Diritto della banca e del mercato finanziario 3/2015

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ISSN 1722-8360

di particolare interesse in questo fascicolo Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

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Diritto della banca e del mercato finanziario

• Risoluzione delle crisi bancarie • Sanzioni amministrative nel settore finanziario • Contratti derivati nella giurisprudenza • Accordi di ristrutturazione e convenzioni di moratoria

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro. Nell’anno 2014, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Laura Ammannati, Concetta Brescia Morra, Oreste Cagnasso, Marcello Clarich, Antonia Irace, Marco Miletti, Stefano Pagliantini, Antonio Piras, Andrea Pisaneschi, Vincent Ribas, Marilena Rispoli, Antonella Sciarrone Alibrandi, Maurizio Sciuto, Andrea Tina, Francesco Vella.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

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Sommario 3/2015

PARTE PRIMA Saggi Il Single Resolution Mechanism (Regolamento UE n. 806/2014). Lineamenti generali e problemi di fondo, di Francesco Ciraolo La Cassa rurale cattolica in un dibattito congressuale di fine Ottocento, di Maurizio Pipitone Lo scopo mutualistico: un’assenza certificata, di Filippo Fiordiponti

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Commenti Sanzioni amministrative e principi del “giusto procedimento” – Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 4 marzo 2014, con nota redazionale Amministrazione straordinaria delle banche - Cons. St., sec. IV, 9 febbraio 2015, n. 657 I principi del giusto procedimento ed i provvedimenti “di rigore” delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari, di Valentina Amorosino

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Rassegne I contratti derivati nella giurisprudenza, di Umberto Morera e Riccardo Bencini

PARTE seconda Legislazione Accordi di ristrutturazione e convenzioni di moratoria. R.d. 16 marzo 1942, n. 267 – Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata

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e della liquidazione coatta amministrativa (come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132); Relazione governativa al disegno di legge di conversione in legge del d.l. 27 giugno 2015, n. 83 presentata alla Camera dei Deputati – Misure urgenti in materia fallimentare, civile, e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria, di Daniele Vattermoli Norme

redazionali

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PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



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Il Single Resolution Mechanism (Regolamento UE n. 806/2014). Lineamenti generali e problemi di fondo Sommario: 1. Premessa. Dalla crisi finanziaria alla Banking Union. – 2. Il regolamento SRM. Ratio e obiettivi. – 3. Ambito di applicazione del SRM. I rapporti con il SSM e con la BRRD. – 4. Il funzionamento del SRM. Il ruolo del Single Resolution Board e la procedura di risoluzione. – 5. Aspetti critici del SRM. – 5.1. La complessità del processo decisionale. – 5.2. La solidità della base giuridica utilizzata. – 5.3. I dispositivi per il finanziamento della risoluzione. – 6. Riflessioni conclusive.

1. Premessa. Dalla crisi finanziaria alla Banking Union. Se è vero che le crisi costituiscono sempre il motore di grandi cambiamenti, il settore della legislazione bancaria e finanziaria offre una più che sicura conferma di tale assunto. Dall’avvio delle turbolenze finanziarie internazionali (2007-08) ad oggi, infatti, i provvedimenti normativi in materia bancaria e finanziaria si sono susseguiti, in ambito sia nazionale che europeo, con impressionante celerità, sotto la sempre più vigorosa spinta di eventi bisognosi di un’urgente quanto efficace regolamentazione. È così accaduto che alcuni interventi strutturali, sui quali era stato da tempo avviato un intenso dibattito politico, negli ultimi tempi abbiano subito una repentina accelerazione, impressa dalla necessità di arginare una crisi nata sì nel settore della finanza privata, ma in breve trasformatasi, come risaputo, anche in crisi del debito sovrano1.

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Sulla crisi finanziaria, e sui meccanismi di propagazione della medesima dal settore privato a quello pubblico, e viceversa (ossia sul circolo vizioso tra crisi bancarie e crisi degli emittenti sovrani, su cui avremo modo di tornare nel prosieguo), v. ex multis, nella sola letteratura giuridica ed economica italiana, Capriglione, Semeraro, Crisi finanziaria e debiti sovrani, Torino, 2012; Onado, I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non

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Nel continuo mutare delle circostanze, le pur significative riforme attuate in Europa tra il 2010 e il 2011 sul piano della vigilanza finanziaria internazionale2, miranti a superare le numerose debolezze e le gravi criticità denunciate nel noto Rapporto de Larosière3, si sono ben presto rivelate insufficienti, imponendo un ulteriore sforzo in direzione del rafforzamento della cooperazione tra autorità nazionali4. Nel corso del 2012, dunque, ha preso forma l’idea di realizzare un progetto di ampio respiro, comunemente noto come Unione bancaria europea, concepito come parte integrante di un disegno ancor più ambizioso e complesso, quale il consolidamento dell’Unione economica e monetaria, minacciata dalle perduranti tensioni finanziarie internazionali5. L’Unione bancaria si regge, a sua volta, su tre pilastri, rappresentati

scritte, Roma, 2011; Colombini, Calabrò, Crisi finanziarie, banche e Stati, Torino, 2011; Capriglione, Crisi a confronto (1929-2009), Padova, 2009. 2 Si allude, com’è appena il caso di precisare, alla creazione, avvenuta nel corso del 2010, del nuovo Sistema Europeo di Vigilanza Finanziaria (SEVIF/ESFS), comprensivo delle nuove autorità europee di supervisione macroprudenziale (ESRB) e microprudenziale (EBA, ESMA ed EIOPA). Sul punto, mi sia permesso rinviare a Ciraolo, Il processo di integrazione del mercato unico dei servizi finanziari dal metodo Lamfalussy alla riforma della vigilanza finanziaria europea, in Dir. ec., 2011, n. 2, p. 415; v. anche D’ambrosio, Le Autorità di vigilanza finanziaria dell’Unione, in Dir. banc., 2011, n. 2, II, p. 109; Pellegrini, L’architettura di vertice dell’ordinamento finanziario europeo: funzioni e limiti della supervisione, in Riv. trim. dir. ec., 2012, n. 2, p. 52. 3 Così suole indicarsi, in sintesi, il documento del 25 febbraio 2009 nel quale un gruppo di esperti, presieduto da Jacques de Larosière, ha illustrato, su incarico della Commissione, le soluzioni più opportune per il miglioramento ed il rafforzamento del sistema di vigilanza finanziaria europea. Sulla base di tale rapporto ha avuto luogo la riforma cui si è accennato nel testo e nella nota precedente. 4 È maturato il convincimento, dunque, che l’integrazione fra i mercati necessitasse di un superamento del modello della vigilanza su base nazionale armonizzata, in favore di un modello caratterizzato da una maggiore integrazione (Mancini, Dalla vigilanza nazionale armonizzata alla Banking Union, in Banca d’Italia, Quaderni di Ricerca Giuridica, Roma, 2013, n. 73, pp. 8-9). 5 La proposta di istituire un “quadro finanziario integrato” per l’Europa (la cd. Unione bancaria europea), nell’ottica di un consolidamento dell’Unione economica e monetaria, è stata formalizzata nel documento usualmente denominato Rapporto Van Rompuy, redatto dal Presidente del Consiglio europeo in stretta collaborazione con i Presidenti della Commissione, dell’Eurogruppo e della BCE (Verso un’autentica Unione economica e monetaria, Relazione del Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy, Bruxelles, 26 giugno 2012). Per un commento v. Napoletano, La risposta europea alla crisi del debito sovrano: il rafforzamento dell’Unione economica e monetaria. Verso l’Unione bancaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, n. 6, p. 747 ss.

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dall’istituzione di un sistema di vigilanza prudenziale unico a livello europeo (Single Supervisory Mechanism)6, dall’elaborazione di regole comuni (sostanziali e procedurali) per la gestione delle crisi bancarie e dalla creazione di un nuovo regime europeo di garanzia dei depositi bancari. La realizzazione di tali obiettivi dovrebbe consentire, in estrema sintesi, di ripristinare la stabilità finanziaria compromessa dalla crisi (specie nell’Eurozona, ove si sono registrati seri rischi per la tenuta della moneta unica) e di minimizzare, nell’ipotesi di eventuali fallimenti bancari, i costi a carico dei cittadini europei. Seppur tra innumerevoli difficoltà e ritardi, scaturiti dagli immancabili contrasti fra gli Stati membri, il processo di creazione della Banking Union è stato portato a compimento – quanto meno nelle sue componenti essenziali – nella prima metà del 2014, in un clima di pressione determinato dall’imminente fine della legislatura7. Le misure normative che sorreggono l’Unione bancaria, pertanto, non soltanto si distinguono per il loro elevato grado di innovatività e di complessità (elementi che, inevitabilmente, ne rendono per molti aspetti ostica l’interpretazione), ma si inseriscono per di più, come già accennato, in un contesto generale di profonde modifiche legislative, sovente maturate al di fuori della cornice della stessa Banking Union e, quindi, non sempre agevolmente raccordabili con i contenuti della medesima8. In breve, l’urgenza di rincorrere gli eventi, che mai come in questi

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Il SSM è stato istituito con reg. UE n. 1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013 (d’ora in poi, reg. SSM), che attribuisce alla Banca Centrale Europea compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi. 7 Nella primavera del 2014, infatti, sono state adottate sia le misure ricomprese nel secondo pilastro dell’Unione bancaria (in particolare, la direttiva n. 59/2014 sulla risoluzione delle banche in crisi, di cui daremo conto più avanti nel testo), sia la direttiva 2014/49/UE del 16 aprile 2014, contenente le nuove regole sui sistemi di garanzia dei depositi. È opportuno evidenziare, tuttavia, che, mentre in materia di risoluzione si è giunti alla creazione di un vero e proprio apparato europeo, che sarà illustrato nel prosieguo, la direttiva 2014/49 non ha istituito un sistema unico di garanzia dei depositi (come previsto nell’originario disegno dell’Unione bancaria), mirando unicamente ad eliminare le differenze normative tra gli Stati membri, attraverso l’introduzione di regole di armonizzazione non soltanto minima. 8 Si rifletta, ad es., sulla difficoltà di conciliare le disposizioni sull’Unione bancaria, che istituiscono un sistema di vigilanza prudenziale centralizzato, con la recente normativa sui requisiti patrimoniali delle banche (dir. 2013/36/UE del 26 giugno 2013, CRD IV e reg. UE n. 575/2013 del 26 giugno 2013, CRR), che presuppone ancora, di contro, la suddivisione dei controlli fra le autorità di vigilanza nazionali (il rilievo è di Mancini, Dalla vigilanza, cit., pp. 12-3).

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tempi sembra pungolare il legislatore, ha determinato un rapido affastellamento di misure normative (riguardanti il mondo dell’intermediazione finanziaria in ogni sua articolazione9), che hanno per molti versi stravolto il quadro normativo di riferimento, rendendolo estremamente complicato e di difficile ricostruzione sistematica. Nel contesto sin qui descritto si colloca il recente regolamento UE n. 806/2014, che – operando nell’ambito del secondo pilastro dell’Unione bancaria – disciplina il cd. Meccanismo di Risoluzione Unico (SRM, Single Resolution Mechanism)10, integrando la precedente direttiva n. 59/2014 sulla risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese di investimento (cd. BBRD, Bank Recovery and Resolution Directive)11. In questo studio ci concentreremo, in particolare, sui contenuti del predetto regolamento n. 806/2014 (d’ora in avanti, per brevità, reg. SRM), con l’avvertenza che, non potendo esaminare in dettaglio i numerosi ed assai complessi punti che ne costituiscono il tessuto normativo, ci limiteremo ad analizzarne i lineamenti generali, cercando di evidenziare, al contempo, i principali aspetti critici e le più rilevanti problematiche giuridiche connesse all’adozione di tale rivoluzionario provvedimento.

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Deviando momentaneamente l’attenzione dalle banche, basti pensare, ad esempio, al settore dell’intermediazione mobiliare, ove si è assistito, tra l’altro, all’adozione delle direttive MIFID II (dir. 2014/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, relativa ai mercati degli strumenti finanziari e che modifica la dir. 2002/92/ CE e la dir. 2011/61/UE) e AIFMD (dir. 2011/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2011 sui gestori di fondi di investimento alternativi). Entrambi i suddetti provvedimenti intendono fornire, invero, una risposta anche alla recente crisi finanziaria, volta, nel primo caso, ad eliminare le carenze nel funzionamento e nella trasparenza dei mercati finanziari, nel secondo, a correggere le distorsioni, messe in rilievo dalle recenti turbolenze finanziarie, cui può dare luogo l’attività dei GEFIA. 10 Regolamento (UE) n. 806/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 luglio 2014 che fissa norme e una procedura uniformi per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese di investimento nel quadro del meccanismo di risoluzione unico e del Fondo di risoluzione unico e che modifica il regolamento (UE) n. 1093/2010. 11 Direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che modifica la direttiva 82/891/CEE del Consiglio, e le direttive 2001/24/CE, 2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/ UE e 2013/36/UE e i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 648/2012, del Parlamento europeo e del Consiglio.

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2. Il regolamento SRM. Ratio e obiettivi. Come dianzi accennato, il reg. SRM si colloca all’interno del secondo pilastro dell’Unione bancaria europea – della quale condivide, pertanto, la ragione ispiratrice e gli obiettivi di fondo –, costituendo il naturale complemento della BRRD. Quest’ultima, a sua volta, nasce con l’intento di assicurare modalità di intervento tempestive ed efficaci nei confronti di un ente bancario (o di un’impresa di investimento) in difficoltà, che possano assicurare la continuità delle funzioni essenziali dell’ente medesimo (si pensi, ad es., all’accesso ai depositi, o all’intermediazione nei pagamenti), riducendo al minimo l’impatto del dissesto sui cittadini contribuenti e sul sistema finanziario nel suo complesso (5° considerando BRRD)12. Quanto osservato trova chiara conferma nel preambolo del regolamento, ove si esplicitano i presupposti, storici e giuridici, che hanno dato luogo all’adozione del provvedimento. Muovendo dunque dalla duplice premessa che: a) il mercato interno dei servizi bancari si è trovato esposto, per effetto della crisi, ad un concreto e sempre crescente rischio di frammentazione, alimentato dai timori di contagio e da una dilagante perdita di fiducia nei confronti dei vari sistemi bancari nazionali13; b) che tale fenomeno, idoneo a rappresentare una minaccia per l’auspicata ripresa economica, per il finanziamento dell’economia reale e persino per la tenuta della moneta unica, è dovuto anche all’esistenza di profonde divergenze tra le norme (e le prassi amministrative) di risoluzione nazionali14, nonché alla mancanza nell’Unione bancaria di un

12 In forza del nuovo regime normativo, infatti, il costo delle crisi bancarie dovrà essere sostenuto in primis dagli azionisti dell’ente in difficoltà e, subito dopo, dai creditori, secondo l’ordine di priorità dei rispettivi crediti, fermo restando il principio secondo cui nessun creditore dovrebbe subire perdite superiori a quelle cui andrebbe incontro ove l’ente fosse liquidato secondo l’ordinaria procedura di insolvenza (art. 34 BRRD). Il principio del no creditor worse off è riprodotto anche nell’art. 15 reg. SRM. 13 La frammentazione si traduce, in particolare, nella diminuzione delle attività bancarie transfrontaliere, nonché nella minore liquidità del mercato interbancario, in ragione – come accennato nel testo – del diffuso timore di contagio e della mancanza di fiducia sia nei rispettivi sistemi bancari nazionali, sia nella capacità dei singoli Stati membri di sostenere le banche nazionali in difficoltà (in questi termini v. il 1°considerando reg. SRM). 14 La nozione di risoluzione – inedita per l’ordinamento italiano – designa

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processo decisionale unificato sulla risoluzione15, le istituzioni comunitarie hanno ritenuto di dover procedere lungo due fronti. Da un lato si è provveduto, mediante la direttiva BRRD, ad armonizzare le norme (sostanziali) in materia di risoluzione delle banche dell’Unione, approntando un innovativo strumentario comune per la gestione delle crisi bancarie e rafforzando altresì i meccanismi di cooperazione tra le autorità di risoluzione nazionali nei casi di dissesto di istituti transfrontalieri16;

l’attività di gestione della crisi dell’intermediario attraverso l’applicazione di strumenti particolarmente incisivi (resolution tools), in vista del conseguimento di specifici obiettivi di pubblico interesse (prosecuzione delle attività essenziali dell’ente, prevenzione del contagio sistemico e salvaguardia della stabilità finanziaria, tutela dei depositanti e degli investitori, salvaguardia dei fondi pubblici, ecc.). La resolution, quindi, per un verso si distingue dalle misure miranti al risanamento (recovery) dell’intermediario in stato di crisi non irreversibile (ovverosia al ripristino della situazione finanziaria dell’ente dopo un significativo deterioramento), per altro verso si contrappone alle procedure ordinarie di insolvenza (ossia, secondo la direttiva, le procedure nazionali, sia di applicazione generale che specifiche per gli intermediari finanziari, che prevedono lo spossessamento del debitore e la nomina di un liquidatore o amministratore), che non consentirebbero di realizzare in egual misura l’interesse pubblico sopra menzionato (cfr. artt. 2 e 32 BRRD). Per interessanti rilievi in merito all’ambiguità del concetto di risoluzione, specie in rapporto alle nozioni di risanamento e di liquidazione, v. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie: la disciplina europea, in Banca d’Italia, Dal Testo unico bancario all’Unione Bancaria: tecniche normative e allocazione dei poteri, Quaderni di ricerca giuridica, n. 75, 2014, in particolare pp. 154-6 e 163-5. 15 Invero, rendendo scarsamente prevedibile il possibile esito del dissesto di un intermediario, le diversità nazionali relative alla gestione delle crisi bancarie (con riferimento, ad esempio, al trattamento dei creditori o alle possibilità di salvataggio degli enti in difficoltà con denaro pubblico) danno luogo ad una diversa percezione dei rischi di credito e dell’affidabilità delle banche in ciascuno Stato, ingenerando condizioni di disparità concorrenziale, ostacolando la libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi nel mercato interno ed influendo negativamente sia sulla fiducia verso il sistema bancario, sia sul costo del denaro nei vari paesi membri. Le divergenze tra le norme di risoluzione nazionali, in particolare, possono determinare per le banche e per la clientela un costo del denaro legato esclusivamente al luogo di stabilimento, a prescindere da ogni valutazione sul merito creditizio del soggetto finanziato (in argomento v. 2°-4° considerando reg. SRM). Per l’insieme di tali ragioni si afferma quindi che la frammentazione del mercato interno è destinata a perdurare finché le norme in materia di risoluzione, le prassi e gli approcci seguiti per la ripartizione degli oneri manterranno una dimensione nazionale e i fondi necessari per finanziare la risoluzione saranno reperiti e spesi a livello nazionale (9° considerando reg. SRM). 16 In estrema sintesi, la direttiva prevede, oltre a misure preventive, preparatorie e di early intervention, una serie di strumenti di risoluzione (vendita dell’attività di impresa; creazione di un ente-ponte; separazione delle attività; svalutazione/conversione delle passività dell’ente, cd. bail-in) di cui gli Stati membri dovranno dotarsi, per una efficiente

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dall’altro, ritenendo che la BRRD fosse per certi aspetti insufficiente ad assicurare una gestione efficace, unitaria e coerente delle crisi transfrontaliere (e ciò anche con riguardo al delicato ed assai controverso aspetto dei meccanismi di finanziamento della risoluzione)17, si è agito attraverso l’istituzione, in virtù del regolamento n. 806/2014, del Single Resolution Mechanism, ossia di un apparato che dovrebbe garantire, quale parte integrante dell’avviato processo di armonizzazione legislativa, un’applicazione efficace ed uniforme del regime di risoluzione negli Stati membri partecipanti. Più in particolare, il risultato da ultimo descritto dovrebbe essere raggiunto attraverso la centralizzazione (i.e. il trasferimento in sede europea) dei poteri decisionali relativi alla risoluzione delle entità in dissesto (purché rientranti, ovviamente, nel campo di applicazione del SRM), nonché all’impiego di adeguati meccanismi di finanziamento della risoluzione stessa, attivi a livello europeo. In breve, in un contesto generale di strettissime interconnessioni fra i vari sistemi bancari nazionali (generate, com’è noto, dalle fitte relazioni fra intermediari e dall’internazionalizzazione delle loro attività), l’avvio del SRM dovrebbe garantire un approccio neutro nel trattamento delle banche in difficoltà (contenendo il rischio di forbearance da parte delle autorità nazionali18) e al contem-

gestione delle crisi bancarie. I contenuti e le finalità di tali misure sono illustrati da Stanghellini, La disciplina, cit., p. 156 ss. 17 Come specificato nel preambolo del reg. SRM (10° considerando), invero, la direttiva detta solo regole di armonizzazione minime, mettendo a disposizione delle autorità nazionali dei paesi membri strumenti e poteri comuni di risoluzione, ma lasciando al contempo alle medesime una certa discrezionalità nell’applicazione di detti strumenti e nel ricorso ai meccanismi di finanziamento nazionali a sostegno delle procedure di risoluzione. Inoltre, la BRRD non esclude che gli Stati membri possano adottare, con riferimento alla risoluzione dei gruppi transfrontalieri, decisioni distinte e potenzialmente incongruenti, con evidenti riflessi negativi sui costi complessivi e sull’efficacia della procedura. Infine, prevedendo meccanismi di finanziamento della risoluzione articolati su base nazionale, non affranca del tutto le banche dal sostegno dei bilanci nazionali, né esclude la possibilità che i vari Stati membri applichino tali meccanismi in modo diversificato. 18 L’espressione supervisory forbearance indica, genericamente, la naturale tendenza delle autorità di vigilanza a tenere comportamenti improntati ad un’eccessiva indulgenza nei confronti dei soggetti vigilati (tipicamente, i cd. campioni nazionali), al fine di evitarne il default, con i connessi effetti sistemici. La crisi ha dimostrato, in particolare, che le autorità nazionali hanno spesso – e troppo a lungo – tollerato il deterioramento della situazione degli intermediari situati nelle rispettive giurisdizioni, nonché cercato di minimizzare le conseguenze negative dei fallimenti bancari sui propri sistemi economici

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po, attraverso una maggiore efficienza dei meccanismi di risoluzione, un minore impatto sistemico delle crisi bancarie, a beneficio del mercato interno nel suo complesso19. Infine, quanto all’accennato ed imprescindibile profilo del finanziamento della risoluzione (su cui amplius par. 5.3), è previsto che siano ricondotte nell’ambito del SRM anche le decisioni relative all’impiego del futuro Fondo di risoluzione unico/Single Resolution Fund (i.e. un fondo alimentato da contributi delle singole banche, raccolti in un primo momento in sede nazionale, ma destinati ad una progressiva unificazione a livello europeo, secondo quanto stabilito da un apposito accordo intergovernativo). L’istituzione del predetto Fondo risponde alla prioritaria esigenza, più volte denunciata dalle istituzioni europee, di spezzare quel circolo vizioso tra banche e debito sovrano (scaturito dall’ingente uso di risorse pubbliche per sostenere gli intermediari in difficoltà) che ha finito per amplificare a dismisura gli effetti della crisi finanziaria. Considerato, infatti, che il Fondo sarà interamente alimentato dal settore privato, le decisioni circa l’impiego del medesimo non incideranno sulla sovranità e sulle competenze in materia di bilancio dei singoli Stati membri, così che possa allentarsi il legame tra questi ultimi e i rispettivi sistemi bancari20.

nazionali, adottando provvedimenti che hanno tuttavia limitato le attività transfrontaliere e falsato la concorrenza nel mercato interno (per alcuni esempi v. 9° considerando reg. SRM). 19 Come si legge nel 12° considerando del reg. SRM, l’efficacia e l’uniformità delle norme in materia di risoluzione e la parità di condizioni nel finanziamento della risoluzione nei diversi Stati membri rispondono all’interesse non soltanto del paese in cui le banche operano, ma anche, in generale, a quello di tutti gli Stati membri, perché costituiscono un mezzo per assicurare condizioni eque di concorrenza, per limitare l’impatto sistemico negativo delle crisi sugli altri paesi membri e quindi, in definitiva, per migliorare il funzionamento del mercato interno nel suo complesso. 20 Illuminante, al riguardo, il 19° considerando reg. SRM, che si riporta qui di seguito per comodità di lettura: “Un fondo di risoluzione unico («Fondo») è un elemento essenziale senza il quale l’SRM non potrebbe funzionare adeguatamente. Se il finanziamento della risoluzione rimanesse nazionale per lungo tempo, il legame tra emittenti sovrani e settore bancario non si romperebbe del tutto e gli investitori continuerebbero a fissare le condizioni di prestito basandosi sul luogo di stabilimento delle banche piuttosto che sul loro merito di credito. Il Fondo dovrebbe concorrere ad assicurare una prassi amministrativa uniforme riguardo al finanziamento della risoluzione e a evitare che prassi nazionali divergenti ostacolino l’esercizio delle libertà fondamentali o falsino la concorrenza nel mercato interno. È opportuno che il Fondo sia finanziato mediante contributi versati dalle banche a livello nazionale e che le sue risorse siano messe

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Sulla scorta di tali riflessioni, può quindi assumersi che il reg. SRM non soltanto si pone in linea con gli obiettivi finali della BRRD (della quale costituisce, del resto, il naturale e dichiarato complemento), ma, come già accennato, si inscrive a pieno a titolo anche nel più vasto disegno di consolidamento del mercato unico nel settore dei servizi finanziari, cui è fondamentalmente preordinata la realizzazione dell’Unione bancaria europea.

3. Ambito di applicazione del SRM. I rapporti con il SSM e con la BBRD. Un dato di immediata evidenza, emergente dalla lettura del reg. n. 806/2014, è lo stretto collegamento stabilito tra il raggio operativo del Single Resolution Mechanism e quello del Single Supervisory Mechanism: il provvedimento in esame, invero, “si applica unicamente alle banche la cui autorità di vigilanza centrale è la BCE o l’autorità nazionale competente negli Stati membri la cui moneta è l’euro e negli Stati membri la cui moneta non è l’euro che abbiano instaurato una cooperazione stretta a norma dell’art. 7 del regolamento (UE) n. 1024/2013”21.

in comune a livello dell’Unione, in conformità di un accordo intergovernativo sul trasferimento e la progressiva messa in comune dei contributi in questione («accordo»), aumentando in tal modo la stabilità finanziaria e attenuando il legame tra la posizione di bilancio percepita di un dato Stato membro e i costi di finanziamento delle banche e delle imprese che vi operano. Per allentare ulteriormente detto legame è opportuno che le decisioni adottate in ambito SRM non interferiscano direttamente con le competenze in materia di bilancio degli Stati membri. In tale ambito, dovrebbero essere considerati interferenze con la sovranità e le competenze di bilancio degli Stati membri solo gli aiuti finanziari pubblici a carattere eccezionale. In particolare, le decisioni che richiedono il ricorso al Fondo o al Sistema di garanzia depositi non dovrebbero essere considerati interferenze con la sovranità o le competenze di bilancio degli Stati membri”. Resta inteso, infine, che, dovendo essere usato in modo coerente con gli obiettivi e i principi della risoluzione, il Fondo potrebbe farsi carico delle perdite, dei costi o delle altre spese sostenuti in relazione agli strumenti di risoluzione, soltanto se le risorse degli azionisti e dei creditori dell’ente interessato fossero esaurite (101° considerando reg. SRM). 21 15° considerando reg. SRM. Va aggiunto, peraltro, che, al fine di assicurare un’efficace pianificazione e gestione della risoluzione dei gruppi, nell’ambito di applicazione del SRM sono inclusi, oltre agli enti creditizi stabiliti negli Stati membri partecipanti, anche le imprese madri (comprese le SPF e le SPFM), le imprese di investimento e gli enti finanziari stabiliti in uno Stato membro partecipante sui quali la BCE esercita la vigilanza su base consolidata (art. 2 reg. SRM). Quest’ultima, del resto, è l’unica autorità che possa

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A sostegno di tale scelta, si adduce che le entità soggette alla vigilanza del SSM si trovano in una posizione oggettivamente differenziata ai fini della risoluzione, tale da imporre, anche sotto quest’ultimo aspetto, il ricorso a meccanismi decisionali centralizzati. E difatti, qualora negli Stati membri partecipanti al SSM la supervisione e la risoluzione restassero collocate su distinti livelli (nell’ordine, europeo e nazionale), gli interventi nei confronti degli enti in crisi risulterebbero meno rapidi ed incisivi di quelli attuabili negli Stati membri non partecipanti (ove le competenze relative a vigilanza e risoluzione restano allineate sul piano esclusivamente nazionale), con conseguente creazione di disparità concorrenziali (e dunque malfunzionamenti) nel mercato unico. Per converso, se si considera che vigilanza e risoluzione rappresentano le due facce del medesimo processo di rafforzamento del mercato interno dei servizi finanziari (posto che la prima, per quanto efficace e rigorosa, sarebbe inevitabilmente indebolita dall’inefficienza della seconda), si comprende che l’esercizio delle rispettive funzioni ad un medesimo livello politico-istituzionale diviene imprescindibile. Ulteriori e non meno significative considerazioni, sul punto, attengono poi agli aspetti economici della risoluzione. La limitazione del SRM ai soli paesi che partecipano al SSM, infatti, appare necessaria per evitare gli incentivi distorti cui darebbe luogo un’eventuale applicazione del primo agli Stati membri non partecipanti alla vigilanza unica: in siffatta ipotesi, invero, le autorità di tali Stati potrebbero essere indotte ad aumentare il livello di tolleranza nei confronti delle banche vigilate, essendo consapevoli di non doversi fare interamente carico delle conseguenze finanziarie del loro eventuale dissesto22. L’impostazione privilegiata dal legislatore europeo, di contro, fa sì che ogni decisione concernente la risoluzione di banche incluse nel SSM, o circa l’uso del Single Resolution Fund, debba essere adottata nel contesto del SRM, così garantendo l’auspicata “neutralità” nel trattamento degli intermediari in difficoltà, cui prima si accennava (v. par. 2). Sempre con riferimento all’ambito di applicazione del SRM, giova inoltre definire con maggiore precisione il rapporto sussistente tra il provvedimento in esame e la BRRD, trattandosi di atti normativi che si pongono espressamente in posizione di interdipendenza.

godere di una percezione globale del rischio cui sono esposti sia il gruppo nel suo complesso che i suoi singoli membri (22° considerando reg. SRM). 22 V. 17° considerando reg. SRM.

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Al riguardo, sebbene la distinzione non risulti poi così netta, si può innanzitutto affermare che la BRRD detta, in linea di massima, le regole sulla risoluzione di natura sostanziale (identificando, in particolare, gli strumenti di risoluzione e i poteri conferiti alle competenti autorità), laddove il regolamento SRM enuncia, di contro, le regole di carattere più prettamente procedurale23. Tuttavia, mentre quest’ultimo provvedimento ha un raggio di operatività condizionato da quello del SSM (applicandosi, come già si è visto, ai soli Stati membri partecipanti, anche su base volontaria, al meccanismo unico di vigilanza), la direttiva si estende, invece, a tutti i paesi membri dell’UE (a prescindere dall’adozione o meno della moneta unica e dalla loro eventuale adesione al SSM). Anche in merito alla gestione delle crisi bancarie, in altri termini, è stato con ogni evidenza seguito quel “doppio binario” che caratterizza l’approccio del legislatore europeo alla Banking Union, così provocando un’ulteriore accentuazione del divario tra il diritto dell’Eurozona e il restante diritto europeo24. Tale dicotomia è frutto, come giova ricordare, degli stretti vincoli imposti dal vigente diritto comunitario, che hanno condizionato sin dalla nascita il progetto di realizzazione dell’intera Unione bancaria (ci riferiamo, in particolare, all’inefficacia degli atti della BCE nei confronti dei paesi non-euro, da cui è scaturita la limitazione del SSM ai soli Stati membri che hanno adottato la moneta unica ed agli eventuali partecipanti su base volontaria25). Resta il fatto, tuttavia, che l’obiettivo di un

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Stanghellini, La disciplina, cit., p. 153, il quale, tuttavia, osserva giustamente (nt. 12) come, in realtà, il reg. SRM non provveda esclusivamente ad un’allocazione dei poteri decisionali in materia di prevenzione e gestione delle crisi bancarie, ma miri a conseguire anche l’uniformazione delle discipline nazionali, chiudendo gli spazi di discrezionalità lasciati aperti dalla BRRD, mediante l’introduzione di norme più stringenti. Ne derivano, secondo l’A., notevoli difficoltà di coordinamento tra i due testi normativi, posto che il reg. SRM non si limita a definire o puntualizzare i poteri spettanti alle autorità nazionali in base alla direttiva, ma di fatto li ridisegna. Si badi, in proposito, che il 28° considerando del reg. SRM precisa che le autorità nazionali di risoluzione, per assolvere i propri compiti sulla base del regolamento, dovranno sì esercitare i poteri loro conferiti dalla normativa nazionale di recepimento della direttiva 2014/59/UE, ma solo se e in quanto non incompatibili con il regolamento. 24 Mancini, Dalla vigilanza, cit., p. 19. L’A. insiste nel descrivere l’impianto normativo della Banking Union attraverso l’immagine di due cerchi concentrici: su quello esterno si collocherebbero le regole applicabili a tutti gli Stati UE, su quello più interno, invece, la sola disciplina “speciale” applicabile ai paesi della zona euro e a quelli che vi si vogliano assoggettare su base spontanea (p. 10). 25 Com’è noto, infatti, l’istituzione del meccanismo unico di vigilanza, primo tassello

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mercato unico dei servizi finanziari, stabile ed integrato, appare difficilmente compatibile con l’esistenza di una normativa europea che, per molteplici ed assai rilevanti aspetti, trova, nel territorio dell’Unione, un’applicazione differenziata.

4. Il funzionamento del SRM. Il ruolo del Single Resolution Board e la procedura di risoluzione. Sebbene l’istituzione del SRM meriti indubbio apprezzamento, non potendosi non condividere la volontà legislativa di assicurare un’applicazione uniforme e coerente, in ambito europeo, delle regole in materia di risoluzione degli enti creditizi in dissesto, per altro verso colpisce subito la particolare complessità di funzionamento del nuovo meccanismo unico di risoluzione (elemento che, come vedremo più avanti, rischia persino di compromettere l’efficienza del sistema). Per maggiore chiarezza, va premesso che il SRM è incentrato essenzialmente sull’operatività di una nuova agenzia europea, il Comitato di risoluzione unico (Single Resolution Board, SRB), composto da un presidente, da altri quattro membri a tempo pieno e dai rappresentanti delle autorità nazionali di risoluzione di ciascuno Stato membro partecipante, con l’aggiunta, quali osservatori permanenti, dei rappresentanti della Commissione e della BCE26. Sul piano generale, può affermarsi che il

della Banking Union, è stata effettuata sulla scorta dell’art. 127.6 TFUE, in base al quale il Consiglio, deliberando all’unanimità, può affidare alla BCE compiti specifici in merito alla vigilanza prudenziale degli enti creditizi e delle altre istituzioni finanziarie, escluse le imprese di assicurazione. Orbene, l’art. 127.6 cit. non implicava, in realtà, che il conferimento dei poteri di vigilanza alla BCE fosse limitato ai soli paesi dell’Eurozona, ma in base all’art. 139 TFUE le disposizioni in materia di atti della BCE (compresi quelli adottati nell’esercizio delle funzioni di supervisione) non trovano applicazione agli Stati membri con deroga. L’estensione del SSM anche agli Stati che non hanno adottato la moneta unica, pertanto, sarebbe stata sostanzialmente vanificata dall’inefficacia dei provvedimenti della BCE nei confronti dei medesimi. Da ciò la preferenza verso una più ristretta configurazione del SSM, fatta salva, peraltro, la citata possibilità di adesione volontaria da parte dei paesi non-euro (per una trattazione più approfondita mi sia consentito il rinvio a Ciraolo, Il Regolamento UE n. 1024/2013 sul meccanismo unico di vigilanza e l’unione bancaria europea. Prime riflessioni, in Amministrazione in cammino, 5 luglio 2014, pp. 27-9). 26 Il Comitato si riunisce in sessione plenaria, per svolgere i compiti specificati nell’art. 50 reg. SRM, ovvero, se necessario, in sessione esecutiva (presidente, quattro membri permanenti ed osservatori), per preparare le decisioni del Comitato plenario e

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SRB è l’organo responsabile dell’efficace e coerente funzionamento del SRM e che esso esercita le proprie funzioni in regime di piena indipendenza, in conformità alla normativa dell’Unione (ivi comprese le norme tecniche di regolamentazione e di attuazione elaborate dall’EBA e adottate dalla Commissione ai sensi del reg. 1093/201027)28. Più nello specifico, il SRB si occupa di redigere, con la collaborazione delle autorità nazionali di risoluzione, i c.d. piani di risoluzione relativi agli enti ed ai gruppi specificati nell’art. 7.2 reg. SRM29 (si tratta dei c.d. living wills, testamenti biologici di un ente, finalizzati a descrivere dettagliatamente, ed in via anticipata, le azioni più opportune per attuare una risoluzione rapida e ordinata dell’istituto e delle sue attività, tenuto conto degli scenari pertinenti30) e di adottare, con riferimento agli stessi

per adottare, salvo diversa disposizione, le decisioni necessarie ai fini dell’attuazione del reg. SRM. Per motivi di urgenza, il Comitato in sessione esecutiva può altresì adottare decisioni provvisorie in nome del Comitato in sessione plenaria, specie su questioni di gestione amministrativa e di bilancio. 27 I rapporti tra SRB ed EBA sono definiti all’art. 5 reg. SRM, ove si stabilisce che il Comitato, il Consiglio e la Commissione sono soggetti alle norme tecniche elaborate dall’EBA e adottate dalla Commissione, a norma degli articoli da 10 a 15 del regolamento UE n. 1093/2010, nonché agli orientamenti e alle raccomandazioni formulati dall’EBA a norma dell’articolo 16 di tale regolamento. Il Comitato, il Consiglio e la Commissione, inoltre, sono tenuti a cooperare con l’EBA in relazione all’applicazione degli articoli 25 (“Procedure di risanamento e di risoluzione delle crisi”) e 30 (“Verifiche inter pares delle autorità competenti”) del predetto regolamento. Il Comitato, infine, è soggetto a qualsiasi decisione dell’EBA a norma dell’articolo 19 del regolamento n. 1093/2010 (“Risoluzione delle controversie tra autorità competenti in situazioni transfrontaliere”), laddove la direttiva 2014/59/UE preveda tali decisioni. 28 L’autonomia e l’indipendenza del Comitato sono garantite dal fatto che esso dispone di un bilancio autonomo, che non fa parte di quello dell’UE e le cui entrate provengono da contributi obbligatori a carico degli enti situati negli Stati membri partecipanti (art. 57 ss. reg. SRM). Il Comitato, in quanto ente privo di legittimazione democratica, risponde comunque al Parlamento europeo, alla Commissione ed al Consiglio dell’attuazione del regolamento 806/2014, così come è tenuto a rispondere ai quesiti e alle osservazioni che gli vengano sottoposti dai Parlamenti nazionali degli Stati membri (artt. 45 e 46 reg. SRM). 29 In particolare, enti e gruppi considerati significativi ai sensi dell’art. 6.4 reg. SSM, enti e gruppi in relazione ai quali la BCE abbia deciso di esercitare in via diretta i poteri di vigilanza ex art. 6.5 reg. SSM, nonché altri gruppi transfrontalieri. 30 Si noti, peraltro, che l’espressione living wills, comunemente utilizzata per indicare i resolution plans, non risulta, a rigore, del tutto appropriata, posto che, in base all’attuale normativa, il contenuto di tali documenti non è riferibile alla volontà “testamentaria” della banca sottoposta a risoluzione (l’ipotetico de cuius), bensì alle autorità di risoluzione che predispongono il piano stesso.

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enti, tutte le decisioni relative alla risoluzione31. Per gli enti diversi (entità e gruppi non significativi, o non operativi in ambito transfrontaliero), invece, sono competenti, in linea di massima, le autorità di risoluzione nazionali (art. 7.3 reg. SRM). Va sottolineato, tuttavia, che il reg. SRM riconosce un ruolo assai significativo anche alla Commissione europea e al Consiglio, nell’intento di delimitare gli ampi poteri discrezionali del SRB, in conformità al vigente diritto europeo (il punto sarà approfondito nel successivo par. 5.1). Ciò appare particolarmente evidente se si concentra l’attenzione sulla macchinosa “procedura di risoluzione” disciplinata dall’art. 18 del reg. SRM. La norma prevede, infatti, che il Comitato adotti un “programma di risoluzione” – necessario per sottoporre un ente (o un gruppo) a risoluzione, per determinare l’applicazione degli strumenti di risoluzione e l’uso del resolution fund – solo se le seguenti condizioni sono soddisfatte: a) la BCE attesti, previa consultazione con il Comitato, che l’entità è in dissesto o a rischio di dissesto32; tale valutazione, peraltro, può essere effettuata anche dal Comitato direttamente, purché informi preventiva-

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I resolution plans, più in particolare, prevedono una serie di opzioni per l’applicazione degli strumenti e l’esercizio dei poteri di risoluzione previsti dal reg. SRM, nonché le azioni di risoluzione adottabili nell’ipotesi in cui un’entità o un gruppo soddisfino i requisiti per la risoluzione. Essi vanno periodicamente rivisti ed aggiornati, specie a seguito di significativi cambiamenti nella struttura, nell’attività o nella situazione finanziaria dell’ente o del gruppo (art. 8). Rammentiamo inoltre che, in sede di elaborazione e revisione dei piani, il SRB deve valutare in che misura la risoluzione di un ente o di un gruppo sia possibile, senza presupporre: a) sostegno finanziario pubblico straordinario oltre all’impiego del Fondo istituito ai sensi dell’articolo 67; b) assistenza di liquidità di emergenza fornita da una banca centrale; c) assistenza di liquidità da parte di una banca centrale fornita con costituzione delle garanzie, durata e tasso di interesse non standard. In ogni caso, la risoluzione di un’entità si intende possibile quando al Comitato risulta fattibile e credibile liquidare l’entità con procedura ordinaria di insolvenza, oppure procedere alla risoluzione applicando all’entità gli strumenti di risoluzione ed esercitando nei suoi confronti i poteri di risoluzione, evitando nel contempo quanto più possibile conseguenze negative significative, comprese situazioni di instabilità finanziaria più ampia o di eventi a livello sistemico, per i sistemi finanziari dello Stato membro in cui l’entità è situata o di altri Stati membri o dell’Unione e nella prospettiva di assicurare la continuità delle funzioni essenziali svolte dall’entità (art. 10). Si noti, quindi, che l’assessment of resolvability (la “valutazione della possibilità di risoluzione”, nella versione italiana del regolamento) si traduce in una verifica circa l’ammissibilità di una gestione della crisi anche attraverso la liquidazione secondo le ordinarie procedure di insolvenza. 32 Le condizioni in presenza delle quali un’entità si considera in dissesto, o a rischio di dissesto, sono specificate nell’art. 18.4 reg. SRM.

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mente la BCE di tale intenzione e quest’ultima, nei successivi tre giorni, non provveda ad effettuare una propria valutazione; b) nessuna misura alternativa, sotto forma di intervento del settore privato o di azione di vigilanza (tra cui misure di intervento precoce o la svalutazione o la conversione dei pertinenti strumenti di capitale), permetta di evitare il dissesto dell’entità in tempi ragionevoli33; c) l’azione di risoluzione è necessaria nell’interesse pubblico34. Una volta predisposto, il programma di risoluzione deve essere approvato in tempi strettissimi, poiché la celerità delle decisioni riveste fondamentale importanza per il buon esito della risoluzione35. A tal fine, quindi, il Comitato deve immediatamente trasmettere il resolution scheme alla Commissione, la quale, entro le successive 24 ore, ha la possibilità di approvarlo o di contestarlo, relativamente agli aspetti discrezionali del programma stesso. Inoltre, entro 12 ore dalla trasmissione da parte del Comitato, la Commissione può proporre al Consiglio di muovere obiezioni al programma di risoluzione (sul presupposto che esso non risponda al criterio dell’interesse pubblico36), ovvero di approvare/contestare una modifica significativa dell’importo del Fondo di risoluzione proposto dal Comitato37. Il programma di risoluzione assume efficacia solo se il Consiglio e la Commissione non esprimono obiezioni nelle 24 ore successive alla trasmissione da parte del Comitato. Viceversa, in caso di obiezioni sollevate dalla Commissione o dal Consiglio, per le ragioni indicate in precedenza38, il Comitato è tenuto a modificare il programma di risoluzione entro

33 Tale valutazione è effettuata dal Comitato riunito in sessione esecutiva, o, se del caso, dalle autorità nazionali di risoluzione in stretta cooperazione con la BCE. Quest’ultima può inoltre comunicare al Comitato e alle autorità nazionali di risoluzione interessate che ritiene soddisfatta la predetta condizione. 34 Ai sensi dell’art. 18.5 reg. SRM, l’azione di risoluzione è considerata nell’interesse pubblico se è necessaria al conseguimento di uno o più obiettivi della risoluzione di cui all’articolo 14 (ad es., per preservare la stabilità finanziaria o per garantire la continuità delle funzioni essenziali dell’ente in crisi), se è ad essi proporzionata e se la liquidazione dell’ente con procedura ordinaria di insolvenza non consentirebbe di realizzare tali obiettivi nella stessa misura. 35 Sul punto v. infra, par. 5.1 e nt. 48 per i pertinenti riferimenti bibliografici. 36 In questo caso, ove il Consiglio ritenesse non soddisfatto il criterio dell’interesse pubblico, l’ente dovrebbe essere liquidato secondo le vigenti disposizioni nazionali. 37 La modifica dovrebbe ritenersi non irrilevante se pari almeno al 5% dell’ammontare originariamente proposto dal Comitato (26° considerando reg. SRM). 38 In particolare, se il Consiglio approva la modifica del programma di risoluzione proposta dalla Commissione, con riferimento all’importo del Fondo di risoluzione,

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le successive otto ore, attenendosi alle motivazioni espresse dalle predette istituzioni (di tal che il tempo massimo per l’elaborazione definitiva del resolution scheme ammonta a 32 ore dalla trasmissione iniziale). Tale farraginosa procedura, peraltro, è appesantita da un ulteriore passaggio, legato alla possibile interferenza tra la risoluzione (la cui attuazione necessita, di regola, di adeguate forme di sostegno finanziario, quali il ricorso al resolution fund, o, in casi estremi, all’intervento pubblico) e le norme sulla concorrenza. Proprio in questa logica, invero, si stabilisce che, ove l’azione di risoluzione implichi la concessione di veri e propri aiuti di Stato a norma dell’art. 107 TFUE, ovvero l’intervento del Fondo di risoluzione (che pur potrebbe causare distorsioni della concorrenza), la Commissione è chiamata ad adottare una decisione circa la compatibilità di tali forme di aiuto pubblico con il mercato interno, cui è subordinata la stessa adozione del programma di risoluzione (art. 19 reg. SRM)39. Si tratta, com’è agevole intuire, di un adempimento che – in mancanza di un’ampia e preventiva condivisione delle possibili linee di intervento, che si auspica abbia sempre luogo, nella prassi - rischia di rallentare in modo non indifferente la procedura, in quanto obbliga ad attendere i tempi tecnici necessari per lo svolgimento delle opportune indagini da parte della Commissione e, in caso di decisione negativa (o subordinata all’assunzione di specifici impegni, obbligazioni o condizioni), ad adeguare l’originario impianto del programma di risoluzione40.

ovvero se la Commissione abbia sollevato obiezioni relative agli aspetti discrezionali del programma. 39 Al riguardo, sono stati peraltro ventilati rischi di conflitti di interesse all’interno della Commissione, scaturenti dall’esercizio congiunto dei compiti connessi alla risoluzione e di quelli relativi all’erogazione di aiuti di Stato (o da parte del Fondo): v. Ferran, European Banking Union: Imperfect, But It Can Work, University of Cambridge Faculty of Law Research Paper No 30/2014, 17 April 2014, p. 19, disponibile su ssrn: http://ssrn. com/abstract=2426247. 40 I complessi passaggi procedurali relativi alle decisioni circa gli aiuti di Stato sono scanditi dall’art. 19 reg. SRM, con particolare attenzione all’ipotesi di preventivato ricorso al Fondo di risoluzione (facendosi per ogni altro caso rinvio all’art. 108 TFUE). Più in dettaglio, per questa specifica ipotesi si prevede che il Comitato informi la Commissione, la quale avvierà un’indagine preliminare circa la compatibilità tra il previsto impiego del Fondo ed il mercato interno (conducendo la propria valutazione sulla base dei criteri enunciati dall’art. 107 TFUE), seguita, in caso di dubbi, da un’indagine approfondita. La decisione finale della Commissione, da presentare al Comitato e alle autorità nazionali di risoluzione dello Stato membro o degli Stati membri interessati, e pubblicata sulla GUCE, può essere subordinata a condizioni, impegni o obbligazioni nei confronti del

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Da ultimo, preme evidenziare che, una volta elaborato, il programma di risoluzione dovrà essere attuato dalle autorità nazionali di risoluzione che ne siano destinatarie, le quali adotteranno ogni misura a tal fine necessaria ed eserciteranno i poteri di risoluzione, attenendosi alle istruzioni e alle decisioni del SRB. Il Board è deputato, invero, ad esercitare un’attenta sorveglianza sull’attuazione del programma da parte delle autorità nazionali (sorveglianza che si traduce non solo nella possibilità di impartire a queste ultime specifiche istruzioni sull’esecuzione del programma o sull’esercizio dei poteri di risoluzione, ma finanche nel potere di “scavalcare” le autorità nazionali inadempienti, rivolgendo provvedimenti direttamente agli enti sottoposti a risoluzione), cui corrisponde, per converso, l’obbligo per le medesime di prestare assistenza e collaborazione al Comitato e di fornirgli, a intervalli regolari prestabiliti, una serie di informazioni precise, affidabili e complete (artt. 28 e 29 reg. SRM). Anche in questo caso, dunque, il legislatore ha riproposto quel modello di ripartizione di funzioni tra autorità centrale e autorità nazionali (che, si badi, non riguarda esclusivamente l’aspetto dei programmi di risoluzione, qui considerato, ma, più in generale, l’intera impostazione del SRM: cfr. artt. 7 e 29 reg. SRM), già sperimentato, con le dovute differenze, nell’ambito del SSM; modello che postula una continua e reciproca integrazione tra i differenti piani d’intervento (nazionale ed europeo), in nome dell’efficacia e dell’omogeneità dell’azione di risoluzione. Del resto, vale ancora una volta l’osservazione secondo cui, ferma restando la responsabilità dell’organo comunitario (nella specie, il SRB) per il buon funzionamento dell’intero SRM, un accentramento assoluto dei compiti di risoluzione risulterebbe incompatibile con

beneficiario e può altresì stabilire obblighi per il Comitato, per le autorità nazionali di risoluzione dello Stato membro partecipante o degli Stati membri partecipanti interessati o per il beneficiario, al fine di permettere la valutazione della conformità. Un’eventuale decisione negativa, come accennato nel testo, obbliga il Comitato a riesaminare il programma di risoluzione e a prepararne uno nuovo. Il mancato rispetto delle decisioni della Commissione produce le conseguenze previste dal par. 5 (in particolare, obbligo per l’autorità di risoluzione dello Stato membro interessato di recuperare entro un periodo prestabilito, e di versare al Comitato, gli importi cui si è fatto ricorso impropriamente, maggiorati di un tasso di interesse stabilito dalla Commissione). Con disposizione che riecheggia, nella sostanza, l’art. 108.2 TFUE, l’art. 19.9 stabilisce inoltre che, su domanda di uno Stato membro, il Consiglio, deliberando all’unanimità, può decidere che il ricorso al Fondo è da considerarsi compatibile con il mercato interno, se tale decisione è giustificata da circostanze eccezionali. Se il Consiglio non dovesse pronunciarsi entro sette giorni dalla data della richiesta, peraltro, delibererebbe in materia la Commissione.

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la necessità di “coprire” un territorio così vasto ed eterogeneo come quello europeo (e dunque, in definitiva, con l’efficace esercizio della funzione in esame), mentre, di contro, la suddivisione delle mansioni tra autorità centrale e periferiche risponde, oltre che ad esigenze di tipo pratico, ai basilari principi giuridici di sussidiarietà e di proporzionalità (art. 5 TUE)41.

5. Aspetti critici del SRM. 5.1. La complessità del processo decisionale. Le osservazioni sin qui svolte testimoniano quanto la struttura decisionale del SRM sia sofisticata, postulando un intervento attivo da parte di numerosi enti ed autorità, situati per di più a differenti livelli istituzio-

41 Con riferimento al meccanismo unico di vigilanza, mi permetto di rinviare ulteriormente a Ciraolo, Il Regolamento UE n. 1024/2013, cit., pp. 16-7. Si noti, peraltro, che la ripartizione dei compiti inerenti alla risoluzione pone anche con riguardo al SRM il problema della responsabilità risarcitoria dell’autorità centrale e di quelle nazionali. Tuttavia, mentre nel caso del SSM la mancanza di disposizioni espresse impone all’interprete di ricostruire il difficile tema sulla scorta dei principi generali, l’art. 87 reg. SRM, dopo avere affermato che il Comitato risarcisce, conformemente a non meglio identificati “principi comuni alle leggi in materia di responsabilità delle autorità pubbliche degli Stati membri”, i danni cagionati dal Comitato stesso o dal suo personale nell’esercizio delle proprie funzioni, aggiunge altresì che “il Comitato risarcisce un’autorità nazionale di risoluzione per i danni che è stata condannata a risarcire da un tribunale nazionale o che essa, d’accordo con il Comitato, si è impegnata a risarcire in base ad una composizione amichevole, che siano le conseguenze di un atto o di un’omissione commessi da tale autorità nazionale di risoluzione nel corso della risoluzione – ai sensi del presente regolamento – di entità e gruppi di cui all’articolo 7, paragrafo 2, e di entità e gruppi di cui all’articolo 7, paragrafo 4, lettera b), e all’articolo 7, paragrafo 5, ove siano soddisfatte le condizioni di applicazione di tali paragrafi o conformemente all’articolo 7, paragrafo 3, secondo comma”. Si tratta, in sostanza, delle ipotesi in cui i compiti di risoluzione sono esercitati dal Comitato e non anche dalle autorità nazionali, chiamate tuttavia a dare attuazione alle decisioni dell’organo europeo (il quale rimane, pertanto, responsabile ultimo dei danni causati delle azioni di risoluzione). Fa peraltro eccezione il caso in cui gli atti (o le omissioni) delle autorità nazionali abbiano costituito una violazione del regolamento SRM, di altre disposizioni del diritto dell’Unione, di una decisione del Comitato, del Consiglio o della Commissione, commessa intenzionalmente o a seguito di un errore di valutazione grave e manifesto. La competenza a conoscere delle relative controversie è attribuita alla Corte di Giustizia. L’azione di responsabilità extracontrattuale si prescrive in cinque anni dalla commissione del fatto illecito.

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nali (il SRB, la BCE, la Commissione, il Consiglio e le autorità di risoluzione nazionali). Dal punto di vista giuridico, nondimeno, tale complessità è da ritenere ineliminabile, dal momento che il SRB, quale perno del nuovo meccanismo di risoluzione europeo, gode “solo” della qualifica di agenzia dell’Unione: da ciò la necessità di circoscrivere i poteri di cui esso dispone, attribuendo significative competenze, nell’ambito delle procedure di risoluzione, anche alla Commissione ed al Consiglio. Più in dettaglio, è opportuno chiarire che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia (caso Meroni), la delega di poteri ad altro ente (segnatamente, ad un’agenzia), da parte dell’istituzione che ne è titolare, è conforme al fondamentale principio dell’equilibrio istituzionale, proprio del diritto comunitario42, solo se ha ad oggetto poteri esecutivi delineati con precisione e non anche poteri discrezionali che comportino ampia libertà di valutazione, in quanto l’esercizio di questi ultimi potrebbe implicare l’attuazione di vere e proprie scelte di politica economica, riservate alle istituzioni dell’Unione43. Ebbene, dato che l’adozione di ogni programma di risoluzione implica un certo margine di discrezionalità in capo all’autorità preposta, la partecipazione del Consiglio e della Commissione al relativo processo decisionale si giustifica in quanto, come sopra accennato, solo le istituzioni dell’Unione – e non anche una semplice agenzia, quale il SRB – sono legittimate a stabilire la politica di risoluzione dell’Unione, assicurando al tempo stesso la necessaria tutela dei diritti individuali dei terzi (nella specie, i diritti di azionisti e creditori dell’ente in dissesto, sui quali l’attività di risoluzione finisce per incidere in modo piuttosto penetrante)44.

42 In base al principio dell’equilibrio istituzionale, applicato dalla Corte di Giustizia a far data dal noto caso Meroni (v. nota seguente), ed in atto sancito dall’art. 13.2 TUE, ogni istituzione è tenuta ad agire nell’ambito delle attribuzioni conferitele dai Trattati, senza poter sconfinare negli ambiti di competenza riservati alle altre. 43 CGE, sentenza del 13 giugno 1958, Meroni/Alta Autorità, C-9/56. Una delega del secondo tipo, infatti, si tradurrebbe in un vera e propria modifica dell’assetto delle responsabilità istituzionali delineato dai Trattati, dando luogo ad una sostituzione degli apprezzamenti riservati all’autorità delegante con quelli dell’autorità delegata. Vale peraltro la pena di precisare che il principio dell’equilibrio istituzionale, da cui discende la necessità di circoscrivere i poteri degli organismi dell’Unione, deve essere rispettato anche laddove questi ultimi traggano detti poteri non da una delega, ma, come nel caso di specie, da un atto legislativo. 44 Il coinvolgimento della Commissione e del Consiglio (previsto, quanto alla prima,

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Malgrado il complesso bilanciamento di poteri che caratterizza il SRM, l’ampia discrezionalità di cui il Board comunque gode, nell’esercizio delle sue funzioni (con riferimento alle competenze decisionali, ispettive, sanzionatorie, ecc.), ha però alimentato dei dubbi circa l’effettiva compatibilità di tale assetto di poteri con i summenzionati principi dell’ordinamento comunitario. La giurisprudenza Meroni, in altri termini, potrebbe ancora rappresentare un serio ostacolo all’attuale configurazione del SRB, inficiando alla radice la legittimità dell’intero meccanismo unico di risoluzione. Il problema, tuttavia, potrebbe trovare un’adeguata soluzione in virtù di una recente pronuncia della Corte di Giustizia, adottata con riferimento all’art. 28 del regolamento UE n. 263/2012 sul c.d. short selling45, ma non priva di incidenza, per la portata generale dei temi trattati, anche sulla fattispecie in esame. Più in particolare, detta sentenza ha definito (con un rigetto) il ricorso presentato dal Regno Unito per l’annullamento della norma sopra citata, la quale riconosce all’ESMA rilevanti poteri, non privi di discrezionalità, in materia di (divieto di) vendite allo scoperto. Senza addentrarci nel merito dell’interessante questione, basterà qui rilevare che la Corte, pur mantenendosi nel solco della giurisprudenza

per valutare in particolare gli aspetti discrezionali delle decisioni di risoluzione adottate dal Comitato e, quanto al secondo, per valutare l’effettiva sussistenza di un interesse pubblico alla risoluzione, o le modifiche non irrilevanti dell’ammontare delle risorse del Fondo di risoluzione) si spiega in quanto trattasi di istituzioni che possono esercitare competenze di esecuzione ai sensi dell’art. 291 TFUE (24° considerando reg. SRM). Per quanto concerne, invece, le limitazioni dei diritti di azionisti e creditori (in particolar modo, del diritto di proprietà), esse dovranno avere luogo nel rispetto dell’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ossia nei soli casi previsti dalla legge e per la realizzazione di finalità di carattere generale riconosciute dall’Unione, ravvisabili, nella fattispecie, nell’obiettivo della stabilità finanziaria (61° considerando reg. SRM). Per mitigare, inoltre, l’interferenza nei diritti di proprietà di azionisti e creditori, il regime della risoluzione introduce il già citato principio in virtù del quale tali soggetti non dovrebbero comunque subire perdite superiori a quelle che avrebbero sostenuto se l’entità fosse stata liquidata con procedura ordinaria di insolvenza, nel momento in cui è stata decisa la risoluzione (62° considerando reg. SRM). 45 CGE, sentenza del 22 gennaio 2014, Regno Unito/Parlamento e Consiglio, C-270/12. Per un primo commento v. Chamom, The Empowerment of Agencies Under the Meroni Doctrine and Article 114 TFEU: Comment on United Kingdom v. Parliament and Council (Short-Selling) and the Proposed Single Resolution Mechanism, in European Law Review, vol. 39, n. 3, 2014, p. 380, reperibile su ssrn:http://ssrn.com/abstract=2508645; Rossano, Lo short selling ed i poteri dell’ESMA, in Riv. trim. dir. ec., 2014, 4, p. II, p. 221.

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Meroni, ne avrebbe meglio – e con maggiore elasticità - delineato i contorni, precisando che la stessa può ritenersi rispettata ogni qualvolta i poteri conferiti ad un’agenzia siano definiti con esattezza e la sua discrezionalità risulti limitata dal ricorso a criteri precisi e di non ambigua interpretazione (in modo da poter altresì assicurare la possibilità di un controllo giurisdizionale sui provvedimenti dell’ente, che assuma come parametro di riferimento la rispondenza di questi ultimi agli obiettivi fissati dall’istituzione delegante)46. Ciò premesso, si potrebbe assumere che la situazione sopra illustrata ricorra anche nel caso del SRB. Ed invero, se è innegabile, da un lato, che tale ente dispone di rilevanti poteri di natura discrezionale (spazianti dalla possibilità di assumere decisioni circa l’assoggettamento degli intermediari a risoluzione, alla facoltà di escludere alcune passività dal bail-in o di irrogare sanzioni), dall’altro, si potrebbe obiettare che le sue competenze istituzionali, per quanto ampie e significative, sono state delimitate dalla legge in modo piuttosto accurato, oltre ad essere controbilanciate, specie con riferimento alla procedura di avvio della risoluzione, dai poteri di controllo e di obiezione della Commissione e del Consiglio. In sostanza, i più recenti pronunciamenti della giurisprudenza europea confermerebbero che il SRB è stato strutturato dal legislatore europeo in modo conforme al diritto dell’Unione. Riteniamo, tuttavia, che tale conclusione – per quanto prima facie convincente – meriti di essere ulteriormente vagliata alla luce della futura esperienza applicativa: solo quando il meccanismo unico di risoluzione sarà pienamente operativo47, infatti, sarà possibile verificare come, e con quale concreta estensione, verranno esercitati i poteri discrezionali del SRB, e se le istituzioni comunitarie, dal canto loro, sapranno garantire un’effettiva capacità di controllo sul corretto funzionamento del

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La Corte, dunque, ha modificato la più rigida impostazione seguita in passato, ammettendo che ad un ente possano essere attribuiti anche poteri discrezionali, purché sottoposti a specifici limiti. Di particolare rilevanza, inoltre, appare la motivazione con la quale è stata definita la questione se gli artt. 290 e 291 TFUE delineino un quadro normativo unico che consenta di attribuire soltanto alla Commissione taluni poteri delegati e di esecuzione, o se possano ammettersi ulteriori sistemi di delega di poteri siffatti ad organi o organismi dell’Unione. La Corte ha chiarito, infatti, che, pur in assenza di espresse disposizioni dei Trattati, al legislatore europeo non è precluso attribuire alcuni poteri esecutivi ad un organismo dell’Unione, al di fuori del regime previsto dagli artt. 290 e 291 TFUE, fermo restando il principio dell’equilibrio dei poteri. 47 Il reg. SRM si applicherà, invero, a partire dal 1° gennaio 2016, fatte salve le rilevanti deroghe previste dai paragrafi da 3 a 5 dell’art. 96 (v. anche nt. 57).

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meccanismo medesimo (a dispetto dei sopra descritti limiti, temporali e sostanziali, imposti dalla vigente normativa ai loro poteri di approvazione o di veto). Fatte salve le superiori considerazioni, non ci si può comunque esimere dal rilevare come l’ingombrante apparato decisionale del SRM non sembri pienamente compatibile con la primaria esigenza di assicurare un’azione tanto rapida quanto efficace, al ricorrere dei presupposti della risoluzione. È di tutta evidenza, infatti, che il processo decisionale all’interno del SRM, seppur razionalizzato rispetto alla versione iniziale del regolamento, continua ad essere piuttosto farraginoso, nonostante il fatto che la tempestività d’intervento, da parte delle autorità preposte, rappresenti un fattore determinante ai fini del buon esito della risoluzione48. In altri termini, non v’è dubbio che il coinvolgimento di diversi soggetti, nelle decisioni attinenti alla risoluzione, potrebbe pregiudicare l’efficienza della relativa procedura49, mentre, per altro verso, si teme

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Rammenta in proposito Ferran, European Banking Union, cit., p. 18, richiamando i Key Attributes of Effective Resolution Regimes for Financial Institutions redatti nel 2011 dal Financial Stability Board, che “the window of opportunity for a resolution authority to contain the systemic repercussions of bank failure more effectively than would be possible under ordinary insolvency procedures can be no more than a weekend”. La rapidità delle decisioni, invero, è un elemento cruciale nel processo di risoluzione, non soltanto perché permette di intervenire il prima possibile, fronteggiando con tempestività la situazione di dissesto dell’intermediario, ma anche perché evita gli effetti deleteri di una possibile fuga di notizie (si pensi, ad es., al rischio di deposit run, tipico delle situazioni di crisi bancarie). Non a caso, come già si è precisato, lo stesso regolamento SRM prevede un tempo massimo assai ridotto per l’approvazione finale del resolution scheme, così come, nella stessa ottica, parte della dottrina ha proposto che le procedure di risoluzione vengano possibilmente avviate il venerdì pomeriggio, quando la banca non è più aperta al pubblico (Micossi, Bruzzone, Carmassi, The New European Framework for Managing Banking Crises, CEPS Policy Brief No 304, 21 November 2013, p. 9, disponibile su www.ceps.eu). In senso critico, tuttavia, va osservato che le forme di silent endorsement da parte della Commissione e del Consiglio, previste dal reg. SRM per velocizzare le procedure di risoluzione, non garantiscono lo svolgimento di un reale controllo sui contenuti dei resolution schemes da parte delle istituzioni UE (che potrebbero, invero, non riuscire ad ottemperare ai propri compiti nei ristrettissimi tempi loro assegnati dalla legge), né consentono tanto meno di valutare (ed eventualmente di sindacare) le ragioni poste a base di siffatte decisioni tacite, a dispetto delle loro pesantissime ricadute pratiche. 49 Non ravvisa tale pericolo, invece, Gros, Europe’s Ungainly Banking Revolution, CEPS Commentary, 22 March 2014, p. 2, reperibile su www.ceps.eu, secondo il quale la procedura formale di decision-making non dovrebbe comunque rappresentare un problema. Dando infatti per assodato che le ristrutturazioni bancarie debbano essere definite nel volgere di pochissimi giorni (di solito, nell’arco di un weekend), l’A. giunge

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che l’intervento delle istituzioni dell’Unione (Commissione e soprattutto Consiglio), per quanto limitato nell’oggetto e nella tempistica, implichi un rischio di interferenze politiche nella decisione finale di sottoporre o meno un ente a risoluzione (rischio che, seppur residuale, influisce negativamente sulla credibilità stessa del meccanismo di risoluzione). Di certo, come osservato in dottrina, una soluzione alternativa, che contemplasse il conferimento alla (sola) BCE dei poteri decisionali relativi alla risoluzione, avrebbe rappresentato una scelta più lineare e più razionale, pienamente coerente, peraltro, con il nuovo sistema europeo di supervisione bancaria50. Per di più, si sarebbe per tale via garantito anche un immediato raccordo tra le misure di early intervention (di competenza della BCE, ai sensi degli artt. 16 reg. SSM e 104 CRD IV) e la funzione di risoluzione, con il vantaggio di poter in tal modo assicurare, nelle ipotesi di fallimenti bancari, interventi senza soluzione di continuità51. Tuttavia, tale alternativa – avvalorata dalla tesi secondo cui una frammentazione di funzioni finisce col causare inefficienze e ritardi nell’azione delle pubbliche autorità52 – è sempre stata rifiutata dalle istituzioni europee, sulla scorta del diffuso convincimento che l’attribuzione di mansioni di risoluzione alle banche centrali comporterebbe il duplice rischio di conflitto di interessi e di supervisory forbearance53. Dirimente, sul piano giuridico, è comunque il rilievo secondo cui la praticabilità di siffatta soluzione trova un radicale impedimento nella stringente formu-

ad affermare che “The few individuals who know the details of a case will take the key decisions, while the rest, with little knowledge of or stake in the matter, will be politely asked to agree”. 50 V. ancora Micossi, Bruzzone, Carmassi, The New European, cit., p. 8. 51 Va tuttavia notato che l’art. 13 reg. SRM (rubricato “Intervento precoce”) abilita il SRB ad assumere iniziative volte a preparare la risoluzione di un ente o di un gruppo, in particolare nelle ipotesi in cui la BCE o le autorità nazionali competenti abbiano adottato misure di early intervention ai sensi della vigente normativa. 52 Il tema è sviluppato da Mancini, Dalla vigilanza, cit., p. 39 ss., il quale mette in luce le criticità derivanti dalla tendenza alla separazione fra le funzioni di regolamentazione, supervisione e risoluzione delle banche, rilevabile nell’attuale diritto europeo. 53 In argomento v. Boccuzzi, Towards a new framework for banking crisis management. The international debate and the Italian model, in Banca d’Italia, Quaderni di Ricerca Giuridica, n. 71, Roma, 2011, p. 260; Pisani-Ferry, Sapir, Véron, Wolff, What kind of European banking union?, Bruegel Policy Contribution, n. 12, 2012, p. 12 (può leggersi su http://hdl.handle.net/10419/72098), dove si rileva come il conferimento della funzione di risoluzione alla BCE trascinerebbe la medesima in inevitabili controversie relative alla distribuzione delle perdite e alla conduzione delle attività bancarie transfrontaliere.

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lazione dell’art. 127.6 TFUE, in base al quale, com’è noto, è possibile attribuire alla BCE soltanto compiti specifici di vigilanza prudenziale e non anche, dunque, il diverso ruolo di autorità di risoluzione (con l’evidente conseguenza che ogni altra opzione, per quando astrattamente valida, richiederebbe quanto meno una modifica del Trattato). 5.2. La solidità della base giuridica utilizzata. Altra interessante questione giuridica attiene alla base legale adottata per la creazione del SRM, ravvisata dal legislatore europeo nell’art. 114 TFUE. Il punto è stato oggetto di ampio dibattito, essendo controverso se una norma concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri potesse fornire un sostegno sufficientemente solido, sul piano giuridico, per l’edificazione di un apparato di tale complessità e, in particolare, per l’istituzione di una nuova agenzia atipica, munita di rilevanti poteri, quale il SRB54. La questione, in realtà, non è del tutto nuova, dal momento che l’art. 114 TFUE è stato utilizzato, in passato, quale base normativa per la creazione di altri organismi e agenzie europei, quali ad esempio, nel settore dell’intermediazione finanziaria in senso lato, le recenti European Supervisory Authorities (EBA, ESMA ed EIOPA). Come ampiamente discusso anche in merito a tali precedenti, dunque, si tratta di stabilire se la nozione di “armonizzazione legislativa” possa essere allargata al punto da legittimare persino l’istituzione di nuovi enti, per di più abilitati ad adottare non soltanto provvedimenti di portata generale (da ritenere volti, in quanto tali, al ravvicinamento delle legislazioni nazionali), ma indirizzati anche, in casi più o meno ampi, a singole persone fisiche o giuridiche (nella specie, a determinate istituzioni finanziarie). Il problema è indubbiamente spinoso, ma sembra superabile, se si muove dal presupposto che il Trattato consente comunque al legislatore dell’Unione di conseguire il risultato dell’armonizzazione normativa avvalendosi, a seconda delle specifiche circostanze, di un certo margine di discrezionalità, soprattutto allorquando occorre affrontare – come nel

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Parte della dottrina, pertanto, suggeriva di valutare la percorribilità di soluzioni alternative, quali ad es. il ricorso all’art. 352 TFUE, da solo o anche congiuntamente all’art. 114 cit. (Micossi, Bruzzone, Carmassi, The New European, cit., p. 17, che non mancano tuttavia di evidenziare le difficoltà di ordine pratico e giuridico cui simili opzioni darebbero luogo).

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caso in esame – questioni tecniche particolarmente complesse, o eseguire analisi altamente specialistiche55. Ebbene, tra i metodi discrezionali utilizzabili ai fini del ravvicinamento delle legislazioni, pare possa includersi pure la creazione di appositi enti, incaricati di contribuire alla realizzazione di siffatto obiettivo56. In altri termini, secondo un’interpretazione estensiva dell’art. 114 cit., avallata dalla Corte di Giustizia, detta norma potrebbe essere invocata anche ai fini dell’istituzione di un nuovo organismo, qualificato da una particolare perizia tecnica o professionale, a condizione che i compiti di quest’ultimo appaiano strettamente funzionali all’obiettivo finale contemplato dalla stessa norma, vale a dire l’instaurazione e il buon funzionamento del mercato unico. Si aggiunga, inoltre, che, sempre secondo la Corte comunitaria, le “misure” volte al ravvicinamento delle legislazioni non devono necessariamente identificarsi con atti di portata generale, potendo all’occorrenza consistere anche in provvedimenti a carattere individuale, vincolanti nei confronti di singoli soggetti57. Ora, tornando alla fattispecie che ci occupa, non pare potersi dubitare che gli obiettivi istituzionali del SRM corrispondano in toto a quelli dianzi descritti, così come enucleati dalla giurisprudenza europea. Ed invero, si è avuto modo di chiarire come la presenza di un organismo centrale, munito di penetranti poteri di risoluzione e concepito per agire in modo rapido ed efficace, oltre ad assicurare un’applicazione uniforme e coerente del regime di risoluzione a livello europeo (in linea con il fine dell’armonizzazione normativa), miri allo stesso tempo a rafforzare, come proclamato nella premessa del regolamento n. 806/2014, il buon funzionamento del mercato unico, evitando possibili distorsioni della concorrenza e consentendo di arginare le ricadute transfrontaliere delle

55 Il principio è affermato da CGE, sentenza 6 dicembre 2005, Regno Unito/Parlamento e Consiglio, C‑66/04. 56 La Corte di Giustizia ha stabilito, invero, che la legge UE può anche ritenere necessaria l’istituzione di un organismo, incaricato di contribuire al processo di armonizzazione normativa (sentenza del 2 maggio 2006, Regno Unito/Parlamento e Consiglio, C‑217/04). 57 CGE, sentenza del 9 agosto 1994, Germania/Consiglio, C‑359/92; sentenza del 2 maggio 2006, Regno Unito/Parlamento e Consiglio, C‑217/04. Nella prima pronuncia, in particolare, la Corte ha statuito che, in taluni settori, il ravvicinamento delle sole norme generali potrebbe non essere sufficiente a garantire l’unità del mercato. La nozione di “misure relative al ravvicinamento”, dunque, va interpretata ricomprendendovi il potere del legislatore dell’Unione di prescrivere i provvedimenti relativi ad un prodotto o a una categoria di prodotti determinati e, se del caso, provvedimenti individuali riguardanti questi prodotti.

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crisi bancarie ed il loro impatto sistemico negativo (sul punto si è diffusamente ragionato nel par. 2, cui pertanto si rinvia)58. Da questa prospettiva, dunque, non v’è dubbio che l’istituzione del SRB – centro nevralgico dell’intero SRM – trovi un valido e più che saldo ancoraggio nel ricorso all’art. 114 TFUE, partecipando con ogni evidenza al conseguimento degli scopi enunciati da tale disposizione. Al problema testé affrontato si ricollega, poi, quello dell’effettiva estensione dei poteri assegnati al SRB e della loro conformità al diritto europeo, di cui già si è trattato nel precedente paragrafo. È evidente, infatti, che la creazione di un nuovo organismo europeo – quale che sia la base giuridica utilizzata – deve comunque rispettare il principio dell’equilibrio istituzionale ed i rigorosi limiti stabiliti dalla dottrina Meroni, ancorché ridimensionati dalla recente sentenza sul caso ESMA. Di certo, come già puntualizzato, il concreto avvio del SRM potrà fornire, al riguardo, migliori elementi di giudizio. Per il momento, nondimeno, ci pare di poter senz’altro condividere l’affermazione dottrinaria secondo la quale, nonostante alcune residue perplessità, la recente evoluzione del diritto europeo sulle agenzie sembra assicurare anche al SRM una base legale sempre più stabile ed inattaccabile59. 5.3. I dispositivi per il finanziamento della risoluzione. Alcune brevi considerazioni, da ultimo, vanno spese in merito ai meccanismi di supporto finanziario alla risoluzione (si allude, in particolare, al citato Fondo unico/SRF), la cui istituzione ha suscitato parecchie perplessità, anche relativamente all’appropriatezza della base giuridica utilizzata (art. 114 TFUE). Per cogliere le reali implicazioni del problema, è il caso di premettere che il tema dei mezzi di finanziamento della risoluzione è stato da sempre fortemente controverso, sollevando una nutrita serie di questioni, connotate da un elevatissimo grado di sensibilità politica (si pensi, in primo luogo, alla spinosa problematica del burden sharing, che postula la definizione delle modalità di ripartizione fra gli Stati membri degli oneri della risoluzione). Sul piano generale, invero, bisognava innanzitutto rispettare il principio di fondo su cui è stato edificato l’intero nuovo regime europeo della

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Per analoghe considerazioni, in dottrina, Ferran, European, cit., p. 22. V. ancora Ferran, European, cit., p. 24.


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resolution, vale a dire che il costo dei fallimenti bancari deve essere sostenuto in primis da azionisti e creditori dell’ente in dissesto, evitando quanto più possibile il coinvolgimento delle finanze pubbliche. Solo in tal modo, del resto, si potrebbe assicurare l’interruzione di quel legame biunivoco tra banche ed emittenti sovrani, che così determinante ruolo ha giocato nell’aggravarsi della crisi finanziaria. Al contempo, tuttavia, non può prescindersi dal considerare che, per essere credibile ed efficace, l’azione di risoluzione necessita di adeguate forme di finanziamento, che il legislatore europeo ha in un primo tempo individuato, come già chiarito, nel ricorso a fondi di risoluzione nazionali, alimentati, per la ragione or ora evidenziata, da versamenti provenienti esclusivamente dal settore privato (art. 100 BRRD). I contribuiti all’uopo riscossi dagli Stati membri partecipanti sono peraltro destinati, secondo le ulteriori previsioni del reg. SRM, alla progressiva fusione, nell’arco di un periodo transitorio di otto anni, in un Fondo unico europeo, gestito dal SRB (v. supra, par. 2)60. Coerente con l’impostazione generale dell’attuale quadro normativo, quindi, è l’affermazione contenuta nell’art. 6 reg. SRM, secondo cui le decisioni o azioni del Comitato, del Consiglio e della Commissione non possono imporre agli Stati membri alcun sostegno finanziario pubblico straordinario, né possono interferire con le competenze degli Stati membri in materia di bilancio. Le scelte legislative sopra riassunte sono tuttavia maturate in un clima di aspre tensioni politiche, alimentate dalle riserve e dalle resistenze di alcuni Stati membri in ordine alla struttura delle predette forme di contribuzione mutualistica alla risoluzione. In detto contesto, è stato tra l’altro obiettato che l’art. 114 TFUE rappresenta una base giuridica piuttosto incerta per le previste forme di finanziamento della risoluzione, tanto più che la norma sul ravvicinamento delle legislazioni non si applica, per espressa previsione del par. 2, alle disposizioni di natura fiscale. Tali rilievi danno contezza della decisione – parimenti contestata – di affidare la regolamentazione del SRF ad una duplice fonte. Ed invero, mentre il reg. SRM istituisce, accompagnandosi alla BRRD, il Fondo unico di risoluzione e ne prevede le modalità di utilizzo (stabilendo, in particolare, i criteri generali di contribuzione e l’obbligo di raccolta

60 Al termine del periodo transitorio, il Fondo unico dovrebbe disporre di mezzi finanziari pari ad almeno l’1% dell’ammontare dei depositi protetti di tutti gli enti creditizi autorizzati negli Stati membri partecipanti (art. 69 reg. SRM).

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dei contributi a livello nazionale), un apposito accordo intergovernativo (IGA), cui si è già fatto cenno, sancisce l’obbligo per gli Stati aderenti di trasferire al Fondo i contributi prima riscossi in sede nazionale (obbligo non previsto, invero, dal diritto dell’Unione)61. Particolarmente significativo, inoltre, è che nella stessa sede IGA si stabilisce che, laddove i mezzi finanziari del Fondo non fossero sufficienti per sostenere una particolare azione di risoluzione62, e non fossero immediatamente accessibili altre forme di finanziamento (reperite, ad esempio, tramite contributi aggiuntivi ex post), onde assicurare un adeguato e continuo finanziamento durante il periodo transitorio, le parti contraenti interessate dovrebbero fornire finanziamenti ponte provenienti da fonti nazionali o dal Meccanismo Europeo di Stabilità, con possibilità che vengano altresì effettuati trasferimenti temporanei tra i vari comparti nazionali in cui sarà articolato, nel periodo iniziale (ed in vista della progressiva unificazione), il Fondo stesso63. Riemerge, in sostanza, la possibilità di fare ricorso ad appositi sistemi di backstop, ossia a forme di intervento finanziario di ultima istanza,

61 Consiglio dell’Unione Europea, Accordo sul trasferimento e la messa in comune dei contributi al Fondo di risoluzione unico, Bruxelles, 14 maggio 2014. Più in dettaglio, attraverso tale accordo gli Stati membri partecipanti si impegnano a trasferire al Fondo i contributi raccolti a livello nazionale secondo le disposizioni della BRRD e del regolamento SRM. I contributi verranno dapprima assegnati a distinti comparti nazionali, corrispondenti ai vari Stati membri partecipanti, che saranno progressivamente unificati, fino a scomparire del tutto al termine del periodo transitorio. L’accordo determina altresì le modalità con cui il Comitato potrà disporre, durante il predetto periodo transitorio, dei comparti nazionali (i poteri del Comitato relativi all’utilizzo e alla gestione del Fondo unico sono stabiliti, invece, dal reg. SRM). Si noti, infine, che il ricorso al Fondo è subordinato all’accordo intergovernativo (art. 77 reg. SRM), la cui entrata in vigore dipende a sua volta dalla ratifica da parte degli Stati che rappresentino almeno il 90% dei voti ponderati di tutti gli Stati membri partecipanti al SSM e al SRM (art. 11.2 IGA). 62 Da più parti si è rilevato, del resto, che persino l’intero ammontare stimato del Fondo, pari a 55 miliardi di Euro, sarebbe insufficiente a coprire gli interventi che si rendessero necessari nell’ipotesi di una grave crisi sistemica. Obietta tuttavia Gros, Europe’s Ungainly Banking Revolution, loc. cit., che l’importo di 55 miliardi di Euro basterebbe invece ad affrontare la maggior parte delle crisi bancarie in Europa (escluse solo quelle riferite alle banche di più grandi dimensioni), nonché una crisi sistemica in Paesi medio-piccoli come Irlanda o Portogallo (tant’è vero che, rammenta l’A., nel picco massimo della crisi la Spagna ha ottenuto dall’ESM la somma di “soli” 60 miliardi). 63 Artt. 5 e 7 IGA; artt. 72-4 reg. SRM. I poteri di contrarre prestiti o altre forme di sostegno per il Fondo, o di effettuare trasferimenti di risorse tra i comparti, competono al Comitato.

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attuabili, in questo caso, anche mediante l’uso di risorse pubbliche64 (fermo restando che le banche degli Stati membri partecipanti sarebbero in ogni caso responsabili del rimborso di tali finanziamenti straordinari, tramite contributi raccolti anche ex post). Il ricorso allo strumento dell’accordo intergovernativo è stato aspramente criticato, essendosi risolto, di fatto, nella sottrazione di una materia di particolare delicatezza al normale iter legislativo europeo (ossia, com’è appena il caso di precisare, al potere di proposta della Commissione, seguito dal procedimento di co-decisione di Parlamento e Consiglio)65. Tuttavia, malgrado l’indubbia pregnanza di tali rilievi, la necessità di conciliare in tempi rapidi le nette divergenze di posizione fra i paesi membri ha fatto prevalere una logica di puro pragmatismo. D’altro canto, sarebbe stato impensabile lasciare alla volontà dei singoli Stati la decisione di contribuire o meno alle varie procedure di risoluzione, con decisione da adottare di volta in volta, in assenza di un accordo predefinito e vincolante circa la messa in comune dei necessari mezzi finanziari. Qualcuno ha rilevato – a nostro avviso correttamente – che, in realtà, l’art. 114 TFUE avrebbe potuto dare valida copertura anche alle previsioni ed agli impegni consacrati nell’IGA, specie a seguito dell’interpretazione estensiva di tale norma, da ultimo fornita dalla Corte di Giustizia. Del resto, anche il Fondo unico, quale strumento posto a servizio del SRM, partecipa agli obiettivi di armonizzazione legislativa e di corretto funzionamento del mercato interno, propri del meccanismo unico di risoluzione66.

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Più in generale, si rammenta che anche la BRRD prevede che gli Stati membri, al fine di partecipare alla risoluzione di un ente, forniscano, al ricorrere determinate condizioni, specifiche forme di un sostegno finanziario pubblico straordinario, qualificate come soluzioni di ultima istanza. 65 Per tali rilievi critici v. Parlamento Europeo, Letter from the ECON Chair and members of the SRM negotiating team to the Council Presidency regarding the intergovernmental agreement currently negotiated within the framework of the SRM Regulation, 15 gennaio 2014, disponibile su http://www.europarl.europa.eu/committees/en/econ/home.html. 66 È stato osservato, al riguardo, che il Fondo unico europeo, sostituendo (senza sovrapporvisi) i fondi di risoluzione nazionali istituiti da ciascuno Stato membro, può essere considerato uno strumento di armonizzazione per prevenire il pericolo di eventuali eterogeneità tra i fondi nazionali (v. testo dell’audizione al Senato del Direttore Generale dell’ABI, dott. Giovanni Sabatini, sulla proposta di reg. SRM, 10 ottobre 2013). Si ribadisce, ad ogni buon conto, che, nell’ottica del legislatore comunitario, la frammentazione del mercato interno è destinata a perdurare fino a quando le norme

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Ancora, è stato osservato che le previste modalità di contribuzione al Fondo non sembrano potersi equiparare a vere e proprie forme di imposizione fiscale, essendo più prossime, semmai, a forme mutualisticoassicurative obbligatorie interne al sistema bancario (alla stregua, per intendersi, dei sistemi di garanzia dei depositi), istituite nell’ottica di un migliore svolgimento della risoluzione67. In nessun caso, peraltro, il ricorso al Resolution Fund, per come congegnato, dovrebbe implicare interferenze con la sovranità o le competenze di bilancio dei singoli Stati membri. Al di là di tali considerazioni, resta tuttavia il fatto che le perplessità di ordine legale, in merito all’accordo, continuano ad essere piuttosto forti68. Se ne trova conferma, del resto, nello stesso IGA, laddove si riconosce la necessità che gli Stati contraenti provvedano ad includere al più presto nel quadro giuridico dell’Unione le norme sostanziali dell’accordo medesimo, in modo da poterne assicurare, nel prossimo futuro, la piena ed incontestabile conformità alle disposizioni dei Trattati.

in materia di risoluzione, le prassi e gli approcci seguiti per la ripartizione degli oneri manterranno una dimensione nazionale e i fondi destinati a finanziare la risoluzione saranno reperiti e spesi a livello nazionale (9° considerando reg. SRM). Viceversa, l’efficacia e l’uniformità delle norme in materia di risoluzione e la parità di condizioni nel finanziamento della risoluzione nei diversi Stati membri sono viste come un mezzo per assicurare condizioni eque di concorrenza e migliorare il funzionamento del mercato interno (12° considerando reg. SRM). 67 Micossi, Bruzzone, Carmassi, The New European, cit., pp. 15-6. I contributi delle banche al Fondo vengono invece assimilati ad una sorta di “premio assicurativo” per fronteggiare future crisi, e quindi ad un “servizio” di cui le banche medesime usufruirebbero (anziché ad una tassa), nella già citata Audizione ABI al Senato (v. nt. precedente). Analoghe opinioni, peraltro, erano state espresse dal servizio legale del Consiglio, nel settembre 2013. 68 Alle riflessioni critiche sopra svolte si aggiungano, ad es., i rilievi circa l’incompatibilità tra l’IGA-SRF e il principio di autonomia della legge UE, in forza del quale i poteri dell’Unione e delle sue istituzioni non possono essere in alcun modo condizionati da accordi intergovernativi (mentre, nel caso di specie, l’applicazione delle norme del reg. SRM relative al ricorso al Fondo è subordinata alla ratifica e all’entrata in vigore dell’IGA: v. nt. 61); o i dubbi, di carattere generale, relativi alla crescente preferenza manifestata in sede europea per il metodo intergovernativo rispetto al metodo comunitario. Per una più dettagliata analisi, Zavvos, Kaltsouni, The Single Resolution Mechanism in the European Banking Union: Legal Foundation, Governance Structure and Financing, 15 September 2014, p. 41 ss., reperibile su ssrn: http://ssrn.com/abstract=2531907.

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6. Riflessioni conclusive. Malgrado le pecche ed i limiti fin qui descritti, a noi pare che, nel suo insieme, la struttura del SRM possa essere giudicata come un buon compromesso. Ed invero, il previsto coinvolgimento nel processo decisionale di numerosi soggetti, che pur continua a rappresentare uno dei principali punti nevralgici del sistema (per il potenziale impatto negativo sul rapido ed efficace funzionamento dell’intero meccanismo), appare a ben vedere inevitabile, nell’attuale cornice normativa europea. Come già si è avuto modo di chiarire, del resto, occorre rispettare i paletti imposti dal fondamentale principio dell’equilibrio istituzionale, assicurando altresì, attraverso l’intervento delle istituzioni dell’UE, un’appropriata tutela ai diritti individuali dei creditori e degli azionisti dell’ente in crisi, sovente sacrificati dall’aggressività delle azioni di risoluzione (si pensi, ad esempio, alle conseguenze derivanti dal ricorso all’incisivo strumento del bail-in). Allo stesso modo, le preoccupazioni espresse in ordine all’adeguatezza e all’affidabilità della base legale del SRM sembrano potersi in larga misura ridimensionare, in ragione dei più recenti orientamenti della Corte di Giustizia, di cui sopra si è data contezza. Senza dubbio, la via alternativa di una modifica dei Trattati, che contemplasse l’inclusione tra le istituzioni ivi previste di una nuova European Resolution Authority¸ operante in regime di piena indipendenza e munita di autonomi poteri discrezionali, sarebbe stata di gran lunga preferibile, in termini di certezza degli effetti giuridici. Tuttavia, ciò avrebbe richiesto l’avvio di una lunga e tortuosa procedura di revisione, incompatibile con quell’urgenza di provvedere che ha caratterizzato gli interventi legislativi degli ultimi anni. Difficile immaginare che le forze politiche riescano a convergere, nell’immediato futuro, verso il conseguimento di un simile risultato; nondimeno, l’interpretazione estensiva data all’art. 114 TFUE potrebbe comunque assicurare, negli anni a venire, una certa solidità anche al nuovo meccanismo unico di risoluzione. Ribadiamo, da ultimo, che per formulare un’opinione definitiva sul SRM sarà necessario attendere l’esito delle prime applicazioni pratiche del meccanismo, alla cui completa implementazione si ricollegano, d’altronde, anche numerose problematiche che in questa sede non è stato possibile affrontare (si pensi, ad es., all’adeguatezza delle disposizioni e delle tutele previste per disciplinare i rapporti con gli Stati membri non partecipanti, o alla necessità di assicurare un corretto bilanciamento

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fra i poteri del SRB, semplice agenzia dell’UE, e quelli della BCE, quale istituzione dell’Unione). Solo l’esperienza, in sostanza, potrà confermare se l’innovativo e complesso apparato istituito con il regolamento n. 806/2014 riuscirà a garantire il raggiungimento degli ambiziosi ed ormai irrinunciabili obiettivi per i quali il SRM è stato ideato.

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La Cassa rurale cattolica in un dibattito congressuale di fine Ottocento Sommario: 1. Premessa. – 2. Le banche cattoliche nell’ordinamento bancario. – 3. Lo statuto giuridico delle Casse rurali cattoliche. – 4. Le Casse rurali cattoliche nel movimento cooperativo. – 5. “E se si aiutassero?” – 6. “Inquisizione laica”. – 7. Il più importante Congresso della cooperazione, fino ad oggi, celebratosi in Italia. – 8. Giuseppe Toniolo e la “grande controversia”.

Premessa. La vicenda della banca cattolica si inserisce in quell’attivismo cristiano nel campo dell’economia che caratterizzò in Italia i primi anni ’90 del XIX secolo, in linea con le indicazioni che sulla questione operaia l’enciclica Rerum novarum aveva dato. La presente indagine si concentra, in particolare, sulla Cassa rurale cattolica, esaminandone i tratti essenziali dai diversi punti di vista dai quali il fenomeno può essere riguardato: quello dell’ordinamento bancario, alla cui disciplina le banche cattoliche sottostavano; quello del diritto societario, in relazione alle forme giuridiche da esse assunte; quello, infine, dell’economia sociale, già campo privilegiato di azione dei riformatori sociali di ispirazione liberale. In questo contesto si colloca la solitaria iniziativa di un esponente di primo piano di quel settore – Luigi Luzzatti, il fondatore delle Banche popolari – intesa a cercare un accordo fra Casse cattoliche e Popolari per porre le basi di un’ordinata “concorrenza nel bene” fra di esse. La proposta, contrastata dalla parte liberale e seccamente respinta dalle Casse, fu dibattuta in un’assemblea di Banche popolari alla quale parteciparono anche rappresentanti dei vari rami della cooperazione.

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2. Le banche cattoliche nell’ordinamento bancario. Negli anni in cui comparve la banca “cattolica”, l’ordinamento bancario del Paese era ancora in formazione1. Soppresso nel 1869 l’Ufficio di sindacato sulle società e sugli istituti di credito dal Ministro di Agricoltura e Commercio Marco Minghetti2, l’unica forma, indiretta, di controllo governativo sulle banche si realizzava con la pubblicazione nel Bollettino di quel ministero delle situazioni mensili dei conti delle stesse3. Un limitato controllo era esercitato dai tribunali sotto il profilo della legittimità degli atti statutari. Di fatto, dunque, il sistema bancario era in quegli anni improntato al principio di libertà, non competendo allo Stato né un potere autorizzatorio sulla costituzione delle banche né un potere di vigilanza sul funzionamento di esse. Il principio fu, del resto, chiaramente affermato da una decisione del Consiglio di Stato di annullamento di un provve-

1

Cf., in generale, Polsi, Alle origini del capitalismo italiano. Stato, banche e banchieri dopo l’Unità, Torino, 1993, p. 44 ss. e passim; Cardarelli, La questione bancaria in Italia dal 1860 al 1892, in Id. et al., Ricerche per la storia della Banca d’Italia, I, Roma- Bari, 1990, p. 105 ss. 2 Minghetti nominò segretario generale del dicastero Luigi Luzzatti, perché lo «voleva collaboratore nelle riforme sociali» (Luzzatti, Memorie autobiografiche e carteggi, I, 18411876, Bologna, 1931, p. 278). Sull’opera del Luzzatti esiste una vastissima bibliografia, di cui si segnala almeno il fondamentale Ballini-Pecorari, a cura di, Luigi Luzzatti e il suo tempo. Atti del convegno internazionale di studio (Venezia, 7-9 novembre 1991), Venezia, 1994. Il giovane intellettuale veneto (1841-1927), studioso di economia, aveva seguito i corsi di giurisprudenza a Padova e si era formato sotto la guida di Angelo Messedaglia e di Fedele Lampertico, docenti in quell’ateneo. Raggiunta una certa notorietà fin dal 1863 con l’opera La diffusione del credito e le banche popolari, difese tenacemente il modello di banca, fondato sul “credito al risparmio”, in essa proposto, riuscendo a prevalere nel confronto con i teorici del sistema del “credito sul lavoro”. A partire dal 1864 aveva ispirato e spesso partecipato alla fondazione di non poche delle “sue” Banche popolari. Nel 1867 fu chiamato, per interessamento del Messedaglia, dall’Università di Padova per l’insegnamento del diritto costituzionale. Nel 1869, divenuto segretario generale del ministero di Agricoltura e Commercio, fu l’ideatore dell’istituzione, presso il ministero, della Commissione consultiva sulle istituzioni di previdenza e sul lavoro, al cui “decennale lavoro” si fa risalire l’avvio della legislazione sociale del Paese: Marucco, Luigi Luzzatti e gli esordi della legislazione sociale, in Luigi Luzzatti e il suo tempo, a cura di Ballini e Pecorari, cit., p. 421. Deputato della Destra dal 1871 al 1921, in seguito senatore, fu più volte ministro e – dal marzo 1910 al marzo del 1911 – anche presidente del Consiglio dei ministri. 3 Le banche società anonime erano tenute all’obbligo del deposito delle situazioni mensili presso il tribunale (art. 177 cod. comm.). All’obbligo sfuggivano, pertanto, le banche cooperative in nome collettivo, quali le Casse di prestiti.

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dimento ministeriale che disponeva un’ispezione a carico di una Banca popolare: «Il vigente codice di commercio non solo non contiene tra le sue disposizioni intorno al regime delle società per azioni alcun precetto che autorizzi sopra tali enti collettivi la vigilanza governativa in qualsiasi delle forme in cui può esplicarsi, ma formula invece un complesso di prescrizioni le quali fanno manifesto che a siffatta vigilanza, che si esercita secondo le discipline anteriori, ha sostituito un sistema assolutamente diverso, quello cioè della sorveglianza degli interessati, i quali la traducono in atto, promuovendo nei termini di legge l’azione dell’autorità giudiziaria, alla quale solamente è dato di ordinare nei congrui casi le ispezioni opportune (art. 153 cod. comm.)»4. D’altra parte, la banca cattolica non si presentò come un tipo nuovo di società creditizia, tale da poter suscitare reazioni di alcun genere da parte dell’ordinamento del settore. Al contrario, essa si avvalse di “modelli” già conosciuti di banca, assumendo cioè forme giuridiche sperimentate nel sistema, arricchite però della particolare qualificazione confessionale. Il fenomeno si articolò in tre fattispecie: la Cassa rurale cattolica e la Banca popolare cattolica, ambedue cooperative; la Banca cattolica

4 Cons. St., Sez. IV, 24 aprile 1896, in Foro it., 1896, III, 57. A questo riguardo, nella menzionata opera giovanile, Luzzatti aveva criticato quegli ordinamenti stranieri, che «vietano che sorga una banca senza una previa autorizzazione dello Stato, che può rifiutare o concedere la sua sanzione»; e proposto la diversa soluzione, espressione del principio di libertà delle banche, nella convinzione che «il sindacato della concorrenza le governa meglio che la sorveglianza dello Stato» (Luzzatti, La diffusione del credito e le banche popolari, a cura di Pecorari, Venezia, 1997, p. 131). In una seconda accezione, libertà delle banche stava a significare ammissione del pluralismo quanto al potere di emissione di biglietti fiduciari. Pure in questo campo si profuse l’impegno del Luzzatti, nella forma della collaborazione coi ministri delle Finanze che si occuparono del riordino della circolazione cartacea. Una prima volta, nel 1870, egli ebbe parte nell’impianto e nella stesura del progetto di legge Sella-Castagnola Sulla libertà delle banche. In esso si tentava di realizzare una singolare armonia tra la posizione di Quintino Sella, in via di principio favorevole al sistema dell’unica banca di emissione, e quella dello stesso Luzzatti, ostile al monopolio e gradualista. Il progetto, che ambiva a delineare un sistema creditizio funzionale alle esigenze dell’economia dello Stato unitario, tuttavia non fu mai discusso. Cfr. Polsi, Alle origini, cit., p. 90 ss. (la relazione, scritta dal Luzzatti, si legge in Atti Parlamentari, Camera, Documenti, Leg. X, sess. 1869-70, tornata dell’11 marzo 1870, doc. n. 49). Nel 1873 Luzzatti collaborò pure col Minghetti – presidente del Consiglio e, temporaneamente, titolare del ministero delle Finanze – alla stesura del progetto di legge Sulla circolazione cartacea durante il corso forzoso. Il progetto Minghetti-Finali, divenuto l. 30 aprile 1874, n. 1920 (c.d. prima legge bancaria), comportò l’avvio del processo di progressiva limitazione della libertà di emissione, della quale molto si erano avvalse le Banche popolari.

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propriamente detta, costituita come società anonima, che prestava assistenza finanziaria alle Casse5. Mentre del tutto marginale fu l’esperienza della Popolare cattolica, un successo travolgente riportò invece la Cassa rurale cattolica, così da superare ben presto per numero6 le Casse cc.dd. neutre, fedeli al modello originario, la Cassa di prestiti ideata da Leone Wollemborg7. Questa offriva il credito ai soli soci, realizzando così l’ipotesi più rappresentativa di cooperazione chiusa o mutualistica. Priva di un significativo capitale sociale di fondazione, non incentivava l’accumulazione del risparmio da parte dei soci: né sotto forma di sottoscrizione di nuove quote di capitale, a ciò ostando la severa prassi che ne escludeva la remunerazione; e neppure a titolo di depositi a risparmio, scoraggiati dai modesti tassi di interesse riconosciuti. E pertanto le Casse di prestiti8 dovevano procurarsi parte dei fondi necessari allo svolgimento dell’attività creditizia ricorrendo al mercato interbancario, accedendo cioè al risconto o attingendo ad aperture di credito presso altre banche. Esse servivano i piccoli centri rurali, esercitando il credito agrario, a breve e a lungo termine, in quegli ambiti limitati a favore dei soci là residenti. Il tenue tasso di interesse richiesto sui prestiti era «destinato a discendere col progresso della società, sia per l’allargarsi del suo capitale

5 La finalità risultava dallo statuto. V., ad esempio, l’art. 5 dello statuto della Banca cattolica S. Liberale di Treviso, in Le Casse rurali secondo Federico Guglielmo Raiffeisen. Cenni storici, in Civiltà cattolica, 1894, p. 684 s.: «Scopo della Società è favorire le Casse rurali del Veneto, fornendo loro il credito ad un interesse inferiore almeno di uno per cento allo sconto ordinario delle Banche». 6 Solo a partire dal 1911 si dispone di statistiche ufficiali relative alle Casse rurali. Per gli anni precedenti occorre far capo a notizie e dati contenuti in studi privati sull’istituto. Da questi si ricava che, nel quinquennio 1892-1896, mentre le Casse del sistema Wollemborg ammontavano rispettivamente a 74, 82, 89, 97 e 113, le Casse cattoliche erano 30, 66, 170, 379 e 649: v. le tabelle esposte nella relazione al disegno di legge Acerbo sull’ordinamento delle Casse rurali e agrarie, presentato alla Camera dei Deputati nella seduta del 13 maggio 1931 (A. P., Camera, Documenti, Leg. XXVIII, sess. 1929-31, doc. n. 966). 7 Su Leone Wollemborg (1859-1932), teorico della cooperazione e fondatore delle Casse di prestiti, v. un profilo biografico in Fornasari-Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia. Un profilo storico-economico (1854-1992), Firenze, 1997, p. 213. 8 Cf., in generale, Marconi, Casse di prestiti, in Dig. it., VII, Parte I, Torino, 18871896, p. 489. L’originaria denominazione, che bene rifletteva una certa dissociazione in questa banca esistente del servizio del credito ai soci dalla raccolta del risparmio, sarà gradualmente superata da quella di cassa “rurale” o “agraria”, che finalmente si affermerà nella legislazione speciale in ragione degli usuali luoghi di insediamento delle Casse e della specie del credito esercitato: la prima menzione delle “Casse agrarie o rurali” è nel regolamento 13 febbraio 1902, n. 72, di attuazione della l. 7 luglio 1901.

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di circolazione, sia per il formarsi e il crescere del fondo di riserva o patrimonio suo proprio, che gli utili annuali a poco a poco costituiscono»9. Infatti, non distribuendo dividendi sulle quote dei soci10, assegnavano gli utili11 conseguiti a rafforzamento del patrimonio e le riserve così formate erano dichiarate irripartibili fra i soci. L’assenza di capitale era surrogata dalla responsabilità illimitata e solidale dei soci stessi. Perché, argomentò il Wollemborg, «è dalla solidarietà personale dei soci, che l’istituzione potrà derivare la fonte della sua vita. Per effetto di questa, si riesce a dare al capitale la garanzia necessaria, senza capitale di garanzia. Si tratta, in sostanza, di una applicazione del principio assicurativo, sostituendo al rapporto di intensità quello di estensione, neutralizzando le minacce e i danni delle sventure individuali, rimuovendo o riducendo al minimo il rischio che spegne il credito e allontana il capitale»12. Tali caratteri – comuni sia alla Cassa di prestiti ideata dal Wollemborg, che a quella cattolica promossa da don Luigi Cerutti13 – avevano una precisa corrispondenza e un sicuro fondamento nella disciplina giuridica della società cooperativa, introdotta nel nostro ordinamento dal Codice di commercio del 188214.

9 Wollemborg, La Cassa cooperativa di prestiti di Loreggia, in Id., Scritti e discorsi di economia e finanza, Torino, 1935, p. 119. 10 Id., Il mostro poco scrupoloso del dividendo, in ibidem, 130: «Imperocché il dividendo è causa di un rincaro del credito, il quale si risolve in un vantaggio per i soci più abbienti, e che meno o punto vi hanno ricorso, a pregiudizio dei più bisognosi». 11 Il termine “utili”, riferito a una cooperativa mutualistica, è improprio. In realtà «i bilanci non si chiudono con utili, perché un’Associazione cooperativa dev’essere improduttiva di reddito sociale. Né può dirsi reddito quel capitale che va man mano formandosi colla differenza fra gli interessi corrisposti dai soci e quelli pagati dal Consorzio ai sovventori; perché quel fondo rappresenta un risparmio, vien destinato alla riserva, rimane sempre proprietà dell’intero sodalizio, ed i singoli soci non vi hanno individualmente alcun diritto»: Marconi, Casse, cit., p. 490. 12 Wollemborg, Le casse rurali, in Atti del settimo congresso delle Banche popolari italiane tenutosi a Cremona nei giorni 19, 20 e 21 settembre 1907, Associazione fra le Banche popolari, Roma, 1908, p. 316 s. 13 Relazione al disegno di legge Acerbo, Rocco, Mosconi, p. 14: «Le Casse dell’uno e dell’altro tipo sono identiche come forma giuridica e come funzione economica, secondo il modello comune di Raiffeisen». Sulla figura del Cerutti (1865-1932), v. il profilo biografico in Fornasari - Zamagni, Il movimento, cit., p. 197 s. 14 La società cooperativa poteva costituirsi secondo uno dei tipi conosciuti (società in nome collettivo, anonima, in accomandita), le cui discipline erano integrate da norme speciali (art. 219 cod. comm.). Tra queste (art. 220 ss.) erano fondamentali, tanto da rappresentare veri principi, quelle che stabilivano il voto capitario (art. 225, co. 2°), il limite massimo di possesso azionario, la variabilità del capitale (art. 222, co. 1°).

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3. Lo statuto giuridico delle Casse rurali cattoliche. La Cassa rurale cattolica ripeteva i tratti e riproduceva i limiti funzionali della Cassa di prestiti, da cui era germinata. Se ne differenziava per l’inserimento negli statuti di particolari previsioni in ordine ai requisiti dei soci e sulla destinazione degli utili di esercizio e del patrimonio di liquidazione. Sul primo punto, la formulazione corrente della clausola aggiungeva agli usuali requisiti quello della notoria non contrarietà alla Chiesa cattolica dell’aspirante socio15. La clausola, se non suscitò un vero e proprio contrasto di giurisprudenza in sede di omologazione degli statuti16, diede comunque luogo a qualche incertezza e provocò un approfondimento delle ragioni che ne fondavano la legittimità. Preliminarmente si osservò: «la legge (…) non prescrive alcuna restrizione o limitazione alle condizioni da stabilirsi nello statuto delle cooperative per l’ammissione dei soci, e ciò chiaramente risulta dal disposto del n. 1 dell’art. 220 del cod. di comm., il quale anzi contiene una illimitata facoltà nel fissare le condizioni stesse»17. Ma si avvertì anche che il potere dello statuto di disporre in materia non implicava il corrispondente potere di escludere il socio che avesse cessato di professare la fede: «secondo molti statuti, i soci devono appartenere a certe classi sociali, risiedere dov’è la sede della società, esercitare un certo mestiere, avere una fede politica o religiosa: queste restrizioni sono legittime poiché la cooperazione si alimenta coll’amore della classe, della cittadinanza, dell’arte e della fede. Ma l’obbligo imposto al socio di conservare quella fede politica o religiosa colla sanzione di

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V. il modello di statuto, proposto dall’Opera dei congressi cattolici in Italia, in Valenti, Cooperazione rurale, Firenze, 1902, p. 466: «Art. 4. Possono far parte della società soltanto persone giuridicamente capaci, che offrano la guarentigia dell’onestà e moralità individuale, che non siano notoriamente contrarie alla Chiesa cattolica ed al Governo costituito, che siano inscritte nei registri della popolazione della parrocchia di (…) o vi tengano frequente dimora, o vi abbiano relazione d’affari, sappiano scrivere il loro nome e cognome e non facciano parte di altre società a responsabilità illimitata». 16 Una sommaria ricognizione della giurisprudenza ha portato alla luce due soli casi in termini: v. nota seguente. 17 Caso di uno statuto che subordinava l’ammissione a socio di una cooperativa non bancaria alla partecipazione del richiedente a una determinata associazione confessionale (nella specie: Lega cattolica del lavoro di Roma e provincia): App. Roma, 18 maggio 1905, decr., in Riv. dir. comm., 1905, II, 481; in senso conforme, ma implicitamente, App. Parma, 25 luglio 1902, decr., ibidem, 1903, II, 49, con nota di Rodino, Le casse rurali cattoliche dinanzi alla giurisprudenza.

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essere escluso dalla società colla perdita della sua quota sarebbe contrario alla libertà di coscienza e non potrebbe ritenersi legittimo»18. A interpretazioni disparate diede poi luogo l’altra clausola qualificante, quella che destinava parte degli “utili” di esercizio o il patrimonio di liquidazione ad opere pie. Un’opinione estrema, rimasta isolata19, ravvisò nel patto statutario una violazione delle norme di diritto pubblico che disciplinavano l’esistenza di quegli enti. In questo ordine di idee, la Corte d’appello di Macerata20 rifiutò l’omologazione dello statuto di una Cassa rurale cattolica, nel presupposto che questa non avesse altro scopo che creare una congregazione religiosa in frode alle leggi eversive: «il contratto di società mira ad accumulare beni, abusando della fede dei credenti, sia per liberalità di terzi, sia per liberalità dei soci stessi, sia falsando l’indole del credito, delle industrie, del commercio, ricostruendo quello che il legislatore ha creduto nel bene generale dello Stato di distruggere: la manomorta; e, quel che è peggio, la manomorta illegale, la manomorta fraudolenta (…) È fatale per l’Italia questa forma in cui si manifesta uno spirito astioso e pervicace di reazione che tutta inquina la vita pubblica (…) Reprimendolo, il magistrato fa opera sana, contribuendo efficacemente a portare un’azione benefica che salverà il prestigio delle istituzioni». Una diversa tesi21 ritenne illegittima la clausola in discorso (nella specie, questa stabiliva che gli utili di esercizio potessero, a giudizio dell’assemblea, essere devoluti «o al fondo di riserva o ad un’opera cattolica, a beneficio dei soci») per contrasto con la funzione tipica della società

18 Vivante, Trattato di diritto commerciale², II, Torino, 1903, 374, mutando l’avviso espresso nella 1ª edizione (ibidem, II, Parte I, 1894, 21 s.). Nel vigore del Cod. civ. 1942, Bragantini, Gli statuti delle Banche popolari, a cura e con introduzione di Pipitone, Roma, 2008, pp. 136, 146. 19 Trib. Casale, 15 giugno 1897, in La giurisprudenza, 1897, p. 954; App. Macerata, 16 aprile 1898, in Giur. it, 1898, 2, p. 569. V. il modello di statuto in Valenti, Cooperazione rurale, cit., p. 467: «Art. 9. Gli utili netti saranno devoluti al fondo di riserva. Quando però questo fondo si sia aumentato così da esser sufficiente ai bisogni della società, l’amministrazione dovrà erogarne i frutti ad un’opera cattolica, a scelta dell’assemblea generale». Il successivo art. 10, ibidem, disciplinava l’ipotesi della devoluzione del patrimonio sociale in caso di scioglimento della Cassa: «Ove la società si sciogliesse, il capitale sociale o sarà interamente erogato a vantaggio di un’opera cattolica, ovvero depositato presso la medesima, affinché lo conservi, godendone i frutti, fino a tanto che sorga nella parrocchia (…) quella istituzione cattolica che, per voto dell’assemblea generale, potrà venire in possesso dello stesso capitale». 20 App. Macerata, 16 aprile 1898, decr. 21 Trib. Parma, 17 aprile 1902, decr., riportato in sintesi in Rodino, Le casse, cit., p. 49.

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cooperativa, individuata nella finalità di «ripartire in tutto od in parte i profitti fra i soci, o di ripartirli fra i soci e coloro che contribuirono a produrli, a misura della loro rispettiva cooperazione»22. Analogamente, un altro tribunale ritenne che «una società in cui gli utili, conseguiti mercè la cooperazione, non vanno ad incremento del capitale sociale e a continuato profitto di chi li produsse; in cui tutti gli sforzi sono diretti invece a distrarli in vantaggio altrui, non può ritenersi certo società cooperativa secondo i concetti e precetti della legge vigente, e non può essere perciò, come tale, approvata»23. Queste pronunce mettevano in luce la sofferenza della giurisprudenza nell’affrontare la questione delle devoluzioni altruistiche nella società cooperativa24, in presenza di una disciplina di questa società che deliberatamente taceva25 sulla causa del contratto. Secondo Leone Bolaffio, un giurista che molto si occupò dell’istituto cooperativo, la clausola sulla destinazione degli utili regolava in realtà due distinte fattispecie, comportanti differenti valutazioni di validità. L’attribuzione del patrimonio ad un’opera cattolica al tempo dello scioglimento della società – egli osservò – non sollevava dubbi di legittimità perché, «sciolta la società, l’attivo non più le appartiene; esso è nella libera disponibilità dei già soci,

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Il Trib. Parma aderiva al pensiero del giurista Cesare Vivante. V. in seguito. Trib. Bologna, 2 aprile 1901, decr., riportato per esteso in Bolaffio, nota ad App. Bologna, 11 giugno 1901, decr., in Temi ven., 1901, p. 457 s. 24 La questione si pone pure negli ordinamenti moderni. V. al riguardo Preite, La destinazione dei risultati nei contratti associativi, Milano, 1988, p. 253 ss. Va però segnalato che il Codice civile del 1942 tipizza la società cooperativa con riferimento allo “scopo mutualistico”, sia pure senza precisarne la nozione (art. 2511). E che la norma sulla distribuzione degli utili, come originariamente formulata, indicava, fra le destinazioni di questi, i “fini mutualistici”, non meglio individuati. Annota in proposito il Preite, La destinazione, cit., p. 256 che «L’art. 2536 c.c. vieta una eterodestinazione degli utili non qualificata. Gli utili non distribuiti ai soci e non assegnati a riserva legale debbono essere infatti destinati a fini mutualistici. A prescindere dall’esatto significato di questa nozione (…), è certo che ciò esclude che ogni destinazione a terzi possa considerarsi legittima». 25 È nota la motivazione della scelta del progetto Mancini – trasfuso pressoché inalterato nel Codice – di non caratterizzare la società cooperativa con lo scopo mutualistico: perché «l’idea essenziale della società cooperativa va ricercata, più che nel diritto, nella scienza economica». V. il progetto Mancini – Majorana Calatabiano (A. P., Senato, Sessione 1876-77, Documento n. 86) e la relazione in Relazione del Ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti (Mancini) od esposizione dei motivi del Progetto del Codice di commercio pel Regno d’Italia presentato al Senato del Regno nella tornata del 18 giugno 1877 dallo stesso Ministro di concerto col Ministro di Agricoltura e Commercio (Majorana-Calatabiano). Col testo del Progetto, Roma, 1878. 23

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i quali possono, ora per allora, vincolarsi reciprocamente a devolverlo ad un determinato scopo». Ben diversa si presentava l’altra ipotesi – la devoluzione di utili ad una opera cattolica durante l’esercizio della società – perché «in tal caso è la società, in apparenza cooperativa, ma sostanzialmente religiosa, che si perpetua protraendo la propria esistenza ad ogni scadenza legale della sua durata, e così consolida e vivifica in sé stessa e per sé stessa un patrimonio autonomo, permanente, devoluto ad uno scopo religioso, che è il vero obbiettivo della unione (…) Così il fondo sociale divenuto autonomo, impersonale, permanente quanto lo scopo cui è consacrato, assume carattere e valore di vero corpo morale, senza la necessaria legittimazione da parte dello Stato. Questo è il pericolo»26. Di fatto la giurisprudenza non seguì alcuno dei riferiti indirizzi restrittivi, e riconobbe dunque la legittimità della clausola in base all’argomento della coesistenza, nella cooperativa cattolica, dello scopo principale, economico, con uno scopo accessorio, morale e religioso27.

4. Le Casse rurali cattoliche nel movimento cooperativo. Il pensiero liberale del tempo condannò il carattere confessionale della nuova istituzione, rifacendosi a un principio cooperativo generalmente accettato28. Se a volte si sostenne che, per il fatto di aver deviato dalla finalità economica, le Casse cattoliche andavano incontro a rovina, per lo più si riconobbe la capacità di esse di avvicinare al credito gli strati della popolazione che più ne erano esclusi, in particolare nelle campagne29, contrastando efficacemente il fenomeno dell’usura. In ogni caso si ebbe chiara la percezione del successo nell’immediato conseguito dall’impresa cattolica. La breve rassegna che segue offre la varietà di opinioni.

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Bolaffio, nota ad App. Bologna, 11 giugno 1901, decr., cit., p. 459. V. complete indicazioni in Rodino, Le casse, cit., p. 53, che aderisce all’orientamento dominante; nello stesso senso, Valenti, Cooperazione, cit., p. 91 s., e p. 95. 28 Il principio della aconfessionalità era ugualmente affermato – insieme con quello dell’apoliticità – per le società di mutuo soccorso; un mutuo soccorso confessionale venne manifestandosi a partire dal 1870: Cherubini, Profilo del mutuo soccorso in Italia, dalle origini al 1924, in Previdenza sociale, 1961, p. 37; Marucco, Mutualismo e sistema politico. Il caso italiano (1862-1904), Milano, 1981, p. 180, testo e nt. 58. 29 Una rilettura critica del funzionamento delle Casse rurali cattoliche, per la mancata coincidenza in esse dei soci fruitori del credito coi soci effettivi titolari del potere decisionale, è svolta da Gheza Fabbri, Crescita e natura delle Casse rurali cattoliche, in Quaderni storici, 1977, 36, p. 789 ss. 27

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Molto duro fu il giudizio di Leone Bolaffio, il quale nell’opera richiamata osservò: «quanto allo aggiungere o al sostituire al criterio economico della solvenza e della onestà un criterio religioso o politico è affare che riguarda quelle istituzioni che probabilmente in questo modo coltivano in sé il germe della propria dissoluzione!»30. Parzialmente diversa fu la valutazione di un acuto studioso della cooperazione, Ghino Valenti, il quale ritenne che, di per sé, iniziativa economica e finalità religiosa possano convivere, a condizione che «il fine economico rest[i] prevalente e se l’interesse morale» – un programma religioso, sociale o politico – «non [sia] veramente che un mezzo per cementare più solidamente l’unione e quindi per poter meglio soddisfare il bisogno economico degli associati»31. Una posizione equilibrata fu quella assunta da Filippo Virgilii, economista e cooperatore, in una voce enciclopedica sulla Cooperazione che ha anche il pregio di illustrare le linee essenziali dello sviluppo nel Paese delle Casse rurali cattoliche. In essa l’autore riconosce l’importanza della funzione delle Casse – «utile complemento delle banche popolari» –, ne segnala «l’enorme rapidissima diffusione di fronte al lento sviluppo delle Casse rurali fondate dal Wollemborg», ne mette altresì in luce il principio di organizzazione a sistema che esse ormai sono riuscite a darsi. «A cominciare dal 1892, un sacerdote di una modesta cura della diocesi di Venezia, don Luigi Cerutti, coadiuvato dal prof. Nicolò Rezzara, fondò le prime casse rurali cattoliche, copiandone l’organizzazione dal Wollemborg, ma esigendo strettamente che i soci di esse appartengano alla religione cattolica. La propagazione di queste casse è stata rapidissima, meravigliosa. Fra il 1892 e 93 se ne costituirono un centinaio (…) nel primo semestre del 1896 erano già 705. Le casse rurali cattoliche sono unite in federazioni, a seconda delle varie diocesi cui appartengono, e, con atto 5 maggio 1896, hanno costituito una cassa centrale con sede a Parma, la quale favorisce loro il credito, scontando effetti cambiari e concedendo prestiti agrari ed altri prestiti contro ipoteca». E tuttavia al giudizio positivo dell’economista fa subito seguito il biasimo del cooperatore per la deviazione in senso confessionale dell’istituzione: «noi ammiriamo questa intensa attività feconda di vantaggi economici alle classi agricole, ma dobbiamo deplorare il carattere confessionale intransigente di queste istituzioni: mentre il Wollemborg, che

30 Bolaffio, nota ad App. Bologna, cit. Aggiunge l’A., ibidem: «si contano ormai a migliaia le cooperative cattoliche con statuti foggiati sul medesimo modello». 31 Valenti, Cooperazione, cit., p. 42 e p. 88 ss.

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è israelita, accoglieva il parroco della parrocchia nello stesso Consiglio d’amministrazione della cassa, dando prova di libertà e di tolleranza, le casse cattoliche escludono dal loro seno non solo gli acattolici ma i miscredenti in genere, facendo servire la cooperazione e il credito a scopi e a fini religiosi e politici»32. La denuncia, da parte della cooperazione liberale, di una sorta di degenerazione della Cassa rurale cattolica rispetto al modello Wollemborg incontrò però l’obiezione per cui, se deviazione c’era stata, essa era semmai attribuibile proprio al Wollemborg: nel trasporre nella società italiana la banca tipo Raiffeisen, il fondatore delle Casse di prestiti – replicò la Civiltà cattolica – ne aveva infatti rimosso l’originaria connotazione religiosa33. Il successo travolgente della Cassa cattolica, a confronto con l’andamento delle Casse “neutre”, stava piuttosto a dimostrare, scrisse Giuseppe Toniolo,34 che «sì alte idealità finali, tutt’altro che argomento mortifero per gli istituti cooperativi, formano le ragioni intime della loro fecondità»35. Un altro genere di considerazioni – usuale nella pubblicistica del Credito popolare36 – muoveva dalla particolare situazione del Belgio, Paese nel quale erano floride le cooperative socialiste e quelle cattoliche, del tutto assente la cooperazione liberale; eppure, si sosteneva, maggiori progressi esse avrebbero potuto compiere solo che si fossero liberate dai condizionamenti che il credo religioso o politico imponeva loro. A dar forza

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Virgilii, Cooperazione, in Dig. it., VIII, Torino 1898-1900 (la “voce” è datata 15 giugno 1899), p. 811. Su Filippo Virgilii (1865-1950), docente di economia e statistica all’Università di Siena, presidente del Comizio agrario e fondatore della cattedra ambulante di agricoltura della stessa città, v. Marucco, Lavoro e previdenza dall’Unità al Fascismo. Il Consiglio della previdenza dal 1869 al 1923, Milano, 1984, p. 55 s. 33 Le Casse rurali secondo Federico Guglielmo Raiffeisen, cit., p. 678 s.: «Diremo tuttavia che se il Wollemborg non richiese esplicitamente lo spirito religioso, neppure lo escluse (…) Nella pratica lasciò fare». Lo studio informa (ibidem, a nt. 1) che il Wollemborg, nella fondazione e nell’amministrazione delle Casse, si avvalse spesso della collaborazione di parroci. 34 Giuseppe Toniolo (1845-1918), economista e sociologo, fondò nel 1889 l’Unione cattolica per gli studi sociali. Nel 1894 formulò il primo programma politico cristiano democratico, il Programma dei cattolici di fronte al socialismo. 35 Toniolo, Per la storia del movimento cooperativo. Criteri e documenti, in Democrazia cristiana. Istituti e forme, I, Comitato Opera omnia di Toniolo, Città del Vaticano, 1951, p. 491. 36 Costituita dai numerosissimi discorsi e scritti di Luigi Luzzatti, in gran parte riprodotti nelle Opere e nelle Memorie, e dalla rivista bisettimanale Credito e Cooperazione, organo dell’Associazione fra le Banche popolari italiane e del patronato dei sindacati agricoli.

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all’assunto si portava l’esempio dell’Inghilterra, patria della cooperazione liberale, i cui risultati non temevano confronti.37 «In Italia», annotò amaramente Luigi Albertini38, le cooperative più potenti «si scindono invece di camminare per quella via in cui tutte avrebbero potuto incontrarsi per fare un fascio delle loro forze, per federarsi in un’associazione dalle proporzioni grandiose, si sperdono in direzioni opposte». L’unità del movimento cooperativo39 era dunque messa in pericolo, a tutto danno della cooperazione liberale, dall’affermazione di quella cattolica e di quella socialista.

5. “E se si aiutassero?” Negli anni 1894-95 la polemica tra liberali e cattolici monta in concomitanza con il decisivo aumento del numero di Casse cattoliche40. Gli argomenti addotti contro o a favore delle nuove istituzioni economiche sono ricorrenti: da un lato, se ne indica l’essenziale “difetto” nel fatto che

37 Vedi, fra i tanti, Albertini, Il socialismo e la cooperazione nell’alta Italia, in Credito e Cooperazione (14 aprile 1898), in cui il direttore della Rivista a proposito delle cooperative socialiste osserva: «Quanta gente si assocerebbe a quelle provvide istituzioni [la Maison du Peuple di Bruxelles e il Vooruit di Gand] se lo statuto non prescrivesse che per essere socio il faut adhérer au programme du parti ouvrier (…) ma nel Belgio un partito di persone che quando comperano mercanzie non domandino se il mercante va alla messa tutte le domeniche, oppure tiene appeso sopra il letto il ritratto di Marx vicino al manifesto del ’48 non esiste. Là non vi sono che clericali e socialisti i quali fra di loro si odiano così cordialmente che nulla possono avere di comune, nemmeno una cooperativa (…) chi scrive queste righe ha peregrinato per le città del Belgio (…) non può dimenticare la prima spiegazione del movimento cooperativo datagli dal vescovo di Liegi: “Ci sono le cooperative socialiste, e sono cattive; ci sono le nostre, e sono buone”». 38 Su Luigi Albertini, v. De Lucia Lumeno, Luigi Albertini direttore di “Credito e cooperazione”, Roma, 2009. 39 Secondo Valenti, Cooperazione, cit., p. 88, invece, l’ingresso delle Casse cattoliche era fattore di arricchimento del movimento cooperativo. Non solo. Un regime di totale libertà associativa avrebbe consentito ai soci di cooperative cattoliche di uscire da queste e confluire in quelle neutre: «Molti di coloro che partecipano alle banche e casse cattoliche non sarebbero, altrimenti, forse entrati nell’ambito della cooperazione. Dunque tanto di guadagnato (…) Formata l’educazione, l’abitudine cooperativa, le medesime ad ogni modo resteranno e gli ascritti alle società confessionali o politiche vedranno poi, per la loro stessa esperienza, se loro non convenga abbandonarle, e partecipare a quelle che, basate sui principii di libertà e di reciproca tolleranza, possono meglio raggiungere il fine economico». 40 Le Casse rurali cattoliche e “la grande controversia”, in Civiltà cattolica 1985, 46, II, p. 6 s.: «mentre i cattolici dal settembre 1894 alla metà di marzo aprirono circa settanta nuove Casse rurali, i liberali non ne misero in piedi neppur una».

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«il fine religioso sovrasta all’economico, e questo si vuole raggiungere per ottenere più facilmente quello»41; dall’altro, si insiste nel ravvisare nell’attività del Cerutti una riscoperta del carattere originario delle Casse42, la «redenzione (…) dell’opera stessa del Raiffeisen de manibus filiorum Israel per darla in quelle dei cattolici, più proprie, più naturali all’intento, e meglio addestrate ad operare secondo lo spirito dell’istituzione»43. Ma il tono del dibattito infine degenerò per i violenti attacchi portati da certa stampa liberale del Veneto, «che incitava a combattere e sopprimere le istituzioni cattoliche come dannose alla vita dello Stato»44. Fu allora che si levò la voce di Luigi Luzzatti a pacare gli animi, a restaurare il principio di libertà. Nel numero del 1° gennaio 1895 di Credito e Cooperazione comparve un articolo a sua firma dall’eloquente titolo E se si aiutassero?: «in più luoghi la Banca cooperativa agraria comincia a sentire l’azione della Cassa rurale cattolica. A noi, da varie parti, giungono domande urgenti di consiglio (…) Noi non abbiamo mai temuta la concorrenza nel bene; il risparmio genera il risparmio; il credito a buon mercato e umanamente distribuito ne fa sentire più vivo il desiderio; non vi è nulla d’inutile o di superfluo quando l’intento sia alto e buono (…) Così dicasi del credito agrario popolare, in una nazione ancora afflitta dalle usure invadenti e multiformi. Ogni Istituto le combatterà col proprio metodo (…) [le Banche popolari agrarie] aiutino senza restrizioni né materiali, né mentali le Casse rurali; le aiutino coi liberali risconti, le aiutino accreditandole largamente. Non vedano un rivale, ma un collaboratore, che giunge a quegli ultimi filamenti, a quegli embrioni di cellule, alle quali non arriva di consueto la Banca popolare. A poco a poco si farà

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Contento, Le casse rurali e il movimento cattolico, in La riforma sociale, 1895,

p. 51. 42 Le Casse rurali cattoliche e “la grande controversia”, cit., p. 16: «I cattolici non hanno modificato le Casse rurali introdotte in Italia dal Wollemborg, sì bene le hanno rimesse a nuovo secondo il loro primitivo e genuino concetto, quali furono fondate dal Raiffeisen». 43 Le Casse rurali secondo Federico Guglielmo Raiffeisen, cit., p. 681. 44 Tramontin, La figura e l’opera sociale di Luigi Cerutti. Aspetti e momenti del movimento cattolico nel Veneto, Brescia, 1969, p. 177. A dire il vero anche da parte cattolica si utilizza a volte un linguaggio non proprio misericordioso, come quando, ad esempio, discorrendosi dell’iniziale composizione promiscua dei corpi sociali delle Casse, si fa riferimento a «quattro mascalzoni senza fede e senza onestà; che al postutto», afferma con sicurezza l’autore dell’articolo, «a questo solo si riduce nei nostri paesi di campagna la metà non cristiana de’ contadini»: Le Casse rurali cattoliche e “la grande controversia”, cit., p. 17.

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una cernita spontanea, una specie di divisione di lavoro nei fidi e ci guadagnerà la patria agricoltura (…) I liberali studino il modo di rendere più intensa l’azione della Banca popolare; tolgano essi il dissidio offrendo aiuti alle Casse rurali in luogo di considerarle degli avversari o dei concorrenti. Temiamo che il nostro consiglio parrà fiacco, ma non ne sappiamo dare un altro, pur aprendo le colonne del nostro giornale a quegli egregi che da noi dissentissero»45. L’invito a dissentire fu prontamente accolto. Già il numero successivo della Rivista46 recava, appunto, la netta presa di distanze di Gaetano Schiratti, storico presidente della Banca popolare di Pieve di Soligo47. Le Casse rurali – egli scrisse in risposta all’appello del Luzzatti 48 – erano divenute preda della «propaganda clericale-politica», interessata ad acquisire «falangi di elettori sicuri per le elezioni amministrative, e più tardi, quando la rete delle Casse [sarebbe stata] più completa, per quelle politiche (…) Scopo del partito clericale» era quello «d’impossessarsi delle pubbliche amministrazioni con intendimenti ostili alle istituzioni dello Stato». A riprova di tale finalità lo Schiratti portava la circostanza che nel Veneto organo delle Casse era «La vita del Popolo49, noto giornaletto settimanale quant’altri mai antipatriottico e sovversivo, diretto

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Luzzatti, E se si aiutassero?, in Credito e Cooperazione (1° gennaio 1895), p. 3. L’articolo del Luzzatti, la risposta di Gaetano Schiratti, le rispettive repliche, un intervento di padre Lodovico de Besse e relativa risposta dello Schiratti (pubblicati nei numeri dal 133 del 1° gennaio al 138 del 15 marzo 1895 di Credito e Cooperazione) – unitamente a due lettere del padre de Besse comparse sull’Osservatore Cattolico di Milano (aprile e maggio) – possono tutti leggersi anche negli Allegati agli Atti del sesto congresso delle Banche popolari italiane tenutosi a Bologna nei giorni 19, 20 e 21 ottobre 1895, Associazione fra le Banche popolari, Roma, 1896, V ss. (da cui si citerà in seguito). 46 Credito e Cooperazione, organo dell’Associazione fra le banche popolari italiane, costituì “luogo di scambio di informazioni e di dibattito politico per tutto il settore cooperativo”: Polsi, “Indipendenti sempre, isolate mai”. L’Associazione fra le banche popolari italiane dalle origini al 1914, in Società e storia, 1996, 332. 47 Gaetano Schiratti, avvocato, fondò il 15 agosto 1870 la Banca popolare di Pieve di Soligo. Fu deputato. La sorella Maria sposò Giuseppe Toniolo. 48 Schiratti, E se si aiutassero? Risposta, in Atti del sesto congresso delle Banche popolari italiane, cit., VI s. 49 Ironizzando sul tono indulgente di un passo della Civiltà cattolica, che attribuiva al settimanale cattolico Vita del Popolo “brio e vivacità” di scrittura, Contento, Le Casse rurali e il movimento cattolico, cit., p. 60, nt. 2, informa che lo stesso «usa un linguaggio violentissimo e fu parecchie volte sequestrato per offese alle istituzioni ed eccitamento all’odio fra le classi sociali».

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da clericali politicanti intransigenti». Nessun aiuto alle Casse, dunque; diversamente, «collaboreremmo ad inquinare anche il credito popolare di politica». In un successivo articolo, rispondendo alla replica del Luzzatti, lo Schiratti aveva modo di precisare il proprio pensiero: egli era contrario alle Casse non perché cattoliche, «ma perché esse quasi tutte si fondarono e si fondano con intendimenti politici che nessuno di noi può approvare»50. Nella “grande controversia” intervenne dalla Francia il cappuccino Lodovico de Besse con una lettera, anch’essa pubblicata da Credito e Cooperazione, con cui metteva in guardia dal fare delle Casse rurali «strumenti di costrizione confessionale»51. Padre de Besse aveva anche fatto pervenire all’Osservatore cattolico una lettera di protesta per un pesante articolo di don Luigi Cerutti, da quella Rivista ospitato, in cui gli era attribuito il proposito di «attentare alla purezza delle Casse rurali cattoliche d’Italia, intaccandole col liberalismo»52. La Civiltà cattolica ebbe parole dure contro il padre de Besse. Essa rimproverò al frate di «far lega coi framassoni di Francia nella Société de Propagation, la quale venne a creare un forte ostacolo all’istituzione delle Casse rurali Raiffeisen promosse dal Durand, dividendo i cattolici e seminando diffidenze e discordie». Ironizzò, poi, sulla serietà del dibattito provocato dal Luzzatti, «giacché non v’è gara tra chi corre nel circo e chi ne sta fuori in ozio (…) La controversia, anzi la grande controversia, com’è chiamata più volte dall’onorevole Luzzatti, sta tutta nel solo campo liberale (…) Di questa grande controversia noi cattolici non c’eravamo quasi accorti». E, ancora con tono irridente, respinse l’offerta di aiuto: «per compassione verso tutta codesta buona gente, che tanto si affanna per sapere se debbono o no aiutarci, vogliamo qui suggerire l’unica vera soluzione al problema (…) Le Casse rurali cattoliche non hanno mai avuto bisogno dell’aiuto delle Banche popolari, non l’hanno ora, né l’avranno in seguito (…) le Banche popolari (…) non c’ispirano fiducia nessuna e quindi non possiamo e non dobbiamo a loro ricorrere (…) tutta l’apparente magnanimità del Luzzatti nel non volere che il bene per amore del bene

50 Schiratti, E se si aiutassero? Segue, in Atti del sesto congresso delle Banche popolari italiane, cit., X. 51 De Besse, E se si aiutassero?, in Atti del sesto congresso delle Banche popolari italiane, cit., XIII. 52 Id., Lettera all’”Osservatore Cattolico” di Milano, in Atti del sesto congresso delle Banche popolari italiane, cit., XVI.

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si risolve in fumo (…) Voi vorreste inquinare la purezza della nostra Istituzione con la tabe del liberalismo»53. La Civiltà cattolica giudicò la proposta di collaborazione del Luzzatti come una iniziativa interessata: i «secondi fini, non punto lodevoli e non degni d’animo leale» del fondatore delle Banche popolari risultavano chiaramente già dall’interrogativo retorico che l’esponente liberale aveva posto al centro della “controversia”: «non val meglio riconoscerle, dirigerle, penetrarle con le influenze sane?»54; e, ancora, dal passo in cui, ricordando come le Casse di risparmio di Venezia e di Padova soccorressero «le Casse rurali senza cercare la loro origine, il certificato della loro fede sociale», Luzzatti aveva invitato le Popolari ad operare allo stesso modo, nella convinzione che «le influenze sane» delle banche liberali avrebbero “giov[ato] a migliorarle”55. Ma ci fu anche, fra i cattolici, chi si dissociò dalla critica generalizzata. A Giuseppe Toniolo, “l’economista di Dio”,56 riuscì di scorgere, nell’iniziativa luzzattiana, dal fronte cattolico intransigente liquidata come subdolamente prevaricatrice, almeno un aspetto positivo. «Ciò che probabilmente tentava di fare in Italia L. Luzzatti con la lettera pubblicata nel giornale della cooperazione», scrisse il Toniolo, era del tutto analogo a quanto già avvenuto in Francia: un accordo, cioè, fra le due componenti del movimento cooperativo che, salvaguardando le rispettive autonomie, «stabili[sse] di tenere congressi annuali comuni e di pubblicare le comuni loro notizie in un bollettino speciale di carattere impersonale ed esclusivamente scientifico»57. Molti anni più tardi, un ottuagenario Luzzatti avrebbe rinnovato l’appello a conclusione di una conferenza tenuta al Corso superiore della Cooperazione e Mutualità agraria in Roma. Nel 1921 la cooperazione liberale era pressoché scomparsa, e di ciò si mostrò ben consapevole l’oratore: «Parrebbe che non vi fossero più in Italia che due cooperazioni: la cattolica e la socialista. E come discutono ora talvolta sulla possibilità di governare insieme lo Stato, paiono intendersi, per sottintesi, sulla esclusione delle cooperazioni liberali aperte a tutti». Ora, che l’unità del

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Le Casse rurali cattoliche e “la grande controversia”, cit., passim. Luzzatti, Replica, in Atti del sesto congresso delle Banche popolari italiane, cit., IX. 55 Ibidem, XI s. 56 Cf. Sorrentino, L’economista di Dio. Giuseppe Toniolo, Roma, 2012. 57 Toniolo, Per la storia, cit., p. 483 a nt. 1. Nella medesima Opera l’A. dà atto al Luzzatti di avere un atteggiamento benevolo verso «il movimento sociale dei cattolici in Italia» (ib., 493). 54

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movimento cooperativo non era più che un lontano ricordo, parve comunque possibile al vecchio statista avanzare a cattolici e socialisti una proposta, quella di costituire “una rappresentanza comune” in seno alle nascenti istituzioni cooperative internazionali. «Vada ogni gruppo cooperativo per la sua via», disse, «conservi la sua individualità; ma quando si tratti di interessi fondamentali riguardanti tutte le forme e tutti i colori della cooperazione, vi sia un pensiero comune che li unisca»58.

6. “Inquisizione laica”. Il dibattito sulla “grande controversia” da Luzzatti promosso su Credito e Cooperazione, estesosi a «moltissimi giornali italiani e stranieri»59, era preordinato a un momento centrale, decisorio60, individuato nel Congresso delle Banche popolari. Al primo punto dell’ordine del giorno del Congresso di Bologna figurava proprio l’“atteggiamento” da «tenere (…)

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Luzzatti, I partiti liberali e la cooperazione in Italia, Roma, 1921. Id., La grande controversia, in Atti del IV congresso delle banche popolari italiane, cit., p. XII. Vedi anche Le casse rurali cattoliche e un’altra “grande controversia”. Un po’ di storia, in Civiltà cattolica, 1896, VI, p. 386 s.: «Questa medesima questione fu sollevata quasi contemporaneamente anche in Francia, in Germania, nel Belgio, nell’Inghilterra». Cf. Tramontin, La figura, cit., p. 203 a nt. 22. 60 Secondo un modo di procedere usuale all’azione del Luzzatti, quando venivano in gioco questioni di principio essenziali. Così, nel 1877, in prossimità della discussione in Parlamento del “mostruoso” progetto di legge Majorana-Calatabiano sul riconoscimento delle società di mutuo soccorso, egli aveva presieduto un congresso di quelle società per provocarne le critiche allo stesso e scritto in materia non pochi articoli: «onde offrire al Parlamento, prima della discussione, il sussidio della critica competente delle fratellanze operaie, e migliorarlo. Intanto pubblicava nel Sole (…) dieci articoli sull’argomento» (Luzzatti, L’ordine sociale, Bologna, 1952, p. 325); e v., in tema, Marucco, Mutualismo e sistema politico, cit., p. 89; Manacorda, Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi (1853-1892), Roma, 1953, p. 120 ss. Ugualmente, nello stesso anno, Luzzatti aveva posto in essere un’intelligente operazione propagandistica e culturale finalizzata all’approvazione di una specifica disciplina giuridica delle società cooperative. A questo scopo fece pervenire alla Commissione ministeriale incaricata della riforma del Codice di commercio studi predisposti in materia dalla neocostituita Associazione fra le Banche popolari, della quale era presidente; e ottenne che la Commissione stessa rendesse pubblica la relazione provvisoria da questa redatta sul tema; infine, «qua e là sopra accreditati giornali, e scientifiche Riviste, fecero capolino notevoli articoli dei professori Luzzatti, Virgilio, Errera ed altri tali»: Ravà, Appunti bibliografici, in Rivista della beneficenza pubblica e degli istituti di previdenza, 1877, p. 161 s. Cf. Pipitone, Introduzione a I Congressi delle Banche popolari 1877-1907, I, Roma, 2012, p. LXVIII ss. 59

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rimpetto al movimento cooperativo cattolico e alla propaganda socialista». L’iniziativa luzzattiana giunse, però, tardiva. Il rapporto coi socialisti era ormai prossimo alla fine61. Quanto alla cooperazione cattolica, poi, non emersero dagli interventi congressuali elementi di novità rispetto agli orientamenti in precedenza maturati. E pertanto, da questo punto di vista, l’azione del Luzzatti si risolse in un nulla di fatto, avendo egli ottenuto l’approvazione dell’assemblea su un programma diverso, certamente più limitato dell’iniziale proposito: «in realtà la tesi del Luzzatti prevalse quanto alla libertà ma non quanto all’aiuto»62. Del resto, già nel discorso inaugurale63 il presidente delle Popolari, che era il relatore del tema, anticipò i punti essenziali della propria posizione su di esso, mettendo da parte la possibilità di “aiutare” la Casse cattoliche. Piuttosto egli si concentrò sull’affermazione dei valori della cooperazione liberale, aperta a tutti e ciononostante ingiustamente dipinta dalla stampa catto-

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Al Congresso di Milano del 1886 fu fondata la Federazione nazionale delle cooperative, che accolse il principio della neutralità politica e religiosa. Nell’occasione, però, «una minoranza di socialisti operaisti e repubblicani cercò di forzare il significato della fondazione del nuovo organismo facendo approvare il principio secondo il quale il comitato avrebbe dovuto appoggiare “i movimenti di organizzazione e di miglioramento delle classi lavoratrici”. In questo modo», commenta Zeffiro Ciuffoletti, «fin dal congresso di fondazione vennero a fronteggiarsi le due linee che caratterizzarono poi anche il dibattito successivo prima che i socialisti riuscissero a conquistare l’egemonia all’interno della Lega»: Ciuffoletti, Dirigenti e ideologie del movimento cooperativo, in Il movimento cooperativo in Italia. Storia e problemi, a cura di Sapelli, Torino, 1981, p. 115 s. Dieci anni più tardi un esponente di primo piano del movimento, Enea Cavalieri, sarebbe uscito dalla Lega delle cooperative, denunciando la politicizzazione della stessa. Credito e Cooperazione ne pubblicò la lettera di dimissioni (Credito e Cooperazione n. 20-21 del 15 ottobre – 1° novembre 1896), la risposta di Antonio Maffi, presidente della Lega, e una replica del Cavalieri (n. 22-23 del 15 novembre – 1° dicembre). Dichiarò Maffi: «la Lega, pur concordando la sua azione, come prescrive il proprio statuto, al movimento generale per il miglioramento della classe lavoratrice, non dovrà servire mai di piattaforma alle esigenze politiche o confessionali di nessun partito». E tuttavia, l’influenza del partito socialista, forte dei successi conseguiti nello sviluppo della cooperazione di produzione e lavoro nelle campagne, crebbe vieppiù all’interno della Lega, emarginando dagli organi direttivi i vecchi esponenti del liberalismo sociale. Il solenne impegno del Maffi si rivelò così un semplice augurio, rimasto inattuato. Nel 1898 fu la volta delle “dimissioni” di Luigi Buffoli, del quale era stata respinta una proposta di modifica dello statuto del seguente tenore: «la Lega non si occupa né di politica né di religione. La cooperazione è un terreno neutro (…) ogni società che aderisce alla Lega riconosce che la cooperazione non deve servire di istrumento ad alcun partito». Fornasari - Zamagni, Il movimento cooperativo in Italia, cit., p. 61. 62 Tramontin, La figura, cit., p. 205 a nt. 29. 63 Atti del sesto Congresso delle Banche popolari italiane, cit., p. 105 ss.

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lica. Occorreva difendersi, sostenne, da quelle accuse portate alle istituzioni liberali, «chiamate con invettive non leggiadre: settarie, irreligiose, frammassoniche, atee»; e questa difesa, disse, non poteva che riposare sul «sentimento della nobile emulazione», nel «fare meglio dei nostri avversari». Così definiti i termini della questione, si intende perché Gaetano Schiratti si astenesse dal partecipare alla discussione, limitandosi a distribuire ai congressisti il cospicuo dossier contenente la corrispondenza e gli articoli pubblicati, preceduti da una sua Prefazione. Il resoconto del dibattito64 mostra come gli oratori fossero tutti concordi nell’escludere l’eventualità di soccorrere finanziariamente le Casse cattoliche, solo differendo le proposte di ciascuno sul contegno da adottare in generale verso la cooperazione confessionale. Primo a parlare fu Antonio Maffi, deputato radicale e presidente della Lega nazionale delle società cooperative. Egli ricordò al Luzzatti come, dall’iniziale diffidenza, fosse infine maturata nei socialisti una coscienza cooperativa; e tenne a rimarcare la «distinzione fra l’impossessarsi della funzione cooperativa per parte dell’elemento cattolico, da quello che riguarda la propaganda socialista. I cattolici tentano impadronirsene per scopi confessionali, i socialisti, invece, per cooperare, per lavorare con noi, perché l’esplicazione dell’attività di tutti abbia ad avere pieno vigore (…) Dunque i socialisti ben vengano fra noi: è una falange di apostoli convinti che viene a portare il contributo della loro energia». Il senatore Griffini, accantonata «la questione che riguarda il partito socialista» per non sminuire la rilevanza del tema delle Casse confessionali, fece propri “gli argomenti” già svolti dallo Schiratti e parlò di una vera e propria «guerra mossa contro l’integrità della patria» dai «rappresentanti di quel nemico interno e potente». Il socialista Barbanti si dichiarò incerto se convenire con la proposta del «venerando senatore Griffini: cioè di escludere questo movimento dallo sconto che le banche popolari e le casse di risparmio liberali potranno fare», o non fosse senz’altro preferibile, quale mezzo «dei più energici, (…) una legge di soppressione del movimento bancario confessionale». Anch’egli contrappose il modo di agire delle casse rurali, che, «facendo delle esclusioni di uomini, arrivano a raccogliere nei loro piccoli paesi numerose le adesioni», al “compito” del socialismo «di fare il bene, ma il bene per tutti, il bene della generalità umana, non solo quello di alcuni individui». Disse infine il Barbanti: «la vita ora si svolge fra due poli: il socialismo e il conservatorismo cleri-

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Ibidem, p. 268 ss.

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cale». Sfuggivano alla percezione dell’oratore i principi della cooperazione liberale, nella convinzione che le sorti dell’uomo dipendessero dalla scelta di uno solo dei due obiettivi: «chi teme, si fermi, vada indietro; chi ha fede, chi pensa, chi sente come noi, tragga forza dai palpiti nuovi, dalla simpatia del popolo». Il prof. Nitti65 si intrattenne sulla “evoluzione delle cose umane”, sui “bisogni delle masse”, dai quali la stessa cooperazione ebbe origine. Egli riconosceva l’esistenza delle tre forme, la liberale, la socialista, la confessionale: «le prime due però non esercitano alcuna costrizione sulle idee di coloro che ne fanno parte (…) La cooperazione confessionale non solo è mezzo e non già fine, ma, ciò che è più ancora, esercita una costrizione sulla coscienza delle masse operaie cui nega di concedere un benefizio quante volte esse non siano o dicano di essere ascritte a una confessione religiosa». Questa “intransigenza”, la violazione cioè della libertà di coscienza posta in essere dalle cooperative confessionali, induceva lo studioso radicale, autore di una controversa opera sul “socialismo cattolico”66, a chiedere che i benefici della legge fossero ad esse “interdetti”. «Io credo», affermò, «che le associazioni cooperative confessionali siano contrarie a tutto lo spirito del nostro diritto pubblico: lo statuto e le pratiche di alcune di esse sono addirittura contrarie alle disposizioni del codice penale. La legge non deve quindi venire in loro aiuto; può bensì tollerarle, non deve certo aiutarle». Ultimo intervento fu quello del D’Apel, il cui pensiero si riassumeva nelle seguenti proposizioni: «clericali e socialisti sono un tutt’uno di fronte alla libera ed aperta cooperazione. Questi e quelli hanno lo stesso peccato, cioè di considerare la cooperazione come un mezzo di propaganda religiosa per gli uni, sociale per gli altri. Per noi la cooperazione è fine a se stessa, o, per dire più chiaramente, è argomento d’indole e competenza puramente economica».

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Francesco Saverio Nitti (1868-1953), fu docente di scienza delle finanze, deputato radicale dal 1904, ministro del Commercio con Giovanni Giolitti e del Tesoro con Vittorio Emanuele Orlando, presidente del Consiglio dal giugno 1919 al giugno 1920. 66 Nitti, Il socialismo cattolico, Torino, 1891. Criticato in Il socialismo cattolico, in Civiltà cattolica, 1894, XII, p. 641 ss. Sulla questione della denominazione del movimento sociale cattolico, v. le recenti sintesi di Bazzichi, Giuseppe Toniolo. Alle origini della dottrina sociale della Chiesa, Torino, 2012, p. 96 ss.; Preziosi, Giuseppe Toniolo, Milano, 2012, p. 199 ss.

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Intervenne infine il relatore67. Luzzatti chiamò a testimonianza dei superiori principi della cooperazione l’esempio dei due padri della cooperazione inglese, l’Holyoake e il Vansittart Neale: divisi per religione, ma uniti «dal comune ideale»; definì «ombroso e geloso» il patriottismo di chi invocava leggi che vietassero alle banche pubbliche di concedere sconti agli istituti confessionali; così come respinse l’idea di «rifiutare le guarentigie del diritto commerciale e negare la registrazione» ai medesimi. Fu un nobile discorso: «Io non ammetto che in nome della libertà civile si ristabilisca una specie di inquisizione laica (…) non dobbiamo sequestrare la libertà di quelli che da noi dissentono. Io difendo con eguale ardore il mio ideale e la libertà di costoro». Nella menzionata conferenza del 192168 Luzzatti avrebbe ricordato il “mirabile” Congresso di Bologna, «ove si diedero convegno i liberali di vecchio stampo, frammassoni di alto e puro ingegno, garibaldini reduci dalle patrie battaglie (…) si erano proposti ordini del giorno terribili (…) e dopo respinti gli ordini del giorno liberticidi, feci trionfare, alla quasi unanimità, il diritto di vivere che lo Stato, la legge dovevano concedere anche alle mutualità chiuse».

7. Il più importante Congresso della cooperazione, fino ad oggi, celebratosi in Italia. Gli esiti del Congresso di Bologna furono criticati dalla Civiltà cattolica, apprezzati dalla Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie69. La prima rilevò scrupolosamente alcune incoerenze del discorso del Luzzatti, deplorò che il dibattito si fosse concentrato sui soli cattolici, si preoccupò di riportare giudizi negativi da varia stampa espressi; soprattutto mostrò come le dichiarazioni dal Luzzatti rese nell’adunanza – «nel Congresso l’oratore fu dolce, fu mite, fu perfino generoso co’ cattolici» – differissero dai contenuti di un documento in quella sede distribuito agli intervenuti: «nella Relazione prevale un sentimento assai acre contro i cattolici».70 La Rivista del Toniolo, invece, scrisse della manifestazione come del «più importante Congresso

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Ibidem, p. 283 ss. Luzzatti, I partiti, cit., p. 7. 69 La Rivista fu fondata da Giuseppe Toniolo, insieme con Salvatore Talamo, nel 1893. 70 Le Casse rurali, cit., p. 385 ss., spec. p. 397. 68

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della cooperazione, fino ad oggi, celebratosi in Italia» e diede atto del commento moderatamente favorevole fattone dall’Osservatore Romano e di una lucida disamina, dai toni insolitamente moderati, della Vita del Popolo di Treviso71. La diversità di vedute delle due Riviste può ascriversi a ragioni diverse. È ben nota, ad esempio, la vera e propria devozione dal Toniolo nutrita verso il Luzzatti. Sentimento che però non gli impedì di registrare, con sofferenza – il suo epistolario è ricco di testimonianze al riguardo –, i cambiamenti di tono, gli arretramenti del “maestro” sul tema. La rilevata disarmonia può attribuirsi ad altre ragioni, e così a una parziale diversità di interessi – rispetto al medesimo evento – della Civiltà cattolica e della Rivista internazionale: la prima, tutta assorbita dall’analisi dei principi che giustificavano il primato della cooperazione cattolica; l’altra maggiormente sensibile nel cogliere, nei fatti di quel Congresso, i segni dello sviluppo dell’idea stessa della cooperazione. In questa direzione, a denotare la straordinarietà di quell’adunanza, deponeva già la qualità delle persone invitate al Congresso: oltre agli esponenti delle banche associate e ai rappresentanti dell’intero settore creditizio, un folto gruppo di deputati, alcuni senatori e, come la Rivista rilevò, «non pochi cooperatori esteri», circostanza per la quale il Congresso «prese un certo carattere d’internazionalità»72. A chiarire le ragioni di così qualificata presenza sta la testimonianza di un annuncio del Congresso fatto sul foglio milanese L’idea liberale dall’economista Ulisse Gobbi: ad esso avrebbero partecipato, «a differenza dei precedenti, le società cooperative di consumo e di produzione, parecchi economisti (…) La cooperazione si trova ora in un momento difficile: ora l’elemento degli esercenti, influentissimo nel campo elettorale e quindi anche nel legislativo, minaccia fiere rappresaglie specialmente contro la cooperazione di consumo che gli fa concorrenza»73. Questa indicazione, che ha per noi la massima attendibilità, è, del re-

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Cronaca sociale, in Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, 1895, IX, p. 489 ss. 72 Ibidem, p. 489. 73 Gobbi, Il congresso dei cooperatori, in L’idea liberale (20 ottobre 1895). Sul Gobbi, v. Marucco, Lavoro e previdenza, cit., p. 56. L’economista fu autore di pregevolissimi contributi nel dibattito scientifico sull’essenza della cooperazione e redasse lo schema normativo della società a capitale variabile nell’ambito del Progetto Vivante del 1921: Pipitone, Scopo mutualistico e forma cooperativa delle Banche popolari, Roma, 1997, p. 30 s.

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sto, avvalorata dall’inequivoco tenore del secondo punto dell’ordine del giorno del Congresso bolognese: «Dei pericoli minacciati alle Banche popolari e a ogni forma di Società cooperativa dai nuovi progetti di revisione del Codice di commercio e della vigente legislazione sulle Società cooperative». Nessun dubbio che la riforma avrebbe dovuto interessare tutte le società cooperative, non le sole Banche popolari74: perché il suo programma si proponeva non la modifica di uno od altro articolo di legge, bensì l’intera riformulazione della normativa generale portata dal Codice di commercio; soprattutto perché era messo in discussione lo spirito di quelle norme, la “larghezza” di esse, la loro “neutralità” rispetto al fatto economico regolato: in breve, il carattere “liberale” della normativa75. Questa era stata ricavata dai testi statutari delle Banche popolari, era stata “pensata” proprio per queste banche76, ma per le cennate caratteristiche aveva ugualmente favorito la vigorosa crescita nel Paese di

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Un Autore che si è occupato della “grande controversia”, Pietro Cafaro, riflettendo sul malessere causato dalla difficile convivenza delle tre componenti, nel «contesto (…) di un movimento cooperativo sempre più omogeneizzato dall’operaismo e dal socialismo», ha invece ravvisato un «problema di identità» delle Banche popolari, «questo ibrido di società di persone e di capitali al tempo stesso», fatto che «poteva destare più d’una preoccupazione ai vertici del movimento». Cafaro, Banche popolari e casse rurali tra ’800 e ’900: radici e ragioni di un successo, in Le banche popolari nella storia d’Italia, a cura di Pecorari, Atti della quinta giornata di studio “Luigi Luzzatti” per la storia dell’Italia contemporanea (Venezia, 7 novembre 1997), Venezia, 1999, p. 21 ss. 75 Tra le iniziative del Luzzatti intese all’approvazione di una legge “liberale” sulle società cooperative, speciale importanza ebbe la Petizione al Senato del 1875, su impulso dello stesso formulata dal comitato padovano dell’Associazione per il progresso degli studi economici. Il passo conclusivo della Petizione – del quale Luzzatti si attribuì la paternità: Luzzatti, L’ordine sociale, cit., p. 324 s. – indicava i principi ai quali il legislatore avrebbe dovuto adeguarsi: «Adoperi bensì la nuova legge ogni mezzo per obbligare le società cooperative a mantenersi fedeli a certe norme fondamentali, senza le quali sarebbe svanita la sana cooperazione, come la forma nominativa delle azioni, l’assenso del consiglio di amministrazione alla trasmissione delle medesime, l’unicità del voto qualunque sia il numero d’azioni possedute; ma che, raggiunto così l’intento di impedire che vengano snaturate le basi dell’istituzione, questa abbia a godere d’un massimo grado di libertà, e si tolgano tutti quei vincoli, che manifestano una diffidenza affatto ingiustificabile in confronto di società, le quali per la loro stessa indole non possono tendere che al pubblico vantaggio; onde incepparle, significa paralizzare nel paese l’azione di forze benefiche». La Petizione può leggersi in I Congressi delle Banche popolari, cit., Documenti. 76 Gobbi, Cooperazione, in Nuovo Dig. it., IV, Torino, 1938, p. 220: «Queste disposizioni riguardano le società cooperative in generale, ma furono dettate pei bisogni delle banche popolari, ricavandole dagli statuti di queste, che erano le cooperative più importanti esistenti in Italia con uniformità di ordinamento».

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qualunque istituzione cooperativa77. Si spiega pertanto che, quando la riforma apparve imminente, tutti i settori della cooperazione si strinsero attorno al fondatore delle Banche popolari, come alla persona più adatta a governare la crisi. Dopo l’interruzione, nel giugno 1895, dei lavori di una Sottocommissione ministeriale78 incaricata della preparazione della nuova normativa, si profilava ora la nomina di una seconda Commissione, anche questa, come la precedente, presieduta dal giurista Cesare Vivante79 e col Luzzatti fra i componenti. All’originario progetto di comprendere nell’istituto cooperativo le sole società mutualistiche80, era da

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Polsi, Indipendenti, cit., p. 335: «una normativa pensata per le banche popolari negli anni settanta risultava molto favorevole per il mondo della cooperazione di consumo e di lavoro degli anni novanta, fatto di piccole unità». 78 Si ha motivo di credere che l’interruzione sia stata frutto di pressioni del Luzzatti sul ministro di Grazia e Giustizia. Una conferma ci sembra di cogliere nella allusiva risposta del ministro del Commercio Salandra alle interrogazioni dei deputati Santini e Schiratti, e dello stesso Luzzatti, su quale fosse lo stato degli studi per la riforma delle società cooperative: «la Commissione, nominata alcuni anni or sono, presso il Ministero di giustizia per la riforma del Codice di commercio (…) si divise in varie sottocommissioni, poi si intrecciò con una Commissione, che era stata nominata da un mio predecessore, per lo studio speciale delle cooperative, specialmente agrarie. L’onorevole Luzzatti faceva parte dell’una e dell’altra Commissione; ond’è che egli saprà che cosa avvenne in questo viluppo di Commissioni». A questo punto il verbale registra una «interruzione del deputato Luzzatti». Ma continua Salandra: «(…) i lavori della Commissione riformatrice si sospesero, non so il perché, nel 1896. D’allora in poi non è stata richiamata in vita. L’onorevole Luzzatti, che fu ministro in quel tempo, saprà forse la ragione per la quale quella Commissione non lavorò più ”. A. P., Camera, Discussioni, 11 dicembre 1899. 79 Cesare Vivante (1855-1944), “fondatore della scuola italiana di diritto commerciale”, fu «al centro del movimento di riforma che si era delineato a pochi anni dal 1882»: Ungari, I precedenti storici del vigente diritto delle società per azioni, in Ricerca sulle società commerciali, Camera dei Deputati, Roma, 1968, p. 36 s. Sulla figura del Vivante, si veda Libertini, Vivante, Cesare, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, Bologna, 2013, II, pp. 2058-2062. 80 Come detto, mancava nelle norme sulle società cooperative qualunque riferimento al carattere della mutualità e a quello della condizione economico sociale degli azionisti (operai, persone bisognose, etc.), presenti nelle classiche definizioni dell’istituto elaborate dall’economia sociale. A partire dal 1890 si era acceso nel Paese un dibattito scientifico, avviato dal Vivante, che ebbe quali principali, autorevolissimi protagonisti, oltre allo stesso Vivante, il giurista Leone Bolaffio e l’economista Ulisse Gobbi. Si fece strada l’idea di distinguere, in un nuovo ordinamento, tra società a capitale variabile, avente scopo lucrativo perché operante coi terzi e pertanto da sottoporre a vincoli a tutela dei creditori, e la “vera” società cooperativa, qualificata dalla mutualità e beneficiaria di agevolazioni di natura tributaria. È possibile che, parlando di un «problema di identità» delle Banche popolari, il Cafaro, Banche, cit., p. 21 ss., abbia inteso riferirsi all’originario programma di riforma, in attuazione del quale aveva lavorato – fino all’interruzione – la prima

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ultimo subentrato un diverso orientamento, espresso e scientificamente argomentato dal Vivante nel Trattato di diritto commerciale: le cooperative possono svolgere attività con i terzi, con ciò rinunziando alle agevolazioni previste da leggi speciali; l’essenza della società cooperativa è piuttosto da ricercarsi nella circostanza che essa metta a parte dei propri “guadagni” la clientela che concorse a formarli81. Appena un mese prima del Congresso, Vivante ribadisce in un’intervista il proprio pensiero sull’essenza della cooperazione: «sono vere cooperative quelle società a capitale variabile, costituite per soddisfare economicamente un comune bisogno dei soci, per completare le loro aziende private coll’aiuto del credito, del vitto, dell’abitazione, dell’assicurazione più a buon mercato, le quali esercitano la loro industria ripartendo i guadagni fra coloro – soci e non soci – che diedero l’opera a conseguirli, a misura della cooperazione (…) Le vere cooperative non devono restringere la loro attività ai soli soci, ma estenderla anche al pubblico, facendolo partecipe dei vantaggi della cooperazione e del riparto degli utili nella stessa proporzione dei soci, in misura cioè del concorso che essi hanno dato nel produrli»82. Invitato al Congresso, Vivante espose le linee della riforma. Sulla partecipazione dei terzi agli utili delle società si svolse un dibattito elevatissimo cui parteciparono Vivante e Luzzatti, gli economisti e teorici della cooperazione Ulisse Gobbi e Ugo Rabbeno, cooperatori dei vari settori. Convergeva sul tema l’interesse di tutte le componenti della cooperazione. Di quella socialista, come è documentato dagli atti congressuali. Ma anche di quella cattolica. Se, per fare un esempio, fosse stata introdotta una norma che avesse disciplinato in modo stringente il momento della ripartizione degli utili, magari vincolando “a fini mutualistici” la parte

Commissione: sull’andamento di quei lavori, contrassegnati dall’agguerrita, motivata opposizione del Luzzatti a qualunque proposta del relatore Vivante, v. Pipitone, Scopo, cit., p. 24 ss. I resoconti delle sedute della Sottocommissione si leggono in Commissione ministeriale per la riforma del Codice di commercio, Relazione e verbali, Roma 1895, specialmente verbali V, X, da XVII a XIX. 81 Vivante, Trattato di diritto commerciale, II, Parte I, p. 10. 82 Id., in La cooperazione italiana (15 settembre 1895). L’intervento del Vivante, che si apprestava ad esporre in Congresso i criteri della riforma, fu reso necessario dalle dichiarazioni del ministro di Giustizia Barazzuoli rese nel corso di una risposta ad interrogazione dei deputati Galimberti, Borsarelli e Calvi: «occorre che la cooperazione, nella sua esplicazione pratica, non sia che per i soci, e che quindi e le funzioni, e l’opera, e i beneficii della cooperazione non siano rivolti che a vantaggio di quelle classi per le quali le Società cooperative sono naturalmente fatte». A. P., Camera, Discussioni, Leg. XIX, 21 giugno 1895, p. 166.

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non assegnata ai soci e ai cooperatori, le Casse rurali cattoliche avrebbero visto, d’un tratto, compromessa la propria funzione di sostegno delle opere pie. Prevalse, invece, la soluzione di compromesso caldeggiata dal Luzzatti83, di assegnare gli utili a rafforzamento della riserva e di porre un limite al dividendo sulle azioni. Ma il progetto di legge, deliberato l’anno seguente, non fu presentato in Parlamento84.

8. Giuseppe Toniolo e la “grande controversia”. Si è giustamente osservato che, sulla proposta luzzattiana, «l’intervento più profondo e più pacato da parte cattolica fu quello pubblicato dal Toniolo nella Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie»85. Non è nostro compito analizzarne i contenuti. Nel concludere sul tema della “grande controversia”, preme piuttosto accennare alle esperienze di studio dal Toniolo maturate, subito dopo la laurea, a contatto con alcuni fra i più qualificati esponenti del liberalismo riformatore. Non diversamente dal Luzzatti, anche Toniolo ebbe fin dall’avvio dei propri studi come validi interlocutori e maestri Angelo Messedaglia e Fedele Lampertico86. Fece poi parte dell’Associazione per il progresso degli studi economici87, nel cui ambito sviluppò alcuni lavori che pubblicò

83 Il Vivante pagherà il prezzo della sua scelta, esponendosi alla dura critica di Ugo Rabbeno, che esprimerà la propria “pena” per le soluzioni accolte dal progetto e per il giurista che ne era l’autore: Rabbeno, Il nuovo progetto di legge sulle società cooperative, in La riforma sociale, 1896, III, p. 685. A sua volta, Luzzatti nel 1903 aderirà in pieno al disegno riformatore del Vivante, subendo le critiche dei vertici delle “sue” Banche popolari: Pipitone, Il VI Congresso delle Banche popolari (Bologna, Ottobre 1895). Un momento poco conosciuto del dibattito su “vera” e “falsa” cooperazione a fine ’800, in “Credito popolare”, 2008, 3, p. 79 s. 84 Il progetto di legge, deliberato da una Sottocommissione composta da Cesare Vivante, presidente e relatore, e, fra gli altri, da Luigi Luzzatti e Leone Bolaffio, fu da quest’ultimo presentato al settimo Congresso della Lega. Cf. Lega nazionale delle società cooperative italiane, Settimo Congresso dei Cooperatori italiani. Firenze 1896, Como, 1897, p. 51 ss. 85 Tramontin, La figura, cit., p. 179. 86 Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma, 1958, p. 458. 87 Fondata a inizio 1875 dagli stessi Messedaglia e Lampertico, col Luzzatti, Luigi Cossa ed Antonio Scialoja, l’Associazione raccoglieva i seguaci del “germanesimo economico”, uniti in polemica contrapposizione alla ferrariana “Società Adamo Smith”. Sulla eterogeneità delle personalità partecipanti alla c.d. scuola lombardo veneta, ma anche sui «punti di affinità» che il «modello sociale che il Luzzatti aveva in mente presenta[va] con quello del Toniolo», v. Are,

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nel Giornale degli economisti, organo di quell’associazione. Per quanto riguarda il suo rapporto col Luzzatti, «è all’ombra del grande studioso e statista che egli esordisce nella sua produzione scientifica», con l’opera Sull’importanza delle banche agricole, «e insieme nell’iniziativa sociale (…) Toniolo respira la sensibilità sociale luzzattiana»88. È una sensibilità che si alimenta del confronto di culture diverse. Se al Luzzatti riuscì di essere «protagonista in quasi tutte le leggi sulla cooperazione fino al primo dopoguerra, certamente in quelle più rilevanti»89, gran parte del risultato fu dovuto alla capacità dello statista liberale di aggregare intorno al proprio progetto riformatore forze di parti politiche diverse90. Non a caso, quando presso il ministero di Agricoltura e Commercio fu costituita, nel 1869, la Commissione consultiva sulle istituzioni di previdenza e sul lavoro91, ne furono fin dall’inizio membri, fra gli altri, tanto un esponente della Destra industrialista, quale Quintino Sella, che un rappresentante della Sinistra storica, come Agostino Depretis. In seguito, in tempi diversi, sarebbero stati componenti dell’importante organo consultivo molti protagonisti della vicenda che ci ha occupato: dal Lampertico, al Nitti, al Gobbi, al Maffi, al Vivante… Nel 1910 Luzzatti avrebbe chiamato il Toniolo a farne parte.

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Alla ricerca di una filosofia dell’industrializzazione nella cultura e nei programmi politici in Italia (1861-1915), in Nuova rivista storica, 1969, p. 55 s. 88 Sorrentino, Giuseppe Toniolo. Una Chiesa nella storia, Milano, 2012, p. 46. 89 Degl’Innocenti, Luigi Luzzatti e l’“onestà operosa”, in Luigi Luzzatti e il suo tempo, a cura di Ballini - Pecorari, cit., p. 449. 90 Sui rapporti del Luzzatti con gli “amici della cooperazione”, cf. ibidem, p. 448 s.; e Marucco, Lavoro e previdenza, cit., p. 8 s. e p. 61. 91 Compiti della Commissione erano: «raccogliere elementi e preparare i progetti di legge riguardanti le casse di risparmio, le società di mutuo soccorso, le associazioni popolari di credito, di consumo e di produzione e tutte le istituzioni di previdenza; studiare tutte le questioni relative alla cassa di quiescenza degli operai, alla tutela della sanità loro (…)»: r.d. 25 novembre 1869, n. 5370; Marucco, Mutualismo e sistema politico, cit., p. 46 s. Sull’influenza del Luzzatti nella Commissione, cf. Ead., Luigi Luzzatti e gli esordi della legislazione sociale, cit., p. 422. V. supra, nt. 2.

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Lo scopo mutualistico: un’assenza certificata Sommario: 1. La forma autocefala. La struttura societaria che costituisce causa di se stessa. – 2. La causa quantitativa. L’introduzione di una discriminante quantitativa per sostenere l’assenza di causa mutualistica. – 3. L’adeguatezza in scala e la forma considerata adeguata in rapporto all’equilibrio di sistema. – 4. La discrezionalità debole. La concreta carenza di un’alternativa alla trasformazione. – 5. Il diritto di recesso del socio e gli effetti di una limitazione al rimborso sul quantum e sul quando. – 6. La mera forma organizzativa. La struttura societaria che sopravvive nelle piccole dimensioni.

1. La forma autocefala. La struttura societaria che costituisce causa di se stessa. Una banca popolare non possiede la struttura societaria adeguata allo svolgimento dell’attività bancaria, quando la dimensione del suo attivo superi una determinata soglia. È l’immediata evidenza che si ricava dai commi 2-bis e 2-ter, inseriti nell’art. 29 t.u.b. dall’art. 1, d.l. n. 3 del 24 gennaio 2015, convertito nella l. n. 33 del 24 marzo 2015, dove si fissa in otto miliardi di euro il limite per l’attivo di una banca popolare ovvero del consolidato dell’eventuale gruppo di cui sia alla testa1.

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Le indicazioni dimensionali stabilite nel provvedimento selezionano le sette banche popolari quotate: Banco Popolare, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare di Milano, Banca Popolare di Sondrio, UBI Banca, Credito Valtellinese, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, ma anche: Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Banca Popolare di Bari. Il ruolo delle popolari nel sistema creditizio italiano è molto significativo, come si può leggere nel sito della loro Associazione, www.assopopolari. it, si tratta di 37 istituti di credito (70 se si considerano le spa controllate), con oltre un milione di soci, che rappresentano circa un terzo del numero totale degli sportelli bancari in Italia e detengono circa un quarto sia della raccolta, che degli impieghi del sistema. Assolutamente rilevante il peso del movimento cooperativo nel sistema bancario europeo, con la presenza di oltre 4.200 istituti, con più di settantasette milioni

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La decisione segna una svolta nel rapporto tra causa e forma societaria , adottando un indicatore quantitativo quale elemento discriminante per regolare la possibilità di esercizio dell’attività creditizia per il modello «popolare» e affermando che i caratteri organizzativi e funzionali della spa sono i soli adeguati per una banca con attivo superiore alla misura indicata. Invariata è però la previsione dettata dall’art. 14 t.u.b., che ammette all’esercizio dell’attività bancaria quei soggetti che adottino sia la forma della spa, che quella della società cooperativa per azioni a responsabilità limitata. Di queste le cooperative con veste di popolare erano sinora sovrapponibili con le spa sotto il profilo operativo3, al contrario delle bcc a prevalente attività in favore dei soci, con una finalizzazione che le pone con certezza nel mondo della mutualità e, al contempo, ne delimita lo spazio d’azione4. L’intervento normativo si rivolge alle prime e la soglia è mera conseguenza di una valutazione di adeguatezza che riguarda quel modello societario. Si delinea così una nuova tripartizione funzionale dove la spa resta la sola forma a integrare la piena operatività creditizia, alle bcc è riservata l’attività di cui si è detto, mentre alle 2

di members, fonte European association of Co-operative Banks, www.eacb.coop. L’argomento è sensibile ed ha suscitato immediati commenti e reazioni di diverso segno. Tra i sostenitori della riforma cfr. Guiso, Banche popolari, la fine di un’era, in lavoce. info, 15 gennaio 2015, che rileva l’uso strumentale cui è stata talvolta piegata la forma societaria. Tra i critici cfr. Becchetti, Elogio della diversità bancaria (ed errori del decreto popolari), in felicità-sostenibile.blogautore.Repubblica.it, 17 febbraio 2015, che sostiene la piena adeguatezza del modello e confuta motivazioni e scelte del provvedimento. 2 In dottrina frequentemente si discute sulle finalità perseguibili dai contraenti con il contratto di società, e quindi sull’essenzialità, per una qualificazione in termini societari della fattispecie concreta, del c.d. scopo di lucro. Bolaffi, La società semplice, Milano, 1975, p. 128; Greco, Le società nel sistema legislativo italiano, Torino, 1959, p. 9. 3 Sul punto, ex multis, Pipitone, Scopo mutualistico e forma cooperativa delle banche popolari, in Quaderni della rivista cred. popolare, 1997, p. 97, il quale evidenzia come «a commento dell’art. 29 tub, contenente le “norme generali” sulle banche popolari, la Relazione afferma che le “principali caratteristiche sono costituite dal capitale variabile, dai limiti al possesso azionario e dal voto capitario”, per aggiungere subito dopo come “rispetto alle banche costituite in forma di società per azioni il solo tratto distintivo è rappresentato dalla struttura del capitale, essendo da tempo intervenuta una completa parificazione operativa”». 4 In argomento si veda la nota decisione di Cass. S.U., 7 novembre 1997, n. 10933, dove viene compiuta un’ampia ricognizione della giurisprudenza precedente e un’approfondita discussione sulla peculiarità delle banche popolari rispetto al genus della società cooperativa. In tale decisione si rileva come la legge speciale sulle banche popolari incide in modo pregnante sul profilo causale della cooperativa, esaltandone la causa lucrativa.

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popolari viene lasciata la possibilità di operare in dimensioni ridotte. Per queste, in sostanza, si afferma l’incompatibilità di obiettivi mutualistici con una certa dimensione, forse rilevante o forse no, ma determinata, oltre la quale la mutualità scompare e con essa viene meno la possibilità di assumere la veste di società cooperativa5. Il profilo dello scambio mutualistico senza prevalenza continua ad essere regolato all’art. 28, co. 2-bis, t.u.b., «ai fini delle disposizioni fiscali» e all’art. 150 t.u.b., pur novellato, che, escludendo l’applicabilità alle popolari delle norme previste per le società cooperative a mutualità piena, conferma la possibile convivenza con lo scopo di lucro6. È conseguente che gli obiettivi solidaristici vengano allora perseguiti attraverso un’azione rivolta soprattutto all’esterno, che può realizzarsi solo attraverso un’operatività piena, colorata con una vocazione al localismo ovvero verso alcuni segmenti di clientela, come famiglie e PMI, o ancora nell’ambito di una visione d’impresa tradotta in vincoli di statuto. Sono caratteri enucleati dalla ricerca di una tipicità, tesa ad integrare i principi affermati dall’art. 45 Cost., pur connettendosi con un esercizio del credito a tutto campo7, ma che alla fine non si è mancato

5 Relativamente all’inquadramento delle società cooperative come società mutualistiche si vedano Simonetto, La coopertiva e lo scopo mutualistico, in Riv. soc., 1971, p. 247, il quale osserva che se la legge vieta alle società che «non hanno scopo mutualistico di assumere la qualifica di cooperativa, ciò accade e non può accadere perché la cooperativa ha sempre scopo mutualistico, ossia perché lo scopo mutualistico è al centro di gravitazione della sua stessa causa, essa è stata costruita come istituto appunto per la mutualità e solo per quella», G. Santini, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, Milano, 1985, p. 152, Oppo, L’essenza della società cooperativa e gli studi recenti, in Riv. dir. civ., 1959, I, p. 377, Graziani, Società cooperative e scopo mutualistico, in Riv. dir. comm., 1950, I, p. 286. 6 Con attenzione alle conseguenze delle agevolazioni fiscali per le cooperative di produzione e lavoro, la Corte Giust. nella sentenza 8 settembre 2011, C 78-80/08, detta vincolanti criteri interpretativi per l’ammissibilità dell’aiuto di Stato: «Le agevolazioni fiscali alle cooperative sono aiuto poiché costituiscono riduzioni d’imposta […]», enunciando poi (par. 55-60) le caratteristiche delle imprese cooperative contrassegnate, nel diritto dell’Unione, dalla preminenza della persona e dallo scarso accesso al mercato dei capitali. La Corte di Lussemburgo ritiene che le cooperative con reali finalità mutualistiche sono solo quelle che operano nell’interesse economico dei loro soci e intrattengano con questi ultimi una relazione non puramente commerciale, bensì personale particolare, in cui essi siano attivamente partecipi e abbiano diritto ad un’equa ripartizione dei risultati economici (par. 61). Di contro, le compagini cooperative che non siano genuinamente tali non possono essere distinguibili sul piano fiscale dalle società con scopo di lucro. 7 Per un’analisi sulla rilevanza della forma cooperativa anche alla luce del principio di sussidiarietà, Gallo, La tutela del bene comune e il ruolo delle cooperative, in Giur.

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di rinvenire nelle stesse regole che presiedono la forma cooperativa8. Un vero e proprio caso di forma autocefala che si trasforma in causa per alimentare se stessa. In proposito si deve sottolineare come la funzione sociale sia istituita quale generale principio del nostro ordinamento, che attraverso gli artt. 41, 42 e 45 Cost. informa le regole destinate all’intera materia dei rapporti economici9. È in questo alveo che s’inserisce la stessa cooperazione, destinata, in ragione del peculiare scopo solidaristico, a concorrere, nel-

comm., 2014, V, p. 847: «[…] Le tavole fondamentali delle società cooperative sono la riprova di ciò laddove limitano fortemente, in attuazione degli artt. 43 e 45 Cost., la distribuzione ai soci degli utili prodotti ed impongono il loro reimpiego per il potenziamento delle infrastrutture e il miglioramento della qualità del servizio. Il tratto caratteristico della forma cooperativa — che lega strettamente la mutualità e la non speculatività che la connaturano con il principio di sussidiarietà — sta, dunque, nel fatto che le società cooperative non si limitano alla mera produzione di beni e servizi, ma permettono nello stesso tempo di soddisfare, partendo dal basso, gli interessi collettivi della cittadinanza attiva in attuazione del principio di solidarietà. Con l’avvento del principio costituzionale di sussidiarietà la funzione sociale della cooperazione acquista, dunque, un più profondo significato. Cooperare significa, infatti, non solo rinsaldare le relazioni umane in uno spazio economico basato sulla reciprocità e sulla fiducia, ma anche tenere sempre più insieme economia e morale, soggetto e comunità, spazio pubblico e relazioni personali». Verruccoli, Cooperative (imprese), in Enc. dir., X, Milano, 1962, p. 557, Oppo, L’essenza, cit., p. 402, De Ferra, Principi costituzionali in materia di cooperazione a carattere di mutualità, in Riv. soc., 1964, Castiello, Tutela costituzionale della cooperazione e cooperazione di credito, Padova, 1984. 8 Si tratta di un passaggio della Relazione accompagnatoria al d.lgs., n. 6 del 2003, richiamato in Camera dei Deputati, Commissioni riunite Finanze e Attività produttive, Audizione dell’Associazione nazionale fra le Banche popolari nell’ambito dell’istruttoria sul disegno di legge C. 2844, di conversione in legge del d.l., n. 3 del 2015, recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, 19 febbraio 2015, p. 5: «La cooperativa a mutualità non prevalente resta una società mutualistica […] il reale valore dell’impresa mutualistica […] va cercato sul piano dei bisogni che la cooperativa soddisfa, su quello della categoria scoiale al cui servizio la cooperativa si pone; ed infine anche sulle regole strutturali (voto pro-capite, porta aperta) estranee alla organizzazione delle società ordinarie. Pertanto […] anche le cooperative diverse posseggono una funzione sociale». 9 In argomento si rinvia all’insegnamento di Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, p. 433 s. dove, tra l’altro, la funzione sociale è da intendere non come un intervento «in odio» alla proprietà privata, ma diviene «la ragione stessa per la quale il diritto di proprietà è stato attribuito a un certo soggetto», un criterio di azione per il legislatore e di individuazione della normativa da applicare per l’interprete, chiamato a valutare le situazioni connesse all’espletamento di atti e di attività del titolare. Ancora sul punto Paolucci, La mutualità nelle cooperative, Milano, 1974, p. 76 s.

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la diversità, alla medesima funzione. Non sembra quindi si possa parlare di «tutela forte» o meno, come sostiene la relazione accompagnatoria, quanto di attuazione del principio attraverso la ricerca di un corretto bilanciamento tra la libertà di iniziativa del singolo ed il collettivo interesse al buon andamento del settore. Nel nostro caso il rapporto tra principio e fattispecie concreta riceve una valutazione nuova e di segno inverso rispetto al passato, con una lettura che muove dall’osservazione empirica10 – riferibile sia alle vicende, che hanno segnato le recenti incertezze decisionali di qualche banca popolare tra le maggiori, sia ad alcune performances economiche di notevole criticità –, per constatare che una regolazione legata all’elemento personale non si presta ad un’azione efficace e trasparente sul mercato dei capitali. A fronte di un’operatività creditizia piena si afferma la necessità di acquisire lo statuto giuridico delle spa, funzionale alla migliore capacità di attrarre nuove risorse finanziarie, arrivando a certificare l’assenza di causa mutualistica nell’operare delle banche popolari. Conseguente è l’azione sulla disciplina positiva e la sua modificazione, che si limita però ad individuare un rapporto quantitativo tra solidarismo e lucro.

2. La causa quantitativa. L’introduzione di una discriminante quantitativa per sostenere l’assenza di causa mutualistica. La scelta ora effettuata si indirizza sulle dimensioni rilevanti, introducendo una nozione di mutualità modellata su questo canone, che esula da ulteriori indagini sulla natura degli scopi perseguiti. Come dire che il peso delle attività detenute – questo il profilo da misurare – non ammette altra distinzione, né specificità operativa ed impone la forma societaria. Da tempo cospicua dottrina e le esternazioni delle Autorità di controllo indicano l’ampia diffusione territoriale, la piena operatività, la notevole entità dei dati patrimoniali come fattori scarsamente compatibili con struttura e scopi di una popolare, soprattutto quando si tratti di

10 Si veda in proposito la casistica riferita in Audizione del presidente della Consob, Vegas, Camera dei deputati Commissioni riunite VI e X, 11 febbraio 2015. È un’analisi che pone in luce le criticità concretamente manifestate dal modello di governance delle Popolari. Cfr. inoltre Focus comparativo sulle banche popolari italiane, Ufficio Studi di Mediobanca, 2015, che, tra l’altro, per il 2013 segnala un’incidenza dei crediti dubbi sul totale crediti vs. clientela pari al 12,7% per le popolari contro il 9,5% delle principali banche di raccolta.

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società quotata11, sull’assunto che il voto capitario, la regola della porta

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Tra i numerosi contributi, in particolare cfr. Santosuosso, Le due anime e le diverse identità delle banche popolari nell’universo della cooperazione, in Giur. comm., 1997, III, p. 45, che già dopo l’emanazione del t.u.b., considerando dimensione economica ed operativa, individuava distinte tipologie di banche popolari: «in questo senso abbiamo già sottolineato che l’osservazione della realtà, con particolare riferimento alle strutture tecniche, all’operatività, alle norme statutarie, mette in luce tre categorie di banche popolari: quelle che hanno elementi di gestione di servizio a favore dei soci […], quelle caratterizzate unicamente dalla mutualità sociologica di collegamento con il territorio e infine quelle che presentano i caratteri della struttura cooperativa, ma operano come banche a tutti gli effetti». A conclusioni analoghe perviene l’analisi di Salamone, Le banche popolari ovvero “La mutualità che visse due volte”, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, p. 638: «Ad ogni buon conto neppure mi pare seriamente contestabile che il codice organizzativo delle cooperative meglio si coordini con le esigenze della banca medio-piccola, che non con quelle della grande». Nello stesso senso, più recentemente, Santoni, La governance delle banche popolari, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, p. 507: «Alla luce del particolare peso economico che tali dati attribuiscono alle più grandi banche popolari, le quotate in borsa, appare evidente che le questioni relative a queste ultime vanno comunque tenute distinte rispetto a quelle delle altre». In proposito cfr. anche Tarantola, Le banche popolari nel confronto competitivo: vocazione territoriale e profili di governance, in Riv. banc., 2009, I, p. 7 s., dove tra l’altro: «Le analisi più autorevoli finora condotte – penso al rapporto del Financial Stability Forum, presieduto da Mario Draghi e al documento prodotto dal gruppo dei 30 – mettono in luce la centralità degli assetti di governance e dei sistemi di risk management per la stabilità delle singole istituzioni e del sistema finanziario nel suo complesso […] in tale contesto le popolari […] devono cogliere l’occasione per accelerare il processo di adeguamento organizzativo […]». Piuttosto esplicita l’indicazione fornita dall’Autorità di Vigilanza, cfr. Audizione del V. Direttore della Banca d’Italia, Tarantola, Commissione Finanze del Senato, 22 giugno 2011, dove si evidenzia l’insufficienza del modello cooperativo rispetto a banche che superano le «contenute dimensioni» o sono quotate in borsa, viene inoltre rilevato che, p. 7: «I limiti al possesso azionario possono rappresentare un vincolo nelle operazioni di rafforzamento patrimoniale; un investitore istituzionale non ha incentivo ad accrescere la sua quota di capitale se ciò non si traduce in una maggiore capacità di salvaguardare il valore del proprio investimento, attraverso l’esercizio di adeguati diritti», e ancora, p. 9, sottolineata l’urgenza di un intervento di riforma che adegui la disciplina delle banche popolari anche in relazione, «[…] alle innovazioni in corso nella regolamentazione e nell’azione di controllo prudenziale in risposta alla crisi […]». Si esprime in senso favorevole al decreto legge l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, cfr. Audizione del presidente Pitruzzella, Commissioni riunite (VI e X) Camera dei deputati, 18 febbraio 2015, richiamando gli esiti dell’indagine conoscitiva svolta nel 2008, che aveva indicato come le maggiori banche popolari, soprattutto le quotate, «stessero ormai perdendo le peculiarità che ne motivano la differenziazione rispetto alle spa, risultando così caratterizzate da un’operatività non coerente con il principio mutualistico che dovrebbe ispirare il loro funzionamento». Di diverso avviso l’Associazione fra le Banche Popolari, già in Audizione Commissione Finanze del Senato, giugno 2011, p. 6: «La crescita della dimensione aziendale non fa perdere, né appannare di per sé l’attitudine localistica della Banca Popolare […]» ed

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aperta e gli altri capisaldi dell’organizzazione personalistica comportano modalità di governance, che mal si conciliano con le regole del mercato dei capitali12. Sino ad oggi però la disciplina positiva ha riconosciuto piena agibilità alle banche popolari ed ancora la c.d. «mini-riforma» del 201213, riscrivendo l’art. 30 tub ed adeguando il tuf con il proposito di favorire l’afflusso di nuovi mezzi finanziari, aveva scelto la via dell’autonomia statutaria: il modello banca popolare, dotato di propria configurazione14, poteva realizzare un equilibrio operativo, idoneo a salvaguarda-

ancora in Audizione 19 febbraio 2015 cit., dove tra l’altro, p. 4: «Palesemente infondata è anche l’affermazione, di cui alla Relazione accompagnatoria, secondo cui solo le cooperative a mutualità prevalente (come le banche di credito cooperativo) sarebbero cooperative, mentre le banche popolari vivrebbero ai margini o all’esterno del fenomeno della cooperazione di credito e conseguentemente non sarebbero tutelate in senso forte dall’art. 45 della Costituzione». 12 In argomento svolge invece considerazioni di compatibilità con gli investimenti di «medio-lungo termine» lo stesso Salamone, Le banche, cit., p. 637, che ricorda la diversa e ben nota posizione di Schlesinger, sulla necessità di vestire l’abito adatto per accedere con successo ai mercati finanziari. 13 Nel commentare quell’intervento normativo la dottrina ha seguito orientamenti già delineati in passato, da una parte rilevando che le regole di funzionamento si prestano ad impedire il fisiologico ricambio degli organi amministrativi, dall’altra affermandone il valore alternativo rispetto al modello capitalistico delle spa. A confermare con chiara incisività le posizioni critiche già espresse da tempo è Marasà, Governo e controllo” delle banche popolari prima e dopo le recenti modifiche del t.u.b. e del t.u.i.f. (art. 23 quater, l. 221/2012), in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, p. 517 s., indicando in particolare le criticità di una governance che non consente un’agevole alternanza degli amministratori e valutando decisamente insufficienti le novità introdotte con le modifiche al tub apportate attraverso l’art. 23-quater del d.l., n. 179 del 2012, convertito in l., 17 dicembre 2012, n. 221: «[…] infatti le novità previste rappresentano, tranne per un aspetto […] un regresso, essendo per lo più volte ad assecondare […] il desiderio della categoria di conservare lo status quo». Pone invece l’accento sulla peculiarità del modello delle banche popolari, tra gli altri, Seminara, Notarelle a margine della “mini -riforma sulle banche popolari cooperative, Quanto alla legittimità del traghettamento dalla c.d. “democrazia cooperativo – partecipativa” alla c.d. “democrazia plutocratico – capitalista”, in Riv. dir. comm., 2013, III, p. 451 s., che si sofferma, in particolare, sul novellato comma 5-bis dell’art. 30 t.u.b. per osservare come metta a rischio l’autonomia del modello popolari: «[…] subordina lo status soci al possesso di un numero minimo di azioni, si introietta/ innesta nel diritto societario speciale […] delle cooperative un dato capitalistico poco o punto assimilabile ai principi di settore sui quali, tra l’altro, risulta prevalente. Così le disposizioni di settore in materia di cooperative bancarie, aprendo un varco al diritto azionario, proprio delle società di capitali, rischiano la metamorfosi di un modello in tanto alternativo alle spa in quanto autonomo». 14 In proposito si richiamano le osservazioni di Azzi, Le banche popolari, Specificità del modello, in Banche popolari e sviluppo solidale – Sfide ed opportunità, a cura di

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re le esigenze degli investitori, pur mantenendosi fedele alle regole della cooperazione e conservando quello scopo mutualistico, necessario per restare nel campo delimitato dall’art. 2511 c.c. e compatibile con il lucro. Ancora nel dibattito parlamentare che ha accompagnato la conversione in legge non sono mancate voci a difesa dello statu quo, che hanno posto in dubbio l’effettiva inadeguatezza del modello, alla luce del peso raggiunto da queste banche nel mercato del credito e delle indicazioni fornite dalla Banca centrale in ordine al valore del capitale di migliore qualità delle popolari, sostanzialmente in linea con il resto del sistema. Anche la scarsa partecipazione alle assemblee è stata confutata e comparata all’analogo fenomeno che si registra nelle spa15. La riforma svolge una valutazione del concorso tra scopi della cooperazione e regole di controllo del credito16, che postula la modifica

Quadro Curzio, Milano, 2011, p. 69 s., che sottolinea come «[…] per la stessa funzionalità del mercato è un bene che in esso esistano intermediari diversi per taglia, forma giuridica e vocazione ed è un bene che accanto alla finanza del ROE esista anche la finanza che persegue fini di vantaggio non solo di profitto […]». Sul punto vasta letteratura. Per un’analisi anteriore alla riforma del diritto societario, ma ancora utile per la comprensione della fattispecie, si rinvia, per tutti, a Santosuosso, Le due anime, cit., p. 434 s.: «Le varie opinioni sulla natura delle banche popolari e sulla disciplina ad esse applicabile, sinteticamente riconducibili a chi vede nella fattispecie uno scollamento tra forma cooperativa e sostanza lucrativa, chi invece preferisce parlare di cooperative a tutti gli effetti sia pure con le peculiarità settoriali, e chi colloca le nostre banche in un non ben definito […] tertium genus, si sono riproposte». Cfr. anche l’analisi pienamente attuale di Salanitro, Profili normativi delle banche cooperative, in Banca, borsa, tit. cred., 1994, I, 273 s. Con riferimento agli effetti della riforma del diritto societario Costi, La riforma delle società e le banche cooperative, in Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, vol. IV, Torino, 2007, p. 1118. Un’attenta valutazione che ricostruisce il fenomeno, con vasti riferimenti di dottrina, è in Petrelli, Consiglio Nazionale del Notariato, Studio n. 5617/1, Le banche cooperative nella riforma del diritto societario, 2005. Le posizioni della dottrina convergono oggi nel considerare del tutto specifica la figura della banca popolare, tra gli altri, cfr. G. Santoni, La governance, cit., p. 509, «[…] le banche popolari costituiscono un tertium genus, società a capitale variabile che possono perseguire funzioni sia mutualistiche, che lucrative», dove l’a. rileva, tra l’altro, un deficit strutturale rispetto a rilevanti dimensioni dell’attività economica esercitata. 15 Per tutti cfr. l’intervento di Mucchetti, Senato della Repubblica, Commissioni 6ª e 10ª riunite - Resoconto sommario n. 13 del 17 marzo 2015. 16 Albamonte, La disciplina delle banche popolari alla luce del nuovo diritto societario, in Mondo Bancario, 2005, p. 49 s., ritiene che la disciplina delle banche popolari «formalmente incardinata in quella delle società cooperative, è significativamente influenzata dalle specifiche finalità, sempre sottese all’ordinamento creditizio, di stabilità e di sana e prudente gestione delle banche, piuttosto che da una presunta attrazione […] del modello delle società per azioni».

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della causa stessa del contratto sociale, espellendo definitivamente ogni residua mutualità. D’altronde la relazione accompagnatoria alla conversione in legge del decreto è esplicita, definendo il modello della banca popolare «in sé astrattamente privo di sostanza mutualistica», mentre il mutato quadro normativo, conseguente alle decisioni assunte in sede comunitaria, impone di adottare forme organizzative capaci di garantire «un’efficace forma di governo e un’elevata capacità di finanziamento delle banche»17. Le criticità da tempo al centro del dibattito in materia vengono risolte con una sorta di certificazione di assenza dello scopo mutualistico, che però, legata al criterio indicato, non si estende all’intera categoria. La questione ruota intorno ad un numero, elevato ad indicatore di adeguatezza della forma societaria. Non c’è dubbio che l’utilizzo di un elemento quantitativo noto, correntemente controllabile, che esprime sinteticamente la dimensione economica del soggetto interessato, renda più semplice l’applicazione della regola. Il criterio si ispira espressamente al Meccanismo di vigilanza unico18, che ha delineato una classificazio-

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Cfr. Relazione accompagnatoria alla conversione in legge del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, recante misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, Camera dei Deputati, n. 2844: «Va anche considerato che uno degli effetti della crisi è stata la contrazione nell’erogazione del credito (c.d. credit crunch). In tale prospettiva è evidente che il rafforzamento e la capitalizzazione di alcune banche (le banche popolari) caratteristiche dell’ordinamento italiano del credito, attraverso il ripensamento della loro forma organizzativa, costituisce un passo essenziale per l’ammodernamento del sistema. La dottrina italiana in materia di diritto bancario ha segnalato da tempo che le banche popolari hanno solo la forma cooperativa e non la sostanza della mutualità, sicché in esse la società cooperativa si presenta come mera forma organizzativa, tanto che si può dire che esse vivono ai margini o all’esterno del fenomeno della cooperazione nel credito e che, conseguentemente, esse non sono tutelate in senso forte dall’articolo 45 della Costituzione, non potendo la norma riferirsi ad ambiti organizzativi nei quali la forma cooperativa è mero schermo della natura sostanzialmente lucrativa dell’impresa». 18 Cfr. ancora Relazione accompagnatoria cit., p. 3 «[…] secondo un approccio seguito anche a livello europeo (ad esempio per individuare le banche considerate significative ai fini del Meccanismo unico di vigilanza), la complessità viene misurata innanzitutto in base alla dimensione degli attivi […]». Cfr. Regolamento UE n. 1024 del 2013 del Consiglio, del 15 ottobre 2013, che attribuisce alla Banca Centrale Europea compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi (G.U., l. n. 287 del 29 ottobre 2013, p. 63. Cfr. BCE, Guida alla vigilanza bancaria, settembre 2014, cfr. p. 7, Principio 7 – Proporzionalità: «L’attuazione di questo principio permette di ripartire in modo efficiente risorse di vigilanza limitate. Di conseguenza, l’intensità della vigilanza dell’MVU sugli enti creditizi varia, con una maggiore attenzione nei confronti dei gruppi sistemici più grandi e più complessi e delle filiazioni più rilevanti all’interno di

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ne tra banche significative e non19. In questo caso il valore individuato per differenziarle, trenta miliardi, è però ben diverso da quello indicato dal legislatore nazionale ed è inserito in un’ampia casistica di fattispecie rilevanti per la BCE. Gli obiettivi della previsione sono inoltre del tutto diversi, il MVU svolge funzioni di vigilanza prudenziale e deve modulare con proporzionalità la sua azione, il decreto invece determina il presupposto per individuare una discriminante nell’esercizio dell’attività creditizia. In assenza di altri indicatori – non viene fatto riferimento alla quotazione, né alla diffusione della presenza territoriale o ad alcun altro aspetto, che potrebbe concorrere a determinare la rilevanza economica della banca – si deve concludere che quel numero è considerato capace di operare la distinzione, anche se avulso da ogni altra considerazione. Il ricorso allo stesso indicatore scelto dal MVU, di fatto avrebbe escluso un paio di banche quotate, incluse invece nel perimetro a otto miliardi. Sembra così questa la considerazione empirica che ha condotto a definire quella soglia, portando con sé anche qualche popolare non quotata. A ben vedere la dimensione dell’attivo è certamente un indicatore di complessità, ma non il solo e il metodo adottato, basato su un numero di sintesi – oltretutto con individuazione non motivata –, appare insufficiente a spiegare l’esigenza di una trasformazione. È ovvio che in questo modo anche una lieve differenza di valori e/o di valutazioni è resa

un gruppo bancario significativo. Ciò è coerente con l’approccio di vigilanza consolidato e basato sul rischio dell’MVU. e alla capacità di adottare misure efficaci e preventive, volte a scongiurare eventuali default», Principio 9 – Misure correttive efficaci e tempestive: «[…] Esercita proattivamente la vigilanza sugli enti creditizi negli Stati membri partecipanti per ridurre la probabilità di fallimento e i danni potenziali, con particolare attenzione alla riduzione del rischio di fallimento disordinato di enti significativi […]». 19 Cfr. BCE, Guida, cit., p. 8, Classificazione degli enti come significativi o meno significativi: «Per stabilire se un ente creditizio è significativo o meno, l’MVU esegue una verifica periodica: tutti gli enti creditizi autorizzati all’interno degli Stati membri partecipanti vengono valutati per stabilire se soddisfano i criteri di significatività. Un ente creditizio è considerato significativo se soddisfa una qualsiasi delle seguenti condizioni: il valore totale delle attività supera i 30 miliardi di EUR o, a meno che il valore totale delle attività sia inferiore a 5 miliardi di EUR, supera il 20% del PIL nazionale; è uno de tre enti creditizi più significativi in uno Stato membro; riceve assistenza diretta dal meccanismo europeo di stabilità; il valore totale delle attività supera i 5 miliardi di EUR e il rapporto tra le attività transfrontaliere in più di un altro Stato membro partecipante e le attività totali è superiore al 20% o il rapporto tra le passività transfrontaliere in più di un altro Stato membro partecipante e le passività totali è superiore al 20%. Nonostante il rispetto di questi criteri, l’MVU può dichiarare un ente significativo per assicurare l’applicazione coerente di standard di vigilanza di elevata qualità […]».

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idonea a segnare il confine tra i due modelli societari e sembra difficile considerare che la mutualità si manifesti appena sotto gli otto miliardi, per scomparire aldilà del muro. Posto che al numero si connette la causa, ugualmente lascia perplessi la constatazione che la funzione sociale della cooperazione trovi bilanciamento con le esigenze regolatorie del credito attraverso un elemento tanto rigido, quanto decontestualizzato. Inutile dire che il riferimento ad un equilibrato concorso di indicatori, in dottrina ampiamente segnalati, meglio potrebbe misurare il superamento di obiettivi mutualistici20.

3. L’adeguatezza in scala e la forma considerata adeguata in rapporto all’equilibrio di sistema. Il giudizio di adeguatezza è rivolto ad una struttura che l’ordinamento ha disciplinato in rapporto ad una causa definita, perseguibile anche in concorso con lo scopo di lucro e dunque solo la sua assenza può dettare il venir meno della forma. Fuori da questa ipotesi non si pone problema di adeguatezza, nel senso che lo scopo è preservato ed esigenze diverse, quali il rispetto dei requisiti patrimoniali previsti dalle regole del credito, trovano presidio nella vigilanza e nei poteri ad essa connessi, che già potevano avvalersi della possibilità di trasformazione offerta alle banche popolari dall’art. 31 t.u.b.21. In altre parole l’eventuale difficoltà di conformarsi alle nuove e pressanti necessità di rafforzamento patrimoniale poteva essere fronteggiata a disposizioni invariate. Lo stop dimensionale sommato alle ulteriori modificazioni delle norme ordinatorie del comparto non cancella la categoria – o meglio quel che ne resterà dopo l’uscita delle banche maggiori –, al contrario mantenendo una sua disciplina positiva, ne conferma la causa mutualistica. È soltanto la misura

20 Per tutti si rinvia a Costi, www.firstonline, 6 luglio 2011, che distingue tra banche quotate e non: «[…] sono due mondi diversi fra loro. Nelle quotate la funzione mutualistica e di collegamento con il territorio è ormai pura ipocrisia. La quotazione impone il rispetto delle norme che valgono per tutto il listino». 21 Ricorda l’inserimento nel t.u.b. della possibilità di trasformazione in s.p.a. Tarzia, Limiti legali e statutari al trasferimento di azioni di banche popolari cooperative, in Società, 1997, p. 406: «la struttura cooperativistica, prevista per le banche popolari […] è stata poi confermata dal recente testo unico delle leggi bancarie, la cui unica novità sul punto è stata quella della trasformazione della banca popolare in società per azioni, peraltro in presenza di particolari esigenze».

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descritta ad introdurre una sorta di eccesso di prevalenza del lucro, ma se l’insufficienza strutturale rilevata è tale da ostacolare una governance efficace e la stessa possibilità di reperire finanziamenti adeguati, a ben vedere si tratta di considerare quella forma incapace di rispettare le regole di settore. Una difficoltà che sembra allora comune al gruppo, mentre le dimensioni possono solo indicare il peso di alcuni istituti e il conseguente impatto che il loro equilibrio può avere sulla complessiva stabilità del sistema. Si tratta di un aspetto di scala, certamente centrale in ottica di vigilanza e controllo, ma sul piano sistematico introduce una discriminante, che non risolve le criticità strutturali denunciate. L’intervento è stato svolto con il dichiarato obiettivo «di avviare il processo di adeguamento del sistema bancario agli indirizzi europei»22, che sono concentrati sul potenziamento di regole e sistemi di controllo, generando una spinta che ha portato alla realizzazione dell’Unione Bancaria Europea, che, è noto, si propone l’obiettivo di scongiurare gli effetti di nuove crisi, salvaguardando la stabilità del sistema creditizio e tutelando i consumatori23. In questa prospettiva si muove il Meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie24. Concepito dopo il fa-

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Cfr. il preambolo al d.l. 24 gennaio 2015, n. 3. Nel sito www.europarl.europa.eu, cfr. Note sintetiche sull’Unione europea, Unione bancaria: «L’Unione bancaria, che fa parte di un più ampio quadro finanziario integrato, è la risposta data alle molteplici crisi finanziarie ed economiche quando è emersa chiaramente la necessità di una solida riforma che rimediasse a una serie di carenze normative e di vigilanza. I membri dell’area dell’euro partecipano automaticamente all’Unione bancaria. Altri Stati membri possono aderirvi. L’Unione bancaria poggia su tre pilastri: i) il Meccanismo di vigilanza unico (SSM), ii) il Meccanismo di risoluzione unico (SRM) e iii) le connesse disposizioni in materia di finanziamento, che comprendono il Fondo di risoluzione unico (SRF), i Sistemi di garanzia dei depositi (DGS) e un meccanismo comune di backstop (linea di credito). Quest’ultimo strumento resta incompleto e sarà oggetto di ulteriori discussioni. I tre pilastri si basano su due serie di norme orizzontali applicabili a tutti gli Stati membri: i requisiti patrimoniali per le banche (pacchetto CRD IV) e le disposizioni della direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche (BRRD)». 24 Cfr. Direttiva n. 59 del 2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che modifica la direttiva 82/891/CEE del Consiglio, e le direttive 2001/24/CE, 2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/36/UE e i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 648/2012, del Parlamento europeo e del Consiglio (GU L. 173 del 12 giugno 2014, p. 190. In particolare cfr. il considerando 59: «Gli strumenti di risoluzione dovrebbero comprendere la vendita dell’attività d’impresa o delle azioni dell’ente soggetto a risoluzione, la costituzione di un ente-ponte, la separazione delle attività non in sofferenza dell’ente in dissesto da quelle 23

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migerato 2008 e l’oneroso intervento pubblico a sostegno di numerosi istituti creditizi, il nuovo sistema di bail-in stabilisce che siano gli azionisti della banca e i creditori, e tra questi soprattutto gli obbligazionisti, a essere i primi a dover assorbire le perdite di un istituto in difficoltà – in misura non inferiore all’8% delle passività. Dal 4 novembre 2014 è stato poi avviato il Meccanismo di vigilanza unico, un altro dei cc.dd. pilastri dell’Unione Bancaria, attuando il trasferimento alla BCE delle funzioni di vigilanza prudenziale sugli enti creditizi, da svolgere unitamente alle rispettive Autorità nazionali. Il Meccanismo testualmente nelle premesse: «non intende reinventare la ruota, bensì sviluppare le migliori prassi di vigilanza esistenti […] al fine di migliorare la solidità del sistema bancario nell’area dell’euro». L’intensa attività regolatrice di questi anni mostra un’elevata attenzione alla prevenzione ed enfatizza il ruolo della solidità patrimoniale, a presidio della sicurezza del sistema. Un obiettivo cui però non si connette l’omologazione delle strutture societarie, al contrario il vantaggio della pluralità di forme, che concorrono a realizzare un sistema creditizio libero e diversificato25, è valore fatto proprio nelle stesse regole di Vigilanza, dove si può leggere: «La BCE tiene in considerazione le diverse tipologie, i modelli societari e le dimensioni degli enti creditizi, nonché i vantaggi sistemici della diversità nel settore bancario»26. Il focus è dunque sui requisiti patrimoniali e sulla qualità della gestione – la chiave per perseguire un corretto equilibrio operativo –, che devono sempre essere garantiti nelle diverse forme ammesse. È conseguente osservare che il processo di adeguamento non è chiamato a fare giustizia della pluralità, semmai dovrà preoccuparsi di fornire le giuste regole per consentire il rispetto degli stringenti vincoli operativi.

deteriorate o in sofferenza, e il bail-in degli azionisti e dei creditori dell’ente medesimo», e la Sezione 5, Strumento del bail-in. 25 Il Parlamento Europeo, già nel giugno 2008, in un momento di grave turbolenza finanziaria, ha approvato la Risoluzione Pittella-Karas, ribadendo come «le cooperative bancarie offrono un contributo sostanziale al finanziamento dell’economia a livello locale». Il modello della cooperativa, come modello alternativo a quello della società per azioni si iscrive nella logica della salvaguardia e del rafforzamento della «libertà» e della «concorrenza» anche in ambito comunitario. 26 Cfr. nel sito www.ecb.europa.eu, Guida alla Vigilanza Bancaria, Banca Centrale Europea settembre 2014, Introduzione, sub 3, parte finale, p. 3.

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4. La discrezionalità debole. La concreta carenza di un’alternativa alla trasformazione. Per effetto del ricordato art. 29, co. 2-ter, t.u.b., agli organi amministrativi della banca è lasciata la scelta tra la riconduzione dell’attivo al disotto della soglia, la liquidazione e la trasformazione in spa, con rinvio alle previsioni dell’art. 31 t.u.b., nella sua versione novellata. La via della riduzione dell’attivo costituisce un’alternativa decisamente impervia sul piano concreto, ma qui interessa l’altra possibilità, cioè la decisione di trasformarsi in spa, sinora rimessa all’autonoma iniziativa della banca e sottoposta all’autorizzazione della Banca d’Italia. Di questa non c’è più traccia, mentre le finalità di vigilanza, che dovevano motivarla, sono assorbite da una previsione che apre alla generale possibilità di trasformazione. È confermato il rinvio agli artt. 56 e 57 t.u.b. per l’accertamento dei criteri di sana e prudente gestione da parte di Banca d’Italia sia in ipotesi di modificazioni statutarie, che di fusione e scissione. La discrezionalità assembleare, al superamento del fatidico sbarramento, è però costretta a confrontarsi con l’obbligo di operare una scelta, priva di vera alternativa, se non a rischio di esporsi ad operazioni di grande impatto, condotte sotto la spinta di termini cogenti. La norma oltretutto subisce la modifica dei quorum costitutivi e deliberativi, sottratti agli statuti e prestabiliti ex lege su livelli così ridotti, che in seconda convocazione si potrà deliberare «[…] qualunque sia il numero dei soci intervenuti in assemblea». L’autonomia statutaria ne risulta mutilata in favore di un’agilità dell’organo assembleare, che appare svincolata da ogni preoccupazione partecipativa e squilibrata verso la facilità di decisione, anche a scapito delle minoranze. D’altronde la relazione accompagnatoria dichiara esplicitamente che i «quorum […] specifici» sono introdotti «per agevolare» il processo di trasformazione. Un obiettivo che si proponeva anche la versione previgente della norma, che già derogava alle regole dettate dall’art. 2545decies c.c., ma ora si vuole superare il «sostanziale potere di veto di minoranze organizzate»27. È con-

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Cfr. Barbagallo, Banche e Banca d’Italia: nuovi rapporti alla luce del sistema di Vigilanza europeo, in www..bancaditalia.it, intervento Associazione Amici dell’Università degli Studi di Torino, 23 marzo 2015, p. 11: «Per questo motivo la Banca d’Italia ha salutato con favore il recente intervento normativo sulle banche popolari, che imporrà alle maggiori tra esse la trasformazione in società per azioni; ciò consentirà ai soci di controllare più efficacemente l’operato degli amministratori, riducendo inoltre gli spazi per le ingerenze indebite e i veti ingiustificati di minoranze organizzate. Processi decisionali più trasparenti e rapidi favoriranno l’accesso al mercato dei capitali, una

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seguente però che, venendo meno ogni presidio costitutivo, le decisioni assembleari potranno essere determinate proprio da esigue minoranze. Si può osservare che un sano governo societario deve porsi l’obiettivo di assicurare ad ogni soggetto che interagisce nell’ambito dell’impresa un’efficace tutela dei propri interessi. In particolare le garanzie offerte ai soci di minoranza, costituiscono elemento che qualifica l’azione di governance e si riflette anche in una migliore capacità di attrazione di nuove risorse finanziarie. Il percorso che avvia alla trasformazione della banca popolare, è però guidato dalla preoccupazione di raggiungere il risultato, anche con sacrificio della partecipazione assembleare, indebolendo la tenuta della struttura societaria in favore del cambiamento di forma. La previsione non riguarda soltanto le banche oltre soglia, ma ha carattere generale e lascia così più di una perplessità in ordine allo squilibrio, che si genera per effetto dell’ulteriore compressione delle tutele, che si è descritta. L’intervento riformatore agevola il passaggio alla struttura della spa, in nome di una migliore aderenza alle complessive esigenze di stabilità di sistema, delineando un regime speciale, che nell’intento di spianare la via verso la trasformazione in spa, finisce per sganciare delicate decisioni assembleari da un’adeguata consapevolezza del corpo sociale.

5. Il diritto di recesso del socio e gli effetti di una limitazione al rimborso sul quantum e sul quando. In un simile percorso, al socio che vede mutare struttura e scopo del soggetto economico di cui è partecipe, senza condividere la scelta, resta la difesa, che risiede nella facoltà di recesso28, anche se nelle banche

condizione essenziale per far fronte alle crescenti tensioni concorrenziali». Per un’attenta analisi delle funzioni dell’assemblea come organo sociale e quale procedimento deliberativo nella società per azioni, si rinvia a LENER e TUCCI, Società per Azioni, l’Assemblea, in Tratt. Dir. Comm., sez. IV, t. IV, diretto da Costi, Bologna, 2012. 28 Cfr. sul punto Maccarone, Attività creditizia e mutualità: la trasformazione delle banche popolari in società per azioni, in Corr. giur., 2009, I, p. 106 s., per un esame delle posizioni espresse in tema di trasformazione delle banche popolari ed in particolare di Cass., 8 gennaio 2008, n. 89, in un giudizio promosso avverso la deliberazione di trasformazione assunta dall’assemblea straordinaria del 2 febbraio 1999 della Banca Agricola Mantovana. Richiama, tra l’altro, la considerazione del giudice di legittimità secondo il quale «l’art. 31, c. 2, t.u.b. riconosce al socio il diritto di recesso,

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popolari quotate la cessione dei titoli in Borsa è il meccanismo di uscita più diretto. Per le società cooperative l’esercizio del recesso è ammesso, recita l’art. 2532, co. 1, c.c.: «nei casi previsti dalla legge e dall’atto costitutivo». Uno di questi è appunto «la trasformazione della società», che l’art. 2437, c.c. – applicabile anche alle cooperative secondo opinione prevalente – individua per consentire al socio di avvalersi del diritto individuale di recesso, inteso anche alla salvaguardia del contenuto patrimoniale dell’investimento. Il decreto «popolari» non interviene su questi aspetti, semmai produce occasione di recesso, visto che ne sollecita la trasformazione societaria. Agisce invece sui suoi effetti, fin qui affidati alle indicazioni del comma 4 del medesimo art. 2532, c.c., dove si dettano decorrenze distinte per il rapporto sociale e quello mutualistico, a sottolineare la centralità di quest’ultimo. Ora però il successivo rimborso – delle azioni e/o di eventuali altri strumenti di capitale –, per effetto del co. 2-ter inserito nell’art. 28 t.u.b., può essere limitato e subordinato alla qualità del capitale della banca29, secondo le indicazioni che fornirà la Banca d’Italia. La relazione accompagnatoria al provvedimento spiega che si tratta di un’anticipazione rispetto al recepimento della direttiva 2013/36/UE (Capital Requirements Directive, c.d. CRD IV), che ha avuto il via libera del Governo l’8 maggio scorso30. La direttiva si propone: «il coordinamento delle disposizioni nazionali relative all’accesso all’attività degli enti creditizi e delle imprese di investimento, le modalità della loro governance e il quadro di vigilanza» e nel testo del d.lgs. emanato si può leggere un nuovo comma 2-ter, da inserire nel medesimo art. 28 t.u.b., che introduce limitazioni, in tutte le banche con forma cooperativa, al diritto di rimborso delle azioni in caso di recesso «anche a seguito di trasformazione, morte o esclusione del socio» Se il decreto legge, che qui si commenta,

salvaguardando, in questo modo, il suo interesse al mantenimento della precedente struttura societaria». 29 Il perimetro del capitale primario di classe 1ª (Comon Equity Tier 1 – CET1) comprende in primo luogo gli strumenti di capitale, come recita l’art. 26, c. 1, sub a), del Regolamento UE n. 575 del 2013 (Capital Requirements Regulation, c.d. CRR) e in quella sede sono definiti anche i caratteri necessari, perché quegli stessi strumenti emessi da società cooperative possano esservi inclusi. 30 Cfr. Consiglio dei Ministri n. 63, 8 maggio 2015: Attuazione della direttiva europea sull’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Peraltro la Banca d’Italia ne aveva già recepito gli aspetti self-executing.

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è dedicato alle banche popolari, il decreto legislativo guarda alla forma cooperativa nel suo insieme e contiene di nuovo il riferimento al caso morte, uscito invece dal testo del d.l. n. 3 del 201531. Il socio di banca popolare subisce così un forte indebolimento delle salvaguardie, strette tra quorum assembleari ridotti o eliminati e rimborso subordinato. La relazione accompagnatoria sostiene ancora che si contempera l’aspettativa del socio al rimborso con le esigenze di stabilità della banca, perché si incide «esclusivamente sull’entità e sui tempi del rimborso». Questo riferimento riprende la formula utilizzata all’art. 10, par. 2, del Reg. delegato, Commissione Europea, n. 241 del 2014, in tema di requisiti dei fondi propri per le società cooperative ed altri enti32. Disposizione che nel rinvio e nella limitazione dell’importo del rimborso ha individuato le modalità per anteporre il rispetto dei criteri prudenziali al diritto del socio recedente, affermando che: «la capacità dell’ente di limitare il rimborso […] riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso, che il diritto di limitare l’importo rimborsabile». Si tratta di regole a contenuto tecnico, che attuano le indicazioni già formulate dagli accordi di Basilea III, dove il core tier 1 viene qualificato, tra l’altro, attraverso la «permanenza illimitata dei fondi direttamen-

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In sede di conversione della legge in commento è stato eliminato il riferimento al caso di morte, ma si tratta di modifica che attiene ad un aspetto di modesto impatto. 32 Cfr. Regolamento UE delegato della Commissione Europea, n. 241 del 2014, che integra il Regolamento UE n. 575 del 2013, cit. Il passaggio cui si fa riferimento è il seguente: «2. La capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575 del 2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile. L’ente è in grado di rinviare il rimborso o di limitare l’importo rimborsabile per un periodo illimitato in conformità al paragrafo 3». In particolare l’argomento è affrontato con il considerando 10) che si occupa di rimborso degli strumenti di capitale: «Le norme sui fondi propri da applicare alle società mutue, alle società cooperative, agli enti di risparmio o ad enti analoghi dovrebbero tenere debitamente conto delle specificità di tali enti. È necessario prevedere alcune norme affinché tali enti siano in grado di limitare il rimborso dei propri strumenti di capitale, se del caso. Quindi, laddove il rifiuto al rimborso degli strumenti sia proibito ai sensi della normativa nazionale applicabile per queste tipologie di enti, è essenziale che le disposizioni che regolano gli strumenti conferiscano all’ente la capacità di rinviare il loro rimborso e limitare l’importo da rimborsare. Inoltre, data l’importanza della capacità di limitare o rinviare il rimborso, le autorità competenti dovrebbero avere il potere di limitare il rimborso delle quote delle cooperative e gli enti dovrebbero documentare qualsiasi decisione volta a limitare il rimborso».

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te a disposizione dell’emittente: nessuna scadenza predefinita, nessuna aspettativa di rimborso anticipato» e la «massima subordinazione in caso di liquidazione». Con l’art. 29 del Reg. UE n. 575 del 2013, «requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento» sono stati definiti i caratteri, necessari a computare nel capitale primario gli strumenti emessi da società cooperative. A questo scopo il suo par. 2, lett. b, richiede che le disposizioni, che regolano gli strumenti di capitale, autorizzino gli emittenti a limitare il rimborso, quando la legislazione nazionale ne vieti il rifiuto. È poi l’art. 11 del Reg. delegato cit. a chiudere il cerchio, con l’attribuzione all’«autorità competente [del potere] di limitare ulteriormente il rimborso degli strumenti su base appropriata […]». La Banca d’Italia può quindi intervenire, laddove le limitazioni al rimborso – di fonte contrattuale o normativa – non siano rispondenti alle regole prudenziali. La cura del legislatore comunitario è rivolta alla struttura del capitale degli enti cooperativi. Non può parlarsi di un intervento che agisce sulla diversità di forma societaria, violando la cc.dd. neutralità della norma comunitaria rispetto alla pluralità degli assetti, ma non sembra dubitabile che la limitazione al rimborso, modifichi obiettivi e risultati dell’esercizio del diritto di recesso da parte del socio di ente cooperativo. Le regole di settore si propongono un’azione di prudenziale vigilanza, svolta in nome dell’interesse generale al buon andamento del credito, che si traduce nella tutela della collettività. L’attenzione non va al profilo soggettivo del socio o del detentore di altri strumenti di capitale, per preoccuparsi soltanto della «computabilità […] nel patrimonio di vigilanza primaria». Il riferimento, operato in via generale, dall’art. 2535 c.c. al bilancio dell’esercizio corrente per la determinazione del valore di rimborso, viene integrato dalla legislazione di settore con nuove esigenze di valutazione, guidate dal criterio descritto. Ne risulta ampliato l’ambito del rischio patrimoniale del socio, visto che il recupero dell’investimento non è più soltanto dipendente dal risultato economico dell’azienda, ma condizionato anche dalle regole di stabilità. Il sacrificio che viene imposto al socio receduto può leggersi in quest’ottica, che nel concorso tra una riconosciuta istanza di carattere generale e il diritto individuale di recesso, subordina quest’ultimo. La disciplina, che vincola il rimborso delle azioni al socio receduto negli enti cooperativi, risponde ad una scelta di sistema, che definendo regole, capaci di assicurare il rispetto dei noti requisiti patrimoniali, ne vincola la struttura del capitale. Attraverso il co. 2-bis, aggiunto all’art. 28, t.u.b., si conferiscono alla funzione regolamentare della Banca centrale, quei poteri di valutazione ed intervento, che già avevano trovato ingresso nell’ordinamento nazio-

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nale, per effetto dell’art. 11, Reg. delegato cit33. Funzione che si connette direttamente ai complessivi compiti di vigilanza, legata ad un intervento «[…] laddove ciò sia necessario per assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di qualità primaria della banca» e che appare comunque fondata sull’esame della concreta fattispecie, da valutare in rapporto al rispetto dei requisiti richiesti. Leggendo il nuovo art. 28 t.u.b. insieme alla previsioni dell’art. 11 del Reg. delegato cit., sembra possibile individuare un potere di integrazione, da esercitare quando le limitazioni al rimborso non siano già adeguatamente disciplinate nelle disposizioni contrattuali o di legge. È possibile attendersi una regolamentazione a carattere generale, che prescriva i contenuti necessari perché le limitazioni contrattuali possano considerarsi adeguate, ma questo non sembra escludere la possibilità del singolo intervento, finalizzato ad «imporre», appunto, le modificazioni necessarie. L’innovazione risponde al disegno generale di rafforzamento della struttura patrimoniale del sistema creditizio, ma la scelta di varare la previsione in unico contesto con l’intervento di riforma sulle popolari deriva dalla volontà di dotare subito l’Autorità di controllo dei poteri previsti, per presidiare al meglio il percorso di trasformazione di queste banche. Se infatti la norma è rivolta ad ogni ipotesi di recesso, non c’è dubbio che la sua adozione «anticipata» ha avuto lo scopo di consentire l’eventuale limitazione del rimborso, in rapporto al passaggio incentivato delle banche interessate verso la spa. In realtà il recepimento della direttiva CRD IV è avvenuto in tempi piuttosto ravvicinati – anche se dopo aver accumulato un buon ritardo sulla scadenza prevista –, così che l’effetto anticipatorio non ha avuto modo di misurarsi con concreta casistica. Resta la considerazione che, a fronte di valori di capitale che rispetta-

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Art. 11, Regolamento delegato UE n. 241, del 7 gennaio 2014: «1. I limiti al rimborso inclusi nelle disposizioni contrattuali o di legge che regolano gli strumenti non impediscono all’autorità competente di limitare ulteriormente il rimborso degli strumenti su una base appropriata come previsto all’articolo 78 del Regolamento UE n. 575 del 2013. 14 marzo 2014 Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea L. 74/17 IT 2. Le autorità competenti valutano la base sulla quale è limitato il rimborso ai sensi delle disposizioni contrattuali e di legge che regolano lo strumento. Esse impongono agli enti di modificare le corrispondenti disposizioni contrattuali se non sono convinte che la base sulla quale è limitato il rimborso sia appropriata. Se gli strumenti sono regolati dalla normativa nazionale in assenza di disposizioni contrattuali, perché gli strumenti abbiano i requisiti per essere considerati capitale primario di classe 1 la legislazione deve consentire all’ente di limitare il rimborso come previsto dall’articolo 10, paragrafi da 1 a 3 […]».

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no i requisiti di core tier 1 e considerati i limiti partecipativi del singolo socio – anche le categorie di soci che possono detenere quote partecipative più elevate, di fatto, non hanno presenze molto rilevanti –, la preoccupazione sembra rivolta a fenomeni piuttosto estremi. Forse un pensiero che va a quelle stesse «minoranze organizzate», cui si fa cenno nella relazione accompagnatoria.

6. La mera forma organizzativa. La struttura societaria che sopravvive nelle piccole dimensioni. Il testo rinnovato dell’art. 150-bis, co. 2, t.u.b. mantiene invariato per le banche popolari il perimetro di inapplicabilità delle norme che definiscono la mutualità prevalente, confermando la loro permanenza nell’altro tipo di struttura cooperativa. Si è optato per migrare dal previgente primo comma dell’art. 150-bis le regole dedicate alle popolari e di integrarle. Di conseguenza il contenuto della loro mutualità non è più il solo elemento discriminante rispetto alle bcc, le popolari infatti trovano un nuovo regime speciale, che si apre ad un più ampio rinvio alle regole comuni in materia societaria34. La possibilità di fare ricorso alla nuova operatività, in linea generale, viene subordinata all’autonomia statutaria, che la relazione accompagnatoria al provvedimento individua come modalità per contemperare esigenze di «potenzialità competitive» con le «peculiarità» delle banche popolari. È confermata così la visione di un’adeguatezza in scala, che vede negli istituti a dimensione locale una minore complessità e una migliore possibilità di controllo dei soci «sulla dirigenza». In qualche modo viene ancora connessa la mutualità al localismo, che pure è il tono operativo anche per le bcc. In questo

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Cfr. Senato della Repubblica, scheda di lettura, Servizio studi, art. 1, «L’articolo prevede una serie di modifiche […] eliminando la previsione che la nomina dei membri degli organi di amministrazione e controllo spetti esclusivamente ai competenti organi sociali […] creando regimi civilistici distinti fra banche cooperative e banche popolari, alle quali viene consentita l’emissione di strumenti finanziari che prevedano l’attribuzione di diritti amministrativi rafforzati, nonché l’attribuzione ai soci persone giuridiche di più voti, ma non oltre cinque, in relazione all’ammontare della quota oppure al numero dei loro membri. Inoltre, gli statuti delle banche popolari determinano il numero massimo di deleghe che possono essere conferite ad un socio (non meno di 10 e non più di 20)». L’articolo detta poi una disciplina che può essere applicata dalle banche popolari per un periodo transitorio, in ordine a limitazioni al diritto di voto.

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caso si deve ritenere che la forma non sia considerata meramente «organizzativa», ma adeguata a rispondere a finalità solidaristiche, che ancora risiedono nella dimensione economica ridotta. La struttura societaria viene però aperta all’opportunità di emettere strumenti finanziari con specifici diritti patrimoniali e di voto, attraverso l’applicabilità degli artt. 234635, co. 6 e 2526 c.c., e alla possibilità di intervenire anche sul voto capitario, mediante l’opzione prevista dall’art. 2538, co. 3, c.c. per attribuire più voti al socio persona giuridica. Se da un lato si prosegue sulla via di una progressiva introduzione di regole più funzionali al mercato dei capitali, non può sfuggire che si realizza un’accentuata ibridazione di forme societarie e si persegue il rafforzamento patrimoniale con strumenti che si rivolgono ad un investitore, che obbedisce a logiche speculative. La preoccupazione è di rendere più attrattiva la banca, attraverso l’importazione di una configurazione di diritti patrimoniali e gestionali dal modello spa. È conseguente che nel corpo sociale della popolare facciano così ingresso nuove istanze, decisamente orientate a massimizzare il risultato economico, anche con sacrificio delle sensibilità solidaristiche. L’azione riformatrice si è rivolta inoltre alle modalità di nomina degli organi di governo societario, con l’attribuzione di maggiori poteri agli organi assembleari, non più legati da vincoli di nomina tra soci cooperatori e non. Salta la necessità di autorizzazione per la cessione di quote o azioni dei soci cooperatori, di cui al primo comma dell’art. 2530, c.c. Con lo scopo di migliorare la partecipazione e sempre affidandosi all’autonomia degli statuti, è modificato anche il co. 2-bis del medesimo art. 150-bis, elevando il numero delle deleghe conferibili ad un socio ed introducendo un minimo. I correttivi apportati alla struttura societaria sono orientati a sfumare i connotati d’impronta personalistica, per dare maggiore spazio alla rappresentanza dei capitali investiti. Il riformatore dopo aver operato un deciso taglio dimensionale sul gruppo delle popolari, inducendo la trasformazione delle più rilevanti, ha introdotto anche la possibilità di una quasi trasformazione rivolta alle più piccole, mediante l’introduzione di strumenti che rispondono

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Circa la concreta possibilità offerta dalle previsioni dell’art. 2346 c.c. di proporre al mercato strumenti finanziari idonei a favorire l’afflusso di nuovi investimenti, cfr. il commento di Lener, Sono davvero appetibili per gli investitori gli strumenti finanziari di tipo partecipativo?, in FCHub.it, 2015, che pone in luce la genericità della norma nella definizione dei diritti attribuiti ai portatori di simili strumenti.

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a funzioni lucrative. In altre parole le banche popolari residue possono sempre scegliere la trasformazione ex art. 31 t.u.b., ma possono anche prendere la strada di una profonda modificazione, usando della propria discrezionalità statutaria. In ultima istanza possono restare fedeli all’originario modello, comunque rettificato, ma sempre tenute al rispetto dei requisiti prudenziali e delle indicazioni di Vigilanza, che non potranno che favorire la scelta del rafforzamento, che passa, com’è prevedibile, dall’adozione delle nuove modalità di struttura. Si deve osservare che ora l’equilibrio tra esigenze di stabilità del sistema e possibilità di esercizio dell’attività creditizia passa in primo luogo dal criterio dimensionale, per concretizzarsi poi nell’ulteriore contaminazione della forma cooperativa, senza mutualità prevalente, con elementi che accentuano le istanze lucrative. In realtà considerare lo slittamento verso altro modello societario, è rilievo di ordine descrittivo, posto che lo statuto dedicato alle popolari viene integrato, ma continua a regolare una banca, che conserva natura cooperativa. D’altronde già da tempo e lungamente si è dibattuto sulla permanenza della causa solidaristica, al punto che le modificazioni attuali confermano, al più, che questa forma cooperativa trova vero fondamento nella definizione positiva, che ne dà il legislatore. Tutto sommato la risposta individuata per dare contenuto alla forma, altrimenti di «mera organizzazione», è soltanto di valutazione del peso economico. Si delinea un assetto dedicato alle popolari residue, che ne sottolinea la vocazione al localismo, avvicinandole sotto questo profilo all’operatività delle bcc, ma si propone una strumentazione operativa, per sostenere necessità di rafforzamento, in relazione alle esigenze di un’attività aperta all’esterno. Specie di mezzo, che prevedibilmente sceglierà la migliore agilità operativa e, in situazione di crescita, tenderà alla trasformazione.

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Sanzioni amministrative e principi del “giusto procedimento” CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, Sezione seconda, sentenza 4 marzo 2014; Pres. Iȿil Karakaȿ; Grande Stevens ed altri (avv. A. e G. Bozzi, Irti) Mercato finanziario – Manipolazioni – Sanzioni amministrative – Natura penale (C.E.D.U., art. 6; d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, testo unico della finanza, art. 187-ter) Mercato finanziario – Manipolazioni – Procedimento sanzionatorio avanti la Consob – Difetto di imparzialità – Assenza di contraddittorio sulla proposta di sanzione – Mancanza di udienza pubblica – Successivo giudizio di opposizione avanti la Corte d’appello – Mancanza di udienza pubblica – Violazioni art. 6 C.E.D.U. – Sussistono (C.E.D.U., art. 6; d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, testo unico della finanza, art. 187- septies) Mercato finanziario – Manipolazioni – Doppia previsione di illecito, amministrativo e penale – Definizione del procedimento sanzionatorio – Apertura di procedimento penale per gli stessi fatti – Violazione del principio del ne bis in idem – Sussiste (C.E.D.U., art. 4, Protocollo n. 7; d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, testo unico della finanza, art. 185, 187-ter)

Le sanzioni amministrative previste dall’art.187-ter del testo unico della finanza per le manipolazioni del mercato finanziario devono, in particolare per la loro severità, essere ricondotte nell’ambito della materia penale. (1) Il procedimento sanzionatorio destinato a svolgersi davanti alla Consob, sia perché in esso le funzioni di indagine e di giudizio sono svolte in seno ad una stessa istituzione, sia perchè in esso non si prevede la possibilità di contestazione della proposta di sanzione formulata al ter-

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mine dell’istruttoria né un’udienza pubblica che permetta un confronto orale, viola le prescrizioni dell’art. 6 CEDU; ugualmente viola l’art. 6 CEDU la mancanza di un’udienza pubblica nel successivo giudizio di opposizione avanti l’A.G.O. (2) Definito il procedimento sanzionatorio per manipolazioni del mercato viola il principio del ne bis in idem l’apertura di un procedimento penale per gli stessi fatti materiali. (3) (Omissis) PROCEDURA 1. All’origine della causa vi sono cinque ricorsi (nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10) proposti contro la Repubblica italiana con i quali tre cittadini e due società di tale Stato, i sigg. Franzo Grande Stevens, Gianluigi Gabetti e Virgilio Marrone, nonché Exor S.p.a. e Giovanni Agnelli & C. S.a.s. («i ricorrenti»), hanno adito la Corte il 27 marzo 2010 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»). 2. I ricorrenti sono stati rappresentati dagli Avv. A. e G. Bozzi, dei fori rispettivamente di Milano e Roma. Il sig. Grande Stevens è stato rappresentato anche dall’Avv. N. Irti, del foro di Milano. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dalla sua agente, E. Spatafora, e dalla sua co-agente, P. Accardo. 3. I ricorrenti lamentano in particolare che i procedimenti giudiziari di cui hanno formato oggetto non sono stati equi e non hanno

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avuto luogo davanti ad un «tribunale» indipendente ed imparziale, che è stato leso il loro diritto al rispetto dei loro beni e che sono stati vittime di una violazione del principio ne bis in idem. 4. Il 15 gennaio 2013, i ricorsi sono stati dichiarati parzialmente irricevibili e le doglianze relative all’articolo 6 della Convenzione, nonché agli articoli 1 del Protocollo n. 1 e 4 del Protocollo n. 7 sono state comunicate al Governo. Come consentito dall’articolo 29 § 1 della Convenzione, è stato inoltre deciso che la Camera si sarebbe pronunciata contestualmente sulla ricevibilità e sul merito. IN FATTO I. Le circostanze del caso di specie 5. L’elenco delle parti ricorrenti figura in allegato A. Il contesto della causa 6. All’epoca dei fatti, il sig. Gianluigi Gabetti era il presidente delle due società ricorrenti e il sig. Virgilio Marrone era il procuratore della so-


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cietà Giovanni Agnelli & C. s.a.p.a. 7. Il 26 luglio 2002, la società anonima FIAT (Fabbrica Italiana Automobili Torino) sottoscrisse un prestito convertendo con otto banche. Il contratto scadeva il 20 settembre 2005 e prevedeva che, in caso di mancato rimborso del prestito da parte della FIAT, le banche avrebbero potuto compensare il loro credito sottoscrivendo un aumento del capitale societario. Così, le banche avrebbero acquisito il 28% del capitale sociale della FIAT, mentre la partecipazione della società anonima IFIL Investments (divenuta poi, il 20 febbraio 2009, Exor s.p.a., come sarà di seguito denominata) sarebbe passata dal 30,06% al 22% circa. 8. Il sig. Gabetti, desideroso di ottenere una consulenza legale per trovare il modo di permettere alla Exor di rimanere l’azionista di maggioranza della FIAT, si rivolse in quell’ottica ad un avvocato specializzato in diritto societario, l’Avv. Grande Stevens. Secondo quest’ultimo, una delle possibilità era rinegoziare un contratto di equity swap (ossia un contratto che consente di scambiare la performance di un’azione contro un tasso di interesse, senza dovere anticipare denaro) del 26 aprile 2005 riguardante circa 90 milioni di azioni FIAT che la Exor aveva concluso con una banca d’affari inglese, la Merril Lynch International Ltd, e la cui scadenza era fissata al 26 dicembre 2006. A parere

dell’Avv. Grande Stevens, quella era una delle strade per evitare il lancio di un’offerta pubblica di acquisto («OPA») sulle azioni FIAT. 9. Senza menzionare la Merrill Lynch International Ltd per timore di violare i suoi doveri di riservatezza, il 12 agosto 2005 l’Avv. Grande Stevens chiese alla Commissione nazionale per le società e la Borsa (la «CONSOB», che nel sistema giuridico italiano ha, tra i suoi fini, quello di garantire la tutela degli investitori e l’efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici), se, nell’ipotesi da lui prospettata, si sarebbe potuto evitare un’OPA. Al tempo stesso, l’Avv. Grande Stevens cominciò ad informarsi presso la Merrill Lynch International Ltd in merito alla possibilità di modificare il contratto di equity swap. 10. Il 23 agosto 2005, la CONSOB chiese alle società Exor e Giovanni Agnelli di diffondere un comunicato stampa che indicasse le iniziative assunte in vista della scadenza del prestito convertendo con le banche, i fatti nuovi riguardanti la società FIAT e i fatti utili a spiegare le fluttuazioni delle azioni FIAT sul mercato. 11. Il sig. Marrone spiega che quel giorno era in ferie. Aveva informato l’Avv. Grande Stevens della richiesta della CONSOB e gliene aveva trasmesso una copia. Il sig. Marrone sostiene di non avere partecipato alla redazione dei comunicati stampa descritti nei successivi paragrafi 13 e 14.

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12. Il sig. Gabetti spiega che il 23 agosto 2005 era ricoverato negli Stati Uniti. Aveva ricevuto una bozza di comunicato stampa e aveva contattato telefonicamente l’Avv. Grande Stevens. Questi gli aveva confermato che, poiché numerosi elementi rimanevano da chiarire, l’ipotesi di una rinegoziazione del contratto di equity swap non poteva considerarsi un’opzione concreta e attuale. In tali circostanze, il sig. Gabetti approvò la bozza di comunicato. 13. Il comunicato stampa emesso in risposta, approvato dall’Avv. Grande Stevens, si limitava a indicare che la Exor non aveva «né avviato né studiato iniziative riguardanti la scadenza del prestito convertendo» e che auspicava «di rimanere l’azionista di riferimento della FIAT». Non fu fatta menzione dell’eventuale rinegoziazione del contratto di equity swap con la Merrill Lynch International Ltd, considerata dai ricorrenti una mera ipotesi futura per mancanza di un fondamento fattuale e giuridico chiaro. 14. La società Giovanni Agnelli confermò il comunicato stampa della Exor. 15. Dal 30 agosto al 15 settembre 2005, l’Avv. Grande Stevens proseguì le trattative con la Merrill Lynch International Ltd per verificare la possibilità di modificare il contratto di equity swap. 16. Il 14 settembre 2005, nel corso di una riunione della fami-

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glia Agnelli, fu deciso che il piano studiato dall’Avv. Grande Stevens dovesse essere sottoposto all’approvazione del consiglio di amministrazione della Exor. Lo stesso giorno, la CONSOB ricevette una copia del contratto di equity swap e fu informata delle trattative in corso al fine di utilizzarlo per consentire alla Exor di acquisire azioni FIAT. 17. Il 15 settembre 2005, in esecuzione di deliberazioni dei rispettivi consigli di amministrazione, la Exor e la Merrill Lynch International Ltd conclusero l’accordo che modificava il contratto di equity swap. 18. Il 17 settembre 2005, rispondendo alla domanda rivoltale dall’Avv. Grande Stevens il 12 agosto 2005 (paragrafo 9 supra), la CONSOB comunicò che, nell’ipotesi prospettata, non vi era l’obbligo di lanciare un’OPA. 19. Il 20 settembre 2005 la FIAT aumentò il suo capitale; le nuove azioni emesse furono acquisite dalle otto banche a compensazione dei loro crediti. Lo stesso giorno, entrò in vigore l’accordo che modificava il contratto di equity swap. Di conseguenza, la Exor conservò la sua partecipazione del 30% nel capitale FIAT. B. Il procedimento dinanzi alla CONSOB 20. Il 20 febbraio 2006, la Divisione mercati e consulenza economica – ufficio Insider Trading – di


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seguito l’«ufficio IT») della CONSOB contestò ai ricorrenti la violazione dell’articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Ai sensi di tale disposizione, intitolata «manipolazione del mercato», «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 20.000 a euro 5.000.000 chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari». 21. Secondo la tesi dell’ufficio IT, l’accordo che modificava l’equity swap era stato concluso o era in procinto di esserlo prima della diffusione dei comunicati stampa del 24 agosto 2005, quindi non era normale che questi non ne facessero menzione. I ricorrenti furono invitati a presentare la loro difesa. 22. L’ufficio IT trasmise poi il fascicolo all’ufficio sanzioni amministrative (di seguito «l’ufficio sanzioni») della CONSOB, corredandolo di una relazione istruttoria datata 13 settembre 2006, che menzionava gli elementi a carico e le argomentazioni degli accusati. Stando a tale relazione, le difese avanzate dai ricorrenti non erano tali da consentire di archiviare il fascicolo. 23. L’ufficio sanzioni comunicò la relazione ai ricorrenti e li invitò

a presentare per iscritto, entro il termine di trenta giorni che scadeva il 23 ottobre 2006, le argomentazioni che ritenevano necessarie per la loro difesa. Nel frattempo, l’ufficio IT continuò a esaminare la causa dei ricorrenti, acquisendo informazioni orali e analizzando i documenti ricevuti il 7 luglio 2006 dalla Merrill Lynch International Ltd. Il 19 ottobre 2006, detto ufficio trasmise all’ufficio sanzioni una «nota complementare» in cui affermava che i nuovi documenti esaminati non consentivano di giungere a conclusioni diverse. Il 26 ottobre 2006, i ricorrenti ricevettero una copia della nota complementare del 19 ottobre 2006 e dei suoi allegati; fu concesso loro un nuovo termine di trenta giorni per presentare eventuali osservazioni. 24. Senza comunicarla ai ricorrenti, l’ufficio sanzioni presentò la sua relazione (datata 19 gennaio 2007 e contenente le sue conclusioni) alla commissione - la CONSOB propriamente detta -, vale a dire all’organo incaricato di adottare l’eventuale provvedimento di applicazione di sanzioni. Questa si componeva, all’epoca dei fatti, di un presidente e di quattro membri, nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri. Il loro mandato durava cinque anni ed era rinnovabile una sola volta. 25. Con provvedimento n. 15760 del 9 febbraio 2007, la CONSOB

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comminò ai ricorrenti le seguenti sanzioni amministrative pecuniarie: 5.000.000 EUR al sig. Gabetti, 3.000.000 EUR al sig. Grande Stevens, 500.000 EUR al sig. Marrone, 4.500.000 EUR alla società Exor, 3.000.000 EUR alla società Giovanni Agnelli. 26. Ai sigg. Gabetti, Grande Stevens e Marrone fu applicato il divieto di assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo di società quotate in borsa, rispettivamente per sei, quattro e due mesi. 27. In particolare, secondo la CONSOB, dal fascicolo emergeva che il 24 agosto 2005, data dei comunicati stampa in questione, il piano volto a conservare una partecipazione del 30% nel capitale della FIAT sulla base di una rinegoziazione del contratto di equity swap sottoscritto con la Merrill Lynch International Ltd era già stato studiato e in corso di esecuzione. Ne conseguiva che i comunicati stampa davano una rappresentazione falsa della situazione dell’epoca. La CONSOB sottolineò anche la posizione occupata dalle persone interessate, la «gravità oggettiva» dell’illecito e l’esistenza del dolo. C. Il ricorso in opposizione dinanzi alla Corte d’appello 28. I ricorrenti proposero ricorso in opposizione avverso tale sanzione dinanzi alla Corte d’ap-

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pello di Torino. Denunciarono, tra l’altro, che il regolamento della CONSOB era illegale in quanto, contrariamente a quanto richiesto dall’articolo 187 septies del decreto legislativo n. 58 del 1998 (paragrafo 57 infra), non rispettava il principio del contraddittorio. 29. Il sig. Grande Stevens osservò inoltre che la CONSOB lo aveva accusato e punito per avere preso parte alla pubblicazione del comunicato stampa del 24 agosto 2005 in qualità di amministratore della Exor. Davanti alla CONSOB l’interessato aveva eccepito invano di non possedere tale qualità e di essere semplicemente l’avvocato e il consulente del gruppo Agnelli. Dinanzi alla Corte d’appello il sig. Grande Stevens confermò che, non essendo amministratore, non poteva avere partecipato alla decisione di pubblicare il comunicato stampa in questione. In una memoria del 25 settembre 2007, il sig. Grande Stevens comunicò che, nel caso in cui la Corte d’appello avesse ritenuto insufficienti o inutilizzabili i documenti acquisiti agli atti, egli chiedeva di convocare ed esaminare i testimoni «sui fatti riferiti nei documenti succitati». Nella memoria egli non indicò chiaramente né i nomi di tali testimoni né le circostanze sulle quali essi avrebbero dovuto testimoniare. In una memoria in pari data, il sig. Marrone citò due testimoni, le cui dichiarazioni avrebbero provato che egli non aveva partecipato alla


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redazione dei comunicati stampa, e precisò che la Corte d’appello avrebbe potuto, ove occorresse, procedere alla loro audizione. 30. Con sentenze depositate in cancelleria il 23 gennaio 2008, la Corte d’appello di Torino ridusse come segue, per alcuni dei ricorrenti, l’importo delle sanzioni amministrative pecuniarie comminate dalla CONSOB: 600.000 EUR per la società Giovanni Agnelli s.a.p.a.; 1.000.000 EUR per la Exor s.p.a.; 1.200.000 EUR per il sig. Gabetti. Nell’intestazione delle sentenze emesse nei confronti dei sigg. Gabetti e Marrone e della Exor s.p.a. era indicato che la Corte d’appello si era riunita in camera di consiglio. La parte «procedura» delle sentenze pronunciate contro il sig. Grande Stevens e Giovanni Agnelli & C. S.a.s. menzionava che era stata disposta la comparizione delle parti in camera di consiglio. 31. La durata del divieto di assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo di società quotate in borsa pronunciato nei confronti del sig. Gabetti fu ridotta da sei a quattro mesi. 32. La Corte d’appello rigettò tutte le altre doglianze degli interessati. Essa notò tra l’altro che, anche dopo la trasmissione del fascicolo all’ufficio sanzioni, l’ufficio IT conservava il diritto di proseguire la sua attività di indagine, non essendo vincolante il termine

di 210 giorni previsto per i provvedimenti della CONSOB. Peraltro, il principio del contraddittorio era rispettato dato che, come nel caso di specie, gli accusati erano stati informati dei nuovi elementi raccolti dall’ufficio IT e avevano avuto la possibilità di presentare le loro repliche. 33. La Corte d’appello osservò anche che corrispondeva a verità che la CONSOB aveva da un lato comminato le sanzioni previste dall’articolo 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998 e dall’altro denunciato alla procura la commissione del reato di cui all’articolo 185 punto 1 dello stesso decreto. Ai sensi di tale disposizione, «Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 20.000 a euro 5.000.000.» 34. Secondo la Corte d’appello, queste due disposizioni avevano ad oggetto la stessa condotta (la «diffusione di informazioni false») e perseguivano lo stesso scopo (evitare manipolazioni del mercato), ma differivano quanto alla situazione di pericolo che si presumeva fosse stata generata da tale condotta: per l’articolo 187 ter, era sufficiente di per sé avere fornito indicazioni false o fuorvianti in merito agli strumenti finanziari, mentre l’articolo 185 richiedeva

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inoltre che tali informazioni fossero state tali da provocare una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti in questione. Come indicato dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 409 del 12 novembre 1991, al legislatore era consentito di sanzionare un comportamento illecito al tempo stesso con una sanzione amministrativa pecuniaria e con una sanzione penale. Inoltre, l’articolo 14 della direttiva 2003/6/CE (paragrafo 60 infra), che invitava gli Stati membri dell’Unione europea ad applicare sanzioni amministrative nei confronti delle persone responsabili di una manipolazione del mercato, conteneva anch’esso la menzione «fatto salvo il loro diritto di imporre sanzioni penali». 35. Sul merito, la Corte d’appello osservò che dal fascicolo risultava che, all’epoca in questione, la rinegoziazione dell’equity swap era stata analizzata nei minimi dettagli e le conclusioni cui era giunta la CONSOB (vale a dire che il piano esisteva già un mese prima del 24 agosto 2005) erano ragionevoli alla luce dei fatti accertati e della condotta delle persone interessate. 36. Quanto al sig. Grande Stevens, era vero che egli non era amministratore della Exor s.p.a. Tuttavia, l’illecito amministrativo punito dall’articolo 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998 poteva essere commesso da «chiunque», quindi in una qualsiasi qualità; ora, di certo il sig. Grande

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Stevens aveva partecipato al processo decisionale che aveva portato alla pubblicazione del comunicato stampa nella sua qualità di avvocato consultato dalle società ricorrenti. D. Il ricorso per cassazione 37. I ricorrenti proposero ricorso per cassazione. Nel terzo e nel quarto motivo del ricorso, dedussero in particolare una violazione dei principi del giusto processo, sanciti dall’articolo 111 della Costituzione, a causa soprattutto: dell’assenza di contraddittorio nella fase istruttoria dinanzi alla CONSOB; della mancata trasmissione agli imputati della relazione istruttoria dell’ufficio sanzioni; dell’impossibilità, secondo loro, di depositare memorie e documenti e di essere sentiti personalmente dalla commissione; del fatto che l’ufficio IT aveva proseguito l’inchiesta e trasmesso una nota complementare dopo la scadenza del termine fissato a tale scopo. 38. Con sentenze del 23 giugno 2009, il cui testo fu depositato in cancelleria il 30 settembre 2009, la Corte di cassazione rigettò i loro ricorsi. In particolare, essa ritenne che il principio del contraddittorio fosse stato rispettato nel procedimento dinanzi alla CONSOB, rilevando che questa aveva informato gli interessati della condotta loro contestata e tenuto conto delle loro rispettive difese. La mancata audizione dei ricorrenti e la mancata


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trasmissione agli stessi delle conclusioni dell’ufficio sanzioni non violavano tale principio, in quanto le disposizioni costituzionali in materia di giusto processo e di diritto alla difesa si applicavano soltanto ai procedimenti giudiziari, e non al procedimento per l’applicazione di sanzioni amministrative. E. Le azioni penali nei confronti dei ricorrenti 39. Ai sensi del decreto legislativo n. 58 del 1998, la condotta dei ricorrenti contestata poteva formare oggetto non solo di una sanzione amministrativa comminata dalla CONSOB, ma anche delle sanzioni penali previste dall’articolo 185 punto 1, citato nel precedente paragrafo 33. 40. Il 7 novembre 2008, i ricorrenti furono rinviati a giudizio dinanzi al tribunale di Torino. Erano accusati di avere dichiarato, nei comunicati stampa del 24 agosto 2005, che la Exor auspicava di rimanere l’azionista di riferimento della FIAT e non aveva né avviato né studiato iniziative riguardanti la scadenza del prestito convertendo, mentre l’accordo che modificava l’equity swap era già stato esaminato e concluso, informazione che sarebbe stata tenuta nascosta al fine di evitare un probabile crollo del prezzo delle azioni FIAT. 41. La CONSOB si costituì parte civile, com’era sua facoltà fare ai sensi dell’articolo 187 undecies del decreto legislativo n. 58 del 1998.

42. Dopo il 30 settembre 2009, data del deposito in cancelleria della sentenza di rigetto del ricorso per cassazione proposto dai ricorrenti avverso la condanna inflitta dalla CONSOB (paragrafo 38 supra), gli interessati chiesero l’abbandono delle azioni penali nei loro confronti in virtù del principio ne bis in idem. In particolare, all’udienza del 7 gennaio 2010, essi eccepirono l’incostituzionalità delle disposizioni pertinenti del decreto legislativo n. 58 del 1998 e dell’articolo 649 del codice di procedura penale (il «CPP» - si veda il paragrafo 59 infra), per incompatibilità, a loro giudizio, con l’articolo 4 del Protocollo n. 7. 43. Il pubblico ministero si oppose a tale eccezione, sostenendo che il «doppio processo» (amministrativo e penale) era imposto dall’articolo 14 della direttiva 2003/6/CE del 28 gennaio 2003 (paragrafo 60 infra), alla quale il legislatore italiano aveva dato esecuzione introducendo gli articoli 185 e 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998. 44. Il tribunale di Torino non si pronunciò immediatamente sulla questione incidentale di costituzionalità sollevata dalla difesa. Ordinò una perizia per determinare le fluttuazioni delle azioni FIAT tra il dicembre 2004 e l’aprile 2005 e per valutare gli effetti dei comunicati stampa del 24 agosto 2005 e delle informazioni diffuse il 15 settembre 2005.

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45. Con sentenza del 21 dicembre 2010, il cui testo fu depositato in cancelleria il 18 marzo 2011, il Tribunale di Torino assolse il sig. Marrone in quanto non aveva contribuito alla pubblicazione dei comunicati stampa, e assolse anche gli altri ricorrenti perché non era stato provato che la loro condotta fosse stata tale da provocare una significativa alterazione del mercato finanziario. Il Tribunale osservò che il fatto che i comunicati stampa contenessero informazioni false era già stato sanzionato dall’autorità amministrativa. Secondo il Tribunale, la condotta contestata agli interessati mirava, probabilmente, a tenere nascosta alla CONSOB la rinegoziazione del contratto di equity swap, e non a fare aumentare il prezzo delle azioni FIAT. 46. Il Tribunale dichiarò manifestamente infondata la questione incidentale di costituzionalità sollevata dai ricorrenti. Osservò che la legge italiana (articolo 9 della legge n. 689 del 1981) vietava un «doppio giudizio», penale e amministrativo, su uno «stesso fatto». Ora, gli articoli 185 e 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998 non punivano lo stesso fatto: solo la disposizione penale (l’articolo 185) richiedeva che la condotta fosse stata tale da provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari (si veda Corte di cassazione, sesta sezione, sentenza del 16 marzo 2006, n. 15199). Inoltre, l’applicazione della di-

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sposizione penale presupponeva l’esistenza di un dolo, mentre la disposizione amministrativa si applicava in presenza di un semplice comportamento colpevole. D’altra parte, le azioni penali successive alla pronuncia della sanzione pecuniaria prevista dall’articolo 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998 erano autorizzate dall’articolo 14 della direttiva 2003/6/CE. 47. Quanto alla giurisprudenza della Corte citata dai ricorrenti (Gradinger c. Austria (23 ottobre 1995, serie A n. 328-C), Sergueï Zolotoukhine c. Russia ([GC], n. 14939/03, CEDU 2009), Maresti c. Croazia (n. 55759/07, 25 giugno 2009), e Ruotsalainen c. Finlandia (n. 13079/03, 16 giugno 2009)), essa non era pertinente nel caso di specie, in quanto si riferiva a casi in cui uno stesso fatto era punito con sanzioni penali e amministrative e in cui queste ultime avevano carattere punitivo e potevano comprendere restrizioni della libertà ovvero (causa Ruotsalainen) erano di importo superiore alla sanzione penale pecuniaria. 48. La procura propose ricorso per cassazione, sostenendo che il reato contestato ai ricorrenti era «di pericolo» e non «di danno». Esso poteva quindi essere integrato anche in assenza di danno per gli azionisti. 49. Il 20 giugno 2012 la Corte di cassazione accolse in parte il ricorso proposto dalla procura e cassò la decisione di assoluzione delle


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società Giovanni Agnelli e Exor, nonché dei sigg. Grande Stevens e Gabetti, confermando invece la decisione di assoluzione del sig. Marrone, poiché questi non aveva preso parte alla condotta contestata. 50. Con sentenza del 28 febbraio 2013, la Corte d’appello di Torino condannò i sigg. Gabetti e Grande Stevens per il reato previsto all’articolo 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, ritenendo che fosse altamente probabile che, senza le false informazioni incluse nel comunicato stampa emesso il 24 agosto 2005, il valore delle azioni FIAT si sarebbe abbassato in misura assai più significativa. Essa assolse invece le società Exor e Giovanni Agnelli, ritenendo che non potessero essere giudicate responsabili di fatti illeciti. 51. La Corte d’appello escluse nel modo più assoluto una violazione del principio del ne bis in idem, confermando, fondamentalmente, il ragionamento seguito dal Tribunale di Torino. 52. Stando alle informazioni fornite dal Governo il 7 giugno 2013, i sigg. Gabetti e Grande Stevens hanno proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza, e il procedimento era ancora pendente a tale data. Nei loro ricorsi, questi due ricorrenti hanno invocato la violazione del principio ne bis in idem e chiesto di sollevare una questione incidentale di costituzionalità dell’articolo 649 del CPP.

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI ED EUROPEI PERTINENTI A. Il diritto interno 1. Il decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998 53. Come indicato in precedenza (paragrafo 20 supra), l’articolo 187 ter punto 1 di tale decreto prevede sanzioni amministrative pecuniarie per le persone responsabili di manipolazione del mercato. Ai sensi del punto 5 di quella stessa disposizione, quando il livello ordinario di tali sanzioni pecuniarie appare inadeguato rispetto alla gravità della condotta in questione, esse possono essere aumentate fino al triplo del loro importo massimo ordinario o fino a dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito. La CONSOB deve indicare gli elementi e le circostanze di cui tiene conto per valutare i comportamenti costitutivi di una manipolazione del mercato ai sensi della direttiva 2003/6/CE (paragrafo 60 infra) e delle disposizioni di esecuzione di questa. 54. L’articolo 187 quater precisa che l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie summenzionate importa la perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per gli esponenti delle società coinvolte. Se la società è quotata in borsa, ai suoi esponenti si applica l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di ammi-

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nistrazione, direzione e controllo nell’ambito di società quotate. Queste sanzioni accessorie hanno una durata variabile da due mesi a tre anni. Tenuto conto della gravità della condotta in questione e del grado della colpa commessa, la CONSOB può anche intimare alle società quotate, alle società di gestione e alle società di revisione di non avvalersi della collaborazione dell’autore della violazione, per un periodo non superiore a tre anni. Essa può altresì richiedere ai competenti ordini professionali la temporanea sospensione dell’interessato dall’esercizio dell’attività professionale. 55. Secondo l’articolo 187 quinquies, la società commerciale è tenuta al pagamento di una somma pari all’importo della sanzione amministrativa irrogata ai suoi amministratori, direttori o manager per le violazioni da essi commesse nel suo interesse e a suo vantaggio. Se tali violazioni hanno generato un prodotto o un profitto rilevante, la sanzione applicata alla società è aumentata fino a dieci volte tale prodotto o profitto. Tuttavia, la società non è responsabile se dimostra che i suoi amministratori, direttori o manager hanno agito esclusivamente nell’interesse proprio o di terzi. 56. Secondo l’articolo 187 sexies, l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie in questione importa sempre la confisca del prodotto o del profitto dell’il-

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lecito e dei beni utilizzati per commetterlo. Ai sensi dell’articolo 187 septies, il provvedimento di applicazione delle sanzioni è pubblicato per estratto nel bollettino della CONSOB, che può stabilire modalità ulteriori di pubblicità, ponendo le relative spese a carico dell’autore della violazione. 57. L’articolo 187 septies descrive la procedura di applicazione delle sanzioni da parte della CONSOB. In particolare, l’illecito deve essere contestato agli interessati entro 180 giorni dalla sua scoperta. Gli interessati possono chiedere di essere sentiti e il procedimento deve ispirarsi ai principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie. 58. Ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo n. 58 del 1998, la CONSOB è autorizzata a stabilire i termini e le procedure per l’adozione degli atti di sua competenza. 2. IL CPP 59. L’articolo 649 del CPP recita: «1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze (…).


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2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo.» B. Il diritto e la prassi europei 60. L’articolo 14 della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 28 gennaio 2003 relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato – Gazzetta ufficiale n. L 096 del 12/04/2003 pp. 0016–0025) dispone: «1. Fatto salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali, gli Stati membri sono tenuti a garantire, conformemente al loro ordinamento nazionale, che possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che tali misure siano efficaci, proporzionate e dissuasive. 2. La Commissione stila, in conformità della procedura di cui all’articolo 17, paragrafo 2, un elenco indicativo delle misure e delle sanzioni amministrative di cui al paragrafo 1. 3. Gli Stati membri fissano le sanzioni da applicare per l’omessa

collaborazione alle indagini di cui all’articolo 12. 4. Gli Stati membri provvedono affinché l’autorità competente possa divulgare al pubblico le misure o sanzioni applicate per il mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva, salvo il caso in cui la divulgazione possa mettere gravemente a rischio i mercati finanziari o possa arrecare un danno sproporzionato alle parti coinvolte.» 61. Nella causa Spector Photo Group NV e Chris Van Raemdonck c/Commissie voor het Bank, Financie- en Assurantiewezen (CBFA), (causa C-45/08) del 23 dicembre 2009, la Corte di giustizia dell’Unione europea si è espressa come segue: «40. Al riguardo va ricordato che, secondo la giurisprudenza costante, i diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza (sentenza 3 settembre 2008, cause riunite C-402/05 P e C-415/05 P, Kadi e Al Barakaat International Foundation/Consiglio e Commissione, Racc. pag. I-6351, punto 283). 41. Emerge altresì dalla giurisprudenza della Corte che il rispetto dei diritti dell’uomo rappresenta una condizione di legittimità degli atti comunitari e che nella Comunità non possono essere consentite misure incompatibili con il rispetto di questi ultimi (citata sentenza Kadi e Al Barakaat International

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Foundation/Consiglio e Commissione, punto 284). 42. È vero che l’articolo 14, n. 1, della direttiva 2003/6 non impone agli Stati membri di prevedere sanzioni penali nei confronti degli autori di abusi di informazioni privilegiate, ma si limita ad affermare che tali Stati sono tenuti a garantire che «possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione di [tale] direttiva», essendo gli Stati membri, inoltre, tenuti a garantire che queste misure siano «efficaci, proporzionate e dissuasive». Tuttavia, considerata la natura delle violazioni di cui trattasi, nonché dato il grado di severità delle sanzioni che esse possono comportare, siffatte sanzioni, ai fini dell’applicazione della CEDU, possono essere qualificate come sanzioni penali (v., per analogia, sentenza 8 luglio 1999, causa C-199/92 P, Hüls/Commissione, Racc. pag. I-4287, punto 150, nonché sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, serie A n. 22, par. 82; 21 febbraio 1984, Öztürk c. Germania, serie A n. 73, par. 53, e 25 agosto 1987, Lutz c. Germania, serie A n. 123, par. 54). 43. Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ogni sistema giuridico contempla presunzioni di fatto o

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di diritto e la CEDU certamente non vi pone ostacolo in linea di principio, ma, in materia penale, essa obbliga gli Stati contraenti a non oltrepassare al riguardo una determinata soglia. Pertanto, il principio della presunzione d’innocenza sancito all’articolo 6, n. 2, della CEDU non si disinteressa delle presunzioni di fatto o di diritto che si riscontrano nelle leggi penali. Esso ordina agli Stati di contenerle in limiti ragionevoli che tengano conto della gravità dell’offesa e che rispettino i diritti della difesa (v. sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo 7 ottobre 1988, Salabiaku c. Francia, serie A n. 141-A, par. 28, e 25 settembre 1992, Pham Hoang c. Francia, serie A n. 243, par. 33). 44. Occorre considerare che il principio della presunzione d’innocenza non osta alla presunzione prevista dall’articolo 2, n. 1, della direttiva 2003/6, con la quale l’intenzione dell’autore di un abuso di informazioni privilegiate si deduce implicitamente dagli elementi materiali costitutivi di tale violazione, dato che questa presunzione è confutabile e i diritti della difesa sono garantiti. 45. L’introduzione di un sistema efficiente e uniforme di prevenzione e di sanzione degli abusi di informazioni privilegiate con il legittimo scopo di tutelare l’integrità dei mercati finanziari ha quindi potuto indurre il legislatore comunitario a prendere in considerazio-


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ne una definizione oggettiva degli elementi costitutivi di un abuso vietato di informazioni privilegiate. Il fatto che l’articolo 2, n. 1, della direttiva 2003/6 non preveda espressamente alcun elemento psicologico non significa per questo che sia necessario interpretare tale disposizione nel senso che qualunque insider primario in possesso di informazioni privilegiate che effettua un’operazione di mercato rientra automaticamente nell’ambito del divieto degli abusi di informazioni privilegiate». 62. Per un quadro più ampio del diritto dell’Unione europea in campo borsistico, si veda anche Soros c. Francia, n. 50425/06, §§ 38-41, 6 ottobre 2011. IN DIRITTO I. Le eccezioni preliminari del governo (Omissis) II. Sulla dedotta violazione dell’art. 6 della Convenzione 87. I ricorrenti sostengono che il procedimento dinanzi alla CONSOB non è stato equo e denunciano la mancanza di imparzialità e indipendenza di tale organo. Essi invocano l’articolo 6 della Convenzione, che, nelle sue parti pertinenti, è così formulato: «1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente (…),

da un tribunale indipendente e imparziale (…), il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia. 2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. 3. In particolare, ogni accusato ha diritto di: a) essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico; b) disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; c) difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da

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un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; d) esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico (…)». 88. Il Governo contesta la tesi dei ricorrenti. A. Sulla ricevibilità 1. Sulla questione di stabilire se sia applicabile il profilo penale dell’art. 6 della Convenzione a) Argomenti delle parti i. Il Governo 89. Il Governo afferma che il procedimento dinanzi alla CONSOB non verteva su una «accusa in materia penale» a carico dei ricorrenti. Osserva che la sanzione prevista dall’articolo 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998 è chiaramente qualificata come «amministrativa» sia nel diritto interno che nel diritto europeo e può essere inflitta da un organo amministrativo all’esito di un procedimento amministrativo. 90. Per quanto riguarda la sua natura, la sanzione è applicabile ad ogni comportamento, anche a una semplice negligenza, che possa dare segnali o informazioni errate agli investitori, senza necessariamente generare una significativa alterazione dei mercati finanziari.

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Essa tutela gli investitori da qualsiasi potenziale rischio che le loro scelte possano essere influenzate e dunque riguarda interessi diversi da quelli che normalmente sono tutelati dal diritto penale. Infine, le sanzioni che possono essere inflitte intaccano soltanto il patrimonio della persona interessata e/o la sua capacità di assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo, e non possono in alcun caso portare a una privazione della libertà anche nel caso non vengano pagate. Non vengono iscritte sul casellario giudiziale e normalmente vengono inflitte agli operatori finanziari e non a tutti i cittadini. 91. Peraltro, l’ammontare delle sanzioni pecuniarie sarebbe proporzionato alle rendite e alla capacità finanziaria del colpevole; nel caso di specie, si trattava di un’operazione finanziaria volta ad ottenere il controllo di uno dei più grandi produttori di automobili del mondo e che era costata più di 500.000.000 EUR. Inoltre, le sanzioni pecuniarie, l’eventuale confisca dei beni utilizzati per commettere l’illecito e l’incapacità di assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo mirano essenzialmente a riguadagnare la fiducia dei mercati e degli investitori, andando a toccare gli elementi che hanno permesso di commettere l’illecito amministrativo (si vedano anche, su questo punto, gli scopi perseguiti dalla direttiva 2003/6/CE). Esse hanno


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lo scopo di riparare e compensare un danno di natura finanziaria e di evitare che il colpevole possa trarre profitto dalle sue attività illecite. Peraltro, nella causa Spector Photo Group, sopra citata (paragrafo 61 supra), la CGUE ha ammesso la coesistenza, in questo settore, di sanzioni amministrative e penali. ii. I ricorrenti 92. I ricorrenti considerano che, anche se qualificate come «amministrative» nel diritto interno, le sanzioni inflitte dalla CONSOB devono essere considerate «penali», nel senso autonomo che questa nozione assume nella giurisprudenza della Corte. La sentenza della CGUE nella causa Spector Photo Group, citata dal Governo, non afferma il contrario, ma si limita a dire che se uno Stato membro ha previsto la possibilità di infliggere una sanzione pecuniaria di natura penale, il livello di questa sanzione non deve essere tenuto in considerazione per valutare il carattere effettivo, proporzionato e dissuasivo della sanzione amministrativa. Peraltro, nella sentenza del 26 febbraio 2013 resa nell’ambito della causa C-617/10 (Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson), la CGUE ha affermato i seguenti principi: a) l’applicabilità del diritto dell’Unione implica quella dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta; b) l’articolo 50 di quest’ultima (che garantisce il principio del ne bis in idem) presuppone che le misure adottate a

carico di un imputato assumano carattere penale; c) per valutare la natura penale delle sanzioni fiscali, occorre tener conto della qualificazione della sanzione nel diritto interno, della natura dell’illecito e del grado di severità della sanzione che rischia di subire l’interessato. 93. Nel presente caso di specie, la gravità delle sanzioni era evidente dato che il massimo previsto ammontava a 5.000.000 EUR. A questa sanzione principale si aggiungono le pene accessorie, quali l’incapacità temporanea (non superiore a tre anni) ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito delle società quotate in borsa, la temporanea sospensione (non superiore a tre anni) dagli ordini professionali, e la confisca del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo. Facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte in materia (si vedano, in particolare, Dubus S.A. c. Francia, n. 5242/04, 11 giugno 2009; Messier c. Francia, n. 25041/07, 30 giugno 2001; e Menarini Diagnostics S.r.l. c. Italia, n. 43509/08, 27 settembre 2011), i ricorrenti concludono che nel caso di specie è applicabile il profilo penale dell’articolo 6. b) Valutazione della Corte 94. La Corte rammenta la sua consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, al fine di stabilire la sussistenza di una «accusa in materia penale», occorre tener

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presente tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severità della «sanzione» (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, § 82, serie A n. 22). Questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi: affinché si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell’articolo 6 § 1, è sufficiente che il reato in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale». Ciò non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l’analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» ( Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-IX (estratti)). 95. Nel caso di specie, la Corte constata innanzitutto che le manipolazioni del mercato ascritte ai ricorrenti non costituiscono un reato di natura penale nel diritto italiano. Questi comportamenti sono in effetti puniti con una sanzione qualificata come «amministrativa» dall’articolo 187 ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 (paragrafo 20 supra). Ciò non è tuttavia decisivo ai fini dell’applicabilità del profilo penale dell’ar-

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ticolo 6 della Convenzione, in quanto le indicazioni che fornisce il diritto interno hanno un valore relativo (Öztürk c. Germania, 21 febbraio 1984, § 52, serie A n. 73, e Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 39). 96. Per quanto riguarda la natura dell’illecito, sembra che le disposizioni la cui violazione è stata ascritta ai ricorrenti si prefiggessero di garantire l’integrità dei mercati finanziari e di mantenere la fiducia del pubblico nella sicurezza delle transazioni. La Corte rammenta che la CONSOB, autorità amministrativa indipendente, ha tra i suoi scopi quello di assicurare la tutela degli investitori e l’efficacia, la trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici (paragrafo 9 supra). Si tratta di interessi generali della società normalmente tutelati dal diritto penale (si veda mutatis mutandis, Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 40; si veda anche Société Stenuit c. Francia, rapporto della Commissione europea dei diritti dell’uomo del 30 maggio 1991, § 62, serie A n. 232 A). Inoltre, la Corte è del parere che le sanzioni pecuniarie inflitte mirassero essenzialmente a punire per impedire la recidiva. Erano dunque basate su norme che perseguivano uno scopo preventivo, ovvero dissuadere gli interessati dal ricominciare, e repressivo, in quanto sanzionavano una irregolarità (si veda, mutatis mutandis, Jussila, sopra citata, § 38). Dunque,


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non si prefiggevano unicamente, come sostiene il Governo (paragrafo 91 supra), di riparare un danno di natura finanziaria. Al riguardo, è opportuno notare che le sanzioni erano inflitte dalla CONSOB in funzione della gravità della condotta ascritta e non del danno provocato agli investitori. 97. Per quanto riguarda la natura e la severità della sanzione «che può essere inflitta» ai ricorrenti (Ezeh e Connors c. Regno Unito [GC], nn. 39665/98 e 40086/98, § 120, CEDU 2003-X), la Corte conviene con il Governo (paragrafo 90 supra) che le sanzioni pecuniarie in questione non potessero essere sostituite da una pena privativa della libertà in caso di mancato pagamento (si veda, a contrario, Anghel c. Romania, n. 28183/03, § 52, 4 ottobre 2007). Tuttavia, la CONSOB poteva infliggere una sanzione pecuniaria fino a 5.000.000 EUR (paragrafo 20 supra), e questo massimo ordinario poteva, in alcune circostanze, essere triplicato o elevato fino a dieci volte il prodotto o il profitto ottenuto grazie al comportamento illecito (paragrafo 53 supra). L’inflizione delle sanzioni amministrative pecuniarie sopra menzionate comporta per i rappresentanti delle società coinvolte la perdita temporanea della loro onorabilità, e se queste ultime sono quotate in borsa, ai loro rappresentanti si applica l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di ammi-

nistrazione, direzione e controllo nell’ambito delle società quotate per una durata variabile da due mesi a tre anni. La CONSOB può anche vietare alle società quotate, alle società di gestione e alle società di revisione di avvalersi della collaborazione dell’autore dell’illecito, per una durata massima di tre anni, e chiedere agli ordini professionali la sospensione temporanea dell’interessato dall’esercizio della sua attività professionale (paragrafo 54 supra). Infine, l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie importa la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo (paragrafo 56 supra). 98. È vero che nel caso di specie le sanzioni non sono state applicate nel loro ammontare massimo, in quanto la Corte d’appello di Torino ha ridotto alcune ammende inflitte dalla CONSOB (paragrafo 30 supra), e non è stata disposta alcuna confisca. Tuttavia, il carattere penale di un procedimento è subordinato al grado di gravità della sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata (Engel e altri, sopra citata, § 82), e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta (Dubus S.A., sopra citata, § 37). Per di più, nel caso di specie i ricorrenti sono stati sanzionati con ammende variabili tra 500.000 e 3.000.000 EUR, e a Gabetti, Grande Stevens e Marrone è stata inflitta l’interdizione dall’amministrare, dirigere o controlla-

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re delle società quotate in borsa per un tempo compreso tra due e quattro mesi (paragrafi 25-26 e 3031 supra). Quest’ultima sanzione era tale da ledere il credito delle persone interessate (si veda, mutatis mutandis, Dubus S.A., loc. ult. cit.), e le ammende erano, visto il loro ammontare, di una innegabile severità che comportava per gli interessati conseguenze patrimoniali importanti. 99. Alla luce di quanto è stato esposto e tenuto conto dell’importo elevato delle sanzioni pecuniarie inflitte e di quelle di cui erano passibili i ricorrenti, la Corte ritiene che le sanzioni in causa rientrino, per la loro severità, nell’ambito della materia penale (si vedano, mutatis mutandis, Öztürk, sopra citata, § 54, e, a contrario, Inocêncio c. Portogallo (dec.), n. 43862/98, CEDU 2001 I). 100. Del resto, la Corte rammenta anche che a proposito di alcune autorità amministrative francesi competenti in diritto economico e finanziario, dotate di potere sanzionatorio, essa ha dichiarato che il profilo penale dell’articolo 6 si applicava anche nel caso della Corte di disciplina finanziaria ed economica (Guisset c. Francia, n. 33933/96, § 59, CEDU 2000 IX), del Consiglio dei mercati finanziari (Didier c. Francia (dec.), n. 58188/00, 27 agosto 2002), del Consiglio della concorrenza (Lilly France S.A. c. Francia (dec.), n. 53892/00, 3 dicembre

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2002), della commissione delle sanzioni dell’Autorità dei mercati finanziari (Messier c. Francia (dec.), n. 25041/07, 19 maggio 2009), e della Commissione bancaria (Dubus S.A., sopra citata, § 38). Lo stesso è accaduto per l’autorità italiana AGCM – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; si veda Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 44). 101. Tenuto conto dei diversi aspetti della causa, debitamente ponderati, la Corte ritiene che le sanzioni pecuniarie inflitte ai ricorrenti abbiano carattere penale, di modo che il profilo penale dell’articolo 6 § 1 sia applicabile nel caso di specie (si veda, mutatis mutandis, Menarini Diagnostics S.r.l., loc. ult. cit.). 2. Altri motivi di irricevibilità 102. Il Governo considera che questo motivo di ricorso dovrebbe essere dichiarato irricevibile in quanto manifestamente infondato, rientrando essenzialmente nella competenza della quarta istanza, dal momento che le questioni relative alla qualificazione giuridica dei fatti ascritti ai ricorrenti e alla sussistenza degli elementi costitutivi degli illeciti sono di competenza esclusiva dei giudici nazionali. 103. Ad ogni modo, le sanzioni inflitte dalla CONSOB sono di natura amministrativa, la CONSOB è un organo indipendente e imparziale che giudica secondo una


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procedura rispettosa dei diritti della difesa e le sue decisioni possono essere impugnate dinanzi alle autorità giudiziarie (Corte d’appello e Corte di cassazione). 104. I ricorrenti considerano che i loro motivi di ricorso non possono essere di competenza della«quarta istanza». In effetti, essi chiedono il rispetto delle garanzie previste dall’articolo 6 della Convenzione, fatto che rientra nella competenza del contenzioso della Corte e riguarda la legalità delle sanzioni che sono state loro inflitte. 105. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e rileva peraltro che esso non incorre in altri motivi di irricevibilità ed è quindi opportuno dichiararlo ricevibile. B. Sul merito 1. Sulla questione di stabilire se il procedimento dinanzi alla CONSOB sia stato equo a) Argomenti delle parti i. I ricorrenti 106. I ricorrenti sostengono che il procedimento dinanzi alla CONSOB era essenzialmente scritto, che non era prevista alcuna udienza pubblica e che i diritti della difesa non erano rispettati. La Corte di cassazione stessa ha ricono-

sciuto che le garanzie del giusto processo e della tutela dei diritti della difesa (articoli 111 e 24 della Costituzione) non si applicavano al procedimento amministrativo (paragrafo 38 supra). 107. I ricorrenti sostengono che le delibere della CONSOB n. 12697 del 2 agosto 2000 e 15086 del 21 giugno 2005 hanno de facto eliminato il principio del contraddittorio, nonostante quest’ultimo sia enunciato dall’articolo 187 septies del decreto legislativo n. 58 del 1998 (paragrafo 57 supra). Queste delibere permettono, come nel caso di specie, di non trasmettere agli imputati le conclusioni dell’ufficio sanzioni, che costituiscono poi la base della decisione della commissione, la quale, da parte sua, non riceve le memorie degli imputati riguardanti la fase istruttoria. Inoltre, la commissione decide senza sentire gli imputati e senza pubblica udienza, fatto che nel caso di specie ha impedito ai ricorrenti di dialogare direttamente con la commissione e di difendersi dinanzi ad essa rispetto alle conclusioni dell’ufficio sanzioni. Queste ultime costituivano un elemento importante e la loro conoscenza avrebbe permesso ai ricorrenti di rilevare incoerenze nell’indagine o di accedere ad informazioni utili per la loro difesa. La commissione ha tenuto soltanto una riunione interna, nel corso della quale non fu sentito nessuno tranne un funzionario dell’ufficio IT (ossia

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l’organo incaricato dell’«accusa»). I ricorrenti non erano stati convenuti e non hanno neanche potuto ottenere copia del verbale di questa riunione. 108. I ricorrenti affermano, inoltre, di non aver avuto conoscenza in tempo utile dei nuovi documenti sui quali si fondava la nota complementare dell’ufficio IT (paragrafo 23 supra) e di non aver avuto il tempo e le facilitazioni necessarie per difendersi rispetto a quest’ultima. Questi documenti sarebbero stati loro comunicati tardivamente. 109. I ricorrenti ritengono che il procedimento dinanzi alla CONSOB non assicuri una vera separazione tra fase istruttoria e fase decisoria, fatto che a loro parere lede il principio della parità delle armi. L’istruzione in effetti è interamente sottoposta al potere direttivo del presidente della CONSOB, competente per un vasto numero di atti istruttori, compresa la formulazione del o dei capi di imputazione. 110. Nel caso di specie, secondo loro, l’attività istruttoria è stata unilaterale e fondata su alcune deposizioni dei testimoni rilasciate senza la presenza degli imputati o dei loro legali, i quai non hanno avuto la possibilità di porre domande a questi testimoni o di assistere al compimento dei vari atti istruttori. I ricorrenti hanno potuto presentare le loro rispettive difese soltanto per iscritto.

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ii. Il Governo 111. Il Governo sostiene che l’ufficio IT della CONSOB ha allegato al suo rapporto tutti i documenti dell’indagine, e dunque anche le difese presentate dai ricorrenti. Sottolinea anche che è stato concesso ai ricorrenti un termine di trenta giorni per presentare eventuali osservazioni in merito alla nota complementare dell’ufficio IT del 19 ottobre 2006, e che i ricorrenti hanno presentato queste osservazioni il 24 novembre 2006 senza contestare il fatto di aver avuto a disposizione un periodo di tempo limitato. Gli interessati non hanno peraltro mai chiesto la convocazione e l’audizione di testimoni, la cui presenza è normalmente inutile nel procedimento dinanzi alla CONSOB, basato sull’acquisizione di informazioni e di dati a carattere tecnico. La natura tecnica degli illeciti giustifica la scelta di un procedimento essenzialmente scritto. 112. Tenuto conto della natura «amministrativa» del procedimento dinanzi alla CONSOB, la sua equità non può, secondo il Governo, essere messa in discussione semplicemente perché si è svolto interamente per iscritto. Considerato che l’articolo 6 della Convenzione non menziona i procedimenti amministrativi, i principi del processo equo possono esservi applicati soltanto mutatis mutandis. Il procedimento in questione è stato ispirato proprio dalla preoccupa-


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zione di assicurare il rispetto dei diritti della difesa, del principio del contraddittorio e del principio della coincidenza tra fatto ascritto e fatto sanzionato. I ricorrenti hanno avuto accesso al fascicolo investigativo e vi è stata separazione tra indagine e decisione - in quanto la prima fase è stata di competenza dell’ufficio IT e dell’ufficio sanzioni amministrative, mentre la seconda è stata affidata alla commissione della CONSOB. 113. Al riguardo, il Governo sottolinea che la lettera che contesta agli interessati la violazione dell’articolo 187 ter, punto 1, del decreto legislativo n. 58 del 1998 non era firmata dal presidente della CONSOB, ma dal capo della divisione mercati e consulenza economica e dal direttore generale delle attività istituzionali. 114. Una volta aperta la procedura di infrazione, le persone interessate possono esercitare i loro diritti alla difesa presentando osservazioni scritte o chiedendo di essere sentiti, in primo luogo dall’ufficio competente o dall’ufficio sanzioni amministrative. Così, come nel caso di specie, le suddette persone hanno la possibilità di formulare osservazioni sugli elementi costitutivi dell’illecito e su qualsiasi altra circostanza pertinente all’esame della loro causa. L’inchiesta si articola in due tappe (una dinanzi all’ufficio IT, l’altra dinanzi all’ufficio sanzioni), e il rapporto dell’ufficio è trasmesso

non soltanto all’ufficio sanzioni, ma anche agli accusati, che possono pertanto difendersi rispetto al contenuto di quest’ultimo dinanzi all’ufficio sanzioni. Il fatto che le conclusioni di quest’ultimo non siano trasmesse agli accusati e costoro non siano sentiti personalmente dalla commissione non pregiudicherebbe minimamente la legalità del procedimento. 115. Il Governo sostiene che anche nelle procedure giudiziarie l’accusato non ha il diritto di discutere la sanzione durante la fase decisoria. Peraltro, il quantum massimo di queste sanzioni era fissato dalla legge, che indicava anche i criteri da seguire per assicurare la loro proporzionalità rispetto alla gravità dei fatti commessi. Infine, come riconosciuto dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 20935 del 2009, l’articolo 180 septies del decreto legislativo n. 58 del 1998 (che disciplina i diritti della difesa nell’ambito del procedimento dinanzi alla CONSOB) è stato introdotto nel sistema giuridico italiano precisamente al fine di assicurare il rispetto delle esigenze della Convenzione. b) Valutazione della Corte 116. La Corte è pronta ad ammettere che, come sottolineato dal Governo, il procedimento dinanzi alla CONSOB ha permesso agli accusati di presentare elementi utili per la loro difesa. In effetti, l’accusa

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formulata dall’ufficio IT è stata comunicata ai ricorrenti, i quali sono stati invitati a difendersi (paragrafi 20 e 21 supra). I ricorrenti hanno anche avuto conoscenza del rapporto e della nota complementare dell’ufficio IT, e hanno avuto a disposizione trenta giorni di tempo per presentare eventuali osservazioni rispetto a quest’ultimo documento (paragrafo 23 supra). Questo termine non appare manifestamente insufficiente e i ricorrenti non ne hanno chiesto la proroga. 117. Resta comunque il fatto che, come riconosciuto dal Governo (paragrafo 114 supra), il rapporto che conteneva le conclusioni dell’ufficio sanzioni, destinato a servire poi da base alla decisione della commissione, non è stato comunicato ai ricorrenti, che non hanno dunque avuto la possibilità di difendersi rispetto al documento alla fine sottoposto dagli organi investigativi della CONSOB all’organo incaricato di decidere sulla fondatezza delle accuse. Inoltre, gli interessati non hanno avuto possibilità di interrogare o di far interrogare le persone eventualmente sentite dall’ufficio IT. 118. La Corte rileva anche che il procedimento dinanzi alla CONSOB era essenzialmente scritto e che i ricorrenti non hanno avuto la possibilità di partecipare all’unica riunione tenuta dalla commissione, alla quale non erano ammessi. Questo non viene contestato dal Governo. A tale proposito, la Cor-

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te rammenta che lo svolgimento di un’udienza pubblica costituisce un principio fondamentale sancito dall’articolo 6 § 1 ( Jussila, sopra citata, § 40). 119. Tuttavia, è vero che l’obbligo di tenere un’udienza pubblica non è assoluto (Håkansson e Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990, § 66, serie A n. 171-A) e che l’articolo 6 non esige necessariamente lo svolgimento di una udienza in tutte le procedure, soprattutto nelle cause che non sollevano questioni di credibilità o non suscitano controversie su fatti che rendono necessario un confronto orale, e nell’ambito delle quali i giudici possono pronunciarsi in maniera equa e ragionevole sulla base delle conclusioni scritte delle parti e degli altri documenti contenuti nel fascicolo (si vedano, ad esempio, Döry c. Svezia, n. 28394/95, § 37, 12 novembre 2002; Pursiheimo c. Finlandia (dec.), n. 57795/00, 25 novembre 2003; Jussila, sopra citata, § 41; e Suhadolc c. Slovenia (dec.), n. 57655/08, 17 maggio 2011, dove la Corte ha ritenuto che la mancanza di udienza orale e pubblica non creasse alcuna violazione dell’articolo 6 della Convenzione in una causa per eccesso di velocità e di guida in stato di ebbrezza nella quale gli elementi a carico dell’accusato erano stati ottenuti grazie ad alcuni apparecchi tecnici). 120. Anche se le esigenze del processo equo sono più rigorose in materia penale, la Corte non


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esclude che, nell’ambito di alcune procedure penali, i giudici aditi possano, in ragione della natura delle questioni che si pongono, sentirsi esonerati dal tenere un’udienza. Se bisogna tenere presente che i procedimenti penali, che hanno ad oggetto la determinazione della responsabilità penale e l’imposizione di misure a carattere repressivo e dissuasivo, assumono una certa gravità, va da sé che alcuni di essi non comportano alcun carattere infamante per le persone che ne sono oggetto e che le «accuse in materia penale» non hanno tutte lo stesso peso ( Jussila, sopra citata, § 43). 121. È opportuno anche precisare che l’importanza considerevole che la posta in gioco del procedimento in questione può avere per la situazione personale di un ricorrente non è decisiva per stabilire se sia necessario tenere una udienza (Pirinen c. Finlandia (dec.), n. 32447/02, 16 maggio 2006). Resta comunque il fatto che il rigetto della richiesta di tenere una udienza può giustificarsi soltanto in rare occasioni (Miller c. Svezia, n. 55853/00, § 29, 8 febbraio 2005, e Jussila, sopra citata, § 42). 122. Per quanto riguarda la presente causa, secondo la Corte era necessaria una udienza pubblica, orale e accessibile ai ricorrenti. A tale proposito, la Corte osserva che vi era una controversia sui fatti, soprattutto per ciò che riguardava lo stato di avanzamento delle

negoziazioni con la Merrill Lynch International Ltd, e che, al di là della loro gravità da un punto di vista economico, le sanzioni in cui rischiavano di incorrere alcuni dei ricorrenti avevano, come notato prima (paragrafi 74, 97 e 98 supra), un carattere infamante, potendo arrecare pregiudizio all’onorabilità professionale e al credito delle persone interessate. 123. Per quanto sopra esposto, la Corte reputa che il procedimento dinanzi alla CONSOB non soddisfacesse tutte le esigenze dell’articolo 6 della Convenzione, soprattutto per quanto riguarda la parità delle armi tra accusa e difesa e il mancato svolgimento di una udienza pubblica che permettesse un confronto orale. 2. Sulla questione di stabilire se la CONSOB fosse un tribunale indipendente e imparziale a) Argomenti delle parti i. I ricorrenti 124. I ricorrenti sostengono che in ragione della sua struttura e dei poteri del suo presidente, la CONSOB non era un «tribunale indipendente ed imparziale» nel senso dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. 125. Essi sottolineano che la fase istruttoria del loro procedimento è stata condotta dall’ufficio IT e dall’ufficio sanzioni amministrative. Ora, il presidente del-

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la CONSOB deve supervisionare questa fase prima di presiedere la commissione propriamente detta, ossia l’organo incaricato di irrogare le sanzioni. Dunque, non ci sarebbe una separazione chiara tra fase istruttoria e fase decisoria, e questa posizione dualista del presidente farebbe sorgere dei dubbi oggettivamente giustificati sulla sua imparzialità. Lo stesso si potrebbe dire per gli altri membri della commissione, che verrebbero a conoscenza dei fatti unicamente tramite il presidente e sulla base della sola versione data dall’ufficio sanzioni, alla quale non sarebbero allegate le difese presentate dagli imputati. Infine, gli organi incaricati dell’indagine non sarebbero indipendenti rispetto all’alta gerarchia della CONSOB. 126. In virtù della delibera CONSOB n. 15087 del 21 giugno 2005, il presidente è il capo della commissione: egli applica le sanzioni, supervisiona l’indagine preliminare e autorizza l’esercizio dei poteri di indagine. Può ordinare ispezioni o altri atti istruttori, fatto che impedisce di considerarlo un giudice «terzo» e imparziale. ii. Il Governo 127. Il Governo rileva che la CONSOB è composta da un presidente e da quattro membri, scelti fra personalità indipendenti aventi competenze specifiche e qualità morali appropriate. All’epoca dei fatti, i suoi membri erano eletti

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per cinque anni e il loro mandato poteva essere rinnovato una sola volta. Durante il loro mandato, questi membri non potevano esercitare alcuna attività professionale o commerciale né svolgere altre funzioni pubbliche. 128. La CONSOB è indipendente da qualsiasi altro potere e in particolare dal potere esecutivo. Può disporre in maniera autonoma del suo bilancio e adottare delibere che riguardano la carriera e le condizioni di impiego del suo personale. L’organo di decisione (la commissione) è separato dagli organi di indagine (l’ufficio e l’ufficio sanzioni). 129. Anche se è incaricato della supervisione dei vari uffici ed ha alcuni poteri di iniziativa durante l’indagine (in particolare può autorizzare ispezioni e chiedere di compiere atti investigativi quali l’acquisizione di dati relativi al traffico telefonico e il sequestro di beni), il presidente della CONSOB non può mai interferire con le indagini che riguardano un determinato caso, che sono condotte dall’ufficio competente e dall’ufficio sanzioni. Al contrario, l’ufficio IT e l’ufficio sanzioni non svolgono un ruolo nell’adozione della decisione finale. Il presidente della CONSOB è responsabile della supervisione dei criteri generali che gli uffici devono seguire nel compiere le indagini. Non può intervenire nella valutazione sul merito degli elementi acquisiti o condizio-


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nare i risultati dell’indagine. La sua funzione è paragonabile a quella del presidente di un tribunale. 130. Il potere di aprire una procedura di infrazione e di formulare le accuse spetta esclusivamente al capo della divisione competente che agisce in totale indipendenza e autonomia di giudizio. Per quanto riguarda le ispezioni, si tratta di atti investigativi volti ad acquisire informazioni. Queste ultime sono successivamente valutate dagli uffici competenti. Nel caso di specie, peraltro, il presidente della CONSOB non ha né autorizzato ispezioni né chiesto il compimento di atti investigativi. La decisione finale su un sequestro - non disposto nel caso di specie - spetta alla commissione previo parere favorevole della procura emesso su richiesta del presidente della CONSOB. Si tratta ad ogni modo di una misura provvisoria volta a garantire la solvibilità degli accusati o a privarli dei beni utilizzati per commettere l’illecito. La decisione sul sequestro non pregiudica affatto la decisione sul merito delle accuse e delle sanzioni. Anche nell’ambito di una procedura giudiziaria, è ammesso che una decisione procedurale che non comporta alcun giudizio sulla colpevolezza o l’innocenza del sospettato (quale, ad esempio, una ordinanza di custodia cautelare) non costituisca un motivo per dubitare successivamente dell’imparzialità del giudice che l’ha adottata.

131. Il Governo nota, infine, che nel caso di specie non vi era alcun conflitto d’interessi tra il personale della CONSOB, i membri della sua commissione e i ricorrenti. b) Valutazioni della Corte 132. La Corte rammenta la sua consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, per stabilire se un «tribunale» possa essere considerato «indipendente», occorre tener conto, soprattutto, delle modalità di designazione e della durata del mandato dei suoi membri, dell’esistenza di una tutela contro le pressioni esterne e sapere se vi sia stata o meno parvenza di indipendenza (Kleyn e altri c. Paesi Bassi [GC], nn. 39343/98, 39651/98, 43147/98 e 46664/99, § 190, CEDU 2003-VI). 133. Tenuto conto delle modalità e delle condizioni di nomina dei membri della CONSOB, e in assenza di elementi che permettano di dire che le garanzie contro eventuali pressioni esterne non sono sufficienti e adeguate, la Corte ritiene che non si debba dubitare dell’indipendenza della CONSOB rispetto a qualsiasi altro potere o autorità, e in particolare rispetto al potere esecutivo. Al riguardo, essa fa sue le osservazioni del Governo per quanto riguarda l’autonomia della CONSOB e le garanzie che caratterizzano la nomina dei suoi membri (paragrafo 127 e 128 supra). 134. La Corte rammenta poi i principi generali riguardanti il me-

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todo per valutare l’imparzialità di un «tribunale», che sono esposti, tra altre, nelle seguenti sentenze: Padovani c. Italia, 26 febbraio 1993, § 20, serie A n. 257-B; Thomann c. Svizzera, 10 giugno 1996, § 30, Recueil des arrêts et décisions 1996-III; Ferrantelli e Santangelo c. Italia, 7 agosto 1996, § 58, Recueil 1996-III; Castillo Algar c. Spagna, 28 ottobre 1998, § 45, Recueil 1998-VIII; Wettstein c. Svizzera, n. 33958/96, § 44, CEDU 2000 XII; Morel c. Francia, n. 34130/96, § 42, CEDU 2000-VI; e Cianetti c. Italia, n. 55634/00, § 37, 22 aprile 2004. 135. Per quanto riguarda l’aspetto soggettivo dell’imparzialità della CONSOB, la Corte constata che nel caso di specie non vi è nulla che indichi un qualsiasi pregiudizio o partito preso da parte dei suoi membri. Il fatto che siano state prese decisioni sfavorevoli ai ricorrenti non può da solo mettere in dubbio la loro imparzialità (si veda, mutatis mutandis, Previti c. Italia (dec.), n. 1845/08, § 53, 12 febbraio 2013) e la Corte non può dunque che presumere l’imparzialità personale dei membri della CONSOB, compresa quella del suo presidente. 136. Per quanto riguarda l’imparzialità oggettiva, la Corte nota che il regolamento della CONSOB prevede una certa separazione tra organi incaricati dell’indagine e organo competente a decidere sull’esistenza di un illecito e sull’applicazione delle sanzioni.

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In particolare, l’accusa è formulata dall’ufficio IT, che compie anche indagini i cui risultati sono riassunti nel rapporto dell’ufficio sanzioni contenente le conclusioni e le proposte sulle sanzioni da applicare. La decisione finale sull’inflizione di queste ultime spetta unicamente alla commissione. 137. Rimane comunque il fatto che l’ufficio IT, l’ufficio sanzioni e la commissione non sono che suddivisioni dello stesso organo amministrativo, che agiscono sotto l’autorità e la supervisione di uno stesso presidente. Secondo la Corte, ciò si esprime nel consecutivo esercizio di funzioni di indagine e di giudizio in seno ad una stessa istituzione; ora, in materia penale tale cumulo non è compatibile con le esigenze di imparzialità richieste dall’articolo 6 § 1 della Convenzione (si veda, in particolare e mutatis mutandis, Piersack c. Belgio, 1° ottobre 1982, §§ 30-32, serie A n. 53, e De Cubber c. Belgio, 26 ottobre 1984, §§ 24-30, serie A n. 86, dove la Corte ha concluso per una mancanza di imparzialità oggettiva del «tribunale» in ragione, nella prima di queste cause, del fatto che una corte d’assise fosse presieduta da un consigliere che, precedentemente, aveva diretto la sezione della procura di Bruxelles investita del caso dell’interessato; e, nella seconda, dell’esercizio in successione delle funzioni di giudice istruttore e di giudice di merito da


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parte di uno stesso magistrato in una stessa causa). 3. Sulla questione di stabilire se i ricorrenti abbiano avuto accesso a un tribunale con piena giurisdizione 138. Le constatazioni che precedono, relative alla mancanza di imparzialità oggettiva della CONSOB e alla mancata conformità del procedimento dinanzi ad essa con il principio del processo equo non sono comunque sufficienti per poter concludere che nel caso di specie vi è stata violazione dell’articolo 6. Al riguardo la Corte osserva che le sanzioni lamentate dai ricorrenti non sono state inflitte da un giudice all’esito di un procedimento giudiziario in contraddittorio, ma da un’autorità amministrativa, la CONSOB. Se affidare a tali autorità il compito di perseguire e reprimere le contravvenzioni non è incompatibile con la Convenzione, occorre tuttavia sottolineare che i ricorrenti devono poter impugnare qualsiasi decisione adottata in questo modo nei loro confronti dinanzi a un tribunale che offra le garanzie dell’articolo 6 (Kadubec c. Slovacchia, 2 settembre 1998, § 57, Recueil 1998-VI; Čanády c. Slovacchia, n. 53371/99, § 31, 16 novembre 2004; e Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 58). 139. Il rispetto dell’articolo 6 della Convenzione non esclude dunque che in un procedimen-

to di natura amministrativa, una «pena» sia imposta in primo luogo da un’autorità amministrativa. Esso presuppone, tuttavia, che la decisione di un’autorità amministrativa che non soddisfi essa stessa le condizioni dell’articolo 6 sia successivamente sottoposta al controllo di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione (Schmautzer, Umlauft, Gradinger, Pramstaller, Palaoro e Pfarrmeier c. Austria, sentenze del 23 ottobre 1995, rispettivamente §§ 34, 37, 42 e 39, 41 e 38, serie A nn. 328 A-C e 329 A C). Fra le caratteristiche di un organo giudiziario dotato di piena giurisdizione figura il potere di riformare qualsiasi punto, in fatto come in diritto, della decisione impugnata, resa dall’organo inferiore. In particolare esso deve avere competenza per esaminare tutte le pertinenti questioni di fatto e di diritto che si pongono nella controversia di cui si trova investito (Chevrol c. Francia, n. 49636/99, § 77, CEDU 2003-III; Silvester’s Horeca Service c. Belgio, n. 47650/99, § 27, 4 marzo 2004; e Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, § 59). 140. Nel caso di specie i ricorrenti hanno avuto la possibilità, di cui si sono avvalsi, di contestare le sanzioni inflitte dalla CONSOB dinanzi alla Corte d’appello di Torino e di ricorrere per cassazione avverso le sentenze emesse da quest’ultima. Resta da stabilire se queste due autorità giudiziarie fossero «organi giudiziari dotati di

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piena giurisdizione» ai sensi della giurisprudenza della Corte. a) Argomenti delle parti i. I ricorrenti 141. Secondo i ricorrenti, i procedimenti che si sono svolti successivamente dinanzi alla Corte d’appello di Torino e alla Corte di cassazione non hanno posto rimedio alle carenze del procedimento dinanzi alla CONSOB. Anche se la Corte d’appello può essere considerata un organo dotato di piena giurisdizione, rimane il fatto che ha tenuto le sue udienze in maniera non pubblica. Ora, una deroga al principio della pubblicità delle udienze può essere giustificata soltanto in circostanze eccezionali (si veda, in particolare, Vernes c. Francia, n. 30183/06, § 30, 20 gennaio 2011). 142. I ricorrenti affermano in particolare che la procedura dinanzi alla Corte d’appello non era una procedura ordinaria, ma una procedura speciale in cui l’udienza si è svolta in camera di consiglio. Per sostenere la loro affermazione, essi hanno prodotto alcune dichiarazioni firmate dal dirigente la cancelleria della prima sezione civile della Corte d’appello di Torino le quali certificano che le udienze del procedimento che li riguarda si sono svolte in camera di consiglio. Nel corso di queste udienze, soltanto i legali degli imputati erano presenti; i ricorrenti

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non hanno ricevuto la convocazione e la Corte d’appello non ha interrogato né gli imputati né alcun testimone, non avrebbe eseguito alcun atto istruttorio e si sarebbe limitata a ratificare gli elementi raccolti dalla CONSOB. È vero che il Governo ha prodotto alcune dichiarazioni del Presidente della prima sezione della Corte d’appello in cui si afferma che le udienze in questione sono state in realtà pubbliche (paragrafo 145 infra), comunque sia queste dichiarazioni non possono contraddire il contenuto di atti pubblici, quali le sentenze emesse dalla Corte d’appello, che indicano che era stata disposta la comparizione delle parti in camera di consiglio e che fanno fede fino a prova di falso. Ora, il Governo non ha avviato un procedimento per falso e in ogni caso il Presidente della prima sezione della Corte d’appello si è limitato a riferire il contenuto di affermazioni altrui senza attestare fatti di cui avrebbe avuto conoscenza diretta. 143. È vero che una udienza pubblica si è svolta dinanzi alla Corte di cassazione. Tuttavia, quest’ultima non è un organo dotato di piena giurisdizione, perché non esamina il merito della causa e non deve giudicare sulla fondatezza dell’accusa o sulla pertinenza e sulla forza degli elementi di prova. Essa ha dunque rigettato qualsiasi argomento dei ricorrenti volto a contestare la valutazione


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delle prove fatte dalla CONSOB o dalla Corte d’appello. ii. Il Governo 144. Il Governo rileva che i ricorrenti hanno avuto accesso a un procedimento orale e pubblico dinanzi alla Corte d’appello di Torino, che ha riesaminato nel merito tutte le prove e le informazioni raccolte dalla CONSOB sulle particolari circostanze della condotta addebitata, fatto che le ha permesso di verificare la proporzionalità delle sanzioni. La Corte d’appello aveva poteri molto ampi in materia di produzione delle prove, anche d’ufficio, e poteva annullare o modificare la decisione della CONSOB. I ricorrenti avrebbero potuto chiedere l’audizione di testimoni o domandare di essere sentiti personalmente; ora, essi non hanno presentato alcuna domanda in tal senso. All’esito del procedimento giudiziario, la Corte d’appello ha modificato la valutazione della CONSOB, riducendo le sanzioni inflitte per tre dei cinque ricorrenti. 145. Il Governo sostiene che l’affermazione dei ricorrenti secondo la quale non vi sarebbe stata alcuna udienza pubblica dinanzi alla Corte d’appello di Torino è falsa. In applicazione dell’articolo 23 della legge n. 689 del 1981, tutte le udienze che si sono svolte dinanzi a questa giurisdizione erano aperte al pubblico. Quanto alle dichiarazioni firmate dal dirigente la cancelleria della prima sezione

della Corte d’appello, prodotte dai ricorrenti (paragrafo 142 supra), il Governo sostiene che queste non rappresentassero realmente i fatti. Per contraddirle, produce cinque dichiarazioni firmate dal Presidente della prima sezione della Corte d’appello di Torino e dal cancelliere dirigente la stessa sezione precisando che, nelle cinque procedure riguardanti i ricorrenti e aventi ad oggetto la contestazione delle sanzioni inflitte dalla CONSOB, soltanto le udienze del subprocedimento cautelare si sono svolte in camera di consiglio, in quanto tutte le altre udienze sono state pubbliche. In queste dichiarazioni, datate 6 settembre 2013, il Presidente della prima sezione della Corte d’appello indica che all’epoca dei fatti egli non era assegnato a tale organo giudiziario (ha assunto l’incarico il 1° marzo 2013), ma che ha potuto ricostruire lo svolgimento dei fatti esaminando i registri e i fascicoli e sulla base di informazioni direttamente fornite dal personale della cancelleria e dai magistrati che si erano occupati delle cause in questione. In particolare, le cause dei ricorrenti erano state iscritte al ruolo della volontaria giurisdizione. In seguito, la legge n. 62 del 18 aprile 2005 aveva indicato che i procedimenti relativi all’articolo 187 del decreto legislativo n. 58 del 1998 si sarebbero dovuti svolgere nelle forme previste dall’articolo 23 della legge n. 689 del 1981 (che non preve-

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de lo svolgimento di un’udienza in camera di consiglio). Anche se le cause dei ricorrenti erano rimaste iscritte al ruolo della volontaria giurisdizione, la procedura seguita è stata quella voluta dalla legge n. 62 del 2005. 146. Basandosi su queste dichiarazioni, il Governo afferma che il 6 marzo 2007, i ricorrenti hanno chiesto la sospensione dell’esecuzione della decisione della CONSOB (articolo 187 septies punto 5 del decreto legislativo n. 58 del 1998). Nell’ambito di questo subprocedimento cautelare, si è svolta un’udienza il 28 marzo 2007, tenuta in camera di consiglio come previsto dagli articoli 283 e 351 del codice di procedura civile. In seguito, si è svolta un’udienza sul merito l’11 luglio 2007; conformemente all’articolo 23 della legge n. 689 del 1981, questa udienza è stata pubblica. Peraltro, due delle sentenze emesse dalla Corte d’appello (in particolare, quelle a carico di Marrone e della società Giovanni Agnelli S.a.s.) fanno riferimento alla «udienza pubblica» fissata all’11 luglio 2007. Anche le udienze successive aventi ad oggetto il merito delle cause (ossia, quelle del 7 novembre e del 5 dicembre 2007) sono state pubbliche. 147. Il Governo sottolinea anche che i ricorrenti hanno avuto la possibilità di ricorrere per cassazione, e che la causa è stata allora rimessa alle sezioni unite. Dinanzi queste ultime, si è svolta una pro-

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cedura orale e pubblica pienamente rispettosa dei diritti della difesa e che verteva sia sull’interpretazione e l’applicazione della legge materiale o procedurale (errores in iudicando et in procedendo) sia sulla coerenza e sulla sufficienza dei motivi sostenuti dalla Corte d’appello. Il Governo si riferisce, in particolare, alla causa Menarini Diagnostics S.r.l., sentenza sopra citata, dove la Corte ha concluso per la non violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione osservando che la sanzione amministrativa controversa era stata oggetto, da parte del tribunale amministrativo e del Consiglio di Stato, di un controllo di piena giurisdizione. Secondo il Governo, la stessa conclusione dovrebbe a maggior ragione imporsi nel caso di specie, dove i poteri della Corte d’appello erano più ampi di quelli dei tribunali amministrativi e del Consiglio di Stato. b) Valutazione della Corte 148. La Corte nota innanzitutto che nel caso di specie non vi sono elementi che permettano di dubitare dell’indipendenza e della imparzialità della Corte d’appello di Torino. I ricorrenti peraltro non sollevano contestazioni in tal senso. 149. La Corte osserva per di più che la Corte d’appello era competente per giudicare sulla esistenza, in fatto e in diritto, dell’illecito definito dall’articolo 187 ter del decreto legislativo n. 58 del 1998,


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e aveva il potere di annullare la decisione della CONSOB. Essa doveva anche valutare la proporzionalità delle sanzioni inflitte rispetto alla gravità del comportamento ascritto. Di fatto, essa ha peraltro ridotto l’ammontare delle sanzioni pecuniarie e la durata della interdizione pronunciata per alcuni dei ricorrenti (paragrafi 30 e 31 supra) ed ha esaminato le loro diverse affermazioni di ordine fattuale o giuridico (paragrafi 32-36 supra). La sua competenza non si limitava dunque ad un semplice controllo di legalità. 150. È vero che i ricorrenti contestano il fatto che la Corte d’appello non ha interrogato i testimoni (paragrafo 142 supra). Tuttavia, essi non indicano alcuna norma procedurale che avrebbe impedito tale interrogatorio. Per di più, la richiesta di audizione dei testimoni formulata dal sig. Grande Stevens nella sua memoria del 25 settembre 2007 non indicava né i nomi delle persone che l’interessato desiderava fossero convocate né le circostanze sulle quali queste ultime avrebbero dovuto testimoniare. Inoltre, la richiesta era stata formulata in maniera puramente eventuale, dovendo essere esaminata unicamente nel caso in cui la Corte d’appello avesse considerato insufficienti o non utilizzabili i documenti già inseriti nel fascicolo. Lo stesso si può dire per la domanda formulata dal sig. Marrone, che prospettava la possibili-

tà di ascoltare i testimoni, di cui citava le dichiarazioni, soltanto «se necessario» (paragrafi 29 supra). Ad ogni modo, dinanzi alla Corte i ricorrenti non hanno indicato con precisione i testimoni la cui audizione sarebbe stata rifiutata dalla Corte d’appello e le ragioni per le quali la loro testimonianza sarebbe stata decisiva per l’esito delle loro cause. Non hanno neanche sostenuto il loro motivo di ricorso relativo all’articolo 6 § 3 d) della Convenzione. 151. Alla luce di quanto esposto, la Corte considera che la Corte d’appello di Torino era certamente un «organo dotato di piena giurisdizione» ai sensi della sua giurisprudenza (si veda, mutatis mutandis, Menarini Diagnostics S.r.l., sopra citata, §§ 60-67). I ricorrenti stessi non sembrano contestarlo (paragrafo 141 supra). 152. Resta da stabilire se le udienze sul merito svoltesi dinanzi alla Corte d’appello di Torino siano state pubbliche, questione di fatto sulla quale le affermazioni delle parti divergono (paragrafi 142 e 145-146 supra). Al riguardo, la Corte non può che richiamare le sue conclusioni sulla necessità, nel caso di specie, di un’udienza pubblica (paragrafo 122 supra). 153. La Corte nota che le parti hanno prodotto documenti contraddittori sul modo in cui si sarebbero svolte le udienze oggetto di contestazione; secondo le dichiarazioni scritte del dirigente la

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cancelleria della Corte d’appello di Torino, prodotte dai ricorrenti, queste udienze si sarebbero svolte in camera di consiglio, mentre secondo le dichiarazioni scritte del Presidente della Corte d’appello, prodotte dal Governo, soltanto le udienze relative al subprocedimento cautelare si sarebbero svolte in camera di consiglio, tutte le altre udienze sarebbero state pubbliche. La Corte non è affatto in grado di dire quale delle due versioni sia vera. Comunque sia, davanti a queste due versioni, entrambe plausibili e provenienti da fonti qualificate, ma opposte, la Corte ritiene opportuno attenersi al contenuto degli atti ufficiali del procedimento. Ora, come i ricorrenti hanno giustamente sottolineato (paragrafo 142 supra), le sentenze emesse dalla Corte d’appello indicano che queste ultime si erano svolte in camera di consiglio o che era stata disposta la comparizione delle parti in camera di consiglio (paragrafo 30 in fine supra). 154. Facendo fede a queste menzioni, la Corte giunge pertanto alla conclusione che dinanzi alla Corte d’appello di Torino non si sia svolta alcuna udienza pubblica. 155. È vero che un’udienza pubblica si è svolta dinanzi alla Corte di cassazione. Tuttavia, quest’ultima non era competente per esaminare il merito della causa, accertare i fatti e valutare gli elementi

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di prova; il Governo peraltro non lo contesta. La Corte di cassazione non poteva dunque essere considerata come un organo dotato di piena giurisdizione ai sensi della giurisprudenza della Corte. (Omissis) 6. Conclusione 161. Alla luce di quanto esposto, la Corte ritiene che, anche se il procedimento dinanzi alla CONSOB non ha soddisfatto le esigenze di equità e di imparzialità oggettiva dall’articolo 6 della Convenzione, i ricorrenti hanno beneficiato del successivo controllo da parte di un organo indipendente e imparziale dotato di piena giurisdizione, in questo caso la Corte d’appello di Torino. Tuttavia, quest’ultima non ha tenuto un’udienza pubblica, fatto che, nel caso di specie, ha costituito una violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione. (Omissis) V. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ART. 4 DEL PROTOCOLLO N. 7 202. I ricorrenti si considerano vittime di una violazione del principio ne bis in idem, sancito dall’articolo 4 del Protocollo n. 7. «1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso


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Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato. 2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge e alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta. 3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione.» 203. Il Governo contesta l’affermazione dei ricorrenti. A. Sulla ricevibilità 1. La riserva dell’Italia relativa all’art. 4 del Protocollo n. 7 204. Il Governo osserva che l’Italia ha fatto una dichiarazione secondo la quale gli articoli 2 – 4 del Protocollo n. 7 si applicano solo agli illeciti, ai procedimenti e alle decisioni che la legge italiana definisce penali. La legge italiana tuttavia non definisce penali gli illeciti sanzionati dalla CONSOB. Inoltre, la dichiarazione dell’Italia sarebbe simile a quelle fatte da altri Stati (in particolare, Germania, Francia e Portogallo). 205. I ricorrenti replicano che l’articolo 4 del Protocollo n. 7, per il quale non è prevista alcuna deroga ai sensi dell’articolo 15 della

Convenzione, riguarda un diritto che rientra nella sfera nell’ordine pubblico europeo. Secondo loro, la dichiarazione fatta dall’Italia in occasione del deposito dello strumento di ratifica del Protocollo n. 7 non avrebbe la portata di una riserva ai sensi dell’articolo 57 della Convenzione, che non autorizza le riserve di carattere generale. Inoltre, la dichiarazione in questione non si ricollega a «una legge» in vigore al momento della sua formulazione e non contiene una «breve esposizione» di tale legge. Essa sarebbe dunque ininfluente per quanto riguarda gli obblighi assunti dall’Italia. 206. La Corte osserva che il Governo afferma di avere emesso una riserva per quanto riguarda l’applicazione degli articoli 2 – 4 del Protocollo n. 7 (paragrafo 204 supra). Indipendentemente dalla questione dell’applicabilità di tale riserva, la Corte deve esaminarne la validità: in altri termini, essa deve stabilire se la riserva soddisfi le esigenze dell’articolo 57 della Convenzione (Eisenstecken c. Austria, n. 29477/95, § 28, CEDU 2000-X). Tale disposizione recita: «1. Ogni Stato, al momento della firma della presente Convenzione o del deposito del suo strumento di ratifica, può formulare una riserva riguardo a una determinata disposizione della Convenzione, nella misura in cui una legge in quel momento in

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vigore sul suo territorio non sia conforme a tale disposizione. Le riserve di carattere generale non sono autorizzate ai sensi del presente articolo. 2. Ogni riserva emessa in conformità al presente articolo comporta una breve esposizione della legge in questione.» 207. La Corte rammenta che, per essere valida, una riserva deve presentare i seguenti requisiti: 1) deve essere fatta al momento in cui la Convenzione o i suoi Protocolli vengono firmati o ratificati; 2) deve riguardare leggi ben precise in vigore all’epoca della ratifica; 3) non deve essere di carattere generale; 4) deve contenere una breve esposizione della legge interessata (Põder e altri c. Estonia (dec.), n. 67723/01, CEDU 2005 VIII, e Liepājnieks c. Lettonia (dec.), n. 37586/06, § 45, 2 novembre 2010). 208. La Corte ha avuto modo di precisare che l’articolo 57 § 1 della Convenzione esige da parte degli Stati contraenti «precisione e chiarezza», e che, chiedendo loro di presentare una breve esposizione della legge in questione, tale disposizione non enuncia un «semplice requisito formale» ma stabilisce una «condizione sostanziale» che costituisce «un elemento di prova e, allo stesso tempo, un fattore di sicurezza giuridica» (Belilos c. Svizzera, 29 aprile 1988, §§ 55 e 59, serie A n. 132; Weber c. Sviz-

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zera, 22 maggio 1990, § 38, serie A n. 177; e Eisenstecken, sopra citata, § 24). 209. Per «riserva di carattere generale», l’articolo 57 intende in particolare una riserva redatta in termini troppo vaghi o ampi per poterne valutare con precisione il senso e il campo di applicazione. Il testo della dichiarazione deve permettere di valutare esattamente la portata dell’impegno dello Stato contraente, in particolare per quanto riguarda le categorie di controversie previste, e non deve prestarsi a diverse interpretazioni (Belilos, sopra citata, § 55). 210. Nel caso di specie, la Corte rileva che la riserva in questione non contiene una «breve esposizione» della legge o delle leggi asseritamente incompatibili con l’articolo 4 del Protocollo n. 7. Dal testo della riserva si può dedurre che l’Italia ha inteso escludere dal campo di applicazione di tale disposizione tutti gli illeciti e le procedure che non sono qualificati come «penali» dalla legge italiana. Ciò non toglie che una riserva che non invoca né indica le disposizioni specifiche dell’ordinamento giuridico italiano che escludono alcuni illeciti o alcune procedure dal campo di applicazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 non offra sufficienti garanzie che non andrà oltre le disposizioni esplicitamente escluse dallo Sta-


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to contraente (si vedano, mutatis mutandis, Chorherr c. Austria, 25 agosto 1993, § 20, serie A n. 266 B; Gradinger c. Austria, 23 ottobre 1995, § 51, serie A n. 328 C; e Eisenstecken, sopra citata, § 29; si veda anche, a contrario, Kozlova e Smirnova c. Lettonia (dec.), n. 57381/00, CEDU 2001 XI). Al riguardo, la Corte rammenta che nemmeno difficoltà pratiche notevoli nell’indicazione e nella descrizione di tutte le disposizioni interessate dalla riserva possono giustificare l’inosservanza delle condizioni dettate dall’articolo 57 della Convenzione (Liepājnieks, decisione sopra citata, § 54). 211. Di conseguenza, la riserva invocata dall’Italia non soddisfa le esigenze dell’articolo 57 § 2 della Convenzione. Questa conclusione è sufficiente per determinare la nullità della riserva, senza che sia necessario esaminare se siano state rispettate le altre condizioni formulate nell’articolo 57 (si veda, mutatis mutandis, Eisenstecken, sopra citata, § 30). 2. Altri motivi di irricevibilità. 212. La Corte constata che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità. È dunque opportuno dichiararlo ricevibile.

B. Sul merito 1. Argomenti delle parti a) I ricorrenti 213. I ricorrenti osservano che hanno subito una sanzione penale all’esito del procedimento dinanzi alla CONSOB, e che sono stati oggetto di un’azione penale per gli stessi fatti. 214. Per quanto riguarda la questione di stabilire se il procedimento dinanzi alla CONSOB e il procedimento penale fossero relativi allo stesso «illecito», i ricorrenti rammentano i principi enunciati dalla Grande Camera nella causa Sergueï Zolotoukhine c. Russia ([GC], n. 14939/03, 10 febbraio 2009), in cui la Corte ha concluso affermando che è vietato perseguire una persona per un secondo «illecito» quando quest’ultimo è basato su fatti identici o fatti che sono in sostanza gli stessi. Secondo i ricorrenti, è proprio ciò che si è verificato nel caso di specie. Al riguardo, i ricorrenti rammentano che, se è vero che la CGUE ha precisato che l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali non si opponeva al fatto che uno Stato membro imponesse in momenti diversi, per un unico e medesimo insieme di fatti di inosservanza di obblighi dichiarativi in materia di imposta sul valore aggiunto, una sanzione fiscale e una sanzione penale, la condizione era comunque che la prima sanzione non fos-

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se di natura penale (si veda Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, sentenza sopra citata, punto 1 del dispositivo); invece, secondo loro, tale condizione non sussiste nel caso di specie, poiché nonostante la loro qualificazione formale nel diritto italiano, le sanzioni comminate dalla CONSOB sarebbero proprio di natura penale secondo la giurisprudenza della Corte. b) Il Governo 215. Facendo riferimento agli argomenti esposti dal punto di vista dell’articolo 6 della Convenzione, il Governo sostiene anzitutto che il procedimento dinanzi alla CONSOB non riguardava una «accusa in materia penale» e che la decisione della CONSOB non era di natura «penale». 216. Peraltro, il diritto dell’Unione europea ha espressamente autorizzato il ricorso a una doppia sanzione (amministrativa e penale) nell’ambito della lotta contro le condotte abusive sui mercati finanziari. Un tale ricorso costituirebbe una tradizione costituzionale comune agli Stati membri, in particolare in ambiti quali la tassazione, le politiche ambientali e la sicurezza pubblica. Tenuto conto di ciò, e del fatto che alcuni Stati non hanno ratificato il Protocollo n. 7 o hanno emesso dichiarazioni a proposito dello stesso, sarebbe lecito considerare che la Convenzione non garantisce il principio ne bis in idem come fa invece per

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quanto riguarda altri principi fondamentali. Pertanto, non sarebbe opportuno ritenere che l’imposizione di una sanzione amministrativa definitiva impedisca l’avvio di un’azione penale. Il Governo fa riferimento, su questo punto, all’opinione espressa dinanzi alla CGUE dall’avvocato generale nelle sue conclusioni del 12 giugno 2012 sulla causa Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, sopra citata. 217. In ogni caso, il procedimento penale pendente nei confronti dei ricorrenti non riguarderebbe lo stesso fatto che è stato sanzionato dalla CONSOB. In effetti, vi sarebbe una differenza netta tra gli illeciti previsti rispettivamente dagli articoli 187 ter e 185 del decreto legislativo n. 58 del 1998, in quanto solo il secondo esige l’esistenza di un dolo (non essendo sufficiente una semplice negligenza) e della idoneità delle informazioni false o fuorvianti diffuse a produrre un’alterazione significativa dei mercati finanziari. Peraltro, solo il procedimento penale può portare a infliggere pene privative della libertà. Il Governo fa riferimento alla causa R.T. c. Svizzera ((dec.), n. 31982/96, 30 maggio 2000), in cui la Corte ha precisato che il fatto che due diverse autorità (una amministrativa e l’altra penale) infliggano sanzioni non è incompatibile con l’articolo 4 del Protocollo n. 7. A questo riguardo, la circostanza che una stessa condotta possa violare con-


Corte europea dei diritti dell’uomo

temporaneamente l’articolo 187 ter e l’articolo 185 del decreto legislativo n. 58 del 1998 non sarebbe pertinente, in quanto si tratterebbe di una caso tipico di concorso formale di reati, caratterizzato dalla circostanza che un unico fatto penale si scinde in due illeciti distinti (si veda Oliveira c. Svizzera, n. 25711/94, § 26, 30 luglio 1998; Goktan c. Francia, n. 33402/96, § 50, 2 luglio 2002; Gauthier c. Francia (dec.), n. 61178/00, 24 giugno 2003; e Ongun c. Turchia (dec.), n. 15737/02, 10 ottobre 2006). 218. Infine, si deve notare che, allo scopo di assicurare la proporzionalità della pena rispetto ai fatti ascritti, il giudice penale può tenere conto del fatto che sia stata precedentemente inflitta una sanzione amministrativa, e decidere di ridurre la sanzione penale. In particolare, l’importo della sanzione pecuniaria amministrativa viene detratto dalla pena pecuniaria (articolo 187 terdecies del decreto legislativo n. 58 del 1998) e i beni già sottoposti a sequestro nell’ambito del procedimento amministrativo non possono essere confiscati. 2. Valutazione della Corte 219. La Corte rammenta che, nella causa Sergueï Zolotoukhine (sopra citata, § 82), la Grande Camera ha precisato che l’articolo 4 del Protocollo n. 7 deve essere inteso nel senso che esso vieta di perseguire o giudicare una persona per un secondo «illecito» nella

misura in cui alla base di quest’ultimo vi sono fatti che sono sostanzialmente gli stessi. 220. La garanzia sancita all’articolo 4 del Protocollo n. 7 entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato. In questa fase, gli elementi del fascicolo comprenderanno ovviamente la decisione con la quale si è concluso il primo «procedimento penale» e la lista delle accuse mosse nei confronti del ricorrente nell’ambito del nuovo procedimento. Tali documenti includono ovviamente un’esposizione dei fatti relativi all’illecito per cui il ricorrente è stato già giudicato e una descrizione del secondo illecito di cui è accusato. Tali esposizioni costituiscono un utile punto di partenza, per l’esame da parte della Corte, per poter stabilire se i fatti oggetto dei due procedimenti sono identici o sono in sostanza gli stessi. Non è importante sapere quali parti di queste nuove accuse siano alla fine ammesse o escluse nella procedura successiva, poiché l’articolo 4 del Protocollo n. 7 enuncia una garanzia contro nuove azioni penali o contro il rischio di tali azioni, e non il divieto di una seconda condanna o di una seconda assoluzione (Sergueï Zolotoukhine, sopra citata, § 83). 221. La Corte, pertanto, deve esaminare la causa dal punto di vista dei fatti descritti nelle sud-

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dette esposizioni, che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete a carico dello stesso contravventore e indissolubilmente legate tra loro nel tempo e nello spazio; l’esistenza di tali circostanze deve essere dimostrata affinché possa essere pronunciata una condanna o esercitata l’azione penale (Sergueï Zolotoukhine, sopra citata, § 84). 222. Applicando tali principi nel caso di specie, la Corte osserva anzitutto che ha appena concluso, dal punto di vista dell’articolo 6 della Convenzione, che era opportuno considerare che il procedimento dinanzi alla CONSOB riguardava una «accusa in materia penale» contro i ricorrenti (paragrafo 101 supra) e osserva anche che le condanne inflitte dalla CONSOB e parzialmente ridotte dalla Corte d’appello sono passate in giudicato il 23 giugno 2009, quando sono state pronunciate le sentenze della Corte di cassazione (paragrafo 38 supra). A partire da tale momento, i ricorrenti dovevano dunque essere considerati come «già condannati per un reato a seguito di una sentenza definitiva» ai sensi dell’articolo 4 del Protocollo n. 7. 223. Malgrado ciò, la nuova azione penale che nel frattempo era stata avviata nei loro confronti (paragrafi 39-40 supra) non è stata interrotta, e ha portato alla pronuncia di sentenze di primo e secondo grado.

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224. Resta da determinare se il nuovo procedimento in questione fosse basato su fatti che erano sostanzialmente gli stessi rispetto a quelli che sono stati oggetto della condanna definitiva. A tale riguardo, la Corte osserva che, contrariamente a quanto sembra affermare il Governo (paragrafo 217 supra), dai principi enunciati nella causa Sergueï Zolotoukhine sopra citata risulta che la questione da definire non è quella di stabilire se gli elementi costitutivi degli illeciti previsti dagli articoli 187 ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 siano o meno identici, ma se i fatti ascritti ai ricorrenti dinanzi alla CONSOB e dinanzi ai giudici penali fossero riconducibili alla stessa condotta. 225. Dinanzi alla CONSOB, i ricorrenti erano accusati, sostanzialmente, di non aver menzionato nei comunicati stampa del 24 agosto 2005 il piano di rinegoziazione del contratto di equity swap con la Merrill Lynch International Ltd mentre tale progetto già esisteva e si trovava in una fase di realizzazione avanzata (paragrafi 20 e 21 supra). Successivamente, essi sono stati condannati per tale fatto dalla CONSOB e dalla Corte d’appello di Torino (paragrafi 27 e 35 supra). 226. Dinanzi ai giudici penali, gli interessati sono stati accusati di avere dichiarato, negli stessi comunicati, che la Exor non aveva né avviato né messo a punto iniziative con riguardo alla scaden-


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za del contratto di finanziamento, mentre l’accordo che modificava l’equity swap era già stato esaminato e concluso, informazione che sarebbe stata tenuta nascosta allo scopo di evitare un probabile crollo del prezzo delle azioni FIAT (paragrafo 40 supra). 227. Secondo la Corte, si tratta chiaramente di una unica e stessa condotta da parte delle stesse persone alla stessa data. Peraltro la stessa Corte d’appello di Torino, nelle sentenze del 23 gennaio 2008, ha ammesso che gli articoli 187 ter e 185 punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998 avevano ad oggetto la stessa condotta, ossia la diffusione di false informazioni (paragrafo 34 supra). Di conseguenza, la nuova azione penale riguardava un secondo «illecito», basato su fatti identici a quelli che avevano motivato la prima condanna definitiva. 228. Questa constatazione è sufficiente per concludere che vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7. 229. Peraltro, nella misura in cui il Governo afferma che il diritto dell’Unione europea avrebbe apertamente autorizzato il ricorso a una doppia sanzione (amministrativa e penale) nell’ambito della lotta contro le condotte abusive sui mercati finanziari (paragrafo 216 supra), la Corte, pur precisando che il suo compito non è interpretare la giurisprudenza della CGUE, osserva che nella sua sentenza del

23 dicembre 2009, resa nella causa Spector Photo Group, sopra citata, la CGUE ha indicato che l’articolo 14 della direttiva 2003/6 non impone agli Stati membri di prevedere sanzioni penali a carico degli autori di abusi di informazioni privilegiate, ma si limita ad enunciare che tali Stati sono tenuti a vigilare affinché siano applicate sanzioni amministrative nei confronti delle persone responsabili di una violazione delle disposizioni adottate in applicazione di tale direttiva. Essa ha anche messo in guardia gli Stati sul fatto che tali sanzioni amministrative potevano, ai fini dell’applicazione della Convenzione, essere qualificate come sanzioni penali (paragrafo 61 supra). Inoltre, nella sentenza Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson, sopra citata, in materia di imposta sul valore aggiunto, la CGUE ha precisato che, in virtù del principio ne bis in idem, uno Stato può imporre una doppia sanzione (fiscale e penale) per gli stessi fatti solo a condizione che la prima sanzione non sia di natura penale (paragrafo 92 supra). (Omissis) PER QUESTI MOTIVI LA CORTE 1. Dichiara, all’unanimità, il resto dei ricorsi ricevibili; 2. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione; 3. Dichiara, con sei voti contro

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uno, che non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 3 a) e c) nei confronti del sig. Grande Stevens; 4. Dichiara, con cinque voti contro due, che non vi è stata violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1; 5. Dichiara, all’unanimità, che vi è stata violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7; 6. Dichiara, all’unanimità, che lo Stato convenuto deve fare in modo che i nuovi procedimenti penali avviati contro i ricorrenti in violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 e ancora pendenti, alla data delle ultime informazioni ricevute, nei confronti dei sigg. Gabetti e Grande Stevens, vengano chiusi nel più breve tempo possibile (paragrafo 237 supra); 7. Dichiara, all’unanimità, a. che lo Stato convenuto deve versare, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza diver-

rà definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, le somme seguenti: i. 10.000 EUR (diecimila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, a ciascun ricorrente per il danno morale; ii. 40.000 EUR (quarantamila euro), più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta dai ricorrenti, a questi ultimi congiuntamente per le spese; b. che a decorrere dalla scadenza e fino al versamento tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice a un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali; 8. Rigetta, con cinque voti contro due, la domanda di equa soddisfazione per il resto. (Omissis)

(1-3) A. La sentenza in epigrafe è pubblicata anche in Foro it., 2015, IV, 129; nonché (in forma parziale) in Giur. comm., 2014, II, 543, con nota di G. Abbadessa; e (sola massima) in Giur. it., 2014, 1196, con nota di Zagrebelsky e 1642, con nota di Desana. Per un ampio commento v. anche Montalenti, Abusi di mercato e procedimento Consob: il caso Grande Stevens e la sentenza CEDU, in Giur. comm., 2015, I, p. 478 ss. B. Come è noto, la materia delle sanzioni amministrative nel settore lato sensu finanziario trova la sua regolamentazione nelle discipline specifiche dei diversi subsettori: per quello bancario, nel t.u. del 1993; per quello assicurativo, nel codice delle assicurazioni del 2005; per quello finanziario in senso stretto, nel t.u. della finanza del 1998. Sono, queste, discipline, da un lato, largamente (quanto inspiegabilmente) disomogenee fra di loro e, dall’altro, caratterizzate da una notevole sommarietà (solo in parte temperata dalle normative secondarie emanate dalle diverse autorità

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Nota redazionale

di vigilanza). Il che ha determinato il sorgere, nel tempo, di non pochi e non irrilevanti nodi problematici, tra i quali in particolare quello della “affinità” o meno della materia alla materia penale e quello della piena corrispondenza o meno delle regole procedimentali fissate nelle normative secondarie o in concreto seguite al principio del giusto procedimento ed ai relativi corollari, tra cui quello della c.d. parità delle armi. Proprio su questi due nodi problematici si è pronunziata, con la sentenza qui pubblicata, la Cedu, le cui conclusioni appaiono anche ad una prima lettura di notevole importanza. Quanto al primo, la Corte ha ricondotto senza particolari esitazioni le sanzioni amministrative previste dall’art. 187-ter del t.u.f. per le manipolazioni di mercato nell’ambito penale: e ciò proprio per le caratteristiche di spiccata afflittività che tali sanzioni connotano. I corollari di questo orientamento sono molti e di estremo rilievo. In generale, da esso discende la diretta applicabilità a quelle sanzioni (e alle altre sanzioni amministrative analoghe) dei principi di legalità e di tassatività che governano le sanzioni penali. In particolare, da esso discende (e la Corte ha direttamente tratto questo corollario: si veda la terza massima) che, pur ove l’ordinamento preveda, per gli stessi fatti, sia la sanzione amministrativa che quella penale, è da ritenere in contrasto con il divieto del bis in idem l’apertura, in concreto, di un procedimento penale dopo che, per gli stessi fatti, sia stato aperto e definito un procedimento sanzionatorio. Quanto al secondo nodo problematico, la Cedu ha evidenziato come il procedimento sanzionatorio avanti la Consob risulti non in linea con i principi del “giusto procedimento” sotto diversi profili: quello del difetto di imparzialità soggettiva (stante la compresenza in uno stesso organismo delle funzioni istruttorie e decisorie) e quello della disparità delle armi (posto, da un lato, che la proposta di sanzione formulata dall’ufficio istruttorio non viene comunicata agli “incolpati” i quali non possono controdedurre sulla medesima e, dall’altro, che manca un’udienza pubblica in sede decisoria che permetta un confronto orale). E come anche il giudizio di opposizione contro il provvedimento sanzionatorio avanti la Corte d’appello – pur essendo destinato a svolgersi dinanzi ad un giudice indipendente e dotato di pieni poteri giurisdizionali – non sia pienamente in linea con i suddetti principi per la mancanza, anche in esso, di una udienza pubblica. C. È il caso di sottolineare che la sentenza qui pubblicata ha già prodotto effetti non trascurabili. Infatti, per un verso, il d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, di attuazione della direttiva 2013/36/UE, nel riformulare l’art. 145 del t.u.b., che disciplina

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la procedura sanzionatoria e l’eventuale opposizione al provvedimento sanzionatorio, ha espressamente previsto, al co. 6, la fissazione da parte del Presidente della Corte d’appello di un’udienza pubblica per la discussione dell’opposizione. E, per altro verso, sia la Banca d’Italia sia la Consob hanno proceduto ad una revisione dei rispettivi regolamenti in materia di sanzioni, la quale, in entrambi i casi, ha incluso proprio la previsione della comunicazione agli interessati della proposta di irrogazione delle sanzioni formulata dall’ufficio che ha svolto l’istruttoria, con la possibilità per gli stessi di presentare controdeduzioni o osservazioni. [Nota redazionale]

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Amministrazione straordinaria delle banche CONSIGLIO DI STATO, Sez. IV, sentenza 9 febbraio 2015, n. 657, Pres. Giaccardi; Est. Russo; M. C., C. U. e M. Z. (Avv. Rampini e Corbyons) c/o Ministero dell’Economia e delle Finanze (Avv. dello Stato) e Banca d’Italia (Avv. Capolino e Napoletano) Banche – Amministrazione straordinaria – Proposta della Banca d’Italia – Facoltà del Ministro dell’Economia di disattenderla – Sussiste. (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, t.u. bancario, art. 70) Banche – Amministrazione straordinaria – Provvedimento del Ministro dell’Economia – Preventiva istruttoria autonoma – Necessità (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, t.u. bancario, art. 70) Banche – Amministrazione straordinaria – Provvedimento del Ministro dell’Economia – Motivazione per relationem – Legittimità – Condizioni (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, t.u. bancario, art. 70) Banche – Amministrazione straordinaria – Proposta della Banca d’Italia – Provvedimento del Ministro dell’Economia – Discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica – Sindacato del giudice amministrativo – Ampiezza – Limiti (d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, t.u. bancario, art. 70)

Nel procedimento ordinato al provvedimento di amministrazione straordinaria di una banca, la proposta della Banca d’Italia costituisce il presupposto necessario ma non sufficiente per la conclusione del procedimento stesso, avendo il Ministro la facoltà di discostarsi da essa qualora non ritenga sussistere i presupposti per disporre l’amministrazione straordinaria. (1) La decisione del Ministro di accogliere o disattendere la proposta dell’Autorità di Vigilanza, implica il preventivo esperimento di una autonoma istruttoria o, quantomeno, di una valutazione critica della proposta stessa, degli elementi che ne sono posti a fondamento e, dunque, della

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sussistenza e permanenza dei requisiti oggettivi e soggettivi previsti per l’attivazione dell’amministrazione straordinaria. (2) Nel decreto ministeriale che dispone l’amministrazione straordinaria, il ricorso alla motivazione per relationem alla proposta dell’Autorità di Vigilanza è legittimo solo laddove sia stato preceduto da un autonomo esame critico circa la sussistenza delle «gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie» o della previsione di “gravi perdite del patrimonio”, evidenziate nella proposta.(3) Ferma restando la distinzione fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica, anche in materie o discipline – come quella bancaria – connotate da un forte tecnicismo settoriale e a prescindere dalla denominazione del sindacato intrinseco – debole o forte – il Giudice amministrativo può verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della deliberazione. Anche tali materie sono infatti rette da regole e principi che, per quanto elastici o opinabili, sono pur sempre improntati ad una intrinseca logicità e ad un’intima coerenza, alla quale anche la Pubblica Amministrazione deve uniformarsi per non incorrere nell’eccesso di potere. Viceversa il sindacato giurisdizionale, nella materia de qua, non può estendersi alle valutazioni di merito delle amministrazioni cui è intestato il procedimento. (4) (Omissis) Con il primo motivo gli appellanti censurano in modo analitico la decisione del TAR nella parte in cui ritiene conforme ai principi generali dell’ordinamento la motivazione ob relationem del decreto n. 16 dell’8 febbraio 2013 del Ministro dell’Economia e delle Finanze: tale provvedimento è stato adottato richiamando e facendo integralmente proprie le motivazioni contenute nella proposta n. 0105750/13 del 30 gennaio 2013, formulata dalla Banca d’Italia.

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Gli appellanti sostengono che, in seguito alla proposta della Banca d’Italia con cui si accertava un deficit patrimoniale di 19,4 milioni di euro, sarebbe stata necessaria una nuova istruttoria da parte del Ministro dell’Economia e delle Finanze al fine di prendere atto del mutamento della situazione patrimoniale della Banca Popolare di Spoleto s.p.a.: alla data di emanazione del decreto Ministeriale – 8 febbraio 2013 –, il deficit patrimoniale accertato ammontava a 9,6 milioni di euro e cioè a circa 10


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milioni di euro in meno rispetto a quanto riscontrato dalla Banca d’Italia all’esito della sua istruttoria, risalente al giugno del 2012. A sostegno di tale motivo, le parti appellanti evidenziano altresì il diniego di approvazione dell’aumento di capitale, deliberato dal voto unanime del Consiglio di Amministrazione, che avrebbe consentito alla Banca Popolare di Spoleto s.p.a. di far fronte al deficit patrimoniale riscontrato. L’aumento di capitale sarebbe stato garantito, a differenza di quanto affermato dalla Banca d’Italia, dalla rigorosa sorveglianza dalla Consob, trattandosi di società di capitali quotata in borsa, nonché dalla scarsa onerosità dell’operazione. Tutto ciò avrebbe dovuto determinare il Ministro dell’Economia e delle Finanze a richiedere alla Banca d’Italia dei chiarimenti ulteriori rispetto a quanto riportato nella proposta n. 0105750/13 del 30 gennaio 2013 o, comunque, ad eseguire un’autonoma istruttoria. Invece, le risultanze degli accertamenti dell’Autorità di Vigilanza sarebbero state recepite acriticamente, senza considerare che il mutamento della situazione di fatto, relativa al deficit patrimoniale, avrebbe potuto anche condurre il procedimento ad una differente soluzione. Il motivo è fondato. Nel complesso, la censura in esame concerne le relazioni istituzionali fra le amministrazioni

coinvolte nella procedura di commissariamento disposta dagli artt. 70 e ss. t.u.b. ed i limiti del sindacato del giudice amministrativo sulle scelte discrezionali adottate dall’amministrazione. Giova preliminarmente evidenziare che l’art. 70 t.u.b., nell’individuare i presupposti soggettivi ed oggettivi necessari ai fini dell’avvio della procedura di amministrazione straordinaria, disciplina anche le competenze istituzionali nella fase iniziale della stessa. Ruolo primario viene conferito alla Banca d’Italia, la quale propone al Ministro dell’Economia e delle Finanze lo scioglimento degli organi di amministrazione e controllo di una banca al ricorrere di tassative condizioni. Ricevuta la proposta, il Ministro dell’Economia e delle Finanze “può disporre” con decreto detto scioglimento: questa facoltà di scelta implica una valutazione discrezionale – o, meglio, di opportunità – che il Ministro è tenuto ad effettuare sulla base della proposta avanzata dall’Autorità di Vigilanza. A ben vedere, infatti, l’atto di impulso della Banca d’Italia costituisce una proposta obbligatoria, senza la quale, cioè, non potrebbe iniziarsi il procedimento che conduce all’eventuale scioglimento degli organi di amministrazione e controllo dell’istituto di credito. Tuttavia, ciò non impone al Ministro dell’Economia e delle Finanze di accettarne in modo acritico e dogmatico il contenuto, in

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quanto l’ordinamento gli attribuisce la facoltà di discostarsi dalla proposta qualora non ritenga sussistenti i presupposti per disporre l’amministrazione straordinaria. La possibilità di giungere ad una conclusione differente rispetto a quella configurata dall’Autorità di Vigilanza implica il preventivo esperimento, da parte del Ministro, di un’istruttoria autonoma o quantomeno di una valutazione critica della proposta avanzata dalla Banca d’Italia. Pertanto, a prescindere dalla decisione – conforme o meno alla proposta dell’Autorità di Vigilanza – cui giungerà il Ministro dell’Economia e delle Finanze, è doverosa un’esplicita valutazione degli elementi posti a fondamento delle risultanze della Banca d’Italia. Da ciò non deriva l’illegittimità della motivazione per relationem del decreto che dispone l’amministrazione straordinaria, ma deve censurarsi l’omesso esame critico delle “gravi irregolarità nell’amministrazione, ovvero gravi violazioni delle disposizioni legislative, amministrative o statutarie” e della previsione di “gravi perdite del patrimonio” evidenziate nella proposta dell’Autorità di Vigilanza. Deve, cioè, ritenersi contrario alle disposizioni legislative ivi richiamate il decreto che rinvii puramente e semplicemente agli atti ispettivi della Banca d’Italia senza averne preliminarmente esaminato in modo analitico il contenuto.

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I rilievi sin qui esposti vanno necessariamente analizzati alla luce dei limiti del sindacato del giudice amministrativo rispetto agli atti della pubblica amministrazione. Come è noto, la distinzione fra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica presuppone, per la prima, la coesistenza del momento del giudizio – acquisizione ed esame dei fatti – e del momento della scelta – determinazione della situazione maggiormente opportuna ai fini della miglior tutela dell’interesse sottostante –, mentre la discrezionalità tecnica si concreta nella mera analisi di fatti e, perciò, non concerne il merito. In tema di sindacato del giudice amministrativo sull’esercizio della discrezionalità tecnica, una recente pronuncia di questo Consiglio ha specificato che “anche materie o discipline connotate da un forte tecnicismo settoriale, infatti, sono rette da regole e principi che, per quanto «elastici» o «opinabili», sono pur sempre improntati ad una intrinseca logicità e ad un’intima coerenza, alla quale anche la p.a., al pari e, anzi, più di ogni altro soggetto dell’ordinamento in ragione dell’interesse pubblico affidato alla sua cura, non può sottrarsi senza sconfinare nell’errore e, per il vizio che ne consegue, nell’eccesso di potere”. Pertanto ed a prescindere dalla denominazione del sindacato intrinseco – debole o forte – che viene effettuato in tali materie, si


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ritiene che il giudice possa “solo verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione, la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria, l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della deliberazione” (cfr. Cons. St., Sez. III, 2 aprile 2013, n. 18561; in tal senso, più di recente, anche Cons. St., Sez. IV, 22 dicembre 2014, n. 6313). Per quanto attiene al merito amministrativo, invece, il sindacato del giudice deve arrestarsi dopo aver verificato la legittimità delle regole tecniche sottostanti alla scelta dell’amministrazione, poiché “diversamente vi sarebbe un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione, titolare del potere esercitato” (cfr. Cons. St., Sez. VI, 13 settembre 2012, n. 48732). Delineato l’ambito di estensione della giurisdizione amministrativa in subiecta materia, occorre individuare, nel caso in esame, le attività che possono essere ricondotte all’esercizio della discrezionalità tecnica e quelle che al contrario afferiscono al merito amministrativo, non sindacabile dall’autorità giurisdizionale.

In Foro Amm. – C.d.S., 2013, 4, 899. In Foro Amm. – C.d.S., 2012, 9, 2370, e in Diritto e Giustizia online, 2012, 15 ottobre. 1 2

Alla luce di quanto sin qui esposto, deriva che nella fase di impulso del procedimento descritto dagli artt. 70 e ss. del t.u.b., una valutazione di merito, insindacabile dal giudice amministrativo, sussista in relazione alla scelta di disporre o meno l’amministrazione straordinaria ad un istituto di credito. Esula da questa tipologia di valutazione, rientrando nell’alveo della discrezionalità tecnica, l’individuazione delle modalità di esercizio del potere istruttorio sui fatti che costituiscono il presupposto della scelta effettuata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze. In definitiva, il Collegio ritiene erronea la decisione impugnata nella parte in cui non ha rilevato l’eccesso di potere per difetto di istruttoria con riferimento al decreto n. 16 dell’8 febbraio 2013: il Ministro dell’Economia e delle Finanze, nel condividere gli esiti e le soluzioni contenuti nella proposta avanzata dall’Autorità di Vigilanza, avrebbe dovuto eseguire un’attività istruttoria, anche al fine di dare contezza della permanenza dei requisiti oggettivi e soggettivi necessari ad attivare la procedura di amministrazione straordinaria, nonostante l’intervenuto mutamento della situazione patrimoniale della Banca Popolare di Spoleto s.p.a. La censura ha carattere assorbente rispetto agli ulteriori profili. Tuttavia, riguardo all’ultimo profilo dedotto dalle parti ap-

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pellanti, con cui si censura l’irragionevolezza della decisione del giudice di prime cure per aver ritenuto inammissibili i rilievi avverso i riscontrati rischi di credito, di liquidità e perdita di patrimonio, occorre precisare quanto segue. Secondo gli appellanti, il TAR non avrebbe rilevato la connessione fra l’aumento del credito, la riduzione del “Total Capital Ratio” al di sotto dell’8% e la mancata autorizzazione all’aumento di capitale. La Banca d’Italia avrebbe valorizzato, nel corso della sua istruttoria, il solo dato inerente alla reale situazione dei crediti pregressi e le connesse difficoltà, procedendo ad una revisione del credito con le conseguenti rettifiche che, nel corso del 2012, hanno raggiunto i 120 milioni di euro e determinato, di conseguenza, un abbassamento del “Total Capital Ratio” al 7,63%. Ciò che non sarebbe stato rilevato, ai fini dell’incidenza sulla dotazione patrimoniale, è stato il miglioramento del rating relativo ai nuovi crediti: pur incidendo negativamente, nel periodo iniziale, l’affidabilità dei nuovi crediti avrebbe instaurato nel breve periodo un processo virtuoso con effetti positivi sulla stabilità della dotazione patrimoniale. Per questo motivo, infatti, al 31 dicembre

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2012, epoca successiva al termine dell’attività ispettiva della Banca d’Italia, si è registrato un sensibile incremento dell’attività commerciale. Per far fronte alla revisione dei crediti, in ogni caso, era stato deliberato dal Consiglio di Amministrazione un aumento di capitale per complessivi 100 milioni di euro. Tale operazione, con il provvedimento del 21 marzo 2013, è stata negata dalla Banca d’Italia: se, al contrario, fosse stata autorizzata, sarebbero ragionevolmente venute meno le gravi perdite del patrimonio poste a base del provvedimento di amministrazione straordinaria. Per quanto concerne i dati relativi al periodo successivo all’attività ispettiva della Banca d’Italia, già essi, ad avviso del Collegio, avrebbero dovuto formare l’oggetto di un’autonoma istruttoria da parte del Ministro dell’Economia e delle Finanze. Come già rilevato, l’autorità preposta alla decisione definitiva (Ministro dell’Economia e delle Finanze), avrebbe dovuto compiere un attento esame degli stessi, anche eventualmente al fine di richiedere ulteriori accertamenti su alcuni singoli elementi, onde valutarne l’andamento nel tempo. (Omissis)


Valentina Amorosino

(1-4) I principi del giusto procedimento ed i provvedimenti “di rigore” delle Autorità di Vigilanza sui mercati finanziari. 1. Svolgimento dei giudizi amministrativi. La vicenda oggetto della sentenza in commento trae origine dalle vicissitudini societarie della Banca Popolare di Spoleto (in prosieguo anche BPS), più volte oggetto di accertamenti ispettivi da parte della Banca d’Italia. All’esito dell’ultima ispezione, avendo ritenuto gravi le irregolarità amministrative e le violazioni normative riscontrate – ascrivibili agli organi societari – la Banca d’Italia proponeva al Ministro dell’Economia e delle Finanze lo scioglimento degli organi di amministrazione e controllo della BPS e la sottoposizione della stessa alla procedura di amministrazione straordinaria ai sensi dell’art. 70, co. I, lett. a) e b), del t.u.b. Il Ministro faceva propria la proposta, rinviando alle motivazioni della Banca d’Italia, e disponeva la messa in amministrazione straordinaria della società bancaria. Alcuni degli amministratori estromessi proponevano ricorso al TAR Lazio. Il Giudice di prime cure respingeva i ricorsi. Tutti i ricorrenti proponevano appello al Consiglio di Stato articolando le seguenti censure: 1. difetto di istruttoria, imputabile al Ministro dell’Economia e delle Finanze, per non aver svolto un’autonoma attività di verifica e controllo rispetto alla sussistenza dei presupposti sui quali si fondava la proposta della Banca d’Italia ed essersi limitato a fare proprie per relationem le motivazioni contenute nella proposta formulata dalla Banca d’Italia; 2. violazione e falsa applicazione dell’art. 70, co. I, lett. a) e b) t.u.b. ed eccesso di potere per difetto assoluto dei presupposti, illogicità ed ingiustizia manifesta, travisamento dei fatti, sviamento, difetto, insufficienza ed erroneità dei motivi, il tutto in merito alle violazioni riscontrate dalla Banca d’Italia; 3. vizi relativi al provvedimento collegato con cui la Banca d’Italia aveva negato l’autorizzazione all’aumento di capitale richiesta dal C. di A. della BPS prima del suo scioglimento.

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2. L’attribuzione del potere di decisione al MEF impone che esso venga esercitato all’esito di un’autonoma valutazione. I Giudici di Palazzo Spada, all’esito di una accurata ricostruzione della struttura del procedimento disciplinato dall’art. 70 t.u.b.3 in tema di amministrazione starordinaria e della sua concreta applicazione nel caso di specie, hanno ritenuto fondato il primo motivo di appello. La procedura in questione coinvolge più amministrazioni – Banca d’Italia e Ministero – e, quindi, le loro rispettive funzioni e relazioni, tutte focalizzate sull’accertamento della sussistenza dei presupposti soggettivi ed oggettivi necessari per – rispettivamente – proporre e disporre l’amministrazione straordinaria. La procedura appare suddivisa in due subprocedimenti, rispettivamente di competenza della Banca d’Italia e del Ministero. Il primo subprocedimento4 è avviato dalla Banca d’Italia e scaturisce da acquisizioni di scienza, nell’ambito della sua funzione di vigilanza operativa, in ordine alla possibile sussistenza dei presupposti per disporre l’amministrazione straordinaria della banca. Il subprocedimento può concludersi con l’archiviazione (ciò che non esclude il parallelo avvio di un procedimento sanzionatorio ove siano comunque accertate violazioni di minore rilievo), oppure con la formulazione al MEF della proposta di amministrazione straordinaria. L’Autorità di Vigilanza ha quindi un’ampia discrezionalità sia per quanto riguarda la valutazione della sussistenza dei presupposti sia con riguardo al contenuto della proposta. La proposta costituisce il presupposto necessario per l’avvio del subprocedimento ministeriale che “può” (art. 70, co. 1, del t.u.b.) concludersi con il provvedimento di commissariamento. Il Ministro ha quindi, a sua volta, attribuita una rilevante discrezionalità. L’esercizio di tale discrezionalità comporta una valutazione di merito da compiersi sulla base della proposta ricevuta. L’art. 70 attribuisce al Ministro il potere di disattendere la proposta laddove non ritenga sussistenti i presupposti ex lege dell’amministrazione straordinaria, e giunga alla con-

Sulla quale v. A. Nigro, Considerazioni generali [in tema di amministrazione straordinaria] in Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Belli, Contento, Patroni Griffi, Porzio, Santoro, Bologna, 2003, Vol. 1, p. 1119 ss. 4 La nozione di subprocedimento è di Giannini, Diritto Amministrativo3, Milano, 1993, Vol. II, p. 211 ss. 3

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clusione di non doversi adottare il provvedimento di scioglimento degli organi ordinari e di nomina di commissari straordinari e di un comitato di sorveglianza5. L’esercizio di tale potere di archiviazione implica, a sua volta, l’espletamento, da parte del Ministro decidente, di una autonoma istruttoria, o, almeno, di una autonoma revisione critica della proposta ricevuta. Simmetricamente un’autonoma istruttoria, o revisione, appare necessaria anche nel caso di adozione del decreto di scioglimento degli organi ordinari e di amministrazione straordinaria. In sintesi: il Ministro dell’Economia, che conduce il subprocedimento decisorio, ha il dovere di formarsi un’autonoma ed esplicitata valutazione in ordine alla sussistenza, o meno, dei presupposti ed alla fondatezza delle motivazioni della proposta di Banca d’Italia, sia in caso di rigetto sia in caso di accoglimento della proposta stessa. La doverosità di tale percorso logico-giuridico, proporzionale ai gravi effetti dell’amministrazione straordinaria, non esclude affatto il ricorso, nel decreto ministeriale conclusivo con cui viene disposta l’amministrazione straordinaria, alla motivazione ob relationem alle conclusioni dell’istruttoria ed alla proposta di Banca d’Italia (com’è avvenuto nel caso della Popolare di Spoleto), ma ciò – si ripete – può avvenire solo all’esito di un autonomo scrutinio dei presupposti e delle motivazioni della proposta dell’Autorità di Vigilanza. I Giudici di appello hanno condiviso l’accennata ricostruzione della disciplina normativa e ne hanno tratto – nel caso sottoposto al loro esame – la conseguenza che il provvedimento impugnato risultava viziato in quanto il Ministro s’era limitato – secondo una invalsa prassi pluridecennale – a recepire passivamente le valutazioni poste dalla Banca d’Italia a base della proposta. A questo profilo generale è da aggiungere l’applicazione, da parte del Consiglio di Stato, di un altro principio generale del procedimento amministrativo: l’obbligo per l’amministrazione di acquisire e valutare tutti i dati e fatti rilevanti ai fini della decisione6. Nel caso di specie, al momento dell’emanazione del provvedimento ministeriale la situazione patrimoniale della BPS risultava notevolmente migliorata rispetto all’epoca dell’ispezione di Banca d’Italia, con una

5 V. Nuzzo, Commento all’art. 71, in Commentario al t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, Padova, 2012, t. II, p. 880 ss. e Capriglione, Commento all’art. 72, ibidem. 6 Vedi Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2013, p. 227.

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sostanziale (circa 10 milioni di euro) diminuzione del deficit, e tale mutamento era stato comunicato dalla banca. Se ciò fosse stato adeguatamente verificato e valutato dal Ministro, avrebbe fatto probabilmente venir meno il presupposto oggettivo della messa in amministrazione straordinaria costituito dalle gravi perdite ed avrebbe potuto determinare un diverso e positivo (per l’istituto di credito) esito del procedimento. L’elemento della necessaria valutazione delle sopravvenienze rafforza l’indispensabilità di un’autonoma istruttoria da parte del Ministro, il quale – come rilevato dai Giudici d’appello – avrebbe dovuto svolgere un attento esame dei dati relativi al periodo successivo all’attività ispettiva della Banca d’Italia, richiedendo, eventualmente, a quest’ultima ulteriori accertamenti, al fine di valutare la rilevanza e la stabilità dell’evoluzione patrimoniale positiva. Al contrario – pur in presenza di una mutata situazione di fatto (segnalata dalla banca) e, dunque, potenzialmente di presupposti – il Ministro ha omesso qualsiasi verifica aderendo passivamente alle risultanze dell’istruttoria della Banca d’Italia, riferite ad un’epoca precedente. È da rilevare, peraltro, che la sentenza in commento – in linea con i principi che reggono il procedimento amministrativo – segna una netta discontinuità rispetto all’orientamento tradizionale dei giudici amministrativi, di sostanziale avvallo dei provvedimenti delle autorità creditizie ed, in particolare, della prassi seguita nei loro procedimenti sanzionatori, che vedeva il Ministero accodarsi alle proposte di Banca d’Italia. Uno dei primi segnali di superamento di questa impostazione può essere senza dubbio individuato nella sentenza del TAR Sicilia, Catania, 8 settembre 2000, n. 15917, di annullamento di un provvedimento di amministrazione straordinaria. Con tale pronuncia i giudici amministrativi siciliani – pur non mettendo minimamente in discussione la discrezionalità delle Autorità creditizie in materia di amministrazione straordinaria – fondarono l’annullamento, da un lato, sulla violazione di principi essenziali del procedimento, e dall’altro, sulla violazione dell’art. 70 del t.u.b. Il primo profilo posto in evidenza atteneva al rapporto tra i presupposti di legge dell’amministrazione straordinaria e la motivazione, sia del provvedimento finale del Ministro, sia, prima, della proposta formulata dalla Banca d’Italia; quest’ultima non può limitarsi a prevedere perdite

In Banca, borsa, tit. cred., 2001, II, p. 379, con nota di A. Nigro, Amministrazione straordinaria delle banche e giurisprudenza amministrativa: qualcosa si muove? 7

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o ad indicare genericamente le irregolarità e le violazioni di norme, ma deve precisare in modo analitico sia le specifiche violazioni riscontrate, sia i calcoli attraverso i quali si è giunti alla previsione di perdite tali da poter essere qualificate come “gravi”. Il rilievo relativo alla carenza di motivazione segnò l’avvio del percorso di ampliamento del sindacato del giudice amministrativo. Il secondo profilo censurato dal TAR Sicilia atteneva alla non rispondenza alla ratio legis della prassi consolidata del passivo rinvio per relationem, nel provvedimento del Ministro, alla proposta della Banca d’Italia. È evidente la sintonia della sentenza in commento con le conclusioni pionieristicamente raggiunte dal TAR Sicilia nel 2000. Il percorso giurisprudenziale sul tema, tuttavia, non è stato, da allora, lineare, segnando anche momenti di ritorno alla visione tradizionale della funzione ministeriale. Sintomatica, in proposito, fu la decisione del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia8 che nel 2002 riformò proprio la citata sentenza del TAR Sicilia. Per quanto qui rileva si ricorda che il CGA rovesciò l’impostazione del TAR sostenendo che il potere di ispezione e verifica dell’attività delle banche spetterebbe unicamente alla Banca d’Italia e non sussisterebbe, quindi, alcun autonomo potere di valutazione in capo al Ministro che emana il provvedimento finale. In altre parole il CGA elevò una prassi amministrativa pluridecennale a criterio interpretativo dell’art. 70 del t.u.b., riducendo, in pratica, il ruolo del Ministro ad una verifica “dall’esterno” della regolarità del procedimento e della plausibilità della misura di rigore proposta. La sentenza in commento sembra aver messo finalmente robuste radici ad un’interpretazione corretta della disposizione citata.

3. I limiti del sindacato del giudice amministrativo nei casi di esercizio della c.d. discrezionalità tecnica. La peculiare complessità e tecnicità della materia – la gestione delle banche e la attività di vigilanza su di esse – ha indotto il giudice di ap-

8 Cons. Giust. Amm. per la Regione Sicilia, 19 marzo 2002, n. 145, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, II, 103, con nota di A. Nigro, Amministrazione straordinaria delle banche e giurisprudenza amministrativa: ritorno al passato?

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pello ad interrogarsi sulla natura, ed i limiti, del sindacato giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti della pubblica amministrazione caratterizzati da valutazioni a base tecnica. Ricordata, in termini tradizionali, la distinzione tra discrezionalità amministrativa (nella quale coesistono il momento dell’acquisizione e dell’esame dei fatti, e quello della scelta ritenuta più opportuna per la miglior tutela dell’interesse pubblico) e discrezionalità tecnica (che, invece, non riguarda il “merito”, ma comporta una mera analisi e valutazione dei fatti), la sentenza ribadisce l’invalicabilità della “soglia del merito”, oltrepassando la quale si opererebbe un’indebita sostituzione del giudice all’amministrazione. Ciò premesso il Consiglio di Stato, sulla scorta di recenti proprie pronunce in materia di esercizio della discrezionalità tecnica, ha incisivamente ricordato che anche materie o discipline connotate da un forte tecnicismo settoriale, sono rette da regole e principi che, per quanto “elastici” o “opinabili”, sono pur sempre improntati ad una intrinseca logicità e ad un’intima coerenza, alla quale anche la pubblica amministrazione, più di ogni altro soggetto dell’ordinamento, in ragione dell’interesse pubblico affidato alla sua cura, non può sottrarsi senza sconfinare nell’eccesso di potere. Peraltro, soggiunge la sentenza – quasi implicitamente superando la rigida distinzione tradizionale appena richiamata – indipendentemente dalla natura del sindacato intrinseco esercitato in tali materie – se “debole” o “forte” – il giudice amministrativo può – a seconda dei casi – verificare la logicità, la congruità, la ragionevolezza e l’adeguatezza del provvedimento e della sua motivazione; la regolarità del procedimento e la completezza dell’istruttoria; l’esistenza e l’esattezza dei presupposti di fatto posti a fondamento della decisione9. Molti dei profili ora richiamati riguardano parimenti entrambe le sfere, della discrezionalità e delle valutazioni tecniche. Con specifico riferimento alla vicenda oggetto del giudizio rientra nell’alveo della giurisdizione amministrativa il sindacato sulla correttezza10, nel caso singolo, dell’esercizio della duplice funzione: - di acquisizione, da parte della Banca d’Italia, dei dati di fatto tecnici,

9 Si veda, tra le altre, TAR Lazio, sez. III, 9 aprile 2010, n. 6185 in Foro amm. – TAR, 2010, 4, 1313. 10 Si veda, tra le altre, Cons. St., sez. IV, 11 novembre 2010, n. 8016, in Foro amm. – CDS, 2010, 11, 2331 e Foro Amm. – CDS, 2011, 6, 1914 con nota di Moliterni, Vigilanza creditizia e diritto amministrativo nella fase di avvio della procedura di amministrazione straordinaria delle banche.

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di valutazione degli stessi e di formulazione e proposizione della misura di intervento; - di riesame critico e di valutazione, da parte del Ministro, della sussistenza dei presupposti tecnici e della proporzionalità e ragionevolezza della misura proposta. Ciò tanto più vale laddove – come nel caso di specie – siano successivamente mutati i dati di fatto relativi ai presupposti di legge di un provvedimento di amministrazione straordinaria. La sentenza, dunque, fa perno sul sindacato intrinseco del giudice amministrativo, che attiene al potere di verificare la logicità e linearità delle argomentazioni dell’amministrazione fondate su dati tecnici complessi, come sono, per rimanere al caso in esame, i coefficienti di patrimonializzazione e solvibilità delle banche. Ciò in quanto, com’è noto, la valutazione di tale tipo di dati – pur non essendo volta a compiere scelte discrezionali – è comunque soggettiva e può condurre, entro certi limiti, a risultati diversi, ugualmente plausibili11. È, ancora, da ricordare che la stessa espressione discrezionalità tecnica – contrapposta ad “amministrativa” – è ormai considerata fuorviante, in quanto l’elemento che accomuna le due nozioni è quello della valutazione, ma diverso ne è l’oggetto: da un lato i dati tecnici; dall’altro gli interessi pubblici e privati da tutelare. Nella realtà si verifica spesso che la valutazione tecnica sia posta a base di valutazioni di merito, rendendo difficile distinguere quale sia il contenuto prevalente, tecnico o discrezionale, del provvedimento adottato.

4. Dagli istituti del procedimento amministrativo alla recezione dei principi europei in materia di giusto procedimento. Spunti e auspici. A prima vista la sentenza in commento si limita ad applicare – nell’interpretazione della sequenza procedurale implicata dall’art. 70 del t.u.b. – alcuni concetti ormai “tradizionali” in materia di procedimento amministrativo: la partizione in due subprocedimenti, correlata alla suddivisione tra due enti – Banca d’Italia e Ministro – delle funzioni, rispettivamente istruttoria/propositiva e decisoria; la natura obbligatoria, ma non

V. De Pretis, Valutazioni tecniche della P.A. in Dizionario di diritto pubblico, a cura di Cassese, Milano 2006, p. 6176 ss. 11

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vincolante, della proposta di amministrazione straordinaria formulata dalla Banca d’Italia; la facoltà dell’ente decidente di accogliere, o meno, la proposta (motivando in modo puntuale l’eventuale contrario avviso, o – viceversa – giungendo a condividere, anche per relationem, le motivazioni della proposta stessa, ma all’esito di un autonomo esame della fattispecie). Su questo panorama concettuale consolidato la sentenza ha tuttavia innestato un’innovazione, almeno per quel che riguarda i procedimenti sanzionatori o ablatori12 quali sono, come nel caso in esame, le gestioni coattive che privano (temporaneamente) i soci o azionisti del diritto di scegliere gli amministratori della banca posta in amministrazione straordinaria. L’innovazione consiste nel fatto che in questi tipi di procedimenti, sotto tale profilo assimilabili a quelli propriamente “punitivi”, l’ente o organo che decide se e quale sanzione (o – nella specie – provvedimento ablatorio) applicare deve porsi come parte terza ed imparziale, nei confronti sia dell’ufficio o ente istruttore e proponente, sia del soggetto potenziale destinatario del provvedimento pregiudizievole. E tale terzietà gli impone di formarsi una propria autonoma valutazione della vicenda sulla quale è chiamato a decidere e, in concreto: - di non limitarsi ad aderire acriticamente, mediante un burocratico rinvio per relationem, alle motivazioni della proposta della parte requirente, riesaminando invece criticamente il percorso, logico e tecnico, seguito dall’organo proponente sotto i profili della compiutezza dell’acquisizione dei fatti, della correttezza delle valutazioni dei fatti stessi e della logicità e proporzionalità delle conclusioni istruttorie; - di valutare attentamente le argomentazioni difensive versate nel procedimento dal potenziale sanzionando. Solo all’esito di questo “riesame” imparziale l’organo decidente può giungere a fare proprie le motivazioni della proposta. Si tratta di un’evoluzione importante, innanzitutto per le procedure di amministrazione straordinaria in campo bancario, le quali nella prassi – contestata, già molti anni fa, da un’autorevole dottrina13, ma finora avallata dalla giurisprudenza – hanno quasi sempre visto il Ministero recepire in modo “semiautomatico” le proposte della Banca d’Italia.

Giannini, Diritto Amministrativo, cit., p. 800. A. Nigro, Crisi e risanamento delle imprese: il modello dell’amministrazione straordinaria delle banche, Milano, 1985, pp. 35-36. 12

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Sotto un profilo più generale la sentenza in commento si inserisce in una recente tendenza giurisprudenziale ad affermare alcuni principi cardine del giusto procedimento, con particolare riguardo ai procedimenti “pregiudizievoli”. All’origine di questa evoluzione è sicuramente la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in materia di procedimenti sanzionatori, equiparati – com’è noto – dalla Corte a procedimenti “penali” per l’analoga gravità degli effetti afflittivi a carico dei soggetti sanzionati. In materia il riferimento obbligato è la nota sentenza Grande Stevens14, con la quale la Corte di Strasburgo – per quanto qui interessa – ha indicato l’art. 6, par. 1, della CEDU, in tema di equo processo, come un importante canone interpretativo ai fini della valutazione della legittimità delle norme regolamentari che disciplinano i procedimenti sanzionatori ed ablatori, ai fini della valutazione della loro conformità ai principi del giusto procedimento15. In forza di questo acquis europeo, ogni procedimento amministrativo, ad effetti pregiudizievoli, tanto più se sanzionatorio, deve necessariamente svolgersi garantendo il diritto di difesa, e, dunque, il pieno contraddittorio, con la partecipazione degli interessati ad ogni fase del procedimento sino a quella decisoria, per concludersi con la decisione di un organo imparziale. Quale specificazione ed applicazione fondamentale dei principi del giusto procedimento ai procedimenti amministrativi ad effetti pregiudizievoli – in particolare sanzionatori o ablatori – si pone il principio della netta separazione – nella disciplina normativa di queste procedure – tra le funzioni istruttorie e le funzioni decisorie, con una conseguente netta distinzione tra le due fasi del procedimento. Ciò implica il superamento del principio tradizionale della unitarietà e complementarietà dei compiti affidati ai vari uffici ed organi pubblici che intervengono nel procedimento “afflittivo”, in quanto tutti “schierati”, in sequenza, dalla stessa parte, a tutela dell’interesse pubblico affidato alla loro cura congiunta. E proprio sul presupposto della complementarietà nella cura con-

14 Corte EDU, Grande Stevens e altri c/o Italia – ric. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 – dep. il 4 marzo 2014. Sulla sentenza v. Allena, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni CONSOB alla prova dei Principi CEDU, in Giorn. dir. amm., 2014, p. 1053 ss.. 15 Cintioli, Giusto processo, CEDU e sanzioni Antitrust in Dir. proc. amm., 2015, n. 2.

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giunta dell’interesse pubblico si fonda la risalente prassi amministrativa16 dell’immotivato o passivo rinvio per relationem, da parte dell’organo decidente, alle conclusioni dell’istruttoria ed alla conseguente proposta sanzionatoria o ablatoria. Nei procedimenti in senso lato afflittivi il principio tradizionale della unitarietà della funzione intesa come un continuum (ciò che consentiva di recepire passivamente la proposta), è stato sostituito dalla distinzione verticale, di derivazione europea, tra la funzione “inquirente/requirente” e quella decidente, al fine di garantire la terzietà del decisore e quindi la par condicio, formale e sostanziale, nell’ambito dell’intero procedimento, del privato potenziale destinatario di un provvedimento afflittivo, o più generalmente pregiudizievole. L’inconciliabilità di una commistione sostanziale tra fase istruttoria e fase decisoria con i principi del giusto procedimento trova implicito riscontro nella sentenza in commento, nella quale viene messo a fuoco il rapporto dialettico, e la reciproca autonomia, tra i soggetti istituzionali protagonisti del procedimento di amministrazione straordinaria: la Banca d’Italia e il Ministro dell’Economia e delle Finanze. I Giudici hanno, infatti, evidenziato come, nell’ambito di un procedimento sanzionatorio, la ripartizione delle due fasi tra diversi soggetti abbia una ratio sostanziale: l’organo decidente ha la specifica funzione di rivalutare in modo imparziale le risultanze istruttorie e la proposta che se n’è fatta derivare. Ciò tanto più in quanto, ex art. 70 del t.u.b., i presupposti della misura sostitutiva degli organi ordinari – la gravità delle irregolarità amministrative, o delle violazioni dei precetti di settore o delle perdite patrimoniali previste – sono individuati in modo del tutto generico dal legislatore, facendo perno sul solo aggettivo “gravi”, lasciando così un vasto spazio di valutazione e decisione alle due Autorità creditizie. È agevole rilevare che, se è indispensabile una autonoma valutazione della proposta sanzionatoria, o ablatoria, quando – come nel caso della Banca Popolare di Spoleto – l’amministrazione decidente è diversa da quella proponente, tanto più appare grave il problema quando le due funzioni sono commiste nel medesimo organismo. Sul punto la soprarichiamata sentenza della CEDU ha rilevato criticamente che l’affidamento delle due funzioni a due uffici o organi diversi,

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ss.

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V. Piga, voce Prassi amministrativa, in Enc. dir., vol. XXXIV, Milano 1985, p. 842


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ma dello stesso organismo pregiudica la terzietà dell’organo decidente. Sta di fatto che la netta separazione tra gli organi incaricati dei due momenti - istruttorio e decisorio – appare ad oggi carente nei regolamenti che disciplinano i procedimenti sanzionatori di molte Authorities, dall’A.G.C.M., all’A.G.C.M., alla Banca d’Italia, alla Consob, all’Ivass. Più precisamente: solo in alcuni regolamenti è prevista una segregazione meramente funzionale, la quale non assicura un sufficiente grado di separazione. Tale insufficienza deriva dal dato strutturale che le due funzioni sono affidate a strutture intercomunicanti del medesimo soggetto pubblico. Ciò è ancor più evidente se – come nel procedimento sanzionatorio dell’A.G.C.M. – uno dei componenti del collegio giudicante fa anche da “portavoce” della parte requirente, come relatore e proponente la sanzione. E la commistione di funzioni – contraria ai principi del giusto procedimento – non può essere considerata irrilevante alla luce del fatto che, comunque, il provvedimento afflittivo può essere impugnato innanzi ad un giudice dotato di piena giurisdizione. Innanzitutto perché tale piena giurisdizione, estesa al merito, sussiste – in teoria ma spesso non nella pratica – nel caso di ricorso al giudice ordinario, competente in caso di sanzioni in senso proprio, irrogate dalla Banca d’Italia e dalla Consob (mentre i provvedimenti sanzionatori dell’Ivass sono soggetti alla giurisdizione del giudice amministrativo); viceversa non sussiste nel caso – in esame – di ricorso al giudice amministrativo avverso un provvedimento ablatorio quale è l’amministrazione straordinaria. Il sindacato del giudice amministrativo è infatti esclusivamente di legittimità, sia pure nell’accezione ampia ed evolutiva sin qui commentata. In secondo luogo perché – com’é stato rilevato in dottrina17 considerando la fase procedimentale e quella processuale come componenti di un’unica fattispecie complessa – nel corso della quale è sufficiente che il diritto di partecipazione paritaria sia assicurato una volta, nel giudizio – si determina una sorta di sanatoria ex post dei vizi relativi al procedimento amministrativo, che sarebbero assorbiti o “compensati” dal successivo processo, pubblico ed esteso al merito; giudizio, peraltro, del tutto eventuale.

Goisis, La tutela del cittadino nei confronti della sanzione amministrativa tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2012, p. 73 ss. 17

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Un segnale molto significativo di meditato recepimento degli acquis della Corte EDU in materia di giusto procedimento è ora costituito dalle sentenze del Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 159518 e 1596 del 26 marzo 2015, che hanno ritenuto illegittimo il “Regolamento sanzioni” della Consob19. Nelle sentenze da ultimo citate i Giudici di appello hanno fatto ampio riferimento all’interpretazione dell’art. 6, par. 1 della CEDU data dalla Corte Europea sottolineando, tra l’altro, come le garanzie del diritto di difesa e del giusto procedimento possano essere realizzate anche all’interno del procedimento amministrativo e come sarebbe errato ritenere che nel pensiero della Corte EDU la fase giurisdizionale valga a sanare una fase amministrativa illegittima in quanto priva delle garanzie del giusto procedimento. Nel merito i Giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che nel caso delle Autorità di Vigilanza sui mercati finanziari, intesi in senso lato20, la separazione della fase istruttoria e di quella decisoria sia solo meramente funzionale e non tale, pertanto, da assicurare la c.d. imparzialità oggettiva, ovvero che il soggetto che decide sulla sanzione sia diverso, da un punto di vista strutturale e organizzativo, da quello che svolge l’istruttoria. Viceversa, i procedimenti “punitivi” di tali autorità sono svolti da uffici o organi che fanno parte del medesimo organismo ed agiscono sotto la supervisione dello stesso presidente. Oltre al contrasto, con i principi “europei” di terzietà ed imparzialità, della commistione organizzativa tra uffici ed organi istruttori/requirenti e decidenti, la sentenza n. 1595/2015 ha evidenziato la violazione dell’art. 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 (“Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”) il quale a proposito dei procedimenti sanzionatori enuncia i principi del pieno e paritario contraddittorio, della piena conoscenza degli atti istruttori sino alla proposta sanzionatoria compresa (con la possibilità implicita e correlata di replica prima della decisione).

In Foro amm. – CDS., 2015, 3, 763. La sentenza n. 1596/2015 è in identici sensi. Le sentenze erano state anticipate da due ordinanze cautelari molto significative, la n. 4491 e la n. 4492 del 2 ottobre 2014, sulle quali v. Allena, Interessi procedimentali e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: verso un’autonomia di tutela?, in Giorn. dir. amm., n. 1/2015, p. 67 ss. 20 V. S. Amorosino, Principi “costituzionali”, poteri pubblici e fonti normative in tema di mercati finanziari, in Diritto del mercato finanziario3, a cura di S. Amorosino, Milano, 2014, p. 3 ss. 18 19

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Sul tema della necessaria conformazione ai principi del giusto procedimento dei “Regolamenti sanzioni” delle Autorità di Vigilanza “finanziarie” la sentenza n. 1595/2015 merita una breve citazione: “Dopo l’iniziale ridotta partecipazione, pertanto, il procedimento sanzionatorio prosegue in totale assenza di contraddittorio. La relazione dell’ufficio che svolge l’istruttoria non viene, infatti, inviata all’interessato, in violazione del diritti di piena conoscenza degli atti istruttori, e le controdeduzioni giungono alla Commissione, titolare del potere di decisione finale, solo attraverso la relazione dell’ufficio istruttorio. Manca, quindi, qualunque interlocuzione tra l’ufficio titolare del potere di decisione finale e il soggetto che quella decisione subirà. L’interessato si vede, in particolare, preclusa la possibilità di interloquire sulla relazione conclusiva dell’Ufficio Sanzioni, nella quale pure possono essere contenute valutazioni (in primis, la definitiva qualificazione giuridica dell’istituto) non necessariamente oggetto di confronto durante la fase istruttoria. Questo iter procedimentale, così come disegnato dal regolamento impugnato, determina allora una violazione del contraddittorio voluto dal legislatore, dal momento che in un procedimento ispirato a tale principio il contraddittorio dovrebbe esplicarsi in ogni fase del procedimento, prima, durante e dopo il compimento dell’attività istruttoria preordinata alla decisione finale”. Appare auspicabile che i principi del giusto procedimento affermati dal Consiglio di Stato, sulla base della legge sulla tutela del risparmio, con riferimento ai regolamenti che disciplinano i procedimenti sanzionatori delle Autorità di Vigilanza sulle attività finanziarie, vengano via via applicati da una giurisprudenza evolutiva anche ai procedimenti sanzionatori di altre Autorità come l’AGCM., l’AGCom., l’AEEGA e l’Autorità di Vigilanza sui trasporti. Valentina Amorosino

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I contratti derivati nella giurisprudenza Sommario: 1. I requisiti. – 1.1. Accordo. – 1.2. Causa. – 1.3. Oggetto. – 1.4. Forma. – 1.5. Mark to market. – 1.6. Costi. – 1.7. Alea. – 1.8. Up front – 1.9. Rinegoziazione. – 2. I contraenti. – 2.1. Operatore qualificato. – 2.2. Cliente retail. – 2.3. Obblighi informativi verso l’operatore qualificato. – 2.4. Obblighi informativi verso il cliente retail. – 3. I vizi. – 3.1. Nullità. – 3.2. Annullabilità. – 3.3. Risoluzione. – 4. La tutela cautelare – 4.1. Fumus boni iuris. – 4.2. Periculum in mora. – 5. L’arbitrato. 5.1. Clausola compromissoria. – 5.2. Procedibilità. – 6. Le procedure concorsuali. – 7. Gli enti pubblici.

1. I requisiti. 1.1. Accordo. Secondo il Trib. Torino, 24 aprile 20141, l’interest rate swap è quel contratto atipico, di natura aleatoria, che è caratterizzato dallo scambio, a scadenze prefissate, dei flussi di cassa prodotti dall’applicazione di diversi parametri ad uno stesso capitale di riferimento. Anche il Trib. Roma, 13 maggio 20132, ha ritenuto lo swap il contratto mediante il quale due parti si accordano per scambiarsi, in base a regole e formule prestabilite, dei flussi finanziari futuri il cui ammontare è determinato in relazione ad un valore sottostante. Al termine, il contratto verrà normalmente eseguito mediante il pagamento del differenziale. In ragione del tipo di parametro o variabile di mercato che si prende in considerazione per determinare la natura dei flussi di cassa, che genera combinazioni di contratti, si possono distinguere swap su valute, swap

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In ilcaso.it. In Leggi d’Italia on line.

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su merci, swap su rischio di credito e swap su tassi di interesse. Il Trib. Pescara, 3 ottobre 20123, ha considerato gli IRS, ovvero swap su tassi di interesse, contratti in cui le parti si scambiano pagamenti periodici di interessi, calcolati su una somma di denaro (capitale nozionale) per un periodo di tempo predefinito, in cui una parte si impegna a pagare ad un dato tasso, e l’altra ad un tasso differente, sul presupposto di diverse assunzioni previsionali in ordine all’andamento prospettico dei tassi. Infine, il Trib. Civitavecchia, 8 giugno 20114, ha reputato il contratto di swap su tassi di interesse un contratto nominato atipico mediante il quale le parti, a scadenze prestabilite e per un arco di tempo predefinito, si impegnano a scambiarsi flussi di cassa calcolati applicando ad uno stesso capitale nozionale - non oggetto di scambio - due diversi tassi di interesse: un tasso fisso, determinato alla data della conclusione del contratto, ed un tasso variabile, determinato di volta in volta alle predette scadenze. 1.2. Causa. 1.2.1. Causa in astratto. Il Trib. Milano, 28 novembre 20145, ha reputato condivisibile la prospettiva che individua lo schema astratto dell’operazione negoziale in uno scambio di flussi finanziari convenuto dalle parti sulla scorta della variazione nel tempo dei tassi di interesse (in ciò palesandosi l’intrinseca aleatorietà dello strumento, connaturata alla durata degli effetti in un arco temporale anche notevole ed alla portata degli stessi in dipendenza da fattori esterni e mai certi per alcuna delle parti). Né appare meritevole di apprezzamento, ferma la necessaria bilateralità dell’elemento aleatorio, se il rischio sia ugualmente ripartito tra i contraenti ovvero sopportato in misura maggiore da uno di essi, dipendendo pur sempre da fattori estranei alla signoria delle parti. Secondo Trib. Milano, 8 maggio 20146, la causa astratta dell’IRS deve essere individuata nello scambio di flussi finanziari concordato fra le parti in dipendenza della variazione dei tassi di interesse nel tempo e, quindi, in un connotato di aleatorietà intrinseca del derivato che deriva

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In Contr., 2012, p. 1041. In Giur. it., 2012, p. 75, con nota di Gigliotti. 5 In ilcaso.it. 6 Inedita. 4

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dal semplice fatto che gli effetti del negozio sono destinati a svilupparsi per tutta la durata di esso, dipendendo da fattori esterni, prevedibili in misura più o meno ampia, comunque mai certi per nessuna delle parti. Sotto la prospettiva della causa del negozio non assume rilevanza neppure accertare se l’elemento aleatorio, necessariamente bilaterale secondo la struttura tipica di tali contratti, risulti ripartito in pari misura tra le parti di esso o, invece, sia in misura minore o maggiore sbilanciato a favore di una e a scapito dell’altra, dal momento che anche in tale ultima ipotesi permane il connotato strutturale dell’aleatorietà, considerato come comunque lo scambio dei flussi finanziari venga fatto dipendere da indici (in questo caso i tassi di interesse) che prescindono dall’azione delle parti. Il Trib. Bologna, 7 aprile 20147, ha affermato che il contratto derivato swap può avere vuoi contenuto speculativo e marcatamente aleatorio quando viene stipulato al solo fine di profittare dell’andamento sperato dei tassi, vuoi carattere di copertura laddove sia volto a eliminare l’incertezza di un debito a tasso variabile; in entrambi i casi, tale contratto mantiene causa tipica poiché strumento finanziario riconosciuto a tutti gli effetti dall’art. 1 t.u.f. Il Trib. Ravenna, 8 luglio 20138, ha ravvisato nelle operazioni di interest rate swap una causa in astratto coincidente con lo scambio di flussi corrispondente al differenziale che, nel tempo di esecuzione del contratto, si determina tra due tassi di interesse differenti e predefiniti, applicati a un capitale nozionale di riferimento. 1.2.2. Causa in concreto. Per il lodo arbitrale 24 aprile 20159 la causa meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico può sussistere anche con riferimento a fattispecie speculative e non soltanto di copertura: essendo tuttavia importante, al fine di individuare una causa effettiva, che sussista un’alea, seppur minima; a nulla poi rilevando che l’alea sussista in maniera prevalente a sfavore del cliente. Secondo il Trib. Torino, 24 aprile 201410, il contratto di swap stipulato da un imprenditore che intenda tutelarsi dalla oscillazione dei tassi in

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In dirittoegiustizia.it, con nota di Bencini. In ilcaso.it. 9 Inedito, redatto dagli arbitri Vella (pres.), Rimini e Rondinelli. 10 Cit. alla nota 1. 8

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riferimento ad un mutuo a tassi variabili, ha una sua precisa logica che impedisce di ritenerlo privo di causa ed è irrilevante che i tassi di riferimento stabiliti, in concreto, si siano rivelati lontani da quelli di mercato, rientrando ciò nell’alea tipica del contratto. Il Trib. Torino, 17 gennaio 201411, ha ritenuto che nell’àmbito del contratto di swap ciò che rileva ai fini della valutazione della sussistenza della causa in concreto non è tanto o solo lo squilibrio dell’alea rispettivamente assunta, quanto la consapevolezza del contraente debole del differente livello di rischio assunto dalle parti. Il mero squilibrio delle alee assunte, infatti, non è di per sé motivo per ritenere assente la causa in concreto; ben potendo le parti, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, consapevolmente stipulare un contratto di swap in cui una di esse si assume un rischio maggiore dell’altra. Questo squilibrio deve, però, essere frutto di una libera scelta delle parti e non già una conseguenza derivante dai parametri inseriti nel contratto soggettivamente ignota al contraente debole, in quanto unilateralmente predisposta dalla banca, la quale indubbiamente riveste sia la qualifica di operatore qualificato, sia quella di controparte diretta del cliente e, quindi, come tale, per definizione in conflitto di interessi. Ciò che rileva, dunque, ai fini dell’insussistenza della causa in concreto è l’assenza di adeguata informazione fornita dalla banca al cliente in ordine ai rischi effettivamente assunti. Secondo il Trib. Orvieto, 12 aprile 201212, la possibilità di ravvisare nello schema di base delle operazioni interest rate swap una causa in astratto - coincidente con lo scambio di flussi corrispondente al differenziale che, nel tempo di esecuzione del contratto, si determina tra due tassi di interessi differenti e predefiniti, applicati ad un capitale nozionale di riferimento - non preclude di verificare, con riguardo al contratto intervenuto tra le parti e considerato nella sua specifica conformazione, l’esistenza di una causa in concreto. Ne consegue che nell’ipotesi di contratto non par (ovvero non presentante, al tempo della sottoscrizione, un differenziale nullo), qualora la misura dell’up front non valga a ristabilire la condizione di parità tra le parti, l’operazione dovrà ritenersi affetta da squilibrio genetico e, pertanto, qualificarsi nulla per difetto di causa in concreto.

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In Contr., 2014, p. 1012, con nota di Indolfi. In Banca, borsa, tit. cred., 2012, II, p. 700, con nota di Minneci.


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1.3. Oggetto. Il lodo arbitrale 10 febbraio 201513 ha chiarito che il mark to market non costituisce oggetto del contratto; si tratta di un valore che viene dato al contratto derivato in un determinato momento della sua vita, sulla base di stime previsionali che, di per sé, non comportano una perdita monetaria né un obbligo di pagamento per le parti. Ogni contratto derivato continua a produrre i suoi effetti fino a quando le parti, che non dispongono di alcuna facoltà di recedere, non decidono di risolverlo consensualmente, su basi evidentemente da concordarsi volta per volta e tenuto conto del valore attuale dei flussi a venire relativi all’operazione anticipatamente chiusa. Per l’App. Bologna, 23 gennaio 201514, il capitale nozionale è l’importo assunto come base per l’adempimento degli obblighi associati ad uno strumento derivato ed è così denominato perché è un capitale fittizio che non viene scambiato tra le parti. In un contratto di IRS non si ha infatti “scambio di valuta”, bensì soltanto la liquidazione, tra le parti, del differenziale degli interessi maturati in un periodo di tempo determinato, sul capitale nozionale. Il lodo arbitrale 4 luglio 201315 ha poi sostenuto che la mancata indicazione nell’accordo normativo del Mark to Market costituisca un vizio di nullità per indeterminabilità dell’oggetto, essendo comunque necessario, nei contratti aleatori, determinare ex ante la ricorrenza dell’alea; sicché, se questa fosse ex ante radicalmente esclusa, verrebbe meno il contenuto essenziale del contratto. 1.4. Forma. Per il Trib. Torino, 24 aprile 201416, lo scambio di copie del contratto sottoscritte reciprocamente dalle parti (con trattenimento da parte di ciascuna di esse della copia sottoscritta dall’altra parte) integra senz’altro il requisito della forma scritta richiesto dalla legge. In tema di nullità relativa del contratto quadro di intermediazione finanziaria per mancanza della necessaria forma scritta ai sensi dell’art. 23 t.u.f. occorre tener presente che la forma scritta funge da veicolo del contenuto del contrat-

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Inedito, redatto dagli arbitri Nuzzo (pres.), Rimini e Picozzi. Inedita. 15 In dirittobancario.it, redatto dagli arbitri Marchetti (pres.), Ferrarini e Girino. 16 Cit. alla nota 1. 14

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to ed assolve ad una funzione protettiva dell’investitore, in particolare, essendo volta al riequilibrio dell’assetto informativo, così superando la sperequazione conoscitiva e negoziale nel potere e nella capacità del contenuto normativo dell’accordo. Pertanto, la previsione di forma convenuta nell’art. 23 t.u.f., chiara espressione della procedimentalizzazione del contratto, è soddisfatta dalla sottoscrizione del solo investitore per il soddisfacimento della funzione informativa perseguita. Per il Trib. Mantova, 24 febbraio 201417, soddisfa pienamente il requisito di forma di cui all’art. 23 t.u.f. il contratto di negoziazione sottoscritto soltanto dal cliente e recante la dichiarazione unilaterale ricognitiva di aver ricevuto copia di un esemplare dello stesso debitamente firmato da soggetto abilitato della banca contraente. A parere del Trib. Roma, 25 ottobre 201318, la disposizione relativa all’obbligo di forma scritta non si applica nei rapporti tra intermediari autorizzati ed operatori qualificati. Il Trib. Milano, 5 luglio 201319, ha ritenuto nullo il contratto di swap negoziato in assenza della previa sottoscrizione di un contratto quadro ed ha stabilito che la nullità non possa essere sanata mediante la sottoscrizione successiva di detto contratto. Secondo il Trib. Modena, 5 maggio 201020, deve essere considerato nullo il contratto swap non preceduto dalla conclusione in forma scritta del contratto di mandato (c.d. contratto quadro). Infine, il Trib. Padova, 23 marzo 201021, ha affermato che non assolve all’onere di provare la stipula del contratto quadro di negoziazione e trasmissione ordini la produzione in giudizio del solo contratto di investimento in prodotti derivati (nella specie IRS) che sia concepito come parte integrante del contratto quadro e non ne non contenga tutti i requisiti previsti dall’art. 30, Reg. Consob n. 11522/1998. 1.5. Mark to market. Secondo il lodo arbitrale 24 luglio 201522, il mark to market non rappresenta un elemento essenziale del contratto in derivati, traducendosi

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In dirittoegiustizia.it, con nota di Bencini. In expartecreditoris.it 19 In ilcaso.it. 20 In Leggi d’Italia on line. 21 In ilcaso.it. 22 Inedito, redatto dagli arbitri Pravettoni (pres.), Masserdotti e Serra. 18

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nell’apprezzamento del valore teorico stimato del derivato stesso (basato su aspetti previsionali); con la conseguenza che l’omessa informativa, da parte dell’intermediario, di tale valore al cliente non appare di per sé idonea a comportare la nullità del contratto per mancanza di causa in concreto. Al contrario, il Trib. Torino, 17 gennaio 201423, ha rilevato come nelle operazioni di interest rate swap la circostanza che, al momento della conclusione del contratto, l’investitore non sia a conoscenza del c.d. mark to market (inteso come il valore di mercato del contratto la cui stima venga effettuata attualizzando i flussi di cassa attesi) e che tale elemento non rientri nel contenuto dell’accordo, determini la radicale nullità del contratto. Difatti, tutti gli elementi dell’alea e gli scenari che da essa possono discendere integrano la causa del contratto derivato e devono pertanto essere definiti e conosciuti ex ante, con assoluta certezza, sia dal contraente debole che dall’intermediario: in mancanza di ciò, il contratto di interest rate swap deve considerarsi nullo per difetto di causa, non potendo meritare tutela un negozio caratterizzato dalla creazione di alee reciproche e bilaterali ignote ad uno dei contraenti. Per l’App. Milano, 18 settembre 201324, la circostanza che, al momento della conclusione del contratto, l’investitore non conosca il mark to market e che questo elemento non rientri nel contenuto dell’accordo, comporta la radicale nullità dei contratti di interest rate swap, poiché esclude che l’investitore abbia potuto concludere la “scommessa” conoscendo il grado di rischio assunto, laddove, per contro, l’intermediario aveva perfetta conoscenza del proprio rischio avendolo misurato scientificamente e su di esso predisposto lo strumento finanziario. Il Trib. Milano, 19 aprile 201125, ha chiarito come il mark to market non possa essere considerato “oggetto” del contratto. Si tratta di un valore che viene dato in un certo momento della sua vita ad un derivato, la cui stima involge notevoli aspetti previsionali e che, di per sé, non comporta alcuna giuridica conseguenza sulla posizione delle parti, non si traduce cioè in una perdita monetaria ovvero in un obbligo di pagamento. Si tratta in definitiva di una sorta di rating evoluto; ed infatti l’i-

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Cit. alla nota 11. In Banca, borsa, tit. cred., 2014, II, p. 278, con nota di Tucci; in Nuova giur. comm., 2014, p. 206, con nota di Ballerini; in Giur. comm., 2014, II, p. 227, con nota di Caputo Nassetti; in Rass. dir. civ., 2014, p. 295, con nota di Di Raimo; ed in Società, 2014, p. 441, con nota di Calzolari. 25 In Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 748, con nota di Girino. 24

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niziale funzione era soltanto quella di consentire il monitoraggio dell’andamento del derivato, agganciandosi all’ipotesi dell’istantanea chiusura del rapporto. Pertanto, un valore mark to market negativo non si trasforma necessariamente in un esborso monetario a carico del debitore, a meno che non decida di avvalersi della facoltà di estinzione anticipata del contratto in un dato momento. In tal caso, se negativo, il mark to market si trasforma in un obbligo di pagamento immediato; ovvero, in alternativa, la sua negatività si trasfonde nel contratto rinegoziato. Ne deriva che, al più, il mark to market potrebbe essere ritenuto l’oggetto di un patto accessorio al contratto sui derivati; ad esempio un patto con cui le parti convengono espressamente di operare la suddetta stima, cioè la finzione di scadenza anticipata con frequenza giornaliera e quindi di accantonare i relativi margini a reciproca garanzia, come se realmente il contratto dovesse essere eseguito, così creando una sorta di deposito cauzionale. Ovvero un patto volto a disciplinare le modalità di recesso anticipato dal contratto di durata. 1.6. Costi. Secondo il Trib. Pistoia, 2 luglio 201526, l’esistenza di un margine lordo implicito in favore della banca – costituito ora dalle condizioni più favorevoli che questa ottiene sul Mercato per concludere il derivato di segno opposto, ora dalla copertura del rischio di credito e dei costi operativi – non costituisce, di per sé, segno di una patologia dell’operazione, risultando anzi del tutto fisiologica. Per l’App. Milano, 3 giugno 201427, non commette il reato di truffa il dipendente della banca che omette di esplicitare al cliente i costi sostenuti dall’intermediario, introdotti nella struttura del prodotto derivato e richiesti per l’attività di gestione del medesimo, difettando un obbligo ex lege di comunicazione di tale informazione. L’App. Milano, 18 settembre 201328, ha reputato che nei contratti di IRS devono essere esplicitati il valore del derivato, gli eventuali costi impliciti ed i criteri per determinare le penalità in caso di recesso, poiché soltanto in tal modo si è in presenza di un’alea razionale. Sicché, in difetto di tali elementi, il contratto dovrà ritenersi nullo per difetto di causa,

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Inedita. In dirittoegiustizia.it, con nota di Bencini. 28 Cit. alla nota 24. 27

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posto che il riconoscimento legislativo risiede nella razionalità dell’alea e, quindi, nella sua misurabilità. Secondo il Trib. Verona, 25 marzo 201329, la c.d. commissione implicita, più correttamente definibile come margine lordo di intermediazione, non comporta, né al momento della conclusione di un contratto swap, né durante la vigenza di esso, un esborso in favore della banca da parte del cliente poiché consiste nella differenza tra il valore corrente (fair value) del contratto al momento della sua rilevazione ed il fair value di analogo contratto stipulato, a condizioni praticate sul mercato, con soggetti terzi. Pertanto, la domanda del cliente di condanna dell’intermediario al pagamento di importi che siano stati addebitati al primo, in relazione ad un contratto di swap, a titolo di commissioni implicite, è diretta a riequilibrare il profilo economico di quella operazione e, quindi, postula la volontà di mantenere in essere il contratto, se questo sia ancora in vigore, o comunque di trarre vantaggio da esso, confermandone quindi l’adeguatezza. Tale domanda risulta inconciliabile con la domanda di annullamento per errore o dolo del contratto, nonché con quella di risoluzione per inadempimento e con quella di nullità che siano fondate sulla violazione degli obblighi comportamentali dell’intermediario. Il Trib. Verona, 10 dicembre 201230, ha osservato che, nei contratti di swap, il margine lordo in favore della banca non è di per sé segno di una patologia dell’operazione, almeno che l’importo di esso risulti eccessivo e comporti uno sbilanciamento dell’operazione in danno del cliente. Secondo l’opinione del Trib. Pescara, 24 ottobre 201231, nell’àmbito dei contratti di swap, il pagamento di commissioni volte a remunerare il servizio offerto dall’intermediario deve essere espressamente pattuito, in quanto si tratta di oneri che non trovano giustificazione in relazione allo strumento contrattuale di un negozio aleatorio di scambio, a base commutativa, la cui causa è configurabile nello scambio di pagamenti assunti con due parametri differenti, nell’àmbito del quale è previsto il meccanismo dell’up front in favore della parte onerata dell’IRS non par, quale indice di rischiosità del prodotto ed anche il corrispettivo da pagare per uscire dal contratto. In tale contesto, non vi è spazio per il riconoscimento di un lucro costituito dalla differenza del mark to market

29 In Società, 2013, p. 943, con nota di Calzolari; in Giur. comm., 2014, II, p. 719, con nota di Caputo Nassetti. 30 In ilcaso.it. 31 In ilcaso.it.

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di stipula del nuovo contratto al netto del mark to market di estinzione del contratto rinegoziato. Per il Trib. Lecce, 9 maggio 201132, le operazioni in strumenti derivati dovrebbero presentarsi come potenzialmente vantaggiose per il cliente quanto meno nell’ipotesi di scenari economici a lui favorevoli. Costituisce pertanto un’operazione insensata e sbilanciata a tutto vantaggio dell’intermediario quella che presenti costi di transazione talmente elevati da assorbire gli eventuali guadagni del cliente nel caso di andamento a lui favorevole del mercato (nel caso di specie era stata effettuata la sostituzione di un contratto di interest swap rate con altro contratto che, al momento della stipula, presentava già un market to market negativo, soprattutto a causa di rilevanti costi occulti di ristrutturazione). 1.7. Alea. Per la Cass., 8 maggio 2014, n. 999633 il contratto derivato rientra nella categoria della scommessa legalmente autorizzata, la cui causa, ritenuta meritevole dal legislatore, risiede nella consapevole e razionale creazione di alee che, nei derivati c.d. “simmetrici”, sono reciproche e bilaterali. Secondo il lodo arbitrale 12 giugno 201434 il contratto derivato è aleatorio per entrambe le parti, essendo il risultato in termini positivi (guadagno) o negativi (perdita) in favore dell’una piuttosto che dell’altra parte legato ad un fattore esterno, ossia ad un parametro sottratto al loro dominio; tutto ciò indipendentemente dal fatto che l’alea abbia peso e dimensioni diverse per ciascuna delle parti. A parere del Trib. Napoli, 8 maggio 201435, la connotazione causale del contratto di IRS con cui le parti – già esposte verso terzi a tassi differenti (una indebitata a tasso fisso e l’altra a tasso variabile) – convengono di regolare, alla scadenza di ciascun periodo di maturazione di interessi, la differenza fra i due ammontari calcolati sul nozionale di riferimento, consiste nell’elevato rischio che risiede nelle oscillazioni dei valori di riferimento e nell’alea bilaterale che pervade l’intera regolamentazione degli interessi delle parti; sicché il difetto di aleatorietà, attenendo ad un vizio genetico, comporta la declaratoria di nullità del contratto prescindendo del tutto dalla valutazione del comportamento posto in essere

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In ilcaso.it. In Nuova giur. comm., 2014, p. 1099, con nota di Berti de Marinis. 34 Inedito, redatto dagli arbitri Azzali (pres.), Morera e Silvestri. 35 Inedita. 33

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dall’intermediario e dalla violazione delle norme di condotta in ordine all’adempimento degli obblighi informativi ed alla valutazione dell’adeguatezza dell’operazione posta in essere; con l’ulteriore conseguenza che l’onere della prova – secondo i princìpi generali ex art. 2697 c.c. – incombe sulla parte che assume l’assenza di alea. Per il Trib. Torino, 17 gennaio 201436, l’addebito a carico del cliente di costi non adeguatamente indicati nel contratto di swap ed a sua insaputa produce un’alterazione ab origine delle alee rispettivamente assunte dalle parti. Secondo il Trib. Milano, 19 aprile 201137, nell’àmbito dei contratti derivati su valuta e di swap, la considerevole differenza tra i rischi assunti dall’investitore e quelli assunti dall’intermediario non è sufficiente a ritenere inesistente l’aleatorietà del contratto qualora ciò possa trovare giustificazione nella specifica situazione in cui l’investitore si trova ad operare e lo stesso sia in grado di monitorare costantemente l’andamento e gli effetti del derivato. 1.8. Up front. Il Trib. Bari, 14 luglio 201438, ha evidenziato che qualora il mark to market non sia pari a zero, e quindi un contraente parta da una situazione di svantaggio, può essere previsto il pagamento di un flusso di cassa maggiore rispetto all’altra parte, ossia un corrispettivo chiamato up front, destinato a portare inizialmente in pareggio lo scambio dei flussi di cassa. Secondo la Cass., 8 maggio 2014, n. 999639, il contratto con il quale la banca, fornendo i mezzi necessari all’adempimento del mandato ricevuto, anticipa al cliente, mediante l’erogazione diretta al terzo e con diritto al rimborso, le somme necessarie per il versamento dei margini di garanzia nelle operazioni in derivati finanziari, deve essere stipulato, ai sensi dell’art. 18 d. lgs. 27 luglio 1996, n. 415 (nel testo vigente ratione temporis), in forma scritta a pena di nullità azionabile solo dal cliente, sempre che quest’ultimo vi abbia interesse. Il lodo arbitrale 28 gennaio 201440 ha ritenuto gli up front non appartenenti alla categoria dei finanziamenti agli investitori; sicché non sus-

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In ilcaso.it. In ilcaso.it. 38 Inedita. 39 Cit. alla nota 33. 40 In dirittobancario.it, redatto dagli arbitri Lener (pres.), Perrone e Girino. 37

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siste alcun vincolo di forma per la conclusione degli accordi tra le parti che regolano l’eventuale erogazione in favore degli investitori di somme a titolo di up front. Per il Trib. Torino, 17 gennaio 201441, nei contratti derivati IRS l’up front costituisce un efficace indicatore della presenza di un rischio connaturato alla struttura contrattuale ed impone all’intermediario un particolare dovere di consulenza fedele, atteso che l’obbligo di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza è connaturato al contratto di intermediazione finanziaria, tanto più nel caso in cui l’intermediario si ponga come diretta controparte dell’operazione. 1.9. Rinegoziazione. Secondo il lodo arbitrale 10 febbraio 201542, il derivato può avere funzione di copertura, ovvero di speculazione, così come una funzione mista variamente graduata. In caso di rinegoziazione di un derivato per la perdita che si sia subita con riguardo al precedente, quand’anche si modifichi l’originaria logica economica del derivato, non si avrà per ciò solo nullità del contratto per vizio della causa, atteso che i derivati anche speculativi sono contratti leciti. A parere del Trib. Cosenza, 18 giugno 201443, la rinegoziazione dei contratti derivati mediante la risoluzione anticipata dello swap e la compensazione del saldo negativo con il pagamento (up front) che trova giustificazione nella conclusione del successivo contratto di swap avente un nozionale di riferimento superiore, assume una funzione necessariamente speculativa, in quanto diretta a ridurre, o a differire nel tempo, il concreto realizzarsi della perdita provocata dallo swap precedente. Il Trib. Verona, 25 marzo 201344, ha qualificato la rinegoziazione o rimodulazione dei contratti derivati come novazione oggettiva allorquando uno dei contraenti (di solito il cliente) si determini a risolvere il primo swap soltanto in presenza di un secondo contestuale nuovo swap che consenta di evitare di pagare l’importo della risoluzione anticipata del primo grazie alla compensazione con il pagamento (up front) che trova giustificazione nella conclusione del secondo swap. In questi casi, infatti, le parti estinguono il primo swap facendo così sorgere l’obbligazione

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In ilcaso.it. Cit. alla nota 13. 43 In ilcaso.it. 44 Cit. alla nota 29. 42

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di pagamento della perdita dallo stesso generata che contestualmente estinguono, creando una nuova obbligazione in virtù di un nuovo titolo. É così che il nuovo swap assume una funzione necessariamente speculativa, in quanto è diretto a ridurre, o a differire nel tempo, il concreto realizzarsi della perdita provocata dallo swap precedente. A parere del Trib. Milano, 23 marzo 201245, se un contratto di swap risulta inadeguato rispetto alle esigenze del cliente e, di conseguenza, quest’ultimo decide di rinegoziarlo al fine di tentare di recuperare parte delle somme già perdute, il collegamento negoziale ravvisabile fra i due contratti, quello originario e quello frutto della rinegoziazione, comporta che l’iniziale violazione dell’art. 21 t.u.f. incida su entrambi i rapporti contrattuali, sicché, ai fini risarcitori, l’inadempimento dell’intermediario, riferibile alla prima operazione di swap, può essere invocato anche con riguardo alla seconda.

2. I contraenti. 2.1. Operatore qualificato. Secondo il lodo arbitrale 17 luglio 201546, in mancanza di elementi e dati di segno contrario o contraddittori, presenti nella documentazione consegnata all’intermediario o comunque emergenti dai contratti avvenuti tra il cliente e quest’ultimo, deve tutelarsi l’(incolpevole) affidamento dell’intermediario sulla veridicità della dichiarazione di operatore qualificato, esonerando quest’ultimo dall’obbligo di svolgere ulteriori verifiche e spostando l’onere della prova sulla parte interessata a far valere l’inefficacia della medesima dichiarazione. Per l’App. Milano, 18 settembre 201347, la sottoscrizione, in sede di stipula del contratto quadro, della dichiarazione autoreferenziale di operatore qualificato ex art. 31 Reg. Consob n. 11522/98 costituisce mera presunzione semplice, vincibile, in caso di contestazione, dalla prova positiva dell’insussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi di professionalità in materia di strumenti finanziari e dalla prova della conoscenza (o conoscibilità) in concreto da parte dell’intermediario delle circostanze

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In Nuova giur. comm., 2012, p. 938, con nota di Ballerini. Inedito, redatto dagli arbitri Lacchini (pres.), Sangiovanni e Rimini. 47 Cit. alla nota 24. 46

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dalle quali poter desumere la reale situazione in cui versi l’investitore nel momento in cui rende siffatta dichiarazione. Secondo il Trib. Milano, 7 maggio 201348, ai fini della validità ed efficacia della dichiarazione di operatore qualificato, l’art. 31 Reg. Consob n. 11522/1998 prevede la contemporanea presenza dei requisiti di esperienza e di competenza in capo alla società dichiarante, sicché la conclamata insussistenza di ogni esperienza è già sufficiente affinché la società non possa considerarsi operatore qualificato, con l’effetto che trovano piena applicazione le norme di comportamento degli intermediari stabilite dal Reg. Consob n. 11522/1998. Per il Trib. Verona, 10 dicembre 201249, tra gli elementi che possono essere presi in considerazione per verificare la validità della dichiarazione autoreferenziale di operatore qualificato di cui all’articolo 31 Reg. Consob n. 11522/1998, vi è la pregressa operatività in contratti swap, attraverso la quale l’investitore può aver acquisito maggior consapevolezza dei meccanismi operativi di tale tipologia di contratti. A parere del Trib. Napoli, 20 giugno 201150, in caso di contratto per acquisti in strumenti derivati sottoscritto dal legale rappresentante di società, l’esistenza delle competenze proprie dell’operatore qualificato non va valutata alla stregua delle (sole) conoscenze personali del suo legale rappresentante, bensì dev’essere scrutinata con riferimento al più ampio complesso di conoscenze acquisite e/o acquisibili dalla società attraverso la sua struttura di impresa e l’intero patrimonio di risorse economiche, personali e professionali a sua disposizione. Secondo il Trib. Rimini, 28 maggio 201051, grava su chi intenda dedurre la discordanza tra il contenuto della dichiarazione e la situazione reale da tale dichiarazione rappresentata, l’onere di provare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza di detti requisiti, idonee a superare il detto argomento di prova e conosciute dalla banca all’epoca della stipula del contratto. La Cass., 26 maggio 2009, n. 1213852 ha stabilito che la semplice dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante di una società che ha compiuto un’operazione di swap, secondo cui quest’ultima dispone del-

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In Corriere giur., 2014, p. 377, con nota di Sangiovanni. In ilcaso.it. 50 In Banca, borsa, tit. cred., 2012, II, p. 814, con nota di Campobasso. 51 In Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 265, con nota di Barillà. 52 In Foro it., 2010, I, p. 121, con nota di La Rocca. 49

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la competenza ed esperienza richiesta in materia di operazioni in valori mobiliari, in assenza di elementi contrari emergenti dalla documentazione già in possesso dell’intermediario, esonera l’intermediario stesso dall’obbligo di ulteriori verifiche sul punto e costituisce argomento di prova che il giudice può porre a base della propria decisione, in ordine al riconoscimento della natura di operatore qualificato e all’accertamento della diligenza prestata dall’intermediario. Il Trib. Vicenza, 12 febbraio 200853, ha reputato che anche l’investitore società o persona giuridica, il quale stipuli con la banca un contratto di swap, al fine di essere considerato operatore qualificato ai sensi e per gli effetti dell’art. 31 Reg. Consob n. 11522/1998 deve effettivamente possedere la specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari richiesta come prerequisito della pur necessaria dichiarazione scritta del proprio legale rappresentante. Al riguardo, la banca non è sollevata dal relativo onere probatorio in presenza di una dichiarazione indeterminata, che contenga mere opinioni e non l’elencazione di fatti effettivamente indicativi di tale competenza ed esperienza. 2.2. Cliente retail. Per la Cass., 29 dicembre 2011, n. 2986454, qualora l’intermediario abbia eseguito l’acquisto di strumenti finanziari senza adempiere ai propri obblighi informativi nei confronti del cliente non rientrante in alcuna delle categorie d’investitore qualificato o professionale, non sussiste il concorso di colpa del cliente nella produzione del danno. Il Trib. Civitavecchia, 1° agosto 201155, ha osservato come la legge richieda la presenza del duplice requisito della competenza e dell’esperienza affinché un operatore possa essere ritenuto qualificato; sicché, qualora non sia riscontrabile anche solo uno dei due requisiti, l’investitore rimane soggetto debole e ha quindi diritto a tutte le tutele previste dalla legge. Ne deriva che la dichiarazione del rappresentante legale di una società di essere operatore qualificato, pur di fronte alla manifesta carenza dei requisiti richiesti, non può essere ritenuta idonea ad attribuire lo status di operatore qualificato.

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In Banca, borsa, tit. cred., 2009, II, p. 203, con nota di Tatozzi. In Foro it., 2013, I, p. 320, con nota di La Rocca. 55 In Nuova giur. comm., 2012, 2, 1, p. 133, con nota di Vigoriti.

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2.3. Obblighi informativi verso l’operatore qualificato. Il Trib. Milano, 8 febbraio 201256, ha esonerato la banca, in presenza di una controparte operatore qualificato, dagli obblighi posti a suo carico dalle norme regolamentari di cui agli artt. 28 e 29 Reg. Consob n. 11522/98, ove previsto che l’intermediario proceda ad effettuare le operazioni richieste dall’investitore soltanto dopo aver fornito allo stesso informazioni adeguate sulla natura e sui rischi della specifica operazione (art. 28) e che, qualora riceva dall’investitore disposizioni per un’operazione non adeguata, lo informi delle ragioni per cui non è opportuno procedere all’esecuzione dell’operazione stessa (art. 29). Il Trib. Milano, 19 aprile 201157, ha considerato che l’intermediario sia tenuto, anche quando il cliente sia un operatore qualificato, ad osservare l’obbligo di comportarsi con diligenza, professionalità, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati, previsto dall’art. 21 lett. a, t.u.f.; gli art. 27, 28 e 29 Reg. Consob n. 11592/1998, in materia di adeguatezza, informazione e conflitto d’interessi, prevedono adempimenti ulteriori, con funzione integrativa e non derogatoria, rispetto al predetto obbligo di fonte primaria. 2.4. Obblighi informativi verso il cliente retail. A parere del Trib. Milano, 13 febbraio 2014,58 è imputabile alla banca che raccomandi al cliente la stipula di un contratto di swap negoziato al di fuori dei mercati regolamentati e costruito dallo stesso intermediario (il quale si trova, pertanto, in situazione di conflitto di interessi) l’obbligo di illustrare al cliente i rischi relativi allo specifico prodotto ovvero: (i) scomporre il prodotto complesso nelle componenti elementari che giustificano l’esborso finanziario sostenuto dal cliente per l’assunzione della posizione, con la quantificazione del fair value di ciascuna delle componenti derivative e dello strumento nel suo complesso; (ii) in presenza di strutture complesse produrre le risultanze di analisi di scenario di rendimenti da condursi mediante simulazioni effettuate secondo metodologia oggettive; (iii) porre a confronto il prodotto con altri analoghi semplici, noti, liquidi, a basso rischio e di analoga durata e, ove esistenti,

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In ilcaso.it. In Contr., 2011, 761, con nota di Autelitano. 58 In ilcaso.it. 57

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con prodotti succedanei di larga diffusione e di adeguata liquidità, in modo da consentire al cliente di operare una scelta ragionata; (iv) esplicitare nel contratto il valore del derivato, gli eventuali costi impliciti, i criteri con cui determinare i costi di recesso o di sostituzione. Precisando poi che, in assenza di informazioni specifiche sul profilo di rischio del prodotto, ricostruito attraverso il ricorso a scenari probabilistici e senza informazioni sul valore del mark to market alla data di stipula, l’investitore non è in grado di formulare un giudizio di convenienza economica del derivato in termini di costo/rischio/beneficio. Secondo la Cass., 25 giugno 2008, n. 1734059, il dovere dell’intermediario di fornire informazioni appropriate e l’obbligo di astenersi dall’effettuare operazioni non adeguate se non sulla base di ordine scritto del cliente, ricorrono in tutti i rapporti con operatore non qualificato, tale dovendosi intendere anche l’investitore che abbia in precedenza occasionalmente investito in titoli a rischio, e perciò anche nell’ipotesi di esecuzione di ordini dell’investitore.

3. I vizi. 3.1. Nullità. Per l’App. Napoli, 24 luglio 201560, l’operatore qualificato, accreditatosi come tale, può direttamente operare con l’intermediario prescindendo dal contratto quadro: non è dunque configurabile il rimedio della nullità di tale contratto. Secondo il Trib. Napoli, 31 marzo 2015, n. 480161, è dichiarabile la nullità del contratto normativo per mancata indicazione dell’ammontare complessivo della disponibilità finanziaria dell’investitore destinata ad essere impiegata nell’acquisto di strumenti derivati. L’App. Milano, 20 maggio 201462, ha stabilito che la violazione dei doveri di informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi di

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In Nuova giur. comm., 2009, 1, 1, p. 28, con nota di Marinucci. Inedita. 61 Inedita. 62 In expartecreditoris.it. 60

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investimento non può determinare, a norma dell’art. 1418 c.c., la nullità del contratto quadro e dei singoli atti negoziali posti in essere in base ad esso. Secondo il lodo arbitrale 12 dicembre 201363, la domanda di nullità del derivato per difetto dei poteri rappresentativi del presidente della società contraente non è fondata; posto che l’attività in derivati rientra pianamente nei poteri di gestione del legale rappresentante di una società, facendo parte di quell’insieme, non determinabile in astratto, dei poteri strumentali al perseguimento dell’oggetto sociale che di norma gli statuti delle società attribuiscono agli amministratori in coerenza con il principio espresso nell’art. 2475-bis c.c. L’App. Milano, 18 settembre 201364, ha ritenuto che il contratto di interest rate swap - quale contratto derivato over the counter – in cui l’intermediario assume la veste di mandatario del proprio cliente e di controparte, è nullo per mancanza di causa ex art. 1418, comma 2, c.c., qualora, all’atto della relativa sottoscrizione, non risultino esplicitamente indicati in modo adeguato gli elementi essenziali (previsione andamento tassi e loro valore iniziale, indicazione compenso intermediario) sulla cui scorta l’investitore possa razionalmente essere consapevole ex ante dell’alea che si appresta ad assumere e della sua corretta misurabilità, che connotano tale tipologia contrattuale quale scommessa legalmente autorizzata. Secondo il Trib. Salerno, 2 maggio 201365, qualora, in un contratto IRS in cui il cliente sia esposto al rischio di tasso fino a un determinato valore del parametro di riferimento, al di là del quale il tasso a suo carico rimane bloccato (c.d. cap), il cap sia talmente elevato che si possa ragionevolmente escludere che esso sarà mai raggiunto dall’andamento del mercato, la sproporzione tra la probabilità che si verifichi una perdita per il cliente e la probabilità che si verifichi una perdita per la banca (c.d. alea unilaterale) rende il derivato nullo per assenza di una causa meritevole che lo sorregga. Il Trib. Brindisi, 29 gennaio 201366, ha considerato configurabile un collegamento negoziale di tipo funzionale, con conseguente reciproca comunicazione delle cause di inefficacia o nullità, fra un contratto di swap ed un contratto di finanziamento, qualora la causa del primo sia prima facie costituita da una finalità di copertura delle oscillazioni dei tassi, ovvero dall’interesse delle parti a neutralizzare quelle variazioni.

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Inedito, redatto dagli arbitri Patriarca (pres.), Morera e Piovera. Cit. alla nota 24. 65 In ilcaso.it. 66 In ilcaso.it. 64

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Per il Trib. Monza, 17 luglio 201267, la non rispondenza delle condizioni economiche contrattuali del contratto derivato interest rate swap alla funzione di copertura del rischio nello stesso enunciata ne comporta la nullità per difetto di causa (art. 1418, comma secondo, c.c.), da intendersi quale sintesi degli interessi concretamente perseguiti dalla negoziazione. Il Trib. Monza, 14 giugno 201268, ha ritenuto che nei contratti di interest rate swap con funzione di copertura dei rischi derivanti dai tassi di interesse variabili, la previsione di condizioni economiche che non realizzino la finalità concreta perseguita dal contraente - nella fattispecie la previsione di tassi fissi prestabiliti sempre crescenti, non giustificati dal prevedibile andamento dei tassi variabili - determina la nullità del contratto per mancanza di causa. Il Trib. Trento, 13 gennaio 201269, ha considerato infondata l’azione di nullità del contratto swap, stipulato fuori sede, laddove, pur corrispondendo al vero che esso risulti sottoscritto presso la sede del cliente, piuttosto che presso la sede della banca, si tratti di un contratto collegato funzionalmente e strutturalmente a quello di mutuo già corrente tra le parti e sia stipulato allo scopo specifico di modificare le modalità di pagamento degli interessi sul mutuo per limitare i rischi connessi al suddetto contratto. Secondo l’opinione del Trib. Modena, 5 maggio 201070, alla nullità di un contratto possono conseguire esclusivamente effetti restitutori e giammai risarcitori. Pertanto, in fattispecie riguardante la nullità di contratto di swap per mancata previa sottoscrizione di contratto quadro nelle forme previste dell’art. 23 t.u.f., la banca deve unicamente restituire quanto pagato dal cliente per la penale e per gli interessi legali, mentre l’investitore sarà tenuto a restituire i differenziali positivi e gli interessi legali. 3.2. Annullabilità. Secondo il Trib. Bari, 14 luglio 201471, deve considerarsi valido il contratto sotto il profilo della genuità del consenso dell’investitore, non potendosi addebitare alla banca di non aver prospettato al cliente uno scenario che non era prevedibile, poiché determinato dalle misure di politica

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In ilcaso.it. In Obbl. e contr., 2012, p. 820, con nota di Schiavone. 69 In Fisco on line. 70 In Leggi d’Italia on line. 71 Inedita. 68

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monetaria adottate al fine del contenimento della crisi globale. In ogni caso, la valutazione degli scenari probabilistici, al di là della loro attendibilità, è concepibile esclusivamente nell’ipotesi dell’investitore che si ponga come obiettivo un’operatività speculativa e che pertanto, al fine di operare le proprie valutazioni, cerchi di acquisire gli elementi informativi a disposizione. Al contrario, nel caso di un soggetto economico che ha l’intenzione di stipulare lo swap per fissare il tasso di interesse del mutuo ad esso correlato, è evidente che la scelta dell’investitore è quella di assumere una posizione che resti insensibile a tutti i possibili scenari di mercato, in merito all’andamento dei tassi di interesse e quindi che ne prescinde, al fine di fissare una volta per tutte l’onere accettabile in base al mutuo. Il Trib. Verona, 10 dicembre 201272, ha osservato che l’investitore il quale, in presenza di un contratto di swap, denunci l’esistenza di commissioni occulte deducendo l’annullamento del contratto per vizio del consenso consistente in dolo, ha l’onere di fornire la prova degli elementi necessari per dimostrare l’esistenza del lamentato vizio della volontà. Qualora la doglianza sia configurabile come dolo omissivo per aver l’intermediario taciuto l’esistenza di tali commissioni, l’investitore ha l’onere di dimostrare che, con riferimento allo specifico contesto, il silenzio dell’intermediario ha assunto rilevanza in ordine alla determinazione volitiva. Sempre il Trib. Verona, 28 novembre 200773, ha attribuito natura negoziale alla dichiarazione con la quale il legale rappresentante di una società di capitali dichiari che la stessa possiede una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari; tale dichiarazione, oltre ad essere annullabile per errore, violenza o dolo, può risultare priva di valore giuridico qualora sia rilasciata in conseguenza di una condotta sleale da parte della banca e di un comportamento negligente dell’intermediario che, in presenza di un cliente poco esperto, l’abbia indotto a sottoscrivere la dichiarazione senza informarlo delle caratteristiche e dei rischi dei contratti derivati. 3.3. Risoluzione. Il Trib. Milano, 30 gennaio 201474, ha stabilito che, a prescindere dalla qualifica del contratto di put option (e, in generale, dei contratti derivati,

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In ilcaso.it. In Giur. it., 2008, p. 2235, con nota di Fiorio. 74 In Società, 2014, p. 927, con nota di Penzo. 73

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genus al quale tale contratto può essere ricondotto) quale contratto aleatorio (con conseguente inapplicabilità, ex art. 1469 c.c., dell’istituto della risoluzione per eccessiva onerosità), ovvero quale negozio commutativo (cui può essere riferita la disciplina ex art. 1467 c.c.), in ogni caso la struttura di un contratto di opzione di vendita di azioni ad un prezzo fisso e predeterminato indipendente dal loro valore di quotazione sui mercati regolamentati, consiste nella dipendenza (o derivazione appunto) dal contenuto della prestazione di una delle parti dalla variazione di dati economici (il c.d. sottostante); ne consegue che nel caso di specie la variabilità dell’andamento del titolo appare di per sé inerente all’oggetto del contratto, non legittimando dunque la risoluzione per eccessiva onerosità alla stregua del secondo comma dell’art. 1467 c.c.. Il lodo arbitrale 28 novembre 201375 ha dichiarato la risoluzione del contratto normativo e del successivo contratto di swap per sopraggiunta carenza di causa in concreto, essendo proseguito il derivato nonostante l’estinzione del mutuo sottostante. Secondo il Trib. Verona, 10 dicembre 201276, la domanda di risoluzione di un contratto di swap presuppone la vigenza del contratto che ne costituisce l’oggetto; con la conseguenza che la stessa non è più esperibile una volta che gli effetti dell’accordo siano venuti meno (nel caso di specie, la domanda di risoluzione era riferita anche a contratti di swap che le parti avevano in precedenza consensualmente risolto).

4. La tutela cautelare. 4.1. Fumus boni iuris. Per il Trib. Verona, 7 luglio 201577, la regolare sottoscrizione, da parte del cliente ricorrente, della documentazione di investimento, ove contenute informazioni dettagliate in ordine ai rischi conseguenti alla conclusione del contratto derivato, consente di ritenere infondato, per difetto del fumus boni iuris, il ricorso volto ad ottenere la declaratoria di invalidità o la risoluzione del medesimo contratto.

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In dirittobancario.it., redatto dagli arbitri Stella Richter (pres.), Ibba e Serra. In ilcaso.it. 77 Inedita. 76

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Sempre per il Trib. Verona, 29 dicembre 201478, la dichiarata appartenenza, da parte del legale rappresentante dell’impresa ricorrente, alla categoria degli operatori qualificati, consente, in assenza di prova contraria, di respingere per mancanza del presupposto del fumus boni iuris il ricorso cautelare proposto contro l’intermediario al fine di sospendere gli effetti del contratto derivato. Il Trib. Lamezia Terme, 16 giugno 201479, ha ritenuto possibile, con provvedimento reso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., ordinare alla banca di sospendere, fino alla definizione del giudizio di merito, gli addebiti conseguenti ad un contratto di interest rate swap, di astenersi da qualsiasi segnalazione riguardante il credito in sofferenza asseritamente vantato nei confronti del cliente ed infine di astenersi dal procedere in via esecutiva. Il Trib. Torino, 6 giugno 201480, ha reputato che, sul piano del fumus, la capacità dell’IRS di assolvere la funzione di copertura convenuta in contratto è dimostrata dalla perfetta corrispondenza tra il mutuo ed il connesso contratto swap, il cui nozionale era destinato a diminuire progressivamente in aderenza al piano di ammortamento del mutuo. In particolare, la funzione di copertura del derivato si concretizza nella certezza per il cliente di pagare, per tutta la durata del mutuo, un determinato tasso fisso, indipendentemente dall’andamento dei tassi di interesse cui era invece agganciato il mutuo a tasso variabile. A parere del Trib. Treviso, 10 novembre 201181, deve considerarsi ammissibile e fondata la domanda cautelare, avente ad oggetto un contratto di interest rate swap, finalizzata ad inibire futuri addebiti sul conto corrente del cliente da parte dell’intermediario, nel caso in cui un lodo arbitrale abbia già riconosciuto la responsabilità della banca per violazione del dovere informativo e della regola di adeguatezza, nonché per comportamento in conflitto d’interessi. Il Trib. Bari, 15 luglio 201182, ha reputato sussistente sul piano del fumus boni iuris un verosimile difetto di causa dei contratti costituenti, nella specie, una sorta di «ristrutturazione» del debito, in quanto incorporanti le passività prodotte da un debito precedente e non in grado di realizzare la funzione dell’interest rate swap.

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In In 80 In 81 In 82 In 79

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dirittoegiustizia.it., con nota di Bencini. ilcaso.it ilcaso.it. Danno e resp., 2012, p. 429, con nota di Sangiovanni. Banca, borsa, tit. cred., 2012, II, p. 386, con nota di Maffeis.


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Per il Trib. Bari, 15 luglio 201083, posto che: (a) l’incorporazione in una serie di contratti di interest rate swap, stipulati tra un’impresa ed una banca, delle passività prodotte da quello precedente, nonché di ulteriori costi, rende lo schema negoziale ab origine incapace di realizzare la funzione di copertura del rischio, da intendersi connaturata al tipo sociale; (b) i differenziali negativi swap concorrono a determinare una situazione di sconfinamento dai limiti di fido, con rischi per la stessa esistenza dell’attività imprenditoriale, già in situazione di difficoltà, va ordinato in via cautelare alla banca di non addebitare, sui conti correnti presso la medesima intrattenuti dalla controparte, somme in dipendenza di tali contratti. 4.2. Periculum in mora. Per il Trib. Taranto, 21 aprile 201584, in presenza di una domanda tesa ad ordinare la sospensione del derivato per il futuro, il paventato pericolo di aggravamento del danno, rappresentato dai successivi differenziali a carico del cliente, è soltanto un rischio eventuale, non fondato su elementi concreti e su valutazioni prognostiche apprezzabili, posto che nulla esclude che negli anni a venire l’euribor torni a salire, annullando in tutto o in parte le perdite attuali del cliente, il quale potrebbe comunque esercitare il diritto di recesso, così impedendo l’accumularsi di ulteriori differenzali negativi e potendo con calma affrontare il giudizio di merito. Il Trib. Torino, 18 aprile 201485, ha ritenuto necessaria, affinché possa essere concesso un provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c. in relazione ad una domanda di invalidità e di inefficacia di un contratto derivato IRS, la sussistenza non soltanto del fumus boni iuris, ma anche del periculum in mora, ossia la minaccia di un pregiudizio imminente e irreparabile del diritto azionato nel tempo occorrente per la definizione del giudizio ordinario. Il fatto che la ricorrente per proporre l’azione cautelare abbia atteso un periodo di tempo superiore alla presumibile durata del giudizio di merito rappresenta un evidente sintomo di tolleranza, non compatibile con l’asserita urgenza. Secondo il Trib. Treviso – Sez. Montebelluna, 18 novembre 201186, deve considerarsi ammissibile la domanda diretta alla sospensione in via caute-

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In Banca, borsa, tit. cred., 2012, II, p. 781, con nota di Parziale. Inedita. 85 In ilcaso.it. 86 In ilcaso.it. 84

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lare dell’esecuzione del contratto di swap per il quale un collegio arbitrale aveva accertato la violazione degli obblighi di informazione in materia di inadeguatezza e di conflitto di interessi, in quanto sussiste, oltre al fumus basato sull’accertamento arbitrale, il pericolo di grave e irreparabile pregiudizio per il funzionale esplicarsi dell’attività sociale a causa dell’aggravamento della situazione patrimoniale dell’impresa e della preclusione dell’accesso al credito a causa delle derivanti segnalazioni alla Centrale Rischi. Il Trib. Salerno, 21 giugno 201187, ha poi considerato sussistente il periculum in mora qualora l’illecito addebito da parte della banca di somme relative al contratto swap esponga l’altra parte al rischio di segnalazione alla Centrale Rischi. Il Trib. Firenze, 18 gennaio 201188, ha ritenuto il pregiudizio economico dedotto non imminente né irreparabile, rappresentando i futuri differenziali importi meramente ipotetici in quanto suscettibili di variazione al ribasso in presenza di un mutamento dell’andamento dei tassi, trattandosi poi di pagamenti dilazionati in un ampio arco di tempo nell’àmbito del quale può essere iniziata la causa di merito. Per il Trib. Catanzaro, 30 novembre 201089, integrano il requisito del periculum in mora: (a) l’esposizione oltre il limite di fido concesso dalla banca, qualora il superamento della soglia sia direttamente derivante dagli addebiti per l’effetto dell’IRS; (b) la possibilità che l’andamento futuro del rapporto negoziale denominato IRS sia negativo per l’impresa; (c) la possibilità che la situazione finanziaria negativa e le correlate segnalazioni delle esposizioni debitorie alla Centrale Rischi rappresentino i presupposti per una risoluzione del rapporto giuridico tra la ricorrente e la sua mandante. Il Trib. Firenze, 4 novembre 201090, non ha ravvisato, innanzi a lamentele di carattere patrimoniale, la probabilità che la pretesa parte danneggiata perda la possibilità di essere risarcita, tenuto conto che la parte resistente è un istituto di credito e, quindi, un soggetto solvibile. Sempre secondo il Trib. Firenze, 6 luglio 201091, non può essere accolta la domanda volta ad ottenere in via cautelare la sospensione dei flussi passivi derivanti dall’esecuzione di un contratto di interest rate swap in mancanza della dimostrazione che la prosecuzione dei paga-

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In ilcaso.it. Inedita. 89 In ilcaso.it. 90 Inedita. 91 In Foro tosc., 2010, (2), p. 22, con nota di Bencini. 88

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menti da parte del ricorrente in favore dell’intermediario porrebbe il primo in condizione critica sotto l’aspetto economico.

5. L’arbitrato. 5.1. Clausola compromissoria. Per il Trib. Varese, 3 luglio 201492, l’espressa specificazione contenuta nella clausola compromissoria ed il richiamo alla relativa disciplina debbono indurre a ritenere che le parti abbiano inteso attribuire al collegio arbitrale una funzione sostitutiva di quella svolta dall’autorità giudiziaria ordinaria, così sottoponendo l’attività degli arbitri alle regole proprie dell’arbitrato rituale e riconducendo ad una questione di competenza il rapporto tra i rispettivi àmbiti di cognizione. Il Trib. Siena, 3 dicembre 201493, ha reputato fondata – atteso l’intimo collegamento negoziale esistente tra il contratto quadro contenente la disciplina dei contratti su strumenti derivati collegati a valori mobiliari, tassi e valute e le singole contrattazioni poste in essere in attuazione del suddetto contratto – sia sotto il profilo teleologico, in quanto il contratto in derivati costituisce specifica manifestazione attuativa dell’accordo normativo, sia sotto il profilo temporale e funzionale, la preliminare eccezione di compromesso avanzata dalla banca. Secondo l’opinione del Trib. Cuneo, 9 febbraio 200994, deve essere decisa da arbitri la controversia promossa da una società in relazione a contratti di swap qualora nel contratto quadro sia contenuta una clausola compromissoria (sottoscritta anche ai sensi dell’art. 1341 c.c.) la quale devolva ad arbitri rituali ogni controversia derivante dal contratto normativo o da ciascun contratto specifico. 5.2. Procedibilità. Secondo il lodo arbitrale 6 luglio 201595, in presenza della dichiarazione di fallimento di una parte, operando la secca causalità prevista

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Inedita. Inedita. 94 In ilcaso.it. 95 Inedito, redatto dagli arbitri Presti (pres.), Costi e Grassi. 93

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dall’art. 83-bis L. fall., qualora il contratto in cui è contenuta la clausola compromissoria sia sciolto, il procedimento non può essere proseguito. Anche il lodo arbitrale 25 settembre 201396 ha ritenuto che l’intervenuta dichiarazione di fallimento di una parte, comportando ai sensi degli artt. 76, 83-bis L. fall. e 203 t.u.f. lo scioglimento del contratto e della clausola compromissoria, renda improcedibile l’arbitrato pendente. Al contrario, il lodo arbitrale 17 luglio 201397 ha ritenuto che l’intervenuta dichiarazione di fallimento di una parte non renda improcedibile l’arbitrato pendente, conservando efficacia la clausola compromissoria ed il contratto derivato, dovendosi interpretare restrittivamente l’art. 83bis L. fall.; anche in funzione del principio generale di economia dei giudizi, non essendo infatti coerente con tale principio che accertamenti giudiziari complessi siano caducati in situazioni in cui l’ufficio fallimentare chiede, al contrario, che il giudizio sia portato a compimento.

6. Le procedure concorsuali. Il Trib. Monza, 16 gennaio 201398, ha ritenuto possibile, qualora venga proposta domanda di concordato c.d. in bianco, che il giudice, ove richiesto ai sensi dell’articolo 169-bis l.fall., disponga la sospensione dei contratti di swap stipulati con istituti bancari, nonché dei contratti di anticipazione bancaria, questi ultimi allo scopo di evitare che le banche possano opporre in compensazione i crediti maturati.

7. Gli enti pubblici. Il TAR Piemonte, 23 maggio 201499, ha stabilito che, ai sensi dell’art. 22, l. 7 agosto 1990, n. 241, la banca che ha stipulato con la Regione alcuni contratti di finanza derivata (swap), in ordine ai quali è insorta una controversia giudiziaria, ha diritto di accedere agli atti di transazione stipulati dalla medesima Regione con altri istituti bancari aventi ad og-

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Inedito, redatto dagli arbitri De Nova (pres.), Montalenti e Vettori. Inedito, redatto dagli arbitri Libertini (pres.), Vettori e Montalenti. 98 In ilcaso.it. 99 In Foro amm., 2014, p. 1532. 97

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getto la definizione conciliativa di altre controversie giudiziarie, inerenti i medesimi contratti di finanza derivata. Secondo l’opinione dell’App. Bologna, 11 marzo 2014100, deve considerarsi applicabile ai contratti di swap stipulati con enti pubblici la disciplina civilistica che regola il tipo contrattuale in questione, ma anche la normativa, eventualmente più restrittiva, di natura amministrativa che regola le forme di indebitamento di detti enti, dovendosi ritenere che alle tipologie contrattuali miste l’applicazione della teoria della prevalenza non escluda, quale normativa integratrice applicabile, quella attinente agli altri plurimi modelli di riferimento, in quanto compatibili. Per il Cons. St., 7 settembre 2011101, la decisione dell’amministrazione di riesaminare prima e di annullare poi tutti gli atti di affidamento della ristrutturazione del debito è stata dichiaratamente determinata dalla accertata violazione delle finalità dell’art. 41 l. 28 dicembre 2001, n. 448, non risultando a tal riguardo rispettato il principio della convenienza economica (in quanto il contratto swap al momento della stipula, non aveva un valore iniziale pari a zero, bensì negativo, senza che a fronte di tale elemento economico negativo fosse stata prevista in favore dell’amministrazione una somma di pari ammontare così da riequilibrare il contratto stesso). Il potere di autotutela della determinazione dirigenziale non è stato esercitato per sottrarsi semplicemente ad un contratto economicamente squilibrato, quanto piuttosto a causa della mancata corretta valutazione della convenienza economica che legittimava l’operazione di ristrutturazione del debito e che, come tale, non rientrava nella causa del contratto di swap, costituendone piuttosto il presupposto logico-giuridico. A parere del TAR Toscana, 11 novembre 2010102, debbono essere considerati legittimi i provvedimenti con i quali la pubblica amministrazione provvede ad annullare, in via di autotutela, i propri atti di affidamento ad un intermediario finanziario di contratti derivati (interest swap rate) che si siano rivelati privi di convenienza a causa di una disparità tra le posizioni contrattuali iniziali che ha portato ad uno squilibrio a carico ed a sfavore della stazione appaltante. Detta situazione costituisce, infatti, violazione dell’art. 41, co. 2, l. n. 448 del 2001; in quanto, con la stipula di tali negozi, non è stato raggiunto l’obiettivo di assumere condizioni di

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In ilcaso.it. In Resp. civ., 2012, 1, p. 42, con nota di Fantetti. 102 In ilcaso.it. 101

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Rassegne

rifinanziamento dei mutui contratti dopo il 31 dicembre 1996 mediante il collocamento di titoli obbligazionari, che consentano una riduzione del valore delle passività a carico dell’ente.

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PARTE seconda Legislazione, documenti e informazioni



legislazione

Accordi di ristrutturazione e convenzioni di moratoria I

R.d. 16 marzo 1942, n. 267 – Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa (come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132)*1. (Omissis) Art. 182-septies Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria Quando un’impresa ha debiti verso banche e intermediari finanziari in misura non inferirore alla metà dell’indebitamento complessivo, la disciplina di cui all’art. 182-bis, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile è integrata dalla disposizioni contenute nei commi secondo, terzo e quarto. Restano fermi i diritti dei creditori diversi da banche e intermediari finanziari. L’accordo di ristruttirazione dei debiti di cui all’art. 182-bis può individuare una o più categorie tra i creditori di cui al primo comma che abbiano fra loro una posizione giuridica e interessi economici omogenei. In tal caso, con il ricorso di cui al primo comma di tale articolo, il debitore può chiedere che gli effetti dell’accordo vengano estesi anche ai creditori non aderenti che appartengono alla

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Le modifiche apportate dal d.l. 83/2015, convertito con modificazioni dalla l. 132/2015, sono evidenziate in neretto.

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Legislazione

medesima categoria, quando tutti i creditori della categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino il settantacinque per cento dei crediti della categoria. Una banca o un intermediario finanziario può essere titolare di crediti in più di una categoria. Ai fini di cui al precedente comma non si tiene conto delle ipoteche giudiziali iscritte dalle banche o dagli intermediari finanziari nei novanta giorni che precedono la data di pubblicazione nel registro delle imprese. Il debitore, oltre agli adempimenti pubblicitari già previsti, deve notificare il ricorso e la documentazione di cui al primo comma dell’art. 182-bis alle banche e agli intermediari finanziari ai quali chiede di estendere gli effetti dell’accordo. Per costoro il termine per proporre l’opposizione di cui al quarto comma del medesimo articolo decorre dalla data di notificazione del ricorso. Il tribunale procede all’omologazione previo accertamento, avvalendosi ove occorra di un ausiliario, che le trattative si siano svolte in buona fede e che le banche e gli intermediari finanziari ai quali il debitore chiede di estendere gli effetti dell’accordo: a) abbiano posizione giuridica e interessi economici omogenei rispetto a quelli delle banche e degli intermediari finanziari aderenti; b) abbiano ricevuto complete ed aggiornate informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore nonché sull’accordo e sui suoi effetti, e siano stati messi in condizione di partecipare alle trattative; c) possono risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili. Quando fra l’impresa debitrice e una o più banche o intermediari finanziari viene stipulata una convenzione diretta a disciplinare in via provvisioria gli effetti della crisi attraverso una moratoria temporanea dei crediti nei confronti di una o più banche o intermediari finanziari e sia raggiunta la maggioranza di cui al secondo comma, la convenzione di moratoria, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile produce effetti anche nei confronti delle banche e degli intermediari finanziari non aderenti se questi siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede, e un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), attesti l’omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici fra i creditori interessati dalla moratoria.

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Accordi di ristrutturazione

Nel caso previsto dal comma precedente, le banche e gli intermediari finanziari non aderenti alla convenzione possono proporre opposizione entro trenta giorni dalla comunicazione della convenzione stipulata, accompagnata dalla relazione del professionista designato a norma dell’articolo 67, terzo comma, lettera d). La comunicazione deve essere effettuata, alternativamente, mediante lettera raccomandata o posta elettronica certificata. Con l’opposizione, la banca o l’intermediario finanziario può chiedere che la convenzione non produca effetti nei suoi confronti. Il tribunale, con decreto motivato, decide sulle opposizioni, verificando la sussistenza delle condizioni di cui al comma quarto, terzo periodo. Nel termine di quindici giorni dalla comunicazione, il decreto del tribunale è reclmabile alla corte di appello, ai sensi dell’art. 183. In nessun caso, per effetto degli accordi e convenzioni di cui ai commi precedenti, ai creditori non aderenti possono essere imposti l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare gli affidamenti esistenti o l’erogazione di nuovi finanziamenti. Agli effetti del presente articolo non è considerata nuova prestazione la prosecuzione della concessione del godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati. La relazione dell’ausiliario è trasmessa a norma dell’art. 161, quinto comma. (Omissis) Art. 236 Concordato preventivo e accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari, e convenzione di moratoria e amministrazione controllata È punito con la reclusione da uno a cinque anni l’imprenditore, che, al solo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo o di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o il consenso degli intermediari finanziari alla sottoscrizone della convenzione di moratoria o di amministrazione controllata, si sia attribuito attività inesistenti, ovvero, per influire sulla formazione delle maggioranze, abbia simulato crediti in tutto o in parte inesistenti. Nel caso di concordato preventivo o di amminsitrazione controllata si applicano:

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1) le disposizioni degli artt. 223 e 224 agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società; 2) la disposizione dell’art. 227 agli institori dell’imprenditore; 3) le disposizioni degli artt. 228 e 229 al commissario del concordato preventivo o dell’amministrazione controllata; 4) le disposizioni degli art. 232 e 233 ai creditori. Nel caso di accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o di convenzione di moratoria, si applicano le disposizioni previste dal secondo comma, numeri 1), 2) e 4). Art. 236-bis Falso in attestazioni e relazioni Il professionista che nelle relazioni o attestazioni di cui agli articoli 67, terzo comma, lettera d), 161, terzo comma, 182-bis, 182-quinques, 182-septies e 186-bis espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti, è puntito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, la pena è aumentata. Se dal fatto consegue un danno per i creditori la pena è aumentata fino alla metà. (Omissis) II. Relazione governativa al disegno di legge di conversione in legge del d.l. 27 giugno 2015, n. 83 presentata alla Camera dei Deputati – Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria (Omissis) Art. 9 Crisi d’impresa con prevalente indebitamento verso intermediari finanziari L’articolo introduce nella legge fallimentare il nuovo art. 182-septies con la finalità di togliere ai creditori finanziari che vantano un credito di piccola entità la possibilità di dichiararsi contrari ad operazioni di

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ristrutturazione concordate fra il debitore e la maggioranza dei creditori finanziari, decretando l’insuccesso complessivo dell’operazione e l’apertura di una procedura concorsuale. La norma costituisce attuazione della Raccomandazione della Commissione europea del 12 marzo 2014, nella parte in cui – con il dichiarato intento di permettere alle imprese di risanarsi in una fase precoce della crisi, minimizzando i costi, i tempi e l’impatto della ristrutturazione sulla funzionalità dell’impresa – prevede che «per rendere più efficace l’adozione del piano di ristrutturazione, gli Stati membri dovrebbero inoltre garantire che possano adottarlo soltanto determinati creditori o determinati tipi o classi di creditori, a condizione che gli altri creditori non siano coinvolti» (paragrafo 20). La disposizione mira a consentire una gestione più attiva dei crediti di intermediari fiananziari verso imprese in difficoltà, in quanto i loro crediti possono essere meglio valorizzati mediante un processo di ristrutturazione in una fase anticipata della crisi, quando l’impresa è ancora dotata di larga parte del suo valore, condotta con la partecipazione dei creditori più attivi. Esistono infatti casi in cui l’impresa può rapidamente ristrutturarsi, uscendo da una situazione di tensione finanziaria, con il solo intervento dei creditori finanziari. Per tale ragione, sono frequenti nella pratica operazioni volte a tentare il salvataggio nelle quali il debitore non si interfaccia con la generalità dei creditori ma soltanto con le banche. Successo o insuccesso di queste operazioni non sono solo decretati dalle regole del mercato e del vantaggio ecoomico: non sono pochi i casi in cui la maggioranza (spesso la larga maggioranza) delle banche creditrici concorda con le proposte dell’impresa, ma alcune di esse, solitamente quelle che vantano crediti di importo minore, si dichiarano contrarie, impedendo così il successo dell’operazione. I risultati possono essere di due ordini, entrambi subottimali per l’economia, oltre che per i principali soggetti coinvolti: a) in taluni casi, le banche aderenti si sobbarcano l’onere di soddisfare integralmente le altre (si apre dunque un problema di free-riding che, se si verifica in un numero importante di casi, ha anche come effetto indotto sul sistema economico la lievitazione dei rischi e del costo del credito); b) in altri casi, quando i costi sono tali da non poter essere sostenuti solo da una parte delle banche, si apre una fase della gestione della crisi proceduralizzata, nella migliore delle ipotesi un concordato preventivo. Forma di gestione che, seppur resa più efficiente dalle recenti modifiche normative, comunque comporta, rispetto alla soluzione stragiudiziale,

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Legislazione

costi diretti e indiretti più elevati. Una serie di rigidità si aprono, infatti, nella gestione dei rapporti commerciali necessari all’attività economica dell’impresa e indispensabili al superamento della crisi (si pensi alla difficoltà di continuare le relazioni con i fornitori e i clienti). E ciò che rende più incerto il successo dell’operazione di risanamento o più lento e costoso il suo percorso si traduce in termini di costi per l’economia in un aumento dei rischi e dei costi della concessione del credito. Altri ordinamenti hanno risolto questo problema noto alla prassi, mediante istituti che consentono il rapido raggiungimento di ristrutturazioni stragiudiziali che, prevedendo l’apertura di una procedura concorsuale, si basano su accordi consensuali tra debitore e finanziatori, operativi e vincolanti anche in assenza di consenso unanime dei creditori. A ciò mira la recente introduzione della «sauvegarde financière accélerée» francese e la recente e sempre più diffusa prassi di utilizzare a questo scopo lo «scheme of arrangement» inglese (strumento diverso da una procedura d’insolvenza, anche se viene di solito utilizzato al fine di prevenirla), anche da parte di imprese e finanziatori di altre nazionalità. Le modifiche che si propongono traducono queste esperienze internazionali adattandole alle esigenze e caratteristiche della realtà e dell’ordinamento italiano, mantenendo un’impostanzione contrattuale e inserendo la possibilità di un’estensione degli accordi stragiudiziali anche agli intermediari finanziari non aderenti, per il salvataggio dell’impresa ancora sana ma colpita dalla crisi. Estensione che viene subordinata al concorso di stringenti condizioni costituite: 1) dall’impossibilità di obbligare i non aderenti ad eseguire prestazioni o a subire l’incremento della propria esposizione, anche in conseguenza dell’utilizzo di affidamenti già concessi: in sostanza, la maggioranza degli intermediari finanziari può imporre ai non aderenti solo la ristrutturazione del debito esistente (riscadenzamenti, modifiche ai tassi di interesse o riduzioni); 2) dalla necessità che esista un largo consenso degli stessi intermediari finanziari sulla proposta di ristrutturazione o di moratoria (maggioranza del 75 per cento dei loro crediti, suddivisi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei). Le banche o gli intermediari non aderenti devono comunque essere informati in merito all’avvio delle trattative e messi in condizione di parteciparvi. Il tribunale procede all’omologazione previo accertamento che le trattative si siano svolte in buona fede e che le banche e gli intermediari finanziari ai quali il debitore chiede di estendere l’accordo: a) abbiano posizione giuridica e interessi economici omogenei rispetto a quelli delle banche e degli intermediari finanziari aderenti;

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b) abbiano ricevuto complete informazioni sull’accordo o sui suoi effetti e siano stati messi in condizione di partecipare alle trattative; c) possano risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore alle alternative concretamente praticabili. La disciplina si applica anche alle convenzioni, sempre più frequenti nella prassi, che prevedono una moratoria temporanea fra creditori finanziari, finalizzata a consentire l’elaborazione della soluzione che, all’esito di successivi accertamenti, risulterà in concreto più idonea a risolvere la crisi (cosidetta «standstill»). Anche tali convenzioni, in presenza del medesimo largo consenso da parte dei creditori finanziari e di minimi requisiti procedurali, possono estendere i loro effetti agli eventuali creditori finanziari che non vi abbiano aderito. Anche in questo caso le banche e gli intermediari non aderenti possono proporre opposizione e il tribunale verificherà la sussitenza della condizioni di omogeneità di posizione giuridica e interessi nelle classi, di completezza del procedimento informativo su natura ed effetti dell’accordo, del principio del no creditor worse off. Art. 10 Disposizioni penali in materia di accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari L’articolo modifica gli articoli 236 e 236-bis della legge fallimentare, estendendo l’applicazione della normativa penale ivi prevista al nuovo istituto creato con l’introduzione dell’art. 182-septies della legge fallimentare, in considerazione dell’effetto parzialmente concordatario dell’accordo di ristrutturazione. (Omissis)

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Daniele Vattermoli

Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria. Sulla scorta di una ritenuta «straordinaria necessità e urgenza», tra l’altro, «di prevedere la possibilità di concludere nuove tipologie di accordo di ristrutturazione del debito», il nostro ordinamento si è dotato - con il d.l. n. 83 del 27 giugno 2015, conv., con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2015, n. 132 - di due nuovi istituti, ascrivibili alla categoria di confine costituita dalle c.d. procedure ibride, la caratteristica delle quali consiste nell’avere nel proprio dna geni di matrice contrattuale, “sporcati” da tratti marcatamente concorsuali. In particolare, il Capo V del citato decreto contiene disposizioni (artt. 9 e 10) in tema di “Accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria”, che poi è la stessa rubrica recata dal nuovo art. 182-septies l.fall., introdotto, appunto, dall’art. 9 d.l. n. 83/2015. Gli istituti a cui si accennava sono dunque l’accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari, da un lato, e la convenzione di moratoria, dall’altro. A. a) Iniziamo col delineare la fattispecie del primo istituto. Premesso che si tratta di una mera componente dell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l.fall. - nell’ambito del quale va, dunque, ad inserirsi -, la cui disciplina trova piena applicazione anche alla nostra fattispecie, l’unica particolarità dell’accordo contemplato nel nuovo art. 182-septies, rispetto al modello “comune”, consiste in ciò, che l’impresa in crisi per potervi accedere deve presentare «debiti verso banche e intermediari finanziari non inferiore alla metà dell’indebitamento complessivo» (art. 182-septies, co. 1)1. Al verificarsi di questa condizione scatta, come si vedrà, una disciplina ad hoc. O meglio, può scattare una certa disciplina ad hoc: affinché

1. Come giustamente sottolinea A. Nigro, Gli accordi di ristrutturazione ex art. 182bis l.fall., testo della Relazione tenuta al Convegno Legge fallimentare: un cantiere sempre aperto tra riforme, giurisprudenza e prassi, svoltosi a Gardone il 9-10 ottobre 2015, di cui si è potuto prendere visione per gentile concessione dell’Autore, nulla in teoria impedisce «che l’accordo “generale” ex art. 182-bis si trovi, in concreto, a consistere proprio e solo in un accordo (o fascio di accordi) fra debitore e creditori finanziari, che vi possa cioè essere coincidenza fra la figura generale e quella particolare».

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ciò accada è invero necessario che ne faccia esplicita richiesta lo stesso debitore. La composizione qualitativa/soggettiva della massa passiva (espressione qui utilizzata a soli fini descrittivi ed in maniera atecnica), con prevalenza delle banche e degli intermediari finanziari - per questi ultimi intendendosi, si deve ritenere, quelli soggetti all’iscrizione nell’albo tenuto dalla Banca d’Italia, ex art. 106 t.u.b. -, può così determinare un cambio di statuto per il debitore in difficoltà, che può giovarsi di un nuovo ed ulteriore strumento di composizione della crisi: il che rappresenta un’autentica novità per il diritto concorsuale e paraconcorsuale domestico2. b) Le peculiarità della fattispecie si esauriscono nel tratto testé evidenziato. Molte ed incisive sono invece le conseguenze, in punto di disciplina, che da quella particolare conformazione “soggettiva” dell’esposizione debitoria possono derivare. La prima, dalla quale poi tutte le altre discendono, concerne la possibilità che nell’accordo il debitore individui «una o più categorie» tra i creditori definibili (genericamente e, di nuovo, atecnicamente) “finanziari”, che abbiano tra loro posizione giuridica e interessi economici omogenei. È forte qui l’eco della suddivisione “in classi” - qui “in categorie”, ma non sembra che la differente formula comporti una qualche differenza sostanziale - dei creditori nel concordato preventivo, con il richiamo alla omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici all’interno della categoria: è facile dunque prevedere che anche nel nuovo procedimento si riproporranno gli stessi problemi interpretativi che hanno coinvolto l’art. 160, co. 1, lett. c) l.fall. Va peraltro sottolineato che la suddivisione non necessariamente deve basarsi sulla qualifica soggettiva del creditore (ad esempio, banche da un lato; OICR da altro lato; e così via), come inequivocabilmente testimoniato dallo stesso art. 182-septies, co. 2 (terzo periodo), ai sensi del quale: «Una banca o un intermediario finanziario può essere titolare di crediti inseriti in più di una categoria». Ancora, e per concludere sul punto, va aggiunto che ai fini della classificazione (ma non solo), il co. 3 della disposizione testé menzionata stabilisce che: «non si tiene conto delle ipoteche giudiziali iscritte dalle banche o dagli intermediari finanziari nei novanta giorni che precedono la data di pubblicazione del ricorso [per l’o-

2...

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Di istituto inedito parla A. Nigro, Gli accordi, cit., p. 2 del dattiloscritto.


Daniele Vattermoli

mologazione dell’accordo] nel registro delle imprese». Anche qui, il richiamo all’art. 168, co. 3, ult. periodo è evidente. La ragione della “individuazione” delle categorie è presto detta. La creazione di categorie omogenee di creditori è condizione sufficiente, agli occhi del legislatore della riforma, per superare la regola generalissima sull’efficacia inter partes dei contratti, in virtù della quale, com’è noto, «Il contratto non produce effetto rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge» (art. 1372, co. 2 c.c.), consentendo così al debitore di «chiedere che gli effetti dell’accordo vengano estesi anche ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria, quando tutti i creditori della categoria siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati messi in condizione di parteciparvi in buona fede e i crediti delle banche e degli intermediari finanziari aderenti rappresentino il settantacinque percento dei crediti della categoria» (art. 182-septies, co. 2, secondo periodo). Rispetto alle categorie dei creditori finanziari vale dunque la regola della maggioranza (seppure, nella specie, rafforzata), l’applicazione della quale consente di imporre il contenuto dell’accordo alla minoranza eventualmente dissenziente: regola, come si è avuto modo di anticipare, evidentemente estranea alla materia contrattuale3. L’individuazione delle categorie omogenee, con l’adesione “coattiva” dei creditori di minoranza che ne potrebbe derivare, oltre ad imporre un certo rimodellamento dei crediti dei dissenzienti – in termini sia di tempo, sia di modalità di soddisfacimento –, produceva, prima della conversione in legge del decreto, l’ulteriore effetto di agevolare l’omologazione dell’accordo, atteso che i dissenzienti venivano considerati aderenti anche ai fini del raggiungimento della maggioranza “comune”, quella cioè del 60% del totale dei crediti, richiesta dall’art. 182-bis, co. 1, l.fall. Con la conversione l’originario art. 182-septies, co. 2, ult. periodo, è stato però abolito: con la conseguenza, deve allora ritenersi, che

3.

Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione si osserva, sul punto, che la finalità del nuovo art. 182-septies consiste nel «togliere ai creditori finanziari che vantano un credito di piccola entità la possibilità di dichiararsi contrari ad operazioni di ristrutturazione concordate fra il debitore e la maggioranza dei creditori finanziari, decretando l’insuccesso complessivo dell’operazione e l’apertura di una procedura concorsuale». Peraltro ed a ben vedere, quest’ultima affermazione porta a ritenere che anche per il legislatore dell’ultimissima riforma, gli accordi di ristrutturazione ex art. 182-bis non rientrano nel genus delle procedure concorsuali.

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l’estensione degli effetti non equivale tout court ad una adesione alla proposta. Le condizioni al ricorrere delle quali può essere presentata la richiesta di “estensione” coattiva degli effetti dell’accordo - a parte quella, a monte, che attiene ai contorni della fattispecie - sono dunque due: per un verso, il raggiungimento di una maggioranza rafforzata all’interno della categoria di riferimento; per altro verso, una completa disclosure sulle trattative, “colorata” da un, a parer mio, rozzo richiamo alla clausola generale della “buona fede” (anche la formula letterale impiegata è a dir poco infelice: cfr. art. 182-septies, co. 2, secondo periodo). c) Passando alle condizioni al ricorrere delle quali il Tribunale può omologare l’accordo di ristrutturazione dei debiti che preveda, al suo interno, quello con gli intermediari finanziari di cui all’art. 182-septies. In primo luogo, pur in difetto di riferimenti espressi nella legge, il Tribunale deve verificare, per un verso, che la fattispecie rientri in quella descritta dal primo comma della disposizione testé menzionata (ossia: almeno il 50% del totale dell’esposizione debitoria sia verso banche ed intermediari finanziari); e, per altro verso, che i creditori aderenti della categoria, rispetto alla quale si chiede l’estensione coattiva degli effetti, superi il 75% del totale dei crediti che ne formano parte. In secondo luogo, il Tribunale deve verificare che: le trattative si siano svolte secondo buona fede (e qui il richiamo alla clausola generale è più pertinente ed appropriato); le “categorie” individuate dall’accordo siano composte effettivamente da creditori con posizione giuridica ed interessi economici omogenei; vi sia stata una disclosure totale dell’intera operazione che ha portato alla firma dell’accordo, mediante la messa a disposizione a favore di tutti i creditori finanziari, da parte del debitore, di informazioni sulla sua situazione patrimoniale, economica e finanziaria, nonché sull’accordo stesso ed i suoi effetti. Ma soprattutto, il Tribunale deve verificare che i creditori non aderenti, e nei confronti dei quali si chiede l’estensione degli effetti, «possano risultare soddisfatti, in base all’accordo, in misura non inferiore rispetto alle alternative concretamente praticabili» (art. 182-septies, co. 4, lett. c)4. Riemerge il controllo di convenienza da parte del Tribunale - at-

4.

Si tratta della regola, o del principio, del “no creditor worse off” , da ultimo impiegata, com’è noto, nella disciplina del bail-in in ambito bancario.

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tivabile d’ufficio e, a fortiori si direbbe, su specifica richiesta dell’interessato in sede di opposizione, ex art. 182-bis, co. 4 -, a difesa dei creditori (dei singoli creditori) non aderenti. È auspicabile che nella prossima riforma organica delle procedure concorsuali, anche nel concordato preventivo (e fallimentare) il “best interests of creditors test” venga ricondotto nell’alveo naturale dei diritti individuali dei creditori dissenzienti, uscendo così dalle sabbie mobili della “tutela di classe” o della minoranza qualificata, come avvenuto, sempre sul terreno concorsuale, nella legge sul sovraindebitamento (art. 12, co. 2, l. n. 3/2012) che, com’è ampiamente noto, riconosce a ciascun creditore il diritto di opporsi all’omologazione dell’accordo sulla base, appunto, della non convenienza della proposta rispetto alle alternative concretamente praticabili. Nel caso in cui il Tribunale dovesse riscontrare il mancato rispetto di una o più delle condizioni poste dalla legge ai fini dell’estensione degli effetti dell’accordo con gli intermediari finanziari, sembra nel giusto chi ritiene che lo stesso possa comunque procedere all’omologazione dell’accordo ex art. 182-bis, «ove, in concreto, risulti possibile l’integrale pagamento dei creditori estranei pur includendo fra i medesimi anche i creditori finanziari ai quali si riferiva la richiesta di estensione non accolta»5. d) Dal punto di vista procedurale, l’unica deviazione rispetto all’iter consueto da seguire per giungere all’omologazione dell’accordo, consiste nell’obbligo imposto al debitore di notificare il ricorso e la documentazione di cui al primo comma dell’art. 182-bis alle banche ed agli intermediari finanziari ai quali chiede di estendere gli effetti dell’accordo5: dalla notificazione del ricorso decorre, per questi ultimi, il termine di trenta giorni per proporre opposizione, ai sensi del co. 4 dell’art. 182-bis (art. 182-septies, co. 4, primo periodo). B. Passando alla convenzione di moratoria. Il debitore può altresì stipulare con le banche e gli intermediari finanziari un accordo, denominato convenzione di moratoria (c.d. standstill),

5. Ci si è chiesti se il debitore possa richiedere un’estensione degli effetti “selettiva”, ossia riguardo solo ad alcuni dei creditori finanziari non aderenti, o se comunque debba richiederla per tutti i non aderenti: e la risposta, correttamente, è stata in questo secondo senso, atteso che «il meccanismo dell’estensione costituisce forma di attuazione della par condicio ed è destinato quindi ad operare o per tutti (i non aderenti) o per nessuno» (così, A. Nigro, Gli accordi, cit., p. 8 del dattiloscritto).

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in virtù del quale vengono disciplinati «in via provvisoria gli effetti della crisi attraverso una moratoria temporanea dei crediti (sic!)» vantati da questi ultimi (art. 182- septies, co. 5). La norma non effettua alcun rinvio, né diretto né indiretto, al primo comma della disposizione testé menzionata, con la conseguenza - deve ritenersi - che per concludere la convenzione di moratoria non è affatto richiesto che l’impresa in difficoltà abbia debiti verso banche e intermediari finanziari in misura non inferiore alla metà dell’indebitamento complessivo. Fermo restando che la moratoria coinvolge, com’è ovvio, il soddisfacimento dei crediti e non direttamente questi ultimi (come invece parrebbe emergere leggendo il testo della disposizione), l’istituto sembra replicare il contenuto tipico del pactum de non petendo ad tempus, consentendo al debitore di liberare risorse per lo sviluppo dei progetti imprenditoriali e ristabilire così il proprio equilibrio economico-finanziario. Le peculiarità consistono in ciò che, rispettando determinate condizioni, le banche e gli intermediari non aderenti possono vedersi imporre - in deroga, di nuovo, alla regola fissata dall’art. 1372 c.c. - il contenuto della convenzione che non hanno sottoscritto. Più in particolare, le condizioni alle quali si faceva riferimento sono: a) che sia stata individuata una categoria di creditori finanziari aventi posizione giuridica ed interessi economici omogenei, della quale fanno parte tanti creditori aderenti che vantano almeno il 75% dei crediti complessivi della categoria; b) che vi sia una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’art. 67, co. 3, lett. d) l.fall, che attesti l’omogeneità tra i creditori interessati dalla moratoria (attestazione che, sul punto, sostituisce il controllo che nell’ambito dell’accordo con gli intermediari finanziari effettua il tribunale e che, ai sensi dell’art. 10, co. 1, lett. b) d.l. n. 83/2015, che ha modificato l’art. 236-bis, espone il professionista a responsabilità penale per “Falso in attestazioni e relazioni”); c) che i creditori non aderenti siano stati informati dell’avvio delle trattative e siano stati posti in condizione di parteciparvi “in buona fede”. Al ricorrere di queste condizioni l’estensione degli effetti avviene in maniera automatica, nel senso che gli enti non aderenti, scaduto il credito vantato e richiesto il soddisfacimento dello stesso, possono vedersi eccepire dal debitore la moratoria (da altri accordata), senza necessità di intervento del giudice. L’intervento dell’autorità giudiziaria è, invero, meramente eventuale e si ha a seguito di opposizione presentata dagli enti non aderenti alla

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convenzione, attraverso la quale i creditori chiedono che l’accordo non produca effetti nei loro confronti. L’opposizione deve proporsi entro trenta giorni dalla comunicazione ai creditori non aderenti, a cura del debitore (con lettera raccomandata o con posta elettronica certificata), della convenzione con allegata la relazione del professionista. Investito dall’opposizione, il Tribunale competente – non è peraltro ben chiaro quale sia, anche se la legge sembrerebbe dare per scontato che sia sempre quello della sede principale del debitore - è chiamato ad effettuare gli stessi accertamenti richiesti ai fini dell’omologazione degli accordi di ristrutturazione con gli intermediari finanziari (verifica della omogeneità della categoria; rispetto della disclosure; convenienza: art. 182-septies, co. 6), sui quali non è il caso di tornare, salvo per quel che attiene alla verifica della convenienza. Qual è il termine di riferimento che deve considerare il Tribunale per valutare se l’estensione degli effetti della moratoria è conveniente per il creditore non aderente? In altre parole, qual è l’alternativa concretamente praticabile rispetto ad una convenzione di moratoria? Il problema non è di facile soluzione perché, in teoria, diverse potrebbero essere le alternative concretamente praticabili: da un accordo di ristrutturazione “comune”, ad un accordo che preveda al proprio interno quello con gli intermediari finanziari; dal concordato preventivo, al fallimento. Dipenderà, è evidente, dalla situazione economica, finanziaria e patrimoniale in cui versa il debitore e dipenderà anche dalla possibilità o meno di attivare l’accordo di ristrutturazione con gli intermediari finanziari: se fosse realizzabile quest’ultima ipotesi - perché l’esposizione debitoria è in maggior misura nei confronti delle banche e degli altri intermediari - allora, forse, è possibile ritenere che il termine di confronto sia dato proprio da quanto otterrebbero, e quando, i creditori non aderenti nell’ambito dell’accordo ex art. 182-septies, co. 1. Certo, però, che un tetto massimo alla moratoria, fissato per legge, sarebbe stato quanto meno opportuno. Il decreto del tribunale che decide sulle opposizioni è reclamabile in Corte d’Appello nel termine di 15 giorni dalla “comunicazione” - così si esprime la legge - dello stesso: peraltro, a chi vada comunicato il provvedimento, come e da chi, non è dato sapere. C. a) Sul piano civilistico, la parte comune ai due istituti si riduce ad un’unica disposizione, il co. 7 dell’art. 182-septies, in virtù del quale in nessun caso ai creditori non aderenti «può essere imposta l’esecuzione di nuove prestazioni, la concessione di affidamenti, il mantenimento della possibilità di utilizzare affidamenti esistenti o l’erogazione di nuo-

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vi finanziamenti», precisandosi, peraltro, che non si considera “nuova prestazione”, «la prosecuzione della concessione in godimento di beni oggetto di contratti di locazione finanziaria già stipulati». Si tratta, all’evidenza, di una clausola di salvaguardia per i non aderenti che sono sì costretti a subire passivamente le scelte compiute da altri circa la rimodulazione degli obblighi di adempimento originariamente assunti nei loro confronti dal debitore (scadenze; tassi di interesse; ecc.), ma ai quali non può certo essere imposto di far lievitare l’esposizione verso quest’ultimo (potrebbe chiosarsi: “… e ci mancherebbe altro!”). b) Sul piano penalistico, invece, occorre tenere in considerazione la lett. a) dell’art. 10, che modificando (la rubrica e) il testo dell’art. 236 l.fall., per un verso, estende la disciplina sanzionatoria contenuta nel primo comma ai casi in cui l’attribuzione di attività inesistenti o la simulazione di crediti in tutto o in parte inesistenti siano state poste in essere dal debitore al fine «di ottenere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o i lconsenso degli intermediari finanziari alla sottoscrizione della convenzione di moratoria»; e, per altro verso, aggiunge un terzo comma alla disposizione da ultimo citata, ai sensi del quale «Nel caso di accordo di accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari o di convenzione di moratoria, si applicano le disposizioni previste dal secondo comma, numeri 1), 2) e 4)». L’assimilazione, sul piano penalistico, degli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e della convenzione di moratoria con la procedura concordataria sembra riposare, non già sulla presunta natura concorsuale dei due nuovi istituti, quanto sul comune utilizzo della regola maggioritaria, idonea, come si è avuto modo di constatare, ad imporre un determinato regolamento “pattizio” dell’esposizione debitoria a soggetti non aderenti all’accordo o alla convenzione. D. Qualche osservazione d’insieme sui due istituti. Non v’è dubbio che il dato qualificante dei nuovi istituti sia offerto dallo “strappo” al principio della intangibilità della sfera giuridica del terzo estraneo al contratto, che di norma opera sia quando dal contratto discendano effetti negativi per il terzo, sia quando il contratto sia stipulato (presuntivamente) in favore del terzo “beneficiario”: ciò spiega il perché della deroga, contenuta nei commi 1 e 5 dell’art. 182-septies, non soltanto all’art. 1372 c.c., ma anche all’art. 1411 c.c. Ciò, secondo i primi commentatori, avrebbe comportato la “deriva” degli accordi di ristrutturazione dei

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debiti verso il terreno del concorso, allontanandoli definitivamente dall’ambito contrattuale. In verità, a me sembra che le novità introdotte dal d.l. n. 83/2015 possano essere lette in un’ottica diversa: mi sembra, cioè, che il riferimento esplicito agli artt. 1372 e 1411 c.c. possa essere interpretato, all’opposto, come una ulteriore manifestazione della matrice contrattuale degli accordi. E che si tratti di un’eccezione in senso stretto ai principi che reggono i contratti lo si desume dalla disposizione che, proprio in chiusura del primo comma dell’art 182-septies, precisa come «restano fermi i diritti dei creditori diversi da banche e intermediari finanziari». In concreto, per far sì che l’estensione degli effetti si produca qualora vi siano più aderenti ad un accordo o ad una convenzione di moratoria, sembra necessario che il contenuto dell’accordo o il tempo della moratoria sia identico per tutti gli aderenti, ancorché non sia stata replicata la regola, valevole per i concordati, che prevede lo stesso trattamento per i creditori appartenenti alla medesima classe. In caso contrario, invero, non si saprebbe quale trattamento riservare ai non aderenti (salvo ritenere che a questi ultimi sia comunque di applicazione quello, tra i diversi prospettabili, maggiormente conveniente), dovendosi recisamente escludere che le parti, sostituendosi ai non aderenti, possano stabilire nell’accordo o nella convenzione una disciplina ad hoc per i crediti vantati da questi ultimi. E. Qualche osservazione più specifica, infine, sugli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari. Nel panorama internazionale, questo tipo di accordi, definibili “settoriali” o “selettivi”, non sono affatto una novità. Basti pensare, ad esempio, all’ordinamento francese, là dove, a partire dal 2010, è presente la procedura di sauvegarde financière accélérée (oggi disciplinata dagli artt. L628-9 e L628-10 del Code de Commerce); oppure a quello spagnolo, ove vigono gli “acuerdos de refinanciación con acreedores de pasivos financieros” (Disposición adicional cuarta, Ley n. 22/2003). L’idea che è alla base di tali istituti -che, peraltro, presentano al loro interno differenze, anche notevoli - è semplice ed intuitiva: facilitare la conclusione di accordi tra il debitore non ancora in stato di insolvenza ed i creditori più forti, come sono appunto gli enti creditizi e finanziari in generale, il mancato coinvolgimento dei quali - anche, eventualmente, in forma coattiva - esporrebbe al rischio di insuccesso l’intera operazione che porta al risanamento dell’impresa in difficoltà, obiettivo ultimo (o, se si vuole,

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mediato) delle riforme che si stanno succedendo tanto nel nostro, come in molti degli altri ordinamenti a noi prossimi6. Certo, il sacrificio che si impone agli intermediari finanziari, per di più senza le garanzie assicurate dall’apertura di una procedura concorsuale, non è indifferente. Gli snodi cruciali dell’accordo paiono due: per un verso, il controllo dell’omogeneità dei creditori all’interno della categoria individuata dal debitore, che il Tribunale deve a mio parere effettuare in maniera rigorosa e puntuale; e, per altro verso, la valutazione di convenienza, per i non aderenti, dell’estensione degli effetti dell’accordo da altri sottoscritto, che è rimessa sempre al Tribunale, eventualmente, ma non necessariamente, su specifica contestazione degli interessati. È ovvio, rispetto a quest’ultimo aspetto, che il raffronto non può essere con l’ipotesi in cui non vi sia estensione degli effetti e vi sia comunque un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis (se fosse così, invero, in nessun caso l’applicazione dell’art. 182-septies sarebbe conveniente per i non aderenti). La mancata accettazione della proposta fatta dal debitore può dunque essere “superata” soltanto qualora in difetto non si potrebbe giungere all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione, perché, ad esempio, le risorse finanziarie a disposizione non consentirebbero di adempiere regolarmente l’accordo e di pagare integralmente i creditori ad esso estranei. L’alternativa concretamente realizzabile deve, a mio parere, essere individuata nella liquidazione endofallimentare (o nella liquidazione del patrimonio del debitore, ai sensi della l. n. 3/2012, qualora a presentare l’accordo per l’omologazione sia un imprenditore agricolo): non sembra, invece, possibile utilizzare, come scenario alternativo, quello concordatario, attesa la natura meramente volontaria di tale procedura. Un’ultima considerazione. Il nostro legislatore non ha ritenuto opportuno, per il momento, dettare una disciplina ad hoc per l’ipotesi in cui il passivo finanziario del debitore sia rappresentato (in tutto o in parte) dai c.d. “syndicated loans”: si tratta, a mio parere, di una scelta sbagliata. Sembra invero opportuno regolare con una disposizione espressa - sulla falsa riga di quanto è dato osservare in Spa-

6.

Non è un caso che nella Relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione si faccia riferimento alla Raccomandazione n. 2014/135/UE della Commissione Europea su “Un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza” - pubblicata in questa Rivista, 2014, II, p. 111, con osservazioni di Conforto - di cui il nuovo art. 182-septies, l.fall. costituirebbe, appunto, attuazione. 74


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gna - il rapporto che lega l’accordo di ristrutturazione dei debiti, per un verso, e quello che intercorre tra i creditori “sindacatiâ€?, per altro verso, soprattutto, è evidente, con riferimento alla posizione dei non aderenti.

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I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.

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legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm. Rivista della cooperazione Riv. coop. Rivista delle società Riv. soc. Rivista del diritto commerciale Riv. dir. comm. Rivista del notariato Riv. not. Rivista di diritto civile Riv. dir. civ. Rivista di diritto internazionale Riv. dir. internaz. Rivista di diritto privato Riv. dir. priv. Rivista di diritto processuale Riv. dir. proc. Rivista di diritto pubblico Riv. dir. pubbl. Rivista di diritto societario RDS Rivista giuridica sarda Riv. giur. sarda Rivista italiana del leasing Riv. it. leasing Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Riv. trim. dir. proc. civ. Vita notarile Vita not.

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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria Cedola di sottoscrizione - Abbonamento 2015 (4 fascicoli): € 110,00 Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 35,00 Modalità di Pagamento ☐ assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA ☐ versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 G 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) ☐ carta di credito ☐ MasterCard ☐ VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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