli strumenti finanziari che abroga la direttiva 2004/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (COM(2011) 656); e) proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2004/109/CE sull’armonizzazione degli obblighi di trasparenza riguardanti le informazioni sugli emittenti i cui valori mobiliari sono ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato e la direttiva 2007/14/CE della Commissione – COM (2011) 683 def.; f) proposta di Regolamento ( c.d. EMIR) del Parlamento europeo e del Consiglio sugli strumenti derivati OTC, le controparti e i repertori di dati sulle negoziazioni (COM (2010) 484 definitivo); g) proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2006/43/CE relativa alle revisioni legali dei conti annuali e dei conti consolidati (COM(2011) 778 definitivo).

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del mercato unico dei servizi finanziari l’UE ha operato lungo due direttrici: da un lato, sono state armonizzate le regole prudenziali e le norme di condotta applicabili nei confronti degli intermediari finanziari; dall’altro, è stato accentrato il potere di vigilanza in capo a un’autorità europea (ESMA), realizzando una nuova architettura della c.d. “supervisione finanziaria europea” 28. Più che di supervisione, in realtà, deve parlarsi di “super-vigilanza”, dal momento che l’autorità europea è titolare di penetranti poteri, volti a garantire la stabilità e l’efficienza del mercato finanziario, nella prospettiva della tutela dei risparmiatori. Per l’assolvimento di tali compiti il legislatore ha munito l’organo europeo di poteri: a) di proposta normativa e di regolazione delegata; b) di soft law (raccomandazioni e pareri, che sono resi indirettamente vincolanti attraverso il meccanismo del comply or explain); c) di indirizzo e “super-vigilanza”; d) di intervento d’urgenza; e) di coordinamento e di risoluzione delle controversie tra Autorità nazionali di vigilanza; f) di sostituzione alle

28.

Sul finire di settembre 2010, dopo aver promosso per più di un anno una riforma radicale della supervisione finanziaria europea, il Parlamento Europeo ha approvato un pacchetto legislativo (Direttiva 2010/78/UE; Regolamento UE n. 1093/2010; Regolamento UE n. 1094/2010; Regolamento UE n. 1095/2010) che modifica sostanzialmente, a decorrere dall’anno 2011, il controllo e la vigilanza su banche, imprese assicurative e mercati finanziari, istituendo tre Autorità europee di vigilanza (AVE) – l’Autorità bancaria europea, l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali e l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati – in sostituzione dei preesistenti comitati con poteri consultivi. Accanto alle tre Autorità di vigilanza – che assolvono una funzione di controllo di tipo micro-prudenziale – è stato istituito un Comitato europeo per il rischio sistemico (CESR), chiamato a vigilare sui mercati finanziari in prospettiva macro-prudenziale, al fine di allertare in caso di rischio per l’economia europea. Il CESR – in seno al quale un ruolo decisivo è svolto dalla Banca centrale europea – ha il compito di monitorare e di valutare il mercato per mitigare l’esposizione del sistema al rischio di fallimento delle componenti sistemiche e aumentare la resistenza del sistema finanziario agli shock. Il nuovo sistema dovrebbe garantire una protezione più efficace ed evitare il ripetersi di decisioni unilaterali come quella presa dal governo tedesco sul divieto delle naked short sales. Allo stesso tempo, le nuove regole dovrebbero rafforzare il mercato interno per i servizi finanziari e garantire miglior protezione per gli investitori. Sul nuovo assetto della vigilanza, Cerulli Irelli, Dalle agenzie europee alle autorità europee di vigilanza, in ASTRID, Lo spazio amministrativo europeo. Le pubbliche amministrazioni dopo il Trattato di Lisbona, a cura di Chiti e Natalini, Bologna, 2012; Bilancia, Il sistema europeo di regolamentazione dei servizi finanziari, in Dir. economia, 2008, p. 45; Occhiena, La riforma della vigilanza finanziaria dell’Unione europea, in Dir. economia, 2010, p. 637 Sul tema, sia consentito anche rinviare a Fratini, Sub art. 2, in Il Testo Unico della Finanza, a cura di Fratini, Gasparri, Torino, 2012, p. 92.

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Autorità nazionali nell’esercizio dei poteri di controllo nei confronti dei soggetti da essa vigilati. Tali poteri, tuttavia, non sono assistiti e completati da una potestà sanzionatoria, che resta delegata all’autorità di vigilanza nazionale 29. Tale circostanza ha profondamente inciso sulla configurazione del quadro normativo europeo sulle sanzioni amministrative nel settore finanziario, che si presenta non solo non accentrato, ma anche non armonizzato; il che rende difficile la ricostruzione del quadro stesso. Volendo effettuare un tentativo ricognitivo, si possono identificare quattro gruppi di norme europee: 1) quelle che risolvono i conflitti sul regime sanzionatorio applicabile, cioè stabiliscono quale sia il regime applicabile nell’ipotesi in cui il soggetto che ha posto in essere una violazione svolga attività frontaliera e quale sia l’autorità deputata all’applicazione delle sanzioni amministrative 30; norme, queste, che si configurano come di diritto internazionale privato, più che di armonizzazione; 2) norme che obbligano gli Stati ad applicare sanzioni amministrative, ma non prevedono né il tipo, né la misura della sanzione stabilendo solo un generale e astratto obbligo di punire 31; 3) norme che prevedono specifiche sanzioni in presenza di specifiche violazioni 32; 4) norme che dispongono la pubblicazione delle sanzioni amministrative, specie di quelle pecuniarie, attribuendo quindi alla pubblicazione una funzione di sanzione ulteriore e aggiuntiva, cioè una sanzione nella sanzione 33. Il delineato quadro normativo è stato messo in discussione dal gruppo europeo di esperti 34 che, in una recente relazione, ha posto in evidenza le criticità e i limiti di questo quadro, rilevando l’assenza di un’armonizzazione e, al contempo, l’esigenza di un potenziamento del regime sanzionatorio nel settore dell’attività finanziaria, perché solo l’armonizzazione e il potenziamento di tale regime possono garantire

29.

Con la sola eccezione delle agenzie di rating, in relazione alle quali il regolamento 513/2011/CE ha accentrato il potere sanzionatorio in capo all’ESMA. 30. Cfr. art. 16 della direttiva sugli abusi di mercato; artt. 30 e 132 della direttiva sui requisiti patrimoniali; art. 62 della direttiva MiFID; art. 21 della direttiva OICVM; art. 23 della direttiva prospetto. 31 Cfr., ad esempio, art. 50 della MiFID; art. 136 della direttiva OICVM. 32. Cfr. artt. 62 e 258 della direttiva 2009/138/CE; art. 99 della direttiva OICVM; art. 8 della direttiva 2002/92/CE sulla intermediazione assicurativa. 33. Cfr., ad esempio, art 51 della direttiva MiFID; art. 25 della direttiva prospetto, art. 28 della direttiva trasparency; art. 14 della direttiva sugli abusi di mercato. 34. V. Relazione del gruppo di esperti di alto livello sulla vigilanza finanziaria nell’Unione europea, presieduto da Jacques de Larosière, del 25 febbraio 2009, punto 201.

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la stabilità del settore finanziario. Implicitamente, quindi, il gruppo di esperti sostiene la centralità del sistema sanzionatorio nell’architettura complessiva della vigilanza e la sua rilevanza ai fini della stabilità del mercato finanziario. In altri termini, l’attività sanzionatoria viene concepita come complementare all’attività di vigilanza e centrale nell’esercizio di tale attività 35, divenendo uno strumento posto a tutela della integrità del mercato.

2. Le prospettive di riforma del quadro normativo europeo e la prova di resistenza dell’ordinamento nazionale. La prospettiva di riforma del delineato quadro normativo europeo 36, nel tendere all’armonizzazione delle discipline nazionali sulle sanzioni amministrative, involge anzitutto le violazioni di rilevante gravità, per le quali si prevede che negli Stati membri debba essere necessariamente prevista, da un lato, la revoca alla persona giuridica dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività finanziaria e, dall’altro, nei confronti della persona fisica l’espulsione dal mercato. Tentando la prova di resistenza dell’ordinamento nazionale a tale prospettiva di riforma, l’esito è positivo, perché è ivi già prevista la revoca dell’autorizzazione in presenza di determinate violazioni di rilevante gravità ed è altresì prevista l’“espulsione” della persona fisica, per effetto delle sanzioni amministrative accessorie interdittive (impossibilità per il soggetto che ha commesso la violazione di assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nelle società e perdita dei requisiti di onorabilità). Occorre, tuttavia, sottolineare che tali sanzioni amministrative interdittive sono previste solo in relazione alle violazioni in materia di offerte pubbliche e di abusi di mercato e, quindi, presentano nel nostro ordinamento un ambito di applicazione limitato a taluni illeciti. La seconda proposta di riforma del quadro normativo europeo riguarda l’entità delle sanzioni amministrative pecuniarie, le quali, nella prospettiva dell’Unione europea, devono essere contemporaneamente efficaci, proporzionate e dissuasive. Per assumere tali caratteri, secondo

35. Con evidenti riflessi sul riparto di giurisdizione in tema di sanzioni amministrative irrogate dalla Consob, nel senso della devoluzione di tali sanzioni alla cognizione del giudice amministrativo. 36 V. nt. 2.

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la prospettiva di riforma in esame, deve essere prevista una misura elevata nel massimo edittale della sanzione, che deve risultare maggiore del beneficio potenziale che potrebbe derivare all’autore della violazione dall’illecito posto in essere: in altri termini, occorre scoraggiare un’eventuale accettazione del rischio di una sanzione pecuniaria. Ponendo a prova di resistenza il nostro ordinamento anche sotto questo ulteriore profilo di riforma del quadro europeo, si può constatare come la normativa nazionale in materia preveda già dei massimi edittali generalmente elevati, in alcune ipotesi molto elevati. È il caso degli abusi di mercato, in cui il massimo edittale è di per sé già “milionario”: per l’illecito di manipolazione può essere irrogata una sanzione fino a 25 milioni di euro, con l’aggiunta di un meccanismo moltiplicatore per cui la stessa sanzione può essere elevata fino a 10 volte il massimo edittale se è stato conseguito un profitto elevato. Attraverso il meccanismo del moltiplicatore, l’ordinamento nazionale àncora l’entità della sanzione a quel beneficio cui si riferisce la prospettiva di riforma europea. In più, nel nostro ordinamento è prevista anche la confisca per equivalente: all’autore dell’abuso di mercato viene applicata la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo; quando non sia possibile eseguire la confisca in natura, la stessa può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente (art. 187-sexies del t.u.f.). La confisca dell’equivalente (al pari della confisca in natura) costituisce una misura obbligatoria. In questo modo, essa finisce per configurarsi come una sanzione amministrativa accessoria pecuniaria, che si va a sommare alla sanzione amministrativa principale, La sanzione complessiva finale, per l’effetto, rischia di diventare “più che proporzionata” rispetto alla violazione commessa. La terza proposta di riforma del quadro europeo riguarda proprio il criterio della proporzione della sanzione rispetto alla gravità della violazione: sotto tale profilo, vengono individuati i criteri di proporzionalità. Il primo criterio è rappresentato dal beneficio finanziario derivante dalla violazione: nell’applicare la sanzione l’autorità amministrativa deve tener conto del beneficio conseguito dal soggetto autore dell’illecito. Il secondo criterio è indicativo della solidità finanziaria del trasgressore: più il soggetto è economicamente solido, più deve essere elevata la sanzione, più il soggetto è economicamente debole, più deve essere contenuta la sanzione. Il terzo criterio è costituito dal comportamento collaborativo, dovendosi valutare a fini premiali nella quantificazione della sanzione se l’autore della violazione abbia posto in essere comportamenti volti a eliminare e attenuare le conseguenze negative. La quarta tipologia di criterio

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di proporzionalità è la durata della violazione: più la violazione dura nel tempo e più deve essere elevata la sanzione. Nel sottoporre, sotto tale profilo, a prova di resistenza il quadro normativo nazionale, occorre considerare i criteri di quantificazione delle sanzioni previsti dalla legge 689/81, il cui art. 11 prevede come primo paradigma la gravità della violazione, comprendente anche la durata (in conformità, dunque, con i criteri europei). Il secondo canone previsto dalla legge 689/1981 è l’opera svolta dall’autore dell’illecito per eliminare o attenuare le conseguenze dell’illecito, ovvero il comportamento collaborativo di cui alla proposta di modifica dell’ordinamento europeo: quindi, anche sotto questo profilo, c’è compatibilità tra i due sistemi. Terzo criterio individuato dalla legge 689/1981 sono le condizioni economiche del reo: anche sotto tale profilo risulta perfetta corrispondenza con il criterio enunciato dalla prospettiva di riforma europea. Occorre evidenziare che la legge 689/1981 indica un criterio di proporzionalità aggiuntivo rispetto a quanto previsto in sede di proposta di riforma europea e, al contempo, ne omette uno. Nel nostro ordinamento, infatti, è previsto il criterio della personalità dell’autore dell’illecito, che non compare in sede europea, ma tra i criteri generali di quantificazione delle sanzioni non è presente il beneficio finanziario conseguito dall’autore della violazione: la legge 689/1981 non prende in considerazione il vantaggio conseguito dall’autore dell’illecito. Sotto questo profilo, quindi, l’ordinamento nazione si discosta dal panorama europeo. Nella quarta proposta di riforma del sistema sanzionatorio in ambito europeo si prevede che le sanzioni siano applicabili sia nei confronti delle persone fisiche, sia nei confronti delle persone giuridiche. Nel nostro ordinamento, nel settore finanziario le sanzioni possono già essere irrogate nei confronti delle persone fisiche 37 e dei soggetti che svolgono nella società un’attività di direzione, amministrazione o controllo 38. Inoltre, è prevista la responsabilità in solido della società nell’ipotesi in cui la sanzione sia applicata direttamente nei confronti della persona fisica 39, nonché la responsabilità della società ai sensi della legge 231/2001. Non v’è dubbio, quindi, che sotto tale profilo il nostro sistema “resiste” alle proposte di modifica in sede europea.

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Cfr. artt. 191 e 192 del t.u.f. Cfr. artt. 190 e 193 del t.u.f. 39 Cfr. art. 195, co. 9, del t.u.f. 38

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L’ultima proposta di modifica in ambito sovranazionale riguarda la pubblicazione delle sanzioni, che deve costituire la regola, salva un’eccezione: che la pubblicazione della sanzione possa mettere gravemente a rischio la stabilità e l’integrità del sistema finanziario. Nel nostro ordinamento è già prevista, nel settore finanziario, la pubblicazione della sanzione 40 e si prevede anche l’eccezione indicata in sede di proposta europea, cioè si esclude la pubblicazione delle sanzioni quando dalla stessa possa derivare un danno al mercato. In aggiunta, però, si prevede un’ulteriore eccezione, non contemplata nel panorama di riforma europeo: si può escludere la pubblicità della sanzione quando dalla stessa possa derivare danno sproporzionato alle parti 41. La prospettiva del legislatore nazionale, dunque, si profila più garantista nei confronti del soggetto sanzionato rispetto alla prospettiva europea.

3. La prospettiva di riforma del quadro normativo nazionale. Come anticipato in premessa, l’art. 6, co. 1, lett. l), l. 15.12.2011, n. 217 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee – legge comunitaria 2010) ha delegato il governo ad adottare le modifiche alla disciplina sanzionatoria dettata dal t.u.f. necessarie ad assicurare l’armonizzazione dei criteri applicativi e delle relative procedure sanzionatorie, ad introdurre efficaci misure di deflazione del contenzioso, a garantire l’adeguamento ai modelli normativi dell’Unione europea della disciplina dei controlli, della vigilanza e delle forme e dei limiti della responsabilità dei soggetti preposti 42. 3.1 L’estensione del principio del favor rei. Il legislatore delegato è stato anzitutto chiamato a prevedere l’estensione del principio del favor rei alle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob. Tale estensione risulta quanto mai opportuna e necessaria, alla luce dell’art. 1 della legge 689/1981 che, in materia di sanzioni

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Cfr. artt. 187-septies e 195 del t.u.f. Per una lettura critica, sia consentito rinviare a Fratini, Le sanzioni delle autorità amministrative indipendenti, Padova, 2011, p. 324. 42. Si segnala che, al momento in cui si scrive, i termini per l’esercizio della delega conferita dal legislatore sono inutilmente spirati. 41.

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amministrative, non consente l’applicazione del principio “penalistico” del favor rei e prevede che il fatto contemplato come irregolare venga sanzionato sulla base della norma vigente al tempo del fatto medesimo, nonostante sopravvenienze normative più favorevoli all’autore della violazione. L’affermazione della regola del tempus regit actum scolpita nella legge generale sulle sanzioni amministrative entra in conflitto con l’art. 2, co. 2, ultimo alinea, del reg. n. 2298/95/CE, che al contrario consente l’applicazione al sistema sanzionatorio amministrativo comunitario del principio del favor rei. Tale disposizione, infatti, prevede che “in caso di successiva modifica delle disposizioni relative a sanzioni amministrative contenute in una normativa comunitaria si applicano retroattivamente le disposizioni meno rigorose”. Secondo la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, il principio dell’applicazione retroattiva della sanzione più lieve fa parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, cosicché esso deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario, di cui la Corte garantisce il rispetto e che il giudice nazionale è tenuto ad applicare 43. La delega conferita dal legislatore con l’art. 6 della legge comunitaria per il 2010, ove esercitata, avrebbe consentito di conformare, in materia di sanzioni amministrative applicate dalla Consob, il quadro normativo nazionale ai principi dell’ordinamento dell’Unione europea, sotto il profilo della legge applicabile all’illecito. Ad ogni modo, essendo il favor rei un principio generale dell’ordinamento europeo, la sua immediata applicabilità nell’ordinamento nazionale comporta la disapplicazione automatica dell’art. 1 della legge 689/1981. 3.2 L’estensione dell’oblazione. Nella prospettiva di deflazionare il contenzioso, l’art. 6, co. 1, lett. l), della legge comunitaria 2010 prevede l’estensione dell’istituto dell’oblazione alle fattispecie illecite per le quali tale istituto non è espressamente

43. Cfr. Corte Giustizia, 3 maggio 2005, C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02. Il principio dell’applicazione retroattiva della sanzione più lieve deve essere applicato dal giudice nazionale quando questi debba sanzionare un comportamento non conforme alle disposizioni dettate dalla normativa comunitaria (cfr. Corte di Giustizia, 8 marzo 2007, C-45/06).

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previsto dal t.u.f. Nell’ambito del sistema penale, la facoltà di effettuare il pagamento in misura ridotta, denominata tecnicamente “oblazione” (artt. 162 e 162 bis c.p.), produce l’effetto di mutare il reato in illecito amministrativo, elidendo l’antigiuridicità penale del fatto e risolvendo sul piano “monetario” il disvalore sociale del fatto stesso. Per tale via, lo Stato rinuncia a far valere la propria potestà punitiva che si concreta nell’esercizio dell’azione penale, in considerazione della non rilevante gravità dei reati per i quali è prevista la facoltà di oblazione a favore dell’autore della violazione. Nel sistema sanzionatorio amministrativo, invece, la facoltà di effettuare il pagamento in misura ridotta, prevista dall’art. 16 della legge 689/1981, non incide sulla natura dell’illecito, che conserva il proprio carattere amministrativo, ma impedisce che il procedimento sanzionatorio segua il proprio iter approdando all’adozione del provvedimento sanzionatorio. La possibilità di effettuare il pagamento in misura ridotta costituisce una forma di conciliazione volta a definire il rapporto obbligatorio/ sanzionatorio, onde evitare la successiva fase amministrativa di irrogazione della sanzione, ed eventualmente quella giudiziaria. Eseguito il pagamento, l’obbligazione derivante dall’accertamento della violazione si estingue, con preclusione dell’ulteriore corso del procedimento sanzionatorio, mentre il mancato pagamento nel termine è causa di decadenza dal diritto “de quo” (decadenza rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento giudiziario eventualmente instauratosi, vertendosi in materia sottratta alla disponibilità delle parti). L’arresto del procedimento sanzionatorio e l’estinzione della correlata pretesa non incide, tuttavia, sull’accertamento della violazione, che permane integro sia come fatto storico sia quanto agli effetti che la legge collega ad esso. Dal momento che il pagamento in misura ridotta anticipa e previene l’adozione del provvedimento sanzionatorio, dovrebbe escludersi, a seguito di tale pagamento, anche l’applicazione da parte dell’amministrazione procedente delle sanzioni accessorie che la legge fa discendere dall’applicazione della sanzione primaria pecuniaria. Va detto, tuttavia, che una tale conseguenza appare eccessivamente vantaggiosa per l’autore della violazione, giacchè l’accertamento della violazione si è compiuto e tale violazione è stata in qualche modo riconosciuta dal soggetto che ha provveduto al pagamento in misura ridotta. Del profilo delle sanzioni accessorie non si occupa l’art. 6 della legge comunitaria 2010, se non per quanto attiene al regime di pubblicità dei procedimenti conclusi con l’oblazione, in relazione ai quali il legislatore

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delegato è chiamato a introdurre una nuova disciplina, fermo restando quanto previsto dall’art. 187-septies, co. 3, ultimo periodo, del t.u.f. 3.3 L’ingresso dell’istituto degli impegni Sempre in prospettiva deflattiva, la legge comunitaria 2010 prevede l’ingresso nel t.u.f., con i necessari adattamenti, dell’istituto degli impegni, previsto dall’art. 14-ter della legge 10 ottobre 1990, n. 287, per le violazioni di natura organizzativa o procedurale della disciplina degli intermediari e dei mercati. Nell’ottica di garantire una soluzione più tempestiva dei problemi concorrenziali o di tutela del consumatore discendenti da infrazioni non connotate da particolare gravità, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato può concludere un’istruttoria senza accertamento dell’infrazione accettando gli impegni proposti dalle parti e rendendoli obbligatori per le stesse. Gli impegni, per poter essere accettati, devono essere idonei a risolvere i problemi evidenziati in sede di avvio dell’istruttoria: l’accettazione degli impegni deve essere sempre mantenuta all’interno di un nesso di implicazione e/o presupposizione che riconduca gli impegni stessi all’esigenza di eliminazione dei profili anticompetitivi individuati nell’atto di avvio. Il che comporta l’impossibilità di accettare impegni estranei rispetto ai sospetti di anticoncorrenzialità, che avevano indotto l’Autorità ad avviare l’istruttoria. Né l’accettazione degli impegni risulta integralmente rimessa alla libera scelta dell’Autorità. In ragione del rinvio all’ordinamento comunitario contenuto nell’articolo 14-bis, l. 10 ottobre 1990, n. 287, l’Autorità, infatti, è tenuta al rispetto dei vincoli in esso previsti, non potendo, ad esempio, accettare gli impegni in presenza di un cartello segreto, che integra sicuramente gli estremi di una fattispecie antitrust particolarmente grave. L’istituto degli impegni consente alle imprese di evitare l’accertamento dell’infrazione e all’Autorità di anticipare il proprio intervento alla fase istruttoria.

Discipline speciali e normativa generale sulle sanzioni amministrative pecuniarie Maria Alessanra Sandulli Devo innanzi tutto rivolgere un sincero ringraziamento all’amico e collega Alessandro Nigro per l’invito a partecipare a questo interessante

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dibattito e per l’utilissimo stimolo di riflessione che mi ha offerto. Anche se mi sono tradizionalmente occupata di sanzioni amministrative, avevo lasciato il tema un po’ in disparte, seguendolo negli ultimi anni solo in ambito professionale, salvo un recente approfondimento delle sanzioni antitrust (M.A. Sandulli, I criteri per l’applicazione e la determinazione delle sanzioni Antitrust, in www.federalismi.it, nonché in 20 anni di Antitrust. L’evoluzione dell’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato, a cura di Barucci – Rabitti Bedogni, Torino, Giappichelli, 2010). Sono quindi particolarmente lieta di quest’occasione, che mi ha dato ancora una volta modo di accostarmi ad una materia di indubbia rilevanza, consentendomi di riscontrare che la giurisprudenza costituzionale e comunitaria ha compiuto passi molto interessanti al riguardo, offrendo autorevole conferma delle conclusioni espresse nei miei primissimi studi sul tema (M.A. Sandulli, La potestà sanzionatoria della pubblica Amministrazione. Studi preliminari, Napoli, Jovene, 1981 e Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, Jovene, 1983). Non posso però mancare di ringraziare Alessandro Nigro di avermi coinvolto anche per un’altra ragione, che si aggiunge ai sentimenti di stima, di amicizia e di affetto che da anni ci legano, che anzi ne originano: ho cominciato i miei studi di diritto e di giustizia amministrativa con il prof. Mario Nigro e gran parte della mia capacità di riflessione è sicuramente dovuta al Suo insegnamento. Desidero pertanto rivolgere un commosso e grato ricordo a questo grandissimo e carissimo Maestro. Tornando all’oggetto del mio intervento, anche per cercare di rispettare i tempi assegnatimi con questo tema così importante, comincerei proprio dagli stimoli offertici dalla relazione del prof. Morera. Occorre invero prendere la mosse dalla natura delle sanzioni amministrative per ricavarne le regole di disciplina: le sanzioni amministrative pecuniarie, ma in generale tutte le sanzioni di carattere afflittivo e quindi tutte le misure che, a prescindere dalla eventuale riparazione dell’interesse leso, hanno come scopo primario quello di punire il contravventore, sono soggette alle regole comuni alle sanzioni penali. Mi ha fatto piacere che il prof. Morera ha ricordato la pacifica applicabilità anche a tali sanzioni dell’art. 25, co. 2 della Costituzione: quando (alla fine degli anni ’70) ho intrapreso i miei studi sulle sanzioni, rilevandone l’equiparabilità, a questi fini, a quelle penali, mi sono scontrata con diverse pronunce contrarie della Corte costituzionale e con opinioni dottrinarie perplesse su questo punto, perché l’art. 25 Cost., facendo specifico riferimento alla materia penale, è stato per un lungo lasso di tempo ritenuto inapplicabile alle sanzioni amministrative (sulle ragioni di tale orientamento, vd. amplius infra).

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La l. 689 del 1981, nel disciplinare le sanzioni amministrative pecuniarie, ha poi dato ragione ad alcune mie riflessioni. Negli stessi sensi si espresse poi anche Aldo Travi, nel volume sulle sanzioni amministrative del 1983. La l. 689 afferma, sia pure senza rango costituzionale, il principio di legalità e i corollari principi di tassatività e di irretroattività delle sanzioni amministrative. In realtà si è dovuto attendere molti anni per una piena consapevolezza della necessaria estensione dei suddetti principi a tutte le sanzioni amministrative. Alla fine la riferita teoria dell’unitarietà del fenomeno sanzionatorio ha trovato conferma nella giurisprudenza costituzionale e nella giurisprudenza della Corte EDU, oltre che della Corte di Giustizia UE, che ripetutamente, a partire dalla fine degli anni Novanta, si è espressa in tal senso. Per la Corte di Giustizia cito per tutte una decisione dell’8 luglio 1999 in causa C-199/92 a proposito delle sanzioni a tutela della concorrenza irrogate dalla Commissione europea. Quanto alla Corte EDU, un elevato numero di decisioni afferma, a partire dagli anni 2005 e 2006, l’equiparazione o meglio l’indifferenza della qualificazione dell’illecito della sanzione fatta dagli ordinamenti interni (significativa, per tutte, la sentenza Ziliberberg c. Moldavia. L’importante, rileva correttamente la Corte EDU, è la natura della misura: se la misura è punitiva, la sua è una funzione di deterrenza e di afflizione e questa funzione la unifica a prescindere dalla sua qualificazione come penale o amministrativa; con conseguente necessità di applicare a tale misura tutti principi sostanziali e procedimentali che presiedono all’applicazione delle sanzioni penali: il tema è trattato compiutamente da Goisis, Sanzioni amministrative, tutele procedimentali e giurisdizionali secondo la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, in La sanzione amministrativa. Principi generali, a cura di Cagnazzo e Toschei, Torino 2012, p. 32 ss.). Merita in proposito in particolare segnalare che, secondo il Giudice dei Diritti fondamentali, non si può distinguere il procedimento di applicazione della sanzione amministrativa dal giusto processo penale; di talché anche i principi costituzionali dettati dagli artt. 24 e 111 a tutela del giusto processo devono trovare applicazione al procedimento sanzionatorio amministrativo, imponendo, tra l’altro, una specifica procedura e una rigorosa tempistica di contestazione degli addebiti che consenta all’interessato un effettivo esercizio del diritto di difesa (le leggi di settore la prevedono per le sanzioni in materia finanziaria e la l. n. 689, richiamata per le sanzioni delle Authorities, la prevede per la generalità delle sanzioni pecuniarie, ma alcune discipline di settore, pur contemplando misure gravemente afflittive, non ne fanno menzione: mi

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riferisco ad esempio alle nuove sanzioni applicabili dal GSE, ai sensi del d.lgs. n. 28 del 2011, per la violazione delle norme sulle richieste di tariffe incentivanti per gli impianti fotovoltaici). Analogamente imprescindibile (ma non sempre garantita) è la separazione tra il momento accusatorio, il momento istruttorio e il momento sanzionatorio. Di nuovo, è emblematico in senso omissivo il citato d.lgs. n. 28 del 2011; e ancor più lo sono le sanzioni alternative introdotte dalle norme sul processo in materia di contratti pubblici in alternativa alla dichiarazione di inefficacia del contratto, che il Consiglio di Stato può anche in grado di appello decidere di applicare, senza alcun passaggio di carattere procedimentale. Questo tema era stato affrontato dalla giurisprudenza in riferimento al mutamento del regime delle sanzioni ISVAP, dal tempo in cui le applicava il Ministro all’attuale regime che ne prevede l’applicazione diretta da parte dell’Istituto. Sulla questione si sono espressi prima il TAR (nel 2010) e successivamente, in sede di appello, il Consiglio di Stato del 2011 (sentenza n. 1904), che, correttamente richiamando i principi del giusto processo anche per le misure sanzionatorie amministrative, ne hanno in quella particolare ipotesi ritenuto il rispetto, in quanto il regolamento ISVAP ha previsto una distinzione tra la fase accusatoria e la fase sanzionatoria. Per i principi che devono trovare applicazione nei confronti delle sanzioni amministrative, più che alla 689/91, mi piace però fare richiamo direttamente a norme sovranazionali e a norme di rango superiore, come le disposizioni costituzionali e quelle delle fonti di diritto europeo. La Corte costituzionale, con un’interessante e argomentata pronuncia, la sentenza n 196/2010, ha invero recentemente riconosciuto a pieno titolo l’applicabilità dell’art. 25 co. 2 alle sanzioni amministrative, proprio richiamando sapientemente la Carta EDU (artt. 7 e 49), e l’art. 7 della Carta di Nizza. Ancora, sempre per citare la giurisprudenza recente, la sentenza n. 338 del 2011 della Corte costituzionale, a proposito di misure di politica fiscale, ha sottolineato la necessità di rispettare i criteri di ragionevolezza e proporzionalità fra il comportamento tributario illecito e la sanzione. Questo è invero un altro fondamentale problema di diritto sostanziale: si è parlato di procedimento e di misure procedimentali, ma non è meno importante il problema della ragionevolezza e della proporzionalità della sanzione, perché spesso accade che non ci sia nella legge di previsione delle misure sanzionatorie e/o nella sua applicazione un attento grado di considerazione della gravità dell’illecito e della condotta, e dunque da un lato dell’elemento oggettivo, dall’altro di quello soggettivo. In ciò sicuramente, per quanto riguarda le sanzioni pecuniarie, la legge 689 offre un grande aiuto, perché stabilisce principi abbastanza

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chiari, anche se non è direttamente operante se non come linea interpretativa, come guida al lettore, nei confronti delle sanzioni diverse da quelle pecuniarie. In ogni caso evidentemente i principi affermati dal legislatore del 1981 per le sanzioni depenalizzate vanno letti proprio nell’ottica di un trasferimento dei principi tipici delle sanzioni penali alle sanzioni amministrative, con l’unico limite della loro compatibilità con un sistema non legato alla violazione e alla conseguente riprovazione dell’ordinamento generale. La l. 689 può dunque costituire una chiara linea guida per l’individuazione dei principi – sostanziali e procedimentali – che devono governare l’applicazione di tutte le misure afflittive, anche non pecuniarie, per garantire il rispetto di quelle norme del diritto costituzionale e del diritto europeo che si impongono in via generale ad ogni intervento punitivo, a prescindere da ogni distinzione tra sanzioni penali e sanzioni amministrative. Assume a questi fini valore dirimente, come recentemente emerso nel noto contrasto tra AGCM e AGCOM (e Banca d’Italia) per la competenza a giudicare – ed eventualmente a reprimere – le violazioni alle regole a tutela del consumatore (contrasto risolto a favore delle Autorità di settore dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nelle sentenze 11-16 del 2012), l’art. 9 della legge 689, che, in applicazione del divieto di bis in idem sostanziale che presiede al principio di specialità in materia penale, ne ha significativamente affermato l’operatività anche tra sanzioni penali e sanzioni amministrative, dimostrando l’unitarietà del sistema e la sostanziale identità di natura tra le due sanzioni. La Cassazione ha così ad esempio riconosciuto la specialità dell’illecito amministrativo costituito dal prelievo abusivo di acque pubbliche (caratterizzato dalla natura del bene e dalla finalità industriale dello spossessamento), rispetto al furto. Trattandosi di un principio non costituzionalizzato, può naturalmente accadere che la legge preveda espressamente l’applicazione di una doppia sanzione per lo stesso illecito (come tipicamente avviene per gli illeciti edilizi), come può accadere che l’illecito rientri in due fattispecie simili, ma non identiche, legittimando l’applicazione di entrambe le misure comminate per la relativa commissione. Faccio un esempio recentissimo: una commissione tributaria provinciale in Emilia Romagna, con una decisione di qualche mese fa, si è pronunciata a proposito del d.lgs. 74/2000 che ha introdotto il principio di specialità per le sanzioni tributarie, precisando che esso non opera se si raffigurano due illeciti, per esempio reati per l’emissione di fatture inesistenti e l’illecito amministrativo per omessa dichiarazione degli illeciti correnti conseguiti. Si è affermata cioè la possibilità di configurare due illeciti anche quando

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non è previsto espressamente il cumulo di sanzioni, se la fattispecie è punibile tanto con l’illecito amministrativo quanto con l’illecito penale. Resta comunque ferma l’unitarietà del sistema punitivo, a prescindere dalla qualifica dell’illecito come penale o come amministrativo, ai fini dell’applicabilità alle sanzioni amministrative dei principi costituzionali sulle sanzioni penali. La ragione per cui la giurisprudenza della Corte costituzionale, che pure aveva inizialmente affermato l’applicabilità del art. 25, co. 2 Cost. anche alle sanzioni amministrative (sentt. 66 del 2006 e 78 del 2007), aveva assunto dopo il 1970 un atteggiamento di maggiore prudenza (sentt. 68 del 1984 e 477 del 1988) è del resto ormai venuta meno, perché quella prudenza era legata alla necessità di identificare la legge cui fa riferimento l’art. 25, co. 2 come legge statale, per assicurare la riserva allo Stato della potestà legislativa in materia penale ed evitare che, riportando le sanzioni amministrative all’art. 25, co. 2, le Regioni potessero pensare di potere legiferare anche in campo penale (Cerbo, Principio di legalità e nuove inedite fattispecie di illecito create dai Sindaci, in Forum di quaderni costituzionali.it). Questo timore è stato chiaramente superato dalla riforma del titolo V della Costituzione, che ormai sancisce la riserva allo Stato della potestà legislativa in materia penale nell’art. 117, co. 2 l. l, consentendo, come sopra ricordato, alla Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 196 del 4 luglio 2010, di richiamare espressamente artt. 6 e 7 della CEDU e affermare testualmente “il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo e afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto e non è quindi più ammissibile il totale rinvio al regolamento o all’atto amministrativo subordinato da parte della legge, in quanto tale tecnica di normazione viola il principio di determinatezza della fattispecie, desumibile anch’esso dall’art. 25, co. 2 Cost., determinando incertezze sul contenuto essenziale dell’illecito”. La “calcolabilità” o “prevedibilità” delle conseguenze penali della condotta, sottesa alla previsione costituzionale del principio di irretroattività (Garofoli, Manuale di diritto penale. Parte generale, Roma, 2011) costituisce invero un altro principio fondamentale in materia di sanzioni, che è valido in campo penale, ma è ancora più valido, paradossalmente, per le sanzioni amministrative, che in molti casi sono ancora più gravi di quelle penali, assumendo una valenza deterrente ancora maggiore, soprattutto se si considera che la sanzione privativa della libertà personale per reati diversi da quelli contro la persona, a fronte di un illecito commesso da una persona anziana o incensurata, è spesso evitabile, mentre non lo è la sanzione amministrativa che vie-

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ne applicata direttamente dall’autorità competente, a prescindere dalle condizioni del trasgressore. Nell’ordinamento attuale si riscontra peraltro frequentemente un’assoluta imprevedibilità della conseguenze sanzionatorie, perché sempre più spesso non è dato comprendere l’effettivo contenuto delle disposizioni che regolano la condotta (basti pensare all’emblematica disciplina della s.c.i.a., su cui mi permetto rinviare a M.A. Sandulli, Dalla D.I.A. alla S.C.I.A., una liberalizzazione a rischio, in Rivista giuridica dell’edilizia, 6/2010 e Primissima lettura dell’Adunanza plenaria n. 15 del 2011, ivi, 2-3/2011) e non è dato comprendere, con la chiarezza imposta dal diritto europeo (UE e CEDU), in che modo un illecito debba essere sanzionato, senza parlare delle modifiche giurisprudenziali e degli interventi di carattere retroattivo sulle norme base di regolazione della condotta. Si è già richiamata in proposito la sentenza n. 78/2012 della Corte costituzionale ed è importante segnalare la recente decisione n. 4685/2012 della Corte di cassazione a proposito dell’incertezza normativa oggettiva – da distinguere dall’ignoranza della legge – che in materia tributaria esclude l’applicabilità delle sanzioni: il legislatore lo prevede espressamente in materia tributaria, ma i principi generali lo impongono per tutte le sanzioni, ostando in primis alle misure imprevedibili e retroattive. In sintesi, in uno Stato di diritto, non si può che accogliere con il massimo favore la riconduzione ad unità dei principi che informano l’applicazione delle misure sanzionatorie, a prescindere dalla qualificazione che i singoli ordinamenti danno all’illecito. E nello stesso spirito deve essere apprezzata la previsione, in alcune leggi di settore (come quelle che regolano gli illeciti nel campo finanziario), dell’obbligo di regresso della persona giuridica obbligata in solido al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria nei confronti del responsabile. Mi piace in proposito ricordare le critiche che, circa trent’anni fa, avevo mosso sulla diversa disposizione della l. 689, che qualifica il regresso come mero diritto. In conclusione, i più diversi elementi spingono alla rilettura unitaria delle regole in campo sanzionatorio, rendendo auspicabile, anche nella riferita ottica di “certezza”, una riconsiderazione più generale della disciplina delle sanzioni amministrative non limitata a quelle pecuniarie.

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Le sanzioni amministrative pecuniarie nelle attività finanziarie: problemi di giurisdizione * Marcello Clarich 1. Premessa. La giurisdizione in materia di sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia e dalla Consob ha avuto in anni recenti un andamento “altalenante” a causa delle ripetute oscillazioni soprattutto del legislatore che l’ha attribuita al giudice amministrativo e a quello ordinario, senza un criterio univoco apparente. Anche la coerenza di assetto che sembrava raggiunta con il codice del processo amministrativo (approvato con d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) è, infatti, venuta meno a seguito del recente intervento della sentenza costituzionale n. 162 del 27 giugno 2012, con la quale la Corte ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni che devolvono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie in materia di sanzioni pecuniarie irrogate dalla Consob, riportando in vita la previgente normativa che le attribuiva alla Corte d’Appello territorialmente competente 44. Per inquadrare il tema è opportuno fare un passo indietro e analizzare il contesto normativo nel quale si sono inserite le novità del codice.

2. Lo scenario precedente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo. Già prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, si registrava, in termini più generali, una tendenza del legislatore a optare per la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per esempio relativamente ai provvedimenti dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (art. 33 della legge 10 ottobre 1990, n. 287) e delle autorità di regolazione dei servizi pubblici (art. 2, co. 25, della leg-

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A una prima revisione del testo sbobinato ha collaborato Francesca Marano. Per un primo commento cfr. Clarich e Pisaneschi, Le sanzioni amministrative della Consob nel “balletto” delle giurisdizioni: nota a Corte costituzionale 27 giugno 2012, n. 163, in http://www.giustizia-amministrativa.it. 44.

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ge 14 novembre 1995, n. 481 e art. 1, co. 26, della legge 31 luglio 1997, n. 249). Nel settore assicurativo, poi, l’art. 6 della legge 6 marzo 2001, n. 57 (oggi art. 209 del Codice delle assicurazioni private) ha introdotto una disposizione che devolve al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva anche relativamente ai giudizi di opposizione alle sanzioni anche pecuniarie. Invero, l’opzione a favore della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo anche per i provvedimenti non sanzionatori delle autorità indipendenti non riscontrava il favore generale. Anzi, soprattutto, in materia antitrust si erano levate varie voci critiche 45. In ogni caso, per effetto dell’evoluzione legislativa recente, quella amministrativa stava assumendo il ruolo di giurisdizione “naturale” delle Autorità amministrative indipendenti 46. Nel campo più specifico delle sanzioni pecuniarie si segnalavano però due eccezioni molto rilevanti in materia bancaria e finanziaria. Infatti, nel settore creditizio e mobiliare, gli artt. 145 d.lgs. n. 385 del 1993 e 195 d.lgs. n. 58 del 1998 prevedevano la giurisdizione ordinaria, e segnatamente la competenza della Corte d’Appello di Roma, per quanto attiene le sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, e la Corte d’Appello nel cui distretto ha sede il ricorrente, per quelle irrogate dalla Consob. Ciò sulla base di una tradizione che nel caso della Banca d’Italia risaliva addirittura alla legge bancaria del 1936 (art. 90 del r.d.l. n. 375 del 1936) e nel caso della Consob al 1996 (art. 44 d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415) 47. Queste due eccezioni erano state oggetto di un tentativo da parte della giurisprudenza amministrativa di trasferirle nell’alveo della giurisdizione del giudice amministrativo. L’occasione fu l’estensione delle giurisdizione esclusiva (operata dall’art. 33 del d.lgs. n. 80 del 1998, come sostituito dalla legge 21 luglio 200, n. 205) alla materia dei servizi pubblici. Per effetto della pronuncia “manipolativa” della Corte costituzionale (sentenza 4 luglio 2004, n. 204), la giurisdizione esclusiva del

45.

Cfr., per tutti, Ghidini - Falce, Giurisdizione antitrust: l’anomalia italiana, in Mercato, concorrenza, regole, 1999, pp. 317 ss. 46. Su ulteriori riferimenti questi temi cfr. Clarich, Autorità indipendenti – Bilancio e prospettive di un modello, Bologna, 2005, p. 188 ss. 47. Per alcune giustificazioni di tale scelta, confermata in sede di emanazione dei testi unici vigenti, ma in epoca antecedente all’evoluzione legislativa più recente, cfr. Clarich, Le sanzioni amministrative nel testo unico delle leggi n materia bancaria e creditizia: profili sostanziali e processuali, in Banca, impresa, soc., 1995, p. 70.

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giudice amministrativo includeva anche la vigilanza sul credito 48. Sulla base di quest’ultima disposizione, la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto superata la competenza esclusiva e funzionale della Corte d’appello in materia di sanzioni bancarie. In particolare, secondo il Consiglio di Stato la disposizione aveva inteso concentrare presso un’unica autorità giudicante la totalità dei rapporti litigiosi inerenti la materia dei servizi pubblici. Ciò perché sembrava artificiosa la distinzione tra attività di vigilanza, attratta nella giurisdizione del giudice amministrativo, e attività sanzionatoria, rimessa al giudice ordinario, essendo quest’ultima “intimamente connessa all’attività di vigilanza, posto che costituisce null’altro che il momento di effettività di tale attività, volta ad assicurare, nel superiore interesse pubblico, il corretto esercizio delle funzioni bancarie e creditizie da parte dei soggetti preposti” 49. Anche per le sanzioni irrogate dalla Consob si stava formando un orientamento analogo 50. In occasione della riforma del diritto societario, il legislatore ha posto fine a questo filone interpretativo ripristinando la competenza esclusiva della Corte d’appello per le sanzioni in materia creditizia e mobiliare (art. 1, co. 2, d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 5), scelta poi confermata anche dalla legge sul risparmio (art. 24, co. 5 e 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 262). Quest’ultima legge precisa anche che, salvo alcune eccezioni, alle sanzioni amministrative irrogate dalle autorità di vigilanza finanziarie non si applicano le disposizioni sul pagamento in misura ridotta contenute nell’art. 16 della legge 24 novembre 1981, n. 689, che com’è noto, contiene il regime generale in materia di sanzioni amministrative. Questi interventi legislativi si inserivano però all’interno della tendenza opposta, già segnalata, ad ampliare ulteriormente la giurisdizione del giudice amministrativo includendovi, per esempio, non più soltanto i provvedimenti dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ma anche quelli del ministero di settore 51. In presenza di oscillazioni così vistose era necessario un ripensamento complessivo come quello effettuato con il d.lgs. n. 104 del 2010 che ha operato una scelta netta devolvendo tutte le controversie relative

48. La dizione precedente, molto più ampia, faceva riferimento ai “servizi (…) afferenti al credito”. 49 Cfr. Cons. St., VI, 13 maggio 2003, n. 2533. 50. Cfr. App. Napoli, sez. I, 5 luglio 2001, in Corr. giur., 2002, p. 500 ss, con nota di Di Amato. 51 Così, in particolare, l’art. 9 del Codice delle comunicazioni elettroniche.

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ai provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti, incluse le sanzioni pecuniarie in materia creditizia e mobiliare, alla competenza esclusiva del giudice amministrativo, garantendo maggiore coerenza al sistema. Conviene ripercorrere brevemente questa vicenda.

3. Il quadro normativo dopo l’entrata in vigore del Codice. L’art. 44 della legge n. 69 del 2009, ha investito il legislatore delegato del compito di riordinare il sistema normativo esistente, sulla base di criteri in apparenza molto elastici, incluso quello, utilizzato come si vedrà dalla Corte Costituzionale nella sentenza sopra citata, di tener conto degli orientamenti giurisprudenziali delle giurisdizioni superiori. Tra gli obiettivi prioritari perseguiti dalla legge delega vi era proprio quello di assicurare la concentrazione della tutela innanzi ad un’unica autorità giudiziaria di ogni forma di tutela delle situazioni giuridiche soggettive relative alla medesima fattispecie. Il principio di concentrazione è enunciato nel codice come espressione del principio di effettività (art. 7, co. 7). Nel contesto delle sanzioni pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia e dalla Consob, esso poteva essere inteso anche come esigenza di non creare uno iato tra la tutela riferita all’attività di vigilanza, che si sostanzia nell’adozione dei provvedimenti autoritativi necessariamente rientranti nella giurisdizione amministrativa, e quella relativa all’attività sanzionatoria, precedentemente attribuita al giudice ordinario. In fondo, in molti casi, il fatto costitutivo del potere di intervento in sede di vigilanza (per esempio un commissariamento) può essere lo stesso del fatto sussunto come illecito amministrativo. E può essere fonte di incoerenze, oltre che di duplicità di accertamenti, che nel primo caso la tutela sia rimessa al giudice amministrativo (trattandosi di regola di situazioni giuridiche soggettive di interesse legittimo), nel secondo caso al giudice ordinario. Seguendo questa impostazione, dunque, il d.lgs. n. 104 del 2010 è intervenuto sul tema della giurisdizione in materia di provvedimenti delle autorità indipendenti con le seguenti disposizioni. In primo luogo, l’art. 133, co. 1, lett. l), c.p.a., devolve alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo i ricorsi avverso i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti i rapporti di impiego privatizzati, adottati dalle Autorità indicate dalla norma. Tra queste sono menzionate espressamente anche la Banca d’Italia e la Consob. Di conseguenza, il codice ha abrogato le disposizioni della legge sul risparmio già richiamate che, come visto, attribuivano al giudice ordinario, in particolare la giurisdizione in materia di sanzioni pecuniarie irrogate

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da queste due autorità finanziarie (art. 4, co. 1, n. 35 dell’Allegato 4 del codice). In secondo luogo, l’art. 134, co. 1, lett. c), c.p.a., prevede che la giurisdizione in materia di sanzioni pecuniarie devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo, incluse quelle di competenza delle Autorità amministrative indipendenti, sia estesa anche al merito, ciò che comporta la possibilità del giudice di sostituirsi all’amministrazione (art. 7, co. 6, del codice). Questa disposizione ha lo scopo di risolvere una volta per tutte alcuni dubbi riferiti in particolare all’Autorità garante della concorrenza e del mercato circa il potere del giudice amministrativo di modificare l’entità della sanzione irrogata. La formulazione letterale della disposizione non è peraltro felicissima perché essa usa l’espressione sanzioni amministrative, senza specificare se si tratta solo dell’ammontare delle medesime o anche più in generale dei provvedimenti che le irrogano 52. In terzo luogo, l’art. 119 include i provvedimenti delle autorità amministrative indipendenti nell’elenco delle controversie per le quali il codice prevede il rito speciale abbreviato che prevede il dimezzamento dei termini processuali e altre regole particolari volte a limitare ai casi di estrema gravità e urgenza l’adozione di misure cautelari. Rispetto alle tempistiche usuali della Corte d’appello riferite ai giudizi di opposizione delle sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia e dalla Consob, i tempi del processo amministrativo cautelare diventano molto più serrati per l’amministrazione che si deve dunque attrezzare al proprio interno per rendere possibile l’acquisizione degli elementi necessari per poter svolgere una difesa efficace. Una conseguenza di queste innovazioni è che viene recuperato il doppio grado di giudizio non garantito in passato dalla competenza della Corte d’Appello. Si potrebbe ritenere che ciò non sia un beneficio perché allunga i tempi di una risoluzione definitiva della controversia in materie come quelle finanziarie in rapida evoluzione, tanto più che nel dibattito sulle autorità indipendenti si era levata in passato anche qualche voce ed era stata avanzata qualche proposta tesa ad attribuire direttamente al Consiglio di Stato, come giudice unico, le controversie

52.

Il dubbio non può essere sciolto del tutto andando a esaminare le espressioni utilizzate dall’art. 133 relativo alle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva nel quale compare sia l’espressione “provvedimenti, compresi quelli sanzionatori” (lett. l), sia l’espressione “sanzioni amministrative” affiancata a quella di “provvedimenti” (lett. n) riferita all’organismo di regolazione in materia di infrastrutture ferroviarie.

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relative agli atti delle autorità indipendenti 53. Ciò in quanto il procedimento amministrativo dinanzi a quest’ultime già garantisce un contraddittorio molto ampio (più di quello assicurato in termini generali dalla legge 7 agosto 1990, n. 241) e data la loro natura “paragiurisdizionale”.

4. Profili problematici conseguenti la nuova disciplina codicistica. Un punto delicato riguarda l’oggetto e l’estensione del sindacato del giudice amministrativo e dunque la questione se la giurisdizione di quest’ultimo assicuri una maggiore o minore effettività della tutela rispetto a quella offerta dal giudice ordinario. In termini generali, sull’oggetto del giudizio di impugnazione-opposizione alla sanzione dinanzi al giudice ordinario ai sensi della legge n. 689 del 1981 si sono formati nel tempo, com’è noto, due orientamenti contrapposti. Secondo un primo indirizzo, a lungo sostenuto anche dalla giurisprudenza, oggetto del giudizio è solamente l’atto impugnato, ossia l’ordinanzaingiunzione, e non il fatto illecito accertato. L’opposizione viene concepita quindi come un giudizio a carattere impugnatorio, volto all’accertamento della legittimità formale e sostanziale del provvedimento sanzionatorio, del quale il giudice si limita a verificarne la conformità alla legge. L’orientamento giurisprudenziale, ormai maggioritario, in materia di sanzioni pecuniarie sembra ormai di segno opposto. La Corte di Cassazione infatti ritiene che, nei giudizi aventi ad oggetto la comminazione di sanzioni amministrative, il sindacato verta non solo sul provvedimento sanzionatorio, ma anche sullo stesso fatto illecito accertato. La cognizione attribuita al giudice è quindi piena: non si limita all’atto contro cui è diretta l’opposizione ma investe l’intera pretesa sanzionatoria, a prescindere dai motivi di opposizioni dedotti, e consente un riesame integrale del rapporto giuridico controverso e dell’assetto sostanziale della situazione soggettiva delle parti in causa. Ciò comporta tra l’altro una svalutazione pressoché totale dei vizi relativi al procedimento e alla motivazione che invece, secondo l’altro orientamento, giustificano l’annullamento dell’ordinanza-ingiunzione.

53. Per esempio la proposta era stata avanzata nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulle autorità indipendenti avviata dalla Camera dei deputati nel 2000: Atti parlamentari, XII legislatura, Indagini conoscitive e documentazioni legislative, n. 31.

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Tale impostazione si fonda su una concezione del provvedimento sanzionatorio quale strumento e occasione di valutazione della situazione sostanziale sottostante; dunque oggetto del giudizio del giudice non è solo l’atto, ma il rapporto presupposto. Aderendo a tale tesi, il giudizio di opposizione al provvedimento sanzionatorio assume i caratteri tipici di un processo nel quale a una fase rescindente segue una rescissoria, che consente al giudice di rideterminare la sanzione. In sostanza, il sindacato non si limita all’an, ma si estende anche al quantum. Con il passaggio della giurisdizione dal giudice ordinario al giudice amministrativo non cambiano in linea di principio le coordinate entro le quali va impostata la questione dell’oggetto del giudizio. Infatti, com’è noto, la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è una giurisdizione per sommatoria, nella quale cioè alla tutela degli interessi legittimi si aggiunge quella dei diritti soggettivi. Pertanto se sul piano sostanziale il rapporto tra autorità amministrativa che irroga la sanzione e soggetto responsabile dell’illecito è ricostruibile in termini di pretesa creditoria alla quale corrisponde un’obbligazione avente per oggetto il pagamento di una somma di danaro, il mero trasferimento della giurisdizione non può mutare la natura della situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dunque l’oggetto di quest’ultimo. Del resto, quando negli anni Venti del secolo scorso, venne attribuita al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva in materia di pubblico impiego, la necessità di tutelare i diritti soggettivi (retribuzione, ferie, ecc.) costrinse la giurisprudenza amministrativa ad aprire il processo amministrativo all’azione di accertamento e di condanna, superando così le strettoie del giudizio impugnatorio. Gli atti emanati dall’amministrazione vennero dequotati ad “atti paritetici”, privi del carattere dell’autoritarietà, in modo da non renderne necessaria l’impugnazione nel termine decadenziale di 60 giorni 54. Se così è, in linea di principio, il giudice amministrativo, i cui poteri di cognizione e istruttori sono stati ampliati notevolmente dal codice proprio in conformità al principio di effettività della tutela e al principio della strumentalità del processo ai bisogni di tutela correlati alla situazione giuridica sostanziale, si deve confrontare nel giudizio avverso le

54. Cfr., per tutti, Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova, 1988; Baccarini, La giurisdizione esclusiva e il nuovo riparto, in Dir. proc. amm., 2003, p. 365 ss.

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sanzioni pecuniarie delle autorità indipendenti con gli stessi problemi ricostruttivi che hanno travagliato il giudice ordinario. È certo tuttavia che, per tradizione, ancora oggi il giudice amministrativo è più incline ad applicare i parametri tradizionali del giudizio di impugnazione che ha sempre costituito il nucleo centrale del processo amministrativo. È vero peraltro che il codice del processo amministrativo ha aperto la strada a un’amplissima gamma di azioni di accertamento e di condanna (art. 30 e art. 31) che vanno ben al di là della tradizionale azione di annullamento (art. 29) e dunque il giudice amministrativo dovrà acquisire un nuovo abito mentale 55. Ciò può spiegare tra l’altro una qualche titubanza emersa nella giurisprudenza a procedere a una nuova quantificazione della sanzione inflitta, in caso di accoglimento del ricorso. Così, per esempio, è stato affermato che in “sede di quantificazione delle sanzioni amministrative, nonostante sussista la giurisdizione piena del giudice amministrativo estesa anche al merito, nel caso in cui non si tratta di rideterminare il quantum di una sanzione ritenuta incongrua o sproporzionata ma di sanzioni che vadano, al contrario, ricalcolate ex novo, sulla base di dati contabili completamente diversi da quelli originariamente considerati, risulta opportuno che le necessarie operazioni di quantificazione e di analisi contabile vengano svolte direttamente dall’Autorità che è in possesso di tutti i dati e di tutti gli strumenti per farlo, e non dal Collegio” (cfr. Cons. St., sez. VI, 7 marzo 2008, n. 1009). Del resto, anche nelle controversie risarcitorie, il codice consente al giudice amministrativo di accertare soltanto l’“an” del risarcimento, rimettendo a un accordo tra le parti, almeno in prima battuta, la determinazione del “quantum” in base ai criteri stabiliti dal giudice (art. 34, co. 4). Per quanto riguarda l’intensità del controllo giurisdizionale, va osservato che in materia di sanzioni pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia e dalla Consob l’accertamento dell’illecito non costituisce quasi mai un’operazione pressoché meccanica come accade per gran parte delle sanzioni amministrative collegate alla violazione di leggi amministrative di settore che impongono precetti puntuali 56. Si pensi soltanto

55. Per un commento organico al codice cfr. Il processo amministrativo, a cura di Quaranta – Lopilato, Milano, 2011. 56. Per alcuni dubbi sulla possibilità di individuare situazioni giuridiche di diritto soggettivo nel caso delle sanzioni pecuniare irrogate dalla Consob cfr. Fratini, Sanzioni

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al criterio della “sana e prudente gestione” in base al quale vanno valutati i comportamenti dei soggetti vigilati che costituisce un esempio tipico di concetto giuridico indeterminato la cui concretizzazione e applicazione al caso di specie risulta pressoché insindacabile. Va ricordato in proposito che le fattispecie nelle quali la giurisprudenza della Cassazione, anche recente, ha optato per il modello del giudizio sul rapporto si riferiscono invece a situazioni (soprattutto le sanzioni disciplinate dalla legge n. 689 del 1981) in relazione alle quali il fatto costitutivo dell’illecito ha una struttura elementare e si presta ad essere accertato, quanto a esistenza o inesistenza, in modo univoco 57. In generale si tratta di violazioni soprattutto del codice della strada 58. Tutto ciò spiega perché nel caso dei provvedimenti sanzionatori delle autorità indipendenti l’atteggiamento dei giudici, sia ordinari sia amministrativi, appare invece in qualche misura “deferente” nei confronti degli apprezzamenti da esse effettuati 59. Il problema non potrebbe considerarsi risolto del tutto nemmeno attraverso il ricorso generalizzato alla consulenza tecnica d’ufficio (ora ammessa anche dal’art. 63, co. 4 e dell’art. 67 del codice del processo amministrativo). Il giudice, infatti, si trova comunque, in molti casi, di fronte al bivio se accettare acriticamente le risultanze contenute nella relazione del c.t.u. o valutarne la logicità, coerenza e attendibilità sulla base degli stessi criteri che gli avrebbero consentito di apprezzare le valutazioni dell’amministrazione. Specie con riguardo alle autorità amministrative indipendenti, dotate di un elevato grado di competenza e di professionalità, non è del tutto chiaro perché le valutazione del c.t.u. debbano avere un peso maggiore di quelle dell’autorità che ha emanato il provvedimento. Non è un caso che nei giudizi di opposizione avverso le sanzioni della Banca d’Italia e della Consob anche le corti d’appello ricorrevano di rado a questo strumento.

CONSOB e giurisdizione dopo la legge “sul risparmio”, in Rass. avv. di Stato, 2006, 2, p. 355. 57. Nel gergo degli amministrativisti una siffatta attività è qualificabile di mero accertamento, piuttosto che di valutazione. 58. Si veda per esempio la sentenza della Corte di Cassazione, S.U., 28 gennaio 2010, n. 1786; Cass., sez. I, 23 marzo 2004, n. 5891, riferita a una sanzione pecuniaria per violazione delle norme in materia di affissioni di manifesti di natura politica. 59. In una prima fase anche la giurisprudenza amministrativa aveva posto la distinzione tra “sindacato forte” e “sindacato debole” nei confronti degli atti delle autorità amministrative indipendenti: Clarich, Autorità, cit., p. 203, ss.

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Anche con riferimento al giudice ordinario, dunque, se non siamo in presenza di un controllo di tipo “debole” (cioè estrinseco, cioè di razionalità, coerenza, ecc.) anziché “forte” (cioè di tipo sostituivo) poco ci manca, e questo anche dando per appurato che i procedimenti sanzionatori non danno spazio a giudizi di tipo propriamente discrezionale (cioè di ponderazione di interessi pubblici e privati rilevanti nella singola fattispecie). Il dibattito resta in qualche misura aperto e, come anticipato, esso perde in parte di rilevanza, in seguito alla sentenza n. 162 del 2012 della Corte Costituzionale, sulla quale occorre soffermarsi brevemente.

5. Cenni alla sentenza della Corte Costituzionale del 27 giugno 2012, n. 162. Si è detto che il d.lgs. n. 104 del 2010, conformemente alle prescrizioni della legge delega, ha stilato un elenco meramente ricognitivo delle controversie nelle quali il giudice amministrativo è titolare di una giurisdizione esclusiva. Tra queste – per quanto qui interessa – rientrano quelle aventi ad oggetto i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori, delle Autorità amministrative indipendenti, incluse Consob e Banca d’Italia. Tale assetto, tuttavia, è stato messo nuovamente in discussione dalla Consulta la quale ha dichiarato l’incostituzionalità per eccesso di delega“…degli articoli 133, comma 1, lettera l), 135, comma 1, lettera c) e 134, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, con cognizione estesa al merito, e alla competenza funzionale del TAR Lazio – sede di Roma, le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB)…”, specificando altresì, nella parte motiva, che le disposizioni che attribuiscono alla Corte d’Appello la competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla Consob “illegittimamente abrogate, tornano ad avere applicazione”. A sostegno della propria decisione, la Corte Costituzionale rileva come il legislatore delegato, nell’attribuire al giudice amministrativo giurisdizione esclusiva in materia di sanzioni irrogate dalla Consob, non abbia tenuto conto della giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione sul punto che, come si è già accennato, rappresentava uno dei criteri

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previsti dalla legge di delega. Secondo la Corte, infatti, la giurisprudenza afferma che il giudizio di opposizione alle sanzioni spetta all’autorità giudiziaria ordinaria, in quanto esse devono essere applicate sulla base di criteri “che non possono ritenersi espressione di discrezionalità amministrativa” (Cass., S.U., 22 luglio 2004, n. 13703). Una volta esclusa che l’irrogazione di queste sanzioni sia espressione di mera discrezionalità amministrativa, viene meno, secondo la Corte costituzionale, la possibilità “di giustificare sul piano della legittimità costituzionale l’intervento del legislatore delegato” che si discosta dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione. La sentenza riapre una smagliatura nel sistema e prende nuovamente forma l’originario iato che affidava ad organi giurisdizionali diversi la tutela di posizioni giuridiche uguali; infatti ora tutte le controversie che interessano i provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, fatta eccezione per quelle che coinvolgono l’attività della Consob, che tornano nell’alveo della giurisdizione ordinaria, con tutte le conseguenze, processuali e sostanziali, che ne derivano. Ma la sentenza della Corte Costituzionale pone un problema in quanto la norma dichiarata illegittima dalla Corte in parte qua – ovvero in relazione alla giurisdizione sulle sanzioni pecuniarie irrogate dalla Consob – è la stessa che attribuisce la giurisdizione del giudice amministrativo per le sanzioni pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia. Sebbene la declaratoria di incostituzionalità si sia limitata a colpire la norma rilevante nel processo a quo, senza dichiarare l’illegittimità consequenziale dell’intera disposizione, è lecito interrogarsi sulla sorte della giurisdizione del giudice amministrativo rispetto alle sanzioni bancarie. È facile prevedere che, ove se ne presentasse l’opportunità, la Corte Costituzionale annullerebbe anche le disposizioni del codice riferite alle sanzioni pecuniarie bancarie e in questa fase, anzi, i giudici civili o amministrativi dovrebbero in modo quali automatico sospendere i giudizi pendenti e rimettere la questione al giudice delle leggi. Il quadro normativo che si profila al giorno d’oggi è, dunque, ancora più incoerente di quanto non fosse prima dell’approvazione del codice del processo amministrativo. Non resta che confidare, più che in un intervento della Corte costituzionale, in un chiarimento legislativo. La discrezionalità del legislatore non è stata in alcun modo intaccata dalla sentenza della Corte che, al di là della censura relativa all’eccesso di delega, nulla dice sulla costituzionalità della scelta a suo tempo operata dal codice. Alla prima occasione utile il Parlamento potrebbe confer-

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marla o, magari, prima che intervenga una nuova pronuncia della Corte costituzionale di analogo tenore, riferita alle sanzioni bancarie, restituire al giudice ordinario anche la cognizione di quest’ultima tipologia di sanzioni. Magari a qual punto, ragioni di coerenza vorrebbero che anche le sanzioni pecuniarie in materia assicurativa irrogate dall’Isvap (ora trasformata in Ivass) vengano assegnate a quest’ultimo.

Considerazioni conclusive Vittorio Santoro Passo a questo punto alla mia funzione di relatore di sintesi per proporvi qualche breve considerazione. Abbiamo ascoltato i nostri relatori intervenire sul tema delle sanzioni amministrative pecuniarie e credo di non errare se dico che tutti loro hanno inteso, in primo luogo, metterle a confronto con le sanzioni penali misurandone la rispettiva efficacia. In ordine a ciò il punto di vista è stato ampiamente condiviso e si può così sintetizzare: negli ordinamenti settoriali inerenti ai mercati finanziari, sotto il profilo della repressione dei comportamenti illeciti, si è abbandonata la visione prevalentemente penalistica a favore di una visione repressiva prevalentemente amministrativistica. Questa tendenza ha rappresentato un passo avanti, penso che tutti ne siamo convinti. Intendo dire che nelle attività finanziarie un deterrente efficace per prevenire comportamenti illeciti non è dato tanto dallo spauracchio della norma penale, quanto da una sanzione amministrativa ben calibrata e modulata in relazione alla situazione concreta. Condivido qui, in particolare, le osservazioni di Sandulli. L’efficacia della sanzione amministrativa sta, in primo luogo, nel fatto che viene colpito nel portafogli chi si rende responsabile di comportamenti non corretti e, in secondo luogo, nel fatto che le persone giuridiche sanzionate devono esercitare il regresso nei confronti delle persone fisiche responsabili. Sotto tale profilo, la legislazione dei settori finanziari sta affinando i propri strumenti e si muove complessivamente verso un modello uniforme. A sua volta la prospettiva europea, quale ce l’ha illustrata Fratini, indica una notevole assonanza con le scelte operate nell’ordinamento nazionale. In termini di efficacia potremmo dire che il legislatore ha usato la stessa logica che usa nel contrasto della criminalità organizzata, quando confisca il profitto delle attività illecite.

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Però Nigro e Fratini ci hanno avvertito che non bisogna esagerare perché altrimenti la sanzione sarebbe più che proporzionale se, poi, la combinassimo con la confisca, arriveremmo a importi di carattere spropositato. Se si considerano, infine, le pene accessorie interdittive che possono colpire le persone fisiche (amministratori, titolari della funzione di controllo, direttori delle società sottoposte a vigilanza) e che comportano l’interdizione di assumere incarichi di amministrazione direzione e controllo delle società medesime, l’effetto deterrente assume davvero una portata notevole, posta la sensibilità dei colletti bianchi a tale tipo di “pena” in ragione dell’impossibilità di continuare a svolgere la propria attività professionale nel settore di elezione, in sostanza essi corrono il rischio di essere colpiti nel portafogli per la seconda volta. Dal punto di vista della portata di deterrenza delle norme, questo pomeriggio si sono, invece, trascurate le sanzioni civili, certo perché il tema non è oggi all’ordine del giorno. Ma, Sandro Nigro, introducendo il suo discorso, vi ha fatto opportunamente cenno. Personalmente ritengo che questa ulteriore alternativa debba essere approfondita e integrata in un sistema di sanzioni efficiente se è vero, come ci ha suggerito Nigro, che le stesse sanzioni amministrative devono oggi essere lette anche in funzione della tutela di interessi privati e ciò con particolare riguardo alla disciplina di trasparenza nelle relazioni con la clientela. Anche Galanti ci ha ricordato che le autorità di controllo hanno molto spesso attivato sanzioni di tipo civilistico all’esito di ispezioni di vigilanza quando risultava una divergenza tra le condizioni pubblicate nei fogli informativi e quelle effettivamente applicate, sicché quando non si sanzionava amministrativamente si disponeva, tuttavia, la restituzione del maltolto. Mi sono chiesto, in un mio recente scritto, se non si possa fare di più vale a dire disporre che la documentazione di cui si sia avvalsa l’Autorità, durante le proprie indagini, siano messe a disposizione dei consumatori, affinché costoro possano avvalersene quale mezzo di prova nelle loro azioni individuali e collettive (tipo class action) che sarebbero, per tale via persino incentivate. Occorrerebbe introdurre, poi, una disposizione, di recente adottata negli Stati Uniti con il Dodd-Frank Act, che imponesse al giudice di tenere in debito conto le valutazioni espresse dalle Autorità (che negli US è, tuttavia, un’Autorità a tutela dei consumatori appositamente istituita), al fine di determinare l’eventuale risarcimento del danno a carico delle persone giuridiche e fisiche responsabili di comportamenti scorretti vuoi in termini trasparenza, vuoi in termini di vendita di prodotti non adeguati alla clientela retail ecc. È

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evidente, tuttavia, che la sanzione civilistica ha senso solo laddove siano direttamente coinvolti gli interessi dei privati. Resta fermo, a mio avviso, che sanzioni penali, sanzioni amministrative e sanzioni civili devono essere adeguatamente combinate insieme affinché siano disincentivati i comportamenti scorretti. Accanto al tema dell’efficienza deterrente delle norme, e direi a bilanciamento, l’altro tema maggiormente trattato dai relatori è stato quello delle garanzie da offrire al soggetto sanzionando: quanto più terribile dal punto di vista della deterrenza è la sanzione nella pena edittale, tanto più il giurista deve mostrare attenzione al profilo di garanzia, perché altrimenti lasceremmo disarmato il povero malcapitato contro possibili prevaricazioni, volontarie o involontarie, da parte di chi commina la sanzione. Sotto tale profilo, Galanti e Carriero hanno posto in evidenza quale sia la prudenza e l’equilibrio, rispettivamente di Banca d’Italia e dell’ISVAP, nella istruttoria e nella comminazione delle sanzioni. Personalmente mi sembrerebbe più conforme ai principi del nostro ordinamento un sistema che prevedesse un’alterità tra autorità che istruisce la pratica a fini sanzionatori e il soggetto che deve invece comminare la sanzione stessa; si dovrebbe evitare che l’organo che conduce l’istruttoria sia gerarchicamente subordinato rispetto ad altro organo della medesima autorità poi deputato a prendere le decisioni finali. Sotto tale profilo sarebbe stato migliore il modello predisposto per l’ISVAP e che Carriero ci ha ricordato che è restato in vigore solo quindici giorni. Morera, dal canto suo, ha posto anche in evidenza che nel momento di chiusura della c.d. fase istruttoria e prima della fase decisoria le Autorità di vigilanza non sono tenute a informare l’interessato, cosicché questi è messo nell’impossibilità di presentare, in tale momento, le proprie controdeduzioni, che pure dovrebbero essere oggetto di valutazione in occasione dell’irrogazione della sanzione. Si aggiunga, ancora, che non è garantito l’accesso alla documentazione dell’Autorità di vigilanza da parte del soggetto sanzionando. Sicché mi sembra più che condivisibile l’osservazione avanzata da Morera in ordine al fatto che il principio del contraddittorio non è sempre effettivamente osservato. Detto questo chiudo qui il nostro incontro di studio, ringraziando ancora una volta i nostri ascoltatori per l’attenzione, il prof. Nigro per l’organizzazione scientifica, la Facoltà di Economia della Sapienza per l’ospitalità e tutti i relatori per le loro puntuali osservazioni.

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COMMENTI

Pratiche commerciali scorrette e credito al consumo CONSIGLIO DI STATO, Ad. plenaria; sentenza 11 maggio 2012, n. 14; Pres. Coraggio, Rel. Greco; Agos s.p.a. (Avv. Lirosi, Fattori, Costantino) c. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (Avv. dello Stato) Pratiche commerciali scorrette – Credito al consumo – Applicabilità del Codice del Consumo – Competenza dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato a irrogare le relative sanzioni – Sussistenza. (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, codice del consumo, artt. 19, 20, 21, 22, 24, 25, 26) Pratiche commerciali scorrette – Credito al consumo – Contratti di finanziamento per l’acquisto di beni di consumo mediante apertura di carta di credito – Obbligo di informativa espressa sulla modalità di erogazione del finanziamento – Contestuale contratto di assicurazione – Obbligo di informativa espressa circa l’accessorietà e facoltatività del medesimo – Violazione di tali obblighi – Scorrettezza delle pratiche commerciali – Sussistenza. (d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, codice del consumo, artt. 19, 20, 21, 22, 24, 25, 26) La disciplina dettata dagli artt. 20 ss. del Codice del Consumo in tema di pratiche commerciali scorrette si applica anche agli operatori finanziari che offrano alla clientela prodotti finalizzati al credito al consumo (e questo anche prima dell’entrata in vigore del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141) (1). Integrano pratiche commerciali scorrette, nell’ambito delle operazioni di credito al consumo, la mancata informazione circa le modalità di erogazione del finanziamento, concesso non nelle forme tradizionali ma attraverso l’apertura di una carta di credito, e la mancata informazione circa il carattere accessorio e facoltativo della polizza assicurativa che veniva fatta sottoscrivere al cliente (2). 569


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(Omissis) FATTO. 1. La società Agos S.p.a., operante nel settore finanziario, è stata oggetto di un procedimento istruttorio da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in avanti Antitrust) per pratiche ritenute scorrette, poste in essere nell’ambito di operazioni di finanziamento finalizzate all’acquisto di prodotti in vendita presso esercizi commerciali (“Trony”, “Euronics”, etc.). In particolare, le condotte oggetto di contestazione concernevano: a) la conclusione di contratti di finanziamento non preceduti da adeguata informazione al consumatore in ordine alla circostanza che l’importo del finanziamento, richiesto per l’acquisto di specifici prodotti in vendita presso gli esercizi sopra menzionati, sarebbe stato addebitato, come primo utilizzo, su una linea di credito contestualmente aperta utilizzabile mediante carta di credito (c.d. “Instant Credit”) con correlativa imposizione di oneri economici aggiuntivi (commissioni, spese di invio estratto conto etc.); b) la concessione di un “finanziamento per prestito personale” con “concessione di apertura di credito a tempo indeterminato”, utilizzabile anche mediante carta, non preceduta dall’acquisizione in modo chiaro e inequivoco del consenso del consumatore all’apertura della linea di credito; c) la mancata previa adeguata informazione al consumatore in ordine all’assicurazione vita e infortuni denominata “Coperto”, e in particolare in ordine al carattere facoltativo e non obbligatorio dell’adesione ad

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essa in occasione dell’acquisto dei prodotti finanziari di cui sub a) e b); d) la richiesta di pagamento delle spese di estratto conto di una carta di credito revocata o annullata concessa in assenza di una richiesta espressa e consapevole da parte del consumatore. Tutte le condotte testé descritte sono state sanzionate ai sensi del decreto legislativo 6 settembre 2005, nr. 206 (Codice del Consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229), e segnatamente: - quelle indicate sub a) e b) per violazione degli artt. 20, 21, 22, 24 e 25, lett. a), di detto decreto; - quella di cui sub c) per ritenuta violazione degli artt. 20, 21 e 22 di esso; - quella di cui sub d) per violazione degli artt. 20, 21, 22, 24 e 25, lettere a) e d), nonché 26, lett. f), dello stesso Codice del Consumo. Complessivamente, la società odierna appellante è stata condannata a pagare la somma di euro 520.000,00 a titolo di sanzione pecuniaria. Proposta impugnazione avverso il provvedimento sanzionatorio, il TAR del Lazio la ha accolta solo in parte, annullando la sola sanzione irrogata per la condotta sopra descritta sub b) e respingendo le residue doglianze articolate dalla parte istante. 2. Agos S.p.a. ha impugnato, chiedendone la riforma, la suddetta sentenza, instando quindi per l’integrale annullamento degli atti impugnati in prime cure. A sostegno dell’appello, ha dedotto: 1) violazione e falsa applicazione dell’art. 3, paragrafo 4, della direttiva del Parlamento europeo e del Con-


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siglio, dell’11 maggio 2005, 2005/29 e dell’art. 19, co. 3, del d.lgs. n. 206 del 2005; violazione dell’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi); violazione dei principi generali in materia di riparto di competenza tra autorità indipendenti; incompetenza dell’Autorità garante della competenza e del mercato (in relazione alla reiezione della doglianza intesa a evidenziare il detto vizio di incompetenza, trattandosi nella specie di materia soggetta ai poteri di vigilanza e sanzionatori della Banca d’Italia); 2) violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 21 e 22 del d.lgs. n. 206 del 2005; eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche e, in particolare, difetto di motivazione, illogicità e contraddittorietà manifesta, falsità dei presupposti e travisamento dei fatti in relazione al prodotto denominato “Instant Credit” (con riferimento alla reiezione delle censure al riguardo articolate in primo grado); 3) violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 21 e 22 del d.lgs. n. 206 del 2005; eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche e, in particolare, difetto di motivazione, illogicità e contraddittorietà manifesta, falsità dei presupposti e travisamento dei fatti in relazione alla pratica concernente il prodotto assicurativo “Coperto” (con riferimento alla reiezione delle censure al riguardo articolate in primo grado); 4) violazione e falsa applicazione dell’art. 11 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale); illegittimità dell’applicazione e della quantificazione della san-

zione; eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche e, in particolare, erronea valutazione dei criteri di valutazione dell’infrazione, errori metodologici, lacune istruttorie; erronea quantificazione della sanzione (con riferimento alla reiezione o all’omesso esame delle censure al riguardo articolate in primo grado). Si è costituita, per resistere all’appello, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in avanti Antitrust), la quale ha diffusamente argomentato a sostegno dell’infondatezza dei motivi di impugnazione, chiedendone il rigetto. 3. Avverso la medesima sentenza un distinto gravame è stato proposto dalla stessa Antitrust, la quale ne ha chiesto la riforma nella parte in cui sono state accolte le doglianze della ricorrente in prime cure nei limiti che si sono più sopra precisati. In particolare, a sostegno dell’appello è stata dedotta: insufficienza e illogicità della motivazione; erronea applicazione degli artt. 24 e 25 del d.lgs. n. 206 del 2005 (con riguardo alla ritenuta non riconducibilità alla fattispecie delle pratiche ”aggressive” delle condotte ascritte ad Agos S.p.a. in riferimento al prodotto denominato “Carta Mailing”). Resiste Agos S.p.a., la quale a sua volta si oppone all’accoglimento dell’impugnazione di Antitrust con diffuse argomentazioni, chiedendo la conferma in parte qua della sentenza di primo grado. 4. All’esito dell’udienza dell’8 novembre 2011, la Sezione Sesta di questo Consiglio di Stato, riuniti i ricorsi, ha rimesso la causa all’Adunanza Plenaria, alla quale ha devoluto la soluzione delle questioni connesse

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alla doglianza di incompetenza di Antitrust, qui riproposta dalla parte privata appellante e ritenuta preliminare e prioritaria rispetto alle altre censure formulate negli appelli. Sia prima che dopo la rimessione all’Adunanza Plenaria, le parti hanno affidato a memorie l’ulteriore svolgimento delle rispettive tesi. All’udienza del 20 febbraio 2012, le cause sono state trattenute in decisione. DIRITTO 1. In via del tutto preliminare, va confermata la riunione degli appelli in epigrafe ai sensi dell’art. 96 cod. proc. amm., avendo gli stessi a oggetto – ancorché per capi diversi – la medesima sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio. 2. Ciò premesso, la Sezione remittente, nell’ordinanza con la quale ha investito questa Adunanza Plenaria, solleva il problema del rapporto fra la disciplina generale in materia di pratiche commerciali scorrette, contenuta nel Codice del Consumo approvato con decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, come modificato dal decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 146 (Attuazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/CEE, 97/7/CE, 98/27/CE, 2002/65/CE, e il Regolamento (CE) n. 2006/2004), e le normative che eventualmente disciplinino analoghe pratiche scorrette in relazione a specifici settori: nella specie, parte ricorrente ha contestato la competenza di Antitrust sul rilievo che, trattandosi di condotte poste in essere in relazione all’acquisto di prodotti finanziari, sussisterebbe la

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competenza della Banca d’Italia ai sensi del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). In particolare, l’impostazione dell’ordinanza di rimessione muove dall’assunto che, sebbene le diverse discipline prese in esame contemplino poteri sanzionatori in capo rispettivamente ad Antitrust ed alle Autorità di settore, trattasi non tanto di stabilire il riparto delle competenze fra tali diverse Autorità, quanto piuttosto di risolvere un problema oggettivo afferente alla potenziale interferenza reciproca tra norme sanzionatorie, stabilendone l’ambito reciproco di applicabilità. E, difatti, l’art. 27, co. 1, del Codice del Consumo, come novellato nel 2007, ha attribuito ad Antitrust una generale competenza in materia di pratiche commerciali scorrette, stabilendo fra l’altro che essa Autorità “…inibisce la continuazione delle pratiche commerciali scorrette e ne elimina gli effetti; dispone la sospensione provvisoria delle pratiche commerciali scorrette, anche richiedendo informazioni; dispone che il professionista provi l’esattezza dei dati di fatto connessi alla pratica commerciale; vieta la diffusione o la continuazione della pratica commerciale scorretta, anche con opportuni mezzi di pubblicità; dispone l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive”; quanto al rapporto con altre normative, l’art. 19, co. 3, del medesimo decreto dispone che “…in caso di contrasto le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle


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pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni del presente titolo e si applicano a tali aspetti specifici”. Ciò premesso, la Sezione ha posto a confronto le due possibili soluzioni seguite in giurisprudenza, evidenziandone il possibile contrasto idoneo a legittimare, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm., la devoluzione della questione all’Adunanza Plenaria: da un lato, la tesi della specialità “per materie” o “per settori” in virtù della quale la mera esistenza di una normativa di settore sarebbe ex se sufficiente a escludere l’applicabilità della generale disciplina del Codice del Consumo, indipendentemente da ogni approfondimento sull’essere o meno la specifica condotta imputata all’operatore sanzionata nell’ordinamento di settore (cfr. Cons. Stato, Sezione I, 3 dicembre 2008, parere n. 3999); dall’altro lato, la tesi – preferita dalla remittente – della specialità tra norme, da valutare caso per caso in rigorosa applicazione dell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, nr. 689 (Modifiche al sistema penale), considerato assieme all’art. 15 cod. pen. espressione di un principio immanente dell’ordinamento connesso al ne bis in idem sostanziale (cfr. Cons. Stato, Sezione VI, 22 giugno 2011, n. 3763). Entrambe le richiamate soluzioni presuppongono a monte l’esclusione dell’ipotesi del cumulo di discipline, con conseguente possibilità di sottoposizione dell’operatore a più procedimenti sanzionatori, quale conseguenza della “complementarietà” delle discipline, ove considerate sotto il profilo dei diversi interessi dalle stesse tutelati; e, in

effetti, nell’ordinanza di rimessione viene sottolineato, con ampi richiami di giurisprudenza, come nell’impostazione più moderna la corretta applicazione del principio di specialità tenda a prescindere dalla considerazione dei beni giuridici protetti, focalizzando l’attenzione unicamente sugli elementi costitutivi della fattispecie da sanzionare per pervenire all’individuazione della norma applicabile in quella che li contempli nella loro totalità (e quindi, in ipotesi, nella lex specialis in quanto contemplante tutti gli elementi della lex generalis con in più un qualche tratto ulteriore, che si assume esistente nella condotta concreta oggetto di considerazione). Sempre ad avviso della Sezione remittente, la seconda delle due soluzioni si appalesa preferibile non solo perché più conforme alla lettera del citato art. 19, co. 3, d.lgs. n. 206 del 2005 (il quale, come detto, in ciò riproducendo la previsione comunitaria di cui è attuativo, esclude l’applicabilità della disciplina generale soltanto in presenza di disposizioni che regolino aspetti “specifici” delle pratiche commerciali scorrette), ma anche perché evita i vuoti di tutela del consumatore che deriverebbero dall’impossibilità di applicare la ridetta disciplina generale per il solo fatto dell’esistenza di una normativa di settore, anche laddove quest’ultima non contempli comportamenti sanzionati invece dalla prima: in tali ipotesi, infatti, la disciplina del Codice del Consumo sarebbe suscettibile di “riespandersi”, tornando a essere applicabile per colmare la lacuna riscontrabile nell’ordinamento di settore.

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Nell’esprimersi nei termini detti, l’ordinanza di rimessione solleva l’ulteriore problema, per la divisata ipotesi di “riespansione” della disciplina generale posta a tutela del consumatore, dell’individuazione dell’Autorità chiamata ad applicarla, finendo per escludere che possa ritenersi, in difetto di chiara ed esplicita previsione legislativa sul punto, che le sanzioni comminate dal Codice del Consumo possano essere applicate in questi casi dalle Autorità di settore. 3. Innanzi tutto, occorre evidenziare che nel caso che qui occupa nessun conflitto, neanche “virtuale”, si è di fatto verificato fra Antitrust e Banca d’Italia, quest’ultima quale ente preposto alla vigilanza e ai controlli nel settore del credito e del risparmio: a differenza che in altre ipotesi pure portate all’attenzione della Plenaria, l’odierna appellante, Agos S.p.a., è stata sottoposta a un unico procedimento sanzionatorio da parte di Antitrust, né la Banca d’Italia ha in alcun momento rivendicato la propria competenza sulla vicenda, essendo la questione sollevata soltanto dall’operatore interessato con apposita censura nel presente giudizio. 4. Tutto ciò premesso, questa Adunanza Plenaria condivide l’assunto di base secondo cui l’actio finium regundorum tra Antitrust e Banca d’Italia, che costituisce il problema sollevato dalla fondamentale censura articolata dalla appellante privata, deve iscriversi in una più ampia analisi avente a oggetto il rapporto tra la normativa generale in materia di tutela del consumatore e la disciplina di settore del credito e del risparmio; una volta acclarato tale assetto

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normativo, finalizzato a individuare la disciplina da applicare in concreto, potrà essere individuata l’Autorità chiamata a intervenire nella fattispecie in esame, quale Autorità preposta alla tutela del corpo normativo di cui si è individuata l’applicazione. In proposito va subito chiarito che è inapplicabile ratione temporis l’innovativa disciplina introdotta dal decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141 (Attuazione della direttiva 2008/48/CE relativa ai contratti di credito ai consumatori, nonché modifiche del titolo VI del testo unico bancario (decreto legislativo n. 385 del 1993) in merito alla disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario, degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi), il quale, oltre a modificare i Titoli V e VI del t.u.b., ha a sua volta introdotto nel suo art. 123 una disposizione di rinvio al Codice del Consumo, prima inesistente. Tale normativa, adottata in attuazione di un’apposita direttiva europea dedicata alla disciplina dei “contratti di credito”, costituisce forse il primo passo in vista della trasformazione del t.u.b. in una disciplina di settore tendenzialmente esaustiva, ma trattasi di questione che esula dall’ambito del presente giudizio. Ciò che però non può condividersi è l’assunto della parte appellante privata secondo cui essa avrebbe rappresentato unicamente l’esplicitazione di una ratio legis già in precedenza orientata anche alla tutela dell’utenza e dei consumatori come portatori di un interesse più ampio e generale rispetto a quelli più specificamente riferibili alla figura del risparmiatore; sotto tale


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profilo, non può non convenirsi con la difesa erariale allorché sottolinea come le disposizioni del t.u.b., intese a regolamentare gli obblighi di informazione incombenti agli istituti di credito e agli intermediari finanziari, all’interno dei propri uffici o sportelli, in ordine ai contenuti ed alle condizioni dei propri prodotti, non si prestino a essere ricondotte alla medesima ratio ispiratrice della generale disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette. Occorre allora verificare che tipo di rapporto debba instaurarsi con la disciplina generale posta a tutela del consumatore, condensata nel nostro ordinamento nel Codice del Consumo e la normativa all’epoca vigente. A tal fine sovviene l’art. 19, co. 3, del Codice del Consumo, ai sensi del quale, in caso di contrasto, prevalgono le norme che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette. In sostanza, tale norma si iscrive nell’ambito del principio di specialità (principio immanente e di portata generale sul piano sanzionatorio nel nostro ordinamento, come si evince dall’art. 15 cod. pen. e dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981), ai sensi del quale non si può fare contemporanea applicazione di due differenti disposizioni normative che disciplinano la stessa fattispecie, ove una delle due disposizioni presenti tutti gli elementi dell’altra e aggiunga un ulteriore elemento di specificità (o per aggiunta o per qualificazione); in altri termini, le due norme astrattamente applicabili potrebbero essere raffigurate come cerchi concentrici, di cui quello più grande è quello caratterizzato dalla specificità.

Nè all’applicazione del principio di specialità può opporsi che debba esistere una situazione di contrasto tra i due plessi normativi: difatti, ad una lettura più meditata, occorre ritenere che tale presupposto consista in una difformità di disciplina tale da rendere illogica la sovrapposizione delle due regole. Ed invero, al riguardo può concretamente soccorrere quanto previsto dal considerando 10 della direttiva 2005/209/CE (testo normativo recepito nel nostro ordinamento nel d.lgs. n. 206 del 2005), secondo cui la disciplina di carattere generale si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali; in pratica, essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore. Alla luce di questa impostazione occorre leggere, pertanto, quanto previsto all’art. 3, co. 4, della medesima direttiva, trasfuso nell’art. 19, co. 3, del Codice del Consumo, secondo cui prevale la disciplina specifica in caso di contrasto con quella generale: il presupposto dell’applicabilità della norma di settore non può essere individuato solo in una situazione di vera e propria antinomia normativa tra disciplina generale e speciale, poiché tale interpretazione in pratica vanificherebbe la portata del principio affermato nel considerando 10, confinandolo a situazioni eccezionali di incompatibilità tra discipline concorrenti. Occorre, invece, leggere il termine conflict (o conflit), usato nella direttiva nelle versioni in inglese (e

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francese) e tradotto nel testo italiano come “contrasto”, come diversità di disciplina, poiché la voluntas legis appare essere inequivocabilmente quella di evitare una sovrapposizione di discipline di diversa fonte e portata, a favore della disciplina che più presenti elementi di specificità rispetto alla fattispecie concreta. In altre parole, la disciplina generale va considerata quale livello minimo essenziale di tutela, cui la disciplina speciale offre elementi aggiuntivi e di specificazione. 5. Orbene, alla luce del principio testé affermato, occorre impostare il rapporto tra la disciplina contenuta nel Codice del Consumo e quella dettata dal testo unico approvato col d.lgs. n. 385 del 1993. Al riguardo, occorre ribadire e precisare quanto già evidenziato dal primo giudice, e cioè che il t.u.b. – quanto meno nella versione vigente all’epoca dei fatti per cui è causa – non contiene alcuna disposizione intesa a perseguire, direttamente o indirettamente, finalità di tutela del consumatore. Ciò si ricava, innanzi tutto, dal chiaro disposto del suo art. 5, laddove i poteri di vigilanza e repressivi attribuiti alla Banca d’Italia sono stati ricondotti “…alla sana e prudente gestione dei soggetti vigilati, alla stabilità complessiva, all’efficienza e alla competitività del sistema finanziario nonché all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia”; a tali finalità, il successivo art. 127 aggiunge poi quelle relative “alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela”. Risulta dunque confermato che il d.lgs. n. 385 del 1993, nella versione

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che qui interessa, era volto a perseguire finalità le quali, ancorché genericamente riconducibili al corretto e trasparente funzionamento del mercato nel settore di riferimento, non comprendono fra di esse la tutela del consumatore in quanto tale. In particolare, resta fuori dall’area del controllo e delle possibili sanzioni la fase antecedente il contatto diretto tra operatore finanziario e risparmiatore finalizzato all’acquisto di un prodotto finanziario presso lo sportello bancario o presso gli uffici dell’operatore. D’altra parte, se si sposta l’attenzione sulle condotte sanzionate da Antitrust nel caso di specie, appare evidente che esse si connotano precipuamente per la loro stretta correlazione con l’acquisto di beni presso esercizi commerciali, rispetto al quale la stipula di un contratto di credito o l’acquisto di un prodotto finanziario appaiono chiaramente accessori e marginali; in altri termini, si tratta di vicende in occasione delle quali la società odierna appellante – che pure è incontestabilmente un operatore del mercato finanziario, come tale soggetto anche alla disciplina del t.u.b. – ha agito utilizzando un approccio e delle tecniche informative assimilabili a quelle più generalmente proprie degli operatori e professionisti cui è applicabile il Codice del Consumo. In definitiva, anche nella prospettiva – rifiutata dal Collegio remittente – della specialità “per settori” non potrebbe giammai pervenirsi, con riguardo al caso che occupa, a un giudizio di insussistenza della competenza di Antitrust, proprio per la ravvisata carenza nella normativa di


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settore di qualsivoglia riferimento alla tutela dei consumatori in quanto tali. 6. L’accertata infondatezza del primo motivo dell’appello di Agos S.r.l., col quale è stata riproposta la doglianza di incompetenza di Antitrust, comporta la necessità di esaminare gli ulteriori motivi con i quali la parte appellante riproduce le censure articolate nel merito dei provvedimenti sanzionatori impugnati, criticandone la reiezione da parte del primo giudice. 7. Col secondo mezzo, sono innanzi tutto censurate le conclusioni del TAR in ordine alla sanzione inflitta alla condotta sopra indicata sub 2.1 alla lett. a), relativa alla commercializzazione del prodotto denominato “Instant Credit”. 7.1. In sintesi, tale prodotto si differenzia da un finanziamento “finalizzato” classico (nel quale la somma necessaria per l’acquisto del bene viene anticipata, con impegno del cliente a restituirla secondo modalità concordate) in quanto l’importo anticipato dalla società viene addebitato su una carta rilasciata al cliente all’atto dell’acquisto del bene, contestualmente all’apertura di una linea di credito revolving, con la rilevante conseguenza che in tale ipotesi – a differenza di quella tradizionale – al cliente medesimo sono accollati una serie di oneri economici (per gestione, estratto conto etc.). Le specifiche condotte sanzionate, nelle quali Antitrust ha ravvisato carenze informative suscettibili di integrare pratiche scorrette, erano le seguenti: - l’informazione ai clienti, nella fase pre-contrattuale, era fornita at-

traverso un documento denominato “Agos investe in trasparenza”, nel quale erano contenute numerose informative (sulla privacy, sul codice deontologico, sulle caratteristiche e i rischi delle operazioni) senza però chiarire le evidenziate peculiarità del prodotto “Instant Credit” rispetto al finanziamento finalizzato; - per la successiva stipula del contratto, veniva impiegato un unico modulo contrattuale standard, comprendente il documento di sintesi, le condizioni generali di contratto e un foglio riportante le clausole relative alla manifestazione di consenso al trattamento dei dati personali, all’autorizzazione permanente di addebito in conto e all’adesione alla contestuale assicurazione vita e infortuni; - in tale ultima pagina, vi era altresì una clausola non specificamente sottoposta alla firma del contraente, dal seguente tenore: “...Prendo atto che potrà essermi concessa da Agos l’apertura di una linea di credito utilizzabile anche mediante carta di credito rilasciata a mio nome”. In tal modo, secondo Antitrust, al contraente non veniva fornita in modo chiaro l’informazione che, in caso di adesione al prodotto “Instant Credit”, l’importo anticipato da Agos sarebbe stato addebitato come prima operazione sulla carta di credito rilasciata a suo nome, per la quale avrebbe poi dovuto sostenere oneri e spese (non previsti, invece, per il finanziamento finalizzato classico); inoltre, la confusione era accentuata dal fatto che la predetta carta non era immediatamente consegnata al cliente, ma spedita solo in un secondo momento al suo domicilio.

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Ciò premesso, parte appellante torna a manifestare la propria opinione secondo cui le carenze informative suscettibili di integrare pratica commerciale scorretta ai sensi della normativa del Codice del Consumo andrebbero apprezzate ex se, in termini assoluti, e non per raffronto con altri e diversi prodotti, come asseritamente avvenuto nel caso di specie. Il motivo è però infondato, dovendosi condividere appieno le conclusioni raggiunte dal primo giudice sul punto. In particolare, al di là della specifica modalità formale espositiva seguita da Antitrust per formulare le proprie contestazioni, è evidente che nessun raffronto è stato concretamente posto in essere, essendosi l’Amministrazione limitata a muovere dal dato di fatto indiscutibile per cui per due prodotti sostanzialmente diversi (finanziamento finalizzato classico e “Instant Credit”) Agos utilizzava un piego informativo unico e un unico modulo contrattuale; ciò premesso, si è verificato semplicemente che le informazioni evincibili da questo complesso documentale, mentre risultavano precise ed esaustive con riguardo al primo degli anzi detti prodotti, al contrario non lo erano per il secondo, del quale erano lasciati in ombra alcuni aspetti essenziali (che il cliente avrebbe appreso in modo chiaro solo in un momento successivo, con la ricezione a domicilio della carta di credito e della documentazione allegata). Pertanto appare immune da critiche la valutazione di Antitrust, che nelle condotte sopra descritte ha individuato i tratti di una lacuna informativa suscettibile di condizionare

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in modo determinante il consenso dell’utente (al quale – è bene ribadirlo – il problema di se e quali prodotti finanziari acquistare da Agos si poneva solo in occasione dell’acquisto di un bene presso un esercizio commerciale, senza che egli si fosse ivi recato col precipuo proposito di acquistare un tale prodotto). 7.2. Da respingere è anche la seconda subcensura articolata col primo motivo d’appello, con cui Agos taccia di erroneità ed eccessivo rigore l’impostazione del primo giudice, il quale, richiamata la nota e consolidata giurisprudenza secondo cui gli obblighi informativi imposti a tutela del consumatore vanno adempiuti fin dal “primo contatto” con quest’ultimo, ha ritenuto che la condotta de qua si collocasse già in tale momento; in particolare, si assume che nel caso che occupa tale orientamento non sarebbe conferente, non esistendo un significativo scarto temporale tra il momento in cui la società presentava al cliente i propri prodotti e quello della successiva stipula del contratto (il tutto avvenendo, come detto, contestualmente all’acquisto di altro prodotto). Al contrario, al Collegio è evidente che, al di là del mero dato cronologico, anche nella vicenda per cui è causa è ben individuabile sul piano logico un momento di “primo contatto” tra Agos e cliente, in coincidenza con la sottoposizione del già citato piego informativo sulla “trasparenza”: quest’ultimo, con ogni evidenza, svolgeva una funzione essenziale nell’orientare le successive scelte del cliente con riguardo sia all’an del ricorso a un prodotto finanziario, sia soprattutto a quale fosse il prodotto per cui optare.


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8. Col terzo motivo, la appellante insiste nuovamente per l’illegittimità della autonoma sanzione inflitta da Antitrust per le condotte poste in essere in relazione alla polizza assicurativa denominata “Coperto”, ribadendo la propria tesi secondo cui quest’ultima non costituiva un prodotto autonomo rispetto a quelli finanziari, essendo sempre accessoria a un’operazione di finanziamento che il cliente aveva deciso di concludere. Anche tale motivo è privo di pregio. 8.1. Sul punto, giova precisare che la scorrettezza della pratica commerciale al riguardo contestata da Antitrust consisteva nell’assenza di adeguata informazione, in occasione della commercializzazione dei prodotti “Instant Credit” e credito classico finalizzato, che la connessa adesione a una polizza assicurativa era facoltativa e non obbligatoria; a tal fine, sono state reputate insufficienti le espressioni contenute nel testo contrattuale (clausole negoziali in materia di privacy e altro, che il cliente era chiamato a sottoscrivere “in caso di adesione all’assicurazione”) o nel documento di sintesi (laddove si parlava di “polizza assicurativa opzionale”), trattandosi di formule ambigue e inidonee a rendere edotto il consumatore sulla natura facoltativa della polizza. Ciò premesso, se è innegabile il rapporto di accessorietà tra i due prodotti, su cui insiste l’appellante – nel senso che la stipulazione di una polizza assicurativa trovava il proprio fondamento nell’operazione di finanziamento che essa era preposta a garantire –, ciò tuttavia non esclude af-

fatto la diversità strutturale fra di essi, ben messa in luce dal giudice di prime cure: diversità apprezzabile non solo sul piano tipologico, afferendo l’un prodotto al settore creditizio e l’altro a quello assicurativo, ma anche e soprattutto proprio in ragione della non contestata facoltatività della polizza, tale da rendere del tutto fisiologica – in astratto – l’evenienza che il cliente decidesse di concludere il finanziamento senza anche sottoscrivere la polizza. 8.2. Prive di pregio sono poi anche le ulteriori doglianze riproposte col terzo mezzo nel merito della ritenuta inidoneità e insufficienza delle indicazioni contenute nei documenti contrattuali a informare il cliente sul punto specifico della facoltatività dell’adesione all’assicurazione. Al riguardo, non è fuori luogo rammentare che il co. 2 dell’art. 22 del d.lgs. n. 206 del 2005 chiarisce che una pratica commerciale scorretta può sostanziarsi anche nel fornire al consumatore in modo “ambiguo” o “intempestivo” informazioni rilevanti ai fini delle sue successive scelte. Pertanto, essendo nella specie incontestato che le scarne informazioni sulla facoltatività della sottoscrizione della polizza erano contenute in parti della documentazione contrattuale e pre-contrattuale diverse da quelle specificamente dedicate a tale prodotto (p.es. all’atto della prestazione del consenso al trattamento dei dati personali), può convenirsi col primo giudice laddove ha osservato che in tali circostanze l’utente, il quale verosimilmente era concentrato sull’apertura della linea di credito più che sulla prestazione assicurativa accessoria, ben avrebbe potuto non foca-

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lizzare la propria attenzione su tali informazioni incidentali, ad esempio ritenendo che il riferimento al “caso di adesione” rimandasse più in generale all’adesione prestata all’apertura del credito. 9. Resta da esaminare il quarto e ultimo motivo d’appello di Agos, col quale sono nuovamente articolate le doglianze avverso la quantificazione della sanzione operata da Antitrust. Le censure formulate con tale mezzo sono solo in parte fondate, come meglio appresso si dirà. 9.1. In particolare, vanno disattese le censure con le quali Agos torna a lamentare l’erronea quantificazione delle sanzioni, dovendosi – al contrario – convenire con la conclusione del primo giudice, secondo cui nella specie Antitrust ha fatto corretta applicazione dei criteri di cui all’art. 11 della legge n. 689 del 1981. In primo luogo, non può trovare spazio la pretesa di parte istante all’applicazione di un “cumulo giuridico” in luogo di più sanzioni separate per ciascuna delle violazioni accertate, essendo jus receptum che anche in materia di sanzioni irrogate da Antitrust trovano applicazione i principi di cui all’art. 8 della richiamata legge n. 689 del 1981, e quindi la regola del “cumulo materiale” in ipotesi di pluralità di illeciti autonomi e indipendenti, non potendo per converso ritenersi che questi siano frutto di un’unica determinazione per il solo fatto di essere stati commessi nell’ambito di una strategia aziendale complessiva e unitaria (cfr. Cons. Stato, Sezione VI, 10 gennaio 2007, n. 26; id., 10 marzo 2006, n. 1271). In secondo luogo, l’importo delle sanzioni nella specie irrogate appare

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correttamente determinato in ragione di una non censurabile applicazione dei sopra richiamati criteri di valutazione: in particolare, risulta condivisibile la valorizzazione delle dimensioni dell’operatore di che trattasi in rapporto al mercato di riferimento e della oggettiva gravità delle condotte ascritte, tenuto conto che le stesse venivano poste in essere in un momento in cui il consumatore era particolarmente vulnerabile, approcciandosi egli all’acquisto del prodotto finanziario commercializzato da Agos – come già più volte evidenziato – solo perché interessato all’acquisto di altro e diverso bene (normalmente, un elettrodomestico), ed essendo quindi scarsamente propenso a concentrare la propria attenzione sulle caratteristiche e le peculiarità del credito che, nella sua prospettiva, era solo strumentale a tale acquisto. Sotto tale ultimo profilo, non può condividersi l’avviso della appellante, secondo cui illegittimamente Antitrust avrebbe considerato le condotte illecite estese per tutta la fase dei contatti fra società e cliente, laddove in realtà queste al più connotavano la fase pre-contrattuale mentre in seguito, in quella contrattuale, le lacune informative sarebbero state colmate; al contrario si è visto, soffermandosi sulle pratiche contestate in relazione sia al prodotto “Instant Credit” sia alla polizza assicurativa, come le carenze informative siano state riscontrate tanto nella fase del c.d. “primo contratto” con l’acquirente (e, segnatamente, nel documento denominato “Agos per la trasparenza” che forniva le prime notizie sui prodotti de quibus) quanto negli stessi moduli


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standard da sottoscrivere all’atto della stipulazione dei contratti di finanziamento. Infine, non possono trovare accoglimento le ulteriori doglianze incentrate sulla presunta “inerzia” che avrebbe connotato l’atteggiamento di Antitrust, attivatasi per sanzionare le condotte in questione soltanto a distanza di molto tempo dalla ricezione delle prime segnalazioni alle stesse relative. Al riguardo, in disparte il rilievo che non può parlarsi di “tolleranza” delle condotte contestate per il solo fatto che sia stato impiegato del tempo prima di aprire il procedimento sanzionatorio e che la congruità di tale lasso di tempo può essere diversamente apprezzata in funzione della necessità di approfondire le segnalazioni pervenute (e, difatti, Antitrust nega che nella specie vi sia stata alcuna inerzia, ritenendo invece che il tempo impiegato per esaminare congiuntamente le varie segnalazioni pervenute e decidere che le stesse erano idonee all’apertura di un’istruttoria sarebbe stato addirittura relativamente breve), è a dirsi che tale inerzia, se anche dimostrata, resterebbe una circostanza “esterna” rispetto agli illeciti contestati, in alcun modo idonea a influenzare il giudizio sulla maggiore o minore gravità di essi. 9.2. Al contrario, è fondata la doglianza (non esaminata dal primo giudice) con la quale Agos lamenta l’erronea applicazione della circostanza aggravante della reiterazione; al riguardo, Antitrust ammette che nella specie la contestata recidiva è stata frutto di un errore, non sussistendo a carico di Agos precedenti

definitivi (la sanzione in precedenza irrogata, considerata ai fini della reiterazione, era stata annullata a seguito di ricorso giurisdizionale dell’interessata), ma nonostante ciò insiste nel ritenere corretta l’operazione di “bilanciamento” di circostanze che ha portato alla determinazione definitiva delle sanzioni pecuniarie. Tale assunto difensivo appare di difficile comprensione, se si tiene conto: - che nella specie il bilanciamento fu operato tra l’attenuante del ravvedimento operoso e la aggravante della ritenuta recidiva, considerandosi prevalente quest’ultima con conseguente incremento di ciascuna sanzione in misura di euro 10.000,00; - che, pertanto, una volta accertata l’insussistenza della circostanza aggravante, non vi è più materia per compiere alcuna operazione di bilanciamento fra circostanze, dovendosi tener conto della sola attenuante come individuata dall’Amministrazione. Di conseguenza, in questa sede è possibile procedere a rideterminazione delle sanzioni esercitando i poteri di merito di cui all’art. 134, lett. c), cod. proc. amm., e segnatamente applicando la sola diminuente dovuta per l’attenuante del ravvedimento operoso (unica “superstite” dell’operazione di bilanciamento compiuta da Antitrust); in tale prospettiva, apparendo congrua una diminuzione di euro 10.000, pari all’aumento originariamente applicato per la ritenuta prevalenza della aggravante, rispetto agli importi-base delle sanzioni come fissati a pag. 110 del provvedimento impugnato, le sanzioni irrogate vengono conseguentemente ridetermi-

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nate rispettivamente in euro 130.000 ed euro 155.000. 10. Se solo entro i limiti appena precisati, possono trovare accoglimento le censure articolate nell’appello proposto da Agos, va invece integralmente respinto l’appello proposto da Antitrust. Tale gravame si dirige avverso la sentenza del TAR capitolino nella parte in cui ha annullato la sanzione inflitta per la condotta descritta sub 2.1 alla lett. b), escludendone la riconducibilità alla nozione di pratica aggressiva di cui all’art. 24 del Codice del Consumo ; sul punto, Antitrust insiste nell’assumere che, seppure è vero che nella specie la condotta contestata all’operatore (al pari delle altre poi sanzionate) si sostanziava nell’omissione di informazioni rilevanti in ordine all’apertura di una linea di credito revolving che sarebbe seguita alla sottoscrizione del contratto di prestito personale ovvero di finanziamento finalizzato classico, tuttavia l’aggressività della condotta si ricaverebbe dal carattere “subdolo” dell’omissione e dalla sua oggettiva idoneità a condizionare le scelte del consumatore, inducendolo ad acquistare un prodotto diverso e aggiuntivo rispetto a quelli che egli si era dapprincipio determinato a sottoscrivere (prodotto costituito, appunto, dall’apertura della linea di credito). Ad avviso di questa Adunanza Plenaria le considerazioni dell’Amministrazione appellante, seppur condivisibili in punto di fatto, non appaiono idonee a ribaltare le conclusioni raggiunte dal primo giudice in punto di non inquadrabilità della condotta de qua nella nozione di pratica aggressiva.

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E difatti, se è vero che a tale ultima nozione ex art. 24, d.lgs. n. 206 del 2005 è indubbiamente coessenziale l’elemento dell’indebito condizionamento delle scelte del consumatore, nel senso che la pratica aggressiva è anche “scorretta” – e, quindi, sanzionabile da Antitrust – nella misura in cui con essa il consumatore sia indotto a prendere una decisione commerciale che altrimenti non avrebbe preso (poco rilevando, al riguardo, che questa concerna un prodotto diverso ovvero modalità diverse di acquisto del medesimo prodotto), tuttavia non indifferenti sono anche le modalità con le quali tale risultato viene conseguito, dovendo queste consistere in comportamenti positivi (“molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento”) suscettibili di limitare la libertà di scelta dell’utente. Nel caso di specie, è innegabile (e, per vero, non è contestato neanche dall’Amministrazione appellante) che ad Agos è stato imputato il silenzio tenuto su punti rilevanti dell’operazione commerciale sottoscritta dal cliente, tale da creare in quest’ultimo un deficit informativo certamente idoneo a condizionarne le scelte, ma che non può perciò solo autorizzarne l’inquadramento nella fattispecie di cui all’art. 24, piuttosto che in quelle previste dal precedente art. 22 del Codice del Consumo, pena lo snaturamento del rapporto e della differenziazione tra quelle che, nell’impianto del medesimo d.lgs. n. 206 del 2005, sono le due autonome species nelle quali si articola il genus delle pratiche commerciali scorrette.


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11. In conclusione, s’impone una decisione di reiezione dell’appello di Antitrust e di parziale accoglimento, nei limiti più sopra precisati, dell’appello di Agos. 12. In considerazione della complessità della vicenda esaminata e della novità delle questioni in diritto trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del presente grado del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), riuniti gli appelli in epigrafe, definitivamente pronunciando su di essi: - accoglie in parte l’appello di Agos S.p.a. e lo respinge per la parte

restante, nei termini di cui in motivazione; - respinge l’appello dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato; - per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie i motivi aggiunti di primo grado nei limiti di cui in motivazione, rideterminando le sanzioni irrogate in misura di euro 130.000 (per la pratica commerciale di cui al punto II, lettere a) e d), del provvedimento impugnato) e di euro 155.000 (per la pratica commerciale di cui al punto II, lett. c), del provvedimento impugnato). (Omissis)

(1-2) L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha definitivamente chiarito che la disciplina del Codice del Consumo che sanziona le pratiche commerciali scorrette si applica anche agli operatori finanziari che offrono alla clientela prodotti finalizzati al credito al consumo e che, pertanto, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato è competente ad irrogare le relative sanzioni. Una società operante nel settore finanziario aveva proposto appello avverso la sentenza del TAR Lazio, 18 gennaio 2010, n. 306, che aveva parzialmente confermato un provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza ed il Mercato con il quale la suddetta società era stata sanzionata, ai sensi degli artt. 20 ss. del Codice del Consumo, per aver offerto finanziamenti per l’acquisto di beni di consumo presso i locali commerciali del venditore senza aver informato adeguatamente i potenziali clienti che il credito sarebbe stato concesso non con la forma di un “finanziamento tradizionale”, bensì attraverso la concessione di una carta di credito contestualmente aperta, e che ciò avrebbe comportato ulteriori oneri e spese di gestione a carico del cliente. Con ordinanza 13 dicembre 2011, n. 6522, la terza sezione del Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 99 del Codice di Giustizia Amministrativa, ha rimesso il giudizio avanti l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Ad avviso della sezione remittente era infatti necessario chiarire in modo univoco se gli artt. 20 ss. del Codice del Consumo possano trovare applicazione anche nel caso in cui le pratiche commerciali scorrette siano poste in essere da operatori finanziari e, dunque, da soggetti il cui operato è organicamente disciplinato da una specifica normativa di settore (il t.u.b.); e se, conseguentemente, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato sia o meno competente ad irrogare sanzioni nei confronti dei suddetti operatori. Infatti, sebbene l’orientamento della giuri-

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sprudenza era stato in passato sostanzialmente concorde nell’ammettere, in casi analoghi, l’applicabilità del Codice del Consumo, le argomentazioni utilizzate per arrivare a tale conclusione avevano seguito percorsi argomentativi diversi che potevano generare un notevole grado di incertezza, lasciando altresì spazio a contrapposte interpretazioni (tra le tante decisioni che hanno ritenuto applicabile il Codice del Consumo anche in presenza di una normativa di settore, oltre a quelle richiamate in seguito, cfr. Cons. St., 31 gennaio 2011, n. 720; TAR Lazio 16 giugno 2011, n. 5386; TAR Lazio, 9 maggio 2011, n. 3954; TAR Lazio, 21 marzo 2011, n. 2409; TAR Lazio, 19 maggio 2010, n. 12281). In particolare, una parte della giurisprudenza aveva ritenuto che il problema dell’eventuale antinomia tra Codice del Consumo e normative di settore avrebbe dovuto essere risolto attraverso il criterio della c.d. “specialità per settori”. Si tratta di un criterio elaborato dallo stesso Consiglio di Stato che, in funzione consultiva (Cons. St., 3 dicembre 2008, parere n. 3999), era stato chiamato a chiarire se spettasse o meno all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ai sensi del Codice del Consumo, o, al contrario, alla Consob ai sensi del t.u.f., sanzionare violazioni degli obblighi informativi poste in essere da operatori finanziari. Il Consiglio di Stato aveva appunto osservato che il potenziale conflitto tra norme non doveva essere risolto secondo il criterio della “specialità tra norme”, bensì attraverso quello della “specialità per settori”. Ossia si sarebbe dovuta escludere l’applicabilità della norma generale (Codice del Consumo) in tutti quei casi in cui determinati comportamenti fossero stati posti in essere da soggetti che operavano all’interno di settori regolati da una specifica ed organica disciplina, come appunto il t.u.b. ed il t.u.f. E questo a prescindere dal fatto che la normativa di settore contenesse disposizioni riguardanti le fattispecie regolate dalla normativa generale. In sostanza, secondo tale interpretazione, la sola circostanza che un determinato settore fosse regolato da una disciplina speciale organica e completa avrebbe dovuto comportare che in quell’ambito non potesse trovare applicazione la norma generale. In linea teorica, quindi, il Codice del Consumo non dovrebbe essere applicato agli operatori finanziari, essendovi una normativa di settore che regola e disciplina l’attività dei medesimi (t.u.b. e t.u.f.). E questo a prescindere dal fatto che la normativa speciale preveda o meno una disciplina specifica con riferimento alle pratiche commerciali scorrette. Non potendo applicarsi il Codice del Consumo, verrebbe di conseguenza meno anche il potere dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato di irrogare le relative sanzioni ed il provvedimento impugnato dovrebbe pertanto essere considerato illegittimo. Pur utilizzando il criterio interpretativo fornito dalla sezione consultiva nel richiamato parere, parte della giurisprudenza aveva comunque, in casi simili a quello in esame, ritenuto applicabile il Codice del Consumo. Si era infatti ritenuto che, con riferimento al credito al consumo, la condotta degli istituti di credito, pur essendo astrattamente riconducibile a fattispecie regolate dal t.u.b., fosse caratterizzata da comportamenti più simili a quelli tenuti dagli operatori commerciali tout court essendo preordinata a stimolare decisioni del consumatore di natura propriamente commerciale (come, ad esempio,

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l’acquisto di un determinato bene di consumo). Pertanto, l’ordinamento chiamato a regolare i suddetti comportamenti avrebbe dovuto essere quello del Codice del Consumo e non quello del credito e risparmio (Cons. St., 22 giugno 2011, n. 3763; TAR Lazio, 15 luglio 2011, n. 6354). Ad avviso di altra parte della giurisprudenza, invece, il potenziale conflitto tra Codice del Consumo e leggi di settore avrebbe dovuto essere risolto attraverso il criterio della specialità tra norme, e quindi secondo quanto stabilito dall’art. 15 c.p. e dall’art. 9 della l. 24 novembre 1981, n. 689. Si sarebbe pertanto dovuto verificare se una determinata e specifica fattispecie fosse disciplinata da due normative e, solo nel caso di antinomia o di una possibile duplicazione delle sanzioni, si sarebbe dovuta applicare la normativa speciale (in termini generali, si vedano in proposito Cass. S.U., 21 gennaio 2011, n. 1963; Cass. S.U., 20 dicembre 2005, n. 47164). Siffatta interpretazione, oltre ad evitare i possibili vuoti di disciplina derivanti dal criterio della specialità per settori, sarebbe conforme, da un lato, a quanto stabilito dall’art. 19 del Codice del Consumo, che esclude l’applicabilità della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette solo in presenza di normative speciali che disciplino “aspetti specifici” delle medesime; dall’altro lato, a quanto stabilito dall’art. 3, par. 4 della Direttiva 29/2005 CE (in questo senso, oltre alla sezione remittente, TAR Lazio, 16 giugno 2011, n. 5383; TAR Lazio, 15 giugno 2009, n. 5625; TAR Lazio, 8 settembre 2009, n. 8399). L’Adunanza plenaria, investita della questione nei termini sopra indicati, ha innanzi tutto chiarito che il potenziale conflitto tra Codice del Consumo e t.u.b. con riferimento alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette di cui agli artt. 20 ss. del Codice del Consumo appare oggi risolto a seguito dell’entrata in vigore del d.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, che, con riferimento al credito al consumo, ha introdotto all’art. 123 del t.u.b. un esplicito rinvio alle norme del Codice del Consumo. Nel caso sottoposto all’esame dell’Adunanza tale novella non poteva però trovare applicazione ratione temporis. Ciò considerato, i giudici amministrativi hanno chiarito che il potenziale conflitto tra norme, nella disciplina previgente, deve essere risolto con l’applicazione del criterio della specialità tra norme. Questo perché è lo stesso art. 19, co. 3, del Codice del Consumo che, nel prevedere che eventuali discipline speciali che regolino le pratiche commerciali in contrasto con la disciplina generale dettata dal medesimo Codice del Consumo prevalgono su quest’ultimo, impone, in caso di assenza di contrasto, l’applicazione del Codice del Consumo. Alla luce di tali considerazioni, l’Adunanza Plenaria ha ritenuto che nel caso di specie debba senza dubbio trovare applicazione il Codice del Consumo ed ha pertanto confermato la competenza dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ad irrogare le sanzioni inflitte con il provvedimento impugnato. Infatti, analizzando le fattispecie disciplinate dagli artt. 20 ss. del Codice del Consumo e le norme contenute nel t.u.b., il Consiglio di Stato è arrivato a concludere che tra le due normative non vi è alcuna antinomia, né tantomeno alcuna sovrapposizione di disciplina. Questo anche in considerazione del fatto

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che il t.u.b., quanto meno nella disciplina previgente alla richiamata novella di cui al d.lgs. 141/2010, conteneva normative finalizzate ad assicurare il corretto e trasparente funzionamento del mercato ma non preordinate a fare in modo che il consumatore assuma le proprie scelte sulla base di informazioni complete ed adeguate, finalità quest’ultima perseguita invece proprio dagli artt. 20 ss. del Codice del Consumo che, per tale ragione, impongono al professionista di fornire informazioni complete ed adeguate al cliente anche nella fase pre-contrattuale (ossia nel momento in cui si forma il consenso circa la sottoscrizione del contratto). Tutto ciò premesso, l’Adunanza Plenaria ha comunque osservato che, come già chiarito dallo stesso Consiglio di Stato nella sopra richiamata sentenza 22 giugno 2011, n. 3763, si dovrebbe arrivare alle medesime conclusioni anche nel caso in cui si dovesse ritenere che il potenziale conflitto tra t.u.b. e Codice del Consumo debba essere risolto attraverso il criterio della “specialità per settore”. Infatti, nonostante la società appellante sia un soggetto che opera in un settore regolato e disciplinato dal t.u.b., i contratti in questione sono stati conclusi per l’acquisto di beni presso esercizi commerciali e la società ha nel caso specifico operato “con un approccio e delle tecniche informative assimilabili a quelle più generalmente proprie degli operatori e professionisti cui è applicabile il Codice del Consumo”. “L’ordinamento” di riferimento di tali contratti deve quindi essere il Codice del Consumo e non il t.u.b. Infine, per quanto attiene al merito, l’Adunanza Plenaria ha confermato la sentenza impugnata ritenendo illegittimo il comportamento della ricorrente, da un lato, per non aver fornito informazioni complete ed adeguate circa il prodotto offerto alla clientela, dall’altro lato, per non aver informato espressamente i clienti circa la natura facoltativa del contratto di assicurazione che veniva fatto sottoscrivere unitamente al finanziamento. Per maggiori approfondimenti su questi temi si rinvia al saggio di Meli, Principio di specialità e applicabilità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette al settore del credito, pubblicato su questo numero della rivista, retro, p. 399. [Nota Redazionale]

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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni



LEGISLAZIONE

Nuove modifiche alla legge fallimentare Continua inesorabile lo stillicidio delle modifiche alla legge fallimentare, pur dopo la riforma complessiva del 2005-2007. Ormai il nostro legislatore, con cadenza praticamente annuale, coglie le occasioni più diverse per intervenire sulla disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, considerata, evidentemente, come un cantiere (destinato a rimanere) sempre aperto. Questa volta l’occasione è stata fornita dal c.d. “decreto sviluppo”, il d.l. 22 giugno 2012, n. 83, nel quale è stato inserito all’art. 33 – la cui rubrica recita “Revisione della legge fallimentare per favorire la continuità aziendale” – un articolato complesso di disposizioni modificative o integrative della disciplina vigente, volte, come si precisa nella relazione di accompagnamento, “a migliorare l’efficienza dei procedimenti di composizione delle crisi d’impresa disciplinati dalla legge fallimentare, superando le criticità emerse in sede applicativa e promuovendo l’emersione anticipata della difficoltà di adempimento dell’imprenditore”; un complesso che è stato ulteriormente arricchito in sede di conversione, con la l. 7 agosto 2012, n. 134. Certamente si tratta dell’intervento di più rilevante portata, dal punto di vista sia quantitativo sia qualitativo, fra quanti si sono succeduti dal 2008 ad oggi. Anche se – è il caso di avvertire subito – non bisogna lasciarsi fuorviare dalla rubrica dell’art. 33: la “revisione”, in funzione dell’eliminazione delle “criticità” emerse in sede applicativa, ha riguardato non già l’intera legge fallimentare ma, essenzialmente, la parte di tale legge concernente le procedure o procedimenti alternativi, per dir così, al fallimento, cioè il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione. Proprio per questa ragione vi è da dubitare che con questo intervento si possa ritenere conseguito l’obiettivo di quella “stabilità normativa” che, anche e proprio in materia di disciplina delle crisi delle imprese, costituisce (costituirebbe) di per sé un fattore di efficienza e che un legislatore serio dovrebbe sempre avere di mira.

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Legislazione

*** Come si è appena detto, il legislatore del 2012 ha inteso specificamente rivedere la disciplina del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione, alla quale è in effetti dedicata la maggior parte delle disposizioni contenute nell’art. 33. Non mancano disposizioni (poche) che riguardano il fallimento ed a talune delle quali deve riconoscersi rilevanza anche notevole: ma esse appaiono prevalentemente come una sorta di completamento (o complemento) dei nuovi assetti dati alle altre procedure o procedimenti. In materia di fallimento la nuova legge è intervenuta, innanzi tutto, sull’art. 67, co. 3, l.fall. in materia di esenzione dalla revocatoria fallimentare, riformulandone la lett. c), riguardante le vendite ed i preliminari di vendita, la lett. d), concernente i c.d. piani di risanamento attestati (nell’ambito della quale vengono ridisegnati i requisiti del professionista attestatore) e la lett. e), riguardante gli atti compiuti in esecuzione del concordato preventivo. È intervenuta, poi, sull’art. 69-bis, sempre in materia di revocatoria, modificandone la rubrica ed aggiungendo un secondo comma con il quale si recepisce nel nostro ordinamento la c.d. consecuzione delle procedure. È intervenuta, infine, sull’art. 72, co. 8, in materia di rapporti pendenti, che è stato reso coerente con la nuova lett. c) dell’art. 67. *** Il blocco più consistente di disposizioni integrative o modificative riguarda la procedura di concordato preventivo, che viene ridisegnata in molti aspetti, anche fondamentali. Così: - viene ridisciplinata la domanda di concordato, con la precisazione del contenuto del piano, la previsione della pubblicazione della medesima nel registro delle imprese e la previsione della possibilità di depositare solo il ricorso ed i bilanci, con riserva di depositare la proposta, il piano e la documentazione entro un termine fissato dal giudice fra 60 e 120 giorni (art. 161); - viene introdotta la figura particolare del concordato con continuità aziendale, governata da una apposita disciplina integrativa di quella generale; - vengono ridisciplinati gli effetti della presentazione del ricorso, per il periodo anteriore al decreto di ammissione (art. 161, co. 7);

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Nuove modifiche alla legge fallimentare

- viene ritoccato l’art. 168, in materia di effetti dell’ammissione alla procedura; - viene prevista espressamente la possibilità per il debitore, fin dal momento della domanda, di ottenere l’autorizzazione a sciogliersi da contratti pendenti (art. 169-bis), a contrarre finanziamenti prededucibili (art. 182-quinquies, co. 1), a pagare crediti anteriori (art. 182-quinquies, co. 4); - viene integrato l’art. 178, in materia di deliberazione dei creditori, introducendo il principio del silenzio-assenso e stabilendo che, nell’ipotesi di mancata formazione delle classi, siano legittimati a contestare la convenienza della proposta i creditori dissenzienti che rappresentino il 20% dei crediti ammessi al voto; - viene modificato l’art. 182-quater, in materia di crediti prededucibili, in particolare estendendo a tutti i finanziatori il “beneficio” prima riservato alle sole banche ed intermediari finanziari; - viene collegato all’apertura della procedura di concordato preventivo il “blocco” dell’operatività dell’obbligo di riduzione del capitale per perdite superiori ad un terzo e della causa di scioglimento rappresentata dal riduzione del capitale al di sotto del minimo legale (art. 182-sexies); - viene precisato che gli effetti del concordato omologato decorrono dalla pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese; - viene estesa anche ai pagamenti ed alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice l’esenzione dai reati di bancarotta (art. 217bis, co. 1). Come risulta immediatamente anche da questo semplice elenco, molte e di rilevante peso sono le novità, alcune senz’altro apprezzabili, altre decisamente meno. Qui interessa segnalare, in particolare, che le nuove norme risolvono definitivamente il problema della funzione del concordato preventivo: e lo risolvono nel senso che anche questa procedura ha come finalità preminente su qualsiasi altra il soddisfacimento dei creditori. Decisive in tal senso sono le previsioni dei nuovi art. 182-quinquies e 186-bis, riguardanti il concordato con continuità aziendale, da cui emerge che la prosecuzione dell’attività di impresa è possibile solo in funzione del migliore soddisfacimento dei creditori e che pertanto, come viene sottolineato nella relazione di accompagnamento al decreto, “la continuità aziendale non è un valore in sé, ma soltanto in quanto strumentale alla soddisfazione degli interessi del ceto creditorio”. ***

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Di assai minore rilevanza sono le modifiche alla disciplina degli accordi di ristrutturazione, del resto già rimaneggiata nel 2010. È stato ritoccato in più punti l’art. 182-bis. In particolare, è stato integralmente riformulato il primo comma di tale disposizione, rendendone il tenore omogeneo a quello degli art. 67, co. 3 e 161, co. 3 in punto di designazione del professionista e di compiti del medesimo, sostituendo, in relazione al pagamento dei creditori estranei, la parola “integrale” alla parola “regolare” e introducendo termini precisi per il suddetto pagamento integrale. È stata confermata la tendenza – già emersa appuntonel 2010 – a configurare il concordato preventivo e gli accordi come “rimedi” alla crisi sostanzialmente equipollenti. Innanzi tutto, gli art. 182-quater, 182-quinquies e 182-sexies, di cui si è detto prima, estendono anche agli accordi la disciplina prevista per il concordato preventivo in punto di crediti prededucibili, di possibilità per il debitore di essere autorizzato a contrarre finanziamenti prededucibili o a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, di “blocco” dell’operatività dell’obbligo di riduzione del capitale per perdite e della causa di scioglimento costituita dalla riduzione del capitale al di sotto del minimo legale. In secondo luogo, da un lato, il debitore che abbia depositato la domanda di concordato riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione può, nel termine fissato dal giudice, depositare (in luogo della proposta di concordato) la domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione (art. 161, co. 6); e, dall’altro, il debitore che abbia presentato una proposta di accordo può depositare nel termine assegnato dal tribunale (in luogo dell’accordo) domanda di concordato preventivo (art. 182-bis, co. 8). *** Una delle novità più interessanti della riforma del 2005-2007 è stata l’introduzione nella disciplina delle crisi di impresa della figura del professionista attestatore, al quale sono stati attribuiti compiti importanti quanto delicati: specificamente, compiti di verifica e, appunto, di attestazione con riguardo al piano ex art. 67 e 161 ed all’accordo ex art. 182-bis. Proseguendo nella linea di valorizzazione di questa figura, il legislatore del 2012: - ha precisato, nell’art. 67, co. 3, lett. d) (come si è già detto), i requisiti che il professionista deve avere; - ha arricchito i compiti del professionista attestatore, prevedendo la necessità di una sua relazione sia per l’ammissione al concordato con

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Nuove modifiche alla legge fallimentare

continuità aziendale (art. 186-bis), sia per ottenere l’autorizzazione a contrarre finanziamenti (art. 182-quinquies, co. 1) o a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi (art. 182-quinquies, co. 4), sia per la prosecuzione di contratti pubblici o per la partecipazione a procedure di assegnazione di contratti pubblici (ancora art. 186-bis); - ha introdotto l’art. 236-bis, che colpisce con sanzioni penali il professionista che nelle relazioni o attestazioni espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti. *** La nuova normativa presenta molte luci, ma anche molte ombre. Per esempio: non mancano formulazioni oscure o imprecise, e anche manifestazioni di impressionante sciatteria. Emblematico è il nuovo co. 5 dell’art. 101 d.P.R. n. 917/1986, come sostituito dal co. 5 del d.l. n. 83 (integrato in sede di conversione), per il quale “Le perdite di beni di cui al co. 1, commisurate al costo non ammortizzato di essi, e le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis del r.d. 16 marzo 1942, n. 267. Ai fini del presente comma, il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi”: a parte gli autentici errori che costellano questa disposizione, colpisce la constatazione che in essa l’accordo di ristrutturazione dei debiti è contemporaneamente considerato un procedimento distinto dalla procedure concorsuali (primo periodo) e, invece, una procedura concorsuale (secondo periodo, “manipolato” in sede di conversione). Uno dei “vizi” più gravi della nuova normativa è comunque costituito dalla stessa prospettiva di fondo adottata: quella che ha portato a circoscrivere l’intervento, finalizzato come risulta dalla stessa rubrica dell’art. 33 a favorire la continuità aziendale, essenzialmente alla procedura di concordato preventivo ed al procedimento di omologazione degli accordi di ristrutturazione. Dimenticando (assurdamente) che il tema della salvaguardia della continuità aziendale, dopo la riforma del 2005-2007, è centrale anche nel fallimento, nel quadro, in particola-

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re, del concordato fallimentare; e trascurando di considerare che intervenire solo sulle regole procedimentali che governano il concordato preventivo avrebbe comportato – come ha comportato – la rottura di quella omogeneità di disciplina fra concordato preventivo e concordato fallimentare che era stata così faticosamente conseguita nell’ambito di tale riforma. Il che poi lascia presagire – e con questo ci si ricollega alla premessa – un nuovo intervento, a breve, del legislatore per recuperare la suddetta omogeneità: proseguendo allora la spirale senza fine dei “rimbalzi” da una legge all’altra che sembra contraddistinguere la nostra legislazione in materia di disciplina delle crisi. [Alessandro Nigro]

D.l. 22 giugno 2012 n. 83, coordinato con le modifiche introdotte dalla l. di conversione 7 agosto 2012 n. 134 – Misure urgenti per la crescita del paese (Omissis) Capo III MISURE PER FACILITARE LA GESTIONE DELLE CRISI AZIENDALI Art. 33(*) Revisione della legge fallimentare per favorire la continuità aziendale 1. Al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 67, terzo comma, sono apportate le seguenti modificazioni: 01) alla lettera c), dopo le parole: «entro il terzo grado» sono aggiunte le seguenti: «ovvero immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente, purchè alla data di dichiarazione di fallimento tale attività sia effettivamente esercitata ovvero siano stati compiuti investimenti per darvi inizio»; 1) la lettera d) è sostituita dalla seguente: «d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purché posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria; un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 28, lettere a) *

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In neretto le parti aggiunte o modificate in sede di conversione.


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e b) deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano; il professionista è indipendente quando non è legato all’impresa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio; in ogni caso, il professionista deve essere in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 2399 del codice civile e non deve, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo; il piano può essere pubblicato nel registro delle imprese su richiesta del debitore;»; 2) alla lettera e): dopo le parole «dell’articolo 182-bis» sono aggiunte le seguenti: «nonché gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso di cui all’articolo 161»; a-bis) all’articolo 69-bis sono apportate le seguenti modificazioni: 1) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Decadenza dall’azione e computo dei termini»; 2) è aggiunto, in fine, il seguente comma: «Nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, i termini di cui agli articoli 64, 65, 67, primo e secondo comma, e 69 decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese»; a-ter) all’articolo 72, ottavo comma, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «ovvero un immobile ad uso non abitativo destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa dell’acquirente»; b) all’articolo 161 sono apportate le seguenti modificazioni: 1) al secondo comma, dopo la lettera d), è aggiunta la seguente: «e) un piano contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta»; 2) al terzo comma sono apportate le seguenti modificazioni: a) dopo la parola «professionista» sono aggiunte le seguenti: «designato dal debitore»; b) dopo il primo periodo è aggiunto, in fine, il seguente: «Analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano»; 3) al quinto comma, dopo le parole «pubblico ministero» sono aggiunte le seguenti: «ed è pubblicata, a cura del cancelliere, nel registro delle imprese entro il giorno successivo al deposito in cancelleria»; 4) dopo il quinto comma sono aggiunti i seguenti: «L’imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione di cui ai commi secondo e terzo entro un termine fissato dal giudice, compreso fra sessanta e centoventi giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni. Nello stesso termine, in alternativa e con conservazione sino all’omologazione degli effetti prodotti dal ricorso, il

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debitore può depositare domanda ai sensi dell’articolo 182-bis, primo comma. In mancanza, si applica l’articolo 162, commi secondo e terzo. Dopo il deposito del ricorso e fino al decreto di cui all’articolo 163 il debitore può compiere gli atti urgenti di straordinaria amministrazione previa autorizzazione del tribunale, il quale può assumere sommarie informazioni. Nello stesso periodo e a decorrere dallo stesso termine il debitore può altresì compiere gli atti di ordinaria amministrazione. I crediti di terzi eventualmente sorti per effetto degli atti legalmente compiuti dal debitore sono prededucibili ai sensi dell’articolo 111. Con il decreto di cui al sesto comma, primo periodo, il tribunale dispone gli obblighi informativi periodici, anche relativi alla gestione finanziaria dell’impresa, che il debitore deve assolvere sino alla scadenza del termine fissato. In caso di violazione di tali obblighi, si applica l’articolo 162, commi secondo e terzo. La domanda di cui al sesto comma è inammissibile quando il debitore, nei due anni precedenti, ha presentato altra domanda ai sensi del medesimo comma alla quale non abbia fatto seguito l’ammissione alla procedura di concordato preventivo o l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti. Fermo restando quanto disposto dall’articolo 22, primo comma, quando pende il procedimento per la dichiarazione di fallimento il termine di cui al sesto comma del presente articolo è di sessanta giorni, prorogabili, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni»; c) all’articolo 168 sono apportate le seguenti modificazioni: 1) al primo comma sono apportate le seguenti modificazioni: a) le parole «presentazione del ricorso» sono sostituite dalle seguenti: «pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese»; b) dopo la parola «esecutive» sono aggiunte le seguenti: «e cautelari»; c) dopo le parole «creditori per titolo o causa anteriore» le parole: «al decreto» sono soppresse; 2) al terzo comma è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le ipoteche giudiziali iscritte nei novanta giorni che precedono la data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese sono inefficaci rispetto ai creditori anteriori al concordato.»; d) nel titolo III, capo II, dopo l’articolo 169 è aggiunto il seguente articolo: «Articolo 169-bis. – (Contratti in corso di esecuzione). – Il debitore nel ricorso di cui all’articolo 161 può chiedere che il Tribunale o, dopo il decreto di ammissione, il giudice delegato lo autorizzi a sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione alla data della presentazione del ricorso. Su richiesta del debitore può essere autorizzata la sospensione del contratto per non più di sessanta giorni, prorogabili in una sola volta. In tali casi, il contraente ha diritto ad un indennizzo equivalente al risarcimento del danno conseguente al mancato adempimento. Tale credito è soddisfatto come credito anteriore al concordato.

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Lo scioglimento del contratto non si estende alla clausola compromissoria in esso contenuta. Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai rapporti di lavoro subordinato nonché ai contratti di cui agli articoli 72, ottavo comma, 72-ter e 80 primo comma»; d-bis) all’articolo 178 sono apportate le seguenti modificazioni: 1) al primo comma, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «È altresì inserita l’indicazione nominativa dei creditori che non hanno esercitato il voto e dell’ammontare dei loro crediti»; 2) al terzo comma, le parole: «senza bisogno di avviso» sono sostituite dalle seguenti: «dandone comunicazione»; 3) il quarto comma è sostituito dal seguente: «I creditori che non hanno esercitato il voto possono far pervenire il proprio dissenso per telegramma o per lettera o per telefax o per posta elettronica nei venti giorni successivi alla chiusura del verbale. In mancanza, si ritengono consenzienti e come tali sono considerati ai fini del computo della maggioranza dei crediti. Le manifestazioni di dissenso e gli assensi, anche presunti a norma del presente comma, sono annotati dal cancelliere in calce al verbale»; d-ter) all’articolo 179 è aggiunto, in fine, il seguente comma: «Quando il commissario giudiziario rileva, dopo l’approvazione del concordato, che sono mutate le condizioni di fattibilità del piano, ne dà avviso ai creditori, i quali possono costituirsi nel giudizio di omologazione fino all’udienza di cui all’articolo 180 per modificare il voto»; d-quater) all’articolo 180, quarto comma, la parola: «contesta» è sostituita dalle seguenti: «ovvero, nell’ipotesi di mancata formazione delle classi, i creditori dissenzienti che rappresentano il 20 per cento dei crediti ammessi al voto, contestano»; e) all’articolo 182-bis sono apportate le seguenti modificazioni: a) il primo comma è sostituito dal seguente: «L’imprenditore in stato di crisi può domandare, depositando la documentazione di cui all’articolo 161, l’omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, unitamente ad una relazione redatta da un professionista, designato dal debitore, in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) sulla veridicità dei dati aziendali e sull’attuabilità dell’accordo stesso con particolare riferimento alla sua idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei seguenti termini: a) entro centoventi giorni dall’omologazione, in caso di crediti già scaduti a quella data; b) entro centoventi giorni dalla scadenza, in caso di crediti non ancora scaduti alla data dell’omologazione»; 2) al terzo comma, primo periodo, dopo le parole «patrimonio del debitore», sono aggiunte le seguenti: «né acquisire titoli di prelazione se non concordati»; 3) al sesto comma, primo periodo, sono apportate le seguenti modificazioni:

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a) dopo le parole «all’articolo 161, primo e secondo comma» sono aggiunte le seguenti: «lettere a), b), c) e d)»; b) le parole «il regolare» sono sostituite dalle seguenti:«l’integrale»; 4) al settimo comma, secondo periodo, le parole «il regolare» sono sostituite dalle seguenti: «l’integrale»; 5) l’ottavo comma è sostituito dal seguente: «A seguito del deposito di un accordo di ristrutturazione dei debiti nei termini assegnati dal tribunale trovano applicazione le disposizioni di cui al secondo, terzo, quarto e quinto comma. Se nel medesimo termine è depositata una domanda di concordato preventivo, si conservano gli effetti di cui ai commi sesto e settimo»; e-bis) all’articolo 182-quater sono apportate le seguenti modificazioni: 1) Al primo comma, le parole: «da banche e intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui agli articolo 106 e 107 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385,» sono soppresse; 2) il secondo comma è sostituito dal seguente: «Sono parificati ai crediti di cui al primo comma i crediti derivanti da finanziamenti erogati in funzione della presentazione della domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo o della domanda di omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, qualora i finanziamenti siano previsti dal piano di cui all’articolo 160 o dall’accordo di ristrutturazione e purché la prededuzione sia espressamente disposta nel provvedimento con cui il tribunale accoglie la domanda di ammissione al concordato preventivo ovvero l’accordo sia omologato»; 3) il terzo comma è sostituito dal seguente: «In deroga agli articoli 2467 e 2497-quinquies del codice civile, il primo e il secondo comma del presente articolo si applicano anche ai finanziamenti effettuati dai soci fino alla concorrenza dell’80 per cento del loro ammontare. Si applicano i commi primo e secondo quando il finanziatore ha acquisito la qualità di socio in esecuzione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti o del concordato preventivo»; 4) il quarto comma è abrogato; 5) al quinto comma, le parole: «ai commi secondo, terzo e quarto, i creditori» sono sostituite dalle seguenti: «al secondo comma, i creditori, anche se soci»; f) dopo l’articolo 182-quater sono aggiunti i seguenti articoli: «Articolo 182-quinquies. – (Disposizioni in tema di finanziamento e continuità aziendale nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione dei debiti). – Il debitore che presenta, anche ai sensi dell’articolo 161 sesto comma, una domanda di ammissione al concordato preventivo o una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182-bis, primo comma, o una proposta di accordo ai sensi dell’articolo 182-bis, sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso sommarie informazioni, a contrarre finanziamenti, prededucibili ai sensi dell’articolo 111, se un professionista designato dal debitore in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), verificato il complessivo

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fabbisogno finanziario dell’impresa sino all’omologazione, attesta che tali finanziamenti sono funzionali alla migliore soddisfazione dei creditori. L’autorizzazione di cui al primo comma può riguardare anche finanziamenti individuati soltanto per tipologia ed entità, e non ancora oggetto di trattative. Il tribunale può autorizzare il debitore a concedere pegno o ipoteca a garanzia dei medesimi finanziamenti. Il debitore che presenta domanda di ammissione al concordato preventivo con continuità aziendale, anche ai sensi dell’articolo 161 sesto comma, può chiedere al tribunale di essere autorizzato, assunte se del caso sommarie informazioni, a pagare crediti anteriori per prestazioni di beni o servizi, se un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), attesta che tali prestazioni sono essenziali per la prosecuzione della attività di impresa e funzionali ad assicurare la migliore soddisfazione dei creditori. L’attestazione del professionista non è necessaria per pagamenti effettuati fino a concorrenza dell’ammontare di nuove risorse finanziarie che vengano apportate al debitore senza obbligo di restituzione o con obbligo di restituzione postergato alla soddisfazione dei creditori. Il debitore che presenta una domanda di omologazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’articolo 182-bis, primo comma, è una proposta di accordo ai sensi dell’articolo 182-bis, sesto comma, può chiedere al Tribunale di essere autorizzato, in presenza dei presupposti di cui al quarto comma, a pagare crediti anche anteriori per prestazioni di beni o servizi. In tal caso i pagamenti effettuati non sono soggetti all’azione revocatoria di cui all’articolo 67. Articolo 182-sexies. – (Riduzione o perdita del capitale della società in crisi). – Dalla data del deposito della domanda per l’ammissione al concordato preventivo, anche a norma dell’articolo 161, sesto comma, della domanda per l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione di cui all’articolo 182-bis ovvero della proposta di accordo a norma del sesto comma dello stesso articolo e sino all’omologazione non si applicano gli articoli 2446, commi secondo e terzo, 2447, 2482-bis, commi quarto, quindi e sesto, e 2482-ter del codice civile. Per lo stesso periodo non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, n. 4, e 2545-duodecies del codice civile. Resta ferma, per il periodo anteriore al deposito delle domande e della proposta di cui al primo comma, l’applicazione dell’articolo 2486 del codice civile»; g) all’articolo 184, primo comma, primo periodo, le parole «al decreto di apertura della procedura di concordato» sono sostituite dalla seguenti: «alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all’articolo 161»; h) nel titolo III, capo VI, dopo l’articolo 186 è aggiunto il seguente articolo: «Articolo 186-bis. – (Concordato con continuità aziendale). – Quando il piano di concordato di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del

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presente articolo. Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa. Nei casi previsti dal presente articolo: a) il piano di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e), deve contenere anche un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura; b) la relazione del professionista di cui all’articolo 161, terzo comma, deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori; c) il piano può prevedere, fermo quanto disposto dall’articolo 160, secondo comma, una moratoria fino a un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto al voto. Fermo quanto previsto nell’articolo 169-bis, i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura. Sono inefficaci eventuali patti contrari. L’ammissione al concordato preventivo non impedisce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal debitore di cui all’articolo 67 ha attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento. Di tale continuazione può beneficiare, in presenza dei requisiti di legge, anche la società cessionaria o conferita ria d’azienda o di rami d’azienda cui i contratti siano trasferiti. Il giudice delegato, all’atto della cessione o del conferimento, dispone la cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni. L’ammissione al concordato preventivo non impedisce la partecipazione a procedura di assegnazione di contratti pubblici, quando l’impresa presenta in gara: a) una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), che attesta la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento del contratto; b) la dichiarazione di altro operatore in possesso dei requisiti di carattere generale, di capacità finanziaria, tecnica, economica nonché di certificazione, richiesti per l’affidamento dell’appalto, il quale si è impegnato nei confronti del concorrente e della stazione appaltante a mettere a disposizione per la durata del contratto, le risorse necessarie all’esecuzione dell’appalto e subentrare all’impresa ausiliata nel caso in cui questa fallisca nel corso della gara ovvero dopo la stipulazione del contratto, ovvero non sia per qualsiasi ragione più in grado di dare regolare esecuzione all’appalto. Si applica l’articolo 49 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163. Fermo quanto previsto dal comma precedente, l’impresa in concordato può concorrere anche riunita in raggruppamento temporaneo di imprese, purché non rivesta la qualità di mandataria e sempre che le altre imprese aderenti al raggruppamento non siano assoggettate ad una procedura concorsuale. In tal

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caso la dichiarazione di cui al quarto comma, lettera b), può provenire anche da un operatore facente parte del raggruppamento. Se nel corso di una procedura iniziata ai sensi del presente articolo l’esercizio dell’attività d’impresa cessa o risulta manifestamente dannoso per i creditori, il tribunale provvede ai sensi dell’articolo 173. Resta salva la facoltà del debitore di modificare la proposta di concordato.»; i) la rubrica del capo terzo del titolo sesto è sostituita dalla seguente: «Capo III. – Disposizioni applicabili nel caso di concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, piani attestati e liquidazione coatta amministrativa»; l) dopo l’articolo 236 è inserito il seguente: «Articolo 236-bis. (Falso in attestazioni e relazioni). – Il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli articoli 67, terzo comma, lettera d), 161, terzo comma, 182-bis, 182-quinquies e 186-bis espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per gli altri, la pena è aumentata. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena è aumentata fino alla metà». l-bis) all’articolo 217-bis, comma 1, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «, nonché ai pagamenti e alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice a norma dell’articolo 182-quinquies». 2. All’articolo 38, primo comma, lettera a), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 dopo le parole «concordato preventivo» sono aggiunte le seguenti: «, salvo il caso di cui all’articolo 186-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267». 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano ai procedimenti di concordato preventivo e per l’omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti introdotti dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nonché ai piani di cui al comma 1, lettera a), n. 1) elaborati successivamente al predetto termine. 4. Il comma 4 dell’articolo 88 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 è sostituito dal seguente: «4. Non si considerano sopravvenienze attive i versamenti in denaro o in natura fatti a fondo perduto o in conto capitale alle società e agli enti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera a) e b), dai propri soci e la rinuncia dei soci ai creditori, né gli apporti effettuati dai possessori di strumenti similari alle azioni, né la riduzione dei debiti dell’impresa in sede di concordato fallimentare o preventivo o per effetto della partecipazione delle perdite da parte dell’associato in partecipazione. In caso di accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis del regio decreto del 16 marzo 1942, n. 267, ovvero di un piano attestato ai sensi dell’articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, pubblicato nel registro delle imprese, la riduzione dei debiti dell’impresa non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite, pregresse e di periodo, di cui all’articolo 84».

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Legislazione

5. Il comma 5 dell’articolo 101 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 è sostituito dal seguente: «5. Le perdite di beni di cui al comma 1, commisurate al costo non ammortizzato di essi, e le perdite su crediti sono deducibili e risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso, per le perdite su crediti, se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali o ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. Ai fini del presente comma, il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento o del provvedimento che ordina la liquidazione coatta amministrativa o del decreto di ammissione alla procedura di concordato preventivo o del decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione o del decreto che dispone la procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Gli elementi certi e precisi sussistono in ogni caso quando il credito sia di modesta entità e sia decorso un periodo di sei mesi dalla scadenza di pagamento del credito stesso. Il credito si considera di modesta entità quando ammonta ad un importo non superiore a 5.000 euro per le imprese di più rilevante dimensione di cui all’articolo 27, comma 10, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e non superiore a 2.500 euro per le altre imprese. Gli elementi certi e precisi sussistono inoltre quando il diritto alla riscossione del credito è prescritto. Per i soggetti che redigono il bilancio in base ai principi contabili internazionali di cui al regolamento (CE) n. 1606/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 luglio 2002, gli elementi certi e precisi sussistono inoltre in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in dipendenza di eventi estintivi».

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NORME REDAZIONALI

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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Norme redazionali

4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.

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Norme redazionali

legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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Norme redazionali

Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm. Rivista della cooperazione Riv. coop. Rivista delle società Riv. soc. Rivista del diritto commerciale Riv. dir. comm. Rivista del notariato Riv. not. Rivista di diritto civile Riv. dir. civ. Rivista di diritto internazionale Riv. dir. internaz. Rivista di diritto privato Riv. dir. priv. Rivista di diritto processuale Riv. dir. proc. Rivista di diritto pubblico Riv. dir. pubbl. Rivista di diritto societario RDS Rivista giuridica sarda Riv. giur. sarda Rivista italiana del leasing Riv. it. leasing Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Riv. trim. dir. proc. civ. Vita notarile Vita not.

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Norme redazionali

4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2012 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300 www.pacinieditore.it


Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria Cedola di sottoscrizione q Abbonamento 2012 (4 fascicoli): € 110,00 Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 35,00 Modalità di Pagamento q assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA q versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) q bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 G 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) q a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) q carta di credito q MasterCard q VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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