Diritti della banca e del mercato finanziario 4/2012

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ISSN 1722-8360

di particolare interesse in questo fascicolo

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

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Saggi

• Ruolo delle fondazioni bancarie • Concorrenza nei servizi di pagamento • Attività bancaria e pratiche commerciali scorrette • Surroga nei finanziamenti bancari

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro. Nell’anno 2012, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Alberto Baccini, Emilio Beltrán, Stefania Pacchi, Antonio Piras, Michele Sandulli, Antonella Sciarrone Alibrandi, Maurizio Sciuto, Giuseppe Terranova, Francesco Vella.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

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Sommario 4/2012

PARTE PRIMA Saggi L’ambiguo ruolo delle fondazioni bancarie, di Renzo Costi Regolazione e concorrenza nei servizi di pagamento, di Mario Libertini La intervención y los “poderes de disposición” del Ministerio fiscal en el proceso concursal italiano y español, di Stefania Pacchi e David Garcia Bartolomé Attività bancaria e pratiche commerciali scorrette: una prima lettura delle recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali, di Giovanni Falcone I nuovi “poteri speciali” del Governo italiano sulle attività d’impresa e sugli assets di rilevanza strategica (per il sistema di difesa nazionale, nonché per i settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni), di Simone Mezzacapo

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Commenti

Sanzioni della Consob e giurisdizione – Corte cost., 27 giugno 2012, n. 162, con nota redazionale Dichiarazione di fallimento e richiesta del pubblico ministero – Cass., 14 giugno 2012, n. 9781; Trib. Firenze, decr. 28 settembre 2011, con nota redazionale

Fatti e problemi della pratica

Sulla surroga nei finanziamenti bancari non perfezionati nel termine (art. 120-quater, co. 7, T.U.B., modificato dalla l. n. 27/2012, di Gianluca Mucciarone


Autori

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Indici dell’annata – Parte prima

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PARTE seconda Documenti e informazioni Le tappe verso l’Unione bancaria – Commissione europea, comunicazione 12 settembre 2012 al Parlamento europeo ed al Consiglio Indici dell’annata – Parte seconda Norme

redazionali

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PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



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L’ambiguo ruolo delle fondazioni bancarie*1 1. Una parola sul titolo. Ambiguo è aggettivo non necessariamente negativo; ambiguo non è necessariamente sinonimo di oscuro, di mal definito, di incerto, di indeterminato e men che meno di subdolo, di doppio, di falso, di equivoco. Ambiguo viene qui usato per indicare la pluralità di posizioni che caratterizzano lo status, il ruolo delle fondazioni e, quindi, la possibilità di una pluralità di ricostruzioni della loro natura e delle loro funzioni. Se si vuole, viene qui usato come sinonimo di polivalente, di punto di riferimento e di coagulo di una pluralità di condizioni e di funzioni. L’ambiguità così rilevata sollecita a chiedersi se queste molteplici posizioni siano coerenti fra di loro o se, al contrario, le varie funzioni alle quali sono chiamate le fondazioni non possano entrare in conflitto e determinare comportamenti che possono privilegiare alcune funzioni rispetto ad altre o possano determinare situazioni di stallo che pregiudicano l’efficiente svolgimento di alcune, quando non di tutte, di tali funzioni. Concentrerò l’attenzione su alcuni dei profili delle fondazioni bancarie che mettono in evidenza questa ambiguità del loro status. Più esattamente mi soffermerò: 1) sulla convivenza della natura privata delle fondazioni con l’insistenza sulle stesse del controllo ministeriale; 2) sulla loro organizzazione interna, in bilico fra la struttura tipica delle fondazioni e quella propria delle associazioni; 3) sul loro essere al bivio fra la società civile e le organizzazioni politiche; 4) sulla loro qualificazione, ad un tempo, come enti non profit e come investitori istituzionali; 5) sui

* Relazione al Convegno di Catania del 21 settembre 2012 su «La governance delle società bancarie», dedicato alla memoria di Niccolò Salanitro.

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rapporti fra la loro funzione di interesse sociale e la detenzione, da parte delle stesse, di posizioni di rilievo nel sistema bancario.

2. Natura privata delle fondazioni e il controllo ministeriale. Ammesso che abbia ancora senso porsi il problema della natura pubblica o privata di un ente, è inevitabile rilevare che le fondazioni bancarie presentano, sotto questo profilo, una qualche ambiguità. Nate come enti pubblici alla stregua della legge Amato, sono definite come “persone giuridiche private” dalla legge Ciampi e tale natura è stata successivamente ribadita dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 300 e n. 301 del 2003. Tuttavia non sono state integralmente riconsegnate al diritto comune dettato per le fondazioni private dal 1° libro del codice civile (la cui disciplina si applica solo in quanto compatibile e in via residuale). Sulle stesse è stato conservato il controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze; questo controllo aveva una ragion d’essere abbastanza plausibile, anche se opinabile, nell’ambito della legge Amato, mentre ha via via perduto tale giustificazione dopo la legge Ciampi e il definitivo riconoscimento alle fondazioni non solo della loro natura privata ma anche della loro “piena autonomia statutaria e gestionale” e della loro espulsione dall’ordinamento bancario con l’inclusione nell’ordinamento civile. Ma fermiamoci un attimo sul punto. Nella legge Amato l’attribuzione della vigilanza sugli enti conferenti al Ministero del Tesoro trovava la propria ragion d’essere nella necessaria e ribadita connessione fra tale ente e la banca conferitaria (anche sul piano degli organi), anche se la titolarità della partecipazione di controllo di una banca non comportava, secondo l’ordinamento bancario comune, alcun controllo da parte del Ministero del Tesoro sul titolare di quella partecipazione. Questa giustificazione, già debole quindi nell’impianto originario della legge Amato, diventava ancor più inconsistente dopo la legge Ciampi, che non solo eliminava la connessione necessaria fra fondazioni e sistema del credito, ma imponeva la dismissione delle partecipazioni di controllo. L’art. 10 di quella legge stabiliva che “Fino all’entrata in vigore della nuova disciplina dell’autorità di controllo sulle persone giuridiche di cui al titolo II del libro primo del Codice Civile, ed anche successivamente, finché ciascuna Fondazione rimarrà titolare di partecipazioni di controllo, diretto o indiretto, in società bancarie ovvero concorrerà al controllo, diretto o indiretto, di dette società attraverso la partecipazione a patti di sindacato o accordi di qualunque tipo, la vigilanza sulle Fon-

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dazioni è attribuita al Ministero del tesoro, del bilancio e della programmazione economica”. Questa norma, se, da un lato, prevedeva la fine della vigilanza ministeriale destinata ad essere assorbita da quella dell’autorità di controllo sulle persone giuridiche del 1° libro del Codice Civile, tuttavia riaffermava che la vigilanza del Ministero del Tesoro sarebbe sopravvissuta a questa riforma quando la fondazione avesse avuto una posizione di controllo della banca conferitaria. Dunque la ragion d’essere di quella vigilanza andava ancora rintracciata, per le fondazioni che detenevano il controllo della banca conferitaria, in ragioni di ordine creditizio, nonostante si affermasse in linea generale l’estraneità delle fondazioni al sistema bancario. Ma questa giustificazione bancaria del controllo ministeriale mostrava tutta la sua debolezza con riferimento all’ipotesi in cui la fondazione avesse ceduto l’intera partecipazione bancaria prima della istituzione di quell’Autorità; la legge, e nel suo solco il Consiglio di Stato (sentenza 13 settembre 2011), ribadiva, anche in questa ipotesi, la soggezione della fondazione a tale controllo fino alla istituzione di un’autorità sulle persone giuridiche del 1° libro del Codice Civile; in questa ipotesi, per definizione, il controllo non poteva trovare la propria ragione d’essere in ragioni di ordine creditizio, non avendo la fondazione il controllo di alcuna banca. L’inconsistenza della ragione bancaria per il controllo ministeriale in quest’ultima ipotesi non è stata rimossa dall’art. 52, 1° co. del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con legge 30 luglio 2010, n. 122 che ha preteso di offrire una interpretazione autentica dell’art. 10 del d.lgs. 153/99 ribadendo la interpretazione fornita dal Consiglio di Stato. (“L’articolo 10, comma 1, del decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153, si interpreta nel senso che, fino a che non è istituita, nell’ambito di una riforma organica, una nuova autorità di controllo sulle persone giuridiche private disciplinate dal Titolo II del libro primo del Codice Civile, la vigilanza sulle fondazioni bancarie è attribuita al Ministero dell’Economia e delle Finanze, indipendentemente dalla circostanza che le fondazioni controllino, direttamente o indirettamente società bancarie, o partecipino al controllo di esse tramite patti di sindacato o accordi in qualunque forma stipulati. Le fondazioni bancarie che detengono partecipazioni di controllo, diretto o indiretto, in società bancarie ovvero concorrono al controllo, diretto o indiretto, di dette società attraverso patti di sindacato o accordi di qualunque tipo continuano a essere vigilate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze anche dopo l’istituzione dell’autorità di cui al primo periodo”).

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Anche alla stregua di questa disposizione, mentre ci si può accontentare della giustificazione “bancaria” della norma che mantiene la vigilanza del Ministero dell’Economia sulle fondazioni che concorrono al controllo sulla banca, non si vede perché tale controllo ministeriale permanga anche sulle fondazioni che non solo non concorrono a tale controllo ma che abbiano dismesso interamente la partecipazione bancaria. Per questo secondo gruppo di fondazioni il controllo ministeriale si considera “sostitutivo” di quello, ancora mancante, che dovrebbe essere previsto per la totalità delle fondazioni nella riforma delle relative norme dettate dal Codice Civile e che dovrebbe essere attribuito ad una nuova autorità di controllo sulle persone giuridiche private. Escluso che in questa ipotesi la ratio bancaria possa giustificare il controllo ministeriale sulle fondazioni è necessario chiedersi quale sia la ragione che giustificherebbe tale controllo. In altri termini, il controllo ministeriale ha oggi due diverse funzioni: quella di istituire una vigilanza sulle fondazioni che detengono il controllo della banca conferitaria (ragioni di ordine creditizio) e quella di “sostituto” della vigilanza dell’autorità indipendente preposta alle persone giuridiche del primo libro. Una volta creata tale autorità in capo al Ministero rimarrebbe solo il controllo giustificato da ragioni creditizie. Allo stato, tuttavia, per individuare la funzione che la vigilanza svolge nei confronti delle fondazioni che non hanno più il controllo di una banca, sarebbe necessario immaginare quale sarebbe la ragion d’essere del controllo attribuito all’autorità di controllo delle fondazioni del primo libro. Almeno due possono essere le giustificazioni di tale controllo. Si può, in primo luogo, pensare che la vigilanza (ministeriale oggi e dell’autorità domani) trovi la stessa ragion d’essere che motiva una vigilanza su tutte le fondazioni: la separazione fra gli interessati e i gestori, la mancanza del controllo dei primi sui secondi con la necessità di un eterocontrollo (non necessario nelle associazioni). Ma si può anche pensare che l’attuale controllo ministeriale e domani quello dell’autorità indipendente trovino una giustificazione nell’interesse generale perseguito dalla fondazione, ossia in ragione dell’origine non privata del patrimonio e della natura degli scopi che la stessa persegue. E un’áncora normativa a questa seconda ipotesi è offerta dall’art. 2 del d.lgs. 153/99, a norma del quale le fondazioni “perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale”. In definitiva a me pare che, mentre deve convenirsi sulla natura privata delle fondazioni, escludendo quindi la loro natura pubblica, debba anche ritenersi che le stesse sono sottoposte ad un controllo pubblico che trova la propria ragion d’essere ultima nella non coincidenza fra

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gestori e interessati e nella rilevanza pubblica degli scopi perseguiti (a differenza di quello che normalmente può accadere nelle fondazioni private) e queste ragioni potrebbero servire anche per stabilire quale debba essere l’autorità che esercita la vigilanza sulle fondazioni che detengono il controllo di una banca. Il fatto che sia una fondazione a detenere il controllo di una banca può giustificare il controllo pubblico tenendo conto della struttura del soggetto e della sua accountability; la separazione fra gestori della fondazione e interessati rende opportuna qualche forma di eterocontrollo anche per l’ipotesi in cui la fondazione controlli una banca, ma tale controllo trova la propria giustificazione non in ragioni creditizie, ma nella necessità di tutelare gli interessi che debbono essere perseguiti dalla fondazione. Ricorre in questa ipotesi la stessa ratio che giustifica il controllo dell’autorità indipendente sulle fondazioni del 1° libro. Sarebbe ragionevole, in altri termini, sostenere che questo eterocontrollo da parte dell’autorità indipendente dovrebbe estendersi anche alle ipotesi in cui la fondazione abbia il controllo della banca, riconducendo anche questa ipotesi al diritto comune delle fondazioni, con l’eliminazione del controllo ministeriale, che l’attuale disciplina tiene fermo anche dopo l’istituzione dell’Autorità di controllo. Le considerazioni fin qui svolte segnalano gli elementi di ambiguità che sulla natura privata delle fondazioni bancarie proietta il controllo attribuito al Ministero dell’Economia. Connesso con il problema della ragion d’essere della vigilanza ministeriale è il problema del contenuto e della natura di tale controllo. Si è scritto, anche di recente, che il controllo del Ministero è un controllo di “legittimità”, ma la tesi non mi pare facilmente condivisibile, a meno di non estendere questa nozione fino a ricomprendervi il controllo relativo alle regole tecniche nelle quali si sostanzia: ad es., quelle relative alla sana e prudente gestione della fondazione. Il controllo del Ministero, a differenza di quanto stabilito per la vigilanza sulle fondazioni del 1° libro del Codice Civile, va oltre il rispetto delle norme di legge e di statuto (che pure sono oggetto del controllo) e impone il rispetto di regole di sana e prudente gestione; si tratta di una vigilanza di tipo prudenziale, proiettata anche alla effettiva tutela degli interessi contemplati negli statuti. E considerazioni analoghe valgono per le attività di erogazione svolte dalle fondazioni che debbono attenersi a criteri che rientrano nell’oggetto del controllo ministeriale. Le difficoltà che si incontrano quando si voglia ridurre il controllo ministeriale al sindacato di legittimità, appaiono anche più evidenti se si tiene conto dei poteri che il Ministero può esercitare in coincidenza con lo stato di crisi in cui versi la fondazione.

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Anche se, secondo quanto stabilito dalla sentenza n. 301 del 2003 della Corte Costituzionale, il Ministero non ha il potere di emanare direttive, avendo solo un potere di controllo e non un potere di indirizzo. Il che, tra l’altro, dovrebbe escludere che le fondazioni siano organismi di diritto pubblico ai fini dell’applicazione della disciplina sui contratti per l’assenza di un controllo pubblico capace di esercitare un’influenza effettiva sulle decisioni degli organi delle fondazioni (così Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 marzo 2010, n. 1256). Esiste, dunque, qualche ambiguità anche per quanto concerne il tipo di controllo che il Ministero svolge sulle fondazioni.

3. La governance delle fondazioni. Il modello di governance delle fondazioni presenta una spiccata originalità nei confronti, da un lato, del modello tipico delle fondazioni e, dall’altro, del modello tipico degli enti associativi e, in particolare, del modello societario. Il primo, nonostante il diffondersi delle fondazioni di partecipazione, è un modello autoritario, nel senso che non prevede un organo che raccolga la volontà degli interessati; esattamente il contrario di quanto accade negli enti associativi e, in particolare, nelle società per azioni dove esiste un organo (l’assemblea) che raccoglie la volontà degli interessati. Nelle fondazioni l’organo di gestione ha un potere esclusivo, anche se vincolato, di determinare le scelte strategiche della fondazione sia per quanto concerne la gestione sia per quanto riguarda le vicende “esistenziali” dell’ente. Nella società per azioni, pur essendo stato attribuito al consiglio di amministrazione un potere esclusivo sulla gestione dell’impresa, esiste pur sempre un’assemblea dei soci interessati che ha un potere decisivo sulle operazioni straordinarie, ossia sulle vicende esistenziali dell’ente; con una netta distinzione fra assemblea e amministratori. Il modello delle fondazioni bancarie, mentre non conosce un organo degli interessati, un’assemblea, pur tuttavia spezza il potere di gestione fra due organi: quello di indirizzo e quello di gestione, con una evidente propensione a vedere nell’organo di indirizzo un simulacro di assemblea, probabilmente più vicino, in realtà, al consiglio di sorveglianza del modello dualistico della società per azioni. E la difficoltà di ravvisare nel consiglio di indirizzo un organo riconducibile alla volontà degli interessati, in qualche misura analogo all’assemblea della società per azioni, e il coinvolgimento di tale organo nella gestione, rendono più difficile assicurare la accountability delle gestioni

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delle fondazioni. Senza riprendere qui la discussione sulla autoreferenzialità di tali gestioni, mi pare che al tema riservi qualche valutazione lo stesso legislatore nel momento in cui (art. 24 quater della legge 24 marzo 2012, n. 27 di conversione del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1) si preoccupa di imporre che la designazione degli organi delle fondazioni avvenga secondo modalità “ispirate a criteri oggettivi e trasparenti, improntati alla valorizzazione dei principi di onorabilità e professionalità”. Insomma, anche la struttura organizzativa delle fondazioni presenta significative ambiguità, incerta com’è fra il modello associativo e quello fondazionale. Circostanza che, a dire il vero, offre un argomento in più per dubitare della rigidità dei due modelli.

4. Le fondazioni: fra politica e società civile. Un ulteriore profilo lungo il quale si può cogliere una certa ambiguità dello statuto delle fondazioni è quello della concorrente incidenza sul loro status della politica, o meglio degli enti locali, e della c.d. società civile. La legge Amato non prevedeva alcun criterio specifico per la nomina dei componenti gli organi degli enti conferenti; conservava in vigore quelli dettati per gli enti creditizi pubblici dai quali avevano origine. Una puntuale presa di posizione sul punto fu assunta dalla legge Ciampi, il cui art. 4, 1° co., lett. c) stabiliva che lo statuto prevedesse, nell’ambito dell’organo “di indirizzo, di un’adeguata e qualificata rappresentanza del territorio, con particolare riguardo agli enti locali, nonché dell’apporto di personalità che per professionalità, competenza, ed esperienza, in particolare nei settori cui è rivolta l’attività della fondazione, possano efficacemente contribuire al perseguimento dei fini istituzionali”. Come emerge dalla lettera della norma, la legge Ciampi puntava ad un coinvolgimento equilibrato negli organi della fondazione sia della c.d. società civile sia degli enti locali. Questo equilibrio fu rotto in modo netto dall’art. 11 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (emendamento Tremonti) a favore degli enti locali. Questa norma stabiliva che lo statuto delle fondazioni doveva prevedere “nell’ambito dell’organo di indirizzo” “una prevalente e qualificata rappresentanza degli enti diversi dallo Stato di cui all’art. 114 della Costituzione”. Era espressione di una politica che tentava di acquisire il controllo delle fondazioni, che considerava gli enti locali gli unici soggetti autorizzati a rappresentare gli interessi del territorio, confinando le

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professionalità della società civile al ruolo di consulenti tecnici in seno ad enti guidati dalla politica; e tutto ciò faceva sorgere seri dubbi sulla natura privata delle fondazioni e ridotte ad enti strumentali degli enti locali. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 301 del 2003, considerò incostituzionale quella disposizione rilevando che la “censura di irragionevolezza della stessa norma risulta fondata, in quanto non può non apparire contraddittorio limitare la ipotizzata presenza degli enti rappresentativi delle diverse realtà locali agli enti territoriali senza ricomprendervi quelle diverse realtà locali, pubbliche e private, radicate sul territorio ed espressive, per tradizione storica, connessa anche all’origine delle singole fondazioni, di interessi meritevoli di essere «rappresentati» nell’organo di indirizzo”. Fu così ripristinata la soluzione adottata dalla legge Ciampi e oggi le fondazioni vedono nel proprio organo di indirizzo una compresenza di soggetti designati dagli enti locali (ma senza vincolo di mandato) e di soggetti espressione della società civile del territorio. Il che fa dubitare della legittimità degli statuti che attribuiscono ai soli enti locali il potere di designazione dei componenti l’organo di indirizzo. Anzi, la recente Carta delle fondazioni ha sottolineato la necessità di tenere lontano il pericolo dell’ingerenza politica, fissando l’incompatibilità delle cariche politiche con quella di componente degli organi della fondazione. Più esattamente, l’art. 7 di quella Carta precisa che “Al fine di salvaguardare la propria indipendenza ed evitare conflitti di interesse, la partecipazione agli organi delle fondazioni è incompatibile con qualsiasi incarico o candidatura politica (elettiva o amministrativa). Le fondazioni individuano le modalità ritenute più idonee per evitare l’insorgere di situazioni di conflitto di interessi, anche ulteriori rispetto alle predette fattispecie. Le fondazioni individuano inoltre opportune misure atte a determinare una discontinuità temporale tra incarico politico svolto e nomina all’interno di uno dei loro organi. La disciplina di eventuali ipotesi di discontinuità tra cessazione dalla fondazione e assunzione successiva di incarichi politici (elettivi o amministrativi) è rimessa alla sottoscrizione di «impegni morali» o alla stesura di un codice etico”. Deve ricomprendersi nell’ambito dei rapporti fra politica e fondazioni anche il coinvolgimento del Parlamento: più esattamente la legge 30 luglio 2010, n. 122 di conversione del d.l. 78/2010 ha modificato l’art. 1, co. 3, del d.lgs. 153/99 stabilendo che il Ministro dell’Economia e delle Finanze “presenta, entro il 30 giugno, una relazione al Parlamento sull’attività svolta dalle fondazioni bancarie nell’anno precedente, con

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riferimento tra l’altro agli interventi finalizzati a promuovere lo sviluppo economico-sociale nei territori locali in cui operano le medesime fondazioni”. Sembra, dunque, si possa ritenere che la gestione delle fondazioni è, almeno secondo l’ordinamento, sottratta all’incidenza della politica, ma il legislatore riconosce un legittimo interesse di quest’ultima a valutare tale gestione nel momento in cui prevede un giudizio del Parlamento sul contributo che le stesse possono dare allo sviluppo economico-sociale dei territori nei quali operano. Valutazione che sembra riecheggiare, ma in termini molto meno stringenti, la norma dettata dall’art. 11, co. 5 della legge 448/2001 secondo la quale “in apposito allegato alla relazione previsionale e programmatica il Ministro dell’economia e delle finanze espone l’ammontare delle risorse complessivamente attivate nei settori di cui all’articolo 1, comma 1 del decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153. Di tali risorse si tiene conto nella rideterminazione degli stanziamenti da iscrivere nei fondi di cui all’articolo 46 della presente legge” (ossia dei fondi per gli investimenti di ciascun ministero). Al di là del suo stile «statistico», la norma rivelava l’intento di considerare l’attività delle fondazioni come un intervento di supporto e supplenza nei confronti dello stato: con l’intento dello stesso di ritirarsi dai settori nei quali avrebbero operato le fondazioni, almeno nella misura nella quale queste fossero intervenute. In una prospettiva, dunque, ben diversa da quella propria del principio di sussidiarietà orizzontale applicato dalla Corte all’attività delle fondazioni bancarie. E questa norma non è stata cassata dalla Corte Costituzionale. In definitiva si può dire che l’indipendenza delle fondazioni dalla politica è oggi un dato acquisito, almeno sulla carta. Quell’indipendenza potrà essere rimessa in discussione in mancanza di un adeguato grado di responsabilizzazione delle relative gestioni.

5. Le fondazioni come investitore istituzionale. È affermazione comune quella secondo la quale le fondazioni bancarie sarebbero investitori istituzionali, espressione, a dire il vero, priva di un qualche significato sotto il profilo strettamente giuridico, non esistendo una disciplina dettata per i soggetti che vengono collocati fra gli investitori istituzionali dalle scienze economiche. Ed è recependo le definizioni di queste ultime che normalmente vengono definiti investitori istituzionali gli enti che gestiscono in monte nell’interesse

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dei risparmiatori-investitori le somme da questi conferite in gestione: gestioni in monte che si caratterizzano per il trasferimento del rischio ai risparmiatori e per regole di investimento che prevedono una forte diversificazione degli investimenti motivata dalla volontà di ridurre il rischio relativo. Soprattutto si instaura fra risparmiatore e investitore istituzionale un rapporto riconducibile a quello che corre fra principal e agent, anche se la gestione dell’investitore si caratterizza per una sostanziale indipendenza dalla volontà dell’investitore-risparmiatore. Se questa descrizione dell’investitore istituzionale è corretta, si deve essere consapevoli che solo impropriamente le fondazioni bancarie possono essere considerate investitori-istituzionali, esse non raccolgono il risparmio diffuso per dare allo stesso l’impiego previsto dalle tavole statutarie, ma investono un proprio patrimonio e non un patrimonio di altri, e non assumono la responsabilità tipica dei gestori di patrimoni altrui. Lo scopo perseguito dall’investitore istituzionale è uno scopo di lucro, ha il compito di investire nel modo più redditizio il risparmio raccolto presso i risparmiatori-investitori; quello scopo è scolpito nel regolamento dell’investitore istituzionale. Anche sotto questo profilo le fondazioni non rispecchiano il modello dell’investitore istituzionale. Anch’esse debbono curare che il proprio patrimonio sia investito in modo da essere conservato e da consentire i redditi necessari per il perseguimento degli scopi istituzionali, ma manca una responsabilità come quella che incombe sull’investitore istituzionale nei confronti degli investitori che gli hanno affidato i propri risparmi. Anche il criterio al quale le fondazioni debbono attenersi nella gestione del proprio patrimonio mette in luce la difficoltà di ricondurre l’operato delle fondazioni al modello degli investitori istituzionali. Esse debbono, nell’investire il proprio patrimonio, osservare “criteri prudenziali di rischio, in modo da conservarne il valore e ottenerne una redditività adeguata”. E analogamente si stabilisce che “Le fondazioni diversificano il rischio di investimento del patrimonio e lo impiegano in modo da ottenerne un’adeguata redditività assicurando il collegamento funzionale con le loro finalità istituzionali ed in particolare con lo sviluppo del territorio”. Ciò non toglie che le fondazioni si siano rivelate investitori stabili, e che pertanto il loro investimento si sia rivelato un investimento di lungo periodo. E proprio facendo perno su questa caratteristica dell’investimento delle fondazioni, del resto consentita ed anzi suggerita dalle norme appena richiamate, si è potuto scrivere (Calandra) che “si debba

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prendere atto della compresenza, nelle fondazioni bancarie, di due anime: quella rivolta all’investimento nel sociale, che ne definisce gli scopi istituzionali e alla quale sono destinati i redditi che derivano dalla gestione patrimoniale, e quella rivolta agli investimenti finanziari cui è essenzialmente dedicata la gestione del patrimonio, in funzione strumentale al perseguimento dei fini istituzionali dell’ente. Queste due anime sono concepite per operare in modo separato e senza reciproche interferenze, come espressamente prevede l’art. 5, co. 2, d.lgs. n. 153/1999, che sancisce il principio della separazione della gestione del patrimonio dalle altre attività della fondazione e la possibilità dell’affidamento di tale gestione a terzi. Il che dovrebbe comportare che la gestione del patrimonio sia svincolata dagli scopi istituzionali dell’ente e unicamente diretta a conservarne il valore e ottenere una redditività adeguata”. A me pare che questa separatezza, che metterebbe in luce un’ulteriore ambiguità delle fondazioni, ossia il possesso di un’anima sociale e di un’anima lucrativa (sia pure temperata) non sia facilmente condivisibile, e non nel senso che possono essere effettuati solo gli investimenti che si rivelino direttamente o quasi fisicamente strumentali al conseguimento degli scopi istituzionali, ma nel senso, meno forte ma non meno importante, della compatibilità fra le scelte di investimento e le finalità istituzionali. In altri termini, le scelte finanziarie ritenute funzionali alla conservazione del patrimonio potrebbero rivelarsi in conflitto con gli scopi istituzionali. Come sembra verificarsi nei tempi più recenti (ma sul punto tornerò più avanti); e si deve allora concludere, ammesso che esistano quelle due anime, che quella rivolta agli scopi di interesse sociale deve necessariamente prevalere su quella propria di un investitore istituzionale; il che rende ancora più problematica l’inclusione delle fondazioni bancarie nella categoria degli investitori istituzionali. E in questa prospettiva sembra utile ricordare che anche il principio di diversificazione ha subito qualche deroga quando si tenga presente che gran parte del patrimonio delle fondazioni è investito in società bancarie. In definitiva, a me pare che le fondazioni bancarie si collochino in una posizione che, per alcuni aspetti, può essere ricondotta a quelle tipiche degli investitori istituzionali, ma che, per altri, si allontanino da queste ultime ponendo non facili problemi di coordinamento fra le due posizioni; il che sottolinea anche sotto questo profilo l’ambiguità, o se si vuole, la polifunzionalità delle fondazioni bancarie.

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6. Le fondazioni bancarie e le banche. a) Le fondazioni bancarie detengono partecipazioni importanti nella struttura proprietaria delle banche e svolgono un ruolo di grande rilievo nel loro governo. Basti ricordare quanto scrive Gustavo Zagrebelsky: “Il mondo bancario, nelle sue manifestazioni più importanti, è ancora saldamente in mano alle fondazioni che, sebbene singolarmente in minoranza, tramite i poteri che la loro partecipazione azionaria assicura e il “fronte comune” che esse possono fare, sono in grado di controllare i momenti chiave della vita delle banche (composizione degli organi, grandi investimenti, strategie creditizie)”. Senza che per questo possano essere considerate imprenditore bancario, a meno che non intervengano nella concreta gestione della banca (si veda sul punto la sentenza 10 gennaio 2006 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee) e pur potendo essere considerate, anche se solo presuntivamente, enti commerciali dal punto di vista fiscale quando detengano il controllo della banca. Il persistere di questo ruolo bancario delle fondazioni è stato riconosciuto, esplicitamente, dall’art. 27 quater della legge 24 marzo 2012, n. 27 di conversione del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, che, in una logica di tutela della concorrenza nel mercato bancario, vieta a coloro che svolgono funzioni di indirizzo, amministrazione e controllo in una fondazione l’assunzione e l’esercizio di “cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo o di funzioni di direzione di società concorrenti della società bancaria conferitaria o di società del suo gruppo”. Il giudizio sul ruolo delle fondazioni nel sistema bancario è per lo più positivo. In passato lo formulò più volte Mario Draghi e, più di recente, il Direttore della Banca d’Italia e il Presidente dell’ABI hanno ribadito tale giudizio. Così il Direttore di Banca d’Italia ha affermato che “nel complesso, la presenza delle fondazioni nel capitale delle banche si è rivelata come un fattore positivo per la stabilità del sistema”, precisando che “ai fini della complessiva stabilità del sistema bancario, è importante che le fondazioni bancarie operino come investitore istituzionale con una visione strategica di medio-lungo periodo” e aggiungendo che le stesse “come soggetti istituzionalmente dedicati a finalità di interesse sociale, possono rafforzare gli incentivi di governance verso una gestione [della banca] attenta alla relazione con il territorio e con i clienti”. A questa affermazione ha fatto, recentemente, eco il Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana che, dopo aver rilevato la stabilità degli assetti proprietari delle banche italiane, ha aggiunto che in questa

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prospettiva hanno svolto un ruolo essenziale le fondazioni bancarie “cui va una volta di più riconosciuto il merito di aver tenuto fermo il loro ruolo di investitori istituzionali nel momento più difficile per il Paese” e concludendo che “esse rappresentano un reale punto di forza di cui l’Italia deve essere fiera”. Dal punto di vista del sistema bancario le valutazioni appena riprodotte possono essere condivise, mettendo fra parentesi alcune delle perplessità ricorrenti, ossia e soprattutto che le fondazioni, non perseguendo la massimizzazione del valore delle azioni delle banche partecipate, non favorirebbero l’efficienza di queste ultime. È bene, tuttavia, ricordare che il vestito azionario impone alla fondazione di perseguire lo scopo di lucro proprio della società bancaria. Il che deve dirsi anche per rimuovere gli equivoci che potrebbero derivare da quanto stabilito dal punto 1.8 della Carta delle Fondazioni, a norma del quale “nell’ambito delle proprie finalità di sviluppo del territorio, attraverso l’investimento nella società bancaria di riferimento, nel rispetto della legislazione vigente, le fondazioni perseguono l’obiettivo di contribuire alla promozione dello sviluppo economico, nella consapevolezza che una istituzione finanziaria solida e radicata nei territori costituisca un volano di crescita e di stabilizzazione del sistema finanziario locale e nazionale. Le fondazioni non si ingeriscono nella gestione operativa delle società bancarie, ma, esercitando i diritto dell’azionista, vigilano affinché la conduzione avvenga nel rispetto dei principi sopra richiamati”. Queste regole di gestione dovranno sempre muoversi nell’ambito di una strategia proiettata alla realizzazione di un lucro. Questa osservazione consente anche di formulare un giudizio sui possibili rapporti fra fini di utilità sociale delle fondazioni e società bancarie partecipate: come azionisti le fondazioni non potranno perseguire interessi di utilità sociale quando gli stessi si rivelino in conflitto con l’interesse della società bancaria. Ed è in questi ambiti che va collocato anche il problema della responsabilità sociale della banca partecipata dalle fondazioni, ossia la tutela degli interessi degli stakeholders diversi dagli azionisti: la fondazione persegue fini di interesse generale che non coincidono necessariamente con la tutela dei fornitori o del consumatori (mentre più facilmente possono coincidere con la tutela degli interessi del territorio nel quale opera) e, comunque, anche quando coincidono non possono essere imposti dalla fondazione alla banca, a meno che gli stessi non ricevano espresso riconoscimento dallo statuto della stessa (banca etica). b) Ciò che sembra, all’opposto, da sottolineare è il pericolo che corrono le finalità di interesse generale perseguite dalle fondazioni quando

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queste ultime investano porzioni crescenti del loro patrimonio in partecipazioni bancarie e si indebitino allo scopo di conservare posizioni di potere nel sistema creditizio, sottraendo risorse alle loro finalità istituzionali. Come sta avvenendo per alcune delle più importanti fondazioni bancarie italiane. Qui non si invoca una legge che impedisca alle fondazioni di detenere partecipazioni influenti nelle banche e men che meno si auspicano espropri del patrimonio delle fondazioni, come anche di recente è stato un po’ troppo sbrigativamente proposto, ma si sottolinea la necessità che i gestori delle fondazioni valutino la compatibilità fra la scelta ritenuta opportuna come azionisti importanti delle banche e gli scopi di utilità sociale che rappresentano la ragion d’essere delle fondazioni, e, nell’ipotesi in cui tali diverse prospettive si rivelino in conflitto non abbiano perplessità nel privilegiare questi ultimi, rinunciando ad operazioni straordinarie sulle banche quando tali fini sociali rischino di venire pregiudicati. E se dovessero privilegiare l’interesse della banca a detrimento dei loro scopi istituzionali, i gestori dovrebbero essere chiamati a risponderne nei confronti della fondazione e dovrebbero essere sottoposti ai provvedimenti di rigore previsti dall’art. 11 della legge Ciampi e che il Ministero potrebbe adottare, anche se, in realtà, non l’ha mai fatto.

7. Una specie di conclusione. Le fondazioni bancarie costituiscono una realtà importante del sistema economico e sociale del nostro paese. Il loro ruolo è ancora ambiguo e questa ambiguità non è scevra da pericoli, soprattutto legati alla difficoltà di individuare con precisione, da un lato, la loro missione sociale e, dall’altro, la trasparenza delle loro gestioni. Un’auspicabile riforma, più volte tentata e mai realizzata, delle persone giuridiche del I libro del Codice Civile, dovrebbe farsi carico di quei problemi, attribuendo all’autorità di vigilanza sulle persone giuridiche anche il controllo sulle fondazioni bancarie, magari modulando tale controllo in ragione degli scopi di interesse generale perseguiti da tali enti.

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Regolazione e concorrenza nei servizi di pagamento * Sommario: 1. Il modello regolatorio nel settore dei servizi di pagamento: necessità di autorizzazione sulla base del mero accertamento di requisiti tecnici; apertura del sistema a soggetti non bancari. – 2. Inquadramento del modello nelle previsioni costituzionali. – 3. La promozione della concorrenza nella regolazione di settore dei servizi di pagamento. – 4. L’applicazione delle norme generali di concorrenza. L’analisi economica dei mercati dei servizi di pagamento. – 5. Il favor tradizionale per l’autoregolazione privata dei servizi di pagamento. – 6. L’attuale fase di transizione verso un più rigoroso scrutinio degli strumenti di autoregolazione privata. – 7. La disposizione di favore dell’art. 20, co. 5-bis, lett. a, l. 10 ottobre 1990, n. 287, e la sua scarsa incidenza pratica. Recenti sviluppi con il d.l. 1 del 2012. – 8. Critiche dottrinali all’orientamento “apologetico” verso l’autoregolazione dei mercati dei servizi di pagamento. – 9. La direttiva 2007/64/CE e l’apertura della fase di transizione.

1. Il modello regolatorio nel settore dei servizi di pagamento: necessità di autorizzazione sulla base del mero accertamento di requisiti tecnici; apertura del sistema a soggetti non bancari. Il tema della concorrenza nel settore dei servizi di pagamento può essere trattato distinguendo due profili: (i) le norme di regolazione specifica del settore; (ii) l’applicazione al settore stesso delle norme generali di concorrenza. Sotto il primo profilo, un rilievo iniziale da fare è che il mercato dei servizi di pagamento avanzati si è formato e si è evoluto spontaneamente, su base privatistica, con una spiccata tendenza alla formazione di monopoli di fatto a livello nazionale 1. L’intervento comunitario è stato

*

Il presente scritto costituisce una versione aggiornata ed emendata di un precedente articolo, pubblicato in Banca borsa e titoli di credito, 2011, I, p. 181 ss. 1. Granieri, Le liberalizzazioni nel sistema dei servizi di pagamento e l’impatto della direttiva comunitaria sull’industria delle carte di credito. Alcune riflessioni preliminari, in Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento. Prime riflessioni in Banca d’Italia, Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale, Roma, 2008, p. 100.

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dunque giustificato, oltre che dalla usuale esigenza di “armonizzazione” delle regole di funzionamento dei mercati, anche dall’esigenza di sostenere una concorrenza effettiva fra soggetti partecipanti ai diversi sistemi di pagamento. In questo quadro, le scelte fondamentali di politica legislativa, dettate dalla direttiva europea, sono nel senso di imporre una regolazione amministrativa del settore, sotto forma di vigilanza permanente sullo stesso, ma anche di garantire la massima apertura dei mercati in questione 2. Dunque, la prima regola dettata dal diritto europeo è quella relativa alla necessità di un’autorizzazione amministrativa per l’avvio dell’attività degli istituti di pagamento (art. 5 Dir. 64/07); l’autorità competente a rilasciare le autorizzazioni e a vigilare sul rispetto delle condizioni di autorizzazione è autonomamente designata da ciascuno Stato membro; nell’ordinamento italiano si è ragionevolmente preferito accentrare le competenze presso la Banca d’Italia (art. 114-septies t.u.b., introdotto con d.lgs. 11/2010) 3. In ogni caso, la disciplina europea caratterizza questo mercato come uno di quelli in cui non può essere garantita una libertà assoluta di ingresso, perché un tale regime darebbe luogo a rischi troppo elevati per alcuni interessi collettivi necessariamente coinvolti nelle attività di cui si tratta (in questo caso la sicurezza patrimoniale e degli scambi). La seconda scelta di politica legislativa è stata quella per cui il sistema autorizzatorio dev’essere, in ogni caso, a numero aperto: quindi, anche se si parla correntemente di attività “riservate” agli istituti di pagamento 4, si deve tener presente che questa riserva corrisponde solo all’esigenza di un controllo abilitativo iniziale e alla sottomissione ad un’autorità di vi-

2.

Per informazioni più dettagliate sulle diverse fasi della regolazione europea del sistema dei pagamenti, anche antecedenti la direttiva del 2007, v., per tutti, Mannella, La nuova disciplina comunitaria degli istituti di pagamento: aspetti fiscali (relativi all’IVA) dei servizi di pagamento offerti dagli operatori telefonici, in Diritto delle comunicazioni elettroniche, a cura di Bassan, Milano, 2010, p. 333 ss. 3. Conf. Fucile, Granieri, in La nuova disciplina dei servizi di pagamento, a cura di Mancini e altri, Torino, 2011, pp. 346-347 (ove informazioni sulle soluzioni, non sempre coincidenti con quella italiana, seguite negli altri Stati membri). È appena il caso di ricordare che le banche centrali hanno avuto sempre, tra i compiti principali, quello di assicurare la fiducia nei sistemi di pagamento utilizzati dagli operatori economici (cfr. Tresoldi, L’economia dei sistemi di pagamento, in Economia dei sistemi di pagamento, a cura di Tresoldi, Bologna, 2005, p. 12 ss.; Brizi, Giuca, Sasso, I sistemi di pagamento, ivi, p. 74 ss.). 4 Cfr. Marullo Reedtz, in La nuova disciplina, cit., p. 8 ss.

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gilanza nel corso successivo dell’attività. Si tratta dunque di un modello standard di regolazione dei mercati, caratterizzato dalla previsione di un albo a numero aperto (art. 114-septies t.u.b.), a quindi sostanzialmente privo di barriere amministrative all’accesso (tali non potendosi considerare controlli abilitativi puramente tecnici e privi di discrezionalità 5). Inoltre, non si ha, in questa materia, una regolazione dei servizi di pagamento in termini di servizio di interesse economico generale (non c’è doverosità dell’esercizio dell’attività, né – in linea di principio – ci sono controlli su prezzi o sulle condizioni di offerta): l’apertura del mercato è considerata, di per sé, mezzo idoneo per dare luogo a condizioni di concorrenza effettiva e a soddisfare il bisogno generale di servizi di pagamento sicuri ed efficienti. Inoltre – e si tratta di un punto di grande importanza – l’accesso al mercato non è limitato alle imprese bancarie vere e proprie (anzi, la scelta del diritto europeo è stata quella di sottrarre i servizi di pagamento dalla definizione generale di attività bancaria 6: in tal senso, in sede di recepimento, l’art. 1, co. 1, lett. d, d.lgs. 11/2010 7), e neanche ad operatori specializzati ed aventi l’attività di fornitura di servizi di pagamento come oggetto esclusivo. In altri termini, possono divenire “istituti di pagamento” – previa autorizzazione di Banca d’Italia, ottenibile nel rispetto delle norme dell’art. 114-novies, t.u.b. – anche operatori “ibridi”, che svolgono primariamente o collateralmente altre attività imprenditoriali. La varietà tipologica degli operatori del settore è accentuata con la Direttiva 2009/110/CE, di aggiornamento della disciplina degli istituti di moneta elettronica (c.d. IMEL 2), che ha attribuito agli IMEL anche, ex

5.

Né può considerarsi una reale barriera all’accesso la norma che dispone che gli istituti di pagamento siano costituiti in forma di società di capitali (art. 114-novies, t.u.b.). 6. Cfr. Santoro, Gli istituti di pagamento, in Armonizzazione europea dei servizi di pagamento e attuazione della direttiva 2007/64/CE, a cura di Rispoli Farina e altri., Milano, 2009, p. 50. In questo senso, già da qualche anno si è potuto affermare che “oggi parlare di ‘sistemi interbancari di pagamento’ può apparire riduttivo e superato” (Salamone, Lo statuto concorrenziale delle imprese di intermediazione nei servizi di pagamento, in Commentario breve al diritto della cambiale, degli assegni e di altri strumenti di credito e mezzi di pagamento, a cura di Salamone e Spada, Padova, 2008, p. 767). 7. Cfr. Mancini, in La nuova disciplina, cit., p. 20 ss., che giustamente nota come la fornitura di servizi di pagamento continui a costituire componente normale e tipica dell’attività bancaria e come la scelta di apertura della direttiva sia essenzialmente diretta – come si ricorda nel testo – a lasciare aperta ogni possibilità di innovazione tecnologica nel settore.

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lege, la funzione di istituti di pagamento. La direttiva è stata recepita di recente, con il decreto legislativo 16 aprile 2012, n. 45. In questo senso la direttiva è stata da tutti salutata come base di una possibile futura evoluzione, che vedrà anche operatori di origine non bancaria, e in particolare gli operatori delle comunicazioni mobili, diventare fornitori dello strumento tecnico principale delle operazioni di pagamento, e in ogni caso intermediari di crescente importanza nel settore 8. La previsione (e l’auspicio) di un deciso ingresso degli operatori di telefonia mobile nel mercato dei servizi di pagamento è stato anche il leit-motiv di una recente indagine dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, riguardante però non l’intero settore dei servizi di pagamento, bensì il segmento dell’offerta di carte prepagate (“chiuse”, cioè “usa e getta”, o “aperte”, cioè ricaricabili) 9. Peraltro, nei pochi anni seguiti all’emanazione della direttiva, il settore dei mobile payments ha già avuto una rapida evoluzione e, nell’ambito dello stesso, si sono delineati diversi modelli di business, caratterizzati dal protagonismo degli operatori mobili, ovvero dei tradizionali operatori del settore (banche e circuiti delle carte di credito), ovvero ancora di nuovi operatori specializzati 10. Si deve ancora delineare, in sostanza, l’orientamento del mercato verso assetti competitivi o cooperativi nel rapporto fra operatori di telecomunicazioni e banche. La corrente principale sembra essere proprio quella guidata dall’iniziativa degli operatori tradizionali del settore (con gli operatori di telecomunicazioni svolgenti attività di fornitura di supporto tecnico), e vengono anche denunziate preoccupazioni di possibile foreclosure del mercato 11. Questo è comunque in costante evoluzione e può ancora ritenersi probabile un rafforzamento dell’iniziativa degli operatori di tlc (che sono generalmente grandi imprese, ben in grado di impostare, sul piano finanziario ed organizzativo, una nuova attività di tal genere) 12. In ogni caso, è importante

8

Granieri, Le liberalizzazioni, cit., p. 112. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Le carte prepagate in Italia. Caratteristiche, diffusione e potenziale impatto concorrenziale sull’offerta di moneta elettronica (Provv. n. 19678 – IC 37 – del 19 marzo 2009). 10. Cfr. Bourreau, Verdier, Cooperation for Innovation in Payment Systems: The Case of Mobile Payments (Telecom Parsi Tech – Working Papers in Economics and Social Sciences ESS-10-02, Feb. 2010). 11. Cfr. Rao, How Visa Plan’s To Dominate Mobile Payments, Create The Digital Wallet And More, in http:techcrunch.com, Aug. 7, 2011. 12. Cfr. Yu, Mobile payments options grow for small companies, in U.S.A. Today, 9.

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notare – anticipando un punto su cui si dovrà tornare in seguito – che le nuove piattaforme di fornitura di servizi di Mobile Payments dovranno configurarsi sempre come piattaforme aperte all’accesso, sia di tutti gli operatori di tlc, sia di tutti gli istituti di pagamento 13. Si deve comunque segnalare che, dopo 5 anni dall’emanazione della direttiva, la Commissione rileva che il settore dei pagamenti mobili, pur essendo in costante espansione, non ha manifestato a pieno quella capacità di sviluppo che ci si attendeva. Un ostacolo alla crescita è costituito dalla scarsa propensione delle imprese di telecomunicazioni ad assoggettarsi alla vigilanza di una seconda autorità, diversa da quella di settore, che ormai ben conoscono e ad ottemperare a tutti i requisiti (in particolare, quelli relativi alla professionalità, onorabilità e indipendenza degli amministratori), richiesti dall’art. 114-novies, t.u.b. 14. Nel recente Libro Verde sul mercato europeo integrato dei pagamenti 15 si preannuncia comunque una più incisiva regolazione, volta a favorire la standardizzazione e l’interoperabilità in materia di pagamenti mobili. In ogni caso, e per tutti gli operatori del settore dei servizi di pagamento che svolgano anche attività imprenditoriali diverse, una regola di garanzia è comunque costituita dal dovere di separazione contabile delle risorse destinate, dall’operatore autorizzato, ai servizi di pagamento. Misure più rigorose, come la separazione strutturale o societaria, possono essere disposte dalle autorità di regolazione, ma solo in presenza di

8.6.2012. Recentissima è poi la notizia che i tre principali operatori di rete mobile statunitense hanno costituito un consorzio per realizzare il servizio di pagamenti mobili, senza cooperazione di un partner bancario (cfr. Kharif, Moritz, Isis Mobile-Payment System to Debut in September After Delays, in Bloomberg.com, Aug. 26, 2012). 13. In tal senso sono già anche alcuni significativi precedenti europei, come il caso spagnolo (ormai risalente: ottobre 2000) di autorizzazione ad un’operazione di concentrazione fra Telefónica e BBVA, che è stata data con prescrizioni penetranti circa il diritto di accesso dei concorrenti al sistema creato dai due grandi operatori (cfr. Mas, Competition aspects of new mobile payment networks: The case of mobile payments in Spain, 2008 (paper disponibile in S.S.R.N.). 14 Cfr. Mannella, La nuova disciplina, cit., p. 356. Una conferma, in certo senso, di quanto sopra asserito, può trarsi anche dal recente art. 8, d.l. 18 ottobre 2012, n. 79, conv. con l. 17 dicembre 2012, n. 221, che, allo scopo di favorire la diffusione di alcune modalità di micropagamenti elettronici (biglietti del trasporto pubblico locale, telepedaggio autostradale) ha disposto una deroga, per tali pratiche, dal sistema di vigilanza dei servizi di pagamento. 15. Commissione Europea, Libro Verde – Verso un mercato europeo integrato dei pagamenti tramite carte, internet e telefono mobile, Bruxelles, 11.1.2012 – COM(2011) 941 def.

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concreti pericoli relativi alla solidità finanziaria dell’operatore (art. 10.5 Dir. 64/07). Il legislatore italiano si è avvalso dello spazio di autonomia dato dalla direttiva per imporre a tutti gli istituti di pagamento la costituzione di un patrimonio separato per la gestione del servizio (art. 114-terdecies t.u.b.; disposizione che viene giustamente interpretata non come richiamo all’art. 2447-bis, c.c., bensì come intesa a disporre una figura autonoma di patrimonio separato 16, caratterizzata da separazione piena, ed ammissibile anche nelle s.r.l.) 17.

2. Inquadramento del modello nelle previsioni costituzionali. Il modello regolatorio, sopra rapidamente riassunto, non ha caratteristiche di particolare originalità. Si tratta di un modello standard di organizzazione di mercato, in cui non è garantita piena libertà di accesso agli operatori, ma si richiede la presenza di un organismo di regolazione con poteri di autorizzazione e di vigilanza, senza peraltro giungere all’adozione dei modelli regolatori più pervasivi, che sono propri dei servizi di interesse economico generale. Può aggiungersi che il modello di regolazione dei mercati, adottato per i servizi di pagamento, è tra quelli espressamente contemplati dall’art. 41, co. 3, Cost., nella parte in cui esso prevede che determinate attività economiche possano essere sottoposte a controlli (e, ma non necessariamente, anche a “programmi”) da parte della pubblica amministrazione, per fini sociali (quale può essere anche il funzionamento sicuro ed efficiente dei sistemi di pagamento). Il contemperamento di questo modello di regolazione con il principio di libertà di concorrenza è garantito semplicemente dall’esclusione della possibilità di utilizzare lo strumento dell’autorizzazione per limitare il numero di imprese presenti nel mercato; in altri termini, non è consentito proteggere le imprese già affermate, a danno di quelle nuove entranti. È quindi bandito un tipo di regolazione in funzione di sostitu-

16

Cfr. Papa, in La nuova disciplina, cit., p. 478 ss. Sui rapporti privatistici che in tal modo si instaurano fra l’istituto di pagamento e l’utente del servizio (tema su cui non ci si sofferma nel testo) v. Santoro, I conti di pagamento degli Istituti di pagamento, in Giur. comm., 2008, I, p. 855 ss.; Troiano, Contratti di pagamento e disciplina privatistica comunitaria (proposte ricostruttive con particolare riferimento al linguaggio e alle generalizzazioni legislative), in Banca, borsa, tit. cred., 2009, I, p. 520 ss. 17.

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tivo (o garante) di accordi di cartello, che era diffuso in passato e che è da ritenere – in via generale – incompatibile con i principi di tutela della concorrenza; è invece ammissibile una disciplina che sottoponga le imprese a controlli abilitativi sull’idoneità tecnica, senza alcuna discrezionalità dell’amministrazione nel valutare l’opportunità o meno dell’ingresso di una nuova impresa nel mercato 18. I principi costituzionali e comunitari in materia di libertà d’impresa legittimano dunque solo questo tipo di controlli abilitativi non discrezionali. Si tratta di una disciplina razionale, che non richiede interventi di riforma 19.

18.

Inopinatamente questa indicazione di principio (che è stata più volte affermata dalla giurisprudenza amministrativa nell’ultimo decennio: v., per esempio, Cons. St., sez. VI, 3 settembre 2009, n. 5195) è stata disattesa da Cons. St., sez. VI, 28 ottobre 2010, n. 7641, secondo cui “è legittimo il diniego di rilascio di una nuova autorizzazione all’esercizio di un istituto di vigilanza privata, motivato facendo riferimento all’alto numero di autorizzazioni già rilasciate, stante la capillare presenza sul territorio di agenzie di vigilanza private e la non favorevole contingenza economica, che rende difficoltoso per le imprese di piccole dimensione il ricorso al servizio offerto”. 19. Le osservazioni testé svolte consentono di denunciare incidentalmente, anche in questa sede, la superficialità del recente (estate 2010) dibattito sulla riforma dell’art. 41 Cost. Questa fondamentale disposizione ha certamente due limiti storici: non impone allo Stato la tutela della concorrenza (ma a ciò ha supplito la riforma costituzionale del 2001) e detta una sorta di presunzione assoluta di conformità al pubblico interesse delle norme di regolazione pubblicistica dei mercati (ma anche questa visione del problema è da ritenersi oggi superata sulla scorta del principio costituzionale di tutela della concorrenza, che si pone come limite sia all’azione privata delle imprese, sia all’azione normativa ed amministrativa dei soggetti pubblici). Ciò posto, si deve riconoscere che l’art. 41 Cost. non ha mai creato ostacoli, né sembra poterne creare in futuro, a misure di liberalizzazione dei mercati. Né si dica che la riforma è necessaria per sostituire ad un sistema di autorizzazione amministrativa preventiva delle attività economiche un sistema che preveda come regola generale la semplice dichiarazione di inizio di attività. Questa affermazione – che è stata fatta, anche da fonti autorevoli, nelle discussioni dell’estate scorsa - lascia invero sorpresi, perché una norma come quella auspicata esiste già da tempo nell’ordinamento italiano: è l’art. 19, l. 7 agosto 1990, n. 241 (il cui testo era stato già modificato l’anno scorso con la l. 69/2009). Per non parlare dei piccoli esercizi commerciali (c.d. esercizi di vicinato), per i quali il sistema della d.i.a. (dichiarazione di inizio di attività) è in vigore già dall’entrata in vigore della riforma Bersani sul commercio (art. 7, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114). Tutto il recente, breve dibattito sulla riforma dell’art. 41 si è incentrato sulla esigenza di rimozione degli intralci (veri o presunti) all’avvio di nuove attività, ed ha avuto come risultato la riforma del sopra citato art. 19 della l. 241/1990, avvenuta con l’art. 9, co. 4-bis, il d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. con l. 31 luglio 2010, n. 122, che ha allargato l’ambito di applicazione della d.i.a., modificandone altresì il nome (ora è divenuta “se-

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3. La promozione della concorrenza nella regolazione di settore dei servizi di pagamento. Ciò posto, si deve ribadire che il settore dei servizi di pagamento è strutturalmente soggetto a regolazione amministrativa speciale (i.e. di settore). In tal senso dispone l’art. 21, Dir. 64/07. La pericolosità insita nel servizio imponeva questa scelta normativa. È da rilevare che le indicazioni comunitarie circa i contenuti della regolazione del settore non contengono tra i fini espressamente dichiarati, a differenza di quanto avviene in altri settori (p.e. comunicazioni elettroniche, energia), la “promozione della concorrenza” all’interno del settore regolato. Tuttavia è opinione diffusa e fondata che “obiettivo della direttiva PSD è quello di sostenere l’intensificarsi della concorrenza, nel mercato dei pagamenti al dettaglio, dove la competizione tende a tradursi rapidamente in benefici per gli utenti finali sia sotto il profilo della efficienza (tempi e costi di utilizzo dei servizi) sia sotto il profilo della sicurezza” 20. Questa affermazione deve intendersi non solo nel senso della (sopra segnalata) garanzia di libertà di accesso al mercato dei sistemi di pagamento da parte di nuovi soggetti, ma anche nel senso della garanzia di libertà di introduzione nel mercato di strumenti di pagamento innovativi (non esiste una regola di tassatività, né di controllo amministrativo preventivo sugli strumenti di pagamento, a differenza di quanto è parzialmente previsto per gli strumenti finanziari). In questo quadro, è inoltre garantito il principio di neutralità tecnologica 21 (che può configurarsi ormai come un principio generale della regolazione amministrativa dei mercati). Il settore dei servizi di pagamento è invece contrassegnato da una integrazione fra regolazione pubblica ed autoregolazione privata, netta-

gnalazione certificata di inizio di attività”: s.c.i.a.). Il risultato è sotto gli occhi: le imprese non hanno mostrato entusiasmo per l’innovazione (probabilmente perché sono aumentati i costi e le responsabilità a loro carico) e nessuna spinta l’innovazione normativa sembra aver dato allo sviluppo economico italiano. 20. Condemi, Gli istituti di pagamento tra orientamenti comunitari e disciplina nazionale, in Armonizzazione europea dei servizi di pagamento e attuazione della direttiva 2007/64/CE (cit., nt. 6), p. 337. L’a. prosegue affermando che “coerentemente con l’obiettivo dell’intensificarsi della concorrenza, … la direttiva PSD ha assegnato alla regolamentazione un peso limitato, più precisamente, un peso direttamente ed immediatamente proporzionato e/o correlato all’effettivo livello di rischiosità dell’intermediario autorizzato”. In senso conf. Fucile, Granieri, in La nuova disciplina, cit., p. 345 ss. 21 Cfr. Granieri, Le liberalizzazioni, cit., p. 112.

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mente più accentuata di ciò che si registra nella maggior parte dei settori amministrativamente regolati. In sostanza, “le norme dettate dalla Commissione nella Direttiva si pongono come cornice regolamentare di carattere orizzontale, mentre la normativa tecnica del rulebook introduce la regolazione specifica per tipologie di sistemi di pagamento” 22. In particolare, la regolazione di settore mira a realizzare (cfr. art. 1, co. 1, lett. z, d.lgs. 11/2010) una “area unica dei pagamenti in euro” (“AUPE”; ma è anche molto usata la sigla “SEPA”: Single European Payments Area) ed è pur sempre incentrata su un’autorità amministrativa indipendente (che, in Italia, è la stessa autorità che presiede al settore bancario), ma prevede poi la presenza di un forte organismo di autoregolazione (l’European Payment Council), che svolge una funzione complementare importante 23. Si tratta di un modello organizzativo non ignoto all’esperienza recente di globalizzazione dei mercati e di evoluzione delle fonti del diritto dell’economia 24 (l’esempio più noto ed importante è quello costituito dall’elaborazione degli IAS da parte dello IASC – International Accounting Standards Committee Foundation). Oggi ci si trova di fronte ad una probabile svolta: la Commissione pone decisamente quattro obiettivi di miglioramento del sistema (più concorrenza – più scelta e trasparenza per i consumatori – più innovazione – più sicurezza e fiducia per i consumatori), in un quadro di uniformazione europea, e a tal fine si propone di dettare una più incisiva regolazione amministrativa del settore, in funzione soprattutto proconcorrenziale. Ciò detto in termini generali, può notarsi che la regolazione di settore detta già oggi diverse norme aventi funzione di promozione della concorrenza.

22

Cfr. Granieri, Le liberalizzazioni, cit., p. 105. Santoro, in La nuova disciplina, cit., p. 32 ss. L’European Payments Council (EPC) è un’associazione, composta da un’ottantina di banche, associazioni bancarie e istituti di pagamento. È statutariamente definito come “ente di coordinamento e deliberativo dell’industria bancaria europea, in relazione ai pagamenti in euro” e alla realizzazione della SEPA (Single Euro Payments Area). L’EPC ha redatto le regole tecniche (Rulebooks) a cui si attengono i soggetti aderenti, per realizzare trasferimenti di fondi all’interno del sistema. Il potere deliberativo fondamentale, all’interno dell’EPC, è affidato all’assemblea generale, che delibera a maggioranza qualificata di due terzi dei componenti. In generale, sull’EPC v. Derouck, What’s what in Europe. European Payments Council, EPC, in Euredia, 2009, p. 17 s. 24. V., per tutti, Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, 2009. 23

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3.1. La libertà di accesso al mercato. La prima norma di questo tipo è quella che sancisce, in linea di principio, la libertà di accesso degli operatori interessati ai diversi sistemi di pagamento. L’art. 28 della Direttiva sancisce infatti in linea di principio, per tutti i sistemi di pagamento, l’obbligo di non discriminare nell’accesso di prestatori di servizi di pagamento. La disposizione è stata recepita, senza sostanziali modifiche, dall’art. 30 d.lgs. 11/2010. In altri termini, ciò significa che oggi quasi tutte le infrastrutture destinate alla prestazione di servizi di pagamento sono considerate come infrastrutture “essenziali” 25 (conclusione a cui potrebbe giungersi anche in applicazione delle norme antitrust generali 26) e soggette a regole di apertura all’accesso di tutti gli operatori interessati, a condizioni obiettive e non discriminatorie 27. L’art. 28 è stato molto criticato per l’oscurità di alcune espressioni usate 28. E in effetti è criticabile la mancata estensione del diritto di accesso ad alcuni tipi di sistemi di pagamento: non solo per i sistemi “a tre parti” o “chiusi” o “proprietari” (cioè quelli in cui lo stesso soggetto emette la carta a favore di un cliente ed accende convenzioni con esercenti che accettino quella carta), ma anche per sistemi che potrebbero definirsi semiaperti (o semichiusi, se si vuole), quali sono quelli definiti dall’art. 28, co. 2, lett. c della Direttiva (e ora dall’art. 30, co. 3, lett. c, n. 2, d.lgs. 11/2010) 29; ciò

25

Così, in termini, cfr. Granieri, Le liberalizzazioni, cit., p. 114. Cfr. Trib. I gr. UE, sez. V, 14 aprile 2011, T-461/07, Morgan Stanley – Visa. 27. Fucile, Granieri, in La nuova disciplina, cit., pp. 360-361, dubitano che le norme che impongono il diritto di accesso ai sistemi di pagamento abbiano, sul piano civilistico, una portata invalidante della clausole discriminatorie, eventualmente contenute nelle condizioni generali di accesso stabilite dall’istituto di pagamento. La sanzione sarebbe costituita dai poteri di intervento dell’autorità di regolazione. Questa conclusione non mi sembra condivisibile: è principio generale del diritto europeo dei mercati che i rimedi privatistici debbano essere tendenzialmente riconosciuti in modo ampio, al fine di rafforzare la stessa regolazione pubblicistica dei mercati. Inoltre, tale linea di politica legislativa può dirsi già, da tempo risalente, presente nel diritto italiano (v., in particolare, l’art. 2597 c.c.). Infine, l’ampia portata testuale e sistematica dell’art. 1418, co. 1°, c.c., porta linearmente a riconoscerne l’applicabilità in situazioni – come quella in esame – in cui una disposizione di legge vieta espressamente determinate clausole contrattuali. 28. Granieri, Le liberalizzazioni, cit., p. 115; Gimigliano, La disciplina della concorrenza e i servizi di pagamento al dettaglio: continuità e discontinuità della direttiva 2007/64/ CE, in Banca, impresa, soc., 2009, p. 269 ss. 29. “Sistemi di pagamento in cui uno stesso prestatore di servizi di pagamento… au26.

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significa che, allo stato, i sistemi “a tre parti”, che potrebbero essere particolarmente innovativi, non sono riconosciuti come infrastrutture essenziali 30 per tutti i potenziali partecipanti al sistema; norma che potrebbe avere la ratio di incentivare l’ingresso nel mercato di operatori alternativi, ma che può avere anche l’effetto di favorire la tendenza a sviluppare i servizi alternativi solo come sistemi “di nicchia”. Inoltre, è stata giustamente criticata la mancata previsione di un diritto di accesso di qualsiasi gestore di servizi di pagamento ad almeno un sistema di compensazione o regolamento; ciò sul presupposto (non conforme a realtà) che il mercato offra valide alternative, in materia di sistemi di compensazione e regolazione; mentre il sistema di compensazione gestito da Banca d’Italia (BI-COMP) non è, al momento, aperto a tutti gli operatori non bancari 31. Il problema comunque non riguarda solo l’Italia: il recente Libro Verde della Commissione (§ 4.1.5) segnala l’esigenza di un intervento regolamentare espresso, per superare questo ostacolo, che attualmente grava sugli istituti di pagamento alternativi. Un ulteriore profilo, segnalato dal Libro Verde (§ 4.1.7) riguarda la condivisione delle informazioni relative alla disponibilità di fondi del cliente nei conti bancari. L’accesso a queste informazioni, da parte degli istituti di pagamento alternativi, potrebbe essere di stimolo allo sviluppo della loro attività e quindi avere – secondo la Commissione – una funzione di promozione della concorrenza. Allo stato, però, ci sono ostacoli regolamentari alla realizzazione di una simile prassi, sia per ciò che attiene alla tutela dei dati personali, sia per ciò che attiene alla generale presunzione negativa, che circonda – sul piano dell’applicazione delle norme antitrust – gli accordi di scambio di informazioni fra imprese concorrenti. 3.2. Il diritto di recesso dell’utente. Una seconda norma promozionale, in certo senso speculare rispetto a quella che sancisce il diritto di accesso, è quella che garantisce il diritto

torizza altri prestatori di servizi di pagamento a partecipare al sistema e questi ultimi non hanno la possibilità di negoziare commissioni fra loro in relazione al sistema di pagamento benché possano stabilire le proprie tariffe nei confronti degli utilizzatori dei servizi di pagamento”. 30 Per questa critica v. Fucile, Granieri, in La nuova disciplina, cit., p. 361. 31 In tal senso cfr. Fucile, Granieri, in La nuova disciplina, cit., p. 349.

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di recesso ad nutum e senza penali, con un preavviso massimo di 3 mesi, a favore di tutti gli “utenti di servizi di pagamento” (cioè “pagatori” e “beneficiari”) [art. 45 Dir. 64/07; art. 126-septies t.u.b., che ha accentuato la tutela dell’utilizzatore, rispetto al minimo imposto dalla Direttiva]. Non sono invece espressamente vietate le clausole di vincolo temporale poste a carico dei “prestatori” (anziché degli “utenti”) dei servizi di pagamento. Per queste varranno le norme antitrust generali. 3.3. Le pratiche di surcharge. Una terza norma avente finalità di promozione della concorrenza è quella dell’art. 52 della Direttiva, che legittima le pratiche di surcharge per l’uso di determinati strumenti, da parte dell’esercente commerciale. È intuibile che la possibilità di sovrapprezzo in capo all’utilizzatore del servizio costituisce, per i fornitori del servizio stesso, un incentivo a competere 32. In passato, tuttavia, le clausole di surcharge sono state largamente vietate, su base convenzionale, perché avevano l’effetto di disincentivare l’uso della carta di credito (comportante, per il merchamt, un costo maggiore rispetto ai vecchi mezzi di pagamento). In questa prospettiva (che forse può dirsi quella “tradizionale”, nella breve storia della regolazione del settore), la funzione del surcharge appare, al contrario di quanto detto prima, un ostacolo alla concorrenza (i.e. all’ingresso nel mercato dei servizi di pagamento di operatori innovativi). Proprio in considerazione di questa ambivalenza del sovrapprezzo, l’art. 52 della Direttiva ammette che gli Stati membri possano vietare questa pratica per la “necessità di incoraggiare la concorrenza e di promuovere l’uso di strumenti di pagamento efficaci”. La Repubblica italiana si è avvalsa di questa facoltà, con l’art. 3, d.lgs. 11/2010, che sancisce legislativamente il divieto di surcharge per l’utilizzo di determinati mezzi di pagamento 33. La finalità del divieto è, ovviamente, quella di favorire la

32

Fucile, Granieri, in La nuova disciplina, cit., p. 365. Secondo Doria, in La nuova disciplina, cit., p. 69 ss., il divieto di cui al co. 3 sarebbe (seguendo la nota distinzione di Cass., S.U., n. 26724/2007) una norma imperativa “comportamentale”, non incidente sulla validità della clausola, ma solo su eventuali effetti risarcitori e sull’applicabilità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette. L’opinione non sembra, tuttavia, convincente: qui la norma imperativa si riferisce proprio all’oggetto della clausola, e non a prestazioni imposte ad una delle parti nella fase preparatoria del contratto; non sembra che sussistano, dunque, ragioni per escludere l’applicabilità dell’art. 1418, co. 1, c.c. 33.

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diffusione degli strumenti avanzati di pagamento e di scoraggiare l’uso del contante 34, nell’ambito di una linea di politica legislativa più ampia, che ha il suo nucleo centrale nelle norme anti-riciclaggio (da ultimo, con l’art. 12, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, conv. con l. 22 dicembre 2011, n. 214). Ne consegue che tutte le clausole di divieto di surcharge, su cui si è discusso negli ultimi 15 anni, sono ancora pienamente conformi alla normativa in vigore in Italia. La presenza di una norma imperativa impedisce anche – a mio avviso – di sindacare la validità di tali clausole sulla scorta delle norme antitrust generali. La norma di recepimento (cioè il citato art. 3, d.lgs. 11/2010) ha però opportunamente sancito che la Banca d’Italia “può stabilire con proprio regolamento deroghe tenendo conto dell’esigenza di promuovere l’utilizzo di strumenti di pagamento più efficienti ed affidabili”: in altri termini, è data al regolatore la funzione di seguire l’andamento del mercato e, a seguito di adeguata analisi dello stesso, stabilire se le esigenze di promozione della concorrenza impongano la deroga al divieto di surcharge. Questa scelta appare opportuna; tanto più che il Libro Verde contiene (§ 4.2.2) un ripensamento autocritico sulla scelta della Direttiva, di rimettere sostanzialmente ai singoli Stati membri la scelta in materia di surcharge, perché ciò ha determinato scelte normative radicalmente diverse nei diversi territori. Oggi, la scelta che la Commissione suggerisce è quella di un’ammissibilità di principio delle clausole di sovrapprezzo o di riduzione, accompagnata da misure di controllo volte ad evitare che tali clausole siano utilizzate dai commercianti in modo opportunistico e non sulla base di criteri di corretta traslazione di costi sul consumatore finale. C’è dunque largo spazio per una regolazione del fenomeno, con finalità di promozione della concorrenza, da parte della Banca d’Italia.

4. L’applicazione delle norme generali di concorrenza. L’analisi economica dei mercati dei servizi di pagamento. Rimangono in ogni caso impregiudicate, a seguito della direttiva, le questioni propriamente riferibili all’applicazione delle norme di concorrenza nei mercati dei servizi di pagamento.

34 Cfr. Doria, in La nuova disciplina, cit., p. 67 ss.; per una approfondita trattazione delle discussioni in materia v. Semeraro (alla cit. successiva), che conclude in senso favorevole al divieto di surcharge.

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A tale proposito, è opportuno premettere una breve ricognizione dei risultati raggiunti nell’analisi dei mercati dei servizi di pagamento, che è stata variamente approfondita negli ultimi anni 35. Tali risultati possono essere fondamentalmente riassunti come segue: I mercati dei servizi di pagamento sono mercati multi-sided, cioè coinvolgono diverse prestazioni fra loro complementari [in altri termini: non c’è un mercato bilaterale dell’offerta/domanda di servizi di delegazione di pagamento, ma c’è solo l’offerta di servizi complessi (carte di credito, etc.), che possono coinvolgere come minimo tre soggetti (nei c.d. sistemi proprietari), ma più spesso ne coinvolgono 4 o 5 per ogni singola operazione] 36.

35. V., oltre agli scritti citati alle note successive, Economia dei sistemi di pagamento (nt. 3) [peraltro più orientato all’esame della gestione dei rischi e del ruolo di vigilanza della Banca centrale, nonché all’esame di altri profili organizzativi, che non verso i profili di analisi economica accennati nel testo; ma v. ivi, in particolare, Ardizzi, Impenna, Masi, La teoria economica dei sistemi di pagamento (p. 81 ss.)]; cfr. inoltre Constantine, Shinder, Coughlin, In re Visa/Check Mastermoney Antitrust Litigation: a Study of Market Failure in a Two-Sided Market, in Columbia Business Law Review, 3/2005, 599 ss.; Humphrey, Payment Scale, Economies, Competition and Pricing, in European Central Bank – Working Paper Series – n. 1136, Dec. 2009; Semeraro, The Antitrust Economics (and Law) of Surcharging Credit Card Transactions, in 14 Stanford Journal of Law, Business & Finance, 2009, p. 343 ss. 36. Questa necessaria interrelazione fra differenti versanti a cui è rivolto il servizio da parte dell’intermediario avanzato rende, in certo senso, fuorviante la distinzione fra servizi “al dettaglio” e “all’ingrosso”, che viene riproposta anche nel settore dei servizi di pagamento (v., per esempio, Salamone, Lo statuto, p. 765 ss.), ma rimane appropriata solo nei tradizionali settori che presentano una catena lineare di passaggi (produttore / grossista / dettagliante / consumatore). Per le stesse ragioni appare sfocata la distinzione, corrente nei provvedimenti dell’AGCM (infra citati) in materia di carte di credito e di debito, fra mercati “a monte” (quelli in cui operano i circuiti, mediante offerta agli issuer, e mercati “a valle”, cioè quelli in cui si realizza il rapporto fra issuer delle carte e acquirer, che convenzionano gli esercenti che accetteranno il mezzo di pagamento). Nello stesso scritto, sopra citato, di Salamone, Lo statuto, p. 768, la “multilateralità del mercato” è correttamente evidenziata e sono elencati i numerosi provvedimenti dell’AGCM in cui il punto è stato riconosciuto. V. anche Olivieri, Concorrenza e contratto nei servizi di pagamento, in Il diritto dei sistemi di pagamento, a cura di Santoro, Milano, 2007, p. 179. Tuttavia, nella (importantissima) sentenza Mastercard (infra, nt. 48), la Commissione U.E. prima, e il Tribunale di I grado U.E, hanno sancito che, ai fini delle valutazioni antitrust, la complementarietà dei differenti versanti non è rilevante e gli effetti restrittivi della concorrenza devono essere valutati in relazione a ciascun mercato dell’offerta. Nella specie (per usare le stesse parole della sentenza, § 172), “la Commissione ha ritenuto che

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Nei mercati di questo tipo i singoli servizi sono legati fra loro da network effects: l’utilità del servizio si accresce al crescere del numero degli aderenti alla rete. Ciò comporta, dal punto di vista del diritto della concorrenza, la necessità di configurare ogni rete, che abbia raggiunto il risultato di una presenza non marginale nel mercato, come una infrastruttura essenziale virtuale 37, garantendo dunque il diritto di accesso, a condizioni non discriminatorie, alla rete stessa. Al fine di sostenere la possibilità di sviluppo della concorrenza fra sistemi, non possono essere, in linea di principio, consentite esclusive di diritto o di fatto a carico di chi accede alla rete. Per la stessa ragione si deve garantire, nei limiti del possibile, l’interoperabilità fra sistemi diversi. Nei mercati multi-sided si determina una sorta di distorsione strutturale nella formazione dei prezzi: dato che i fornitori di (certi) servizi tengono contatti con diverse categorie di utilizzatori, che stanno su mercati diversi, essi tendono a distribuire l’offerta di prezzo nel modo per loro più conveniente, gravando i corrispettivi sulla componente più rigida della domanda 38, ovvero utilizzando meccanismi di sussidi incrociati.

i sistemi di carte bancarie quadripartiti intervenissero in tre mercati distinti, un mercato intersistemico, un mercato dell’emissione e un mercato dell’affiliazione, e si è fondata sugli effetti restrittivi delle CMI sul mercato dell’affiliazione”. Questa impostazione è corretta, per ciò che riguarda il profilo dell’individuazione delle restrizioni della concorrenza. Tuttavia, mi sembra innegabile che, al fine di valutare i guadagni di efficienza che potrebbero portare all’esenzione ex lege di un’intesa, ai sensi dell’art. 101.3 T.F.U.E., l’analisi economica deve estendersi all’insieme dei rapporti coinvolti nell’utilizzo dello strumento di pagamento (e quindi a tutti i differenti “versanti” di mercato su cui il sistema incide). 37. Il punto, in effetti (e con esso lo stesso riconoscimento della figura evocata nel testo), non è scontato. Per brevità, mi permetto di rinviare a Libertini, L’abuso di posizione dominante, in Manuale di diritto privato europeo, a cura di Castronovo e Mazzamuto, Milano, 2007, p. 303 ss.; nonché a Rotigliano, Beni pubblici, reti e la dottrina delle “essential facilities”, in Dir.amm., 2006, p. 947 ss. Come si vedrà più avanti, l’evoluzione della disciplina europea ha comunque portato al sostanziale riconoscimento del punto segnalato nel testo. 38. Nel settore dei servizi di pagamento questa componente, nella maggior parte dei casi, è costituita dagli esercenti commerciali, che hanno interesse, anche per ragioni di immagine, di mostrare alla clientela la massima disponibilità all’accettazione dei diversi mezzi di pagamento. In certi casi, tuttavia, la parte debole della rete di rapporti può essere costituita proprio dal cliente finale, in qualità di solvens: ciò può accadere soprattutto nei casi di rapporti di massa (p.e. in materia di servizi pubblici), qualora il fornitore del servizio privilegi certi mezzi di pagamento rispetto ad altri.

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Tutto ciò può avere effetti negativi sul piano dell’efficienza allocativa. Si pensi alla TV in chiaro: ha bisogno di telespettatori, ma ancor più ha bisogno di acquirenti di spazi pubblicitari; ne consegue che soddisferà i bisogni dei consumatori nella misura in cui possano essere a loro volta utile base per campagne pubblicitarie. Un fenomeno analogo 39 si realizza nel mercato dei servizi di pagamento: il consumatore finale, che sceglie lo strumento di pagamento, non percepisce il costo complessivo derivante dall’impiego di un certo mezzo anziché di un altro. A fronte di ciò, si rileva che l’allocazione della maggior parte del costo a carico della componente del mercato che esprime una domanda più rigida ha l’effetto di incrementare la dimensione complessiva degli scambi e quindi il benessere del consumatore. Quest’ultimo argomento è prevalso nella materia in esame, anche se il problema complessivo dell’efficienza dei mercati multi-sided rimane ancora molto dubbio, a livello teorico.

5. Il favor tradizionale per l’autoregolazione privata dei servizi di pagamento. Nel caso dei servizi di pagamento l’analisi del mercato e delle sue caratteristiche multi-sided è stata tradizionalmente utilizzata per sottolineare la positività per i consumatori degli effetti di rete (oltre che, ovviamente – a monte – dei servizi avanzati in sé, come strumenti idonei a ridurre i rischi per la sicurezza, tradizionalmente derivanti dal maneggio di denaro o di titoli di credito emessi da privati). Si è pertanto correntemente ritenuto che, “dato l’elevato numero di soggetti sul mercato del convenzionamento e dell’emissione di carte, sia impossibile regolare su base bilaterale i rapporti di ogni singolo acquirer ed ogni singolo issuer 40. Costi transattivi e rischio di hold-up impongono il pooling e, in definitiva, la creazione di una struttura orizzontale di cooperazione fra soggetti emittenti e soggetti acquirenti” 41.

39.

Segnalato anche nel Libro Verde sul mercato europeo integrato dei pagamenti (§ 4.2.1). Si ricorda, a titolo informativo, che per acquirer si intende il soggetto (di solito una banca) che convenziona l’esercente (merchant) che si impegna ad accettare i pagamenti a mezzo della carta di cui si tratta, e per issuer la banca che emette la carta a favore del cliente che potrà poi utilizzarla presso gli esercenti convenzionati. Le due funzioni, di issuer e di acquirer, possono coincidere in capo allo stesso soggetto (ciò che di solito accade per le banche di maggiori dimensioni). 41. Pardolesi, La concorrenza nell’industria delle carte di credito. Riflessioni preliminari, in Dir. banc., 2006, p. 9. 40.

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Si è dunque formato spontaneamente un processo di autoregolazione dei mercati dei servizi di pagamento 42, che effettivamente ha consentito la crescita costante delle dimensioni dei mercati dei servizi di pagamento avanzati. Naturalmente, ciò comporta conseguenze, dal punto di vista del diritto della concorrenza: “La autoregolazione di settore presuppone un elevato grado di interazione fra i soggetti coinvolti e il conseguente rischio che la cooperazione trascolori in collusione” 43. L’impostazione del problema, elaborata dalle parti interessate in sede di autoregolazione, è stata però generalmente condivisa, per molti anni, delle autorità antitrust. Ciò ha portato a legittimare, in particolare, tre tipi di accordi, rilevanti per il diritto della concorrenza (che, come tali, sarebbero difficilmente accettati in altri settori economici) 44: 1. Gli accordi di determinazione di commissioni interbancarie uniformi (multilateral interchange fees) per tutti gli aderenti ad un certo sistema di pagamento; commissioni destinate poi ad essere liquidate con meccanismi di compensazione [interchange-fee]. Le commissioni si distinguono, poi, in componenti fisse (membership fees) e componenti variabili (usage fees). 2. Le clausole di non discriminazione fra gli aderenti al sistema (i.e. l’utilizzatore del servizio deve prenderlo in blocco, come servizio indivisibile, di cui possono fruire un numero X di banche o di altri esercenti etc.; deve inoltre accettare tutte le carte emesse dal circuito, anche se aventi caratteristiche diverse o comportanti interchange fees differenziate) [clausola di onore per tutte le carte del circuito: honor-all-cards / HAC]. 3. Le clausole di non discriminazione fra strumenti di pagamento, cioè di divieto di imposizione di sovrapprezzi (o, specularmente, di concessione di sconti) per l’utilizzazione di certi sistemi di pagamento a differenza di altri [no-discrimination rule / NDR].

6. L’attuale fase di transizione verso un più rigoroso scrutinio degli strumenti di autoregolazione privata. La ragione che sta a fondamento di queste conclusioni favorevoli delle autorità antitrust deve ravvisarsi, ragionevolmente, prima ancora

42

Granieri, Le liberalizzazioni, cit., p. 97. Granieri, Le liberalizzazioni, cit., p. 99. 44. Per informazioni accurate sulla casistica in materia si rinvia a Salamone, Lo statuto, cit., p. 768 ss. 43

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della considerazione delle esternalità positive di rete, nel favor per la diffusione di servizi innovativi di pagamento. Solo questa considerazione può spiegare il fatto che si siano legittimati veri e propri accordi orizzontali di uniformazione di un prezzo intermedio, come sono quelli che fissano le commissioni interbancarie, fino ad ammettere che “eccessive riduzioni della commissione interbancaria potrebbero compromettere l’interesse delle banche ad offrire il servizio in circolarità” 45. La casistica giurisprudenziale più significativa riguarda le commissioni interbancarie. Qui la Commissione U.E. e la Corte di Giustizia hanno a lungo valutato positivamente lo strumento, qualificandolo come restrittivo della concorrenza, ma meritevole di esenzione 46; e l’AGCM, anche in tempi recenti, si è preoccupata più di ridurre l’ammontare delle commissioni per orientarlo rigorosamente al costo, mediante lo strumento degli impegni, che non di valutare a fondo gli eventuali effetti restrittivi 47. Il controllo delle clausole MIF è così servito ad esercitare una “pressione cripto-regolatoria” 48 sul sistema dei servizi di pagamento, con scarsa coerenza con gli orientamenti generali del diritto antitrust. Il diritto vivente europeo ha però mutato orientamento, nelle sue espressioni più recenti, ed ha subordinato il godimento dell’esenzione, da parte degli accordi di commissione interbancaria nei sistemi di pagamento, alla rigorosa prova dei guadagni di efficienza garantiti dall’accordo stesso 49. In altri termini, non è stata più considerata sufficiente – co-

45.

Così (riferendo peraltro orientamenti giurisprudenziali comunitari) AGCM, provv. n. 16709 (I 661) del 18 aprile 2007, Accordi interbancari “AGI – COGEBAN”. 46. Cfr. il leading case di Corte Giust. CE, 14 luglio 1981, C-172/80, Züchner. Nello stesso senso si era orientata la Banca d’Italia, negli anni in cui aveva competenza in materia di autorizzazione delle intese nel settore bancario; e in ciò aveva incontrato il cauto consenso della dottrina (cfr. Sciarrone Alibrandi, La sorveglianza sui sistemi di pagamento: evoluzione, strumenti e limiti, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, p. 465). 47. AGCM, provv. n. 16709 (I661) del 18 aprile 2007, Accordi interbancari “ABI – COGEBAN”; AGCM, provv. n. 19726 (I704) del 9 aprile 2009, Assegni MAV – Commissioni interbancarie; AGCM, provv. n. 20576 (A414) del 16 dicembre 2009, Poste Italiane – Aumento commissione bollettini c/c; AGCM, provv. n. 21614 (I724) del 30 settembre 2010, Commissione interbancaria Pagobancomat; AGCM, provv. n. 21615 (I725) del 30 settembre 2010, Accordi interbancari “RIBA – RID –Bancomat”. Per la casistica precedente v. ancora Salamone, Lo statuto, cit., p. 775 ss. 48 L’espressione è di Pardolesi, La concorrenza, p. 18. 49. Comm. CE, Dec. COMP 34.579 del 19 dicembre 2007, Mastercard. La decisione della Commissione è stata confermata da Trib. I gr. UE, sez. VII, 24 maggio 2012, T-111/08,

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me accadeva un tempo, e come è stato fino a poco tempo fa nella prassi applicativa – la “funzionalità di uno schema di commissione ai fini della prestazione in circolarità dei servizi”, accompagnata dalla circostanza che il livello delle commissioni sia orientato al costo, ma occorre dimostrare vantaggi specifici per i consumatori. Anche se questa prova è stata da qualcuno definita “diabolica” 50, credo che non si possa eludere l’indicazione della giurisprudenza comunitaria (fatta salva la necessità di usare un criterio di ragionevolezza nell’accertamento del quid pluris a tutela del consumatore, che il sistema in esame sia in grado di realizzare). Peraltro, la stessa AGCM si è adeguata al precedente comunitario nel caso Mastercard, l’unico nel quale il procedimento si è chiuso con condanna, anziché con l’accettazione di impegni 51: il punto critico di questa vicenda era peraltro costituito dal fatto che, attraverso la combinazione di diverse clausole negoziali (costituenti un fascio di accordi verticali) si creava un interesse comune delle banche issuer ed acquirer a favorire l’emissione proprio delle carte con commissioni interbancarie più elevate, con il risultato di distorcere la concorrenza fra circuiti e di gravare maggiormente sulle merchant fee finali 52. Tuttavia, anche questo caso è stato riaperto da una sentenza del giudice amministrativo, che ha annullato per eccesso di potere la decisione dell’AGCM di rigettare la proposta di impegni presentata dall’impresa che gestisce il circuito interessato e di condannare, come intesa restrittiva della concorrenza, gli accordi fra il circuito e le banche (aventi ad oggetto la definizione di una commissione bancaria multilaterale) e le intese verticali fra le banche acquiring e i commercianti, in quanto comportanti la traslazione in modo uniforme delle commissioni predeterminate 53. Questa vicenda giudiziaria, molto interessante per alcuni profili

Mastercard. 50. È il giudizio di Falce, Il mercato integrato dei sistemi di pagamento al dettaglio tra cooperazione e concorrenza, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, p. 579. 51 Cfr. AGCM, provv. n. 21768 (I720) del 3 novembre 2010, Carte di credito. 52. Fra le clausole contestate – ragionevolmente – dall’Autorità vi era anche quella, generalmente diffusa, di c.d. blending, per la quale gli acquirer impongono agli esercenti una merchant fee uniforme su tutte le carte, emesse nell’ambito dei diversi circuiti, così annullando l’incentivo dei circuiti stessi a competere al ribasso sul livello di prezzo delle commissioni interbancarie. 53. La complessa vicenda giudiziaria, richiamata nel testo, ha segnato una prima tappa con la sentenza di TAR Lazio – Roma, sez. I, 16 novembre 2010, n. 33474, che ha annullato per eccesso di potere la decisione dell’AGCM di rigettare la proposta di impegni presentata dall’impresa.

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di stretto diritto amministrativo e per l’approfondimento dei problemi

Questa sentenza mi sembra criticabile per diversi aspetti: (i) considera legittima una delle ragioni di rigetto della proposta (cioè quella relativa al fatto che la proposta di impegni era condizionata ad una clausola di recesso a favore dell’impresa), ma poi, senza considerare assorbente tale circostanza, annulla ugualmente la decisione di rigetto e ne impone il riesame da parte dell’Autorità; (ii) ribadisce in più punti che le decisioni di rigetto delle proposte di impegni possono essere motivate anche sommariamente, ma poi esercita un sindacato particolarmente “forte” sulle motivazioni del rigetto nel caso concreto (fino a censurare l’Autorità per non avere richiesto chiarimenti in ordine ai criteri che avevano portato alla quantificazione di una proposta di impegno di riduzione del livello delle commissioni interbancarie, o per avere giudicato troppo breve il termine di durata degli impegni, che invece sarebbe stato giustificato dalla pendenza del giudizio sul caso comunitario [v. supra, nt. 24] dinanzi al Tribunale di I grado UE; (iii) in contrasto con precedenti affermazioni di principio dello stesso TAR Lazio (che ha annullato decisioni di accettazione di impegni, rimproverando all’Autorità di avere svolto, in concreto, un ruolo di autorità di regolazione, che non le competerebbe) finisce per censurare l’Autorità per non avere svolto, nel caso concreto, una funzione sostanzialmente regolatoria. Una seconda tappa delle vicenda (trascurando, in questa sede, gli intermezzi costituiti dai provvedimenti cautelari) è data dalla sentenza di Cons. St., sez. VI, 20 luglio 2011, n. 4393, che ha annullato la precedente sentenza del T.A.R. in base all’argomento, ritenuto dirimente, per cui “anche a seguito del rigetto degli impegni, non si consolida in capo ai soggetti proponenti alcun pregiudizio di carattere definitivo”; da qui l’inammissibilità del ricorso contro il provvedimento del rigetto, proposto dall’impresa proponente. L’argomento del Consiglio di Stato sembra formalmente corretto, ma è anche, in base alla semplice considerazione dell’esperienza comune, davvero “formalistico”. Per qualsiasi impresa sottoposta a procedimento antitrust, la chiusura del procedimento con l’accettazione degli impegni presenta vantaggi tangibili, sia in termini di riduzione dei costi e dei rischi del procedimento (nonché dei procedimenti civili c.d. follow on), sia in termini di immagine. Si deve pertanto riconoscere che sussiste un concreto e legittimo interesse dell’impresa interessata a vedere valutati i propri impegni con adeguata istruttoria e (aggiungerei) anche a ricevere una tempestiva risposta sulla propria proposta. Il fatto che nella prassi (anche comunitaria) la fase della valutazione degli impegni abbia assunto – come rileva la sentenza del Consiglio di Stato – un carattere sempre più “dialogato” non sembra un buon argomento per concludere nel senso che la fase della valutazione possa avere una durata indeterminata e non contenga alcun momento provvedimentale (se mai, ci sarebbero buone ragioni per dubitare della legittimità di alcuni aspetti di questa prassi, che sembra talvolta non coerente con la ratio della previsione normativa della chiusura del procedimento con impegni). In altri termini, se si muove da una concezione sostanziale e non formalistica dell’interesse legittimo [cioè si ritiene che l’interesse legittimo sia pur sempre un interesse sostanziale, attinente ad un concreto “bene della vita” (M. Nigro, Ma che cos’è questo interesse legittimo?, in Foro it., 1987, V, p. 469 ss.; Cass., S.U., 22 luglio 1999, n. 500) e non un interesse occasionalmente protetto al solo fine di contribuire all’interesse generale alla legalità dell’azione amministrativa] ne consegue che la tesi dell’inammissibilità del ricorso avverso il provvedimento di rigetto degli impegni finisce per lasciare privo di tutela giurisdizionale un concreto interesse dell’impresa, in contrasto con il principio dell’art. 24 Cost.

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di disciplina delle commitment decisions, ha finito per lasciare fuori dal sindacato del giudice amministrativo i profili sostanziali fondamentali, relativi all’asserita illiceità antitrust della decisione del circuito di fissare commissioni interbancarie uniformi per tutti i partecipanti al circuito stesso, e di imporne il trasferimento automatico sulle merchant fees, sfruttando poi gli effetti di rete per mantenere un’ampia diffusione delle carte del circuito, che imporrebbero – secondo gli accertamenti dell’Autorità antitrust – commissioni più elevate rispetto a quelle praticate da altri circuiti. Dopo questa occasione mancata, la discussione certamente continuerà; e può prevedersi che difficilmente la presunzione di necessità economica di commissioni interbancarie uniformi reggerà a lungo. Il trend europeo sembra anzi inclinare verso un progressivo rivoluzionamento

La terza tappa della vicenda è costituita dalla sentenza di TAR. Lazio - Roma, sez. I, 11 luglio 2011, n. 6172, che ha definitivamente annullato – come si ricorda nel testo – il provv. n. 21768/2009 (I720) dell’AGCM. La motivazione di questa sentenza è articolata su due punti: (i) l’illegittimità del provvedimento di rigetto della proposta di impegni avrebbe effetto “viziante” (anche se non “caducante”) nei confronti del provvedimento finale; (ii) nella specie, il rigetto degli impegni sarebbe illegittimo per difetto di istruttoria, in quanto l’AGCM non avrebbe adeguatamente valutato l’ipotesi che gli impegni potessero assimilare la prassi di mercato italiano a quella che, nel frattempo, si andava delineando a livello europeo. Quest’ultima sentenza suscita ulteriori perplessità. Oltre alla conferma del rilievo – già sopra formulato – circa il carattere assorbente che si sarebbe dovuto riconoscere alla fondatezza di almeno una delle ragioni di rigetto, si deve rilevare che appare discutibile proprio l’argomento centrale. A mio avviso l’eventuale illegittimità del provvedimento di rigetto degli impegni non ha efficacia invalidante sul provvedimento finale. Infatti, la portata del provvedimento di accettazione degli impegni sta nel prescrivere una certa correzione della prassi di mercato e nella rinunzia dell’Autorità ad accertare la sussistenza o meno di un illecito antitrust. Ma, se l’accertamento è ormai avvenuto, non c’è più un legittimo interesse dell’impresa proponente a far annullare il provvedimento di rigetto degli impegni. Infatti: se l’accertamento è stato negativo, l’interesse dell’impresa può al massimo appuntarsi sul risarcimento del danno subito per l’inutile prosecuzione del procedimento; se invece l’accertamento è positivo, non può riconoscersi un legittimo interesse dell’impresa a vedersi annullata una condanna (fondata) solo perché l’avrebbe potuta evitare se l’accertamento dell’illecito fosse stato escluso per via dell’accettazione degli impegni. L’accettazione degli impegni può fondarsi solo sulla valutazione discrezionale, da parte dell’Autorità, di un interesse generale del mercato a fruire di miglioramenti immediati, che è ritenuto prevalente sull’altrettanto generale interesse da accertare la commissione di illeciti antitrust. In conclusione, questa vicenda giudiziaria, che suscita perplessità in tutti i suoi svolgimenti, lascia comunque impregiudicata la problematica della valutazione antitrust delle intese di uniformazione delle commissioni interbancarie in materia di carte di credito.

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del sistema: l’ultimo procedimento contro Visa si è concluso con l’accettazione di impegni per una forte riduzione delle commissioni interbancarie 54; anche nel parallelo procedimento antitrust francese, peraltro, le banche interessate hanno presentato in data 6 aprile 2012 impegni volti a realizzare un progressivo décalage delle commissioni, fino all’azzeramento, previsto per il 1° febbraio 2014; tali impegni sono stati approvati dall’autorità nazionale francese il 5 luglio 2012 55. Analoghe esperienze si segnalano, peraltro, in tutto il mondo 56. Quanto alle clausole NDR e HAC, esse sono state giudicate, in una prima fase, addirittura “non restrittive”, perché l’analisi economica avrebbe dimostrato la mancanza di effetti lesivi per la concorrenza 57. Conclusione per vero forzata, perché non tiene conto del fatto che la pressione concorrenziale delle scelte degli esercenti potrebbe influire notevolmente sul successo di uno od altro strumento di pagamento; ciò che viene impedito dall’operare di dette clausole. In tempi più recenti, i circuiti hanno avviato un processo di revisione anche di dette clausole, e in particolare abbandonato la NDR come condizione imposta a tutti gli aderenti al circuito; tuttavia, nella prassi negoziale la clausola è tendenzialmente rimasta nei contratti finali fra acquirer ed esercenti 58. I divieti antitrust hanno finito così, per diversi anni, per incidere solo ai margini del sistema “autoregolato” (p.e. è stata considerata incompatibile con il divieto la clausola che vietava l’instradamento delle negoziazioni da un unico terminale POS ad una pluralità di banche acquirer 59).

54. Comm. UE., Dec. C(2010) 8760, 8 Dicembre 2010, Case COMP/39.398 – VISA MIF. Su tale decisione v. il commento di Marchi, Gal, Payment cards: Visa debt card fees go down, in Competition Law Newsletter, 1/2011, p. 13 ss. 55 Informazione reperibile in www.concurrences.com (luglio 2012). 56. Nel dibattito in materia, e in particolare nella sentenza Mastercard del Tribunale di I grado U.E. (nt. 48), grande risalto ha avuto l’esperienza australiana: qui è stato imposto, per la prima volta, un forte décalage delle commissioni interbancarie e gli effetti di questo intervento regolatorio sono stati positivi (e sull’uso complessivo delle carte di credito e sul livello complessivo dei prezzi retail). Sul punto v., p.e., Heimler, Payment cards pricing patterns: The role of antitrust and regulatory authorities [2010], reperibile in S.S.R.N. 57. Comm. CE, c. COMP/29.373 – Visa International (2001/782/EC), in G.U.C.E., 10.11.2001, L293, 24. La decisione è fortemente criticata come contraddittoria da R.PARDOLESI (nt. 41), 16 ss. In effetti la motivazione non è sufficiente, perché non si estende alla dimostrazione di guadagni di efficienza e di benefici per i consumatori. 58 Per ampie informazioni v. il provv. AGCM n. 21768 (nt. 26). 59 Per indicazioni si rinvia ancora a Salamone, Lo statuto, cit., pp. 770-771.

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È innegabile però che, da qualche anno, si è avviata una fase di transizione, che finora ha dato luogo soprattutto a risposte di autocorrezione del sistema, con abbassamento dei prezzi e progressiva attenuazione dell’impiego di clausole tradizionali, ma che, in un futuro prossimo, potrebbe portare a più radicali interventi delle autorità antitrust. Incidentalmente, è comunque il caso di notare che, a quanto sembra, il livello delle commissioni interbancarie europee si è abbassato più di quanto sia avvenuto in America 60.

7. La disposizione di favore dell’ art. 20, co. 5-bis, lett. a, l. 10 ottobre 1990, n. 287, e la sua scarsa incidenza pratica. Recenti sviluppi con il d.l. 1 del 2012. Passando ai profili specifici di diritto nazionale, un punto significativo è costituito dall’emanazione di una norma antitrust speciale di favore (art. 20, co. 5-bis, lett. a, l. 10 ottobre 1990, n. 287 61), in base alla quale “L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, su richiesta della Banca d’Italia, può autorizzare.. un’intesa, in deroga al divieto dell’art. 2, per esigenze di funzionalità del sistema dei pagamenti, per un tempo limitato e tenendo conto dei criteri di cui all’art. 4, co. 1”. La disposizione si inserisce nella tendenza favorevole, sopra segnalata a livello europeo (e non solo) per gli accordi imprenditoriali restrittivi della concorrenza, ma idonei a sviluppare i sistemi di pagamento innovativi. Questa disposizione esprime dunque certamente un intento di particolare apertura verso l’autorizzazione delle intese in materia di servizi di pagamento: i criteri dell’art. 4 devono essere tenuti in conto, ma non sono vincolanti, come invece avviene negli altri settori economici. La

60. Cfr. Salmon, Will US courts take aim at credit-card interchange?, in http:blogs.reuters.com ( Jan. 2012). Il contenzioso in materia continua ad essere vivace anche negli U.S.A. La notizia più recente riguarda la decisione In re Currency Conversion Fee Antitrust Litig., 2012 WL 401113 (S.D.N.Y. Feb. 8, 2012), che ha invalidato (ravvisandovi una conspiracy) clausole arbitrali parallele contenute in una serie di contratti, in quanto aventi l’effetto di prevenire future class actions. 61. Introdotto nella legge antitrust nazionale (l. 10 ottobre 1990, n. 287) con il d.lgs. 29 dicembre 2006, n. 33, che trasferiva all’Autorità Garante della Competenza e del Mercato le competenze in materia, in precedenza attribuite alla Banca d’Italia.

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portata concreta di questa maggiore apertura non è però facilmente ricostruibile, anche perché, pur non essendo l’art. 20 della legge antitrust nazionale vincolato al rigido vincolo comunitario imposto dalla norma interpretativa speciale dell’art. 1, co. 4, l. 287/1990 62, rimane pur sempre da rispettare il criterio generale di interpretazione filocomunitaria, operante nel nostro ordinamento 63. Inoltre, la norma speciale di cui si tratta è applicabile solo ai casi disciplinati interamente dalla legge nazionale, e non anche a quelli che ricadono nell’ambito di applicazione della norma europea dell’art. 101 T.F.U.E. (che poi, data la complessiva integrazione dei mercati, costituiscono la normalità) 64. In questa materia, però, il legislatore nazionale è ulteriormente intervenuto con il recente d.l. 1/2012, che ha modificato l’art. 12, co. 9, d.l. 201/2011, sancendo che imprese, associazioni d’imprese (in primo luogo A.B.I.) e consorzi coinvolti nel sistema dei servizi di pagamento “definiscono, entro il 1° giugno 2012, e applicano entro i tre mesi successivi, le regole generali per assicurare una riduzione delle commissioni a carico degli esercenti in relazione alle transazioni effettuate mediante carte di pagamento, tenuto conto della necessità di assicurare trasparenza e chiarezza dei costi, nonché di promuovere l’efficienza economica nel rispetto delle regole di concorrenza”. La disposizione poi prosegue sancendo che il livello delle commissioni dev’essere orientato al costo (oltre a prevedere, per ragioni sociali, la gratuità dell’apertura del conto per i titolari di pensione non superiore a € 1500 mensili). Infine, il comma 10° dello stesso articolo attribuisce al Ministero dell’Economia e Finanze, di concerto con il Ministero dello Sviluppo Economico, un compito di controllo sull’efficacia delle misure concordate dai soggetti interessati e di intervento sostitutivo, nel caso in cui i soggetti interessati non riescano a definire o ad applicare efficacemente le misure imposte dalla legge. In questa attività di controllo i Ministeri dovranno sentire la Banca d’Italia e l’AGCM (alle due autorità indipendenti viene dunque attribuito il compito di formulare dei pareri obbligatori).

62. Su cui v., da ultimo. Napolitano, Agus, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, a cura di Catricalà e Troiano, Torino, 2010, pp. 1034-1035. 63. Cfr. Scalisi, Interpretazione e teoria delle fonti nel diritto privato europeo, in Diritto comunitario e sistemi nazionali. Pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, Napoli, 2010, p. 87 ss. 64. V., sui punti accennati, Romano, in Codice commentato della concorrenza e del mercato, a cura di Catricalà e Troiano, cit., p. 1347 ss.

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Per quanto il testo normativo consenta di prospettare interpretazioni più restrittive, è difficile non intenderlo in continuità con la già vigente norma speciale di favore per le intese di uniformazione delle commissioni giustificate da “esigenze di funzionalità del sistema dei pagamenti”. La norma stabilisce quindi un criterio tipicamente regolatorio (l’orientamento al costo), lasciando poi all’autoregolazione degli operatori interessati la determinazione di un livello uniforme delle commissioni e all’autorità amministrativa un controllo sostitutivo in materia. La norma presenta diversi punti critici. In primo luogo c’è il problema tecnico di applicare il criterio di orientamento al costo (che dovrebbe, a sua volta, secondo l’orientamento oggi prevalente nelle regolazioni di settore – avvalersi del modello dei Long Run Incremental Costs, cioè dei costi di produzione stimati in relazione ad un’impresa efficiente che voglia entrare oggi nel settore) in un settore in cui il costo è fortemente influenzato dagli effetti incrociati di rete 65. In secondo luogo, è discutibile l’attribuzione di una funzione regolatoria così tecnica ai Ministeri, con le autorità indipendenti ridotte al ruolo di fornitori di pareri. In ogni caso, la recente norma di “liberalizzazione” significa che la materia delle commissioni interbancarie è sottratta all’applicazione delle ordinarie regole di concorrenza e rimessa ad una regolazione amministrativa speciale. Non è chiaro, tuttavia, se questa deroga abbia carattere solo congiunturale oppure permanente. Benché la norma non fissi un termine ad quem per l’efficacia e degli accordi economici collettivi in materia e degli eventuali regolamenti sostitutivi, la disciplina – data la sua evidente eccezionalità – può plausibilmente interpretarsi nel senso che i poteri speciali, da essa previsti, si esauriscano con l’adozione degli atti di cui si tratta; dopo di che torneranno ad avere vigore le regole ordinarie in materia (compresa, peraltro, quella del comma 5-bis dell’art. 20 della l. 287/1990).

8. Critiche dottrinali all’orientamento “apologetico” verso l’autoregolazione dei mercati dei servizi di pagamento. La ricostruzione tradizionale degli effetti degli accordi fra imprese in materia di servizi di pagamento – che R.Pardolesi ha definito “apologe-

65. Cfr. Fucile, Granieri, in La nuova disciplina, cit., p. 357 in nota (ove indicazioni di letteratura economica sul tema).

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tica” – è un singolare mix di sofisticatezza analitica (la teoria dei mercati multilaterali è ancora un oggetto misterioso per molti professionisti, anche dotati di buona informazione antitrust) e di favore intuitivo per l’opportunità di non intralciare lo sviluppo spontaneo del sistema (volontà di vedere tutto il bene, ragionevolmente percepibile, del sistema e di non enfatizzare i possibili rischi per la concorrenza effettiva nei mercati rilevanti). Ciò può spiegare la reazione critica di una parte della dottrina, che ha posto l’accento sul secondo profilo dell’analisi economica, sopra sommariamente richiamata, cioè quello relativa alle perdite di efficienza allocativa derivanti dai meccanismi di formazione dei prezzi nei mercati di cui si tratta 66. L’argomento-principe di queste critiche è stato quello – già sopra accennato – per cui la formazione dei prezzi dei sistemi di pagamento tende a gravare soprattutto sugli esercenti che ricevono pagamenti numerosi da clientela minuta: essi hanno una “dipendenza da assortimento” 67, e sono quindi condizionati dall’esigenza di consentire ai clienti l’uso di qualsiasi strumento di pagamento immaginabile. Contemporaneamente, sarebbero molto interessati a negoziare prezzi differenti con le diverse banche di appoggio e di offrire sconti e incentivi ai clienti perché preferiscano certi mezzi di pagamento rispetto a certi altri. Questi rilievi nascono da un’esperienza diretta di conflitti fra esercenti commerciali e gestori di servizi di pagamento; conflitti che hanno avuto il culmine nella grande class-action avviata in U.S.A. da 4 milioni di commercianti (piccoli e grandi: c’era anche Wal-Mart) contro VISA e Mastercard. Azione conclusasi con una transazione da 3 miliardi di dollari 68. Anche da noi si è manifestata una posizione dottrinale fortemente critica nei confronti delle pratiche commerciali correnti nel settore e volta ad affermare l’illiceità antitrust delle clausole sopra elencate 69.

66.

In generale, sul tema, v. Weyl, A Price Theory of Multi-Sided Platforms, in American Economic Review, 2010, p. 1642 ss. 67. Su questa nozione v., per tutti, Fabbio, L’abuso di dipendenza economica , Milano, 2006, p. 117 ss. 68 Traggo la notizia da Pardolesi, La concorrenza, cit., p. 19. 69. La posizione più netta ed autorevole, in questa direzione, è stata espressa da Pardolesi, La concorrenza, cit., p. 3 ss. Sostanzialmente analoga – ma con un’analisi economica ancora più ricca – la posizione di Fonderico, I sistemi di pagamento, le economie esterne e la commissione interbancaria multilaterale, in Concorrenza e mercato, 12/2004, p. 309 ss. Più di recente, v. Heimler, Payment, cit.

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Si è notato infatti che, se il sistema consentisse di praticare prezzi differenziati nei rapporti bilaterali, ciò stimolerebbe una più forte concorrenza mirata sulla conquista del cliente, e in ultima analisi darebbe maggiore impulso al sistema complessivo di pagamenti elettronici 70.

9. La direttiva 2007/64/CE e l’apertura della fase di transizione. Queste critiche hanno fatto breccia solo in parte nel legislatore comunitario. Per le clausole di surcharge si è lasciato uno spazio autonomo (v. supra, § 3) ai legislatori degli Stati membri. Per le altre clausole restrittive tipiche si è voluto lasciare all’analisi dei mercati, da parte delle autorità antitrust, la disciplina e l’evoluzione del sistema, evitando di imporre soluzioni predefinite 71. In questa prospettiva, il punto decisivo – anche per il futuro – è costituito dalla capacità del sistema di continuare ad apportare innovazioni benefiche per il consumatore. Finché ciò avviene, le clausole contestate continuano ad avere una loro giustificazione, in quanto certamente diminuiscono i costi transattivi e facilitano l’espansione dell’offerta. Perciò – si sostiene – il mantenimento di infrastrutture virtuali omogenee all’interno del sistema finisce per favorire un tipo di concorrenza, fondata sulla qualità dei servizi (non tanto sul prezzo) fra istituti di pagamento 72. Su questa conclusione si può convenire, purché rimanga chiaro che si tratta di una soluzione di principio e sempre provvisoria, che può essere in qualsiasi momento posta in dubbio (cosa del resto non eccezionale, nel diritto della concorrenza) dalla concreta evoluzione dei mercati, sui quali l’autorità antitrust deve esercitare un costante monitoraggio. In questa prospettiva, è difficile negare che alcuni mezzi di pagamento telematici oggi molto diffusi (carte di credito e di debito, carte prepagate) hanno raggiunto un livello di diffusione tale da far ritenere i relativi mercati come ormai “maturi”. La conseguenza di ciò è che la giustificazione di clausole omogenee, vista come strumento di penetrazio-

70.

Particolarmente incisivo, sul punto, Fonderico, I sistemi, cit., pp. 335-336. Per un accurato confronto fra disciplina precedente e quella successiva all’emanazione della direttiva, v. Gimigliano, La disciplina, cit., p. 269 ss. 72 Gimigliano, La disciplina, cit. 71.

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ne di sistemi innovativi di pagamento, perde progressivamente terreno, mentre si impone l’esigenza di una maggiore spinta all’innovazione e alla selezione interna fra diversi prodotti offerti dal sistema. Ciò induce a rivendicare maggiore autonomia per i soggetti “deboli” del sistema (cioè gli esercenti e, talora, i consumatori finali), con la progressiva eliminazione delle clausole limitative di tale autonomia (HAC e NDR); mentre, per quanto riguarda le commissioni interbancarie, sembra prepotente la spinta a mantenerle, come strumenti di semplificazione del sistema, imponendo, in maniera sempre più rigorosa, il rispetto del principio dell’orientamento al costo (ciò che, tuttavia, richiederebbe la presenza e l’intervento di un’autorità di regolazione permanente, piuttosto che interventi puntuali di un’autorità antitrust).

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La intervención y los «poderes de disposición» del Ministerio Fiscal en el proceso concursal italiano y español * Sumario: 1. Introducción de la cuestión y planteamiento del supuesto de hecho. – 2. La imposibilidad de declarar el fallimento «ex officio» en la legge fallimentare italiana y en la ley concural española. – 2.A. La legitimación activa del ministerio fiscal para la solicitud del fallimento en el ordenamiento concursal italiano. – 2.B. la inexistencia de legitimación activa del ministerio fiscal para solicitar el concurso en el proceso concursal español. – 3. Los actos procesales de disposición del ministerio fiscal en el procedimiento fallimentare italiano: una posibilidad inexistente en el derecho concursal español. – 3.A. La renuncia de los actos del juicio por parte del ministerio fiscal en el procedimiento fallimentare italiano: delimitación conceptual de la institución procesal. – 4. Conclusiones y propuesta de reforma.

1. Introducción de la cuestión y planteamiento del supuesto de hecho. Dentro del proceso civil general, el Estado no puede dejar la defensa de sus intereses a disposición de personas que tienen intereses coincidentes o, que estén afectados por intereses públicos; tampoco puede dejarlos en manos del Juez, que será, en todo caso, el que deba decidir, a través de resolución judicial, si deben ser o no tutelables. Por esta razón,

* Questo saggio analizza in chiave comparata i profili critici sottesi alla sentenza della Corte di Cassazione, 14 giugno 2012, n. 9781 e al decreto del Trib. Firenze, 28 settembre 2011, entrambi pubblicati in questo numero della rivista, p. 743 ss. ** El coautor, David García Bartolomé, quiere agradecer encarecidamente a la Profesora Dra. Stefania Pacchi (Catedrática de Diritto Commerciale), el trato y todo el apoyo recibido durante su estancia de investigación en la Università degli studi di Siena (Italia). Por otro lado, le gustaría agradecer con la misma intensidad, al Servicio de Investigación de la Universidad Autónoma de Madrid (UAM), por haberle concedido financiación para la realización de dicha estancia de investigación. Finalmente, no quiere dejar pasar la oportunidad de agradecer públicamente toda la ayuda y confianza que le han brindado todos sus compañeros del Área de Derecho Procesal de la Universidad Autónoma de Madrid.

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se creó al Ministerio Fiscal, que en el ámbito de su actuación procesal, es un órgano distinto, creado para el ejercicio judicial de los intereses estatales. En estos casos, el Estado garantiza la defensa de los intereses públicos, con el ejercicio de la acción por parte del Ministerio Fiscal 1. Una de las principales notas características del Ministerio Fiscal, es que se configura como un órgano del Estado que tiene constitucionalmente encomendada la promoción de la justicia por medio de órganos propios, para cumplir funciones muy diversas. Las principales actividades que emprende son: el ejercicio de acciones, la iniciativa procesal, y la actuación ante Juzgados y Tribunales a través de sus propios órganos 2. Cuando la política imperante en un Estado lleva a éste a ocuparse en exclusiva del orden jurídico, las funciones del Ministerio Fiscal, se amplían hasta el punto de que, su intervención se extenderá a todos lo procesos jurisdiccionales que se ventilen, es decir, verbi gratia: en los procesos penales, el Ministerio Fiscal intervendrá casi siempre, mientras que, en los procesos jurisdiccionales civiles, en los que rige la voluntad de las partes y la libre economía de mercado, tendrá una menor intervención o, la misma vendrá limitada 3. A pesar de la anterior afirmación, desde hace varias décadas, se ha venido produciendo una marcada penalización del proceso civil, por lo que se prevé una mayor intervención del Estado – a través de la intervención del Ministerio Fiscal – en cuestiones o parcelas que en la actualidad se encontraban en manos de los particulares, como pudiera ser el caso de los procesos concursales 4, puesto que, en este tipo de

1. Cortés Domínguez, La eficacia del proceso de declaración en Para un proceso civil eficaz, Bellatierra, 1982, p. 127. 2. Vid., Catena, Manual de introducción al derecho procesal, Valencia, 2010, p. 164. 3. Para entender correctamente la atribución de legitimación al Ministerio Fiscal para la defensa del interés público en los procesos civiles, es conveniente vid., en general, el fundamental trabajo de Montero Aroca, De la legitimación en el proceso civil, Barcelona, 2009, p. 440 ss. 4. Vid., a Cortés Domínguez, La eficacia, cit., p. 127 ss. El autor ya venía alertando, entonces, de una fuerte e irreversible penalización de los procesos civiles, debido a una mayor intervención del Estado; como bien apuntaba dicho autor, un ejemplo claro era, entonces, el Proyecto de Dictamen de Ley Concursal que estaba elaborando la Comisión de Codificación, allá por el año 1982, en el que se regulaba y se pretendía instaurar un proceso de declaración judicial de quiebra ex officio. Por lo tanto, como así concluía el autor, se iba a producir una ampliación de la esfera pública en detrimento de la privada, con una presencia masiva del Ministerio Fiscal en los proceso civiles, lo que producirá de forma gradual la denominada penalización del proceso civil, esgrimida, en su día, por Cappelletti.

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proceso civiles especiales, en los que se comprometen los intereses de la sociedad, será preceptiva la intervención del Ministerio Fiscal, como legítimo representante de dichos intereses 5. Hoy en día, es reconocida la intervención del Ministerio Fiscal en los procesos concursales de muchos Ordenamientos jurídicos, pero, no en todos se presenta con las mismas facultades y poderes de disposición dentro del proceso concursal. Por poner un ejemplo, en el Proceso Concursal italiano, incluso, el Ministerio Fiscal tiene legitimación activa 6 para solicitar la declaración judicial de fallimento (arts. 6 y 7 de la Legge fallimentare, en adelante l.fall. 7), mientras que, en la Ley Concursal española (en adelante l.c.), su intervención como parte procesal (art. 184, co. 1, l.c.), se limita a la denominada sección sexta o calificación del concurso, cuando proceda su apertura (arts. 163 y ss l.c.) 8; también, intervendrá en la sección primera (art. 183, co. 1, l.c.) para la adopción, en su caso, de las medidas restrictivas de derechos y libertades fundamentales del deudor (art. 1, co. 3, LOpRC 9); además, por otro lado, deberá ser oído sobre cuestiones de competencia territorial (art. 12, co. 2, l.c.) 10.

5.

Vid., en Damián Moreno, Introducción al sistema judicial español, Madrid, 2010, p. 145. 6. Entre otros, el artículo 6 de la Ley Concursal Belga de 8 de agosto de 1997, el artículo 6 de la Legge fallimentare italiana, el artículo 20 del Código de la insolvencia y de la recuperación de empresas (código da insolvência e da Recuperaçao de empresas portugués), atribuyen legitimación al Ministerio Fiscal para solicitar la declaración judicial de quiebra o de concurso – según el caso –, siempre y cuando, se verifiquen determinados actos, junto al deudor, los acreedores y los administradores provisionales. 7. Vid., la reciente Sentencia dictada por la Corte Suprema di Cassazione Italiana (Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781) Civile), en la que se resuelve un recurso de casación promovido por una compañía insolvente que había sido declarada judicialmente en fallimento, a pesar de haber desistido el acreedor instante; todo ello en virtud de la facultad del juez civil – que detecta en el curso de un procedimiento civil el estado de insolvencia del deudor – de poner en conocimiento dicha situación al Ministerio Fiscal para que este inste la solicitud de declaración judicial de fallimento ante el juez competente (art. 6 y 7.2 LF). 8. Así lo dispone la Exposición de motivos de la Ley 22/2003, de 9 de julio, Concursal, en su apartado IV. La intervención como parte del Ministerio Fiscal se limita a la sección sexta, de calificación del concurso, cuando proceda su apertura, sin perjuicio de la actuación que se establece en esta ley cuando intervenga en delitos contra el patrimonio o el orden socioeconómico. 9. Vid., la Ley Orgánica 8/2003, de 9 de julio, para la reforma concursal, por la que se modifica la Ley Orgánica 6/1985, de 2 de julio, del Poder Judicial. 10. Vid., por todos, la obra de Pulgar Ezquerra, La declaración, Madrid, 2009, p. 454.

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En el supuesto que procedemos a comentar – emanado del decreto dictado por Tribunal de Firenze, 28 de septiembre de 2011 –, trataremos la legitimación activa y los poderes de disposición del Ministerio Fiscal en el procedimiento de declaración judicial de fallimento italiano (art. 6 y 7 l.fall.), en contraposición a la intervención del Ministerio Fiscal en el proceso concursal español (art. 4 l.c.); con ello, pretendemos dar solución a la situación controvertida que se nos plantea en dicho supuesto. Como se puede comprobar de la lectura del decreto judicial, el supuesto de hecho consiste en la concurrencia de cuatro solicitudes de declaración judicial de fallimento —sucesivas en el tiempo – frente a la sociedad deudora, por parte de tres acreedores de dicha sociedad y, también, por parte del Ministerio Fiscal, todo ello en virtud de la legitimación activa que les confiere el contenido del artículo 6 de la Legge fallimentare. La primera solicitud de declaración judicial de fallimento frente a la sociedad deudora, fue instada por la sociedad (AA), el 12 de octubre de 2010, aunque, al poco tiempo, de forma inesperada, dicha acreedora, decidió desistir de su solicitud el 29 de diciembre de 2010, produciéndose el archivo definitivo de dicha solicitud entre el 5 y 10 de mayo 2011. En segundo lugar, el Ministerio Fiscal insta la segunda declaración judicial de fallimento frente la sociedad deudora, con fecha 25 de noviembre de 2010, basando su petición, principalmente, en la situación de perdidas que venía reflejando la deudora en los balances contables de los ejercicios 2008 y 2009: básicamente, perdidas por € 1,6 millones de euros y € 1,3 millones de euros respectivamente, además de haber sufrido el protesto de un efecto cambiario por importe de casi €40.000,00. En fecha posterior, el día 17 de mayo de 2011, la sociedad mercantil (BB), también acreedora, solicita la tercera declaración judicial de fallimento frente a la deudora; pero, también, de forma inesperada decide desistir de la misma el 30 de mayo de 2011. Finalmente y, con la misma intención, la compañía (CC) también solicita la cuarta declaración judicial de fallimento frente a la deudora (YYY), con fecha 14 de junio de 2011, pero, de forma tempestiva el 7 de julio del mismo año, desiste de la misma. La cuestión, a priori, parece bastante clara; el panorama es el siguiente: en primer lugar, se habían planteado ante el tribunal competente italiano cuatro solicitudes de declaración judicial de fallimento – situación que nos puede dar claros indicios de que la sociedad se encontraba en avanzado estado de insolvencia – instadas frente a la sociedad mercantil, de las cuales, tres solicitudes han sido desistidas por parte de las tres acreedoras instantes, quedando solamente viva la solicitud de declara-

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ción judicial de fallimento instada por el Ministerio Fiscal, en virtud de su legitimación activa (art. 7 l.fall.). Así las cosas, entendemos que el procedimiento de declaración judicial de fallimento que aquí se había instado, podría haber seguido tramitándose normalmente, puesto que, el hecho de que las tres sociedades (acreedoras) instantes hubieran desistido de sus solicitudes, no sería óbice para la efectiva prosecución del proceso de declaración judicial de fallimento, sustentándolo, únicamente, en la acción de declaración judicial de fallimento ejercitada por el Ministerio Fiscal 11, el 25 de noviembre de 2010 (arts. 6 y 7 l.fall.). Hasta aquí, todo perfecto; pero el problema que se nos plantea en este supuesto, es que el Ministerio Fiscal, salvo la propia solicitud de declaración de fallimento instada, no se ha ratificado, puesto que, no ha efectuado alegación alguna durante las tres audiencias celebradas (art. 15 l.fall.); es más, ni siquiera, ha comparecido en las mismas como parte legitimada del proceso de fallimento, precluyendo, por tanto, el momento procesal oportuno para ejercer su derecho de alegación, proposición y, por supuesto, aportación, de los medios de prueba de los que quisiera hacerse valer, para poder fundar su solicitud de declaración judicial de fallimento. En virtud de los hechos que se desprenden del decreto dictado por el tribunal italiano, parece que el Ministerio Fiscal hubiera abandonado, renunciando o, mejor dicho, desistido implícitamente del proceso que había instado, es decir, en este caso, a priori, parece que se ha producido lo que la doctrina procesalista italiana viene denominando la extinción del proceso por «rinuncia agli atti del giudizio 12» (regulada

11.

Vid., a Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1976, p. 111. Cabe reconocer el mérito a dicho autor, puesto que el mismo ha venido defendiendo, incluso, antes de la reforma de la Legge fallimentare de julio de 2006, que en el Diritto fallimentare italiano, la iniciativa del Ministerio Fiscal para solicitar la declaración judicial de fallimento, viene siendo un verdadero y auténtico poder de acción. 12. Vid., en profundidad, los clásicos trabajos de Micheli, La rinuncia agli atti di giudizio, Padova, 1937; Massari, Rinunzia agli atti del giudizio, en Noviss. Dig. It, XV, Torino, 1968, p. 1156 ss.; Vaccarella, Rinunzia agli atti del giudizio, en Enc. Dir., XL, Milano, 1989, p. 960 ss.; también, a nivel general, en Satta, Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, p. 405 ss.; Redenti, Vellani, Diritto processuale civile, Milano, 2011, p. 353 ss.; Sassani, Lineamenti del proceso civile italiano, Milano, 2010, p. 443 ss.; Lugo, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 2009, p. 248 ss.; Luiso, diritto processuale civile, Milano, 2009, p. 253 ss.; Arieta, De Santis, Montesano, Corso base di diritto processuale civile, Milano, 2008, p. 433 ss.

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en el artículo 306 del Codice di Procedura Civile italiano), en adelante: (c.p.c.), puesto que, en el proceso de fallimento al que estamos haciendo alusión, el Ministerio Fiscal – salvo la solicitud de declaración judicial de fallimento solicitada el 25 de noviembre de 2010 – ni compareció, ni presentó alegación alguna en ninguna de las tres audiencias celebradas en sede jurisdiccional, por lo tanto, dejó desierta y abandonada su posibilidad de intervención en el proceso para alegar, proponer y/o aportar: los hechos, las alegaciones y los medios de prueba que tuviera por conveniente, para poder fundar su solicitud de declaración judicial de fallimento. En este caso, parece claro que el Ministerio Fiscal ha desistido implícitamente 13 del proceso de declaración de fallimento que había instado 14, puesto que, su postura ante el proceso ha sido de mera pasividad, sin, ni siquiera, realizar alegación alguna sobre los desistimientos en cadena efectuados por las tres sociedades mercantiles acreedoras de la sociedad deudora, en las audiencias celebradas (art. 15 l.fall.). En definitiva, parece que nos encontramos con la siguiente situación: tres de las cuatro solicitudes de fallimento instadas, han sido desistidas (probablemente debido a la existencia de algún acuerdo o convenio extrajudicial puro 15 – como pudiera ser un piano di risana-

13.

La institución procesal de la rinuncia agli atti del giudizio en el proceso civil Italiano (art. 306 c.p.c), es lo que viene denominándose en Derecho Procesal español, desistimiento del proceso, distinta de la renuncia de la acción y, regulado en el artículo 20 de la Ley 1/2000, de 7 de enero, de Enjuiciamiento Civil, con los mismos efectos y consecuencias que en el sistema italiano. 14. Según se desprende del relato fáctico del Decreto judicial que ahora comentamos, el Ministerio Fiscal instó la declaración judicial de fallimento de la sociedad mercantil, el 25 de noviembre de 2010. 15. En el sistema concursal español, vid., por todos, el trabajo de Pulgar Ezquerra, Licitud y temporalidad de los acuerdos amistosos extrajudiciales: riesgos para los intervinientes en un eventual concurso, en Revista de Derecho Concursal y Paraconcursal, RDCP, núm. 5, Madrid, 2006, p. 46 ss. La autora expone la reforma parcial de la Legge fallimentare, llevada a cabo a través del DLey de 14 de marzo de 2005; se adentra en los denominados “escudos protectores” regulados en el sistema italiano, exponiendo, además, las características de los acuerdos extrajudiciales puros o también denominados acuerdos amistosos extrajudiciales de remoción de la insolvencia (piani di risanamento) llevados a cabo por el deudor y su acreedores dentro de un marco negocial extrajudicial, alertándonos de los riesgos que puede correr el deudor, puesto que éste, no queda protegido de las posibles ejecuciones singulares que puedan instar los acreedores disidentes del acuerdo. En este caso los acreedores disidentes del acuerdo, tampoco quedan cubiertos por los piani di risanamento, debido a que no se exige en el informe del

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mento 16 (vid., art. 67 III. d., l.fall.) o un acuerdo de reestructuración de deudas (art. 182 bis l.fall.) 17 – en el cual, la empresa deudora haya podido llegar a un acuerdo con las tres acreedoras instantes del fallimento, al margen de toda intervención judicial.

experto independiente, un pronunciamiento sobre la razonabilidad del acuerdo, en el que se analice, si el acuerdo alcanzado permitirá a los acreedores disidentes satisfacer puntual e íntegramente sus créditos (ragionevolezza). Como bien argumenta la autora, estos acreedores disidentes, al no quedar protegidos, por no exigir la norma el informe de la razonabilidad, en el piano di risanamento, optan, en la mayoría de las ocasiones, por iniciar acciones ejecutivas singulares o, incluso, instar la solicitud de la declaración de un procedimiento concursal frente al deudor. Con total acierto, la autora afirma que, cuanto mayor es la autonomía negocial de las partes intervinientes en dicho acuerdo extrajudicial, menor es el marco de protección del acuerdo. Finalmente, la autora concluye que, con la nueva reforma, se introduce el nuevo “escudo protector” del art. 67. III. d., que prevé la exención de la acción revocatoria frente a los actos, pagos y garantías constituidas sobre bienes del deudor, en ejecución de un acuerdo que parezca idóneo para llegar a conseguir reflotar la empresa, asegurando el equilibrio de la situación financiera de la misma y cuya razonabilidad quede comprobada en el informe del experto que éste se pronuncie sobre razonabilidad del acuerdo, en el sentido del artículo 250-1. bis. 4 CC (en relación con la fusión). Como se puede observar, en los piani de risanamento se limita el ámbito de aplicación de la exención de la revocatoria concursal, a las garantías concedidas sobre bienes del deudor, mientras que en los accordi de ristrutturazione, la exención de la revocatoria comprende todas las garantías y, no solo sobre bienes del deudor, sino también por un tercero o sobre bienes de terceros. 16. Vid., a Demarchi, I piani di risanamento ex art. 67 Legge fallimentare – Tentativo di ricostruzione di un instituto a partire dai suoi effettti in caso di fallimento, en www. il caso.it, II, 189/2010; también en Scarselli, Le sistemazione stragiudiziali (overo gli accordi di restructurazione dei debiti e piani di risanamento delle esposizioni debitorie), in Pacchi, Bertacchini, Gualandi, Manuale de Diritto Fallimentare, Milano, 2011, p. 548 ss. 17. Vid., por todos a Rojo, La reforma del Derecho Concursal italiano y el Derecho Concursal español (un apunte de Derecho comparado desde un perspectiva española), en Anuario de Derecho Concursal (ADco), 10, 2007, pp. 315-341. Como bien apunta el autor, el acuerdo de restructuración de deudas (art. 182-bis l.fall.) combina elementos de los acuerdos extrajudiciales clásicos con los elemento del concordato preventivo (con una remisión parcial al régimen general). El acuerdo de reestructuración de deudas, parece más bien, una subespecie del concordato preventivo, o más bien, un concordato abreviado (con propuesta, aceptación, desjudicializado pero con homologación judicial); Pulgar Ezquerra, Licitud, cit., p. 46 ss.; Scarselli, Pacchi, Manuale, cit., p. 535 ss.; Galardo, Gli accordi di ristrutturazione e il risanamento del gruppo, en Dir. fall., 3-4, 2010, p. 343 ss.; Pacchi, Provvedimenti cautelari e conservativi su richiesta del debitore in atessa di un accordo di ristrutturazione, en Dir. fall., 3-4, 2010, p. 340 ss.; Fazzi, Questioni in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti, en Dir. fall., 3-4, 2010, p. 352 ss.; Paluchowski, «L’accordo di ristrutturazione ed il controllo del tribunale nel giudizio di omologazione», en Il fallimento, 1, 2011, 98 ss.

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Por otro lado, nos encontramos con la solicitud de declaración judicial de fallimento instada por el Ministerio Fiscal, aunque, la pasividad mostrada por el mismo en las audiencias celebradas (art. 15 l.fall.) –, no sirve para mantener viva la acción de declaración judicial de fallimento, debido a que, la inactividad mostrada por el Ministerio Fiscal en los momento procesales oportunos – momentos procesales fundamentales y cruciales para poder alegar, proponer y aportar todos los medios de prueba de los que se quisiera hacer valer para fundar su solicitud de quiebra –, hace pensar en un posible desistimiento tácito del Ministerio Fiscal sobre su propia solicitud. Por lo tanto, si el Ministerio Fiscal debía haber ratificado su solicitud en las preceptivas audiencias (art. 15 l.fall. y no lo hizo, dicho momento procesal precluye y, por ende, dicho proceso no puede proseguir, debiendo el tribunal competente archivar las actuaciones 18, puesto que en los casos que se de un desistimiento de todos los acreedores instantes, el fallimento no se puede declarar ex officio 19. El anterior argumento fue una de las excepciones alegadas en la audiencia por la concursada, a la hora de oponerse a la declaración judicial de fallimento. Por lo tanto, el Tribunal italiano, ante tal situación y, ante la imposibilidad de declarar la situación de fallimento ex officio 20, no le ha quedado más remedio que archivar definitivamente la solicitud del Ministerio Fiscal junto con las solicitudes instadas por la sociedad mercantil (BB), y la sociedad mercantil (CC), que ya habían manifestado también, en un momento procesal anterior, su interés de desistir de sus respectivas solicitudes.

18

Vid., en este sentido, Cass., 14 de octubre de 2009, n. 21834. Vid., sobre derecho transitorio, la interesante resolución judicial de la Corte de Appello de Lecce, de 22 de marzo de 2007, in Il fallimento, 2007, 1408, anotada en abril, donde se recurre en apelación una declaración de fallimento de oficio con cancelación del deudor en registro de la empresa. Esta sentencia fue concebida como un gran test jurisprudencial entre la vieja y la nueva Legge fallimentare, puesto que examinaba la posibilidad de una declaración de fallimento ex officio – después del 16 julio de 2006 – de un empresa sobre la que estaba litispendente una istruttoria prefallimentare, en la cual, todos lo acreedores habían desistido, al final, el tribunal resolvió negativamente, puesto que después de la operada reforma de 2006, no es posible la declaración de fallimento ex officio. 20. Antes de la aprobación del d.lgs, de 9 de enero de 2006, núm. 5, el derogado artículo 8 de la l.fall, permitía la declaración judicial del fallimento de oficio. El viejo artículo 8 de la l.fall., fue derogado por el artículo 6 co. 1, d.lgs. de 9 gennaio, 2006, núm. 5, que entró en vigor el 16 de julio de 2006. Vid., al respecto la sentencia Cass., 30 maggio 2012, núm., 9781. 19.

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Una vez expuesto todo el relato fáctico anterior, se plantean diversas cuestiones de orden procesal, a las que intentaremos dar solución en torno a una visión comparada de los Ordenamientos jurídicos italiano (l.fall.) y español (l.c.), en los siguientes epígrafes; algunas de las cuestiones que pueden plantearse: i) ¿Es posible que el propio Tribunal, ante tales acontecimientos, declarare la quiebra ex officio?; ii) ¿Puede el Ministerio Fiscal disponer del proceso de declaración judicial de fallimento a pesar de representar al denominado «interés público» que se pone de manifiesto en los procesos de quiebra?; iii) en caso afirmativo, en este supuesto, el Ministerio Fiscal, ¿ha desistido del proceso de declaración judicial de fallimento a renunciado a la acción de fallimento instada?; ¿qué ocurriría si la compañía mercantil en estado de insolvencia, como consecuencia de alcanzar un piano di risanamento, saliese del estado de crisis y, posteriormente, al no poder cumplir con los extremos pactados en dicho acuerdo, deviniera otra vez en estado de insolvencia?

2. La imposibilidad de declarar el fallimento ex officio en la legge fallimentare italiana y en la ley concorsual española. En el supuesto que estamos comentando, el tribunal que está conociendo de las solicitudes de declaración de fallimento instadas frente a la sociedad deudora, no puede declarar el mismo ex officio. En la actualidad, en el Derecho fallimentare italiano no es posible la declaración judicial del fallimento de oficio, se necesita, en todo caso, la iniciativa (rectius: escrito de demanda 21) de algún sujeto legitimado para solicitar la declaración judicial de fallimento, es decir, que al igual que ocurre en el proceso concursal español (art. 3 l.c.), rigen los principios rectores del proceso civil: el denominado «principio dispositivo» o «principio de rogación» 22 y,

21. La declaración judicial de fallimento será declarada a instancia de parte, es decir, con la interposición de un escrito de demanda ante el tribunal competente. El vigente artículo 6 de la l.fall. hace referencia al termino solicitud de declaración judicial de fallimento por las personas legitimadas, aunque el termino procesal correcto sería el de demanda judicial; en España, el artículo 3 de la Ley 22/2003, de 9 de julio, Concursal, que regula la legitimación para solicitar el concurso, también hace referencia al termino: “solicitud...”, aunque técnicamente, “la solicitud de declaración judicial de concurso” es un verdadero y autentico escrito de demanda judicial. 22. Vid. a Ramírez, La quiebra: Derecho Concursal Español, Barcelona, 1997, pp. 589-591.

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con mayor intensidad, el «principio de demanda 23» en contraposición al «principio inquisitorio» vigente antes de la reforma del año 2006, pues, el hecho de que el propio juez competente pudiera declarar el fallimento ex officio, significaba que – en virtud de la fuerte presencia del interés público en todos lo procedimientos de fallimento 24 – el juez con base en el principio inquisitorio declaraba la quiebra sin necesidad de que hubiera una instancia de parte. Con respecto a la declaración judicial de fallimento ex officio, parte de la doctrina procesalista italiana 25 afirmaba que se trataba de un supuesto especial de declaración judicial de fallimento sin acción judicial 26. Actualmente, al igual que ocurre con el proceso concursal español, el proceso fallimentare italiano viene informado por el principio de aportación de parte y el principio dispositivo 27, cosa que no ocurría anteriormente a la reforma de 16 de julio de 2006, donde el proceso fallimentare, más bien, venía configurado como un proceso inquisitivo de acusación judicial, en el que el juez podía iniciar el fallimento ex officio, es decir, que el Juez o Tribunal podía declarar el fallimento de oficio sin necesidad de que alguno de los sujetos legitimados lo hubiera solicitado 28, hipótesis que, como ya hemos apuntado, vino siendo denominada por algún autor, como jurisdicción sin acción judicial 29. Los anteriores principios, son considerados por la doctrina más autorizada, principios rectores – por excelencia – del Proceso civil (apli-

23. Cortés Domínguez, La naturaleza jurídica de la declaración judicial de concurso, en (Dirs.), en Tratado de Derecho Mercantil: Derecho Procesal Concursal, Vol. 7, dirigido por Olivencia, Fernández-Nóvoa, Jiménez de Parga, Jiménez Sánchez, Madrid, 2008, p. 37. 24. Antes de la reforma de 2006, donde se derogó el artículo 8 de la l.fall., la Corte Suprema di Cassazione en diversas sentencias ya había puntualizado que la prevalente finalidad pública que caracterizaba a los procedimientos de fallimento, imponía al tribunal la posibilidad de declarar el concurso incluso, sin darse la instancia de parte. (Vid., las sentencias de la Corte Suprema di Cassazione: 141-142/1970, 110/1972, 148/1996). 25. Micheli, Giurisdizione e azione (premesse critiche allo studio dell’azione nel proceso civile), in Riv. dir. proc. civ., 1956, p. 107.; Carnelutti, Clausule di rinuncia alla giurisdizione italiana, in Studi di Diritto Processuale, I, Padova, 1925, p. 159 ss.; Monaco, In tema de dichiarazione di fallimento d’ufficio, in Temi gen., 1951, p. 78.; Cristofoloni, La dichiarazione del proprio dissesto nel processo di fallimento, in Riv. dir. proc. civ., 1931, p. 231 ss. 26 Vid., en Cristofoloni, La dichiarazione, cit., p. 231 ss. 27. Vid., a Cortés Domínguez, Aproximación al proceso de declaración de quiebra, en Revista de Derecho Mercantil, (RDM), 146, 1977, p. 506. 28 Vid., la reciente sentencia Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781. 29 Vid., en Cristofoloni, La dichiarazione, cit., p. 231 ss.

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cables, en todo caso, al proceso fallimentare), pero, según afirma algún autor 30, debemos delimitar el alcance de los mismos para no caer en el error de confundir ambos principios. El principio de demanda – presente tanto en el proceso fallimentare italiano como en el proceso concursal español – se desprende de la propia Constitución Italiana (art. 24) y Española (art. 24), pero tiene, además, una clara manifestación en el proceso civil; esto significa que la tutela jurídica que se pretende del órgano jurisdiccional, siempre es a voluntad del interesado, es decir, que para impulsar el proceso será necesaria la instancia de parte o, mejor, si se quiere, la maquinaria judicial se pondrá en marcha siempre que el actor o los actores interpongan escrito de demanda ante el juez o tribunal competente para que éste declare dicha situación. En este caso, habrá que resaltar que los principios «ne procedat iudex sine actore» y «ne ultra vel extra petita partium», ponen de manifiesto, de forma indubitada, que la tutela jurídica que se pretende de un órgano jurisdiccional civil, depende, en todo caso, de la voluntad del interesado 31. Por todo lo anteriormente afirmado, podemos concluir, sin temor a equivocarnos, que, tanto en el proceso fallimentare como en el proceso concursal español, rige lo que la doctrina viene denominando el principio de acción – tanto en la solicitud por parte del deudor como en la solicitud por parte de otro legitimado –, cuya aplicación, determina una disposición absoluta sobre el derecho que pone en juego con su escrito de demanda, al mismo tiempo imposibilita que el órgano jurisdiccional declare el fallimento si no ha sido solicitado o pedido por algún sujeto legitimado para ello 32. Con respecto al principio dispositivo 33 – imperante tanto en el proceso de fallimento italiano como en el proceso concursal español –, debemos decir que éste, hace referencia a la influencia del derecho material

30.

Cortés Domínguez, La Constitución Española y los principios rectores del proceso civil, en Cuadernos de Derecho Judicial (CDJ), núm. XXII, Madrid, 1993, p. 148 ss. 31. Vid., a Cortés Domínguez, La constitución, cit., p. 150.; Ramírez, La quiebra: Derecho concursal español, Barcelona, pp. 589-591 32 Cortés Domínguez, Aproximación, cit., p. 503. 33. Para comprender con claridad la vigencia del principio dispositivo y sus repercusiones en el viejo proceso de quiebra español vid., en profundidad, el fundamental trabajo de Cortés Domínguez, Aproximación, cit., pp. 461-517. Cabe destacar la importancia de este trabajo, porque a finales de los setenta, fue uno de los trabajos esenciales para una correcta comprensión del proceso de declaración judicial de quiebra, desde la óptica del Derecho Procesal.

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en el proceso que se pone en juego, es decir, si las partes tienen pleno dominio sobre el derecho material por el que litigan, también tienen pleno dominio sobre los derechos procesales que comporta el proceso jurisdiccional, en el sentido de que son libres de ejercitarlos o no. Además, en virtud del conocido principio dispositivo las partes legitimadas tienen pleno poder para renunciar a la acción, allanarse o transar (instituciones procesales determinantes para comprender el verdadero sentido del principio dispositivo sobre el objeto del proceso), pues, no cabría afirmar que un derecho material es dispositivo si no se permitiera al actor renunciar a la acción 34. En puridad, como bien afirma algún autor 35, debemos decir que la acción está en poder los sujetos legitimados para instar la declaración judicial de fallimento y, ello, significa que no solo pueden interponer demanda de solicitud de declaración de fallimento, sino que también pueden disponer de ella negativamente, apartándose del proceso cuando lo estimen conveniente a través de la figura del desistimiento. Todo lo anterior supone la disposición total sobre el derecho a pedir el fallimento. En el mismo sentido, debemos pronunciarnos en lo que respecta a los tres desistimientos realizados por las empresas acreedoras instantes de la declaración judicial de fallimento, puesto que, desde el punto de vista del proceso concursal español, tenemos que decir que, las empresas acreedoras instantes pueden desistir de la solicitud de declaración judicial de fallimento, como así venía ocurriendo en la vieja normativa de quiebra española – y en la vigente Ley Concursal – siempre y cuando, dicho desistimiento se produjera antes de la declaración judicial de la quiebra o de concurso 36. Antes de que se modificara la Legge fallimentare italiana, a través de la reforma llevada a cabo en julio del año 2006, el juez podía declarar el fallimento ex officio 37, en virtud de los dispuesto en el viejo artículo 8 de la Legge fallimentare – hoy derogado – en los casos en los que, durante la sustanciación de un proceso civil, el juez detectara que alguna de las

34

Cortés Domínguez, La Constitución, cit, pp. 150-151. Vid., a Cortés Domínguez, Aproximación, cit., pp. 504-505. 36. Vid., al respecto a Cortés Domínguez, Aproximación, cit., p. 505, concretamente, vid., la nota a pié de página núm. 63, y toda la doctrina allí citada por el autor. 37. Vid., la reforma de la Legge fallimentare, operada por el d.lgs. publicado en la Gazzeta Ufficiale, n. 12, de 16 de enero de 2006. El artículo 6 co. 1 de este Decreto derogó el artículo 8 de la l.fall., suprimiendo la posibilidad de poder declarar el fallimento ex officio. 35

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partes intervinientes en el mismo, estuviera en situación de insolvencia, lo pondría en conocimientos del Juez competente para que éste procediera a declarar el fallimento ex officio 38. Sobre este mecanismo se pronunció gran parte de la doctrina italiana, entendiendo que el mismo era contrario a la Constitución, puesto que la apertura (rectius: declaración judicial de fallimento) del fallimento no se podía poner en manos del juez competente para que éste la declararse ex officio, debido a la vigencia del principio de demanda 39 en el proceso fallimentare italiano, ya que, en los procesos civiles, la tutela judicial que se pretende, depende siempre del interesado, es decir, rige la instancia de parte o también el denominado principio de rogación 40; por lo tanto, el legislador concursal italiano, haciendo caso a las múltiples voces doctrinales que venían invocando la inconstitucionalidad 41 del precepto y, quizá, inspirándose en la realidad de otros Ordenamientos jurídicos 42, derogó el artículo 8 de la Legge fallimentare 43. Por lo tanto, en virtud de lo anterior, en el procedimiento fallimentare italiano, el juez no puede declarar ex officio el fallimento, sino que, éste debe ser instado por un sujeto legitimado para ello (art. 6 l.fall.). En la actualidad, si durante la sustanciación de un procedimiento civil se

38. Así disponía el derogado artículo 8 de la Legge fallimentare italiana. En la doctrina científica vid., por todos, Scarselli, Pacchi, Bertacchini, Gualandi, Manuale di diritto fallimentare, Milán, 2011, p. 61. 39. En el Ordenamiento jurídico italiano, vid., por todos, a Scarselli, Pacchi, Bertacchini, Gualandi, Manuale, cit., p. 61; en el Ordenamiento jurídico español vid., a Cortés Domínguez, La Constitución, cit., pp. 149-150. 40 Vid., a Ramírez, La quiebra, cit., pp. 589-591. 41. El viejo artículo 8 de la l.fall. chocaba frontalmente con los postulados del artículo 24 de la Constitución Italiana y los artículos 91 al 112 del c.p.c., pues el proceso civil debe ser incoado siempre a instancia de parte. También se podía afirmar que, la posibilidad de declarar la quiebra ex officio, podía romper la independencia e imparcialidad de todo juez predeterminado por Ley, por lo tanto dicho mecanismo chocaría frontalmente con el artículo 111 de la Constitución Italiana. 42. Rojo, La reforma del Derecho Concursal italiano y el Derecho concursal español (un apunte de Derecho comparado desde un perspectiva española), en Anuario de Derecho Concursal (ADCO), 10, 2007, pp. 315-341. Como bien afirma el autor, a la hora de legislar o afrontar un reforma es importante tener en cuenta como son y como funcionan otros “sistemas concursales”. Contemplar el Derecho propio desde la perspectiva de un Derecho ajeno es siempre saludable. La comparación entre el derecho concursal italiano vigente, con sus defectos y virtudes, y el derecho concursal español, también con sus defectos y virtudes. 43. Artículo derogado por el artículo 6.1 del d.lgs., de 9 de enero de 2006, núm. 5, publicado el 16 de julio de 2006.

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pusiera de manifiesto la situación de insolvencia del deudor, sea o no, uno de los intervinientes del proceso 44, el juez que está conociendo del proceso, no puede ni debe poner en conocimiento dicha situación de insolvencia al juez competente para que declarare el fallimento, puesto que éste, no lo puede declarar ex officio 45. El legislador italiano, en la reforma operada en el año 2006, ha salvado tal escollo, traspasando ese poder al Ministerio Fiscal, para que éste, asuma la verdadera iniciativa de solicitar la declaración judicial de fallimento (art. 7, co. 2, l.fall.) 46, todo ello, en respeto del principio de demanda, la necesaria imparcialidad del tribunal del fallimento, además del respeto al importante principio del giusto proceso (art. 111 Costituzione Italiana) 47. Además, la denuncia y/o comunicación del Juez civil al Ministerio Fiscal, en cualquier procedimiento civil (art. 7, co. 2, l.fall.), del estado de insolvencia del deudor, en ningún caso choca con los principios de imparcialidad e independencia del juez, instaurados en el artículo 111 Costituzione Italiana, puesto que dicha comunicación nos es un acto con contenido decisorio del juez; más bien se trata de un acto neutro y privado de efectos decisorios, es decir, no se prejuzga, la valoración decisoria del tribunal que detecta el estado de insolvencia,

44

Vid., la reciente sentencia de Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781. Vid., la reciente sentencia de Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781. 46. Vid., en este sentido la importante sentencia Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781. En este caso la sentencia versa sobre el recurso de casación interpuesto por el deudor concursado impugnando el hecho de haber sido declarado judicialmente en fallimento por solicitud del Ministerio Fiscal, a pesar de que había desistido el acreedor instante; entre otros, el deudor recurrente invocaba la ilicitud del artículo 7. 2 de la l.fall., por considerar que éste es contrario al artículo 111 de la Costituzione Italiana, ya que, a juicio del recurrente, vulnera el principio de imparcialidad e independencia judicial. Finalmente, el recurso es desestimado en el fondo, puesto que como bien declara la Corte Suprema di Cassazione, la denuncia o notificación realizada por el Juez civil, comunicando el estado de insolvencia del deudor concursado – detectada por el mismo en el curso del proceso que está conociendo –, para que el Ministerio Fiscal solicite la solicitud de declaración judicial de concurso ante el juez competente (iniciativa oficiosa), no afecta a los principios fundamentales de independencia e imparcialidad que debe concurrir en todo proceso judicial por parte de órganos Jurisdiccionales competentes. 47. Apice, L’abolizione del fallimento d’ufficio en la consecuzione delle procedure concorsuali, en Il fallimento, 2008, p. 130. El autor afirma que la supresión de la declaración de fallimento ex officio, ha sido la inevitable consecuencia del respeto a los principios fundamentales, como la necesidad de un contradictorio en el proceso, la igualdad de armas procesales y, de la garantía de la independencia e imparcialidad del juez del proceso, cuyo sustento normativo es constitucional (regulados en el artículo 111 de la Costituzione Italiana). 45

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no prejuzga el fondo, que posteriormente se ventilará cuando se abra el verdadero procedimiento fallimentare 48. La posibilidad de declarar judicialmente el fallimento ex officio era, en el derecho italiano derogado, una clara manifestación de la tutela del interés público que subyace en el procedimiento fallimentare 49, por lo tanto, ahora, al expropiar la Ley ese poder al Juez que debiera conocer del fallimento, el interés público presente en todo proceso fallimentare, se tutela con la legitimación activa que ostenta el Ministerio Fiscal para instar la declaración judicial de fallimento (art. 7 l.fall.). Además, la novedad consiste en que si en el curso de un proceso civil se manifiesta la insolvencia de alguno de los intervinientes, dicho Juez deberá ponerlo en conocimiento del Ministerio Público 50, con el fin de que éste inste o solicite la declaración judicial de fallimento (art. 7, co. 2, l.fall.) La imposibilidad de declarar el fallimento ex officio es una cuestión relativamente novedosa en el Derecho fallimentare italiano, puesto que, como ya hemos dicho, desde antiguo y, hasta la reforma operada el 16 de julio del año 2006 51, el juez podía declarar el fallimento de oficio. Parece que el legislador italiano, en esta cuestión, buscó dar un giro radical a la apertura de la declaración de fallimento inspirándose en los postulados de otros ordenamientos jurídicos concursales, como por ejemplo el sistema concursal español que, salvo alguna excepción muy residual 52, no permite la declaración judicial de concurso ex officio e,

48

Como señala la reciente sentencia Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781. Vid., la sentencia Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781 y todas las sentencias de la misma sala allí citadas; las sentencias de la Corte Suprema de Cassazione, como por ejemplo: la núm. 141/1970; la núm. 142/1970; la 110/1972; y la importante sentencia núm. 148/1996, en la que la corte declaraba que, cuando el juez declaraba de oficio el fallimento, sin iniciativa de parte, no lo hacía como si de un actor se tratara, sino que lo hacía desde su potestad jurisdiccional y, desde una posición supra partes. 50. Vid., en este sentido, las sentencias del Trib. Monza, 18 de enero de 2011; C. App. Brescia, 7 de octubre de 2009; Trib. Tivoli, 6 de abril de 2009. 51. La modificación y correspondiente supresión de la declaración judicial de fallimento ex officio, fue operada por el artículo 6, co. 1., del d.lgs., 9 de enero de 2006, núm. 5, que entró en vigor el 16 de julio de 2006. 52. De forma residual y para los procedimientos concursales que estuvieran en tramitación a la entrada en vigor de la Ley Concursal, existe un único caso en que si procede la declaración judicial de concurso ex officio. La disposición transitoria primera, apartado 2º, de la ley 22/2003, de 9 julio, prevé la declaración judicial ex officio en un caso muy concreto; en los casos en los que una resolución judicial declare el incumplimiento de un convenio aprobado en cualquiera de los procedimientos concursales anteriores a la reforma, como pudieran ser: el concurso de acreedores y la quita y espera o, la quiebra 49.

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incluso, en la normativa derogada no se permitía solicitar la quiebra al Ministerio Fiscal 53. A principios de los años ochenta, el proceso de fallimento italiano, justificaba la declaración de fallimento de oficio, debido, a nuestro entender, al interés público que subyace de todo procedimiento judicial de fallimento 54. Era una cuestión que se podía entender como el “mecanismo” o “contrapeso” para la defensa del interés general que se pone en juego una vez que se incoa un proceso de estas características y que, a priori, también pudiera parecer un mecanismo rápido y eficaz para declarar cuanto antes el fallimento de la compañía mercantil en situación de crisis (art. 5 l.fall.), obteniendo con ello un mayor valor de los activos de la sociedad para proceder a su correcta liquidación – olvidando, en ambos casos, el importante el principio de la demanda – cosa que no ocurría en el Derecho Concursal español, como así se podía observar en la antigua normativa concursal. Antiguamente, algún autor 55 aconsejaba y defendía la introducción – en el derecho de quiebra español – de la declaración judicial de fallimento ex officio por parte del tribunal competente, puesto que si no se permitiera, en muchas ocasiones, en el caso de que se instaran acciones ejecutivas singulares frente al concursado, se produciría un retraso inherente a dichos procedimientos, produciéndose con ello, una efectiva disminución de la masa activa con el correspondiente aumento de la masa pasiva, puesto que la declaración judicial de la quiebra en estos

y la suspensión de pagos; si dicha resolución adquiere firmeza después de la entrada en vigor de la ley Concursal, procederá la declaración ex officio a los efectos de tramitar la fase de liquidación, acordando en la misma resolución la suspensión de las facultades de disposición y administración del concursado sobre sus bienes, ordenando la formación de la sección de calificación del concurso, con el fin de depurar las eventuales responsabilidades en las que pudieran haber incurrido los administradores o liquidadores (de hecho y de derecho) o, los apoderados generales de la persona jurídica. Vid., en este sentido, con profundidad, el trabajo de Rojo, El derecho Concursal transitorio en Las claves de la Ley Concursal, dirigido por Quintana, Bonet, García-Cruces, Navarra, 2005, p. 617 ss.; y de forma más general el trabajo de Pulgar Ezquerra, El concurso de acreedores: la declaración, Madrid, 2009, p. 451 ss. 53. Vid., Cerdá Albero, Sancho Gargallo, Curso de Derecho Concursal, Madrid, 2000, p. 74. 54. Vid., la sentencia Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781 y todas las sentencias dictadas por la misma sección, allí citadas: la núm., 141/1970, la núm., 142/1970, la núm., 110/1972, la núm., 148/1996. 55. Vid., Ravello, Declaración “de oficio” del estado de quiebra, en Revista de Derecho Mercantil (RDM), 119, 1971, pp. 135-137.

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casos se produciría, siempre, con demasiado retraso. Por todo ello, el anterior autor 56, entendía que la anticipación a la declaración judicial de la quiebra ex officio por el tribunal competente, podría constituirse como la mejor garantía de respeto al principio de graduación y prelación de los créditos. En el mismo sentido, la doctrina italiana más autorizada 57, incluso, criticó los textos pre-legislativos de reforma de la vieja normativa concursal española con los que se estaba trabajando a principios de los años ochenta, aconsejando al legislador español una ampliación de los mismos, en la que se regulara una mayor intervención del Estado en los procedimientos de insolvencia, a través de la declaración judicial de la quiebra ex officio o, la legitimación activa del Ministerio Fiscal para solicitar el concurso. La doctrina concursalista española 58 no tardó en pronunciarse sobre tal cuestión, mostrándose reacia a dejar la apertura del concurso en ma-

56

Ravello, Declaración, cit., p. 136. Vid., por todos, a Santini, Soluciones jurídicas al estado de crisis de la empresa en los sistemas de economía de mercado, en La reforma del derecho de quiebra: jornadas sobre la reforma del Derecho Concursal español celebradas del 16 al 19 de diciembre de 1980, en el seno de la Cámara Oficial de comercio e Industria de Madrid, la Fundación Universidad-Empresa y el Departamento de Derecho Mercantil de la Universidad Autónoma de Madrid, Madrid, 1982, p. 35 ss. El profesor Gerardo Santini, en una ponencia magistral, aconsejaba al legislador español la ampliación del anteproyecto, con respecto a una mayor intervención del Estado en los procedimientos concursales a través de la posibilidad de la declaración judicial del concurso ex officio y, la legitimación activa del Ministerio Fiscal para solicitar la declaración judicial de concurso. La objeción realizada por el profesor Gerardo Santini al Legislador español, venía fundada en que, a su juicio, debía haber una mayor intervención estatal en los procedimientos de concurso, debido a la indudable existencia de los intereses públicos en los modernos derechos concursales y, dicha intervención estatal debía estar concretada o reflejada en la propia legitimación para abrir el concurso. 58. Vid., a Olivencia Ruíz, Los sistemas económicos y las soluciones jurídicas al estado de crisis empresarial, en La reforma del derecho de quiebra: jornadas sobre la reforma del Derecho Concursal español celebradas del 16 al 19 de diciembre de 1980, en el seno de la Cámara Oficial de comercio e Industria de Madrid, la Fundación Universidad-Empresa y el Departamento de Derecho Mercantil de la Universidad Autónoma de Madrid, Madrid, 1982, p. 115 ss. Estas son las conclusiones a las que llegó el profesor Manuel Olivencia en las jornadas de 1979, sobre la reforma del Derecho de Quiebra: «Lo que no puede el juez es declarar el concurso de oficio. Las bases conservan aquí el esquema tradicional del concurso voluntario o necesario, porque ha estimado la ponencia que los intereses generales presentes en esta materia no exigen el recurso y la iniciativa judicial, de aplicación práctica por demás dudosa y confusa. Esos intereses tienen protagonistas, que en su carácter de acreedores, pueden solicitar el concurso necesario. La pasividad o lentitud de éstos en el ejercicio de la acción de concurso, puede encontrar el adecuado 57.

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nos del órgano jurisdiccional, evitando también el otorgar legitimación activa al Ministerio Fiscal, para que pueda solicitar el concurso. Además, el legislador español tampoco siguió dichos consejos y, evitó – tanto en los textos pre-legislativos 59 como en la vigente Ley Concursal – la declaración ex officio del concurso, además, de la posibilidad de que se solicitase el mismo por el Ministerio Fiscal. En el mismo sentido y, en virtud de lo que ya hemos afirmado, la Ley Concursal española, tampoco permite la declaración judicial de concurso ex officio 60, siguiendo en esta cuestión las bases estructurales del moderno Derecho Concursal europeo. El Juez del concurso no puede, aún a sabiendas del estado de insolvencia de del deudor, declarar el concurso de oficio, puesto que la norma no le ampara. Será necesaria la instancia de parte, es decir, debe existir una solicitud de declaración judicial de concurso por parte legitimada (art. 3 l.c.), sin ella, el Juez del concurso no podrá declarar el concurso ex officio. Esta es una cuestión pacífica en la doctrina española, que entiende que la declaración judicial de concurso no puede dejarse en manos del Juez, en virtud de la vigencia del importante principio de demanda, y de la adaptación del principio dispositivo al proceso de declaración judicial de concurso, con la disposición absoluta del actor – sea el deudor, acreedores o terceros legitimados – del derecho potestativo que ponen en juego al ejercitar la acción concursal, esto es, el derecho potestativo al cambio o situación jurídica, es decir, el derecho a pedir que se declare judicialmente el concurso 61. Por todo ello, en el caso que nos acontece, no es posible que el tribunal que está conociendo del procedimiento de fallimento de la empresa

contrapeso, a nuestro juicio, en la obligación que se establece a cargo del deudor en determinados casos de crisis de manifestarse en concurso y en la competencia judicial, para adoptar de oficio medidas cautelares provisionales sobre el patrimonio del deudor»; también vid., del mismo autor en La declaración de concurso, en La nueva Ley Concursal: estudios de Derecho judicial, 59, 2005, p. 49 ss. 59. El anteproyecto de la Ley Concursal de 1959; el anteproyecto de Ley Concursal de 27 de junio de 1983; la revisión de 1 de marzo de 1986 del anteproyecto de Ley Concursal de 1983; la propuesta de anteproyecto de Ley Concursal de 12 de diciembre de 1995; los anteproyectos de Ley Concursal de 17 de noviembre de 2000; los anteproyectos de Ley Concursal de 7 de septiembre de 2001 y de 9 de enero de 2002; La Ley 22/2003, de 9 de julio, concursal, tampoco permite la declaración judicial de concurso ex officio. 60. Vid., en Rojo y Beltrán, en Lecciones de Derecho Mercantil, dirigido por Menéndez, Madrid, 2003, p. 864; Cortés Domínguez, La naturaleza, cit., p. 37. 61 Cortés Domínguez, La naturaleza, cit., p. 37.

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concursada, pueda declarar el mismo ex officio, ya que actualmente la norma no contempla esta posibilidad (art. 6 l.fall.) y, además, es necesaria la instancia o solicitud de alguno de los sujetos legitimados (art. 6 l.fall.). En este caso, el tribunal, ante la pasividad y no ratificación del Ministerio Fiscal en las tres audiencias celebradas (art. 15 l.fall.), no puede optar por la declaración de oficio del fallimento, puesto que ésta, en la actualidad, siempre dependerá de la existencia de solicitud por sujeto legitimado (art. 6 l.fall.) 62, siguiendo los postulados del importante principio de la demanda (art. 24 Costituzione italiana, y artt. 99 y 112, c.p.c.). La desidia mostrada por el Ministerio Fiscal, parece dar a entender que el mismo desiste implícitamente de su solicitud instada el 25 de noviembre de 2010, con los efectos que ello conlleva (art. 306 c.p.c.). En este caso, el tribunal, como bien se ha declarado en el Decreto que ahora comentamos, no puede declarar el fallimento, viéndose obligado a archivar 63 el proceso, puesto que si no existe actor legitimado, debido a un allanamiento, desistimiento o transacción, el proceso de declaración de fallimento no puede continuar, debido a la repercusión que tiene el principio dispositivo en dicho proceso 64. 2.A. La Legitimación activa del Ministerio Fiscal para la solicitud de la declaración judicial de fallimento en el ordenamiento concursal Italiano. En materia concursal, actualmente existen diversos ordenamientos jurídicos que permiten que el Ministerio Público pueda solicitar la declaración judicial del concurso 65. Como ya hemos dicho anteriormen-

62

Vid., en este sentido la sentencia Cass., 14 de octubre 2009, n. 21834. Vid., sentencias Cass., 14 de octubre 2009, n. 21834 y Cass., 2 de febrero 2011, n.

63.

3472. 64. Damián Moreno, Introducción al sistema judicial español, Madrid, 2010, p. 161. Como bien afirma el autor, las partes son libres de decidir de qué manera resuelven sus diferencias, es decir, son libres de acudir a los tribunales o no; y, aunque los jueces entiendan o consideren que dicha tutela debe ser otra, las partes también pueden poner fin al proceso cuando lo consideren oportuno, allanándose, desistiendo o alcanzando acuerdo durante la sustanciación del proceso. 65. Entre otros, el artículo 6 de la Ley Concursal Belga de 8 de agosto de 1997, el artículo 6 de la Legge fallimentare italiana, el artículo 20 del Código de la insolvencia y de la recuperación de empresas (código da insolvência e da Recuperaçao de empresas portugués), atribuyen legitimación al Ministerio Fiscal para solicitar la declaración de

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te, actualmente en el sistema concursal italiano, el artículo 6 de la legge fallimentare, legitima al Ministerio Fiscal para solicitar la declaración judicial de fallimento del deudor 66, todo ello, siempre y cuando, concurran las hipótesis establecidas en el artículo 7 de la Legge fallimentare 67, es decir, siempre y cuando: i) la insolvencia del deudor se ponga de manifiesto en un proceso penal en tramitación – sin necesidad de que el proceso se esté sustanciando frente al deudor insolvente; el precepto, simplemente dice que se ponga de manifiesto en el curso de un proceso penal (art. 7, co. 1, l.fall.) 68 –, el Ministerio Fiscal deberá solicitar la declaración judicial de fallimento, si en el curso de un proceso penal la insolvencia resulta o se pone de manifiesto de la fuga del deudor, del cierre apresurado de las instalaciones y, de la disminución fraudulenta de los activos de la empresa o, ii) cuando la insolvencia se ponga de manifiesto en un procedimiento civil 69 – donde el deudor

quiebra o de concurso – según el caso –, siempre y cuando, se verifiquen determinados actos. 66. Para una mejor comprensión de la iniciativa del Ministerio Fiscal para solicitar la declaración judicial de fallimento ver, entre otros, a Scarselli, Pacchi, Bertacchini, Gualandi, Manuale. cit., p. 61 ss.; Bassi, Lezioni di diritto fallimentare, Bologna, 2009, p. 65 ss.; Pajardi, Paluchowski, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2008, p. 120 ss.; Terranova, Ferri, Gianelli, Guerrera, Perrino, Sassani, La nuova Legge fallimentare annotata, Napoli, 2006, p. 15 ss.; También, vid., los autores que han tratado la cuestión antes de la reforma de 16 febbraio 2006.; Presti, Rescigno, Corso de diritto comérciale, Bologna, 2007, p. 269 ss.; De Ferra, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2002, p. 44 ss.; Bongiorno, La dichiarazione di fallimento en Le Procedure concorsuali: il fallimento, dirigido por Ragusa Maggiore e Costa, Torino, 1997, pp. 286-287; Mazzoca, Manuale de diritto Fallimentare, Napoli, 1996, pp. 88-90.; Ferrara jr. y Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, 240 ss.; Fazzalari, Istituzioni di diritto Processuale, Milano, 1994, p. 575 ss.; Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, 1976, p. 111 ss.; Ferrara, Il fallimento, Milano, 1974, 215 ss.; Murano, Corso di diritto fallimentare, Napoli, 1965, p. 254 ss; Provinciali, Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1962, p. 324 ss.; Cominelli, Le procedure di fallimento, Roma, 1942, p. 8 ss.; Farina, La legittimazione del P.M. a presentare la richiesta di fallimento in caso de insolvenza risultante in sede penale, en Il fallimento, 2011, 1167 ss.; Panzani, Iniziativa del P.M. e fallimento d’ufficio, en Il fallimento, 2004, 785 ss. 67 Vid., a Apice, L’abolizione, cit., p. 130. 68 Vid., la sentencia Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781. 69. El artículo 7.2 de la l.fall. se refiere a cualquier procedimiento civil en el que sea parte el deudor insolvente, incluso aunque se hay producido un desistimiento por parte de los acreedores instantes, Vid., en este sentido los fundamentos de la Sentencia Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781, puesto que, como bien afirma la misma, el juez que conoce de la audiencia previa (art. 15 l.fall.) a la declaración judicial de fallimento, es también un juez civil

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concursado fuese parte del proceso civil, como pudiera ser el caso de l’istruttoria prefallimentare o procedimiento civil – de cognición plena – previo a la declaración judicial del concurso (art. 15 l.fall.) 70 –, el juez que esté conociendo del mismo, deberá ponerlo en conocimiento del Ministerio Fiscal para que éste, solicite ex professo la declaración judicial del fallimento ante el tribunal competente (art. 7, co. 2, l.fall.). Como ya hemos adelantado, antes de la entrada en vigor de la reforma llevada a cabo el 16 de julio de 2006, el Ministerio Fiscal solo podía solicitar la declaración de fallimento en caso de que concurriera la primera de las hipótesis anteriormente expuestas (art. 7, co. 1, l.fall.), es decir, en los casos en los que la insolvencia del deudor aflorara o se pusiera de manifiesto en un proceso penal – incluso sin necesidad de que sea parte en el proceso dicho concursado –, puesto que, anteriormente, en los casos en los que concurriera la segunda hipótesis, no era necesaria la posible intervención y/o solicitud de fallimento por parte del Ministerio Fiscal, puesto que el órgano jurisdiccional civil que detectara que uno de los intervinientes en el proceso que está conociendo, estuviera en estado de insolvencia, podía comunicar dicha situación al juez competente, para que este procediera declarar el fallimento ex officio 71. Ahora, como ya hemos apuntado, después de la materialización de la reforma y de la imposibilidad de que el órgano jurisdiccional pueda declarar el fallimento ex officio, el Ministerio Fiscal puede instar la solicitud de declaración de fallimento también en el segundo caso. Todo ello, con base en el interés público 72 que subyace en todo proceso fallimentare que, además, también es coincidente con los intereses privados que se ponen en juego en el proceso de declaración de fallimento. A nuestro juicio, creemos que el Ministerio Fiscal, al tener legitimación para solicitar el fallimento, debido a que su intervención en la apertura de los procedimientos de fallimento (legitimación activa para instar la declaración judicial de fallimento), representa al importante interés público que, anteriormente, venía siendo representado implícitamente en la posibilidad

70. Vid., la sentencia Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781, en donde se cita, también una sentencia de la misma Cass., 22 de enero 2010, n. 1098, dónde se declara que el procedimiento civil al que hace alusión el artículo 7. 2 de la Legge fallimentare, pudiera ser la nueva istruttoria prefallimentare (ex. art. 15 l.fall.), a la que define como un auténtico procedimiento civil especial de cognición plena. 71. Vid., por todos Scarselli, Pacchi, Bertacchini, Gualandi, Manuale, cit., p. 61 72 Vid. Cass., 30 de mayo 2012, n. 9781

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de la declaración judicial de fallimento ex officio (posibilidad que venía siendo regulada en el derogado artículo 8 de la Legge fallimentare 73). El hecho de que el Ministerio Fiscal pueda solicitar la declaración judicial de fallimento de una sociedad de capital concursada en el proceso italiano, contrasta con la inexistencia de esta posibilidad en otros ordenamientos; un ejemplo cercano es el proceso concursal español, donde la ley Concursal, no atribuye legitimación activa al Ministerio Fiscal para solicitar el concurso; en este sentido, el legislador ha querido que la intervención del Ministerio Fiscal se limite a la denominada sección sexta o de calificación de concurso – cuya apertura es eventual – y, cuando ésta proceda, dicha intervención será preceptiva 74, constituyéndose como parte en el proceso concursal (art. 184 l.c.); aunque, en este sentido, algún autor 75 ha venido afirmando que, lo que realmente hace el Ministerio Fiscal, es actuar como garante del orden público – al igual que en otros procesos jurisdiccionales –, sirviendo además, de enlace entre las jurisdicciones civil y penal (art. 4 l.c.), puesto que, el resultado de la sentencia de calificación de concurso, no es sino, la imposición de sanciones civiles para la que no es precisa la intervención del Ministerio Fiscal. Con respecto a la intervención del Ministerio Fiscal en la sección de calificación del concurso, tenemos que decir, que en la normativa derogada, dicha intervención era de gran importancia, debido a la existente vinculación entre la pieza de calificación del concurso y el posterior proceso penal (por concurso y quiebra punible) 76, es decir, la condena o la imposición de sanciones civiles en la sentencia de calificación era el requisito de procedibilidad para poder incoar el ulterior proceso penal.

73.

Artículo derogado por el artículo 6. 1 del d.lgs. de 9 de enero, núm. 5, publicado el 16 de julio de 2006. 74. Vid., a Senés Motilla, Representación y defensa procesales. Emplazamiento y averiguación de domicilio de deudor, Art. 184, en Comentario de la Ley Concursal, dirigido por Rojo y Beltrán, Madrid, 2004, p. 2744. 75. Quecedo Aracil, Informe de la administración concursal y dictamen del Ministerio fiscal (art. 169), en Comentarios a la nueva Ley Concursal: Derecho Concursal Práctico, dirigido por Fernández-Ballesteros, Barcelona, 2004, p. 769. 76. Vid., en este sentido a García-Cruces, Sentencia de calificación, Art 172, en Comentario de la Ley Concursal, dirigido por Rojo y Beltrán, Madrid, 2004, pp. 2574-2575., del mismo autor vid., también El problema de la represión de la conducta del deudor común, en La reforma de la legislación concursal, dirigido por Rojo, Madrid, 2003, p. 248 y ss., desde la óptica del punto de vista penal vid., los trabajos de González Montes, La calificación de la quiebra en el proceso penal, Pamplona, 1974.

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Ahora, en la actualidad, la intervención del Ministerio Fiscal en el concurso de acreedores, pierde peso, debido a la aplicación del principio de independencia de las jurisdicciones 77. En definitiva y, después de todo lo aducido, hemos de afirmar que en el supuesto que se nos ha planteado, el Ministerio Fiscal ha ejercitado una auténtica acción de declaración judicial de fallimento (art. 7, co. 2, l.fall.); con dicha solicitud de declaración de fallimento, el Ministerio Fiscal, ejercita un auténtico poder de acción 78 (artt. 69 y 72 c.p.c.). Por lo tanto, al estar legitimado el Ministerio Fiscal, el tribunal competente italiano admitió a trámite dicha solicitud, en virtud de los artículos 6 y

77. Para un correcto entendimiento de los problemas que suscitaba la vinculación existente entre la jurisdicción civil y penal en los procesos de quiebra anteriores; la sentencia de calificación civil como presupuesto de procedibilidad para la apertura del posterior proceso penal en los casos de insolvencia punible, con carácter general, Vid., por todos a González Montes, La calificación del concurso en el Proyecto de Ley Concursal: aspectos procesales, en Libro Homenaje al Profesor D. Eduardo Font Serra, Madrid, 2004, p. 1171 ss.; con mayor profundidad, el mismo autor en La calificación civil de la quiebra en el proceso penal, Pamplona, 1974; Ferrer Barriendos, Repercusiones del nuevo código penal, en Cuadernos de Derecho Judicial CDJ: Derecho Concursal II, CGPJ, Madrid, 1996, p. 542 ss; Quecedo Aracil, Art. 169, Comentarios a la nueva Ley Concursal: Derecho Concursal Práctico, dirigido por Fernández-Ballesteros, Barcelona, 2004, p. 769; Rodríguez Mourullo, La independencia del proceso penal en materia concursal respecto al civil-mercantil. Particular estudio de los apartados 3º y 4º del artículo 260 del Código Penal en su nueva redacción, en Estudios sobre la nueva regulación concursal, Navarra, 2006, p. 39 ss. 78. Vid., por todos a Pajardi, Manuale, cit., p. 120 ss; donde el autor afirma con todo rigor que la solicitud de declaración judicial de fallimento por parte del Ministerio Fiscal es un verdadero poder de acción. Cabe mencionar el mérito de dicho autor que, incluso mucho antes de la entrada en vigor de la reforma del 2006, ya afirmaba con todo rigor que, la iniciativa del Ministerio Fiscal para instar la declaración judicial de la quiebra era un verdadero poder de acción. Vid., en este sentido también del mismo autor: Manuale di diritto fallimentare, Milano, 1976, p. 111 ss.; Ferro, Piano di risanamento non seguito, desistenza del creditore istante, ricorso del P.M., e fallimento d’ufficio: le modalità di apertura e prosecuzione dell’actività istruttoria dell’indagine sull’insolvenza, en Il fallimento, 2000, 322; Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concursuali, Milano, 1995.; En contra, Vid., a Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974, p. 450 ss.; Bongiorno, Il fallimento, in Le procedure concorsuali, Trattato diretto da Ragusa Maggiore e Costa, Torino, 1997, p. 287; Federico, L’iniziativa del p.m. nella dichiariazione di fallimento, en Il fallimento, 2002, 1297. En este caso dichos autores afirman que el poder de iniciativa del Ministerio Fiscal, no es un verdadero poder de acción, sino que se trata de un instrumento para solicitar al juez competente que ejercite su facultad de declarar el fallimento ex officio, por lo tanto en palabras de estos autores dicha iniciativa responde a una mera señalación por parte del Ministerio Fiscal.

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7 de la legge fallimentare 79, junto con las otras tres solicitudes de los acreedores instantes. Ante esta afirmación, debemos decir que el Ministerio Fiscal, asume la representación del interés público 80 implícito en todo proceso fallimentare que, además, es coincidente con los intereses privados que se ponen en juego en los procedimientos concursales, por lo tanto, si ostenta el poder de acción con base a una legitimación extraordinaria atribuida ministerio legis (artt. 69 y 72 c.p.c., y artt. 6 y 7 l.fall.), también, a nuestro juicio, ostentará el poder de disposición del proceso que inste. Es decir, en los procesos donde el Ministerio Fiscal intervenga como parte procesal (art. 6 l.fall.), podrá interponer demanda judicial, oponer excepciones, solicitar la admisión de los medios de prueba de los que se quiera hacer valer para funda su pretensión y, por supuesto, hacer las alegaciones que tenga por conveniente en el proceso, al igual que las demás partes intervinientes en el mismo. A pesar del verdadero poder de acción que ejercita el Ministerio Fiscal 81 al instar la declaración judicial de fallimento, el 25 de octubre de 2010 (art. 6 l.fall.), posteriormente no ratifica dicha solicitud, es decir, no se persona, ni siquiera, a las tres audiencias celebradas, no realiza alegación alguna y, ni siquiera, propone o aporta prueba alguna que funde su solicitud de declaración de fallimento 82. Pudiera parecer, que en este caso se hubiera producido lo que la doctrina procesalista italiana viene denominando la rinuncia alla domanda. Aunque, siguiendo los postulado del giusto proceso (art. 111 della Costituzione italiana), entendemos, que la anterior tesis no puede tenerse como válida porque, entendemos que el Ministerio Fiscal “agente”, cuando actúe en procesos concursales en los que se ponen de manifiesto intereses públicos del Estado, coincidentes, en muchas ocasiones,

79. En el sistema italiano, el Ministerio Fiscal no siempre está legitimado para solicitar la quiebra; el artículo 7 de la l.fall., establece los supuestos hipotéticos que deben concurrir para que el Ministerio Fiscal pueda solicitar la declaración judicial de fallimento. Nosotros entendemos que no es una facultad, pues, si el Ministerio Fiscal representa el interés público, deberá solicitar la declaración judicial de fallimento, siempre que se den los supuestos establecidos en el artículo 7 l.fall., es decir, parece que nos encontramos ante un contrapeso de equilibrio para tutelar el interés general o, más bien, el interés público derivado de todo proceso fallimentare. 80. Fabiani, Pubblico Ministero, iniziativa di fallimento e potere di impugnazione, en Il fallimento, 2007, 771. 81 Vid., a Pajardi, Manuale, cit., p. 111 ss. 82 Cass., 14 de octubre, n. 21834.

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con los intereses privados que se ponen en juego en dichos procesos, no puede, bajo ningún concepto, renunciar a la acción, pues, como ya hemos dicho, el Ministerio fiscal actúa en defensa de legalidad, en este caso, como único estandarte para el mantenimiento de la acción de declaración judicial de fallimento (en defensa del interés público implícito en el proceso de fallimento), en los casos en los que los demás sujetos legitimados no soliciten la declaración judicial de fallimento. 2.B. La inexistencia de legitimación activa del Ministerio Fiscal para solicitar el concurso en el proceso concursal español. Es obvio, que el caso que estamos comentando, no puede darse en el proceso concursal español, puesto que, la ley concursal, no atribuye legitimación activa al Ministerio Fiscal para solicitar la declaración judicial de concurso (art. 3 l.c.) 83, por lo tanto, en ningún caso, podría darse una situación análoga en la que se nos plantee un desistimiento implícito de solicitud de concurso por parte del Ministerio Fiscal. En los textos pre-legislativos anteriores a la aprobación de la ley concursal, la consideración de la figura del Ministerio Fiscal ha sido diversa en los distintos textos; en primer lugar, en el Anteproyecto de Ley concursal de 1959, se reconocía legitimación activa al Ministerio Fiscal para instar la declaración judicial de concurso, siempre que actuara en representación de personas o entidades cuya defensa o asistencia le esté encomendada por Ley, así como para intervenir en el proceso como representante de la Ley, para la defensa de ésta o, de los intereses de orden económico y social que, con independencia de los de carácter privado, queden afectados por el concurso de acreedores 84. En el anteproyecto de Ley concursal de 1983, el Ministerio Fiscal no gozaba de legitimación activa para solicitar la declaración judicial de

83. Rojo y Beltrán, en Lecciones de Derecho Mercantil, dirigido por Menéndez, Madrid, 2003, p. 864; Cortés Domínguez, La naturaleza, cit., p. 37.; Bellido Penadés, El procedimiento de declaración de concurso, Navarra, 2010, p. 71.; Olivencia Ruíz, Facultades del juez y voluntad de las partes en el procedimiento de declaración de concurso, en Revista del Poder Judicial: La Ley Concursal, XVIII, Núm. especial dirigido por el Profesor Rojo, p. 38.; del mismo autor vid., también en La declaración, cit., pp. 47-48.; González Navarro, Los presupuestos del concurso, en Diario La Ley, año XXVI, núm. 6250, 11 de mayo de 2005, p. 1.; Vilata Menadas, Elementos de Derecho Concursal, Valencia, 2011, pp. 30-31. 84 Vid., el artículo 5, co. 3, del Anteproyecto de Ley Concursal de 1959.

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concurso 85, aunque si se mantenía su intervención como parte en la calificación del concurso 86. Posteriormente, en la Propuesta de Anteproyecto de Ley concursal de 1995, a cargo del Profesor Rojo 87, tampoco se regulaba la legitimación activa del Ministerio Fiscal para solicitar la declaración judicial de concurso pero, se seguía manteniendo su intervención como parte en la calificación del concurso 88. En los anteproyectos de Ley concursal, de 2000 89, tampoco se incluía al Ministerio Fiscal dentro de los sujetos legitimados para solicitar la declaración judicial de fallimento, cosa que también se repitió en los anteproyectos de Ley concursal de 7 de septiembre de 2001 y de 9 de enero de 2002. En la actualidad, la propia Exposición de motivos de la vigente ley 22/2003, de 9 de julio, concursal, ya dice que: «la intervención del Ministerio Fiscal se limita a la sección sexta, de calificación del concurso, cuando proceda su apertura, sin perjuicio de la actuación que se establece en esta Ley cuando intervenga en delitos contra el patrimonio». Dicha cuestión ha sido debatida en el seno de la tramitación parlamentaria de la reforma de la Ley concursal en sede de enmiendas (vid., la enmienda núm. 233) 90, puesto que, ya existían algunas voces que aconsejaban la

85.

Vid., el artículo 7 del Anteproyecto de Ley Concursal, de 27 de junio de 1983 Vid., el artículo 308 ss., del Anteproyecto de Ley Concursal, de 27 de junio de

86.

1983. 87.

En el año 1993, se trabajaba sobre el anteproyecto de Ley de Bases sobre el Concurso de acreedores de 16 de febrero de 1993, en el que intervinieron los profesores don Manuel Olivencia Ruíz, don Luis Vacas Medina, don Jorge Carreras Llansana, don Guillermo Jiménez Sánchez y don Ángel Rojo Fernández-Río (que componían la sección de Derecho Mercantil de la Comisión General de Codificación), pero dicho anteproyecto de reforma y modernización del derecho Concursal no llegó a ver la luz. Posteriormente, el Ministerio de Justicia hizo llegar a la Sección de derecho Mercantil de la Comisión General de codificación unos criterios básicos de elaboración de un nuevo anteproyecto. Para ello, la Comisión sugirió al Ministro que para la consecución de un texto articulado en un tiempo razonable, se encomendara tal encargo al Profesor Ángel Rojo Fernández- Río, que acometió el encargo, entregándolo al Ministerio de Justicia el 12 de diciembre de 1995, posteriormente, dicha propuesta, fue publicada por el propio Ministerio en febrero de 1996. 88. Vid., los artículos 4 y 210 de la Propuesta de Anteproyecto de la Ley Concursal, elaborada por el Prof. Rojo, de 12 de diciembre de 1995. 89. Vid., el artículo 3 del Anteproyecto de Ley Concursal, de 17 de noviembre de 2000, elaborados por la sección especial para la reforma concursal de la comisión general de codificación 90. Vid., en Bellido Penadés, El procedimiento, cit., p. 71; Pulgar Ezquerra, La declaración, Madrid, 2009, p. 451; Senés Motilla, Art. 4, en Comentario de la Ley Concursal, dirigido por Rojo y Beltrán, Madrid, 2004, pp. 225-226. La enmienda número 233, contenía un propuesta para la atribución al Ministerio Fiscal de legitimación activa para

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ampliación de la legitimación activa para solicitar la declaración judicial de concurso (art. 3 l.c.). Al final, todo cayó en saco roto y, en ninguno de los casos, el legislador decidió atribuir competencia al Ministerio Público para promover el proceso de declaración judicial de concurso, ni posibilitar al juez del concurso, la declaración ex officio. La ley 22/2003, de 9 de julio, concursal, atribuye, con carácter general, la legitimación activa para solicitar la declaración judicial de concurso: i) al propio deudor concursado o, ii) a cualquiera de sus acreedores (art. 3 l.c.), pero, en ningún caso, atribuye legitimación activa para solicitar la declaración judicial de concurso al propio Ministerio Fiscal. En cuanto a la intervención del Ministerio Fiscal en el proceso concursal (art. 4 l.c.), como bien afirma alguna autora 91, realmente bajo la rúbrica: «De la intervención del Ministerio Fiscal», el artículo 4 de la Ley Concursal, no prevé, en ningún caso, la intervención del Ministerio Público en el proceso concursal y, menos aún, su legitimación para instar la declaración judicial de concurso. Dentro del proceso concursal, el Ministerio Fiscal adopta un papel de interviniente como parte procesal a los efectos de la sustanciación de la sección de calificación, en los casos en los que proceda su apertura (arts. 184, co. 1, in fine l.c.) 92. Con respecto a la intervención del Ministerio Fiscal, no puede quedar lugar a duda, el artículo 4 de la ley concursal no debe inducir a error, lo que el legislador ha venido a regular en el artículo 4 de la Ley concursal, no es ningún género de intervención del Ministerio Fiscal en el proceso concursal, más bien, en puridad, lo que el legislador está regulando es la intervención de Ministerio Fiscal en el proceso penal y ante los órganos jurisdiccionales penales 93. En puridad, el Ministerio Fiscal, ocupa un posición intermedia en el proceso concursal entre el órgano jurisdiccional y las partes, no siendo

instar al declaración judicial de concurso, pero al final, dicha enmienda no prosperó. 91. Senés Motilla, De la intervención de Ministerio Fiscal, Art. 4, en Comentario de la Ley Concursal, dirigido por Rojo y Beltrán, Madrid, 2004, p. 225. 92. El Ministerio Fiscal también interviene en la adopción de medidas restrictivas de derechos y libertades del deudor concursado (art. 1.3 LOpRLC), en las cuestiones sobre competencia territorial (art. 12.2). 93. Vid., por todos, a Guasp y Aragoneses, Nociones generales y requisitos del concurso de acreedores, en Revista de Derecho Procesual, 1-3, 2004, pp. 339-341; Bonet Navarro, De la intervención del Ministerio Fiscal, Art. 4, en Comentarios a la Ley Concursal, coord. da Bercovitz Rodríguez-Cano, Madrid, 2004, p. 77 ss; Cortés Domínguez, La naturaleza, cit., p. 37; Senés Motilla, Art. 4, cit., p. 71. Pulgar Ezquerra, La declaración, cit., p. 451 ss.

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total su intervención, puesto que, incluso, la mayor parte de sus intervenciones no se regulan expresamente en la Ley. Aunque, en este sentido, parece que la Ley concursal si regula, en un determinado terreno particular (la sección de calificación del concurso), la intervención del mismo 94. El legislador concursal español no ha querido dar acción al Ministerio Fiscal para que éste inste la declaración judicial de concurso, dejando dicha posibilidad a quien ostente un interés legítimo, evitando con ello, que el propio Ministerio Público, como representante del interés público, pueda ejercitar el derecho a pedir la declaración judicial de concurso; en definitiva, parece que, como bien afirma algún autor 95, el legislador concursal español entiende que en la propia declaración judicial de concurso no existen intereses públicos tutelables, al menos, a los efectos de que los tutele el Ministerio fiscal, puesto que, en ningún caso la Ley concursal le atribuye legitimación para la solicitud de declaración judicial de concurso. Frente a la anterior interpretación, nos mostramos en desacuerdo, puesto que entendemos que realmente si existen intereses públicos en la declaración judicial de concurso, lo que ocurre, es que el legislador español los tutela estableciendo una verdadera y auténtica obligación del deudor de solicitar su declaración judicial de concurso (art. 5 l.c.), además de la competencia del órgano jurisdiccional competente para adoptar las medidas cautelares oportunas y pertinentes 96. En definitiva, lo que se viene a regular en el artículo 4 de la ley concursal, son los deberes de comunicación del Ministerio Fiscal al Juez penal que esté conociendo de un causa en la que el sea parte para que este proceda a comunicar al juez de lo mercantil competente. Cuando se esté sustanciando cualquier tipo de actuación judicial por delitos contra el patrimonio y contra el orden socioeconómico 97, en las que se pongan de manifiesto indicios del estado de insolvencia de algún presunto responsable penal y, se verifique, también, la existencia de una pluralidad de acreedores, el Ministerio Fiscal que sea parte en dicho proceso, instará del Juez penal que estuviera conociendo de la causa, para que éste, realice la comunicación pertinente al juez de lo mercantil competente

94

Vid., a Guasp y Aragoneses, Nociones, cit., p. 340. Cortés Domínguez, La naturaleza, cit., p. 37. 96 Olivencia Ruíz, Los sistemas, cit., p. 49 ss. 97. Los delitos contra el patrimonio y contra el orden socioeconómico está regulados en el título XIII del Libro II del Código Penal español (arts. 234 a 304) 95

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para conocer del concurso del deudor, por si ya estuviera tramitándose un procedimiento concursal. En este sentido, como bien afirman algunos autores 98, la comunicación anterior solo desplegará sus efectos cuando exista un proceso concursal en tramitación, porque si no lo estuviera, el Juez de lo mercantil competente no podría, aún a sabiendas del estado de insolvencia, declarar judicialmente el concurso ex officio, puesto que el proceso concursal viene informado por el importante principio de rogación. El proceso concursal español no deja la declaración judicial de concurso, en manos del juez del concurso, ni tampoco, otorga legitimación activa al Ministerio Fiscal para poder solicitar la declaración judicial de concurso, apartándose por tanto, de algunas soluciones ofrecidas por otros ordenamientos jurídicos 99. En segundo lugar, el Ministerio Fiscal deberá instar del juez penal que estuviera conociendo de la causa, la comunicación a los acreedores cuya identificación resulte de las actuaciones penales que se estén sustanciando, a fin de que dicha situación llegue a ser conocida por los acreedores, pudiendo, por tanto, ejercitar sus derechos ante el órgano jurisdiccional competente para conocer del concurso de acreedores, es decir, para que puedan solicitar la declaración judicial de concurso, si así lo tienen por conveniente (art. 3 l.c.). Las dos comunicaciones anteriores, pueden entenderse que son el resorte para la defensa del interés general que deriva de la situación de la insolvencia de un deudor, y en la medida que esta puede afectar a la seguridad del tráfico, por ello, a diferencia de lo que ocurre en el proceso fallimentare italiano, el legislador concursal español decidió modular dicho interés, privando al Ministerio Fiscal de legitimación activa para solicitar el concurso, pero, a la vez, imponiéndole el deber de sendas comunicaciones. Es cierto que el deber de comunicación a los acreedores, cuya identidad resulte de las actuaciones penales en curso (art. 4 l.c.), podría con-

98.

García Espinosa, Legitimación para solicitar la declaración de concurso de las sociedades mercantiles, en Libro Homenaje a Manuel Olivencia, Madrid, 2005, p. 1038; Senés Motilla, Art. 4, cit., p. 227. 99. En el Ordenamiento Jurídico italiano, el Ministerio Fiscal tiene legitimación activa para solicitar la declaración judicial de fallimento (art. 6 l.fall.). En un mismo sentido, el artículo 6 de la Ley Concursal Belga, de ocho de agosto de 1997, también reconoce legitimación activa pata instar la declaración judicial de concurso, al Ministerio Fiscal junto al deudor, los acreedores y los administradores provisionales.

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siderarse como la contrapartida a la privación de legitimación del Ministerio Fiscal para instar la solicitud de declaración judicial de concurso 100, pero, no debemos equivocarnos, pues el Ministerio Fiscal cuando está comunicando, en absoluto está ejerciendo la acción concursal, solamente, está comunicando a los acreedores cuya identidad ha sido reconocida en las actuaciones penales, para que éstos ejerciten los derechos que les asisten ante el órgano jurisdiccional competente. En consecuencia, serán éstos últimos los que ejerciten, si lo creen conveniente, la denominada acción concursal, en la que solicitarían la declaración judicial de concurso, esto es, ejercitarían su derecho potestativo al cambio jurídico 101, que no es sino, la manifestación del carácter dispositivo del derecho que se ejercita por el que se solicita la declaración de concurso 102. A continuación, debemos decir que, en contraste con lo que ocurre en el proceso de declaración de fallimento italiano, en el proceso concursal español, el Ministerio Fiscal, también debe ser oído en el incidente de adopción de medidas restrictivas sobre los derechos fundamentales y libertades del deudor (art. 1.3 LOpRC); también, interviene en el tramite procesal subsiguiente al del planteamiento de la declinatoria (art. 12.2 l.c.) y, además, adquiere la condición de parte procesal (art. 184.1 in fine) en la sección de calificación del concurso (art. 163 y ss. l.c.); escenario, donde incluso, deduce pretensión formal de la calificación a través de su informe (art. 169, co. 2, l.c.); ésta ha sido y es, una de las funciones que se le ha venido atribuyendo al Ministerio Fiscal, incluso, desde antiguo, en los procedimientos de declaración de quiebra regulados en la normativa anterior 103, puesto que el aspecto público de la quiebra y, por ende, el interés público tutelado por el Ministerio Fiscal da lugar a la apertura de lo que se denominaba la pieza de calificación de quiebra 104. En el derecho concursal anterior, tampoco se atribuía legitimación activa al Ministerio Fiscal para que instara la quiebra, aunque, si que es cierto que en dichos procesos, se hacia necesaria la intervención del Ministerio Fiscal, porque en ellos confluía un verdadero interés público, so-

100

Senés Motilla, Art. 4, cit., p. 227. Cortés Domínguez, La naturaleza, cit., p. 30. Según la tesis del citado autor, cuando el deudor o los acreedores están solicitando la declaración judicial de concurso, están ejercitando un derecho potestativo al cambio jurídico, y que si es admitido por el juez crea un nueva situación jurídica: el concurso de acreedores. 102 Cortés Domínguez, La naturaleza, cit., p. 39. 103 Gómez de Orbaneja, Derecho procesal, Madrid, 1951, p. 699. 104 Gómez de Orbaneja, Derecho, cit., p. 698. 101.

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bre todo, en la pieza de calificación de la quiebra 105 (art. 1325 LECiv) 106. En lo que respecta a los antiguos expedientes de suspensión de pagos, tampoco se le reconocía legitimación para instar el expediente, pero la propia Ley 107, disponía que, el Ministerio fiscal debía intervenir como parte en el procedimiento – desde que se iniciaba el expediente de suspensión de pagos hasta la efectivo cumplimiento del convenio 108 –. Como podemos ver, la legislación concursal española sigue otro camino a la hora de regular la actuación del Ministerio Fiscal en el proceso concursal, puesto que el mismo, en ningún caso, tiene legitimación activa para solicitar la declaración judicial de concurso. Por todo lo anterior, no es posible que en el proceso concursal español, se planteara una cuestión análoga a la que se nos plantea en el Decreto.

3. Los actos procesales de disposición del ministerio fiscal en el proceso fallimentare italiano: una posibilidad inexistente en el derecho concursal español. 3.A. La renuncia de los actos del juicio de la solicitud de fallimento por parte del Publico Ministero en el procedimiento de fallimento italiano: delimitación conceptual de la institución procesal. Una de las cuestiones más conflictivas que se nos ha planteado en el asunto que estamos estudiando, consiste en ver si el Ministerio Fiscal puede o no renunciar a los actos del juicio 109, es decir, si puede o no desistir de su solicitud de declaración judicial de fallimento. En este caso, parece patente que el Ministerio Fiscal, según la actitud mostrada

105.

Cordón Moreno, Suspensión de pagos y quiebra, Pamplona, 1999, pp. 179-180. El artículo 1385, al igual que los artículos 1383 y 1388 II de la Ley de Enjuiciamiento Civil de 1881, actualmente derogados, regulaban la intervención del Ministerio Fiscal en la pieza de calificación de la quiebra, en la que debía efectuar escrito de calificación de la quiebra y dictamen sobre la rehabilitación del quebrado. Como bien afirmaba Gómez de Orbaneja, el Ministerio Fiscal deducía en su escrito de calificación de la quiebra, una auténtica pretensión formal sobre la calificación de la misma. 107. La Ley de Suspensión de pagos de 1922 (actualmente derogada), en su artículo 23, también regulaba la intervención del Ministerio Fiscal desde el inicio de expediente de suspensión de pagos, hasta el completo cumplimiento del convenio. 108 Vid., Cordón Moreno, Suspensión, cit., p. 42 ss. 109. La renuncia de los actos del juicio viene siendo regulada en los artículo 306 del c.p.c., y se corresponde con el instituto del desistimiento en sistema procesal español 106.

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en el proceso incoado, ha desistido implícitamente 110 de su solicitud de declaración judicial de fallimento, puesto que, en ningún momento posterior a su solicitud – durante la sustanciación de las tres audiencias celebradas (art. 15 l.fall.) –, ratificó la misma, (no realizando alegación alguna y, tampoco, aportando medios de prueba concluyentes para fundar su solicitud). Es cierto que pueden existir dudas de si el Ministerio Fiscal puede o no desistir de su solicitud, puesto que su actuación en este proceso, representa el interés público que subyace en todo procedimiento fallimentare, es decir, como ya hemos afirmado anteriormente, en dichos procesos se ponen de manifiesto intereses públicos del Estado, coincidentes, también, con todos los intereses privados, que también entran en juego en el proceso fallimentare. En el caso en cuestión, no cabe hablar, en ningún caso, de renuncia de acción, puesto que en ningún caso se está renunciando a la tutela judicial; en puridad, la renuncia de la acción supone que no exista la posibilidad de poder volver a incoar un proceso con el mismo objeto y las mismas partes, puesto que, si se renuncia plenamente a la acción, también entraría en juego la autoridad de la cosa juzgada 111. A nuestro juicio, en este caso, el Ministerio Fiscal podía desisitir del proceso puesto que todavía no se había declarado judicialmente el fallimento; aunque, bien es cierto, que dicha posibilidad desaparecería una vez se haya declarado el fallimento y se haya designado al curatore, ya que, desde el mismo momento en que se designa al curatore, entendemos que éste ostentaría la representación de la masa activa del concursado, y por tanto, a partir de este momento no se admitirían actuaciones individuales y decisivas de los instantes 112. Lo que se si está claro es que, en ningún caso, el Ministerio Fiscal está renunciando a la acción, puesto que, actúa en el proceso de declaración de fallimento, garantizando con su oficio la legalidad del proceso en aras a la objetividad y el interés publico de la sociedad. Cabe plantearse, pues, si en el caso que estamos estudiando, es posible que el Ministerio Fiscal pueda desistir de la solicitud de declaración

110.

El desistimiento implícito, se corresponde con la rinuncia agli atti di giudizio de forma implícita. 111. Vid., en García Bartolomé, Las acciones de reintegración de la masa y la aprobación judicial del convenio, en Anuario de Derecho Concursal, ADco, 22, 2011, p. 484. 112 Vid., Ramírez, La quiebra, cit, p. 1900.

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de fallimento que ha instado inicialmente; en este sentido, debemos recordar que el papel que desempeña el Ministerio Fiscal en el proceso fallimentare – al igual que en otros procesos civiles –, es el de defensor de la legalidad, permaneciendo en el mismo, como autoridad de justicia en interés de la objetividad 113; además, la subordinación del Ministerio Fiscal a la justicia aparta al mismo de la tentación de convertirse en un representante parcial de una de las partes intervinientes en el proceso, puesto que el Ministerio Fiscal no es un sustituto procesal de las partes (art. 81 c.p.c.) 114. En definitiva, el Ministerio Fiscal en los procesos concursales se muestra, por tanto, como el representante del interés público de la sociedad, cuyo interés principal radica en que no se vuelvan a repetir hechos de esta naturaleza, que tanta alarma causan 115; Además, la presencia del Ministerio Fiscal en el proceso civil es considerada como un verdadero correctivo al poder de disposición de las partes intervinientes en el proceso 116. Según el relato fáctico del decreto, en el caso en cuestión, el Ministerio Fiscal no ratifica su solicitud de fallimento en ninguna de las audiencias celebradas en sede judicial (art. 15 l.fall.), por lo tanto, la ausencia de ratificación de la solicitud del Ministerio Fiscal, hace pensar que, ante la incomparecencia y la pasividad mostrada por el Ministerio Fiscal, nos encontremos ante lo que la doctrina procesalista italiana denomina «rinuncia agli atti di giudizio» de carácter implícito o tácito, que viene a coincidir con el denominado instituto del desistimiento 117 del derecho procesal español.

113.

Vid., a Fairén Guillén, Temas del Ordenamiento Procesal, Madrid, 1969, p. 486 ss. Vid., a Monteleone, Diritto processuale civile, Pádova, 2000, p. 129; Liebman, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 1955, p. 175. 115. Rives y Martí, Concurso de acreedores y quiebra, Madrid, 1954, pp. 267-268. 116. Lugo, Manuale de diritto processuale civile, Milano, 2009, p. 104; Liebman, Manuale, cit., p. 175. 117. El desistimiento es uno de los institutos procesales de disposición de los procesos en España, viene siendo regulado en el artículo 20 de la Ley 1/2000, de 7 de enero, de enjuiciamiento Civil. 114.

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A nuestro juicio, no existen dudas de que el Ministerio Fiscal, al igual que el propio deudor 118 o los acreedores 119, pueda desistir de su solicitud de declaración de fallimento, siempre y cuando, el tribunal que esté conociendo del proceso, no haya declarado judicialmente el fallimento 120. El Ministerio Fiscal, al igual que las demás partes legitimadas para solicitar la declaración judicial del fallimento (art. 6 y 7 l.fall.), ejerce un auténtico poder de acción (artt. 69 y 72 c.p.c.), al igual que los demás actores legitimados y, por ello, también podrá disponer de dicho proceso, aunque sea tácita o implícitamente 121, como ha ocurrido en nuestro caso. Todo lo anterior tiene su razón de ser, puesto que mientras no se haya declarado el fallimento, la situación de insolvencia es una situación de hecho, es decir, sin resolución judicial que lo declare, no se puede hablar técnicamente de situación de fallimento, por lo tanto, creemos que en dicha fase del procedimiento, es posible renunciar a los actos del juicio o desistir expresa o implícitamente del mismo. La rinuncia agli atti di giudizio o, desistimiento del proceso 122, es el instituto procesal por el cual, el Ministerio Fiscal ha manifestado su

118.

Cfr., en Ramírez, La quiebra, cit., p. 587. El autor dice, siguiendo la tesis de la Sentencia del Tribunal Supremo español, de 27 de octubre de 1973, que el deudor que solicita la quiebra voluntaria podrá desistir de su solicitud, dependiendo en qué estado esté el proceso de quiebra; Por otro lado, vid., a Rives y Martí, Concurso, cit., p. 267, afirma de forma tajante, que el deudor quebrado podrá desistir de su solicitud, siempre y cuando, el tribunal que esté conociendo de la misma no la haya declarado judicialmente. En el momento que la quiebra hay sido declarada, ya no se podrá desistir de la solicitud. En este sentido vid., Cass., 14 de octubre 2009, n. 21834. 119. Vid., con detenimiento, en este sentido Cass., 26 de febrero de 2009, n. 4632. En la que se confirma que, los acreedores, al perseguir un interés privado siempre pueden renunciar a su solicitud de declaración de fallimento, puesto que, la renuncia agli atti di giudizio, no impide que los legitimados (art. 6 l.fall.) puedan volver a solicitar posteriormente la solicitud de declaración de fallimento. Como bien afirma la sentencia, en los casos en los que los acreedores hayan desistido de sus solicitudes de declaración de fallimento, el Tribunal deberá declarar a través de decreto judicial la extinción del proceso (archiva el proceso incoado, por decaer la instancia de parte). 120 Ramírez, La quiebra, cit., p. 1894. 121. Ramírez, La quiebra, cit., p. 597. No cabe duda, el desistimiento puede ser tanto expreso por petición de los instantes – ya sea el propio deudor o un acreedor –, como tácito o implícito. 122. Vid., en este sentido, con carácter general, la delimitación jurídico-procesal del desistimiento de procesos frente a la renuncia de acciones, como actos clásicos de disposición del proceso junto a toda la doctrina allí citada, en García Bartolomé, D., «Las acciones de reintegración de la masa…», op. cit., págs. 481 y ss.

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intención de desistir de su solicitud inicial de declaración judicial de fallimento; generalmente, cuando el desistimiento del actor entra en juego en el ámbito de proceso civil general, es necesaria la aceptación de la contraparte o demandado 123, puesto que, el hecho de desistir del proceso no impide que el actor pueda volver a promover de nuevo el proceso, simplemente, lo que se está haciendo es abandonar el proceso iniciado. Como apunta algún autor 124, cuando se desiste de la solicitud de fallimento, al quedar el fondo del asunto imprejuzgado, y ante la posibilidad de que el actor pueda volver a promover la solicitud de declaración, será necesario el consentimiento del la parte contraria, puesto que, es posible que el demandado, ante la posibilidad de que el actor pueda volver a promover la solicitud de declaración judicial de fallimento, esté interesado en que el proceso prosiga hasta sentencia firme con autoridad de cosa juzgada 125. En contra de la anterior idea, y siguiendo la doctrina de la Corte di Cassazione Italiana 126, debemos afirmar que la preceptiva aceptación del demandado no es exigible en el caso del procedimiento fallimentare, es decir, que en el caso de que en un proceso de declaración de fallimento, se solicite el desistimiento por parte de alguno de los actores legitimados (art. 6 l.fall.), no es necesaria la aceptación o el beneplácito del deudor 127. Para poder hablar de desistimiento del proceso debe darse una clara manifestación expresa o tácita por parte del actor en la que desista de su solicitud inicial. Cuando se produce la renuncia de los actos del juicio por parte del actor instante, se produce una finalización anormal del proceso 128, es decir, viene a producirse la llamada extinción del proceso 129, puesto que, si el desistimiento es admitido por el Juez, éste deberá

123.

Vid., en Chiovenda, Principios de derecho procesal civil, Madrid, 2000, p. 419. Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2011, p. 391. 125 García Bartolomé, Las acciones, cit., p. 485. 126. Vid., la interesante sentencia Cass., 14 de octubre 2009, n. 21834, que declara la innecesariedad de la aceptación del deudor para tener por válido un desistimiento en el proceso fallimentare italiano. 127 Vid., Cass., 18 de agosto 2010, n. 18620. 128. Vid., con carácter general en Ramírez, La quiebra, cit., p. 1853 y ss., donde se entiende al desistimiento como un modo anormal de acabar la quiebra. Vid., también, concretamente el apartado E): Desistimiento del instante, p. 1893 ss. 129. Vid., en Mandrioli, Diritto processuale, cit., p. 389 y ss.; Satta, Punzi, Diritto processuale, cit., p. 405 ss.; Redenti y Vellani, Diritto processuale, cit., p. 353 ss.; Sassani, Linea124

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declarar el sobreseimiento, archivando el proceso y dejando imprejuzgado el fondo del asunto, no pudiendo, por tanto, declarar el fallimento de officio 130. Debe entenderse admisible el desistimiento tácito o implícito 131 de la solicitud del fallimento por parte del Ministerio Fiscal, como bien ha declarado el tribunal, pues como ya hemos dicho el Ministerio Fiscal, ni siquiera ha comparecido en las tres audiencias celebradas (art. 15 l.fall.), en las que debía haber ratificado su solicitud de fallimento, entendiendo, que dicha pasividad es la expresión inequívoca de la intención de no ratificación de su solicitud y, por ende, de renuncia a los actos del juicio. Por todo ello, creemos que, si el Ministerio Fiscal, tiene el poder de acción de fallimento, también tendrá el poder de desistir de dicho proceso, siempre y cuando, no se haya declarado judicialmente el fallimento 132. Desconocemos los motivos por los cuales el Ministerio Fiscal, no ratifica su solicitud de fallimento en ninguna de las tres vistas celebradas, pero lo cierto, es que no es posible declarar el fallimento de oficio, sin actor que ratifique su solicitud de declaración (actualmente no es posible la declaración judicial del fallimento ex officio); es decir, después de la reforma operada en el año 2006, no es posible que el tribunal que esté conociendo del proceso, aún conociendo que un deudor se

menti, cit., p. 443 ss.; Lugo, Manuale, cit., p. 247 ss.; Luiso, Diritto processuale, cit., p. 253 ss.; Arieta, De Santis, Montesano, Corso base, cit., p. 433 ss. 130. Vid., en este sentido la sentencia de Cass., 9 de febrero de 2009 n. 4632, en la que se dice que, en los casos que el actor desista de su solicitud de declaración de fallimento, el tribunal deberá archivar el proceso fallimentare, no pudiendo verificar autónomamente la insolvencia del deudor en cuestión, ni declarar el fallimento de oficio. 131. Vid., Ramírez, La quiebra, cit., p. 597. El autor afirma, acertadamente que el desistimiento de la solicitud de declaración de quiebra, puede darse antes de que el tribunal que está conociendo de la misma la declare, puesto que la nueva situación creada con la declaración judicial de la quiebra, no ha sido constituida, por ello, no hay inconveniente en aceptar en ese ínterin temporal el desistimiento del solicitante de la declaración judicial de quiebra, al no haberse pronunciado el tribunal sobre la misma. Continua dicho autor, defendiendo la tesis de que el desistimiento tácito del deudor solicitante de la quiebra, es igual de válido que el desistimiento expreso, por lo tanto, en nuestro caso, la renuncia o desistimiento tácito del Ministerio Fiscal, se debe entender de forma análoga al desistimiento de cualquier legitimado para promover la solicitud de declaración de fallimento, puesto que, todos los legitimados (art. 6 LF), ostentan el mismo poder de acción y, por ende, de disposición del proceso que promueven. 132. Cortés Domínguez, Aproximación, cit., p. 505, vid., la nota al pie de página núm. 63 del autor, y toda la doctrina allí citada por el autor.

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encuentra en estado de insolvencia, pueda declarar el fallimento sin que haya sido instado por alguno de los sujetos legitimados (art. 6 l.fall.) o, sin que exista o se mantenga la acción judicial de fallimento por alguno de los sujetos legitimados (art. 6 l.fall.). Con respecto a las renuncias de los actos del juicio manifestadas por las compañías acreedoras, debemos decir que son ajustadas a derecho porque, como ya hemos apuntado, los promotores del proceso de fallimento, pueden desisitir de sus solicitud, siempre y cuando el tribunal no haya declarado el fallimento 133. Como podemos ver, según los datos que se desprenden del decreto, el tribunal da por válidas las renuncias de los actos del juicio por parte de las tres empresas acreedoras, puesto que, cuando se han solicitado dichas renuncias el fallimento todavía no había sido declarado judicialmente. Finalmente, es cierto que la rinuncia agli atti del giudizio es una clara consecuencia directa de la existencia de una transacción extrajudicial sobrevenida a la que hayan podido llegar las partes 134, por ello, pensamos que las tres compañías acreedoras hayan podido llegar a un acuerdo extrajudicial (verbi gratia: un piano di risanamento o un accordi di ristrutturazione dei debiti), con la empresa deudora y, como consecuencia de ello, se han producido las tres renuncias de los actos de juicio, por parte de las tres entidades acreedoras. En cuanto a las costas el proceso, siempre que el tribunal verifique la regularidad del desistimiento y declare la extinción, también deberá pronunciarse por las costas del proceso, que en los casos de desistimiento siempre serán a cargo del que renuncia a los actos del juicio 135. Aunque en este caso, el tribunal no se ha pronunciado expresamente sobre la condena en costas de los desistimientos efectuados por los acreedores, creemos que es por la existencia de las serias dudas de hecho y de derecho que plantea la cuestión. En cuanto al desistimiento efectuado por el Ministerio Fiscal, en ningún caso se impondrán costas al mismo, en los procesos jurisdiccionales en los que intervenga como parte, como ha sido el caso 136.

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Vid., nota 55. Vid., en este sentido, a Sassani, Lineamenti, cit., p. 444; Cortés Domínguez, Moreno Catena, Manual de Derecho Procesal civil. Parte general, Valencia, 2011, p. 313. 135. Vid., a Satta, Punzi, Diritto processuale, cit., p. 406; Costa, Manuale di diritto processuale civile, Torino, 1966, p. 415. 136. Vid., el ejemplo del sistema procesal español, donde el artículo 394.4 de la ley 1/2000, de Enjuiciamiento Civil, de 7 de enero, así lo prescribe. 134.

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4. Conclusiones y propuesta de reforma. Como hemos visto, el Tribunal de Firenze tenía encima de la mesa hasta cuatro solicitudes de declaración de fallimento – situación que nos puede indicar el grado de insolvencia en el que se encontraba la sociedad deudora – y, finalmente, todas han sido desistidas, por lo tanto, no ha podido declarar el fallimento, viéndose obligado al archivo de las actuaciones judiciales. A pesar de que el tribunal tenga por válida la renuncia de los actos del juicio 137 (desistimiento implícito del proceso) por parte del Ministerio Fiscal, en este caso, se presenta una cuestión cuanto menos extraña, porque al no quedar ninguna instancia viva, el proceso fallimentare no puede proseguir 138, debido, en gran parte, a la supresión de la declaración ex officio, y a que el proceso de declaración judicial de fallimento viene informado por el importante principio de rogación, con plena vigencia, además, del principio de acción, lo que significa que el actor o instante legitimado que promueva la solicitud de declaración judicial de fallimento, tiene plena disposición sobre el objeto y el derecho que pone en juego con el escrito de demanda 139, pudiendo, por tanto, desistir de su solicitud, en cualquier momento antes de la declaración judicial de fallimento. Ante este caso, el tribunal no podía declarar el fallimento ex officio, incluso, a sabiendas de que la empresa se encontraba en avanzado estado de insolvencia. Como ya hemos apuntado, la vigencia del principio de acción en el procedimiento fallimentare, determina de manera absoluta el poder de disposición de los actores sobre el interés o el derecho que se pone en juego en la solicitud de declaración de fallimento; al mismo tiempo supone que el órgano jurisdiccional no puede declarar el fallimento ex officio 140. Con respecto a todos los desistimientos concurrentes por parte de las acreedoras y el desistimiento implícito por parte del Ministerio Fiscal, éstos se han producido en una fase idónea del proceso fallimentare, puesto que, al igual que ocurre con el proceso concursal español, sin declaración judicial de fallimento, nada hay, la situación de crisis o de

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Regulada en el artículo 306 del c.p.c. Vid., Ramírez, La quiebra, cit., p. 1902. 139 Cortés Domínguez, Aproximación, cit., p. 503. 140 Cortés Domínguez, Aproximación, cit., p. 503. 138

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insolvencia es un estado de facto y dicho estado debe ser declarado judicialmente por un juez; por lo tanto, mientras no haya resolución de declaración judicial de fallimento, no se podrá hablar técnicamente de situación de fallimento 141; en este sentido, debemos decir que, al no existir la declaración judicial de fallimento y, por ende, al no estar designado el curatore, entendemos que deben ser admitidos los desistimientos solicitados por todos los acreedores en cuestión (como ha ocurrido en el supuesto). En consecuencia, al producirse el desistimiento expreso de todos los acreedores instantes, además del desistimiento implícito del Ministerio Fiscal, es lógico el archivo de las actuaciones judiciales del proceso, ya que ha desaparecido uno de los presupuestos necesarios para la prosecución del mismo, como es la vigencia de una acción judicial de fallimento 142. El hecho de que el tribunal haya admitido las desistimientos, no significa que se cierren las puertas a una posterior solicitud de declaración de fallimento, es decir que, los efectos que produce en este caso la renuncia a los actos del juicio, son los mismos que los de la caducidad, por ello, en ningún caso, la aceptación de dicha renuncia por parte del tribunal, perjudica, en modo alguno, a la acción, sino que tan solo, el proceso concluye 143 sin prejuzgar el fondo, pudiendo en cualquier momento posterior, volver a promover solicitud de declaración de fallimento 144, ya que la renuncia de los actos del juicio no extingue la acción 145. Además, como ya hemos expuesto anteriormente, la rinuncia implícita de los actos del juicio en el proceso fallimentare italiano, no requiere de consentimiento del deudor concursado 146. Para terminar, creemos que, a pesar de que en la actualidad se deben admitir dichos desistimientos – al no existir norma que lo prohíba expresamente –, es oportuno decir, que sería conveniente que el legislador italiano, tomase nota y regulase una solución que pueda evitar estos

141. Vid., García Bartolomé, Las acciones, cit., p. 509; también del mismo autor, vid., en Los efectos del concurso sobre el arbitraje tras la Ley 11/2011, en La reforma de la Ley de Arbitraje de 2011, dirigido por Damián Moreno, Madrid, 2011, p. 218. 142. Vid., las sentencias Cass., 14 de octubre 2009, n. 21834 y Cass., 2 de febrero 2011, n. 3472. 143 Vid., Chiovenda, Principios, cit., p. 419. 144 Vid., Arieta, De Santis, Montesano, Corso di base, cit., 2008, p. 434. 145 Costa, Manuale, cit, p. 415. 146 Vid., Cass., 11 de agosto 2010, n. 18620.

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desajustes en sede de declaración judicial de fallimento, puesto que no es de recibo que, al decaer todas las solicitudes de declaración de fallimento, el tribunal se encuentre obligado a archivar las actuaciones, ante la imposibilidad de declararlo de oficio, a pesar de la clara situación de crisis por la que la atraviese la concursada. Como hemos argumentado a lo largo del presente trabajo y, siguiendo la lógica de las instituciones procesales de disposición del proceso (ex art. 306 c.p.c.), la solución a la que llega el tribunal, debemos entenderla ajustada a derecho, puesto que los sujetos que tienen el poder de acción para ejercitar la acción fallimentare (art. 6 l.fall.), ostentan también la disposición absoluta sobre el derecho que ponen en juego a la hora de interponer la solicitud de declaración judicial de fallimento, por lo tanto, el deudor, los acreedores y el Ministerio Fiscal, podrán renunciar o desistir de sus solicitudes, siguiendo los postulados del artículo 306 c.p.c., siempre y cuando, no se haya declarado el fallimento. A pesar de la anterior afirmación, es cierto que el deudor, los acreedores y el Ministerio Fiscal – al tener un poder de acción de fallimento – podrán también disponer en sentido negativo de su solicitud de declaración de fallimento, es decir, renunciar o desistir de su solicitud (art. 306 c.p.c.) 147, pero esta posibilidad, como ya hemos dicho, puede plantear serias dudas; sobre todo, la renuncia implícita del Ministerio Fiscal, ya que el mismo, interviene en el proceso fallimentare como defensor de la legalidad y representante del interés público que subyace en el procedimiento fallimentare; por todo ello, se podría llegar a sostener que el Ministerio Fiscal, debido al papel que desempeña, no podría renunciar a su solicitud de declaración judicial de fallimento, ya que, a pesar que los acreedores puedan renunciar, podría sostenerse que el Ministerio Público, en virtud de las funciones que atesora debido a su cargo, no debería renunciar de su solicitud de fallimento, al ser considerado un garante de la defensa y legalidad del interés general subyacente. A tenor de los hechos acontecidos, cabría plantearse si el interés público latente en el proceso fallimentare ha sido tutelado en este caso; con respecto a esta cuestión y, bajo nuestra prudente opinión, a pesar de haberse producido el desistimiento de los acreedores instantes y del propio Ministerio Fiscal, en este caso, se puede reflejar, a priori, el hecho de que la empresa haya salido del estado de insolvencia, proba-

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Vid., a Cortés Domínguez, Aproximación, cit., p. 503.


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blemente, debido a la suscripción de algún acuerdo extrajudicial puro o un acuerdo de restructuración de deudas (art. 182 bis l.fall.) 148 con las entidades acreedoras instantes (acreedores profesionales o estratégicos), consiguiéndose con ello, no solo, la satisfacción mediata de los intereses de los propios acreedores (que verán como después de pactar alguna quita y/o espera, su créditos serán satisfechos por la deudora), sino que también, de forma inmediata se conseguirá la inminente conservación en el tráfico de la empresa en situación de crisis, que continuará con su actividad empresarial para generar el producto, con el cual poder pagar a su acreedores en los extremos pactados en el acuerdo extrajudicial. Por todo lo expuesto, desde aquí, hacemos un llamamiento al Legislador italiano – aprovechando que el Ministerio de Justicia italiano ha constituído un grupo de trabajo para la elaboración de un nuevo texto de reforma de la legge fallimentare 149 –, ofreciéndole una propuesta de lege

148. Como pudiera ser un piano di risanamento de la Legge fallimentare italiana. Vid., la naturaleza, alcance, regulación, efectos y riesgos de los piani di risanamento en Pulgar Ezquerra, Licitud, cit., p. 46 ss.; Demarchi, I piani, cit.; también en Scarselli, Le sistemazioni, cit., p. 548 ss.; Por otro lado, también pudiera tratarse de un acuerdo de reestructuración de deudas (art. 182-bis l.fall.); en cuanto a éstos, vid., también a Rojo, La reforma, cit., pp. 315-341; Scarselli, Pacchi, Bertacchini, Gualandi, Manuale, cit., p. 535 ss.; Galardo, Gli accordi, p. 343 ss.; Pacchi, Provvedimenti, cit., p. 340 ss.; Fazzi, Questioni, cit., p. 352 ss.; Paluchowski, L’accordo, cit., p. 98 ss. 149. Vid., la importante noticia: Fallimenti, riparte la riforma, Il sole 24 ore di mercoledí 4 aprile 2012, p. 6. El Ministerio de Justicia italiano ha constituido un grupo de trabajo para la elaboración de un texto articulado de reforma de la Legge fallimentare, compuesta por expertos en Diritto fallimentare, entre otros: el presidente del Tribunale de Torino, Luciano Panzani, il presidente de la sezione fallimentare del tribunale de Milano, Filippo Lamanna, el juez milanés, Roberto Fontana, y los Profesores Stefano Ambrosini, Fabrizio Guerrera y Alberto Maffei Alberti, todos ellos, coordinados por el Secretario de Justicia, Andrea Zoppini. El grupo de trabajo deberá trabajar rápido, pues, se pretende que haya un primer borrador del texto articulado antes del verano de 2012, por lo tanto, dicha comisión tiene un duro trabajo por delante. Se pretenden introducir diversos cambios en la Legge fallimentare, todos ellos en aras a la conservación y continuidad de la empresa (como principal objetivo perseguido). Entre otras novedades importantes, destacan a título ilustrativo: i) la simplificación de la forma notificación del decreto di apertura del procedimiento de declaración judicial de fallimento, introduciendo la posibilidad de notificarlo a través de correo electrónico con firma electrónica certificada; ii) la posible introducción de un procedimiento de alertas (emulando al sistema concursal francés); iii) la introducción del concordato de continuidad; iiii) la introducción de la responsabilidad penal de los profesionales que intervienen en el proceso fallimentare; y, finalmente (como cuestión central de este trabajo), también habrá que destacar la posibilidad de que se introduzca la irrenunciabilidad de la instancia de fallimento por las personas legitimadas para instarla (art. 6 l.fall.), es decir, que una vez instada la decla-

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ferenda, en la que se contemple o regule la posibilidad de introducir la irrenunciabilidad de la solicitud de declaración de fallimento, es decir, que ninguno de los legitimados para solicitar la declaración judicial de fallimento (art. 6 l.fall.), pueda renunciar a dicha solicitad una vez instada, garantizando así, que el juez pueda declarar el fallimento de dicha empresa en situación de insolvencia, puesto que si dicha empresa no es declarada en fallimento por falta de actor o actores, se crea un grave perjuicio para el tráfico jurídico mercantil, ya que el Juez no puede declarar el fallimento ex officio, y dicha empresa, a pesar de haber suscrito un acuerdo con sus acreedores estratégicos, es posible que pueda volver a entrar en estado de insolvencia, con los riesgos que ello conlleva. En este sentido, el Legislador italiano, en las reformas operadas en los años 2005 y 2006, parece que actuó con cierta prudencia legislativa, procediendo a reformar la Ley de forma parcial; aunque no es fácil detectar por qué no se optó por un reforma global de la legge fallimentare, es posible que dicha actitud de prudencia se justifique debido a la ya comprobada inadecuación de los modelos concursales mas recientes y su escaso o limitado éxito 150.

ración judicial de fallimento por parte del deudor, los acreedores o el Ministerio Fiscal, no sea posible renunciar (rinuncia agli atti di giudizio) a la misma (art. 306 c.p.c.). Por lo tanto, en este sentido es idóneo traer a colación el clarificador trabajo de Rojo, La reforma, cit., p. 315-341., en el que ya se venía apuntando, que la reforma de la Legge fallimentare italiana llevada acabo en 2005 y 2006, se ha quedado a “medio camino”, ya que, como bien apuntaba el autor, a diferencia de la reforma concursal – global – llevada acabo por el legislador español en el año 2003, el legislador italiano realizó una reforma parcial, modificando muchos de los preceptos de la Legge fallimentare para sanear diversas cuestiones controvertidas, pero en ningún caso, se puede hablar de un reforma global, más bien se pude decir que es una reforma parcial, aunque insuficiente; por lo tanto, aún queda mucho camino por recorrer. Por ello, que mejor oportunidad que la constitución de este grupo de trabajo designado por el Ministerio de Justicia italiano para la elaboración de un nuevo texto de la Legge fallimentare, en el que se contemple un reforma, al menos quasi global de la Legge fallimentare, adaptándola a las nuevas bases del Derecho concursal europeo y, siempre con la mirada puesta en los sistemas de otros países vecinos de derecho comparado. (la cursiva en nuestra). 150. Rojo, La reforma, cit., p. 315-341. Como bien decía el autor, parecía que el legislador había actuado con cierta prudencia legislativa a la hora de reformar la Legge fallimentare en los años 2005 y 2006, puesto que el limitado éxito de las leyes aprobadas recientemente en los países europeos más representativos, aconsejaban no reformar todo el cuerpo normativo de forma global, esperando a que emergiera con mayor nitidez un modelo alternativo, que ofreciera mejores soluciones, puesto que, la “ola de reformas” de leyes concursales acontecidas en el ámbito europeo, ha sido, también, seguida de una “ola de desencantos”.

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Es cierto que en este momento, el legislador italiano tiene en su mano, una gran oportunidad para realizar una reforma global de la legge fallimentare 151, pudiendo eliminar ciertas distorsiones y deficiencias del pasado; pero, con respecto al problema que estamos tratando aquí – la posible irrenunciabilidad de la solicitud de fallimento –, somos conscientes de que el grupo de trabajo nombrado por el Ministerio de Justicia italiano, tendrá serias dificultades a la hora de conciliar la posibilidad de introducir la irrenunciabilidad de la solicitud de declaración judicial de fallimento, puesto que, en puridad, desde el punto de vista del Derecho procesal, si la propia legge fallimentare atribuye acción de fallimento al deudor, a los acreedores o, incluso, Ministerio Fiscal, significa que, el actor o los actores, al poder ejercer la acción concursal, en virtud de la legitimación activa que le confiere el artículo 6 de la legge fallimentare, también tienen pleno poder de disposición sobre el derecho que ponen en juego a la hora de instar el fallimento y, por lo tanto, podrán disponer en sentido negativo del mismo 152, desistiendo o renunciando a la solicitud, siempre y cuando, el juez competente no haya declarado el fallimento 153.

151.

Vid., Rojo, La reforma, cit., pp. 315-341. Como bien apunta el autor, el legislador italiano en las reformas de la Legge fallimentare llevadas a cabo en 2005 y 2006, no pretendió afrontar un reforma global de la Ley, sino que simplemente se contentó con “quitar arrugas” del rostro de una normativa sexagenaria y poner alguna prótesis, confiando en que dicha norma tuviera un mejor “calidad de vida” en el tiempo que mantenga vigencia. Por otro lado, aunque, bien es cierto que la norma concursal italiana (R.d. 16 de marzo de 1942, n. 267) no es tan arcaica como lo fue la normativa española en materia de quiebras (anterior a la Ley Concursal vigente), parece que en los años 2005 y 2006, el legislador italiano tomó un actitud prudente a la hora de afrontar la reforma de dicho cuerpo normativo, puesto que, a pesar de que las insuficiencias de algunas de las concepciones fundamentales de la legge fallimentare son patentes, que incluso, hubieran exigido refundar sobre nuevas bases ese conjunto normativo, el Legislador optó por reformar un puñado de artículos dispersos por la normativa vigente, afrontando más bien una reforma parcial. Como bien apuntaba el profesor Ángel Rojo, las reformas llevas a cabo en los años 2005 y 2006, por el legislador italiano, consistían, principalmente, en: adecuar la legge fallimentare a la jurisprudencia constitucional, a las nuevas reglas del proceso civil, agilizando la tramitación del procedimiento, y al también nuevo Derecho societario (como, sin duda, acontece, en los artículos dedicados a los “patrimonios destinados a un específico negocio”: vid., artt. 155 y 156) y a eliminar al mismo tiempo algunos “elementos de rigidez” en la configuración institucional, algunos “elementos de distorsión” y algunos “elementos de impronta pública” (como ha acontecido, por ejemplo, al suprimir la declaración judicial de oficio del fallimento: artículo 6 legge fallimentare. 152 Vid., a Cortés Domínguez, Aproximación, cit., p. 505. 153 Ivi.

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Por todo ello, vemos difícil que desde el punto de vista procesal, se puedan encajar dichas cuestiones, puesto que el hecho de que la legge fallimentare atribuya legitimación activa para solicitar el fallimento (los legitimados ejercitan su derecho “potestativo” a pedir el cambio jurídico, esto es: a pedir la declaración judicial de fallimento), a determinados sujetos y, luego, se les restrinja su derecho a disponer de su derecho en sentido negativo, como pueda ser la imposibilidad de desistir una vez hayan solicitado la declaración judicial de fallimento. En otro sentido, habría que corroborar si, más bien, el problema radica exclusivamente en la solicitud emprendida por el Ministerio Fiscal – como sujeto representante del interés público – por entenderse ésta irrenunciable per se, en aras del interés de la buena sustanciación del proceso fallimentare, por ser garante, de algún modo, de la declaración judicial de fallimento y, por ende, tutelar, así, el tan mencionado interés público subyacente en todo proceso fallimentare. Finalmente, decir que se podría abogar por una solución intermedia, que no plantee gran distorsión entre la irrenunciabilidad de las instancias de fallimento y las instituciones básicas de disposición del proceso; como por ejemplo, vetar la posibilidad de renunciar a la solicitud de fallimento instada por el Ministerio Fiscal y, por ende, abogar por el mantenimiento de su acción de fallimento una vez la haya instado, a pesar de que hubieran renunciado todos lo acreedores instantes (sobre todo en la fase isttructoria prefallimentare); esta posibilidad serviría para que el proceso fallimentare pudiera proseguir su curso y el tribunal pudiera declarar el fallimento con base en la solicitud de fallimento instada por el Ministerio Fiscal, consiguiéndose, por tanto, la tutela del denominado interés general.

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Attività bancaria e pratiche commerciali scorrette: una prima lettura delle recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali * Sommario: 1. Aspetti generali. – 2. I rapporti tra disciplina consumeristica e disciplina di settore: recentissimi spunti dalla giurisprudenza amministrativa. – 3. I decreti cc.dd. “salva Italia” e “cresci Italia”. – 3.1. I nuovi poteri in materia di tutela dei consumatori. – 3.2. Una nuova fattispecie di pratica commerciale “comunque” scorretta? – 3.2.1. Segue. La disciplina regolamentare emanata dall’Isvap. – 3.3. L’estensione della tutela alle microimprese. – 3.4. Il “rating di legalità”.

1. Aspetti generali. L’applicazione della disciplina in materia di “pratiche commerciali scorrette” al settore bancario non ha mancato di suscitare, in tempi ancora molto recenti, una serie di interrogativi in merito alla reale portata delle norme contenute nel “Codice del Consumo” ed alla sua incidenza sull’attività bancaria, soprattutto sotto il profilo della dibattuta questione relativa al preteso carattere “speciale” delle discipline di settore rispetto a quella consumeristica. Nel settore bancario (forse più che in ogni altro) hanno avuto modo di esplicarsi e di evidenziarsi le nuove funzioni della Autorità Garante, che sono andate ad aggiungersi a quelle tradizionali in materia in tutela della concorrenza, delineando la figura di quello che è stato efficacemente definito “l’altro Antitrust” 1 – nozione che pur ha attratto giudizi critici motivati dalla pretesa “irrazionalità” di una struttura

* Relazione presentata al convegno Luci ed ombre di una legislazione per la crisi. Cosa cambia realmente per le imprese, le banche e i consumatori?, svoltosi a Napoli il 14 giugno 2012. 1. Così Parcu, L’“altro” Antitrust: dall’asimmetria di potere di mercato all’asimmetria di potere contrattuale, in Banc., 2012, p. 48 ss.

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alla quale sono riconnessi compiti in settori che si assumono come “poli opposti del campo” 2). Il presente contributo intende fare il punto su alcuni interventi normativi recenti (il d.l. n. 201 del 2011, c.d. “salva Italia”, convertito, con modificazioni, in legge n. 214 del 2011; il d.l. n. 1 del 2012, c.d. “cresci Italia”, convertito, con modificazioni, in legge n. 27 del 2012; il d.l. n. 29 del 2012, convertito, con modificazioni, in legge n. 62 del 2012) che hanno implementato il quadro disciplinare in materia, nonché su alcuni recentissimi sviluppi giurisprudenziali. Si aggiunge, peraltro, che la stessa direttiva 2005/29/CE (sulle “pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno”) potrebbe essere oggetto di proposte di revisione, anche e soprattutto in relazione al comparto dei servizi finanziari che, giova ricordarlo, è l’unico per il quale l’art. 3, par. 9, della direttiva 2005/29/CE – che parte, in linea di principio, da un approccio di “armonizzazione massima” – stabilisce la deroga a favore di un sistema di armonizzazione “minima”. Tale sostanziale “anomalia” è infatti all’oggetto di un ampio dibattito tutt’ora in corso, ed occasionato dal fatto che è in corso di predisposizione, ad opera della Commissione, una “relazione globale” sullo stato di attuazione della direttiva, che si avvarrà anche delle risultanze di consultazioni particolari e generali appositamente avviate 3. Dalla relazione ci si attende anche, quindi, la eventuale proposta di una revisione della direttiva.

2. I rapporti tra disciplina consumeristica e disciplina di settore: recentissimi spunti dalla giurisprudenza amministrativa. È ancora del tutto attuale – ed anzi sul punto, come si vedrà tra poco, si è recentemente pronunciata l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato – il tema dei rapporti tra normativa in materia di pratiche commerciali scorrette e normativa speciale di settore (in particolare, quella bancaria), con riferimento ai possibili profili di sovrapposizione tra le due

2. Di Cataldo, Pratiche commerciali scorrette e sistemi di enforcement, in Giur. comm., 2012, I, p. 824. 3. Sul punto si veda ABI, Circolare Serie Legale n. 26 del 21 ottobre 2011; nonché Broggiato, La revisione della direttiva sulle pratiche commerciali sleali: questioni afferenti il settore bancario, in Banc., 2012, p. 91 ss.

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discipline ed al conseguente interrogativo sulla possibile disapplicabilità della disciplina consumeristica – in quanto asseritamente “generale” – in favore di quella settoriale, in quanto altrettanto asseritamente “speciale”. Ciò anche in considerazione della necessità di evitare che lo stesso comportamento venga sanzionato da due autorità distinte nell’ipotesi in cui rappresenti virtualmente una violazione tanto della disciplina consumeristica quanto di quella speciale 4. Militerebbero a favore della applicazione della disciplina settoriale l’art. 3, parr. 4 e 9, della direttiva 2005/29 e, quanto alla disciplina domestica, l’art. 19, co. 3, del codice del consumo. In questo senso si era espressa, del resto, anche la prima sezione del Consiglio di Stato 5, con riferimento, peraltro, alla disciplina settoriale in materia di servizi di investimento, ed argomentando – il punto è di particolare momento – dalla asserita identità di interessi tutelati. Sicché tale orientamento è stato valorizzato come espressione di un principio più generale, potenzialmente “esportabile” anche agli altri settori in cui insiste una disciplina settoriale, quale quello bancario. Tuttavia l’Autorità, che aveva richiesto il parere, ha ritenuto di doversi conformare allo stesso unicamente per il caso particolare sottoposto al Consiglio di Stato, contestando – proprio con riguardo al settore bancario – il presupposto di quel parere: vale a dire la sussistenza di una identità di interessi tutelati. La disciplina settoriale bancaria – si afferma nella sostanza – è mossa dalla tutela di interessi coincidenti con le finalità di vigilanza declinate nell’art. 5 t.u.b., e che fanno capo, soprattutto alla “sana e prudente gestione” della banca. Tale argomento, peraltro, è stato medio tempore “depotenziato”: innanzi tutto perché le autorità creditizie, nel contesto della disciplina amministrativa di trasparenza, hanno ritenuto di intitolare quest’ultima anche alla “correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti”; e poi anche perché, con riguardo specifico alle disposizioni introdotte dal d.lgs. n. 141 del 2010, tra le “regole generali” relative all’applicazione di tutto il Titolo VI del t.u.b. (intitolato alla “trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti”) si precisa ora che “le autorità creditizie esercitano i poteri previsti dal presente titolo avendo riguardo, oltre che alle finalità indicate nell’art. 5, alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela” (art. 127 t.u.b.).

4. Sul punto sia consentito fare riferimento a Falcone, Pratiche commerciali scorrette e trasparenza bancaria, in Dir. banc., 2010, I, p. 635 ss. 5 Parere n. 3999/2008.

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La Banca d’Italia, del resto, ha ritenuto di dover concepire i rapporti tra disciplina consumeristica e disciplina di trasparenza non già in termini di alternatività, quanto, piuttosto, di complementarietà, nel senso che la prima sarebbe destinata a trovare applicazione alle fattispecie non prese in considerazione dalla seconda. Infatti, nelle disposizioni di vigilanza in materia di trasparenza si afferma espressamente che tale disciplina “si affianca alle disposizioni previste da altri comparti dell’ordinamento in materia di trasparenza e correttezza dei comportamenti nei confronti della clientela” e che “nello svolgimento delle proprie attività gli intermediari considerano l’insieme di queste discipline come un complesso regolamentare integrato e curano il rispetto della regolamentazione nella sua globalità, adottando le misure necessarie”, aggiungendo specificamente che “vengono in rilievo, ad esempio, le norme concernenti (…) le pratiche commerciali scorrette”. D’altra parte, anche presso la dottrina più attenta non si è mancato di riconoscere come più efficace il modello fondato sulla “specificità dei regolatori settoriali, senza negare la possibilità di un intervento generale dell’antitrust ove necessario” 6: il che è stato in altri termini espresso come compresenza di una tutela “verticale” (quella assicurata dall’autorità di settore) e di una tutela “orizzontale” (quella realizzata dall’Agcm) 7. Tale ricostruzione troverebbe un fondamento teorico nel tentativo di “armonizzare” le diverse finalità dell’attività di vigilanza bancaria (quelle, generali, indicate nell’art. 5, e quelle, particolari, indicate dall’art. 127 t.u.b.), in una più generale “tutela dell’integrità del mercato” 8. Tentativi di superare l’impasse – che senz’altro non si riverbera, di per sé, in un effetto benefico per i consumatori 9 – sono stati rappresentati, poi, dalla sottoscrizione, il 23 febbraio 2011, di un protocollo di intesa tra Banca d’Italia e Agcm in materia di tutela dei consumatori nel mercato bancario e finanziario 10: ma il contenuto del protocollo non sembra andare oltre la definizione di obblighi di reciproca informativa, senza prendere posizione sul tema centrale in discussione. Come anticipato, peraltro, si attendeva un ulteriore passaggio giurisdizionale, giacché con tre ordinanze del 12 ottobre 2011 la VI Sezione

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Parcu, L’“altro”, cit., p. 57. Zoppini, Appunti in tema di rapporti tra tutele civilistiche e disciplina della vigilanza bancaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, I, p. 28. 8 Zoppini, Appunti, cit., p. 33. 9 Così ancora Zoppini, Appunti, cit., p. 28. 10 Sul punto ABI, Circolare Serie Legale n. 10 del 5 aprile 2011. 7.

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del Consiglio di Stato aveva rimesso all’adunanza plenaria del medesimo Consiglio la questione del riparto di competenza tra Agcm e autorità di settore. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato si è pronunciata il 20 febbraio 2012, la motivazione essendo stata depositata il successivo 11 maggio. Sennonché, per il caso concreto preso in considerazione dalla pronuncia, neppure questa sembra destinata a dire una parola definitiva sulla questione. Nell’affermare, infatti, la competenza dell’Agcm e non della Banca d’Italia, il Consiglio di Stato precisa subito che non poteva essere presa in considerazione, ratione temporis, la “innovativa disciplina introdotta dal decreto legislativo 13 agosto 2010, n. 141”. Quest’ultima è pur definita dal Consiglio come una “disciplina di settore tendenzialmente esaustiva”, ma nello stesso tempo evidenzia che la questione “esula dall’ambito del presente giudizio”. Con riferimento alla disciplina anteriore, il Consiglio rileva come il t.u.b. “quanto meno nella versione vigente all’epoca dei fatti per cui è causa – non contiene alcuna disposizione intesa a perseguire, direttamente o indirettamente, finalità di tutela del consumatore”. Partita ancora aperta, dunque. Per quanto nell’ambito di un obiter dictum, comunque, il Consiglio pare quindi confermare la ipotizzabilità un rapporto di specialità a favore della disciplina settoriale, con conseguente competenza delle autorità creditizie.

3. I decreti cc.dd. “salva Italia” e “cresci Italia”. Nel contempo, anche in ambito domestico è peraltro dato ravvisare talune importanti novità normative in materia di pratiche commerciali scorrette il cui impatto non esclude – ma anzi talora esplicitamente ricomprende – il settore bancario ed in generale quello finanziario. Il riferimento, in particolare, è al d.l. n. 201 del 2011 (convertito in legge n. 214 del 2011”: c.d. decreto “salva Italia”), nonché al d.l. n. 1 del 2012 (convertito in legge n. 27 del 2012: c.d. decreto “cresci Italia”). Le innovazioni apportate da tali provvedimenti spaziano in vari ambiti: si va dalla ridefinizione della struttura organizzativa, del finanziamento e dei poteri dell’Agcm, alle disposizioni in materia di diritto di concorrenza, per finire, come anticipato, con quelle in materia di tutela dei consumatori (rectius: di consumatori, ed ora anche di microimprese), che più specificamente attengono la materia delle “pratiche commerciali scorrette”.

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Dopo una ricostruzione delle principali tematiche poste in materia di applicazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette al settore del credito, si dovrà tentare di “incasellare” le novità normative cui si è appena fatto cenno nell’ambito delle linee generali della disciplina. 3.1. I nuovi poteri in materia di tutela dei consumatori. Deve segnalarsi in primo luogo l’introduzione di una particolare ipotesi sanzionatoria ad opera dell’Autorità per mezzo di quanto previsto dal nuovo art. 37-bis, introdotto dal decreto “cresci Italia” (art. 5). Viene infatti stabilito che l’Agcm – che all’uopo dispone degli stessi poteri istruttori di cui può far uso in sede di tutela della concorrenza – “sentite le associazioni di categoria rappresentative a livello nazionale e le camere di commercio interessate o loro unioni, d’ufficio o su denunzia, ai soli fini di cui ai commi successivi, dichiara la vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori che si concludono mediante adesione a condizioni generali di contratto o con la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari”. In caso di accertata violazione di vessatorietà, viene prevista non soltanto l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria (da 5.000 a 50.000 euro), ma anche la pubblicazione del provvedimento tanto sul sito dell’Agcm, quanto su quello dell’operatore, quanto infine, “mediante ogni altro mezzo ritenuto opportuno in relazione all’esigenza di informare compiutamente i consumatori a cura e spese dell’operatore”. Come è stato esattamente rilevato, si tratta essenzialmente di una sanzione di carattere “reputazionale” 11, e proprio in ragione di ciò si può sin da ora prevedere che il sistema bancario si mostrerà particolarmente sensibile al problema della mitigazione del rischio di compliance implicitamente messo in gioco. Nello stesso tempo, la previsione di questo nuovo potere sembra accogliere l’istanza della dottrina volta a recepire, anche a livello di tutela dei consumatori, delle forme di protezione ex ante 12. C’è da chiedersi, peraltro, quali saranno i prospettabili effetti di tale dichiarazione sui contratti già conclusi e recanti le clausole in discorso, ove venisse recepito l’orientamento che ipotizza che, accertata la scorrettezza di una pratica commerciale da parte dell’Autorità, il contratto a valle debba ritenersi (se non altro presuntivamente) per ciò stesso annullabile per vizio del

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ABI, Circolare Serie Legale n. 9 del 13 aprile 2012. Parcu, L’“altro”, cit., p. 55.


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consenso, in quanto l’accertamento della scorrettezza comporterebbe necessariamente la prova del vizio 13. Sotto altro aspetto, viene riconosciuto all’impresa un “potere di interpello preventivo” (co. 3 del nuovo art. 37-bis del codice del consumo). L’impresa potrà, cioè, sottoporre la clausola che intende utilizzare nei rapporti con i consumatori all’Agcm, e quest’ultima dovrà pronunciarsi entro centoventi giorni. L’esito favorevole dell’istruttoria impedirà l’apertura di una istruttoria successiva. Tanto il potere di dichiarazione preventiva di vessatorietà, quanto la richiesta preventiva di interpello sulla vessatorietà sono destinati ad essere disciplinati da un regolamento che dovrà essere emanato dall’Autorità. Non è secondario ricordare che il legislatore ha richiesto che nella procedura istruttoria sia garantito il contraddittorio, e che nell’esercizio di tutte le competenze previste dall’art. 37-bis (dunque sia in caso di dichiarazione preventiva di vessatorietà che di giudizio di interpello) l’Autorità potrà sentire – sempre con le modalità da stabilirsi con emanando regolamento – le autorità di vigilanza o di regolazione di settore. La precisazione è di particolare momento, giacché proprio un certo difetto di attuazione del principio del contraddittorio è parso a molti commentatori un “punto debole” dell’attività istruttoria dell’Autorità 14. 3.2. Una nuova fattispecie di pratica commerciale “comunque” scorretta?. In materia di pratiche commerciali scorrette, deve poi segnalarsi l’introduzione, ad opera dell’art. 36-bis del d.l. 201 del 2011, di un nuovo comma 3-bis all’interno dell’art. 21 del codice del consumo, secondo cui

13.

Sul punto, estesamente, Zorzi, Galgano, Sulla invalidità del contratto a valle di una pratica commerciale scorretta, in Contr. e impr., 2011, p. 921 ss. Per un approccio basato sul contenuto della direttiva Nuzzo, Pratiche commerciali sleali ed effetti sul contratto: nullità di protezione o annullabilità per vizi del consenso? in Le pratiche commerciali sleali, a cura di Minervini – Rossi – Carleo, Milano, 2007, p. 235 ss., e, in una prospettiva generale, De Cristofaro, Violazione del divieto di pratiche commerciali scorrette e diritto privato, in Banc., 2011, p. 66 ss.; sul punto anche Maugeri, Violazione della disciplina sulle pratiche commerciali scorrette e rimedi contrattuali, in Nuova giur. civ. comm., 2008, p. 477 ss.; opta per la tesi della nullità relativa Bilotta, Invalidità del contratto e tutela individuale rispetto alle pratiche commerciali scorrette nel settore finanziario e assicurativo, in La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, a cura di Meli – Marano, Torino, 2011, p. 217 ss. 14. Siragusa, Caronna, L’attività di tutela dei consumatori dell’Autorità Antitrust: un primo bilancio, in Banc., 2011, p. 85.

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“è considerata scorretta la pratica commerciale di una banca, di un istituto di credito o di un intermediario finanziario che, ai fini della stipula di un contratto di mutuo, obbliga il cliente alla sottoscrizione di una polizza assicurativa erogata dalla medesima banca, istituto o intermediario”. Si deve innanzi tutto rilevare come l’inserimento di una nuova fattispecie di pratica commerciale scorretta intervenga nell’ambito dell’art. 21 del codice del consumo: quello dedicato alle pratiche cosiddette “ingannevoli”. Il fatto è che la direttiva 2005/29, in particolare il suo art. 5, co. 5, esclude che possano essere introdotte dal legislatore domestico delle pratiche commerciali da considerarsi scorrette “in sé” se non sono ricomprese all’interno della lista contenuta nella direttiva, in mancanza di una modifica di quest’ultima. Sicché è senz’altro da concordarsi con la dottrina che ha evidenziato come l’introduzione della norma contenuta nell’art. 36-bis non esima dalla necessità di verificare nel caso concreto se si sia in presenza di una pratica commerciale scorretta; e che ha stigmatizzato la collocazione di tale previsione all’interno della disciplina delle pratiche commerciali ingannevoli, potendo invece la fattispecie in concreto realizzare anche una pratica commerciale aggressiva 15. Deve poi essere evidenziato lo stile tutt’altro che appropriato utilizzato dal legislatore: la assoluta mancanza di senso nell’uso della espressione “istituto di credito” accanto al termine “banca”; e l’utilizzo della nozione di “erogazione” di una polizza da parte di una banca: espressione che dovrà ovviamente intendersi nel senso di collocamento di una polizza da parte di una banca. La previsione, poi, appariva carente nella misura in cui riferiva l’associazione della polizza ai soli contratti di finanziamento rappresentati da mutui, ed ignorando, quindi, le fattispecie di finanziamenti realizzati mediante altre forme tecniche, prima fra tutte l’apertura di credito in conto corrente. Situazione alla quale ha evidentemente inteso rimediare l’art. 28, co. 3, del d.l. n. 1 del 2012 (convertito in legge n. 27 del 2012: c.d. decreto “cresci Italia”), che peraltro riferisce la situazione, più genericamente, alla sottoscrizione di un contratto di conto corrente (evidentemente non necessariamente assistito da una apertura di credito).

15.

Siri, Elementi di compatibilità tra le diverse discipline connesse al collocamento delle polizze assicurative, in atti del workshop Le novità del decreto liberalizzazioni in materia di polizze assicurative e mutui, Roma, 11 maggio 2012, organizzato da Abiformazione, il quale ricorda al riguardo la pronuncia di CGCE, procedimenti riuniti C-261/07 e C-299/07 del 23 aprile 2009.

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Ancor prima dell’intervento normativo l’Agcm si era già in più circostanze occupata del fenomeno del collocamento di polizze assicurative da parte di banche in occasione della erogazione di mutui, sanzionandone alcuni comportamenti, in quanto ritenuti scorretti. Sono da ricordarsi in particolare: –– le fattispecie con riguardo alle quali l’Autorità – con riferimento alle polizze che prevedevano la non rimborsabilità del rateo di premio riferito al periodo non goduto in caso di estinzione anticipata del finanziamento – ha ritenuto di evidenziare la facoltà del cliente di concludere il mutuo senza la sottoscrizione della polizza o di accedere ad una polizza (eventualmente collocata da terzi) più adatta alle sue esigenze 16; –– le fattispecie in cui l’Autorità ha considerato pratica scorretta il comportamento del finanziatore che acquisisca il consenso del consumatore rispetto alla polizza di assicurazione del finanziamento senza aver previamente evidenziato il carattere puramente facoltativo e non obbligatorio della copertura assicurativa: il particolare tale asserzione è stata formulata con riferimento all’utilizzo delle carte di credito c.d. “revolving” 17; –– fattispecie in cui l’Autorità si è pronunciata con rispetto a prodotti assicurativi associati a conti correnti, censurando il comportamento della banca per difetto della informazione in ordine al condizionamento dell’offerta del prodotto alla sottoscrizione di una polizza vita 18. Anche la dottrina più sensibile non aveva mancato di evidenziare come la volontà del cliente, in caso di abbinamento di assicurazioni a mutui, sarebbe stata in qualche modo condizionata, e che la banca mutuante ma nel contempo distributrice di assicurazioni avrebbe da ciò ricavato un “vantaggio persuasivo”, ma nello stesso tempo con il pericolo, per il consumatore, di vedersi collocati prodotti assicurativi non soddisfacenti (copertura della perdita della capacità di rimborso in luogo di copertura per il perimento dell’immobile) o comunque in mancanza di una sua concreta possibilità di accedere alle coperture assicurative offerte da compagnie distinte da quella per la quale intermedia la banca finanziatrice 19.

16

PS4126, in Boll. AGCM n. 26/2010. PS1311, in Boll. AGCM n. 21/2011. 18 PS7250, in Boll. AGCM n. 48/2011. 19. Genovese, Il contrasto delle pratiche commerciali scorrette nel settore bancario, in La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, a cura di Meli, Marano, Torino, 2011, pp. 54-55. 17

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La nuova norma dovrà leggersi – come è stato pur evidenziato dai primi commentatori – come divieto della banca di presentare al cliente la sottoscrizione della polizza come se questa fosse oggetto di un obbligo di legge. Cionondimeno, non può mancarsi di rimarcare come la politica bancaria volta ad associare una polizza assicurativa ad un prodotto di credito, pur certamente fomentata dalla remunerazione che la banca ricava dalla intermediazione della polizza – se non addirittura dalla individuazione della banca come beneficiaria o vincolataria della polizza – è anche in qualche misura incoraggiata dalle disposizioni in materia di vigilanza prudenziale delle banche, ed, in particolare, dalla disciplina in materia di credit risk mitigation (questo si dica, almeno, per i mutui fondiari e per i prestiti contro cessione del quinto dello stipendio o del salario), consentendo alle banche in tale maniera di ridurre i livelli di “impegno” patrimoniale. Era stato inoltre evidenziato, poi, come la presenza di polizze assicurative potesse prestarsi a rappresentare un elemento di ostacolo in ordine alla piena operatività del principio di portabilità del finanziamento, su cui pure l’Agcm non aveva mancato di intervenire 20.

20. In materia di portabilità, un ulteriore intervento del decreto “cresci Italia” (art. 27 -quater) ha introdotto una disciplina particolarmente punitiva per la banca finanziatrice originaria: la precisazione è di certo momento, trattandosi di tema al quale l’Agcm ha riservato particolare interesse fin dalla prima emanazione delle norme del c.d. “plesso Bersani”, con riferimento a pratiche consistenti nell’impedire o rendere oneroso per i consumatori l’effettuazione della operazione di portabilità attiva o passiva. Viene infatti sancito il principio per cui la surrogazione deve perfezionarsi entro dieci giorni dalla data di richiesta al nuovo finanziatore di acquisire da quello originario l’esatto importo del debito residuo, pena l’obbligo di risarcire il cliente in misura pari all’1 per cento del valore del finanziamento per ciascun mese o frazione di mese di ritardo. In precedenza il termine di “tolleranza” era invece di trenta giorni lavorativi dalla data di richiesta al finanziatore originario di avvio delle procedure di collaborazione. La particolare severità mostrata dal legislatore non mancherà di richiamare l’attenzione dell’Agcm, tenuto anche conto che la disciplina dell’art. 120-quater, il cui co. 7 è stato modificato nel senso appena visto, è applicabile, oltre che alla persona fisica, anche alla microimpresa, recentemente entrata nell’ambito soggettivo di interesse dell’Agcm. Non mette conto in questa sede di esaminare le modifiche apportate all’art. 40-bis del Testo Unico, in materia di cancellazione, argomento che pure in più occasioni è stato oggetto di interventi da parte dell’Agcm: le modifiche apportate a questo articolo paiono muoversi più nel senso di specificazioni interpretative che di sostanziali innovazioni.

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3.2.1. Segue: la disciplina regolamentare emanata dall’Isvap. Sul crinale dei rapporti tra polizze assicurative e contratti di finanziamento si era mossa anche l’Isvap, affrontando peraltro il tema non già sotto il profilo delle pratiche commerciali scorrette, sibbene sotto quello del conflitto di interessi. In questa prospettiva si è mosso il Regolamento n. 35 del 16 maggio 2010, tra l’altro nato sotto gli auspici favorevoli (rappresentati dal parere positivo reso al riguardo) dell’Agcm. Per quanto riguarda più specificamente il possibile impatto con la disciplina delle pratiche commerciali scorrette, l’Isvap ha introdotto elementi di chiarezza in materia di estinzione anticipata e trasferimento o portabilità dei mutui, fissando il principio della continuità del rapporto a favore di un nuovo beneficiario, o, in alternativa, del rimborso del rateo del premio unico relativo alla parte del mutuo che non ha avuto ammortamento (art. 49). La previsione è stata di particolare momento: infatti, benché i medesimi principi avessero sostanzialmente trovato accoglimento in un protocollo sottoscritto tra Abi e Ania nel 2008 – pure valutato favorevolmente dall’Agcm – restava la circostanza che tali norme si collocavano su un livello di pura regolamentazione pattizia, e non di legale cogenza. Lo stesso regolamento, peraltro, aveva introdotto anche una disciplina in tema di polizze assicurative intermediate dalla banca finanziatrice, introducendo il principio tranchant del divieto di assumere contemporaneamente la veste di beneficiario o vincolatario della prestazione assicurativa, e di intermediario nel collocamento del contratto di assicurazione (art. 48 co. 1-bis inserito nel Regolamento n. 5 del 2006) 21. Tale previsione, peraltro era stata annullata dal Tar Lazio (con pronuncia del 27 ottobre 2010) per ragioni collegate a vizi procedimentali: ma la norma è stata riproposta con il provvedimento Isvap n. 2946 del 2011. Al di là delle ragioni che avevano indotto il giudice amministrativo a “cassare” tale previsione, vi è peraltro da evidenziare che la scelta di politica legislativa adottata appare particolarmente penalizzante, nel momento in cui decide di dare una soluzione al problema attraverso un radicale divieto piuttosto che attraverso una più articolata regolamentazione. L’art. 183, co. 1, lett. c) del codice delle assicurazioni, infatti, si limita a prevedere che “nell’offerta e nell’esecuzione dei contratti le imprese e gli

21. Sul punto, in termini critici, Marano, Quale futuro per la bancassicurazione?, in Assicura, 2010, pp. 24-25.

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intermediari devono (…) c) organizzarsi in modo tale da identificare ed evitare conflitti di interesse ove ciò sia ragionevolmente possibile e, in situazioni di conflitto, agire in modo da consentire agli assicurati la necessaria trasparenza sui possibili effetti sfavorevoli e comunque gestire i conflitti di interesse in modo da escludere che rechino loro pregiudizio”. In senso non difforme, il primo comma dell’art. 48 del Regolamento n. 5/2006 (quale modificato dall’art. 52 del Regolamento 35/2010) si esprimeva nei termini di evitabilità / non evitabilità del conflitto. Ci si potrebbe domandare in che misura anche la disposizione ora ricordata – che di per sé incide (soltanto) sul tema del conflitto di interessi e non (anche) su quello delle pratiche commerciali scorrette – possa riverberarsi sulla disciplina di queste ultime. La risposta più plausibile è che la norma ora ricordata e quella introdotta dal decreto “salva Italia” restino in un rapporto di reciproca autonomia. Deve innanzi tutto rilevarsi, infatti, come l’art. 36-bis del decreto “salva Italia”, proprio nella prospettiva della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, trovi applicazione unicamente nei rapporti tra un professionista ed un consumatore (o, come si vedrà, ora anche con una “microimpresa”), mentre la norma in tema di conflitto di interessi si riferisce a qualsiasi contraente. Inoltre la disciplina del nuovo co. 3-bis dell’art. 21 del codice del consumo prende in considerazione non già la fattispecie in cui banca si renda beneficiaria o vincolataria della polizza che intemedia, ma piuttosto quella della banca che “obblighi” il cliente a stipulare la polizza intermediata per ottenere un mutuo, senza alludere alla circostanza che sia o meno beneficiaria o vincolataria della polizza. La norma del regolamento Isvap neppure prende posizione sulla esistenza e sulla natura del negozio che rappresenta il collegamento causale con il vincolo a favore dell’intermediario stesso. Dunque la disciplina Isvap non si interseca necessariamente con quella in materia di pratiche commerciali scorrette: se mai, da tale disciplina si ricava che la fattispecie cui si riferisce la nuova norma in materia in tema di pratiche commerciali scorrette è quella della polizza pur intermediata dalla banca, ma di cui quest’ultima non sia beneficiaria o vincolataria, perché in questo caso la pratica sarebbe illegittima in quanto adottata in violazione delle norme in materia di intermediazione assicurativa. In una prospettiva ulteriormente diversa – ma più “vicina” alla normativa in materia di pratiche commerciali scorrette – si pone la disciplina introdotta dall’art. 28 del decreto “cresci Italia”, ove si precisa che “fermo restando quanto previsto dall’art. 183 del codice delle assicurazioni private (…), e dalle relative disposizioni e delibere dell’ISVAP di attuazione in materia di interesse degli intermediari assicurativi, le banche, gli isti-

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tuti di credito e gli intermediari finanziari se condizionano l’erogazione del mutuo immobiliare o del credito al consumo alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita sono tenuti a sottoporre al cliente almeno due preventivi di due differenti gruppi assicurativi non riconducibili alle banche, agli istituti di credito e agli intermediari finanziari stessi. Il cliente è comunque libero di scegliere sul mercato la polizza sulla vita più conveniente che la banca è obbligata ad accettare senza variare le condizioni offerte per l’erogazione del mutuo immobiliare o del credito al consumo”. La norma non si muove, in verità, in un solco simmetrico rispetto a quello percorso dalla precedente norma del decreto “salva Italia”: viene utilizzato il verbo “condizionare” in luogo del verbo “obbligare”; si precisa questa volta che il mutuo deve essere “immobiliare” (quindi, verosimilmente, si parla di un mutuo ipotecario, o comunque concesso per l’acquisto o la ristrutturazione di un immobile); si aggiunge l’ipotesi in cui la polizza sia collegata all’erogazione di credito al consumo (senza specificazione, peraltro, della relativa forma tecnica); si precisa che l’assicurazione collocata dalla banca deve essere una assicurazione sulla vita; si prescrive una specifica condotta alla banca (la sottoposizione di due distinti preventivi) Permane, peraltro, lo stile legislativo niente affatto soddisfacente: resta, in particolare, l’incomprensibile ed anacronistica endiadi “bancaistituto di credito”. La norma del decreto “cresci Italia” dichiaratamente non si muove nel contesto della disciplina delle pratiche commerciali scorrette: sembra invece porsi anch’essa nella diversa prospettiva della prevenzione del conflitto di interessi, che comunque richiama; eppure rappresenta – in ogni caso – una norma complementare rispetto a quella introdotta, proprio in quel comparto, dal decreto “salva Italia”. È vero – come è stato evidenziato dalla dottrina più attenta – che le due discipline non si pongono in rapporto di genere a specie 22. E purtuttavia sicuramente – come giustamente sottolineato dalla stessa Agcm 23 – tra le stesse vi è un rapporto di integrazione. Non solo: la norma del decreto “cresci Italia” fornisce anche degli spunti interpretativi sulla disposizione del “salva Italia”. L’art. 36-bis, infatti, pone il problema se la banca possa in qualche misura “obbligare” il mutuatario a sottoscrivere una polizza di assicura-

22 23

Così Siri, Elementi, cit. Provvedimento AS901 del 2012.

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zione, nel caso in cui la polizza non sia dalla stessa intermediata (rectius: subordinare la concessione del finanziamento alla stipula di una polizza). E la risposta che viene data dal decreto “cresci Italia” – almeno per quanto riguarda i mutui immobiliari e le polizze vita – è positiva, pur se condizionatamente al rispetto della condotta prescritta alla banca (farsi carico dei costi della ricerca di una polizza alternativa da quella intermediata). Peraltro resta la circostanza che la norma integrativa opera in un ambito oggettivo molto più ristretto rispetto a quello in cui opera l’art. 36bis: da un lato, le polizze assicurative prese in considerazione sono unicamente quelle vita (la cui associazione con mutui immobiliari non è invero particolarmente frequente; molto più frequente, ed anzi obbligatoria per legge, l’associazione di una polizza vita – ed anche rischio impiego – per operazioni di credito ai consumatori quali i prestiti contro cessione del quinto dello stipendio o del salario, secondo quanto previsto dall’art. 54 del d.P.R. n. 180 del 1950); senza contare che la norma di cui all’art. 28, co. 1, non troverà applicazione al caso di associazione di polizze vita con aperture di credito in conto corrente (che invece sono prese in considerazione dall’art. 36-bis del decreto “salva Italia”, proprio per effetto della integrazione apportata dal comma 3 del medesimo articolo 28 del decreto “cresci Italia”). Sta di fatto, peraltro, che laddove la sottoscrizione della polizza rappresenti adempimento di un obbligo di legge, non potrà trovare applicazione l’art. 36-bis, almeno se la norma, come prima indicato, viene interpretata nel senso di presentare, da parte della banca, la sottoscrizione della polizza come oggetto di un obbligo di legge che in realtà non esiste. Essa, inoltre, introduce un criterio di tipizzazione del contratto di assicurazione sulla vita destinato ad essere associato al finanziamento, giacché viene previsto che i contenuti minimi del contratto siano definiti dall’Isvap (art. 28, co. 2). A tale compito l’Isvap ha dato attuazione attraverso il regolamento n. 40 del 2012: nel rispetto del contenuto minimo ivi individuato, resta libera la facoltà delle parti di dare vita a negozi più articolati. 3.3. L’estensione della tutela alle microimprese. Come anticipato, l’art. 7 del decreto “cresci Italia” ha modificato il primo comma dell’art. 19 del “codice del consumo”, che ora prevede che “il presente titolo si applica alle pratiche commerciali tra professionisti e consumatori poste in essere prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto, nonché alle pratiche commerciali

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scorrette tra professionisti e microimprese. Per le microimprese la tutela in materia di pubblicità ingannevole e di pubblicità comparativa illecita è assicurata in via esclusiva dal d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145”. Tale modifica recepisce i suggerimenti della Agcm contenuti nella segnalazione AS901 del 5 gennaio 2012, ove si afferma che “al fine di rafforzare, nell’attuale fase di crisi economica, gli strumenti di tutela a favore delle imprese di minori dimensioni – che rappresentano il tratto caratterizzante della struttura produttiva del Paese – le tutele previste dal Codice del Consumo a favore dei soli consumatori persone fisiche, potrebbero essere estese anche alle microimprese (imprese con meno di 10 dipendenti e un fatturato annuo inferiore ai 2 milioni di euro)”. L’Autorità aggiunge che “ciò implicherebbe, in particolare, la possibilità per l’Autorità di intervenire anche nei confronti di condotte ingannevoli e/o aggressive poste in essere a danno di microimprese, a prescindere dall’esistenza di un qualunque messaggio pubblicitario. La pubblicità ingannevole suscettibile di incidere pregiudizievolmente solo sugli interessi delle microimprese continuerebbe ad essere disciplinata in via esclusiva dalle disposizioni del d.lgs. n. 145 del 2007”. L’estensione della tutela anche alle microimprese avviene comunque al di fuori ed al di là di quelle che sono le previsioni contenute nella direttiva comunitaria, la quale si muove nell’esclusiva ottica di tutela dei consumatori. In sostanza il legislatore domestico ha inteso “gemmare” a favore delle microimprese la tutela già predisposta nei confronti dei consumatori, ma in assenza del “supporto” – che non è soltanto gerarchico, ma anche interpretativo – costituito dalla direttiva comunitaria. Proprio la differente natura della tutela predisposta per le microimprese non mancherà di fare emergere una serie di problemi ermeneutici, che in questa sede possono evidentemente soltanto essere immaginati. Si può innanzi tutto prevedere che – stante la salvezza delle previsioni contenute nel d.lgs. n. 145 del 2007 – l’ambito operativo nel quale l’Agcm si troverà ad operare sarà quello delle pratiche commerciali aggressive o comunque delle pratiche commerciali scorrette cc.dd. “atipiche”, che si realizzano al di fuori delle fattispecie della pubblicità ingannevole. Dunque anche per le pratiche commerciali scorrette – al di là di quanto fatto salvo dal decreto – si apre una prospettiva “business-tobusiness”: verosimilmente gli aspetti più problematici di tale disciplina saranno quelli che fanno capo a nozioni o caratteristiche in genere riferibili unicamente alla persona fisica. Tenendo a mente quanto previsto dal co. 2 dell’art. 20 del codice del consumo (“Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla dili-

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genza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, il relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”), è tutto ancora da immaginare quale sarà l’atteggiamento tanto dell’Autorità, quanto dei giudici amministrativi, nel momento in cui si troveranno a dover ricostruire il concetto di “microimpresa media”. Questo sarà ancor più interessante, dal momento che è proprio sulle modalità di individuazione del consumatore medio da parte dell’Autorità che si sono concentrate le maggiori critiche da parte degli interpreti. Difatti, piuttosto che fare riferimento al modello del “virtuale consumatore tipico”, vale a dire al modello del “consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto” (questo è il modello preso in considerazione dal considerando 18 della direttiva 24), si è rimproverato all’Autorità di essersi fatta piuttosto carico della diversa figura del “consumatore sprovveduto”, giustificando tale atteggiamento con la sussistenza di “asimmetrie informative” che per effetto naturale sono caratterizzate da una particolare vulnerabilità del consumatore (ricomprendendo senz’altro il settore del credito tra quelli affetti da tali asimmetrie); e nello stesso senso sembra essersi orientata, seppur con maggior titubanza, anche la stessa giurisprudenza amministrativa 25. Ora si verifica questo fenomeno nuovo: la disciplina domestica in materia di pratiche commerciali scorrette (fatto salvo il comparto della pubblicità ingannevole) viene ad applicarsi anche alle microimprese: ma mentre con riferimento alla tutela del consumatore appare lecito e doveroso interpretare il significato di quella disciplina alla luce della direttiva comunitaria, altrettanto pare difficile potersi sostenere con riguardo alla posizione delle microimprese. La prospettiva di una microimpresa “sprovveduta” sarebbe difficile da sostenere sempre e comunque: la stessa giurisprudenza amministrativa (con riguardo ad un caso di pubblicità ingannevole tra imprese) ammetteva che l’impresa è un soggetto “normalmente non sprovveduto” 26. Del resto, anche ammesso che la

24. Sul concetto di “consumatore medio” nella direttiva comunitaria si veda SaccomanLe nozioni di consumatore e di consumatore medio nella direttiva 2005/29/CE, in Le pratiche commerciali sleali, a cura di Minervini, Rossi Carleo, Milano, 2007, p. 141 ss. 25. Sul punto si veda l’esaustiva rassegna di Caronna, Le pratiche commerciali scorrette e il credito ai consumatori, in Banc., 2011, p. 54 ss. 26 TAR Lazio, Sez. I, 11 gennaio 2006, n. 1372.

ni,

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nozione di “consumatore” fatta propria dalla disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette (art. 18) debba ritenersi del tutto corrispondente a quella di cui all’art. 3, lett. a) del Codice del Consumo, resta la circostanza che quest’ultima definizione è stata ritenuta non “dilatabile” in via analogica 27. Ma considerazioni analoghe possono svolgersi anche sul crinale della diligenza professionale, con riferimento alla quale l’Agcm ha ritenuto di dover modulare tale parametro affermando che esso è quello necessario ad assicurare al consumatore la protezione di cui necessita a causa dello squilibrio della relazione (dunque: il grado di diligenza non si esaurisce nella applicazione delle disposizioni di settore, ma va oltre) 28: in questo senso si è giustamente ritenuto che l’Autorità abbia adottato un atteggiamento di carattere “paternalistico” – da ritenersi estremizzante 29 – ovvero di over-enforcement 30. Se questo atteggiamento, come da alcuni teorizzato, possa essere spiegato in termini di recepimento delle indicazioni della “economia comportamentale” 31, è argomento arduo e suggestivo al contempo: e, purtuttavia, non sembra trovare nelle norme positive un sufficiente appiglio. 3.4. Il c.d. “rating di legalità”. Un ultimo accenno va destinato ad una ulteriore e singolare previsione contenuta nell’art. 5-ter del decreto “cresci Italia” (come modificato dall’art. 1, co. 1-quinquies del d.l. n. 29 del 2012, convertito in legge n. 62 del 2012), ove si afferma che “al fine di promuovere l’introduzione di principi etici nei comportamenti aziendali, all’Autorità garante della concorrenza e del mercato è attribuito il compito di segnalare al Parla-

27. Da alcuno si è argomentata, al massimo, l’applicabilità agli enti collettivi privati non profit che, comunque, non svolgano attività imprenditoriale: così D’Acunto, in Diritto dei consumatori e nuove tecnologie, a cura di Bocchini, Torino, 2003, p. 208. Ritiene impossibile una interpretazione analogica Delli Priscoli, La tutela del consumatore fra accertamento della non professionalità del suo agire, tutela della concorrenza e affidamento della controparte, in Contr. e impr., 2007, pp. 1541-1543. 28. Sul punto Meli, L’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel “macrosettore credito e assicurazioni”, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, I, p. 349 ss. 29 Genovese, Il contrasto, cit., p. 43. 30. Così Siragusa, Caronna, L’attività, cit., p. 82, i quali evidenziano altresì come appare dubbio che il criterio di diligenza professionale adottato in concreto dall’Autorità collimi con quello fatto proprio dall’art. 18, lett. h) del Codice del Consumo. 31 Zoppini, Appunti, cit., p. 34.

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mento le modifiche normative necessarie al perseguimento del sopraindicato scopo anche in rapporto alla tutela dei consumatori, nonché di procedere, in raccordo con i ministeri della giustizia e dell’interno, alla elaborazione ed all’attribuzione, su istanza di parte, di un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale che raggiungano un fatturato minimo di due milioni di euro, riferito alla singola impresa o al gruppo di appartenenza, secondo i criteri e le modalità stabilite da un regolamento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato”. Si aggiunge anche che “al fine dell’attribuzione del rating, possono essere chieste informazioni a tutte le pubbliche amministrazioni” e che “del rating attribuito si tiene conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario, secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze e del Ministro dello Sviluppo economico”. Infine si dispone che “gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta”. La norma – al di là della condivisibilità dell’assunto di partenza, vale a dire della opportunità, se non della necessità, di istaurare comportamenti virtuosi da parte delle imprese, anche attraverso specifici meccanismi di promozione – si presta a molteplici considerazioni di carattere critico. Deve innanzi tutto segnalarsi l’ambiguità, che pervade la norma, nell’accostare parametri di “eticità” a parametri di “legalità“, che di per sé si muovono, evidentemente, su binari magari anche (ma non necessariamente) paralleli, ma di sicuro non coincidenti. Da un lato, tale “improprietà” tradisce un probabile rapporto di parentela con l’esperienza dei “codici etici” aziendali predisposti come elementi dei “modelli di organizzazione e controllo” realizzati ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001; dall’altro, invece, una tendenza marcata ad individuare un contenuto “etico” delle norme – come se questo necessariamente debba sussistere – che è dato ravvisare, ad esempio, anche nell’ambito della regolamentazione bancaria, dove, nella disciplina della “funzione di conformità”, la Banca d’Italia insiste nella affermazione della necessità di rispettare lo “spirito” della norma, quasi come ne sussistesse un unico possibile modello interpretativo 32. Ma di tanto dovrà eventualmente farsi carico il

32.

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Sul punto sia consentito fare riferimento a Falcone, La “compliance” nell’attività


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legislatore, giacché al riguardo è previsto semplicemente l’esercizio, da parte dell’Agcm, di un potere di segnalazione. Quanto poi alla funzione del “rating di legalità” declinata nella seconda parte dell’articolo, la necessità che lo stesso venga ancorato a criteri obiettivi (e quindi non riposanti su non meglio identificati “principi di eticità”) pare di tutta evidenza, soprattutto se alla valorizzazione del rating venga subordinata la concezione di finanziamenti pubblici da parte di pubbliche amministrazioni. Più ambigua appare la rilevanza del rating al fine dell’accesso al credito bancario. Cercando di decifrare la norma, significherebbe in sostanza sostenere che le banche debbano tenere conto – ma entro quali limiti? – della sussistenza del rating ai fini della valutazione di sussistenza del merito creditizio. Sennonché appare chiaro il pericolo inerente ad una simile ricostruzione: vale a dire la limitazione della discrezionalità della banca nella concessione del credito. Un “rating di legalità” negativo potrebbe eventualmente costringere la banca a negare una linea di credito? E, in caso negativo, quali sarebbero le conseguenze per la banca che conceda ugualmente la linea di credito? Nello stesso tempo, la norma pare pericolosamente configurare la sussistenza di un rating di legalità positivo quale possibile fondamento di una “aspettativa di credito” in capo all’impresa. Tale disposizione pare innestarsi in un diverso filone normativo quello inaugurato con il decreto “anticrisi” n. 185 del 2008, il cui art. 12 che subordinava la sottoscrizione da parte del Mef degli strumenti finanziari emessi da banche (i c.d. “Tremonti bond”), sotto condizione, tra le altre, della assunzione da parte della banca emittente di “impegni definiti in un apposito protocollo di intenti con il Ministero dell’economia e delle finanze, in ordine al livello e alle condizioni del credito da assicurare alle piccole e medie imprese e alle famiglie (…)”. Tutto questo in un momento in cui l’ABF continua peraltro a ribadire la piena sussistenza di un principio di autonomia negoziale e di discrezionalità in materia di concessione del credito 33. Ancora una volta il settore bancario pare essere il laboratorio di prova di esperimenti normativi connotati dalla compressione della autonomia

bancaria e nei servizi di investimento, in Dir. banc., 2008, I, p. 221 ss. Tali considerazioni sono condivise da Dolmetta, Funzione di compliance e vigilanza bancaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, I, p. 125 ss. 33. Cfr. ex multis, ABF Napoli, 19 novembre 2010, n. 1339, secondo cui la valutazione del merito creditizio “appartiene all’autonomia gestionale dell’azienda, insindacabile anche da parte dell’ABF”.

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negoziale, intesa nelle sue più svariate accezioni 34. Se già l’art. 117, co. 8, del Testo Unico aveva rappresentato un evento “eversivo” della autonomia negoziale intesa come potere di determinare il contenuto del contratto (attribuendo alla Banca d’Italia un potere “connotativo” o “semantico”), le nuove disposizioni paiono iniziare ad erodere anche i confini della autonomia negoziale intesa come potere di determinarsi a concludere un contratto oppure no, nella misura in cui introducono un potere di sindacato terzo rispetto a quella determinazione (ugualmente si dica, per rimanere alle disposizioni contenute nella nuova legislazione, dei poteri attribuiti all’Osservatorio sull’erogazione del credito ed al Prefetto dal co. 1- bis dell’art. 27-bis del d.l. n. 1 del 2012, convertito dalla legge n. 27 del 2012).

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Galgano, Il negozio giuridico, Milano, 1988, p. 44.


I nuovi “poteri speciali” del Governo italiano sulle attività d’impresa e sugli assets di “rilevanza strategica” (per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, nonché per i settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni) Sommario: 1. I “poteri speciali” dei governi in materia societaria e tutela degli “interessi nazionali” nell’ambito dell’ordine giuridico del “mercato interno” dell’ue. – 2. La questione della compatibilità con l’acquis dell’ue dei “poteri speciali” di corporate governance riservati al governo italiano in occasione della “privatizzazione” delle imprese pubbliche. – 2.1. (Segue) La ridefinizione dei criteri di esercizio dei “poteri speciali” nelle società risultanti della privatizzazione: dal d.p.c.m. del 10 giugno 2004 al d.p.c.m. del 20 maggio 2010. – 3. Profili sistemici dei nuovi “poteri speciali” ex d.l. n. 21/2012 sulle imprese strategiche per la tutela degli interessi della difesa e della sicurezza nazionale, nonché sugli assets strategici per i settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni.

1. I “poteri speciali” dei governi in materia societaria e tutela degli “interessi nazionali” nell’ambito dell’ordine giuridico del “mercato interno” dell’UE. Uno dei principali tratti caratteristici delle recenti dinamiche dei flussi internazionali di capitali è rappresentato dall’ampio e crescente aumento, nella composizione degli stessi, del peso relativo degli “investimenti esteri” riferibili a soggetti pubblici e, in particolare, di quelli derivanti dagli impieghi “alternativi” di riserve valutarie accumulate “in eccesso” da parte di taluni Stati (per lo più asiatici e mediorientali) e dagli stessi conferite in “separata gestione” ad appositi enti ed organismi d’investimento sottoposti a forme d’influenza, variamente graduata, da parte dei poteri d’indirizzo politico-governativo dei relativi Stati sponsor. Tale fenomeno non poteva non suscitare, come è infatti puntualmente avvenuto, atteggiamenti protezionistici da parte di taluni Stati destinatari (c.d. recipient countries) degli investimenti della specie, atteggiamenti che si sono concretizzati, in alcuni casi, nell’adozione di apposite

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disposizioni normative e strumenti di controllo applicabili agli investimenti esteri per finalità di tutela di, non sempre puntualmente precisati, “interessi nazionali”. A fronte di tali reazioni, non sono quindi mancati interventi da parte della Commissione europea nei confronti di alcuni Stati membri dell’UE volti a verificare la compatibilità delle iniziative e delle misure nazionali da questi adottate in materia rispetto all’ordine giuridico del “mercato interno” dell’Unione (i.e. rispetto al corpus di norme e regole dirette all’instaurazione e al funzionamento di “uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni dei trattati”, cfr. art. 26, par. 2, del Trattato FUE), segnatamente in relazione alla necessaria permanente osservanza del fondamentale principio (cui all’art. 63 del Trattato FUE) del “divieto” di qualunque restrizione ai “movimenti di capitali” non solo tra Stati membri, ma anche da e verso i “Paesi terzi” 1. Un principio questo la cui violazione è suscettibile di avere conseguenze esiziali anche in punto di applicazione dell’acquis dell’Unione in materia societaria 2. Risulta, ad esempio, che la Commissione europea abbia formalmente richiesto alle autorità francesi di provvedere ad una modifica delle norme adottate con il Décret n° 2005-1739 du 30 décembre 2005 (réglementant les relations financières avec l’étranger et portant application de l’article L. 151-3 du code monétaire et financier), con il quale, nell’abrogare il Décret assunto in materia nel 2003 3, sono state introdotte alcune modifiche alla disciplina delle “relations financières avec l’étranger” recata dal

1.

Risulta in particolare che la “libertà di circolazione di capitali, anche provenienti da paesi terzi, nell’Unione europea è sancita, senza remore, dalla Corte di giustizia come principio sovraordinato nella costruzione dell’ordinamento comunitario e le istanze nazionali sono sottoposte ad un severo vaglio di compatibilità”, Guaccero, Pan, Chester, Investimenti stranieri e fondi sovrani: forme di controllo nella prospettiva comparata USA-Europa, in Riv. soc., 2008, p. 1360. 2. Si è osservato infatti che l’applicazione del principio della libera circolazione dei capitali “has in a number of cases provided the grounds for review of national company legislation and practice. The free movement of capital has become an important precondition for the establishment of companies and the European company law. The internal market can only be established if capital transactions can be made without any discriminatory or non-discriminatory restrictions”, Andenas, EU Company Law and the Company Laws of Europe, in International and Comparative Corporate Law Journal, 2008, 6, 2, p. 15. 3. Cfr. Décret n° 2003-196 du 7 mars 2003 réglementant les relations financières avec l’étranger.

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Code monétaire et financier francese, ed in particolare al meccanismo di controllo e autorizzazione ex-ante di taluni investimenti esteri nel paese (disciplinato in via generale dall’article L 151-3 del Titre V, Livre Ier della Partie législative del suddetto Code) incentrato sull’attribuzione al Ministero dell’Economia, Finanze e dell’Occupazione di estesi poteri in materia 4. A differenza del provvedimento pure adottato in subjecta materia negli Stati Uniti d’America (i.e. il Foreign Investment and National Security Act 2007 – FINSA), il Décret in questione – nel prevedere una disciplina leggermente diversa e per certi versi più restrittiva, anche con riferimento alle condizioni di applicabilità 5, nei confronti degli investimenti provenienti da “Paesi terzi” rispetto a quelli provenienti da “Stati membri” dell’UE 6 – si contraddistingue per il fatto di recare un analitico elenco delle attività e dei settori protetti 7 nell’ambito dei quali gli investimenti esteri possono dovere essere preventivamente autorizzati (pena la nullità dei relativi accordi e contratti), nonché una più puntuale definizione (in ottemperanza alle critiche formulate dalla Corte di Giustizia in una pronuncia del 14 marzo 2000, in cui quest’ultima aveva “stabilito che la Francia, vietando un finanziamento alla chiesa di Scientology da parte

4. In particolare, come rilevato, la Francia “ha riformato la propria normativa sugli investimenti stranieri con legge n 1243 del 9 dicembre 2004, il cui art. 30 ha modificato l’art. L. 151-3 del Codice monetario e finanziario. Tale legge rappresenta ad oggi il principale strumento per regolamentare l’attività dei fondi sovrani”, Mazzantini, I Fondi Sovrani: a quanto ammontano e come si possono regolare? Opportunità e problemi, in www.astridonline.it, par. 7.2. Il testo attualmente vigente del primo paragrafo dell’art. L. 151-3 del Code monétaire et financier francese dispone che “I. - Sont soumis à autorisation préalable du ministre chargé de l’économie les investissements étrangers dans une activité en France qui, même à titre occasionnel, participe à l’exercice de l’autorité publique ou relève de l’un des domaines suivants: a) Activités de nature à porter atteinte à l’ordre public, à la sécurité publique ou aux intérêts de la défense nationale; b) Activités de recherche, de production ou de commercialisation d’armes, de munitions, de poudres et substances explosives. Un décret en Conseil d’Etat définit la nature des activités ci-dessus”. 5. Sulle diverse soglie di rilevanza degli investimenti provenienti da Paesi terzi rispetto a quelli provenienti da altri Stati membri dell’Unione europea cfr. article R153-1 e article R153-3 del Titre V, Livre Ier della Partie réglementaire del Code monétaire et financier francese. 6. In tal senso cfr. United States Government Accountability Office, Foreign Investment. Laws and Policies Regulating Foreign Investment in 10 Countries, (Report to the Honorable Richard Shelby, Ranking Member, Committee on Banking, Housing, and Urban Affairs, U.S. Senate), GAO-08-320, 28, 2008, p. 53. 7. Il relativo elenco è recato nell’article R153-2 e nell’article R153-5 del Titre V, Livre Ier della Partie réglementaire del Code monétaire et financier francese.

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di un fondo di investimento inglese aveva violato il Trattato europeo” 8 e segnatamente il principio della libera circolazione dei capitali 9) dei concetti cardine di “difesa nazionale”, di “ordine pubblico” e di “sicurezza pubblica” su cui deve appuntarsi la valutazione rimessa alla discrezionalità ministeriale in sede di autorizzazione. In ordine a tale apparente maggiore oggettività delle condizioni di esercizio dei poteri ministeriali in materia, è stato puntualmente osservato che in realtà la “ampiezza dell’arsenale difensivo rispetto agli ingressi di investitori esteri è tale […] da avere guadagnato alla disciplina in esame l’appellativo di «decreto anti-opa»” 10. Non a caso la Commissione europea ha formalmente sollecitato una modifica del contenuto del suddetto Décret n° 2005-1739 al fine di rimuovere la ritenuta “incompatibilità” del suo contenuto normativo con le disposizioni del Trattato FUE sulla “libera circolazione dei capitali” (artt. 63 ss.) e sulla “libertà di stabilimento” (artt. 49 ss.), arrivando in particolare fino al “secondo stadio” della fase preliminare non-giurisdizionale (c.d. fase “pre-contenziosa”) 11

8

Mazzantini, I Fondi Sovrani, cit., p. 23. Nell’occasione la Corte statuì, in particolare, che il principio della libera circolazione dei capitali posto dal Trattato “deve essere interpretato nel senso che non consente un regime di autorizzazione preventiva per gli investimenti diretti stranieri che si limiti a definire, in termini generici, gli investimenti interessati come investimenti idonei a pregiudicare l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza, con la conseguenza che gli interessati non sono in grado di conoscere le specifiche circostanze in presenza delle quali è necessaria l’autorizzazione preventiva” (Sentenza del 14 marzo 2000, causa C-54/99, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, a norma dell’art. 177 del Trattato CE (divenuto art. 234 CE), dal Conseil d’État (Francia) nella causa dinanzi ad esso pendente tra Association Église de Scientologie de Paris, Scientology International Reserves Trust e Primo ministro, in Raccolta, 2000, p. I 1335). Si evidenzia al riguardo che nella vicenda in questione l’adozione di un regime di autorizzazione preventiva degli investimenti esteri da parte di uno Stato membro (la Francia) sarebbe stata in definitiva contestata dalla Corte non tanto per “il timore di subordinare gli investimenti ad un agire amministrativo eccessivamente discrezionale, quanto [… per quello di consentire di … ] estendere tale discrezionalità ad una pluralità di fattispecie non determinate né determinabili in concreto”, Cosi, Investimenti diretti stranieri e regime comunitario della libera circolazione dei capitali: il limite dell’ordina pubblico no giustifica disposizioni nazionali “troppo vaghe”, in Dirittto pubblico comparato ed europeo, 2000, p. 723. 10 Guaccero, Pan, Chester, Investimenti, cit., p. 1383. 11. Nell’ambito della procedura d’infrazione si distingue, infatti, tipicamente una fase “precontenziosa”, “finalizzata all’instaurazione del contraddittorio stragiudiziale tra la Commissione e lo Stato membro per dare modo a quest’ultimo «… di mettersi in regola prima che la Corte venga adita …» e per consentirgli di «… far valere le sue ragioni …» rispetto 9.

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della “procedura d’infrazione” di cui all’art. 258 Trattato FUE 12, ossia fino alla notificazione, successiva all’invio di una c.d. “letter of formal notice” di un vero e proprio “parere motivato” o “reasoned opinion” 13 con cui lo Stato membro destinatario “viene considerato formalmente inadempiente [… a determinati obblighi a lui incombenti in virtù dei Trattati e sono altresì indicate …] le misure che esso deve adottare per sanare l’infrazione” così contestata 14. Più di recente la Commissione europea è giunta invece ad adire la Corte di Giustizia dell’Unione (ex art. 258, par. 2, Trattato FUE) in relazione ad una presunta violazione da parte della Grecia degli obblighi ad essa incombenti in relazione all’attuazione del principio della “libera circolazione dei capitali” e al non “soddisfacente” seguito dato dal Governo greco alla “reasoned opinion” (notificata nel novembre 2008) con cui si chiedeva l’abrogazione o la modifica di alcune norme nazionali

agli addebiti mossi dalla Commissione”, ed una successiva, ed eventuale, fase “contenziosa” avviata ad iniziativa della Commissione davanti alla Corte di Giustizia, nel caso in cui lo Stato membro non abbia provveduto alla eliminazione della “infrazione nei termini concessigli nel parere motivato” notificatogli dalla Commissione nell’ambito della precedente fase “precontenziosa”, e volta ad ottenere una sentenza di natura dichiarativa, ossia una sentenza con cui la Corte “accerta e dichiara l’inadempimento ad opera di uno Stato membro degli obblighi imposti direttamente dal diritto comunitario” cfr. Scavizzi, Lineamenti di diritto processuale comunitario, Maltignano (AP), 2008, pp. 109-110 e p. 113). 12. Cfr. IP/06/438, Brussels, 4 April 2006, Free movement of capital: Commission scrutinises French law establishing authorisation procedure for foreign investments in certain sectors; IP/06/1353, Brussels, 12 October 2006, Free movement of capital: Commission calls on France to modify its legislation establishing an authorisation procedure for foreign investments in certain sectors of activity. 13. Come osservato al riguardo, considerato che “the subject-matter of the dispute is delimited by the formal letter of notice, the reasoned Opinion cannot modify the subjectmatter of the dispute by introducing new claims. It should therefore not amend conclusions contained in the letter of notice- However, account can be taken of changes in circumstances. [… Ne risulta che la Commissione …] has less room for maneuvers in the reasoned Opinion than in the letter of formal notice. Whilst the latter need do no more than give a summary of the complaints, the reasoned Opinion must give a coherent and detailed statement of reasons that led the Commission to believe that the Member State has breached EU law”, Chalmers, Davies & Monti, European Union Law, Cambridge, 2010, p. 366. In senso conforme cfr. Craig e De Búrca, EU Law: Text, Cases and Materials, Oxford, 2008, p. 438 ss. 14. Si evidenzia così l’ulteriore specifica funzione di detta “fase precontenziosa” e del “parere motivato” in tale sede previsto, costituta come osservato dalla “definizione dell’oggetto del giudizio che si potrà aprire davanti alla Corte di giustizia qualora lo Stato non aderisca alle statuizioni della Commissione nel termine indicato” dalla stessa, Sotis, Il diritto senza codice. Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Milano, 2007, p. 53.

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che, oltre ad imporre un limite massimo (pari al 20% delle azioni con diritto di voto, salvo autorizzazione in deroga da parte del Comitato Interministeriale per le Privatizzazioni) alle “partecipazioni” detenibili in imprese classificate dalle autorità greche come “strategiche” (fra l’altro sulla base di criteri non normativamente prefissati, bensì del tutto discrezionali), subordinavano anche ad autorizzazione governativa (da parte del Ministro delle Finanze) la validità delle delibere assembleari assunte da tali società “strategiche” laddove avessero ad oggetto determinate materie “sensibili” 15. Per quanto qui d’interesse, la sopra riferita dialettica istituzionale instauratasi in subjecta materia tra organi dell’UE e Stati membri risulta essere indicativa delle problematiche giuridiche e politiche tuttora presenti in seno all’Unione con riferimento allo strumento dei c.d.“poteri speciali”, o della c.d. “golden share” 16, riservati a favore degli apparati burocratici governativi di diversi Stati membri nell’ambito dei processi di privatizzazione delle proprie imprese pubbliche 17, ciò allo scopo, più o meno esplicito, di continuare a mantenere i c.d. “campioni nazionali” sotto l’influenza del potere governativo e così, tra l’altro, al riparo da possibili “acquisizioni ostili” o “non gradite”, nonché dalla pressione delle forze di “mercato”. Sicché tali poteri quando sono stati sottoposti allo scrutinio degli organi dell’Unione (della Commissione europea, prima, e della Corte di Giustizia, poi) sono stati soventemente ritenuti (come nel caso di alcuni aspetti delle norme sulla “golden share” adottate in Italia, Francia, Spagna, Regno Unito, Olanda e Germania 18)

15. Cfr. (IP/11/179), Free movement of capital: Commission refers Greece to Court over investment restrictions, Brussels, 16 February 2011. 16. Cfr. Carbone, “Golden share” e fondi sovrani: lo Stato nelle imprese tra libertà comunitarie e diritto statale, in Il diritto del commercio internazionale, 2009, pp. 503-545. 17. Sul rapporto tra privatizzazione delle imprese pubbliche ed i “poteri speciali” ritenuti dallo Stato nelle società privatizzate attraverso il meccanismo della “golden share”: cfr. ex multis, Clarich, Pisaneschi. Privatizzazioni, in Dig. disc. pubbl., agg., 2000, p. 432 ss.; Garofoli, Golden share e authorities nella transizione dalla gestione pubblica alla regolamentazione dei servizi pubblici, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1998, p. 159 ss.; Ammannati, Le privatizzazioni delle imprese pubbliche in Italia, Milano, 1995, passim. Per una dettagliata analisi e comparazione delle misura adottate in materia in diversi Stati membri dell’Unione europea cfr. Oxera, Special rights of public authorities in privatised EU companies: the microeconomic impact. Report prepared for the European Commission, November 2005. 18. Cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 4 giugno 2002, causa C-483/99, Commissione contro Francia (in Raccolta, 2002, pp. I-4781); sentenza del 13 maggio 2003, causa C-463/00, Commissione contro Regno di Spagna (in Raccolta, 2003,

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“incompatibili” con il divieto di restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi, di cui agli artt. 63 ss. del Trattato FUE 19. Senza poter qui indugiare in una dettagliata analisi di tali casi giudiziari, appare ai nostri fini sufficiente evidenziare che, in estrema sintesi, una delle principali conclusioni che è possibile ricavare dagli orientamenti giurisprudenziali espressi dalla Corte in materia è che alla luce del diritto dell’UE appare del tutto chiaro che la libertà riconosciuta agli Stati membri, e ai loro organi, nel “partecipare” all’esercizio di attività imprenditoriali è sottoposta a maggiori e diversi vincoli di quella riconosciuta al riguardo ai soggetti privati, risultando in particolare che in ambito societario “the state cannot operate with the same freedom as a private shareholder” 20.

2. La questione della compatibilità con l’acquis dell’UE dei “poteri speciali” di corporate governance riservati al Governo italiano in occasione della “privatizzazione” delle imprese pubbliche. Con specifico riguardo alla compatibilità dell’assetto normativo dei nostri pubblici poteri rispetto alla suddetta cornice ordinamentale, è d’uopo innanzitutto rilevare che – nell’ambito del processo di “dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni” avviato in Italia negli anni ’90 – al Governo sia stata riservata, anche ai sensi degli statuti di quest’ultime, la titolarità di taluni “poteri speciali”

pp. I-4581); sentenza 13 maggio 2003, causa C-98/01, Commissione contro Regno Unito (in Raccolta, 2003, pp. I-4641); sentenza del 28 settembre 2006, cause riunite C-282/04 e C-283/04, Commissione contro Regno dei Paesi Bassi (in Raccolta, 2006, pp. I-9141); sentenza del 23 ottobre 2007, causa C-112/05, Commissione contro Repubblica Federale di Germania (in Raccolta, 2007, pp. I-8995). Sul punto cfr. Andenas, EU Company Law, cit., p. 13 ss. 19. Cfr. Scipione, La ‘golden share’ nella giurisprudenza comunitaria: criticità e contraddizioni di una roccaforte inespugnabile, in Le società, 2010, p. 855 ss.; Boscolo, La golden shares di fronte al giudice comunitario (nota a Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 4 giugno 2002, n. 503/99), in Foro it., 2002, IV, p. 480 ss.; San Mauro, Recenti trasformazioni del diritto dell’economia, San Marino, 2010, p. 28 ss.; Castellaneta, Il sistema del golden shares alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, in Studi e materiali. Quaderni trimestrali. Consiglio Nazionale del Notariato, 2008, p. 1637 ss. 20 Andenas, EU Company Law, cit., p. 20.

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(cfr. d.l. 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 1994, n. 474) da esercitare, “tenuto conto degli obiettivi nazionali di politica economica e industriale”, nei confronti delle società considerate “strategiche”, in base alla individuazione delle stesse formalmente operata con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21. Questo quadro normativo è stato però incisivamente modificato dall’art. 4, co. 227-230, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria per il 2004) anche al fine di ottemperare alla condanna dell’Italia da parte della Corte di Giustizia 22 per la violazione delle norme dell’allora Trattato CE sulla “libertà di stabilimento” e sulla “libera circolazione dei capitali” derivante dall’adozione del citato d.l. n. 332 del 1994 23, e dei decreti

21. Come rilevato, le “società individuate con d.p.c.m. nei cui statuti è stata prevista l’introduzione di poteri speciali a favore del Governo sono state le seguenti: ENI s.p.a. (d.p.c.m. 5 ottobre 1995 e dd.mm. 5 e 16 ottobre 1995 e 1 aprile 2005); Stet s.p.a. e Telecom Italia S.p.a. (d.p.c.m. 21 marzo 1997 e dd.mm. 21 e 24 marzo 1997), il cui possesso azionario pubblico di controllo è stato ormai dismesso; Finmeccanica s.p.a. (d.p.c.m. 28 settembre 1999 e d.m. 8 novembre 1999); Enel s.p.a. (d.p.c.m. 17 settembre 1999 e dd.mm. 17 settembre 1999 e d.m. 17 settembre 2004); Snam rete gas s.p.a. (d.p.c.m. 23 marzo 2006). La disciplina sui poteri speciali operava anche per le società controllate direttamente o indirettamente da enti pubblici, anche territoriali ed economici, operanti nei settori dei trasporti e degli altri servizi pubblici, individuate con provvedimento dell’ente pubblico partecipante”, Cfr. d.p.c.m. 5 ottobre 1995 e dd.mm. 5 e 16 ottobre 1995 e 1 aprile 2005, quali indicati nel Dossier del Servizio Studi del Senato, Ufficio ricerche nei settori economico e finanziario, “XVI legislatura, Disegno di legge A.S. n. 3255. Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 marzo 2012, n. 21, recante norme in materia di poteri speciali sugli assetti societari nei settori della difesa e della sicurezza nazionale, nonché per le attività di rilevanza strategica nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni”, a cura S. Moroni, aprile 2012, n. 353, p. 12. 22. Cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 23 maggio 2000, causa C-58/99, Commissione contro Repubblica Italiana, in Raccolta, 2000, pp. I-3811. Al riguardo, tra i tanti, cfr. Merusi, La Corte di giustizia condanna la golden share all’italiana e il ritardo del legislatore, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2000, pp. 12361238; Freni, L’incompatibilità con le norme comunitarie della disciplina sulla golden share (Commento a Corte di giustizia delle Comunità europee, 23 maggio 2000, Causa C-58/99), in Giornale di diritto amministrativo, 2001, p. 1145 ss.; De Pasquale, Golden share all’italiana, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2000, p. 1233 ss. 23. Giova al riguardo rilevare che in realtà già prima dell’entrata in vigore della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (legge finanziaria per il 2004), l’art. 66, co. 3, della “legge finanziaria per il 2000” (legge 23-12-1999 n. 488) aveva provveduto a disporre che i “poteri speciali” di cui all’art. 2 del d.l. n. 332/1994 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 474/1994) “possono essere introdotti esclusivamente per rilevanti e imprescindibili motivi di interesse generale, in particolare con riferimento all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica e alla difesa, in forma e misura idonee e pro-

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relativi ai “poteri speciali” riconosciuti al Governo in relazione alle privatizzazioni dell’E.N.I. S.p.A. 24 e di Telecom Italia S.p.A. 25. In particolare, ai sensi della legge n. 350/2003 il “potere speciale” di autorizzazione e/o gradimento preventivo di talune operazioni societarie (e parasocietarie) è stato sostituto da: i) un meno “invasivo” (o quanto meno presunto tale) 26

porzionali alla tutela di detti interessi, anche per quanto riguarda i limiti temporali; detti poteri sono posti nel rispetto dei princìpi dell’ordinamento interno e comunitario, e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione, e in coerenza con gli obiettivi in materia di privatizzazioni e di tutela della concorrenza e del mercato”. Il successivo comma 4 dello stesso articolo aveva inoltre stabilito che con d.p.c.m. “sono definiti i criteri di esercizio dei poteri speciali di cui al comma 3, nel rispetto di quanto previsto al medesimo comma; in particolare i poteri autorizzatori devono fondarsi su criteri obiettivi, stabili nel tempo e resi previamente pubblici” (cfr. d.p.c.m. 11 febbraio 2000 recante “Definizione dei criteri di esercizio dei poteri speciali di cui all’art. 2 del d.l. 31 maggio 1994, n. 332, convertito, con modificazioni, dalla l. 30 luglio 1994, n. 474, ai sensi dell’art. 66, co. 4, della L. 23 dicembre 1999, n. 488”, pubblicato nella G.U. 18 febbraio 2000, n. 40). Ciò posto, il contenuto di tali disposizioni non fu preso in considerazione da parte della Corte di Giustizia ai fini della suddetta pronuncia d’inottemperanza a carico dell’Italia, “in quanto adottate […] dopo l’inizio della causa promossa dalla Commissione ex art. 226 Trattato CE a seguito del parere motivato del 10 agosto 1998. Nella sentenza del 23 maggio 2000, per altro, la Corte di giustizia non sottoponeva a scrutinio di merito neppure la versione originaria della l. 474/1994, limitandosi a prendere atto dell’assenza di contestazione da parte del Governo italiano nei riguardi dell’inadempimento eccepito dalla Commissione”, Santa Maria, Diritto commerciale europeo, Milano, 2008, p. 322. 24. Cfr. d.p.c.m. 5 ottobre 1995 e dd.mm. 5 e 16 ottobre 1995 e 1 aprile 2005 quali indicati nel Dossier del Servizio Studi del Senato, Ufficio ricerche nei settori economico e finanziario, “XVI legislatura, Disegno di legge A.S. n. 3255, cit., p. 12. 25. Cfr. d.p.c.m. 21 Marzo 1997 recante “individuazione di Stet S.p.a. e Telecom Italia s.p.a. quali società nei cui statuti introdurre poteri speciali a favore del Ministro del tesoro” (pubblicato in G.U. 25 marzo 1997, n. 70). 26. Infatti, come di seguito indicato, “anche la disciplina della golden share, come modificata dalla legge finanziaria per il 2004, è stata oggetto di censure da parte della Commissione europea. In particolare, in data 13 ottobre 2005, la Commissione ha adottato un parere motivato nei confronti dello Stato Italiano, nel quale, pur riconoscendo che la normativa di riforma “sostituisce la precedente procedura (…) con un diritto di opposizione meno restrittivo”, ha ritenuto “ingiustificati i restanti controlli sull’assetto proprietario delle società privatizzate e sulle decisioni di gestione, valutandoli sproporzionati rispetto al loro scopo e costituenti ingiustificate limitazioni alla libera circolazione dei capitali e al diritto di stabilimento (articoli 56 e 43 TCE). Ha pertanto invitato l’Italia a modificare nuovamente la legislazione. La risposta delle autorità italiane è stata inviata nel dicembre 2005. Tale risposta non è stata valutata tale da permettere l’arresto della procedura. In data 28 giugno 2006, l’Italia è stata dunque deferita alla Corte di giustizia” Dossier del Servizio Studi del Senato, Ufficio ricerche nei settori economico e finanziario, XVI legislatura, Disegno di legge A.S. n. 3255. cit., p. 16.

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“diritto di opposizione”, da esercitare quindi ex post 27, all’assunzione di “partecipazioni rilevanti” e alla conclusione di “patti o accordi parasociali” (di cui all’art. 122 t.u.f.) laddove anch’essi “rilevanti” 28; ii) un ulteriore “diritto di veto” all’adozione di delibere societarie su determinate materie (es. scioglimento della società, cessione d’azienda, fusione, scissione, trasferimento della sede all’estero, cambiamento dell’oggetto sociale, etc.); iii) il diritto di nominare un amministratore “senza diritto di voto” 29. Allo stesso tempo, sempre al fine di garantire la dovuta compatibilità con l’acquis dell’Unione (in primis tramite una maggiore “oggettivazione” della discrezionalità governativa in materia), la possibilità di legittimo esercizio di tali “poteri speciali” di opposizione e di veto è stata subordinata all’esistenza di un concreto pregiudizio degli “interessi vitali dello Stato”, circostanza questa da valutare sulla base degli specifici criteri che la legge ha disposto (cfr. art. 4, co. 230, della legge n. 350/2003) dover essere individuati con apposito d.p.c.m. 30. Il d.p.c.m. attuativo adottato in materia il 10 giugno 2004 31 (poi modificato dal d.p.c.m. 20 maggio 2010) ha stabilito sul punto che il legittimo esercizio dei suddetti “diritti speciali” sia subordinato al ricorrere di “rilevanti e imprescindibili motivi di «interesse generale», in particolare con riferimento all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica e alla difesa, in forma e misura proporzionale alla idonea tutela di detti interessi, anche mediante l’eventuale previsione di opportuni limiti temporali, fermo re-

27. Sul punto cfr. San Mauro, Recenti trasformazioni del diritto dell’economia, cit., p. 19. 28. La soglia di “rilevanza” delle partecipazioni e delle patti o accordi parasociali è stata fissata in entrambi i casi ad almeno il 5% del capitale sociale rappresentato da azioni con diritto di voto nelle assemblee ordinarie o alla minore percentuale eventualmente fissata dal Ministro dell’Economia con decreto. 29. È stato al riguardo osservato che di norma “i componenti degli organi sociali nominati dal socio (o non socio) pubblico non si differenziano in termini di diritti e obblighi rispetto a quelli di nomina non pubblica se non per la fonte da cui discende il proprio incarico. Un’eccezione a tale uguaglianza è rappresentata dal potere di nomina attribuibile con la golden share”, Demuro, La nomina delle cariche sociali nelle società a partecipazione pubblica dopo le censure della giurisprudenza comunitaria, in AA.VV., Profili attuali di diritto societario europeo, a cura di Ferri Jr. e Stella Richter Jr. (Quaderni romani di diritto commerciale - n. 16), Milano, 2010, p. 173. In materia cfr. Sacco Ginevri, La nuova golden share: l’amministratore senza diritto di voto e gli altri poteri speciali, in Giur. comm., 2005, p. 707 ss. 30. Al riguardo cfr. Demuro, Società privatizzate, in Diritto Commerciale, a cura di Abriani, Dizionari del diritto privato, promossi da Irti, Milano, 2011, pp. 908-909. 31 Pubblicato in GURI n. 139 del 16 giugno 2004.

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stando il rispetto dei principi dell’ordinamento interno e dell’UE, e tra questi in primo luogo del principio di non discriminazione” (cfr. art. 1, co. 1 – corsivo aggiunto) 32. Con riferimento all’attribuzione al Governo di tali “poteri speciali” in ambito societario, dal punto di vista sistemico è stato osservato che mentre la particolare disciplina in materia di gestione sociale, trasferibilità delle azioni, diritto di voto e nomina degli esponenti aziendali e dei dirigenti, pure prevista da leggi speciali per le c.d. “società d’interesse nazionale” (cfr. art. 2451 c.c.), implica l’esistenza di “un qualche organo vigilante su di esse (che – si badi – non devono essere necessariamente in pubblico comando), viceversa sono sicuramente fuori dall’area tipica della vigilanza le società assoggettate ai poteri speciali del ministero dell’Economia, in quanto operanti in settori considerati strategici per l’indipendenza (ad. esempio: energetica) del Paese. I poteri speciali sono infatti volti a condizionare preventivamente i mutamenti della governance, del ceto sociale o della stessa identità o esistenza delle società di diritto speciale, ma non incidono sulla loro operatività, che non viene assoggettata a verifiche di legittimità o di merito” 33. Ciò posto, sebbene il citato d.p.c.m. del 2004 abbia disposto che i “poteri speciali” cui esso si riferisce (i.e. quelli di cui all’art. 2 del d.l. n. 332/1994) siano da esercitare nel rispetto dei principi dell’ordinamento interno e dell’UE, tuttavia la Corte di Giustizia, nel decidere sul ricorso per inadempimento contro l’Italia presentato dalla Commissione europea 34, ha accertato l’incompatibilità “con la normativa comunitaria [… sia dello stesso d.p.c.m., sia dei …] poteri speciali, la cosiddetta “golden share”, detenuti dallo Stato italiano in Telecom Italia, Eni, Enel e Finmeccanica e ha condannato l’Italia, così accogliendo le conclusioni della Commissione europea, che a giugno 2006 aveva deferito [… l’Italia …] alla Corte di Strasburgo per violazione degli articoli 56 e 43 del Trattato CE” 35. In particolare, in conformità alla costante giurisprudenza della

32. Al riguardo cfr. San Mauro, Recenti trasformazioni, cit., pp. 26-28; Montalenti, Società per azioni corporate governance e mercati finanziari, Milano, 2011, p. 331 33. Amorosino, Tipologie e funzioni delle vigilanze, in Le vigilanze economiche. Regole e gli effetti, a cura di Bani e Giusti, Padova, 2004, p. 31. 34. Sul punto cfr. San Mauro, La disciplina della golden share dopo la sentenza della corte di giustizia C-326/07 (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 26 marzo 2009), in Rivista trimestrale di diritto dell’economia, 2009, II, p. 198 ss. 35. San Mauro, Recenti trasformazioni, cit., p. 12. Sul punto cfr. Nascimbene, Norme nazionali sulle golden shares e diritto comunitario, in Corr. giur., 2009, p. 1017 ss.; Co-

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Corte in materia di golden share 36, uno dei principali motivi d’incompatibilità delle norme del suddetto d.p.c.m. con l’acquis dell’UE è stato ritenuto il fatto che “poteri di intervento di uno Stato membro come i poteri di opposizione le cui condizioni di esercizio sono determinate dai criteri in esame, non subordinati ad alcuna condizione ad eccezione di un riferimento alla tutela degli interessi nazionali formulato in modo generico e senza che vengano precisate le circostanze specifiche e obiettive in cui tali poteri verranno esercitati, costituiscono un grave pregiudizio alla libera circolazione dei capitali” (cfr. punto 51 della sentenza) 37. Con specifico riferimento ai criteri stabiliti per l’esercizio dei citati “poteri di opposizione” (all’acquisto di partecipazioni o alla conclusione di patti parasociali) la Corte ha stabilito che “sebbene i criteri in esame

Golden share, diritto comunitario e i mercanti di Venezia, in Foro it., 2009, IV, col. 224; Id., Regole comunitarie e golden share italiana, in Mercato concorrenza regole, 2009, p. 595 ss. 36. Per una panoramica al riguardo cfr. Santonastaso, La “saga” della “golden share” tra libertà di movimento di capitali e libertà di stabilimento, in Giur. comm., 3007, p. 302 ss.; Castellaneta, Il sistema, cit., p. 1637 ss.; Spattini, “Vere” e “false” “golden shares” nella giurisprudenza comunitaria e la “deriva sostanzialista” della Corte di Giustizia, ovvero il “formalismo” del principio della “natura della cosa”: il caso Volkswagen, e altro, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2008, p. 303 ss.; Frazzani, La Corte di Giustizia Ue boccia le golden share (a Sentenza Corte di Giustizia Ce, sez. I, 28 settembre 2006 cause C 282/04 e C 283/2004), in Diritto e prat. soc., 2007, p. 60 ss.; Capantini, Golden share a tutela del servizio universale. Una censura di tipo più procedurale che sostanziale da parte della Corte di giustizia?, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2007, p. 422 ss.; Freni, Golden share, ordinamento comunitario e liberalizzazioni asimmetriche: un conflitto irrisolto (Commento a Corte di Giustizia Ce, sent. 28 settembre 2006, C-282/04 e C-283/04), in Giornale di diritto amministrativo, 2007, p. 145 ss.; Ajello, Le golden shares nell’ordinamento comunitario: certezza del diritto, tutela dell’affidamento degli investitori e ‘pregiudiziale’ nei confronti dei soggetti pubblici (Nota a sent. Corte giust.CE 28 settembre 2006, cause riunite C-282/04 e C-283/04), in Il diritto dell’Unione europea, 2007, p. 811 ss.; De Vido, La recente giurisprudenza comunitaria in materia di golden shares: violazione delle norme sulla libera circolazione dei capitali o sul diritto di stabilimento?, in Il diritto del commercio internazionale, 2007, p. 861 ss.; Occhiena, Fracchia, Società pubbliche fra golden share e 2449: non è tutto oro ciò che luccica [Nota a CGCE sez. I 6 dicembre 2007 (cause riunite C-463/04 e C-464/04)], in Giust. amm., 2007, p. 1225 ss.; Gobbato, Golden share ed approccio uniforme in materia di capitali nella recente giurisprudenza comunitaria, in Il diritto dell’Unione europea, 2004, p. 427 ss.; Bellodi, Ballarino, La Golden Share nel diritto comunitario. A proposito delle recenti sentenze della Corte comunitaria, in Riv. soc., 2004, p. 2 ss. 37. Cfr. Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sentenza del 26 marzo 2009, causa C-326/07, Commissione delle Comunità europee contro Repubblica Italiana, in Raccolta, 2009, pp. I-02291. langelo,

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riguardino diversi tipi di interessi generali, essi sono formulati in modo generico ed impreciso. Inoltre, l’assenza di un nesso tra tali criteri e i poteri speciali ai quali si riferiscono accentua l’incertezza in ordine alle circostanze in cui i medesimi possono essere esercitati e conferisce un carattere discrezionale a detti poteri tenuto conto del potere discrezionale di cui dispongono le autorità nazionali per il loro esercizio. Un siffatto potere discrezionale è sproporzionato rispetto agli obiettivi perseguiti.” (cfr. punto 51 della sentenza) 38. Pertanto, l’adozione da parte della Repubblica Italiana delle citate disposizioni del d.p.c.m. del 2004 sull’esercizio dei “poteri speciali” di cui al d.l. 332/1994 è stata giudicata una violazione “degli obblighi ad essa incombenti in forza dell’art. 56 CE” sulla libera circolazione dei capitali (cfr. punto 55 della sentenza), nonché, per le stesse ragioni sopra esposte (i.e. attribuzione di un potere discrezionale sproporzionato nell’esercizio dei poteri di opposizione) 39, un contestuale inadempimento anche “degli obblighi derivanti dall’art. 43 CE sulla libertà di stabilimento” (cfr. punti 56 e 57 della sentenza). Per quanto riguarda, invece, i criteri definiti nello stesso d.p.c.m. del 2004 per l’esercizio del “potere di veto” (all’assunzione di decisioni societarie su determinate materie) la Corte ha proceduto al relativo esame “unicamente sotto il profilo dell’art. 43 CE”, in quanto a suo avviso “è giocoforza constatare che tale potere riguarda decisioni rientranti nella gestione della società e, pertanto, concerne soltanto azionisti in grado di esercitare un’influenza sicura sulle società considerate […]. Del resto, ammesso che tali criteri producano effetti restrittivi sulla libera circolazione dei capitali, questi sarebbero l’inevitabile conseguenza di un possibile ostacolo alla libertà di stabilimento e non giustificherebbero un esame autonomo alla luce dell’art. 56 CE” (cfr. punti 39 e 58 della sentenza). In questo caso, il ritenuto inadempimento dell’Italia agli “obblighi derivanti dall’art. 43 CE sulla libertà di stabilimento” è stato motivato

38.

In merito a tali censure cfr. Salerno, Sulle golden shares l’Italia è costretta ad un nuovo passo indietro: troppa discrezionalità nell’esercizio dei poteri speciali, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2009, p. 1358 ss. 39. In generale sul consolidato richiamo operato dalla giurisprudenza comunitaria alla necessità di un stringente rispetto anche in subjecta materia del criterio di proporzionalità cfr. Freni, Golden share e principio di proporzionalità: quando il fine non giustifica i mezzi (Commento a Corte di giustizia, sentenze 4 giugno 2002, Cause C483/99, C367/99, C503/99), in Giornale di diritto amministrativo, 2002, p. 1045 ss.

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dal fatto che il d.p.c.m. del 2004 “non contiene precisazioni sulle circostanze in cui i criteri di esercizio del potere di veto […] possono trovare applicazione. Sebbene tale potere possa essere esercitato soltanto in situazioni di pericolo grave ed effettivo o di emergenze sanitarie, a norma dell’art. 1, co. 2, di detto decreto, e nel rispetto delle condizioni di cui all’art. 1, co. 1, di questo stesso testo, ossia segnatamente per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica e di difesa, in mancanza di precisazioni sulle circostanze concrete che consentono di esercitare il potere in parola gli investitori non sanno quando tale potere di veto possa trovare applicazione. Di conseguenza, occorre considerare, come sostenuto dalla Commissione, che le situazioni che consentono di esercitare il potere di veto sono potenzialmente numerose, indeterminate e indeterminabili e che esse lasciano alle autorità italiane un ampio potere discrezionale” (punto 66 della sentenza). 2.1. (Segue) La ridefinizione dei criteri di esercizio dei “poteri speciali” nelle società risultanti della privatizzazione: dal d.p.c.m. del 10 giugno 2004 al d.p.c.m. del 20 maggio 2010. A seguito di tale sentenza di condanna del 2009 il Governo italiano ha quindi provveduto (in ottemperanza al disposto dell’art. 260, par. 1, del Trattato FUE, ai sensi del quale “quando la Corte di giustizia dell’Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta”) a modificare la disciplina recata dal d.p.c.m. del 10 giugno 2004 dei “poteri speciali” del Ministro dell’Economia e Finanze relativamente ad Eni s.p.a., a società del Gruppo Stet, a società del Gruppo Enel e a Finmeccanica s.p.a., interrompendo così anche la procedura d’infrazione avviata al riguardo 40. In particolare con il nuovo d.p.c.m. del 20 maggio 2010 (in G.U.R.I., 21 maggio 2010, n. 117) si è provveduto ad abrogare l’art. 1, co. 2, del suddetto d.p.c.m. del 2004 41 e conseguentemente ad espungere dall’or-

40.

Cfr. Marani, Golden share: l’Italia sempre più vicina all’Unione europea, in www. altalex.com, 4 giugno 2010. 41. Cfr. Demuro, Un altro tentativo (chirurgico e distratto) di adeguamento all’ordinamento comunitario in materia di esercizio della golden share: il DPCM 20 maggio 2010, in Il nuovo diritto delle Società, 2010, p. 25 ss.

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dinamento nazionale anche “i poteri speciali che erano stati previsti a garanzia dell’approvvigionamento nazionale dei prodotti petroliferi ed energetici [… nonché di materie prime e di beni essenziali alla collettività …] e del livello minimo di servizi di telecomunicazione e di trasporto, in relazione al verificarsi di gravi circostanze, quali quelle di effettivo pericolo per la difesa nazionale, per la sicurezza militare, per l’ordine [… pubblico …] e la sicurezza pubblica, ecc.” 42. Ciò posto, la normativa italiana sulla “golden share”, “anche dopo le modifiche ad essa apportate [… con il suddetto d.p.c.m. del 2010 …], è rimasta comunque oggetto di vaglio da parte degli organismi comunitari. Su di essa, in data 16 febbraio 2011 è stato inviato all’Italia un parere motivato da parte della Commissione europea e ad oggi, è pendente la decisione di ricorso presso la Corte di Giustizia”43. Orbene per i profili che qui interessano, le riferite vicende che hanno interessato l’evoluzione della disciplina dei “poteri speciali” attribuiti al Governo italiano rappresentano un utile termine di riferimento sotto il profilo ermeneutico, atteso che, tra le soluzioni per limitare la potenziale influenza d’investitori pubblici e privati (soprattutto di quelli appartenenti a “Stati terzi”) in settori sensibili o d’interesse strategico dell’UE, è stato suggerito di considerare anche “la possibilità d’introdurre, in sede comunitaria e nei singoli ordinamenti nazionali, una disciplina informata al regime della c.d. golden share” 44, ossia di adottare delle misure che,

42. Corte dei Conti (Sezione del controllo sugli enti), Relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell’Eni S.p.A., per gli esercizi 2008 e 2009, Determinazione n. 62/2010, depositata in Segreteria il 22 luglio 2010, p. 4. 43. Dossier del Servizio Studi del Senato, Ufficio ricerche nei settori economico e finanziario, “XVI legislatura, Disegno di legge A.S. n. 3255, cit., p. 18. In particolare, come ivi specificato (cfr. pp. 18-19), il “24 novembre 2011 la Commissione europea ha deliberato di presentare, nell’ambito della procedura di infrazione n. 2009/2255, un ricorso alla Corte di Giustizia dell’UE contro l’Italia in quanto ritiene che alcune disposizioni della normativa italiana che conferisce poteri speciali allo Stato nelle società privatizzate operanti in settori strategici come le telecomunicazioni e l’energia, siano incompatibili con gli articoli 63 e 49 del Trattato sul funzionamento dell’UE (TFUE) riguardanti rispettivamente la libera circolazione dei capitali e il diritto di stabilimento. Il ricorso non risulta ancora depositato in quanto la Commissione europea, in base a contatti informali con il Governo italiano, avrebbe preso atto dell’impegno a conformare a breve la normativa nazionale al diritto dell’UE, rimandando pertanto l’effettiva presentazione del ricorso alla Corte. 44. Santonastaso, Investimenti dei “fondi sovrani” e tutela degli “interessi nazionali”. Spunti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di “interesse generale” e di limiti alla libertà di movimento dei capitali e di stabilimento: a volte “non è tutto oro quello che luccica”, in Dir. banc., 2010, p. 28.

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comunque fossero concretamene strutturate, non potrebbero non risolversi in una qualche limitazione alla fondamentale libertà di circolazione di capitali o di stabilimento, la cui legittimità ai sensi dei Trattati UE e FUE e del diritto derivato sarebbe quindi subordinata alla loro compatibilità con criteri valutativi particolarmente restrittivi. Come infatti anche formalmente osservato dalla Commissione europea, l’introduzione di un “meccanismo europeo di controllo o di un meccanismo basato sulle “golden share” per gli investimenti esteri non UE” sarebbe difficilmente compatibile con il fondamentale “principio di un’economia di mercato aperta” anche agli investimenti esteri (cfr. art. 119 Trattato FUE), nonché con il diritto dell’Unione 45 e con gli impegni da questa assunti sul piano internazionale, dovendosi quindi promuove piuttosto un approccio basato su un impegno coordinato dei diversi paesi coinvolti “per stabilire una serie di principi a garanzia della trasparenza, prevedibilità e responsabilità degli investimenti” transfrontalieri 46. In ogni caso, è dato al contempo rilevare che eventuali “poteri speciali” degli Stati membri da esercitare a fronte di operazioni di acquisto di partecipazioni in società “europee” da parte di organismi d’investimento non appartenenti all’UE non sono da considerare, almeno in linea di principio, ontologicamente in contrasto né con i Trattati UE e FUE, né con il diritto da essi “derivato”, e neppure con la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia. Quest’ultima infatti, pur avendo in più occasioni negato la legittimità di talune norme nazionali in materia di “golden sha re” 47, ha peraltro motivato le sue statuizioni in materia avendo riguardo in primis agli effetti esiziali di tali norme nei rapporti tra soggetti appartenenti agli Stati membri e sul funzionamento del “mercato interno” 48.

45.

In generale sul punto cfr. Rossi Dal Pozzo, Golden shares: uno strumento inadeguato per la tutela di interessi (talvolta) meritevoli, in Contr. e impr. Europa, 2009, p. 824 ss. 46. Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato Economico e Sociale europeo e al Comitato delle Regioni, “Un approccio comune europeo ai fondi sovrani”, COM (2008) 115 definitivo, Bruxelles, 27.2.2008, par. 4.1. In generale sul punto cfr. Carbone, “‘Golden share’ e fondi sovrani: lo Stato nelle imprese tra libertà comunitarie e diritto statale”, in Il diritto del commercio internazionale, 2009, p. 503 ss. 47 In tal senso anche Demuro, La nomina, cit., pp. 184-185. 48. Sui principi dell’acquis dell’Unione europea in materia di regime giuridico applicabile agli investimenti intracomunitari alla luce dei principi in tema di liberalizzazione dei movimenti di capitali e al diritto di stabilimento cfr. Commissione europea, Comunicazione della Commissione relativa ad alcuni aspetti giuridici attinenti agli investimenti intracomunitari (97/C 220/06), in G.U.C.E. n. C 220 del 19 luglio 1997, pp. 15-18.

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Come sostenuto, infatti, dall’Avvocato Generale davanti alla Corte di Giustizia nelle conclusioni dallo stesso presentate nella sopra richiamata causa C-326/07, “Commissione delle Comunità europee” contro “Repubblica italiana” 49, nell’ambito dell’ordinamento dell’UE “i governi conservano un certo margine di manovra per frenare gli investitori stabiliti al di fuori dei confini della Comunità che abbiano intenzioni discutibili, ponendo limiti alle loro operazioni elencate all’art. 4, co. 227, lett. c), della [… legge italiana n. 350/2003 …]; infatti, poiché tali poteri sono stati inquadrati nell’ambito dell’art. 43 CE, l’incompatibilità con la libertà di stabilimento del potere di opporsi a tali decisioni fondamentali per la vita dell’impresa non impedisce agli Stati membri di mantenere il veto nei confronti dei grandi azionisti extracomunitari, che non godono della libertà fondamentale del diritto di stabilimento”. In altre parole, al fine di armonizzare a livello di UE le misure legittimamente adottabili in risposta alle specifiche questioni sollevate dalla crescente operatività di organismi d’investimento esteri nell’ambito del sistema finanziario ed imprenditoriale degli Stati membri – soprattutto nei casi in cui detti investitori si caratterizzino per la titolarità pubblica dei patrimoni gestiti e per la soggezione, variamente modulata, ai poteri d’indirizzo politico-governativo di Stati terzi – potrebbe essere utile procedere ad un organico riesame della giurisprudenza della Corte di Giustizia sulla c.d. ‘golden share virtuosa’ e sulle condizioni che legittimano l’esercizio dei “poteri speciali” 50. Come indicato, ad esempio, dalla Corte di Giustizia nella citata sentenza relativa alla causa C-326/07, la previsione di “poteri speciali” volti alla tutela dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza può essere ritenuta legittima solo laddove la risultante deroga ad una libertà fondamentale prevista dal Trattato rappresenti una risposta proporzionata ad una “minaccia effettiva e sufficientemen-

49. Sul punto cfr. San Mauro, La disciplina, cit.; Cucinotta, La sentenza della Corte di Giustizia 26 marzo 2009 (causa C-326/07): problematiche rilevanti e implicazioni de jure condendo (Corte di Giustizia delle Comunità Europee, 26 marzo 2009), in Rivista trimestrale di diritto dell’economia, 2009, II, p. 229 ss. 50. In particolare il concetto di “golden share virtuosa” implicherebbe la definizione di una disciplina della golden share “conforme al diritto comunitario, caratterizzata dai seguenti elementi: esistenza di un testo normativo preciso; un sistema di controllo statale successivo e non di autorizzazione preventiva; termini di tempo precisi per esporre l’opposizione; obbligo di motivare l’interferenza dello Stato; controllo giurisdizionale effettivo”, San Mauro, La disciplina cit., p. 223 (nt. 20). Sulle condizioni per la conformazione in senso “virtuoso” del “potere speciale” di nomina diretta di uno o più amministratori nelle società ritenute “d’interesse nazionale”, cfr. Demuro, La nomina, cit., p. 185.

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te grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività” (punto 70 della sentenza) dello Stato territoriale interessato ed inoltre solo se l’esercizio di tali poteri risulti essere basato su “condizioni oggettive e controllabili” 51 dall’esterno (punto 72 della sentenza).

3. Profili sistemici dei nuovi “poteri speciali” ex d.l. n. 21/2012 sulle imprese strategiche per la tutela degli interessi della difesa e della sicurezza nazionale, nonché sugli assets strategici per i settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Anche a luce degli approdi ermeneutici e degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, con l’emanazione del Decreto Legge 15 marzo 2012, n. 21 (convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della legge 11 maggio 2012, n. 56) il Governo italiano ha provveduto ad un’integrale e profonda ridefinizione della citata disciplina nazionale dei “poteri speciali” allo scopo (principale) di rendere il contenuto ed i criteri di esercizio di quest’ultimi finalmente pienamente compatibili con l’acquis dell’UE, evitando altresì in questo modo un’ulteriore statuizione giudiziale d’inadempimento agli obblighi incombenti all’Italia ai sensi dell’acquis stesso in tema di “libera circolazione dei capitali”, nonché di “libertà di stabilimento” 52. In particolare, il portato complessivo delle norme recate da detto D.L. n. 21/2012 appare essere quello di realizzare un sistema di salvaguardia delle società e delle attività ritenute di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale (cfr. art. 1), nonché degli assets considerati di rilevanza strategica per l’interesse nazionale nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (art. 2). Tale obiettivo è perseguito attraverso l’attribuzione e la disciplina di speciali poteri “d’ingerenza” governativa sugli assetti proprietari e sui processi decisionali (nonché di “strumenti

51. Al riguardo cfr. Demuro, La necessaria oggettività per l’esercizio dei poteri previsti dalla golden share, in Giur. comm., 2009, p. 640 ss. 52. Come, infatti, espressamente indicato nel preambolo del d.l. 15 marzo 2012, n. 21 è stata ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di modificare la disciplina normativa in materia di “poteri speciali” attribuiti allo Stato nell’ambito delle società privatizzate nel corso degli anni ’90, anche in quanto la stessa è “oggetto della procedura d’infrazione n. 2009/2255 – allo stadio di decisione di ricorso ex articolo 258 TFUE – in quanto lesiva della libertà di stabilimento e della libera circolazione dei capitali garantite dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)”.

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di difesa dalle scalate ostili” 53), delle società che svolgono attività, ovvero possiedono, controllano o gestiscono assets, per i quali sia stata formalmente (i.e. con d.p.c.m. ovvero con regolamenti governativi ex art. 17, co. 1, della legge 28 agosto 1988, n. 400) riconosciuta la suddetta “rilevanza strategica” (attività in ordine alla quale la legge omette, peraltro, di stabilire specifici criteri valutativi). Questa nuova disciplina si presenta in ampia parte sostitutiva, salvo l’opportuno regime transitorio, delle sopra richiamate norme sulla “golden share” e sui “poteri speciali” più volte oggetto di censura da parte delle istituzioni dell’UE e segnatamente di quelle recate dall’art. 2 del d.l. 31 maggio 1994, n. 332, dall’art. 4, co. 228-231, della l. 24 dicembre 2003, n. 350, nonché dal d.p.c.m. 10 giugno 2004. L’art. 3, co. 2, del d.l. n. 21/2012, dispone al riguardo che le disposizioni di cui ai riferimenti normativi da ultimo indicati cessino tutte di avere efficacia a decorrere dalla data di entrata in vigore dei provvedimenti di normazione secondaria 54 rispettivamente previsti all’art. 1, co. 1, e all’art. 2, co. 1, dello stesso d.l. n. 21/2012 (nel testo risultante dopo la conversione legge), ovverosia dalla data di entrata in vigore: i) dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri con cui “sono individuate le attività di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, ivi incluse le attività strategiche chiave, in relazione alle quali […] possono essere esercitati […] in caso di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale” gli appositi “poteri speciali” indicati all’art. 1 dello stesso d.l. n. 21/2012; ii) dei regolamenti governativi da emanarsi con decreto del Presidente della Repubblica (ex art. 17, co. 1, della legge 28 agosto 1988, n. 400) con cui sono individuati i c.d. assets “di rilevanza strategica per l’interesse nazionale nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni” 55, nonché “la tipologia di atti o operazioni all’interno di un medesimo

53. Dossier del Servizio Studi del Senato, Ufficio ricerche nei settori economico e finanziario, XVI legislatura, Disegno di legge A.S. n. 3255, cit., p. 9. 54. Al riguardo è altresì disposto che cessino parimente di avere efficacia “a partire dalla stessa data” anche “le clausole in materia di poteri speciali presenti negli statuti societari” delle società privatizzate incompatibili con la nuova disciplina dei “poteri speciali” stabilita dallo stesso d.l. n. 21/2012, con tutte le conseguenti incertezze giuridiche derivanti dal, sempre sconsigliabile, riferimento ad un concetto vago come quello della “incompatibilità” per regolare i rapporti tra diverse disposizioni. 55. Rientrano in particolare tra le categoria di asset interessati dalla norma “le reti e gli impianti, ivi compresi quelli necessari ad assicurare l’approvvigionamento minimo e l’operatività dei servizi pubblici essenziali, i beni e i rapporti di rilevanza strategica per l’interesse nazionale” nei settori indicati.

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gruppo” societario esclusi dall’applicazione della disciplina degli stessi asset di cui all’art. 2 del d.l. n. 21/2012 56. Ciò posto, avendo riguardo all’impatto della “rivoluzione” ordinamentale così realizzata rispetto alle diverse declinazioni e legittime limitazioni del principio “comunitario” della “libera circolazione dei capitali”, è da rilevare innanzitutto che nell’ambito della nuova disciplina di cui al d.l. 21/2012 è possibile identificare delle ipotesi di trattamento espressamente “differenziato” tra persone fisiche e giuridiche “residenti” all’interno degli Stati membri dell’UE e quelle “residenti” invece all’esterno dell’Unione stessa. Un aspetto questo che è particolarmente indicativo della ratio sottesa all’innovazione normativa intervenuta in materia e quindi degli obiettivi di policy che si è voluto così perseguire. Alla luce della suddetta distinzione riferita al luogo di residenza dei soggetti, risulta infatti che tra gli obiettivi in parola siano da ricomprendere anche quello della predisposizione di un equilibrato sistema di poteri d’intervento utilizzabili dal Governo italiano per gestire in modo adeguato, proporzionato e “internazionalmente orientato” le eventuali questioni derivanti dalla possibile rilevanza (in punto di tutela degli “interessi nazionali” qui in evidenza) della realizzazione in Italia di “investimenti esteri” da parte di soggetti ed organismi di “Stati terzi” rispetto all’UE, soprattutto laddove questi presentino natura sostanzialmente pubblica e siano sottoposti ai poteri d’indirizzo politico-governativo dei

56. Nel rilevare che il d.l. n. 12/2012 non fornice puntuali criteri in base ai quali il Governo deve procedere all’individuazione di tali assets da considerare “di rilevanza strategica”, con specifico riferimento al settore energetico emerge la necessità di un coordinamento tra le nuove disposizione sui “poteri speciali” del Governo di cui al d.l. n. 12/2012 e quelle già vigenti in tale settore anche con riferimento a tali questioni, come ad esempio quelle di cui: all’art. 1, co. 7, lett. i) della l. 239/2004 che “attribuisce la competenza per l’individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti strategici allo Stato, al fine di garantire la sicurezza strategica, ivi inclusa quella degli approvvigionamenti energetici e del relativo utilizzo, il contenimento dei costi dell’approvvigionamento energetico del Paese, lo sviluppo delle tecnologie innovative per la generazione di energia elettrica e l’adeguamento della strategia nazionale a quella comunitaria per le infrastrutture energetiche”; agli artt. 57 e 57-bis del d.l. 5/2012 (cd. “decreto semplificazioni”), convertito, con modificazioni, dalla legge 35/2012, con cui sono state direttamente individuate con legge come strategiche “una serie di infrastrutture-insediamenti propri del settore energetico” e disciplinato un meccanismo di individuazione e aggiornamento “biennale con d.p.c.m. delle infrastrutture energetiche strategiche nei settori dell’energia elettrica e del gas naturale”, in generale al riguardo cfr. Dossier del Servizio Studi del Senato, Ufficio ricerche nei settori economico e finanziario, “XVI legislatura, Disegno di legge A.S. n. 3255., cit., pp. 54-55.

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rispettivi Stati (come tipicamente nel caso dei c.d. “Fondi Sovrani” d’investimento 57). Al riguardo è utile osservare che mentre, da un lato, la nuova disciplina dei “poteri speciali” del Governo nei settori della “difesa” e della “sicurezza nazionale” appare essere strutturata in modo “tendenzialmente” neutrale rispetto alla nazionalità dei soggetti coinvolti nelle operazioni cui essa si applica (con la significativa eccezione del criterio previsto all’art. 1, co. 3, lett. b), del d.l. n. 21/2012 per la valutazione di talune operazioni di acquisto di partecipazioni, che appare funzionale, invece, a mantenere un apposito e più ampio margine d’intervento governativo proprio in relazione ad investimenti in Italia da parte di organismi di “Stati terzi” da ritenere “sgraditi” in base ai motivi e criteri pure ivi indicati) 58, dall’altro, la “nazionalità” intra o extra UE del soggetto acquirente assume, invece, rilevanza essenziale nell’ambito della particolare disciplina recata dal d.l. n. 12/2012 degli ulteriori “poteri speciali” del Governo in ordine alla realizzazione di “investimenti esteri” che si sostanzino in operazioni di acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni (di controllo o anche solo “di portafoglio”) in società che detengono assets formalmente individuati come di “rilevanza strategica per l’interesse nazionale” ai sensi dello stesso d.l. n. 12/2012. Per quanto riguarda i casi di realizzazione di “investimenti diretti” esteri in società che detengono tali assets (i.e. di acquisto di partecipazioni “di rilevanza tale da determinare l’insediamento stabile dell’acquirente in ragione dell’assunzione del controllo della società la cui parte-

57. Sulla relativa natura e caratteristiche sia consentito il rinvio a Mezzacapo, “The socalled ‘sovereign wealth funds’: regulatory issues, financial stability and prudential supervision”, in European Economy. Economic Papers, 378, 2009, European Commission, Directorate-General for Economic and Financial Affairs, Publications, Brussels. 58. Ai sensi dell’art. 1, co. 3, del d.l. n. 21/2012 è disposto che al fine “di valutare la minaccia di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale, derivante dall’acquisto delle partecipazioni di cui alle lettere a) e c) del comma 1 [… dell’art. 1, dello stesso d.l. n. 12/2012 …], il Governo, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, considera, alla luce della potenziale influenza dell’acquirente sulla società, anche in ragione della entità della partecipazione acquisita: [… anche …] l’esistenza, tenuto conto anche delle posizioni ufficiali dell’Unione europea, di motivi oggettivi che facciano ritenere possibile la sussistenza di legami fra l’acquirente e paesi terzi che non riconoscono i principi di democrazia o dello Stato di diritto, che non rispettano le norme del diritto internazionale o che hanno assunto comportamenti a rischio nei confronti della comunità internazionale, desunti dalla natura delle loro alleanze, o hanno rapporti con organizzazioni criminali o terroristiche o con soggetti ad esse comunque collegati”.

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cipazione è oggetto dell’acquisto, ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile e del” t.u.f.), è dato infatti riscontrare la previsione di un’apposita procedura (cfr. art. 2, co. 5 e 8), di specifici criteri di valutazione (cfr. art. 2, co. 7), nonché di determinati poteri governativi d’intervento (cfr. art. 2, co. 6) applicabili ovvero esercitabili solo laddove in dette operazioni il soggetto acquirente risulti essere “un soggetto esterno all’Unione europea”, quale individuato secondo la specifica definizione pure ivi elaboratane 59. Ad esempio, in presenza di una ritenuta “minaccia di grave pregiudizio” a taluni “interessi essenziali dello Stato” (i.e. quelli “relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti”), è disposto che (cfr. art. 2, co. 6) il Presidente del Consiglio dei ministri possa, con proprio decreto, condizionare l’efficacia dell’acquisto della partecipazione in questione “all’assunzione da parte dell’acquirente di impegni” diretti a garantire la tutela degli interessi essenziali ritenuti minacciati dall’acquisizione stessa 60. Inoltre, nell’ipotesi in cui la “imposizione di impegni” all’acquirente della partecipazione non appaia essere misura sufficiente a rimuovere la suddetta “minaccia di grave pregiudizio” ai previsti “interessi essenziali dello Stato”, risulta che come ultima ratio il Governo possa finanche ricorrere alla misura (da ritenere tuttavia del tutto eccezionale) dell’esercizio di un vero e proprio potere di opposizione all’acquisto della partecipazione in questione, da cui deriva per l’acquirente della stessa sia il divieto di esercitare i diritti di voto, “e comunque quelli aventi contenuto diverso da quello patrimoniale, connessi alle azioni che rappresentano la partecipazione rilevante”, sia l’obbligo di alienazione entro un anno delle azioni stesse. In entrambi i casi è disposto che le delibere assembleare adottate con il voto determinante di azioni o quote possedute in violazione di tali disposizioni sono radicalmente nulle. Con riferimento invece alla realizzazione di “investimenti” esteri solo “di portafoglio”, in via generale (cfr. art. 3, co. 2) l’acquisto, a qualsiasi

59. Ossia, come stabilito ai sensi dell’art. 2, co. 5, ultimo periodo, del d.l. 15 marzo 2012, n. 21, “qualsiasi persona fisica o giuridica, che non abbia la residenza, la dimora abituale, la sede legale o dell’amministrazione ovvero il centro di attività principale in uno Stato membro dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo o che non sia comunque ivi stabilito”. 60. In caso d’inadempimento degli impegni così assunti è disposto che “i diritti aventi contenuto diverso da quello patrimoniale, connessi alle azioni o quote che rappresentano la partecipazione rilevante, sono sospesi”, ferma l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, “salvo che il fatto non costituisca reato” (sic!).

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titolo, di partecipazioni, di qualsiasi entità e natura, in società che detengono uno o più degli assets individuati come di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale (cfr. art. 1, co. 1) oppure per l’interesse nazionale nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni (art. 2, co. 1) è consentito a “un soggetto esterno all’Unione europea” solo “a condizione di reciprocità, nel rispetto degli accordi internazionali sottoscritti dall’Italia o dall’Unione europea”. Al riguardo vale evidenziare che la disposta subordinazione della legittimità dell’acquisto da parte di un soggetto esterno all’Unione europea di partecipazioni in società con le suddette caratteristiche al ricorrere di una “condizione di reciprocità” realizza una significativa divergenza rispetto alle raccomandazioni formulate nel 2008 dall’Investment Committee dell’OCSE con riferimento alla definizione del regime giuridico da applicare da parte degli Stati membri della stessa OCSE agli “investimenti esteri”, persino laddove provenienti da organismi governativi appartenenti alla categoria dei “Fondi Sovrani”. Tali raccomandazioni mirano, infatti, a promuovere piuttosto l’adozione di politiche di liberalizzazione dei flussi transfrontalieri di capitali anche su base unilaterale, ossia anche in assenza di condizioni di “reciprocità”. Per quanto riguarda in generale la nuova disciplina dei “poteri speciali” recata dal d.l. n. 21/2012 per finalità di salvaguardia di specifici interessi nazionali e riconducibili pertanto ad una più ampia funzione di tutela dell’ordine pubblico anche economico, è dato osservare che nell’occasione è stato adottato un approccio normativo significativamente differente rispetto a quello di cui alla precedente cornice regolamentare dei “poteri speciali”, provvedendo ad esempio ad una prima identificazione già a livello legislativo (e non più quindi solo da parte di norme secondarie recate con d.p.c.m.) dei settori industriali considerati strategici e delle attività e degli assets con riferimento ai quali sono attribuiti al Governo poteri di veto ovvero d’imporre specifiche condizioni in ordine alla realizzazione di operazioni di acquisto di partecipazioni oppure all’assunzione di determinate decisioni societarie. Ulteriore essenziale elemento di novità della nuova cornice regolamentare dei “poteri speciali” in materia è rappresentato dal fatto che i poteri speciali attribuiti dal d.l. n. 21/2012 non sono più legati in maniera esclusiva al permanere di una partecipazione azionaria pubblica nelle imprese privatizzate (operanti nei settori dei servizi pubblici), ma sono più in generale riconosciuti nei confronti delle società, pubbliche e private che svolgono attività oppure controllano assets formalmente individuati come aventi rilevanza strategica per la tutela di determinati interessi pubblici.

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Con riferimento poi alla tipologia e al contenuto dei singoli “poteri speciali” attribuiti al Governo italiano (da esercitare eventualmente con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri), quelli più estesi ed incisivi appaiono essere attribuiti in relazione alla necessità di protezione da eventuali minacce di grave pregiudizio per gli interessi essenziali della “difesa” e della “sicurezza nazionale” (art. 1, co. 1), mentre più limitati appaiono i poteri funzionali a fronteggiare una situazione eccezionale (non disciplinata dalla normativa nazionale ed europea di settore) di minaccia di grave pregiudizio per gli interessi pubblici nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, segnatamente relativi alla sicurezza e al funzionamento delle reti e degli impianti e alla continuità degli approvvigionamenti. Rileva infatti che nel primo caso i “poteri speciali” contemplano la possibilità: 1) di imporre specifiche condizioni (relative alla sicurezza degli approvvigionamenti, alla sicurezza delle informazioni, ai trasferimenti tecnologici, al controllo delle esportazioni) al cui rispetto è subordinata (presumibilmente) l’efficacia dell’acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni in imprese di rilevanza strategica per il sistema di difesa e sicurezza nazionale; 2) di opporre il veto preventivo all’adozione di delibere dell’assemblea o degli organi di amministrazione di dette imprese aventi ad oggetto determinate materie ritenute particolarmente “sensibili” 61; 3) di opporsi all’acquisto, a qualsiasi titolo, di partecipazioni nelle imprese in questione da parte di un qualunque soggetto diverso dallo Stato italiano, enti pubblici italiani o soggetti da questi controllati, qualora l’acquirente in questione venga a detenere (anche indirettamente, per interposta persona, tramite soggetti altrimenti collegati o la partecipazione a “patti parasociali”) un livello di partecipazione al capitale con diritto di voto in grado di compromettere nel caso specifico gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale. Nel caso invece dei “poteri speciali” per la tutela degli “altri” interessi pubblici nazionali in questa sede considerati, questi si sostanziano “di norma” nel “solo” potere di opporre un veto successivo 62 (cfr. art. 2, co.

61. In ogni caso è prescritto che tale potere “debba” essere esercitato nella forma della “imposizione di specifiche prescrizioni o condizioni” ogniqualvolta ciò sia sufficiente ad assicurare la tutela degli interessi essenziali della difesa e della sicurezza nazionale qui in evidenza. 62. Secondo la disciplina risultante dal combinato disposto dei co. 2, 3 e 4 dell’art. 2 del d.l. n. 12 /2012, risulta infatti che in questo caso il potere governativo di veto sia stato strutturato nel senso di poter essere, nel caso, esercitato successivamente rispetto

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3 e 4), ovvero di imporre specifiche prescrizioni o condizioni (cfr. art. 2, co. 4), all’attuazione di qualsiasi delibera, atto o operazione, già adottato da una società che detenga uno o più degli assets giudicati strategici per l’interesse nazionale nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni; ciò inoltre limitatamente ai casi in cui tale delibera, atto o operazione “abbia per effetto modifiche della titolarità, del controllo o della disponibilità degli [… assets …] medesimi o il cambiamento della loro destinazione, comprese le delibere dell’assemblea o degli organi di amministrazione aventi ad oggetto” determinate materie e operazioni societarie ritenute particolarmente “sensibili” alla luce delle esigenze di tutela dei suddetti interessi. Per di più, l’ulteriore potere “d’ingerenza” governativa sugli assetti proprietari delle imprese “strategiche” non è attribuito in via generale, ma solo limitatamente alla specifica fattispecie dell’acquisto a qualsiasi titolo di partecipazioni in società che detengono uno o più degli assets individuati come strategici per l’interesse nazionale nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni e comunque solo laddove l’acquirente sia “un soggetto esterno all’Unione europea” ed inoltre la partecipazione da questo acquisita sia di rilevanza tale “da determinare l’insediamento stabile dell’acquirente [… stesso …] in ragione dell’assunzione del controllo della società la cui partecipazione è oggetto dell’acquisto” ai sensi dell’art. 2359 c.c. e del t.u.f. Inoltre, fermo il necessario rispetto anche in questo caso di criteri oggettivi e non discriminatori (cfr. art. 2, co. 7) nei confronti degli investitori di Paesi terzi rispetto all’UE e in attuazione anche in materia di un “principio di proporzionalità” nell’esercizio dei pubblici poteri, appare doversi desumere che in questi casi il Governo possa di norma “solo” condizionare l’efficacia dell’acquisto di dette partecipazioni alla assunzione di impegni da parte dell’acquirente diretti a garantire la tutela degli interessi essenziali dello Stato in questa sede considerati rilevanti. Da una attenta lettura del disposto normativo risulta, infatti, che l’ulteriore potere di opporsi del tutto 63 all’acquisto di dette partecipazioni

all’adozione della “delibera, atto o operazione”, anche se comunque sempre prima che agli stessi sia data “attuazione”, rimanendo quindi la relativa efficacia sospesa fino allo scadere del previsto termine di 15 giorni per l’eventuale esercizio del potere governativo di veto ovvero, se precedente, dell’eventuale espresso nulla osta / autorizzazione alla sua attuazione. 63. L’effetto dell’esercizio del potere di opposizione è la sospensione per l’acquirente della possibilità di esercitare i diritti aventi contenuto diverso da quello patrimoniale,

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Saggi

possa e debba essere esercitato solo per far fronte a “casi eccezionali” di rischio per la tutela di tali interessi e solo laddove, quindi, tale rischio non risulti ragionevolmente eliminabile attraverso il suddetto meccanismo “ordinario” dell’imposizione all’acquirente della partecipazione dell’onere del rispetto di “impegni” ad hoc.

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connessi alle azioni che rappresentano la partecipazione rilevante, e l’obbligo per lo stesso di cedere le stesse azioni entro un anno. In caso di non ottemperanza il tribunale, su richiesta del Governo, ordina la vendita delle suddette azioni secondo le procedure di cui all’art. 2359-ter c.c. È disposta inoltre la radicale nullità delle deliberazioni assembleari eventualmente adottate con il voto determinante di tali azioni (cfr. art. 2, co. 6).

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COMMENTI

Sanzioni della Consob e giurisdizione CORTE COSTITUZIONALE, sentenza 27 giugno 2012, n. 162; Pres. Quaranta, Rel. Cartabia; Soc. Z, X, Y c. Consob; interv. Presidenza del Consiglio dei Ministri (Avv. dello Stato) Ordinanza App. Torino 25 marzo 2011 Sanzioni amministrative irrogate dalla Consob – Opposizione – Art. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c) e 135, co. 1, lett. c) d.lgs. n. 104 del 2010 che attribuiscono la giurisdizione in materia al giudice amministrativo – Art. 4, co. 1, n. 19, allegato n. 4 al d.lgs. n. 104 del 2010 – Illegittimità costituzionale (Cost., art. 76; d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, codice del processo amministrativo, art. 133, 134, 135; All. n. 4 al d.lgs. n. 104 del 2010, art. 4) Sono costituzionalmente illegittimi, per violazione dell’art. 76 Cost., gli art. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c) e 135, co. 1, lett. c) del d.lgs. n. 104 del 2010, nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con cognizione estesa al merito ed alla competenza funzionale del Tar del Lazio le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Consob; nonché l’art. 4, co. 1, n. 19 dell’Allegato n. 4 al medesimo d.lgs., nella parte in cui abroga le disposizioni del d.lgs. n. 58 del 1998, che attribuiscono alle Corti d’appello territoriali la competenza funzionale nella suddetta materia. (1)

(Omissis) Ritenuto in fatto - 1. – Con ordinanza emessa dalla Corte d’appello di Torino, in data 25 marzo 2011, nel procedimento civile promosso da INPROGRAMME s.a.s., A.C. e P.D. con-

tro la Commissione nazionale per le società e la borsa (d’ora in poi, CONSOB), è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo

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economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), nonché degli artt. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c), e 135, co. 1, lett. c), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), «nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva amministrativa in generale, e del T.A.R. Lazio – sede di Roma in specie», le controversie relative alle sanzioni amministrative irrogate dalla CONSOB. Inoltre, è stata contestualmente sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, co. 1, n. 19), dell’Allegato n. 4, del medesimo d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’art. 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui abroga l’art. 187-septies, co. 4, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli artt. 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52). Secondo il giudice rimettente, tali disposizioni sarebbero configgenti con gli artt. 3, 76, 103, primo comma, 113, primo comma, 111, commi secondo, settimo e ottavo, della Costituzione. 2. – Il giudice a quo osserva, in particolare, che nel procedimento civile pendente è stata impugnata la delibera della CONSOB, adottata il 1° settembre 2010 e notificata in data 9 settembre 2010, che ha irrogato ad A.C. e a P.D. sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie ai sensi degli artt. 187-ter e 187-quater, del d.lgs. n. 58 del 1998, con contestuale in-

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giunzione di pagamento delle somme ai medesimi e a INPROGRAMME s.a.s. di Castelli Antonio & C., quale società obbligata in solido. I fatti generatori della sanzione erano costituiti, nella ricostruzione offerta dall’ordinanza di rimessione, da una serie di operazioni “a doppio incrocio” svoltesi tra il 19 febbraio e il 30 maggio 2007, mentre i ricorsi contro la delibera sono stati depositati in data 8 novembre 2010. In data 16 settembre 2010 – quindi dopo la notifica del provvedimento che aveva irrogato le sanzioni, ma prima del deposito dei ricorsi – è entrato, peraltro, in vigore il codice del processo amministrativo approvato con il d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104, il cui art. 133, co. 1, lett. l) ha devoluto alla «giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salve ulteriori previsioni di legge (…) le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privato, adottati (…) dalla Commissione nazionale per le società e la borsa». Più specificamente il successivo art. 135, co. 1, lett. c), ha attribuito alla «competenza inderogabile del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma, (…) le controversie di cui all’art. 133, co. 1, lett. l)», in riferimento alle quali il precedente art. 134, co. 1, lett. c), attribuiva al giudice amministrativo la «cognizione estesa al merito» nelle controversie aventi ad oggetto le sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione amministrativa, comprese quelle applicate dalle Autorità indipendenti. Coerentemente con simili disposizioni, l’art. 4, n. 19), dell’Allegato n. 4, del d.lgs. n. 104 del 2010


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ha abrogato l’art. 187-septies, co. 4, del d.lgs. n. 58 del 1998, che attribuiva alla Corte d’appello la competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla CONSOB. 3. – In punto di rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, ai sensi dell’art. 5 del codice di procedura civile, il momento determinante per individuare la giurisdizione e la competenza è costituito da quello di proposizione della domanda, che nella specie cade in data 8 novembre 2010, data in cui già erano entrate in vigore le disposizioni sopra menzionate, che attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e alla competenza funzionale del TAR Lazio, sede di Roma, la cognizione delle controversie aventi ad oggetto i provvedimenti sanzionatori in esame. A fronte di un dato normativo di simile chiarezza, secondo il rimettente, risulta preclusa qualsiasi interpretazione costituzionalmente orientata e, d’altro canto, dalla soluzione della questione di legittimità costituzionale delle disposizioni impugnate dipende la declinatoria della giurisdizione (ove la questione sia ritenuta infondata) ovvero la pronuncia nel merito sulla domanda di annullamento delle sanzioni (ove la questione sia ritenuta fondata). Sulla scorta di tali considerazioni la Corte d’appello di Torino ritiene sussistente la rilevanza della questione nel procedimento a quo. 4. – In punto di non manifesta infondatezza della denunziata illegittimità costituzionale, il giudice rimettente ritiene che le disposizioni censurate violino gli artt. 76, 103, primo comma, 113, primo comma, 111, secondo, settimo e ottavo comma, e 3 Cost.

4.1. – Con particolare riferimento alla ritenuta violazione dell’art. 76 della Costituzione, il giudice rimettente ritiene che le disposizioni censurate eccedano la delega conferita. Infatti, l’art. 44, co. 1 e 2, della legge n. 69 del 2009 delegava il Governo al «riassetto del processo» amministrativo (…) riordinando le norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre giurisdizioni», al fine di adeguare le medesime «alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori». Tale direttiva deve interpretarsi, ad avviso del giudice a quo, nel senso che essa legittimi solo le modificazioni strumentali delle norme vigenti rispetto allo scopo di comporle in un testo normativo unitario, così come già precisato dalla giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 112 del 2008). Il nuovo codice amministrativo ha, invece, profondamente inciso sulla precedente ripartizione di giurisdizione e competenze, sottraendo importanti settori alle Corti d’appello e concentrandoli nella competenza funzionale e territoriale di un unico ufficio giurisdizionale amministrativo. Inoltre, in base alla delega si sarebbe dovuto procedere ad un adeguamento alla giurisprudenza della Corte costituzionale che, ad avviso del rimettente, avrebbe già statuito l’illegittimità costituzionale dell’assegnazione al giudice amministrativo di interi blocchi di materie (sentenza n. 204 del 2004). Il giudice rimettente rileva ulteriormente come, in base alla delega, si sarebbe dovuto attuare il principio della ragionevole durata del processo, mentre il legislatore delegato ha di fatto diminuito le possibilità di ra-

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pida decisione concentrando in un unico ufficio giudiziario (il TAR Lazio – sede di Roma) controversie prima distribuite tra le varie Corti d’appello italiane. Osserva poi il giudice rimettente che, ove si fosse inteso il riferimento, contenuto nel citato art. 44, co. 2, lett. b), n. 1), della legge di delega, al «riordino delle norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo anche rispetto alle altre giurisdizioni», non già come una direttiva al legislatore delegato «entro il perimetro della delega di cui al comma precedente» (vale a dire il riassetto del processo avanti ai Tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e di assicurare la concentrazione delle tutele), ma come «un’autonoma direttiva che concorresse a delimitare il perimetro stesso» della delega, allora si sarebbe dovuta ravvisare la violazione del canone di specificità della delega quale fissato dall’art. 76 Cost., con conseguente questione di illegittimità costituzionale al riguardo. 4.2. – In riferimento alla denunciata violazione degli artt. 103, primo comma, e 113, primo comma, della Costituzione, il giudice a quo osserva che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 204 del 2004, ha già fissato un triplice limite all’espansione della competenza del giudice amministrativo, precisando che ogni ulteriore ampliamento della sua giurisdizione esclusiva deve anzitutto riguardare materie particolari; in secondo luogo tali materie particolari debbono vedere la pubblica amministrazione agire in forza dei suoi poteri autoritativi, con conseguente insuf-

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ficienza, ai fini del radicamento della giurisdizione del giudice amministrativo, sia della mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio, sia del generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia; infine, si deve trattare comunque di ambiti in cui si verifica un intreccio di situazioni soggettive, interessi legittimi e diritti soggettivi. Nella specie, secondo il rimettente, mancherebbe proprio l’intreccio di situazioni soggettive, dato che in relazione al profilo della attività di vigilanza svolta dalla CONSOB – che per gli aspetti di discrezionalità amministrativa che la caratterizzano è soggetta giustificatamente alla giurisdizione amministrativa – il soggetto può vantare solo interessi legittimi, mentre in relazione al profilo sanzionatorio, significativamente attivabile anche su segnalazione di terzi e indipendentemente dall’attività di vigilanza, il sanzionato è titolare di diritti soggettivi. Trattandosi di controversie aventi ad oggetto il profilo sanzionatorio di condotte realizzate da chiunque – e non solo da soggetti sottoposti alla vigilanza della CONSOB – deve osservarsi che l’atto sanzionatorio, dal lato dell’autorità indipendente, è caratterizzato dalla doverosità e che, dal lato del soggetto sanzionato, è invece caratterizzato dalla incidenza su posizioni di diritto soggettivo, ciò che non consentirebbe la devoluzione della giurisdizione al giudice amministrativo, secondo i criteri stabiliti nella citata sentenza della Corte costituzionale. La legge impugnata, ad avviso del rimettente, ha invece proceduto ad attribuire al giudice amministrativo una giurisdizione esclusiva soltan-


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to ratione personae, cioè in quanto la CONSOB è parte della pubblica amministrazione, e non per il contenuto degli atti emanati. Quanto poi al bene giuridico protetto dalla sanzione, ovvero la tutela del mercato, questo è ritenuto costituire solo un generico riferimento al pubblico interesse, invero sotteso a qualsiasi attività sanzionatoria, inidoneo a giustificare la sussistenza di una “speciale materia” da devolvere interamente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, considerata l’esplicita previsione dell’art. 113, primo comma, della Costituzione sulla ripartizione di competenza tra giudice ordinario e giudice amministrativo, derogabile solo a fronte di evidenti ragioni di tutela del cittadino non ravvisabili nella specie. D’altro canto, poiché l’attività sanzionatoria doveva ritenersi esulare dalla materia della vigilanza (affidata a quell’autorità indipendente) e trattandosi di attività incidente esclusivamente sulla materia dei diritti soggettivi (così come ritenuto dal diritto vivente, quale espresso dalla Corte di cassazione, sezioni unite civili, 29 novembre 2007, n. 24816), neppure può configurarsi alcun intrinseco o inestricabile collegamento con pubblici interessi tale da poter configurare una “particolare materia” nella quale attribuire la giurisdizione agli organi di giustizia amministrativa anche sui diritti soggettivi, ai fini di quanto previsto dall’art. 103 della Costituzione. 4.3. – In riferimento alla ritenuta violazione dell’art. 111 della Costituzione, il rimettente osserva come l’art. 111, settimo comma, Cost. configuri un sistema giurisdizionale segnato dalla prevalenza istituzionale

del giudice ordinario rispetto a quello amministrativo. In un tale sistema, la sottrazione alla giurisdizione di nomofilachia della Corte di cassazione di una materia, come quella in esame, che incide su diritti soggettivi, deve ritenersi violare l’art. 111, ottavo comma, della Costituzione, atteso il rilievo costituzionale del grado di legittimità come elemento integrante il canone del giusto processo (quale si ritiene affermato dalla Corte costituzionale nella motivazione della sentenza n. 170 del 2009), da garantire a tutela del diritto potenzialmente compromesso nella controversia, anch’esso di rilievo costituzionale, afferendo alla libertà di iniziativa economica ex art. 41, primo comma, della Costituzione. Inoltre, la concentrazione in un unico ufficio giudiziario (il TAR del Lazio – sede di Roma) delle controversie prima distribuite fra tutte le Corti di appello confligge, ad avviso del giudice a quo, con il canone della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111, secondo comma, della Costituzione. 4.4. – In riferimento alla ritenuta violazione dell’art. 3 della Costituzione, è stata denunciata l’“irrazionale” disparità di trattamento cui viene ad essere sottoposta l’ipotesi in esame rispetto agli altri casi in cui la pubblica amministrazione svolge un’attività di vigilanza ed è altresì dotata di un potere sanzionatorio che si esplica nell’adozione di ordinanze-ingiunzione, impugnabili dinanzi al giudice ordinario ex art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), come avviene, ad esempio, in materia di giuochi d’azzardo, di attività veterinaria o di lavoro subordinato.

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4.5. – Per tutte le ragioni di cui sopra, il giudice a quo ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità posta nei termini di cui sopra e, sospesi i procedimenti riuniti, ha ordinato la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, nonché la notifica dell’ordinanza alla Presidenza del Consiglio dei ministri e la comunicazione ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. 5. – Con atto depositato in data 23 novembre 2011, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che sia dichiarata l’inammissibilità per irrilevanza della questione relativa all’irragionevole durata del processo e l’infondatezza di tutte le altre questioni sollevate dalla Corte d’appello di Torino. 5.1. – In particolare, con riferimento alle censure relative all’irragionevole durata del processo ex art. 111, secondo comma, della Costituzione, per concentrazione della competenza funzionale in primo grado presso il TAR Lazio – sede di Roma, la difesa dello Stato ha osservato come la questione potrebbe assumere rilevanza solo in un giudizio vertente dinanzi al giudice amministrativo, mentre non ha nessuna utilità in un giudizio pendente dinanzi al giudice ordinario che, come nella specie, abbia sollevato questione di costituzionalità per conservare la sua giurisdizione. Conseguentemente la questione medesima dovrebbe dichiararsi inammissibile per irrilevanza nel giudizio a quo. 5.2. – In riferimento alle censure fondate sull’art. 76 della Costituzione, la difesa dello Stato ha osservato

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come la norma delegante contenga principi e criteri sufficientemente specifici, assegnando al legislatore delegato il compito di riordinare le norme sulla giurisdizione del giudice amministrativo, adeguandolo alla giurisprudenza delle giurisdizioni superiori e coordinandole con le altre giurisdizioni nella prospettiva tendenziale della concentrazione delle tutele. A questo proposito, si rimarca come la materia delle sanzioni pecuniarie agli intermediari finanziari avesse formato oggetto di una rilevante elaborazione giurisprudenziale, che riconosceva la giurisdizione ordinaria per le sanzioni e la giurisdizione amministrativa (esclusiva, a partire dal d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’art. 11, co. 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) in materia di provvedimenti di vigilanza adottati dalla CONSOB, evidenziando così una esigenza di ricomposizione e concentrazione delle tutele. Neppure, afferma l’Avvocatura dello Stato, si può fondatamente ritenere che le norme delegate abbiano ecceduto la delega, posto che la concentrazione presso un solo giudice (quello amministrativo) delle controversie in esame risponde proprio all’attuazione dei principi e dei criteri della delega, tenuto anche conto che il Consiglio di Stato già aveva riconosciuto l’intima connessione tra attività di vigilanza e attività sanzionatoria, reputando che l’attribuzione della giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo dei provvedimenti


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in tema di vigilanza, quale operata dal d.lgs. n. 80 del 1998 e dalla legge 21 luglio 2000, n. 205 (Disposizioni in materia di giustizia amministrativa), avesse comportato l’abrogazione tacita dell’attribuzione al giudice ordinario della cognizione in tema di sanzioni pecuniarie prevista dagli artt. 187-septies e 195 del d.lgs. n. 58 del 1998 (sul punto si richiama la decisione del Consiglio di Stato, sezione VI, 13 maggio 2003, n. 2533). A fronte di tale situazione le norme delegate avrebbero quindi operato il coordinamento e la concentrazione delle tutele in precedenza controverse, imputandole tutte al giudice amministrativo. 5.3. – In riferimento alle censure fondate sulla violazione degli artt. 103 e 113 della Costituzione, la difesa dello Stato ha osservato come proprio i criteri enunciati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204 del 2004 portino alla concentrazione presso il giudice amministrativo della tutela dei diritti soggettivi degli operatori interessati, in quanto inseriti in un’attività riservata facente parte di un ordinamento sezionale che, pure nell’attività di vigilanza, coinvolge non solo interessi legittimi, ma anche diritti soggettivi – potendo la CONSOB intervenire sull’organizzazione e sul funzionamento delle imprese finanziarie e, quindi, sui loro diritti soggettivi connessi alla libertà di iniziativa economica. In tale ordinamento l’attività di vigilanza è legata da una connessione del tipo premessa-conseguenza all’attività sanzionatoria, dovendosi rilevare come l’eventuale estensione delle sanzioni a soggetti formalmente estranei all’ordinamento sezionale del mer-

cato finanziario, si giustifichi proprio per la connessione dell’operato di tali soggetti (operatori abusivi) con i compiti di vigilanza della CONSOB e con l’interesse alla trasparenza e all’efficienza del mercato finanziario. Simile interesse, infatti, rimane lo stesso, sia che la violazione venga commessa da un operatore autorizzato, sia che venga commessa da un operatore abusivo. 5.4. – In riferimento alle censure fondate in relazione ai parametri costituzionali di cui agli artt. 111 e 3 della Costituzione, la difesa dello Stato ha osservato che tutte le volte in cui sia costituzionalmente giustificato, come nella specie, devolvere alla cognizione di ultima istanza del Consiglio di Stato una particolare materia, deve ritenersi di necessità legittima la riduzione, alle sole questioni di giurisdizione, dell’intervento della Cassazione, ciò in quanto la connotazione costituzionale del Consiglio di Stato come giurisdizione suprema integra quelle garanzie che risiedono, altrimenti, nel giudizio di legittimità della Cassazione. Considerato in diritto – 1. – Con ordinanza emessa in data 25 marzo 2011, la Corte d’appello di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), nonché degli artt. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c), 135, co. 1, lett. c), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il ri-

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ordino del processo amministrativo), «nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva amministrativa in generale, e del T.A.R. Lazio – sede di Roma in specie», le controversie relative alle sanzioni amministrative irrogate dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (d’ora in poi, CONSOB). Inoltre, è stata contestualmente sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, co. 1, n. 19), dell’Allegato n. 4, del medesimo d.lgs. n. 104 del 2010, nella parte in cui abroga l’art. 187-septies, co. 4, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), che attribuiva alla Corte d’appello la competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla CONSOB. In particolare, il giudice rimettente, verificata la rilevanza delle questioni sottoposte all’esame della Corte, ritiene che tali disposizioni confliggano con gli artt. 3, 76, 103, primo comma, 113, primo comma, 111, commi secondo, settimo e ottavo, della Costituzione. 2. – Tali essendo le questioni proposte, occorre anzitutto ribadire quanto più volte affermato da questa Corte a proposito della «pregiudizialità logico-giuridica» delle censure riferite all’art. 76 Cost., «giacché esse investono il corretto esercizio della funzione legislativa e, quindi, la loro eventuale fondatezza eliderebbe in radice ogni questione in ordine al contenuto precettivo della norma in esame» (ex plurimis, sentenze n. 80 del 2012 e n. 293 del 2010). Pertanto, devono essere esaminate in primo

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luogo le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione all’art. 76 Cost. e fra queste, seguendo la medesima linea di pregiudizialità logico-giuridica, quelle relative alla genericità e indeterminatezza della delega, indipendentemente dall’ordine seguito dal giudice rimettente. 3. – La Corte d’appello di Torino dubita, infatti, della legittimità costituzionale dell’art. 44 della legge n. 69 del 2009, recante delega al governo per il riassetto del processo davanti ai giudici amministrativi, in quanto tale delega sarebbe generica e indeterminata e non soddisferebbe pertanto i criteri stabiliti dall’art. 76 Cost. La questione non è fondata. La delega contenuta nella norma censurata ne definisce, conformemente a quanto previsto dall’articolo 76 della Costituzione, l’oggetto, indica un tempo limitato e certo per l’esercizio della stessa e determina i principi e i criteri direttivi, con indicazioni di contenuto idonee a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato, che, in ogni caso, è sempre garantita quando l’elaborazione di testi legislativi complessi viene affidata al Governo nella forma della delega legislativa (tra le molte sentenza n. 230 del 2010). In particolare, rispetto alle censure mosse dal giudice rimettente, basti osservare il tenore testuale della disposizione sottoposta all’esame della Corte, che definisce l’oggetto della delega nei seguenti termini: delega «per il riassetto del processo dinanzi ai Tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato, al fine di adeguare le norme vigenti alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori, di co-


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ordinarle con le norme del codice di procedura civile in quanto espressione di principi generali e di assicurare la concentrazione delle tutele». In riferimento ai principi e criteri direttivi, inoltre, ai fini che qui rilevano per l’esame della sollevata questione di illegittimità costituzionale, la delega specifica che il Governo deve «assicurare snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo (…); disciplinare le azioni e le funzioni del giudice: 1. Riordinando le norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo anche rispetto alle altre giurisdizioni; 2. Riordinando i casi di giurisdizione estesa al merito». Complessivamente intesa, dunque, la delega, vòlta al riordino e alla razionalizzazione del processo amministrativo e ai necessari aggiustamenti del riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici amministrativi, risulta idonea a circoscrivere i pur necessari margini di discrezionalità del legislatore delegato. La delega contenuta nell’art. 44 della legge n. 69 del 2009 deve pertanto ritenersi sufficientemente specifica e determinata secondo i canoni della giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 76 Cost. (da ultimo sentenza n. 80 del 2012). 4. – Quanto ai decreti legislativi adottati in attuazione della delega sopramenzionata, il giudice rimettente dubita anzitutto della legittimità costituzionale del “combinato disposto” degli artt. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c), e 135, co. 1, lett. c), del d.lgs. n. 104 del 2010, nella parte in cui attribuiscono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo,

con cognizione estesa al merito, e alla competenza funzionale del TAR Lazio – sezione di Roma, le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla CONSOB, per avere il legislatore delegato ecceduto dai limiti stabiliti dalla legge di delega (art. 44 della legge n. 69 del 2009), con conseguente violazione dell’art. 76 Cost. Contestualmente il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale anche dell’art. 4, co. 1, n. 19), dell’Allegato n. 4, del d.lgs. n. 104 del 2010, da intendersi censurato nella parte in cui abroga le previgenti disposizioni attributive della giurisdizione in materia alla Corte d’appello. 4.1. –Nel merito, la questione è fondata con riferimento al parametro di cui all’art. 76 Cost. In riferimento alle deleghe per il riordino o il riassetto di settori normativi – tra le quali, come si è detto poco sopra, deve essere annoverata la delega contenuta nell’art. 44 della legge n. 69 del 2009 – questa Corte ha sempre inquadrato in limiti rigorosi l’esercizio, da parte del legislatore delegato, di poteri innovativi della normazione vigente, non strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita con l’operazione di riordino o riassetto. La Corte ha sempre rimarcato che, a proposito di deleghe che abbiano ad oggetto la revisione, il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, «l’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente è (…) ammissibile soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato», giacché quest’ultimo non può

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innovare «al di fuori di ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato dalla leggedelega» (sentenza n. 293 del 2010), specificando che «per valutare se il legislatore abbia ecceduto [i] – più o meno ampi – margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega» (sentenza n. 230 del 2010). Questi principi, costantemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte e ribaditi da ultimo nella sentenza n. 80 del 2012, impongono, nel caso di deleghe per il riordino o il riassetto normativo, un’interpretazione restrittiva dei poteri innovativi del legislatore delegato, da intendersi in ogni caso strettamente orientati e funzionali alle finalità esplicitate dalla legge di delega. Alla luce di tali principi, in merito alla questione oggi all’esame della Corte, occorre ricordare che la delega – che deve essere qualificata come una delega per il riordino e il riassetto normativo – abilitava il legislatore delegato a intervenire, oltre che sul processo amministrativo, sulle azioni e le funzioni del giudice amministrativo anche rispetto alle altre giurisdizioni e in riferimento alla giurisdizione estesa al merito, ma sempre entro i limiti del riordino della normativa vigente; il che comporta di certo una capacità innovativa dell’ordinamento da parte del Governo delegato all’esercizio della funzione legislativa, da interpretarsi però in senso restrittivo e comunque rigorosamente funzionale al perseguimento delle finalità espresse dal legislatore delegante. 4.2. – In base alla delega conferitagli, il legislatore delegato, nel momento in cui interveniva in modo in-

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novativo sul riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e giudici amministrativi, doveva tenere conto della «giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori» nell’assicurare la concentrazione delle tutele, secondo quanto prescritto dalla legge di delega (art. 44, co. 1 e 2, della legge n. 69 del 2009). Attribuendo le controversie relative alle sanzioni inflitte dalla CONSOB, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (con la competenza funzionale del TAR Lazio – sede di Roma, e con cognizione estesa al merito), il legislatore delegato non ha invece tenuto conto della giurisprudenza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, formatasi specificamente sul punto. La Corte di cassazione ha, infatti, sempre precisato che la competenza giurisdizionale a conoscere delle opposizioni (art. 196 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) avverso le sanzioni inflitte dalla CONSOB ai promotori finanziari, anche di tipo interdittivo, spetta all’autorità giudiziaria ordinaria, posto che anche tali sanzioni, non diversamente da quelle pecuniarie, debbono essere applicate sulla base della gravità della violazione e tenuto conto dell’eventuale recidiva e quindi sulla base di criteri che non possono ritenersi espressione di discrezionalità amministrativa (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 22 luglio 2004, n. 13703; nello stesso senso 11 febbraio 2003, n. 1992; 11 luglio 2001, n. 9383). Anche il Consiglio di Stato ha riconosciuto che, in punto di giurisdizione sulle controversie aventi per oggetto sanzioni inflitte dalla CONSOB, sussistessero precedenti giurisprudenziali nel


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senso della giurisdizione ordinaria, affermando da ultimo la giurisdizione del giudice amministrativo solo sulla base dell’insuperabile dato legislativo espressamente consolidato nell’art. 133 (materie di giurisdizione esclusiva), co. 1, lett. l), del d.lgs. n. 104 del 2010, che prevede testualmente che sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo «le controversie aventi ad oggetto tutti i provvedimenti, compresi quelli sanzionatori ed esclusi quelli inerenti ai rapporti di impiego privatizzati, adottati (…) dalla Commissione nazionale per la società e la borsa» (Consiglio di Stato, sezione VI, 19 luglio 2011, n. 10287), vale a dire sulla base proprio delle disposizioni impugnate in questa sede. Precedentemente all’intervento legislativo qui in esame, invece, lo stesso Consiglio di Stato aveva aderito all’impostazione della Cassazione, secondo cui doveva attribuirsi al giudice ordinario la giurisdizione sulle sanzioni inflitte dalla CONSOB (Consiglio di Stato, sezione VI, 6 novembre 2007, n. 6474; cfr. in precedenza, sezione VI, 19 marzo 2002, n. 4148). La citata giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale esclude che l’irrogazione delle sanzioni da parte della CONSOB sia espressione di mera discrezionalità amministrativa, unitamente alla considerazione che tali sanzioni possono essere sia di natura pecuniaria, sia di tenore interdittivo (giungendo persino ad incidere sulla possibilità che il soggetto sanzionato continui ad esercitare l’attività intrapresa), impedisce di giustificare sul piano della legittimità costituzionale l’intervento del legislatore

delegato, il quale, incidendo profondamente sul precedente assetto, ha trasferito alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative alle sanzioni inflitte dalla CONSOB, discostandosi dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che invece avrebbe dovuto orientare l’intervento del legislatore delegato, secondo quanto prescritto dalla delega. Di conseguenza, deve ritenersi che, limitatamente a simile attribuzione di giurisdizione, siano stati ecceduti i limiti della delega conferita, con conseguente violazione dell’art. 76 Cost. 5. – Per le medesime ragioni sopra illustrate deve ritenersi affetto da illegittimità costituzionale anche l’intero art. 4, co. 1, n. 19), dell’Allegato n. 4, del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, nella parte in cui abroga le disposizioni del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, che attribuiscono alla Corte d’appello la competenza funzionale in materia di sanzioni inflitte dalla CONSOB, con la conseguenza che queste ultime disposizioni, illegittimamente abrogate, tornano ad avere applicazione. 6. – Restano assorbiti tutti gli altri profili di illegittimità costituzionale delle norme impugnate, prospettati in riferimento agli artt. 3, 103, 111 e 113 della Costituzione. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 133, co. 1, lett. l), 135, co. 1, lett. c), e 134, co. 1, lett. c), del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), nella parte in cui attribuiscono

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alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo con cognizione estesa al merito e alla competenza funzionale del TAR Lazio – sede di Roma, le controversie in materia di sanzioni irrogate dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), e dell’art. 4, co. 1, n. 19), dell’Allegato n. 4, del medesimo d.lgs. n. 104 del 2010;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Torino con l’ordinanza indicata in epigrafe.

(1) A. L’ordinanza 25 marzo 2011 con cui la Corte d’appello aveva sollevato la questione di costituzionalità, sotto diversi profili, delle disposizioni del codice del processo amministrativo che – innovando rispetto alla disciplina preesistente – hanno attribuito al giudice amministrativo la competenza giurisdizionale in materia di sanzioni Consob è pubblicata (insieme con la sentenza 9 maggio 2011, n. 3934 del Tar del Lazio, che tale questione aveva invece ritenuto manifestamente infondata) in Dir. banc., 2012, I, 113, con osservazioni di A. N. alle quali si può rinviare per gli opportuni riferimenti. B. Con la sentenza qui pubblicata, la Corte costituzionale – richiamandosi alla necessità di rispettare la “pregiudizialità logico-giuridica” fra i diversi profili prospettati – ha esaminato per prime le censure proposte in relazione all’art. 76 Cost.: ha ritenuto infondata la censura di genericità ed indeterminatezza della delega contenuta nell’art. 44 della l. 18 giugno 2009, n. 69 ed invece fondata quella di eccesso di delega. In particolare, la Corte: - ha precisato che la delega abilitava il governo ad intervenire, oltre che sul processo amministrativo, sulle azioni e le funzioni del giudice amministrativo anche rispetto alle altre giurisdizioni, ma sempre entro i limiti del riordino della normativa vigente; - ha sottolineato che il legislatore delegato, nel momento in cui interveniva in modo innovativo sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo, doveva, secondo quanto prescritto dalla delega, tenere conto della giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori; - ha rilevato che, attribuendo le controversie relative alle sanzioni Consob alla competenza giurisdizionale del giudice amministrativo, il legislatore non aveva invece tenuto conto della giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione formatasi sul punto e saldamente orientata nel ritenere che la competenza giurisdizionale in materia spetti al giudice ordinario. Di qui, la illegittimità costituzionale delle disposizioni in questione nella parte concernente le sanzioni Consob. C. Sorte analoga toccherà, inevitabilmente, alle stesse disposizioni nella parte concernente le sanzioni irrogate dalla Banca d’Italia, anch’esse attribuite, nella disciplina preesistente, alla competenza del giudice ordinario (e specifica-

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mente della Corte d’appello di Roma). Più incerti sono i riflessi della sentenza in rassegna sulle controversie in materia di sanzioni ISVAP, che la disciplina preesistente già attribuiva alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Rispetto a tali controversie potranno però prospettarsi quei profili di illegittimità costituzionale sollevati dalla Corte d’appello di Torino e non esaminati dalla Corte costituzionale perché dichiarati assorbiti. In particolare, potrà prospettarsi – con ancora maggiore forza dopo la sentenza in rassegna – il profilo della violazione dell’art. 3 Cost. sotto l’aspetto (per usare le stesse parole dei giudici torinesi) dell’«irrazionale disparità fra quello in esame e la miriade di altri casi in cui la pubblica amministrazione, in condizioni strutturalmente identiche…, svolge sia un’attività di vigilanza che l’esercizio di un potere sanzionatorio, concretizzantesi in un’ordinanza-ingiunzione impugnabile dinnanzi il giudice ordinario». [Nota redazionale]

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Dichiarazione di fallimento e richiesta del pubblico ministero I CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, Sezione Prima Civile, sentenza 14 giugno 2012, n. 9781; Pres. Fioretti, Rel. Didone; B.A. (avv. Mindopi, Villini) c. Fallimento B.A. (avv. Prosperi Mangili, Benassi). (Conferma App. Brescia, 7 ottobre 2009, n. 874) Fallimento – Segnalazione al pubblico ministero dello stato di insolvenza da parte del giudice che l’abbia rilevata in un procedimento civile – Conseguente dovere per il pubblico ministero di richiedere la dichiarazione di fallimento ai sensi degli art. 6 e 7 l.fall. – Sussistenza. (l.fall., artt. 6, 7, 8) L’art. 7, co. 2, l.fall., come modificato dal d.lgs. 5/2006, deve essere interpretato nel senso di imporre al giudice che rilevi lo stato di insolvenza nel corso di un procedimento civile un vero e proprio dovere di segnalazione al pubblico ministero (dovere che sussiste anche in capo allo stesso Tribunale fallimentare che abbia rilevato lo stato di insolvenza in un procedimento definito per desistenza del creditore istante). Specularmente, il pubblico ministero, ricevuta la suddetta segnalazione, ha l’obbligo di chiedere la dichiarazione di fallimento ex art. 6, co. 1, l.fall. (1) II TRIBUNALE DI FIRENZE, 28 settembre 2011 (decr); Pres. Mariani, Rel. Governatori e Settembre. (Archivia la domanda di fallimento promossa dal P.M.).

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Fallimento – Richiesta da parte del pubblico ministero della dichiarazione di fallimento ex art. 6 l.fall. – Facoltà per il pubblico ministero di rinunciare alla richiesta – Sussistenza. (l.fall. art. 6) Il pubblico ministero che abbia presentato la richiesta di dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 6 l.fall. ha, come i creditori istanti, il potere di rinunciare, anche implicitamente, alla domanda. (2)

I (Omissis) Svolgimento del processo - Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente denuncia la nullità della sentenza e del procedimento per violazione della l.fall., artt. 6 e 7, richiamando i principi enunciati da questa Corte con sentenza n. 4632 del 2009. 2. Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia genericamente violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dello stato di insolvenza. La curatela resistente deduce – tra l’altro l’infondatezza del primo motivo di ricorso evidenziando che, nella concreta fattispecie, all’epoca della dichiarazione di fallimento i locali dell’impresa erano chiusi. Era realizzata, pertanto, la fattispecie di cui alla l.fall., art. 7. 3. è noto che, prima della riforma, due giudici di merito avevano investito la Corte costituzionale dubitando della legittimità costituzionale della disciplina dell’apertura del fallimento d’ufficio alla luce del nuovo testo dell’art. 111 Cost. In particolare i rimettenti ritenevano che l’iniziativa officiosa del tribunale per la dichiarazione di fallimento, prevista dal previgente l.fall.,

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art. 6, confliggesse con i principi di terzietà e imparzialità del giudice, “di cui il canone nulla iurisdictio sìne actione costituisce l’indefettibile corollario logico”. Quando la stessa autorità che deve decidere si è autonomamente attivata contro la parte cui il provvedimento decisorio è destinato si verificherebbe la violazione, appunto, del principio di terzietà e imparzialità. Dubbio di incostituzionalità esteso al previgente l.fall., art. 8, nella parte in cui prevedeva che la segnalazione dell’insolvenza dovesse essere fatta al tribunale anziché al pubblico ministero. La Corte costituzionale, chiarito che si sottraeva alla censura di illegittimità costituzionale ogni ipotesi in cui la dichiarazione di fallimento intervenisse a conclusione di un procedimento comunque avviato da soggetto diverso dal giudice decidente, come il creditore sedicente o non legittimato o rinunciante, ovvero dal pubblico ministero o infine, dallo stesso imprenditore che chiedeva l’ammissione ad una procedura concorsuale, così come le ipotesi di fallimento dichiarato d’ufficio in via di estensione l.fall., ex art. 147 (nel testo previgente), ha argomentatamente escluso la fondatezza della questione sollevata.


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Ha rilevato la Corte che “l’iniziativa officiosa prevista dal legislatore in ragione di peculiari esigenze di effettività della tutela giurisdizionale – non lede il fondamentale principio di imparzialità – terzietà del giudice, quando il procedimento è strutturato in modo che, ad onta dell’officiosità dell’iniziativa, il giudice conservi il fondamentale requisito di soggetto super partes ed equidistante rispetto agli interessi coinvolti”. Ha puntualizzato, poi, la Corte che “le prevalenti finalità pubblicistiche, che caratterizzano la procedura fallimentare (Sentenze 141-142/1970, 110/1972, 148/1996), imponevano al tribunale di attivarsi anche in assenza di un’iniziativa di parte, dando così attuazione alla volontà della legge, che ha già valutato, preventivamente e una volta per tutte, l’interesse pubblico sotteso; di tal che non poteva dubitarsi che il tribunale, procedendo d’ufficio, agisse non come attore, ma nella sua veste giurisdizionale e quindi super partes (Sentenza 148/1996)”. La Corte, peraltro, non ha puramente e semplicemente dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale, bensì ha precisato, nella parte motiva, che la l.fall., artt. 6 e 8 (nel testo previgente), “correttamente interpretati”, non erano in contrasto con l’art. 111 Cost., co. 2. Ciò ha affermato dopo avere puntualizzato che “soltanto al collegio spetta il potere di disporre l’audizione del fallendo”, dopo avere acquisito e delibato legittimamente la notizia decoctionis, questa dovendo provenire ab externo (rispetto al collegio), quale riferimento del giudice civile l.fall., ex art. 8 (ora abrogato).

La Corte, poi, ha espressamente definito come illegittimo il comportamento del giudice relatore che disponga la comparizione del debitore in luogo dell’organo collegiale che è il “giudice” fornito del potere giurisdizionale di delibare la notizia decoctionis al fine dell’instaurazione ex officio del procedimento prefallimentare. In altri termini, sulla base delle norme ora modificate, avrebbe potuto il giudice delegato ai fallimenti segnalare al collegio la notizia decoctionis. Il tribunale avrebbe dovuto disporre ulteriore istruttoria, delegando un componente del collegio e, delibata come non manifestamente infondata la notitia decoctionis, avrebbe dovuto ordinare la convocazione del fallendo per contestargli le risultanze dell’istruttoria (o preistruttoria) e metterlo in grado di difendersi. 4. Il nuovo art. 6 l.fall. non. prevede più l’iniziativa officiosa del tribunale per la dichiarazione di fallimento mentre il nuovo art. 7 (Iniziativa del pubblico ministero), introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, dispone che il pubblico ministero presenta la richiesta di cui all’art. 6, co. 1: 1) quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore; 2) quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile. Il primo comma riprende sostanzialmente il testo previgente della disposizione (Quando l’insolvenza

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risulta dalla fuga o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore, il procuratore della Repubblica che procede contro l’imprenditore deve richiedere al tribunale competente la dichiarazione di fallimento) con la significativa variante – per la parte che interessa la questione oggetto dei ricorsi – che l’insolvenza non deve più risultare necessariamente da un procedimento penale “contro l’imprenditore” insolvente ma, semplicemente “nel corso di un procedimento penale”. Ciò denota che il legislatore ha individuato nel Pubblico Ministero l’organo terzo dal quale – secondo la menzionata sentenza della Corte costituzionale – la notizia decoctionis potesse pervenire, “questa dovendo provenire ab externo (rispetto al collegio)”, alla pari del “riferimento del giudice civile l.fall., ex art. 8”, essendo egli legittimato – come il debitore o i creditori – a proporre istanza di fallimento ai sensi del nuovo l.fall., art. 6. La l.fall., art. 8, è stato abrogato ed il suo contenuto è stato inserito nell’art. 7, co. 2, con la precisazione (anche qui) che l’insolvenza può risultare dalla “segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile” e non più – come previsto dall’abrogata disposizione – se “nel corso di un giudizio civile risulta(va) l’insolvenza di un imprenditore (che fosse) parte nel giudizio” (e in tal caso, il giudice ne doveva riferire al tribunale competente per la dichiarazione del fallimento).

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La nozione di procedimento civile è diversa e più ampia di giudizio civile e vale a ricomprendere l’istruttoria prefallimentare “disciplinata ex novo dalla l.fall., art. 15, nel testo introdotto dalla riforma del 2006, come un procedimento speciale a cognizione piena” (Sez. 1, Sentenza n. 1098 del 2010). 5. Dalla Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo recante la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali si evince che “la soppressione della dichiarazione di fallimento di ufficio… risulta bilanciata dall’affidamento al pubblico ministero del potere di dar corso alla istanza di fallimento su segnalazione qualificata proveniente dal giudice al quale, nel corso di un qualsiasi procedimento civile, risulti l’insolvenza di un imprenditore; quindi anche nei casi di rinuncia (c.d. desistenza) al ricorso per dichiarazione di fallimento da parte dei creditori istanti”. L’intenzione storica del legislatore quale che in concreto essa sia non risulta mai vincolante per l’interprete. Ma se ciò è vero, nel senso che quell’intenzione non è mai vincolante, tuttavia – ed è agevole constatarlo dall’esame di non poche pronunce della Corte costituzionale – difficilmente da essa si può prescindere qualora sia conforme al risultato del procedimento ermeneutico condotto alla luce dei criteri indicati dall’art. 12 preleggi. In tal senso è il procedimento ermeneutico da sempre seguito dalla Corte costituzionale, allorquando, ad esempio, pone a base del giudizio di costituzionalità il significato della norma quale risultato di “interpretazione, fatta palese dalla lettera del precetto”


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che appaia “perfettamente in consonanza rispetto a quanto emerge dai lavori preparatori” e come “si rileva in modo assolutamente inequivoco dalla Relazione al testo definitivo” (C. cost. 7 luglio 1992 n. 340. Per altri esempi di utilizzazione di tale procedimento ermeneutico, cfr. C. cost. 23 marzo 2010 n. 138; C. cost. 3 maggio 2005 n. 282; C. cost. 11 luglio 1985 n. 214; C. cost. 7 maggio 1975 n. 120). Se i lavori preparatori hanno un valore limitato, esistono alcuni casi in cui è legittimo fare ricorso al c.d. “argomento psicologico”, almeno come argomento ausiliario (cfr. Cass., sez. un., 26 gennaio 2004 n. 1338; Cass. 17 gennaio 2003 n. 654; Cass. 16 marzo 1996 n. 2238; Cass. 27 febbraio 1995 n. 2230; Cass. 7 dicembre 1994 n. 10480; Cass., sez. un., 30 ottobre 1992 n. 11843; Cass. 7 dicembre 1994 n. 10480). Dunque, il nuovo art. 7 l.fall., va letto nel senso che, ove un giudice civile, nel corso di un procedimento civile, rilevi l’insolvenza di un imprenditore “deve” farne segnalazione al Pubblico Ministero e specularmente – il pubblico ministero presenta la richiesta di cui all’art. 6, co. 1 “quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento. Giudice civile è anche il tribunale fallimentare che abbia rilevato l’insolvenza nel corso di un procedimento l.fall., ex art. 15, anche se definito per desistenza del creditore istante”. 6. Infine, quanto alla conformità al precetto di cui all’art. 111 Cost., della interpretazione innanzi accolta, oltre alla già menzionata pronuncia della Corte costituzionale, depone

per essa il rilievo della dottrina secondo cui la trasmissione al pubblico ministero della notitia decoctionis emersa nel corso del procedimento non è un atto avente contenuto decisorio, neppure come precipitato di una cognizione di tipo sommario e non incide – né direttamente, né indirettamente – sui diritti di alcuno mentre il giudice che a ciò procede non fa altro che esercitare il poteredovere di denunzia di fatti che prima facie gli appaiano potenzialmente lesivi dell’interesse pubblico ad eliminare dal sistema economico i focolai d’insolvenza. Trattandosi di un atto “neutro”, privo di specifica valenza procedimentale o decisoria, “il cui impulso riposa su una valutazione estemporanea, che non vincola nessuno”, la valutazione decisoria del tribunale non è tecnicamente “pregiudicata” dall’avvenuta segnalazione, perché il tribunale, all’esito dell’istruttoria prefallimentare, può rigettare con decreto la richiesta del pubblico ministero. La natura di valutazione prima facie dell’insolvenza e il potere esercitato dal tribunale fallimentare a seguito di cognizione piena, se del caso difformemente da quella prima valutazione, sta a confermare, semmai, la terzietà dell’organo giudicante. 7. Le considerazioni innanzi svolte inducono la Corte a disattendere il precedente invocato dal ricorrente. Talché è infondato il primo motivo di ricorso. 8. Quanto al secondo motivo esso è inammissibile perchè censura soltanto genericamente la sentenza impugnata nella parte in cui ha – con congrua e logica motivazione

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accertato lo stato di insolvenza del ricorrente evidenziando, tra l’altro, che – erano documentate innanzi al Tribunale plurime esecuzioni forzate, immobiliari e mobiliari; – il credito oggetto delle istanze di fallimento era superiore al tetto minimo normativo di cui alla l.fall., art. 15, posto che comunque il fallendo “al momento del fallimento” era debitore verso le banche di importo addirittura di Euro 581.972,00, nonchè aveva formulato ben due proposte “di rientro”, che erano rimaste entrambe poi inadempiute; – B.A. era, inoltre, al momento della dichiarazione di fallimento debitore delle innanzi riconosciute rilevanti somme verso diversi creditori, talune delle quali già azionate esecutivamente; – non ricorreva, oggettivamente, a breve alcuna concreta e reale possibilità di ripresa di B.A. posto che il medesimo aveva ammesso la sua difficoltà nel ricorso al credito bancario, l’avvenuta ripresa dell’attività imprenditoriale a ritmo solo ridotto (e dopo un periodo di chiusura), inoltre non era stato capace di saldare nemmeno debiti di importo esiguo o di rispettare i piani di rientro concordati; infine, il reclamante, nonostante la consistente esposizione debitoria emersa non aveva non solo mai richiesto nè affermato di possedere le condizioni per richiedere il concordato preventivo. Il ricorso deve essere rigettato. Il mutamento di giurisprudenza in relazione al potere di segnalazione del tribunale fallimentare giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità. (Omissis)

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II (Omissis) Svolgimento del processo - Motivi della decisione 1. Deve in primo luogo evidenziarsi – con riferimento alle doglianze sollevate dalla debitrice – che la procedura ha avuto uno svolgimento del tutto conforme alle previsioni legislative, e strettamente correlato al succedersi di istanze di fallimento presentate da diversi creditori della (YY) oltre che dal Pubblico Ministero e dall’esercizio da parte del Collegio dei poteri ufficiosi previsti dall’art. 15 della Legge fallimentare. La prima istanza di fallimento è del 12.10.2010 della (AA srl), desistita il 29.12.2010 (con archiviazione pronunciata il 5-10 gennaio 2011) dopo che era stata avanzata il 25.11.2010 richiesta di fallimento da parte del Pubblico Ministero. È seguita istanza di fallimento del 17.5.2011 (BB spa), desistita il 30.5.2011, seguita da istanza di fallimento (CC) del 14.6.2011, desistita il 7.7.2011. Tale succedersi di istanze costituivano manifestazione di inadempimenti che ai sensi dell’art. 5 LF portavano elementi di conferma di quello stato di insolvenza dedotto altresì dal Pubblico Ministero e negato dalla memoria della difesa (YY). Il Tribunale ha ritenuto opportuno – facendo uso dei poteri ufficiosi previsti dall’art. 15 LF (che menziona esplicitamente la possibilità di ammissione d’ufficio di mezzi istruttori) – acquisire elementi di valutazione in specie in relazione alla memoria con documenti prodotti dalla debitrice e alla sintetica risposta fornita dalla Guardia di Finanza alla richiesta del Tribunale, sulla base dell’ esame dei documenti forniti dall’amministrato-


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re. In tal modo il Tribunale ha potuto avere puntuale contezza (ciò che sovente avviene nelle procedure) dei debiti scaduti esistenti verso l’Erario nonché verso INAIL ed INPS. Successivamente, all’udienza del 28.9.2011 (YY) ha dedotto e quindi documentato la presentazione di istanze di rateizzazione di tali debiti presentate il 27.9.2011 (nelle more del deposito della presente decisione sono stati altresì depositate le missive di Equitalia relative all’accoglimento di dette istanze rispettivamente per gli importi di € 702.649,64 e 554.424,45). 2. Tanto premesso, con riferimento alla prima eccezione sollevata dalla difesa YY circa l’attuale carenza di domande di fallimento, va rilevato che le istanze presentate dalle parti private sono state tutte seguite da espliciti atti di desistenza. Quanto alla domanda del Pubblico Ministero la debitrice rileva che questi – quale unica attuale parte istante – mai è comparso e mai ha coltivato la propria richiesta così da doversi ritenere intervenuta rinuncia alla domanda. A tal fine evidenzia che il Pubblico Ministero non ha minimamente coltivato la propria iniziativa, non avendo partecipato ad alcuna delle udienze, non avendo redatto scritti e/o difese e non avendo chiesto di provare alcunché. Rileva il Tribunale che con la modifica dell’art. 6 della legge fallimentare del 2006, è stata soppressa la possibilità che la procedura sia aperta di ufficio, lasciando la iniziativa al riguardo al debitore, al creditore e al Pubblico Ministero. Il Pubblico Ministero è dunque, al pari delle parti private, sia pure per il perseguimento di un interesse pubblico, titolare

di un diritto di azione. In virtù degli artt. 69 e 72 c.p.c, ha gli stessi poteri delle parti, e malgrado la natura pubblicistica dell’interesse che presiede all’esercizio dell’azione, deve ritenersi assimilato alle altre parti circa la libertà – e corrispondenti oneri – di far valere i suoi poteri, fino al punto di legittimare la disponibilità da parte sua della mera azione processuale (fuor di questione essendo ogni rinuncia alla pretesa sostanziale). D’altronde una tale rinuncia non avrebbe carattere definitivo considerato che all’esito del procedimento, in ipotesi di desistenza, come di rinuncia, non si forma alcun giudicato, potendo il ricorso essere riproposto senza limiti (ovviamente ove ne siano i presupposti normativi), senza pregiudizio dunque per gli interessi pubblicistici sottesi. D’altronde la condizione di parità delle parti costituisce principio costituzionale strettamente correlato a quello della terzietà ed imparzialità del giudice (in conformità del quale la nuova formulazione dell’art. 6 non prevede più, come già ricordato, la procedibilità d’ufficio), e da essa deve trarsi la possibilità per il Pubblico Ministero, sulla base delle specifiche valutazioni che egli faccia di ciascun caso e delle risultanze e sviluppi processuali, di non coltivare o di abbandonare la domanda. Ritiene di conseguenza il Tribunale che debba ritenersi giuridicamente ammissibile la rinuncia agli atti da parte del Pubblico Ministero, rinuncia che, al pari di quanto avviene per ogni parte processuale, può essere tanto esplicita quanto implicita. Deve quindi valutarsi in concreto se nel caso di specie sia ravvisabile

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una rinuncia implicita come eccepito dalla debitrice. Osserva il Collegio che il Pubblico Ministero aveva formulato la propria istanza di fallimento deducendo che la (YY) aveva chiuso il bilancio del 2008 con una perdita di oltre € 1,6 milioni di euro e il bilancio del 2009 con una perdita di oltre 1,3 milioni di euro, oltre ad aver subito il protesto di cambiali per quasi € 40.000. A tale istanza è seguito il deposito di una memoria difensiva della debitrice accompagnata da documentazione e da una relazione del proprio tecnico di parte, dott. zz, che ha illustrato il rapporto tra le perdite e il capitale sociale negando lo stato di insolvenza. A tali allegazioni sono seguiti approfondimenti istruttori – già sopra riferiti – oltre che la presentazione di istanze di fallimento private, seguite da desistenze. Si sono inoltre tenute tre udienze collegiali, a nessuna delle quali il Pubblico Ministero è intervenuto, nonostante la rituale comunicazione della fissazione di ciascuna di essa, senza che il Pubblico Ministero abbia depositato proprie osservazioni o deduzioni, o esito di eventuali accertamenti che il Pubblico Ministero ben può di norma effettuare avvalendosi della Polizia Giudiziaria, a supporto dell’onere probatorio dal quale è gravato, ed al quale non deve necessariamente ovviarsi tramite i poteri ufficiosi del Tribunale. Tanto premesso ritiene il Tribunale che a fronte del deposito da parte di tutti i debitori istanti di atti di desistenza, sintomatici della capacità della società debitrice di trovare un accordo con i propri creditori; della prova della circostanza che le

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cambiali menzionate dal Pubblico Ministero sono state restituite alla (YY), con conseguente venir meno di uno dei motivi dedotti a sostegno della domanda; della sussistenza di un piano di ristrutturazione aziendale (nelle note difensive depositate all’udienza del 28.9.2011 si espone che Y, amministratore unico entrato in carica il 28.2.2011 – e dunque successivamente alla domanda del Pubblico Ministero – una volta presa contezza della situazione aziendale creatasi nei mesi precedenti e dei fatti di gestione già posti in essere dal precedente organo amministrativo si è adoperato per definire in modo organico e compiuto un piano di riorganizzazione aziendale specificamente descritto (fornendo documentazione di riscontro) e della rateizzazione dei debiti vantati da Equitalia, l’inerzia del Pubblico Ministero nel coltivare la domanda debba essere valutata come rinuncia implicita alla stessa. Difatti a fronte degli elementi predetti la condotta di mancata presentazione alle udienze e di mancanza di svolgimento di deduzioni e di formulazione di richieste istruttorie in relazione alle emergenze e vicende processuali risulta incompatibile con la volontà di proseguire, attualmente, nella domanda proposta. Va infine rilevato che la rinuncia all’istanza di fallimento non richiede alcuna forma di accettazione del debitore (Cass. 18620/2010). Per tali motivi deve essere dunque disposta l’archiviazione (Cass. 21834/2009 e 3472/2011) delle domande di fallimento proposte nei confronti di (YY srl), non ravvisandosi i presupposti per una pronuncia di condanna alle spese, in rela-


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zione alla natura del provvedimento adottato, oltre che in ragione del fatto che ad esso si perviene per desistenze depositate dai debitori e in

relazione alla rinuncia implicita da parte del Pubblico Ministero, parte pubblica. (Omissis)

(1-2) Le due sentenze in commento affrontano la questione del potere del P.M. di richiedere la dichiarazione di fallimento ai sensi dell’art. 7 l.fall. e si presentano di particolare interesse perché, da un lato, la Corte di Cassazione opera un vero e proprio revirement rispetto al precedente orientamento e, dall’altro, il Tribunale di Firenze ha modo di approfondire, a seguito dell’abrogazione del fallimento ex officio ad opera del d.lgs. 5/2006, la posizione processuale del P.M. istante. Nel “moderno” processo concorsuale, come nel processo civile ordinario, vige quello che la dottrina suole chiamare principio della domanda (rif. art. 99 c.p.c.) la cui applicazione in sede fallimentare determina l’impossibilità, per l’organo giudiziale, di dichiarare il fallimento di un imprenditore commerciale senza la sollecitazione di uno dei soggetti legittimati dalla legge (ai sensi del novellato art. 6 l.fall. il debitore stesso, i creditori ed il P.M.). Quella del fallimento ex officio è stata una questione relativamente dibattuta nel diritto concorsuale italiano: prima della riforma intervenuta con il d.lgs. 5/06, infatti, l’art. 6 l.fall., consentiva di addivenire alla dichiarazione di fallimento anche di ufficio, in evidente ossequio al carattere inquisitorio della procedura per come impostata nel r.d. 267/1942. La possibilità di dichiarare il fallimento ex officio, ossia anche in assenza di sollecitazione di parte, si poneva però in contrasto con i principi costituzionali di cui all’ art. 111 sul c.d. “giusto processo”, per come introdotti con la l. cost. 2/1999 (principio del contraddittorio, della parità delle armi, del giudice terzo ed imparziale). La scelta operata dal legislatore italiano con la riforma del 2006, oltre che a porsi in linea con i principi costituzionali di imparzialità e terzietà del giudice, nonché del principio processuale della domanda ad essi direttamente riferibile, ha accolto le istanze provenienti da parte della dottrina (Proto Pisani, Il nuovo art. 111 Cost. e il giusto processo civile, in Foro it., 2000, V, c. 319 ss.; Scarselli, Il nuovo art. 111 Cost. e l’imparzialità del giudice nel processo civile, in Questione giustizia, 2000, p. 81 ss.; Costantino, Giusto processo e procedure concorsuali, in Foro it., 2001, I, c. 3451 ss. ed anche in Il giusto processo di fallimento, in La tutela dei crediti nel giusto processo di fallimento (atti del convegno di Cosenza, 21-22 settembre 2001) a cura di Ragusa Maggiore e Tortorici, Padova, 2002, p. 8 e ss) nonostante la Corte Costituzionale, solamente tre anni prima, avesse dichiarato conforme ai principi costituzionali sopra richiamati la dichiarazione d’ufficio di fallimento (C. Cost., 15 luglio 2003, n. 240, in Foro It., 2003, I, 2513, con nota di Fabiani, ed in Il Fallimento, 2003, 1052 ss. con nota di Lo Cascio, La dichiarazione di fallimento d’ufficio e la pretesa illegittimità costituzionale della disciplina normativa). Sull’abrogazione del potere del tribunale fallimentare di dichiarare il fallimento ex officio si segnala la recente ordinanza di remissione della que-

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stione di legittimità costituzionale emessa dal Tribunale di Milano il 24/5/2012 per il quale «è rilevante e non manifestamente infondata, in relazione all art. 77 della Costituzione e al tenore letterale logico della legge delega (art. 1, co. 5 e 6 L. n. 80/2005), la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 d.lgs. n. 5/2006, nella parte in cui tale norma ha cancellato dal primo comma dell’art. 6 R.D. 16 marzo 1942 n. 267 l’inciso “oppure d’ufficio”» in quanto affetta da eccesso di delega. Allo stato attuale, comunque, il Pubblico Ministero entra come parte attiva, in senso processuale, del procedimento per la dichiarazione di fallimento, stante il combinato disposto degli artt. 6 e 7 l.fall. avendo il potere/dovere di presentarne richiesta “1) quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore e 2) quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile”. La dottrina e la giurisprudenza operano una distinzione tra le due ipotesi previste dalla norma in commento, nel senso che, mentre nelle ipotesi previste al nr. 1 (insolvenza emersa nel corso di un procedimento penale) sul P.M. graverebbe un vero e proprio obbligo di richiedere il fallimento, in quelle previste dal nr. 2 (insolvenza conosciuta su segnalazione del giudice civile) il P.M. avrebbe comunque un potere di azione facoltativo (recentemente in tal senso: Trib. Napoli, 22 febbraio 2012, in www. ilfallimentarista.it con nota di Sirna). Posto quanto sopra, comunque, a livello sistematico la seconda parte della norma di cui all’art. 7 l.fall. ha, com’è noto, recepito le ipotesi che in precedenza l’abrogato art. 8 l.fall. riferiva all’iniziativa officiosa per la dichiarazione di fallimento. Per i precedenti in materia si segnala: App. Lecce, 22 marzo 2007, in Il Fallimento, 2007, 1409 e, recentemente, Trib. Palermo, 10 aprile 2012, in www.ilcaso.it. Per quanto attiene alla decisione della Corte di legittimità, con la sentenza in commento la Suprema Corte opera un cambio di rotta rispetto al precedente orientamento e, allineandosi a quanto già sostenuto dalla giurisprudenza di merito e confermato da parte della dottrina, sancisce la legittimità della dichiarazione di fallimento su iniziativa del P.M., quando la segnalazione dell’insolvenza sia allo stesso pervenuta direttamente da parte del Tribunale fallimentare. In precedenza la stessa Corte di Cassazione aveva negato la validità di una sentenza dichiarativa di fallimento, pervenuta su istanza del P.M. sollecitato direttamente dal tribunale fallimentare che, a seguito della desistenza del creditore istante, non aveva più potuto procedere con la dichiarazione di fallimento stante l’abrogato istituto della dichiarazione d’ufficio (rif. Cass., 26 febbraio 2009, n.4632, (in Il Fallimento, 2009, 521) che confermava la sentenza della Corte d’Appello di Milano): in tale circostanza la S.C. aveva modo di argomentare che «in tema di fallimento, l’esigenza di assicurare la terzietà e l’imparzialità del tribunale fallimentare, emergente da un’interpretazione sistematica della legge fallimentare (così come modificata dal d.lgs. 9 gennaio 2009, n. 5) ed in particolare degli artt. 6 e 7, letti alla luce del novellato art. 111 Cost., porta ad

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escludere che l’iniziativa del P.M. ai fini della dichiarazione di fallimento possa essere assunta in base ad una segnalazione proveniente dallo stesso tribunale fallimentare, in tal senso deponendo, oltre alla soppressione del potere di aprire d’ufficio il fallimento ed alla riduzione dei margini d’intervento del giudice nel corso della procedura, anche il n. 2 dell’art. 7 cit., che limita il potere di segnalazione del giudice civile all’ipotesi in cui l’insolvenza risulti, nei riguardi di soggetti diversi da quelli destinatari dell’iniziativa, in un procedimento diverso da quello rivolto alla dichiarazione di fallimento, nonché dagli interventi correttivi del d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che hanno reso totalmente estranea al sistema l’ingerenza dell’organo giudicante sulla nascita o l’ultrattività della procedura». Già all’epoca della sopra menzionata decisione della S.C., la giurisprudenza di merito aveva però modo di osservare come «Il Tribunale fallimentare è legittimato alla segnalazione di cui all’art. 7 n. 2 legge fall. in esito all’estinzione per desistenza di una precedente istanza di fallimento, non potendo accomunarsi l’iniziativa d’ufficio alla mera segnalazione al Pubblico Ministero di una situazione da cui potrebbe risultare la sussistenza dell’insolvenza di un imprenditore, atteso che in questo secondo caso è il Pubblico Ministero che autonomamente vaglia la notizia pervenuta e valuta se proporre o meno l’istanza». (Trib. Mantova, 12 marzo 2009, in www.ilcaso.it e, dello stesso tenore: Trib. Tivoli, 6 aprile 2009; App. Bologna, 1 giugno 2009, ivi; App. Brescia, 7 ottobre 2009, ivi), determinandosi così un evidente contrasto tra l’orientamento dei giudici di merito che, in sostanza anche successivamente alla presa di posizione del giudice di legittimità, continuavano a considerare legittima l’iniziativa presa dal P.M. su sollecitazione dello stesso tribunale fallimentare. Il precedente orientamento della S.C., oltre che disatteso dalla quasi totalità dei giudici di merito, è stato anche contrastato dalla maggior parte della dottrina (per tutti Cordopatri, in Dir. fall., 2010, p. 265 e ss; Fabiani, in Foro it., 2009, I, p. 1404 e ss) in quanto, essenzialmente, costruito sull’erronea equiparazione tra segnalazione del Tribunale fallimentare al P.M. e fallimento d’ufficio: le due fattispecie infatti non sono perfettamente sovrapponibili in quanto – come già rilevato dai giudici di merito – una cosa è la “iniziativa per sollecitare l’iniziativa del P.M.” (mera segnalazione che comporta una autonoma valutazione del P.M.) e altra cosa è l’esercizio della “diretta iniziativa d’ufficio” da parte del Giudice fallimentare (ravvisandosi soltanto in tale ipotesi un problema di terzietà e imparzialità del giudicante). Inoltre, si rammenti che nel caso in cui la segnalazione dell’insolvenza proviene dallo stesso giudice fallimentare, il P.M. opera una scelta autonoma circa la proposizione della “richiesta” di fallimento: egli infatti, una volta ricevuta la segnalazione del tribunale, rimane comunque autonomo e non vincolato alla richiesta di fallimento, e proprio questa circostanza distingue la fattispecie in esame dalla dichiarazione di fallimento ex officio (in tal senso cfr. App. Brescia, 2 maggio 2011, in www.ilcaso.it). La questione interpretativa sottoposta alla S.C. ed affrontata nella decisione in commento riguarda in concreto la possibilità di considerare il procedimento prefallimentare di cui all’art. 15 l.fall. un “procedimento civile” ai sensi dell’art. 7 l.fall. nel senso della possibilità (o doverosità) della segnalazione dei presupposti per la dichiarazione di fal-

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limento da parte del Giudice (fallimentare) al P.M., nell’ipotesi in cui il creditore desistesse dall’originaria istanza, con effetto estintivo sul procedimento incardinato. Com’è noto infatti, prima che intervenisse la novella di cui al d.lgs. 5/06, grazie alla norma contenuta nell’art. 6 l.fall., alla rinuncia dell’istante sopperiva il potere officioso del Tribunale fallimentare che, anche in presenza di tali fattispecie, laddove avesse comunque rilevato nell’ambito dell’istruttoria prefallimentare (fortemente caratterizzata, allora, dai poteri officiosi del Tribunale) la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, provvedeva ex officio a dichiarare il fallimento. In materia cfr: Ferro, Piano di risanamento non eseguito, desistenza del creditore istante, ricorso del P.M. e fallimento d’ufficio: le modalità di apertura e prosecuzione istruttoria dell’indagine sull’insolvenza., in Il Fallimento, 2000, I, p. 322 ss. Per la casistica relativa ai fallimenti dichiarati ex officio nella previgente disciplina cfr.: Trib. Grosseto, 27 aprile 1995, in Dir. fall., 1996, II, 882, con nota di Di Gravio, L’art. 8 legge fallim. come “chiamata alle armi” dei fallibili renitenti; Trib. Roma, 10 novembre 1981, in Dir. fall., 1982, II, 1; Trib. Torino, 16 maggio 1984, in Giur. piemontese, 1984, 977; Trib. Perugia, 21 maggio 1993, in Rass. Giur. Umbra, 1994, 652, con nota di Tellini; Trib. Torre Annunziata, 11 febbraio 1995, in Dir. fall., 1996, II, 126, con nota di Matera, Fallimento d’ufficio tra controllo giudiziario e liquidazione della società. Per quanto qui interessa, comunque, la sentenza in commento ha, finalmente, riconosciuto al procedimento prefallimentare la natura di “procedimento civile” a tutti gli effetti, al pari di ogni altro procedimento (non a caso, infatti, la norma di cui all’art. 7 l.fall., parla di procedimento e non di “giudizio civile” come invece avveniva nell’abrogato art. 8 l.fall. che, si rammenta, disciplinava le ipotesi di iniziativa officiosa di fallimento secondo il seguente disposto: “Se nel corso di un giudizio civile risulta l’insolvenza di un imprenditore che sia parte nel giudizio, il giudice ne riferisce al tribunale competente per la dichiarazione del fallimento”) in cui il giudice civile possa avere notizia dell’esistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento (a titolo esemplificativo, al pari di un procedimento esecutivo, di un procedimento di sfratto per morosità, di un ordinario processo di cognizione, perché no, di un procedimento per la separazione dei coniugi), partendo dalla disamina dei principi costituzionali del giusto processo ex art. 111 Cost., soprattutto in relazione al dovere di terzietà ed imparzialità del giudicante e ribadendo che la segnalazione in questione non ha alcun contenuto decisorio in quanto atto sostanzialmente “neutro” e privo di specifica valenza procedimentale o decisoria, “il cui impulso riposa su una valutazione estemporanea, che non vincola nessuno talché la valutazione decisoria del tribunale non è tecnicamente “pregiudicata” dall’avvenuta segnalazione, perché il tribunale, all’esito dell’istruttoria prefallimentare, può rigettare con decreto la richiesta del P.M.”. Per maggiori riferimenti anche dottrinali, cfr.: Punzi, La dichiarazione di fallimento, in Trattato delle procedure concorsuali, diretto da Ghia, Piccininni, Severini, Torino, vol. I, 2010, p. 2 ss.; Donzi, L’iniziativa per la dichiarazione di fallimento: artt. 6 e 7 l.fall., in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da Fauceglia e Panzani, vol. I, Torino, 2009, p. 102 ss.; Di Marzio, nella

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Introduzione a Il correttivo della riforma fallimentare, a cura dello stesso Autore, 2008; Russo, L’iniziativa del pubblico ministero in Il procedimento per la dichiarazione di fallimento (la fase c.d. prefallimentare), in Trattato di diritto delle procedure concorsuali, diretto e coordinato da Apice, Vol. I, Giappichelli, 2010, p. 96 ss. Alla luce del riformato art. 6 l.fall., la decisione in commento del Tribunale di Firenze opera una ricostruzione dei poteri del P.M. – nel procedimento per la dichiarazione di fallimento da lui stesso azionato – equiparandolo in tutto e per tutto alle altri parti processuali. Anche argomentando sulla base dei sopra richiamati principi costituzionali del contraddittorio, della parità delle armi e del giudice terzo e imparziale, il tribunale fiorentino conclude per la qualifica di parte processuale del P.M. che eserciti l’azione per la dichiarazione di fallimento attraverso il deposito di quello che, atecnicamente, la norma suddetta definisce “richiesta” ma che è, a tutti gli effetti, un vero e proprio ricorso al pari di quello che potrebbe depositare al Tribunale fallimentare un creditore o lo stesso debitore. Da ciò discende – secondo la sentenza – la possibilità per lo stesso P.M. di desistere (anche attraverso comportamenti concludenti quali la mancata partecipazione alle udienze, proprio come nel caso di specie) così come è concesso ad ogni altro istante. Se è vero, com’è vero, che l’iniziativa del P.M. è stata ampliata nel nostro ordinamento per eliminare i dubbi sulla terzietà e imparzialità del giudice che, anche in assenza di stimolo di parte, procede comunque alla dichiarazione di fallimento, non si può che applicare al quel P.M. tute le norme ed i principi che regolano l’attività delle parti nel processo. In senso difforme alla decisione del Tribunale fiorentino cfr. App. Torino, 22 ottobre 2009. In generale, sull’istituto processuale della rinuncia agli atti cfr. Micheli, La rinuncia agli atti di giudizio, Padova, 1937; Massari, Rinunzia agli atti del giudizio, in Noviss. Dig. it., XV, Torino, 1968, p. 1156 ss.; Vaccarella, Rinunzia agli atti del giudizio, in Enc. dir., XL, Milano, 1989, p. 960 ss. A livello generale, cfr. anche Satta - Punzi Diritto processuale civile, Padova, 2000, p. 405 ss.; Redenti - Vellani, Diritto processuale civile, Milano, 2011, p. 353 ss.; Sassani, Lineamenti del processo civile italiano, Milano, 2010, p. 443 ss.; Lugo, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 2009, p. 248 ss.; Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2009, p. 253 ss.; Arieta, De Santis, Montesano, Corso base di diritto processuale civile, Milano, 2008, 433 ss. [Nota Redazionale]

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fatti e problemi della pratica

Sulla surroga nei finanziamenti bancari non perfezionata nel termine (art. 120-quater, co. 7, T.U.B., modificato dalla l.

n. 27/2012)

Sommario: 1. Il problema dell’efficacia della tutela del cliente rispetto all’ostruzionismo del finanziatore originario. - 2. Rilevanza della richiesta di collaborazione avanzata dal cliente al finanziatore originario. - 3. Le cause di esclusione della penale. - 4. L’ipotesi della surroga mancata. - 5. Il parametro patrimoniale della penale. - 6. Sulla risarcibilità del danno ulteriore.

1. Il problema dell’efficacia della tutela del cliente rispetto all’ostruzionismo del finanziatore originario. Dal «decreto Bersani» (d. lgs. n. 223/2006, conv. in l. n. 248/2006) fino al «decreto Sviluppo» (d. lgs. n. 70/2011, conv. in l. n. 106/2011) la disciplina agevolativa dell’exit del cliente dai rapporti bancari ha compiuto sia passi avanti che indietro: ad esempio, in tema di estinzione anticipata del credito al consumo, costituisce un passo avanti la disposizione dell’art. 125-sexies t.u.b. rispetto al previgente art. 21, co. 10, l. n. 142/1992 (come attuato dal d.m. 8 luglio 1992); in tema di recesso dai contratti bancari in genere, rappresenta invece un passo indietro la disposizione dell’art. 120-bis t.u.b. in confronto al previgente art. 10, co. 2, del decreto Bersani 1.

1. Per l’inclusione di tutti i contratti ad esecuzione differita nei «contratti di durata» trattati dall’art. 10, co. 2, decreto Bersani e per la sottolineatura di alcune novità dell’art. 125-sexies t.u.b. a favore del cliente, sia consentito rinviare a G. Mucciarone e Sciarrone Alibrandi, Il recesso del cliente dai contratti bancari dopo il d. lgs. n. 141/2010: questioni di coordinamento, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, I, rispettivamente, p. 48, nt. 31, e p. 49, nt. 33.

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Fatti e problemi della pratica

Del non lineare percorso legislativo in materia è pure esempio la normativa sulle operazioni di surroga «nei» finanziamenti bancari 2, necessarie in pratica per l’exit del cliente dai rapporti non di modesto importo. Tale disciplina, introdotta dall’art. 8 «decreto Bersani-bis» (d. lgs. n. 7/2007, conv. in l. n. 40/2007), dopo modifiche e aggiunte, rimaste anche esterne a tale corpo normativo, è stata quasi tutta raccolta, per opera del d. lgs. n. 141/2010, nell’art. 120-quater t.u.b. Nel faticoso travaglio sono stati progressivamente ridotti i costi per il finanziato dell’operazione di surroga. All’inizio imposta nei confronti del solo finanziatore originario (art. 8, co. 3, decreto Bersani-bis; vigente art. 120-quater, co. 3 e 6, T.UB.), la gratuità dell’operazione è stata poi estesa dalla Finanziaria 2008 anche nei confronti del finanziatore subentrante (co. 3-bis dell’art. 8 decreto Bersani-bis, introdotto dalla Finanziaria 2008; ora art. 120-quater, co. 4, t.u.b.); quindi, il «decreto Tremonti-bis» (d. lgs. n. 185/2008, conv. in l. n. 2/2009), per i finanziamenti «prima casa», ha ridotto i costi notarili (art. 2, co. 1-bis). L’anno dopo, però, il decreto Sviluppo ha ridotto pure l’ambito della normativa: limitandolo ai rapporti costituiti con persone fisiche e «microimprese» 3.

2.

Nel 2011 Nivarra, Lineamenti di diritto delle obbligazioni, Torino, p. 69, stima la «surrogazione per volontà del debitore … ipotesi … ben poco frequente nella prassi» e ciò – spiega – in ragione della «complessità della disciplina, unita alla circostanza che il terzo surrogato è, comunque, già creditore in virtù di un titolo contrattuale (il mutuo) che presumibilmente gli offre adeguate garanzie». La disciplina cui fa riferimento l’autore è quella dell’art. 1202 c.c.: la sola menzionata, appena prima dei brani riferiti. La valutazione della surroga ex art. 1020 c.c. come figura rara non sembrerebbe avere per orizzonte temporale l’attuale congiuntura, anche rispetto alla quale, d’altra parte, la stima parrebbe un po’ eccessiva. 3. Nella lett. a-bis del comma 9 dell’art. 120-quater, inserita dal decreto Sviluppo, la figura di «microimpresa» richiamata è quella definita dall’art. 1, co. 1, lett. t, d. lgs. n. 11/2010, di attuazione della direttiva n. 2007/64/CE sui servizi di pagamento. La disposizione richiamata a sua volta rinvia alla definizione di microimpresa data dalla raccomandazione n. 2003/361/CE. Questa stessa definizione si trova pure richiamata nelle Disposizioni di Banca d’Italia sulla trasparenza delle operazioni bancarie, ult. agg. Febbraio 2011, sez. I, § 3, che includono la figura della microimpresa tra i «clienti al dettaglio». La definizione della raccomandazione europea, in quanto tale, comprende anche le libere professioni come pure gli enti senza scopo di lucro che svolgano attività economica (artt. 2, co. 3, e 1 dell’allegato alla raccomandazione). La definizione europea di microimpresa non mantiene tutta la sua estensione in tutti e tre i contesti normativi italiani in cui è richiamata. La conserva nel contesto della disciplina dei servizi di pagamento (per conformità alla direttiva n. 2007/64/Ce, ciò vale, oltre che per la disciplina del tit. II del d. lgs. n. 11/2010, anche per quella di trasparenza confluita nel capo II-bis del tit. VI t.u.b. e nella sez. VI delle Disposizioni attuative di Banca d’Italia), ma non ai fini della nozione di cliente al dettaglio rilevante per la disciplina di trasparenza delle operazioni

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Nel tempo si sono predisposte anche specifiche misure volte a rendere effettiva la normativa, ad argine, in particolare, dell’ostruzionismo che il finanziatore originario può frapporre al compimento dell’operazione. A presidio della disciplina, il decreto Tremonti-bis (art. 2, co. 5-quater) ha richiamato la sanzione amministrativa pecuniaria dell’art. 144, co. 4, t.u.b.; il d. lgs. n 141/2010 l’ha poi sostituita con quella del co. 3-bis dell’art.144. Il «decreto Tremonti-ter» (d. lgs. n. 78/2009, conv. in l. n. 102/2009), inserendo un ulteriore periodo nel co. 5-quater dell’art. 2 del Tremontibis, ha aggiunto una penale a carico del finanziatore originario per il mancato perfezionamento della surroga nel termine prestabilito 4. La disposizione è risultata tra quelle più importanti in cui si articola la disciplina dell’operazione, quanto particolarmente problematica 5. Ne sono segno il considerevole contenzioso sviluppatosi davanti all’ABF e la circostanza che, in essere da quattro anni, è stata rivisitata già tre volte. Dapprima dal decreto 141, che, nel travasarla nell’art. 120-quater, co. 7, t.u.b. 6, in particolare (per quanto direttamente interessa l’interpretazio-

bancarie in genere, né per quella delle surroghe: la nozione di microimpresa, infatti, deve fare i conti, nella detta disciplina di trasparenza, con la contemporanea indicazione tra i clienti al dettaglio dei liberi professionisti e degli enti no profit; nell’art. 120-quater, co. 9, lett. a, con la distinta indicazione di ogni persona fisica. 4. La disposizione era così concepita: «Nel caso in cui la surrogazione del mutuo non si perfezioni entro il termine di trenta giorni dalla data della richiesta da parte della banca cessionaria alla banca cedente dell’avvio delle procedure di collaborazione interbancarie ai fini dell’operazione di surrogazione, la banca cedente è comunque tenuta a risarcire il cliente in misura pari all’1% del valore del mutuo per ciascun mese o frazione di mese di ritardo. Resta ferma la possibilità per la banca cedente di rivalersi sulla banca cessionaria nel caso il ritardo sia dovuto a cause imputabili a quest’ultima». Del fatto che il credito risarcitorio del cliente verso il finanziatore originario costituisca una penale in senso proprio - prestazione dovuta «in caso d’inadempimento … indipendentemente dalla prova del danno» (art. 1382 c.c.) - non si è mai dubitato nelle applicazioni dell’ABF. L’indipendenza del credito dalla sussistenza di un danno subito dal cliente a causa della tardiva surroga non solo è indicata dal perentorio tenore della norma («la banca è … tenuta a risarcire il cliente in misura pari…») ed in particolare dall’avverbio «comunque» (al riguardo v. anche infra, § 3), ma è pure la soluzione più coerente con la funzione della norma, di protezione del cliente. Sull’obbligo che la legge «presume» inadempiuto dal finanziatore originario (per causa a lui imputabile), v. infra, nt. 9. Sul fenomeno di astrazione causale cui dà luogo la «presunzione» di legge v. poi infra, nt. 20. 5 Trascura la disposizione Baratteri, Surrogazione e portabilità dei mutui, Torino, 2011. 6. Questa la versione originaria della disposizione inserita nel t.u.b.: «Nel caso in cui la surrogazione di cui al comma 1 non si perfezioni entro il termine di trenta giorni dalla

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ne di tale norma), ha eliminato l’espressione «interbancarie» che inizialmente connotavano le «procedure di collaborazione», la cui richiesta di avvio, rivolta dal finanziatore subentrante 7 al finanziatore originario 8,

data della richiesta dell’avvio delle procedure di collaborazione da parte del mutuante surrogato al finanziatore originario, quest’ultimo è comunque tenuto a risarcire il cliente in misura pari all’1 per cento del valore del finanziamento per ciascun mese o frazione di mese di ritardo. Resta ferma la possibilità per il finanziatore originario di rivalersi sul mutuante surrogato nel caso il ritardo sia dovuto a cause allo stesso imputabili». 7. Criticabile appare la circostanza che la disposizione dell’art. 120-quater tuttora continui a discorrere di «mutuante» subentrante: per quanto sia questa l’ipotesi normale, non si vede una ragione per cui la disciplina dell’art. 120-quater non dovrebbe valere anche per il caso in cui il finanziamento destinato all’estinzione di quello in essere assuma la natura dell’apertura di credito. 8. Se a seguito delle modifiche subite dall’art. 120-quater si sono eliminate le espressioni «cedente» e «cessionario», la disposizione prevede ancora, nel suo comma 3, che «La surrogazione di cui al comma 1 comporta il trasferimento del contratto, alle condizioni stipulate tra il cliente e l’intermediario subentrante». L’effetto qui descritto pare impossibile: come si è chiarito in dottrina, la surrogazione per volontà del debitore, cui espressamente si riferisce il comma 1 dell’art. 120-quater t.u.b., non può determinare un trasferimento del credito del finanziatore originario in favore del subentrante: il pagamento del finanziato determinando l’estinzione del credito (Dolmetta, Questioni sulla surrogazione per volontà del debitore ex art. 8 legge n. 40/2007 (c.d. <portabilità del mutuo>, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, I, p. 397 ss.). Senza contare che, per ammettere un trasferimento della posizione contrattuale, occorrerebbe immaginare che il secondo contratto di finanziamento (quello con il finanziatore subentrante), lungi dal costituire un nuovo rapporto, avrebbe l’efficacia di modificare il primo: il che, però, potrebbe avvenire solo dopo il completamento della surrogazione: sarebbe questa infatti a determinare il trasferimento del primo contratto; e prima della surroga che efficacia avrebbe il secondo contratto di finanziamento? Il comma 3, peraltro, deve pur avere un senso precettivo. E questo non può essere quello di «portare» le garanzie che assistevano il credito estinto al credito del finanziatore subentrante, poiché già il comma 2 prevede che «per effetto della surrogazione … il mutuante surrogato subentra nelle garanzie, personali e reali, accessorie al credito cui la surrogazione si riferisce». Per dare un significato al comma 3, si è ipotizzato (v. Lemma, sub art. 120-quater, in Commentario al testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, dir. da Capriglione, ed. 3, III, Padova, 2012, p. 1793) che la norma intenda stabilire che «il cliente conservi la piena opponibilità di tutte le eccezioni contrattuali», come quella di «una invalidità del contratto originario». L’effetto pare eccessivo. E d’altro canto nega, contro il testo di legge, che a regolare il rapporto tra finanziato e finanziatore subentrante siano «le condizioni [tra questi] stipulate». Forse, la norma potrebbe avere il senso di «trasferire» l’efficacia della «copia esecutiva» del contratto di finanziamento originario in favore del credito del finanziatore subentrante, almeno nei limiti di valore del credito originario: laddove, altrimenti, questo

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dava avvio al decorso del termine, di trenta giorni, per il perfezionamento dell’operazione. È stata la volta, poi, del decreto Sviluppo, che, da un lato, ha definito il tempo per il perfezionamento dell’operazione in giorni «lavorativi», dall’altro, ha sostituito al «valore del mutuo» il «debito residuo» nel ruolo di parametro patrimoniale della penale; inoltre, ha eliminato l’avverbio «comunque», che specificava la previsione che il finanziatore originario «è … tenuto a risarcire…». Sulla disposizione, infine, è ritornato il «decreto Cresci Italia» (d. lgs. n. 1/2012, conv. in l. n. 27/2012): con modifiche di dubbia portata ed ispirazione di fondo, a dispetto della difficoltà che, per la congiuntura, il settore delle surroghe sta già vivendo. Certo è chiara la previsione della riduzione del termine per il perfezionamento dell’operazione di surroga, da trenta giorni lavorativi a dieci giorni solari. Ed in sé tale modifica rappresenta un incremento di tutela del cliente. Peraltro, il rispetto del nuovo termine, nella prassi, non sarà agevole e ciò non pare nemmeno privo di rilievo in ordine al valore effettivo delle altre modifiche. Queste, comunque, già in sé considerate, è dubbio se o quanto avanzino o arretrino la tutela del cliente. Il dubbio non si pone solo per il secondo periodo del comma 7, nella parte in cui, tornato a prevedere che il finanziatore originario «è comunque tenuto» al risarcimento in caso di mancato perfezionamento nel termine, ha aggiunto: di mancato perfezionamento «per cause dovute al finanziatore originario». Il dubbio si pone anche per la parte in cui è tornato a definire il parametro patrimoniale della penale in termini di «valore del finanziamento».

estinto, la copia esecutiva perderebbe efficacia, né potrebbe giovare al finanziatore subentrante, titolare di un credito diverso. La lettura prospettata ben s’inquadrerebbe nella prospettiva di semplificazione della fattispecie e di riduzione dei costi pure coltivata dalla disposizione dell’art. 120-quater. D’altro canto, è questione assai sentita nella prassi (emersa, non affrontata, in ABF, Milano, n. 870/12) quella se il finanziatore subentrante abbia diritto ad avere dal finanziatore originario la copia esecutiva del contratto: diritto che certo non potrebbe sussistere se il finanziatore subentrante nemmeno avesse un interesse ad avere tale documento [per quanto non pare che, normalmente, potrebbe servire al finanziatore originario: il suo credito è stato già soddisfatto e, per esserne revocato il pagamento, il cliente dovrebbe fallire (artt. 2901, co. 3, c.c. e 67, co. 2, l. fall.), ma il fallimento comporta il «divieto» delle azioni esecutive individuali (art. 51 l. fal..), mentre il pagamento del debito (da finanziamento) fondiario (l’ipotesi corrente di finanziamento che si «chiude» mediante surroga) comunque non è revocabile (art. 39, co. 4, t.u.b.)]. Al riguardo v. anche infra, nt. 26.

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E perplessità suscita anche il primo periodo, che anticipa il dies a quo del termine per il perfezionamento dell’operazione dal momento della richiesta di collaborazione, avanzata dal finanziatore subentrante nei confronti di quello originario, al tempo della richiesta del (potenziale) cliente al finanziatore subentrante di domandare a quello originario l’importo del debito residuo a carico del cliente (i «conteggi»). Inoltre, le novità apportate non chiudono alcune questioni già proposte dalla precedente versione della disposizione, che pure rilevano per la definizione della intensità della tutela approntata per il cliente.

2. Rilevanza della richiesta di collaborazione avanzata dal cliente al finanziatore originario. Non pare rappresentare un effettivo incremento di tutela l’anticipazione del dies a quo del termine per il perfezionamento dell’operazione, dalla richiesta di collaborazione avanzata al finanziatore originario dal subentrante alla richiesta a questo rivolta dal cliente 9. Non è normale che il cliente abbia contezza della necessità di simile richiesta. Né che, avendola, intenda formularla, munendosi di adeguata prova, quando il finanziatore subentrante non sia pronto al perfezionamento dell’operazione: così condursi, infatti, vorrebbe dire, per il cliente, entrare in frizione proprio col soggetto da cui spera di ottenere un vantaggio. Perciò, il cliente formulerà la richiesta al finanziatore subentrante (se lo farà) non prima che questo lo riterrà per sé conveniente; e nel compiere questa valutazione, terrà conto che l’operazione dovrà «perfezionarsi» entro lo stretto termine di dieci giorni 10 e che, ove non si completasse in tem-

9. Tale richiesta è un incarico con rappresentanza in rem propriam. Darlo è imposto dalla norma dell’art. 1337 c.c.: senza di esso il finanziatore subentrante non potrebbe ottenere da quello originario i conteggi, dati personali al finanziato. Accettare l’incarico e portare a compimento l’operazione trovano disciplina, nell’an e nel quomodo in genere, nella stessa norma dell’art. 1337 c.c.: sarebbe assurdo pensare che la «richiesta» (appunto) del (potenziale) cliente, in quanto tale, possa obbligare l’intermediario ad agire, a prescindere pure dal momento in cui è formulata. L’art. 120-quater, comma 7, t.u.b. stabilisce il termine per l’adempimento, ove ex fide bona il finanziatore sia tenuto a portare a compimento l’operazione. Similmente, il dovere di collaborazione del finanziatore originario trova fondamento nell’art. 1375 c.c., dall’art. 120-quater ricavandosi solo il termine per l’adempimento. 10. La forte contrazione del termine è elemento ulteriore per escludere che, nel contesto dell’art. 120-quater, il «perfezionamento dell’operazione» richieda anche l’anno-

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po per causa a lui imputabile, dovrebbe rispondere, secondo le regole ordinarie (1218 c.c.), quantomeno nei confronti del cliente del danno causatogli dal ritardo 11. Il finanziatore subentrante, dunque, inviterà il cliente a formulare per iscritto la richiesta non prima di aver imbastito l’istruttoria ed essersi orientato a concedere il finanziamento, con riserva di conoscere l’esatto importo del credito del finanziatore originario 12. D’altro canto, la riduzione del termine a dieci giorni, e solari, proprio per il suo rigore, invece che esercitare una effettiva forza acceleratoria, potrebbe spingere ad un incremento di una certa prassi volta ad evitare, appunto, l’applicazione della regola della penale (e della rivalsa): si allude a quel modo di procedere adottato da alcune banche di «mandare avanti» il cliente a richiedere, lui, i conteggi al finanziatore originario; ipotesi, questa, in cui, ovviamente, non vi sarebbe traccia di una richiesta del cliente al finanziatore subentrante di domandare lui i conteggi. Questo modo di operare, nel vigore delle precedenti versioni della norma in interesse, era agevolato dalla circostanza che tali versioni in-

tazione della surroga a margine dell’iscrizione dell’ipoteca (propende per la contraria soluzione Petraglia, La surrogazione nei contratti di finanziamento, relazione tenuta nell’incontro di studio su Le novità per banche, intermediari e assicurazioni nel Decreto Liberalizzazioni, svoltosi a Milano il 10 Maggio 2011). L’annotazione può essere ottenuta dal subentrante sulla base della quietanza: il suo difetto non può legittimare il subentrante a pretendere dal finanziato l’immediata restituzione della somma prestata; sì che non si vede perché il finanziato dovrebbe essere protetto (ed avere diritto alla penale). Diversamente è a dirsi per la quietanza (senza la cui offerta contestuale al pagamento, peraltro, questo ben difficilmente sarà posto in essere; riguardo al dovere del finanziatore originario di prestarsi ad una «surroga trilatera», v. infra, nt. 26). L’art. 1202 c.c. la indica (con i requisiti di contenuto e forma qui previsti) come elemento necessario per il verificarsi della surroga (nel senso che sia sufficiente il pagamento qualificato dalla dichiarazione del finanziato di voler surrogare il finanziatore subentrante, tuttavia, Carpino, Del pagamento con surrogazione, in Commentario del codice civile ScialojaBranca, a cura di Galgano, Bologna-Roma, 1988, p. 64). Perciò, è onere del finanziato ottenerla e, in difetto, il finanziatore subentrante potrebbe richiedere il rientro immediato o, comunque, il finanziamento potrebbe prevedere l’applicazione di condizoni meno favorevoli finché non sia consegnata la quietanza. Sì che il suo mancato rilascio da parte del finanziatore originario potrebbe causare danno al cliente. Ed esclude dunque il perfezionamento della surroga agli effetti dell’art. 120-quater: per tale avviso ABF, Milano, n. 807/2011 (implicitamente); n. 1587/2011. 11. Per l’inapplicabilità analogica della regola della penale ex art. 120-quater, co. 7, II periodo, t.u.b. nei confronti del finanziatore subentrante, v. infra, nt. 28. 12. Né va trascurato che, normalmente, la prova della data della richiesta del cliente sarà rappresentata, nei confronti del finanziatore originario, dalla prova della data della richiesta dei conteggi a lui rivoltagli dal finanziatore subentrante.

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dividuavano il dies a quo del termine, si è ricordato, nella richiesta del finanziatore subentrante di avvio delle «procedure» di collaborazione, in origine pure dette «interbancarie». A questo modo di procedere un consistente e più recente orientamento dell’ABF aveva reagito equiparando la richiesta del finanziato a quella del finanziatore subentrante per lo più quando il primo risultasse agire d’accordo con il secondo 13 . Peraltro, tale orientamento non risulta incontrastato: altre decisioni addirittura avevano richiesto, per l’operare della penale, che il colloquio interbancario fosse avviato secondo l’apposita procedura messa a punto dall’ABI 14. Oggi, la richiesta dei conteggi direttamente rivolta dal cliente al finanziatore originario potrebbe apparire, ancor più di prima, un’ipotesi estranea all’applicazione della regola della penale. L’attuale tenore dell’art. 120-quater, co. 7, t.u.b. delinea come iter prodromico al perfezionamento dell’operazione la richiesta del cliente al finanziatore subentrante perché questo domandi i conteggi al finanziatore originario. A ben vedere, peraltro, la formulazione della norma offre anche un elemento di segno contrario: la disposizione non dice proprio più nulla sulle modalità della collaborazione della banca originaria. Ad ogni modo, ritenere che il caso in cui il cliente chieda lui al finanziatore originario i conteggi non sia soggetto alla norma della penale significherebbe non dare al cliente una buona tutela. La condotta del finanziatore subentrante di mandare avanti il cliente sarebbe certo scorretta (ex art. 1337 c.c.) e, per il caso in cui l’intermediario originario non rispondesse alla richiesta del cliente, questo acquisterebbe un credito risarcitorio nei confronti del finanziatore subentrante per il tempo perduto: credito che sarebbe pari quantomeno alla differenza tra gli interessi maturati a favore del finanziatore originario nel periodo del ritardo rispetto a quelli che il cliente avrebbe dovuto corrispondere al finanziatore subentrante. Ma ciò significherebbe porre in contrasto il cliente proprio con il finanziatore subentrante, cui si è rivolto per avere un trattamento (ritenuto) migliore rispetto a quello rappresentato dal

13.

V. così, in sostanza, ABF, Roma, n. 854/2011; Milano, n. 1587/2011; 2619/2011; n. 1707/2011; Napoli, n. 30/2012; n. 270/2012; n. 599/2012; Milano, n. 1895/2012. L’orientamento si basa sui rilievi che la presenza di un finanziatore subentrante rende possibile il rispetto del termine ed assicura che, ove il termine non sia osservato per causa non imputabile al finanziatore originario, questo potrà rifarsi sul finanziatore subentrante. Invece, ABF Milano, n. 204/12 non richiede neppure che al momento della richiesta risulti l’esistenza, dietro il finanziato, di un finanziatore interessato alla surroga. 14 ABF, Roma, n. 770/2010; Napoli, n. 1071/2010.

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finanziamento in essere. Comunque, si sarebbe vanificata l’applicabilità dell’art. 120-quater, co. 7, t.u.b. Perciò, la richiesta di collaborazione avanzata dal cliente parrebbe ancor oggi presupposto sufficiente per l’applicabilità della regola della penale: trattandosi della richiesta dei conteggi, anche quando, per vero, le modalità della stessa non dichiarino che il cliente agisce d’accordo col finanziatore subentrante. E ciò anche perché la richiesta del cliente al finanziatore originario esprime un interesse del cliente all’operazione ancor più forte di quello manifestato dalla richiesta rivolta al finanziatore subentrante: il cliente si fa direttamente carico dell’interlocuzione col finanziatore originario. Né pare che il finanziatore originario abbia un apprezzabile interesse a ricevere la richiesta dei conteggi dal finanziatore subentrante ovvero a che risulti che dietro il cliente v’è un finanziatore interessato alla surroga. Infatti, da un lato, fornire i conteggi per il pagamento, anche senza surroga, è, per sé, oggetto di un obbligo nei confronti del cliente (ex art. 1375 c.c.) 15. Dall’altro, non pare che, se la richiesta provenisse dal cliente senza che risultasse, in quel momento, il coinvolgimento di un finanziatore interessato alla surroga, quello originario correrebbe un rischio di dover pagare la penale apprezzabilmente più alto che se la richiesta venisse dal finanziatore subentrante 16. Infatti, o dietro il cliente, al tempo della sua richiesta al finanziatore originario, c’è comunque un finanziatore interessato al rifinanziamento o non c’è. E se non c’è, o non sopravviene, ed allora il finanziatore originario non pare che potrà essere tenuto alla penale, poiché questa non pare dovuta in caso di mancata surroga (v. infra, § 4). Oppure un finanziatore interessato alla surroga sopravviene e, se l’operazione si perfeziona in ritardo per il fatto che al tempo della richiesta non c’era ancora un interessato alla surroga, quello sopravvenuto, normalmente, avrà chiesto l’ulteriore collaborazione del

15.

Anche fornire il resto della collaborazione necessaria per il completamento di una surroga lo è, come già detto retro, nt. 9. Ma rispetto alla richiesta del cliente di fornire tale ulteriore collaborazione la buona fede può esigere che il cliente medesimo dia al finanziatore originario la possibilità quantomeno di controllare che esiste un finanziatore subentrante: ad esempio, non sarebbe corretto pretendere dal finanziatore originario di organizzarsi per partecipare ad una «surroga trilatera» senza che questi neppure conosca il nome del finanziatore subentrante. 16. Che è uno dei due rischi di cui giustamente intende tener conto l’orientamento incline ad equiparare alla richiesta del finanziatore subentrante quella del cliente solo quando questi risulti agire d’accordo col finanziatore subentrante, come risulta dal primo degli argomenti condotti a proprio favore: v. retro, nt. 13.

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finanziatore originario (il rilascio della quietanza ex art. 1202 c.c., almeno) per data successiva al termine di dieci giorni, ammesso pure che abbia emesso e recapitato la richiesta di cooperazione nel termine; e nei casi in cui la richiesta di collaborazione al finanziatore originario palesi essa stessa che il termine di legge non è stato rispettato, o non potrà esserlo, ugualmente il finanziatore originario non può essere tenuto alla penale 17. Come meglio si vedrà nel prossimo §.

3. Le cause di esclusione della penale. È opinione unanime che la disposizione contenuta nell’art. 120-quater, co. 7, t.u.b., nelle versioni anteriori a quella vigente, obbligasse il finanziatore originario alla penale per il caso in cui il ritardo fosse imputabile al finanziatore subentrante. Addirittura, è diffuso il convincimento che la disposizione prevedesse una «responsabilità oggettiva» del finanziatore originario nei confronti del cliente 18. Con riguardo alla versione vigente, invece, traendo forza dal nuovo inciso «per cause dovute al finanziatore originario», tra i primi commentatori si è sostenuto che, oggi, il finanziatore originario è tenuto alla penale solo quando il ritardo gli sia imputabile 19. Se era eccessivo ritenere che la penale fosse dovuta anche in ogni ipotesi in cui il ritardo fosse imputabile al finanziatore subentrante e pur

17 Perciò, se si esclude pure l’applicabilità dell’art. 120-quater, co. 7, t.u.b. alla mancata surroga, risulta evidente che il finanziatore originario neppure può correre un maggior rischio di dovere la penale senza potersi rifare sul finanziatore subentrante: l’altra esigenza considerata dall’orientamento in esame col secondo degli argomenti riferiti retro, nt. 13. 18. Ex multis, ABF, Milano, 1335/2010; Roma, n. 38/2011; Napoli, n. 225/2011; Milano, n. 425/2011; n. 807/2011; n. 1970/2011; n. 204/2012. V. peraltro anche ABF, Milano, n. 807/2011; n. 599/2012, che dopo aver affermato che «trattasi … di una sorta di responsabilità oggettiva, destinata ad insorgere per il solo fatto del ritardo, indipendentemente dalla sussistenza di dolo o colpa», aggiunge: «In realtà, più che di una vera e propria responsabilità oggettiva, si tratta di una sorta di presunzione di responsabilità in capo all’originaria mutuante». 19 Così, p. es., Petraglia, La surrogazione, cit. Fortemente dubbiosa sulla tenuta di questa lettura Sciarrone Alibrandi, La surrogazione nei contratti di finanziamento, relazione tenuta all’incontro di studio su Le novità per banche, intermediari e assicurazioni, cit.: in ragione del terzo periodo della disposizione e dello scopo di protezione del cliente, prorpio della norma.

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quando fosse dipeso da caso fortuito o forza maggiore, oggi pare eccessiva l’opposta interpretazione: che riduce la speciale portata precettiva della disposizione alla previsione di una penale, escludendo che essa concerna anche la fattispecie costitutiva della responsabilità del finanziatore originario. Pare invece ragionevole pensare che il finanziatore originario sia tenuto alla penale, in linea generale, anche per ritardo imputabile al finanziatore subentrante; e non lo sia quando il ritardo dipenda da caso fortuito/forza maggiore o da fatto imputabile - anche se solo in parte - al cliente; ed inoltre quando già la richiesta di collaborazione del finanziatore subentrante manifesti che l’operazione non potrà perfezionarsi nel termine. Va da sé che l’onere della prova della ricorrenza di una delle ipotesi appena indicate, cause impeditive della responsabilità del finanziatore originario, sarebbe a carico di questi (2697 c.c.). L’art. 120-quater, dunque, parrebbe continuare a «presumere» una «colpa» del finanziatore originario 20. La presunzione sarebbe quasi assoluta nei confronti del cliente: il finanziatore originario potrebbe provare, per evitare la penale, soltanto il fortuito/forza maggiore, il fatto del cliente, il fatto che già la richiesta di collaborazione del finanziatore subentrante non consentiva il rispetto del termine. La presunzione sarebbe compiutamente relativa nei confronti del finanziatore subentrante: ove a questo rimontasse il ritardo, dovrebbe rimborsare il finanziatore originario di quanto pagato al cliente a titolo di penale. Il testo del secondo periodo, nella parte in cui chiama a rispondere il finanziatore originario del ritardo «per cause dovute» a lui, in sé, non suggerisce la lettura prospettata; a rigore, però, non vi si oppone contraddicendola: esso infatti assicura solo che, qualora la causa del ritardo sia imputabile al finanziatore originario, questo è obbligato alla penale; non si occupa invece del caso in cui il ritardo non sia imputabile a tale soggetto e perciò non esclude che anche in alcune di queste ipotesi - quella, in generale, del fatto del finanziatore subentrante, secondo la lettura prospettata - il finanziatore sia tenuto alla penale. L’espressione «per cause dovute al finanziatore originario» può ben stare ad indicare che vi sono ipotesi in cui tale soggetto non risponde: a

20.

Rectius: la legge semplifica la fattispecie generale di responsabilità verso il danneggiato, dando luogo ad una astrazione causale: il finanziatore originario risponde verso il finanziato anche per il fatto del finanziatore subentrante. L’astrazione è relativa: il diritto di rivalsa evita ingiustificati arricchimenti.

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dare rilievo alle cause impeditive della responsabilità del finanziatore originario sopra indicate. Mentre l’avverbio «comunque», tornato nel testo della disposizione in esame, se anche nella mens legis si fosse riferito (anche o solo) alla fattispecie costitutiva della responsabilità, nella lettura qui prospettata è, a rigore, da riferirsi all’effetto: poiché la responsabilità non scatta per ogni ipotesi di ritardo, l’avverbio deve ritenersi volto a rimarcare che il debito risarcitorio è, appunto, una penale, dovuta a prescindere dalla ricorrenza di un danno. D’altro canto, l’avverbio è collocato all’interno del verbo che descrive l’effetto risarcitorio, non prima di esso. Costituisce invece un forte dato nel senso che il finanziatore non sia tenuto alla penale sol quando il ritardo gli sia imputabile, ma, in generale, pur quando sia imputabile al finanziatore subentrante, il terzo periodo della disposizione, rimasto immutato. Alla lettera, infatti, vi si prevede un diritto di «rivalsa» del finanziatore originario nei confronti del subentrante (anche) se la causa sia imputabile solo al finanziatore subentrante. Se davvero il legislatore avesse voluto escludere la responsabilità del finanziatore originario verso il finanziato in ogni caso in cui il ritardo non fosse dipeso da causa a lui imputabile, è ragionevole ritenere che sarebbe intervenuto anche su questo periodo della disposizione. D’altro canto, nel diritto applicato effettivamente circolavano, come accennato, interpretazioni eccessive. L’espressione «per cause dovute al finanziatore originarie» può ben aver inteso «correggere» tali interpretazioni. Così l’opinione secondo cui la responsabilità del finanziatore originario è oggettiva. Non si vede infatti perché tale soggetto dovrebbe sopportare il rischio puro che l’operazione non si perfezioni (per caso fortuito): questa, di norma, è in contrasto col suo interesse e la regola, al contrario, è che res perit domino (art. 1465 c.c.); ed inoltre, se il finanziatore subentrante dovesse sopportare le conseguenze del ritardo per fortuito nei confronti del cliente, dovrebbe subirle anche in confronto al finanziatore originario: il terzo periodo del comma 7 consente la rivalsa del primo sul secondo solo se il ritardo è a questo imputabile. Né si vede perché il finanziatore originario dovrebbe essere tenuto alla penale qualora il ritardo sia stato determinato da un suo comportamento 21: posto il principio dell’autoresponsabilità, espresso, tra l’altro, dalla norma dell’art. 1227 c.c.

21. Incidentalmente, pare negare l’applicazione della penale in quanto il ritardo era dipeso dal comportamento del cliente ABF, 2376/2011, in fine di motivazione.

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L’ulteriore ipotesi che l’espressione «cause dovute al finanziatore originario» pare escludere dall’ambito della penale, e cui precipuamente forse intendeva forse fare riferimento il legislatore storico, è quella in cui già la richiesta di collaborazione, proveniente dal finanziatore subentrante, manifesti la certezza che l’operazione si concluderà in ritardo. Così quando si richiedano i conteggi, se non pure la disponibilità a prendere parte agli atti costitutivi dell’operazione 22, per data successiva al termine. L’ipotesi è ben nota alla prassi ed anche all’ABF, che l’ha inclusa, nel regime previgente, nell’ambito di applicazione della disposizione 23. La norma, però, nel «presumere» la responsabilità del finanziatore originario, non poteva – e non potrebbe oggi – che presupporre che in concreto potesse darsi tale responsabilità e, quindi, che, nel richiedere la collaborazione del finanziatore originario, si rendesse almeno possibile il perfezionamento dell’operazione nel termine. Certo, non solo le considerazioni storico-sistematiche, ma pure quella, da queste presupposta, del terzo periodo del comma 7 dell’art. 120-quater, non sono decisive per negare che il secondo periodo costituisca il debito della penale soltanto per il caso in cui (la causa de) il ritardo sia imputabile al finanziatore originario. In effetti, si è pure sostenuto 24 che il terzo periodo prevede soltanto un diritto di regresso parziale e (dunque) unicamente per il caso in cui il ritardo sia dipeso da «cause dovute» ad entrambi i finanziatori; e così ridotto l’ambito della «rivalsa», ritorna possibile ritenere che la penale è esclusa ogni volta che la causa del ritardo non è imputabile al finanziatore originario 25.

22

Su questo punto v. retro, nt. 10. V. ABF, Roma, n. 1970/2011; Napoli, n. 2376/2011; Roma, n. 631/2012. 24 Petraglia, La surrogazione, cit. 25 La tesi in discorso prosegue affermando che sarebbe onere del cliente provare che il ritardo deriva da «causa dovuta» al finanziatore originario. Tale distribuzione degli oneri probatori, anche ad ammettere – per ipotesi – che l’ambito della penale sia ridotto al caso del ritardo «dovuto» al finanziatore originario, non sarebbe accettabile: addirittura il cliente verrebbe caricato della prova non solo dell’inadempimento del finanziatore originario al proprio obbligo di collaborare per il perfezionamento della surroga, ma pure della dimostrazione che l’inadempimento è derivato da causa non imputabile al finanziatore originario; il cliente sarebbe dunque trattato peggio del creditore in genere (cfr. gli artt. 1218 e 2697 c.c.), laddove la norma dell’art. 120-quater, co. 7, resta pur sempre diretta a proteggere il cliente dall’ostruzionismo del finanziatore originario (v. infra, nel testo). 23

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Fatti e problemi della pratica

Pur a voler accettare tale forzatura del tenore del terzo periodo, tuttavia, la lettura in discorso confinerebbe la relativa regola in uno spazio angusto assai, mi pare, ed in pratica marginale: per la sua applicazione bisognerebbe prestare all’ipotesi, di certo non frequente, in cui, fissata la data per il compimento di una surroga trilaterale davanti a notaio, né il finanziatore originario né il subentrante si presentassero. Le ipotesi in cui il ritardo nel perfezionamento della surroga (normale causa di danno) può derivare, ex art. 1223 c.c., da un inadempimento sia del finanziatore originario sia del subentrante non paiono molte. Fuori dal genere di caso ipotizzato, il ritardo rispetto al termine di dieci giorni e poi rispetto allo spirare di ciascun mese deriverà (se non da un inadempimento del cliente o dal caso fortuito/forza maggiore) o dall’inadempimento del finanziatore originario o da quello del finanziatore subentrante agli obblighi che su ciascuno incombono di fare quanto necessario per il perfezionamento dell’operazione: esemplificando un poco, se il finanziatore subentrante non richiederà la collaborazione di quello originario in tempo perché l’operazione si possa concludere nell’arco dei dieci giorni, il ritardo sarà causato dall’inadempimento del primo; altrimenti, se il finanziatore originario non comunicherà tempestivamente i conteggi, il ritardo deriverà dal suo inadempimento; e se, comunicati i conteggi sia pure dopo i dieci giorni, il finanziatore subentrante non darà ulteriore impulso (ove necessario) all’iter per il perfezionamento della surroga, questo ulteriore ritardo sarà determinato dal suo inadempimento; e così via. D’altro canto è anche più coerente con la funzione della norma ritenere che la penale sia dovuta, in generale, pure per il caso in cui il ritardo sia imputabile solo al finanziatore subentrante, salva integrale rivalsa su questo da parte del finanziatore originario: la norma, al di là delle più recenti «correzioni», resta pur sempre destinata, nella sua linea di fondo, a proteggere il cliente dall’ostruzionismo del finanziatore originario: come attestano sia il contesto normativo cui essa appartiene (v. retro, § 1), sia la liquidazione forfettaria (e considerevole) del danno, sia ancora la contrazione del termine per l’effettuazione dell’operazione (v. retro, § 2).

E poiché tra i tre soggetti coinvolti nell’operazione il cliente è quello che meno agevolmente può disporre della prova della causa del ritardo, più coerente con il genere di scopo perseguito dalla norma comunque sarebbe porre l’onere della prova circa la causa del ritardo sul finanziatore originario: ritenere che sia questi a dover provare il proprio adempimento ovvero la non imputabilità a sé del proprio inadempimento.

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4. L’ipotesi della mancata surroga. Tra le questioni rilevanti per la definizione della dimensione della tutela offerta al cliente con la disposizione dell’art. 120-quater, co. 7, t.u.b. 26 è stata lasciata irrisolta dal decreto Cresci Italia quella dell’operatività della norma nel caso in cui la surroga non si sia perfezionata. L’ABF l’ha ammessa con riguardo alla versione previgente della disposizione, questa ricostruita, in conformità con l’orientamento corrente, come previsione di una «responsabilità oggettiva» del finanziatore originario verso il finanziato 27. Pur leggendo la vecchia e la nuova disposizione nei termini, meno severi, indicati nel precedente §, cioè come previsione di una responsabilità del finanziatore originario per ritardo derivante da causa imputabile a lui ovvero pure (in generale) al subentrante, con onere del primo soggetto di provare una causa di esclusione della responsabilità, non pare – lo si è anticipato retro, § 2 – che la norma possa valere per il caso di mancata surroga. Perché l’estensione della norma del comma 7 nella sua interezza, forse ancora possibile per via di interpretazione, comunque non pare coerente con la ratio legis. Nel caso di surroga tardiva, la norma «presume» che il ritardo sia dovuto al finanziatore originario, rendendo irrilevante, in rapporto al finanziato, il fatto che, invece, il ritardo è dipeso dal subentrante. La «presunzione» si fonda sulla doppia circostanza che il finanziatore subentrante,

26. Riguardo al profilo, estraneo a tale prospettiva, della ripartizione della responsabilità tra le due banche, pare utile notare che, tra le specifiche cause di ritardo, si registra il rifiuto del finanziatore originario di partecipare ad una «surroga trilaterale». Secondo ABF, Milano, n. 870/2011, il rifiuto sarebbe scorretto. L’assunto pare da accogliersi se il finanziatore subentrante ha proposto all’originario che la surroga si svolga presso la filiale in cui è localizzato il rapporto del secondo con il cliente: il finanziatore originario non è tenuto ad accettare il pagamento in un luogo diverso (artt. 1182, 1843 c.c.). Altra causa di ritardo, riscontrata nella prassi, è il rifiuto del finanziatore originario di consegnare al subentrante la propria copia esecutiva del contratto di finanziamento: al riguardo, v. retro, nt. 8. 27. ABF, Milano, n. 204/2012, che ha giudicato un caso di mancata surroga all’origine della quale pare vi fosse il ritardo del finanziatore originario nel fornire i conteggi, cui poi sono seguite forse anche inefficienze del finanziatore originario, finché, comunque, non è scaduto il termine di efficacia della delibera di concessione del finanziamento. La decisione ha ragguagliato la penale al tempo intercorso tra il termine non rispettato ed il momento in cui «era ormai chiaro che l’operazione non si sarebbe perfezionata», individuato in quello del reclamo.

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Fatti e problemi della pratica

di regola, ha interesse ad impedire il perfezionamento della surroga, al contrario del finanziato e del subentrante 28, e che la surroga vi è stata: il che conferma come probabile che finanziato e subentrante, in concreto, vi avevano interesse e, perciò, che il ritardo sia dipeso da ostruzionismo del finanziatore originario. Già per questo l’ipotesi della mancata surroga non pare analoga a quella della surroga tardiva. Certo, è ben possibile che la mancata surroga sia derivata dall’ostruzionismo del finanziatore originario, come pare sia avvenuto nel caso sottoposto al vaglio dell’ABF. Ma nel caso di surroga tardiva v’è un fatto, la surroga avvenuta appunto (sia pure in ritardo), che conferma l’ostruzionismo del subentrante; invece, se la surroga non si è perfezionata, ciò non può confermare come probabile che sia dipeso dal finanziatore originario: mancando la surroga, non v’è conferma che finanziato e subentrante vi avessero interesse. D’altro canto, l’ammontare della penale è commisurato al «ritardo»: perché il danno subito dal cliente, tipicamente, è commisurato al ritardo tra il termine non osservato e il momento della surroga. Nel caso di mancata surroga, invece, non v’è un ritardo cui rapportare la penale 29.

5. Il parametro patrimoniale della penale. Altra questione non chiaramente risolta dal decreto Cresci Italia è quella dell’esatta consistenza del parametro patrimoniale cui va rapportata la penale, ora indicato come «valore del finanziamento». Uno dei due profili di cui la questione si compone, anzi, è stato complicato dal decreto. Si allude al momento rilevante per la determinazione del capitale ancora dovuto: posto che tra la richiesta del cliente al finanziatore su-

28. Giustamente, dunque, si è esclusa l’applicazione della norma dell’art. 120-quater, co. 7, t.u.b. in confronto al subentrante: ABF, Napoli, n. 1616/2011; di nuovo, ABF, Milano, n. 204/2012. Né, contro il finanziatore subentrante, si giustificherebbe l’estensione analogica della sola regola della penale, una volta che il cliente avesse assolto l’onere della prova dell’imputabilità al subentrante del ritardo nella surroga: la previsione della penale, «pena privata» in quanto dovuta indipendentemente dalla prova del danno del finanziato, serve da deterrente nei confronti del finanziatore originario in quanto soggetto normalmente controinteressato al perfezionamento della surroga. 29. Pertanto, neppure potrebbe pensarsi di estendere solo la regola della penale al caso di mancata surroga imputabile al finanziatore originario, lasciando la prova di ciò a carico del cliente.

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bentrante e la richiesta al finanziatore originario dei conteggi, il cliente potrebbe aver ridotto la propria esposizione; e poi potrebbe averla ridotta tra la richiesta e il pagamento (con surroga) estintivo dell’intero debito; e la riduzione potrebbe essere avvenuta prima dello spirare del termine di dieci giorni ovvero nel tempo del ritardo. Sì che, oggi, si danno anzitutto tre possibilità riguardo al momento al quale fare riferimento per la quantificazione del capitale «residuo»: prendere in considerazione il tempo della richiesta del cliente al finanziatore subentrante; oppure il momento in cui il finanziatore subentrante (ovvero il cliente: v. retro, § 2) ha richiesto i conteggi al finanziatore originario; od ancora il tempo in cui viene estinto integralmente il debito. Quest’ultima soluzione favorirebbe proprio il soggetto – il finanziatore originario – che la norma tiene responsabile nei confronti del cliente: perciò, è da escludere. La prima soluzione, d’altro canto, lo penalizzerebbe altrettanto ingiustificatamente: finché non riceve la richiesta dei conteggi, il finanziatore originario non può considerarsi inadempiente. Peraltro, anche la seconda soluzione – quella del tempo della richiesta dei conteggi – non sfugge ad ogni incongruenza: non pare ragionevole computare nel capitale residuo la quota che sia stata pagata nel termine di dieci giorni, perché fin quando non sia spirato tale termine non è dovuta la penale. Perciò, sembrerebbe che il capitale residuo di cui tener conto sia quello dovuto al momento della richiesta del cliente, sottratto della parte eventualmente restituita nel termine di dieci giorni. L’altro profilo di cui si compone il problema della definizione del parametro patrimoniale della penale è se questa debba calcolarsi solo sul capitale residuo ovvero pure sugli interessi maturati (pare, date le osservazioni già svolte) tra la scadenza del termine di dieci giorni al saldo. L’espressione «valore del finanziamento», come quella «valore del mutuo» utilizzata già nella prima versione della norma, fanno inclinare per il primo termine dell’alternativa. E questa è la soluzione data per scontata da diverse decisioni dell’ABF, che, applicando la norma nella sua versione originaria, indicano la base di calcolo della penale nel solo «capitale residuo» 30. Tale soluzione oggi risulta rafforzata dall’evoluzione subita dalla norma sul punto in interesse: la formula «debito residuo del finanziamento»,

30. ABF, Roma, n. 1195/2010; 38/2011; Milano, n. 425/2011; Roma, n. 2357/2011; Milano, n. 599/2012.

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Fatti e problemi della pratica

introdotta dal decreto Sviluppo, era più aperta ad includere anche gli interessi maturati nella base di calcolo della penale; e tale formula il decreto Cresci Italia ha ritenuto di sostituire di nuovo con l’attuale, appunto, più stretta. Comunque, non pare ragionevole calcolare la penale anche computando gli interessi maturati dopo il termine di dieci giorni perché la penale, nella sua componente risarcitoria, serve a ristorare il cliente, di norma, anzitutto della perdita pari alla differenza tra gli interessi pagati al finanziatore originario nelle more e quelli, d’ammontare inferiore, che il cliente avrebbe dovuto corrispondere al finanziatore subentrante se l’operazione di surroga si fosse tempestivamente perfezionata, questo essendo il danno (si è già rilevato retro, § 2) che normalmente il cliente subisce a causa del ritardo nell’attuazione della surroga.

6. Sulla risarcibilità del danno ulteriore. Per definire l’intensità della tutela accordata al cliente dall’art. 120-quater, co. 7, t.u.b. deve ancora considerarsi il problema se il finanziatore originario sia tenuto al risarcimento del danno ulteriore rispetto a quello già ristorato dalla penale. Un orientamento dell’ABF è per la soluzione negativa 31. La soluzione non persuade. Non vale a convincere l’osservazione – formulata a proprio favore da detta opinione – che la norma dell’art. 1382, co. 1, c.c. esclude, salvo patto contrario, la risarcibilità del danno ulteriore. Lasciando intendere che questa norma esprimerebbe la regola sul rapporto tra penale e risarcimento del maggior danno, da applicarsi anche nel caso di penale ex lege: sì che, in ogni ipotesi del genere, la responsabilità per il maggior danno richiederebbe una specifica norma che la prevedesse, come quella dell’art. 1224, co. 1 (I parte), c.c. Non pare corretto ritenere l’art. 1382 la regola e l’art. 1224 una deroga con riguardo alle penali stabilite dalla legge. Più precisamente, non sembra che l’esclusione della risarcibilità del maggior danno, prevista dall’art. 1382 c.c., possa estendersi alle penali di legge: la norma pare da circoscriversi alle penali ex pacto; rispetto a queste, infatti, si comprende la ratio dell’art. 1382: pare normale che, nel definire la penale, le parti abbiano tenuto conto (quantomeno) dei danni prevedibili al momento

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ABF, Milano, n. 270/2012.


Gianluca Mucciarone

della conclusione del contratto e la responsabilità contrattuale non comprende i danni imprevedibili (salvo il caso di dolo; art.1225 c.c.). Nel caso di penale stabilita dalla legge non può presumersi che questa abbia tenuto conto di tutti i danni prevedibili nel caso concreto. D’altro canto, la regola è quella che il debitore è tenuto a risarcire tutti i danni (prevedibili) subiti dal creditore per effetto (diretto) dell’inadempimento. Perciò, in caso di penale di legge, pare piuttosto che sia l’art. 1224, co. 1 (I parte) ad esprimere la regola in ordine alla risarcibilità del danno ulteriore 32.

Gianluca Mucciarone

32.

Pare appena il caso di precisare che il credito del cliente verso il finanziatore originario al risarcimento del maggior danno trova fondamento non nella norma dell’art. 120-quater, co. 7, t.u.b. (limitata alla penale), ma in quella dell’art. 1218 c.c. (al riguardo v. anche retro, nt. 9): con ogni conseguenza in punto di onere della prova.

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autori

David García Bartolomé, prof. investigador de Derecho procesal nell’Universidad Autónoma de Madrid Emilio Beltrán, catedrático de Derecho mercantil nell’Universidad Ceu San Pablo de Madrid Lucia Calvosa, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Pisa (Economia) Vincenzo Caridi, dottore di ricerca (Università di Siena) Giuseppe Leonardo Carriero, primo avvocato cassazionista presso la Banca d’Italia Marcello Clarich, prof. ord. di Diritto amministrativo nell’Università LUISS Guido Carli di Roma (Giurisprudenza) Renzo Costi, già prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Bologna (Giurisprudenza) Giovanni Falcone, responsabile uff. legale Banca popolare di Lanciano e Sulmona Pasqualina Farina, ricercatrice di Diritto processuale civile nell’Università La Sapienza di Roma (Giurispudenza) Marco Fratini, funzionario Consob Enrico Galanti, avvocato presso la Banca d’Italia Francisco León Sanz, catedrádico de Derecho mercantil nell’Universidad de Huelva Mario Libertini, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Giurisprudenza) Eugenia Macchiavello, dottore di ricerca (Università di Genova) Vincenzo Meli, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Palermo Fabio Merusi, già prof. ord di Diritto amministrativo nell’Università di Pisa (Giurisprudenza) Simone Mezzacapo, ricercatore di Diritto dell’economia nell’Università di Perugia (Economia) Umberto Morera, prof. ord. di Diritto dell’economia nell’Università Tor Vergata di Roma (Economia) Gianluca Mucciarone, ricercatore di Diritto dell’economia nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Scienze bancarie, finanziarie e assicurative)


Alessandro Nigro, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Stefania Pacchi, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Siena (Giurisprudenza) Donato Ivano Pace, dottore di ricerca (Università di Siena) Giuseppe Alberto Rescio, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (Giurisprudenza) Giovanni Romano, dottorando di ricerca (Università di Siena) Maria Alessandra Sandulli, prof. ord. di Diritto amministrativo nell’Università Roma Tre (Giurisprudenza) Vittorio Santoro, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Siena (Giurisprudenza) Daniele Vattermoli, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia)


Indici dell’annata PARTE PRIMA SAGGI Beltrán Emilio, Reflexiones sobre la reforma de la ley concursal española Carriero Giuseppe Leonardo, Discrezionalità amministrativa e mercati finanziari Costi Renzo, L’ambiguo ruolo delle fondazioni bancarie Falcone Giovanni, Attività bancaria e pratiche commerciali scorrette: una prima lettura delle recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali Falcone Giovanni, Modifica e revisione dei piani attestati e degli accordi di ristrutturazione Farina Pasqualina, Uso (e abuso) della tutela cautelare nell’istruttoria prefallimentare León Sanz Francisco, La reestructuración de las cajas de aborro en la crisis del sistema financiero español Libertini Mario, Regolazione e concorrenza nei servizi di pagamento Macchiavello Eugenia, La regolazione della microfinanza tra equità ed efficienza Meli Vincenzo, Principio di specialità e applicabilità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette nel settore del credito Merusi Fabio, Contro la banca universale e la contabilità di Stato bancaria Mezzacapo Simone, I nuovi “poteri speciali” del Governo italiano sulle attività d’impresa e sugli assets di rilevanza strategica” (per il sistema di difesa e sicurezza nazionale, nonché per i settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni) Morera Umberto, Sul concetto di “chiarezza” nei rapporti bancari Pacchi Stefania - Bartolomé David García, La intervención y los “poderes de disposición” del Ministerio fiscal en el proceso concursal italiano y español Pacchi Stefania, L’esecuzione del concordato preventivo con cessione dei beni e di risanamento

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Indici dell’annata

Pace Donato Ivano, I sistemi organizzati di negoziazione nella proposta di revisione della MiFID: un primo raffronto con le altre sedi di negoziazione Rescio Alberto Giuseppe, L’apporto a fondo immobiliare Romano Giovanni, La funzione della disclosure nella disciplina degli interessi degli amministratori di S.p.A. Santoro Vittorio, I limiti del mercato e il fallimento della regolamentazione

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COMMENTI Caridi Vincenzo, Fondamento ed ambito della legittimazione del curatore ad agire in responsabilità contro gestori e controllori della società fallita (tra lacune normative di diritto societario e principi fallimentari) Nigro Alessandro, Sanzioni della Consob e giurisdizione – osservazioni a TAR Lazio, 9 maggio 2011, n. 3034 e App. Torino, 25 marzo 2011 Vattermoli Daniele, Concorso ed autonomia privata nel concordato preventivo di gruppo

FATTI E PROBLEMI DELLA PRATICA Intorno alla crisi economica: fra diritto, finanza ed etica – intervista a Lucia Calvosa Mucciarone Gianluca, Sulla surroga nei finanziamenti bancari non perfezionati nel termine (art. 120-quarter, co. 7, t.u.b., modificato dalla l. n. 27/2012)

DIBATTITI Le sanzioni amministrative pecuniarie nelle attività finanziarie – Incontro di studio del 10 maggio 2012, con interventi di Giuseppe Leonardo Carriero, Marcello Clarich, Marco Fratini, Enrico Galanti, Umberto Morera, Alessandro Nigro, Alessandra Sandulli, Vittorio Santoro

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Indici dell’annata

INDICE ANALITICO DELLE DECISIONI Concordato preventivo Concordato preventivo – Gruppo di società – Ricorso per l’accesso alla procedura unico per tutte le società del gruppo – Ammissibilità Concordato preventivo – Gruppo di società – Riunione in un’unica massa passiva dei patrimoni delle società del gruppo – Ammissibilità Fallimento Fallimento – Segnalazione al pubblico ministero dello stato di insolvenza da parte del giudice che l’abbia rilevata in un procedimento civile – Conseguente dovere per il pubblico ministero di richiedere la dichiarazione di fallimento ai sensi degli art. 6 e 7 l. fall. – Sussistenza Fallimento – Richiesta da parte del pubblico ministero della dichiarazione di fallimento ex art. 6 l. fall. – Facoltà per il pubblico ministero di rinunciare alla richiesta – Sussistenza Pratiche commerciali scorrette Pratiche commerciali scorrette – Credito al consumo – Applicabilità del codice del consumo – Competenza dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato a irrogare le relative sanzioni – Sussistenza Pratiche commerciali scorrette – Credito al consumo – Contratti di finanziamento per l’acquisto di beni di consumo mediante apertura di carta di credito – Obbligo di informativa espressa sulla modalità di erogazione del finanziamento – Contestuale contatto di assicurazione – Obbligo di informativa espressa circa l’accessorietà e facoltatività del medesimo – Violazione di tali obblighi – Scorrettezza delle pratiche commerciali – Sussistenza Sanzioni amministrative irrogate dalla Consob Sanzioni amministrative irrogate dalla Consob – Opposizione – Art. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c), 135, co. 1, lett. c) d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, che attribuiscono la giurisdizione al giudice amministrativo – Illegittimità costituzionale – Manifesta infondatezza Sanzioni amministrative irrogate dalla Consob – Opposizione – Art. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c), 135, co. 1, lett. c) d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, e art. 4. co. 1, n. 19 dell’allegato che attribuiscono la giurisdizione al giudice amministrativo – Illegittimità costituzionale – Rilevanza e non manifesta infondatezza – Sussistenza

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Sanzioni amministrative irrogate dalla Consob – Opposizione – Art. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c), 135, co. 1, lett. c) d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 – Art. 4, co. 1, n. 19, allegato al n. 4 al d.lgs. n. 104 del 2010 – Illegittimità costituzionale Società a responsabilità limitata Società a responsabilità limitata – Fallimento Azione di responsabilità spettante ai creditori zione del curatore - Sussiste Società a responsabilità limitata – Fallimento Azione di responsabilità spettante ai creditori zione del curatore – Sussiste

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– Amministratori – sociali – Legittima– Amministratori – sociali – Legittima-

INDICE CRONOLOGICO DELLE DECISIONI 2010 Cass., 21 luglio 2010, n. 17121 2011 Trib. Milano, 18 gennaio 2011 App. Torino, 25 marzo 2011 TAR Lazio, 9 maggio 2011, n. 3034 Trib. Firenze, 28 settembre 2011 2012 Trib. Benevento, 18 gennaio 2012 Cons. St., Ad plen., 11 maggio 2012, n. 14 Cass., 14 giugno 2012, n. 9781 Corte Cost. 27 giugno 2012, n. 162

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PARTE seconda Legislazione, documenti e informazioni



documenti e informazioni

Le tappe verso l’Unione bancaria Pubblichiamo la comunicazione della Commissione europea al Parlamento ed al Consiglio, intitolata «Una tabella di marcia verso l’Unione bancaria». Si tratta di un documento di estremo interesse, che delinea il programma di azione delle istituzioni comunitarie per il conseguimento dell’obiettivo della creazione di un’Unione bancaria, la quale – si sottolinea nel documento – «consenta di rinsaldare le basi del settore bancario e ripristinare la fiducia nell’euro, in una prospettiva a più lungo termine di integrazione economica e di bilancio». Molti saranno i passaggi da compiere: fondamentale, comunque, è l’accentramento della vigilanza bancaria a livello europeo, che è probabilmente il più delicato – in termini politici – dei profili coinvolti. [Nota redazionale] Commissione europea – Comunicazione 12 settembre 2012 al Parlamento europeo ed al Consiglio, recante una tabella di marcia verso l’Unione bancaria.

1. Introduzione. Negli ultimi quattro anni l’Unione europea ha risposto in modo determinato alla crisi economica e finanziaria: significativi progressi sono stati compiuti nella realizzazione dell’Unione economica e monetaria (UEM) e un programma di sostanziali riforme finanziarie è in corso di attuazione, nel rispetto degli impegni assunti in risposta alla crisi finanziaria nel quadro del G20, miranti a rendere gli istituti e i mercati finanziari più stabili, più competitivi e più resilienti 1.

1

http://ec.europa.eu/internal market/finances/policy/map_reformen.htm

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Documenti e informazioni

Il completamento della riforma del quadro normativo dell’UE, pur essenziale, non sarà sufficiente per affrontare efficacemente alcune gravi minacce che pesano sulla stabilità finanziaria nell’Unione economica e monetaria. Sono necessari ulteriori misure per far fronte ai rischi specifici della zona euro, in cui l’accentramento delle competenze in materia di politica monetaria ha stimolato una forte integrazione economica e finanziaria e accresciuto la possibilità di effetti di ricaduta transfrontaliera in caso di crisi bancarie, e per spezzare il legame tra debito sovrano e debito bancario e il circolo vizioso che ha portato ad una situazione tale per cui è stato necessario utilizzare 4,5 mila miliardi di euro dei contribuenti per salvare le banche dell’UE. La crisi ha tuttavia dimostrato che, sebbene essenziale, il semplice coordinamento tra le autorità di vigilanza non è sufficiente, in particolare nel contesto della moneta unica. E pertanto necessario un meccanismo decisionale comune. E altresì essenziale contenere il crescente rischio di frammentazione dei mercati bancari dell’UE, che compromette gravemente il mercato unico dei servizi finanziari e ostacola l’effettiva trasmissione della politica monetaria all’economia reale in tutta la zona euro. La Commissione ha pertanto invitato 2 alla creazione di un’Unione bancaria, che consenta di rinsaldare le basi del settore bancario e ripristinare la fiducia nell’euro, in una prospettiva a più lungo termine di integrazione economica e di bilancio. Elemento fondamentale di tale processo è il trasferimento della vigilanza bancaria a livello europeo, un passo che dovrà essere poi seguito da altre misure, quale la creazione di un sistema comune di garanzia dei depositi e di una gestione integrata delle crisi bancarie. Nella loro relazione del 26 giugno 2012 3 il Presidente del Consiglio europeo, il Presidente della Commissione, il Presidente dell’Eurogruppo e il Presidente della Banca centrale europea hanno appoggiato tale visione. Il Parlamento europeo, da parte sua, ha raccomandato misure che vanno nella stessa direzione, ad esempio nella relazione del luglio 2010 sulla gestione delle crisi transfrontaliere nel settore bancario 4, un orientamento che è stato confermato anche dal vertice della zona euro del 29 giugno 2012 5.

2 http://ec.europa.eu/commission_2010-2014/president/news/archives/2012/06/20120626_ speeches_2_en.htm. 3. http://vvww.consilium.europa.eu/uedocs/cms data/docs/pressdata/it/ec/131298.pdf. 4. Risoluzione del Parlamento europeo del 7 luglio 2010 recante raccomandazioni alla Commissione sulla gestione delle crisi transfrontaliere nel settore bancario (2010/2006 (INI)). 5. La Commissione presenterà a breve proposte relative a un meccanismo di vigilanza

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Le tappe verso l’Unione bancaria

Garantendo elevati livelli di vigilanza bancaria e di risoluzione delle crisi bancarie nella zona euro, i cittadini e i mercati vengono rassicurati sul fatto che tutte le banche sono soggette ad una regolamentazione prudenziale di elevato livello applicata uniformemente. In futuro il pubblico deve avere la certezza che le banche in difficoltà saranno ristrutturate o liquidate con il minimo di costi a carico del contribuente. Questo futuro sistema contribuirà a creare la fiducia necessaria tra gli Stati membri, presupposto per l’introduzione di meccanismi finanziari comuni di tutela dei depositanti e di sostegno alla risoluzione ordinata delle crisi che toccano le banche in difficoltà. La presente comunicazione accompagna due proposte legislative che prevedono rispettivamente la creazione di un meccanismo di vigilanza unico con l’attribuzione alla BCE di specifici compiti in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi e la modifica del regolamento istitutivo dell’Autorità bancaria europea (EBA) 6. Queste proposte legislative segnano un importante primo passo che apporterà un miglioramento qualitativo in termini di stabilità finanziaria e di fiducia, in particolare nella zona euro. La presente comunicazione descrive il contesto in cui si inserisce il meccanismo di vigilanza unico e delinea la tabella di marcia verso l’Unione bancaria al di là di queste prime proposte.

2. L’Unione bancaria e il mercato unico. Il mercato unico dei servizi finanziari è basato su norme comuni che assicurano che le banche e altri istituti finanziari che, a norma del trattato, godono della libertà di stabilimento e di prestazione di servizi siano soggetti a norme equivalenti e ad una vigilanza adeguata in tutta l’UE.

unico fondate sull’articolo 127, paragrafo 6. Chiediamo al Consiglio di prenderle in esame in via d’urgenza entro la fine del 2012. Una volta istituito, per le banche della zona euro, un efficace meccanismo di vigilanza unico con il coinvolgimento della BCE, il MES potrà avere facoltà, sulla scorta di una decisione ordinaria, di ricapitalizzare direttamente gli istituti bancari. Questa procedura si baserà su un’appropriata condizionalità, ivi compresa l’osservanza delle regole sugli aiuti di Stato, che dovrebbe essere specifica per ciascun istituto, specifica per settore ovvero applicabile a tutta l’economia e sarà formalizzata in un memorandum d’intesa”. http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms data/docs/pressdata/it/ec/131359.pdf. 6 Regolamento (UE) n. 1093/2010.

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Documenti e informazioni

La creazione dell’Unione bancaria non deve compromettere l’unità e l’integrità del mercato unico, che rimane una delle più importanti realizzazioni dell’integrazione europea. L’Unione bancaria, infatti, si basa sul completamento in corso del programma di sostanziale riforma della regolamentazione sul mercato unico (“corpus unico di norme”). Il mercato unico e l’Unione bancaria sono pertanto processi che si rafforzano a vicenda. Il lavoro inteso a rafforzare il mercato unico deve continuare in tutti i settori disciplinati da proposte della Commissione. Inoltre, in tre settori di rilevanza specifica per l’Unione bancaria questo lavoro deve essere accelerato e i colegislatori devono raggiungere un accordo sulle pertinenti proposte prima della fine del 2012: - sono stati proposti requisiti prudenziali più rigorosi per le banche. Con le proposte in materia di requisiti patrimoniali delle banche (“CRD4”) 7, la Commissione ha avviato il processo di attuazione dei nuovi standard mondiali in materia di requisiti patrimoniali e di liquidità delle banche. La creazione del meccanismo di vigilanza unico non dovrebbe richiedere modifiche sostanziali della proposta di regolamento e della proposta di direttiva, anche se per un numero limitato di materie potrà rendersi necessario un affinamento del testo per riflettere la nuova situazione. Durante le fasi finali dei negoziati relativi alla CRD4, la Commissione intende assicurare in modo particolare che i testi concordati siano tecnicamente compatibili con la proposta di regolamento che istituisce il meccanismo di vigilanza unico e collaborerà con il Parlamento europeo e il Consiglio in tal senso, per assicurare in particolare che tutte le disposizioni della proposta di direttiva CRD4 siano operative affinché la direttiva possa essere applicata a livello nazionale e da parte della BCE; - la copertura dei sistemi nazionali di garanzia dei depositi è stata già armonizzata e aumentata a 100 000 euro per depositante e per ente, con efficacia a decorrere dal 31 dicembre 2010. Nel luglio 2010 la Commissione si è spinta oltre, proponendo 8 l’armonizzazione e la semplificazione delle garanzie dei depositi, l’accelerazione dei rimborsi e il miglioramento del finanziamento, in particolare mediante il finanziamento ex ante dei sistemi di garanzia dei depositi tramite contributi delle banche ed un meccanismo obbligatorio di prestito tra sistemi nazionali entro determinati limiti;

7.

http://ec.europa.eu/internal market/bank/regcapital/new proposals en.htm. http://ec.europa.eu/internal market/bank/docs/miarantee/200914 en.pdf.

8.

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Le tappe verso l’Unione bancaria

- la proposta della Commissione sugli strumenti di risanamento e di risoluzione delle crisi degli enti creditizi, adottata il 6 giugno 2012 9, è l’ultima di una serie di proposte per rafforzare il settore bancario europeo e per evitare gli effetti di ricaduta di eventuali future crisi finanziarie, con ripercussioni negative sui depositanti e sui contribuenti. Per preservare la stabilità finanziaria e assicurare che gli azionisti e i creditori delle banche si facciano pienamente carico della loro quota di perdite e di costi della ricapitalizzazione delle banche, la Commissione ha proposto un quadro comune di norme e competenze che permetteranno agli Stati membri di prevenire l’insorgere di crisi bancarie, e in caso di scoppio, di gestirle in maniera più ordinata ed efficace. Gli Stati membri saranno tenuti a istituire un fondo di risoluzione ex ante finanziato dai contributi delle banche, ed è prevista l’istituzione di un meccanismo di prestiti obbligatori tra i sistemi nazionali soggetto anch’esso a chiari limiti. Pertanto, tali norme porranno le fondamenta comuni per tutto il mercato unico su cui potranno basarsi le proposte sull’Unione bancaria. Questo corpus unico di norme è necessario per la stabilità e l’integrità del mercato interno dell’UE nel settore dei servizi finanziari. Esso fornisce una base comune che consente di avanzare verso l’Unione bancaria senza rischi di frammentazione del mercato unico. È pertanto di fondamentale importanza che i colegislatori portino rapidamente a termine entro la fine dell’anno l’adozione delle riforme dei requisiti patrimoniali, dei sistemi di garanzia dei depositi e della risoluzione delle crisi bancarie. Anche queste norme devono essere applicate in modo uniforme in tutta l’Unione, mediante una vigilanza uniforme e convergente degli enti creditizi da parte delle autorità di vigilanza nazionali e della BCE. L’Autorità bancaria europea (ABE) ha un ruolo fondamentale nella realizzazione di tale obiettivo, in particolare mediante gli strumenti e poteri previsti dal suo regolamento istitutivo (interventi in caso di violazione del diritto dell’Unione, mediazione, norme tecniche vincolanti, orientamenti e raccomandazioni). E pertanto fondamentale che TABE svolga pienamente il compito che le è stato attribuito di creare un quadro giuridico e una cultura della vigilanza comuni in tutta l’Unione europea. Inoltre, al fine di evitare divergenze tra la zona euro e il resto dell’UE, il corpus unico di norme dovrà essere sostenuto da prassi di vigilanza uniformi. Guide e approcci diversi in materia di attività di vigilanza tra

9.

http://ec.europa.eu/internal_market/banck/crisis_managemente/index_en.htm.

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Documenti e informazioni

gli Stati membri partecipanti al meccanismo di vigilanza unico e gli altri Stati membri fanno sorgere il rischio di frammentazione del mercato unico, in quanto le banche potrebbero praticare l’arbitraggio regolamentare sfruttando le differenze. Occorre che TABE elabori una guida comune per l’attività di vigilanza per integrare il corpus unico di norme. Tutti i provvedimenti adottati dalla BCE, ad esempio per definire più in dettaglio l’esercizio della vigilanza prudenziale nel contesto della specifica struttura di vigilanza creata dal meccanismo di vigilanza unico, devono essere in linea con il corpus unico di norme, ivi comprese le norme tecniche stabilite da atti delegati adottati dalla Commissione europea. Infine, va osservato che la proposta di modifica presentata oggi mantiene l’attuale equilibrio tra il sistema del paese di origine e quelle dello Stato membro ospitante, anche per quanto riguarda la partecipazione nei collegi delle autorità di vigilanza. L’impatto effettivo e le implicazioni del meccanismo di vigilanza unico sul funzionamento operativo dell’ABE saranno ulteriormente esaminati nel corso del prossimo riesame del funzionamento delle Autorità di vigilanza europee, che sarà presentato alla Commissione entro il 2 gennaio 2014 10. Al riguardo, la Commissione esaminerà in particolare se il ruolo dell’ABE per quanto riguarda gli esercizi delle prove di stress debba essere rafforzato, per evitare che l’Autorità sia troppo dipendente dalle informazioni e dai contributi dalle autorità competenti per la valutazione dell’effettiva resilienza del settore bancario in tutta l’Unione. Parallelamente, la Commissione continuerà a rafforzare la stabilità finanziaria e ad assicurare condizioni di parità nel settore bancario nel mercato unico dell’UE mediante il controllo da essa esercitato sugli aiuti di Stato e sulle condizioni per la concessione di aiuti per l’aggiustamento economico.

10. A norma dell’articolo 81 dei regolamenti che istituiscono le Autorità europee di vigilanza [regolamento (UE) n. 1093/2010, regolamento (UE) n. 1094/2010 e regolamento (UE) n. 1095/2010].

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Le tappe verso l’Unione bancaria

Azioni fondamentali La Commissione invita il Parlamento europeo e il Consiglio a raggiungere un accordo entro la fine del 2012 su quanto segue: i) l’adozione delle proposte CRD4, in modo che siano applicabili sia in tutto il mercato unico che nell ‘ambito del meccanismo di vigilanza unico; ii) la proposta di direttiva sul sistema di garanzia dei depositi presentata dalla Commissione; iii) la proposta di direttiva sul risanamento e la risoluzione delle crisi bancarie.

3. Completare l’Unione bancaria. Come indicato dalla Commissione 11 prima del Consiglio europeo del giugno 2012 e come affermato dai presidenti del Consiglio europeo, della Commissione, dell’Eurogruppo e della Banca centrale europea nella loro relazione del 26 giugno 2012 12, il completamento dell’Unione bancaria imporrà un ulteriore lavoro per la creazione di un meccanismo di vigilanza unico, un sistema comune di garanzia dei depositi e un quadro integrato di gestione delle crisi. L’istituzione di un meccanismo di vigilanza unico rappresenta un primo passo, fondamentale e significativo. 3.1. Un meccanismo di vigilanza unico. Il meccanismo di vigilanza unico che la Commissione propone oggi si basa sul trasferimento a livello europeo di specifici compiti fondamentali di vigilanza delle banche aventi sede negli Stati membri della zona euro. Pur conservando la responsabilità ultima, la BCE assolverà i suoi compiti nel quadro del meccanismo di vigilanza unico composto dalla BCE e dalle autorità nazionali di vigilanza. Tale struttura consentirà una vigilanza forte e uniforme in tutta la zona euro, utilizzando al meglio le specifiche conoscenze delle realtà locali delle autorità di vigilanza nazionali. Ciò assicurerà una vigilanza basata su una profonda conoscenza

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http://ec.europa.eu/ciirope2020/banking-union/indexit.htm. http://www.consilium.europa.eii/uedocs/cnis data/docs/pressdata/it/ec/131298.pdf.

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Documenti e informazioni

delle condizioni nazionali e locali che possono avere un’incidenza sulla stabilità finanziaria. La Commissione propone anche un meccanismo che consentirà agli Stati membri che, pur non avendo adottato l’euro intendono partecipare al meccanismo di vigilanza unico, di cooperare strettamente con la BCE. Nell’ambito del meccanismo di vigilanza unico, alla BCE saranno attribuite competenze di vigilanza su tutte le banche nell’Unione bancaria, alle quali applicherà il corpus unico di norme applicabile a tutto il mercato unico. Recenti esperienze hanno dimostrato che anche le difficoltà di banche relativamente piccole possono avere un significativo impatto negativo sulla stabilità finanziaria degli Stati membri. Pertanto, sin dal primo giorno la BCE sarà autorizzata a esercitare, su propria decisione, la vigilanza su tutte le banche della zona euro, in particolare le banche che ricevono assistenza finanziaria pubblica. Per tutte le altre banche, l’introduzione graduale della vigilanza della BCE avverrà automaticamente: il 1° luglio 2013 per le principali banche di importanza sistemica a livello europeo e il 1° gennaio 2014 per tutte le altre banche. Pertanto, entro il 1° gennaio 2014 tutte le banche della zona euro saranno soggette a vigilanza europea. Alla BCE saranno attribuiti specifici compiti fondamentali di vigilanza indispensabili per individuare i rischi che minacciano la solidità delle banche. Le sarà attribuito il potere di imporre alle banche l’obbligo di adottare le necessarie misure correttive. La BCE sarà, tra l’altro, l’autorità competente ad autorizzare gli enti creditizi, a valutare le partecipazioni qualificate, ad accertare il soddisfacimento dei requisiti patrimoniali minimi, ad accertare l’adeguatezza del capitale interno rispetto al profilo di rischio dell’ente creditizio (cosiddette misure del secondo pilastro), a esercitare la vigilanza su base consolidata e a svolgere compiti di vigilanza sui conglomerati finanziari. La BCE assicurerà anche il rispetto delle disposizioni in materia di leva finanziaria e di liquidità, applicherà riserve di capitale e attuerà, coordinandosi con le autorità di risoluzione delle crisi bancarie, misure di intervento precoce quando una banca viola, o è in procinto di violare, i requisiti patrimoniali fissati dalla normativa. Alla BCE verranno attribuiti tutti i poteri di indagine e di vigilanza necessari per svolgere i suoi compiti. E prevista la partecipazione attiva delle autorità di vigilanza nazionali nel quadro del meccanismo di vigilanza unico per assicurare una preparazione e un’attuazione efficienti e spedite delle decisioni di vigilanza e per garantire il coordinamento e il flusso di informazioni necessari sulle questioni di portata sia locale che europea, al fine di assicurare la stabilità finanziaria in tutta l’Unione e nei suoi Stati membri.

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Le tappe verso l’Unione bancaria

Tutti i compiti non esplicitamente attribuiti alla BCE resteranno di competenza delle autorità nazionali di vigilanza. Ad esempio, le autorità di vigilanza nazionali manterranno le competenze in materia di tutela dei consumatori e di lotta contro il riciclaggio dei capitali nonché di vigilanza degli enti creditizi dei paesi terzi che aprono succursali o prestano servizi a livello transfrontaliero nello Stato membro. La BCE deve poter svolgere le sue nuove funzioni di vigilanza in piena indipendenza pur restando pienamente responsabile delle sue azioni. La proposta della Commissione prevede forti garanzie di responsabilità, in particolare nei confronti del Parlamento europeo e del Consiglio, per assicurare la legittimità democratica. Inoltre, la proposta stabilisce una serie di principi organizzativi per garantire una chiara separazione tra politica monetaria e vigilanza. Questa separazione consentirà di attenuare potenziali conflitti tra diversi obiettivi politici, permettendo allo stesso tempo di beneficiare pienamente di sinergie. Tutte le attività preparatorie e di esecuzione delle politiche saranno pertanto effettuate da organismi e divisioni amministrative diversi dalle funzioni di politica monetaria attraverso un consiglio di vigilanza istituito in seno alla BCE appositamente a questo scopo. Infine, le modifiche proposte del regolamento istitutivo dell’ABE garantiranno che l’ABE possa continuare a svolgere la sua missione in maniera efficace nei confronti di tutti gli Stati membri. In particolare, l’ABE eserciterà i suoi poteri e svolgerà i suoi compiti anche nei confronti della BCE. Le modalità di voto in seno all’ABE saranno adattate per assicurare che le strutture decisionali dell’Autorità restino equilibrate ed efficienti e riflettano le posizioni delle autorità competenti degli Stati membri partecipanti al meccanismo di vigilanza unico e delle autorità competenti degli Stati membri che non vi partecipano, in modo da preservare appieno l’integrità del mercato unico. Le modifiche delle modalità di voto interessano le materie sulle quali l’ABE adotta decisioni vincolanti sull’applicazione del corpus unico di norme in caso di violazione del diritto dell’Unione e di risoluzione delle controversie. Per altre materie le salvaguardie procedurali esistenti sono considerate sufficienti ad assicurare strutture decisionali equilibrate ed efficaci. Ad esempio, i progetti di norme tecniche sono presentati alla Commissione per l’adozione, e la Commissione può decidere di approvarli o di modificarli, in particolare quando non sono conformi ai principi fondamentali del mercato interno per i servizi finanziari. Infine, nel regolamento recante modifica del regolamento (UE) n. 1093/2010 è stata inserita una specifica clausola di riesame che consentirà di tener conto in particolare degli sviluppi negli Stati membri la cui moneta è l’euro o negli Stati membri le cui autorità

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competenti hanno instaurato una cooperazione stretta e di verificare se, alla luce degli sviluppi, siano necessari aggiustamenti delle disposizioni per assicurare che le decisioni dell’ABE siano adottate nell’interesse della preservazione e del rafforzamento del mercato interno dei servizi finanziari. Azioni fondamentali La Commissione invita i) il Consiglio a esaminare e ad adottare con urgenza la proposta di regolamento del Consiglio che attribuisce alla BCE compiti specifici in merito alle politiche in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditìzi, tenendo conto dell’opinione del Parlamento europeo; ii) il Parlamento europeo e il Consiglio a esaminare e ad adottare con urgenza la proposta di modifica del regolamento (UE) n. 1093/2010, che istituisce l’Autorità bancaria europea. L’accordo su queste due proposte dovrebbe essere raggiunto entro la fine del 2012. 3.2. Prossimi passi nella gestione delle crisi bancarie L’integrazione mondiale dei mercati finanziari e il mercato unico dell’UE hanno consentito al settore bancario di alcuni Stati membri di raggiungere livelli molte volte superiori al PIL nazionale, con la conseguenza che taluni istituti sono troppo grandi per fallire, conformemente ai meccanismi nazionali in vigore. D’altra parte, l’esperienza dimostra che anche il fallimento di banche relativamente piccole può causare danni sistemici a livello transfrontaliero. Inoltre, le corse agli sportelli a livello transfrontaliero possono gravemente indebolire i sistemi bancari nazionali, compromettere ulteriormente la situazione di bilancio del paese e acuire i problemi di finanziamento per entrambi. Il rafforzamento della vigilanza nell’Unione bancaria contribuirà a migliorare la solidità delle banche. Tuttavia è necessario che qualora si verifichi una crisi gli istituti possano essere liquidati in maniera ordinata e che i depositanti siano rassicurati sul fatto che i loro risparmi sono al sicuro.

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Le tappe verso l’Unione bancaria

In questo contesto, la Commissione ha sottolineato 13 che l’Unione dovrebbe includere una gestione maggiormente centralizzata delle crisi bancarie. Il Parlamento europeo ha anche auspicato progressi in questo settore. La necessità di “meccanismi comuni per la risoluzione bancaria e la garanzia dei depositi dei clienti” è stata menzionata anche dal Presidente del Consiglio europeo, dal Presidente della Commissione e dal Presidente della Banca centrale europea nella loro relazione del 26 giugno 2012 14. Pertanto, la Commissione prevede in particolare di presentare una proposta per l’istituzione di un meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie, competente per la risoluzione delle crisi bancarie e per il coordinamento, in particolare, dell’applicazione degli strumenti di risoluzione nell’ambito dell’Unione bancaria. Il meccanismo è più efficiente di una semplice rete di autorità nazionali, in particolare in caso di fallimenti transfrontalieri, data la necessità di affrontare le crisi bancarie con rapidità e credibilità. Sarà un’integrazione naturale del meccanismo di vigilanza unico. Consentirà anche notevoli economie di scala, ed eviterebbe le esternalità negative che possono derivare da decisioni puramente nazionali. Adotterà le sue decisioni attenendosi ai principi in materia di risoluzione delle crisi bancarie fìssati nel corpus unico di norme, conformi alle migliori prassi internazionali e alle norme dell’Unione in materia di aiuti di Stato. In particolare gli azionisti e i creditori delle banche dovranno farsi carico dei costi della risoluzione delle crisi bancarie prima dell’eventuale ricorso a finanziamenti esterni, e occorrerà trovare soluzioni nel settore privato invece di utilizzare il denaro dei contribuenti. Inoltre, sulla base di una valutazione del suo funzionamento, al meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie potrebbero essere attribuiti altri compiti di coordinamento per quanto riguarda la gestione delle situazioni di crisi e degli strumenti di risoluzione nel settore bancario, come indicato nella relazione presentata nel giugno 2012 dal Presidente del Consiglio europeo, dal Presidente della Commissione, dal Presidente dell’Eurogruppo e dal Presidente della BCE.

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http://ec.europa.eu/europe2020/banking-union/index it.htm. http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms data/docs/pressdata/it/ec/131298.pdf.

14.

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Documenti e informazioni

Azioni fondamentali Una volta raggiunto l’accordo sulle proposte sul tavolo in materia di sistemi di garanzia dei depositi e di risanamento e risoluzione delle crisi bancarie, la Commissione intende proporre in particolare l’istituzione di un meccanismo unico competente per la risoluzione delle crisi bancarie e per il coordinamento dell ‘applicazione degli strumenti di risoluzione alle banche nel quadro dell’Unione bancaria.

4. Le prossime tappe. L’Unione europea ha i mezzi per affrontare le sue attuali carenze e creare un’Unione bancaria che costituisca un passo essenziale verso un’autentica Unione economica e monetaria. La Commissione invita il Parlamento europeo e il Consiglio a: –– dare il loro pieno sostegno all’Unione bancaria e ad approvare gli orientamenti e la tabella di marcia descritti nella presente comunicazione; –– dare la massima priorità nel processo legislativo alle azioni necessarie per creare l’Unione bancaria; –– completare il più presto possibile, e in ogni caso prima della fine dell’anno in corso, l’iter di approvazione delle proposte sul tavolo riguardanti: –– i sistemi di garanzia dei depositi; –– l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale degli enti creditizi e delle imprese di investimento (CRD); –– i requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento (CRR); –– il quadro normativo in materia di risanamento e risoluzione delle crisi degli enti creditizi e delle imprese di investimento; –– l’attribuzione alla BCE di taluni compiti relativi alla vigilanza prudenziale degli enti creditizi; –– la modifica di talune disposizioni del regolamento istitutivo dell’ABE. Con la presente comunicazione e con le proposte legislative che l’accompagnano, la Commissione ha agito rapidamente e in modo responsabile in risposta al mandato che le è stato conferito alla fine di giugno dal Consiglio europeo e dai capi di Stato e di governo della zona euro. Tocca ora alle altre istituzioni fare la loro parte per garantire l’istituzione del meccanismo di vigilanza unico entro il 1° gennaio 2013.

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Indici dell’annata PARTE SECONDA

legislazione Il nuovo procedimento di composizione delle crisi da sovra indebitamento – L. 27 gennaio 2012, n. 3, disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da indebita- pag. mento, con osservazioni di Alessandro Nigro Nuove modifiche alla legge fallimentare – D.l. 22 giugno 2012, n. 83, coord. con le modifiche introdotte dalla l. di conversione 7 » agosto 2012, n. 134, recante misure urgenti per la crescita del paese, con osservazioni di Alessandro Nigro

3

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documenti e informazioni Remunerazione degli amministratori e dei dirigenti delle banche e dei gruppi bancari – Banca d’Italia, disposizioni 30 marzo 2011, in materia di politiche e prassi di incentivazione nelle banche e nei gruppi bancari Le tappe verso l’unione bancaria – Commissione europea, comunicazione 12 settembre 2012 al Parlamento europeo ed al Consiglio

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Norme redazionali

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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Norme redazionali

4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile codice di commercio Costituzione codice di procedura civile codice penale codice di procedura penale decreto decreto legislativo decreto legge decreto legge luogotenenziale decreto ministeriale decreto del Presidente della Repubblica disposizioni sulla legge in generale disposizioni di attuazione disposizioni transitorie legge fallimentare

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c.c. c.comm. Cost. c.p.c. c.p. c.p.p. d. d.lgs. d.l. d.l. luog. d.m. d.P.R. d.prel. disp.att. disp.trans. l.fall.


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legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale Corte di Cassazione Sezioni unite Consiglio di Stato Corte d’Appello Tribunale Tribunale amministrativo regionale

C. Cost. Cass. S. U. Cons. St. App. Trib. TAR

3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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Norme redazionali

4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.

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