DBMF 3/2019

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Saggi

ISSN 1722-8360

www.dirittobancaemercatifinanziari.it

di particolare interesse in questo fascicolo

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

3/2019

Diritto della banca e del mercato finanziario

• Sanzioni della Banca d’Italia e della Consob • Il principio di proporzionalità nell’ordinamento bancario • Riforma delle banche popolari • Crisi bancarie

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è attualmente coordinato dal prof. Daniele Vattermoli. Nell’anno 2018, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Niccolò Abriani, Concetto Costa, Giacomo D’Attorre, Giuseppe Ferri jr., Danilo Galletti, Marco Maugeri, Massimo Miola, Umberto Morera, Stefania Pacchi, Daniele Umberto Santuosso, Maurizio Sciuto, Marco Ventoruzzo.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

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SOMMARIO 3/2019

PARTE PRIMA Saggi Effettività della tutela, giurisdizione ordinaria e ruolo del giudice amministrativo in tema di sanzioni di Banca pag. 389 d’Italia e Consob, di Sandro Amorosino Gli accordi di ristrutturazione dei debiti tra la giurisprudenza della Cassazione e il codice della crisi e » 415 dell’insolvenza, di Marco Arato One size fits all, il cannone e la mosca, di Gian Luca Greco » 425 La data protection nel settore bancario: gli adempimenti privacy in termini di compliance al regolamento, di Brunella Russo » 467

Commenti Riforma delle banche popolari e problemi di costituzionalità – C. Cost., 15 maggio 2108, n. 99 Il diritto del socio di banche cooperative al rimborso delle azioni nella sentenza della Corte Costituzionale del 15 maggio 2018, n. 99: una questione non ancora sopita, di Giuliana Martina

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PARTE SECONDA Documenti e informazioni Crisi bancarie e proposte della Commissione europea – Relazione della Commissione europea al Parlamento europeo e al Consiglio sull’applicazione e sulla revisione della direttiva 2014/59/UE (direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche) e del regolamento (UE) n. 806/2014 (regolamento sul meccanismo di risoluzione unico), Bruxelles, 30.4.2019, COM(2019) 213. Il punto della Commissione europea sul quadro normativo applicabile in caso di crisi bancarie: qualche annotazione per la prossima legislatura, di Antonella Brozzetti

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Norme redazionali

» 107

Codice etico

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PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



SAGGI

Effettività della tutela, giurisdizione ordinaria e ruolo del giudice amministrativo in tema di sanzioni di Banca d’Italia e Consob * Sommario: 1. Premessa. – 2. L’attribuzione della giurisdizione al G.O. ed il “ritorno al passato”. – 3. I presupposti di fatto condizionanti della giurisprudenza del G.O. – 4. I pilastri concettuali della giurisprudenza ordinaria, di merito e di legittimità. – 5. Il “nome e la cosa”: mito e realtà della “full jurisdiction” sulle sanzioni di Banca d’Italia e Consob. – 6. L’effetto della “compensabilità ex post” sulla giurisprudenza: la “rimozione” della funzione garantistica del procedimento sanzionatorio. – 7. “Eppur si muove”: il ruolo “laterale” del giudice amministrativo.

1. Premessa. L’attribuzione al giudice ordinario (Corti d’Appello e Cassazione) della giurisdizione sulle sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia e dalla CONSOB pone seri problemi di effettività della tutela1 in relazione al modo con cui la giurisprudenza stessa si è venuta configurando nella giurisprudenza consolidata, vale a dire nel diritto vivente2. Nell’analisi del tema si deve quindi utilizzare un approccio “sostanzialistico”, indispensabile per comprendere la “verità effettuale delle cose”3, che è peraltro favorito da aggiornate e convincenti analisi della dottrina4.

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Questo scritto è destinato agli “Studi in onore di Vittorio Domenichelli”. Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e processo amministrativo, Padova 1988, cap. I; da ultimo Valaguzza - Martella, L’effettività della tutela nell’esperienza giurisprudenziale, in Dir. proc. amm., n. 2/2018, pp. 783 ss. 2 Cassese - Torchia, Diritto amministrativo: una conversazione, Bologna 2015, cap. I. 3 Macchiavelli, Il Principe, a cura di Inglese, con un saggio di Chabod, Torino 2013. 4 Allena, L’art. 6 CEDU e la “continuità” tra procedimento e processo: profili proble1

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Com’è noto il sindacato sui provvedimenti sanzionatori delle Autorità indipendenti è attribuito dal Codice del processo amministrativo (c.p.a.) alla giurisdizione esclusiva, estesa al merito5, del giudice amministrativo, con l’unica eccezione di quelli adottati dalla Banca d’Italia e dalla Consob. Questa particolarità – anche rispetto ai provvedimenti sanzionatori della terza Autorità di vigilanza sui mercati finanziari, l’IVASS – merita qualche riflessione, sotto un duplice profilo: I) le ragioni della scelta – e poi della “restaurazione” – di un modello giurisdizionale “asimmetrico” rispetto a quello adottato per le altre Autorità indipendenti; II) le connotazioni del diritto vivente, di fonte giurisprudenziale, relativo al contenzioso sui provvedimenti sanzionatori delle due Autorità in questione.

2. L’attribuzione della giurisdizione al G.O., poi al G.A. ed il “ritorno al passato”. L’attribuzione della giurisdizione al G.O. sui provvedimenti sanzionatori di Banca d’Italia e Consob ha avuto alterne vicende, che possono esser schematizzate come segue: – la scelta originaria; – il formarsi, negli anni, di una consolidata giurisprudenza in materia; – il tentativo, nel 2010, con il codice del processo amministrativo (c.p.a.), di estendere la giurisdizione del G.A. anche alle sanzioni di Banca d’Italia e CONSOB; – il “ritorno al passato”, determinato dalle sentenze del 2012 e 2014 della Corte Costituzionale; – il recente, parziale, “rientro in campo” del G.A., funzionale all’effettività della tutela. La risalente scelta originaria – evidentemente ispirata al tradizionale, schematico, riparto della giurisdizione in base alla natura delle situazioni

matici, in P.A. Persona e amministrazione, n. 2/2018; Goisis, La “full jurisdiction” sulle sanzioni amministrative: continuità della funzione sanzionatoria v. separazione dei poteri, in Dir. amm. n. 1/2018, pp. 1 ss.; Bindi - Pisaneschi, Sanzioni CONSOB e Banca d’Italia, Torino, 2018, passim. 5 Cimini, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 2017.

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soggettive oggetto di giudizio – vide l’assegnazione del contenzioso relativo ai provvedimenti sanzionatori della Banca d’Italia alla competenza esclusiva della Corte d’Appello di Roma6. La Consob – com’è noto – si è configurata gradualmente come autorità indipendente di vigilanza in materia finanziaria. È stato quindi naturale che, nel corso di questo processo evolutivo, ci si ispirasse all’archetipo dei poteri di vigilanza della “primogenita” Banca d’Italia anche per quanto riguarda la giurisdizione in materia di sanzioni (che è stata attribuita alle Corti d’Appello territoriali). Viceversa, anche anteriormente all’approvazione del c.p.a., il sindacato sui provvedimenti sanzionatori di tutte le altre autorità indipendenti preposte alla regolazione delle attività economiche era attribuito al G.A. Il c.p.a. (in una logica sistemica, per analogia di figure soggettive e di funzioni), aveva esteso la giurisdizione amministrativa anche alle sanzioni della Banca d’Italia e della Consob. Sta di fatto che – motivando con un malcerto eccesso di delega, da parte del governo incaricato della redazione del Codice – la Corte costituzionale, investita della questione in via incidentale, con sentenze n. 162/2012 e n. 94/2014, ha ritenuto illegittime le disposizioni dell’art. 133 del c.p.a. che avevano attribuito la giurisdizione al G.A., “restituendola” così al G.O.7. Molti studiosi8 – come si sa – hanno criticato il “balletto” – andata e ritorno – tra le giurisdizioni; soprattutto hanno rilevato come si sia trattato palesemente di una scelta di politica del diritto, “sollecitata” dalle due Autorità “interessate” ed avallata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Il riuscito tentativo di “ritorno al passato” nasceva dal fatto che le Corti d’Appello territoriali (in materia di sanzioni Consob) e la Corte d’Appello di Roma (in materia di sanzioni di Banca d’Italia), con il più ampio avallo della Cassazione, avevano dato vita, nei decenni precedenti, ad una giurisprudenza “sensibile”, per non dire acquiescente, alle ragioni delle due Autorità sanzionatrici.

6 Condemi, Commento all’art. 145 in AA.VV., Commentario al TU delle leggi bancarie e creditizie, a cura di Capriglione, Padova 1994. 7 Per una rilettura critica v. Troise Mangoni, Le sanzioni irrogate dalla Consob e dalla Banca d’Italia: riflessioni in tema di giurisdizione, in Dir. amm., n. 1/2018, pp. 33 ss. 8 Clarich - Pisaneschi, Le sanzioni amministrative della Consob nel “balletto” delle giurisdizioni in Giur. comm. 2012, pp. 1168 ss.; Merusi, A volte ritornano … il correttivo del correttivo del Codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it.

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L’affermazione che precede è suffragata da un dato statistico oggettivo: la sorprendente percentuale, oltre il 90% – più o meno costante negli anni – di pronunce di rigetto, da parte delle Corti d’Appello, delle opposizioni proposte avverso i provvedimenti sanzionatori della Banca d’Italia e della Consob. Le eccezioni sono rappresentate dai casi in cui l’Autorità aveva esercitato il potere sanzionatorio “fuori termine”, rispetto alla conoscenza degli illeciti (è il caso delle sentenze della Corte d’Appello di Firenze, dell’estate 2018, in cui è stato accertato che la Consob era a conoscenza della situazione critica di Banca Etruria già anni prima dell’avvio del procedimento sanzionatorio nei confronti degli amministratori); oppure dai casi di estraneità del sanzionato rispetto ai comportamenti ritenuti illeciti, o di insussistenza o indimostrabilità dell’illecito (un caso recente, nell’agosto 2018, ha riguardato l’annullamento, da parte della Corte d’Appello di Milano, di sanzioni pecuniarie per insider trading inflitte dalla Consob ad un ex amministratore della SAIPEM, società quotata, il quale aveva informato un collega di un’impresa concorrente della sua imminente uscita dalla società; sanzioni fondate sull’errata presunzione che la notizia, price sensitive, avesse indotto ad operazioni di mercato anticipatrici di eventuali variazioni del corso delle azioni SAIPEM correlate al mutamento di governance). Parimenti elevata è la percentuale di rigetti dei ricorsi per cassazione, peraltro infrequenti perché ritenuti inutili alla luce della marmorea mole dei precedenti negativi. All’origine delle spinte “restauratrici” vi è stata – specularmente – anche una sorta di insofferenza per alcuni sintomi di maggiore indipendenza di approccio manifestati – nel breve “interludio” 2010/2012 – dai giudici amministrativi (ad esempio: enunciando il principio della verificabilità delle affermazioni delle Autorità, contenute nelle motivazioni dei provvedimenti sanzionatori, e della rilevanza da riconoscere alle deduzioni dei soggetti incolpati, in conformità ai principi della legge n. 241/1990; viceversa le Corti d’Appello assumono le valutazioni – contenute nelle controdeduzioni delle Autorità alle “osservazioni” degli incolpati e nella proposta sanzionatoria, fatta propria quasi sempre “per relationem” dal Collegio decidente – come ontologicamente veridiche ed incontestabili in ragione della natura pubblica dell’organismo da cui provengono.

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3. I presupposti di fatto condizionanti della giurisprudenza del G.O. I dati statistici sopra richiamati spiegano – con la loro nuda oggettività – la “preferenza” per la giurisdizione del G.O. ed il successivo ritorno ad essa, ma occorre allora chiedersi su quali basi la giurisprudenza ordinaria abbia fondato un così elevato tasso di pronunce di rigetto. Viene dunque in rilievo il secondo tema di riflessione indicato nelle pagine precedenti: il diritto (giurisprudenziale) vivente. Per una migliore messa a fuoco appare necessario dar conto di due presupposti, per così dire esterni, che hanno condizionato e condizionano palesemente il corso della giurisprudenza ordinaria nella materia de qua. Il primo è l’estrema tecnicità e complessità delle tematiche di cui i giudici sono chiamati ad occuparsi nel sindacare le decisioni sanzionatorie. Tali tematiche attengono alla tecnica bancaria e finanziaria e da tali materie derivano, in via diretta, i principi e concetti che informano il diritto bancario e dei mercati finanziari. Per fare solo alcuni esempi si va dal principio cardine, iconico, della “sana e prudente gestione” (del tutto indeterminato e “bon a tout faire”)9; alla disciplina del “processo (di concessione e poi di gestione) del credito”; alla correttezza delle politiche di investimento delle risorse finanziarie affidate dai risparmiatori; ai sistemi di controllo in tempo reale dei rischi, di vario genere, inerenti all’operatività bancaria e finanziaria (internal audit; antiriciclaggio e compliance); all’articolazione ed efficienza degli organi societari di gestione e controllo (CdA, amministratori esecutivi, comitati consiliari, collegio sindacale) e delle società di revisione legale. Ne consegue che un sindacato effettivo di piena giurisdizione (come è autoqualificato dalla giurisprudenza ordinaria in materia) sulle decisioni sanzionatorie presupporrebbe una sufficiente conoscenza, da parte dei giudici, di tali meccanismi e delle correlate procedure tecniche. Così, nella maggioranza dei casi, non avviene a causa della “despecializzazione” dei giudici stessi, chiamati ad occuparsi delle materie più diverse: dai rimpatri degli extracomunitari, a controversie patrimoniali o societarie, alle sanzioni delle autorità finanziarie, etc. Ne deriva, in fatto, un’inevitabile “dipendenza cognitiva” del G.O. dalle prospettazioni e valutazioni, a base tecnica, delle Autorità sanzio-

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Antonucci, Diritto delle banche, Milano, 2012, pp. 55 ss.

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natrici e dunque la tendenza ad un affidamento acritico (over reliance) alle loro decisioni. In concreto ciò comporta una sorta di appiattimento sui parametri e sulle prassi sanzionatori della Banca d’Italia e della Consob, i quali costituiscono, nel loro insieme, il secondo presupposto condizionante dell’attività giurisdizionale. Sotto questo profilo è agevole constatare come, nel corso degli anni, le due Autorità – pur nella parziale diversità10 dei rispettivi settori di vigilanza – abbiano elaborato analoghi modelli valutativi, ormai standardizzati e tipizzati, delle fattispecie oggetto delle procedure sanzionatorie. Queste invarianti valutative possono essere ordinate come segue: I) l’indefinizione ed “inarrivabilità” degli standard qualitativi astratti cui vengono raffrontate le specifiche situazioni di banche ed intermediari, oggetto di accertamenti e poi di sanzioni. Se l’“asticella è troppo alta” e non conoscibile a priori per la genericità del precetto conformativo (dalla “sana e prudente gestione” alla “ottimalità” delle scelte organizzative ed imprenditoriali), ne deriva che nessuno è immune da colpe; II) la tendenza – correlata a quanto s’è appena detto – a rappresentare singoli casi o specifiche situazioni di mancato rispetto di regole di comportamento come sintomatici di generalizzato malfunzionamento di una certa struttura (ad esempio: l’ufficio antiriciclaggio o di internal audit) o di intere funzioni (ad esempio il processo del credito o – nel mercato finanziario – la “profilazione” dei clienti ai fini dell’adeguatezza o appropriatezza degli investimenti proposti); III) la spesso sbrigativa qualificazione come inefficiente o inidonea di una o più politiche aziendali (ad esempio: in tema di personale o di remunerazione), in forza di apodittici giudizi di merito “a posteriori”; IV) l’attribuzione indifferenziata a tutti gli esponenti della banca o dell’intermediario (amministratori, sindaci, alti dirigenti) di una c.d. responsabilità di ruolo, prescindendo dalle competenze e dai concreti comportamenti individuali. Responsabilità per lo più di tipo omissivo: dal mancato approntamento di presidi e procedure organizzative; all’omesso minuto controllo della corretta operatività dell’intera struttura; alla carente o inefficace correzione di tutte le disfunzioni emerse, ex post,

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D’Ambrosio, La vigilanza europea e nazionale, in Aa.Vv., Diritto del mercato finanziario3, a cura di Amorosino, Milano 2014, pp. 27 ss.

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in sede ispettiva (a prescindere dalla conoscenza effettiva, o realistica conoscibilità, di esse: “ad impossibilia nemo tenetur”); V) la genericità delle contestazioni formali, ridotta alla mera elencazione “a grappolo” dei numeri delle disposizioni violate; VI) la disinvolta estensione diacronica delle responsabilità degli esponenti bancari o degli intermediari a violazioni avvenute anteriormente o successivamente all’assunzione o, rispettivamente, alla cessazione dalla carica; VII) l’opacità dei criteri di quantificazione delle sanzioni irrogate nei singoli casi. Quanto alle prassi procedurali delle due Autorità particolarmente significative appaiono; VIII) l’inaccessibilità, da parte dei sanzionandi, a tutti gli atti e documenti acquisiti nel procedimento ispettivo (ivi comprese le testimonianze), con l’opposizione del segreto d’ufficio su tali atti; IX) l’omessa considerazione delle misure correttive e riparatorie (delle disfunzioni emerse nel corso delle ispezioni, prodromiche alle sanzioni) immediatamente poste in atto dagli esponenti della società (una sorta di “ravvedimento operoso” ante determinazione della sanzione).

4. I pilastri concettuali della giurisprudenza ordinaria, di merito e di legittimità. A questo punto è doveroso interrogarsi in base a quali modelli o schemi concettuali i giudici ordinari – condizionati dai due presupposti “esterni” cui s’è accennato – abbiano dato vita alla giurisprudenza uniformemente “rigettista” che caratterizza i due ambiti in esame. Il “principio primo”, messo a fuoco da una decina d’anni dalla Cassazione – dal quale derivano, una serie di corollari – è, schematizzando, che il giudizio di opposizione alla sanzione verte sul rapporto e non sull’atto, nel senso che il G.O. valuta la correttezza sostanziale della ricostruzione dei fatti compiuta dall’Autorità e, dunque, la fondatezza nel merito della decisione sanzionatoria e che, conseguentemente, sono del tutto irrilevanti eventuali violazioni delle regole del giusto procedimento, le quali possono esser fatte valere, in sede processuale, solo ove si dimostri l’effettivo pregiudizio arrecato alla posizione del sanzionato. In particolare, per quanto riguarda il procedimento sanzionatorio, per molti anni i giudici ordinari, di merito e di legittimità, hanno affermato

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che il sanzionando non era legittimato a conoscere la proposta sanzionatoria, né a replicarle, perché il suo diritto di partecipazione doveva ritenersi soddisfatto con la conoscenza delle contestazioni e l’eventuale presentazione di osservazioni (la sentenza “madre” è stata delle SS.UU., 30 settembre 2009, n. 20935). Ciò, peraltro, era conforme a quanto disposto dai “Regolamenti sanzioni” all’epoca vigenti – tra loro speculari – della Banca d’Italia e della Consob11. Negli anni più recenti – specie dopo la notissima sentenza “Grande Stevens e altri c/o Italia”, 4 marzo 2014, della Corte EDU – i giudici ordinari hanno fatto riferimento anche ai principi enunciati, in anni precedenti, dai giudici di Strasburgo, ma interpretandoli “a corrente alternata”, e “ad usum Delphini” per “cementare” i propri consolidati indirizzi giurisprudenziali. Il primo acquis della Corte di Strasburgo12, interpretativo dell’art. 6 della CEDU, è – com’è noto – la qualificazione come “penali”, in quanto fortemente afflittive, delle sanzioni pecuniarie rilevanti (inflitte, per quanto qui interessa, dalle autorità indipendenti che regolano i mercati). Il secondo – e consequenziale, in ragione della qualificazione come “penale” – è che i provvedimenti afflittivi, ove impugnati, devono essere sottoposti ad un giudice che – in un’udienza pubblica – può e deve esercitare una full jurisdiction su tutta la vicenda sanzionatoria. Il terzo – non consequenziale – è che purché sia assicurato, in sede giustiziale, il sindacato pieno, esteso al merito, ciò può “compensare” gli eventuali vizi o carenze del procedimento (cd. “teoria della compensazione ex post”: sentenza Grande Stevens, v. infra, il par. 6). I giudici nazionali hanno recepito tali principi in modo assai diseguale. Quanto al primo statement della Corte di Strasburgo – la natura “penale” delle sanzioni” – i giudici italiani hanno utilizzato la tecnica inter-

11 Amorosino, I principi del giusto procedimento e la procedura sanzionatoria della Consob e della Banca d’Italia, in Id., La regolazione pubblica delle banche, Milanofiori Assago, 2016. 12 Allena, Il caso “Grande Stevens” c/o Italia: le sanzioni Consob alla prova dei principi CEDU, in Giorn. dir. amm., n. 11/2014, pp. 1053 ss.; Goisis, La full jurisdiction nel contesto della giustizia amministrativa: concetto, funzione e nodi irrisolti, Dir. proc. amm., 2015, pp. 546 ss.

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pretativa della distinzione causidica al fine di escludere l’applicabilità di tale acquis (tecnica efficacemente definita “politica dei distinguo”)13. Le distinzioni hanno fatto leva, schematizzando: – sulla diversità di oggetto, e perciò la pretesa non assimilabilità, dei vari provvedimenti sanzionatori (ad esempio: tra le sanzioni Consob in materia di insider trading e le sanzioni di Banca d’Italia per illeciti organizzativi o gestionali della società bancaria); – sulla pretesa diversità ontologica delle sanzioni pecuniarie della Conob e della Banca d’Italia in relazione alla loro rispettiva entità monetaria (ad esempio: sostenendo la qualificabilità come “penali” delle sole sanzioni Consob, in relazione agli alti massimali previsti dal t.u.f., e non di quelle di Banca d’Italia: Cass., 24 febbraio 2016, n. 6356; 10 marzo 2016, n. 4725 e 5 aprile 2017, n. 8855). Nella realtà è a tutti noto che, a seguito della crisi finanziaria mondiale e delle insolvenze di numerose banche, intermediari e società quotate, le sanzioni pecuniarie delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari sono state moltiplicate, nei loro massimi edittali, sino ad importi elevatissimi; sono quindi di norma, gravemente afflittive ed hanno quindi natura “penale”. Alla base dei tentativi di aggirare la qualificazione come “penali”14 delle sanzioni di Consob e Banca d’Italia vi è innanzitutto l’incomprensione culturale di tale categoria, interpretativa della Convenzione, da parte di giudici avvezzi alla netta separazione della sfera degli illeciti amministrativi da quella degli illeciti penali. Vi è anche un riflesso di conservazione del “modello” di giurisdizione costruito in via giurisprudenziale relativamente alle sanzioni in questione, la cui architettura ed equilibri sono (o sarebbero) messi in discussio-

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Bindi – Pisaneschi, Sanzioni Consob, cit., p. 245. È appena il caso di ricordare i c.d. “Engel criteria” in forza dei quali la Corte EDU qualifica le sanzioni (ed il relativo procedimento) come penali: a) l’irrogazione da parte di un autorità pubblica; b) lo scopo afflittivo (deterrente e repressivo); c) l’entità della pena irrogabile, che deve incidere gravemente sulla sfera personale del sanzionato, sotto il profilo patrimoniale e, nel caso, sotto quello reputazionale e lavorativo. In caso di gravità dei mala infliggibili si è in presenza di criminal offences e, dunque, di una procedura sanzionatoria (assimilata a quella) “penale”. Non v’è dubbio che le sanzioni di Consob e Banca d’Italia costituiscano criminal offences in quanto, oltre ad incidere pesantemente sulla situazione patrimoniale, determinano un grave danno reputazionale per il sanzionato (in quanto devono essere pubblicate) e possono essere accompagnate da sanzioni interdittive dell’assunzione di cariche. 14

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ne dalla recezione del portato garantistico (per i sanzionati) derivante dalla qualificazione come “penali” degli illeciti sanzionati dalle Autorità.

5. “Il nome e la cosa”: mito e realtà della “full jurisdiction” sulle sanzioni di Banca d’Italia e Consob. Anche il secondo acquis della Corte EDU – l’obbligatoria sottoposizione del provvedimento sanzionatorio gravemente afflittivo al sindacato di un tribunale avente piena giurisdizione sul merito (vale a dire sul fatto e sul diritto, “punto su punto”, senza limiti al potere del giudice di conoscere e provvedere e senza che sia vincolato dai precedenti accertamenti degli organi amministrativi) – non appare pienamente rispettato nella prassi del giudizio innanzi alla Corte d’Appello. È stata acutamente sottolineata15, in proposito, la contraddizione tra la funzione sostanziale di ricostruzione piena della vicenda (costituita dal fatto e dalla qualificazione di illecito datane dall’Autorità sanzionatrice), che il G.O. “rivendica” di svolgere, e la forma di rito camerale di cognizione sommaria, estremamente semplificato, che aveva il giudizio di opposizione. Tale contraddizione ha assunto nel corso del tempo connotazioni diverse. La previsione – in origine per le sanzioni di Banca d’Italia e, “sulla scia”, per quelle Consob – di un giudizio camerale in grado unico, innanzi alla Corte d’Appello, era, ed è, atipica rispetto al rito ordinario, con doppio grado di giudizio di merito, previsto per le altre sanzioni amministrative ex lege n. 689/1981 (pur invocata quale normativa “di riferimento” dalla Cassazione). Evidentemente si riteneva che il principio costituzionale di tutela16, mediante la giustiziabilità17 degli atti della P.A., fosse sufficientemente attuato con un unico grado di giudizio e con l’eventuale ricorso per Cassazione, ammissibile – tuttavia – solo “per violazione o falsa applicazione di norme di diritto” (art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.).

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Bindi - Pisaneschi, Sanzioni Consob, cit., pp. 137 ss. M. Nigro, Giustizia amministrativa6, Bologna, 2002, p. 32. 17 F. Saitta, Il principio di giustiziabilità dell’azione amministrativa in AA.VV., Studi sui principi del diritto amministrativo, a cura di Renna e Saitta, Milano, 2012, pp. 225 ss. 16

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Viceversa la struttura del giudizio camerale, nella sua consustanziale sommarietà (assenza di istruttoria, facoltatività dell’audizione delle parti, irrevocabilità della decisione), era (ed in parte ancora è) palesemente inidonea allo svolgimento della funzione di un effettivo sindacato di merito, idoneo a superare sia i vizi del procedimento amministrativo che gli eventuali difetti motivazionali della sanzione. Il legislatore italiano – a seguito della sentenza “Grande Stevens” e della Direttiva 2013/36 UE – ha modificato l’art. 145 del t.u.b., ed il “parallelo” art. 195 del t.u.f., “rimpolpandone” le esangui disposizioni relative al giudizio di opposizione. Il d.lgs. n. 72/201518 ha quindi introdotto un rito misto, nel senso che ha cercato di “versare vino nuovo nell’otre vecchio” del processo sommario. È ora previsto: - che avverso il provvedimento sanzionatorio possa essere presentato ricorso alla Corte d’Appello entro il termine “dimezzato” di trenta giorni; - che il Presidente fissi direttamente l’udienza pubblica per la discussione dell’opposizione; - che la Banca d’Italia depositi memorie e documenti entro il termine di dieci giorni prima dell’udienza; - che la Corte d’Appello possa disporre i mezzi di prova che ritiene necessari; - che, nell’unica udienza di discussione, il ricorrente (che abbia fatto richiesta di essere udito) e l’Autorità resistente procedano “alla discussione orale”. Il nuovo rito ha offerto il fianco a numerose critiche, in relazione alla confermata sommarietà ed alla disparità delle armi tra il ricorrente e l’Autorità sanzionatrice. Quanto al primo profilo il ricorso all’istruzione probatoria e la delimitazione del suo ambito dipendono da una decisione discrezionale della Corte. Quanto alla “parità delle armi” nel giudizio il ricorrente (in teoria) può replicare alla memoria dell’Autorità resistente soltanto oralmente, nell’unica udienza di trattazione prevista. In realtà la prassi giudiziale è un po’ più “liberale”, nel senso che le Corti d’Appello – consapevoli della complessità, tecnica e giuridica, delle vicende trattate – solitamente accordano al ricorrente un termine per

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Condemi, Commento all’art. 145, cit., pp. 2695 ss..

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replicare alla memoria ed ai documenti depositati dall’Autorità, assegnano all’Autorità stessa un successivo termine per controreplicare e fissano una seconda udienza di trattazione. In conclusione: la conformazione data dal legislatore al giudizio sul ricorso avverso le sanzioni della Banca d’Italia e della Consob non appare pienamente congruente con la funzione di giudizio di cognizione piena, ampia ed approfondita, postulato dall’art. 6 della Convenzione per le fattispecie sanzionatorie “penali”. Alle considerazioni sul modello normativo del giudizio innanzi alla Corte d’Appello si devono aggiungere, come preannunciato, quelle relative al diritto vivente, formatosi sulla giurisprudenza consolidata. Da questa angolazione vi è un’innegabile divaricazione tra il modello di giurisdizione approfondita, priva di limiti e “sostanziosa” postulata dalla giurisprudenza di Strasburgo e la prassi giurisdizionale italiana. Se, come insegna Irti19, nel mondo contemporaneo il diritto del caso concreto, sempre più frutto dell’interpretazione del giudice, è divenuto incalcolabile, nel senso di imprevedibile, viceversa il diritto vivente del G.O., in materia di sanzioni di Consob e Banca d’Italia, è ampiamente calcolabile, cioè prevedibile. Le significative statistiche sugli esiti negativi dei processi, ivi compresi quelli innanzi alla Cassazione, sono la risultante quantitativa di percorsi logico-giuridici stratificati, disfunzionali rispetto ad una effettiva, ed in astratto pur possibile, giurisdizione piena e sostanziale. In questo senso – oltre ai due condizionamenti esterni sopraccennati (la “deferenza” verso le Autorità e la despecializzazione dei giudici) – incidono, cumulativamente, alcuni modelli concettuali tipizzati: I) innanzitutto l’attribuzione di valore probatorio di atto pubblico alla ricostruzione, spesso schematica ed assertiva, di situazioni complesse, compiuta dall’Autorità nella proposta sanzionatoria; II) l’adesione sistematica alla qualificazione giuridica data dall’Autorità di Vigilanza agli illeciti riscontrati; III) l’affermata irrilevanza dei motivi di gravame riguardanti lo svolgimento del procedimento sanzionatorio; IV) la deduzione “per implicito” delle motivazioni del provvedimento sanzionatorio dalle risultanze dell’istruttoria (Cass., Sez. II, 18 giugno 2018, n. 15998);

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Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, pp. 10 ss.


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V) conseguentemente, la pressoché generalizzata valutazione di superfluità dell’istruzione probatoria in sede processuale; VI) la legittimazione incondizionata del frequentissimo rinvio per relationem – nel provvedimento – alla proposta sanzionatoria, senza che quest’ultima risulti esser stata valutata autonomamente dall’organo decidente, come pure sarebbe prescritto (Cons. Stato, Sez. VI, sentenza n. 657/2015); VII) l’avallo acritico all’attribuzione generalizzata, nel provvedimento sanzionatorio, a tutti gli “esponenti” – bancari, finanziari e societari – della piena responsabilità per qualsiasi tipo di disfunzione riscontrata, con una dilatazione estrema del dovere di corretta amministrazione20; VIII) l’estensione diacronica della responsabilità degli amministratori e dirigenti anche a fatti illeciti accaduti anteriormente all’assunzione della carica, motivata con l’omesso compimento degli atti necessari a “eliminare o attenuare” le conseguenze dannose dell’illecito stesso. In proposito la Cassazione (sent. n. 15998/2018, cit.) invoca l’art. 2392, co. 2, c.c., giusta il quale – per quanto qui interessa – gli amministratori (sopravvenuti) «sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per … eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose». Il presupposto codicistico della responsabilità è dunque l’effettiva conoscenza o, almeno, la realistica conoscibilità (ad esempio: dai bilanci, dalle relazioni dei sindaci o dell’Audit interno, dai verbali consiliari) degli illeciti pregressi. Tale presupposto è interpretato estensivamente ed erroneamente dal G.O. nel senso che l’obbligo di attivarsi per rimediare, nei limiti del possibile, ai fatti pregiudizievoli pregressi si estende anche ai fatti «di cui gli stessi amministratori [sopravvenuti] avrebbero dovuto – in ossequio all’obbligo di cui ex art. 2381, ultimo comma cod. civ. di agire in modo informato – acquisire conoscenza». È palese la forzatura del richiamo all’art. 2381, nonché l’irragionevolezza e la sproporzionalità della pretesa di doverosa onniscienza, da parte dei nuovi amministratori, di tutte le “disfunzioni” pregresse, anche se emerse solo durante gli accertamenti ispettivi dell’Autorità, quindi ignote, sino a quel momento, agli amministratori della banca, sia che subentrati;

20 Montalenti, I principi di corretta amministrazione: una clausola generale in AA.VV., Assetti adeguati e modelli organizzativi nella “corporate governance” della società di capitali, a cura di Irrera, Bologna 2016, pp. 12 ss.

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IX) la piena condivisione – infine – delle sanzioni irrogate, nel 99% dei casi ritenute ragionevoli ed appropriate. Da quanto s’è venuto dicendo e, soprattutto, dalla lettura – molto ripetitiva – delle sentenze, di merito e di legittimità si trae l’impressione che il G.O. si autolimiti ad un sindacato esterno del provvedimento sanzionatorio. La sommatoria degli eterogenei fattori che condizionano e conformano la giurisprudenza nazionale – dalla “deferenza” nei confronti delle Autorità, alla despecializzazione dei giudici, alla recezione elusiva (sulla natura “penale” delle sanzioni) o meramente nominalistica (circa il processo di piena giurisdizione) degli acquis della Corte EDU, alla prassi di un sindacato assai sommario – dà come risultante un grado insoddisfacente di effettività della tutela. La jurisdiction, teoricamente full, nella realtà si autolimita ad external (esteriore). A questa considerazione di sintesi, relativa alla fase propriamente giurisdizionale, devono aggiungersi, si ricorda, i vari profili della procedura sanzionatoria che contrastano con i principi del “giusto procedimento”.

6. L’effetto della “compensabilità ex post” sulla giurisprudenza: la “rimozione” della funzione garantistica del procedimento sanzionatorio. Il terzo, e più controverso, acquis della Corte EDU – sempre nella sentenza Grande Stevens – relativo alla compensabilità ex post dei vizi del procedimento amministrativo, a condizione che vi sia un successivo giudizio di piena giurisdizione ha avuto “entusiasta” ed attiva recezione da parte dei giudici italiani. S’è usato l’aggettivo “attiva” in quanto tale sentenza ha fornito al G.O. l’argomento risolutivo – unitamente alla rivendicata (ma del tutto opinabile) rispondenza del proprio sindacato a quello prescritto dall’art. 6 della Convenzione – per teorizzare “definitivamente” l’irrilevanza giuridica del corretto svolgimento del procedimento amministrativo (e, “a monte”, della disciplina regolamentare della procedura sanzionatoria). Si deve aggiungere, tuttavia, che il criterio della compensazione è stato condiviso anche dal G.A. nelle note sentenze del Consiglio di Stato n. 1595/2015 e n. 1596/2015 (“Arepo”), peraltro significative perché hanno affermato il contrasto, sotto più profili, del Regolamento della procedura

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sanzionatoria Consob del 2013 [esattamente speculare a quello, allora vigente, della Banca d’Italia]21 con i principi del giusto procedimento. In dottrina è stata rilevata la contraddizione tra la consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema di sanzioni “penali”, gravemente e molteplicemente afflittive, per le quali ha escluso la compensazione ex post dei vizi procedimentali, e la sentenza “Grande Stevens”, riguardante sanzioni – “convalidate” dai giudici italiani, ma in un giudizio allora senza udienza pubblica – che indubbiamente avevano un forte carattere pluriafflittivo. L’ascendente del principio della “compensabilità ex post” è stato individuato “in nuce”, da alcuni, nelle teoriche di Kelsen e della Scuola di Vienna sulla consustanzialità, e quindi continuità, tra il potere amministrativo e quello giurisdizionale22. La tesi della continuità tra procedimento e processo, considerati come due fasi intercomunicanti di un’unica sequenza attuativa delle regolamentazioni in materia bancaria e finanziaria, implica che la decisione (sentenza) conclusiva della seconda fase possa sanare, retroagendo, i vizi in procedendo che hanno reso invalida la decisione conclusiva della prima fase. Tale tesi si traduce, involontariamente, in una sorta di “rimozione” del ruolo assiale progressivamente assunto, nel secolo scorso, dal procedimento per quanto riguarda l’attività delle pubbliche amministrazioni. È notorio che – sempre con riferimento all’attività – il centro di gravità della riflessione dei giuristi è passato, via via, dall’atto (“negoziale” e non), al provvedimento, al procedimento, ai moduli convenzionali23 (accordi e contratti). Per quanto qui interessa l’ibridazione, da gran tempo avviata, tra i sistemi angloamericani e quelli continentali di disciplina delle attività amministrative ha condotto al tendenziale, ma contrastato, affermarsi, anche negli ordinamenti dei Paesi europei continentali, dei principi del giusto procedimento. In particolare, nei procedimenti contenziosi – in primis sanzionatori – ciò comporta l’attribuzione del potere decisorio

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V. già Amorosino, Principi del giusto procedimento, procedure sanzionatorie di Consob e Banca d’Italia e giurisprudenza “riduzionista” della Cassazione, in Dir. banc., 2016, pp. 543 ss. 22 Ci si riferisce ai lavori del 2018, cit. alla nota 4, di Allena, Goisis e Bindi - Pisaneschi. 23 Locuzione coniata da Giannini, Manuale di diritto amministrativo2, Milano 1988.

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ad un organo indipendente dall’ufficio o amministrazione requirente, a garanzia di imparzialità/terzietà per il cittadino resistente. O, in alternativa, alla previsione di un procedimento amministrativo di riesame da parte di un organo indipendente rispetto all’ufficio requirente e decidente “in prima battuta” 24. In realtà la questione della “compensabilità ex post” appare difficilmente superabile sul piano del contrasto logico tra la giurisprudenza “generale” della Corte EDU in materia di sanzioni “penali” e la sentenza “Grande Stevens”. Può trovare, invece, spiegazione – alla luce del pragmatismo e della flessibilità della Corte – in un’ottica inter-istituzionale (il c.d. “dialogo rispettoso” tra le Corti). Più precisamente: il riconoscimento dell’insostituibile funzione garantistica del procedimento presuppone – nell’implicita valutazione della Corte EDU – che in un dato ordinamento nazionale la regolamentazione della procedura sanzionatoria sia conforme al modello del giusto procedimento contenzioso. Viceversa il “Regolamento sanzioni” della Consob (e della Banca d’Italia) presentava all’epoca (2014) molteplici, gravi difformità rispetto al “modello” di fair trial (dalla non conoscibilità della proposta sanzionatoria, alla commistione in un unico organismo delle funzioni istruttorie, requirenti e decidenti, all’assenza di contraddittorio paritario, alla limitazione dell’accesso agli atti). La divaricazione della regolamentazione italiana della procedura sanzionatoria dal modello del giusto procedimento contenzioso rendeva (e, in parte, rende tuttora) assai difficile, anche ad un G.O. ipoteticamente “garantista”, dichiarare illegittimo, per vizi “in procedendo”, il provvedimento sanzionatorio, se non previamente disapplicando il “Regolamento sanzioni” (ciò che, peraltro, alla luce della giurisprudenza di merito, appare un’ipotesi dell’irrealtà). Dunque la Corte nel 2014 – pur rilevando i deficit strutturali, di imparzialità oggettiva e di contraddittorio paritario, della procedura sanzionatoria Consob – ha individuato un rimedio empirico nella compensa-

24 Con riferimento all’ordinamento bancario europeo Cassese, A European Administrative Justice?, in Aa.Vv., Judicial review in the Banking Union and in the EU financial architecture, Quaderno di Ricerca Giuridica di Banca d’Italia, n. 84, giugno 2018.

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zione, assicurata dalla possibilità di instaurare un giudizio «dinnanzi ad un tribunale che offra le garanzie dell’art. 6»25. In quest’ottica la compensazione viene ad assolvere ad una funzione remediale. Siamo quindi in presenza di un caso di dialogo tra le Corti, declinato nella vicenda “Grande Stevens” come una sorta di “affidamento” ai giudici nazionali del compito di accertare, nell’ambito del doveroso riesame funditus della vicenda, se ed in che misura le aporie ed asimmetrie del procedimento abbiamo effettivamente condizionato la determinazione della sanzione gravemente afflittiva irrogata. Sta di fatto che – per il concorso dei fattori illustrati nei paragrafi precedenti – il risultato effettivo, nel diritto vivente nazionale, della ritenuta “compensabilità ex post” delle violazioni del giusto procedimento è agli antipodi di quello implicitamente suggerito dai giudici di Strasburgo: l’evoluzione della regolamentazione del procedimento in senso garantistico e – medio tempore – un ruolo più incisivo della giurisdizione. I regolamenti Consob e Banca d’Italia delle procedure sanzionatorie sono stati solo parzialmente emendati, nel 2015-2016, dalle violazioni del giusto procedimento, ma, “di controbalzo”, la giurisprudenza ordinaria ha tratto dalla sentenza “Grande Stevens” l’argomento “tombale” per confermare il suo consolidato indirizzo di totale irrilevanza del procedimento sanzionatorio laddove – “id quod plerumque accidit” – il G.O. ritenga fondato nel merito, e perciò legittimo, il provvedimento sanzionatorio. La radicale “rimozione” del procedimento dalla “scena contenziosa” è perseguita del G.O. – con “agudezas” da tribunale ecclesiastico del ‘700 siciliano26 – mediante le “consuete” interpretazioni “riduzionistiche” degli acquis della Corte EDU, nel contesto di «un atteggiamento di diffidenza, se non di chiusura verso le categorie sostanziali CEDU»27. Così, esemplificando, con un evidente slittamento logico, la Cassazione (Sez. II, sentenza n. 1205/2017) ha trasformato in una condizione puramente estrinseca e formale la condizione sostanziale, enunciata dalla Corte EDU, per l’applicabilità della “compensazione ex post”: vale a dire che i vizi del procedimento vengano effettivamente valutati, nel corso

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Sentenza “Grande Stevens”, par. 138. Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Torino, 1963. 27 Allena, Le sanzioni amministrative tra garanzia costituzionale e convenzional – europee, in Giorn. dir. amm., 2018, pp. 374 ss. 26

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del successivo giudizio, in ordine all’incidenza pregiudizievole della “disparità delle armi” sulle chances dell’incolpato di difendersi in modo ottimale. Più precisamente: la Cassazione ha collegato il rispetto dell’art. 6 della Convenzione alla mera previsione normativa di una fase giurisdizionale “piena”. La differenza, palese, è quella che intercorre tra ciò che è reale (l’effettivo riesame di tutta la vicenda, ivi compreso il rispetto del giusto procedimento) e ciò che è potenziale (id est: in astratto possibile, o anche prescritto) Questa prospettazione “formalistica” si somma a quella, già accennata, sull’onere per il ricorrente di dimostrare, nel giudizio, quale sia stato lo specifico danno procuratogli dai vizi del procedimento. Una sorta di probatio diabolica – com’è stato rilevato28 – poiché appare impossibile dimostrare retrospettivamente quale difesa avrebbe potuto articolare l’incolpato, nell’ambito del procedimento, ove avesse avuto piena conoscenza degli atti dell’ispezione e della correlata istruttoria “sanzionatoria”. Ciò anche per la dirimente ragione che non è dato sapere se e quali elementi utili per la sua difesa nel procedimento avrebbe potuto trovare l’incolpato se avesse avuto libero accesso agli atti. I G.O. – non volendo riconoscere che la mancata piena accessibilità agli atti costituisce in sé un vulnus al principio di parità e pienezza del contraddittorio – negano in pratica l’esistenza stessa dell’autonoma funzione del procedimento amministrativo.

7. “Eppur si muove”: il ruolo “laterale”, del giudice amministrativo e della Corte di Giustizia. Da quanto s’è detto si dovrebbe dedurre un completo stallo della tematica della funzione del procedimento amministrativo: autonoma ed irripetibile e perciò garantistica ed intrinsecamente sindacabile e non, invece, marginale ed agevolmente “surrogabile” nella successiva, eventuale, fase giurisdizionale.

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Bindi - Pisaneschi, Sanzioni Consob, cit., p. 176.


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Il paradosso è che mentre il G.O. da tempo sostiene che il suo giudizio attiene al rapporto e non all’atto – affermazione, in sé condivisibile, successivamente “rafforzata” con l’autoqualificazione come full jurisdiction – viceversa nella giurisprudenza viene in rilievo essenzialmente l’atto. Ciò in quanto tutta la “vicenda di vita”29 – dall’esistenza e gravità delle disfunzioni, alla correttezza degli accertamenti ispettivi, allo svolgimento del procedimento, al formarsi stesso della decisione sanzionatoria – è appiattita sul parametro statico della validità sostanziale dell’atto sanzionatorio, mentre è praticamente assente la visione prospettica e dinamica della realtà e della dimensione giuridica – il procedimento – in cui la realtà stessa è sussunta e viene poi qualificata. In tale contesto viene ad essere del tutto ignorata la tematica della divaricazione tra la vigente disciplina regolamentare delle procedure sanzionatorie ed alcuni principi assiali del giusto procedimento contenzioso. A ben vedere, tuttavia, qualcosa “eppur si muove”, su impulso dei giudici amministrativi. I “fronti” problematici “messi in movimento” dal Consiglio di Stato sono tre. 7.1. Il primo, più generale, è costituito dai rilievi formulati dal Consiglio di Stato nelle sopracitate “sentenze AREPO” (nn. 1595-6/2015) sulle difformità della procedura sanzionatoria Consob, all’epoca vigente, dai principi generali in materia di giusto procedimento. È incontestabile – nonostante le negatorie della Cassazione (Sez. II, sentenza n. 4725/2016) – che le due sentenze abbiano segnato la “riapertura” della questione della disciplina regolamentare dei procedimenti sanzionatori di Banca d’Italia e Consob: le due Autorità hanno dovuto procedere ad una revisione parziale – non satisfattiva – dei rispettivi “Regolamenti sanzioni”. 7.2. Il secondo “fronte” ha riguardato il diritto di accesso, per necessità difensive del cittadino, ai documenti in possesso di Banca d’Italia e della Consob, sia “al di fuori” di un procedimento che nell’ambito di esso (non solo sanzionatorio ma, ad esempio, autorizzatorio o di revoca). La questione è di particolare delicatezza per quanto qui interessa, perché ai principi generali garantistici – la trasparenza, il diritto di accesso, strumentale a quello di difesa, e di partecipazione al procedimento

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Irti, Un diritto incalcolabile, cit.

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– si contrappone il segreto d’ufficio sugli atti e documenti posseduti dalle due Autorità in relazione alla loro funzione di vigilanza. Il t.u.b. all’art. 7, co. 1, assoggetta al segreto d’ufficio le informazioni ed i dati in possesso della Banca d’Italia in ragione della sua attività di vigilanza3030. Identica disposizione, per la Consob, è contenuta nell’art. 4, co. 10, del t.u.f. In pratica i soggetti incolpati dalle due Autorità non hanno pieno accesso agli atti del procedimento ispettivo, né a quelli del successivo procedimento sanzionatorio. La questione del bilanciamento tra l’interesse pubblico alla riservatezza dei dati e documenti inerenti alla vigilanza ed i diritti di partecipazione e di difesa era stata sollevata da un’ordinanza del Consiglio di Stato (Sez. VI, 15 dicembre 2016, n. 4172) che aveva rimesso alla Corte di Giustizia una questione pregiudiziale sulla base del seguente enunciato: «Segreto d’ufficio, riservatezza di dati … delle pubbliche amministrazioni e diritto alla loro conoscenza … operano su piani differenti che vanno equilibratamente coordinati tra loro, fermo in ogni caso che, a cospetto di determinati presupposti, il segreto d’ufficio non è di per sé automaticamente idoneo a ostacolare sempre la conoscenza dei dati e dei documenti … specie qualora il diritto alla conoscenza è preordinato all’esercizio di legittime tutele nelle diverse sedi giurisdizionali competenti (...) nella considerazione che solo attraverso una preventiva conoscenza dei dati e documenti anzidetti il soggetto interessato ad acquisirli per esigenze di giustizia è in grado di godere pienamente del proprio diritto di difesa». L’impostazione “costituzionalistica” dei giudici di Palazzo Spada appariva condivisibile ed equilibrata31. Alla domanda di pronuncia pregiudiziale ha dato riscontro la Corte di Giustizia UE con sentenza pubblicata il 13 settembre 2018 (causa C-594/16, Bucci c/o Banca d’Italia) che ha in sostanza accolto la prospettazione del Consiglio di Stato.

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Montedoro - Supino, Commento all’art. 7, in Aa.Vv., Commentario al Testo Unico, cit., I, pp. 84 ss. 31 Sia consentito il rinvio a Amorosino, I doveri informativi dell’A.V. nei confronti dei soggetti vigilati, in Informazione e attività bancaria, in Dir. banc., 2017, p. 741. Sui profili generali dell’accesso v., riassuntivamente, Alberti, I casi di esclusione dal diritto di accesso in Aa.Vv. Codice dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, pp. 1294 ss. e Romano, L’accesso ai documenti amministrativi in Aa.Vv., L’azione amministrativa, Torino, 2016, pp. 937 ss.

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Nella prospettiva europea il punto focale della questione era l’interpretazione da darsi all’art. 53, par. 1, della direttiva 2013/36, il quale, mentre impone il divieto generale di divulgazione delle informazioni riservate detenute dalle autorità competenti [nella specie: la Banca d’Italia], consente che nei casi concernenti un ente creditizio dichiarato fallito o soggetto a liquidazione coatta ordinata da un tribunale le informazioni riservate «che non riguardino i terzi coinvolti in tentativi di salvataggio possono essere comunicate nell’ambito di procedimenti civili e commerciali». Nel giudizio amministrativo nazionale, che ha dato origine alla pronuncia della Corte di Giustizia la Banca d’Italia aveva sostenuto un’interpretazione letterale/restrittiva giusta la quale l’accessibilità era consentita solo in presenza di un giudizio civile già instaurato. La Corte di Giustizia ha invece ritenuto che «33. Orbene, tenuto conto di tutte le considerazioni suesposte, non si può dedurre né dal testo dell’articolo 53, paragrafo 1, terzo comma, della direttiva 2013/36, né dal contesto in cui tale disposizione si colloca, così come nemmeno dagli obiettivi perseguiti dalle norme contenute in detta direttiva in materia di segreto professionale che le informazioni riservate relative a un ente creditizio dichiarato fallito o sottoposto a liquidazione coatta amministrativa possano essere divulgate unicamente nell’ambito di procedimenti civili o commerciali già avviati. 34. In casi come quello di specie, la divulgazione di tali informazioni nel corso di un procedimento avente carattere amministrativo secondo il diritto nazionale è idonea a garantire, ancor prima dell’avvio di un procedimento civile o commerciale, i requisiti rilevati al punto 32 della presente sentenza e quindi l’efficacia dell’obbligo del segreto professionale di cui all’articolo 53, paragrafo 1, della direttiva 2013/36». Ciò premesso la Corte ha delimitato le condizioni di accessibilità ai documenti detenuti dall’Autorità di supervisione bancaria: «Tuttavia, la domanda di divulgazione deve riguardare informazioni in merito alle quali il richiedente fornisca indizi precisi e concordanti che lascino plausibilmente supporre che esse risultino pertinenti ai fini di un procedimento civile o commerciale, il cui oggetto dev’essere concretamente individuato dal richiedente e al di fuori del quale le informazioni di cui trattasi non possono essere utilizzate. Spetta alle autorità e ai giudici competenti effettuare un bilanciamento tra l’interesse del richiedente a disporre delle informazioni di cui trattasi e gli interessi legati al mantenimento della riservatezza delle informazioni coperte dall’obbligo del segreto professionale, prima di procedere alla divulgazione di ciascuna delle informazioni riservate richieste».

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In sintesi: I) l’accesso ai documenti può essere richiesto «nell’ambito di un procedimento di carattere amministrativo», il quale può essere sia un procedimento sanzionatorio (nel qual caso l’accesso è strumentale all’esercizio del diritto di partecipazione procedimentale), sia un procedimento di accesso finalizzato all’esercizio pieno del diritto di difesa anche in un giudizio amministrativo (ad esempio: avverso il provvedimento del MEF che dispone la liquidazione coatta amministrativa); II) l’onere, imposto al richiedente l’accesso ai documenti, di fornire «indizi precisi e concordanti» della pertinenza dei documenti richiesti all’esercizio del diritto di difesa in un procedimento civile e commerciale o anche amministrativo rischia, tuttavia, di limitare eccessivamente il diritto di accesso, soprattutto se interpretato restrittivamente. Appare forse eccessivo pretendere dall’interessato la conoscenza preventiva, dettagliata e specificamente argomentata ex ante, di quali siano specificamente i documenti ai quali esso chiede di accedere. Tutto dipenderà, in concreto, dai parametri interpretativi della sentenza della Corte di Giustizia che verranno adottati nella prassi delle autorità di vigilanza e dai giudici competenti. Il che non induce ad uno sfrenato ottimismo. 7.3. La terza questione “aperta” dal Consiglio di Stato riguarda la spettanza della giurisdizione sui “Regolamenti sanzioni” della Banca d’Italia e della Consob che – si ricorda – appaiono tuttora censurabili sotto i profili: della commistione tra l’organo requirente e quello decidente, (ch’è lesiva dell’imparzialità e terzietà del “giudicante”, alla luce del fatto che i procedimenti de quibus hanno natura “penale”, alla stregua della giurisprudenza CEDU); delle limitazioni al pieno accesso a tutti gli atti del procedimento e dell’omessa previsione del contraddittorio procedimentale sull’attendibilità delle dichiarazioni, pregiudizievoli per l’incolpato, raccolte in sede ispettiva. Nella descritta situazione di “programmatica” irrilevanza – nella giurisprudenza ordinaria – della dimensione del procedimento (e, “a monte”, della sua stessa disciplina) regolarmente, taluni incolpati e sanzionati hanno tentato di aggirare l’ostacolo impugnando innanzi al giudice amministrativo il “Regolamento sanzioni” della Consob affinché ne fossero accertati i profili di illegittimità. Sta di fatto che il TAR Lazio, in più occasioni, ha declinato la propria giurisdizione in materia, sulla base di più concorrenti motivazioni: I) l’attribuzione al G.O. della «competenza funzionale sui ricorsi in opposizione alle sanzioni della Consob (…) si estende anche ai relativi

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atti endoprocedimentali [?!], costituenti estrinsecazione di un medesimo potere sanzionatorio»; II) nelle «vicende che si concludono con la irrogazione del provvedimento sanzionatorio (…) non sussiste alcun profilo di interesse legittimo che possa esser fatto valere innanzi a questo giudice [amministrativo], essendo le situazioni giuridiche relative all’applicazione della sanzione integralmente di diritto soggettivo»; III) «la commisurazione della misura afflittiva avviene attraverso un potere ontologicamente diverso dalla discrezionalità amministrativa, che presuppone una ponderazione d’interessi, atteso che l’ampio margine di apprezzamento lasciato dalla legge all’amministrazione dovrebbe essere esclusivamente utilizzato per adeguare la sanzione alla gravità della violazione»; IV) «la sanzione (…) è irrogata tramite un procedimento diverso da quello previsto dalla l. 7 agosto 1990, n. 241…»; V) «né si possono individuare profili di discrezionalità rispetto alla regolamentazione delle fasi del procedimento sanzionatorio, che deve essere rispettoso, proprio in base alla espressa previsione dell’art. 24, della legge n. 262 del 2005, dei principi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione, nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie». [TAR Lazio, Sez. II, sentenze n. 2508/2018 e n. 3833/2018] Alcune delle richiamate motivazioni, in particolare la III) e la IV), sono assai opinabili laddove escludono, da un lato, qualsiasi discrezionalità nella determinazione della sanzione e, dall’altro, l’applicabilità dei principi della legge n. 241/1990. Soprattutto è da rilevare – nelle pronunce del TAR Lazio – una sorta di sovrapposizione sviante tra la regolamentazione del procedimento ed il suo concreto svolgimento nei singoli casi di specie: soltanto a quest’ultimo (agli “atti endoprocedimentali”) si fa infatti riferimento nelle sentenze citate, ignorando l’immanente “Regolamento sanzioni”. Per quanto riguarda l’unica motivazione – sub V) – riguardante la disciplina del procedimento non si vede alcun motivo per il quale la situazione giuridica di chi impugna un atto amministrativo generale di natura regolamentare non sia quella “ordinaria” di interesse legittimo, ma debba essere quella di diritto soggettivo, in forza di una sorta di attrazione dell’oggetto, cioè per il mero fatto che il regolamento impugnato disciplina un procedimento sanzionatorio “finanziario”, il sindacato sul quale spetta al G.O. [mentre – ad esempio – spetta pacificamente al G.A. se riguarda la regolamentazione dell’attività edilizia (che inerisce allo ius aedificandi) o, invece, dell’esercizio del commercio nel centro

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storico (che inerisce al diritto d’impresa) o un regolamento dell’IVASS, che è parimenti un’Autorità di vigilanza “finanziaria”]. In tutti e quattro i casi – sanzioni della Consob o di Banca d’Italia, attività edilizia, esercizio del commercio, regolamento dell’IVASS – la natura e la funzione giuridica dei regolamenti sono analoghe: disciplinare un tipo di attività, oggetto di leggi amministrative di settore, ed affidarne il “controllo” ad una amministrazione (anche la medesima che lo ha emanato). L’“attrazione” del sindacato sui “Regolamenti sanzioni” della Consob e della Banca d’Italia nella giurisdizione del G.O., soltanto perché hanno ad oggetto la disciplina della procedura ordinata all’irrogazione di sanzioni (che incidono su posizioni di diritto soggettivo), appare una forzatura logico-giuridica. All’origine di essa è la messa “fuori campo” dei principi generali dell’azione amministrativa e l’erronea riconduzione dei procedimenti sanzionatori in questione, pur previsti da una normazione “speciale” e disciplinati da regolamenti di Autorità di vigilanza indipendenti, al solo “modello generale” della l. 689/1981. Il punto sostanziale è, tuttavia, un altro: le citate sentenze del TAR Lazio sono andate in contrario avviso rispetto al Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza n. 3822/2017), che aveva annullato una precedente decisione del TAR Lazio in analoghi sensi, relativa al Regolamento sanzioni di Banca d’Italia. I giudici di Palazzo Spada, dopo aver ribadito che «la giurisdizione sui provvedimenti sanzionatori [di Consob e Banca d’Italia] spetta al giudice ordinario», hanno precisato come «La giurisdizione del giudice amministrativo rest[i] ferma, però, in applicazione dei principi generali, sugli atti regolamentari presupposti. In questo caso, viene in rilievo l’esercizio di un potere generale dell’amministrazione connotato da discrezionalità, in relazione al quale il privato è titolare di un interesse legittimo». Richiamando la sua precedente sentenza n. 1595/2015 il Consiglio di Stato ha affermato: «La giurisdizione del giudice ordinario riguarda, infatti, “la sanzione inflitta e gli atti del procedimento sanzionatorio, ma non anche gli atti a monte del procedimento medesimo, espressione di poteri di diversa natura (regolamentare o amministrativa appunto) e rispetto ai quali sussistono certamente posizioni di interesse legittimo la cui tutela spetta, secondo gli ordinari criteri di riparto, alla giurisdizione del giudice amministrativo”». Risulta, infine, assai opinabile l’affermazione – anche in più recenti sentenze del TAR Lazio, dichiaratamente contrastanti con l’arret del Consiglio di Stato – che la regolamentazione del procedimento sanzio-

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Sandro Amorosino

natorio non sarebbe discrezionale perché esso dev’essere “rispettoso” dei principi indicati dall’art. 24, l. n. 262/2005. Siamo in presenza di una tipica petizione di principio: che i regolamenti in questione debbano essere conformi ai principi garantistici elencati nell’art. 24 non esclude – ovviamente – che nella realtà possano essere (come, nella specie, sono) difformi. Come insegnava Crisafulli32 le norme sono «proposizioni prescrittive … esprimono un dovere essere, che qualcosa sia, e non un dato esistenziale, ossia che qualcosa è». Tra il “sollen” ed il “sein” in tema di regolamenti amministrativi vi è l’ampia dimensione della discrezionalità della P.A. sul come dare attuazione alle norme primarie, tanto più se queste si limitano, come l’art. 24, ad enunciare concetti o principi generali. Le “disallineate” sentenze del TAR Lazio sono state naturalmente appellate e – com’era prevedibile – sono state annullate dal Consiglio di Stato. La Sezione VI, con sentenza 26 febbraio 2019, n. 1355 ha ribadito che “Spetta alla giurisdizione amministrativa l’esame dei vizi dei regolamenti sanzionatori o amministrativo “a monte” della determinazione punitiva. Il pregiudizio che deriva recta via dal regolamento sul procedimento – senza alcuna connessione con l’adozione del provvedimento sanzionatorio – trova la sua causa nel cattivo esercizio del potere la cui cognizione è riservata alla giurisdizione del giudice amministrativo”. Statuizioni del tutto analoghe sono contenute nella sentenza n. 962/2019. “In parallelo” la Sezione VI, sentenza n. 5800/2018, ha riaffermato la giurisdizione amministrativa anche per quanto riguarda il “Regolamento sanzioni” di Banca d’Italia33. L’affermazione della giurisdizione del G.A. sui “Regolamenti sanzioni” costituisce l’avvio di un percorso non breve, perché dovrà passare per l’auspicabile annullamento da parte del Consiglio di Stato delle sentenze del TAR che hanno declinato la giurisdizione, con conseguente rinvio al primo giudice, affinché si pronunci sulla legittimità del regolamento (con l’incognita dell’esito, ove il giudice del rinvio, sulla scorta della

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Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, 1962, p. 51. Sui più recenti sviluppi v. amplius Romagnoli, La giurisdizione sui “regolamenti sanzionatori” di CONSOB. Nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 26 febbraio 2019, n. 1355 in www.dirittobancario.it. 33

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giurisprudenza ordinaria cui tanto “tiene”, ritenga “superabili” le criticità della disciplina regolamentare). È, tuttavia, un itinerario sicuramente volto ad aumentare gli standards di effettività della tutela, come individuati da acuta dottrina34, che si richiamano qui brevemente perché si attagliano perfettamente al tema in esame. È essenziale, nel giudizio amministrativo, innanzitutto la cognizione approfondita della rispondenza dei regolamenti delle Autorità indipendenti ai principi del “giusto procedimento”, il quale concorre a compensare il deficit di legittimazione costituzionale dell’ampia potestà regolamentare attribuita alle Autorità stesse. Tale scrutinio, nel caso dei regolamenti delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari (compreso l’IVASS), deve avere come parametro la concreta attuazione dei principi solo “nominati” nell’art. 24 della l. n. 262/2005 come verba generalia. L’adozione del regolamento deve esser preceduta da una ampia e valorizzata consultazione e partecipazione ex ante sullo schema preliminare. A tale scopo, “in secundis”, anche la sequenza della definizione dello schema di regolamento – essendo ormai procedimentalizzata, quindi giuridicamente rilevante – deve formare oggetto del sindacato del G.A., che ne deve verificare la trasparenza e l’effettiva apertura agli apporti collaborativi. Per quanto riguarda, infine, il contenuto precettivo del regolamento deve esserne verificata la rispondenza ai principi di ragionevolezza, proporzionalità e “parità delle armi”. La sommatoria degli standards accennati, da un lato implica il riconoscimento della discrezionalità del potere regolamentare, dall’altro rende più effettivo il principio di giustiziabilità dell’azione amministrativa.

Sandro Amorosino

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ss.

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Cintioli, Potere regolamentare e sindacato giurisdizionale, Torino, 2008, pp. 350


Gli accordi di ristrutturazione dei debiti tra la giurisprudenza della Cassazione e il codice della crisi e dell’insolvenza* 1. L’approfondimento della disciplina degli accordi di ristrutturazione non può oggi prescindere dall’esame delle seguenti problematiche: (a) natura giuridica degli accordi di ristrutturazione alla luce delle recenti decisioni della Suprema Corte: Cass., 18 gennaio 2018, n. 1182, Cass., 12 aprile 2018, n. 9087 e Cass., 21 giugno 2018, n. 16347; (b) contenuti dei nuovi accordi di ristrutturazione nell’emanando codice della crisi e dell’insolvenza. E può anche essere utile anticipare subito le conclusioni: è innegabile che l’accordo di ristrutturazione dei debiti dal 2005 (anno della sua introduzione) ad oggi abbia progressivamente mutato la sua natura e che il confine tra strumento (privatistico) di composizione della crisi a una sorta di (nuova?) procedura concorsuale sia sempre più labile. Questa conclusione trova conferma anche nelle modifiche alla disciplina degli accordi di ristrutturazione contenuta nel nuovo codice della crisi e dell’insolvenza ancorchè, nel testo definitivamente approvato, a differenza delle numerose bozze circolate nell’autunno 2018, sembra potersi confermare la natura “privatistica” degli accordi. Già nel passato avevo sostenuto la tesi della natura privatistica degli accordi di ristrutturazione, ma l’evoluzione della normativa, anche attraverso l’introduzione dell’accordo con intermediari finanziari, il contenuto del codice della Crisi e dell’insolvenza che amplia l’attuale disciplina dell’art. 182 septies l. fall. a qualunque categoria di creditori e l’interpretazione evolutiva della Suprema Corte (ormai radicata con ben tre decisioni nei primi sei mesi dell’anno) rappresentano sicuramente un vulnus nelle pur radicate e convincenti motivazioni che mi avevano indotto ad escludere che gli accordi di ristrutturazione fossero procedure concorsuali1.

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Rielaborazione della relazione tenuta il 29.9.2018 al Convegno di Gardone Riviera su “Le crisi di impresa e le procedure concorsuali nello scenario di un futuro incerto”.

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2. Le tre recenti decisioni della Cassazione appena citate trattano per la prima volta l’argomento della natura dell’accordo di ristrutturazione. Cass., 18 gennaio 2018, n. 11822 si è occupata per la verità della natura prededucibile o meno del compenso ai professionisti che avevano assistito un’impresa nella stipula di un accordo di ristrutturazione omologato ma che poi non aveva prodotto gli effetti sperati e dopo 16 mesi dall’omologa l’impresa era fallita. La decisione aveva riconosciuto la prededuzione ex art. 111 l. fall. al credito del professionista in quanto l’accordo di ristrutturazione «appartiene agli istituti del diritto concorsuale» e il credito è sorto “in funzione” dell’accesso alla procedura. Secondo la Corte, «avutasi l’omologazione, non è necessario verificare la definitiva tenuta del risultato delle prestazioni medesime». Come è stato correttamente osservato, la nozione di “istituti del diritto concorsuale” non equivale a “procedure concorsuali”3 e l’art. 111, co. 2., l. fall. si applica per espressa disposizione normativa solo alle procedure concorsuali e non agli “istituti del diritto concorsuale” (4). A distanza di pochi mesi, la Cassazione è tornata sull’argomento e, questa volta, lo ha trattato approfonditamente e dettagliatamente, e ha concluso che l’accordo di ristrutturazione è una procedura concorsuale5. Come è noto, fino a questa pronuncia, la maggioranza degli interpreti e della giurisprudenza propendeva per sottrarre gli accordi di ristrutturazione dal novero delle procedure concorsuali6 con una serie di argomentazioni in qualche misura condivisibili e personalmente condivise.

1 V. da ultimo il mio articolo Il nuovo accordo di ristrutturazione dei debiti bancari vs concordato preventivo, in Fallimento, soluzioni negoziate della crisi e disciplina bancaria, Bologna, 2017, p. 732. 2 In Il fallimento, 2018, p. 285 con nota di Fabiani, La nomenclatura delle procedure concorsuali e le operazioni di ristrutturazione. 3 Fabiani, La nomenclatura, cit., p. 289. 4 Ambrosini, Nota a Cass., 18 gennaio 2018, n. 1182 in www.osservatorio-oci.org. Secondo Ambrosini, l’accordo di ristrutturazione non è una procedura concorsuale e, pertanto, esprime perplessità sulla soluzione adottata dalla Suprema Corte. 5 Cass., 12 aprile 2018, n. 9087, in Il fallimento, 2018, p. 984 con nota di Trentini, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono una procedura concorsuale: la Cassazione completa il percorso. Nello stesso senso, seppur con motivazione meno articolata, Cass., 21 giugno 2018, n. 16347 massima in Guida al Diritto 2018, 48, 92. Per un commento critico a Cass., 12 aprile 2018, n. 9087 si veda Fabiani, Dal codice della crisi d’impresa agli accordi di ristrutturazione senza passare da Saturno, in www.ilcaso.it. 6 Si vedano gli autori e la giurisprudenza citati da Trentini, da Fabiani e da Ambrosini, opp. citt.

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Non vale la pena ripercorrerle anche perché non solo non vi è una definizione normativa dei requisiti minimi di una procedura concorsuale (e non vi sarà neppure nell’emanando codice della crisi e dell’Insolvenza), ma costituisce un’opzione interpretativa (come tale soggettiva e quindi opinabile) arricchire o semplificare il catalogo dei requisiti minimi della procedura concorsuale. Ebbene, Cass., 12 aprile 2018, n. 9087 affronta direttamente l’argomento e, fornendo un’immagine quasi “astronomica” del sistema fallimentare, afferma che «la sfera della concorsualità può essere oggi ipostaticamente rappresentata come una serie di cerchi concentrici, caratterizzati dal progressivo aumento dell’autonomia delle parti man mano che ci si allontana dal nucleo (la procedura fallimentare) fino all’orbita più esterna (gli accordi di ristrutturazione dei debiti), passando attraverso le altre procedure di livello intermedio, quali la liquidazione degli imprenditori non fallibili, le amministrazioni straordinarie, le liquidazioni coatte amministrative, il concordato fallimentare [che peraltro non è una procedura autonoma – n.d.r.], il concordato preventivo, gli accordi di composizione della crisi da sovraindebitamento degli imprenditori non fallibili, gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e le convenzioni di moratoria … Restano all’esterno di questo perimetro immaginario solo gli atti interni di autonoma riorganizzazione dell’impresa, come i piani attestati di risanamento e gli accordi di natura esclusivamente stragiudiziale che non richiedono nemmeno un intervento giudiziale di tipo omologatorio»7. In questo “sistema solare” in cui il sole è il fallimento, tutte le procedure “minori” (ormai vanno definite così) ruotano più o meno vicine al “sole”, ma sono comunque procedure concorsuali. Ed è significativo, ma direi anche molto discutibile, che «gli accordi da composizione della crisi da sovraindebitamento» o «le convenzioni di moratoria» vengano definiti come procedure concorsuali e che l’accordo di ristrutturazione sia il pianeta più lontano dal sole/fallimento, ma pur sempre un pianeta che ruota intorno al fallimento. Per arrivare a questa conclusione, di natura tipicamente “ideologica”, in quanto non esistono solidi appigli normativi, Cass., 12 aprile 2018, n. 9087 semplifica (e, direi, riduce) la soglia minima per ricondurre uno strumento offerto dall’ordinamento fallimentare al sistema delle vere e proprie procedure concorsuali.

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Come correttamente confermato da Cass., 25 gennaio 2018, n. 1895, in Il fallimento, 2018, p. 286.

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Dopo un documentato e istruttivo excursus in merito alle tendenze evolutive del diritto concorsuale dell’Unione Europea sotto il profilo sia del diritto uniforme (Raccomandazione 2014/135 UE e Proposta di Direttive COM 2016/723) sia degli effetti dell’insolvenza transfrontaliera (Reg. UE 2015/848), la Cassazione afferma che i requisiti minimi affinchè si possa parlare di procedura concorsuale sono: «(i) una qualsivoglia forma di interlocuzione con l’autorità giudiziaria, con finalità quantomeno ‘protettive’ (nella fase iniziale) e di controllo (nella fase conclusiva); (ii) il coinvolgimento formale di tutti i creditori, quantomeno a livello informativo e forse anche solo per attribuire ad alcuni di essi un ruolo di ‘estranei’, da cui scaturiscono conseguenze giuridicamente predeterminate; (iii) una qualche forma di pubblicità”. Ebbene, sulla base di queste premesse, secondo la Corte “non vi è dubbio che ‘questo minimo comun denominatore’ delle procedure concorsuali si rinvenga a pieno titolo anche negli accordi di ristrutturazione dei debiti, quantomeno dopo la loro riforma ad opera del DL n. 83 del 2012, convertito nella l. n. 134 del 2012». Alla stessa conclusione perviene Cass., 21 giugno 2018, n. 16347. Come detto, si tratta di un’operazione “ideologica”, perché se si dovesse invece ritenere che per entrare nel “catalogo” delle procedure concorsuali sia necessario (i) un provvedimento giudiziale di apertura, con la nomina di un organo deputato alla gestione della procedura; (ii) l’universalità degli effetti su tutto il patrimonio del debitore e sulla generalità dei creditori; (iii) l’apertura del concorso con il blocco di ogni azione e del decorso degli interessi per i chirografari; (iv) il rispetto del principio della (tendenziale) parità di trattamento, allora difficilmente l’accordo di ristrutturazione rientra tra le procedure concorsuali (8). E non

8 Sulle caratteristiche di universalità (o globalità), generalità e officiosità delle procedure concorsuali non può non farsi riferimento a Nigro, La disciplina delle crisi patrimoniali delle imprese, lineamenti generali, in Tratt. dir. priv., a cura di Bessone, Torino, 2012, pp. 146 ss. Si veda anche terranova, Conflitti di interesse e giudizio di merito nelle soluzioni concordate delle crisi di impresa, in Aa.Vv., La riforma della legge fallimentare, Milano, 2011, p. 221. Con riferimento alla natura dell’accordo di ristrutturazione, v. da ultimo Vitiello, La nuova strategia degli accordi di ristrutturazione: dalla Cassazione la definitiva spinta verso la natura concorsuale?, in www.ilfallimentarista.it. In giurisprudenza, ancora recentemente Trib. Milano, 20.12.2018, inedita, ha preso in considerazione il recente indirizzo della Suprema Corte e ha espressamente affermato che «il Collegio dissente dal menzionato indirizzo di legittimità che è giunto ad attrarre nell’alveo delle procedure concorsuali l’istituto di cui all’art. 182 bis. Militano per la natura non concorsuale della

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convincono i tentativi dottrinali, per la verità anche precedenti a Cass., 12 aprile 2018, n. 9087, di dimostrare che l’accordo di ristrutturazione risponde anche ai requisiti tradizionalmente richiesti per entrare nel catalogo delle procedure concorsuali9. In realtà, gli arricchimenti via via apportati all’istituto rispetto al testo originario del 2005 (dall’ombrello protettivo rappresentato dal c. 6 dell’art. 182 bis introdotto nel 2010, al divieto di acquisire titoli di prelazione per i creditori procedenti, introdotto nel 2012, all’imposizione dell’accordo ai creditori finanziari contrari, introdotto nel 2015) hanno senza alcun dubbio “concorsualizzato” l’istituto. 3. Come già detto, il codice della crisi e dell’insolvenza non definisce in via generale neppure nell’art. 2 (dedicato alle definizioni) la nozione

procedura di accordo di ristrutturazione dei debiti le seguenti argomentazioni: - non è ravvisabile un provvedimento giudiziale di apertura; - è assente un organo deputato alla gestione della procedura; - non si realizza l’apertura del concorso tra i creditori; - non risulta operante un rigoroso meccanismo di rispetto della par condicio creditorum (operando, invero, l’accordo in senso quasi opposto); - non è ravvisabile uno spossessamento dell’imprenditore; - non si crea alcuna soluzione di continuità tra crediti “anteriori” e crediti “posteriori” (operando, invece, la distinzione tra creditori aderenti e creditori non aderenti). Nel richiamato precedente di Questa Sezione è stata posta attenzione sul fatto che fra gli elementi sin qui riferiti quelli che connotano la natura c.d. negoziale-privatistica ... sono costituiti da: - l’assenza di un organo della procedura nominato dal Tribunale; - l’assenza della apertura del concorso tra i creditori; - il carattere comunque relativo dei limiti di disponibilità del patrimonio da parte del debitore (i cui atti dispositivi in corso di procedura non risultano sanzionati; - il carattere temporaneo dell’automatic stay (i cui effetti possono cessare ancora in pendenza della procedura di omologa). Il Tribunale reputa le argomentazioni riferite ancora attuali anche all’indomani del riferito indirizzo di legittimità di segno contrario, richiamate dallo stesso istante nel ricorso». 9 Ad es. non convince l’affermazione di Trentini, Gli accordi, cit. p. 995, secondo cui l’accordo di ristrutturazione rispetta la par condicio in quanto: «nessun creditore subisce violazione della regola della par condicio creditorum; tanto gli aderenti (volenti non fit injuria) quanto gli estranei si vedono riconosciuto ciò che loro spetta: i primi sulla base dell’accordo concluso, i secondi secondo la previsione di legge». È un’affermazione semplificatoria che non considera il fatto che nel 182-bis gli accordi con i creditori possono non rispettare la par condicio (ad es. si può falcidiare un privilegiato capiente e si può pagare al 100% un chirografario). Nel concordato preventivo un tale piano sarebbe illegittimo e non si potrebbe superare l’illegittimità neppure con l’accordo dei creditori.

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di procedura concorsuale. Tuttavia, nel testo definitivo recentemente emanato (a differenza delle bozze via via circolate) i piani di risanamento e gli accordi di ristrutturazione sono compresi nel Titolo IV intitolato “Strumenti di regolazione della crisi” che a sua volta si compone di “Strumenti negoziali stragiudiziali” (art. 56) relativo ai piani di risanamento e di “Strumenti negoziali stragiudiziali soggetti ad omologazione” (art. 57-64) relativi agli accordi di ristrutturazione dei debiti. Ed è significativo che queste norme non siano comprese nel Titolo III relativo alle “procedure di regolazione della crisi dell’insolvenza” che comprende invece il concordato preventivo e la liquidazione giudiziale (attuale fallimento). La ben nota distinzione tra strumenti di regolazione (che non sono procedure concorsuali) e procedure di regolazione (che invece sono procedure concorsuali) direi che costituisce un utile elemento per continuare ad affermare la natura negoziale degli accordi. È ben vero che, il nuovo codice, attraverso l’introduzione di un procedimento unitario per l’ingresso nei vari istituti di regolazione della crisi (art. 44), ha in qualche modo concorsualizzato l’istituto ancorchè l’art. 44 del codice rappresenti la “rivisitazione” dell’attuale concordato con riserva. Inoltre le misure protettive per tutte le procedure e anche per l’accordo di ristrutturazione non saranno più automatiche ma, ove richieste, dovranno essere sempre concesse dal giudice e potranno comportare la nomina di un commissario giudiziale anche in caso di accordo di ristrutturazione, qualora siano pendenti domande per l’apertura della liquidazione giudiziale (art. 44, co. 4 c.c.); il provvedimento con il quale viene omologato l’accordo è una sentenza e il giudice controlla anche la fattibilità economica dell’accordo (art. 48 co. 3); l’accordo può essere esteso/imposto anche a creditori non aderenti di qualunque specie e anche diversi dagli intermediari finanziari (art. 61 del codice che introduce gli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa). Come già detto, si tratta di elementi distorsivi tra loro anche se i caratteri fondanti di una procedura concorsuale, valorizzati da Trib. Milano 20.12.2018, citata alla nota 8, continuano ad apparire persuasivi. 4. Vale la pena, a questo riguardo, segnalare Cass., 2 febbraio 2018, n. 262710 relativa ad una fattispecie apparentemente diversa ma in qualche modo connessa alla natura di procedura concorsuale ovvero dell’accordo di ristrutturazione. Il caso esaminato riguardava la natura prededuci-

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Cass., 2 febbraio 2018, n. 2627, in www.ilcaso.it.


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bile o meno di un finanziamento erogato in esecuzione di un accordo omologato che, dopo soli 9 mesi dall’omologa, era stata dichiarata fallita. La Suprema Corte ha affermato che se il finanziamento è previsto nel piano, e viene erogato dopo l’omologa dell’accordo, qualora non sia stato restituito, e qualora l’impresa fallisca, deve essere ammesso al passivo in prededuzione. In altre parole, la Cassazione, seppur con una decisione scarsamente motivata, ha voluto tenere nettamente separato l’accordo di ristrutturazione dal piano di risanamento. Il primo, anche a seguito del giudizio di omologa, ha una sua stabilità nel tempo e quindi da un lato, le prestazioni professionali sono prededucibili nel successivo fallimento (Cass., 18 gennaio 2018, n. 1182) e dall’altro lato i finanziamenti esecutivi sono prededucibili senza che si possa ex post riesaminare l’affidabilità e la completezza del piano e dell’attestazione. Il secondo, essendo mancato un controllo giudiziale, ha minore stabilità. Ed infatti, in caso di insuccesso del piano e conseguente fallimento dell’impresa, il Tribunale può sindacare sulla tenuta dell’esenzione da revocatoria e delle esimenti da bancarotta qualora il piano ab origine fosse manifestamente inidoneo a risanare l’impresa11. La differente soluzione data dalla Cassazione all’insuccesso del piano rispetto all’insuccesso dell’accordo di ristrutturazione, risiede anche nella diversa natura dei due istituti, il primo di natura esclusivamente privatistica, mentre il secondo vede l’intervento della autorità giudiziaria. E allora, in questo caso, forse l’unico strumento per far venir meno gli effetti di un accordo di ristrutturazione omologato ma palesemente e ab origine inattuabile, potrebbe essere il ricorso all’istituto della revocazione ex art. 395 c.p.c. per dolo/falsità di documenti/omissione dell’esame di documenti rilevanti/errori di fatto o documentali del decreto di omologa (12). 5. Qualora (errando) gli accordi di ristrutturazione fossero ricondotti alla categoria delle procedure concorsuali, occorrerebbe però chiedersi, in concreto, al di là dell’aspetto “catalogatorio” che cosa significhi inserire o meno l’accordo nella categoria della procedura concorsuale. Ad

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V. Cass., 5 luglio 2016, n. 13719, in www.ilcaso.it e Cass., 19 dicembre 2016, n. 26226, in www.ilcaso.it. 12 Sull’applicabilità della revocazione a provvedimenti diversi da sentenze, quali decreti che abbiano una natura decisoria, v. Trib. Milano, 6 aprile 2017, in www.ilcaso.it, relativo ad un decreto di esclusione dello stato passivo.

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una prima sommaria analisi potrebbe sostanzialmente significare quattro cose: (i) applicazione analogica all’accordo ex art. 182 bis l. fall. di norme previste per le procedure concorsuali (soprattutto il concordato preventivo); (ii) consecuzione tra procedure concorsuali ai fini della decorrenza del periodo sospetto; (iii) riconoscimento della prededuzione oltre le previsioni degli artt. 182 quater e quinquies; (iv) assoggettamento dell’imprenditore/degli organi sociali alle responsabilità derivanti dalle norme fallimentari anche penali. Ma non solo. Come opportunamente segnalato da Trentini13, far rientrare l’accordo di ristrutturazione tra le procedure concorsuali significherebbe rendere applicabile il regolamento comunitario sulle procedure transfrontaliere 2015/848 ai fini della gestione unitaria della crisi; la non assoggettabilità di banche e intermediari all’accordo di ristrutturazione ai sensi dell’art. 80 del t.u.b.; l’applicabilità ai dipendenti di un’impresa che ha stipulato un accordo di ristrutturazione degli strumenti di integrazione salariale previsti per le procedure concorsuali; l’estensione del diritto di escussione individuale del pegno previsto nei contratti di garanzia finanziaria per il caso di apertura di procedura concorsuale. Insomma, si aprirebbero scenari fino ad ora inesplorati. A ben vedere, nell’accordo di ristrutturazione alcuni degli aspetti appena evidenziati sono stati disciplinati dal legislatore: si pensi alla prededuzione (non generale ma) per i soli finanziamenti concessi in occasione della ristrutturazione dell’indebitamento e all’applicazione della disciplina penale fallimentare (art. 236 l. fall.) anche all’accordo di ristrutturazione. Si tratta, per la verità, di norme la cui applicazione all’accordo di ristrutturazione presenta qualche problema. Ad esempio, l’istituto della prededuzione (art. 182-quater e quinquies l. fall.) non ha alcuna rilevanza sostanziale all’interno dell’accordo di ristrutturazione durante la sua fisiologica esecuzione: l’accordo deve infatti garantire l’integrale pagamento dei debiti (salvo quelli appartenenti a creditori con i quali si è pervenuti ad accordi diversi). Invece, nel caso in cui l’accordo non vada a buon fine e quindi l’impresa debba essere sottoposta a una vera e propria procedura concorsuale, occorre capire “per quanto tempo” opera la prededuzione. Si deve infatti trattare della stessa crisi/insolvenza che ha condotto prima all’accordo di ristrutturazione e poi all’apertura della procedura concorsuale ed è un accertamento che va fatto caso per caso

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Trentini, Gli accordi, cit., p. 289.


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da parte degli organi della successiva procedura concorsuale. La stessa soluzione dovrebbe essere adottata per tutte le prededuzioni maturate in esecuzione dell’accordo con il rischio non infondato e non irrilevante della proliferazione incontrollata di prededuzioni una volta omologato l’accordo14. L’estensione della disciplina penale fallimentare all’accordo di ristrutturazione avvenuta nel 2015 era stata giustamente criticata15 e, anzi, appariva una indebita ingerenza in quello che all’epoca era considerato un accordo di natura privatistica16. Si consideri, ad esempio, che negli altri ordinamenti che prevedono norme analoghe all’art. 182 septies (sauvegarde financière accélérée in Francia e lo scheme of arrangement in Gran Bretagna) non vi è nessun rinvio a norme penali fallimentari. Esistono già le norme penali generali (ad es. falso, truffa, ecc.) che possono essere utilmente applicate anche a comportamenti criminosi avvenuti in occasione di accordi di ristrutturazione dei debiti, senza necessità di applicare norme generali speciali. Tuttavia, se si passasse da una prospettiva privatistica dell’accordo di ristrutturazione ad una vera e propria procedura concorsuale, si porrebbe il problema dell’applicazione all’accordo dei reati fallimentari. Le norme attuali e il codice della crisi circoscrivono le bancarotte al solo caso di fallimento/liquidazione giudiziale. L’unica norma penale fallimentare che riguarda l’accordo di ristrutturazione è l’art. 236 l. fall. attuale e il futuro art. 341 del codice riproduce esattamente il contenuto dell’art. 236 l. fall. Sotto questo profilo, attesa la specialità delle norme penali, ritengo si debbano escludere applicazioni estensive all’accordo delle norme previste per il fallimento/liquidazione giudiziale. Non si potrebbe invece escludere un’applicazione analogica all’accordo di ristrutturazione liquidatorio delle norme sulla responsabilità degli organi sociali che il codice della crisi prevederà per il caso di concordato preventivo liquidatorio (v. art. 115 del codice).

14 Così Bonfatti, I “cerchi concentrici” della concorsualità e la prededuzione dei crediti (“dentro o fuori”?) in www.ilcaso.it. 15 In tal senso Panzani, Introduzione ad Ambrosini, Il nuovo diritto della crisi d’impresa, cit., p. 46. Per un giudizio comunque critico della nuova norma v. Iannaccone, Aspetti penali nella miniriforma fallimentare, in La nuova miniriforma della legge fallimentare, a cura di Sandulli e D’Attorre, Torino, 2016, p. 347. 16 Così Appio, Prime riflessioni, cit., p. 6.

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Infine, per quanto riguarda l’applicazione analogica delle norme sul concordato all’accordo di ristrutturazione ci avventuriamo su un terreno totalmente inesplorato. Cass. 12.4.2018, n. 9087, ad es., ha cassato una decisione della Corte d’Appello di Trieste che non aveva consentito l’applicazione all’accordo di ristrutturazione dell’art. 162 l. fall. in tema di concordato, norma che consente al debitore di ottenere un termine non superiore a 15 giorni per apportare «integrazioni al piano e produrre nuovi documenti». È solo un esempio, perché in realtà le norme applicabili analogicamente – soprattutto sul concordato – potrebbero teoricamente essere moltissime: si pensi al ruolo del giudice in sede di omologa dell’accordo, all’applicazione al 182 bis liquidatorio della disciplina sulle offerte concorrenti, all’ammissibilità di proposte concorrenti, alla disciplina sui contratti pendenti, alla risoluzione/annullamento dell’accordo con sostituzione della disciplina concorsuale rispetto a quella pattizia. Probabilmente buona parte degli istituti appena menzionati è inapplicabile all’accordo di ristrutturazione (penso ad es. alle proposte concorrenti), ma già la disciplina sui contratti pendenti con riferimento al loro eventuale scioglimento potrebbe essere applicabile analogicamente così come la disciplina sulle offerte concorrenti in caso di accordo di ristrutturazione liquidatorio. A conclusione di queste brevi note, formulo un modesto suggerimento: sarebbe utile che nel periodo della lunga vacatio legis, prima dell’entrata in vigore del codice venisse chiaramente definita la natura dell’accordo di ristrutturazione e qualora il legislatore (contraddicendo gli elementi volti a privilegiare la natura privatistica dell’istituto) lo riconducesse alle procedure concorsuali definisse le norme applicabili. Altrimenti il rischio di interpretazioni difformi, soprattutto con riferimento alle norme applicabili, sarebbe troppo elevato.

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One size fits all, il cannone e la mosca * Sommario: 1. Premessa. – 2. La regolamentazione nei mercati finanziari dopo gli anni ’90: questione di stile, ma non solo… – 3. Gli effetti ipertrofici della crisi finanziaria sulla regolazione e supervisione bancaria. – 4. La proporzionalità nel nuovo ordinamento delle banche, tra dichiarazione d’intenti e realtà. – 5. L’impatto del criterio di proporzionalità nella nuova disciplina delle crisi bancarie. – 6. Prime conclusioni di sintesi sulla declinazione del principio di proporzionalità nel framework europeo. Confronto telegrafico con esperienze estere. – 7. Spunti di riflessione per una proposta di rivisitazione del modello di regolazione bancaria in Europa. – 8. Banche e fintech: fattore di complicazione o spinta per il cambiamento?

1. Premessa. Negli ultimi anni il dibattito sulla questione della proporzionalità nella predisposizione e applicazione delle regole sull’attività delle banche si è fatto molto più intenso. La proporzionalità è un principio generale del diritto europeo. Ve ne è espressa menzione nel Trattato dell’Unione, laddove si afferma (art. 5, co. 4) che «il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati». La Corte di Giustizia ha conseguentemente da tempo precisato che «al fine di stabilire se una norma di diritto comunitario sia conforme al principio di proporzionalità, si deve accertare se i mezzi da essa contemplati siano idonei a conseguire lo scopo perseguito e non eccedano quanto è

* Lo scritto rappresenta lo sviluppo del paper presentato al 4° Convegno associativo ADDE, I luoghi dell’economia. Le dimensioni della sovranità, Università Ca’ Foscari, Venezia, 29 e 30 novembre 2018. che sarà altresì pubblicato in estratto negli atti del convegno

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necessario per raggiungere detto scopo»1. Come ha avvertito la dottrina2, il principio di proporzionalità prescrive che l’esercizio di una competenza risponda ai requisiti di: a) utilità e pertinenza rispetto alla realizzazione dell’obiettivo per il quale la competenza è stata attribuita; b) necessità ed indispensabilità (per cui la competenza deve essere esercitata con il minor pregiudizio possibile rispetto ad altri interessi o obiettivi degni di protezione)3; c) causalità tra azione e obiettivo. Il criterio di proporzionalità ha assunto nel tempo importanza crescente nel diritto delle società, in inspecie per quel che concerne la corporate governance4. Nell’elaborare gli standard internazionali che identificano il quadro dell’etero e dell’autoregolazione in tale materia5, l’OCSE ha raccomandato ai policy makers di istituire un quadro regolamentare flessibile secondo logiche di proporzionalità, sensibile alle dimensioni dell’impresa e ad altri fattori aziendali, quali ad esempio la struttura proprietaria, la presenza geografica e il settore di attività, mediante incentivi che favoriscano uno sviluppo personalizzato della governance6.

1 Tra le altre, Corte di Giustizia UE, sentenza 9 novembre 1995, causa C-426/93, Germania/Consiglio, punto 42 e sentenza 12 novembre 1996, causa C-84/94, Regno Unito/ Consiglio, punto 57. 2 Cfr. Tesauro, Diritto dell’Unione Europea, Padova, 2010, p. 106. 3 Come ha osservato Rangone, La categoria della regolazione economica e l’impatto sui destinatari, in Basilica, La qualità della regolazione. Politiche europee e piano d’azione nazionale, Rimini, 2006, pp. 919 ss., «in base al principio di proporzionalità (insito nell’ordinamento ed esplicitato dalla giurisprudenza comunitaria) i provvedimenti autoritativi devono essere idonei al raggiungimento del fine cui sono preordinati, a questo effettivamente necessari, senza incidere sulle posizioni giuridiche soggettive in misura superiore a quanto indispensabile in relazione al fine». 4 Sul tema si rinvia, per tutti, a du Plessis, Hargovan, Harris, Principles of Contemporary Corporate Governance, Cambridge, 2018; Clarke, International Corporate Governance. A comparative approach, London-New York, 2017. 5 OECD/G20 Corporate Governance Principles, 2015. 6 Comitato Italiano Corporate Governance, Relazione 2018 sull’evoluzione della corporate governance delle società quotate, p. 19 s. In un recente studio dell’OCSE sull’applicazione del principio di proporzionalità nel diritto societario e dei mercati finanziari (OECD, Flexibility and Proportionality in Corporate Governance, 2018), sono state prese in considerazione alcune aree specifiche, quali la composizione del consiglio di amministrazione, la remunerazione degli amministratori, la disciplina delle offerte pubbliche di acquisto, ecc. Per quel che concerne la disciplina delle operazioni con parti correlate, lo studio ha affrontato il caso dell’Italia (Ibidem, pp. 115 ss.) , ritenuto particolamente interessante in ragione dell’ampio utilizzo di meccanismi di proporzionalità, tarati sulle caratteristiche soggettive delle società (dimensioni ed eventuale quotazione) ed oggettive delle operazioni (dimensioni e natura), nonché di flessibilità, con ampio ricorso a

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Con riguardo all’ordinamento bancario, il principio di proporzionalità rappresenta lo strumento grazie al quale le autorità sono tenute ad adattare la natura e l’intensità della supervisione alle caratteristiche specifiche della banca - quali la dimensione, il profilo di rischio e il modello di business – ed alle particolari finalità che si prefiggono, rappresentate dalla stabilità prudenziale e dal livellamento delle condizioni di concorrenza7. Nel contempo, il principio di proporzionalità dovrebbe orientare l’attività di regolazione verso la ricerca di un rapporto più equilibrato tra controlli e pubblici interessi8. In una Call for Evidence di settembre 2015 il tema “proporzionalità e conservazione della diversità nel settore finanziario europeo” è stato però commentato severamente da molti tra i 250 stakeholder che hanno fornito il proprio contributo su tale aspetto. In sintesi, la critica veniva mossa ai requisiti patrimoniali imposti dal regolamento (UE) n. 575/2013 del 26 giugno 2013 (CRR) e dalla direttiva 2013/36/UE del 26 giugno 2013 (CRD IV), rispetto ai quali si lamentava una scarsa attenzione alla dimensione aziendale ed al modello di business, con particolare riferimento alle banche più piccole e meno complesse9. La taratura delle regole in base alla diversità degli operatori del settore bancario non ha tradizionalmente costituito un obiettivo del legislatore europeo che, a partire dal recepimento dell’accordo di Basilea I del 1988, ha previsto che le disposizioni dell’accordo fossero applicate a tutte le banche europee senza alcuna distinzione, al fine di evitare distorsioni concorrenziali nel mercato10. Tale approccio è stato confermato

opzioni discrezionali della società su modelli regolamentari e regole specifiche. 7 Angeloni, Another look at proportionality in banking supervision, Remarks at the Thirteenth Asia-Pacific High Level Meeting on Banking Supervision, Singapore, 28 February 2018. 8 Con la l. 262/2005 sulla tutela del risparmio il legislatore nazionale ha previsto (art. 23) che, nel definire il contenuto degli atti di regolazione generale, Banca d’Italia, Consob, Isvap (ora Ivass) e Covip tengano conto «in ogni caso del principio di proporzionalità, inteso come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine, con il minore sacrificio degli interessi dei destinatari». Nel 2007 il principio è stato poi pedissequamente ripreso all’art. 6 del t.u.f., ove sono dettati ambiti e criteri di esercizio della funzione regolamentare da parte della Banca d’Italia e della Consob. 9 Commissione Europea, Summary of contributions to the ‘Call for Evidence’, November 2016, pp. 11 ss. 10 Nella Direttiva del Consiglio 89/647/CEE del 18 dicembre 1989 relativa al coefficiente di solvibilità degli enti creditizi si legge (settimo considerando): «gli enti creditizi in un mercato bancario comune sono chiamati ad entrare in diretta concorrenza fra di loro e […] l’adozione di norme comuni di solvibilità sotto forma di un coefficiente minimo avrà come effetto di prevenire le distorsioni di concorrenza e di rafforzare il sistema

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anche all’atto dell’emanazione di CRR e CRD IV - nonostante gli accordi di Basilea III11 fossero diretti alle sole banche internazionalmente attive - ribadendo che regole differenziate potrebbero creare distorsioni competitive e presupposti per arbitraggi regolamentari, dal momento che ogni banca autorizzata in uno Stato Membro può operare liberamente nel mercato unico bancario12. Occorre ricordare, al proposito, che dopo la crisi finanziaria del 20072009 gli standard setter internazionali avevano ravvisato l’esigenza di fissare requisiti prudenziali più rigorosi per gli intermediari, sfociati negli accordi di Basilea III, allo scopo di rafforzare la solidità dei sistemi di vigilanza: in tale contesto sono stati approvati CRR e CRD IV. Nel contempo, avendo presente l’eterogeneità dei sistemi bancari, i principi fondamentali sulla vigilanza bancaria dettati dal Comitato di Basilea erano stati rivisti dando maggior rilievo al metodo della proporzionalità, affinché le risorse prudenziali fossero utilizzate in misura commisurata al profilo di rischio e alla rilevanza sistemica delle banche13. La proporzionalità si pone quindi come il principio fondamentale di vigilanza che avrebbe dovuto consentire di graduare la poderosa risposta regolamentare alla crisi finanziaria14.

bancario comunitario». 11 Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, Basilea 3 – Schema di regolamentazione internazionale per il rafforzamento delle banche e dei sistemi bancari, Dicembre 2010. 12 Commissione Europea, CRD IV/CRR – Frequently Asked Questions, Memo, 21 marzo 2013. Secondo Masera (Regole e supervisione delle banche: approccio unitario vs modello per livelli e implicazioni per la morfologia del sistema delle banche, EU e US, in Riv. trim. dir. econ., n. 4, 2015, p. 51), si può tuttavia argomentare che «le sempre più complesse regole di Basilea, i vantaggi in termini di assorbimento di capitale dei modelli interni avanzati e le garanzie pubbliche implicite ed esplicite per le grandissime banche sistemiche (troppo grandi per fallire) hanno favorito le grandi banche, sollecitato arbitraggio delle regole sul capitale, inciso negativamente sulla competitività delle banche regionali/ locali con modello di business “tradizionale”». 13 Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, Principi fondamentali per un’efficace vigilanza bancaria, Principio 9, Settembre 2012. Sul tema cfr. ampiamente Antonucci, Despecializzazione e principio di proporzionalità, in Riv. trim. dir. econ, n. 4, 2014, pp. 243 ss. 14 Come affermato in Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, Principi fondamentali, cit., p. 1: «In sede di revisione il Comitato ha cercato di contemperare l’obiettivo di istituire standard più rigorosi per la vigilanza bancaria con quello di far sì che i Principi fondamentali rimangano flessibili e applicabili mondialmente. Rafforzando il principio di proporzionalità, i nuovi Principi fondamentali e i relativi criteri di valutazione si adattano a una gamma eterogenea di sistemi bancari. Il metodo della proporzionalità permette inoltre di commisurare la valutazione dell’osservanza dei Principi fondamentali con il profilo di rischio e la rilevanza sistemica di un ampio spettro di banche (dagli

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Per inquadrare adeguatamente l’importanza di tale criterio occorre però soffermarsi in via preliminare sullo stile della regolazione adottato dal legislatore europeo con l’avvento del mercato unico bancario.

2. La regolamentazione nei mercati finanziari dopo gli anni ’90: questione di stile, ma non solo… La spinta decisiva verso un mercato bancario europeo rappresentata dall’approvazione della Seconda Direttiva 89/646/CEE, grazie alla quale sono stati introdotti i principi del mutuo riconoscimento e dell’home country control, ha reso necessario un adeguamento della produzione normativa successiva, reimpostata secondo un approccio che consenta di perseguire la finalità della stabilità del sistema finanziario, senza sacrificare l’efficienza degli intermediari e alterare il gioco della concorrenza sul mercato. L’obiettivo deve essere quello di eliminare le distorsioni e le anomalie legate a fenomeni patologici, introducendo regole di condotta che assicurassero la concorrenza tra intermediari nel e per il mercato15. Il settore bancario, in particolare, ha conosciuto un profondo mutamento della disciplina legislativa e regolamentare volto a spostarne il baricentro da un sistema oligopolistico ad un sistema concorrenziale, ove si eviti che la tutela della stabilità delle imprese possa contrastare l’obiettivo della maggiore efficienza, la quale, nella logica della competizione, costituisce il parametro selettivo della loro permanenza sul mercato16. L’evoluzione, per così dire interna, dell’ordinamento creditizio e l’evoluzione, invece, esterna, delle altre attività finanziarie, hanno reso necessaria la nuova configurazione e reciproca rilevanza delle diverse finalità e, in particolare, la distinzione tra gli ambiti di operatività di ciascuna: la stabilità del sistema non può più estendersi sino a sovrapporsi alle altre finalità, a volte di segno opposto, come, ad esempio, la garanzia della concorrenza fra i diversi intermediari17.

istituti di grandi dimensioni attivi a livello internazionale alle banche di deposito piccole e poco complesse)». 15 Sui temi trattati in questo paragrafo v. Greco, La consulenza nel mercato finanziario tra diritto speciale e diritto comune, Pisa, 2012, pp. 111-115 e Greco, La vigilanza sulla remunerazione dei banchieri, in Dir. banc., 2014, pp. 292-297. 16 In questi termini N. Salanitro, La concorrenza nel settore bancario, in Banca, borsa, tit. cred., I, 1996, pp. 757 ss. 17 Così Torchia, Il controllo pubblico della finanza privata, Padova, 1992, p. 346.

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Il punto critico di questo processo di evoluzione sta nella configurazione sempre più chiara e consapevole di misure e strumenti non più diretti a tutelare diritti ed a soddisfare interessi, ma, piuttosto, a garantire contro i rischi connaturati a tutte le attività finanziarie: alle misure volte ad eliminare il rischio si sostituiscono misure volte a renderlo ragionevole (sul piano sistemico), controllabile (per quanto riguarda gli intermediari) e conoscibile (per quanto riguarda gli investitori)18. In Europa, le esigenze dell’armonizzazione massima conseguenti al recepimento degli indirizzi del Comitato Lamfalussy hanno prodotto un complesso processo atto a garantire una maggiore uniformità nella regolamentazione degli ordinamenti europei19. Le direttive di secondo livello ed i regolamenti introducono una serie di regole dettagliate e puntuali destinate ad essere trasposte, in maniera pressoché automatica, nei singoli ordinamenti. In considerazione del divieto di stabilire obblighi aggiuntivi non proporzionati e non obiettivamente giustificati rispetto alla normativa comunitaria20, ne è conseguito un drastico calo del margine di discrezionalità delle autorità nazionali per discostarsene, anche in senso più rigoroso21.

18 Ibidem. In argomento v. anche Greco, Gli intermediari finanziari nel testo unico bancario, Pisa, 2006, pp. 45 ss. 19 Il procedimento o metodo Lamfalussy si prefigge di realizzare gli obiettivi dell’armonizzazione piena, della regolamentazione partecipata e dell’accelerazione del recepimento della legislazione comunitaria a livello nazionale. Esso si articola su quattro livelli. Il livello 1 corrisponde alla direttiva, ove sono stabiliti i princípi quadro di carattere generale; il livello 2 vede l’emanazione delle misure di esecuzione, adottate dalla Commissione Europea con l’ausilio del CESR e dell’ESC; il livello 3 ricomprende gli orientamenti interpretativi non vincolanti della Commissione, del CESR e delle autorità nazionali di vigilanza; il livello 4 prevede il c.d. enforcement, ossia la verifica del rispetto della disciplina. Per ulteriori approfondimenti v. The final report of the committee of wise man on the regulation of european Securities markets del 15 febbraio 2010, disponibile su http:// ec.europa.eu/. In dottrina v. Comporti, La direttiva europea “MiFID”: le principali innovazioni, in Dir. banc., 2007, II, p. 57; Carozzi, Il metodo Lamfalussy: regole e vigilanza del mercato finanziario europeo (opportunità, limiti, nuove soluzioni), Roma, 2007; Pichler, Profili teorici e di regolamentazione dei sistemi finanziari, Milano, 2005; De Mari, La consulenza in materia di investimenti: prime valutazioni e problemi applicativi, in Dir. banc., 2008, pp. 396-397. 20 Cfr., ad esempio, l’art. 4 della direttiva 2006/73/CE. 21 Si è parlato, al proposito (Brescia Morra, Adeguatezza, appropriatezza e mera esecuzione di ordini, in L’attuazione della MiFID in Italia, a cura di D’Apice, Bologna, 2010, pp. 521 s.), di un passaggio da una normativa di princípi (standards) ad una di regole puntuali (rules).

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D’altro canto, secondo una tendenza solo apparentemente antitetica, si è assistito ad un sensibile spostamento da una disciplina basata sulla formulazione di regole di carattere specifico (rules-based regulation o “per precetti”), di matrice statunitense ma anche propria dell’Europa continentale, ad una disciplina basata prevalentemente sull’indicazione di princípi di carattere generale (principles-based regulation o “per princípi”), tradizionalmente praticata dalle autorità britanniche. Se è vero che la disciplina europea appare più puntuale, d’altro canto ciò appare per così dire compensato dalla presenza di norme che lasciano agli intermediari ampia libertà - pur “controllata”, come vedremo - di autorganizzazione22. Potremmo quindi sostenere, da questo secondo punto di vista, che l’etero-regolamentazione tende a lasciare il passo alla auto-regolamentazione, per quanto entrambe le strategie normative spesso coesistano. In conseguenza di questo nuovo approccio (che nel prosieguo definiamo come “principles-based regulation” o “normazione per princípi”), agli intermediari è consentito scegliere le soluzioni organizzative più opportune nel rispetto dei “paletti” eretti (per meglio dire: delle finalità poste) dalla legge e dai regolamenti attuativi, ed alle autorità di settore di valutare la conformità di modelli alternativi adottati dagli operatori, con evidenti riflessi sulla competitività e stabilità del sistema bancario, finanziario ed assicurativo23.

22

La stessa dottrina che rileva il passaggio da standards a rules osserva anche che (Brescia Morra, Adeguatezza, appropriatezza, cit., p. 520) «le nuove disposizioni intervengono in maniera più incisiva rispetto al passato sulla determinazione dei criteri di diligenza degli operatori. Si tratta sempre di norme di comportamento, ma ai fini della verifica del loro rispetto assume un rilievo centrale l’organizzazione dell’impresa». E ancora (Ibidem, p. 521): «la rilevanza degli assetti organizzativi ai fini del rispetto delle disposizioni a tutela degli investitori è dimostrata in maniera ancora più accentuata nelle regole sul conflitto di interessi. La normativa comunitaria riduce gli obblighi informativi su questo aspetto, puntando su una tutela affidata, in misura maggiore rispetto al passato, sull’organizzazione dell’intermediario per individuare ogni situazione di conflitto ed evitare che tale situazione comporti una operatività non indipendente in danno dei clienti». 23 In sede internazionale il dibattito tra rules-based regulation e principles-based regulation mette sovente a confronto rispettivamente la posizione delle autorità statunitensi, per un verso, ed inglesi, per l’altro, anche con riferimento alle conseguenze dei diversi approcci di regolamentazione sul grado di competitività di mercati finanziari concorrenti. Sul punto v. Saccomanni, Il ruolo delle autorità nella regolazione della finanza, Quaderno n. 236, Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa, 2007, p. 35 e Onado, in Onado, Calabrò, Saccomanni, Il ruolo delle Autorità nella regolazione

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Gli interventi normativi si ispirano dunque ai princípi ed alle logiche della better regulation, essendo preceduti: da una fase di consultazione e confronto con gli intermediari; da un’analisi di impatto, volta a misurarne costi e benefici; da un’indicazione della motivazione alla base delle scelte effettuate24. È opinione comune tra gli esponenti delle autorità che il passaggio alla principles-based regulation ed alla logica della proporzionalità minimizzi i costi di adeguamento degli operatori alle novità normative e favorisca l’azione della vigilanza25. In un contesto di mercato molto dinamico e globalizzato, caratterizzato da forte innovazione e competitività, il modello di regolamentazione principles-based appare premiante, in linea di principio, sia per il regulator, che evita la rincorsa affannosa delle regole di dettaglio sul fenomeno economico, che per l’intermediario, che può ritagliare la norma di comportamento sulle proprie caratteristiche, evitando vincoli eccessivi quando le scelte in termini di attività e prodotto non li rendono necessari. In realtà, per quanto molto declamati, i vantaggi della principlesbased regulation e della proporzionalità non sono di immediata percezione e, soprattutto, di facile ottenimento: come è stato notato, un approccio rules-based pone i soggetti vigilati di fronte ad obblighi relativamente chiari, rispetto ai quali essi sono nella gran parte dei casi capaci di valutare il grado di compliance26. Anche il ruolo delle autorità

della finanza, in Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa, quaderno n. 236/2007, pp. 11-12. 24 Tarantola, La funzione di compliance nei sistemi di governo e controllo delle imprese bancarie e finanziarie, intervento al workshop Il ruolo del sistema dei controlli nella gestione del rischio di conformità negli istituti finanziari, Cetif – Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 4 ottobre 2007, p. 6 e Saccomanni, inIl ruolo delle Autorità nella regolazione della finanza, a cura di Onado, Calabrò, Saccomanni, in Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa, quaderno n. 236/2007, pp. 38 ss. 25 Boccuzzi, La funzione di compliance: il presidio dei rischi aziendali e l’evoluzione della normativa Basilea 2 e MiFID, in Banc., n. 2, 2008, p. 40; Saccomanni, Il ruolo delle Autorità, cit., p. 37. 26 La dottrina (Perrone, Obblighi di informazione, Suitability e conflitti di interesse: un’analisi critica degli orientamenti giurisprudenziali e un confronto con la nuova disciplina MiFID, in I soldi degli altri. Servizi di investimento e regole di comportamento degli intermediari, a cura di Perrone, Milano, 2008, p. 3) ha osservato che la strategia normativa può difettare nella calibrazione, consentendo così condotte indesiderabili (underinclusion) o ostacolare comportamenti desiderabili (overinclusion). Sul tema si veda, tra gli altri, anche Kaplow, Rules Versus Standard: An Economic Analysis, in Duke

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appare più lineare e definibile, trattandosi di verificare il rispetto delle regole - stabilite ex ante e rese pubbliche - da parte dei soggetti vigilati27. Al contrario, nella regolamentazione principles-based i soggetti vigilati sono tenuti, appunto, a rispettare il “principio”, senza chiare regole da seguire ma usufruendo di “libertà controllata” di organizzazione, con il vincolo del raggiungimento dell’obiettivo stabilito dalla regolamentazione: va da sé che la percezione del grado di compliance raggiunto con la soluzione adottata è connotata da soggettività ed incertezza, tanto più forte quanto più generici sono i princípi stabiliti e difficili gli obiettivi da raggiungere28. Parallelamente, il compito dell’autorità è caratterizzato da una maggiore discrezionalità di giudizio, poiché si tratta di valutare se la soluzione in concreto adottata dal singolo intermediario, in termini di assetto organizzativo e controlli interni, sia effettivamente tale da configurare il sostanziale rispetto del principio stabilito dalle norme29.

Law Review, 42, 1999, pp. 579 ss. e Sullivan, The Justice of Rules and Standards, in Harvard Law Review, 106, 1992, pp. 63 ss.. 27 Saccomanni, Il ruolo delle Autorità, cit., p. 36. 28 Si è sottolineato (Perrone, Obblighi di informazione, cit., p. 4), al proposito, che «all’evidenza capaci di tener conto di elementi troppo variabili per essere incorporati in una rule, gli standards non consentono, di contro, una conoscenza del regime giuridico applicabile dotata di sufficiente precisione ex ante, fermi peraltro i temperamenti che possono derivare dalla presenza di un significativo corpus di precedenti giurisprudenziali». Nello stesso senso anche Capriglione, I «prodotti» di un sistema finanziario evoluto. Quali regole per le banche? (Riflessioni a margine della crisi causata dai mutui sub-prime), in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, pp. 20 ss. e Siclari, Crisi dei mercati finanziari, vigilanza, regolamentazione, in riv. trim. dir. pubbl., n. 1, 2009, p. 45 ss. 29 V. ancora Saccomanni, Il ruolo delle Autorità, cit., pp. 36-37 e Falcone, La “compliance” nell’attività bancaria e nei servizi di investimento, in Dir. banc., 2008, p. 228, che osserva: «La rinuncia, da parte del regulator, alla specificazione dei processi interni comporta di certo da un lato, una maggiore autonomia organizzativa in capo all’intermediario: ma lo lascia, al contempo, sostanzialmente privo di “replica” rispetto alla valutazione di adeguatezza successivamente operata dall’autorità di vigilanza, il che si traduce, in ultima analisi, in un sostanziale aumento dell’area di discrezionalità facente capo a quest’ultima». Nello stesso senso anche Galmarini e Lamandini, Il valore aziendale della compliance alle regole e la funzione di controllo di conformità alle norme, in Strumenti finanziari e regole MiFID, a cura di Del Bene, Milano, 2009, p. 508, che affermano che «questo più flessibile approccio – nel mentre diminuisce la certezza del diritto e aumenta i rischi di “involontaria” inosservanza della banca, dovuta ad una attuazione nello specifico caso del principio generale che ex post possa risultare non conforme a quanto atteso dall’Autorità di vigilanza o prescelto dal giudice (in sede di eventuale valutazione contenziosa) – favorisce l’affermarsi di regole di protezione dell’investitore e del cliente bancario ispirate alla prevalenza della sostanza (l’effettivo conseguimento dell’obiettivo di protezione perseguito) sulla forma (il formale ossequio a regole procedurali date)».

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Per contemperare l’aumento di discrezionalità dell’autorità con le esigenze di certezza del diritto auspicate dagli operatori il modello principles-based regulation prevede, nella fase di produzione normativa, la ricerca della chiarezza e della semplicità delle regole, nonché un allineamento delle stesse sulle best practices degli intermediari, mediante fasi di consultazione, analisi di costi ed impatti delle norme, trasparenza nelle motivazioni delle scelte30. Nella successiva fase di verifica degli adeguamenti e di enforcement il modello non può prescindere, anche al fine di limitare fenomeni di moral hazard da parte dei soggetti vigilati, da un’elevata trasparenza delle valutazioni dell’autorità sul rispetto dei princípi da parte degli intermediari nei singoli casi concreti sottoposti a verifica.

3. Gli effetti ipertrofici della crisi finanziaria sulla regolazione e supervisione bancaria. La scelta del legislatore europeo post-crisi di predisporre un corpus normativo unico ed uniforme per tutte le banche – nella logica del “one size fits all” – con riferimento a temi cruciali, quali l’adeguatezza patrimoniale, la liquidità, la governance, i controlli, la gestione delle crisi, ha costretto le banche minori a confrontarsi con una disciplina particolarmente ampia e complessa e le autorità di vigilanza ad azionare con maggiore attenzione, ove consentito, la leva della proporzionalità, al fine di evitare impatti squilibrati sugli operatori. In generale, CRR e CRD IV sono applicabili a tutte le banche autorizzate in uno Stato Membro, indipendentemente dalla loro dimensione, attività, rischiosità. L’art. 1 CRR definisce il perimetro soggettivo dei requisiti prudenziali richiesti alle banche, uniformando espressamente il loro trattamento in merito alla disciplina dei fondi propri (compresi gli elementi di rischio di credito, di mercato, operativo e di regolamento), dei limiti ai grandi fidi,

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Saccomanni, Il ruolo delle Autorità, cit., p. 38, secondo il quale le autorità di vigilanza sono chiamate a reimpostare le proprie relazioni con il sistema finanziario, spostandosi sempre più dalla verifica del rispetto formale della norma alla codificazione di best practices. Sul punto v. ampiamente Alberici, Le condizioni di efficienza per l’attività di compliance nelle banche: l’importanza dell’autonomia e dell’indipendenza, in Banc., n. 2, 2008, pp. 24-25, che ha sostenuto la necessità della Banca d’Italia di porsi come «certificatore di prassi e di modelli di comportamento condivisi con gli intermediari sulla scorta di princípi universalmente accettati».

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dei requisiti di liquidità (compresi gli elementi del rischio di liquidità) degli obblighi di segnalazione verso le autorità e di informativa verso il pubblico. È da notare che oltre alle regole sul capitale, viene richiesto il rispetto dei vincoli di leva31 e degli standard di liquidità. Vengono introdotte regole di corporate governance e resi cogenti processi di valutazione interna del capitale (ICAAP) e della liquidità (ILAAP), nell’ambito di un processo generale di supervisione (SREP). Nel complesso si tratta di un ampliamento particolarmente significativo delle regole fissate per l’esercizio dell’attività bancaria, dettate da esigenze di salvaguardia del sistema finanziario e di rafforzamento della sua resilienza in caso di eventi negativi. Il framework disegnato da CRR e CRD IV e, nel complesso, dal Single Rule Book (ove sono ricompresi svariate decine di standard tecnici vincolanti e linee guida emanate dall’EBA) risulta senza dubbio tarato sulle caratteristiche delle banche di maggiori dimensioni. Trovando applicazione indistintamente su tutte le banche europee, il legislatore europeo non ha potuto evitare di predisporre strumenti e vincoli adeguati al raggiungimento degli obiettivi di tutela dell’interesse pubblico con riferimento agli intermediari a rilevanza sistemica o quasi-sistemica, dato il loro significativo contributo all’instabilità intrinseca del sistema finanziario32. Occorre chiedersi, dunque, se la risposta regolamentare post-crisi sia stata formulata nel rispetto dei criteri di proporzionalità previsti dal Trattato, ovvero, al contrario, sia rilevabile un “eccesso di azione” rispetto a quanto necessario per il conseguimento dei fini posti. Nella nuova disciplina non mancano, a dire il vero, richiami al principio di proporzionalità. In punto di regolazione, nel considerando 46 del CRR si afferma che, in generale, le disposizioni rispettano il principio di proporzionalità «con riguardo in particolare alla diversità degli enti in termini di dimensioni e portata delle operazioni e di gamma delle attività». Parimenti, si ricorda che il medesimo criterio deve informare la normativa emanata da Stati

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Cfr. art. 429 ss. CRR. Sulla tendenza endogena verso l’instabilità delle moderne economie finanziarie e sul contributo delle banche a tale instabilità cfr. Minsky, The financial instability hypothesis: capitalist processes and the behavior of economy, in Financial crisis: theory, history and policy, a cura di Kindleberger – Laffargue, Cambridge 1982; Minsky, Stabilizing an unstable economy, Yale, 1986. 32

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membri, Commissione ed EBA. Nel considerando 104 della CRD IV si riprende infine il principio di cui all’art. 5 del Trattato, sostenendo che la direttiva «si limita a quanto è necessario per conseguire [tali] obiettivi in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo». Il nuovo framework normativo europeo richiama altresì il principio di proporzionalità nell’esercizio dell’attività di supervisione da parte delle autorità competenti33. Nel considerando 128 del CRR si assegna a Commissione ed EBA il compito di garantire che le norme tecniche di regolamentazione e i requisiti da esse richiesti possano essere applicati da tutti gli enti interessati «in maniera proporzionale alla natura, all’ampiezza e alla complessità di tali enti e delle loro attività»34. Nell’ambito del Single Supervisory Mechanism, inoltre, è previsto che la BCE eserciti i propri poteri di vigilanza nel modo più possibile efficace e proporzionato35. Il principio di proporzionalità è menzionato espressamente in relazione agli obblighi di segnalazione36, alle metodologie di rischio per l’impatto nei fondi propri di opzioni e warrant37 nonché delle posizioni in valuta estera38, ai formati relativi alle informazioni sulle grandi esposizioni39 e sulla liquidità40, alle politiche di remunerazione41, alle misure cautelative in caso di inosservanza delle disposizioni da parte di un intermediario operante in altro Stato membro42, alle sanzioni amministrati-

33

Su un piano più generale, va ricordato che il principio di proporzionalità offre all’interprete (in questo caso, l’autorità di vigilanza) un criterio per la lettura del dato normativo, posto che «la disciplina applicabile a un fatto o a un atto di autonomia dipende non tanto da mere classificazioni astratte, ma piuttosto dal controllo di adeguatezza della normativa al fatto concreto e allo specifico regolamento di interessi» (così Perlingieri, L’attualità del “Discorso preliminare” di Portalis. A proposito dei “miti” della certezza del diritto e della c.d. “crisi” della fattispecie, in Principi, regole, interpretazione. Contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, a cura di Conte e Landini, Napoli, 2018, p. 335). 34 Medesima affermazione si rinviene nel considerando 92 CRD IV. 35 Cfr. Regolamento (UE) n. 1024/2013 del 15 ottobre 2013, considerando 55. 36 Cfr. art. 99 CRR. 37 Cfr. artt. 329 e 358 CRR. 38 Cfr. art. 352 CRR. 39 Cfr. art. 394 CRR. 40 Cfr. art. 415 CRR. 41 Cfr. considerando 66 e art. 74 CRD IV. 42 Cfr. art. 43 CRD IV.

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ve43, al processo di valutazione dell’adeguatezza del capitale interno44, ai dispositivi di governance e di controllo interno45, ai piani di risanamento e di risoluzione46, a strategie, processi e sistemi di gestione del rischio di liquidità47, a frequenza e intensità del processo di revisione e valutazione prudenziale48, alla riserva di capitale prevista per gli enti a rilevanza sistemica a fronte dell’importo complessivo dell’esposizione di rischio49 e del rischio sistemico50. Una particolare accezione del principio di proporzionalità nella regolazione è infine rappresentata dal criterio di modularità, che guida l’applicazione dei requisiti prudenziali fissati da CRR e CRD IV. In estrema sintesi, ciò significa che l’obbligatorietà di determinati presidi scatta laddove la banca eserciti attività da cui, in concreto, conseguano i rischi che detti presidi sono diretti a mitigare51.

4. La proporzionalità nel nuovo ordinamento delle banche, tra dichiarazione d’intenti e realtà. Non vi è dubbio, quindi, che nella nuova disciplina bancaria europea esista una diffusa enunciazione della possibilità da parte delle autorità di vigilanza di applicare il principio di proporzionalità. Ciò nondimeno, tale criterio ricorre con riferimento a requisiti piuttosto marginali, in quanto ad impatto concreto sugli obblighi complessivi a carico degli intermediari, e lascia sostanzialmente inalterato il quadro regolamentare scaturito dal recepimento dei principi dell’accordo di Basilea III, a suo tempo progettato per le banche di maggiori dimensioni e ad operatività internazionale52.

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Cfr. art. 65 CRD IV. Cfr. art. 73 CRD IV. 45 Cfr. artt. 74 e 76 CRD IV. 46 Cfr. art. 74 CRD IV. 47 Cfr. art. 86 CRD IV. 48 Cfr. art. 97 CRD IV. 49 Cfr. art. 131 CRD IV. 50 Cfr. art. 133 CRD IV. 51 Commissione Europea, Impact Assessment CRR2, CRD5, SRMR2 and BRRD2, Commission Staff Working Document, 23 November 2016 (SWD(2016) 377 final/2), p. 24. 52 Come ha sostenuto Antonucci (Despecializzazione, cit., pp. 250 ss.) negli anni successivi alla CRD IV «(…) s’apre uno scenario di carico regolamentare non efficientemente valutabile e di micro-vigilati le cui energie e risorse vengono riversate nella formale 44

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Per quel che concerne l’esercizio dei poteri di vigilanza, le autorità competenti sono chiamate ad applicare il diritto bancario europeo secondo il criterio della proporzionalità. D’altra parte, la scelta del legislatore europeo di imporre un corpus unico di norme alle banche per non alterare il gioco della concorrenza paneuropeo ha di molto circoscritto gli ambiti nei quali le autorità possono concretamente esercitare la propria discrezionalità, limitando così la possibilità di modellare gli obblighi sulla base della dimensione, della complessità e del business del soggetto vigilato53. In contrasto con la tendenza formatasi dopo gli anni novanta, CRR e CRD IV si distaccano infatti dal modello principles based regulation e si caratterizzano per la presenza di una vasta gamma di precetti anelastici, di uniforme applicazione a qualsiasi banca. Preoccupato dall’esigenza di dare una risposta regolamentare forte alla crisi finanziaria, il regolatore sovranazionale ha ritenuto necessario elevare per tutti l’asticella degli obblighi, provocando un implicito svantaggio competitivo per gli intermediari minori, gravati dai maggiori costi amministrativi e di compliance derivanti da regole prudenziali molto più complesse e, nel contempo, esclusi dalle economie di scala delle quali possono invece fruire gli operatori di grandi dimensioni54. Occorre altresì considerare, al proposito, che le piccole banche non possono di fatto sfruttare le metodologie di calcolo basate sui modelli

osservanza di una normativa megalitica, il cui peso è palesemente in relazione inversa rispetto alla dimensione (esistendo comunque un consistente zoccolo duro non erodibile dalla proporzionalità, quale che ne sia l’applicazione)». 53 È stato argutamente osservato (Tarullo, Rethinking the Aims of Prudential Regulation, Remarks at the Federal Reserve Bank of Chicago Bank Structure Conference Chicago, 8 May 2014, p. 11) che «even where regulatory frameworks try to place a lesser burden on smaller banks, there may be some risk of “supervisory trickle down,” whereby supervisors informally, and perhaps not wholly intentionally, create compliance expectations for smaller banks that resemble expectations created for larger institutions». 54 Così anche Commissione Europea, Impact Assessment, cit., p. 28. In dottrina cfr., tra gli altri, Alessandrini, Fratianni, Papi, Zazzaro, The Asymmetric Burden of Regulation: Will Local Banks Survive?, in The Italian Banks: Which Will Be the “New Normal”?, 2016 Report on the Italian Financial System, a cura di Bracchi, Filotto, Masciandaro, Roma, 2016;. Dahl, Meyer, Neely, Scale Matters: Community Banks and Compliance Costs, in The Regional Economist, Federal Reserve Bank of St Louis, July 2016, pp. 1 ss.; Dombret, Sometimes Small is Beautiful, and Less is More; a Small Banking Box in EU Banking Regulation, speech given at the Representation of the State of Hessen to the European Union, Brussels, October 2017; Schenkel, Proportionality of Banking Regulation - Evidence from Germany, University of Muenster, Institute for Cooperative Research, 2017, p. 10.

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interni per il rischio di credito e operativo: lo sviluppo di modelli interni, il processo di validazione degli stessi da parte delle autorità di vigilanza e la manutenzione dei suddetti modelli richiedono massicci investimenti e, di conseguenza, costi che solo le banche di maggiori dimensioni possono permettersi. Per tale motivo, la grande maggioranza delle banche europee utilizza modelli standardizzati (basati su rating esterni, ove esistenti) per la quantificazione dei suddetti rischi55. In considerazione del fatto che i modelli interni consentono una migliore quantificazione di rischi e, quindi, ceteris paribus, un minor assorbimento di patrimonio, ne consegue un vantaggio competitivo di natura regolamentare per le grandi banche56. Un ulteriore elemento critico è rappresentato dalle nuove regole in ordine alla composizione qualitativa del patrimonio di vigilanza. Nel fissare requisiti più stringenti e complessi57 per la determinazione del capitale primario, il CRR toglie rilevanza al capitale Tier 3, abbassa i limiti assoluti del capitale Tier II e consente, come capitale primario supplementare, l’utilizzo di obbligazioni strutturate complesse (contingent convertible bonds) che, in concreto, sono collocabili sul mercato finanziario solo da poche banche di grandi dimensioni, i cui titoli sono appetibili dagli investitori istituzionali. Sul punto si consideri infatti che, in vari paesi (tra cui l’Italia), le autorità di vigilanza ostacolano il collocamento di obbligazioni subordinate presso gli investitori retail, in quanto, anche a seguito dell’introduzione della BRRD e del bail-in, si ritiene che tali strumenti finanziari non siano per essi adatti58.

55 Joosen, Lamandini, Lehmann, Lieverse, Tirado, Stability, Flexibility and Proportionality: Towards a Two-Tiered European Banking Law? (February 21, 2018). European Banking Institute Working Paper Series, 2018 - no. 20, p. 8, in ssrn.com/abstract=3128304. 56 Non mancano voci critiche sull’efficacia dei modelli interni, tanto da ritenersi necessaria una riforma dell’accordo di Basilea che preveda: la rimozione dell’uso dei sistemi avanzati per certe classi di credito, quali le esposizioni nei confronti di aziende medie e grandi, banche e altre istituzioni finanziarie; la fissazione di parametri minimi per il calcolo delle attività ponderate per il rischio (RWA); l’introduzione di parametri addizionali per ridurre la variabilità ingiustificata delle attività ponderate per il rischio; l’eliminazione della possibilità di utilizzare modelli interni (c.d. AMA) per il calcolo dei requisiti patrimoniali a fronte del rischio operativo. Sul punto cfr. Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria, Basel III: Finalising post-crisis reforms, December 2017. 57 Le regole sono inserite nella Parte II del CRR, che annovera oltre 65 articoli. 58 Per ulteriori osservazioni in argomento si consenta il rinvio a Greco, La tutela del risparmiatore alla luce della nuova disciplina di «risoluzione» delle banche, in Banca, impresa, soc., n. 1, 2016, pp. 77 ss.

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In merito al terzo Pilastro, ossia agli obblighi di informativa al pubblico, non sussiste alcuna deroga o alleggerimento regolamentare specifico per le banche di minori dimensioni. L’intermediario può valutare se una determinata informazione è rilevante, ai fini della comunicazione59, ma nessuna differenza sul punto è tracciata con riguardo alla dimensione, complessità o rischio intrinseco delle banche. Anche con riferimento alla frequenza dell’informazione periodica è fissato un termine minimo comune, coincidente con la data di pubblicazione del bilancio, e altrettanto comune è l’obbligo di valutare se vi siano i presupposti per informative infra-annuali, sulla base delle principali caratteristiche del business. Va da sé che, anche in questo caso, le banche più grandi trovino vantaggio in ragione della maggiore disponibilità di staff e competenze60. Con riferimento al secondo Pilastro, la CRD IV e le linee guida dell’EBA in materia di metodologia e prassi del processo di revisione e valutazione prudenziale61 (SREP) danno attuazione maggiormente puntuale al principio di proporzionalità prevedendo, tra l’altro, una suddivisione delle banche in quattro categorie62, sulla scorta della loro importanza sistemica e dell’entità delle attività transfrontaliere, da cui dipendono frequenza ed intensità degli assessment periodici. In concreto, però, le

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Cfr. art. 432 ss. CRR. Joosen, Lamandini, Lehmann, Lieverse, Tirado, Stability, cit., p. 11. 61 EBA, Guidelines on common procedures and methodologies for the supervisory review and evaluation process (SREP) and supervisory stress testing, 19 luglio 2018. 62 Secondo la suddivisione operata dall’EBA, nella prima categoria rientrano le istituzioni a rilevanza sistemica globale (G-SIIs) e le altre istituzioni a rilevanza sistemica (O-SIIs), nonché altre banche, sulla scorta delle determinazioni delle autorità competenti, in ragione di una valutazione circa la loro dimensione e organizzazione interna nonché la natura, ampiezza e complessità delle loro attività. Nella seconda categoria rientrano le istituzioni medie e grandi diverse da quelle di cui alla categoria 1 che operano su base domestica o con considerevoli attività transfrontaliere, con diverse linee di business, incluse attività non bancarie, e offerta di credito e prodotti finanziari per la vendita al dettaglio e clienti corporate. Vi rientrano altresì istituzioni specializzate non sistemicamente importanti con quote di mercato significative nei loro settori di attività o su sistemi di pagamento o scambi finanziari. Nella terza categoria trovano posto istituti di piccole e medie dimensioni che non si hanno i requisiti per appartenere alle categorie 1 o 2, operanti a livello nazionale o con operazioni transfrontaliere non significative, in un numero limitato di linee di business, offrendo prevalentemente prodotti di credito a clienti al dettaglio e corporate, con un’offerta limitata di prodotti finanziari. Vi rientrano altresì istituzioni specializzate con quote di mercato meno significative nelle loro linee di business o nei sistemi di pagamento o scambi finanziari. Nella quarta categoria sono classificate tutte le altre piccole istituzioni domestiche non complesse che non rientrano nelle categorie da 1 a 3, in quanto, ad esempio, con una portata limitata di attività e quote di mercato non significative nelle loro linee di business. 60

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piccole banche domestiche non complesse, appartenenti alla categoria 4, sono soggette ai medesimi obblighi previsti per le banche sistemiche, variando solo, in alcuni casi, la periodicità della valutazione di tutti gli elementi dello SREP e le modalità del dialogo con i supervisori63. La metodologia della classificazione delle banche in categorie è adottata anche con riferimento alle regole di governo societario64, alle politiche

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EBA, Guidelines on common procedures, cit., pp. 34 ss. Nessuna differenza sussiste, invece, con riferimento al monitoraggio dei fattori chiave (annuale) e ed alla sintesi sulla valutazione complessiva dello SREP (annuale). 64 Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza per le banche. Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, Parte Prima, Titolo IV, Capitolo 1. In conformità della CRD IV e degli artt. 53, 56 e 67 t.u.b. ai fini dell’applicazione delle regole di governo societario le banche vengono distinte in tre categorie: - banche di maggiori dimensioni o complessità operativa: i) le banche considerate significative ai sensi dell’art. 6, par. 4 del Regolamento (UE) n. 1024/2013 che attribuisce alla Banca centrale europea compiti specifici in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi; ii) le banche quotate; iii) le banche che si sono collocate in tale categoria in esito al processo di valutazione di cui al par. 4.1 di questa sezione; - banche di minori dimensioni o complessità operativa: le banche con un attivo pari o inferiore a 3,5 miliardi di euro, fatto salvo l’esito della valutazione di cui al par. 4.1 di questa sezione; - banche intermedie: le banche con un attivo compreso tra i 3,5 miliardi di euro ed i 30 miliardi di euro, fatto salvo l’esito della valutazione di cui al par. 4.1 di questa sezione. Se la banca ritiene che i criteri indicati alle lettere a), b) e c) non siano sufficientemente significativi per l’attribuzione a una delle tre categorie, vengono in rilievo i seguenti criteri: - tipologia di attività svolta (ad esempio, le banche con strategie orientate verso determinati settori di attività, come quello della gestione del risparmio o della negoziazione per conto proprio o in conto terzi, configurano, in molti casi, ipotesi di complessità operativa/organizzativa); - struttura proprietaria dell’intermediario (il controllo totalitario da parte di un intermediario estero potrebbe, in talune circostanze, configurare condizioni di limitata complessità operativa/organizzativa; strutture proprietarie caratterizzate dalla presenza di rilevanti interessi di minoranza potrebbero, invece, richiedere l’adozione di assetti di governance complessi dal punto di vista operativo/organizzativo); - appartenenza ad un gruppo bancario (banche facenti parte di gruppi, operative in comparti finanziari tradizionali e che ricorrono ai servizi offerti dalla capogruppo o da altre componenti il gruppo, sono, di regola, caratterizzate da un limitato grado di complessità operativa/organizzativa); - appartenenza ad un network operativo (l’utilizzo di servizi e infrastrutture offerti da organismi di categoria potrebbe configurare condizioni di limitata complessità operativa/ organizzativa). In ogni caso le banche significative ai sensi dell’art. 6, par. 4, del Regolamento (UE) n. 1024/2013 e le banche quotate sono sempre considerate di maggiori dimensioni o complessità operativa.

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e prassi di remunerazione e incentivazione65, ai processi ICAAP e ILAAP66

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Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza per le banche. Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, Parte Prima, Titolo IV, Capitolo 2. Le banche sono divise in tre categorie: - “Banche di maggiori dimensioni o complessità operativa”: le banche considerate significative ai sensi dell’art. 6(4) dell’RMVU; - “Banche di minori dimensioni o complessità operativa”: le banche con attivo di bilancio pari o inferiore a 3,5 miliardi di euro, che non siano considerate significative ai sensi dell’art. 6(4) dell’RMVU; - “Banche intermedie”: le banche con attivo di bilancio compreso tra 3,5 e 30 miliardi di euro, che non siano considerate significative ai sensi dell’art. 6(4) dell’RMVU e le banche che fanno parte di un gruppo bancario con attivo di bilancio consolidato compreso tra 3,5 e 30 miliardi di euro. In applicazione del criterio di proporzionalità, le banche definiscono politiche di remunerazione e incentivazione, nel rispetto delle presenti disposizioni, tenendo conto delle caratteristiche e dimensioni nonché della rischiosità e della complessità dell’attività svolta, anche con riguardo all’eventuale gruppo di appartenenza. A titolo esemplificativo, rilevano quali indici di proporzionalità: la dimensione degli attivi, che rappresenta il punto di partenza della classificazione in tre categorie di banche; la gestione del risparmio, l’investment banking, la negoziazione per conto proprio o in conto terzi, che potrebbero configurare un esempio di attività svolta da cui discende complessità operativa/ organizzativa; la struttura proprietaria, che potrebbe, in talune circostanze, configurare condizioni di limitata complessità operativa/organizzativa (es. controllo totalitario da parte di un intermediario estero); la quotazione su mercati regolamentati; l’appartenenza a un gruppo bancario, da cui potrebbe discendere – avuto sempre riguardo alla tipologia di attività svolta – un limitato grado di complessità operativa/organizzativa; l’appartenenza a un network operativo, che potrebbe consentire una struttura organizzativa più snella e di minori dimensioni/complessità (es. utilizzo di servizi e infrastrutture offerte da organismi di categoria). 66 Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza per le banche. Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, Parte Prima, Titolo III, Capitolo 1. Ai fini del processo di valutazione aziendale dell’adeguatezza patrimoniale (ICAAP) e dell’adeguatezza del sistema di governo e gestione del rischio di liquidità (ILAAP), per facilitare la concreta attuazione del principio di proporzionalità, le banche e i gruppi bancari sono ripartiti in tre classi, che identificano, in linea di massima, banche e gruppi bancari di diverse dimensioni e complessità operativa. - Classe 1 - Banche e gruppi bancari che assumono la qualifica di ente a rilevanza sistemica a livello globale (Global Sistemically Important Institution – G-SII) e altro ente a rilevanza sistemica (Other Sistemically Important Institution – O-SII). - Classe 2 - Banche e gruppi bancari, diversi da G-SII e O-SII, autorizzati all’utilizzo di sistemi IRB per il calcolo dei requisiti a fronte del rischio di credito e controparte o del metodo AMA per il calcolo dei requisiti a fronte del rischio operativo o di modelli interni per la quantificazione dei requisiti sui rischi di mercato oppure con attivo, rispettivamente, individuale o consolidato superiore a 4 miliardi di euro. - Classe 3 - Banche e gruppi bancari e banche che utilizzano metodologie standardizzate, con attivo, rispettivamente, individuale o consolidato pari o inferiore a 4 miliardi di euro.

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ed alle riserve di capitale67, nonché in relazione alle modalità di esercizio dell’attività di vigilanza68.

67 Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza per le banche. Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, Parte Prima, Titolo II, Capitolo 1. Per quel che concerne le riserve di capitale, la normativa distingue tra: - “banche a rilevanza sistemica globale (global systemically important institutions – G-SII)”, a loro volta suddivise in almeno cinque sottocategorie; - “altre banche a rilevanza sistemica (other systemically important institutions – OSII)”; - “banca autorizzata a livello nazionale”. 68 Banca d’Italia, Guida per l’attività di vigilanza. Circolare n. 269 del 7 maggio 2008, Parte Prima, Sezione I, Capitolo I. Ai fini della declinazione del principio di proporzionalità, i soggetti vigilati sono ripartiti in cinque “macro-categorie” sulla base del totale attivo, del patrimonio gestito e dell’attività in servizi di investimento; limitatamente ai gruppi bancari la ripartizione in macro-categorie è definita unicamente con riferimento al totale attivo consolidato: 1. “intermediari con significativa presenza internazionale”: si tratta degli intermediari per i quali la componente di attivo attribuibile a entità estere è superiore al 10% del totale attivo consolidato. Possono essere ricondotti alla presente macro-categoria esclusivamente i gruppi bancari con totale attivo uguale o superiore a 20 miliardi di euro. in questa macro-categoria confluiscono alcuni degli intermediari della classe 1 ICAAP. 2. “intermediari a rilevanza sistemica nazionale”: soggetti diversi da quelli di cui al punto 1 – inclusi quelli controllati da intermediari con sede in un Paese estero – con totale attivo uguale o superiore a 20 miliardi di euro o autorizzati ad utilizzare sistemi interni di misurazione dei rischi per il calcolo dei requisiti patrimoniali (intermediari con “sistemi riconosciuti”); tali gruppi possono avere una presenza all’estero che tuttavia non configura le ipotesi di cui alla macro-categoria 1. In questa macro-categoria confluiscono intermediari della classe 1 e della classe 2 ICAAP. 3. “intermediari medio-grandi”: soggetti – non rientranti nelle macrocategorie 1 e 2 – per i quali ricorre almeno una delle seguenti condizioni: - totale attivo compreso tra 3,5 e 20 miliardi di euro; - patrimonio gestito superiore a 10 miliardi di euro; - controvalore annuo dei volumi di attività di negoziazione in conto proprio, in conto terzi, di collocamento, ricezione e trasmissione ordini e gestione di sistemi multilaterali di scambio superiore a 150 miliardi di euro (intermediari prevalentemente attivi nella negoziazione per conto proprio ovvero nell’intermediazione per conto terzi). Sono inclusi anche gli intermediari specializzati (SGR, SIM, intermediari finanziari e banche operanti in un determinato segmento di mercato) di maggiori dimensioni. In questa macro-categoria confluiscono gli intermediari della classe 2 ICAAP non compresi nella macrocategoria 3; 4. “intermediari minori”: soggetti – non rientranti nelle precedenti macrocategorie – per i quali sono verificate tutte le seguenti condizioni: - totale attivo pari o inferiore a 3,5 miliardi di euro; - patrimonio gestito pari o inferiore a 10 miliardi di euro; - controvalore annuo dei volumi di attività di negoziazione pari o inferiore a 150

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Per quanto, dunque, siano individuate tematiche rispetto alle quali la regolazione è espressamente graduata sulla base di caratteristiche qualiquantitative degli intermediari, occorre notare, in primo luogo, che le categorie nelle quali sono divise le banche per le finalità di cui alle predette regole sono diverse tra loro e a quanto previsto per lo SREP, tanto per numero, quanto, soprattutto, per criteri di allocazione. Per lo SREP abbiamo già richiamato la presenza di quattro categorie. Con riferimento a corporate governance e meccanismi retributivi le banche sono divise in tre categorie sostanzialmente analoghe, per le quali hanno principalmente rilievo le dimensioni delle banche, con impatto secondario per le caratteristiche qualitative, in funzione di eventuali “slittamenti” in una categoria diversa da quella prevista sulla base del criterio dimensionale. Anche per ICAAP e ILAAP sono previste tre categorie, elaborate con criteri dimensionali diversi da quelle appena ricordate e caratterizzate dall’adozione o meno di metodologie standardizzate per il calcolo del rischio. In merito alle riserve di capitale, le categorie individuate sono ancora tre, di cui la terza residuale rispetto a quelle delle banche a rilevanza sistemica globale e delle altre banche a rilevanza sistemica. Infine, per quel che concerne l’approccio di vigilanza, sono previste cinque categorie, le prime quattro delle quali relative alle banche. Tra queste ultime sono distribuite in modo disomogeneo le banche appartenenti alle tre categorie ICAP/ILAAP. Appare evidente che, nell’attuale disciplina, l’applicazione del principio di proporzionalità non prevede, se non parzialmente, la suddi-

miliardi di euro. Sono intermediari operanti prevalentemente in ambito provinciale e inter-provinciale. Sono inclusi anche gli intermediari specializzati di minori dimensioni. Gli intermediari della specie rientrano nella classe 3 ICAAP. 5. soggetti sottoposti a regolamentazione particolare. Si tratta di soggetti – non ricompresi nelle precedenti macro-categorie – tra cui rilevano gli IMEL, gli Istituti di Pagamento, le SIM indicate nella nota 3, i confidi minori, gli operatori del microcredito e le filiali di banche estere comunitarie ma non ricomprese nell’area dell’Euro. Le SGR, pur se assoggettate a una regolamentazione prudenziale diversa da quella fondata su tre pilastri, sono ripartite, a fini di analisi, tra le macro-categorie 3 e 4 in funzione della dimensione. Gli intermediari finanziari, così come definiti a seguito del d.lgs. n. 141/2010, gli IMEL e gli Istituti di pagamento iscritti nell’albo unico non rientrano nella presente macro-categoria ma sono ripartiti anch’essi tra le macro-categorie precedenti in funzione della dimensione.

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visione dei soggetti vigilati in categorie e, anche quando ciò succede, si riscontrano criteri disomogenei e non rispondenti ad un approccio sistematico69. Insomma, la regolamentazione europea e nazionale delle banche è e rimane comunque unitaria, a prescindere dalle dimensioni e dalle caratteristiche qualitative dell’organizzazione e del business: le categorie non corrispondono a regimi regolatori differenziati ma giustificano l’eventuale disapplicazione parziale delle regole comuni al settore bancario70. La disciplina delle banche più piccole e meno complesse viene dunque, al più, costruita “per sottrazione” rispetto a quanto previsto per le banche di grandi dimensioni. Parallelamente, le banche di rilevanza sistemica vengono assoggettate a requisiti addizionali, peraltro incentrati sui profili patrimoniali, in assenza di sostanziali salti qualitativi nella struttura e nello stile di regolazione. Tale conclusione può dirsi confermata anche laddove, come nel caso della disciplina della corporate governance e delle remunerazioni, il regolatore ha declinato in modo più puntuale gli obblighi delle banche ricondotte alla seconda (banche intermedie) ed alla terza categoria (banche di minori dimensioni o complessità operativa). Circa la corporate governance, le banche della seconda e terza categoria possono evitare di costituire i comitati endo-consiliari in materia di nomine, rischi e remunerazioni e prevedere il “piano di rimpiazzo” per le cariche di vertice. In merito ai sistemi di remunerazione e incentivazione, il legislatore europeo afferma espressamente che essi dovrebbero riflettere le differenze tra i diversi enti, sostenendo in particolare che non sarebbe proporzionato imporre a determinati tipi di imprese di investimento di rispettare la totalità di tali princìpi71.

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In una recente ricerca sulle pratiche in uso presso varie giurisdizioni, il Comitato di Basilea (BIS, Proportionality in bank regulation and supervision - a survey on current practices, March 2019) ha accertato che, sebbene la maggioranza degli intervistati abbiano confermato l’applicazione di misure di proporzionalità, in molti casi tali misure sono applicate a banche che rappresentano una quota relativamente piccola del totale delle attività bancarie, in un contesto di ampia eterogeneità, sia per quel che concerne i criteri di ammissione alle misure che con riguardo al contenuto delle misure stesse. 70 Angeloni, Another look, cit. e Boss, Lederer, Mujic, Schwaiger, Proportionality in banking regulation, in Oesterreichische Nationalbank, Monetary Policy and Economy, Q2/18, pp. 51 ss. 71 Cfr. considerando 66 CRD IV.

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In estrema sintesi, mentre le banche di maggiori dimensioni o complessità operativa applicano l’intera disciplina, le banche intermedie fruiscono di una limitata deroga con riferimento alla composizione ed alle regole di differimento dei compensi variabili e i benefici pensionistici discrezionali72. Le banche di dimensioni minori godono di una deroga più ampia, in termini di personale impattato, rispetto a quella prevista per le banche intermedie. D’altro canto, per quanto svincolate da alcuni parametri rigidi sulla parte variabile, esse devono comunque garantire il rispetto di tutte le regole previste dalla disciplina, in modo tanto più rigoroso quanto più il personale assume rischi per la banca73. Se è vero dunque che nella regolamentazione di vigilanza esiste una diffusa ma generica enunciazione dell’applicazione del principio di proporzionalità, assai circoscritti sono i casi di declinazione puntuale del principio e l’ambito concreto di discrezionalità concesso alle autorità competenti.

72

Secondo quanto previsto da Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza per le banche. Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, Parte Prima, Titolo II, Capitolo 2, le disposizioni di cui alla Sezione III, par. 2.1, punti 3 e 4, e par. 2.2.1, si applicano al personale più rilevante, con percentuali e periodi di differimento e retention almeno pari alla metà di quelli ivi indicati e crescenti in funzione delle caratteristiche della banca o del gruppo bancario. La prossimità dimensionale di una banca intermedia alla fascia delle banche di maggiori dimensioni o complessità operativa si riflette nell’uso di parametri prossimi a quelli previsti per queste ultime. 73 Le banche di minori dimensioni o complessità operativa applicano la disciplina dalla Circolare n. 285/2013; esse non sono tuttavia soggette, neppure con riferimento al personale più rilevante, alle disposizioni di cui alla Sezione III, par. 2.1, punti 3 e, fermo restando il rispetto dei princìpi ivi contenuti, 4, e par. 2.2.1. Qualora le banche di minori dimensioni o complessità operativa intendano pagare parte della remunerazione variabile in strumenti finanziari, esse applicano la Sezione III, par. 2.1, punto 3, ivi comprese le regole in materia di retention. Le banche di minori dimensioni o complessità operativa garantiscono il rispetto di tutte le regole previste dalla disciplina, in modo tanto più rigoroso quanto più il personale assume rischi per la banca. Il rispetto dei princìpi di cui alla Sezione III, par. 2.1, punto 4, comporta che le banche di minori dimensioni o complessità operativa – seppur con percentuali e periodi inferiori a quelli ivi indicati – differiscano parte della remunerazione variabile del personale più rilevante per un congruo periodo di tempo. In questi casi, rimane fermo l’obbligo di pagare la quota differita della remunerazione variabile non prima di un anno dalla fine del periodo di accrual.

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5. L’impatto del criterio di proporzionalità nella nuova disciplina delle crisi bancarie. Ancor più sfavorevole per le piccole banche, se si vuole, è il rapporto tra criterio di proporzionalità e disciplina delle crisi, come disegnata a seguito dell’introduzione del Single Resolution Mechanism74, secondo pilastro dell’Unione bancaria europea75. Il richiamo alla proporzionalità ricorre in varie circostanze, con riferimento alle misure imposte a fronte di un omesso o carente piano di risanamento76, all’elaborazione del piano di risoluzione individuale77 e di gruppo78, nonché agli interventi delle autorità per rimuovere impedimenti alla possibilità di risoluzione79, alla nomina dell’amministratore temporaneo80, alle misure di sostegno finanziario pubblico straordinario81, alla valutazione dell’interesse pubblico sottostante l’avvio della procedura di risoluzione82, all’esclusione di talune passività dal bail-in83, all’entità delle sanzioni amministrative84. L’azione di risoluzione per una banca (alternativa alle procedure di crisi del diritto comune e unica via d’accesso, pur condizionata, al sostegno finanziario pubblico85) è ammessa solo se la banca è in dissesto

74 Il SRM è disciplinato da due provvedimenti: 1) la direttiva del 15 maggio 2014 n. 59 (di seguito “direttiva BRRD”), che introduce un quadro armonizzato a livello europeo in materia di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese d’investimento e 2) il regolamento del 15 luglio 2014 n. 806 (d’ora in poi, semplicemente, “regolamento BRRD”), che detta una procedura uniforme per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese d’investimento. 75 L’Unione Bancaria poggia su tre pilastri normativi: i) il Meccanismo di vigilanza unico (SSM), ii) il Meccanismo di risoluzione unico (SRM) e iii) le connesse disposizioni in materia di finanziamento, che comprendono il Fondo di risoluzione unico (SRF), i Sistemi di garanzia dei depositi (SGD) e un meccanismo comune di backstop (linea di credito). I tre pilastri si basano su due serie di norme orizzontali applicabili a tutti gli Stati membri: i requisiti patrimoniali per le banche (pacchetto CRR-CRD IV) e le disposizioni della direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche. 76 Cfr. art. 6 BRRD. 77 Cfr. art. 10 BRRD. 78 Cfr. art. 12 BRRD. 79 Cfr. artt. 17 e 18 BRRD. 80 Cfr. art. 29 BRRD. 81 Cfr. art. 32 BRRD. 82 Cfr. art. 32 BRRD. 83 Cfr. art. 44 BRRD. 84 Cfr. art. 110 BRRD. 85 Per un’ampia analisi critica delle modalità di sostegno alle banche in crisi si veda,

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o a rischio di dissesto, non vi sono misure alternative per farvi fronte e l’azione è necessaria nell’interesse pubblico. Nel valutare la sussistenza di tale interesse occorre che l’azione sia necessaria al conseguimento di uno o più degli obiettivi della risoluzione posti dal legislatore e sia ad essi proporzionata, assunto che tali obiettivi non siano realizzabili con la liquidazione della banca con procedura ordinaria d’insolvenza. Gli obiettivi della procedura di risoluzione sono dichiarati all’art. 31 della direttiva BRRD e, specularmente, all’art. 21 del d.lgs. 180/2015. Nell’ordine, le autorità devono: garantire la continuità delle funzioni essenziali; evitare effetti negativi significativi sulla stabilità finanziaria, in particolare attraverso la prevenzione del contagio, anche delle infrastrutture di mercato, e con il mantenimento della disciplina di mercato; salvaguardare i fondi pubblici riducendo al minimo il ricorso al sostegno finanziario pubblico straordinario; tutelare i depositanti contemplati dalla direttiva 2014/49/UE e gli investitori contemplati dalla direttiva 97/9/CE; tutelare i fondi e le attività dei clienti. Il tutto riducendo al minimo i costi della risoluzione e evitando distruzione di valore, a meno che essa non sia necessaria al fine di conseguire gli obiettivi della risoluzione stessa. A nostro avviso, peraltro, l’ordine con cui gli obiettivi della risoluzione sono esposti nella normativa non è casuale, ma riflette l’importanza attribuita dal legislatore a ciascuno di essi86. La prima preoccupazione è quella di evitare che la crisi comprometta le funzionalità essenziali del sistema finanziario, ossia la capacità di assicurare la trasmissione di fondi da soggetti in surplus a soggetti in deficit. Obiettivo fondamentale è quindi la continuità dei servizi finanziari importanti a livello sistemico (quali l’esercizio del credito, ad esempio), nonché delle funzioni di pagamento, clearing e regolamento. In tale prospettiva è essenziale prevenire il rischio di contagio, ponendo dunque particolare attenzione ai soggetti la cui crisi può compromettere la fiducia del pubblico nella stabilità del sistema finanziario: a queste situazioni è fondamentalmente riservato l’aiuto statale che, senza compromettere la disciplina di mercato, deve limitarsi a quanto basta per ripristinare o mantenere le funzioni indispensabili del sistema fi-

da ultimo, l’interessante lavoro di Ciraolo, Il finanziamento «esterno» delle risoluzioni bancarie tra tecniche normative e diritto vivente, Padova, 2018. 86 Sui profili qui trattati cfr. Greco, La tutela, cit., pp. 82 s. Secondo Presti, Il bail-in, in Banca Impresa Società, n. 3, 2015, «questi diversi obiettivi hanno pari importanza e devono essere ponderati dalle varie autorità coinvolte a seconda della natura e delle circostanze di ciascun caso».

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nanziario87. L’intermediario non deve essere preservato dal dissesto in quanto tale, ma solo laddove vi sia un interesse pubblico a farlo, e tale interesse è prevalentemente legato a esigenze di prevenzione del rischio sistemico88. Tale conclusione è ulteriormente avvalorata da quanto disposto all’art. 44 BRRD, circa le circostanze eccezionali al ricorrere delle quali, una volta applicato lo strumento del bail-in, le autorità possono escludere, parzialmente o integralmente, talune passività dalla svalutazione o conversione in capitale. In particolare, il legislatore impone che l’esclusione sia strettamente necessaria e proporzionata per garantire la continuità delle funzioni essenziali e delle linee di business principali o per evitare di provocare un ampio contagio, tale da turbare gravemente il funzionamento dei mercati finanziari e, di conseguenza, dell’economia di uno Stato membro o dell’Unione.

87 In questo senso si veda la Comunicazione della Commissione relativa all’applicazione, dal 1° agosto 2013, delle norme in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria, n. 2013/C 216/01, pubblicata in GUCE del 30.7.2013. Sull’accesso agli aiuti di Stato nell’ambito delle risoluzioni bancarie v. Gardella, Il bail-in e il finanziamento delle risoluzioni bancarie nel contesto del meccanismo di risoluzione unico, in Banca, borsa, tit. cred., n. 5, 2015, pp. 591-600 e Lienemeyer, Kerle, Malikova, The New State Aid Banking Communication: The Beginning of the Bail-in Era Will Ensure a Level Playing Field of Enhanced Burden-Sharing, in European State Aid Law Quarterly, n. 2, 2014, p. 277 ss. 88 Così Parere della Banca centrale europea, del 29 novembre 2012, in merito alla proposta di direttiva che istituisce un quadro di risanamento e di risoluzione delle crisi degli enti creditizi e delle imprese di investimento (CON/2012/99), p. 2. La dottrina (Tonveronachi, L’unione bancaria europea. Di nuovo un disegno istituzionale incompleto, in Moneta e Credito, vol. 66, n. 264, 2013, p. 402) ha ricordato che «occorre provare l’esistenza di rilevanti interessi generali, dato che il regime di risoluzione viola diritti di proprietà la cui tutela è assicurata dalla Carta Europea dei Diritti Fondamentali». Altra dottrina (Gardella, Il bail-in, cit., p. 609) sottolinea che «la giurisprudenza della Corte EDU riserva un “ampio margine di apprezzamento” agli Stati contraenti nella definizione dell’interesse pubblico, in particolare in questioni di politica economica quali le crisi bancarie dove la stabilità finanziaria può essere compromessa». Altra dottrina (Binder, Proportionality at the resolution stage: Calibration of resolution measures and the public interest test, in The Principle of Proportionality and Its Applicability in EU Banking Regulation, February 2017, in ssrn.com/abstract=2990379) ha sostenuto che l’applicazione del principio di proporzionalità potrebbe essere mal orientata da esigenze nazionali, che potrebbero privilegiare salvataggi non giustificate da oggettivi interessi di stabilità sistemica; per tale ragione è vista con favore la centralizzazione dei poteri decisionali sul SRM, con particolare riferimento alle crisi transfrontaliere.

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È chiaro, insomma, che, per effetto del SRM e della nuova “dottrina” sugli aiuti di Stato89, le banche minori subiscono svantaggi concorrenziali, in quanto, oltre a essere più esposte all’aumento generalizzato del costo della raccolta in ragione del maggior rischio sotteso alle passività bancarie90, i risparmiatori sono indotti dai meccanismi regolamentari a spostare gli strumenti finanziari e i depositi (almeno per la quota non garantita) sulle banche più grandi91. Ciò potrebbe provocare anche effetti restrittivi della concorrenza su mercato bancario nel suo complesso. Le banche tenderanno (o saranno spinte) ad aggregarsi per raggiungere la massa critica idonea a far emergere l’interesse pubblico all’attivazione dei meccanismi risolutivi e dell’eventuale sostegno statale, grazie al quale possono essere ridotte le esternalità negative della crisi sui risparmiatori e, quindi, le probabilità che siano attivate azioni di responsabilità o, quanto meno, sollevate critiche da parte della pubblica opinione nei confronti delle autorità di controllo92. Di tale tendenza vi è già, in Italia, un esempio emblematico, rappresentato dalla riforma del settore bancario cooperativo, che ha reso obbligatoria l’adesione a un gruppo bancario cooperativo sulla scorta di un contratto di coesione che, tra l’altro, prevede la garanzia in solido delle obbligazioni assunte dalla capogruppo e dalle altre banche aderenti93.

89 La Comunicazione della Commissione relativa all’applicazione, dal 1° agosto 2013, delle norme in materia di aiuti di Stato alle misure di sostegno alle banche nel contesto della crisi finanziaria, n. 2013/C 216/01, prevede tra l’altro che, prima di concedere aiuti per la ristrutturazione a favore di una banca, gli Stati membri garantiscano che gli azionisti e i detentori di capitale subordinato di detta banca provvedano a fornire il necessario contributo. 90 Sarcinelli, L’unione bancaria europea e la stabilizzazione dell’Eurozona, in Moneta e Credito, vol. 66, n. 261, 2013, p. 30; Forestieri, L’Unione Bancaria Europea e l’impatto sulle banche, in Banca, impresa, soc., n. 3, 2014, pp. 496 ss.; Presti, Il bail-in, cit., p. 357; Vegas, Audizione sugli schemi di decreto legislativi relativi all’attuazione della direttiva 2014/59/UE, Roma, 22 ottobre 2015, p. 2; Barbagallo, Esame del disegno di legge di delegazione europea 2014 (A.S. 1758), Roma, 18 marzo 2015, p. 17; Panetta, Indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano nella prospettiva della vigilanza europea in riferimento all’esame degli Atti del Governo n. 208 e n. 209 relativi al risanamento e risoluzione degli enti creditizi e imprese di investimento, 29 ottobre 2015, p. 10. 91 Cfr. anche, da ultimo, Barbagallo, Regolamentazione finanziaria, crisi, credito, Milano, 12 novembre 2018, p. 8. 92 Cfr. Greco, La tutela, cit., p. 108. 93 Cfr. art. 37-bis, co. 3 e 4, del t.u.b., introdotto dal d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito con modificazioni nella l. 14 febbraio 2016, n. 18. In argomento v. Barbagallo,

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D’altro canto, non possiamo sottacere che le banche significative, pur a fronte dei requisiti patrimoniali rafforzati previsti dal Meccanismo di vigilanza unico94, godono di fatto di una protezione “di sistema” – visto il maggior rischio di contagio e sistemico connesso al loro eventuale dissesto - e, dunque, di un contesto che potrebbe favorire comportamenti di azzardo morale95. Il vantaggio competitivo a favore delle banche di maggiori dimensioni, con particolare riferimento alla possibilità che intervenga un salvataggio di Stato a copertura della raccolta bancaria, non viene riequilibrato neanche nell’ambito del terzo pilastro dell’Unione bancaria europea. Il sistema di garanzia dei depositi, ormai armonizzato96, contempla lo stesso livello di copertura dei depositi per tutti i sistemi di garanzia, pari, in via generale, a 100.000 euro per depositante, indipendentemente da dove siano situati i depositi all’interno dell’Unione Europea e indipendentemente da dimensione, complessità e business esercitato dalla singola banca.

La riforma del Credito Cooperativo nel quadro delle nuove regole europee e dell’Unione bancaria, Roma, 21 marzo 2016, secondo il quale «occorre sviluppare meccanismi di mutuo sostegno per la soluzione delle situazioni di difficoltà all’interno del settore che riducano al minimo le ripercussioni sui creditori e sulla stabilità finanziaria, meccanismi che presuppongono un’integrazione del settore più stretta di quella finora realizzata» e, di recente, Barbagallo, La riforma delle Banche di Credito Cooperativo: presupposti e obiettivi, Napoli, 9 ottobre 2018. 94 Tra gli studi sulle SIFI si rinvia a Carmassi, Luchetti, Micossi, Overcoming too-bigto-fail. A regulatory frame work to limit moral hazard and free riding in the financial sector, CEPS, Brussels, 2010, in SSRN; Westbrook, SIFIs and States, in Texas International Law Journal, n. 2, 2014, pp. 329 ss.; Sommer, Why Bail-in? and How, in Economic Policy Review - Federal Reserve Bank of New York, n. 2, 2014, pp. 1 ss. e, da ultimo, all’ampio lavoro di Brozzetti, “Ending of too big to fail” tra soft law e ordinamento bancario europeo, Bari, 2018. Sul tema si veda anche Barbagallo, Stabilità, tutela dei clienti, concorrenza, Roma, 26 novembre 2015, p. 5. 95 Sul punto si consenta ancora il rinvio a Greco, La tutela, cit., p. 109. Occorre anche ricordare che il Financial Stability Board ha previsto che le banche sistemiche a livello globale debbano soddisfare il requisito TLAC (relativo alla capacità complessiva di assorbimento delle perdite) con obbligazioni subordinate, così riducendo la possibilità che altre passività siano oggetto di perdite in caso di crisi dell’intermediario. In argomento v. De Aldisio, La gestione delle crisi nell’Unione Bancaria, in Banca, impresa, soc., n. 3, 2015, pp. 418 ss. 96 Cfr. direttiva 2014/49/UE, recepita in Italia con d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 30. In argomento si consenta di rinviare a Greco, Commento al d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 30: il nuovo sistema di protezione dei depositanti bancari, in Dir. banc., 2018, n. 1, pp. 6 ss.

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Alla dotazione di risorse dei sistemi di garanzia dei depositi provvedono gli intermediari, dovendo versare contributi su base periodica, almeno annuale, fino a raggiungere la percentuale prestabilita dei depositi protetti (risk based contribution). La direttiva 2014/49/UE, all’art. 13, prevede che i contributi siano basati sull’importo dei depositi coperti e sul grado di rischio sostenuto dai rispettivi membri, consentendo che gli Stati membri possano prevedere contributi inferiori per settori a basso rischio che sono disciplinati dal diritto interno e contributi minimi a carico delle banche, a prescindere dall’importo dei loro depositi coperti. Il metodo di calcolo dei contributi, approvato dall’autorità di vigilanza sulla base degli orientamenti dell’EBA, è basato sul principio della proporzionalità rispetto al rischio delle banche partecipanti e può prendere in considerazione l’attivo dello stato patrimoniale e indicatori del rischio, quali l’adeguatezza patrimoniale, la qualità dell’attivo e la liquidità. Considerando che il rimborso della parte dei depositi eccedente il livello di copertura uniforme assicurato dai sistemi di garanzia è di fatto maggiormente probabile, ceteris paribus, in caso di dissesto di banche significative, che probabilmente godrebbero del sostegno statale al fine di evitare una generalizzata corsa agli sportelli, sarebbe auspicabile ponderare tale circostanza nel calcolo dei contributi periodici, andando così a sostenere indirettamente il settore delle banche minori e compensando lo svantaggio competitivo sul fronte della raccolta che risulta dall’assetto regolamentare dei meccanismi di gestione delle crisi. Allo stato, invece, la normativa sui metodi di calcolo dei contributi trascura tale aspetto, limitandosi a tenere in considerazione, quali categorie di rischio, gli indicatori di capitale, di liquidità e funding, di qualità dell’attivo, di modello economico e governance, di potenziali perdite del sistema di garanzia97.

97

Cfr. EBA, Orientamenti sui metodi di calcolo dei contributi ai sistemi di garanzia dei depositi, ABE/GL/2015/10 del 22 settembre 2015, pp. 12 ss.

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6. Prime conclusioni di sintesi sulla declinazione del principio di proporzionalità nel framework europeo. Confronto telegrafico con esperienze estere. La regolamentazione bancaria emanata nell’Unione negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2007-2009 ha assunto dimensioni e complessità significative, allontanandosi dal modello principle-based regulation e, per tale via, fissando precetti sostanzialmente uniformi per tutte le banche, in nome della parità concorrenziale. Le deroghe e norme di favore rivolte agli enti di piccole e medie dimensioni sono limitate e circoscritte a tematiche non cruciali. Basti pensare che, con riferimento ad un’attività fondamentale degli operatori minori quale l’esercizio del credito, nelle recentissime linee guida dell’EBA sulle esposizioni deteriorate l’applicazione del principio di proporzionalità è limitata ad una semplificazione degli strumenti di governance e delle relative politiche, processi e procedure a favore delle banche appartenenti alle categorie SREP 3 e 4. Non vi è, al contrario, alcuna deroga in merito ai criteri di classificazione dei crediti scaduti e deteriorati, delle sofferenze, delle garanzie immobiliari e mobiliari98. Soprattutto, le predette linee guida introducono una soglia del 5% “fit for all” del coefficiente lordo di non-performing loans, superata la quale scatta indistintamente l’obbligo delle banche di elaborare strategie di gestione di tali crediti e applicare i connessi strumenti operativi e di governance previsti dalle linee guida. Anche in questo caso, dunque, seppur vi sia stata un’apertura maggiore rispetto al passato al principio di proporzionalità, non è stata ravvisata la necessità di prevedere una maggiore discrezionalità a favore delle autorità di supervisione per le banche più piccole (ad esempio, in merito alla determinazione delle soglie rilevanti rispetto allo stock pregresso o alle tempistiche di rientro) o di predisporre linee guida distinte, che maggiormente tenessero conto delle peculiarità delle banche locali e delle loro difficoltà oggettive (di natura dimensionale e organizzativa) nella gestione dei crediti deteriorati con soluzioni di mercato (es. dismissioni)99.

98 EBA, Guidelines on management of non-performing and forborne exposures, EBA/ GL/2018/06, 31 ottobre 2018, pp. 15 ss. 99 Cfr. da ultimo Barbagallo, La riforma delle Banche di Credito Cooperativo, cit., p. 3.

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Pur dovendosi confrontare con tematiche nient’affatto diverse, altri paesi hanno recentemente adottato modelli di regolazione delle banche a più livelli, tarati non solo sulla dimensione delle banche ma anche sulla complessità o meno del business o sulla più o meno ampia scala geografica di operatività. Inoltre, è stato osservato che nell’ambito di alcuni modelli esteri si riscontra una flessibilità ben maggiore rispetto a quella che ora è presente nell’ordinamento europeo, sia dal punto di vista della regolazione che da quello della supervisione, concedendosi alle autorità tanta discrezionalità quanta basta a definire strategie di vigilanza ed adottare misure prudenziali disegnate sui casi concreti portati alla loro attenzione100. Giappone, Brasile e Svizzera sono i principali paesi nei quali è stato introdotto un modello di regolazione c.d. CAP (Categorization approach for proportionality), ove le banche sono divise in categorie sulla scorta di caratteristiche qualitative o quantitative – pur con un ruolo preponderante della dimensione – e uno specifico regime di regolazione è applicato distintamente a ciascuna di tali categorie101. In Brasile sono state individuate cinque categorie, sulla scorta della dimensione, dell’attività transfrontaliera e del profilo di rischio dell’intermediario: solo alla prima categoria, alla quale appartengono sei banche internazionalmente attive, è applicato integralmente l’accordo di Basilea III102. Nell’ordinamento svizzero sono previste cinque categorie, basate su criteri quantitativi quali gli attivi totali, i fondi gestiti, i fondi protetti dal sistema di garanzia dei depositanti, il capitale azionario richiesto: il framework completo di Basilea III è applicato unicamente alle prime tre categorie103. In Giappone sono presenti due sole categorie, l’una dedicata alle banche internazionalmente attive con succursali all’estero (sottoposte integralmente a Basilea III) e l’altra residuale104.

100

Cfr. Joosen, Lamandini, Lehmann, Lieverse, Tirado, Stability, cit., p. 12. Cfr. Castro Carvalho, Hohl, Raskopf, Ruhnau, Proportionality in banking regulation: a cross-country comparison, in FSI Policy Implementation Insight, n. 1. Financial Stability Institute, 2017, p. 5 s., in www.bis.org/fsi/publ/insights1.pdf e Boss, Lederer, Mujic, Schwaiger , Proportionality, cit., p. 58. 102 Cfr. Central Bank of Brazil, Resolution 4,553, 30 gennaio 2017, in www.bcb.gov.br/ ingles/norms/brprudential/Resolution4553.pdf. 103 Cfr. https://www.finma.ch/en/supervision/banks-and-securities-dealers/categorisation/. 104 Sul sistema bancario giapponese cfr. Tirado, Banking Crisis and the Japanese Legal Framework, Institute of Monetary and Economic Studies Discussion Paper n. 2017-E-2, Bank of Japan, in http://www.imes.boj.or.jp/research/abstracts/english/17-E-02.html. 101

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Occorre notare che i vari approcci nazionali al modello CAP si differenziano tra loro non solo per il numero delle categorie ma anche, e soprattutto, per le soglie dimensionali (eventualmente) rilevanti105 e per i parametri qualitativi richiesti per l’applicazione dei più stringenti requisiti previsti da Basilea III, che spaziano dal modello di business, al profilo di rischio dell’ente, alla sua attività internazionale106. Tra i paesi che adottano, invece, il modello di regolazione SSAP (Specific standard approach for proportionality), nel quale sono fissati criteri specifici per l’applicazione di alcuni requisiti prudenziali, oltre all’Unione Europea occupano un posto di particolare rilievo gli Stati Uniti. L’ordinamento bancario frutto del Dodd-Frank Act è simile a quello europeo, per dimensioni e complessità, avendo recepito integralmente ed in modo omogeneo i principi dell’accordo di Basilea III. L’esigenza, particolarmente sentita, di evitare un carico regolamentare eccessivo per le banche di dimensioni e complessità ridotte107 è affrontata negli Stati Uniti prevedendo alcune deroghe e/o regole specifiche per taluni intermediari108 e aumentando la discrezionalità che l’autorità competente può esercitare nell’attività di supervisione.

105 In Brasile rileva, quale soglia dimensionale, un ammontare delle esposizioni totali superiore al 10% del PIL nazionale; in Svizzera la soglia limite è fissata a 13 miliardi di euro di attivo; in Giappone non esiste una soglia dimensionale rilevante. 106 In argomento cfr. ancora Castro Carvalho, Hohl, Raskopf, Ruhnau, Proportionality, cit., pp. 6 ss. 107 Cfr., tra gli altri, Tarullo, Rethinking, cit., pp. 10 ss., secondo il quale «One obvious point of context is that any regulatory requirement is likely to be disproportionately costly for community banks, since the fixed costs associated with compliance must be spread over a smaller base of assets». 108 Per esempio, in materia di coefficienti di liquidità, adeguatezza patrimoniale, obblighi di reporting, controlli interni. In argomento v. Duke, Opportunities to Reduce Regulatory Burden and Improve Credit Availability, Remarks to the 2012 Bank Presidents Seminar Sponsored by the California Bankers Association, Santa Barbara, California, 13 January 2012; Quarles, Early Observations on Improving the Effectiveness of Post-Crisis Regulation, Remarks at the American Bar Association Banking Law Committee Annual Meeting, 19 January 2018, pp. 4 ss.; Powell, Statement the Committee on Banking, Housing, and Urban Affairs, U.S. Senate, 28 November 2017, pp. 2 ss.; Yellen, Tailored Supervision of Community Banks, Remarks at the Independent Community Bankers of America 2014 Washington Policy Summit, Washington, D.C., 1 May 2014. Il confronto tra la regolazione delle piccole banche in USA e in Europa è stato affrontato da Masera, Regole e supervisione delle banche in Europa. Perché occorre un diverso approccio costibenefici, con particolare riferimento alle banche regionali, in Sfide e opportunità della regolamentazione bancaria: diversità, proporzionalità e stabilità, a cura di Masera, Roma, 2016, p. 34, che ha messo in luce come l’impianto di regolazione post-crisi dell’Unio-

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7. Spunti di riflessione per una proposta di rivisitazione del modello di regolazione bancaria in Europa. In reazione alla crisi finanziaria, la produzione normativa europea in materia bancaria del secondo decennio ha assunto dimensioni e complessità particolarmente significative, avendo optato per un recepimento integrale ed uniforme delle regole di Basilea III. Il principio di proporzionalità dovrebbe assumere in tale contesto un ruolo fondamentale, consentendo, da un lato, di ridurre gli azzardi morali che i soggetti too big to fail possono porre in essere, anche grazie a meccanismi di gestione delle crisi più favorevoli, di norma a carico delle finanze pubbliche e, d’altro canto, impedendo che costi della regolamentazione troppo elevati minino l’efficienza e la competitività di banche piccole e poco complesse, forzandone l’uscita, spesso cruenta, dal mercato109. L’utilizzo del modello “one size fits for all”, in assenza di un esercizio sistematico e puntuale del criterio di proporzionalità, ha provocato conseguenze distoniche. Le piccole banche sono schiacciate da costi di compliance, spesso incongrui rispetto alla reale entità dei rischi assunti ed al limitato contributo di tali soggetti all’instabilità sistemica110. Di conseguenza, esse sono spinte ad aggregazioni, anche al di fuori di un disegno imprenditoriale convincente, in una sorta di “fusione a freddo”, al solo fine di tentare di

ne bancaria abbia introdotto alcuni vincoli e presidi non utili per migliorare la stabilità finanziaria e livellare il terreno di gioco, a differenza di quanto è accaduto oltreoceano. 109 Già nel 2016 Masera osservava (Verso Basilea 4: le criticità per le banche e l’economia, in Banc., n. 1, 2016, p. 12) che le piccole banche, in Europa, stanno scomparendo molto più rapidamente, rispetto agli USA, e che tale tendenza è destinata a crescere in ragione dell’approccio delle regole «one-size-fits-all», che determina costi di compliance più elevati a causa del numero e della complessità sempre maggiore delle norme sulle banche. 110 Così anche Masera, Verso Basilea 4, cit., p. 13, secondo cui «l’osservanza delle nuove regole è particolarmente “costosa” in termini di addetti e di costi relativi per le banche medio-piccole: si crea uno svantaggio competitivo artificiale, che non trova giustificazioni nel perseguimento della stabilità finanziaria, come peraltro ampiamente riconosciuto al di là dell’Atlantico». Analoghe osservazioni sono formulate da Alessandrini, Papi, Banche locali e piccole imprese dopo la crisi tra nuove regole e innovazioni digitali, MOFIN, Working paper no. 148, March 2018, p. 12 e da esponenti della stessa Banca d’Italia (Barbagallo, La regolamentazione bancaria tra autorità nazionali ed europee, Fondazione Ugo La Malfa, Pisa, 2017, p. 6)

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costruire qualche economia di scala e una massa critica maggiormente resiliente agli eventi negativi111. Per altro verso, nei confronti dei “global player” non si rilevano incisive e specifiche misure per gestirne le peculiari caratteristiche112, essendo previste perlopiù misure di rafforzamento dei requisiti patrimoniali (di pochi punti percentuali) a fronte di dimensioni e complessità di business talmente elevate da generare rischi intrinsecamente diversi, quale quello sistemico113. Un effettivo “livellamento del terreno di gioco” sul piano delle regole, funzionale ad una sostanziale e non formale parità competitiva114, non può quindi che passare da un ripensamento sulle modalità con cui è stato finora declinato il principio di proporzionalità nell’utilizzo delle misure di vigilanza115.

111 Sul punto cfr. Restoy, Proportionality in banking regulation, Westminster Business Forum Keynote Seminar: Building a resilient UK financial sector – next steps for prudential regulation, structural reform and mitigating risks, London, 4 July 2018, p. 4 s., che per un verso ravvisa l’opportunità di moderare l’impatto degli standard di Basilea laddove sia possibile assicurare la resilienza degli intermediari senza ricorrere alla complessità del framework completo e, per altro verso, intravede la minaccia di un abuso del principio di proporzionalità per assegnare vantaggi regolamentari significativi alle piccole istituzioni. 112 Per le SIFI è stato altresì prospettato (Wilmarth, A Two-Tiered System of Regulation is Needed to Preserve the Viability of Community Banks and Reduce the Risks of Megabanks, in Michigan State Law Review, 2015, pp. 249-370) un trattamento peculiare nell’ambito di un modello di regolazione two-tiered, con limitazioni sul fronte della raccolta dei depositi, remunerazioni ai manager che, almeno per la metà, siano assegnate sotto forma di obbligazioni convertibili in azioni al peggioramento delle condizioni della banca (CoCos) e contributi aggiuntivi al Fondo per le liquidazioni bancarie. 113 È stato osservato (de Larosière, The trade-off between bank regulation and economic growth, Central Banking, 28 febbraio 2013), al proposito, che «Regulators will have to be modest and not believe that regulatory effectiveness is a function of complex, detailed and too-numerous rules; they will have to understand that higher and higher capital ratios are not a panacea and that much more attention should be given to the quality of risks on banks’ balance sheets». 114 La gestione del trade-off tra stabilità e concorrenza è un compito sempre più attuale e determinante per le autorità di regolazione. Per i recenti interventi della Bank of England cfr. Fisher, Grout, Competition and Prudential Regulation, Bank of England Working Paper No. 675, September 2017, in ssrn.com/abstract=3031799. 115 La Commissione è ormai consapevole della necessità di rivedere la normativa bancaria europea e, a tal proposito, alla fine del 2016, ha presentato un pacchetto di proposte, note come “pacchetto bancario”, riguardante tanto la fase di ordinaria gestione delle banche quanto quella di crisi e di eventuale risoluzione. Il Pacchetto è composto dai seguenti documenti: proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consi-

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Sul piano generale, il parametro che dovrebbe guidare l’applicazione del principio di proporzionalità nel settore finanziario, sia nella fase di regolazione che in quella di supervisione, non può che essere individuato nel “rischio”, nelle sue varie accezioni: di credito, di mercato, operativo, di compliance, di misconduct, reputazionale, sistemico. Ciò posto, secondo un primo approccio, la rigidità dell’attuale ordinamento bancario europeo potrebbe essere contrastata con un recupero forte dell’elasticità delle norme e della discrezionalità del supervisore116. Si tratterebbe quasi di un ritorno al passato (si pensi alla legge bancaria del 36-38), che avrebbe il pregio di consentire un facile adattamento

glio che modifica il regolamento (UE) n. 575/2013 per quanto riguarda il coefficiente di leva finanziaria, il coefficiente netto di finanziamento stabile, i requisiti di fondi propri e passività ammissibili, il rischio di controparte, il rischio di mercato, le esposizioni verso controparti centrali, le esposizioni verso organismi di investimento collettivo, le grandi esposizioni, gli obblighi di segnalazione e informativa e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012 (COM(2016) 850); proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento (UE) n. 806/2014 per quanto riguarda la capacità di assorbimento delle perdite e di ricapitalizzazione per gli enti creditizi e le imprese di investimento (COM(2016) 851); proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2014/59/UE sulla capacità degli istituti di credito e delle imprese di investimento di assorbire le perdite e di ricapitalizzare e che modifica le direttiva 98/26/CE, 2002/47/CE, 2012/30/UE, 2011/35/UE, 2005/56/CE, 2004/25/CE e 2007/36/CE (COM(2016) 852); proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda la classificazione degli strumenti di debito non garantiti nella gerarchia dei crediti in caso di insolvenza (COM(2016) 853); proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2013/36/UE per quanto riguarda le entità esentate, le società di partecipazione finanziaria, le società di partecipazione finanziaria mista, la remunerazione, le misure e i poteri di vigilanza e le misure di conservazione del capitale (COM(2016) 854); proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo a un quadro di risanamento e risoluzione delle controparti centrali e recante modifica dei regolamenti (UE) n. 1095/2010, (UE) n. 648/2012 e (UE) 2015/2365 (COM(2016) 856). In argomento v., tra gli altri, Nouy, Introductory statement, Public hearing on “Updating CRR, CRD, BRRD and SRMR: the new banking legislation package” in the ECON Committee of the European Parliament, 25 April 2017, secondo il quale occorre fare attenzione a non compromettere gli obiettivi delle regole prudenziali, anche se «further steps towards more proportionality are welcome for smaller, simpler and less risky banks»; Lautenschläger, Is small beautiful? Supervision, regulation and the size of banks, statement at an IMF seminar, Washington D.C., 14 October 2017, sostiene che «small banks are generally less risky than larger ones. So a proportionate approach to regulating and supervising small banks is indeed appropriate». 116 Cfr., tra gli altri, Black, The rise, fall and fate of principles based regulation, LSE WP 17/2010.

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dell’azione di vigilanza alle esigenze peculiari che volta per volta si presentano. D’altro canto – e si tratta di un limite tutt’altro che trascurabile – tale modello potrebbe essere fonte di distorsione nei meccanismi di mercato, a causa di ritardi o inefficienze delle autorità o, addirittura, in ragione di scelte di politica economica che esulano dalle finalità di vigilanza117. Secondo un diverso approccio, anche in Europa potrebbe essere adottato un modello di regolazione CAP, in sostituzione dell’attuale SSAP, basato su due categorie, ove allocare le banche sulla base della loro complessità e dell’assenza di rilevanza sistemica, considerandosi la dimensione dell’attivo come la prima proxy per determinare la classificazione. La categoria delle banche “più piccole”, secondo l’accezione di cui sopra, dovrebbe essere regolata con un diverso impianto normativo, che escluderebbe l’applicazione di molte disposizioni progettate per le grandi banche (come buffers anticiclici di capitale e di liquidità, la procedura di gestione delle crisi e di risoluzione, le regole sui rischi di mercato, talune regole di corporate governance e in materia di incentivazione)118. Una variante del precedente modello, noto come two-tier approach, prevede tre categorie di banche, ad intensità della regolazione decrescente. La prima categoria, ove sono ricomprese le SIFI e le altre banche ad alto rischio sistemico (indicativamente si fa riferimento alle banche con attivo superiore a 20 miliardi di euro), vedono l’applicazione integrale dei requisiti di Basilea III. In un secondo gruppo sono allocate le banche di media dimensione, per le quali potrebbero essere previste specifiche deroghe all’impianto di Basilea III., Infine, nella terza categoria prevista dal modello, identificato appunto come three-tier approach, sono inserite le banche più piccole e a minore complessità, ma più consistenti dal punto numerico, che vengono sottoposte a un autonomo

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Cfr. Belli, Corso di legislazione bancaria. Legislazione bancaria italiana (18612010), Tomo I, Pisa, 2010, pp. 173 ss. 118 In questo senso Joosen, Lamandini, Lehmann, Lieverse, Tirado, Stability, cit., pp. 24 ss. Negli USA, analogo approccio “per livelli” alla regolazione e alla supervisione delle piccole banche locali è stato teorizzato anche da Tarullo, A Tiered Approach to Regulation and Supervision of Community Banks, Community Bankers Symposium Chicago, Illinois, November 7, 2014, in www.federalreserve.gov/newsevents/speech/tarullo20141107a.htm. Per quel che concerne il nostro continente, nel 2013 la banca centrale irlandese pubblicò un consultation paper (Central Bank of Ireland, Consultation on the Introduction of a Tiered Regulatory Approach for Credit Unions, December 2013) circa l’introduzione di un approccio “per livelli” alla regolazione delle cooperative di credito (Credit Unions).

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regime di supervisione (c.d. small banking box), distinto dalle logiche di Basilea III. La definizione dei criteri per l’inclusione nella small banking box rappresenta il punto maggiormente critico, visti gli annessi effetti “premiali” in termini di costi della regolazione. La dimensione rappresenta il criterio principale, sia in termini assoluti che relativi (rispetto a ciascun Stato membro); quali criteri aggiuntivi possono annoverarsi la ridotta operatività di trading e in derivati, la sottoposizione a ordinarie procedure di insolvenza, la ridotta operatività transfrontaliera e nei mercati dei capitali, l’utilizzo di metodologia standard per la valutazione dell’assorbimento patrimoniale119. Un quarto approccio, che per certi aspetti può considerarsi una variante ulteriore di quelli precedentemente citati e del quale di seguito proviamo a delineare alcuni elementi, potrebbe contemplare l’introduzione di un sistema “a matrice” di regolazione, articolato su tre dimensioni: a) tipo di attività esercitata; b) prodotto; c) dimensione, nell’accezione di entità di attivo a rischio. Lo definiremmo come sistema “a matrice”, piuttosto che per livelli o categorie, in quanto le varie dimensioni operano secondo una logica traversale, e condizionano l’attivazione dei vari strumenti di controllo. La regolazione per “tipo di attività” si fonda sulla definizione di un set di “requisiti di base” strutturali, prudenziali, di comportamento, di trasparenza che un soggetto deve rispettare per poter accedere al mercato, sia esso intermediario finanziario o meno. L’esercizio congiunto di più attività regolate comporta inoltre l’innalzamento quantitativo di alcuni requisiti di base (es. capitale proprio) e/o l’aggiunta di ulteriori requisiti resi necessari dalla diversa qualità del rischio emergente dalla combinazione delle attività esercitate. Il rispetto dei “requisiti di base” di cui sopra consente al soggetto autorizzato di emettere, distribuire e investire su prodotti “di base”, ricompresi in un “catalogo” predisposto dalle autorità di vigilanza competenti per mercato (EBA, ESMA, EIOPA). Per l’accesso ad altre categorie di prodotti – è questo il senso della regolazione “per prodotto” - l’intermediario è tenuto a rispettare requisiti aggiuntivi, graduati sulla complessità e sul

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In questo senso Dombret, Heading towards a ‘small banking box’ – which business model needs what kind of regulation?, speech given at the Bavarian Savings Bank Conference, June 2017; Id., On the Road to Greater Regulatory Proportionality, speech given at the Strategy conference of the Rheinland Savings Banks and Giro Association, August 2017; Id., Sometimes Small is Beautiful, cit.

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rischio attribuito ex ante dalle autorità ai suddetti prodotti, se standard, o volta per volta – secondo un processo di product governance and approval – se atipici. In accordo alla regolazione “per dimensione”, il superamento di determinate soglie di attivo a rischio comporta di per sé l’applicazione di requisiti aggiuntivi. Nel caso di operatività in prodotti diversi da quelli “di base”, sono previsti requisiti ulteriori che tengono conto della combinazione tra dimensione degli attivi e complessità/rischiosità dei prodotti (specie se atipici). Nelle situazioni estreme sono attivati controlli strutturali non discrezionali che prevedono la dismissione di alcune attività. In considerazione della possibilità dei soggetti di organizzarsi in gruppi polifunzionali, attività, prodotti e attivi a rischio dovrebbero essere valutati su base consolidata, onde evitare una facile elusione dei requisiti. Il modello “a matrice” di applicazione del principio di proporzionalità necessiterebbe naturalmente di armonizzazione massima a livello europeo, per evitare i fenomeni distorsivi che potrebbero prodursi, grazie al mutuo riconoscimento, per effetto della concorrenza degli ordinamenti. Al fine di non alterare le condizioni competitive sui mercati globali occorrerebbe infine una validazione del modello a livello internazionale (dunque, nell’ambito degli accordi del Comitato di Basilea). Il passaggio da una declinazione tendenzialmente discrezionale del principio di proporzionalità ad un approccio maggiormente puntuale consentirebbe, in primo luogo, la definizione di un “terreno di gioco” delle regole sostenibile, prevedibile e stabile e la riduzione dei rischi di cattura del regolatore da parte dei grandi player. Nel modello “a matrice” acquisterebbe una specifica rilevanza il prodotto, vuoi per le conseguenze che può avere sulla stabilità dell’intermediario (si pensi al ruolo dei prodotti sintetici e dei derivati over-thecounter nella crisi finanziaria), sia per la necessità di assicurare una vigilanza sempre più tarata sulle esigenze di protezione dei clienti120. In questo senso assumerebbe rilievo fondamentale l’istituzione di un processo esterno di natura amministrativa per classificare e valutare uniformemente il rischio dei prodotti, al fine di predisporne un set di base, quale proxy della bassa complessità del business, e vigilare sull’innovazione finanziaria (ed i connessi rischi per il sistema finanziario e per l’investitore), grazie a meccanismi di product governance and approval.

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In questo senso anche, da ultimo, Santoro, Una nuova architettura europea di vigilanza finanziaria?, in Banca, impresa, soc., 2018, pp. 197 ss.

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In ultima analisi, il nuovo approccio dovrebbe comportare, rispetto alla situazione attuale, un abbassamento dei requisiti per gli intermediari piccoli e “semplici” e un innalzamento per quelli complessi e/o di grandi dimensioni, che potrebbero essere costretti a ridimensionarsi, in casi estremi, riducendo strutturalmente il rischio sistemico e gli oneri a carico della collettività in caso di crisi. Il rischio del modello “one fits for all” non è infatti rappresentato solo dal pericolo che si spari alla mosca con il cannone, ma anche che venga usata la fionda contro i carri armati.

8. Banche e fintech: fattore di complicazione o spinta per il cambiamento? Un diverso approccio, maggiormente attento al problema della proporzionalità, si avverte nei recenti interventi regolamentari su tematiche “FinTech” (quali il crowdfunding e, per certi aspetti, il social lending) e sui servizi di pagamento (si pensi all’esclusione dalla disciplina speciale degli strumenti di pagamento a spendibilità limitata). Con FinTech si fa riferimento alle applicazioni tecnologiche nell’offerta di servizi finanziari in grado di stravolgere l’attività degli intermediari121. La nozione di FinTech ricomprende più precisamente le innovazioni - osservabili nel settore finanziario in senso ampio, tra le quali, appunto, le criptovalute - «che sono rese possibili dall’impiego delle nuove tecnologie sia nell’offerta di servizi agli utenti finali sia nei “processi produttivi” interni agli operatori finanziari nonché nel disegno di impresemercato (i c.d. financial marketplace)»122. Si è detto dunque, con efficace metafora, che FinTech siede all’incrocio tra servizi finanziari e mercato unico digitale123. Particolarmente interessante risulta essere l’approccio utilizzato dal regolatore con riferimento al crowdfunding.

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Panetta, Indagine conoscitiva sulle tematiche relative all’impatto della tecnologia finanziaria sul settore finanziario, creditizio e assicurativo, Audizione alla Camera dei Deputati, Roma, 29 novembre 2017, p. 3. Sugli argomenti trattati in questo paragrafo cfr. Greco, Valute virtuali e valute complementari, tra sviluppo tecnologico e incertezze regolamentari, in Riv. dir. banc., n. 3, 2019, pp. 29-33. 122 Schena, Tanda, Arlotta, Potenza, Lo sviluppo del FinTech. Opportunità e rischi per l’industria finanziaria nell’era digitale, in Quaderni FinTech, n. 1, marzo 2018, p. VIII. 123 Commissione Europea, FinTech Action plan, cit., p. 2.

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In Italia la Consob ha dettato una specifica regolamentazione dell’equity crowdfunding nel 2013, poi modificata nel 2016, nel 2017 e nel 2018124, grazie alla quale sono stati disciplinati i gestori di portali on-line. In particolare, i portali on-line che si occupano di equity crowdfunding sono piattaforme vigilate dalla Consob che facilitano la raccolta del capitale di rischio delle start-up innovative. La gestione di portali è riservata a soggetti autorizzati dalla Consob e iscritti in un apposito registro tenuto dalla medesima Autorità, nonché a banche e imprese di investimento (SIM) già autorizzate alla prestazione di servizi di investimento (“gestori di diritto”). Ai gestori dei portali iscritti nel registro della Consob si applica una disciplina più “leggera” rispetto a quella dettata per gli intermediari tradizionali presso cui abitualmente i risparmiatori effettuano i propri investimenti125. A fronte degli “sconti” sui controlli sono previsti limiti all’operatività dei gestori. In particolare, viene introdotto il divieto di detenere somme di danaro di pertinenza degli investitori, di eseguire direttamente gli ordini per la sottoscrizione degli strumenti finanziari offerti sui propri portali (da trasmettere esclusivamente a banche o SIM) e di svolgere in alcun modo consulenza finanziaria nei confronti degli investitori. A livello europeo, constatata l’attuale divergenza tra le scelte regolatorie adottate nei diversi Stati membri, laddove esistenti, la Commissione si è concentrata sulla necessità di prevedere un regime opzionale uniforme per le piattaforme di crowdfunding che intendano offrire i propri servizi nell’ambito del mercato unico. La proposta della Commissione

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Si tratta del Regolamento sulla raccolta di capitali di rischio tramite portali on-line, adottato dalla Consob con delibera 18592 del 26 giugno 2013, successivamente modificato con delibere n. 19520 del 24 febbraio 2016, n. 20204 del 29 novembre 2017 e n. 20264 del 17 gennaio 2018. La normativa secondaria è stata emanata in attuazione del decretolegge 18 ottobre 2012 n. 179 convertito, con modificazioni, dalla l. 17 dicembre 2012 n. 221, che ha introdotto gli artt. 50-quinquies e 100-ter del t.u.f. Sulla disciplina italiana v. Laudonio, La folla e l’impresa: prime riflessioni sul crowdfunding, in Dir. banc., n. 3, 2014, pp. 357 ss.; Minneci, Equity crowdfunding: gli strumenti a tutela dell’investitore, in Riv. dir. civ., n. 2, 2019, p. 509 ss. e Rizzo, Intermediari finanziari ed Equity Crowdfunding: profili di compliance, in Rivista della regolazione dei mercati, n. 2, 2014. 125 Particolarmente incisivi sono gli alleggerimenti in tema di requisiti per l’iscrizione tra i portali on-line. Basti dire che i requisiti patrimoniali previsti per banche e SIM sono sostituiti dall’adesione a un sistema di indennizzo a tutela degli investitori o dalla stipula di un’assicurazione di responsabilità professionale che garantisca una protezione equivalente alla clientela, ossia: per ciascuna richiesta di indennizzo, una copertura di almeno ventimila euro; per l’importo totale delle richieste di indennizzo, una copertura di almeno un milione di euro all’anno per i gestori che effettuano direttamente la verifica prevista sul profilo dell’investitore, e di almeno cinquecentomila euro all’anno per gli altri gestori.

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prevede che il gestore autorizzato e vigilato dall’ESMA in conformità ai requisiti che verranno fissati dal regolatore europeo potrà operare nel paese di stabilimento così come negli altri Stati membri, in regime di mutuo riconoscimento126. Spostandosi su un piano più generale, a fronte di un primo approccio al tema FinTech, un po’ superficiale e opportunista, che vedeva la deregolamentazione quale chiave per non frenare il processo di innovazione127, le opinioni più recenti e accreditate oscillano tra il livellamento delle regole in base ai servizi prestati (indipendentemente dal tipo di fornitore e dalla tecnologia adottata)128 e la personalizzazione degli strumenti regolatori sulle caratteristiche dei business tecnologicamente disruptive. Dato che il livellamento del terreno di gioco tende tradizionalmente ad essere operato “per eccesso”, gravando gli operatori innovativi che si affacciano sul mercato di fardelli regolamentari sovrabbondanti rispetto all’entità dell’attività svolta ed ai connessi rischi129, sembrerebbe più efficiente disegnare misure di regolazione ad hoc, che concilino le esigenze concorrenziali con quelle di protezione dei consumatori130. A ben vedere, quindi, anche per gli operatori FinTech si pone un problema applicativo del principio di proporzionalità, in una certa misura simile a quello già osservato tra banche grandi e banche minori. La spinta più decisa in favore della proporzionalità per talune nuove attività, sulla scia di quanto avvenuto in Italia per il crowdfunding, rischia però, se non accompagnata da una rivisitazione profonda del modello di regolazione e vigilanza, di creare un ingiusto vantaggio competitivo per gli operatori non tradizionali rispetto alle banche, gravate in linea di principio da oneri regolamentari “strutturali” maggiori.

126 Commissione Europea, Proposal for a regulation on European Crowdfunding Service Providers (ECSP) for Business, COM(2018)113 del 8 marzo 2018. In argomento si veda Macchiavello, La proposta della Commissione europea di un regolamento in materia di crowdfunding, in Diritto bancario, 12.3.2018. 127 Koopman, Mitchell, Thierer, The sharing economy: issues facing platforms, participants, and regulators, Maggio 2016, pp. 5 ss., in www.mercatus.org 128 ESMA, Response to the Commission Consultation Paper on Fintech: A more competitive and innovative financial sector, giugno 2017, nn. 34 e 35. 129 Cfr. Koopman, Mitchell, e Thierer, The Sharing Economy and Consumer Protection Regulation: The Case for Policy Change, in J. Bus. Entrepreneurship & L., 2015, 2, p. 544. 130 In argomento cfr. Federal Trade Commission, The “Sharing” Economy. Issues facing Platforms, Participants & Regulators, Nov. 2016, pp. 51 ss. e, di recente, Perrone, A vent’anni dal Testo Unico della Finanza, in dirittobancario.it, maggio 2018, p. 2 s.,.

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C’è il rischio, insomma, che la spinta alla personalizzazione delle regole a fronte di attività analoghe per oggetto, ma dissimili per tecnologia applicata e per caratteristiche dell’impresa, finisca per produrre un numero eccessivo di “statuti” speciali, nazionali ed europei (si pensi, ancora, all’approccio della Commissione sul crowdfunding), dei quali possano avvalersi solo i nuovi operatori. Ciò accrescerebbe le difficoltà degli operatori finanziari nell’adottare, sviluppare ed innestare le nuove tecnologie nei business tradizionali131, con impatti negativi sulla competitività e sui profitti132. Una possibile soluzione al dilemma potrebbe essere individuata nella sottoposizione degli operatori FinTech al modello di regolazione “a matrice” in precedenza proposto. In particolare, i “requisiti di base” previsti dalla regolazione “per attività” andrebbero ad affiancare, se non a sostituire, sand box, innovation hub e incubator, rivelatisi fin qui difficili da gestire133, consentendo di porre su di un piano di equità concorrenziale soggetti new comers (es. FinTech) e incumbents (es. intermediari locali) ed evitando che i primi operino in un contesto deregolamentato, con ingiusti vantaggi competitivi rispetto agli operatori tradizionali, gravati a loro volta da costi regolamentari non adeguati all’effettiva dimensione e complessità della propria attività. Per gli operatori FinTech, evidentemente, dovrebbe essere presa in considerazione una particolare accezione della complessità “per prodotto”, rappresentata dalla tecnologia utilizzata (si pensi, per fare un esempio, all’utilizzo degli algoritmi nella valutazione del merito creditizio o dell’adeguatezza di una raccomandazione all’investimento). In particolare, l’utilizzo di tecnologie comportanti rischi elevati sul piano sistemico o in termini di protezione dei clienti dovrebbe comportare una vigilanza più stringente e requisiti aggiuntivi, per esempio sul piano patrimoniale, organizzativo e di regole di condotta.

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131 Cfr. EBA, EBA Report on the Prudential Risks and Opportunities arising for Institutions from Fintech, 3 luglio 2018. Così anche, con riferimento al contesto italiano, Alessandrini, Papi, Banche locali, cit., p. 21. 132 Cfr. EBA, EBA Report on the Impact of Fintech on Incumbent Credit Institutions’ Business Models, 3 luglio 2018, p. 35 ss. 133 Sulle criticità di tali iniziative v. da ultimo, EBA, ESMA, EIOPA, Report. FinTech: Regulatory sandboxes and innovation hubs, Report JC 2018 74, 7 January 2019, p. 34 ss.

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La data protection nel settore bancario: gli adempimenti privacy in termini di compliance al regolamento Sommario: 1. Il quadro normativo di riferimento. – 2. Dal concetto di “privacy” a quello di “data protection”. Analisi degli impatti della nuova disciplina europea sulle strutture bancarie. – 3. Adeguamento del quadro sanzionatorio alle disposizioni del Regolamento. Verifica. – 4. Segue. La gestione del data breach. – 5. Brevi annotazioni critiche.

1. Il quadro normativo di riferimento. Il 2018 è stato un anno di importanti appuntamenti legislativi per il settore bancario e per quello dei pagamenti con l’entrata in vigore di due direttive ad ampio impatto, la MIFID2 (Markets in Financial Instruments Directive) sui servizi di investimento e la PSD2 (Revised Payment Service Directive) con l’obiettivo di favorire più alti livelli di concorrenza mediante l’ingresso sul mercato di nuovi players. Sullo sfondo, e in termini speculari, l’interesse a garantire una migliore protezione ai dati e alle credenziali dei clienti con l’emanazione del Regolamento (General Data Protection Regulation) dell’Unione europea. A favorire un cambio di rotta nell’accesso delle banche ai dati personali e al loro trattamento (prima finalizzato principalmente al soddisfacimento delle esigenze informative dell’organo di vigilanza) è stato indubbiamente lo sviluppo recente del digital e mobile banking e il susseguirsi delle novità nel campo delle soluzioni biometriche, fattori entrambi che hanno contribuito a dare maggiore vigenza al principio dell’“autodeterminazione” informativa, ossia al diritto del singolo di decidere, in prima persona, sulla cessione e l’uso dei propri dati. Un criterio tra l’altro che si fa strada già a partire dalla direttiva PSD2, la quale rappresenta un vero e proprio spartiacque nella gestione delle informazioni personali, come risposta all’inasprirsi delle questioni giuridiche legate alla cyber security.

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Vettore di grandi cambiamenti, la PSD2 ha ridisegnato in via preliminare il mercato europeo dei pagamenti, grazie allo sviluppo di un nuovo scenario competitivo ove i consumatori possono godere di maggiori opportunità di scelta nell’utilizzo di servizi diversi (rispetto a quelli offerti dalle banche) per effettuare operazioni di pagamento, ma anche per richiedere prestiti o per realizzare investimenti: tutto diventa più aperto, più accessibile, più facile tanto per i clienti quanto per le imprese ma, al contempo, si mettono in discussione le vecchie logiche e gli equilibri tradizionali del modo stesso di “fare banca”. L’ingresso di nuove operatività – e con esse l’affermarsi dell’era dell’open banking una delle più importanti evoluzioni presenti nella PSD2 – hanno fatto sentire i loro effetti in termini di spinta alla digitalizzazione imponendo alle strutture creditizie di correre verso una “cultura dei dati” (si pensi all’incessante crescita dei flussi informativi dovuta alle interazioni e alle transazioni richiesti e/o effettuati con tutti i fornitori di servizi di pagamento) senza però prevedere precisi strumenti per un’effettiva valutazione dell’impatto sulle libertà e i diritti degli interessati1. Le banche, da canto loro, hanno comunque accolto questi nuovi meccanismi di pagamento e di accesso alle informazioni in modo ambivalente tra diffidenza e resistenza da un lato – preoccupate soprattutto dalla fondata minaccia di sostituzione di ruoli e di disintermediazione dei tipici rapporti di fiducia con la clientela – e consapevolezza del peso strategico delle innovazioni, dall’altro, introdotte con l’offerta sul mercato di nuovi e più rilevanti servizi2.

1 Secondo un principio di condivisione delle informazioni, gli enti creditizi devono consentire ai diversi providers l’accesso ai dati tramite API (parliamo di OTT, ovvero di aziende “over the top” come Apple, Google, Amazon, Samsung, Microsof, nuova frontiera delle stesse FinTech), oltre ad autorizzare i nuovi soggetti, i cd. Account Information Service Provider (AISP) e le interfacce di programmazione (Open API) ad operare direttamente sui conti correnti degli utenti finali, con la possibilità di compiere operazioni di pagamento o di accedere alle rendicontazioni bancarie della clientela direttamente tramite software dedicati. 2 La PSD2 non rappresenta solo un momento di svolta per il settore dei pagamenti ma anche un nuovo approccio alla sicurezza dei dati e delle informazioni da parte dei soggetti deputati al trattamento. Ciò in quanto la “trasformazione digitale” obbliga i fruitori di servizi di pagamento on line a condividere una parte dei propri dati finanziari con società esterne, eventualità rispetto alla quale, fino ad oggi, essi hanno dimostrato una certa riluttanza per motivi di privacy. Il trattamento dati dei clienti bancari, con l’entrata in vigore della direttiva Payment Service, è infatti destinato a passare attraverso l’operatività dei Third Party Provider (TPP) che, pur utilizzando interfacce semplici e sicure, non sono tuttavia immuni da

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In questo nuovo scenario, il Regolamento – nel completare il framework normativo in materia di protezione dei dati in modo più coerente ed armonizzato rispetto al passato – va ad applicarsi a qualunque “organizzazione” raccolga dati personali3, mettendo in atto un mutamento radicale nella capacità di amministrare le informazioni sensibili all’interno con il fine ultimo di prevenirne la perdita e impedire la condivisione non autorizzata dei dati mediante specifiche restrizioni all’archiviazione e al trattamento degli stessi4. Ragion per cui la Data Protection, tende a muoversi su due principali direttive le quali incidono radicalmente sul modus operandi di intermediari vecchi e nuovi, come il principio di trasparenza dei trattamenti5, fin dalla fase della loro progettazione, al fine d’incrementare la fiducia dei cittadini nell’economia digitale e quello di accountability: quest’ultimo, in particolare, demanda ai titolari il compito di decidere autonomamente le modalità e i limiti del trattamento dei dati (un “principio di responsa-

potenziali rischi di frode o di altri abusi (si parla di hackeraggio, di rivendita dei dati del cliente ad altre parti, di furto d’identità). 3 Più in particolare, il GDPR si applica a qualsiasi organizzazione possegga ed utilizzi dati relativi a persone dell’Unione Europea, indipendentemente dal luogo in cui tale organizzazione ha sede o dalla località in cui sono installate le apparecchiature che raccolgono, memorizzano, gestiscono ed elaborano i dati in questione. 4 L’accentuarsi dell’interesse primario alla tutela dei dati del cliente bancario trova riscontro anche in sede giurisprudenziale. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha statuito, infatti, la necessità di osservare l’obbligo di protezione dei dati personali da parte delle banche che, nell’esercizio delle proprie funzioni contrattuali, hanno il dovere giuridico di tutelare la privacy dei soggetti interessati, senza in tal modo ledere il proprio diritto alla riservatezza. Cfr., Cass., 27 dicembre 2017, n.30981. In particolare è stato affermato come «i dati sensibili (…) possono essere trattati soltanto mediante modalità organizzative, quali tecniche di cifratura o criptatura che rendono non identificabile l’interessato. Ne consegue che i soggetti pubblici o le persone giuridiche private, anche quando agiscano rispettivamente in funzione della realizzazione di una finalità di pubblico interesse o in adempimento di un obbligo contrattuale, sono tenuti all’osservanza delle predette cautele nel trattamento dei dati in questione». 5 L’obbligo di trasparenza è dunque finalizzato a consentire a tutte le persone fisiche, anche prima di diventare “interessati”, la possibilità di conoscere il trattamento dei dati personali progettato e sviluppato, con riferimento alle misure adeguate da adottare rispetto ai rischi che possono comportare per le loro libertà e diritti. Non a caso il 39° Considerando nell’approfondire il concetto di trasparenza, di cui all’art.5, specifica come «le informazioni e le comunicazioni relative al trattamento dei dati personali debbano essere facilmente accessibili e comprensibili, grazie all’uso di un linguaggio semplice e chiaro».

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bilità” cui, come si vedrà, si contrappone un impianto sanzionatorio molto aspro per il mancato rispetto della normativa). Ed ancora, l’obbligo di rilevare e segnalare tempestivamente le eventuali violazioni dei dati personali, nonché il dovere di nomina di un Data Protection Officer, in qualità di supervisore indipendente, indispensabile per i soggetti elencati all’art.37 del Regolamento in parola6. Trattasi, come è dato capire, di una vera e propria rivoluzione degli adempimenti privacy per le imprese, in generale, e per gli istituti bancari, nello specifico, che procede di pari passo con un accrescimento – altro elemento fondante del GDPR – della gamma dei diritti degli interessati (indicati agli artt. 15-21 del Regolamento e noti con il termine di “nuovi diritti” in quanto non presenti nella direttiva 95/46)7 resa più ampia ed articolata rispetto al passato. Entrano in gioco pertanto il diritto al consenso in forma esplicita per i dati sensibili (ex art.9 del Regolamento); la possibilità di fare la class action sulla protezione degli stessi, per non parlare degli ulteriori diritti all’accesso ai dati, alla limitazione del trattamento, alla rettifica e alla portabilità8 e, infine, il novellato diritto all’oblio9.

6 Il citato articolo prevede come il Responsabile Protezione Dati sia «sistematicamente» designato in particolari casi tassativamente elencati. Nello svolgimento dei suoi compiti egli dovrà considerare «debitamente i rischi inerenti al trattamento, tenuto conto della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del medesimo». 7 Non si tratta affatto di diritti riconosciuti a tutti gli interessati: molti di questi sono strettamente legati ai trattamenti automatizzati tipici della società digitale, ed è per questo che costituisce una innovazione importante qualificandoli come “nuovi diritti” anche in senso sostanziale. Parimenti, non si tratta di diritti nuovissimi giacché, sia pure in termini leggermente diversi e limitatamente ai servizi della società dell’informazione, essi erano già previsti dalla direttiva e-privacy 2002/58/CE e successive modificazioni rispetto ai providers telefonici. La novità però è che ora questi diritti possono riguardare qualunque trattamento automatizzato di dati. Tuttavia, l’attuale ampiezza di tali diritti hanno imposto due limiti specifici: che i trattamenti si svolgano o sulla base del consenso, ex art. 6 e 9, o sulla base del contratto (restano esclusi i trattamenti che abbiano una diversa base di legittimità tra quelle previste dall’art. 6 e, in particolare, quelli previsti dall’art. 20, co.3). Il diritto di chiedere la portabilità dei dati impone comunque anche uno specifico onere ai titolari, che sono tenuti ad adottare modalità informatiche che si basino su formati strutturati, di uso comune e leggibili. 8 Tali diritti consentono di ricevere i propri dati inseriti in un portale o in un servizio (compresi i dati relativi all’estratto conto) in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da dispositivo automatico e ottenerne la trasmissione ad un altro fornitore di servizi. 9 A tal riguardo vale la pena rammentare la nota decisione Google Spain vs. Agencia Espanola de Proteccion de Datos, in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha

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Quest’ultimo, in specie, costituisce uno dei pilastri più significativi della Data Protection in quanto sancisce il tempestivo diritto di ottenere la cancellazione «senza ingiustificato ritardo» dei dati personali diffusi in Internet in presenza di specifici presupposti10. Va detto peraltro che per quanto le banche, a differenza degli altri competitors (OTT e FinTech), godono di una posizione di vantaggio poiché già adempiono a diversi obblighi in tema di sicurezza e gestione del dato imposti dal TUB – non si dimentichi come la tutela della riservatezza, dell’integrità e della disponibilità dei dati personali e del loro trattamento corretto si basi, nell’ordinamento bancario, su una pluralità di misure di carattere normativo, organizzativo e informatico – nondimeno, le profonde differenze in tema di sicurezza e privacy, desumibili dall’impianto regolatorio del GDPR, non danno la certezza che gli strumenti finora adottati dalle stesse strutture creditizie siano sufficienti a garantire – sin da subito – la conformità al nuovo Regolamento11. Uno dei limiti attuali è indubbiamente rappresentato dal fatto che la disciplina contenuta nella normativa di settore – sulla raccolta delle informazioni e sul loro trattamento – risulta generalmente finalizzata a soddisfare le esigenze informative della Banca d’Italia per scopi di vigilanza (con ricadute sul rapporto contrattuale), quindi si muove in termini

formalizzato il «diritto all’oblio» quale espressione del diritto alla privacy nelle vicende personali diffuse via web che non siano più di pubblico interesse, ovvero risultino oramai dimenticate o ignote alla generalità dei consociati. Cfr., sentenza della Corte del 13 maggio 2014 (Causa C-132/12). 10 Trattasi del “right to be forgotten” o cd. diritto all’oblio. L’attribuzione di tale diritto – peraltro scarsamente attenzionato nel pregresso impianto regolatorio – comporta notevoli implicazioni per il titolare del trattamento chiamato ad adottare soluzioni tecniche idonee ad assicurare la cancellazione automatica dei dati non solo sul singolo sistema aziendale, tramite il quale sono stati raccolti, ma altresì su tutti gli altri sistemi all’interno dei quali gli stessi sono eventualmente veicolati e/o trattati. Inoltre dovrà predeterminare il tempo di mantenimento dei dati (con il GDPR questa informazione sarà, d’ora in poi, obbligatoria nelle informative) e prevederne adeguati sistemi di cancellazione. 11 In questa direzione vanno le misure di carattere organizzativo e procedurale per minimizzare il rischio di un utilizzo non corretto delle abilitazioni per l’accesso alle informazioni personali, seguite dall’adozione di un sistema per la gestione del rischio operativo della banca, inclusi quelli relativi alla riservatezza dei dati personali. Attraverso tali misure inoltre vengono sistematicamente valutate l’adeguatezza dei presidi esistenti e le azioni di mitigazione da intraprendere, pur nella consapevolezza che i rischi possono essere minimizzati, mai del tutto azzerati.

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antitetici rispetto alla riconducibilità del concetto di protezione dei dati al diritto fondamentale delle persone fisiche sancito dal Regolamento12. In questo quadro ancora incerto si incunea il Regolamento Data Protection il quale riprende alcune questioni soprattutto riguardanti la necessità di conciliare il diritto del segnalato (di ottenere informazioni circa l’origine dei suoi dati personali) con la tutela della riservatezza dell’identità del segnalante. Il GDPR, nello specifico, prevede espressamente la portata del diritto di accesso ponendo quale unico limite, esercitabile da parte degli Stati membri, la salvaguardia degli interessi quali «la prevenzione, l’indagine, l’accertamento e il perseguimento di reati» o «la tutela dei diritti e delle libertà altrui». Ovviamente, dal punto di vista operativo, affinché il “sistema di segnalazione” sia conforme al GDPR, occorrerà che gli enti creditizi si dotino di requisiti tecnici più severi relativi, ad esempio, al sistema di denuncia delle irregolarità, ai principi di privacy by design e privacy by default e di adeguate misure organizzative, tra cui la pseudonimizzazione, solo per citarne alcuni tra i più importanti.

12 Pur non costituendo questa la sede più adatta per un approfondimento, è d’uopo ricordare come l’introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto del whistleblowing (statuito con legge 190/2012 e calato nel contesto disciplinare dell’art. 52-bis del t.u.b.) – collaudato da diverso tempo, sia pure con modalità diverse, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – costituisca una sorta di apripista per il recepimento della Data Protection nel settore bancario, in quanto mediante sistemi di segnalazione, è possibile individuare gli illeciti commessi da soggetti operanti a vario titolo nell’organizzazione aziendale della banca. Le nuove norme in materia di whistleblowing, introdotte nel dicembre 2017, benché riformulino le disposizioni a suo tempo emanate, hanno comunque lasciato aperte una serie di interrogativi in relazione alla protezione dei dati personali. Ancor prima dell’entrata in vigore della cd. “Legge sul Whistleblowing”, si discuteva se il trattamento dei dati personali del segnalato richiedesse il suo consenso o se, invece, tale trattamento potesse basarsi sull’adempimento di un obbligo di legge o sul perseguimento del legittimo interesse del titolare. Tuttavia, la l. 179/2017 non sembra aver superato le incertezze interpretative sul presupposto che il trattamento non può basarsi sul perseguimento del legittimo interesse del titolare – il quale ricorre nei soli casi individuati dal Garante – né è ragionevole ritenere che l’ente possa ottenere il consenso dei propri dipendenti all’utilizzo dei loro dati personali nell’ambito di sistemi di whistleblowing. Si veda, in particolare, la l. 179/2017 recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato».

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Riprendendo il discorso dell’adeguamento delle banche alle disposizioni in materia di tutela e trattamento dei dati personali, esiste peraltro un problema legato al profilo d’intersezione tra una serie di norme in materia di identificazione dei clienti e loro profilazione; di attività di collocamento di prodotti, anche a distanza; di dati relativi alle transazioni. Il rispetto della normativa privacy strettamente legata all’osservanza della disciplina antiriciclaggio e, di recente, delle prescrizioni derivanti delle Direttive MiFID2, MIFIR e PSD2 – senza contare, a latere, il recepimento di altri vincoli giuridici indicati dal legislatore nazionale e dalle autorità di regolazione – impone alle banche la necessità di procedere, ogni qualvolta sia possibile, ad una lettura “integrata” degli adempimenti privacy, valutandone l’impatto su specifici ambiti dell’attività bancaria. In quest’ottica, gli istituti di credito dovranno garantire misure di sicurezza inedite le quali, contrariamente a quanto previsto dalla PSD213 – ma inevitabilmente in coordinamento con essa – non saranno predeterminate dall’alto, ma dovranno essere scelte autonomamente dagli istituti stessi secondo principi e metodi improntati alla valutazione del rischio (ex art.32 GDPR) e alla cd. accountability14. Infine sarà necessario capire come armonizzare gli attuali provvedimenti del Garante con le nuove disposizioni della GDPR. Si pensi, a mero titolo esemplificativo, al Provvedimento n.192/2011 «Prescrizioni in materia di circolazione delle informazioni in ambito bancario e tracciamento delle operazioni bancarie» e a quello successivo del 18 luglio 2013 n. 357 recante «Chiarimenti in ordine alla delibera n. 192/2011 in tema di circolazione delle informazioni riferite a clienti all’interno dei gruppi bancari e “tracciabilità” delle operazioni bancarie». Vanno poi aggiunte quelle misure attraverso cui è fatto obbligo per le banche di rendere note al Garante eventuali violazioni di particolare rilevanza, per quantità, qualità dei dati e numero dei clienti. Si tratta, come ben si comprende, della prima applicazione in Italia del cd. data breach in ambito bancario, che anticipa quanto contenuto nel Regolamento eu-

13 Cfr., Direttiva 2015/2366 e Direttiva 2016/114 (nota come Direttiva NIS) in tema di misure di sicurezza. Vedasi anche l’art.35 del GDPR per quanto riguarda gli obblighi a svolgere le cd. “valutazioni d’impatto” sulla protezione dei dati (DPIA) ogni qualvolta trattasi di un trattamento che presenta alti rischi per i diritti degli interessati. 14 Essi inoltre sono vincolati alla tenuta di un registro di tutte le categorie di attività relative al trattamento dei dati personali, come disposto all’art.30 del Regolamento, a disposizione dell’autorità di controllo ove ne venga fatta richiesta.

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ropeo a proposito dell’obbligo generalizzato di notifica della violazione dei dati rivolta a tutti i titolari del trattamento, indipendentemente dal settore di attività e dalla loro dimensione (artt. 33 e 34 del GDPR).

2. Dal concetto di “privacy” a quello di “data protection”. La regolamentazione europea sul trattamento dei dati personali contenuta nel GDPR va ad innestarsi su un terreno piuttosto stratificato e intricato15. Consapevole di tale complessità normativa, infatti, la Commissione aveva optato per l’abrogazione e la sostituzione integrale del “vecchio” Codice, combinando così l’obiettivo primario di attuare il Regolamento – la cui caratteristica precipua è quella di essere self-executing, ossia vincolante e direttamente applicabile16 – con l’esigenza di semplificazione e alleggerimento della disciplina. All’occhio più attento non sfugge il fatto che, rispetto alla precedente direttiva 95/46/CE17, con il GDPR non si parla più di “privacy” ma di

15 L’Italia è stata uno dei pochi Paesi che ha prontamente introdotto tale disciplina nel proprio ordinamento già a partire da dicembre 2017 con l’emanazione della Legge n.163 «Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea - Legge di delegazione europea 2016-2017». In specie, l’art. 13 ne prevedeva l’adozione, entro sei mesi dalla sua entrata in vigore (previo parere del Garante), mediante uno o più decreti legislativi volti – si badi bene – ad adeguare (con amplissime rivisitazioni e integrazioni) e non ad abrogare integralmente il quadro normativo nazionale alle disposizioni ivi contenute. L’osservazione richiama quanto già disposto dall’art. 13, co. 3, lett. b) della Legge delega n. 163/2017, laddove si prevede che il legislatore è delegato ad intervenire sul Codice «limitatamente a quanto necessario per dare attuazione alle disposizioni non direttamente applicabili contenute nel regolamento (UE) 2016/679». Vale la pena comunque ricordare come la Commissione di Studio (nominata a supporto e consulenza dell’Ufficio Legislativo del Ministero per la redazione di uno schema di decreto di attuazione della delega) aveva consapevolmente fatto la scelta di procedere all’abrogazione del Codice e alla sua integrale sostituzione allo scopo dichiarato di andare oltre il mero adeguamento della normativa italiana al GDPR in quadro di semplificazione e sinteticità del testo più conforme allo spirito della nuova regolazione europea. In buona sostanza, si voleva dar vita a una regolazione nazionale più agile e coesa, più facilmente interpretabile e applicabile dagli operatori, favorendo la libera circolazione dei dati in un’ottica di sviluppo dell’economia e della “società digitale” nell’ambito dell’Unione. 16 Così, l’art. 288, co.2, Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea. 17 La direttiva in oggetto ha portato l’Italia all’adozione del Codice Privacy attraverso

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“data protection”18, concetti che per quanto co-dipendenti sono da ritenersi in un certo qual modo divergenti tra loro. Il secondo termine pone infatti l’accento su un significato più vasto della norma, poiché tende ad adeguare il livello di protezione dei dati all’evoluzione degli strumenti digitalizzati in uso, spostando la sfera d’interesse non più e non solo sul possesso di dati personali sugli individui/utenti, quanto sul modo di gestirli correttamente, a cominciare dai servizi in rete (Internet, social media, cloud, per citarne alcuni) fino a comprendere tutta la filiera che accompagna i dati personali di ciascuno individuo, con il coinvolgimento quindi di imprese (banche in prima fila), P.A., professionisti, etc. La ratio, come sancisce lo stesso Regolamento, consiste nell’assicurare la «tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e la libera circolazione di tali dati» sia nel settore privato quanto in quello pubblico19, secondo logiche d’implementazione legate ai principi di privacy by design (protezione dei dati fin dalla progettazione) e by default (protezione dei dati per impostazione predefinita)20. Trattasi di misure che consistono, tra l’altro, nel rafforzamento dell’approccio basato sul rischio, nella valutazione d’impatto dei trattamenti per garantire sicurezza e protezione dei dati, nella tenuta del nuovo Registro dei trattamenti, quale strumento ponte tra dati e processi, e non ultima nell’istituzione della nuova figura del Data Protection Officer. Quindi un cambio di passo nelle modalità di governo, presidio e protezione delle informazioni, rispetto alla normativa finora in vigore

l’emanazione del D. lgs. n. 196/ 2003. 18 Si parla di un intervento normativo particolarmente importante, perché le relative disposizioni risulteranno direttamente efficaci e immediatamente applicabili in tutti gli Stati membri dell’Unione, con la conseguenza che le disposizioni di diritto interno eventualmente contrastanti con le previsioni del GDPR dovranno essere disapplicate dal giudice nazionale a vantaggio della normativa unionistica. 19 Le informative richieste agli utenti (dal form per una newsletter ai moduli per richiedere una fidelity card) devono quindi essere aggiornate, prevedendo alcune informazioni nuove (come la base giuridica del trattamento e il tempo di conservazione dei dati) e semplificando il testo in modo da renderle realmente comprensibili. Particolare attenzione è dedicata alla tutela dei minori, i quali – per accedere ai servizi della società dell’informazione (come i social network) – devono avere almeno 16 anni per prestare autonomamente il consenso al trattamento. 20 Il 78° Considerando del Regolamento è abbastanza eloquente in tal senso nell’affermare che «al fine di poter dimostrare la conformità con il presente regolamento, il titolare del trattamento dovrebbe adottare politiche interne e attuare misure che soddisfino in particolare i principi della protezione dei dati fin dalla progettazione e della protezione dei dati di default».

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che ha fortemente interessato le banche, le quali hanno cominciato ad affrontare le attività di compliance al Regolamento con notevoli ricadute sulla loro governance legate alla difficoltà di rafforzare, nell’immediato, la cultura della privacy a tutti i livelli della banca. La valutazione dell’impatto del GDPR sul mondo bancario impone però una considerazione più approfondita dell’approccio basato sul rischio21. Posta la natura operativa dei rischi connessi al trattamento dei dati, ne deriva che fin dal momento della richiesta dell’autorizzazione allo svolgimento dell’attività, la banca deve poter fare affidamento sulla funzionalità dei processi e dei controlli automatizzati allo scopo di garantire, a ciascuna risorsa informatica, una protezione (in termini di riservatezza, integrità, disponibilità, verificabilità e accountability) appropriata e coerente lungo tutta l’intera fase produttiva. Il governo dei rischi nella gestione bancaria rappresenta dunque la prima fase conformativa (compliance) del sistema informativo, la quale dovrà tener conto oltre alle norme di legge e a regolamenti interni (in particolare alle Disposizioni di Vigilanza) anche della peculiarità delle norme contenute nella Data Protection. Le Disposizioni in parola attribuiscono una particolare funzione all’operato degli organi aziendali22 – sia in qualità di supervisori strategici (intenti al controllo del sistema informativo, nell’ottica di un ottimale impiego delle risorse tecnologiche a sostegno delle strategie aziendali) che gestionali (per il processo di analisi del rischio informatico in raccordo con la funzione di risk management) – con l’obbligo di individuare per tempo le fonti, le possibili dinamiche e i necessari presidi per gestire il rischio operativo e con esso quelli connessi al trattamento dei dati23.

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Secondo Basilea 4 si intende per “rischio operativo” quelle perdite derivanti dall’inadeguatezza o dalla disfunzione di procedure, risorse umane e sistemi interni, oppure da eventi esogeni. 22 Cfr., Disposizioni di Vigilanza, parte I, tit. IV, cap. 1, sez. III, 2.2. In specie, cap. 4, sez. II, par.3. 23 Come si dirà meglio dopo, e solo per inciso, la sfera di competenze degli organi interni alla banca in subiecta materia determinano un punto di contatto con il Regolamento, allorquando consentono un adeguato posizionamento della nuova figura del Data Protection Officer in funzione di supporto al Consiglio di Amministrazione e al Comitato Rischi, i quali avranno l’obbligo di coinvolgere tempestivamente ed adeguatamente il responsabile della protezione in tutte le questioni riguardanti la protezione dei dati personali.

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In termini sostanzialmente analoghi alle disposizioni della Banca d’Italia, il Regolamento richiede agli enti creditizi, attraverso l’operato dei suoi organi interni, di procedere in via preliminare al cd. “privacy impact assessment” (ex art. 35). In buona sostanza, quando un tipo di trattamento – allorché prevede in particolare l’uso di nuove tecnologie, considerati la natura, l’oggetto, il contesto e le finalità del trattamento – può comportare «un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche»24, in tal caso l’ente creditizio, prima di procedere al trattamento, è obbligato ad effettuare una “valutazione dell’impatto” allo scopo di garantire sicurezza e protezione dei dati personali25. Ciò in quanto il flusso dei pagamenti consente di acquisire una serie di informazioni personali del cliente26 che, se usate in modo inappropriato, possono determinare «danni economici e sociali significativi» per gli interessati27. Ambito di applicazione della Data Protection, come affermato in premessa, sono infatti i diritti e le libertà fondamentali degli interessati,

24 In particolare il Regolamento, all’art. 35 par. 3, richiede una valutazione sistematica e globale di aspetti personali relativi a persone fisiche, basata su un trattamento automatizzato (compresa la profilazione) sulla quale si fondano decisioni che hanno effetti giuridici o incidono in modo analogo significativamente su dette persone fisiche. Inoltre si richiede il trattamento, su larga scala, di categorie particolari di dati personali e la sorveglianza sistematica su larga scala di una zona accessibile al pubblico. 25 Il titolare del trattamento, allorquando svolge una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati, si consulta con il responsabile della protezione dei dati, se designato. La valutazione contiene almeno: a) una descrizione sistematica dei trattamenti previsti e delle finalità del trattamento, compreso, ove applicabile, l’interesse legittimo perseguito dal titolare del trattamento; b) una valutazione della necessità e proporzionalità dei trattamenti in relazione alle finalità; c) una valutazione dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati di cui al par.1; d) le misure previste per affrontare i rischi, includendo le garanzie, le misure di sicurezza e i meccanismi per garantire la protezione dei dati personali. Inoltre occorre dimostrare la conformità al Regolamento, tenuto conto dei diritti e degli interessi legittimi degli interessati e delle altre persone in questione. L’autorità di controllo redige e rende pubblico un elenco delle tipologie di trattamenti soggetti al requisito di una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati, ai sensi del par.1. L’autorità di controllo comunica tali elenchi al Comitato, di cui all’art.68 del Regolamento. 26 Il 75° Considerando si riferisce a tutte quelle informazioni che inducono a comprendere le convinzioni, la personalità ed il modo di essere delle persone «le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, l’appartenenza sindacale … dati relativi alla vita sessuale … la situazione economica, la salute, le preferenze o gli interessi personali, l’affidabilità o il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti, al fine di creare o utilizzare profili personali». 27 Così, 76° Considerando del Regolamento.

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primo tra tutti il diritto alla protezione dei dati personali, dove è dato rilevare però un passaggio da un sistema individualistico della protezione, incentrato sulla regola del consenso e fatto proprio dalla versione precedente del Codice, ad un modello maggiormente sensibile a salvaguardare la “funzione sociale” e, con essa, la dimensione collettiva del diritto alla protezione dei dati personali dovuto alla natura ambivalente dell’informazione personale, frammento dell’identità personale e, al contempo, elemento di mercato. Il 14° Considerando dispone la tutela di tutte le persone fisiche, indipendentemente dalla loro nazionalità e residenza, in considerazione del fatto che i loro dati personali vengono trattati (tramite strumenti automatizzati e non) nello svolgimento di un’attività commerciale o professionale del titolare. Resta dunque impregiudicata la centralità del consenso al trattamento dei dati dell’utente bancario quale requisito abilitante (cd. lawful base, indicato all’art. 6 GDPR)28, sia pure in un’accezione del tutto inedita rispetto al Codice Privacy. A differenza della pregressa disposizione infatti se ne coglie la portata normativa più ampia in quanto viene dettata non solo una definizione legislativa allargata di consenso – riconnettendola ad una «qualsiasi manifestazione di volontà» riferibile ad una “azione” dell’interessato29 – ma sottolinea con maggiore enfasi il connotato di inequivocabilità insita nella manifestazione di volontà (o sottesa azione)30 che impone la certezza dell’identità dell’interessato e la messa a disposizione di strumenti idonei a conservare negli anni la volontà del soggetto31.

28 Ad essi si applicano i principi generali dettati dall’art. 5 GDPR, ovverosia liceità, correttezza, trasparenza, proporzionalità, esattezza, delimitazione temporale, integrità e responsabilità. 29 Superando così la stretta nozione dell’art. 23 del Codice Privacy limitata ad una mera dichiarazione resa o documentata per iscritto. 30 Rispetto alla normativa precedente, il GDPR non richiede né la forma scritta né la documentazione per iscritto del consenso al trattamento, bensì che il titolare sia “in grado di dimostrare” come l’interessato abbia acconsentito. In questo senso, appare in ogni caso consigliabile, a fini probatori e soprattutto ai fini di conformità con il principio di accountability o responsabilizzazione, tenere traccia del consenso conferito in relazione a uno specifico trattamento. 31 L’era del digitale offre una serie di strumenti per raggiungere siffatti obiettivi, quali e-identification, come SPID, ovvero con soluzioni trust quali firma avanzata, digitale o qualificata, che permettono di garantire paternità e integrità dei documenti.

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In altri termini, secondo l’approccio sostanziale della Data Protection è importante la prova da parte del titolare di una valida e consapevole manifestazione di volontà dell’interessato resa eventualmente – ma con i dovuti limiti – anche per facta concludentia32. Poca attenzione, invece, si ritiene essere stata accordata all’indicazione degli strumenti da implementare per raggiungere la compliance normativa, con inevitabili ricadute sulla scelta delle soluzioni da adottare da parte delle banche. I motivi che portano a una conclusione del genere trovano fondamento nella circostanza secondo cui – rispetto alla normativa PSD2 e a quella antiriciclaggio – si tratterebbe di obblighi di risultato e non di mezzi, poiché l’approccio è incentrato più sul trattamento del dato in termini di risultato atteso (principalmente la protezione e la minimizzazione dell’utilizzo del dato, facendo sì che siano sempre solo quelli realmente indispensabili al caso concreto) che sulla tutela del cliente stesso. La minimizzazione dei dati – declinabile negli obblighi di adeguatezza, pertinenza e di limitazione del trattamento dei dati – è finalizzata, salvo poche eccezioni, al reale bisogno del titolare, al quale peraltro compete ulteriore obbligo dell’esattezza del dato stesso: nel Regolamento infatti è specificato come i dati trattati debbano essere esatti e, se necessario, aggiornati; pertanto il titolare deve, in questo senso, prendere tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente eventuali inesattezze33.

32 Deve trattarsi di informazioni non essenziali e non strumentali all’esecuzione di una prestazione nei riguardi dell’interessato (ad esempio una prestazione in ambito contrattuale o precontrattuale, ipotesi del resto che opportunamente il GDPR, ai sensi dell’art.6, lett. b), fa fuoriuscire dai casi di trattamento basati sul consenso). Interessante, al riguardo, è l’esempio fornito dalle Linee Guida WP29, secondo cui «un’App mobile per il fotoritocco chiede ai propri utenti di attivare la localizzazione GPS per l’utilizzo dei suoi servizi. L’App comunica inoltre ai propri utenti che utilizzerà i dati raccolti per scopi di pubblicità comportamentale. Né la geo-localizzazione né la pubblicità comportamentale online sono necessari per la fornitura del servizio di fotoritocco e vanno oltre la consegna del servizio di base fornito. Poiché gli utenti non possono utilizzare l’App senza acconsentire a tali scopi, il consenso non può essere considerato come dato liberamente». 33 L’art. 16 del Regolamento, sul diritto di rettifica, stabilisce chiaramente che «l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la rettifica dei dati personali inesatti che lo riguardano senza ingiustificato ritardo. Tenuto conto delle finalità del trattamento, l’interessato ha il diritto di ottenere l’integrazione dei dati personali incompleti, anche fornendo una dichiarazione integrativa».

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Un siffatto approccio, cd. di risk based, ha l’evidente svantaggio di delegare alle banche la “valutazione del rischio” finendo così con il rendere meno burocratica la gestione dei dati e, di converso, più difficili le contestazioni in caso di violazioni. Eppure esso sembra trovare un limite proprio nel fatto che al risk based si contrappone un principio di responsabilità, il quale si esplicita nell’adozione di comportamenti proattivi da parte dei titolari cui è demandato il compito di decidere autonomamente le modalità e i limiti del trattamento dei dati. Pertanto la predisposizione e l’aggiornamento della documentazione diventa momento essenziale, in quanto indice di corretta implementazione delle norme per raggiungere la compliance. All’informativa34 e all’obbligo del consenso (che attesta il rispetto dei diritti degli interessati) si affianca inoltre la necessità per le banche di ripartire ruoli e responsabilità delle figure coinvolte nel trattamento (contratti e nomine dei responsabili esterni e incaricati; procedure interne, etc.). Il GDPR definisce negli stessi termini del Codice Privacy sia le caratteristiche soggettive sia le responsabilità delle figure coinvolte nel trattamento35 ma, a differenza della pregressa impostazione, si passa da

34 I contenuti dell’informativa sono elencati in modo tassativo dal Regolamento e in parte sono più ampi rispetto al Codice Privacy. Tra le altre, una novità rilevante riguarda l’esigenza di riportare in informativa l’indicazione del periodo per il quale i dati raccolti e trattati verranno conservati. Con il GDPR cambia la forma dell’informativa, divenendo concisa, trasparente, intelligibile per l’interessato e facilmente accessibile. Essa deve essere fornita, in linea di principio, per iscritto e preferibilmente in formato elettronico, soprattutto se fornita al pubblico tramite un sito web. Inoltre, si prevede che i contenuti dell’informativa possano essere presentati in modo sintetico tramite l’impiego di icone standardizzate, le quali consentano di offrire un quadro d’insieme facilmente visibile, intelligibile e chiaramente leggibile del trattamento da effettuare, sempreché tali icone siano impiegate in combinazione con un’informativa estesa. 35 Il GDPR parla però di principio di «responsabilizzazione» con riferimento a chiunque effettui operazioni di trattamento nell’ambito della propria attività. Il termine generale “chiunque” contenuto nella direttiva 2016/680 comporterebbe un ampliamento del novero dei soggetti autorizzati al trattamento dei dati, di cui all’art. 167-bis Codice Privacy di nuova introduzione. Nel parere sullo schema di decreto, il Garante ha proposto di riformulare in parte questa nuova fattispecie, in primo luogo, ampliando la sfera soggettiva dei soggetti attivi del reato tramite l’introduzione del termine generale “chiunque” e, in secondo luogo, prevedendo che sia punibile non solo chi comunica o diffonde dati a scopo di profitto, ma altresì chi lo fa al fine di nuocere ad altri. Una precisazione questa molto importante la quale prende in considerazione l’evoluzione dei comportamenti criminogeni in rete.

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un concetto puramente formale di semplice osservanza ad un approccio concreto ai dati personali, non scevro tuttavia di questioni interpretative circa il rapporto sussistente tra chi opera come titolare e chi quale responsabile, nonché gli obblighi che ciascuno dei due assume rispetto all’altro, anche con riguardo alle specifiche responsabilità del titolare e degli eventuali co-titolari verso gli interessati e le autorità di controllo. Da questo punto di vista, l’impatto delle nuove regole è notevole nell’ipotesi in cui la banca riveste il ruolo di co-titolare del trattamento insieme alla società di gestione dei sistemi informativi (tramite i quali vengono elaborati i dati dei clienti)36 e ove la stessa svolga il ruolo di unica titolare37. Nel primo caso, qualora la banca agisca insieme alla società di gestione dei sistemi informativi che elabora i dati dei clienti, entrambi i soggetti avranno l’onere di definire – per mezzo di un atto giuridicamente valido – il rispettivo ambito di responsabilità e i relativi compiti sull’utilizzo dei dati degli interessati, salvo responsabilità solidale dei contitolari. Diversamente, qualora l’ente rivesta il ruolo di unico titolare, è importante procedere alla nomina formale del responsabile del trattamento – tramite un apposito contratto di trattamento dei dati – così come previsto dal Regolamento. In specie, l’obbligo incombente sul titolare e sul responsabile è quello di dover tener conto di alcune variabili (es. trasparenza, minimizzazione, esattezza, limitazione della conservazione) e mettere in atto misure tecniche e organizzative adeguate – costantemente monitorate – per garantire un livello di sicurezza coerente con il grado di rischio38.

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In particolare, il GDPR ha introdotto delle nuove regole in materia di contitolarità del trattamento, secondo le quali i titolari devono definire specificamente con un atto giuridicamente valido il rispettivo ambito di responsabilità e i relativi compiti con riferimento all’esercizio dei diritti degli interessati, salva la responsabilità solidale dei contitolari nei confronti degli interessati indipendentemente da tale ripartizione di compiti e obblighi. 37 I questo caso, il Regolamento impone al titolare di nominare formalmente il responsabile del trattamento indicando la natura, la durata e la finalità del trattamento o dei trattamenti assegnati, le categorie di dati oggetto di trattamento, le misure tecniche e organizzative adeguate a consentire il rispetto delle istruzioni impartite dal titolare e, in via generale, delle disposizioni contenute nel regolamento, anche ai fini dell’adempimento degli obblighi in caso di data breach e della cancellazione dei dati al termine della fornitura dei servizi. 38 Quanto alle misure di sicurezza, il GDPR richiede che le stesse possano garantire un livello di sicurezza “adeguato al rischio” del trattamento; pertanto viene offerta una

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Ben si comprende allora come, con riguardo agli obblighi delle suddette figure in materia di protezione dei dati, l’accountability non vada circoscritta alla sola responsabilità ma estesa anche ad altri aspetti quali l’affidabilità e la competenza aziendale nella gestione dei dati personali. Essi pertanto dovranno essere in grado di dimostrare di aver adottato un solido processo di misure di protezione dei dati mediante l’elaborazione di puntuali modelli organizzativi in conformità alle disposizioni del Regolamento39.

lista aperta di misure applicabili, lasciando al titolare e al responsabile la valutazione circa le misure applicabili in concreto, tenuto conto dei rischi specificamente individuati in relazione all’operazione di trattamento. Nell’individuare le misure concretamente applicabili, le banche dovranno in ogni caso tener conto tanto delle specificità previste dalle disposizioni di vigilanza degli organi preposti, quanto delle disposizioni contenute nelle “Prescrizioni in materia di tracciamento degli accessi ai dati bancari dei clienti”, tempi di conservazione dei relativi file di log e implementazione di Alert di rilevazione di intrusioni o accessi anomali ai dati bancari. Il Regolamento inciderà inoltre, per quanto riguarda l’analisi dei rischi, sulla sicurezza dei devices interconnessi (cioè gli IOT) e sulla protezione dei dati personali che tramite gli stessi possono essere raccolti o trattati. 39 Cfr., art. 5, co. 2 (cd. principio di «responsabilizzazione»). Più dettagliamene, tale principio si estrinseca, anzitutto, nella necessità di integrare la protezione dei dati personali in tutti i processi e nella cultura dell’organizzazione tramite l’adozione di politiche interne e misure che soddisfino i principi della protezione dei dati fin dalla progettazione (privacy by design) e della protezione dei dati per impostazione predefinita (privacy by default). In adempimento ai summenzionati principi, il titolare sarà tenuto a svolgere un’analisi preventiva dell’impatto dell’operazione di trattamento (Data Privacy Impact Assessment - “DPIA”) laddove questo possa presentare un rischio elevato per i diritti e le libertà fondamentali degli interessati. L’obiettivo è quello di consentire al titolare di individuare e applicare, sin dalla progettazione del servizio o prodotto, opportuni correttivi per la prevenzione del rischio, nonché di ridurre i costi e i danni reputazionali derivanti dalla violazione della normativa in materia di protezione dei dati. Lo svolgimento del DPIA è prodromico all’eventuale consultazione preventiva con il Garante, da effettuarsi obbligatoriamente nei casi in cui risulti impossibile individuare delle misure “opportune in termini di tecnologia disponibile e costi di attuazione” atte ad attenuare sufficientemente il rischio del trattamento. Cfr., al riguardo, 84° Considerando del GDPR. Il principio di «responsabilizzazione» si estrinseca infine nell’obbligo, sia per i titolari che per i responsabili, ai sensi dell’art. 30 del Regolamento, di tenere un Registro delle attività di trattamento che diventa strumento fondamentale in grado di disporre di un quadro aggiornato dei trattamenti in essere all’interno di un’organizzazione. Tale adempimento sostituisce, di fatto, l’attuale obbligo di «notifica» dei trattamenti all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali nazionale (cd. Data Protection Authority o DPA). Il Registro dev’essere messo a disposizione della DPA per ispezioni e controlli. Le ban-

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Sempre nell’ottica di responsabilizzazione, il GDPR introduce l’istituzione della nuova figura professionale del responsabile per la protezione dei dati (cd. Data Protection Officer – DPO) creata per supportare il titolare e il responsabile ma che è destinata ad assumere particolare importanza proprio in ambito creditizio a motivo della grande mole di dati personali dei clienti gestibili solo attraverso l’inserimento, all’interno della compagine bancaria, di un ufficio dedicato. Nonostante la sua posizione intermedia – in chiave di consulenza – tra titolare e responsabile del trattamento40, nonché di “ponte di contatto” con l’Autorità Garante, il DPO resta tuttavia una figura abbastanza controversa sia sotto il profilo della certificazione necessaria per lo svolgimento della sua attività, sia per quanto riguarda la tipologia di contratto da stipulare con le anzidette figure, entrambi i punti sui quali il Garante nazionale non si è ancora espresso41. Il Regolamento, da parte sua, non fa particolare chiarezza limitandosi ad escludere dall’esercizio dei suoi compiti e delle sue funzioni ogni possibile conflitto di interesse: la sua assenza è strettamente legata alla necessità di agire in modo indipendente; ciò comporta per il DPO, in

che hanno già predisposto, in questo senso, la tenuta del Registro indicando le modalità per la notifica delle violazioni dei dati. 40 In base al Regolamento, il DPO dovrebbe essere nominato obbligatoriamente ove il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico. Ancora, la nomina è resa obbligatoria quando le attività principali (cd. core business) del titolare o del responsabile consistono in trattamenti che, per loro natura, ambito di applicazione e/o finalità, richiedono il monitoraggio regolare e sistematico degli interessati. La designazione obbligatoria del DPO avviene anche nell’ipotesi di trattamento “su larga scala” di speciali categorie di dati personali o di dati relativi a reati e condanne penali. È il caso del trattamento dei dati bancari dei propri clienti da parte di una compagnia assicurativa; il trattamento, da parte di un motore di ricerca, dei dati personali degli utenti per l’invio di pubblicità mirata. 41 A voler inquadrare l’operatività del Data Protection Office, questi risulta essere un soggetto dotato di competenze molto ampie in materia giuridica, informatica, di risk management, di analisi dei processi con il compito di valutare, organizzare e governare la gestione del trattamento dei dati nel rispetto della nuova normativa, competenze queste non in grado da sole di riuscire a “definire”, o se si preferisce, a “collocare” il suo ruolo. Il DPO, in sostanza, è designato in funzione delle qualità professionali, in particolare della conoscenza specialistica della normativa in materia di protezione dei dati e può essere tanto un dipendente del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento quanto un libero professionista che opera in forza di un contratto di servizi. Maggiori ragguagli circa le caratteristiche soggettive (competenze professionali, garanzie di indipendenza e inamovibilità) nonché i compiti del DPO sono contenute nelle Linee Guida sul DPO adottate dal WP29.

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particolare, l’impossibilità di mantenere una posizione all’interno dell’organizzazione che lo porti a determinare le finalità e gli strumenti del trattamento dei dati personali. Più dibattuta è la questione in ambito bancario circa la corretta posizione del DPO, ove si tenga conto delle molteplici e complesse funzioni aziendali di controllo (si pensi alla funzione di compliance, di risk management, di internal audit)42. In questo schema andrebbe collocato il DPO quale figura indipendente (come richiamato dal 97° Considerando della Data Protection) ma che risulta, di fatto, legata a livello gerarchico al Consiglio d’Amministrazione nella misura in cui porta a conoscenza dello stesso la sua attività d’informazione e consulenza a favore del titolare o del responsabile del trattamento. Senza scendere nel merito della questione, è facile intuire come le banche dovranno interrogarsi a lungo sulla collocazione del DPO al loro interno – e nondimeno sull’eventuale necessità di individuare una struttura che eserciti delle verifiche sullo stesso – dal momento che le funzioni di controllo bancarie sono, a loro volta, demandate al trattamento di dati personali. Si verrebbe a creare quindi una sovrapposizione di competenze tra “controllato” e “controllore” tale da originare potenziali conflitti di interesse.

3. Adeguamento del quadro sanzionatorio alle disposizioni del Regolamento. Verifica. Fra i capitoli più complessi del Regolamento GDPR c’è quello relativo alle sanzioni (e loro rimodulazione), oggi inasprite rispetto alla più tenue direttiva del 1995. I Considerando 3 e 4 della direttiva definiscono la ratio del nuovo sistema punitivo contestualizzando l’impianto ordinamentale alla mutata realtà sociale43 che vede, da un lato, lo sviluppo tecnologico e i nuovi

42 Cfr., Circolare n.285 del 19 dicembre 2013 di Banca d’Italia in materia di controlli interni (aggiornata al 2 novembre 2016). 43 Così il 3° Considerando secondo cui «la rapidità dell’evoluzione tecnologica e la globalizzazione comportano nuove sfide per la protezione dei dati personali. La portata della raccolta e della condivisione di dati personali è aumentata in modo significativo. La tecnologia consente il trattamento di dati personali, come mai in precedenza, nello svolgimento di attività quali la prevenzione, l’indagine, l’accertamento e il perseguimen-

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modelli di crescita economica (con la loro enorme mole di informazioni) e, dall’altra, la minaccia terroristica che comprimere, oltre i limiti sostenibili, il diritto alla privacy dei cittadini europei. Nel riaffermare i principi ispiratori della disciplina europea in materia – e l’inequivoca sottolineatura che a tali principi, ovunque in Europa, non potranno restare sottratte neppure le autorità giudiziarie e quelle di polizia – il legislatore invita gli Stati affinché si impegnino a garantire il rispetto degli stessi livelli minimi di tutela da parte delle rispettive autorità giudiziarie44. Il capitolo delle sanzioni – con il suo corredo di disposizioni in materia – conferma ancora una volta il carattere di trasversalità del GDPR. La condivisione dei dati e delle informazioni tra le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie dei diversi Paesi membri rappresenta un irrinunciabile strumento per garantire la sicurezza in Europa e, nello stesso tempo, costituisce un punto di forza della direttiva stessa nel momento in cui impone lo scambio dei dati personali (da parte delle autorità competenti all’interno dell’Unione) senza alcun limite o divieto per motivi attinenti alla protezione delle persone fisiche in tutta l’Area. Dunque si fa largo un concetto di condivisione dei dati a fini giudiziari tale da porre in chiara luce la necessità di un raccordo sinergico tra autorità di polizia e di quelle giudiziarie nella lotta al terrorismo interno ed internazionale e, più in generale, alla criminalità. Corre l’obbligo ricordare come l’inquadramento generale sulle sanzioni trovi spazio sin dalla Direttiva 95/46/CE, la quale però non forni-

to di reati o l’esecuzione di sanzioni penali». Ed ancora il 4° Considerando ribadisce che «la libera circolazione dei dati personali tra le autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o di esecuzione di sanzioni penali, inclusi la salvaguardia contro e la prevenzione di minacce alla sicurezza pubblica, all’interno dell’Unione e il trasferimento di tali dati personali verso paesi terzi e organizzazioni internazionali, dovrebbe essere agevolata garantendo al tempo stesso un elevato livello di protezione dei dati personali. Ciò richiede la costruzione di un quadro giuridico solido e più coerente in materia di protezione dei dati personali nell’Unione, affiancato da efficaci misure di attuazione». 44 In questo spirito vi rientra il divieto al trattamento automatizzato di dati personali allorquando minacciano di danneggiare l’identità personale di un cittadino – e il contestuale obbligo di mantenere distinti i dati personali discendenti da fatti – da quelli che, invece, rappresentano semplici deduzioni. Inoltre si impone una particolare attenzione alla correttezza dei dati trattati ed alla sicurezza dei sistemi e l’obbligo di denunciare alle autorità di tutela della privacy ogni violazione dei database. Vera novità rimane comunque l’invito a collaborare con le autorità garanti nazionali prima di dar vita ad ogni trattamento dal quale la privacy dei cittadini europei possa uscire pregiudicata.

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va alcuna specificazione né della tipologia né dell’entità delle sanzioni previste. Anzi, in virtù del carattere di autonomia, si attribuiva agli Stati membri (ex art.24) il compito di disciplinare le conseguenze delle violazioni, senza precisare se le stesse dovessero avere carattere penale oppure amministrativo. Al contrario, la scelta del legislatore europeo è stata quella di porre su due differenti livelli d’intervento la gestione dei reati, conferendo particolare attenzione alle violazioni di tipo amministrativo-pecuniario45, di cui fornisce ex ante alcuni criteri per la loro ponderazione (inerenti tutte le contingenze che attengono alla situazione concreta, tra cui la natura, la gravità, la durata dell’infrazione e le relative conseguenze). Un principio cardine su cui poggia l’ipotesi di violazione del Regolamento (inadempienza del titolare o responsabile del trattamento) è l’imposizione, da parte delle autorità di controllo, di sanzioni “equivalenti” unitamente ad una cooperazione efficace tra le autorità di controllo dei diversi Stati membri. Il concetto di “equivalenza” è dunque fondamentale al fine di garantire un livello coerente ed elevato di protezione delle persone fisiche rimuovendo gli ostacoli alla circolazione dei dati personali nel mercato interno46.

45 Per quanto riguarda tali sanzioni l’inasprimento della pena, rispetto alla precedente previsione, può raggiungere anche i 10 milioni di euro, o se superiore il 2% del fatturato mondiale, nei casi di violazione delle condizioni applicabili al consenso dei minori in relazione ai servizi della società dell’informazione; di trattamento illecito di dati personali che non richiede l’identificazione dell’interessato; di mancata o errata notificazione e/o comunicazione di un data breach all’autorità nazionale competente; di violazione dell’obbligo di nomina del Data Protection Officer (DPO), nonché di mancata applicazione di misure di sicurezza. L’importo delle sanzioni amministrative pecuniarie può salire fino a 20 milioni di euro, o alternativamente, sino al 4% del fatturato mondiale dell’impresa nei casi di inosservanza di un ordine, di una limitazione provvisoria o definitiva concernente un trattamento, imposti da un’Autorità nazionale competente; trasferimento illecito cross-border di dati personali ad un destinatario in un Paese terzo. 46 Si consideri che il Regolamento offre una base più solida rispetto alla direttiva 95/46/CE ai fini di una maggiore coerenza, in quanto esso è direttamente applicabile negli Stati membri. Anche se le autorità di controllo agiscono in “piena indipendenza”, secondo quanto stabilito all’art. 52 nei confronti dei governi nazionali, dei titolari del trattamento o dei responsabili dello stesso, esse devono collaborare «al fine di garantire l’applicazione e l’attuazione coerente del presente regolamento». Cfr., art. 57, par.1, lett.g).

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In termini molto generali, al di là degli importi edittali molti elevati (fino a 20 milioni di euro o il 4% del fatturato mondiale annuale) il principio generale contenuto nel Regolamento è quello secondo cui la violazione dello stesso comporta l’imposizione di sanzioni analoghe in tutti gli Stati membri e l’osservanza dei criteri di effettività, proporzionalità e dissuasività47. Soggetti responsabili della violazione possono essere sia le persone fisiche sia i soggetti giuridici privati o pubblici, ad esempio i titolari e i responsabili del trattamento, il Data Protection Officer, oppure gli organismi di certificazione e di monitoraggio dei codici di condotta. Questo equivale a dire che in ambito bancario, in applicazione dell’art.83 del GDPR, sarà necessario implementare misure conformative al nuovo Regolamento, anche per ragioni manageriali concernenti la gestione stessa dell’impresa. Inoltre sarà indispensabile dar corso a quell’azione di coordinamento, cui si faceva prima cenno, con i provvedimenti del Garante in materia di circolazione delle informazioni e tracciamento delle operazioni bancarie, nonché in tema di circolazione delle informazioni riferite a clienti dei gruppi bancari. Un diverso atteggiamento invece è stato assunto dal legislatore europeo per la materia penale. L’art. 84 del Regolamento prevede come essa sia di competenza di ciascuno Paese membro, il quale dovrà stabilire le norme inerenti le “altre sanzioni” non amministrative pecuniarie (id est le sanzioni penali, ex 149° Considerando) per le violazioni del GDPR «adottando tutti i provvedimenti necessari per assicurarne l’applicazione», ossia imponendole per mezzo di disposizioni interne48.

47 L’art. 83, co. 2 nel richiamare tali criteri specifica come le sanzioni debbano essere applicate in funzione del singolo caso e tenendo conto della natura, della gravità e della durata della violazione, delle finalità del trattamento, del numero di interessati lesi e del livello del danno, oltre ad altri elementi come il carattere doloso o colposo della violazione e le misure adottate. Esistono dei limiti in caso di violazione di più disposizioni. Pertanto qualora, in relazione allo stesso trattamento o a trattamenti collegati, si violino varie disposizioni del Regolamento, l’importo totale della sanzione amministrativa pecuniaria non supera l’importo specificato per la violazione più grave. Parimenti, in caso di violazione minore – o se la sanzione pecuniaria costituisce un onere sproporzionato per una persona fisica – potrebbe essere rivolto un ammonimento anziché imposta una sanzione pecuniaria. Cfr., 148° Considerando del Regolamento. 48 Per quanto attiene alla legislazione interna, sono compatibili con la nuova normativa europea le previsioni sulla responsabilità penale di cui al d. lgs. 196/2003 (Codice in

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Nello specifico, il 149° Considerando del GDPR dà facoltà agli stessi Stati di stabilire disposizioni relative a sanzioni penali come strumento di attuazione e tutela della nuova disciplina, in ossequio al principio del ne bis in idem secondo l’interpretazione della Corte di Giustizia europea49. Ciò, in buona sostanza, porterebbe ad evidenziare un margine di discrezionalità circa la possibilità di infliggere una data sanzione e la determinazione del suo importo, che non va intesa però in termini di autonomia gestionale in capo alle autorità nazionali competenti. Una sensazione, solo per inciso, ricorrente anche con riferimento alle già menzionate sanzioni amministrative pecuniarie le quali, oltre ad essere previste solo nell’anzidetto limite massimo, riservano al Garante, chiamato ad applicarle, ampi margini di discrezionalità. In ordine all’impianto punitivo di natura penale sembra si possano sollevare due ordini di questioni. La prima – posta in termini prospettici – indubbiamente riguarda l’impatto sul nostro ordinamento delle sanzioni penali contro le violazioni del GDPR quando questo entrerà a pieno regime. Le previsioni contenute nel nostro d.lgs. n.196/2003 si collocano sostanzialmente in linea con la nuova normativa europea. Ad oggi, il Codice Privacy – che è bene ricordare il legislatore ha scelto di non abrogare – prevede una responsabilità penale derivante, in via generale, da alcune specifiche condotte, le quali, ai sensi dell’art. 167 (trattamento

materia di protezione dei dati personali). Ad oggi, infatti, il Codice Privacy prevede che la responsabilità penale possa derivare da alcune specifiche condotte le quali, ai sensi dell’art. 167 del Codice in oggetto, devono essere volte a trarre profitto, per sé o per altri, oppure a cagionare danno e devono aver arrecato nocumento al soggetto danneggiato, sempre salvo il caso in cui il fatto costituisca un più grave reato secondo la legge. 49 Il 149° Considerando dunque nel prevedere la possibilità di sanzioni penali per la violazione della legislazione europea oppure nazionale – adottata in virtù del GDPR in materia di protezione dei dati – si rifà a quanto stabilito all’art.50 della Carta UE, la quale sancisce il diritto di non essere giudicati o puniti due volte per il medesimo reato e dal Protocollo n. 7 alla Convezione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali. In specie, sul principio del ne bis in idem, con particolare riguardo all’ambito penalistico, la CGUE si è ampiamente espressa, in particolare nei ben noti casi Aklagaren, Gasparini, Van Straaten e Kretzinger. In questa sede è opportuno menzionare, altresì, la decisione del caso Grande Stevens ed altri contro Italia (sentenza del 4 marzo 2014), in cui la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha escluso la cumulabilità delle sanzioni, con riferimento alle sanzioni amministrative assimilabili a quelle penali.

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illecito dei dati)50 o del successivo art. 168 (falsità nelle dichiarazioni al Garante e interruzione dell’esecuzione dei compiti o dell’esercizio dei poteri dello stesso) devono essere volte a trarre vantaggio e/o altra utilità, per sé o per altri, oppure a cagionare danno e devono aver arrecato nocumento al soggetto danneggiato, sempre salvo il caso in cui il fatto costituisca un più grave reato secondo la legge. Se ne deduce pertanto come la responsabilità penale contemplata dal Codice sia di natura personale, in quanto concerne soltanto le persone fisiche che abbiano commesso, o concorso a commettere, il fatto di reato. Il decreto di adeguamento della privacy italiana traccia pertanto una linea di continuità con il vecchio codice disconoscendo il reato in caso di mancato profitto. Pecca invece del tutto l’individuazione della responsabilità amministrativa degli enti, disciplinata in Italia dal D. Lgs. n.231/2001. Esso, nello specifico, non predispone una vera e propria forma penalistica di sanzione del soggetto giuridico né costituiscono reato nell’ordinamento nazionale, ai sensi della norma, gli illeciti in materia di protezione dei dati personali. Il legislatore europeo inviterà ad uniformare la materia in oggetto in uno spirito di armonizzazione con gli altri Paesi dell’Unione, senza prevedere limitazioni in merito ai soggetti sanzionabili penalmente se non – in via implicita – tramite il richiamo al principio del ne bis in idem. Il secondo quesito è posto invece in termini di compatibilità con la pregressa legislazione in materia in quanto, fermo restando l’adeguamento al Regolamento, ci si interroga in quale misura possano ritenersi “non abrogabili” alcune fattispecie di reato contenute nel Codice della privacy, qualora il legislatore italiano dovesse decidere di tenerle in vita. Una chiave di lettura potrebbe essere quella di mettere in atto da parte del legislatore nazionale un processo di revisione e riordino della disciplina, imprescindibile in vista della piena applicazione del Regolamento. Soprattutto sul fronte delle sanzioni penali, laddove l’opera di

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Va osservato che nella prima formulazione del decreto di adeguamento del GDPR, il legislatore non aveva lasciato più spazio alla sanzione penale prevista dall’art. 167 del Codice Privacy, depenalizzando completamente tale fattispecie ed applicando in pieno il principio del ne bis in idem. Successivamente è stato riformulato nello schema di decreto in modo da continuare a punire penalmente condotte consistenti nell’arrecare nocumento all’interessato, in violazione di alcune specifiche e limitate disposizioni normative, come ad esempio quelle sul trasferimento internazionale dei dati contenute agli artt.45, 46 e 49 del GDPR.

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“razionalizzazione” mirerà a conservare solo quanto risulti compatibile, in via diretta o indiretta, con il GDPR e, se del caso, integrando l’impianto sanzionatorio italiano con nuove fattispecie incriminatrici. In attesa di vedere come reagiranno i destinatari in merito agli illeciti penalmente rilevanti previsti dal decreto che il Governo italiano si è apprestato ad adottare proprio di recente, va ricordato il diritto, da parte di chiunque subisca un danno derivante da una violazione del GDPR, di ottenerne il risarcimento dai soggetti preposti al trattamento dei dati. Un presupposto questo, come si dirà meglio, deputato a penalizzare il titolare stesso, il quale dovrà dare prova che il danno non gli è in alcun modo imputabile, mentre il responsabile del trattamento risponderà solo se non ha adempiuto agli obblighi a lui specificatamente diretti o abbia agito in modo difforme o contrario alle istruzioni del titolare. In termini di compliance alle disposizioni sanzionatorie imposte dal Regolamento, gli enti creditizi – rispetto a tutte le altre “organizzazioni” preposte alla raccolta dei dati personali (secondo l’accezione della Data Protection) – sono doppiamente attenzionate in quanto l’ordinamento bancario, e tutta la complessa normativa51 a latere è permeata da una pluralità di misure di carattere punitivo incidenti, in misura più o meno rilevante, sul comportamento scorretto dell’operatore bancario. Accanto dunque al trattamento dei dati sensibili e alla tutela della privacy imposti dal GDPR, si ascrive un generale obbligo di correttezza e riservatezza della banca (artt.1175 e 1337 c.c., riconducibili al principio dell’opponibilità del segreto d’ufficio, contenuto all’art. 7 del t.u.b.) nelle operazioni col cliente, la cui violazione determina la natura della responsabilità della banca52. Il soggetto leso avrà dunque diritto a richiedere il risarcimento del danno, a seguito della divulgazione dei propri dati

51 Dal t.u.b. al Codice Privacy alle prescrizioni impartite dal Garante nelle “Linee guida in materia di trattamento dei dati personali della clientela in ambito bancario” ai provvedimenti speciali, come quello in materia di circolazione delle informazioni in ambito bancario e di tracciamento delle operazioni bancarie. 52 In genere, la dottrina ha cercato di inquadrare tale comportamento nell’alveo della responsabilità extracontrattuale, essendovi una lesione che attiene alla sfera non contrattualizzata, in quanto riferita alla divulgazione dei dati sensibili. Tuttavia, si potrebbe avanzare anche l’idea dell’esistenza di una responsabilità precontrattuale, nel caso specifico in cui il cliente e l’istituto si trovino nella mera e semplice fase delle trattative. Pertanto, qualora l’istituto divulghi le informazioni relative al soggetto ne sarebbe responsabile in via precontrattuale, in quanto la lesione verificatasi è da riferirsi ad un periodo precedente a qualunque tipologia di contratto, ossia relativa ad un mero contatto sociale esistente tra loro.

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personali, essendo tale possibilità espressamente prevista dall’art. 15, co.1, del codice domestico (e riconfermata dall’art. 82, par.1, del GDPR). L’onere della prova spetta al danneggiato, il quale deve provare gli effetti pregiudizievoli subiti imputabili alla condotta dell’istituto di credito. La Data Protection segue invece una logica d’inversione dell’onere della prova; pertanto al soggetto leso non spetterà dimostrare l’inadempienza del titolare e del responsabile del trattamento53 ma, di contro, per poter essere esonerati da responsabilità, gli stessi dovranno provare, alternativamente, che «l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile» in quanto dipendente da una fonte estranea alla loro sfera di competenza o di controllo, oppure che sono state da loro predisposte ed attuate tutte le prevedibili misure al fine di evitare il verificarsi del danno54. La richiesta di risarcimento del danno da parte dell’interessato dovrà, ad ogni modo, seguire le procedure previste da ciascuno Stato in materia, che nel nostro caso richiederà l’intervento della magistratura civile.

4. Segue. La gestione del data breach. Agganciato al tema delle sanzioni è l’aspetto relativo alla notifica del data breach, termine ormai consueto nel linguaggio quotidiano di imprese e operatori di mercato in quanto indica ogni violazione della

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L’orientamento è quello di introdurre una tutela più specifica e di favore per l’interessato che, avendo subito un danno rilevante, non abbia i mezzi per dimostrare l’inadempimento del titolare o del responsabile, tale prova infatti richiede di frequente un’indagine molto difficile e costosa. 54 Nel caso di coinvolgimento di più titolari o responsabili del trattamento dei dati (oppure di entrambi) nello stesso trattamento e qualora siano da considerare responsabili dell’eventuale danno cagionato all’interessato, l’art.82, par.4, prevede che ognuno di loro sia responsabile in solido per l’intero ammontare del risarcimento da riconoscere all’interessato, al fine di garantirne la piena efficacia. In altre parole, l’interessato potrà rivolgersi anche ad uno solo di essi (in generale, quello che appare più solvibile e dal quale sarà quindi più facile ottenere il risarcimento) obbligandolo così a versare interamente quanto dovuto a titolo di risarcimento del danno. In realtà, quindi, la norma presuppone un principio di co-responsabilità dei titolari e dei responsabili del trattamento allo scopo di definire le conseguenze patrimoniali dei danni cagionati agli interessati. Si tratterà dunque di una responsabilità “pro quota” piuttosto che solidale in senso stretto; cosicché nella ripartizione interna ciascuno di essi sarà responsabile esclusivamente per la quota di responsabilità che gli sarà concretamente riconosciuta.

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sicurezza che comporta accidentalmente o in modo illecito la distruzione, perdita, modifica, divulgazione non autorizzata o l’accesso ai dati personali conservati o comunque trattati55. L’argomento merita senza dubbio un approfondimento ove si consideri come le banche già soggiacciono – a seguito della citata delibera n. 192/2011 in tema di «circolazione delle informazioni riferite a clienti all’interno dei gruppi bancari e “tracciabilità” delle operazioni bancarie» – all’obbligo di informare i correntisti nel caso in cui un data breach sia stato causato da dipendenti interni all’istituto di credito. Tanto la fattispecie quanto gli adempimenti successivi alla stessa (come, ad esempio, la notifica) trovano riscontro, come noto, nel Codice domestico in materia di protezione dei dati personali del 2003 laddove si menziona e disciplina l’eventualità di “incidenti” della sicurezza unitamente agli adempimenti ad essi conseguenti, pur limitatamente ad alcuni settori, tra cui le banche. Il nuovo Regolamento GDPR va oltre, in quanto attribuisce alla notifica una funzione essenziale di tutela degli interessati ed estende tale obbligo alla generalità dei titolari di trattamento, specificando le modalità di notifica del data breach all’autorità di controllo e di comunicazione all’interessato cui i dati oggetto di violazione si riferiscono56. Le strutture creditizie, in particolare, dovranno documentare e notificare non solo all’autorità competente prevista dalla Direttiva Servizi di Pagamento ma, se rischiosa per gli interessati, come si dirà a breve, anche al Garante per la privacy entro 72 ore dalla scoperta ed eventualmente agli interessati stessi, ex artt. 33 e 34 GDPR. Questo è il motivo per cui diversamente dal Codice Privacy – il quale consentiva al titolare del trattamento di scegliere se dichiarare o meno nell’informativa il tempo di conservazione dei dati – l’impianto del GDPR elimina qualsiasi discrezionalità imponendo al titolare di indicare

55 Definizione offerta dal GDPR relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, che andrà ad abrogare la direttiva 95/46/CE. 56 Il “Gruppo di lavoro Art.29” si è più volte attivato per offrire indicazioni concrete e casi esemplificativi che potessero aiutare gli operatori coinvolti nel trattamento di dati personali a interpretare le disposizioni del Regolamento e a pianificare correttamente il loro adeguamento. Si collocano in questo scenario le nuove Linee Guida sul data breach, emanate dal Gruppo di lavoro. Cfr., Guidelines on Personal data breach notification under Regulation 2016/679, adottate il 3 ottobre 2017.

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già nell’informativa anche «il periodo di conservazione dei dati personali oppure, se non è possibile, i criteri utilizzati per determinare tale periodo»57. Infatti, i dati devono e possono essere conservati nella misura in cui (e fino a quando) sono necessari per raggiungere la finalità del trattamento per la quale sono stati raccolti; ciò presuppone quindi che ad ogni finalità corrisponda un determinato termine di conservazione dei dati personali, variabile peraltro a seconda delle caratteristiche stesse del trattamento58. Per il Regolamento non è sufficiente fissare un termine per la conservazione dei dati, occorre anche indicare il momento dal quale tale termine inizia a decorrere: deve trattarsi di un momento noto o facilmente conoscibile dall’interessato; diversamente l’informazione sui tempi di conservazione non sarebbe trasparente ed efficace59. Ovviamente rimane fermo, nella determinazione dei tempi di conservazione dei dati, l’eventuale esercizio del diritto alla cancellazione (o diritto all’oblio) da parte degli interessati60. Una serie di vincoli scattano inoltre in capo al responsabile del trattamento che, ai sensi del citato art.33 del GDPR, deve informare tempestivamente il titolare dell’avvenuta violazione, con ciò escludendo qualunque dilazione temporale nelle comunicazioni tra i due soggetti61. Gli obblighi di notifica, tuttavia, aprono una serie di scenari interpretativi la cui risoluzione risulta di fondamentale importanza per la predisposizione di corrette procedure. Un primo dubbio concerne l’ese-

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Cfr, artt. 13-14, par. 2, lett. a) del GDPR. In buona sostanza, secondo il nuovo Regolamento, uno stesso dato può anche essere trattato per più finalità, richiedendo tuttavia di adottare opportune misure per impedire che il dato venga trattato per una finalità diversa da quella per la quale viene conservato come nel caso dei dati identificativi e di contatto dei consumatori: chiaramente la necessità di conservare i dati identificativi e di contatto per il tempo tendenzialmente lungo, imposto dalla normativa fiscale, non legittima di per sé la conservazione e, in generale, il trattamento dei medesimi dati per finalità di marketing per lo stesso, uguale, periodo. 59 Il momento dal quale decorre il termine di conservazione dei dati è tutt’altro che banale: fissarlo con attenzione può addirittura aiutare a limitare lo stesso tempo di conservazione dei dati. 60 Il diritto alla cancellazione prevale sull’interesse alla conservazione: nei casi previsti, se un interessato chiede la cancellazione dei propri dati il titolare deve procedere “senza ingiustificato ritardo” e quindi senza riservarsi di continuare a trattare il dato sino alla scadenza originariamente fissata, prossima o meno che sia. 61 Il Regolamento infatti considera il responsabile dei dati come estensione fisica dell’attività del titolare e pertanto fa scattare automaticamente l’obbligo di notifica in capo al primo. 58

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cuzione di siffatto obbligo, anche in considerazione della posizione di entrambi i soggetti rispetto alla notifica del data breach. Fermo restando le responsabilità in capo al titolare, nei confronti dell’autorità e degli interessati scaturenti dalla notifica o dalla sua mancanza, potrebbe prospettarsi l’ipotesi che il responsabile – sulla base di specifica autorizzazione del titolare contrattualmente prevista – possa eseguire personalmente la notifica per conto di quest’ultimo. Cosa che, in caso di negligenza, porterebbe il responsabile a rispondere unicamente nei confronti del titolare. È necessario comunque – quale condizione indispensabile – che la procedura di notifica mantenga inalterato il suo carattere di tempestività. Questa condizione richiama poi un’altra questione fondamentale con riferimento al comportamento del titolare, allorquando questi non sia in grado di disporre di sufficienti informazioni sulla violazione. Accade infatti che non sempre il titolare sia già in possesso di tutti gli elementi utili per effettuare una descrizione completa ed esaustiva dell’infrazione, anche quando abbia appurato con ragionevole certezza l’esistenza di una violazione. Con l’intento di bilanciare le esigenze di celerità del messaggio, con quelle di una sua sostanziale accuratezza e completezza, il Regolamento ha messo a punto alcune tecniche o modalità che permettono al titolare sia di comunicare in prima battuta un ammontare approssimativo – provvedendo a specificare il numero esatto a seguito di accertamenti – sia di effettuare una notifica differita (ovvero dopo le 72 ore previste dall’art. 33)62. Questi inoltre è autorizzato ad eseguire un’unica “notifica aggregata” di tutte le violazioni occorse nel breve periodo di tempo (superiori alle 72 ore) purché la notifica motivi le ragioni del ritardo63. La lettura dell’art. 33 va poi effettuata in combinato disposto con il successivo art. 34 del GDPR. Il legislatore europeo ha previsto infatti, accanto agli obblighi di notifica all’autorità di controllo, un successivo obbligo di comunicazione agli interessati, il cui carattere di adeguatezza deve riguardare il contenuto del messaggio e le modalità di effettua-

62 Ipotesi che si viene a determinare, ad esempio, quando un’impresa subisce violazioni ripetute, ravvicinate e di simile natura che interessano un numero elevato di soggetti. 63 In buona sostanza, siffatta procedura serve ad evitare un aggravio di oneri in capo allo stesso titolare e l’invio scaglionato di un numero elevato di notificazioni tra loro identiche.

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zione64. Ambito applicativo dei due obblighi è dato dal superamento di differenti soglie di rischio; per cui è sufficiente un rischio “semplice” per far sorgere il dovere di notifica, mentre è necessario uno “elevato” per attivare quello di comunicazione. Ne consegue come la corretta valutazione dei possibili rischi scaturenti da una violazione – e qui la casistica è molto vasta65 – è un passaggio importante per un’efficiente gestione del data breach. L’analisi infatti consente al titolare di individuare con prontezza adeguate misure per arginare o eliminare l’intrusione e di valutare la necessità di rendere operative le procedure di comunicazione e di notifica attivabili, come sopra accennato, solo al superamento di determinate soglie. Una volta accertato il livello di rischio, il soggetto in questione sarà in grado dunque di determinare la necessità o meno di eseguire la notifica all’autorità66 e/o la comunicazione agli individui interessati67. Non va sottovalutato il fatto che la specificità dell’attività bancaria e finanziaria impone la necessità di non circoscrivere il data breach alla sola regolamentazione in materia di privacy, a motivo della sensibilità

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Si richiede di privilegiare modalità di comunicazione diretta con i soggetti interessati (quali e-mail, SMS o messaggi diretti), servendosi di un linguaggio chiaro e trasparente, evitando quindi di inviare le informazioni nel contesto di update generali o newsletter, che potrebbero essere facilmente fraintesi dai lettori. 65 In particolare, le conseguenze della violazione varieranno a seconda della tipologia e della natura dei dati violati (es. violazione di riservatezza, di accessibilità o di integrità dei dati; dati sanitari, documenti di identità o numeri di carte di credito); della facilità con cui potrebbero essere identificati gli interessati (es. l’aggressione riguarda dati identificativi o dati personali non direttamente identificativi); della gravità delle conseguenze sugli individui in termini di potenziali danni (es. i dati sono stati inviati erroneamente a un fornitore di fiducia o sono stati sottratti da un terzo sconosciuto); delle speciali caratteristiche e numero degli individui interessati (es. bambini o anziani; violazione massiccia o individuale); delle particolari caratteristiche del titolare (es. ambito di attività economico o sanitario; contatto frequente con dati sensibili). 66 È chiaro che la perdita del temporaneo accesso agli indirizzi e-mail dei propri clienti a causa di un blackout, non necessita di procedere alla notifica dell’evento. Al contrario, la temporanea perdita di accesso ai dati finanziari dei clienti dev’essere considerato un evento che pone a rischio (anche elevato) i diritti degli individui e dunque va gestita sulla base degli artt. 33 e 34 del GDPR. 67 Allo stesso modo, lo smarrimento di un CD o di una chiavetta USB contenente dati criptati indecifrabili da terzi, nel caso in cui la chiave crittografica sia nel possesso del titolare e questi possieda un backup di tali dati, potrebbe ritenersi non lesivo nei confronti degli interessati e quindi non obbligatoriamente notificabile. In caso invece che la chiave crittografica non sia sicura o non esista un backup dei dati smarriti, sarà necessario attivare le procedure di notifica e comunicazione individuate.

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delle informazioni coinvolte. In caso di “incidente di sicurezza”, le strutture creditizie sono quindi tenute ad agire su più fronti per garantire una piena osservanza delle normative cui sono assoggettate. Questo è il caso, ad esempio, delle disposizioni contenute nel Regolamento e IDAS68 per cui le banche – in quanto prestatori di servizi fiduciari – sono tenute a notificare tutte le violazioni della sicurezza qualora abbiano un impatto significativo sui servizi fiduciari prestati dalla stessa o sui dati personali ivi custoditi69. La violazione dovrà poi essere comunicata anche alla persona fisica o giuridica per la quale è stato prestato il servizio fiduciario, se produttiva di effetti negativi su quest’ultima. Ed ancora, in materia di sicurezza informatica in ambito bancario, la Circolare Banca d’Italia n. 285/2013 (rubricante “Disposizioni di vigilanza per le banche”, recentemente aggiornata) prescrive la tempestiva comunicazione degli “incidenti di sicurezza” informatica alla Banca Centrale Europea o alla Banca d’Italia. La comunicazione deve avvenire attraverso «l’invio di un rapporto sintetico recante una descrizione dell’incidente e dei disservizi provocati agli utenti interni e alla clientela» nonché mediante una serie di informazioni tecniche circa le attività di response and recovery poste in essere dalla banca a seguito dell’accaduto, unitamente ad una valutazione dei danni delle perdite economiche o danni d’immagine. Parimenti le reti e i sistemi informativi sono soggetti a incidenti, derivanti tanto da un malfunzionamento quanto da un vero e proprio attacco informatico. In caso di impatto rilevante sulla continuità dei servizi essenziali prestati la banca è tenuta a notificarli – senza indebito ritardo – all’autorità competente o al CSIRT70. Pertanto qualora le violazioni

68 Cfr., Regolamento (UE) n.910/2014 materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per transazioni elettroniche nel mercato UE. 69 Tale notifica dovrà essere notificata “senza indugio” ma, in ogni caso, entro 24 ore dall’avvenuta conoscenza e indirizzata «all’organismo di vigilanza e, ove applicabile, ad altri organismi interessati, quali l’ente nazionale competente per la sicurezza delle informazioni o l’autorità di protezione dei dati». Le notifiche degli incidenti devono includere ogni informazione idonea a consentire ai suddetti organi di determinare qualsiasi impatto transfrontaliero dell’evento pregiudizievole, nonché l’eventuale incidenza sui dati personali. 70 Ci si riferisce al Gruppo di intervento per la sicurezza informatica in caso di incidente. Di ciò si ha contezza nell’ambito della direttiva (UE) 2016/1148 del Parlamento europeo e del Consiglio del 6 luglio 2016, recante misure per un livello comune elevato di sicurezza delle reti e dei sistemi informativi nell’Unione, che annovera le banche tra gli “operatori di servizi essenziali” ai sensi dell’art. 4, n. 4.

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abbiano una ricaduta significativa sulle persone fisiche e sui loro dati personali, gli intermediari dovranno farsi carico di procedere contestualmente non solo alla notifica nei confronti del Garante per la protezione dei dati personali, ma anche del Gruppo di intervento per la sicurezza informatica (CSIRT), oltre che della Banca d’Italia o BCE, alle quali si aggiungono le eventuali comunicazioni ai soggetti direttamente interessati dalla violazione.

5. Brevi annotazioni critiche. Lo slittamento dell’armonizzazione tra Regolamento europeo e ordinamento italiano – per le materie in cui lo stesso GDPR prevede la competenza delle normative nazionali – ha prorogato in automatico il termine per il 21 agosto 2018, data in cui il Governo avrebbe dovuto tassativamente intervenire per adeguare le leggi statali al nuovo testo. L’obbligatorietà della norma – unitamente alla mancata adozione del decreto da parte del nostro ordinamento – non ha impedito tuttavia di sollevare alcuni problemi, determinati dal difetto di un quadro normativo composito in materia, soprattutto su alcuni punti cruciali della riforma quali la durata della conservazione dei dati e la materia degli illeciti penali contenuti nel Codice Privacy, della cui sopravvivenza molto probabilmente dovranno occuparsene i giudici nel prossimo futuro. In ordine al primo, ovvero con specifico riferimento ai casi di violazione dei dati personali – da intendersi quale violazione della sicurezza che comporta accidentalmente o in modo illecito la distruzione, la perdita, la modifica, la divulgazione non autorizzata o l’accesso ai dati personali trasmessi, conservati o comunque trattati – il nuovo Regolamento punta principalmente sul rischio (considerato probabile e/o elevato) per i diritti e le libertà delle persone; per cui il titolare del trattamento provvederà alla notifica al Garante della Privacy nei termini più volte indicati (“senza ritardo” e, comunque, entro e non oltre 72 ore) dando descrizione della natura della violazione dei dati, ivi compresi il numero delle persone interessate e le categorie di dati interessati. Effetto immediato sarà dunque la maggiore disponibilità di informazioni sugli “incidenti di sicurezza” a fronte di un sistema nazionale – quale quello attuale – laddove le informazioni sulla frequenza e tipologia degli stessi sono ancora poche, e questo costituisce un grosso limite per quanto riguarda l’utilizzo efficace di metodologie di gestione basate sulla valutazione del rischio.

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Secondo l’impianto regolatorio della Data Protection, il criterio per valutare la necessità di avviare una procedura di notifica è la probabilità che la violazione possa porre a rischio (per la notifica all’autorità) o ad elevato rischio (per la comunicazione agli interessati) le libertà e i diritti degli individui71. Appurato il pericolo conseguente alla violazione, gli artt.33 e 34 del GDPR indicano ai titolari i termini, le modalità, i contenuti e le deroghe della notifica in oggetto e della comunicazione del data breach. In specie, l’art. 33 impone al titolare di rendere nota la violazione all’autorità di controllo entro 72 ore dal momento in cui ne viene a conoscenza: il tempo di riferimento per la decorrenza dei termini della notifica viene individuato quando il titolare acquisisce consapevolezza dell’avvenuta violazione72. Questo significa come, nel caso di “incidenti di sicurezza” relativi ai sistemi utilizzati per il trattamento (quali lo smarrimento di una chiavetta Usb, il furto di un fascicolo, oppure un attacco informatico), il titolare del trattamento dovrà organizzarsi per procedere con le modalità indicate alla notifica al Garante Privacy. Quanto alle fattispecie penali previste dal suddetto Codice si è già sottolineato la scelta del Governo di mantenere e ampliare alcune fattispecie di reato con le relative pene (prevedendole anche in materie coperte da sanzioni amministrative) cosa che ha indubbiamente sollevato qualche perplessità su un possibile contrasto con il quadro regolatorio europeo. Su questa scia si è ritenuto, secondo il parere delle Commissioni parlamentari e dello stesso Garante, ampliare la casistica penale (rispetto al precedente art.167) e considerare – in ordine all’elemento soggettivo del

71 A prescindere dal grado di rischio, il Regolamento prevede però che, a determinate condizioni, la banca (titolare del trattamento) possa essere esonerata dalla comunicazione all’interessato, come nel caso in cui siano state adottate misure tecniche e organizzative idonee a rendere i dati personali incomprensibili, quali ad esempio la cifratura. 72 Nelle Linee Guida, il Gruppo di lavoro ritiene debba considerarsi “a conoscenza” il titolare che abbia un “ragionevole grado di certezza” in merito alla verificazione di un incidente di sicurezza. È evidente come, in base alle specifiche circostanze, mentre alcune violazioni saranno facilmente rilevabili, per altre sarà necessario instaurare un’indagine più approfondita. In questi casi, durante la fase di investigazione, il titolare può essere considerato come privo di un grado di conoscenza tale da far scattare immediatamente l’obbligo di notifica. Ciò precisato, il Gruppo sottolinea che il diligente comportamento del titolare sarà in ogni caso valutato sulla base della sua tempestiva attivazione in caso venga informato di una possibile infrazione.

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delitto di trattamento illecito di dati – quale oggetto alternativo del dolo specifico (artt.167-bis e 167-ter, co.1, recentemente introdotti) anche il “nocumento”, in ragione dell’opportunità di assistere con la sanzione penale condotte connotate dalla finalità di «arrecare danno all’interessato» e non solo protese a «trarre profitto per sé o per altri». In altri termini, lo schema di decreto va ad introdurre all’art. 167bis, una nuova fattispecie di reato che punisce la comunicazione e la diffusione, al fine di trarne profitto, di dati personali relativi ad un gran numero di persone, in violazione di certi requisiti normativi, quali il consenso dell’interessato73. Parimenti, l’art. 167-ter del decreto estende tale ipotesi di reato a chiunque il quale, al fine di trarne profitto, acquisisce con mezzi fraudolenti dati personali riferibili ad un “numero rilevante” di persone. Si tratta in qualche modo del rovescio della medaglia dell’illecito di cui al precedente articolo, considerato come ad essere punita sia la ricezione e non la comunicazione dei dati. Anche in questo caso è stato previsto un “dolo di danno” e non solo un “dolo di profitto”. Tuttavia resta il dubbio interpretativo sulla comunicazione, diffusione e acquisizione fraudolenta dei dati personali, i quali configurerebbero reato solo se l’illecito trattamento fosse riferibile ad un “numero rilevante di persone”, sminuendo pertanto la portata del danno sul singolo soggetto. Analoghi dubbi derivano altresì dal fatto che le sanzioni amministrative introdotte – pur avendo superato il difetto di indicazione del minimo edittale presente invece nello schema di decreto – impongono al Garante per la protezione dei dati personali il compito di valutare caso per caso le violazioni, affinché le sanzioni siano sempre effettive, proporzionate e dissuasive (art. 83, co. 1 GDPR), tenendo in debito conto la natura, la gravità, la durata della violazione, il carattere doloso o colposo della stessa, le categorie di dati personali interessate dalla violazione (co. 2, art. 83 GDPR)74.

73 Si tratta di una condotta di particolare disvalore che è punita penalmente anche in altri ordinamenti, ad esempio in Germania. 74 In alternativa o in aggiunta a queste, il Garante potrà comminare le altre sanzioni previste dall’art.58, par. 2, GDPR. Ad esempio, in caso di violazione minore o se la sanzione pecuniaria costituisse un onere sproporzionato per una persona fisica, potrebbe essere rivolto al trasgressore un ammonimento anziché imposta una sanzione pecuniaria (148° Considerando del GDPR).

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Il problema, visto in un’ottica più ampia, potrebbe presentare maggiori ricadute allorquando il Garante dovrà applicare e/o notificare tali sanzioni a multinazionali con sedi legali fuori dall’UE: la proporzionalità delle stesse, legata ai calcoli relativi al fatturato del cd. “gruppo di imprese”, non è infatti facilmente parametrabile. Altra incertezza sembra essere sollevata dall’abrogazione dell’art. 170, recante il delitto di inosservanza di provvedimenti del Garante, iniziativa questa che ha fatto discutere giacché il legislatore europeo introduce all’art. 83 del Regolamento una norma sanzionatoria in termini sostanzialmente uguali alla precedente. Una siffatta abrogazione – secondo quanto è stato sostenuto in sede di esame dello schema di decreto legislativo – sarebbe suscettibile di determinare una irragionevole disparità di trattamento, poiché l’inadempimento del medesimo provvedimento del Garante risulterebbe privo di sanzione o coperto da sanzione a seconda del soggetto autore della condotta lesiva, ponendosi così in controtendenza rispetto alle scelte compiute in sede di recepimento della direttiva (UE) 2016/68075. Qualora, quindi, tale ultima norma venisse abrogata si configurerebbe una situazione giuridica in cui l’inadempimento del medesimo provvedimento del Garante – se imputabile ad organi incaricati di funzioni di accertamento, prevenzione, repressione dei reati – integrerebbe gli estremi del suddetto delitto, mentre se ascrivibile a qualsiasi altro soggetto rileverebbe esclusivamente ai fini sanzionatori amministrativi secondo quanto stabilito dalla Data Protection76. A motivo dell’entrata in vigore del nuovo Regolamento – ed in attesa di norme di coordinamento – si potrà infatti verificare, per un certo periodo di tempo, una sovrapposizione tra le disposizioni europee e il Codice Privacy attualmente vigente. Il rischio è quello di creare ulteriori disparità di trattamento segnatamente al rispetto del principio di eguaglianza e del canone di ragionevolezza, ciò in quanto alla medesima condotta, lesiva dello stesso bene giuridico (la piena effettività delle funzioni del Garante), si andrebbero ad applicare due regimi sanzionatori estremamente diversi, solo in ragione della natura soggettiva del titolare e del contesto in cui è realizzato il trattamento (attività di polizia

75 Si fa, nello specifico, riferimento all’introduzione, in quella sede disposta, di una norma incriminatrice dell’inosservanza dei provvedimenti del Garante, del tutto analoga all’attuale art. 170. 76 Cfr., in specie, art. 83, par. 5, lett. e) del Regolamento.

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o giustizia penale, ovvero ogni altro ambito), elementi, questi, di per sé inidonei a giustificare tali differente regime sanzionatorio. Spetterà dunque ai giudici, come accennato, il compito di risolvere la questione, nel rispetto del già citato principio del ne bis in idem relativamente alle sanzioni amministrative, tutte rigidamente vincolate dalle previsioni del GDPR, e a quelle penali, che dovrebbero riguardare, in linea generale, solo profili non sanzionabili in via amministrativa77. Dal canto suo, occorrerà che il legislatore italiano nel decreto attuativo alle disposizioni del GDPR coordini la norma mirante a garantire il suddetto principio con l’art. 187-terdecies del t.u.f. laddove viene limitata l’esazione della pena pecuniaria «alla parte eccedente quella riscossa dall’Autorità amministrativa»; collegamento allo stato assente nella disposizione in esame, così da rilevare una parziale difformità. C’è da aspettarsi allora che i pareri delle Commissioni parlamentari e l’entrata a regime del Regolamento Data Protection possano giungere quanto prima a porre ordine nel coacervo di regole in materia, le quali nel corso di questa disamina hanno dimostrato di essere non sempre facilmente armonizzabili tra di loro. Proprio a ridosso della pausa estiva, il Consiglio dei Ministri è intervenuto con l’approvazione della legge delega78 imponendo una prima, ancorché prematura, lettura del testo normativo. Dalla complessa articolazione del decreto e dalla sua carenza di organicità discendono una serie di criticità che, anche solo superficialmente, meritano di essere segnalate. Contrariamente a quanto auspicato, nel documento varato lo scorso 8 agosto 2018, pare evidenziarsi ancora una certa complessità contenutistica sia di ordine tecnico che legislativo, retaggio indubbiamente di un clima di incertezza politica caratterizzante i mesi passati. Cosicché la coesistenza di diverse impostazioni in materia ha impedito l’attuazione della maggior parte delle proposte di modifica

77 Qualora si intenda far rivivere la disposizione incriminatrice, occorrerà individuare i provvedimenti del Garante così presidiati in ragione della loro rilevanza, richiamando, in particolare, l’art. 58, par. 2, lett. f), del Regolamento e gli artt. 2-septies, co.1 del Codice, e 21, co.1, del decreto legislativo. 78 Cfr., d.lgs. n. 14/2018 del Consiglio dei Ministri rubricante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016».

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al Codice Privacy, già in precedenza avanzate dalla Commissione79, finendo con il rimanere pressoché immodificate anche nel testo definitivo, soprattutto con riguardo al tanto atteso tema delle sanzioni. Si allude, in particolare, al rischio di violazione del principio del ne bis in idem, dovuto alla presenza di fattispecie suscettibili tanto di sanzione penale alla luce della normativa nazionale, quanto, e al contempo, di sanzione amministrativa in virtù della disciplina europea. Non di meno, al pericolo di incorrere in eccesso di delega (posto che, contravvenendo alle raccomandazioni della Commissione, il decreto si spinge fino a normare terreni non di sua competenza), a tacere infine del rischio di un possibile aumento del contenzioso, alla luce dell’introduzione di una singolare class action da esperire dinanzi al Garante80. È d’obbligo ricordare come siffatte criticità non potranno essere risolte per mezzo della decretazione correttiva che, solitamente, segue la pubblicazione di un decreto legislativo nei suoi primissimi anni di vita e ciò quale conseguenza del fatto che non viene riconosciuta al Governo la consueta possibilità di apportare modifiche e integrazioni al decreto. Benché la prima impressione che se ne ricava è quella di non aver saputo – vuoi anche per l’esiguità del tempo a disposizione – cogliere l’occasione per superare alcuni punti di evidente criticità, ciò nonostante è dato rilevare un elemento positivo nella “costruzione” di un rinnovato e più incisivo ruolo dell’Autorità Garante, chiamato a dare concretezza a quegli elementi di flessibilità che il Regolamento europeo contiene e che il recentissimo testo italiano ha valorizzato ulteriormente. Occorrerà dunque attenderne un periodo di “messa in asse” a seguito della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale81 per misurarne l’impatto sui

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Trattasi della parte prima del Codice in materia di protezione dei dati personali di cui al decreto legislativo 196/2003, così come quelle relative al ruolo e ai poteri della Autorità di controllo e quelle dedicate a regolare la fase transitoria, proposte dalla Commissione di Studio di supporto e consulenza all’Ufficio Legislativo del Ministero per la redazione di uno schema di decreto di attuazione della delega, nominata dal Ministro della Giustizia il 14 dicembre 2017. 80 Soggetto abilitato è un ente del terzo settore soggetto alla disciplina, ex d.lgs. n. 117/2017. Al Garante stesso è data facoltà di ricorrere all’autorità giudiziaria anche d’ufficio. 81 Cfr., d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche

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destinatari della norma (imprese, soprattutto banche, e professionisti); ma a fortiori sarà necessario verificare l’attitudine delle autorità preposte e della stessa magistratura italiana nei confronti di una normativa così complessa la quale si presenta “a doppio livello” (europeo e nazionale pur nel rispetto del vincolo di supremazia del primo sul secondo per ciò che concerne l’interpretazione e l’applicazione delle norme), da un lato, e integrata in un unico corpus legislativo costituito sia dal Codice novellato che dal GDPR, dall’altro. Una complessità inoltre resa ancor più tangibile dal fatto che quest’ultimo può, per certi versi, considerarsi una legge già “vecchia” in quanto le dinamiche di trattamento dei dati personali non risultano oggi quelle mappate dal Regolamento stesso vista la rapida evoluzione dei modelli di società e di mercato, motivo per cui la Commissione aveva ritenuto di dover introdurre una normativa transitoria in modo tale da mitigare (ma senza decelerare) gli effetti del recepimento del decreto attuativo sugli stessi destinatari e sul mercato82. In virtù del notevole ruolo conferitogli dal decreto di adeguamento, il Garante sarà chiamato, per la prima volta, a svolgere una funzione chiave nell’ambito dello strumentario di “soft law” che consente di adattarsi ai mutamenti tecnologici e sociali evitando il tortuoso, quanto incerto, iter burocratico cui sono soggetti gli atti aventi forza di legge, mediante la predisposizione di adeguati correttivi in materia di regole di condotta (nei settori consentiti) e di misure di garanzia (nelle parti in cui sono previste) nonché, nelle ipotesi indicati nel decreto stesso, di provvedimenti generali (certificazioni, linee guida). La finalità, affidata all’azione dell’Organo garante, è quella di garantire un minimo di certezza giuridica imprescindibile per le imprese (banche innanzitutto), nonché quel necessario raccordo tra le varie fonti che compongono allo stato il disordinato tessuto normativo (per la permanenza in vigore di vecchie disposizioni del codice magari incompatibili con la nuova impostazione) senza che tale rafforzamento di poteri e

con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)». G.U., Serie Generale n. 205 del 4 settembre 2018 con entrata in vigore il 19 settembre 2018. 82 Hanno infatti continuato ad avere effetto – in via temporanea – sia i procedimenti relativi a trattamenti precedenti all’applicazione del Data Protection sia i Codici deontologici vigenti e le vecchie autorizzazioni del Garante (oggetto di successivo riesame) in larga misura non più compatibili con il Regolamento.

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competenze entrino in contrasto con l’impianto regolatorio della Data Protection, cui va riconosciuto comunque, al di là delle complesse problematiche evidenziate, lo sforzo di aver rimesso la privacy al centro dell’attenzione internazionale.

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COMMENTI

Riforma delle banche popolari e problemi di costituzionalità Corte Costituzionale, 15 maggio 2018, n. 99; Pres. Lattanzi, Rel. De Pretis; Marco Vitale e altri (avv. Marini e Corea) c. Banca d’Italia (avv. Perassi), UBI Banca (avv. de Vergottini e Lombardi), Amber Capital UK (avv. Cardellicchio) e Presidenza del Consiglio dei ministri (avv. De Socio) Credito e risparmio – Banche popolari – Riforma – Art. 1 d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 – Questione di costituzionalità per contrasto con l’art. 77 Cost. – Non fondatezza (Cost. art. 77; d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, conv. dalla l. 24 marzo 2015, n. 33, art. 1) Credito e risparmio – Banche popolari – Riforma – Art. 1 d. l. 24 gennaio 2015, n. 3 – Questione di costituzionalità per contrasto con gli art. 41, 42 e 117, co. 1 (in relazione al Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione EDU) Cost. – Non fondatezza (Cost., art. 41, 42, 117; Protocollo addizionale n. 1 Convenzione EDU, art. 1; d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, conv. dalla l. 24 marzo 2015, n. 33, art. 1) Credito e risparmio – Banche popolari – Riforma – Art. 1 d. l. 24 gennaio 2015, n. 3 – Questione di costituzionalità per contrasto con gli art. 1, 3, 95, 97, 23 e 42 Cost. – Non fondatezza (Cost., art. 1, 3, 95, 97, 23 e 42 ; d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, conv. dalla l. 24 marzo 2015, n. 33, art. 1) Non è fondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 1 d. l. n. 3/2015 in riferimento all’art. 77 Cost. (1) Non è fondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 1 d. l. n. 3/2015, nella parte in cui prevede che, deliberata la trasformazione della banca popolare in società per azioni, il diritto del socio recedente al rimborso delle azioni possa essere limitato, fino al punto di escluderlo, e non invece soltanto differito entro limiti temporali predeterminati e con previsione di un interesse corrispettivo, in riferimento agli art. 41, 42 e 117 (in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione EDU) Cost. (2)

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Commenti

Non è fondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 1 d. l. n. 3/2015, nella parte in cui attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità della limitazione del diritto del socio recedente al rimborso delle azioni «anche in deroga a norme di legge», in riferimento agli art. 1, 3, 95, 97, 23 e 42 Cost. (3)

(Omissis) 1.– Con ordinanza del 15 dicembre 2016, il Consiglio di Stato ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33. Le questioni sono sorte nella fase cautelare del giudizio nel quale sono stati riuniti, per connessione oggettiva e parzialmente soggettiva, gli appelli proposti avverso tre sentenze pronunciate dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, aventi ad oggetto gli atti emessi dalla Banca d’Italia in seguito alle modificazioni apportate dall’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 agli artt. 28 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia» (t.u. bancario). Il TAR Lazio è stato investito delle controversie con tre separati ricorsi: due presentati da soci di varie banche popolari (Banca Popolare di Sondrio, Veneto Banca, Banco Popolare, Banca Popolare di Milano, UBI Banca) contro la Banca d’Italia, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’economia e delle finanze, nonché nei confronti delle banche partecipate dai ricorrenti; il terzo presentato da due associazioni di consumatori (ADUSBEF e FEDERCONSUMATORI) e da alcuni soci della Banca Popolare

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di Milano, anche in questo caso contro la Banca d’Italia, la Presidenza del Consiglio dei ministri e il Ministero dell’economia e delle finanze, nonché nei confronti di Veneto Banca, Banca Popolare di Venezia, UBI Banca, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio e Banca Popolare di Vicenza. In tutti i giudizi è intervenuta un’altra associazione di consumatori (CODACONS). Oggetto comune delle impugnazioni è il provvedimento della Banca d’Italia denominato «9° aggiornamento del 9 giugno 2015», pubblicato l’11 giugno 2015 nel «Bollettino di Vigilanza n. 6, giugno 2015», che apporta modifiche alla circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (Disposizioni di vigilanza per le banche), introducendo nella Parte Terza di tale circolare il Capitolo 4, intitolato «Banche in forma cooperativa». Esso definisce i criteri e le modalità di determinazione del valore dell’attivo – distinguendo la fase di prima applicazione da quella a regime – nonché i limiti al rimborso degli strumenti di capitale. Sono impugnati, altresì, gli atti preparatori di tale provvedimento (il «Documento per la consultazione» intitolato «Disposizioni di vigilanza – Banche popolari», pubblicato sul sito web della Banca d’Italia il 9 aprile 2015, nonché il «Resoconto della consultazione» e la «Relazione sull’analisi d’impatto» della regolamentazione, pubblicati sullo


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stesso sito web contestualmente al «9° aggiornamento del 9 giugno 2015»). Il provvedimento è impugnato – unitamente agli atti preparatori – sia per illegittimità derivata dalla asserita illegittimità costituzionale delle disposizioni legislative che ne costituiscono la base normativa, sia per vizi propri, relativi a parti diverse da quelle che sarebbero colpite da illegittimità derivata. Il TAR Lazio ha escluso la legittimazione al ricorso delle due associazioni di consumatori, ha escluso la legittimazione all’intervento dell’altra associazione e ha rigettato nel merito i ricorsi proposti dai soci delle banche, ritenendo manifestamente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale da essi sollevate. Adito per la riforma, con preliminare istanza di sospensione, delle sentenze di primo grado, il Consiglio di Stato ha riunito gli appelli e sospeso interinalmente l’efficacia del provvedimento impugnato, limitatamente ad alcune sue parti, sino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte di questa Corte. Lo stesso giudice ha quindi sollevato, con successiva ordinanza, le questioni oggetto del presente giudizio costituzionale. 1.1.– Sulla rilevanza, il giudice a quo osserva che l’applicazione della disposizione censurata, costituente la base normativa del provvedimento impugnato, è pregiudiziale alla decisione definitiva dell’incidente cautelare, considerato il carattere provvisorio e temporaneo della sospensione, concessa fino alla ripresa del giudizio dopo l’incidente di legittimità costituzionale, e considerata anche la possibilità, prevista dagli artt. 60 e 98,

comma 2, dell’Allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo» (Codice del processo amministrativo), di pronunciare sentenza nel merito in sede di decisione definitiva della fase cautelare. Secondo il rimettente, la rilevanza delle questioni sarebbe giustificata anche dal periculum in mora che incombe sui soci delle banche popolari. Ove non fossero state ancora assunte le decisioni imposte alle banche popolari dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015 (riduzione dell’attivo al di sotto della soglia di otto miliardi di euro, trasformazione in società per azioni o liquidazione), l’esclusione del rimborso delle azioni arrecherebbe un pregiudizio attuale e concreto alla volontà negoziale del socio da esprimere con il voto nell’assemblea; inoltre, la disciplina censurata creerebbe, in seno all’assemblea chiamata a deliberare sulla trasformazione, un conflitto di interessi tra i soci che preferiscono la liquidazione della quota e quelli intenzionati a mantenere la partecipazione, la cui risoluzione sembrerebbe tradursi in un immediato pregiudizio dei primi a favore dei secondi, che potrebbero “finanziare” la prosecuzione dell’impresa con risorse provenienti anche dai soci intenzionati a recedere. Nel caso di trasformazione già deliberata, sarebbe comunque pregiudicata la libertà negoziale del socio, la cui volontà di recedere risulterebbe condizionata dal concreto pericolo di non ottenere il rimborso della quota. 1.2.– Ad avviso del giudice a quo, l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 violerebbe

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in primo luogo l’art. 77, secondo comma, della Costituzione, «in relazione alla evidente carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti il ricorso allo strumento decretale d’urgenza (ove non ritenuta sanata, seppure soltanto ex nunc, dalla legge di conversione)». La questione è posta con l’uso della formula «ovvero, secondo altra prospettazione dogmatica», anche nei riguardi «della relativa legge di conversione n. 33/2015, per avere quest’ultima convertito in legge il predetto decreto pur nell’evidente difetto dei prefati presupposti essenziali». Dopo avere descritto l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale nella materia, il rimettente afferma di preferire la tesi secondo cui la conversione del decreto-legge ne sanerebbe con effetto ex nunc l’illegittimità per mancanza dei presupposti, osservando che, ove si aderisse a tale orientamento, la questione non sarebbe rilevante, in quanto i «provvedimenti impugnati si collocano in un ambito temporale successivo alla conversione del decreto n. 3 del 2015». Nondimeno il giudice a quo prende atto del prevalente orientamento difforme della Corte costituzionale, secondo cui la conversione non sanerebbe i vizi di un decreto-legge emesso in manifesta carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, e solleva la questione rilevando che il d.l. n. 3 del 2015, come convertito, introdurrebbe norme in gran parte non auto-applicative e richiedenti ulteriori misure attuative, in contrasto con la previsione generale dell’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto, n. 400 (Disciplina dell’attività

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di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri). Neppure la relazione illustrativa varrebbe a fugare i dubbi sull’evidente mancanza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost. Essa giustificherebbe l’urgenza dell’intervento riformatore delle banche popolari con i rischi, segnalati dal Fondo monetario internazionale, dalla Commissione europea e dalla Banca d’Italia, di concentrazione di potere in favore di gruppi di soci organizzati, di autoreferenzialità della dirigenza e di difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato, ma tali rischi non sarebbero attuali e concreti bensì solo potenziali, non trovando essi «riscontro concreto in circostanze straordinarie» e gravi, esistenti «all’atto dell’emanazione del decreto-legge». L’urgenza sarebbe ulteriormente smentita dalla natura dell’intervento legislativo, che realizzerebbe una riforma organica e di sistema delle banche popolari sulla quale era in corso da tempo un ampio dibattito in sede dottrinale e politica. 1.3.– In secondo luogo, il rimettente dubita della legittimità dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 «nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con


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previsione legale di un interesse corrispettivo» per il ritardo nel rimborso. Sotto questo profilo, la norma violerebbe gli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Dopo avere richiamato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla nozione di «beni» ex art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, che comprende le partecipazioni societarie e i crediti, come quelli al rimborso delle azioni in caso di recesso, il rimettente osserva che il risultato finale della duplice previsione normativa – dell’obbligo di trasformazione delle banche popolari da società cooperative in società per azioni nel caso di superamento della soglia di otto miliardi di euro di attivo (ove non si opti per la riduzione dell’attivo o per la liquidazione della società) e della possibilità di escludere in tutto o in parte o di rinviare indefinitamente e senza un «corrispettivo compensatorio» il diritto del socio recedente al rimborso delle azioni – finirebbe «per tradursi in una sorta di esproprio senza indennizzo (o con indennizzo ingiustificatamente ridotto) della quota societaria». 1.3.1.– Il legislatore non avrebbe compiuto un corretto bilanciamento, ispirato al «principio del minimo mezzo», tra gli opposti interessi di rilievo costituzionale in gioco, da identificare, da un lato, nel diritto al rispetto dei propri «beni» correlato alla tutela della proprietà nell’ampia accezione accolta dalla Corte EDU e, dall’altro,

nell’interesse generale alla sana e prudente gestione dell’impresa bancaria, collegato alla tutela del credito e del risparmio. Imponendo la trasformazione della banca (sia pure con la previsione di obblighi alternativi), la norma censurata, per un verso, consentirebbe di privare il socio di una banca popolare di uno status che garantisce specifici diritti “amministrativi” come quello al voto “capitario” nelle assemblee, modificando in senso peggiorativo il contenuto dei poteri inerenti alla sua partecipazione sociale, e per altro verso non assicurerebbe il rimborso delle azioni del socio che ritenesse di non accettare lo status sensibilmente diverso conseguente alla trasformazione in società per azioni, producendo così un effetto espropriativo senza indennizzo. Pur dando atto che in materia sussiste la preminente esigenza di tutelare l’interesse pubblico, di rilievo costituzionale e comunitario, enunciato dalla norma con il richiamo alla necessità di «[…] assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca» (art. 1, comma 1, lettera a, del d.l. n. 3 del 2015, come convertito, che aggiunge il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario), il giudice a quo lamenta che il contrapposto interesse del socio recedente al rimborso delle azioni sarebbe irragionevolmente sacrificato al di là dei limiti entro i quali tale sacrificio appare strettamente necessario per assicurare un’adeguata tutela dell’interesse pubblico. I sospetti di irragionevolezza della norma censurata per violazione del «principio del minimo mezzo» nel bilanciamento degli interessi in gioco

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sarebbero confermati dal fatto che il diritto al rimborso è sacrificato dal legislatore anche se la banca è costantemente incapace di ripristinare il patrimonio di qualità primaria senza ricorrere alle quote non rimborsate e continua a operare nel mercato solo grazie al capitale conferito dagli ex soci. L’esigenza di assicurare la sana e prudente gestione dell’attività bancaria potrebbe giustificare non già la «perdita definitiva» del diritto al rimborso, consentita dalla norma censurata, bensì soltanto il «suo differimento nel tempo (con la previsione di un termine massimo prestabilito, rimessa alla discrezionalità del legislatore) e salva la corresponsione di un interesse corrispettivo (parametrabile al tasso di riferimento della BCE […] attualmente prossimo allo 0, purché comunque positivo)» diretto a evitare che il pur minore sacrificio imposto al socio si risolva comunque in una forma di espropriazione senza indennizzo. 1.3.2.– L’esclusione ex lege del diritto al rimborso non troverebbe «fondamento e copertura» neppure nel diritto dell’Unione europea in tema di requisiti prudenziali per gli enti creditizi. Secondo il rimettente, la norma di settore che si occupa dei limiti al rimborso degli «strumenti di capitale» emessi dagli enti creditizi sarebbe contenuta nell’art. 10, paragrafo 2, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014, che integra il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli

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enti. Tale disposizione, nello stabilire che «[l]a capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile […]», non imporrebbe l’obbligo incondizionato di escludere il diritto al rimborso e consentirebbe di optare tra il rinvio e la limitazione dell’importo rimborsabile. A fronte di più opzioni «comunitariamente consentite», il legislatore nazionale avrebbe avuto dunque l’obbligo di scegliere quella che meglio assicura il rispetto dei principi costituzionali, da individuare, come visto, nel differimento del rimborso «ad un tempo dato» con la corresponsione di un interesse corrispettivo per il ritardo. 1.4.– Infine, il rimettente dubita della legittimità della norma censurata «nella parte in cui, comunque, attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità d[ella] esclusione» del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso a seguito di trasformazione della società «anche in deroga a norme di legge». A suo avviso, in quella parte l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 si pone in contrasto con gli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost.. Il dubbio di costituzionalità investe, in primo luogo, l’attribuzione stessa di un potere di delegificazione all’Istituto di vigilanza, ovvero a un soggetto estraneo al circuito politico dei rapporti Parlamento-Governo, e dunque politicamente irresponsabile. Difetterebbero, infatti, le ragioni tradizionalmente invocate a sostegno


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del potere regolamentare delle Autorità indipendenti, incidendo il potere normativo in esame su materie non connotate da particolare «tecnicità o settorialità». In secondo luogo, si tratterebbe di un potere di delegificazione conferito «in bianco», in quanto il legislatore non avrebbe dettato alcuna norma generale regolatrice della materia e neppure avrebbe individuato le norme primarie di cui sarebbe consentita l’abrogazione ad opera della fonte secondaria. Il sospetto di incostituzionalità sarebbe rafforzato dalla considerazione che tale «potere regolamentare atipico con effetto delegificante» è stato attribuito in materie coperte da riserva di legge. L’esclusione del diritto al rimborso si risolverebbe in una prestazione patrimoniale imposta al socio recedente, rispetto alla quale la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. dovrebbe precludere una delegificazione regolamentare di così ampia portata. L’interferenza tra l’esclusione del diritto al rimborso e la tutela della proprietà privata consentirebbe di richiamare anche la riserva di legge prevista dall’articolo 42 Cost., e dall’art. 1, paragrafo 1, del protocollo addizionale alla CEDU. 2.– Con atto depositato il 4 aprile 2017 si sono costituiti in giudizio alcuni soci della Banca Popolare di Sondrio e della Banca Popolare di Milano, parti del processo principale, concludendo per l’accoglimento delle questioni, previo eventuale rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trat-

tato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130. 2.1.– Le parti richiamano quanto esposto dal rimettente sul meccanismo legislativo che pone il socio di fronte all’alternativa se accettare uno status “ridimensionato” per effetto della deliberata trasformazione in società per azioni, o recedere, esponendosi al rischio concreto di perdere in tutto o in parte la quota versata, e ne sottolineano il contrasto con l’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU (applicabile anche alle partecipazioni sociali e ai crediti), nonché con gli artt. 41 e 42 Cost., in quanto la limitazione del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso si tradurrebbe in un’espropriazione senza indennizzo. I limiti e le garanzie fissate dall’art. 1 del protocollo addizionale non sarebbero rispettati, in primo luogo, perché non sussisterebbe una base legale sufficiente a soddisfare il principio di legalità (e la riserva di legge ex art. 42 Cost.), in quanto il radicale mutamento normativo introdotto dalla disposizione censurata, che oltretutto assegna alla Banca d’Italia la disciplina della limitazione del diritto al rimborso senza indicare specifici criteri, non poteva essere previsto nei suoi deteriori effetti dai soci delle banche popolari, che costituiscono da tempo un modello societario distintivo del nostro ordinamento, connotato da istituti tipici come il voto capitario, il limite al possesso azionario e il numero minimo di soci. In secondo luogo, neppure sussisterebbe una causa di pubblica utilità idonea a giustificare la privazione dei «beni» dei soci, tale da realizzare, secondo la giurisprudenza della Corte

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EDU, un giusto equilibrio tra le esigenze di interesse generale e quelle individuali, garantendo un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito dalle misure restrittive della proprietà. La causa di pubblica utilità non sarebbe individuabile nella necessità di dare attuazione alle norme prudenziali europee – contenute nel regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012, e nel regolamento delegato (UE) n. 241/2014 – sulla limitazione al rimborso delle quote del socio in caso di recesso ai fini della computabilità degli strumenti di capitale delle banche cooperative nel «capitale primario di classe 1» (cosiddetto CET1). Oltre ad avere natura auto-applicativa – ciò che escluderebbe (e anzi renderebbe incompatibile) un intervento normativo interno di attuazione – i citati regolamenti detterebbero una disciplina di carattere generale sui requisiti del capitale primario e sulle possibili limitazioni al diritto di rimborso in caso di recesso, applicabile a tutte le banche e destinata a regolare le situazioni “ordinarie”, ben diverse dall’ipotesi della trasformazione delle banche popolari che superino una certa soglia di attivo, trasformazione non prevista né tantomeno imposta dalle fonti sovranazionali. Queste sarebbero dunque impropriamente evocate per dare fondamento a una riforma di sistema tradottasi nella violazione dei diritti fondamentali tutelati dalla CEDU. In ogni caso, come osserva il giudice a quo, l’intervento normativo

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censurato violerebbe i principi di proporzionalità e ragionevolezza nel bilanciamento tra gli opposti interessi in gioco. Né l’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 imporrebbe di limitare il diritto al rimborso, consentendo al legislatore di scegliere tra limitazione e differimento temporale. Analogo ragionamento varrebbe in riferimento alla violazione dell’art. 41 Cost., in quanto la limitazione del diritto al rimborso in caso di recesso conseguente alla trasformazione delle banche popolari, senza limiti di tempo predeterminati dalla legge e senza la previsione di un indennizzo, determinerebbe una compressione ingiustificata e comunque non proporzionale della libertà di iniziativa economica e imprenditoriale del socio. 2.2.– Quanto al dubbio di costituzionalità evocato dal Consiglio di Stato in relazione agli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost., le parti del processo principale reiterano gli argomenti utilizzati dal giudice rimettente, secondo cui: la norma censurata attribuirebbe un potere di delegificazione a un soggetto diverso dal Governo ed estraneo al circuito politico dei rapporti Parlamento-Governo; tale attribuzione non potrebbe trovare giustificazione nell’elevato tecnicismo della materia; il potere di delegificazione presenterebbe latitudine estrema, senza che neppure siano previamente individuate le norme primarie suscettibili di abrogazione o deroga; tali considerazioni risulterebbero avvalorate dall’incidenza della predetta delegificazione su ambiti coperti da riserva di legge. Viene rimarcato che la fonte legale della limitazione al rimborso non potrebbe rinvenirsi nei menzionati regolamenti sovranazionali. Quello che


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si contesta, infatti, è la facoltà concessa alla banca popolare di limitare il rimborso al fine di garantire le perdite con il proprio patrimonio, anche in caso di recesso giustificato dalla trasformazione della cooperativa in società per azioni, ipotesi quest’ultima che non sarebbe contemplata dalle fonti europee. 2.3.– In subordine, qualora questa Corte non condividesse le considerazioni svolte sull’inidoneità dell’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 a escludere l’effetto espropriativo della norma censurata e a garantire il rispetto della riserva di legge e del principio di legalità ex artt. 23, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, le parti chiedono che questa Corte proponga alla Corte di giustizia UE una domanda di pronuncia pregiudiziale interpretativa ex art. 267 del TFUE, diretta a verificare se il citato art. 10, «nella parte in cui prevede alternativamente la possibilità sia di rinviare il diritto al rimborso sia di escluderlo (in tutto o in parte), osti a una normativa nazionale, come quella rilevante nel presente giudizio, che prevede la possibilità di limitare del tutto, e non soltanto di differire entro limiti predeterminati dalla legge e a fronte della corresponsione di un interesse corrispettivo, il diritto del rimborso in caso di recesso, laddove esso sia esercitato in conseguenza della trasformazione della Banca popolare in S.p.A., parimenti prevista dall’art. 1, del d.l. 3/2015, come convertito (ipotesi, questa, non prevista espressamente dal Regolamento)». Si tratterebbe di una questione interpretativa rilevante, oltre che proponibile in un giudizio costituzionale

incidentale, in quanto l’interpretazione richiesta alla Corte di giustizia consentirebbe di definire l’esatto significato della normativa comunitaria e, di conseguenza, la portata e i «limiti di copertura comunitaria» della norma censurata. 2.4.– Infine, sarebbe fondata anche la censura relativa alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost. Le parti, pur prendendo atto che la sentenza n. 287 del 2016 ha giudicato non fondata un’analoga questione sollevata in via principale, auspicano un “ripensamento” di questa Corte alla luce delle argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione e dell’ulteriore rilievo concernente la diversità e l’eterogeneità degli ambiti materiali sui quali è intervenuto il d.l. n. 3 del 2015, al cui interno si potrebbero rinvenire norme dal più disparato contenuto. 3.– Con atto depositato il 3 aprile 2017 si è costituita in giudizio la Banca d’Italia, parte del giudizio a quo, che ha concluso per la manifesta inammissibilità o, in subordine, per la manifesta infondatezza delle questioni. 3.1.– I profili di contrasto con l’art. 77, secondo comma, Cost. sarebbero superati dalla sentenza n. 287 del 2016 e comunque andrebbero esclusi. Le previsioni del d.l. n. 3 del 2015, come convertito, sui limiti dimensionali delle banche popolari, sulla disciplina delle trasformazioni e sull’attribuzione alla Banca d’Italia del potere di adottare disposizioni di attuazione dell’art. 29 del t.u. bancario sarebbero immediatamente applicabili, in quanto il regime transitorio introdotto dall’art. 2 dello stesso decreto-legge sarebbe diretto solo a consentire alle

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banche già autorizzate di adeguarsi al nuovo limite dimensionale. Per altro verso, il requisito dell’urgenza non sembra contraddetto dalla complessità e laboriosità dell’avviato processo di riordino del settore, il cui perfezionamento richiederebbe di fatto un certo lasso di tempo, nel rispetto delle procedure decisionali delle società coinvolte. La relazione illustrativa, inoltre, darebbe atto dell’inadeguatezza attuale e concreta del modello della banca popolare rispetto al nuovo assetto regolamentare e ai nuovi strumenti della vigilanza nonché rispetto alla disciplina europea delle crisi bancarie, assolvendo così all’onere di dare conto dei presupposti della decretazione d’urgenza. Né il Governo sarebbe tenuto ai più specifici oneri di allegazione prospettati nell’ordinanza di rimessione. Neppure sarebbe stata realizzata con decreto-legge una riforma sistematica e ordinamentale, in quanto l’intervento riguarderebbe limitati profili di un tipo di società di capitali operante in uno specifico settore economico. La questione, pertanto, dovrebbe essere dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto sostanzialmente identica ad altra già decisa da questa Corte, o manifestamente infondata. 3.2.– Con riguardo alla violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, la Banca d’Italia premette in via generale che «in base alla disciplina codicistica delle società cooperative, applicabile alle banche popolari in forza del rinvio operato dall’art. 2519, primo comma,

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cod. civ, in caso di recesso di un socio, anche nell’ipotesi di trasformazione, lo stesso ha diritto al rimborso delle azioni», e che, «[d]i contro, la disciplina europea in tema di vigilanza prudenziale delle banche prescrive che gli intermediari con forma di società cooperativa devono avere la possibilità di limitare il rimborso delle azioni affinché queste siano computate tra i “fondi propri” imposti a fini di solidità patrimoniale». Pertanto, il potere di limitare il rimborso delle azioni al socio che eserciti il recesso nelle varie ipotesi previste dalla legge, anche nel caso di trasformazione della banca popolare in società per azioni, sarebbe stato introdotto dal d.l. n. 3 del 2015, come convertito, al fine di assicurare che le azioni delle banche popolari soddisfino le condizioni previste dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 per il computo quali strumenti di capitale primario di classe 1 (CET1). Ciò risulterebbe sia dalla relazione illustrativa al disegno di legge di conversione, dove è richiamata l’esigenza di «mantenere un’adeguata patrimonializzazione della banca», sia dallo stesso art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, che collega la limitazione del rimborso alla necessità di «assicurare la computabilità delle azioni nel capitale di qualità primaria della banca». Il giudice a quo avrebbe erroneamente interpretato l’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 e l’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, ritenendo che, al fine di assicurare la computabilità delle azioni delle banche popolari nel CET1, il legislatore non fosse vincolato ad attribuire agli enti creditizi anche il potere di limitare il rimborso in caso di reces-


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so, in alternativa a quello di rinviare. Il tenore letterale del citato art. 10, là dove prevede, al paragrafo 2, che «[l]a capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile», e che «[l]’ente è in grado di rinviare il rimborso o di limitare l’importo rimborsabile per un periodo illimitato in conformità al paragrafo 3», sarebbe al contrario inequivoco nell’esigere che sia prevista la titolarità in capo alla banca di ambedue i poteri, tra loro non fungibili, per il computo degli strumenti nel CET1. Gli opposti interessi in gioco sarebbero stati bilanciati dalla norma europea, che, nell’ottica della stabilità del sistema, ha anteposto quello alla continuità dell’impresa bancaria. Il legislatore nazionale, di conseguenza, non avendo discrezionalità nella materia, avrebbe dovuto prevedere anche il potere di limitare il rimborso, al fine di rendere le azioni delle banche popolari computabili nel CET1, senza che gli fosse consentito di applicare il principio del «minimo mezzo», scegliendo tra limitazione e rinvio. In ogni caso, la scelta fra l’uno o l’altro strumento (limitazione o rinvio) non sarebbe rimessa all’arbitrio della banca, ma a sue motivate valutazioni di carattere prudenziale riferite alle concrete condizioni patrimoniali e ancorate ai precisi criteri indicati nell’art. 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, che la Banca d’Italia ha riprodotto nelle disposizioni di attuazione. Tali criteri circoscri-

verebbero la possibilità di limitare il diritto al rimborso a quanto strettamente necessario per la salvaguardia della stabilità della banca, nel rispetto dei requisiti prudenziali previsti dalla normativa europea. La facoltà dell’ente di limitare «per un periodo illimitato» il rimborso non si tradurrebbe dunque in quella di rinviarlo ad libitum, ma solo per il tempo necessario per fronteggiare le descritte esigenze prudenziali, nel rispetto del criterio della proporzionalità. In definitiva, l’unico modo per assicurare che le azioni delle banche popolari soddisfino le condizioni previste dal regolamento (UE) n. 575/2013 per il computo come strumenti del CET1, a tutela della stabilità delle banche e del sistema nel suo complesso, consisterebbe nel rendere la disciplina nazionale in linea con i pertinenti requisiti prudenziali indicati dagli artt. 28 e 29 del richiamato regolamento (UE) n. 575/2013. Tale risultato sarebbe precluso dall’intervento manipolativo auspicato dal rimettente, giacché la previsione di un corrispettivo per il ritardo nel rimborso imporrebbe di considerare le azioni come strumenti di debito anziché di capitale, secondo i principi contabili applicabili (art. 28, paragrafo 1, lettera c, punto ii); ancora, farebbe venire meno la cosiddetta “flessibilità dei pagamenti” (art. 28, paragrafo 1, lettera h, punti iv e v); inoltre, non sarebbe rispettata la condizione stabilita dal citato art. 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, che integra l’art. 29, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (UE) n. 575/2013, secondo il quale la banca deve essere «in grado di rinviare il rimborso o di limitare l’importo rimborsabile per un

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periodo illimitato», vale a dire indeterminato, nella misura e per il tempo necessari in relazione alla situazione prudenziale. Impedendo la computabilità delle azioni delle banche popolari come strumenti del CET1, l’intervento richiesto dal giudice a quo creerebbe pertanto una disciplina viziata da irragionevolezza intrinseca, in quanto sarebbe contraria alla propria ratio, che è quella di assicurare la stabilità patrimoniale delle banche. La mancata possibilità di computo, infatti, determinerebbe la presumibile discesa di tutte le banche popolari al di sotto dei requisiti prudenziali minimi e farebbe scattare l’obbligo per le Autorità di vigilanza di adottare i provvedimenti straordinari o liquidatori imposti dalla disciplina di settore. 3.2.1.– Ad avviso della Banca d’Italia, il giudice a quo neppure avrebbe correttamente individuato gli interessi in conflitto, oggetto di bilanciamento da parte del legislatore. La limitazione dei diritti dei soci sarebbe stata introdotta per assicurare la stabilità non solo delle banche partecipate, ma anche del sistema finanziario nel suo complesso, stabilità di fronte alla quale la giurisprudenza della Corte di giustizia UE e della Corte EDU riconoscerebbe carattere recessivo ai diritti di proprietà degli azionisti e persino di certi creditori delle banche, quali i depositanti. Inoltre, la limitazione in esame non dovrebbe essere eccessivamente enfatizzata, poiché quasi tutte le banche popolari soggette a trasformazione sono quotate in mercati regolamentati, nei quali i soci possono ottenere agevolmente la liquidazione dell’investimento in altre forme. E ciò

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senza considerare che le azioni rimarrebbero nella loro titolarità anche dopo il recesso, onde sembra improprio parlare di “espropriazione” e di mancanza di “indennizzo”. Le questioni sarebbero dunque manifestamente inammissibili, per la scorretta ricostruzione e la conseguente mancata ponderazione del quadro normativo di riferimento, nonché per la richiesta di una pronuncia manipolativa a contenuto non costituzionalmente obbligato, oltre che in contrasto con la stessa ratio della modifica auspicata; in subordine, esse sarebbero manifestamente infondate. 3.3.– La Banca d’Italia contesta la tesi del giudice a quo, secondo cui la norma censurata le avrebbe attribuito un potere di delegificazione «in bianco». Preliminarmente, la questione sarebbe inammissibile, sia per l’assenza di una adeguata motivazione delle ragioni per cui la disposizione avrebbe delineato un procedimento di delegificazione, sia per la scorretta ricostruzione e conseguente mancata ponderazione del quadro normativo di riferimento. Nel merito, contrariamente a quanto erroneamente presupposto dal giudice rimettente, l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 non darebbe affatto luogo ad un fenomeno di delegificazione. La disposizione non ricollegherebbe infatti all’entrata in vigore delle disposizioni attuative emanate dalla Banca d’Italia l’abrogazione di alcuna disposizione legislativa, bensì introdurrebbe ‒ espressamente e direttamente – una deroga alla disciplina del recesso del socio di cui all’art. 2437 e seguenti del codice civile.


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La questione sarebbe infondata anche perché la disciplina censurata, in linea con la pertinente normativa europea, ancorerebbe l’esercizio da parte dell’ente della facoltà di limitare o differire il rimborso a valutazioni di carattere prudenziale, di natura eminentemente tecnica, circoscritte dall’angusta cornice normativa definita dal regolamento delegato (UE) n. 241/2014. Le perplessità sollevate dall’ordinanza di rimessione con riferimento all’assenza di collegamento della Banca d’Italia con il circuito rappresentativo non sarebbero condivisibili – non solo in ragione della sussistenza di connotati di tecnicismo e settorialità della materia affidata al potere regolamentare dell’Autorità di vigilanza, ma anche – in quanto le norme regolamentari della Banca d’Italia e le norme tecniche di regolamentazione recate dal citato regolamento delegato (UE) n. 241/2014 sarebbero redatte all’esito di «rafforzate forme di partecipazione degli operatori del settore nell’ambito del procedimento di formazione degli atti regolamentari», idonee a compensare la «dequotazione del principio di legalità in senso sostanziale» anche secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato (è citata, tra le altre, la sentenza del Consiglio di Stato, sesta sezione, 24 maggio 2016, n. 2182). 4.– Con atti depositati il 4 aprile 2017, di identico contenuto, si sono costituite in giudizio UBI Banca spa e Banco BPM spa (quale società risultante dalla fusione tra Banco Popolare società cooperativa e Banca Popolare di Milano società cooperativa a responsabilità limitata), parti del giudizio a quo, che hanno concluso per l’infondatezza delle questioni e, in

subordine, per il rinvio pregiudiziale interpretativo alla Corte di giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 del TFUE. A loro avviso, la disciplina nazionale sui limiti al rimborso, fondata sulle previsioni del regolamento (UE) n. 575/2013 e del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, rispetterebbe pienamente i parametri evocati nell’ordinanza di rimessione, in quanto essa, in un’interpretazione costituzionalmente orientata, non escluderebbe in radice tale diritto. Il legislatore avrebbe semplicemente replicato nella normativa nazionale il principio comunitario prudenziale di tutela del sistema bancario, affidandone la garanzia a un’operazione di bilanciamento flessibile, che prevede la possibilità, nei casi di concreta e oggettiva difficoltà, di mantenere o raggiungere i requisiti prudenziali, di limitare il diritto del singolo secondo valutazioni da condurre in concreto rispettando i principi di proporzionalità e ragionevolezza, senza escludere il differimento nel tempo del rimborso, come ha espressamente stabilito il provvedimento della Banca d’Italia impugnato nel giudizio a quo. 4.1.– Non sussisterebbe la violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., alla luce della sentenza n. 287 del 2016, della cui motivazione le parti riportano ampli stralci, ove si esclude che il d.l. n. 3 del 2015 difetti con evidenza dei presupposti di necessità e urgenza e che abbia portata di riforma sistematica. Si sottolinea, altresì, che la volontà politica di adeguare l’ordinamento italiano agli indirizzi europei sarebbe stata rinnovata mediante la “riproposizione” della norma sui limiti del diritto di rimborso, con formulazione pressoché identica, nell’art. 1, comma 15, del

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decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione della direttiva 2013/36/ UE, che modifica la direttiva 2002/87/ CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), in ordine al quale non varrebbero i limiti stabiliti per la decretazione d’urgenza. 4.2.– La questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. l, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost. sarebbe inammissibile perché non adeguatamente motivata. Nel merito, il dubbio di costituzionalità sarebbe infondato, in quanto i limiti della potestà regolatrice della Banca d’Italia emergerebbero dalla compiuta disamina del diritto europeo. A riprova di ciò, la disciplina adottata dalla Banca d’Italia riprodurrebbe puntualmente la disciplina di dettaglio contenuta all’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, mostrando così di avere un carattere meramente ricognitivo. 4.3.– Neppure sussisterebbe la violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU. La limitazione del rimborso prevista dall’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario non comporterebbe un effetto espropriativo e non priverebbe il socio recedente del suo status. Innanzi tutto, nel caso della trasformazione delle banche popolari in società per azioni il richiamo alla fattispecie espropriativa non sarebbe pertinente, trattandosi di conflitto orizzontale tra privati e non di conflit-

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to verticale tra Stato e privati, presupposto dall’art. 42, terzo comma, Cost. In secondo luogo, non vi sarebbe alcuna privazione di utilità economiche in danno dei soci recedenti, in quanto a seguito della limitazione del rimborso le azioni verrebbero restituite ai loro titolari, dovendosi così escludere un’ablazione o comunque una riduzione del corrispettivo del recesso, nonché l’acquisizione definitiva, in capo all’ente creditizio, del valore delle partecipazioni. Ne potrebbe tutt’al più conseguire il mancato perfezionamento del recesso, dal quale non sembrano però sorgere ulteriori dubbi di illegittimità, esistendo altre fattispecie nelle quali l’ordinamento non riconosce al socio il diritto di recedere. In ogni caso, anche secondo la giurisprudenza della Corte EDU l’illegittimità di una misura espropriativa non si potrebbe desumere solo dalla compressione del diritto del singolo, qualora prevalgano motivi di interesse generale per effetto di un bilanciamento ispirato a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, senza che all’ablazione debba corrispondere sempre e comunque la garanzia di un pieno indennizzo. Tale bilanciamento, rimesso all’apprezzamento discrezionale del legislatore, risulterebbe effettuato dalla disciplina comunitaria sui requisiti prudenziali delle banche cui si conforma la disposizione censurata. Quest’ultima non violerebbe il principio del minimo mezzo, della ragionevolezza e della proporzionalità, non imponendo alcuna specifica limitazione al rimborso, ma lasciando alla valutazione del caso concreto la scelta da operare, tale da ridurre al minimo,


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se possibile, la compressione del diritto del singolo. Il rimettente, pur riconoscendo la preminente esigenza di tutelare l’interesse generale alla stabilità patrimoniale del sistema finanziario, che anche secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia può prevalere sugli interessi degli azionisti e dei creditori delle banche, avrebbe arbitrariamente sostituito la propria valutazione a quella del legislatore, affermando che solo il rinvio del rimborso a tempo determinato sarebbe compatibile con la Costituzione. Al contrario, la disciplina nazionale primaria e secondaria sulla limitazione del rimborso in caso di recesso, che riproduce quanto previsto dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013 e dall’art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, non lascerebbe alla totale discrezione della singola banca la scelta delle misure da adottare, che risulterebbe invece ancorata a condizioni patrimoniali oggettive verificabili caso per caso. L’articolato assetto tracciato dalla normativa comunitaria presupposta da quella interna avrebbe dunque lasciato agli Stati membri «libertà di […] rinviare il diritto al rimborso fino ad un tempo illimitato oppure [di] escludere ovvero limitare il rimborso», sicché legittimamente il legislatore italiano avrebbe riproposto la stessa alternativa nel proprio ordinamento, approntando una regolamentazione rispettosa della Costituzione e dell’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU. Inoltre, il riconoscimento degli interessi per il ritardo nel rimborso, auspicato dal rimettente, vanificherebbe lo scopo perseguito dalla normativa comunitaria e nazionale, consistente

nella tutela dei requisiti prudenziali delle banche, in quanto avrebbe un evidente impatto sul loro patrimonio. Qualora questa Corte ritenesse che gli argomenti svolti non siano idonei a respingere le questioni, le parti propongono istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267 del TFUE, diretto a «verificare quale sia l’effettivo valore ermeneutico da riconoscere al combinato disposto dell’art. 29, comma 2, del [regolamento (UE) n. 575/2013] con l’art. 10 del Regolamento [delegato (UE) n. 241/2014]», atteso che, «anche nell’ottica del giudizio di costituzionalità, la questione di compatibilità comunitaria costituisce un prius logico e giuridico rispetto alla questione di costituzionalità». 5.– Con atto depositato il 4 aprile 2017 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o la manifesta infondatezza delle questioni. 5.1.– L’interveniente osserva in via preliminare che il giudice a quo, deducendo la violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, avrebbe identificato la norma censurata nel «nuovo testo dell’art. 29 co. 2 ter del D.lgs. 1 settembre 1993 n. 385», sull’erroneo presupposto che esso disciplini la limitazione del diritto al rimborso del socio recedente, mentre tale norma, introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015, contiene la diversa previsione dei poteri della Banca d’Italia nel caso in cui non sia deliberata la trasformazione della banca popolare con attivo “sopra soglia”. Viene pertanto chiesto a questa Corte

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di valutare se l’errata identificazione della norma censurata si possa tradurre nell’inammissibilità delle questioni. Sempre in via preliminare, l’interveniente eccepisce il difetto di rilevanza o di sufficiente motivazione sulla rilevanza con riferimento alla censura che riguarda il diritto al rimborso.
Il giudice a quo avrebbe erroneamente posto a base della rilevanza il «pregiudizio» che i soci ricorrenti potrebbero subire dalla norma sospettata di illegittimità, anziché la necessità di applicare tale norma per definire la controversia. L’ordinanza di rimessione non preciserebbe se i soci ricorrenti hanno esercitato il diritto di recesso, sicché le domande proposte nel giudizio principale dovrebbero essere dichiarate inammissibili per difetto di interesse ad agire, con conseguente inammissibilità delle questioni, per irrilevanza. Non sarebbero condivisibili, inoltre, le considerazioni svolte dal giudice a quo sull’esistenza di un pregiudizio attuale e concreto alla «libertà di autodeterminazione negoziale del socio» nell’espressione del diritto di voto in assemblea, che sarebbe condizionata dalla «eventualità di vedersi escluso il diritto al rimborso in caso di recesso conseguente alla trasformazione». Per i soci delle banche popolari già trasformate in società per azioni (la quasi totalità di quelle “sopra soglia”), tale “condizionamento” costituirebbe un fatto già avvenuto e dunque inidoneo a fondare un interesse attuale all’annullamento del provvedimento della Banca d’Italia. Né l’ordinanza riferirebbe di deliberazioni societarie che hanno limitato il diritto al rimborso o di impugnazioni proposte avverso le delibere di trasformazione, a conferma dell’assenza di prova

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dell’asserito “condizionamento”. Per i soci delle banche popolari che non avessero ancora deliberato la trasformazione, l’ordinanza non fornirebbe alcun elemento idoneo a ipotizzare che la trasformazione verrà deliberata, che i soci ricorrenti eserciteranno in tal caso il diritto di recesso, che si realizzeranno le condizioni per rendere necessaria la limitazione del diritto al rimborso delle loro azioni e che la limitazione si tradurrà nella riduzione del rimborso anziché, come auspicato dal rimettente, nel suo mero differimento: ciò porrebbe in dubbio, anche sotto il profilo prospettato nell’ordinanza di rimessione, la sussistenza di un effettivo interesse ad agire in capo ai soci. 5.1.1.– Ancora in via preliminare, l’interveniente osserva che tutte le questioni sollevate dal giudice a quo, riferite in apparenza all’intero art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, dovrebbero essere circoscritte al comma 1, lettera a) di tale disposizione, che ha aggiunto il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario, in tema di limitazione del diritto al rimborso in caso di recesso, giacché la residua disciplina contenuta nel citato art. 1 sarebbe irrilevante per la definizione del processo principale. Tuttavia, la previsione sui limiti al rimborso non deriverebbe più dalla disposizione censurata, anche così circoscritta, bensì dall’art. 1, comma 15, del d.lgs. n. 72 del 2015, entrato in vigore il 27 giugno 2015, che ha sostituito il testo dell’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario con il seguente, riproduttivo di quello anteriore: «2-ter. Nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione,


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morte o esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi.». L’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, sarebbe stato dunque implicitamente abrogato, per incompatibilità, dall’art. 1, comma 15, del d.lgs. n. 72 del 2015. Da qui l’irrilevanza della questione concernente il difetto dei requisiti della decretazione d’urgenza, ex art. 77 Cost., poiché la norma vigente, applicabile in materia di recesso dei soci di banche popolari e di limitazione al rimborso delle loro quote di capitale, sarebbe stata adottata con l’ordinario procedimento di legislazione delegata ex art. 76 Cost. 5.2.– Ove rilevante, la questione ex art. 77, secondo comma, Cost, sarebbe comunque infondata. I requisiti di necessità e urgenza sussisterebbero, in quanto la previsione di limiti al rimborso in caso di recesso sarebbe espressamente finalizzata alla necessità di «assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca», onde prevenire il rischio che, in occasione della trasformazione delle maggiori banche popolari, si verifichi una tale quantità di recessi da porre in dubbio il rispetto da parte di tali banche ai requisiti prudenziali di stabilità patrimoniale. L’urgenza di provvedere nel settore bancario, imperniato sulla funzione normativa e di vigilanza della Banca

d’Italia, coesisterebbe logicamente con la rimessione a quest’ultima del potere di adottare norme di attuazione. Solo in questo modo l’intervento legislativo avrebbe rivestito i caratteri di completezza e organicità indispensabili ad assicurarne l’efficacia concreta, anche in considerazione della laboriosità del processo riformatore delle banche popolari (è citata sul punto la sentenza n. 133 del 2016). L’avvio del processo avrebbe garantito la necessaria stabilizzazione di queste banche, con la previsione di un lasso di tempo sufficiente a consentire la loro trasformazione nelle condizioni di maggiore convenienza. Infine, la valutazione del rischio e dell’urgenza di provvedere competerebbe esclusivamente al legislatore, non apparendo manifestamente irragionevole il rischio che la presenza di banche popolari di dimensioni sistemiche indebolisca la stabilità complessiva del sistema bancario, sicché dovrebbe essere esclusa ogni valutazione sostitutiva da parte del giudice a quo e dello stesso giudice delle leggi. L’ampiezza e la durata nel tempo del dibattito sul tema della riforma delle banche popolari, al quale allude il rimettente, dimostrerebbe l’esistenza del problema e l’urgenza di risolverlo. 5.3.– Secondo l’interveniente, anche la questione inerente alla legittimità costituzionale della previsione che conferisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare la limitazione del diritto al rimborso della quota del socio recedente sarebbe infondata. Dalla norma censurata, letta nella sua inscindibile interezza, si ricaverebbe infatti che la potestà normativa della Banca d’Italia è esclusivamente finalizzata a garantire il rispetto da

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parte della banca, in caso di recesso del socio, dei requisiti di stabilità patrimoniale identificabili nel possesso di un patrimonio di vigilanza di qualità primaria non inferiore ai minimi legali. Ciò renderebbe operanti, come criteri limitativi della discrezionalità della Banca d’Italia, le norme dell’ordinamento comunitario che disciplinano il patrimonio di vigilanza delle banche, le quali sarebbero rigide e stringenti, e non consentirebbero margini di effettiva discrezionalità. D’altra parte occorrerebbe ricordare che già l’art. 53, comma l, lettere a), b) e d), del t.u. bancario attribuisce alla Banca d’Italia un ampio potere regolamentare in tema di adeguatezza patrimoniale degli istituti di credito. 5.4.– Anche le censure riferite agli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, sarebbero infondate. L’interveniente ribadisce che secondo l’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario la limitazione del rimborso costituirebbe una misura non fine a se stessa, ma funzionale alla stabilità della banca, garantita dalla tutela dell’integrità del suo patrimonio di vigilanza di qualità primaria, che il rimborso immediato potrebbe intaccare. Inoltre, la misura realizzerebbe un equilibrio con l’eccezionale diritto di recesso riconosciuto dall’ordinamento al socio della cooperativa bancaria, a differenza del socio di una banca ordinaria. Tale diritto sorgerebbe già intrinsecamente limitato dalla condizione negativa che il rimborso non comporti la perdita o l’indebolimento del patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca.

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Sarebbe inoltre errato il presupposto interpretativo dal quale muove il rimettente, che equipara il differimento sine die all’esclusione totale del rimborso. In realtà la norma censurata prevede solo la possibilità di limitare il diritto al rimborso o il suo rinvio a un momento determinato o da determinare, senza contemplarne l’esclusione immediata e definitiva. Né il rinvio a un momento da determinare sembra consentire tale equiparazione, posto che l’esclusione farebbe venire meno il credito al rimborso, mentre il differimento lo conserverebbe, pur incidendo sulla sua esigibilità. Ove si intendessero superare tali considerazioni, l’interveniente osserva che il dubbio di illegittimità costituzionale deriverebbe dalla scorretta e incompleta ricostruzione dell’istituto del recesso del socio e della normativa comunitaria in materia di rafforzamento della disciplina prudenziale, ricostruzione che avrebbe condotto il giudice a quo all’errata configurazione della quota di partecipazione del socio come un valore economico intangibile, la cui eventuale limitazione ex lege si tradurrebbe in un’espropriazione senza indennizzo. Al contrario, il credito al rimborso del valore della partecipazione sociale, che sorge con l’esercizio del recesso, non potrebbe essere qualificato come un diritto reale sul capitale della società, suscettibile di espropriazione, né la situazione prodotta dal recesso si risolverebbe in un mero conflitto tra soci recedenti e soci che proseguono l’attività, come sembra ritenere il rimettente, coinvolgendo essa invece sia i diritti dei terzi che operano con la banca che l’interesse pubblico, tutelato dalle Autorità di vigilanza, alla


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stabilità del sistema bancario nel suo complesso. Nell’approfondire questo profilo, l’interveniente esamina, in primo luogo, la disciplina ordinaria del recesso del socio nelle società di capitali contenuta nel codice civile. Tale disciplina evidenzierebbe la possibilità di ridurre il rimborso qualora – inutilmente esaurite tutte le fasi nelle quali si articola il complesso procedimento di liquidazione (trasferimento delle azioni del socio recedente agli altri soci o a terzi; acquisto di azioni proprie; riduzione del capitale in proporzione alle azioni da rimborsare, che può essere impedita dalla vittoriosa opposizione dei creditori sociali alla delibera di riduzione) – si giunga allo scioglimento della società con apertura del concorso del credito del socio recedente con i crediti vantati dai terzi, in posizione di parità: situazione che, nel caso di mancato rimborso per insufficienza dell’attivo, non attribuirebbe il diritto a indennizzi o corrispettivi, essendo connessa al rischio d’impresa assunto dal socio con la partecipazione alla società. Nella disciplina prudenziale comunitaria delle società che esercitano l’attività bancaria – introdotta dalla direttiva 2013/36/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, nonché dal regolamento (UE) n. 575/2013 e dal regolamento delegato (UE) n. 241/2014 – il recesso del socio riceverebbe un trattamento normativo sostanzialmente diverso, diretto ad

assicurare un adeguato livello di capitale di primaria qualità degli enti creditizi sulla base di rigidi parametri di riferimento. Allo scioglimento della società, configurato dalla disciplina codicistica quale strumento estremo per soddisfare il credito del socio recedente, nel caso in cui la società non disponga di risorse sufficienti e non possa procedere alla riduzione del capitale, la disciplina prudenziale comunitaria e nazionale opporrebbe un obiettivo contrario, diretto a evitare lo scioglimento della banca e a favorire la stabilità del sistema finanziario globale. Attraverso l’obbligatoria creazione del patrimonio di vigilanza, di cui fa parte il capitale, la banca costituirebbe un fondo proprio idoneo a fronteggiare in via permanente i rischi di perdite connesse alle esposizioni creditorie, sicché il diritto al rimborso del socio recedente non potrebbe essere soddisfatto se ciò comportasse la riduzione di tale patrimonio al di sotto dei limiti prudenziali. Il relativo diritto di credito si collocherebbe, pertanto, in una posizione subordinata al superiore interesse pubblico che l’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario intende proteggere. 5.4.1.– Per queste considerazioni, non sarebbe dunque violato il principio del minimo mezzo, come sostiene il rimettente, in quanto il sacrificio imposto dalla norma censurata al socio di una banca cooperativa appare funzionale all’attuazione di interessi superiori, che non si identificano con quelli dei soci che intendono proseguire l’attività bancaria, bensì con quello alla stabilità della singola banca e del sistema bancario nel suo complesso. Tale assetto normativo sa-

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rebbe in linea sia con i valori costituzionali, considerato che la libertà di iniziativa economica può essere limitata in funzione dell’utilità sociale ex art. 41 Cost., sia con la giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di superiorità dell’interesse pubblico alla stabilità del sistema finanziario sul legittimo affidamento dei singoli (è citata la sentenza 19 luglio 2016, in causa C-526/14, Tadej Kotnik e altri). Neppure sarebbe violato il diritto all’indennizzo in caso di esproprio, tutelato dall’art. 42 Cost. e dall’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, in quanto la situazione del socio recedente di una banca popolare, il cui diritto al rimborso sia limitato ex art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, sembra analoga a quella del socio recedente di una società ordinaria che, a seguito dello scioglimento di questa, non ottenga soddisfazione del credito in sede di liquidazione, per insufficienza dell’attivo: anche in questo caso, il sacrificio imposto al socio troverebbe giustificazione nel rischio d’impresa che egli ha assunto partecipando alla società. La limitazione al rimborso deriverebbe infatti da esposizioni di rischio della banca sorte prima dell’exit, tali da imporre un livello di patrimonio prudenziale raggiungibile solo con la quota di capitale di cui è titolare il socio che ha esercitato il recesso. Il principio del minimo mezzo neppure sarebbe violato dalla mancata previsione del differimento per un termine massimo predeterminato dal legislatore. La norma censurata – come quella comunitaria di riferimento – rinvierebbe infatti a parametri certi e rigorosi, connessi all’esistenza di risorse che consentano il rimborso delle azioni senza depauperare il patri-

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monio di qualità primaria della banca, determinato proporzionalmente alle esposizioni di rischio. Né si comprenderebbe come la previsione di un termine, da rimettere comunque all’intervento del legislatore, riuscirebbe a garantire il rispetto delle regole prudenziali, ove la condizione della banca rimanesse invariata alla scadenza del termine stesso, quando le azioni ancora necessarie per il mantenimento del patrimonio di vigilanza dovrebbero essere rimborsate. La norma censurata, inoltre, sarebbe pienamente conforme alla disciplina comunitaria, che prevede le facoltà alternative della limitazione e del rinvio, ancorandole al mantenimento di livelli patrimoniali adeguati. Neppure sarebbe fondata la censura relativa alla mancata previsione di un interesse corrispettivo per il ritardo nel rimborso, in quanto la parte di capitale versata dal socio recedente non potrebbe produrre interessi, essendo destinata a garantire le esposizioni di rischio della banca fino a che le condizioni patrimoniali della stessa ne impediscano la “liberazione”. 6.– Con atto depositato il 31 luglio 2017, fuori termine, sono intervenute nel giudizio Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa, che il 23 febbraio 2018 hanno depositato anche una memoria illustrativa. Esse chiedono, ai fini dell’ammissibilità dell’intervento, una «nuova valutazione» sulla natura del termine stabilito dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Questo termine non dovrebbe essere considerato perentorio, secondo il costante orientamento della Corte, ma ordinatorio, in


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applicazione del principio generale di cui all’art. 152, secondo comma, codice di procedura civile. Inoltre, coordinando la previsione dell’art. 4, comma 4, con quella del successivo art. 7 delle citate Norme integrative, che regola la fase processuale successiva alla scadenza del termine per la costituzione delle parti, l’intervento cosiddetto “tardivo” potrebbe essere ammesso fino a quando il Presidente della Corte non abbia nominato il giudice relatore, al quale il cancelliere deve immediatamente trasmettere il fascicolo. 7.– Anche le altre parti costituite e l’interveniente hanno depositato memorie nell’imminenza dell’udienza. 7.1.– I soci della Banca Popolare di Sondrio e della Banca Popolare di Milano ribadiscono le loro difese e insistono nelle conclusioni già rassegnate, chiedendo altresì, «in alternativa, o in via di ulteriore subordine, nell’ipotesi in cui si ritenesse ovvero venisse confermato in sede di rinvio pregiudiziale che la citata normativa europea consente di escludere tout court il rimborso», di proporre alla stessa Corte di giustizia, sempre ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del TFUE, un rinvio pregiudiziale sulla validità del citato art. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, per violazione dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE), «integrato, anche alla luce dell’art. 52, comma 3, della medesima Carta […] dalle prevision[i] e dalla giurisprudenza della CEDU richiamate nel I Motivo». 7.2.– La Banca d’Italia ribadisce e illustra le considerazioni svolte, insistendo per la manifesta inammissibi-

lità o la manifesta infondatezza delle questioni. La parte osserva che l’assunto del giudice a quo sull’effetto espropriativo conseguente all’applicazione della norma censurata sarebbe comunque superato dalla considerazione che le azioni non rimborsate per le esigenze prudenziali della banca dovrebbero essere restituite al socio. Non potendosi completare il procedimento di liquidazione del loro valore, esse sarebbero infatti liberate dal vincolo di indisponibilità ex art. 2437bis, cod. civ. Inoltre, la trasformazione in società per azioni accrescerebbe la contendibilità dell’impresa e, con essa, il valore di scambio della partecipazione azionaria, incrementando, anziché diminuendo, le opportunità patrimoniali del socio. La previsione di un interesse corrispettivo, auspicata dal giudice a quo, contrasterebbe poi con la mancanza di liquidità ed esigibilità del credito. Infine, la Banca d’Italia illustra le ragioni per cui le disposizioni oggetto del giudizio si collocherebbero armonicamente all’interno del complessivo sistema del diritto bancario europeo, riproducendone le logiche e gli equilibri, e salvaguardando il contenuto essenziale del diritto che si assume leso. 7.3.– UBI Banca spa e Banco BPM spa, dopo avere descritto le fasi dei procedimenti di liquidazione nell’ambito dei quali si sono avvalse della facoltà di limitare parzialmente il rimborso delle azioni oggetto di recesso restituendo ai soci recedenti le azioni non rimborsate nelle rispettive misure del 94,8 e del 93 per cento, eccepiscono l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza. Muovendo da erronei presupposti giuridici, il giudice a quo non avrebbe esperito

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il tentativo di interpretazione conforme e avrebbe chiesto una pronuncia manipolativa dai contenuti indefiniti e non costituzionalmente obbligati, sovrapponendo la propria valutazione alle scelte discrezionali spettanti al legislatore. Il rimettente non avrebbe inoltre considerato che la previsione dell’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario è stata riproposta con una formulazione pressoché identica nel successivo d.lgs. n. 72 del 2015, in vigore dal 27 giugno 2015, sicché l’incompleta individuazione delle norme censurate determinerebbe l’inammissibilità di tutte le questioni dedotte o, quantomeno, l’irrilevanza di quella sollevata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. Infine, il difetto di rilevanza deriverebbe anche dalla mancanza di attualità delle questioni, poiché la dichiarazione di illegittimità costituzionale non potrebbe incidere su situazioni o rapporti giuridici relativi a «fasi che devono ritenersi esaurite o concluse», come la già eseguita trasformazione in società per azioni delle banche popolari con attivo superiore alla soglia di otto miliardi di euro. Nel merito, le parti illustrano le difese già svolte, richiamando la sentenza n. 287 del 2016 a dimostrazione dell’infondatezza della questione sul difetto dei requisiti della decretazione d’urgenza e diffondendosi nell’esame delle norme di diritto europeo rilevanti in materia, che sarebbero state erroneamente interpretate dal giudice a quo e sarebbero assistite da una presunzione di validità estesa alla loro conformità alla Carta dei diritti fondamentali. Infine, le parti insistono nella subordinata istanza di rinvio pregiudi-

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ziale ex art. 267, terzo comma, del TFUE. 7.4.– il Presidente del Consiglio dei ministri insiste a sua volta nelle eccezioni e richieste rassegnate nell’atto di intervento. Quanto alle censure di violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, l’interveniente sottolinea che nel contesto normativo creato dalle regole prudenziali europee i diritti degli azionisti di società bancarie sarebbero diritti “limitatamente disponibili” perché originariamente connotati dalla funzione di concorrere all’adeguatezza patrimoniale della banca rispetto alla sua esposizione al rischio. Disciplinando i diritti conseguenti all’esercizio del recesso dalle banche popolari, la norma censurata avrebbe dunque reso esplicito tale limite intrinseco, dato dal fatto che l’azione bancaria (lo strumento di capitale) servirebbe innanzitutto a formare la componente indefettibile dei fondi propri (il capitale primario di classe 1) e con ciò ad assicurare il mantenimento del rapporto predeterminato, fissato dalle predette regole, tra i fondi propri della banca e la sua esposizione al rischio. Tale rapporto verrebbe messo in crisi, nel caso delle banche popolari soggette alla trasformazione “obbligatoria”, dalla variabilità del loro capitale, che ne implicherebbe la riduzione a seguito del recesso, nonché dalla loro natura “sistemica”, implicante un’elevata esposizione al rischio, che nel caso di riduzione del capitale a seguito dei recessi le costringerebbe ad uscire dal mercato per la sopravvenuta perdita dei requisiti di stabilità patrimoniale o


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a ridurre l’attivo, rinunciando alla propria dimensione operativa. L’interveniente si sofferma, inoltre, sulla diversità di regime giuridico tra il recesso del socio di società ordinaria e quello del socio di società bancaria. Per quest’ultimo il potere di inibire la riduzione del capitale sociale a seguito del recesso non è rimessa alla volontà dei creditori sociali, mediante il rimedio dell’opposizione alla delibera di riduzione, ma è previsto ex lege, mediante la determinazione di un vincolo normativo rigido, che vieta di ridurre quella parte del capitale sociale, determinata secondo un criterio matematico, rientrante nel patrimonio di vigilanza della banca e pertanto destinato a garantirne la solvibilità. Il patrimonio di vigilanza costituirebbe dunque un bene giuridico che il legislatore comunitario e nazionale ritiene funzionale alla tutela del superiore interesse alla stabilità della banca stessa e dell’intero sistema finanziario. L’intervento legislativo in esame non avrebbe fatto altro che precisare tale condizione, chiarendo che la limitazione del rimborso, cioè il diniego totale o parziale in caso di recesso, potrebbe verificarsi non solo quando lo imponga o lo consigli la situazione economica e patrimoniale della banca popolare, bensì anche nel caso di sua trasformazione in banca ordinaria, e dunque in un caso in cui il recesso sarebbe sì previsto dalla legge, ma contraddirebbe l’esigenza di accrescere o, almeno, non diminuire il coefficiente di capitale primario di classe 1 (CET1), resa inderogabile proprio dalla trasformazione in banca ordinaria dotata di un attivo (rischio) di proporzioni sistemiche.

Nella prospettiva così delineata perderebbero dunque consistenza le censure di illegittimità riferite agli artt. 41 e 42 Cost., in ordine alle quali l’interveniente approfondisce le considerazioni svolte, anche con riguardo alla conformazione che il legislatore avrebbe impresso alla proprietà azionaria per assicurarne la «funzione sociale», all’analoga limitazione apposta alla libertà di iniziativa economica, in funzione della sua «utilità sociale», all’insussistenza di lesioni dell’affidamento dei soci e alla mancata violazione del principio di proporzionalità. Quanto alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., anche l’interveniente richiama la sentenza n. 287 del 2016, ribadendo le precedenti difese. In merito alle altre questioni, l’interveniente osserva, infine, che la norma censurata non avrebbe previsto alcuna delegificazione, id est nessuna abrogazione di norme di legge primaria all’entrata in vigore di norme di rango subprimario, avendo disposto, al contrario, che il diritto al rimborso dei soci recedenti potrà essere limitato se è necessario per consentire il computo delle loro azioni nel capitale di qualità primaria della banca, e che ciò costituisce deroga alle norme di legge (del codice civile), le quali prevedono il rimborso immediato e integrale delle quote dei soci recedenti dalle società non bancarie. Considerato in diritto 1.– Il Consiglio di Stato dubita sotto vari profili della legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33, norma

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che riforma la disciplina delle banche popolari. Le questioni sono sorte nella fase cautelare del giudizio in cui sono stati riuniti gli appelli proposti contro tre sentenze del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, rese in processi aventi ad oggetto atti emessi dalla Banca d’Italia in seguito alle modificazioni apportate dal citato art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 agli artt. 28 e 29 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia» (t.u. bancario). Più precisamente, davanti al giudice amministrativo era stato impugnato – da soci di varie banche popolari e da due associazioni di consumatori, con l’intervento in giudizio di una terza associazione – il provvedimento della Banca d’Italia denominato «9° aggiornamento del 9 giugno 2015», pubblicato l’11 giugno 2015 nel «Bollettino di Vigilanza n. 6, giugno 2015», che apporta modifiche alla circolare della Banca d’Italia n. 285 del 17 dicembre 2013 (Disposizioni di vigilanza per le banche), introducendo nella Parte Terza di tale circolare il Capitolo 4, intitolato «Banche in forma cooperativa». Secondo quanto riportato nelle sue premesse, il provvedimento «[…] dà attuazione alla riforma delle banche popolari introdotta con le modifiche al Capo V, Sezione I del TUB apportate dal decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito con legge 24 marzo 2015, n. 33». Esso definisce, per quello che qui interessa, i criteri, le modalità e i limiti al rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale nel caso di recesso, in applicazione dell’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, che ha aggiunto all’art. 28 t.u.

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bancario il comma 2-ter, secondo il quale «[n]elle banche popolari il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione o di esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò è necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia può limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi». Nel giudizio erano altresì impugnati gli atti preparatori di tale provvedimento, ossia il «Documento per la consultazione» intitolato «Disposizioni di vigilanza – Banche popolari», pubblicato nel sito web della Banca d’Italia il 9 aprile 2015, nonché il «Resoconto della consultazione» e la «Relazione sull’analisi d’impatto» della regolamentazione, pubblicato nel sito web della Banca d’Italia contestualmente al «9° aggiornamento». Il TAR Lazio aveva escluso la legittimazione al ricorso delle due associazioni di consumatori, nonché la legittimazione all’intervento dell’altra associazione e aveva respinto nel merito i ricorsi proposti dai soci delle banche. Adìto per la riforma delle sentenze di primo grado con preliminare istanza di sospensione, il Consiglio di Stato ha riunito gli appelli e sospeso interinalmente l’efficacia del provvedimento impugnato, per alcune sue parti, sino alla camera di consiglio successiva alla restituzione degli atti da parte di questa Corte. Con successiva ordinanza ha quindi sollevato le questioni oggetto del presente giudizio costituzionale.


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2.– Innanzitutto deve essere ribadita l’inammissibilità dell’intervento in giudizio di Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa, per le ragioni esposte nell’ordinanza emessa all’udienza del 20 marzo 2018. 3.– In secondo luogo deve essere respinta, in quanto infondata, l’eccezione del Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio, che ha contestato il difetto di rilevanza o di sufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni. Il giudice a quo motiva espressamente sulla pregiudizialità delle questioni (e, con essa, sulla loro rilevanza), affermando che la norma censurata costituisce la base legislativa del provvedimento amministrativo emesso dalla Banca d’Italia impugnato nel processo principale, sicché la sua applicazione è necessaria per definire il giudizio a quo anche nella sua fase cautelare, attualmente sospesa in attesa della risoluzione dell’incidente di costituzionalità. Neppure può essere accolto l’assunto dell’Avvocatura sul difetto di interesse ad agire dei ricorrenti nel processo principale, che si tradurrebbe in un difetto di rilevanza o di sufficiente motivazione sulla rilevanza delle questioni. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «il controllo della […] rilevanza “va limitato all’adeguatezza delle motivazioni in ordine ai presupposti in base ai quali il giudizio a quo possa dirsi concretamente ed effettivamente instaurato, con un proprio oggetto, vale a dire un petitum, separato e distinto dalla questione di legittimità costituzionale, sul quale il giudice remittente sia chiamato a decidere” (ex plurimis, sentenza n. 263

del 1994)», sicché «[i]l riscontro dell’interesse ad agire e la verifica della legittimazione delle parti, agli stessi fini, sono rimessi a loro volta alla valutazione del giudice a quo e non sono suscettibili di riesame da parte [della] Corte, qualora risultino sorretti da una motivazione non implausibile (ex plurimis, sentenze n. 1 del 2014, n. 91 del 2013, n. 280, n. 279, n. 61 del 2012, n. 270 del 2010)» (sentenza n. 110 del 2015). Le considerazioni svolte dal giudice rimettente sull’attualità e sulla concretezza del pregiudizio alla libertà di espressione del voto del socio in assemblea nel caso di trasformazione sociale non ancora deliberata, ovvero alla sua libertà di recedere dalla società a trasformazione deliberata, offrono argomenti non implausibili a sostegno dell’esistenza dell’interesse ad agire dei ricorrenti, si trovino essi nell’una o nell’altra situazione. 4.– Nel merito, il rimettente dubita innanzitutto che l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 violi l’art. 77, secondo comma, della Costituzione, «in relazione alla evidente carenza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza legittimanti il ricorso allo strumento decretale d’urgenza (ove non ritenuta sanata, seppure soltanto ex nunc, dalla legge di conversione)». Il d.l. n. 3 del 2015 introdurrebbe norme in gran parte non auto-applicative, richiedenti ulteriori misure attuative, in contrasto con la previsione generale dell’art. 15, comma 3, della legge 23 agosto, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri). Neppure la relazione illustrativa varrebbe a fugare i dubbi di eviden-

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te mancanza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost. Essa giustificherebbe l’urgenza dell’intervento riformatore delle banche popolari con i rischi, segnalati dal Fondo monetario internazionale, dalla Commissione europea e dalla Banca d’Italia, di concentrazione di potere in favore di gruppi di soci organizzati, di autoreferenzialità della dirigenza e di difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato, ma tali rischi non sarebbero attuali e concreti, bensì solo potenziali, non trovando «riscontro concreto in circostanze straordinarie» e gravi, esistenti «all’atto dell’emanazione del decretolegge». L’urgenza sarebbe ulteriormente smentita dalla natura dell’intervento legislativo, diretto a realizzare una riforma organica e di sistema delle banche popolari sulla quale era in corso da tempo un ampio dibattito in sede dottrinale e politica. 4.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che tutte le questioni sollevate dal giudice a quo, anche se riferite in apparenza all’intero art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, dovrebbero essere circoscritte al comma 1, lettera a) di tale disposizione, che ha aggiunto il comma 2-ter all’art. 28 del t.u. bancario in tema di limitazione del diritto al rimborso in caso di recesso. La residua disciplina contenuta nel citato art. 1, relativa alle altre parti della riforma delle banche popolari, sarebbe irrilevante per la definizione del processo principale. La previsione sui limiti al rimborso, tuttavia, non sarebbe più contenuta nella disposizione censurata, anche così circoscritta, bensì nell’art. 1, comma 15, del decreto legislativo 12 maggio 2015, n. 72 (Attuazione

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della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva 2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58), entrato in vigore il 27 giugno 2015, che ha sostituito l’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario riproducendone sostanzialmente il testo, salvo modifiche qui non rilevanti che estendono l’efficacia della norma alle banche di credito cooperativo e ai casi di morte del socio. L’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015 sarebbe stato così implicitamente abrogato, per incompatibilità, dal successivo art. 1, comma 15, del d.lgs. n. 72 del 2015. Da qui l’eccepita irrilevanza della questione concernente il difetto dei requisiti della decretazione d’urgenza, ex art. 77 Cost., poiché la disposizione vigente, applicabile in materia di recesso dei soci di banche popolari e di limitazione al rimborso delle loro azioni, sarebbe stata adottata secondo l’ordinario procedimento di legislazione delegata ex art. 76 Cost. L’eccezione non è fondata. Il rilievo dell’interveniente è corretto nel suo presupposto, perché la norma che, tra le molteplici contenute nel censurato art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, è pregiudiziale alla definizione della controversia, fungendo da base legislativa del provvedimento impugnato, è quella che prevede limiti del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso di cui all’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l.


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n. 3 del 2015. Se nel giudizio a quo fosse applicabile una norma analoga ma contenuta in una disposizione diversa, successivamente introdotta con un decreto legislativo, per la cui adozione non valgono i requisiti di necessità e urgenza propri del decretolegge, la censura ex art. 77, secondo comma, Cost. non sarebbe rilevante. Tuttavia, come visto, il «9° aggiornamento del 9 giugno 2015» alla circ. Banca d’Italia n. 285 del 2013 è stato pubblicato l’11 giugno 2015 nel «Bollettino di Vigilanza n. 6, giugno 2015». La fonte primaria del provvedimento impugnato nel giudizio a quo deve essere individuata dunque, secondo il principio tempus regit actum e in conformità al suo stesso tenore letterale («Il presente aggiornamento introduce nella parte Terza della Circolare n. 285 il Capitolo 4 “Banche in forma cooperativa” […] Il Capitolo dà attuazione alla riforma delle banche popolari introdotta con le modifiche al Capo V, Sezione I del TUB apportate dal decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3, convertito con legge 24 marzo 2015, n. 33 […]»), nella disposizione in vigore al momento della sua emanazione, e dunque nell’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario come introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, giacché nel momento in cui l’atto è venuto a esistenza il potere esercitato dall’autorità amministrativa non poteva che fondarsi su tale base legislativa. Nel giudizio a quo, pertanto, si deve fare applicazione della disposizione censurata, con la conseguenza che le questioni continuano a essere rilevanti.

4.2.– Nel merito, la questione sollevata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. non è fondata. Con la sentenza n. 287 del 2016, questa Corte ha dichiarato non fondata un’identica questione promossa in via principale dalla Regione Lombardia, che aveva impugnato l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 anche per la mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza, sulla base di argomentazioni in gran parte analoghe a quelle offerte in questa sede. Nella sentenza si ricorda innanzitutto che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «[…] il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge va limitato ai casi di evidente mancanza dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost., o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro valutazione (ex plurimis, sentenze n. 133 del 2016, n. 10 del 2015, n. 22 del 2012, n. 93 del 2011, n. 355 e n. 83 del 2010, n. 128 del 2008, n. 171 del 2007)». E si prosegue affermando che le ragioni giustificative esposte nel preambolo del d.l. n. 3 del 2015 (dove si fa riferimento alla straordinaria necessità e urgenza di avviare il processo di adeguamento del sistema bancario agli indirizzi europei) e le diffuse considerazioni svolte nella relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione (dove sono menzionate anche le forti sollecitazioni del Fondo monetario internazionale e dell’Organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica a trasformare le banche popolari maggiori in società per azioni), «[…] che collegano le esigenze di rafforzamento patrimoniale, di competitività

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e di sicurezza delle banche popolari, sia all’adeguamento del sistema bancario nazionale a indirizzi europei e di organismi internazionali, sia ai noti e deleteri effetti sull’erogazione creditizia della crisi economica e finanziaria in atto, escludono che si sia in presenza di evidente carenza del requisito della straordinaria necessità e urgenza di provvedere», così come «escludono che la valutazione del requisito sia affetta da manifesta irragionevolezza o arbitrarietà». Anche per quanto riguarda la natura di riforma di sistema della normativa impugnata, che ne impedirebbe l’adozione con decreto-legge, si devono richiamare le conclusioni della citata sentenza n. 287 del 2016, secondo cui la normativa in esame «non presenta una portata così ampia da caratterizzarsi come vera e propria riforma del sistema bancario», poiché, «[p]er quanto essa incida significativamente su un particolare tipo di azienda di credito, resta pur sempre un intervento settoriale e specifico, non assimilabile dunque a un atto definibile come riforma di sistema». Secondo il rimettente, inoltre, la sussistenza dei presupposti della decretazione d’urgenza sarebbe da escludere in quanto l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 contiene norme non autoapplicative, come il nuovo comma 2-ter dell’art. 28 t.u. bancario, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera a), e il nuovo comma 2-quater dell’art. 29 t.u. bancario, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), la cui attuazione è affidata alla Banca d’Italia. Nemmeno questo rilievo può essere accolto. La presenza, nel contesto della normativa introdotta, di talune disposizioni non auto-applicative, che

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richiedono per tale motivo norme di attuazione, non fa venir meno l’urgenza di avviare ex lege il processo di trasformazione delle banche popolari di maggiori dimensioni o di stabilire la regola generale sulla possibilità di prevedere limiti al rimborso delle azioni in caso di recesso del socio, con disposizioni destinate quindi a operare immediatamente. Alcune parti private (appellanti nel processo principale) offrono a sostegno della censura l’ulteriore argomento della diversità e dell’eterogeneità degli ambiti materiali di intervento del d.l. n. 3 del 2015, al cui interno si potrebbero rinvenire norme dal più disparato contenuto. Anche sul punto specifico questa Corte ha già avuto modo di osservare che «[l]’eterogeneità non sussiste, poiché tutte le misure contemplate nella normativa oggetto di impugnazione possono essere ricondotte al comune obiettivo di sostegno dei finanziamenti alle imprese, ostacolati dalla straordinarietà della crisi economica e finanziaria in atto» (sentenza n. 287 del 2016). Non essendovi ragioni per discostarsi da tale recente pronuncia, per questo come per gli altri aspetti esaminati, si deve concludere per l’infondatezza della questione. 5.– In secondo luogo, il rimettente dubita della legittimità dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 «nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche


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con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo» per il ritardo nel rimborso. Sotto questo profilo, la norma violerebbe gli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Il rimettente osserva che il risultato finale della duplice previsione normativa – dell’obbligo di trasformazione delle banche popolari da società cooperative in società per azioni nel caso di superamento della soglia di otto miliardi di attivo (ove non si opti per la riduzione dell’attivo o per la liquidazione della società) e della possibilità di escludere in tutto o in parte o di rinviare indefinitamente e senza un «corrispettivo compensatorio» il diritto del socio recedente al rimborso delle azioni – finirebbe «per tradursi in una sorta di esproprio senza indennizzo (o con indennizzo ingiustificatamente ridotto) della quota societaria». Il legislatore non avrebbe operato un corretto bilanciamento, ispirato al «principio del minimo mezzo», tra gli opposti interessi di rilievo costituzionale in gioco, che si identificherebbero, da un lato, nel diritto al rispetto dei propri «beni», correlato alla tutela della proprietà nell’ampia accezione accolta dalla Corte EDU, e, dall’altro lato, nell’interesse generale alla sana e prudente gestione dell’impresa ban-

caria, correlato alla tutela del credito e del risparmio. L’intervento legislativo, imponendo la trasformazione del tipo societario della banca (sia pure con la previsione di obblighi alternativi), consentirebbe di privare il socio di una banca popolare di uno status che garantisce specifici diritti “amministrativi”, come quello al voto “capitario” nelle assemblee, modificando in senso peggiorativo il contenuto dei poteri inerenti alla partecipazione sociale, senza peraltro assicurare il rimborso delle azioni qualora il socio ritenesse di non accettare lo status conseguente alla trasformazione della banca popolare in società per azioni. Si produrrebbe così un effetto espropriativo senza indennizzo. Pur dando atto che in materia sussiste la preminente esigenza di tutelare l’interesse pubblico di rilievo costituzionale e comunitario – enunciato dalla norma censurata con il richiamo alla necessità di «[…] assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca» – il giudice a quo lamenta che il contrapposto interesse del socio recedente al rimborso delle azioni sarebbe irragionevolmente sacrificato al di là dei limiti di quanto strettamente necessario per assicurare un’adeguata tutela dell’interesse pubblico. I sospetti di irragionevolezza della norma censurata per violazione del «principio del minimo mezzo» nel giudizio di bilanciamento degli interessi in gioco sarebbero confermati dal fatto che il diritto al rimborso è sacrificato dal legislatore anche per il caso in cui la banca fosse costantemente incapace di ripristinare il patrimonio di qualità primaria senza ricorrere alle

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quote non rimborsate, e continuasse di conseguenza a operare nel mercato solo grazie al capitale conferito dagli ex soci. Pertanto, l’esigenza di assicurare la sana e prudente gestione dell’attività bancaria potrebbe giustificare non già la «perdita definitiva» del diritto al rimborso, consentita dalla norma censurata, bensì soltanto il «suo differimento nel tempo (con la previsione di un termine massimo prestabilito, rimessa alla discrezionalità del legislatore) e salva la corresponsione di un interesse corrispettivo (da parametrare al tasso di riferimento della BCE […] attualmente prossimo allo 0, purché comunque positivo)», diretto a evitare che il minor sacrificio imposto al socio si risolva comunque in una forma di espropriazione senza indennizzo. L’esclusione ex lege del diritto al rimborso non troverebbe «fondamento e copertura» nemmeno nel diritto dell’Unione europea in tema di requisiti prudenziali per gli enti creditizi. Secondo il rimettente, la norma di settore che si occupa dei limiti al rimborso degli «strumenti di capitale» emessi dagli enti creditizi è l’art. 10, paragrafo 2, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione, del 7 gennaio 2014, che integra il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti. Tale disposizione, nello stabilire che «[l]a capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda

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sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile […]», non imporrebbe l’obbligo incondizionato di escludere il diritto al rimborso, e consentirebbe invece di optare tra il rinvio e la limitazione dell’importo rimborsabile. A fronte di più opzioni «comunitariamente consentite», il legislatore nazionale avrebbe pertanto l’obbligo di scegliere quella che meglio assicura il rispetto dei principi costituzionali, da individuare, come detto, nel differimento del rimborso «ad un tempo dato», con la corresponsione di un interesse corrispettivo per il ritardo. 5.1.– Devono essere preliminarmente considerate le eccezioni formulate dalle difese del Presidente del Consiglio dei ministri e della Banca d’Italia. 5.1.1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che il giudice a quo ha dedotto la violazione degli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, e ha identificato la norma censurata nel «nuovo testo dell’art. 29 co. 2 ter del D.lgs. 1 settembre 1993 n. 385» sull’erroneo presupposto che esso disciplini la limitazione del diritto al rimborso del socio recedente, mentre tale norma, introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015, contiene la diversa previsione dei poteri della Banca d’Italia nel caso in cui non sia deliberata la trasformazione della banca popolare con attivo “sopra soglia”. Chiede pertanto a questa Corte di valutare se l’errata identificazione della norma censurata si possa tradurre nell’inammissibilità delle questioni. Il rilievo non è corretto. Il rimettente non identifica la norma censu-


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rata nell’art. 29, comma 2-ter, del t.u. bancario, ma richiama la disposizione inserita dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015 per indicare la fattispecie della trasformazione delle banche popolari “sopra soglia”, da essa regolata, in quanto in tale ipotesi la limitazione del diritto al rimborso del socio recedente prevista dall’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario, inserito dall’art. 1, comma 1, lettera a), del d.l. n. 3 del 2015, è a suo giudizio sospetta di illegittimità. 5.1.2.– La Banca d’Italia eccepisce a sua volta la manifesta inammissibilità delle questioni in quanto con esse si chiederebbe una pronuncia manipolativa a contenuto non costituzionalmente obbligato. Nemmeno questa eccezione è fondata. Come visto, il rimettente dubita della legittimità dell’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015 (censura da circoscrivere al comma 1, lettera a, della disposizione) «nella parte in cui prevede che, disposta dall’assemblea della banca popolare la trasformazione in società per azioni secondo quanto previsto dal nuovo testo dell’art. 29, comma 2-ter, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, il diritto al rimborso delle azioni al socio che a fronte di tale trasformazione eserciti il recesso possa essere limitato (anche con la possibilità, quindi, di escluderlo tout court), e non, invece, soltanto differito entro limiti temporali predeterminati dalla legge e con previsione legale di un interesse corrispettivo». L’espressione «nella parte in cui prevede […] e non, invece, […]» deve essere letta come esplicativa, non già dell’intenzione di richiedere un intervento sostitutivo, bensì delle ragioni poste a fondamento delle cen-

sure desunte dalla motivazione. Non è chiesta dunque una pronuncia manipolativa di tipo sostitutivo, ma una pronuncia caducatoria della norma nella parte in cui essa prevede la possibilità dell’esclusione (cioè della limitazione integrale e senza limiti di tempo) del diritto al rimborso anche nel caso di recesso esercitato dal socio a seguito della trasformazione delle banche popolari sopra soglia, esclusione che comporterebbe il totale sacrificio dell’interesse del socio recedente, evitabile invece, a giudizio del rimettente, con la soluzione legislativa ipotizzata. Depone nel senso indicato anche il dato letterale del petitum dell’ordinanza di rimessione, che, parlando di «limiti temporali predeterminati dalla legge» e di «previsione legale di un interesse corrispettivo», esclude l’intenzione del giudice a quo di chiedere a questa Corte di sostituirsi al legislatore. 5.2.– Passando al merito delle questioni sollevate, è necessario individuare preliminarmente il senso della norma censurata. A tale fine occorre fare riferimento alla normativa dell’Unione europea sui requisiti prudenziali delle banche, costituita dal regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012, nonché dal regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014 che integra il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti.

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Tale normativa pone al centro del sistema della disciplina prudenziale i «fondi propri» quali strumenti di assorbimento delle perdite potenziali. I requisiti patrimoniali minimi di ciascun ente creditizio sono fissati da coefficienti che esprimono il rapporto percentuale tra i fondi propri delle banche e l’ammontare complessivo dell’esposizione al rischio. L’insufficienza, a questi fini, dei fondi propri impone all’ente creditizio interventi di ricapitalizzazione in tempi brevi, pena il verificarsi dei presupposti per la sua risoluzione. È quindi particolarmente importante che le banche, quale che sia il modello organizzativo adottato, possano rispondere prontamente a esigenze di rafforzamento patrimoniale e di capitalizzazione, e che la normativa assicuri questa possibilità. Secondo il regolamento (UE) n. 575/2013, il «capitale» è un elemento dei fondi propri che tutti gli enti creditizi devono possedere nel rispetto dei requisiti minimi, a fini prudenziali. Esso è suddiviso nelle due categorie del «capitale di classe 1» e del «capitale di classe 2», al cui interno operano ulteriori suddivisioni. In particolare, in base all’art. 25 del regolamento (UE) n. 575/2013, il capitale di classe 1 è composto dal «capitale primario di classe 1» e dal «capitale aggiuntivo di classe 1». Gli elementi del capitale primario di classe 1 sono definiti dall’art. 26 dello stesso regolamento, che alla lettera a) del paragrafo 1 contempla gli «[…] strumenti di capitale, purché siano soddisfatte le condizioni di cui all’articolo 28 o, ove applicabile, all’articolo 29». Ai sensi del successivo art. 29, gli strumenti di capitale emessi da banche aventi la forma di società mutue e

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cooperative (quali sono le banche popolari), enti di risparmio ed enti analoghi sono considerati strumenti del capitale primario di classe 1 se sono soddisfatte, oltre a tutte le condizioni di cui all’art. 28 (previste per le altre banche), anche le ulteriori condizioni così descritte al paragrafo 2: «[…] a) ad eccezione dei casi di divieto imposto dalla normativa nazionale applicabile, l’ente può rifiutare il rimborso degli strumenti; b) se la normativa nazionale applicabile vieta all’ente di rifiutare il rimborso degli strumenti, le disposizioni che governano gli strumenti autorizzano l’ente a limitare il rimborso […]». Se tali condizioni non sono soddisfatte, le azioni di una società esercente l’attività bancaria, che costituiscono i tipici «strumenti di capitale» della società stessa, non possono essere computate nel capitale primario di classe 1 ai fini del rispetto dei requisiti patrimoniali minimi. È chiara in questo senso la previsione dell’art. 30 del regolamento (UE) n. 575/2013, secondo cui «[q]uando le condizioni di cui all’articolo 28 o, ove applicabile, all’articolo 29 non sono più soddisfatte, […] lo strumento in questione cessa immediatamente di essere considerato strumento del capitale primario di classe 1» e «i sovrapprezzi di emissione relativi a tale strumento cessano immediatamente di essere considerati elementi del capitale primario di classe 1». Nella materia rilevano anche gli artt. 77 e 78 del regolamento (UE) n. 575/2013, che subordinano comunque il riacquisto integrale o parziale ovvero il rimborso, anche anticipato, degli strumenti di capitale primario di classe 1, di capitale aggiuntivo di clas-


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se 1 e di capitale di classe 2, all’autorizzazione dell’autorità di vigilanza competente, che accerta il rispetto di determinate condizioni per ridurre i fondi propri. L’art. 78, paragrafo 3, stabilisce poi che, se il rifiuto di rimborso degli strumenti di capitale primario di classe 1 è proibito dalla norma nazionale applicabile, l’autorità competente può derogare a tali condizioni purché «l’autorità competente imponga all’ente, su una base appropriata, di limitare il rimborso di tali strumenti». 5.2.1.– Nella disciplina del codice civile, il recesso del socio determina lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al recedente e fa sorgere a suo favore un credito nei confronti della società avente ad oggetto il valore della partecipazione (art. 2437-ter, primo comma, cod. civ. per la società per azioni; art. 2473, terzo comma, cod. civ. per la società a responsabilità limitata; art. 2519 cod. civ. per la società cooperativa, che richiama in generale le disposizioni sulla società per azioni). I procedimenti di liquidazione del valore della partecipazione mutano a seconda del tipo sociale ma vale per tutte le società il divieto di rifiutare unilateralmente il rimborso. Il rifiuto equivarrebbe all’inadempimento dell’obbligazione restitutoria derivante dal recesso. La normativa italiana vieta dunque a una banca cooperativa di rifiutare il rimborso delle azioni in caso di recesso del socio. Di conseguenza, non ricorrendo nella normativa nazionale la condizione (la previsione del rifiuto del rimborso) indicata dall’art 29, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (UE) n. 575/2013, ai fini prudenziali perseguiti dalla normativa europea deve essere soddisfatta l’alternativa

condizione prevista dalla lettera b), del citato art. 29, paragrafo 2, ossia che «le disposizioni che governano gli strumenti autorizzano l’ente a limitare il rimborso». Nel dettare le «disposizioni che governano gli strumenti», tuttavia, il legislatore nazionale non è libero di conformare discrezionalmente i limiti del rimborso, poiché la materia è disciplinata inderogabilmente dalle norme tecniche del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, adottato al fine di integrare le previsioni del regolamento (UE) n. 575/2013, ai sensi dell’art. 29, paragrafo 6, di quest’ultimo. Ne è conferma la previsione dell’art. 11, paragrafo 2, del citato regolamento delegato, secondo cui, «[s]e gli strumenti sono regolati dalla normativa nazionale […], perché gli strumenti abbiano i requisiti per essere considerati capitale primario di classe 1 la legislazione deve consentire all’ente di limitare il rimborso come previsto dall’articolo 10, paragrafi da 1 a 3». 5.2.2.– Più precisamente, l’art. 10, paragrafo 2, del regolamento delegato prevede che «la capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale, di cui all’articolo 29, paragrafo 2, lettera b), e all’articolo 78, paragrafo 3, del regolamento (UE) n. 575/2013, riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile, anche per un periodo illimitato», e aggiunge che «[l]’ente è in grado di rinviare il rimborso o di limitare l’importo rimborsabile per un periodo illimitato in conformità al paragrafo 3». L’espressione «sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile» deve

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essere interpretata nel senso del valore coordinativo-aggiuntivo, e non disgiuntivo, della coppia «sia […] che», come è confermato – in maniera non equivocabile – dalla versione inglese del testo normativo: «[t]he ability of the institution to limit the redemption under the provisions governing capital instruments as referred to in Article 29(2)(b) and 78(3) of Regulation (EU) No 575/2013 shall encompass both the right to defer the redemption and to limit the amount to be redeemed». E come è ulteriormente confermato dal Considerando n. 10 del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, dove si legge che «[…] laddove il rifiuto al rimborso degli strumenti sia proibito ai sensi della normativa nazionale applicabile per queste tipologie di enti [id est per le società mutue, società cooperative, enti di risparmio o enti analoghi], è essenziale che le disposizioni che regolano gli strumenti conferiscano all’ente la capacità di rinviare il loro rimborso e limitare l’importo da rimborsare». Quanto appena osservato sul significato, secondo questa Corte inequivoco, della citata disciplina europea porta a escludere che ricorrano i presupposti per il rinvio pregiudiziale che alcune parti hanno chiesto, in via subordinata, di proporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea ai sensi dell’art. 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall’art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130. Il rinvio, infatti, «[…] non è necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente […] e si impone soltanto quando occorra risolvere un dubbio interpre-

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tativo (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 27 marzo 1963, in causa C-28-30/62, Da Costa; Corte costituzionale, ordinanza n. 103 del 2008)» (ex plurimis, ordinanza n. 2 del 2017). 5.2.3.– Il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo per sollevare le questioni, prospettando l’esistenza di una fattispecie espropriativa senza indennizzo, è dunque errato: le regole prudenziali dell’Unione europea non lasciano al legislatore nazionale alcuna facoltà di scelta tra le due presunte “opzioni” della limitazione quantitativa del rimborso e del suo rinvio, ma gli impongono di attribuire all’ente creditizio la «capacità» di adottare sia l’una che l’altra misura come condizione perché le azioni possano essere considerate strumenti del capitale primario di classe 1. È opportuno precisare che l’unica “opzione” concessa dalla normativa europea al legislatore nazionale si colloca su un altro piano e riguarda la scelta, da operare nell’ambito dell’alternativa prevista dall’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013, tra il rifiuto del rimborso delle azioni e la limitazione al rimborso stesso. Rispetto a tale opzione, la norma censurata si conforma in effetti, secondo questa Corte, al criterio del minimo mezzo – non prevedendo la possibilità del rifiuto e invece – introducendo lo strumento della limitazione del rimborso sulla base della situazione prudenziale della banca. Al legislatore nazionale non può dunque essere addebitato di avere illegittimamente sacrificato l’interesse del socio recedente, «andando oltre a quanto strettamente necessario per tutelare l’interesse pubblico alla sana e prudente gestione dell’attività banca-


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ria» nel bilanciare gli opposti interessi in gioco. Una normativa nazionale che, allo scopo di assicurare la computabilità delle azioni nel capitale primario di classe 1 delle banche popolari che si trasformino in società per azioni, consentisse alle banche stesse, come auspica il rimettente, solo di rinviare a tempo determinato il rimborso delle loro azioni in caso di recesso, assegnerebbe alle azioni di quelle banche un contenuto difforme da quello minimo definito a livello europeo ai fini della loro computabilità nella corrispondente classe di fondi propri. Non solo: la previsione di interessi compensativi del ritardo, anch’essa auspicata dal giudice a quo, imporrebbe addirittura di considerare le stesse azioni come strumenti di debito anziché di capitale, secondo la disciplina contabile sulla classificazione del patrimonio netto richiamata dall’art. 28, paragrafo 1, lettera c), punto ii), del regolamento (UE) n. 575/2013, con la conseguenza di escluderne radicalmente la computabilità dal capitale. In ogni caso, il divieto di computo opererebbe anche se la limitazione del rimborso fosse legislativamente circoscritta al rinvio puro e semplice, senza predeterminazione di durata e di misure compensative, poiché tale soluzione escluderebbe comunque la «capacità» della banca di limitare il rimborso in altro modo, mediante una riduzione del quantum, come prescrivono le regole prudenziali europee. Si deve quindi concludere che l’art. 28, comma 2-ter, del t.u. bancario introdotto dalla disposizione censurata impone la limitazione, nei modi indicati, del diritto al rimborso delle azioni per assicurare il rispetto dei re-

quisiti prudenziali applicabili alle banche popolari, ovvero, come si esprime la stessa disposizione, per assicurare «la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca» in conformità con la normativa europea in materia, mentre la previsione che, secondo il rimettente, sarebbe idonea a evitare l’effetto espropriativo denunciato, bilanciando a suo dire correttamente gli interessi in gioco, si porrebbe in contrasto con quella normativa, o, meglio, si presenterebbe contraria alla sua propria ratio, giacché finirebbe per impedire – anziché consentire, secondo la sua funzione – la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. 5.2.4.– Alcune parti private (appellanti nel giudizio a quo) osservano che i regolamenti comunitari di settore avrebbero natura auto-applicativa – ciò che escluderebbe (e anzi renderebbe incompatibile) un intervento normativo interno di attuazione – e si limiterebbero a dettare una disciplina di carattere generale in tema di requisiti di capitale primario e di possibili limitazioni al diritto di rimborso in caso di recesso, valida per tutte le banche. Si tratterebbe dunque di una disciplina destinata a trovare applicazione in situazioni “ordinarie”, che non considera – né tantomeno impone – la trasformazione delle banche popolari in società per azioni al superamento di una certa soglia di attivo e la correlata limitazione del diritto di recesso dei soci. La norma censurata, quindi, non potrebbe trovare giustificazione nella necessità di adeguare l’ordinamento interno alla disciplina comunitaria. Il rilievo non è fondato.

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Per un verso si deve osservare che l’effetto vincolante delle previsioni regolamentari europee in tema di rimborso delle azioni si realizza nello stabilire che gli ordinamenti degli Stati membri devono attribuire alle banche la capacità sia di limitare che di rinviare il rimborso, come condizione perché gli strumenti di capitale delle banche possano essere computati nel capitale primario di classe 1 ai fini del rispetto dei requisiti del patrimonio di vigilanza. Sicché, per consentire agli enti creditizi di rispettare i requisiti prudenziali, il legislatore nazionale era tenuto ad adottare disposizioni attributive alle banche stesse del potere di limitare il rimborso previsto dalla normativa europea. Per altro verso, è vero che la citata normativa ha natura generale, operando in tutte le ipotesi di rimborso degli strumenti di capitale delle banche cooperative nonché delle mutue bancarie, degli enti di risparmio e di entità analoghe, ex art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013, ma tale sua caratteristica non ne esclude, bensì ne conferma l’applicabilità anche ai casi di recesso conseguenti alla trasformazione delle banche popolari “sopra soglia”. In questi casi le esigenze sottese alle regole prudenziali europee si impongono addirittura con maggiore forza per il pericolo che il recesso dei soci a seguito della trasformazione del tipo sociale assuma estese dimensioni ed esponga le banche al rischio di esborsi a loro volta di eccezionale consistenza. Non solo, dunque, non sono ravvisabili ragioni sistematiche per derogare, per i rimborsi conseguenti alla trasformazione prevista dall’art. 29, comma 2-ter, del t.u. bancario,

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alle regole generali, ma, al contrario, è evidente che l’esclusione di questa ipotesi dall’ambito di applicazione di tali regole condurrebbe all’irragionevole risultato di esonerare le banche popolari dal rispetto dei requisiti prudenziali proprio nell’evenienza più rischiosa, di un prevedibile maggiore impatto dei rimborsi sul loro capitale. 5.2.5.– In conclusione, non c’è dubbio che l’attuazione delle regole europee nell’ordinamento interno è avvenuta in piena conformità ad esse, e soprattutto che, quanto alla definizione dei limiti da apporre al rimborso delle azioni nel caso di recesso per trasformazione della società, il legislatore non gode di alcuna discrezionalità, essendo vincolato a prevedere che alla banca che intenda computare le proprie azioni nel capitale primario di classe 1 devono essere attribuite entrambe le facoltà, di rinviare il rimborso per un periodo illimitato e di limitarne in tutto o in parte l’importo. 5.3.– Ciò considerato in linea generale sulla portata della normativa europea in tema di computabilità degli strumenti di capitale e sulla sua attuazione nell’ordinamento nazionale, si può passare a considerare il profilo della censura che mette in relazione la limitazione del rimborso alla trasformazione delle banche popolari ex art. 29, comma 2-ter, del t.u. bancario, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.l. n. 3 del 2015. Si deve preliminarmente osservare che il rimettente non avanza specifiche censure sulla disposizione che prevede l’obbligo di trasformazione delle banche popolari nel caso di superamento della soglia di otto miliardi di attivo – ritiene anzi manifestamente infondato il dubbio di costituziona-


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lità sollevato sul punto dai ricorrenti nel giudizio a quo – e si limita a considerare la disposizione in quanto presupposto di applicabilità, insieme all’esercizio del recesso, del regime di rimborso delle azioni censurato. Ciò nondimeno, a suo giudizio il sacrificio del socio recedente assumerebbe in questo caso un carattere peculiare – essendo la modifica del contenuto dei diritti connessi alla qualità di socio delle banche popolari “sopra soglia” in una certa misura imposta dalla legge (in alternativa ad altre opzioni, come visto) – che dovrebbe condurre a ritenere il regime generale non applicabile alla fattispecie. L’assunto non è condivisibile: una volta accertato che il legislatore è vincolato nella definizione delle condizioni poste dalla normativa europea in funzione della computabilità degli strumenti di capitale, non vi sono ragioni per ritenere che esse possano essere derogate, in alcun caso. Tantomeno in fattispecie nelle quali, come già osservato, le esigenze sottese alle regole prudenziali si presentano particolarmente pressanti. Sicché, come in tutte le altre ipotesi di recesso, anche in questo caso il limite opera sempre come mezzo inderogabilmente previsto dalla disciplina prudenziale ai fini del rispetto dei requisiti patrimoniali della banca, senza che ad esso possa essere attribuita alcuna diversa valenza che ne comporti autonomi profili di illegittimità costituzionale, diversi da quelli che si sono sopra già ritenuti infondati. 5.4.– Le considerazioni fin qui svolte consentono di ritenere errato, per quanto ancora rilevasse, anche l’altro presupposto dal quale muove il rimettente, che equipara l’apposizione

di un limite al rimborso all’esclusione del diritto, e quindi a una fattispecie espropriativa senza indennizzo. Il giudice a quo ritiene infatti che la facoltà di limitare o di differire il rimborso senza limiti di tempo si traduca nella «esclusione» del diritto, vale a dire nella sua «perdita definitiva», e determini inoltre l’inaccettabile conseguenza di permettere ai soci rimanenti di finanziare la continuazione dell’attività d’impresa con le risorse patrimoniali dei soci che hanno esercitato il recesso. Al riguardo si deve osservare innanzitutto che, configurata in questi termini, la facoltà della banca di limitare il rimborso non si differenzierebbe dalla facoltà di rifiutare senz’altro il rimborso, alternativamente offerta, come visto, dalla disciplina comunitaria – art. 29, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (UE) n. 575/2013 – e scartata dal legislatore nazionale. La soluzione adottata nella legislazione nazionale può, e deve, essere invece diversamente ricostruita con un’interpretazione della disciplina censurata che valorizzi l’inscindibile collegamento da essa operato – e che il giudice a quo trascura di considerare – tra la facoltà della banca di limitare il rimborso delle azioni e la sua situazione prudenziale. Tale collegamento è imposto in primo luogo dalla normativa europea, che all’art. 10, paragrafo 3, del regolamento delegato (UE) n. 241/2014 prevede che «[l]’entità dei limiti al rimborso previsti dalle disposizioni che regolano gli strumenti è determinata dall’ente sulla base della sua situazione prudenziale in qualsiasi momento, considerando in particolare i seguenti elementi: a) la situazione complessiva dell’ente

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in termini di liquidità e di solvibilità; b) l’importo del capitale primario di classe 1 e del capitale totale rispetto all’importo complessivo dell’esposizione […]». Esso è poi recepito, negli stessi termini, nella determinazione della Banca d’Italia, ove si precisa che «[l]’organo con funzione di supervisione strategica assume le proprie determinazioni sull’estensione del rinvio e sulla misura della limitazione del rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale tenendo conto della situazione prudenziale della banca. In particolare, ai fini della decisione l’organo valuta: – la complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o del gruppo bancario; – l’importo del capitale primario di classe 1 […]» (Parte Terza, Capitolo 4, Sezione III, punto 1, della circ. Banca d’Italia n. 285 del 2013, come modificata dal «9° aggiornamento del 9 giugno 2015»). Letta sistematicamente e nella sua interezza, la disposizione prevede dunque sì che il rimborso possa essere limitato dalla banca (alla quale le disposizioni nazionali devono garantire tale facoltà, con l’ampiezza descritta), ma solo se, nella misura e nello stretto tempo in cui ciò sia necessario per soddisfare le esigenze prudenziali. Essa impone così agli amministratori il dovere di verificare periodicamente la situazione prudenziale della banca e la permanenza delle condizioni che hanno imposto l’adozione delle misure limitative del rimborso e di provvedere ove esse siano venute meno. Più precisamente, nel caso di rinvio del rimborso, una volta che si sia accertato il venire meno degli elementi che hanno giustificato il differimento, il credito del recedente si

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deve considerare esigibile. La limitazione quantitativa, invece, deve condurre alla conservazione dei titoli non rimborsati in capo al recedente, che si vedrà in questo modo reintegrato nel suo status e nel valore patrimoniale della partecipazione. L’effetto espropriativo paventato dal giudice a quo è così scongiurato, dal momento che il socio recedente non subisce alcuna perdita definitiva del valore delle azioni di cui sia limitato il rimborso. A ciò si aggiunga che la previsione legislativa dell’obbligo dell’organo di gestione strategica di tenere conto della situazione prudenziale della banca nell’adozione delle scelte di limitazione del rimborso del socio recedente comporta che la sua scelta debba essere motivata con riferimento alle descritte esigenze, con la conseguenza che l’operato della banca potrà essere sindacato in sede giudiziaria a tutela della posizione del socio. Soffermandosi sull’ipotesi di un’impresa bancaria che continuasse a operare solo grazie al computo nel patrimonio di vigilanza delle azioni dei soci recedenti, il rimettente non considera che, in un caso di questo tipo, l’alternativa alla prospettata soluzione comporterebbe per gli stessi soci un sacrificio uguale se non probabilmente più grave. A fronte di un capitale di vigilanza insufficiente, infatti, troverebbero applicazione le misure di risoluzione (e, in caso di crisi non risolvibile, di liquidazione) della banca previste dalla direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e che


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modifica la direttiva 82/891/CEE del Consiglio, e le direttive 2001/24/CE, 2002/47/CE, 2004/25/CE, 2005/56/CE, 2007/36/CE, 2011/35/UE, 2012/30/UE e 2013/36/UE e i regolamenti (UE) n. 1093/2010 e (UE) n. 648/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio. Queste regole, caratterizzate dal cosiddetto principio del bail-in, prevedono che la crisi di una banca debba essere risolta innanzitutto attraverso l’utilizzo di risorse interne alla stessa in funzione di risanamento delle perdite, a partire da quelle di pertinenza dei soci, che sarebbero i primi a rimanere esposti alle perdite: con la conseguenza che il diritto al rimborso sarebbe comunque soggetto a rilevanti, se non maggiori, limitazioni. 5.5.– Sulla base di quanto esposto con riferimento alle censure esaminate fin qui, è agevole escludere anche l’incompatibilità della norma denunciata con l’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU. La disciplina contestata rispetta infatti le condizioni alle quali, in base alla giurisprudenza della Corte EDU, l’ingerenza di un’autorità pubblica nel pacifico godimento di un bene è giudicata compatibile con la tutela convenzionale della proprietà, ossia che essa sia legittima, necessaria per la tutela di un interesse generale e proporzionata (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 17 novembre 2015, Preite contro Italia; sentenza 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; sentenza 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth contro Svezia). In primo luogo, essa risulta legittima: è infatti conforme alle condizioni richieste inderogabilmente dalle regole prudenziali europee, che escludono fra l’altro, nello specifico, qualsi-

voglia discrezionalità del legislatore nazionale nella scelta delle misure appropriate per assicurare il loro rispetto. In secondo luogo, per le ragioni ampiamente esposte sopra, la disciplina appare necessaria al perseguimento dei superiori interessi pubblici alla stabilità del sistema bancario e finanziario e tanto più appare tale nel caso delle banche popolari nel quale il rischio di recessi in grande numero e di rimborsi conseguentemente di ampie dimensioni può mettere gravemente a repentaglio la stabilità delle banche interessate e, con esse, dell’intero sistema. La disposizione censurata risulta inoltre proporzionata al fine da realizzare, bilanciando in maniera non irragionevole le esigenze dell’interesse generale della comunità e la tutela dei diritti fondamentali della persona, e ciò senza oneri individuali eccessivi (ex plurimis, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 gennaio 2015, Vécony contro Ungheria; sentenza 30 giugno 2005, Jahn e altri contro Germania; sentenza 5 gennaio 2000, Beyeler contro Italia; sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito; sentenza 21 febbraio 1986, James e altri contro Regno Unito; sentenza 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth contro Svezia), stante, come visto, l’obbligo degli enti creditizi di verificare costantemente la permanenza delle condizioni che richiedono l’intervento prudenziale e il loro vincolo a porre termine alle misure limitative nel momento in cui le esigenze che le hanno determinate cessino. Si può ricordare come, nella specifica materia bancaria, la Corte EDU abbia già avuto mo-

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do di affermare, ad esempio, che non è manifestamente priva di ragionevole fondamento – e quindi non contrasta con l’art. 1 del protocollo addizionale, nel cui ambito di protezione ricadono anche le azioni di società (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 25 luglio 2002, Sovtransavto Holding contro Ucraina) – una misura che, allo scopo di proteggere un settore economico chiave come quello finanziario, nazionalizza una banca in crisi senza prevedere un indennizzo per gli azionisti (Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 10 luglio 2012, Grainger e altri contro Regno Unito). In conclusione, nemmeno le questioni sollevate in riferimento agli artt. 41, 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, sono fondate. 5.6.– Per ragioni non diverse da quelle appena esposte, questa Corte ritiene che non sussistano i presupposti per un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla validità della citata normativa europea ai sensi dell’art. 267, terzo comma, TFUE, come richiesto, in via subordinata alle altre conclusioni, dai soci della Banca Popolare di Sondrio e della Banca Popolare di Milano costituiti in giudizio, per supposta violazione dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007 (CDFUE). Misure comportanti sacrifici per i diritti degli azionisti e dei creditori subordinati di società bancarie non determinano una ingerenza sproporzionata e intollerabile nel diritto di proprietà riconosciuto dall’art. 17

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CDFUE, quando esse perseguono l’obiettivo della stabilità finanziaria e non possono arrecare ai soggetti sacrificati un pregiudizio maggiore di quello che essi subirebbero in caso di procedura di fallimento conseguente alla mancata adozione delle misure stesse (nel senso della prevalenza delle ragioni di stabilità finanziaria sul diritto di proprietà degli azionisti e dei creditori subordinati delle banche, possono intendersi, sia pure con riferimento a situazioni diverse da quella in esame, Corte di giustizia UE, sentenza 8 novembre 2016, Grande sezione, in causa C-41/15, Gerard Dowling e altri, in tema di ricapitalizzazione di una banca in crisi mediante la sottoscrizione di nuove azioni da parte dello Stato, con sacrificio del diritto di opzione dei soci; nonché sentenza 20 settembre 2016, Grande sezione, in cause riunite da C-8/15 P a C-10/15 P, Ledra Advertising Ltd e altri, in tema di azzeramento e conversione delle passività ai fini della ristrutturazione e risoluzione delle banche cipriote). Argomenti del tutto simili possono essere riferiti all’ipotesi della limitazione al rimborso anticipato delle azioni, in quanto anche in questo caso il sacrificio è imposto, come visto, allo scopo di consentire il rispetto dei requisiti patrimoniali di vigilanza cui è sotteso l’interesse pubblico alla stabilità del sistema bancario e finanziario nel suo complesso, ma anche l’obiettivo di evitare, a tutela di investitori e depositanti, che la banca possa cadere in una procedura di risoluzione. 6.– Infine, il rimettente dubita della legittimità della norma censurata «nella parte in cui, comunque, attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità d[ella] esclusione» del


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diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso a seguito di trasformazione della società «anche in deroga a norme di legge». A suo avviso, l’art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, nella parte in cui attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità dell’esclusione del diritto al rimborso, si porrebbe in contrasto con gli artt. 1, 3, 23, 42, 95 e 97 Cost. Il dubbio di legittimità costituzionale investirebbe, in primo luogo, l’attribuzione stessa di un potere di delegificazione all’Istituto di vigilanza, ovvero a un soggetto estraneo al circuito politico dei rapporti Parlamento-Governo, e dunque politicamente irresponsabile. Poiché inoltre il potere normativo in esame riguarderebbe materie non connotate da particolare «tecnicità o settorialità», difetterebbero le ragioni tradizionalmente invocate a sostegno del potere regolamentare delle Autorità indipendenti. In secondo luogo, si tratterebbe di un potere di delegificazione conferito «in bianco», in quanto il legislatore non avrebbe dettato alcuna norma generale regolatrice della materia, e neppure avrebbe individuato le norme primarie di cui sarebbe consentita l’abrogazione ad opera della fonte secondaria. Il sospetto di incostituzionalità sarebbe rafforzato dalla considerazione che tale «potere regolamentare atipico con effetto delegificante» è stato attribuito in materie coperte da riserva di legge. L’esclusione del diritto al rimborso si tradurrebbe, infatti, in una prestazione patrimoniale imposta al socio recedente, rispetto alla quale la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. dovrebbe precludere una de-

legificazione regolamentare di così ampia portata. L’interferenza tra l’esclusione del diritto al rimborso e la tutela della proprietà privata consentirebbe di richiamare anche la riserva di legge prevista dall’articolo 42 Cost., e dall’art. 1, paragrafo 1, del protocollo addizionale alla CEDU. Il Consiglio di Stato conclude sul punto osservando che le riserve di legge previste dalla citate disposizioni costituzionali non sembrano, invece, precludere alla legge di affidare, previa fissazione di un limite temporale predeterminato e di un tasso di interesse indennitario minimo, a una fonte di rango secondario (o eventualmente anche al potere regolatorio della Banca d’Italia) l’individuazione o la specificazione, sotto il profilo eminentemente tecnico, dei presupposti economici, finanziari o patrimoniali che possono concretamente giustificare il differimento del diritto al rimborso della quota del socio recedente. 6.1.– I vizi prospettati sono accomunati dalla medesima premessa ermeneutica: che la norma censurata abbia attribuito all’Istituto di vigilanza un «potere regolamentare atipico con effetto delegificante». È su queste basi, infatti, che il rimettente contesta, nell’an, l’attribuzione del potere di delegificazione in capo a un’Autorità amministrativa indipendente dall’indirizzo politico del Governo e, nel quomodo, l’estensione del potere normativo così attribuito, senza previa fissazione delle norme generali regolatrici della materia e senza individuazione delle disposizioni legislative di cui sarebbe consentita l’abrogazione da parte della fonte secondaria. Ancora una volta, tuttavia, il presupposto interpretativo da cui muove

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il rimettente è erroneo: contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza di rimessione, infatti, la fattispecie normativa censurata non delinea un procedimento di delegificazione. Nel caso di specie «[l]’elemento comune alle diverse forme di delegificazione possibili nel nostro ordinamento […], costituito dal trasferimento della funzione normativa […] dalla sede legislativa ad altra sede» (sentenza n. 130 del 2016), non ricorre. La legge impugnata non attribuisce alla Banca d’Italia la facoltà di adottare una disciplina “sostitutiva” di quella già dettata dalla legge, e neppure riconduce all’entrata in vigore della fonte secondaria la contemporanea cessazione di efficacia di disposizioni legislative delegificate. È infatti l’organo cui spetta ordinariamente l’esercizio della funzione legislativa che ha introdotto direttamente ‒ e del tutto indipendentemente dall’entrata in vigore del provvedimento della Banca d’Italia – la regola che consente una limitazione del diritto al rimborso delle azioni, in deroga alla disciplina ordinaria che pure rimane in vigore. In questo quadro è la legge stessa che comporta l’introduzione di previsioni statutarie che, anche in deroga alle norme del codice civile, accordino agli organi amministrativi la facoltà di limitare il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel capitale primario di classe 1; mentre alla Banca d’Italia è affidato soltanto il compito di definire le condizioni tecniche che consentono alla banca di rispettare i coefficienti patrimoniali minimi stabiliti dalla normativa prudenziale europea.

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Ciò chiarito, il dubbio di costituzionalità ‒ prospettato sulla base della considerazione che l’Autorità indipendente non avrebbe sufficiente «legittimazione istituzionale» per essere investita di un potere «ad effetto delegificante», e che in ogni caso l’attribuzione di tale speciale competenza regolamentare avrebbe richiesto il duplice requisito della legge di autorizzazione, di contenere le norme regolatrici della materia e di predisporre l’abrogazione delle norme previgenti – cade insieme con le sue premesse. 6.2. ‒ Ad analoga conclusione di infondatezza si giunge anche ove si ritenga che il giudice a quo abbia inteso censurare – al di là della pretesa «surrettizia» forma di delegificazione introdotta con la norma censurata – anche un vizio più radicale, attinente cioè alla violazione del principio di legalità sostanziale. Secondo questa lettura dell’ordinanza di rimessione, il legislatore avrebbe omesso di regolare compiutamente materie che dal punto di vista costituzionale lo avrebbero richiesto, in ragione delle riserve di legge fissate in Costituzione per le discipline che incidono sul diritto di proprietà (art. 42) e che impongono prestazioni patrimoniali (art. 23 Cost.), e avrebbe altresì trascurato di delimitare e indirizzare il potere regolamentare. Contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, nella definizione della disciplina del rimborso delle azioni dei soci recedenti, alla Banca d’Italia non spetta alcuna valutazione politicodiscrezionale sugli interessi in gioco, il cui bilanciamento – in particolare quello fra l’interesse dei soci che intendono recedere e quello della stabilità del sistema bancario ‒ è già definiti-


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vamente operato dalla legge. Inoltre, il suo stesso potere di definire le modalità tecniche di limitazione del rimborso è fortemente circoscritto dai citati regolamenti europei (segnatamente dalle norme tecniche del più volte citato regolamento delegato dell’UE n. 241/2014), che, come visto, dettano condizioni stringenti per la computabilità degli strumenti di capitale delle banche nel capitale primario di classe 1. In definitiva, il principio della necessaria predeterminazione normativa dell’attività amministrativa è rispettato e, di conseguenza, la questione di legittimità costituzionale in esame risulta infondata anche sotto questo profilo. Per questi motivi la Corte costituzionale

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2015, n. 3 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti), convertito, con modificazioni, nella legge 24 marzo 2015, n. 33, sollevate dal Consiglio di Stato, in riferimento agli artt. 1, 3, 23, 41, 42, 77, secondo comma, 95, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, con l’ordinanza indicata in epigrafe. (Omissis)

(1 - 3) Il diritto del socio di banche cooperative al rimborso delle azioni nella sentenza della Corte Costituzionale del 15 maggio 2018, n. 99: una questione non ancora sopita Sommario: 1. Premessa. – 2. Il quadro normativo: riflessioni preliminari. – 3. Il rimborso delle azioni di banca cooperativa tra diritto nazionale ed ordinamento europeo. – 4. Compatibilità della disciplina nazionale con l’art. 1 del Protocollo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e mancanza dei presupposti per un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 267, co. 3, TFUE. – 5. L’infondatezza della questione relativa alla delega “in bianco”. – 6. Limitazione del rimborso e possibili rimedi di diritto societario. – 7. La “riapertura” della questione da parte del Consiglio di Stato.

1. Premessa. La sentenza della Corte Costituzionale del 15 maggio 2018, n. 99 costituisce una fondamentale – ma non ultima (come si vedrà nell’ultimo paragrafo) – tappa di un cammino iniziato con la riforma delle banche popolari del 2015, proseguito con successive modifiche legislative che,

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per certi versi, ne hanno ampliato il dominio applicativo fino a ricomprendere anche le banche di credito cooperativo, ed approdato al Consiglio di Stato il quale, con ordinanza del 15 dicembre 2016, ha rimesso alla Corte Costituzionale la soluzione della questione di legittimità costituzionale di taluni profili della riforma. Ancorché nota, la vicenda merita comunque di essere ripercorsa nei suoi tratti essenziali prima di scendere nel particolare delle soluzioni accolte dalla Corte Costituzionale. La materia ha ricevuto una peculiare attenzione dapprima riguardo alle banche popolari da parte del d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito nella l. 24 marzo 2015, n. 33, che ha introdotto il co. 2-ter nell’art. 28 t.u.b. Tralasciando le rationes che stanno alla base di talune modifiche apportate in sede di conversione1, va detto che il testo della norma consegnatoci a seguito del completamento dell’iter della riforma delle banche popolari prevedeva che il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, anche a seguito di trasformazione, o esclusione del socio, fosse limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò fosse stato necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Agli stessi fini, la Banca d’Italia avrebbe potuto limitare il diritto al rimborso degli altri strumenti di capitale emessi. L’obiettivo della innovazione legislativa era chiaramente impedire che lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio si riverberasse negativamente sulla consistenza dei fondi propri della banca. Oltre ai dubbi generati dall’opportunità di equiparare cause di scioglimento aventi natura diversa e di comprimere i diritti dei soci oltre i limiti fissati dalla giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo, sin dal primo affacciarsi della disciplina, cominciavano a nutrirsi talune perplessità riguardo alla stessa scelta di circoscrivere il raggio d’azione della norma alle banche popolari, con esclusione delle banche di credito

Per le quali si rinvia a Urbani, Brevi considerazioni in tema di scioglimento del rapporto sociale limitatamente al singolo socio nella riforma della disciplina delle banche popolari, in Aa.Vv., La riforma delle banche popolari, a cura di Capriglione, Padova, 2015, pp. 253 ss. In argomento si vedano, inoltre, nello stesso volume: Di Ciommo, Il diritto di recesso nella riforma delle banche popolari, e di Sepe, Finalità e disciplina del recesso nella riforma delle banche popolari: prime riflessioni, rispettivamente pp. 83 ss. e 109 ss.; Capriglione, Un deplorevole ritardo nell’attuazione della riforma delle BCC, in Riv. trim. dir econ., 3/2016, pp. 239 ss. 1

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cooperativo che pure presentano analoghe esigenze di stabilità patrimoniale2. Nel giro di pochi mesi, il legislatore rimetteva mano all’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. in occasione dell’attuazione della direttiva 2013/36/UE per opera del d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, reintroducendo la causa di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio che era stata espunta in sede di conversione in legge del citato d.l. n. 3/2015 (la morte del socio), ma soprattutto estendendo la disciplina del rimborso anche alle azioni delle banche di credito cooperativo. Conseguentemente, a seguito dello scioglimento del suo rapporto sociale dovuto al recesso, alla morte o all’esclusione, il diritto al rimborso spettante al socio ovvero ai suoi eredi deve intendersi assoggettato all’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. e, dunque, parrebbe sottratto all’art. 2535 c.c., il quale pertanto – benché sia espressione nelle cooperative del giusto punto di equilibrio tra esigenze di stabilità dell’impresa ed interesse del socio all’exit3 – non troverebbe applicazione ove ciò fosse necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca. Di contro, quando tale esigenza non ricorresse, continuerebbe ad operare la norma codicistica la quale, non a caso, continua a non figurare tra le disposizioni del codice civile che ai sensi dell’art. 150-bis, co. 1 e 2, t.u.b., risultano inapplicabili rispettivamente alle banche di credito cooperativo e alle banche popolari. Sull’opzione del legislatore si addensavano i dubbi e le perplessità della dottrina4, a cui si aggiungevano le pronunce della giurisprudenza di merito5, ma soprattutto la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di Stato6, che peraltro aveva sospeso l’efficacia della

Urbani, Brevi considerazioni, cit., pp. 256 ss. In argomento v. Bassi, Recesso e liquidazione della quota nelle società cooperative tra vecchio e nuovo diritto societario, in Riv. dir. impr., 2003, p. 633; Ibba, Il recesso nelle società cooperative. Profili problematici, in Aa.Vv., Il nuovo diritto societario. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, vol. IV, Torino, 2007, p. 861. 4 Salamone, Il recesso dalle banche popolari ovvero: “rapina a mano armata”, in Dir. banc., 2016, I, p. 239 ss. 5 In particolare, v. Trib. Napoli, 24 marzo 2016, in Nuovo dir. soc., 2016, n. 7, p. 84 ss. con commento di Pollastro, Limiti al rimborso delle azioni per i soci di banche in caso di recesso: una prima pronuncia, e in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, p. 1501 ss., con commento di Sacco Ginevri, Il recesso del socio nelle banche cooperative. 6 Si veda l’ordinanza del 15 dicembre 2016. In argomento, v. Lamandini, La riforma delle banche popolari al vaglio della Corte costituzionale. Il commento, in Le società, 2017, 2 3

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Circolare della Banca d’Italia n. 285/2013 nelle parti in cui l’autorità di vigilanza aveva esercitato il potere fondato sull’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. Il clima era poi reso ancor più incerto dal livellamento della disciplina delle banche popolari e di quella delle banche di credito cooperativo che, se per un verso ristabiliva una parità di trattamento – invero, e per così dire, “al ribasso” – tra soci di banche aventi analoga natura, per altro verso era destinata ad aumentare il numero di soggetti che possono subire la compressione dei propri diritti di proprietà e, dunque, ad alimentare tutti i dubbi che ne conseguono7. Va peraltro precisato che, alla luce dell’ampia formulazione dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b., il rimborso ivi contemplato può intendersi riferito alle azioni in generale e quindi, oltre che alle azione di cooperazione, anche a quelle “lucrative”, e dunque anche alle azioni di finanziamento che le banche di credito cooperativo possono emettere ai sensi dell’art. 150-ter t.u.b. La norma trova, infine, applicazione agli «altri strumenti di capitale» emessi dalle banche popolari e dalle banche di credito cooperativo: si arriva così ad un ulteriore ampliamento del novero dei soggetti coinvolti nella vicenda, giacché la scure del rimborso “limitato”, secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, rischia di abbattersi anche sui titolari di altri strumenti di capitale eventualmente emessi ai sensi dell’art. 2526 c.c., ora applicabile sia alle banche popolari sia alle banche di credito cooperativo (v. art. 150-bis, co. 1 e 2, t.u.b.)8.

n. 2, p. 156 ss.; Maugeri, Ancora su possibilità e limiti costituzionali di una disciplina del recesso nelle banche popolari (osservazioni a Consiglio di Stato, 15 dicembre 2016), in Riv. soc., 2017, p. 230 ss. 7 Si vedano i rilevi di Maugeri, Banche popolari, diritto di recesso e tutela costituzionale della proprietà azionaria, in Riv. soc., 2016, p. 991 ss. 8 È appena il caso di ricordare che in occasione della riforma del diritto societario del 2003 si preferì non estendere alle cooperative bancarie le novità che erano state introdotte in tema di struttura finanziaria nell’ambito delle cooperative in generale. In argomento v. Oppo, Le banche cooperative tra riforma della cooperazione e legislazione speciale, in Riv. dir civ., 2004, II, pp. 751 ss.; Bassi, Principi generali della riforma delle società cooperative, Milano, 2004, p. 20; Costa, La riforma delle società e le banche cooperative, in Aa.Vv., Il nuovo diritto delle società, Liber amicorum Gianfranco Campobasso, diretto da Abbadessa e Portale, vol. IV, Torino, 2007, pp. 1117 ss.; Condemi, L’esclusione dalla riforma societaria delle banche costituite in forma cooperativa: questioni interpretative e prospettive di intervento, in Nuovo diritto societario ed intermediazione bancaria e finanziaria, a cura di Capriglione, Padova, 2003, pp. 218. Inoltre, si vedano i contributi raccolti nel volume Aa.Vv., Le banche cooperative e il nuovo diritto societario, Firenze, 2004.

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Inoltre, merita precisare che la fattispecie disciplinata dall’art. 28, co. 2-ter, t.u.b., benché abbracci anche le ipotesi di esclusione e morte del socio, appare in particolare preordinata all’esercizio del diritto di recesso da parte dei soci: come si è condivisibilmente opinato, soltanto al ricorrere di una vicenda idonea a provocare contemporaneamente lo scioglimento di una pluralità di rapporti sociali, quali sono i presupposti del recesso, la banca si espone al pericolo di un rimborso che può comprometterne la stabilità patrimoniale e finanziaria, mentre eventi che riguardino la sfera individuale del socio, in quanto occasionali, rendono il rimborso in linea di massima conciliabile con la liquidità della banca9.

2. Il quadro normativo: riflessioni preliminari. Alla luce dei rilievi fin qui svolti, la questione approdata al giudizio della Corte Costituzionale impone di verificare se quello alla liquidazione della quota sia un diritto ancora insopprimibile riconosciuto al socio di una cooperativa bancaria, oppure se si debba prendere atto che la mutazione genetica subita dal contesto normativo lo ha de facto reso superato. Dalla risposta all’interrogativo discende naturalmente una serie di conseguenze: inter alia, la possibilità di continuare ad assegnare alle azioni delle banche popolari e delle banche di credito cooperativo la qualifica di prodotti finanziari, come riconosciuto da una recente sentenza della Cassazione10, sia pure riguardo ad una vicenda anteriore all’introduzione nel corpus del t.u.b. del co. 2-ter dell’art. 28. A tal proposito, va ricordata una puntuale ricostruzione della dottrina che, alla luce di una serie di indici normativi – tra i quali segnatamente l’art. 2535 c.c. – ha dimostrato che la società cooperativa «è da qualificarsi come un contratto di restituzione …; il che significa che l’investimento in cooperativa a titolo di conferimento deve essere (potenzialmente) restituito dalla società (almeno per un valore pari a quanto sia stato imputato a capitale sociale), una volta che il rapporto sociale scaturito da detto apporto sia venuto meno»11. Com’è agevole notare, la possibilità che simile impostazione – risalente ad epoca anteriore alle ultime stagioni riformatrici – seguiti a descrivere ancor oggi i tratti essenziali

Maugeri, Banche popolari, cit., pp. 999 s. Cass., 28 febbraio 2018, n. 4642, in Giur. comm., 2019, II, p. 84 ss.. 11 Cusa, Il socio finanziatore nelle cooperative, Milano, 2006, p. 369 s.

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dell’investimento nelle banche cooperative deve ora essere misurata con l’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. Per ragioni di fluidità espositiva, si preferisce riportarne la previsione: «nelle banche popolari e nelle banche di credito cooperativo il diritto al rimborso delle azioni nel caso di recesso, morte o esclusione del socio, è limitato secondo quanto previsto dalla Banca d’Italia, anche in deroga a norme di legge, laddove ciò sia necessario ad assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca». In questo primo stadio dell’indagine, mantenendosi aderenti a ciò che affiora prima facie, è possibile affermare che, quando si verifichino le condizioni previste dal testo unico bancario, il diritto al rimborso nel caso di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio deve intendersi sottratto all’art. 2535 c.c., norma che, come anticipato, depone nella direzione dell’insopprimibilità del diritto al rimborso. Per converso, può dirsi che, ove non sia necessario assicurare la computabilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria, lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio di banca cooperativa continua a rientrare nel dominio applicativo dell’art. 2535 c.c., che d’altronde non rientra nel set di norme inapplicabili secondo l’art. 150-bis, co. 1 e 2, t.u.b., come pure si è già ricordato. Il tentativo di analizzare le conclusioni cui è giunta la Corte Costituzionale in merito all’esatta portata dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. richiede, peraltro, un’attenta disamina delle Disposizioni di vigilanza con le quali la Banca d’Italia ha disciplinato la materia. In esse è dato leggere che «Lo statuto della banca popolare e della banca di credito cooperativo attribuisce all’organo con funzione di supervisione strategica, su proposta dell’organo con funzione di gestione, sentito l’organo con funzione di controllo, la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte e senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale del socio uscente per recesso (anche in caso di trasformazione), esclusione o morte, secondo quanto previsto dalla disciplina prudenziale applicabile. Tale facoltà è attribuita, ai sensi dell’articolo 28, comma 2-ter, t.u.b. anche in deroga alle disposizioni del codice civile in materia e ad altre norme di legge»12. Le Disposizioni di vigilanza proseguono entrando nello specifico dei criteri di assunzione della decisione ed in particolare pre-

12 Così l’art. 1, sezione III, capitolo 4, parte terza, della Circolare della Banca d’Italia n. 285, dedicata ai limiti al rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale emessi dalle banche cooperative, inserita dal 9° aggiornamento del 9 giugno 2015.

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vedono che: «L’organo con funzione di supervisione strategica assume le proprie determinazioni sull’estensione del rinvio e sulla misura della limitazione del rimborso delle azioni e degli altri strumenti di capitale tenendo conto della situazione prudenziale della banca. In particolare, ai fini della decisione l’organo valuta: — la complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o del gruppo bancario;— l’importo del capitale primario di classe 1, del capitale di classe 1 e del capitale totale in rapporto ai requisiti previsti dall’art. 92 del CRR, ai requisiti specifici di fondi propri di cui alla Parte Prima, Titolo III, Capitolo 1, Sezione 3, Paragrafo 5, al requisito combinato di riserva di capitale ai sensi della Parte Prima, Titolo II, Capitolo 1». Nel prosieguo si avrà modo di tornare sulle riflessioni maturate dalla dottrina intorno alle scelte del legislatore prima e del regolatore di settore dopo13. Si osservi sin d’ora che tra le pieghe delle previsioni si percepisce, ancor più nitidamente di quanto emerga in prima battuta dall’art. 28, co. 2-ter, t.u.b., l’esigenza di far prevalere, anche sulle aspettative dei soci, la stabilità delle banche cooperative ed il loro adattamento ai nuovi scenari competitivi dell’Unione Bancaria Europea. In questa prospettiva, la misura introdotta nel menzionato art. 28 – che si sviluppa tra testo unico bancario e normazione secondaria – può anzi essere inserita in un humus più generale, nel quale si collocano ulteriori rimedi rivolti alle cooperative bancarie, quali l’imposizione alle banche di credito cooperativo dell’adesione ad un gruppo bancario cooperativo (art. 33, co. 1-bis, t.u.b.) avente al vertice una società per azioni bancaria che, pur non partecipando al loro capitale, le dirige e coordina in forza di un contratto di coesione e che, in casi particolari, può sostituirsi ai loro soci nella nomina degli esponenti aziendali (art. 37-bis t.u.b.)14 o anche pro-

13 Sul punto v. Amorosino, Incostituzionalità della riforma delle banche popolari per decreto legge e con l’attribuzione a Banca d’Italia di poteri regolamentari e derogatori “in bianco”, in Dir. banc., 2017, I, pp. 414 ss.; Capriglione, Commento sub art. 28, in Aa.Vv., Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia4, t. I, Milano, 2018, pp. 308 ss; Maugeri, Banche popolari, cit., pp. 991 ss.; Romano, Recesso e limiti al rimborso delle azioni nelle banche (in specie cooperative) tra diritto societario, regole europee di capital maintenance e “principio” del bail-in, in Riv. soc., 2017, pp. 1 ss.; Salamone, Il recesso, cit., pp. 239 ss. 14 In argomento v. Santagata, “Coesione” ed autonomia nel gruppo bancario cooperativo, in Banca, borsa, tit. cred., 2017, I, pp. 431 ss.

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vocarne la rimozione secondo uno schema che era già stato introdotto in favore della Banca d’Italia. Ebbene, con l’ordinanza pubblicata il 2 dicembre 2016, il Consiglio di Stato, oltre a sospendere l’efficacia delle citate Disposizioni di vigilanza della Banca d’Italia nelle parti relative alla limitazione, all’assenza di limiti di tempo e alla deroga alle disposizioni del codice civile e di altre norme di legge, si riservava di sollevare con separata ordinanza la questione di legittimità costituzionale delle norme che attribuivano alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità di esclusione del diritto al rimborso del socio delle banche cooperative. In questa direzione andava l’ordinanza di poco successiva del 15 dicembre dello stesso anno, nella quale lo stesso Consiglio di Stato segnalava in particolare dubbi sulla legittimità costituzionale dell’attribuzione all’autorità di vertice del settore bancario di un potere di delegificazione in bianco, non preceduta dall’indicazione delle norme di rango primario derogabili15. La Corte Costituzionale, dunque, con la sentenza del 15 maggio 2018, n. 99, sembra chiudere il cerchio, dichiarando infondata la questione, sulla scorta di numerosi ed articolati argomenti che – come si preciserà di seguito – risultano perlopiù basati sulla derivazione della disciplina nazionale dal diritto dell’Unione europea, argomento questo sul quale in tempi ancor più recenti si sono mossi ulteriori rilievi da parte del Consiglio di Stato, nuovamente intervenuto sulla questione con un’ordinanza dell’ottobre 2018. Ma si preferisce procedere con ordine. Sin d’ora merita segnalare che uno degli aspetti centrali affrontati ruota attorno alle modalità con le quali si sono di fatto ridotti gli spazi della rimborsabilità della quota del socio di cooperativa bancaria: nelle presenti note si è prescelto un approccio alla sentenza che, tra gli altri profili pure portati ad emersione (ad es., la decretazione d’urgenza che ha riguardato in particolare le banche popolari), privilegia quello più immediatamente riconducibile al diritto al rimborso.

Sulla quale si vedano Lamandini, La riforma, cit., pp. 140 ss.; Maugeri, Ancora su possibilità, cit., pp. 230 ss. 15

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3. Il rimborso delle azioni di banca cooperativa tra diritto nazionale ed ordinamento europeo. A tal fine, merita valorizzare un passaggio che, seppure riferito al diritto di recesso, appare di estremo rilievo giacché può assumersi abbia una valenza generale. Segnatamente, nella sentenza della Corte Costituzionale si legge che «nella disciplina del codice civile, il recesso del socio determina lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al recedente e fa sorgere a suo favore un credito nei confronti della società avente ad oggetto il valore della partecipazione (art. 2437-ter, primo comma, cod. civ. per la società per azioni; art. 2473, terzo comma, cod. civ. per la società a responsabilità limitata; art. 2519 cod. civ. per la società cooperativa, che richiama in generale le disposizioni sulla società per azioni). I procedimenti di liquidazione del valore della partecipazione mutano a seconda del tipo sociale ma vale per tutte le società il divieto di rifiutare unilateralmente il rimborso. Il rifiuto equivarrebbe all’inadempimento dell’obbligazione restitutoria derivante dal recesso. La normativa italiana vieta dunque a una banca cooperativa di rifiutare il rimborso delle azioni in caso di recesso del socio». Com’è agevole osservare, la Corte Costituzionale si pone nel solco dell’impostazione seguita in dottrina – di cui si è detto nel precedente par. 2 – riguardo all’esistenza nell’ordinamento nazionale di un diritto al rimborso della quota del socio, anche di società cooperativa, che vieta all’emittente un rifiuto unilaterale. Da tale assioma la Corte Costituzionale muove poi alla volta della dimostrazione della legittimità costituzionale dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. il quale, invero, risponderebbe all’esigenza di soddisfare i requisiti prudenziali delle banche previsti dal diritto dell’Unione europea. Precisamente, la Corte richiama sia il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 – relativo ai requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento e modificativo del regolamento (UE) n. 648/2012 – sia il regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione del 7 gennaio 2014, che integra il regolamento (UE) n. 575/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione sui requisiti di fondi propri per gli enti. Come precisa la Corte Costituzionale, al centro del sistema della disciplina prudenziale sono posti i “fondi propri”, che assolvono alla funzione di strumenti di assorbimento delle perdite potenziali. In quest’ottica, i requisiti patrimoniali minimi di ciascuna banca «sono fissati da coefficienti che esprimono il rapporto percentuale tra i fondi propri delle banche e

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l’ammontare complessivo dell’esposizione al rischio». Dunque, l’insufficienza dei fondi propri impone alla banca interventi di ricapitalizzazione in tempi brevi, per scongiurare il verificarsi dei presupposti per la sua risoluzione. È quindi particolarmente importante che le banche siano in grado di rispondere prontamente a esigenze di rafforzamento patrimoniale e di capitalizzazione e che, dunque, la normativa nazionale assicuri questa possibilità. La Corte Costituzionale avverte così che, «secondo il regolamento (UE) n. 575/2013, il “capitale” è un elemento dei fondi propri che tutte le banche devono possedere nel rispetto dei requisiti minimi, a fini prudenziali» e che «esso è suddiviso nelle due categorie del “capitale di classe 1” e del “capitale di classe 2”, al cui interno operano ulteriori suddivisioni». In particolare, il capitale di classe 1 è composto dal «capitale primario di classe 1» e dal «capitale aggiuntivo di classe 1»16. Peraltro, nel capitale primario di classe 1 possono computarsi gli strumenti di capitale purché siano soddisfatte talune condizioni comuni a tutte le banche ed altre specificamente previste per le banche cooperative17. Orbene – ed entrando nel merito delle azioni delle banche cooperative – perché esse siano computabili nel capitale primario di classe 1 è necessario che: «[…] a) ad eccezione dei casi di divieto imposto dalla normativa nazionale applicabile, l’ente [possa] rifiutare il rimborso degli strumenti; b) se la normativa nazionale applicabile vieta all’ente di rifiutare il rimborso degli strumenti, le disposizioni che governano gli strumenti autorizz[i]no l’ente a limitare il rimborso […]»18. La Corte Costituzionale puntualizza inoltre che «nella materia rilevano anche gli artt. 77 e 78 del regolamento (UE) n. 575/2013, che subordinano comunque il riacquisto integrale o parziale ovvero il rimborso, anche anticipato, degli strumenti di capitale primario di classe 1 (…) all’autorizzazione dell’autorità di vigilanza competente, che accerta il rispetto di determinate condizioni per ridurre i fondi propri. L’art. 78, paragrafo 3, stabilisce poi che, se il rifiuto di rimborso degli strumenti di capitale primario di classe 1 è proibito dalla norma nazionale applicabile, l’autorità competente può derogare a tali condizioni purché “l’autorità competente imponga all’ente, su una base appropriata, di limitare il rimborso di tali strumenti”».

Art. 25 Regolamento (UE) n. 575/2013. Artt. 26, 28 e 29 Regolamento (UE) n. 575/2013. 18 Art. 29, par. 2, Regolamento (UE) n. 575/2013. 16 17

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Provando a tirare le prime fila di un ragionamento basato sulla serie di tecnicismi ai quali si è appena accennato, è possibile concludere con la Corte Costituzionale che – non essendoci spazio nella disciplina nazionale relativa alle cause di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio per la possibilità che l’ente emittente rifiuti il rimborso – l’unico modo per garantire i fini prudenziali perseguiti dalla normativa europea è che sia soddisfatta la condizione alternativa, id est che «le disposizioni che governano gli strumenti autorizz[i]no l’ente a limitare il rimborso». Peraltro, la Corte Costituzionale non ha trascurato di considerare che, nel dettare le «disposizioni che governano gli strumenti il legislatore nazionale non è libero di conformare discrezionalmente i limiti del rimborso, poiché la materia è disciplinata inderogabilmente dalle norme tecniche del regolamento delegato (UE) n. 241/2014, adottato al fine di integrare le previsioni del regolamento (UE) n. 575/2013, ai sensi dell’art. 29, paragrafo 6, di quest’ultimo». Più precisamente, secondo il regolamento delegato «la capacità dell’ente di limitare il rimborso conformemente alle disposizioni che regolano gli strumenti di capitale (…) riguarda sia il diritto di rinviare il rimborso che il diritto di limitare l’importo rimborsabile, anche per un periodo illimitato»19. Si giunge in tal modo ad uno degli snodi cruciali dell’intera disciplina di derivazione europea la quale, a parere della Corte Costituzionale, poggia su regole prudenziali dell’Unione europea che non lasciavano al legislatore nazionale alcuna facoltà di scelta tra le due presunte “opzioni” – l’una, la limitazione quantitativa del rimborso, l’altra, il suo rinvio – ma gli imponevano di attribuire alla banca la «capacità» di adottare sia l’una che l’altra misura come condizione perché le azioni possano essere considerate strumenti del capitale primario di classe 1. Tra le righe della conclusione che si è testé riportata deve leggersi la risposta della Corte Costituzionale ad un rilievo mosso dal Consiglio di Stato nell’ordinanza del 15 dicembre 2016, secondo cui – in forza del principio del minimo mezzo – il legislatore nazionale, in presenza di differenti opzioni previste dalla disciplina europea, avrebbe dovuto esercitare quella più rispettosa dei principi costituzionali: e, sempre a parere del Consiglio di Stato, nel caso specifico, il minimo mezzo consisteva nel differimento del rimborso ad un tempo massimo stabilito dalle legge.

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Art. 10, par. 2, Regolamento (UE) n. 575/2013.

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Tuttavia, merita ricordare che alla chiave di lettura delle regole europee proposta dal massimo grado della giustizia amministrativa, già la dottrina aveva contrapposto gli argomenti che in seguito, come si è poc’anzi visto, la Corte Costituzionale avrebbe fatto propri allo scopo di sostenere la legittimità della soluzione accolta dal legislatore nazionale – il quale ha ammesso sia la limitazione sia il rinvio del rimborso – e, dunque, di escludere il principio del minimo mezzo con specifico riferimento all’alternativa, appunto, tra limitazione e rinvio del rimborso20. Come si è già detto, secondo la Corte Costituzionale l’unica alternativa possibile per i legislatori nazionali [ai sensi dell’art. 29 del regolamento (UE) n. 575/2013] opera invece tra il rifiuto del rimborso delle azioni, per un verso, e la limitazione ed il rinvio del rimborso stesso, per altro verso. Rispetto a tale opzione, con l’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. il legislatore si è conformato al criterio del minimo mezzo, respingendo la possibilità del rifiuto – in ciò sulla scorta della tradizione giuridica italiana – e invece introducendo lo strumento congiunto della limitazione e del rinvio, purché giustificato dalla peculiare situazione patrimoniale in cui versa la banca. Il risultato che ne deriva – affatto allineato alle possibilità offerte agli Stati membri dal diritto dell’Unione europea – è il bilanciamento dell’interesse del socio uscente e dell’interesse pubblico alla sana e prudente gestione dell’attività bancaria. Al riguardo, in un primo ed autorevole commento alla sentenza, si è affermato che la Corte Costituzionale, pur prendendo atto che il legislatore nazionale ha optato per la limitazione del rimborso, avrebbe poi sorvolato sulla scelta del legislatore medesimo di non specificare e circoscrivere la limitazione, attribuendo alla Banca d’Italia il potere di darle sostanza e di articolarla in termini precettivi, aprendo in tal modo ad una possibile vanificazione sostanziale del diritto al rimborso21. In proposito, va detto che le Disposizioni di vigilanza emanate sul punto dalla Banca d’Italia, e che si sono prima riportate, sembrano recepire in toto il regolamento delegato (UE) n. 241/201422: se lette da

Sul punto si vedano Lamandini, La riforma, cit., pp. 159 ss., e Maugeri, Ancora su possibilità, cit., pp. 248 ss. 21 Amorosino, Corte costituzionale e rimborso dei soci recedenti delle banche popolari: determinante regolatoria europea ed interrogativi irrisolti, in Riv. dir. banc., diritto bancario.it, 38, 2018, p. 5. 22 Art. 10, par. 3, Regolamento (UE) n. 575/2013. Sul punto si veda Salerno, La dibattuta costituzionalità della riforma delle banche popolari, in Giur. comm., 2017, II, p. 116 s. 20

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una prospettiva di sistema e nella loro interezza, esse prevedono «sì che il rimborso possa essere limitato dalla banca (alla quale le disposizioni nazionali devono garantire tale facoltà, con l’ampiezza descritta), ma solo se, nella misura e nello stretto tempo in cui ciò sia necessario per soddisfare le esigenze prudenziali». La Corte Costituzionale prosegue avvertendo che le disposizioni di vigilanza impongono «così agli amministratori il dovere di verificare periodicamente la situazione prudenziale della banca e la permanenza delle condizioni che hanno imposto l’adozione delle misure limitative del rimborso e di provvedere ove esse siano venute meno. Più precisamente, nel caso di rinvio del rimborso, una volta che si sia accertato il venire meno degli elementi che hanno giustificato il differimento, il credito del recedente si deve considerare esigibile. La limitazione quantitativa, invece, deve condurre alla conservazione dei titoli non rimborsati in capo al recedente, che si vedrà in questo modo reintegrato nel suo status e nel valore patrimoniale della partecipazione». Detto in altri termini, non si produrrebbe un effetto espropriativo posto che, per dirla sempre con la Corte Costituzionale, «il socio (…) non subisce alcuna perdita definitiva del valore delle azioni di cui sia limitato il rimborso23». In quest’angolazione ed in linea teorica – anche in presenza della (ormai ineludibile) clausola statutaria che «attribuisce all’organo con funzione di supervisione strategica, su proposta dell’organo con funzione di gestione, sentito l’organo con funzione di controllo, la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte e senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni» – il diritto del socio di banca di credito cooperativo alla liquidazione della quota continuerebbe a potersi ritenere insopprimibile. D’altro canto, a corroborare la conclusione starebbe l’esercizio, da parte dell’organo con funzione di supervisione strategica, della facoltà di limitare o rinviare il rimborso non già ad nutum, ma subordinatamente alla circostanza che «ciò sia necessario ad assicurare la computa-

23 In proposito si è affermato che, sino al momento del rimborso, il socio recedente rimarrebbe titolare delle azioni e, dunque, sarebbe legittimato all’esercizio dei relativi diritti, per consentirgli il monitoraggio e la tutela “dall’interno”, oltreché del valore economico della partecipazione, delle possibilità di rimborso rimesse alle decisioni degli organi gestionali della banca: Santosuosso, Il principio generale di stabilità del sistema finanziario (nazionale e) della zona euro. La prima volta della Corte costituzionale (a proposito di trasformazione e recesso delle banche popolari), in RDS, n. 4/2018, p. 891. Nella stessa direzione v. Carotenuto, Il diritto al rimborso del socio recedente di banca popolare in seguito alla riforma t. u. b., in RDS, n. 1/2018, p. 68 s.

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bilità delle azioni nel patrimonio di vigilanza di qualità primaria della banca». In tal modo, il possibile «svuotamento sostanziale del contenuto patrimoniale del diritto, o – a tempo indeterminato – della facoltà di esercitarlo»24 è evenienza che può manifestarsi al verificarsi de futuro delle circostanze indicate nell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. il quale, dunque, non sembra idoneo a negare a priori l’esistenza di un diritto al rimborso al tempo dell’emissione delle azioni da parte della banca cooperativa. A sostegno della legittimità costituzionale dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b., la Corte Costituzionale ricorre poi ad un argomento che opera a fortiori, id est i possibili effetti negativi conseguenti ad un rimborso che intacchi il capitale primario di classe 1. Infatti, proprio perché la misura introdotta dall’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. è volta ad impedire l’insufficienza di simile capitale, ove fosse disattesa potrebbe portare all’applicazione delle misure di risanamento e risoluzione delle banche basate sul bail-in e, quindi, all’utilizzo di risorse interne, a partire da quelle di pertinenza dei soci, i quali sarebbero i primi a rimanere esposti alle perdite. Sicché il diritto al rimborso sarebbe comunque soggetto a limitazioni rilevanti, se non addirittura maggiori, coinvolgendo ex post tutti i soci, e non soltanto i soci recedenti. Dunque, rispetto alla posizione su cui si è attestato il Consiglio di Stato, la Corte Costituzionale pare procedere ad una valutazione dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. maggiormente in linea con il mosaico normativo europeo più generale, del quale la misura specifica di cui è espressione l’art. 28 t.u.b. sembra costituire in realtà un tassello.

4. Compatibilità della disciplina nazionale con l’art. 1 del Protocollo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e mancanza dei presupposti per un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 267, co. 3, TFUE. Ulteriore, ma collegata e duplice questione sollevata dal Consiglio di Stato nell’ordinanza del 15 dicembre 2016 attiene sia alla presunta incompatibilità della norma censurata con l’art. 1 del Protocollo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dedicato alla protezione della proprietà, sia al presunto ricorrere dei presupposti per un rinvio pre-

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Così Amorosino, Corte costituzionale, cit., p. 5.


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giudiziale alla Corte di giustizia sulla validità della normativa europea ai sensi dell’art. 267, co. 3, TFUE. La Corte Costituzionale ha respinto sia l’una che l’altro. Riguardo al primo punto, la Corte Costituzionale ha richiamato talune pronunce della Corte EDU che, pur riconoscendo la possibilità di sussumere le azioni di società nell’ambito di protezione dell’art. 1 del Protocollo addizionale25, hanno comunque giudicato compatibile con la tutela convenzionale della proprietà l’ingerenza di un’autorità pubblica nel godimento di un bene quando tale ingerenza sia legittima, necessaria per la tutela di un interesse generale e proporzionata26. Più precisamente, la legittimità dell’ingerenza sarebbe garantita dalla conformità alle condizioni richieste inderogabilmente dalle regole prudenziali europee, le quali – come già dimostrato dalla Corte Costituzionale riguardo all’impossibilità per il legislatore nazionale di optare tra limitazione e rinvio del rimborso – impediscono agli Stati membri l’esercizio di un potere discrezionale nell’individuazione delle misure più adatte ad assicurare il rispetto delle regole prudenziali. Tra le misure alternative contemplate dal diritto dell’Unione europea, essi possono soltanto scegliere quella più rispettosa dell’ordinamento interno. In ordine alla necessità dell’ingerenza, a giudizio della Corte Costituzionale essa consegue al perseguimento dei superiori interessi pubblici alla stabilità del sistema bancario e finanziario27, in particolare ove le banche corrano il rischio di recessi in grande numero e di rimborsi di così ampie dimensioni da mettere gravemente a repentaglio la stabilità delle banche interessate, e quindi dell’intero sistema. L’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. appare inoltre proporzionato al fine da realizzare, giacché frutto di un ragionevole bilanciamento delle esigenze dell’interesse generale della comunità e della tutela dei diritti fondamentali della persona, e ciò senza oneri individuali eccessivi28: come visto,

25 La Corte Costituzionale ha richiamato, in particolare, la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 25 luglio 2002, Sovtransavto Holding contro Ucraina. 26 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 17 novembre 2015, Preite contro Italia; sentenza 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; sentenza 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth contro Svezia. 27 In proposito, si veda Corte europea dei diritti dell’uomo, decisione 10 luglio 2012, Grainger e altri contro Regno Unito con la quale si è ritenuta necessaria una misura che, allo scopo di proteggere un settore economico chiave come quello finanziario, nazionalizza una banca in crisi senza prevedere un indennizzo per gli azionisti. 28 Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 gennaio 2015, Vécony contro Un-

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infatti, le banche, per un verso, sono chiamate a verificare costantemente il permanere delle condizioni che hanno richiesto l’intervento prudenziale, per altro verso sono obbligate a porre fine all’intervento stesso nel momento in cui siano venute meno le ragioni che lo hanno determinato. Il che equivale a dire che il diritto al rimborso rimane pur sempre nella disponibilità del socio, ancorché illiquido fino a quando la condizione prudenziale della banca non ne consenta nuovamente la liquidazione, come d’altronde si era già affermato in dottrina ancor prima della pronuncia della Corte Costituzionale29. Infine, alla luce della sostanziale corrispondenza tra gli artt. 17 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dedicati rispettivamente al diritto di proprietà e alle sue possibili limitazioni, e l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, la Corte Costituzionale ha escluso la sussistenza dei presupposti per un rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 267, co. 3, TFUE, alla Corte di giustizia dell’Unione europea sulla validità della stessa normativa europea. Infatti, quando le misure adottate perseguano l’obiettivo della stabilità finanziaria e non possano arrecare ai soggetti sacrificati un pregiudizio maggiore di quello che essi subirebbero in caso di procedura di fallimento conseguente alla mancata adozione delle misure stesse, va esclusa un’ingerenza sproporzionata e intollerabile nel diritto di proprietà che, dunque, non può intendersi sacrificato, ma soltanto limitato conformemente all’art. 52 della Carta fondamentale dei diritti dell’uomo. Come noto, il menzionato art. 52 condiziona al ricorrere di una serie di presupposti la limitazione del diritto di proprietà: precisamente, alla previsione di tale limitazione contenuta una norma, all’esistenza sia di un interesse riconosciuto dal diritto dell’Unione europea sia della necessità di proteggerlo avvalendosi di quello strumento, ed inoltre alla reversibilità del diritto fondamentale non esclusa dalla

gheria; sentenza 30 giugno 2005, Jahn e altri contro Germania; sentenza 5 gennaio 2000, Beyeler contro Italia; sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society contro Regno Unito; sentenza 21 febbraio 1986, James e altri contro Regno Unito; sentenza 23 settembre 1982, Sporrong e Lönnroth contro Svezia. 29 Lamandini, La riforma, cit., p. 162. Si è ravvisato, inoltre, l’obbligo a carico della banca che abbia recuperato la capienza patrimoniale di «reintegrare il socio nella medesima condizione economica nella quale egli si sarebbe trovato ove avesse conseguito tempestivamente il pagamento del valore di liquidazione delle azioni»: Maugeri, Trasformazione delle popolari e limiti al rimborso delle azioni: frammenti di un diritto costituzionale delle società bancarie, in ODC, n. 3/2018, p. 32.

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misura. Ebbene, come segnalato in dottrina ancor prima che la Corte Costituzionale si pronunciasse, ciascuna delle suddette condizioni ricorre nel caso specifico30. Oltre a ribadirne la sussistenza adducendo i medesimi argomenti già offerti a sostegno della compatibilità dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. con l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, la Corte Costituzionale ha altresì richiamato un consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di giustizia dell’Unione europea volto, pur con riferimento a situazioni diverse, ad affermare la prevalenza delle ragioni di stabilità finanziaria sul diritto di proprietà degli azionisti e dei creditori subordinati delle banche31.

5. L’infondatezza della questione relativa alla delega “in bianco”. La Corte Costituzionale era stata inoltre chiamata dal Consiglio di Stato a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. «nella parte in cui, comunque, attribuisce alla Banca d’Italia il potere di disciplinare le modalità d[ella] esclusione» del diritto al rimborso delle azioni in caso di recesso a seguito di trasformazione della società (ma altresì in caso di morte ed esclusione del socio) «anche in deroga a norme di legge». A suscitare il dubbio di costituzionalità sarebbe, innanzi tutto, «l’attribuzione stessa di un potere di delegificazione all’Istituto di vigilanza, ovvero a un soggetto estraneo al circuito politico dei rapporti ParlamentoGoverno, e dunque politicamente irresponsabile. Difetterebbero, infatti, le ragioni tradizionalmente invocate a sostegno del potere regolamentare delle Autorità indipendenti, incidendo il potere normativo in esame su materie non connotate da particolare “tecnicità o settorialità”. In secondo luogo, si tratterebbe di un potere di delegificazione conferito «in bianco», in quanto il legislatore non avrebbe dettato alcuna norma generale regolatrice della materia e neppure avrebbe individuato le norme primarie di cui sarebbe consentita l’abrogazione ad opera della fonte secondaria».

Così ancora Lamandini, La riforma, cit., pp. 161 s. Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 8 novembre 2016, Grande sezione, in causa C-41/15, Gerard Dowling e altri, in tema di ricapitalizzazione di una banca in crisi mediante la sottoscrizione di nuove azioni da parte dello Stato, con sacrificio del diritto di opzione dei soci; nonché sentenza 20 settembre 2016, Grande sezione, in cause riunite da C-8/15 P a C-10/15 P, Ledra Advertising Ltd e altri, in tema di azzeramento e conversione delle passività ai fini della ristrutturazione e risoluzione delle banche cipriote. 30 31

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A rafforzare il sospetto di incostituzionalità starebbe poi la «considerazione che tale “potere regolamentare atipico con effetto delegificante” sarebbe stato attribuito in materie coperte da riserva di legge. L’esclusione del diritto al rimborso si risolverebbe in una prestazione patrimoniale imposta al socio recedente, rispetto alla quale la riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost. dovrebbe precludere una delegificazione regolamentare di così ampia portata. L’interferenza tra l’esclusione del diritto al rimborso e la tutela della proprietà privata consentirebbe di richiamare anche la riserva di legge prevista dall’articolo 42 Cost., e dall’art. 1, paragrafo 1, del protocollo addizionale alla CEDU». Alla luce dei precedenti rilievi, il Consiglio di Stato – quasi suggerendo un intervento di ortopedia legislativa – concludeva sul punto che le «riserve di legge previste dalla citate disposizioni costituzionali non sembrano, invece, precludere alla legge di affidare, previa fissazione di un limite temporale predeterminato e di un tasso di interesse indennitario minimo, a una fonte di rango secondario (o eventualmente anche al potere regolatorio della Banca d’Italia) l’individuazione o la specificazione, sotto il profilo eminentemente tecnico, dei presupposti economici, finanziari o patrimoniali che possono concretamente giustificare il differimento del diritto al rimborso della quota del socio recedente». Anche rispetto a tali questioni la Corte Costituzionale dimostra la conformità alla carta costituzionale dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. In primo luogo perché, lungi dall’attribuire alla Banca d’Italia il potere di introdurre una disciplina sostitutiva di quella dettata dalla legge, l’organo cui spetta ordinariamente l’esercizio della funzione legislativa avrebbe introdotto direttamente – e del tutto indipendentemente dall’entrata in vigore del provvedimento della Banca d’Italia – la regola che consente una limitazione del diritto al rimborso delle azioni, in deroga alla disciplina ordinaria che, come visto, rimane comunque in vigore se non ricorrono i presupposti che legittimano la sua deroga. Pertanto, l’introduzione di previsioni statutarie – che, anche in deroga alle norme del codice civile, attribuiscono agli organi amministrativi la facoltà di limitare il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel capitale primario di classe 1 – sarebbe avvenuta per opera dello stesso legislatore. Per converso, alla Banca d’Italia sarebbe stato affidato soltanto il compito di definire le condizioni tecniche che consentono alla banca di rispettare i coefficienti patrimoniali minimi stabiliti dalla normativa prudenziale europea. Dunque, la questione relativa all’attribuzione di un potere di delegificazione all’Istituto di vigilanza sarebbe infondata. Peraltro, a giudizio della Corte Costituzionale, deve anche respingersi il vizio più radicale della violazione del principio di legalità sostanziale,

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che invece il Consiglio di Stato aveva rinvenuto nella presunta omessa introduzione da parte del legislatore di regole che governino compiutamente materie che dal punto di vista costituzionale lo avrebbero richiesto. Infatti, come ha osservato la Corte, «nella definizione della disciplina del rimborso delle azioni dei soci recedenti, alla Banca d’Italia non spetta alcuna valutazione politico-discrezionale sugli interessi in gioco, il cui bilanciamento – in particolare quello fra l’interesse dei soci che intendono recedere e quello della stabilità del sistema bancario ‒ è già definitivamente operato dalla legge». Manifestando ancora una volta una visione più ampia e sistematica rispetto alla prospettiva in cui si è messo il Consiglio di Stato, la Corte Costituzionale segnala poi che lo «stesso potere di definire le modalità tecniche di limitazione del rimborso è fortemente circoscritto dai citati regolamenti europei (segnatamente dalle norme tecniche del più volte citato regolamento delegato dell’UE n. 241/2014), che, come visto, dettano condizioni stringenti per la computabilità degli strumenti di capitale delle banche nel capitale primario di classe 1». Tra le pieghe della lettura che dell’art. 28, co. 2-ter, t.u.b. offre sul punto la Corte Costituzionale è possibile scorgere l’adesione ad un’impostazione che si era già fatta strada in dottrina: all’indomani dell’ordinanza del Consiglio di Stato, infatti, si era sollevato l’interrogativo – al quale si dava sostanzialmente una risposta negativa – riguardo alla reale competenza del legislatore nazionale, e conseguentemente della Banca d’Italia, in una materia pressoché compiutamente disciplinata da un Regolamento dell’Unione europea che, come noto, è direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri e, dunque, sottratto ad ogni mediazione a livello domestico32. Pertanto, quando si attribuisse alle Disposizioni di vigilanza in questione natura di atto meramente ricognitivo di regole appartenenti al diritto dell’Unione europea e perciò stesso vincolanti per le autorità di vertice del settore bancario33, si potrebbe

32 Così ancora Maugeri, Ancora su possibilità, cit., p. 249. Al riguardo si sostiene che, alla luce del quadro normativo europeo preesistente alla riforma che ha investito le banche cooperative, il rimborso delle loro azioni fosse già soggetto a vincoli specifici ed invece sottratto alla discrezionalità delle banche e dei loro azionisti: così Inzitari, La misura precauzionale della limitazione del rimborso della quota nella trasformazione delle banche popolari, in Riv. dir comm., 2018, I, p. 389. 33 In questa direzione appare orientato Maugeri, Ancora su possibilità, cit., p. 249. Si vedano, tuttavia, i rilevi di De Chiara, Rinvio e limitazione del rimborso in caso di recesso e poteri normativi della Banca d’Italia, in Le società, 2018, n. 7, p. 842 ss., finalizzati a

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respingere l’idea che la Banca d’Italia abbia esercitato un potere regolamentare tipicamente discrezionale, analogo a quello ad esempio esercitato in occasione della redazione del Regolamento sanzioni34. D’altronde e come in più occasioni si è ricordato, in tema di rimborso delle azioni di banche cooperative, le regole appartenenti al diritto dell’Unione europea, che hanno guidato la mano nella scrittura delle Disposizioni di vigilanza, trovano la propria genesi nel Regolamento (UE) n. 575/2013. Come noto, tale Regolamento è ora espressamente richiamato, insieme con le norme tecniche di regolamentazione e attuazione emanate dalla Commissione europea [quindi, insieme con il regolamento delegato (UE) n. 241/2014 della Commissione europea che lo integra], dall’art. 6, co. 3-bis, t.u.b. allo scopo di assicurarne il rispetto mediante l’attribuzione di poteri d’intervento alle autorità creditizie35. Ed è altrettanto noto che a disporre l’introduzione del co. 3-bis nell’art. 6 t.u.b. è stato il d.lgs. n. 72/2015 al quale – come già detto – si deve anche l’attuale formulazione dell’art. 28, comma 2-ter, t.u.b. Anche quando fossero rivisitate nella peculiare luce della stratificazione normativa che si è poc’anzi segnalata, le Disposizioni di vigilanza non apparirebbero frutto di un potere discrezionalmente esercitato dalla Banca d’Italia.

6. Limitazione del rimborso e possibili rimedi di diritto societario. Al fondo di tutta la vicenda rimangono, tuttavia, due ordini di considerazioni: in primo luogo, è innegabile che chi sia già socio di una cooperativa bancaria non può sottrarsi alle nuove regole relative alla rimborsabilità delle quote; in secondo luogo, i potenziali investitori in capitale di rischio delle banche cooperative, resi edotti dell’esistenza di vincoli al rimborso delle azioni grazie alla funzione informativa delle Disposizioni di vigilanza36, potrebbero orientare altrove i loro risparmi. In

dimostrare che la fedele riproduzione delle disposizioni europee risponde ad una precisa scelta della Banca d’Italia, ma non esclude una dimensione conformativa e, quindi, un certo grado di discrezionalità dell’autorità d vigilanza. 34 Nel senso dell’analogia è invece Amorosino, Corte costituzionale, cit., p. 7. 35 In argomento v. Predieri e Amorosino, Commento sub art. 6, in Aa.Vv., Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia4, t. I, Milano, 2018, p. 74. 36 Secondo Maugeri, Ancora su possibilità, cit., p. 250, infatti, le Disposizioni di vigilanza si sarebbero limitate «a perseguire lo scopo di “informare” gli operatori di mercato circa l’esistenza e la conformazione tecnica dei vincoli normativi europei al rimborso

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tal modo si frenerebbe di fatto il flusso di capitali verso banche – quelle cooperative – nelle quali, più che nelle altre, si pone il problema degli insufficienti livelli di patrimonializzazione. Ad attenuare, almeno in parte, tali conseguenze vi è però l’esistenza di strumenti di tutela che il sistema offre ai soci di una banca cooperativa azionabili in occasione della paventata falcidia dei propri diritti patrimoniali e che, a ben vedere, si intravedono – seppure in filigrana – nella stessa sentenza della Corte Costituzionale. Infatti, come in più occasioni precisato, l’organo con funzioni di supervisione strategica esercita il potere di limitare il rimborso non già discrezionalmente, bensì sulla base di parametri di natura, oltre che quantitativa, anche qualitativa. E già prima dell’intervento della Corte Costituzionale, in dottrina si era affermato che il criterio qualitativo fosse rappresentato dal rilievo assegnato, sia dalla disciplina europea sia dalla Banca d’Italia, alla complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o del gruppo bancario – da valutare, peraltro, non soltanto sulla base della situazione attuale, ma altresì di quella prospettica – e che, dunque, dovesse parlarsi di una discrezionalità tecnica consegnata agli amministratori, da esercitare comunque nel rispetto delle regole che governano la loro condotta secondo il diritto comune. Conseguentemente, nell’ipotesi in cui la violazione di tali regole ledesse i diritti dei soci recedenti, essi potrebbero impugnare la decisione dell’organo amministrativo di limitare il rimborso, ai sensi dell’art. 2388, co. 4, c.c., ma altresì agire in via risarcitoria nei confronti degli amministratori ex art. 2395 c.c.37. In questa prospettiva, potrebbe apparire decisivo il fine a cui è preordinata l’operazione che ha dato origine al diritto di recesso da parte del socio. In particolare, se – tenuto conto della situazione attuale e prospettica della banca – l’obiettivo dell’operazione fosse il rafforzamento di un patrimonio di vigilanza non più in linea con gli standard europei (o che rischia di non esserlo più), a fronte del recesso che il socio di minoranza abbia esercitato come reazione alla decisione della maggioranza, la decisione dell’organo amministrativo di limitare il rimborso spettante al socio recedente apparirebbe giustificata dal ricorrere della ratio sottesa all’art. 28, comma 2-ter, t.u.b. In tal caso, infatti, un eventuale rimborso indebolirebbe ulteriormente un patrimonio che invece si era

delle azioni in caso di uscita del socio da una cooperativa». 37 Così, in forma più ampia rispetto ai rilievi sintetici che si sono sopra riportati, Maugeri, Banche popolari, cit., pp. 1022 ss.

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inteso rafforzare e, dunque, le tutele apprestate dal diritto societario non potrebbero essere riconosciute al socio recedente, giacché sulle stesse prevarrebbe l’esigenza di continuare a computare le azioni nel capitale primario di classe 1. A diversa conclusione dovrebbe giungersi quando altro fosse il fine perseguito con l’operazione che ha dato luogo al recesso: in questa diversa evenienza, al fine di evitare un’eccessiva compressione dei diritti dei soci di minoranza, si è prospettato il volontario condizionamento dell’efficacia della deliberazione assembleare “al mancato esercizio di un numero di recessi previamente individuato come sostenibile”38. Una differente soluzione potrebbe consistere nella revoca della deliberazione che, analogamente a quanto previsto nell’ambito delle società per azioni dall’art. 2437-bis, co. 3, c.c., renda inefficace il recesso o ne impedisca l’esercizio, se non ancora esercitato. Tuttavia, a legittimare la revoca sarebbe soltanto da un’apposita clausola statutaria, non ritenendosi estensibile alle cooperative la disciplina dettata dal menzionato art. 2437-bis c.c.39.

7. La “riapertura” della questione da parte del Consiglio di Stato. I rimedi offerti dal diritto societario, tuttavia, non sono sempre azionabili e non appaiono così sufficienti a scongiurare la possibilità che il socio di una banca cooperativa assista alla limitazione del rimborso della quota, seppure nei modi delineati dalla Banca d’Italia e ritenuti dalla Corte Costituzionale pienamente allineati ai diktat europei, per le ragioni che si sono precedentemente esposte. Non sorprende, pertanto, che permanga il dubbio, espresso in dottrina all’indomani dell’emanazione della sentenza in commento, di un accertamento «sbrigativamente motivato»40 da parte della Corte Costituzionale dell’effettiva conformità delle Disposizioni di vigilanza al diritto dell’Unione europea41.

Così Sacco Ginevri, Il recesso, cit., p. 1507. Ibba, Il recesso, cit., p. 864. 40 Amorosino, La “telenovela” giurisdizionale delle “limitazioni” del rimborso dei soci recedenti delle banche popolari trasformate in s.p.a., in Riv. dir. banc., diritto bancario. it, 58, 2018, p. 2. 41 Amorosino, Corte costituzionale, cit., p. 5. 38 39

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Ed è proprio sull’accertamento di tale conformità che in tempi ancor più recenti ha avuto modo di ritornare il Consiglio di Stato, riaprendo la questione sulla quale si era pronunciata la Corte Costituzionale nel maggio 2018. Con l’ordinanza della Sezione VI del 26 ottobre 2018, n. 6129, il massimo grado della giustizia amministrativa ha, in primo luogo, provveduto ad una lettura sinottica del testo del Regolamento (UE) n. 241/2014 e di quello delle Disposizioni di vigilanza, arrivando a dimostrarne la possibile non sovrapponibilità. Il Consiglio di Stato ha, dunque, rinviato in via pregiudiziale il quesito alla Corte di Giustizia dell’UE, chiamandola in subordine a pronunciarsi sulla legittimità del citato Regolamento, ove invece ne fosse accertato il rispetto da parte della Banca d’Italia al tempo dell’emanazione delle Disposizioni di vigilanza nel punto dedicato al diritto al rimborso dei soci di banche cooperative. Più precisamente, nell’ordinanza dell’ottobre 2018 il Consiglio di Stato ha segnalato talune divergenze tra l’art. 10 Regolamento (UE) n. 241/2014 e la sua “traduzione” nell’ordinamento bancario nazionale, le quali deporrebbero nel senso del travalicamento, da parte della Banca d’Italia, dei confini tracciati dalla fonte sovranazionale. In primo luogo, nelle Disposizioni di vigilanza i verbi “limitare” e “rinviare” risulterebbero invertiti rispetto al Regolamento (UE), ed inoltre la locuzione “in tutto o in parte e senza limiti di tempo”, contenuta tra due virgole, darebbe luogo ad un inciso che è possibile riferire sia all’ipotesi della “limitazione” sia al caso del rinvio; di contro, nel Regolamento (UE), per un verso l’uso della disgiuntiva “o” parrebbe orientare verso la riferibilità dell’assenza di una limitazione temporale soltanto al caso della limitazione del rimborso, non anche al suo differimento, per altro verso mancherebbero le parole “in tutto o in parte” che, invece, nella versione italiana legittimerebbero sia una limitazione sia un rinvio assoluti. Muovendo da tale assunto, il Consiglio di Stato ha quindi sollevato alcune obiezioni alla conclusione cui è giunta la Corte Costituzionale42 secondo la quale, come visto, «non c’è dubbio che l’attuazione delle regole europee nell’ordinamento interno è avvenuta in piena conformità ad esse, e soprattutto che, quanto alla definizione dei limiti da apporre al rimborso delle azioni nel caso di recesso per trasformazione della società, il legislatore non gode di alcuna discrezionalità, essendo vincolato a prevedere che alla banca che intenda computare le proprie azioni nel

A tal proposito, la dottrina si è espressa in termini di “disattendibilità” o “superabilità” delle sentenze della Corte Costituzionale: Amorosino, La “telenovela”, cit., p. 3. 42

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capitale primario di classe 1 devono essere attribuite entrambe le facoltà, di rinviare il rimborso per un periodo illimitato e di limitarne in tutto o in parte l’importo». In particolare, il Consiglio di Stato ha osservato che in tale sentenza: «le opzioni del ‘rinvio’ e della ‘limitazione’ (del rimborso al socio recedente) vengono legate tra loro da una “e” congiuntiva e non da una “o” disgiuntiva (come, invece, nella versione inglese del citato articolo 10 del Regolamento 241/2014); soprattutto la facoltà di disporre il vincolo ‘per un periodo illimitato’ è connessa all’opzione del ‘rinvio’ e non a quella della ‘limitazione’ (come, invece, nella predetta versione inglese); la facoltà della ‘limitazione in tutto’ dell’importo del rimborso viene data per scontata e legittima quando essa, invero, non risulta testualmente nel citato articolo del Regolamento 241/2014». Per tali ragioni, il Consiglio di Stato ha proceduto al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea della possibilità che «il combinato disposto dell’art. 29 del Regolamento UE n. 575/2013 e dell’art. 10 del Regolamento delegato UE n. 241/2014, ostino a una normativa nazionale, come quella prevista dall’art. 1 del d.l. n. 3/2015, convertito con modificazioni dalla legge n. 33/2015, per come interpretata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 99/2018, che consenta alla banca popolare di rinviare il rimborso per un periodo illimitato e di limitarne in tutto o in parte l’importo». Tuttavia, al riguardo va segnalato che, se per un verso è innegabile l’alternativa tra differimento e limitazione contenuta nell’art. 10, par. 2, Regolamento (UE) n. 241/2014 («The institution shall be able to defer the redemption or limit the amount to be redeemed for an unlimited period of time pursuant to paragraph 3»), per altro verso è altrettanto vero che, immediatamente prima, la medesima norma precisa che la possibilità di limitare il rimborso riguarda sia il diritto di differire il rimborso sia il diritto di limitare l’importo rimborsabile («The ability of the institution to limit the redemption (…) shall encompass both the right to defer the redemption and the right to limit the amount to be redeemed»). Sicché, l’accento posto dal Consiglio di Stato su uno soltanto dei periodi in cui si articola la norma potrebbe risolversi in una sua lettura parziale e non rispondente alle reali intenzioni del legislatore europeo43 che, anzi, secon-

43 In proposito, si ritengono superabili, «attesa la mancanza di illegittimo effetto ablatorio del diritto di proprietà degli azionisti, le argomentazioni (più esegetiche che sostanziali)» della pronunzia del Consiglio di Stato: Santosuosso, Il principio generale di stabilità del sistema finanziario, cit., p. 893.

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do l’impostazione seguita dalla Corte Costituzionale, ai fini della computabilità delle azioni delle banche cooperative nel capitale primario di classe 1, avrebbe inteso imporre ai legislatori nazionali sia la limitazione quantitativa del rimborso sia il suo rinvio (v. il precedente par. 3). In questa prospettiva non è un caso che lo stesso Consiglio di Stato, verosimilmente consapevole della difficoltà di interpretare la portata effettiva dell’art. 10 Regolamento (UE) n. 241/2014 – norma che difatti si presenta polisemica – non escluda in modo categorico la conformità della disciplina nazionale alla fonte sovranazionale, tanto da chiedere che, «qualora in sede interpretativa la Corte di Giustizia assuma la compatibilità della normativa eurounitaria con l’interpretazione prospettata dalle controparti […], la medesima Corte di Giustizia valuti la legittimità europea dell’art. 10 del Regolamento delegato UE n. 241/2014 della Commissione, alla luce dell’art. 16 e dell’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea». Allo stato, dunque, almeno alla luce della posizione assunta dal Consiglio di Stato rispetto alla sentenza della Corte Costituzionale, non rimane che prendere atto del ruolo di giudice di ultima istanza assegnato alla Corte di Giustizia44, e del fatto che anche il rimborso delle azioni di banche cooperative risulta consegnato alla logica del diritto incalcolabile45 e all’incertezza che sembra ormai pervadere il diritto privato contemporaneo46.

Giuliana Martina

Così Amorosino, La “telenovela”, cit., p. 3. Per il quale si rinvia all’opera di Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, passim. 46 Camardi, Certezza e incertezza nel diritto privato contemporaneo, Torino, 2017, passim. Al riguardo si auspica che la Corte di giustizia scriva «il capitolo conclusivo di una storia travagliata, nell’interesse generale alla certezza del diritto»: Maugeri, Trasformazione delle popolari e limiti al rimborso delle azioni, cit., p.39. 44 45

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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni



DOCUMENTI E INFORMAZIONI

Crisi bancarie e proposte della Commissione europea Il 15 maggio 2019 abbiamo messo a disposizione dei Lettori - nella rubrica delle News (si veda https://www.dirittobancaemercatifinanziari.it/) - la Relazione del 30 aprile 2019 predisposta dalla Commissione europea sulla revisione della BRRD: Report from the Commission to the European Parliament and the Council on the application and review of Directive 2014/59/EU (Bank Recovery and Resolution Directive) and Regulation 806/2014 (Single Resolution Mechanism Regulation), segnalando come la stessa avrebbe potuto costituire una base di lavoro per la legislatura europea in procinto di avvio. Successivamente ne è stata resa pubblica anche la traduzione nelle diverse lingue dell’UE. Pubblichiamo ora la Relazione nella versione italiana; segue un commento di Antonella Brozzetti.

Commissione europea – Relazione al Parlamento Europeo e al Consiglio sull’applicazione e sulla revisione della direttiva 2014/59/UE (direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche) e del regolamento (UE) n. 806/2014 (regolamento sul meccanismo di risoluzione unico), Bruxelles, 30.4.2019, COM(2019) 213 final.

I. Introduzione. Il quadro normativo dell’Unione in materia di servizi finanziari ha registrato notevoli progressi a seguito della crisi finanziaria. Vari atti legislativi sono stati adottati per introdurre norme in settori precedentemente non regolamentati e rivedere la normativa vigente. L’obiettivo generale consisteva nel rispondere alle preoccupazioni e nell’affrontare le carenze emerse durante la crisi finanziaria, nonché nel ridurre il rischio del riemergere di crisi (sistemiche).

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Documenti e informazioni

In tale contesto, nel 2014 è stato introdotto un quadro giuridico minimo armonizzato dell’UE applicabile in caso di crisi bancarie1, costituito dalla direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche (“BRRD”)2. Il regolamento sul meccanismo di risoluzione unico (“SRMR”) integra detto quadro armonizzato3. Tali atti legislativi prevedono strumenti efficaci di risoluzione delle banche “in dissesto o a rischio di dissesto”. Mentre la BRRD doveva essere recepita nel diritto nazionale da ciascuno Stato membro dell’UE, l’SRMR rappresenta un regolamento direttamente applicabile che accentra talune funzioni e decisioni di risoluzione per l’Unione bancaria. Pertanto, entrambi gli strumenti istituiscono congiuntamente il quadro di risoluzione dell’UE. La BRRD e l’SRMR hanno istituito il principio secondo cui, qualora una banca sia in dissesto o a rischio di dissesto, l’autorità di risoluzione può concludere che è di interesse pubblico sottoporre la banca a risoluzione, anziché applicare la procedura di insolvenza a norma del diritto nazionale. Tale interesse pubblico potrebbe, ad esempio, essere dovuto al fatto che la banca offre funzioni ritenute essenziali per l’economia, che non possono essere interrotte senza effetti avversi sulla stabilità finanziaria. Qualora non sia di interesse pubblico ricorrere alla risoluzione, la banca deve essere liquidata, in base alle norme in materia di insolvenza conformemente alla normativa nazionale. In linea generale, una banca deve essere dichiarata in dissesto o a rischio di dissesto se necessita di sostegno finanziario pubblico straordinario per mantenere la sua solidità, liquidità o solvibilità e solo in casi eccezionali specifici una banca può ricevere un sostegno pubblico senza aver determinato tale condizione. Tali casi eccezionali comprendono una ricapitalizzazione cautelativa, nonché garanzie dello Stato a sostegno degli strumenti di liquidità forniti da banche centrali e garanzie dello Stato sulle passività di nuova emissione4. Il quadro garantisce che gli azionisti e i creditori sostengano efficacemente le perdite e istituisce una serie di strumenti di risoluzione per consentire alle autorità di gestire le banche soggette a risoluzione. A seconda del caso specifico, le autorità possono decidere di utilizzare lo strumento per la vendita dell’attività

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La BRRD e l’SRMR si applicano agli enti creditizi, alle imprese di investimento e ad altre categorie di enti finanziari di cui all’articolo 1 della BRRD e all’articolo 2 dell’SRMR. Tuttavia, nella presente relazione il termine generico “banca” è utilizzato per designare tutte le entità rientranti nell’ambito di applicazione di tali atti legislativi. 2 Direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, che istituisce un quadro di risanamento e risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento (GU L 173 del 12.6.2014, pag. 190). 3 Regolamento (UE) n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 luglio 2014, che fissa norme e una procedura uniformi per la risoluzione degli enti creditizi e di talune imprese di investimento nel quadro del meccanismo di risoluzione unico e del Fondo di risoluzione unico (GU L 225 del 30.7.2014, pag. 1). 4 Articolo 32, paragrafo 4, lettera d), BRRD.

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Commissione europea

d’impresa, di creare una banca-ponte o una società veicolo per la gestione delle attività e di procedere al bail-in5. Il quadro prevede inoltre norme concernenti la fornitura di un sostegno finanziario pubblico esterno alle banche soggette a risoluzione. Per ridurre il rischio di misure di salvataggio finanziate dai contribuenti, il quadro prevede la creazione di meccanismi nazionali di finanziamento della risoluzione e del Fondo di risoluzione unico – che deve essere finanziato da tutte le banche sul mercato – che costituiscono la principale fonte di sostegno finanziario esterno per le banche soggette a risoluzione. Inoltre, l’SRMR istituisce il Comitato di risoluzione unico, incaricato di preparare ed effettuare la risoluzione delle banche stabilite negli Stati membri partecipanti all’Unione bancaria, nonché di gestire il Fondo di risoluzione unico6. L’articolo 129 della BRRD e l’articolo 94 dell’SRMR impongono alla Commissione di riesaminare l’applicazione del quadro di risoluzione e di presentare una relazione al Parlamento europeo e al Consiglio. Le relazioni sull’applicazione di tali strumenti giuridici erano previste rispettivamente entro giugno e dicembre 2018. Visti gli stretti legami tra detti strumenti, è opportuno procedere ad un riesame congiunto. Inoltre, per effettuare il riesame, è stato necessario attendere l’adozione del pacchetto bancario (descritto in maniera più dettagliata di seguito), che ha modificato alcuni importanti elementi del quadro di risoluzione, in particolare le norme concernenti il requisito minimo di fondi propri e passività ammissibili o MREL.

II. Panoramica dello stato di avanzamento in termini di applicazione e completamento del quadro di risoluzione. A. Stato di avanzamento del recepimento della BRRD. Il termine per il recepimento della BRRD era stato fissato al 31 dicembre 2014. Solo due Stati membri avevano comunicato di aver completato il recepimento della BRRD entro il suddetto termine e pertanto erano state avviate procedure d’infrazione nei confronti di quelli rimanenti per la mancata comunicazione. Attualmente, tutti gli Stati membri hanno comunicato di aver completato il recepimento. La Commissione ha verificato che la BRRD è pienamente recepita

5 Nella BRRD e nell’SRMR, per bail-in si intende “il meccanismo per l’esercizio, da parte di un’autorità di risoluzione, dei poteri di svalutazione e di conversione in relazione alle passività di un ente soggetto a risoluzione [...]”. Cfr. l’articolo 2, paragrafo 1, punto 57, della BRRD e l’articolo 3, paragrafo 1, punto 33, dell’SRMR. 6 Nell’Unione bancaria, ciascuna autorità nazionale di risoluzione è responsabile della raccolta dei contributi al fondo di risoluzione nazionale pertinente. Questi sono quindi trasferiti al Fondo di risoluzione unico, gestito dal Comitato di risoluzione unico.

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Documenti e informazioni

in tutti gli Stati membri e ha archiviato i relativi casi d’infrazione concernenti la mancata comunicazione. La Commissione sta attualmente esaminando la correttezza delle misure di recepimento nazionali.

B. Stato di avanzamento dell’attuazione del quadro di risoluzione da parte delle autorità di risoluzione. Nell’Unione europea è in corso l’attuazione della BRRD. Una serie di Stati membri ha fissato strategie di risoluzione e obiettivi MREL per tutte le banche nell’ambito delle rispettive competenze dirette. Ciò ha consentito alle banche di avviare la rimozione degli impedimenti a tali strategie e costituire risorse MREL. Dall’introduzione della BRRD, sono stati istituiti vari collegi di risoluzione intesi a concordare piani di risoluzione, valutazioni delle possibilità di risoluzione e MREL tra le autorità dello Stato membro d’origine e quelle dello Stato membro ospitante incaricate della risoluzione di gruppi bancari nell’Unione europea7. Nell’Unione bancaria, il Comitato di risoluzione unico si occupa del processo di preparazione dei piani di risoluzione per le banche nell’ambito delle sue competenze. Inoltre, il Comitato ha elaborato orientamenti sulle funzioni essenziali e sull’operatività del bail-in e sta tuttora lavorando su una serie di questioni, in particolare sulla continuità operativa e sui sistemi informatici gestionali. Il Comitato ha pubblicato in precedenza il documento “Introduction to Resolution Planning” (Introduzione alla pianificazione della risoluzione) e sta elaborando un manuale più dettagliato per la pianificazione della risoluzione ai fini della pubblicazione esterna. Per quanto riguarda il MREL, l’approccio del Comitato di risoluzione unico si è evoluto dal 2016, in cui si basava su obiettivi informativi, fino a integrare nel 2017 requisiti vincolanti per le banche più grandi e più complesse, nonché adeguamenti specifici per le banche relativi agli aspetti qualitativi e quantitativi del MREL. Gli orientamenti sul MREL del 2018 sull’applicazione, da parte del Comitato di risoluzione unico, delle disposizioni legislative sul MREL8, sono stati pubblicati dal Comitato alla fine del 2018. Nel complesso, le banche sono in una fase di transizione e, sebbene alcune presentino al momento ancora le carenze per quanto concerne il MREL, si stanno adoperando per conseguire gli obiettivi nei tempi fissati dal Comitato di risoluzione unico.

7 Cfr. relazione dell’ABE sui collegi di risoluzione: https://eba.europa.eu/ documents/10180/2087449/EBA+Report+on+the+functioning+of+resolution+colleges++July+2018.pdf . 8 I documenti pertinenti sono disponibili ai seguenti indirizzi: https://srb.europa. eu/sites/srbsite/files/srb_2018_mrel_policy_-_first_wave_of_resolution_plans.pdf e https:// srb.europa.eu/sites/srbsite/files/public_mrel_policy_2018_-_second_wave_of_plans.pdf.

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C. Modifiche del MREL presenti nel pacchetto bancario. Ad aprile 2019 il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea hanno approvato il pacchetto bancario, che comprendeva modifiche a talune disposizioni della BRRD e dell’SRMR, ma anche alla direttiva sui requisiti patrimoniali (CRD) e al regolamento sui requisiti patrimoniali (CRR)9. Alla luce dei termini previsti dai testi legislativi, è probabile che le nuove norme diventino applicabili negli Stati membri nel corso del 2020. Una parte delle disposizioni del pacchetto si riferisce al MREL. In particolare, prevede misure volte ad allineare il quadro legislativo vigente alla disciplina internazionale pertinente pubblicata dal Consiglio per la stabilità finanziaria sulla capacità totale di assorbimento delle perdite (TLAC) e comprende modifiche significative alla calibrazione, ai criteri di ammissibilità e alla ripartizione all’interno di un gruppo del requisito MREL nonché le conseguenze della sua violazione. Inoltre, il testo affronta la questione del riconoscimento contrattuale del bail-in per le passività emesse a norma del diritto del paese terzo nonché i poteri delle autorità di risoluzione di sospendere i pagamenti (poteri di moratoria).

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Nella seduta plenaria del 16 aprile 2019, il Parlamento europeo ha approvato i testi legislativi che costituiscono il cosiddetto “pacchetto bancario”. Sono stati votati i seguenti testi: – risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 16 aprile 2019 sulla proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio che modifica la direttiva 2014/59/UE sulla capacità di assorbimento di perdite e di ricapitalizzazione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e le direttive 98/26/CE, 2002/47/CE, 2012/30/UE, 2011/35/UE, 2005/56/ CE, 2004/25/CE e 2007/36/CE [COM(2016)0852 – C8-0481/2016 – 2016/0362(COD)] (Procedura legislativa ordinaria: prima lettura); – risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 16 aprile 2019 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento (UE) n. 806/2014 per quanto riguarda la capacità di assorbimento delle perdite e di ricapitalizzazione per gli enti creditizi e le imprese di investimento [COM(2016)0851 – C8-0478/2016 – 2016/0361(COD)] (Procedura legislativa ordinaria: prima lettura); – risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 16 aprile 2019 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica il regolamento (UE) n. 575/2013 per quanto riguarda il coefficiente di leva finanziaria, il coefficiente netto di finanziamento stabile, i requisiti di fondi propri e passività ammissibili, il rischio di controparte, il rischio di mercato, le esposizioni verso controparti centrali, le esposizioni verso organismi di investimento collettivo, le grandi esposizioni, gli obblighi di segnalazione e informativa e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012 [COM(2016)0850 – C8-0480/2016 – 2016/0360A(COD)]; – risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 16 aprile 2019 sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio che modifica la direttiva 2013/36/UE per quanto riguarda le entità esentate, le società di partecipazione finanziaria, le società di partecipazione finanziaria mista, la remunerazione, le misure e i poteri di vigilanza e le misure di conservazione del capitale [COM(2016)0854 – C8-0474/2016 – 2016/0364(COD)].

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D. Casi di applicazione delle disposizioni del quadro di risoluzione. Finora, l’esperienza sull’applicazione del quadro alle banche in dissesto o a rischio di dissesto è stata limitata. Il caso del Banco Popular (giugno 2017) rappresenta l’unica risoluzione effettuata dopo l’entrata in vigore di tutte le disposizioni dell’SRMR10. Il programma di risoluzione del Banco Popular ha comportato la svalutazione e la conversione dei fondi propri dell’ente e la vendita dell’entità nell’ambito dello strumento per la vendita dell’attività d’impresa. In questo contesto, Banco Santander è stato individuato come acquirente idoneo. In questo caso non è stato applicato alcun bail-in di passività al di là del debito subordinato e non è stato necessario il sostegno del Fondo di risoluzione unico11. Prima del caso del Banco Popular, la BRRD è stata applicata nel novembre 2015, quando le autorità italiane hanno sottoposto a risoluzione quattro banche (Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti). Questi casi si sono, tuttavia, verificati prima della data di applicazione delle disposizioni in materia di bail-in12. Pertanto, sono state applicate solo le norme in materia di aiuti di Stato sulla ripartizione degli oneri (che impongono la svalutazione del capitale proprio e del debito subordinato), ma non il bail-in a norma della BRRD13. Inoltre, talune disposizioni del quadro di risoluzione sono state applicate in casi recenti di banche in difficoltà, che tuttavia non hanno comportato la risoluzione dell’ente: - determinate banche hanno ricevuto un sostegno alla liquidità in via preventiva14. Tale sostegno è stato fornito a due banche greche (National Bank of Greece e Piraeus Bank) nell’aprile 201515. Nel dicembre 2016 è stato concesso a

10 Il termine per l’applicazione delle disposizioni concernenti lo strumento del bailin di cui alla BRRD era il 1° gennaio 2016, mentre per le altre disposizioni il termine per l’applicazione era il 1° gennaio 2015. 11 Le misure sono state adottate a norma della decisione di risoluzione del Comitato di risoluzione unico del 7 giugno 2017 (SRB/EES/2017/08), approvata dalla decisione (UE) 2017/1246 della Commissione del 7 giugno 2017. 12 L’articolo 130 della BRRD imponeva agli Stati membri di applicare talune disposizioni, comprese quelle concernenti il bail-in, al più tardi a decorrere dal 1° gennaio 2016. 13 Le disposizioni in materia di bail-in a norma della BRRD impongono la svalutazione e la conversione delle azioni e delle passività ammissibili fino a un minimo dell’8 % delle passività totali della banca prima di consentire l’accesso al sostegno finanziario esterno. 14 Liquidità sotto forma di garanzie dello Stato sugli strumenti di liquidità forniti da banche centrali o sulle passività di nuova emissione a norma dell’articolo 32, paragrafo 4, lettera d), punti i) e ii), della BRRD e dell’articolo 12, paragrafo 4, lettera d), punti i) e ii), dell’SRMR. 15 Caso SA.41503.

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Monte dei Paschi di Siena16 e nel gennaio e nell’aprile 2017 anche due banche italiane di medie dimensioni, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, hanno beneficiato dello stesso tipo di sostegno17; - nel novembre 2015 la National Bank of Greece e Piraeus Bank hanno ricevuto ricapitalizzazioni cautelative18. Lo stesso tipo di sostegno è stato concesso dalle autorità italiane alla Banca Monte dei Paschi di Siena nel giugno 201719; - nel giugno 2017 Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono state dichiarate in dissesto o a rischio di dissesto dalla BCE e il Comitato di risoluzione unico ha riscontrato che l’azione di risoluzione non era di interesse pubblico20. Il quadro di risoluzione prevede che in questo caso si applichino le norme in materia di insolvenza conformemente al diritto nazionale. Pertanto, i due enti sono stati sottoposti a liquidazione amministrativa obbligatoria a norma del diritto italiano; - relativamente alla banca lettone ABLV, AS e alla sua filiazione ABLV Bank Luxembourg S.A., a seguito della determinazione da parte della BCE del dissesto o del rischio di dissesto delle banche nel febbraio 2018, il Comitato di risoluzione unico ha assunto la decisione di non avviare un’azione di risoluzione, data l’assenza di interesse pubblico. Successivamente, ABLV AS ha presentato richiesta di liquidazione volontaria a norma del diritto lettone e ABLV Luxembourg AS è rimasta in un regime di sospensione dei pagamenti ai sensi del diritto lussemburghese. Se del caso, la Commissione ha valutato la misura notificata dallo Stato membro nel quadro delle norme in materia di aiuti di Stato per il settore finanziario, che per il sostegno sotto forma di capitale impongono la ripartizione degli oneri per azionisti e creditori subordinati, nonché altre disposizioni, compresa la presentazione di un piano di ristrutturazione, ove pertinente.

III. Punti da valutare ulteriormente. A. Applicazione della BRRD e dell’SRMR. Ricapitalizzazione cautelativa

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Caso SA.47081. Caso SA.47149. 18 L’aiuto è stato autorizzato dalla Commissione nei casi SA.43364 e SA.43365. L’espressione “ricapitalizzazione cautelativa” designa l’apporto di fondi propri a un ente solvente a norma dell’articolo 32, paragrafo 4, lettera d), punto iii), della BRRD e dell’articolo 18, paragrafo 4, lettera d), punto iii), dell’SRMR. 19 L’aiuto è stato autorizzato dalla Commissione nel caso SA.47677. 20 Caso SA.45664. 17

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La ricapitalizzazione cautelativa consente in circostanze eccezionali21 di ricapitalizzare una banca con fondi pubblici, per far fronte in modo tempestivo alle difficoltà che possano emergere nel contesto di uno scenario economico improbabile (individuato nello scenario avverso di una prova di stress) e che possano incidere sulle condizioni finanziarie di enti solventi. Ciò contribuisce a creare un approccio lungimirante alla stabilità finanziaria e a evitare potenziali deterioramenti che possano portare al dissesto di una banca. Per garantire che la ricapitalizzazione cautelativa sia utilizzata in maniera adeguata e nella logica del quadro di risoluzione, la BRRD e l’SRMR prescrivono il rispetto di varie condizioni, tra cui la solvibilità della banca, la garanzia che il sostegno finanziario pubblico non venga utilizzato per coprire le perdite subite e che si rischia di subire e la necessità della ricapitalizzazione cautelativa per far fronte a una carenza di capitale stabilita in una prova di stress o in una verifica della qualità delle attività. Inoltre, la misura deve avere carattere temporaneo ed essere proporzionata per rimediare alle conseguenze della grave perturbazione nell’economia di uno Stato membro. Infine, la misura è subordinata all’approvazione finale a titolo della disciplina degli aiuti di Stato dell’Unione. La Commissione ha osservato che può presentarsi l’esigenza di un ulteriore chiarimento delle condizioni e della procedura di concessione della ricapitalizzazione cautelativa, per garantire tempestività e coordinamento tra i soggetti pertinenti. Ad esempio, il quadro non specifica quale autorità dovrebbe confermare che la banca è “solvente” prima di ricevere la ricapitalizzazione cautelativa (né fornisce una definizione di solvibilità ai fini della ricapitalizzazione cautelativa) e non indica quale autorità dovrebbe individuare le perdite che l’entità ha accusato o rischia di accusare nel prossimo futuro, che non possano essere coperte mediante ricapitalizzazione cautelativa. Sulla base degli insegnamenti tratti dai primi casi, e in collaborazione con la BCE e il Comitato di risoluzione unico, la Commissione ha elaborato le migliori prassi su taluni aspetti della procedura, compreso il ruolo delle prove di stress e la loro interazione con una verifica della qualità delle attività. La Commissione continuerà ad adoperarsi in tal senso. Misure di intervento precoce La BRRD concede alle autorità di vigilanza poteri di intervento precoce, intesi a prevenire l’ulteriore deterioramento della situazione finanziaria di un ente e a ridurre, per quanto possibile, il rischio e l’impatto di un’eventuale risoluzione. Tali poteri sono attivati qualora siano rispettati determinati indicatori specifici22,

21 La misura è consentita per rimediare a una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro e preservare la stabilità finanziaria. 22 In particolare, l’articolo 27 BRRD prevede il potere dell’autorità competente di attivare misure di intervento precoce qualora “un ente violi o, a causa tra l’altro

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per consentire alle autorità competenti di adottare misure volte, tra l’altro, a richiedere all’organo di amministrazione dell’ente di preparare un programma d’azione o di cambiare la strategia aziendale dell’ente o la sua struttura giuridica e operativa. Le autorità competenti possono, in tale contesto, sostituire anche l’organo di amministrazione dell’ente23. L’applicazione di misure di intervento precoce è stata finora estremamente limitata ed è pertanto possibile trarre solo poche conclusioni provvisorie. L’interazione tra i poteri di intervento precoce conferiti alle autorità competenti sulla base delle normative nazionali di attuazione della BRRD e i poteri di vigilanza che possano essere esercitati sulla base della CRD e del regolamento sul meccanismo di vigilanza unico nonché la potenziale sovrapposizione degli stessi potrebbero meritare un’ulteriore analisi24. Inoltre, per quanto concerne l’Unione bancaria, potrebbe essere utile riflettere sulla possibilità di riprodurre le disposizioni in materia di poteri di intervento precoce di cui alla BRRD anche nell’SRMR, per evitare il ricorso a misure di recepimento nazionali divergenti. Il sostegno comune al Fondo di risoluzione unico e l’accordo intergovernativo25 In conformità dei precedenti accordi politici da parte dei ministri delle Finanze26 e come confermato anche nell’esito del Vertice euro del dicembre 201827, il sostegno comune al Fondo di risoluzione unico, essenziale per rafforzare la credibilità del meccanismo di risoluzione unico (SRM) nell’Unione bancaria, sarà istituito al più tardi entro la fine del periodo transitorio per la messa in comune dei mezzi nell’ambito del Fondo di risoluzione unico.

di un rapido deterioramento della situazione finanziaria, del peggioramento della situazione di liquidità, del rapido aumento dei livelli di leva finanziaria, dei crediti in sofferenza o della concentrazione di esposizioni, così come valutato sulla base di una serie di indicatori, che possono includere il requisito di fondi propri dell’ente più 1,5 punti percentuali, rischi di violare nel prossimo futuro i requisiti del regolamento (UE) n. 575/2013, della direttiva 2013/36/UE, del titolo II della direttiva 2014/65/UE o di uno degli articoli da 3 a 7, da 14 a 17, e 24, 25 e 26 del regolamento (UE) n. 600/2014 [...]”. 23 Tale decisione è stata adottata di recente dalla BCE in merito alla Banca Carige (Cassa di Risparmio di Genova e Liguria). Cfr. https://www.bankingsupervision.europa. eu/press/pr/date/2019/html/ssm.pr190102.en.html. 24 In particolare, articolo 16 SSMR. 25 Accordo sul trasferimento e la messa in comune dei contributi al Fondo di risoluzione unico, 14 maggio 2014, 8457/14: http://data.consilium.europa.eu/doc/ document/ST-8457-2014-INIT/it/pdf. 26 Dichiarazione dell’Eurogruppo e dei ministri ECOFIN sul sostegno al meccanismo di risoluzione unico, 20 dicembre 2013, 18137/13: http://data.consilium.europa.eu/doc/ document/ST-18137-2013-INIT/en/pdf. 27 Dichiarazione del Vertice euro, 14 dicembre 2018, e il mandato per il sostegno comune al Fondo di risoluzione unico.

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La Commissione ha più volte chiesto di predisporre quanto prima il sostegno comune28. Nel dicembre 2018 il Vertice euro ha concordato che l’introduzione anticipata del sostegno sarebbe subordinata a progressi sufficienti nella riduzione dei rischi, da valutare nel 2020. Sembra che gli Stati membri partecipanti all’Unione bancaria condividano ampiamente il parere secondo cui il rimborso del sostegno comune da parte del Fondo di risoluzione unico sarebbe limitato solo ai comparti nazionali interessati nel caso in cui il sostegno dovesse essere utilizzato prima della fine del periodo transitorio29. Ciò incide sugli importi che possano essere rimborsati e quindi concessi in prestito dal sostegno comune. Per garantire che, durante la fase di transizione, sia possibile anche ottenere un pieno accesso al sostegno, se del caso, sarà necessario concordare tempestivamente modifiche limitate all’accordo intergovernativo (in particolare poiché senza una rapida modifica di suddetto accordo, potrebbe esserci un beneficio limitato nell’attuazione anticipata). Una delle opzioni disponibili sarebbe la messa in comune dei contributi ex ante ed ex post, a partire dal 2021, al fine di realizzare un sostegno comune di entità credibile e aumentare la resilienza dell’Unione bancaria. Liquidità in caso di risoluzione Una parte essenziale di una risoluzione efficace consiste nel garantire che una banca soggetta a risoluzione continui ad avere sufficiente liquidità per adempiere ai propri obblighi. La liquidità può provenire dal mercato o dai meccanismi ordinari della banca centrale. Qualora tali risorse siano temporaneamente insufficienti, il Fondo di risoluzione unico potrebbe essere utilizzato per fornire liquidità nel quadro della risoluzione. Tuttavia, data l’entità delle eventuali esigenze di liquidità nel quadro della risoluzione, le risorse del Fondo di risoluzione unico, anche quando integrate da un sostegno di entità uguale o simile, possono non essere sufficienti per affrontare adeguatamente tali esigenze30.

28 Cfr., ad esempio, la comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo, al Consiglio e alla Banca centrale europea – Ulteriori tappe verso il completamento dell’Unione economica e monetaria dell’Europa: tabella di marcia, 6.12.2017, COM(2017) 821 final e comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio, alla Banca centrale europea, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni sul completamento dell’Unione bancaria, 11.10.2017, COM(2017) 592 final. 29 Articolo 5, paragrafo 1, lettera e), dell’accordo intergovernativo. 30 Cfr., ad esempio, relazione dell’Eurogruppo, destinata ai leader, sull’approfondimento dell’UEM, 4 dicembre 2018, https://www.consilium.europa.eu/ fr/press/press-releases/2018/12/04/eurogroup-report-to-leaders-on-emu-deepening/; “Financing bank resolution: An alternative solution for arranging the liquidity required” (Finanziamento della risoluzione delle banche: una soluzione alternativa per preparare la liquidità richiesta), novembre 2018, W.P. de Groen, analisi approfondita richiesta dalla

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In conformità dell’articolo 73 SRMR, il Comitato di risoluzione unico può contrarre prestiti esterni onde assicurare la disponibilità delle risorse a sostegno della risoluzione, qualora non siano (ancora) disponibili contributi a tal fine. La Commissione ritiene che la disposizione consenta al Comitato di risoluzione unico di adottare mezzi adeguati per garantirne l’operatività, anche contraendo una quantità limitata di prestiti al di fuori di un contesto di risoluzione. Inoltre, negli Stati membri esterni all’Unione bancaria, nonché nelle giurisdizioni dei paesi terzi31, la concessione del sostegno alla liquidità nel quadro della risoluzione è prevista senza limiti o con limiti ben al di sopra di quelli possibili all’interno dell’Unione bancaria, spesso con la possibilità di aumenti. La Commissione sostiene pertanto vivamente le attuali riflessioni su altre fonti e soluzioni per la concessione del sostegno alla liquidità nel quadro della risoluzione e chiede che siano concordate e attuate nel corso del 2019. È importante che siano disponibili risorse sufficienti per fornire sostegno alla liquidità a breve termine, laddove necessario. Altre questioni L’articolo 129 BRRD prevede che la Commissione effettui una riflessione sulla base delle conclusioni della relazione dell’Autorità bancaria europea (ABE) sugli obblighi semplificati, pubblicata nel dicembre 2017 a norma dell’articolo 4, paragrafo 7, della direttiva32, nonché della relazione dell’ABE sul requisito minimo delle passività ammissibili (MREL), pubblicata a norma dell’articolo 45, paragrafo 19, BRRD nel dicembre 201633. La relazione dell’ABE sugli obblighi semplificati prevede una panoramica dell’applicazione delle disposizioni della BRRD, che consentono alle autorità competenti e di risoluzione di richiedere alle banche ammissibili piani di risanamento e di risoluzione semplificati. L’ammissibilità agli obblighi semplificati

commissione ECON del Parlamento europeo, disponibile al seguente indirizzo: http:// www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2018/624423/IPOL_IDA(2018)624423_ EN.pdf; “How to provide liquidity to banks after resolution in Europe’s banking union” (Come fornire liquidità alle banche dopo la risoluzione nell’Unione bancaria dell’Europa), novembre 2018, M. Demertzis, I. Gonçalves Raposo, P. Hüttl, G. Wolff, analisi approfondita richiesta dalla commissione ECON del Parlamento europeo, disponibile al seguente indirizzo: http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/IDAN/2018/624422/ IPOL_IDA(2018)624422_EN.pdf. 31 Cfr., ad esempio, il Fondo di liquidazione ordinata degli Stati Uniti, 12 U.S.C. articolo 5390 [Dodd-Frank Act, articolo 210, lettera n)]. 32 https://www.eba.europa.eu/documents/10180/1720738/EBA+Report+on+the+Appl ication+of+Simplified+Obligations+and+Waivers+in+Recovery+and+Resolution+Planni ng.pdf. 33 https://eba.europa.eu/documents/10180/1695288/EBA+Final+MREL+Report+%28EBAOp-2016-21%29.pdf.

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deve essere determinata in base a vari fattori, come delineato all’articolo 4 BRRD e al regolamento delegato sugli obblighi semplificati34. La relazione illustra le diverse pratiche e i diversi approcci utilizzati dalle autorità competenti e di risoluzione per quanto riguarda l’applicazione degli obblighi semplificati. Alla luce di quanto precede, la relazione raccomanda un continuo monitoraggio delle divergenze rimanenti. La Commissione tiene conto della relazione e ritiene che gli obblighi semplificati siano un elemento importante del quadro per garantire efficienza e proporzionalità dell’obbligo di elaborare piani di risanamento e di risoluzione, nonché per ridurre, se del caso, l’onere amministrativo delle autorità competenti e di risoluzione. La Commissione può pertanto riflettere sull’esigenza di migliorare il quadro a tale riguardo, tenendo conto dell’esito del monitoraggio degli obblighi semplificati da parte dell’ABE. Il pacchetto bancario, adottato dai colegislatori il 16 aprile 2019, comprende varie misure intese a modificare il regime MREL e ha pertanto sostituito l’obbligo di revisione sulla base della relazione dell’ABE.

B. Interazione tra risoluzione e insolvenza e riflessione su un’eventuale ulteriore armonizzazione dell’insolvenza. Il regime di risoluzione costituisce un’eccezione alla procedura generale di insolvenza applicabile nel quadro delle normative nazionali. In particolare, qualora si determini che una banca sia in dissesto o a rischio di dissesto, nel caso in cui non vi sia alcuna misura alternativa del settore privato e sia di pubblico interesse sottoporre l’ente a risoluzione, si applicano le norme armonizzate previste dalla BRRD/dall’SRMR. In assenza di pubblico interesse a sottoporre la banca a risoluzione, la banca è liquidata, in base alle norme in materia di insolvenza conformemente alla normativa nazionale applicabile. Al momento, i diritti fallimentari nazionali applicabili alle banche in dissesto non sono ampiamente armonizzati e l’applicazione delle norme in materia di insolvenza a livello nazionale varia tra Stati membri. La BRRD e/o l’SRMR hanno

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Regolamento delegato (UE) 2016/1075 della Commissione, del 23 marzo 2016, che integra la direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le norme tecniche di regolamentazione che precisano il contenuto dei piani di risanamento, dei piani di risoluzione e dei piani di risoluzione di gruppo, i criteri minimi che l’autorità competente deve valutare per quanto riguarda i piani di risanamento e i piani di risanamento di gruppo, le condizioni per il sostegno finanziario di gruppo, i requisiti per i periti indipendenti, il riconoscimento contrattuale dei poteri di svalutazione e di conversione, le procedure e il contenuto delle disposizioni in materia di notifica e dell’avviso di sospensione e il funzionamento operativo dei collegi di risoluzione, disponibile al seguente indirizzo: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ TXT/?uri=CELEX%3A32016R1075.

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finora introdotto solo un elemento limitato di armonizzazione. In particolare, la BRRD prescrive che taluni depositi ammissibili non protetti abbiano un livello di priorità superiore nell’ambito della procedura di insolvenza nazionale rispetto ad altre passività ordinarie, non garantite e non privilegiate e che i depositi protetti abbiano un livello di priorità nell’ambito della procedura di insolvenza superiore rispetto a quelli ammissibili non protetti35. La classificazione nella procedura di insolvenza è stata ulteriormente armonizzata mediante la direttiva sulla gerarchia dei creditori delle banche che modifica la BRRD36. La direttiva ha creato una nuova classe di debito (debito chirografario “non preferito”), che in caso di insolvenza ha un grado di priorità superiore alle passività subordinate, ma inferiore alle passività chirografarie. La clausola di revisione dell’SRMR prevede che la Commissione valuti se armonizzare ulteriormente le procedure di insolvenza per gli enti in dissesto o a rischio di dissesto. Le differenze tra i regimi di insolvenza in tutta l’Unione bancaria possono essere fonte di sfide e complessità per l’autorità di risoluzione, in particolare quando l’insolvenza è impiegata come controfattuale nel contesto delle misure sulle banche transfrontaliere soggette a risoluzione (per rispettare il principio secondo cui “nessun creditore può essere più svantaggiato”37). È necessaria maggiore esperienza per comprendere se e come tali questioni debbano essere affrontate. Tuttavia, la Commissione può già individuare alcuni elementi della normativa in materia di insolvenza bancaria per le banche in dissesto, che possano meritare ulteriore riflessione. Essi comprendono una valutazione sul rango applicabile dei crediti nelle procedure nazionali di insolvenza in diversi Stati membri, anche per determinare se sia auspicabile un ulteriore allineamento tra il rango in caso di insolvenza e di risoluzione38. Potrebbe essere necessaria maggiore chiarezza sulle procedure disponibili a livello nazionale per la liquidazione di banche dichiarate in dissesto o a rischio di dissesto, ma per le quali non sia di pubblico interesse avviare un’azione di risoluzione. La BRRD e/o l’SRMR non specificano le modalità in cui dovrebbero svolgersi le procedure di insolvenza per tali banche, poiché questi elementi non sono armonizzati e la relativa determinazione spetta al legislatore nazionale.

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Articolo 108 BRRD. Direttiva (UE) 2017/2399 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2017, che modifica la direttiva 2014/59/UE per quanto riguarda il trattamento dei titoli di debito chirografario nella gerarchia dei crediti in caso di insolvenza. 37 Il principio è codificato all’articolo 34 BRRD e prevede che gli azionisti e creditori non subiscano perdite superiori in caso di risoluzione rispetto all’insolvenza. 38 In caso di armonizzazione del rango dei crediti nelle procedure di insolvenza, è opportuno prestare debita considerazione allo status di determinati creditori privilegiati, ad esempio autorità fiscali, istituzioni di sicurezza sociale, lavoratori/dipendenti. 36

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La Commissione ha avviato uno studio per acquisire una migliore comprensione di tali questioni39. L’obiettivo dello studio sarà fornire una base per l’analisi delle divergenze nei quadri in materia di insolvenza per le banche ai sensi delle diverse normative nazionali e valutare le interazioni tra tali quadri e le norme in materia di risoluzione. Lo studio dovrebbe altresì individuare potenziali opzioni per l’armonizzazione, compresa l’eventuale introduzione della procedura di liquidazione amministrativa nell’Unione europea.

C. Funzionamento del meccanismo di risoluzione unico (SRM) e del Comitato di risoluzione unico. La clausola di revisione dell’SRMR prevede che la Commissione debba effettuare una valutazione dei diversi aspetti connessi alla governance e al funzionamento del meccanismo di risoluzione unico (SRM) e del Comitato di risoluzione unico. I punti elencati per la revisione, di seguito raggruppati per comodità, comprendono: - la valutazione delle interazioni del Comitato di risoluzione unico (e del meccanismo di risoluzione unico in generale) con altri soggetti nel processo di risoluzione nonché con l’ABE, l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA) e l’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (EIOPA); - la valutazione della necessità di rivedere il livello-obiettivo o il punto di riferimento del Fondo di risoluzione unico; - la valutazione dei dispositivi di governance interna del Comitato di risoluzione unico e di altre questioni operative, in particolare il portafoglio di investimenti del Comitato; - la valutazione dello status giuridico del Comitato in qualità di agenzia dell’Unione. Quale osservazione preliminare, la Commissione osserva che il Comitato di risoluzione unico ha assunto pieni poteri di risoluzione nel 2016 e ha avuto bisogno di tempo per determinare il suo funzionamento interno e completare l’organico. Non vi sono pertanto informazioni o esperienza sufficienti per effettuare una revisione approfondita. È tuttavia possibile formulare alcune considerazioni preliminari.

39 Lo studio è stato avviato in seguito a una richiesta e una dotazione di bilancio resa disponibile dal Parlamento europeo per un progetto pilota sull’Unione bancaria. Un bando di gara è stato pubblicato il 7 settembre 2018, cfr. https://ted.europa.eu/TED/ notice/udl?uri=TED:NOTICE:389651-2018:TEXT:EN:HTML&ticket=ST-35512292-rGDZ9 PTvzUdNJZvojeKKI1EdXBHdQdHshD8PU99JSVKIfmyXIsA4zPHRCzeoTNQsdCLBE7Iu53 KzhFMVrszsG9zW-jpJZscgsw0KeumEE0mYyCS-1dilRzzzQczGl03GpkcVaEJS1fqVDK0xcT DelqmAExgb.

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Per quanto riguarda la procedura istituita nell’SRMR per l’adozione di un programma di risoluzione40, sono previste diverse fasi ed è necessario un coordinamento tra vari soggetti, compresi il Comitato di risoluzione unico, le autorità nazionali di risoluzione, la Banca centrale europea e la Commissione. Inoltre, per preservare la stabilità finanziaria ed evitare ripercussioni negative sul mercato, la procedura prevede che il programma di risoluzione sia adottato ed eseguito in brevissimo tempo. Pur presentando alcune sfide, la procedura garantisce che le decisioni sulla risoluzione delle banche siano adottate rapidamente, preservando al contempo i ruoli e le prerogative di tutti i soggetti interessati. Al di fuori della procedura di risoluzione, il Comitato di risoluzione unico ha collaborato con le autorità nazionali, conformemente alle procedure stabilite nel quadro. Nel ciclo di pianificazione della risoluzione del 2017, il Comitato di risoluzione unico ha fissato obiettivi MREL vincolanti a livello consolidato per la maggior parte dei gruppi bancari più grandi nell’ambito delle sue competenze; entro il 2020 esso intende fissare obiettivi vincolanti per tutti i gruppi nel quadro delle sue competenze. Relativamente all’ABE, il 27 novembre 2017 la Commissione ha pubblicato una relazione sul ruolo dell’ABE per quanto riguarda le procedure di mediazione in caso di risoluzione41. La relazione ha affrontato alcune questioni che l’ABE ha portato all’attenzione della Commissione. Tutte queste questioni riguardano disposizioni del regolamento istitutivo dell’ABE42, in corso di modifica nell’ambito della revisione delle autorità europee di vigilanza (AEV)43. Per quanto concerne la revisione del livello-obiettivo e del punto di riferimento per il Fondo di risoluzione unico, l’SRMR stabilisce che al termine di un periodo iniziale di otto anni dal 1° gennaio 2016, il Fondo dispone di mezzi finanziari pari ad almeno l’1 % dell’ammontare dei depositi protetti di tutti gli enti creditizi autorizzati in tutti gli Stati membri partecipanti44. Analogamente, la BRRD prevede che, entro il 31 dicembre 2024, il meccanismo di finanziamento degli Stati membri disponga di mezzi finanziari pari ad almeno l’1 % dell’ammontare dei depositi protetti di tutti gli enti autorizzati nel rispettivo territorio45. Gli Stati membri possono fissare livelli-obiettivo superiori a tale ammontare, una possibilità a cui alcuni Stati membri sono ricorsi nel recepire la BRRD.

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Articolo 18 dell’SRMR. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:52017DC0661. 42 Regolamento (UE) n. 1093/2010 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 24 novembre 2010, che istituisce l’Autorità europea di vigilanza (Autorità bancaria europea). 43 Proposta della Commissione COM(2017) 536 final del 20 settembre 2017. 44 Articolo 69, paragrafo 1, SRMR. 45 Articolo 102, paragrafo 1, BRRD. 41

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Dal 2014 sono stati adottati diversi regolamenti delegati e di esecuzione che stabiliscono le modalità relative ai contributi ex ante46 ed ex post47 da raccogliere per il Fondo di risoluzione unico e i meccanismi di finanziamento nazionali. Successivamente, all’interno dell’Unione bancaria, il Comitato di risoluzione unico ha calcolato e, mediante le autorità nazionali di risoluzione, ha avviato la raccolta dei contributi ex ante al Fondo di risoluzione unico48. Al di fuori dell’Unione bancaria, le banche stanno ora contribuendo ai meccanismi di finanziamento nazionali. Nell’ottobre 2016 l’ABE ha adottato una relazione sul punto di riferimento per fissare il livello-obiettivo per i meccanismi di finanziamento della risoluzione49. La relazione ha raccomandato di modificare la base del livello-obiettivo per i meccanismi di finanziamento della risoluzione dai depositi protetti alle passività totali meno i depositi protetti, al fine di conseguire maggiore coerenza con il quadro normativo. Tuttavia, la relazione ha altresì evidenziato che le autorità e gli enti di risoluzione devono conoscere con certezza i contributi durante la preparazione dei meccanismi di finanziamento della risoluzione e che è opportuno evitare la volatilità nell’ambito del livello-obiettivo durante tale periodo. In questa fase, il Fondo di risoluzione unico è ancora in corso di costituzione e non è mai stato utilizzato per alcuna azione di risoluzione. È pertanto opportuno prestare attenzione al raggiungimento del livello-obiettivo e alla garanzia della piena attuazione delle disposizioni giuridiche vigenti. Le modifiche

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Regolamento delegato (UE) 2015/63 della Commissione, del 21 ottobre 2014, che integra la direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda i contributi ex ante ai meccanismi di finanziamento della risoluzione e regolamento di esecuzione (UE) 2015/81 del Consiglio, del 19 dicembre 2014, che stabilisce condizioni uniformi di applicazione del regolamento (UE) n. 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda i contributi ex ante al Fondo di risoluzione unico. 47 Regolamento delegato (UE) 2016/778 della Commissione, del 2 febbraio 2016, che integra la direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda le circostanze e le modalità secondo le quali il pagamento dei contributi straordinari ex post può essere parzialmente o integralmente rinviato, e i criteri per l’individuazione delle attività, dei servizi e delle operazioni per quanto concerne le funzioni essenziali e per l’individuazione delle linee di business e dei servizi connessi per quanto attiene alle linee di business principali. 48 https://srb.europa.eu/en/content/ex-ante-contributions-0. 49 In conformità dell’articolo 102, paragrafo 4, BRRD. Report on the appropriate target level basis for resolution financing arrangements (Relazione sulla base appropriata del livello-obiettivo per i meccanismi di finanziamento della risoluzione), EBAOP-2016-18, 28 ottobre 2016, disponibile al seguente indirizzo: http://www.eba.europa. eu/documents/10180/1360107/Report+on+the+appropriate+target+level+basis+for+resol ution+financing+arrangements+%28EBA-OP-2016-18%29.pdf.

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del livello-obiettivo o del punto di riferimento, nonché dei contributi non sembrano necessarie in questa fase della procedura. Qualsiasi ulteriore valutazione potrebbe essere effettuata solo dopo che l’intero meccanismo di concessione del finanziamento in caso di risoluzione sarà completato e potenzialmente sottoposto a verifica in casi concreti. È sufficiente affermare in questa fase che l’aumento della capacità di assorbimento delle perdite del settore privato, in particolare a seguito delle norme in materia di MREL previste dal pacchetto bancario, e la crescita del Fondo di risoluzione unico possono essere considerati strumenti validi per ridurre la possibile esposizione di emittenti sovrani al settore bancario. Per quanto riguarda la questione della governance del Comitato di risoluzione unico e il cambiamento del suo status giuridico da agenzia a istituzione dell’UE50, viste la sua recente creazione e l’esperienza pratica limitata acquisita finora, non vi sono elementi sufficienti in questa fase per suggerire modifiche alle disposizioni vigenti. Al riguardo, la Commissione sottolinea che tale cambiamento dello status giuridico richiederebbe una modifica del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Infine, in vista della potenziale adesione all’Unione bancaria degli Stati membri non partecipanti, si potrebbe riflettere sulle modalità di partecipazione al meccanismo di risoluzione unico (SRM) degli Stati membri in via di adesione.

IV. Conclusioni. La Commissione fa il punto sulle questioni qui esaminate, sulla base dell’esperienza limitata da essa acquisita dalla data di applicazione del quadro di risoluzione. Il quadro è stato applicato solo in un numero limitato di casi. Di questi, solo uno ha riguardato la risoluzione di un ente a norma dell’SRMR. È inoltre opportuno notare che alcuni di questi casi riguardavano “questioni pregresse” accumulatesi nel corso della crisi finanziaria o precedentemente. Inoltre, le disposizioni concernenti lo strumento del bail-in e l’istituzione del Comitato di risoluzione unico sono diventate applicabili solo a partire dal 1° gennaio 2016. Altri elementi, ad esempio la pianificazione della risoluzione per enti più grandi e complessi e le disposizioni concernenti il MREL, richiedono un’introduzione graduale per essere pienamente attuati.

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L’articolo 94, paragrafo 1, lettera a), punto i), SRMR prevede che, nell’ambito della revisione della normativa, la Commissione valuti se “è necessario che le funzioni attribuite dal presente regolamento al Comitato, al Consiglio e alla Commissione siano esercitate esclusivamente da un ente indipendente dell’Unione e, in tal caso, se sono necessarie eventuali modifiche alle disposizioni pertinenti anche a livello di diritto primario”.

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Inoltre, talune parti essenziali del quadro, comprese le disposizioni sul MREL, i poteri di moratoria e il riconoscimento delle passività disciplinate dal diritto di un paese terzo, sono in fase di modifica e, una volta in vigore, si applicheranno i periodi di transizione. Alla luce di quanto precede, in questa fase è prematuro elaborare e adottare proposte legislative. La Commissione continuerà, tuttavia, a monitorare l’applicazione del quadro di risoluzione e valuterà ulteriormente le questioni individuate in precedenza, anche in considerazione degli elementi aggiuntivi previsti dallo studio avviato di recente sull’armonizzazione dei diritti fallimentari nazionali e dell’esperienza derivante dall’eventuale applicazione futura del quadro di risoluzione. A tal fine, la Commissione avvierà inoltre una discussione approfondita delle questioni individuate nella presente relazione in merito alla BRRD/all’SRMR (nonché delle questioni che possano emergere dall’applicazione del quadro di risoluzione) con esperti nominati dal Parlamento europeo, dagli Stati membri e da tutti i portatori di interessi pertinenti. In tale contesto, la Commissione terrà conto anche dell’interazione con l’evoluzione delle politiche in relazione all’assicurazione dei depositi, compreso il lavoro del gruppo ad alto livello istituito dall’Eurogruppo51, e della revisione della direttiva sul sistema di garanzia dei depositi52.

51 Relazione dell’Eurogruppo, destinata ai leader, sull’approfondimento dell’UEM del 4 dicembre 2018. 52 Direttiva 2014/49/CE.

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Il punto della Commissione europea sul quadro normativo applicabile in caso di crisi bancarie: qualche annotazione per la prossima legislatura Sommario: 1. Il contesto normativo. – 1.1. La necessità di una visione integrata (conseguenza di un disposto regolatorio articolato e complesso e di uno stato dei lavori sempre in corso). – 2. La struttura della Relazione. – 3. I rilievi e le proposte avanzate. – 4. Un’ultima riflessione.

1. Il contesto normativo. La Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio del 30 aprile 2019 sull’applicazione e sulla revisione della direttiva 2014/59/UE (direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche) e del regolamento (UE) n°806/2014 (regolamento sul meccanismo di risoluzione unico) risponde ad un obbligo previsto dall’art. 129 della direttiva 2014/59/UE, del 15 maggio 2014, ormai nota con l’acronimo inglese “BRRD” (Bank Recovery and Resolution Directive)1 e dall’art. 94 del regolamento (UE) n. 806/2014 del 15 luglio 2014, istitutivo del Meccanismo di risoluzione unico (MRU)2. L’art. 129 attribuisce infatti alla Commissione europea il compito di riesaminare l’attuazione della direttiva e di presentare una relazione, se

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Sulla nuova disciplina delle crisi delle banche esiste ormai una letteratura copiosa, si vedano, tra i lavori più recenti (anche al fine di reperire ulteriori indicazioni bibliografiche), Boccuzzi, Il regime speciale della risoluzione bancaria. Obiettivi e strumenti, Bari, 2018; Ciraolo, Il finanziamento “esterno” delle risoluzioni bancarie. Tra tecniche normative e diritto vivente, Padova, 2018; Maccarone, La gestione delle crisi bancarie tra diritto europeo e norme interne, in Dir. banc., 2018, I, pp. 11 ss.; i contributi al convegno su La risoluzione bancaria (organizzato da questa Rivista il 20 giugno 2018, gli atti del quale sono pubblicati nel n. 4 del 2018) di: Nigro, Introduzione e Considerazioni conclusive, rispettivamente pp. 657 s. e 746 ss., Vattermoli, Profili generali: struttura, natura, funzioni, pp. 659 ss., Santoni, L’apertura, pp. 673 ss., Perrino, Gli organi, pp. 685 ss., Inzitari, Dissesto, insolvenza e misure di risoluzione, pp. 710 ss., Amorosino, Le tutele, pp. 722 ss., e Guizzi, I rapporti con altri procedimenti o strumenti di soluzione delle crisi bancarie, pp. 734 ss. 2 Il testo in pdf della Relazione è scaricabile anche al link https://eur-lex.europa.eu/ LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2019:0213:FIN:IT:PDF.

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opportuno anche accompagnata da una proposta legislativa, agli altri co-legislatori. Nel dettaglio si richiede alla Commissione di valutare: – «la necessità di eventuali modifiche volte a minimizzare le divergenze a livello nazionale» sulla base delle relazioni che l’Autorità bancaria europea (ABE) è tenuta a fare ex artt. 4, par. 7 (riguardante la semplificazione degli obblighi all’interno della pianificazione del risanamento e della risoluzione), e 45, par. 19 (relativo all’applicazione del requisito minimo di fondi propri e passività ammissibili), della BRRD; – il ruolo conferito dalla BRRD all’ABE, sui diversi profili del «funzionamento», della «efficacia» e del «condurre mediazioni»; nello specifico, e relativamente a quest’ultimo aspetto, entro il 3 luglio 2017 la Commissione avrebbe dovuto riesaminare l’applicazione degli artt. 13, 18 e 45 rispettivamente in tema di Requisiti e procedura per i piani di risoluzione di gruppo, Poteri di affrontare o rimuovere impedimenti alla possibilità di risoluzione: regime di gruppo e Applicazione del requisito minimo. Il trovarsi sullo scorcio della legislatura allora in corso e il fatto che successivamente all’emanazione della BRRD si siano realizzate o paventate importanti riforme normative ha fatto sì che la scadenza del 1° giugno 2018 prevista dall’art. 129 della BRRD slittasse di diversi mesi, al fine di tenere presenti anche gli sviluppi intercorsi nel quadro regolatorio. 1.1. La necessità di una visione integrata (conseguenza di un disposto regolatorio articolato e complesso e di uno stato dei lavori sempre in corso). In effetti, la realizzazione dei primi due pilastri dell’Unione bancaria e la gestazione della BRRD, a loro volta in diretto collegamento con la riforma della c.d. soft law a livello internazionale3, risultano fortemente intrecciati. Successivamente all’istituzione, nei fatti molto rapida, del Meccanismo di vigilanza unico (d’ora in poi MVU) con il regolamento n. 1024 del 15 ottobre 2013, l’accentramento decisionale della gestione delle crisi – ritenuto punto di svolta per uscire dal “dramma” del too big to fail e dei salvataggi delle banche con denaro pubblico – seguirà un percorso ad ostacoli per le forti resistenze politiche nazionali. L’accordo per la creazione del Meccanismo di risoluzione unico trova concreta

3 Ampiamente su questi aspetti sia permesso il rinvio a Brozzetti, “Ending of too big to fail” tra soft law e ordinamento bancario europeo. Dieci anni di riforme, Bari, 2018, pp. 124 ss. e passim.

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formalizzazione con la risoluzione del Parlamento europeo del 15 aprile 2014, cui segue il Trattato intergovernativo concluso il 21 maggio 2014, finalizzato all’accentramento dei fondi nazionali con la costituzione del Fondo unico per le risoluzioni bancarie; l’adozione della proposta istitutiva del MRU si realizza infine con il regolamento UE n. 806/2014 del 15 luglio 2014 (d’ora in poi reg. MRU), che ne fissa l’entrata in vigore al 1° gennaio 2015, mentre la piena operatività dei meccanismi ivi previsti (in particolare il bail-in) è posticipata al 1° gennaio 20164. Da notare che il Trattato intergovernativo viene siglato nella settimana successiva all’emanazione della BRRD, provvedimento da considerare “strategico/ indispensabile” poiché fornisce il tessuto normativo di base per i paesi appartenenti all’Unione europea e al contempo fa anche da supporto per la gestione accentrata delle patologie bancarie nell’eurozona5. A seguito dell’epocale crisi finanziaria del 2017-2008 l’Europa ha così provveduto ad assicurare una supervisione ritenuta maggiormente efficace attraverso un rafforzamento degli strumenti di vigilanza ed una ge-

4 Sul tema di recente si possono vedere i saggi di Capolino, The Single Resolution Mechanism: Authorities and Proceedings, in The Palgrave Handbook of European Banking Union Law, a cura di Chiti e Santoro, Cham, Switzerland, 2019, pp. 247 ss.; Rispoli Farina e Scipione, Recovery and Resolution Planning, ivi, pp. 271 ss.; Binder, The Relevance of the Resolution Tools within the Single Resolution Mechanism, ivi, pp. 299 ss.; Lamandini e Ramos Muñoz, Minimum Requirement for own Capital and Eligible Liabilities, ivi, pp. 321 ss.; Santoro e Mecatti, Write-down and Conversion of Capital Instruments, ivi, pp. 349 ss.; Silva Morais, Lessons from the First Resolution Experiences in the Context of Banking Recovery and Resolution Directive, ivi, pp. 371 ss.; Brescia Morra, The Third Pillar of the Banking Union and its Troubled Implementation, ivi, pp. 393 ss.; Schillig, BRRD/SRM, corporate insolvency law and EU state aid: the trifurcated EU framework for dealing with banks in distress, in The European Banking Union and the role of law, a cura di Lo Schiavo, Cheltenham, United Kingdom, 2019, pp. 238 ss. Per uno sguardo d’assieme sui tempi ed i luoghi della formazione del nuovo quadro di regolazione a livello europeo sia altresì consentito il rinvio a Brozzetti, “Ending of too big to fail”, cit., pp. 77 ss., ove diffusi riferimenti bibliografici. 5 Nella Relazione della Commissione Europea alla Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che fissa norme e una procedura uniformi per la risoluzione delle crisi degli enti creditizi e di talune imprese di investimento nel quadro del meccanismo unico di risoluzione delle crisi e del Fondo unico di risoluzione delle crisi bancarie e che modifica il regolamento (UE) n. 1093/2010, Bruxelles, 10.7.2013 COM(2013) 520 final, si ricorda come nella primavera/estate del 2013 il Consiglio europeo portasse avanti il completamento dell’Unione bancaria mediante l’istituzione dei primi due pilastri e sostenesse altresì la necessità di trovare un accordo sulla proposta di direttiva che istituiva il quadro di risanamento e risoluzione delle crisi degli enti creditizi e delle imprese di investimento: cfr. in part. p. 2.

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stione più efficiente dei dissesti bancari, cercando anche di minimizzare i costi per i contribuenti. Lo stesso meccanismo di vigilanza unico ha potuto trovare il suo presupposto e il necessario complemento nell’armonizzazione dei regimi nazionali di gestione delle crisi bancarie prevista dalla BRRD, che poggia su misure sia preventive, evitanti l’aggravamento di uno stato di malessere, sia di gestione di una crisi ormai conclamata. Si è poc’anzi accennato che anche l’art. 94 del reg. MRU prevede una clausola di revisione normativa. La disposizione attribuisce infatti alla Commissione europea il compito di pubblicare entro, il 31 dicembre 2018, una relazione sull’applicazione dello stesso «ponendo un accento particolare sul monitoraggio dell’impatto potenziale sul corretto funzionamento del mercato interno». Il legislatore declina su più piani il processo di valutazione riferito al secondo pilastro dell’Unione bancaria, conferendo un ruolo propositivo e, diciamo così, di “alta supervisione” alla Commissione. a) Ovviamente viene messo al centro del processo valutativo il funzionamento del MRU – da sottolineare l’uso nella traduzione italiana dell’acronimo inglese «SRM» – e se ne indicano nel dettaglio i punti ritenuti fondamentali: (i) l’efficienza (in termini di costi); (ii) l’impatto nel concreto dell’attività di risoluzione rispetto agli «interessi dell’Unione nel suo insieme» nonché alla coerenza ed integrità del mercato unico sui servizi finanziari (l’attenzione va in ispecie verso l’«impatto potenziale sulle strutture dei sistemi bancari nazionali all’interno dell’Unione, rispetto agli altri sistemi bancari»); (iii) l’efficacia del quadro normativo in tema di «cooperazione» e «condivisione delle informazioni» sia nell’ambito del MRU, sia con il MVU, le autorità nazionali di risoluzione, quelle competenti e le autorità di risoluzione degli stati membri che non vi partecipano. L’art. 94, par. 1, lett. a), scende del dettaglio delle competenze della Commissione richiedendo alla stessa di valutare: 1) se la governance realizzata debba o meno essere modificata, e in particolare se le funzioni attribuite al Comitato di risoluzione unico, al Consiglio e alla Commissione possano essere esercitate «esclusivamente da un ente indipendente dell’Unione», apportando in tal caso le eventuali modifiche normative, ed anche se siano adeguate le ripartizioni dei compiti, i meccanismi di voto ed i rapporti del Comitato con la Commissione ed il Consiglio; 2) l’idoneità della cooperazione all’interno dell’architettura istituzionale dell’UE (MRU, MVU, CERS, ABE, ESMA, EIOPA e altre autorità appartenenti al SEVIF);

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3) se sia stato «spezzato» quel «legame tra debito sovrano e rischio bancario» (il quale – va ricordato – ha fatto da molla all’epocale riforma dell’Unione economica e monetaria, al cui interno si colloca la stessa Unione bancaria); 4) la solidità e la diversificazione delle attività costituenti il portafoglio di investimenti del Fondo di risoluzione unico (il Comitato, che lo amministra, deve infatti adottare – ex art. 75, reg. MRU – «una strategia di investimento prudente e sicura» orientandosi verso determinate tipologie di prodotti indicati al par. 3); 5) l’idoneità del parametro che fissa il livello-obiettivo del Fondo (che alla fine del periodo transitorio dovrebbe disporre – ex art. 60, par. 1, reg. MRU – di mezzi finanziari pari ad almeno l’1% dei depositi protetti degli enti creditizi autorizzati negli stati membri partecipanti) ed altresì la possibilità di variare lo stesso, al fine di «garantire condizioni uniformi all’interno dell’Unione». In sintesi, sono dunque i meccanismi di governance interni ed esterni, i rapporti tra i diversi protagonisti in campo, gli obiettivi prefissati ed anche lo status dello stesso Comitato di risoluzione, operante quale “agenzia” dell’Unione, ad essere posti sotto osservazione. b) Il rapporto sull’applicazione del reg. MRU deve altresì concentrarsi, ai sensi dell’art. 94, par. 1, lett. b-e, sulla: 1) efficacia delle disposizioni riferite alla indipendenza e responsabilità; 2) interazione tra il Comitato e l’ABE, le autorità nazionali di risoluzione dei paesi membri non partecipanti e quelle competenti dei paesi terzi; 3) «necessità di adottare misure tese ad armonizzare le procedure di insolvenza per gli enti in dissesto». Infine, il par. 3 dell’art. 94 concede alla Commissione la facoltà di rivedere il regolamento istitutivo del MRU nella fase di revisione della direttiva BRRD, la quale è stata in effetti avviata dalla Commissione stessa il 23 novembre del 2016 con la presentazione del c.d. pacchetto per il settore bancario. Trattasi di una serie di proposte legislative orientate all’introduzione di misure: – per la riduzione dei rischi, attraverso regolamenti e direttive riguardanti i requisiti prudenziali delle banche (si propongono modifiche al codice bancario europeo costituito dalla CRD4, la direttiva 2013/36/UE, e dal CRR, il regolamento UE n. 575/2013); – sul risanamento e la risoluzione delle banche (tramite modifiche sia della BRRD sia del reg. MRU).

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Il pacchetto, dopo i vari passaggi normativi, è stato approvato e pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’UE del 7 giugno 2019, n. L1506, ed è costituito da due regolamenti e due direttive: – regolamento (UE) 2019/876 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2019, che modifica il regolamento (UE) n. 575/2013 per quanto riguarda il coefficiente di leva finanziaria, il coefficiente netto di finanziamento stabile, i requisiti di fondi propri e passività ammissibili, il rischio di controparte, il rischio di mercato, le esposizioni verso controparti centrali, le esposizioni verso organismi di investimento collettivo, le grandi esposizioni, gli obblighi di segnalazione e informativa e il regolamento (UE) n. 648/2012; – regolamento (UE) 2019/877 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2019, che modifica il regolamento (UE) n. 806/2014 per quanto riguarda la capacità di assorbimento delle perdite e di ricapitalizzazione per gli enti creditizi e le imprese di investimento; – direttiva (UE) 2019/878 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2019, che modifica la direttiva 2013/36/UE per quanto riguarda le entità esentate, le società di partecipazione finanziaria, le società di partecipazione finanziaria mista, la remunerazione, le misure e i poteri di vigilanza e le misure di conservazione del capitale; – direttiva (UE) 2019/879 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2019, che modifica la direttiva 2014/59/UE per quanto riguarda la capacità di assorbimento di perdite e di ricapitalizzazione degli enti creditizi e delle imprese di investimento e la direttiva 98/26/CE 296. Il pacchetto è stato approvato dopo la presentazione della Relazione della Commissione del 30 aprile 2019, che precede queste note di commento (di seguito Relazione), ma nei fatti già nei mesi di gennaio e febbraio i lavori erano conclusi, avendo trovato soluzione tecnica le questioni in sospeso7. Alla luce dello stato di work in progress riguardo al quadro istituzionale dell’UE, la Relazione assume particolare interesse poiché fa il punto in merito alla questione della soluzione delle crisi bancarie nell’UE.

6 Il numero della Gazzetta è interamente dedicato alla normativa che qui interessa e si può vedere al link https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=OJ:L:20 19:150:FULL&from=IT. 7 Si veda Consiglio dell’Unione europea, Relazione sullo stato di avanzamento dei lavori relativi all’unione bancaria, Bruxelles, 4 giugno 2019, in part. p. 3 (reperibile al link https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9729-2019-ADD-1/it/pdf); il pacchetto bancario viene citato in forma di proposta a nt. 9 della Relazione in commento.

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2. La struttura della Relazione. La Relazione si articola in 4 parti: – la prima contiene una breve «introduzione» sui pilastri e sui principi del quadro giuridico armonizzato dell’Unione applicabile alle crisi bancarie, costituito dalla direttiva sul risanamento e sulla risoluzione delle banche e dal regolamento sul meccanismo di risoluzione unico, rispettivamente individuati con gli acronimi “BRRD” e “SRMR” (di cui si farà uso nel prosieguo); – la seconda presenta una «panoramica dello stato di avanzamento in termini di applicazione e completamento del quadro di risoluzione», centrata su tre aspetti riferiti (i) all’avanzamento del recepimento della BRRD nonché dell’attuazione del quadro di risoluzione da parte delle autorità di risoluzione, (ii) alle modifiche del MREL8 presenti nel pacchetto bancario, (iii) ai casi di applicazione delle disposizioni sulla risoluzione; – la terza si apre a profili su cui la Commissione ritiene necessario qualche approfondimento, riguardanti (A) l’«applicazione della BRRD e dell’SRMR» (sul piano, fra l’altro, della «ricapitalizzazione cautelativa», delle «misure di intervento precoce», del «sostegno comune al Fondo di risoluzione unico» e dell’«accordo intergovernativo», della «liquidità in caso di risoluzione»), (B) l’«interazione tra risoluzione e insolvenza» e una «riflessione su un’eventuale ulteriore armonizzazione dell’insolvenza», ed infine (C) il «funzionamento del meccanismo di risoluzione unico (SRM) e del Comitato di risoluzione unico»; – nella quarta parte la Commissione presenta alcune sintetiche «conclusioni». Nella sostanza vengono quindi toccati gli aspetti della normativa ritenuti cruciali da parte del legislatore primario e pertanto collocati all’interno delle clausole di revisione, che attribuiscono alla Commissione il rilevante compito di tenerne le fila, anche in collaborazione con le altre autorità istituzionali e tecniche coinvolte. Rinviamo alla lettura della Relazione per i necessari approfondimenti, di seguito ne proponiamo una lettura a volo di rondine, limitandoci a segnalare i punti che possono maggiormente colpire l’attenzione.

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Ne accenneremo nel prossimo paragrafo sub a).

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3. I principali rilievi e le proposte avnzate. Il “quadro di risoluzione dell’UE” (per usare la terminologia della Commissione) viene esaminato nella Relazione sulla base dell’insieme dei criteri presenti nelle clausole di revisione contenute nei richiamati artt. 129 BRRD e 94 reg MRU. a) Riguardo allo «stato di recepimento» di tale quadro rispetto alla direttiva, la Commissione fa presente come la BRRD, recepita in tutti gli stati membri, sia in fase di esame sul piano della correttezza delle misure di recepimento; siamo quindi nell’ambito del quarto livello della c.d. procedura Lamfalussy ove si collocano i poteri di controllo della Commissione tesi a far sì che la regolazione prevista nel diritto europeo (primario o delegato) venga effettivamente attuata9. Con riferimento invece al recepimento del framework normativo da parte delle autorità di risoluzione, viene in luce soprattutto la problematica della capacità di assorbimento delle perdite e di ricapitalizzazione necessaria, idonea a garantire che durante la risoluzione le banche possano continuare a svolgere le funzioni essenziali senza ricorso ai fondi pubblici e senza rischio per la stabilità finanziaria. Trattasi del c.d. requisito MREL (Minimum Requirement for own funds and Eligible Liabilities) applicabile alle banche e alle imprese d’investimento europee che trova nella disciplina della TLAC (Total Loss-Absorbing Capacity) – approvata dal G20 nel novembre del 2015 e applicabile alle G-SIB (le istituzioni finanziarie di rilevanza sistemica a livello globale) – la propria origine ed il proprio parametro di riferimento10. Nella Relazione la Commissione dà conto dei lavori effettuati dall’ABE sui collegi di risoluzione nonché di quelli del Comitato di risoluzione unico rispetto a temi quali la “continuità operativa” ed i “sistemi informatici gestionali”. In merito si sottolinea prevalentemente lo stato di lavori in corso e il fatto che le banche siano ancora dentro una «fase di transizione».

9 Fra i molti si vedano, Antonucci, La vigilanza bancaria nell’Unione Europea: fra cooperazione e metodo Lamfalussy, in Studi in onore di Piero Schlesinger, Milano, 2004, pp. 3185 ss., e Ciraolo, Il processo di integrazione del mercato unico dei servizi finanziari, dal metodo Lamfalussy alla riforma della vigilanza finanziaria europea, in Il diritto dell’economia, 2011, pp. 415 ss. 10 Qualche rilievo critico in Brozzetti, “Ending of too big to fail”, cit., pp. 62 s. e 128 ss.

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Posto che gli anzidetti due requisiti sono accomunati della stessa finalità (assicurare l’assorbimento delle perdite di una banca prossima alla soglia dell’insolvenza), il problema da risolvere consisteva nel loro raccordo all’interno di un nuovo quadro comune, poi realizzatosi con le modifiche apportate dal citato “pacchetto bancario”. In questo trovano infatti collocazione, fra l’altro, il riconoscimento contrattuale del bailin – approccio da sempre sostenuto (senza però essere ascoltate) dalle nostre autorità di vigilanza11 – ed anche l’istituto della moratoria, previsti, rispettivamente, dagli artt. 55 e 33 bis della BRRD, cosi come novellati dall’art. 1, par. 21 e par. 12, della citata direttiva 2019/879/UE. b) Di interesse la ricognizione fatta dalla Relazione sui fenomeni di crisi realizzatisi nell’Unione europea dopo l’entrata in vigore del nuovo framework normativo. Come prevedibile l’Italia occupa un posto di primo piano, avendo sperimentato (nostro malgrado)12 buona parte degli strumenti da esso previsti13:

11 Lo riferisce Visco, fra l’altro, in Banche e finanza dopo la crisi: lezioni e sfide. Lectio magistralis del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, Roma, 16 aprile 2018, cfr. in part. pp. 11 s., il testo è reperibile al link https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/ interventi-governatore/integov2018/Visco_16042018_trentennale_economia_tor_ vergata.pdf). 12 A parte il problematico funzionamento del nuovo quadro europeo sulla risoluzione (per approfondimenti sia consentito il rinvio a Brozzetti, “Ending of too big to fail”, cit., in part. pp. 148 ss. ove diffusi riferimenti bibliografici cui si rinvia), entra in gioco il discutibile ruolo assunto dalla Commissione europea nel caso Tercas: si veda nel n. 2 del 2019 di questa Rivista, parte prima, la sentenza del Tribunale UE 19 marzo 2019, p. 339 ss., con il commento di Amorosino, La Commissione europea e la concezione strumentale di “mandato pubblico” (a proposito del “caso FITD/Tercas” – Sentenza del Tribunale UE 19 marzo 2019), pp. 354 ss. 13 Approfondimenti, tra i lavori più recenti e in aggiunta a quelli già indicati, in: Bonfatti, Crisi bancarie in Italia 2015-2017, in rivista.dirittobancario.it, 2018, pp. 247 ss.; Costi, Tutela del risparmio e Costituzione: storia e attualità dell’art. 47, in Banca, impresa, soc., 2018, pp. 393 ss.; Donato, Zeno Rotondi e A. Scognamiglio, La disciplina europea sulle crisi bancarie: dal modello normativo all’impatto per il sistema bancario italiano, ivi, 2018, pp. 79 ss.; Lener, Profili problematici delle nuove regole europee sulla gestione delle crisi bancarie, ivi, 2018, pp. 13 ss.; Locatelli, Schena, Coletti e Dabbene, Gestione e costi delle crisi bancarie dopo la BRRD, ivi, 2018, pp. 27 ss.; Michieli, Il risparmio tradito, tra disciplina generale e regole speciali, in Mercato, concorrenza, regole, 2018, pp. 555 ss.; e Stanghellini, Tutela dell’impresa bancaria e tutela dei risparmiatori, in Banca, impresa, soc., 2018, pp. 421 ss.. Per un interessante quadro d’assieme si rinvia inoltre ai contributi dei relatori al convegno su “La nuova regolazione post crisi tra difficoltà applicative e ricerca di coerenza sistemica”, svoltosi a Napoli, nei giorni 9 e 10

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(i) con la risoluzione amputata del bail-in, ma assoggettata al burden sharing richiesto dalle regole europee sugli aiuti di stato, riservata alle quattro “piccole” banche (Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti); (ii) con dapprima il sostegno alla liquidità in via preventiva applicato sia al Monte dei Paschi di Siena sia alla Banca popolare di Vicenza e a

ottobre 2017, pubblicati nel suppl. n. 3 del 2017 della Riv. trim. dir. econ., per i temi qui trattati si vedano in particolare: Capriglione, Difficoltà applicative del SRM nel salvataggio delle popolari Venete, pp. 4 ss., Masera, BU rules on banking crises: the need for revision, simplification and completion, pp. 33 ss., Rossano, L’esclusione dell’interesse pubblico nell’interpretazione delle Autorità europee, pp. 93 ss., Pellegrini, Il caso delle banche Venete: le contraddittorie opzioni delle Autorità europee e la problematica applicazione degli aiuti di stato, pp. 107 ss., Siclari, Il caso delle “banche Venete” e i criteri di scelta tra risoluzione e liquidazione coatta amministrativa, pp. 124 ss., Lemma, Messa in sicurezza del mercato bancario: problematica dei crediti deteriorati e resilienza degli intermediari, pp. 145 ss., Sacco Ginevri, Le banche italiane verso l’azionariato diffuso: profili organizzativi e di mercato, pp. 161 ss., Sabbatelli, La portata dispositiva del cross guarantee scheme alla luce della recente regolazione, pp. 177 ss., Urbani, La cessione ex lege n. 121/2017 e la posizione degli azionisti delle due “banche Venete” poste in liquidazione coatta amministrativa, pp. 190 ss., e G. Desiderio, Prospettive di sviluppo della normativa UE in materia di vigilanza e crisi bancarie, pp. 207 ss.. Nel suppl. n. 4 del 2017 sempre della Riv. trim. dir. econ., si possono altresì vedere i saggi di Sartori, Il sistema bancario nella prospettiva dei nuovi meccanismi di risanamento, pp. 1 ss.; Sepe, La vecchia e la nuova socializzazione delle perdite: elementi di continuità e di discontinuità, pp. 17 ss., e Troiano, Interventi di rafforzamento patrimoniale e assetti proprietari, pp. 41 ss. Si segnala infine che nel volume La gestione delle crisi bancarie: strumenti, processi, implicazioni nei rapporti con la clientela, curato da Troiano e Uda, Wolters Kluwer Padova, 2018, sono invece contenuti gli atti dell’omonimo convegno svoltosi a Sassari nei giorni 16 e 17 giugno 2017, con un programma molto ricco e con la partecipazione di autorevoli studiosi ed esperti (locandina al link https://giuriss.uniss.it/ sites/st07/files/locandina_web_crisi_bancarie_0.pdf); per gli aspetti che qui interessano si possono vedere, fra gli altri, Perassi, SSM e SRM, due sistemi a confronto, pp. 128 ss.; Amorosino, Individuazione e tutela dell’interesse pubblico nella regolazione delle crisi bancarie, pp. 165 ss.; Pellegrini, Piani di risanamento e misure di early intervention, pp. 2013 ss.; Ricciuto, Bail-in e strumenti di soluzione delle crisi bancarie, p. 249 ss.; Uda, Il bail-in e i principi della par condicio creditorum e del no creditor worse-off (ncwo), pp. 257 ss.; Berti De Marinis, L’incidenza della direttiva BRRD sulla distribuzione dei prodotti assoggettabili a bail-in, p. 327 ss.; Sciarrone Alibrandi e Grossuele, L’impatto delle crisi bancarie nei rapporti con la clientela, pp. 349 ss.; Sartori, Sul “diritto della gestione degli attivi problematici (non performing loans)”: linee dell’evoluzione normativa, pp. 397 ss.; Guarracino, Le misure di sostegno finanziario pubblico straordinario, p. 417 ss.; e Antonucci, Gli “aiuti di stato” al settore bancario: le regole d’azione della regia della Commissione, pp. 437 ss.

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Veneto Banca, e poi, rispettivamente, con la ricapitalizzazione cautelativa ricevuta dall’MPS e la liquidazione amministrativa regolata dal t.u.b. toccata invece in sorte alle due banche venete (sottratte alla risoluzione per la “supposta” assenza del requisito dell’interesse pubblico)14. A livello europeo, inoltre, emerge il primo caso di risoluzione realizzatosi nel giugno 2017 per il portoghese Banco Popular, mentre hanno ricevuto il sostegno alla liquidità e, a seguire, la ricapitalizzazione precauzionale due banche greche (National Bank of Greece e Piraeus Bank), è infine anche segnalato il caso di una banca lettone con una filiazione in Lussemburgo, non assoggettata alla risoluzione per mancanza di interesse pubblico. c) Anche se l’esperienza applicativa del quadro di risoluzione risulta per la Commissione «limitata», dello stesso vengono però presi in considerazione taluni aspetti ritenuti degni di approfondimento. – Rispetto alla ricapitalizzazione cautelativa, si solleva il problema della mancanza di una definizione di solvibilità che la stessa presuppone15 e di “quale autorità” debba confermare che la banca sia “solvente” ovvero individuare le perdite realizzabili nel futuro che non possono essere coperte attraverso detta misura. La Commissione informa che in collaborazione con la BCE e il Comitato di risoluzione si stanno definendo, alla luce dei casi emersi, le migliori prassi, il ruolo delle prove di stress ed i profili valutativi delle attività. – Rispetto alle misure di intervento precoce, la Commissione segnala la sola adozione della sostituzione dell’organo amministrativo adottata dalla BCE per l’italiana CARIGE. Nella Relazione risultano interessanti i rilievi sulle possibili sovrapposizione tra i plessi normativi – le relative misure nazionali di recepimento della BRRD ed i poteri di vigilanza previsti dalla CRD4 e dal MVU – nonché la “riflessione” circa l’opportunità di riprodurre tali poteri di intervento nel quadro del SRMR «per evitare il ricorso a misure di recepimento nazionali divergenti»16.

14 Ampie considerazioni su tale aspetto ed altresì diffusi riferimenti di dottrina in Brozzetti, Il decreto legge n. 99/2017: un’altra pietra miliare per la “questione bancaria” italiana, in Riv. trim. dir. econ., 2018, I, pp. 24 ss. (primi rilievi anche in Id., Una soluzione ad hoc per il dissesto di due banche venete, in Dir. banc., 2017, II, pp. 119 ss.). 15 Il tema è trattato, fra i molti, da Porzio, La banca insolvente, in L’unione bancaria europea, a cura di Chiti e Santoro, Pisa, 2016, pp. 407 ss., in part. pp. 412 ss. 16 Trattasi di un nodo chiave del nuovo assetto bancario europeo su cui si è

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In definitiva, la strada tracciata risulterebbe (ovviamente) più scorrevole se le legislazioni nazionali subissero un processo di armonizzazione sempre più spinta17. E ciò rappresenta la sfida per la nuova Commissione europea. – Con riguardo alle risorse del Fondo di risoluzione unico, la Commissione ribadisce l’auspicio di predisporre quanto prima il sostegno comune (seppure correlato ai progressi nella riduzione dei rischi), con possibilità anche di rivedere alcuni termini dell’accordo intergovernativo18. – Rispetto al profilo della sufficiente liquidità da garantire ad una banca soggetta a risoluzione, che chiama in causa sia il ruolo del Fondo di risoluzione sia quello del Comitato di risoluzione unico – cui è consentito ex art. 73 SRMR di contrarre prestiti esterni –, si segnala che la Commissione sostiene l’idea che il Comitato possa contrarre «una quantità limitata di prestiti al di fuori di un contesto di risoluzione» e sottolinea l’importanza di rendere disponibili risorse sufficienti per fornire nel breve termine sostegno alla liquidità Viene fatto notare come gli stati membri non appartenenti all’Unione bancaria, ed anche i paesi terzi, prevedano nell’ambito della risoluzione la concessione di tale sostegno «senza limiti o con limiti ben al di sopra di quelli possibili» per i paesi che invece alla stessa appartengono. Messa la questione in detti termini si verificherebbe dunque per questi ultimi un caso di reverse discrimination. d) Nella Relazione la Commissione si sofferma anche sull’interazione tra risoluzione ed insolvenza. Posto che la prima costituisce un’eccezione alla procedura di insolvenza applicabile negli stati dell’Unione e che in caso di assenza del presupposto dell’interesse pubblico la banca deve essere posta in liquidazione sulla base delle normative nazionali, considerato poi il livello minimo di armonizzazione realizzato tramite la BRRD e il SRMR, la Commissione ritiene che le «differenze tra i regimi di insolvenza in tutta l’Unione bancaria [possano] esser fonte di sfide e

concentrata l’attenzione di buona parte dei commentatori, lo affronta di recente Sepe, Supervisione bancaria e risoluzione delle crisi: separatezza e contiguità, in Riv. trim. dir. econ., 2018, I, pp. 302 ss. 17 Per una lettura attenta e critica dell’assetto normativo si veda in particolare Nigro, Il nuovo ordinamento bancario e finanziario europeo: aspetti generali, in Giur. comm., 2018, I, pp. 181 ss. 18 Sul finanziamento della risoluzione si rinvia a Ciraolo, Il finanziamento, cit., pp. 163 ss.

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complessità per l’autorità di risoluzione» e che pertanto sia indispensabile riflettere, in particolare, sul rango dei crediti nonché sulle procedure adottate a livello nazionale per la liquidazione delle banche in stato o a rischio di dissesto. La Commissione fa sapere di aver avviato uno studio su tali profili, dal quale si attendono «opzioni per l’armonizzazione, compresa l’eventuale introduzione della procedura di liquidazione amministrativa nell’Unione europea». Facile concludere sul punto evidenziando la risalente scelta italiana di sottrarre le banche al diritto comune dell’insolvenza, attraverso l’introduzione di specifici controlli, di tipo sostitutivo in caso di crisi reversibile (l’amministrazione straordinaria) nonché di natura estintiva in presenza di patologie irreversibili (la liquidazione coatta amministrativa), a chiusura del ciclo della supervisione sulle imprese bancarie, accompagnate così – fin dagli anni Trenta del secolo scorso – verso un’uscita ordinata dal mercato. Questo “statuto speciale” riservato alle banche ha poi fatto da canovaccio per ulteriori applicazioni nell’ambito dell’intermediazione finanziaria. e) Per quanto concerne gli aspetti riferiti alla governance e al funzionamento del SRM, la Commissione sottolinea che esperienza ed informazioni sono al momento scarse per una loro revisione. Nella Relazione vengono tuttavia riportati alcuni giudizi preliminari. – Pur accennando alle «sfide» poste dal coordinamento tra diverse fasi ed autorità nel quadro di un programma di risoluzione, la Commissione ritiene che la procedura garantisca l’adozione di decisioni rapide, «preservando al contempo i ruoli e le prerogative di tutti i soggetti interessati». – Per quanto riguarda il ruolo ed i rapporti con l’ABE, il discorso viene nella sostanza rinviato al momento in cui la revisione delle autorità europee di vigilanza sarà portata a termine19. – Parimenti non sono al momento ritenute necessarie modifiche con riferimento al Fondo di risoluzione unico e rispetto in particolare alla revisione del livello-obiettivo, del punto di riferimento e della contribuzione. – Sempre in ragione della limitata esperienza pratica sin qui acquisita la Commissione non affronta il profilo del cambiamento (realizzabile

19 Sull’argomento si rinvia a Santoro, Una nuova architettura europea di vigilanza finanziaria?, in Banca, impresa, soc., 2018, pp. 193 ss.; sempre di recente una visione più ampia, con diffusi riferimenti bibliografici, in M.E. Salerno, Global Financial Governance. The feasible Future, Torino, 2018 e Brozzetti, “Ending of too big to fail”, cit., passim.

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tramite una modifica del TFUE) dello status giuridico del Comitato di risoluzione, da agenzia a istituzione dell’Unione. – Per la Commissione l’adesione di nuovi stati membri potrebbe costituire l’occasio per «riflettere sulle modalità di partecipazione» al SRM. f) Le conclusioni illustrate dalla Commissione nella parte finale della Relazione ribadiscono il ristretto ambito applicativo del quadro sulla risoluzione delle crisi bancarie, realizzato con la BRRD e il SRMR, e di conseguenza il parere che sia «prematuro elaborare e adottare proposte legislative». Di interesse la segnalazione dell’avvio di una fase di studio sull’armonizzazione dei diritti fallimentari nazionali nonché dei rilievi sollevati dalla Relazione in merito alla BRRD e al SRMR, da porre anche in diretto collegamento con la realizzazione del terzo pilastro dell’Unione bancaria e della revisione della direttiva 2014/49/UE sulla garanzia dei depositi. In definitiva, la fase di riforme verso un più solido ordinamento bancario europeo, avviata con lo scoppio della crisi finanziaria, resta in corso ed ancorata allo stadio di “transito”.

4. Un’ultima riflessione. In questa presentazione della Relazione si sono talvolta aggiunge talune riflessioni personali (cui si fa rinvio) in merito ai profili via via trattati dalla Commissione nel rispetto del contenuto delle clausole di revisione previste dagli artt. 129 reg. MRU e 94 reg. MRU. Può semmai segnalarsi come sia rimasta latitante la verifica dell’obiettivo manifesto, ovunque richiamato, di spezzare il legame tra rischi bancari e debito sovrano, mai esplicitamente richiamato nella medesima e nei fatti punctum dolens tuttora aperto. Chiudiamo con una notazione che si riallaccia a quanto appena segnalato alla fine del precedente paragrafo circa l’esperienza applicativa. Ad avviso di chi scrive, risulta infatti poco convincente il ritornello della Commissione sulla pochezza della stessa, in quanto la pluralità e la diversità dei casi di crisi verificatisi (scontato il richiamo all’Italia) avrebbe potuto indurre riflessioni se non più critiche quanto meno molto più articolate, volte ad evidenziare la macchinosità e la complessità di un contesto normativo sulla soluzione delle crisi bancarie armonizzato al minimo e con possibili ripercussioni “pericolose” su quegli ordinamenti giuridici (quali il nostro) ove senza l’operato di esperte autorità di supervisione l’impatto di tale quadro avrebbe potuto essere ancor più “disastroso”.

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Ne è prova la lunghezza dei tempi per la soluzione delle patologie via via emerse e la continua dialettica tra livello interno e quello europeo, fenomeni che mal si conciliano con le dinamiche che guidano i comportamenti dei risparmiatori e degli speculatori. Le banche sono sÏ imprese ma non come tutte le altre, sarebbe bene che gli esponenti politici/tecnici del nuovo contesto istituzionale scaturito dalle elezioni europee del giugno 2019 lo tenessero a mente.

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a. I contributi proposti per la pubblicazione (saggi, note a sentenza, ecc.) debbono essere inviati, in formato elettronico (word), al Direttore responsabile prof. avv. Alessandro Nigro al seguente indirizzo email alessandro.nigro@tiscali.it È indispensabile l’indicazione nella prima pagina (in alto a destra) dell’indirizzo email, per l’invio delle bozze. b. I contributi proposti per la pubblicazione sono preventivamente vagliati dalla Direzione. Quelli che superano tale vaglio vengono trasmessi, in forma anonima, ad uno dei componenti della apposita struttura di revisione, coordinata dal prof. Daniele Vattermoli. Il revisore rimette al coordinatore la sua relazione che, in forma anonima, è trasmessa al Direttore il quale, se la relazione è positiva, autorizza la pubblicazione del contributo.

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto

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corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. … 4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio

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c.c. c.comm.


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Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall. legge cambiaria l.camb. testo unico t.u. testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) t.u.b. testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58) t.u.f. 2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc.

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Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur. Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm.

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Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria

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