Diritto della banca e del mercato finanziario 4/2014

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ISSN 1722-8360

di particolare interesse in questo fascicolo

Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

4/2014

Saggi

• Assetti propietari delle imprese di assicurazione • Mutui e abbinamento di polizze vita • Interessi e commissioni nei rapporti bancari • Raccomandazioni UNCITRAL sull’insolvenza

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Š Copyright 2014 Ce.Di.B. - Centro di studi di diritto e legislazione bancaria. Registrazione presso il Tribunale di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009 Direttore responsabile: Alessandro Nigro

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Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

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SOMMARIO 4/2013

PARTE PRIMA Saggi Gli assetti proprietari delle imprese di assicurazione fra diritto comune e diritto speciale, di Ciro G. Corvese La potestà sanzionatoria amministrativa a presidio della disciplina dell’abbinamento di mutui immobiliari o contratti di credito al consumo a polizze vita (art. 28, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1). Condotte punibili e modalità d’esercizio dell’azione pubblica, di Gianluca Romagnoli Nuove responsabilità amministrative nel governo dei rischi dell’impresa di assicurazione: brevi riflessioni a margine del recente aggiornamento della disciplina sul sistema dei controlli interni, di Andrea Minto

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» 613

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Dibattiti Interessi e commissioni nei rapporti bancari – Incontro di studio del 25 giugno 2014, con interventi di Sido Bonfatti, Ernesto Capobianco, Vincenzo Caridi, Giuseppe Carriero, Aldo A. Dolmetta, Fabrizio Maimeri, Enrico Minervini, Alessandro Nigro, Daniele Vattermoli

Miti e realtà

» 671

Le leggi di Murphy

» 763

Autori

» 767

Indici dell’annata - Parte prima

» 769


PARTE SECONDA Legislazione Obblighi e responsabilità degli amministratori nella “twilight zone”: le nuove Raccomandazioni UNCITRAL – Commissione delle Nazioni Unite per la legislazione sul Commercio Internazionale (UNCITRAL) – Parte quarta della Guida legislativa sull’insolvenza del 18 luglio 2013, con osservazioni di Soraya Barati

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Indici dell’annata - Parte seconda

» 161

Norme

» 163

redazionali


PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



SAGGI

Gli assetti proprietari delle imprese di assicurazione fra diritto comune e diritto speciale* Sommario: 1. Note introduttive. – 2. Le regole sulla ownership structure delle imprese di assicurazione e di riassicurazione. – 3. (Segue) L’autorizzazione all’acquisizione di partecipazioni: ambito soggettivo, criteri e procedura di valutazione. – 4. (Segue) Gli obblighi di disclosure. – 5. (Segue) I poteri dell’Ivass: i poteri sanzionatori e la richiesta di informazioni. – 6. I requisiti degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale. Premessa. – 7. I requisiti di professionalità, onorabilità e indipendenza degli esponenti aziendali: l’ambito soggettivo di applicazione. – 7.1. La professionalità. – 7.2. Le situazioni impeditive: il ritorno. – 7.3. L’onorabilità. – 7.4. L’indipendenza. – 7.5. La decadenza. – 7.6. La sospensione. – 8. I requisiti di onorabilità dei titolari di partecipazioni: premessa. – 8.1. L’ambito soggettivo – 8.2. Individuazione dei requisiti e procedura di valutazione. – 8.3. Il divieto di esercizio del diritto di voto in mancanza dei requisiti, le conseguenze in caso di esercizio del diritto di voto e l’alienazione coattiva delle partecipazioni eccedenti le soglie. – 9. Gli investimenti in partecipazioni realizzati da imprese di assicurazione e l’esclusività dell’oggetto sociale. – 10. Brevi osservazioni conclusive.

1. Note introduttive. La materia degli assetti proprietari delle imprese di assicurazione è contenuta, innanzitutto, nel Titolo VII del Codice delle assicurazioni (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, d’ora in avanti semplicemente c.a.p.) e precisamente nei Capi I, II e III (dall’art. 68 all’art. 81) i quali forniscono una disciplina organica di tre gruppi di materie fra loro strettamente connesse: gli artt. 68-75 c.a.p. 1 racchiudono la disciplina delle partecipazioni nelle imprese di assicurazione regolata in precedenza dalla

* Lo scritto riproduce, con modifiche, adattamenti ed aggiunta di note, l’intervento tenuto presso l’Università degli Studi “Ca’ Foscari” di Venezia, al convegno Impresa e 1 società, V. Assicurazioni, Donati e Volpe Titoli Putzolu di ,credito, Manuale 9-10 di diritto maggiodelle 2014, assicurazioni, organizzato Milano, in ricordo 2006, di p. 25 ss. Giulio Partesotti e alla pubblicazione nei relativi Atti è destinato.

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l. 9 gennaio 1991, n. 20 2, le regole sulla ownership structure; gli artt. 76-78 c.a.p. definiscono le regole concernenti i requisiti degli esponenti aziendali e dei titolari di partecipazioni, precedentemente contenuta nei decreti attuativi delle direttive comunitarie di terza generazione (d.lgs. n. 174/1995 e d.lgs. n. 175/1995 3) ed, infine, gli artt. 79-81 c.a.p. disciplinano la materia delle partecipazioni detenibili dalle imprese di assicurazione e di riassicurazione. I gruppi di norme appena elencati sono stati oggetto di importanti ed incisivi interventi normativi. Il primo è rappresentato dall’art. 4, d.lgs. 27 gennaio 2010 n. 21 4 che, nel dare attuazione alla direttiva 2007/44/CE (nota come “Direttiva partecipazioni”, emanata con l’intento di raggiungere un’uniformità delle norme relative agli assetti proprietari per tutti gli intermediari finanziari 5), ha modificato gran parte degli articoli regolanti la disciplina delle partecipazioni al capitale delle imprese di assicurazioni ed i requisiti di

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La materia contenuta nella l. n. 20/1991 maggiormente approfondita in dottrina è stata senza dubbio proprio quella delle partecipazioni delle e nelle imprese di assicurazione e sul punto cfr. Marchetti, La nozione di controllo nell’art. 10 legge 20/1991: la posizione dell’Isvap, in Riv. soc., 1992, p. 1475 ss., Tedeschi, Controllo delle partecipazioni e degli atti compiuti con società del gruppo, in Società, 1991, p. 436 ss.; Morvillo Autorizzazione all’assunzione del controllo di imprese o enti assicurativi e obbligo di comunicazione delle partecipazioni rilevanti. Brevi note sugli artt. 9, 10 e 11 della legge n. 20 del 9 gennaio 1991, in Assicurazioni, 1991, I, p. 315 ss.; Manghetti, Evoluzione del sistema assicurativo e disciplina della legge n. 20/1991, in Diritto ed economia dell’assicuraz., 1993, p. 649; Corvese, La disciplina del controllo sulle partecipazioni assicurative (prime riflessioni sul titolo II della l. 9 gennaio 1991, n. 20, in Dir. banc., 1993, I, p. 76 ss.; Cavallo Borgia, La comunicazione delle partecipazioni rilevanti in imprese assicurative, in Diritto ed economia dell’assicuraz., 1994, p. 357; Sangiorgio, Il gruppo assicurativo nell’esperienza dell’Isvap, in I gruppi di società, a cura di Balzarini, Carcano e Mucciarelli, Milano, 1996, I, p. 535 ss. ed i contributi raccolti nel volume La disciplina delle partecipazioni societarie nel settore assicurativo dopo le modifiche della legge n. 20/1991, Milano, 1997. 3 V. Russo, Commento sub art. 76 c.a.p., in Commentario breve al Diritto delle Assicurazioni, a cura di Volpe Putzolu, Padova, 2010, p. 378. 4 Il decreto reca “Attuazione della direttiva 2007/44/CE, che modifica le direttive 92/49/CE, 2002/83/CE, 2004/39/CE, 2005/68/CE e 2006/48/CE per quanto riguarda le regole prudenziali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizione e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario” ed è pubblicato in G.U. 23 febbraio 2010, n. 44. 5 Si tratta della Direttiva 2007/44/CE del 5 settembre 2007 che modifica la direttiva 92/49/ CEE del Consiglio e le direttive 2002/83/CE, 2004/39/CE, 2005/68/CE e 2006/48/CE per quanto riguarda le regole procedurali e i criteri per la valutazione prudenziale di acquisizioni e incrementi di partecipazioni nel settore finanziario, pubblicata in GUCE, 21 settembre 2007, n. L. 247. Sulla applicazione di tale direttiva nel settore assicurativo v. Brestolli, Commento sub art. 68 c.a.p., in Commentario breve a cura di Volpe Putzolu, cit., p. 68 ss.

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onorabilità dei titolari di dette partecipazioni. Tale decreto, come avrò modo di dire in seguito, anticipa anche l’attuazione delle regole presenti nella Direttiva 2009/138/CE del 25 novembre 2009, nota come Solvency II 6, agli artt. 57-63. Il secondo intervento, di tipo regolamentare, è costituito dal decreto del ministero dello sviluppo economico n. 220 dell’11 novembre 2011 avente come contenuto il “Regolamento recante determinazione dei requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza degli esponenti aziendali, nonché dei requisiti di onorabilità dei titolari di partecipazioni, ai sensi degli articoli 76 e 77 del c.a.p.” 7 che colma un “imbarazzante” vuoto normativo durato un po’ più di sei anni. Anche questa materia è stata ripresa da Solvency II agli artt. 42 (Requisiti di competenza e di onorabilità per le imprese che dirigono effettivamente l’impresa o rivestono altre funzioni fondamentali) e 43 (Prova dell’onorabilità) ed è stata oggetto recentemente di attenzione da parte della EIOPA con gli Orientamenti sulla corporate governance pubblicati nel 2013. Oggetto precipuo del presente intervento è quello di delineare gli aspetti essenziali della disciplina degli assetti proprietari appena elencata cercando, per un verso, di porre in evidenza alcune delle più rilevanti questioni che la dottrina ha fatto già emergere al fine di fornire una soluzione anche alla luce dei recentissimi interventi normativi primari e secondari e, per altro verso, di prefigurare i possibili scenari che si delineeranno dopo l’attuazione della Direttiva Solvency II.

2. Le regole sulla ownership structure delle imprese di assicurazione e di riassicurazione. Prima di dar conto della disciplina vigente in tema di acquisizione di partecipazioni, è opportuno comunque precisare che già con la legge

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La direttiva citata nel testo ha ad oggetto l’accesso ed esercizio dell’attività di assicurazione e di riassicurazione ed è pubblicata in G.U.C.E. 17 dicembre 2009, n. l. 335. Circa gli effetti di questa direttiva sulla organizzazione delle imprese di assicurazione cfr. Selleri, L’impatto di Solvency II sull’organizzazione dell’impresa di assicurazione: verso l’organizzazione per processi?, in Dir. economia assicuraz., 2010, p. 605 ss.; Candian e Tita, La compliance delle imprese assicurative nel quadro europeo tra Solvency II, Eiopa, e direttiva Omnibus II, ivi, 2011, p. 3 ss. e Frigessi Di Rattalma, Controlli e solvency II: il rischio frode assicurativa tra disciplina nazionale ed europea, in Resp. civ., 2013, 746. 7 Il decreto è pubblicato in G.U. n. 6 del 9 gennaio 2012.

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Saggi

istitutiva dell’Isvap, l. 12 agosto 1982, n. 576, si tentò di soddisfare la suddetta esigenza aumentando il flusso e la qualità delle informazioni dalle imprese di assicurazioni alle autorità di vigilanza. Ma nonostante l’ampiezza di tali poteri, la sempre maggiore integrazione tra i settori del sistema finanziario e l’acquisizione di compagnie assicurative da parte di gruppi industriali e finanziari e la conseguente esigenza di un’informazione destinata alla vigilanza più puntuale e tempestiva, “(avevano) rivelato l’inadeguatezza delle disposizioni, che (soddisfacevano) esclusivamente l’esigenza di una informativa sull’azionariato a fini strettamente inerenti all’esigenza di un maggiore controllo sulla gestione a causa della scarsa affidabilità di una parte dell’azionariato” 8. In altre parole, non bastava più la sola collaborazione con le altre autorità, ma era necessario che all’Isvap venissero attribuiti poteri affidati nella materia de qua alla Banca d’Italia e alla Consob. E così fu, tant’è che alcune delle disposizioni della l. n. 20/1991 furono “ricopiate” al titolo V della legge antitrust ed anche dalla l. n. 281/1985. Le regole che ora governano le partecipazioni nelle imprese di assicurazione e di riassicurazione sono contenute, per la disciplina primaria, negli artt. 68-75 c.a.p. come modificati dall’art. 4, d.lgs. n. 21/2010 e, per la disciplina secondaria, nella comunicazione Isvap n. 3 del 2 luglio 2009 9 che, seppure emanata nelle more del decreto di attuazione della direttiva 2007/44/CE, non ha perso la sua validità posto che con essa l’Isvap ha individuato, senza poi emanare nessun altro provvedimento in materia, le norme della citata direttiva direttamente applicabili alle imprese di assicurazione e di riassicurazione. L’architettura sulla quale poggia la disciplina delle partecipazioni al capitale delle imprese di assicurazione è uguale a quella degli altri intermediari e si fonda su due obblighi principali: a) la preventiva richiesta di autorizzazione e b) l’obbligo di comunicazione.

8 Così Marchetti, Momenti societari e contenuto del controllo dell’ISVAP, in Riv. soc., 1987, p. 428. 9 La comunicazione citata nel testo ha come oggetto “Direttiva 2007/44/CE in materia di acquisto di partecipazioni qualificate in imprese di assicurazione e di riassicurazione, banche e imprese di investimento” (sul punto cfr. Brestolli, Commento sub art. 68 c.a.p., cit., p. 68) ed è quasi coeva ad analoga comunicazione emanata dalla Banca d’Italia il 12 maggio 2009 (sul punto v. Rotondo, La nuova disciplina delle partecipazioni “non finanziarie” al capitale delle banche: ovvero “prove” di recepimento della direttiva 2007/44/CE, in Dir. banc., 2009, II, p. 217 ss.) per quanto concerne la medesima materia ma con riferimento alle banche e alle sim.

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Ciò posto, veniamo all’esame della disciplina appena elencata e, per chiarezza di indagine, la distinguiamo a seconda se l’operazione di acquisizione generi un obbligo di comunicazione o quello di richiesta di “preventiva autorizzazione”.

3. (Segue) L’autorizzazione all’acquisizione di partecipazioni: ambito soggettivo, criteri e procedura di valutazione. Secondo quanto stabilito nel c.a.p., considerato anche quanto previsto dall’Isvap nella comunicazione 2 luglio 2009 n. 3, è sottoposta ad autorizzazione preventiva dell’Isvap (ora Ivass) l’acquisizione, a qualsiasi titolo, in un’impresa di assicurazione o di riassicurazione di partecipazioni che comporti, tenuto conto delle azioni o quote già possedute: 1) il controllo; 2) la possibilità di esercitare un’influenza notevole sull’impresa stessa ovvero 3) che attribuiscono una quota dei diritti di voto o del capitale almeno pari al 10 per cento (art. 68, co. 1, c.a.p. come modificato dall’art. 4, co.1, lett. d), d.lgs. n. 21/2010 10). Con riferimento all’ambito soggettivo, nell’Allegato 1 alla comunicazione dell’Isvap n. 3/2009 (par. 2) è meglio specificato che sono soggetti all’obbligo di richiesta della preventiva autorizzazione oltre al titolare dell’azione il soggetto cui spettano i diritti di voto quando ricorra uno dei seguenti casi o una combinazione degli stessi: – i diritti di voto spettano in base a un accordo che prevede il trasfe-

10 Per un commento sistematico dell’art. 68 c.a.p. prima delle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 21/2010 v. Troiano, Commento sub artt. 68-69, in Il codice delle assicurazioni private diretto da Capriglione, Padova, I, 2, p. 98 ss.; Giampaolino, Gli assetti proprietari e i gruppi assicurativi, in Il nuovo Codice delle Assicurazioni, a cura di Amorosino e Desiderio, Milano, 2006, p. 209 ss., spec. p. 211-216 e Regoli, Commento sub artt. 68-75, in Commentario al codice delle assicurazioni, a cura di Bin, Padova, 2006, p. 146 ss. Nella previgente legislazione il limite fu innalzato dal 2% al 5% ad opera dell’art. 114 d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174 attuativo della III direttiva CEE vita (sul punto v. Corvese, L’attuazione delle III direttive CEE in materia di assicurazione vita e danni, Padova, 1997, p. 1 ss., spec. p. 8). Cfr. Farenga, L’impresa nel codice delle assicurazioni private, in Dir. economia assicuraz., 2006, p. 71 ss.; Marano, «Bancassicurazione» e procedure per l’autorizzazione all’acquisto di partecipazioni: verso una semplificazione?, in Dir. banc., 1997, I, p. 76 ss.; Montalenti, Commento sub art. 114, in La nuova disciplina dell’impresa di assicurazione sulla vita in attuazione delle terza direttiva, commentario a cura di Partesotti e Ricolfi, Padova, 2000, p. 898 ss. e Morvillo, Le partecipazioni al capitale delle imprese assicuratrici, in Assicurazioni, 1996, I, p. 387 ss.

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rimento provvisorio e retribuito di tali diritti di voto; – i diritti di voto spettano in qualità di depositario, purché essi possano essere esercitati discrezionalmente in assenza di istruzioni specifiche da parte dell’azionista; – i diritti di voto spettano in qualità di creditore pignoratizio, usufruttuario o cessionario in garanzia; – i diritti di voto spettano in virtù di una delega, purché essi possano essere esercitati discrezionalmente in assenza di istruzioni specifiche da parte del delegante. Per quanto riguarda l’ambito oggettivo, si deve subito far notare che la nuova nozione di “partecipazioni” fornita dall’art. 1, co. 1, lett. nn) c.a.p. è molto più ampia e comprende non solo le azioni e le quote ma anche «gli altri strumenti finanziari che attribuiscono diritti amministrativi o comunque quelli previsti dall’art. 2351, ultimo comma del codice civile». In secondo luogo, con la riforma del 2010 la soglia del 5% non è più soglia rilevante per la richiesta di preventiva autorizzazione ma, come previsto nella comunicazione Isvap n. 3/2009 il raggiungimento e/o il superamento di detta soglia dovrà comunque essere comunicato all’Ivass ai sensi degli artt. 9, l. n. 20/1991 (sic!) e 69, co. 1, c.a.p. Sono altresì soggette ad autorizzazione preventiva le variazioni delle partecipazioni nei casi in cui la quota dei diritto di voto o del capitale raggiunga o superi il 20%, 30%, o 50% (soglie presenti anche nella direttiva Solvency II all’art. 57 par. 1) ed in ogni caso quando le variazioni comportino il controllo dell’impresa [art. 68, co. 2, c.a.p. come modificato dall’art. 4, co. 1., lett. e), d.lgs. n. 21/2010]. In tal modo è stata abrogata la definizione di partecipazione rilevante fornita dall’art. 1, co. 1, lett. oo) c.a.p. 11. Soffermiamoci sulla definizione di controllo che, invece, è rimasta immodificata. Il controllo sussiste, anche con riferimento a soggetti diversi dalle società, nelle ipotesi previste dall’art. 2359, co. 1 e 2, c.c. ed in presenza di contratti o di clausole statutarie che abbiano come oggetto o per effetto

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La lettera citata nel testo definiva partecipazioni rilevanti «le partecipazioni che comportano il controllo della società e le partecipazioni individuate dall’Isvap, in conformità ai principi stabiliti nel regolamento adottato dal Ministro dello sviluppo economico, con riguardo alle diverse fattispecie disciplinate, tenendo conto dei diritti di voto e degli altri diritti che consentono di influire sulla società».

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il potere di esercitare l’attività di direzione e coordinamento (v. art. 72, co. 1, c.a.p.). Come già previsto nel t.u.b. all’art. 23 12, anche l’art. 72 cit. prevede fattispecie presuntive, salvo prova contraria, del controllo, nella forma dell’influenza dominante, in una delle seguenti ipotesi: a) l’esistenza di un soggetto che, in base ad accordi con altri soci, ha il diritto nominare e revocare la maggioranza degli amministratori (nel caso di sistema di amministrazione e controllo di tipo tradizionale o di tipo monistico) o del consiglio di sorveglianza (nell’ipotesi in cui la società abbia optato per il sistema dualistico); b) l’esistenza di un soggetto che dispone da solo della maggioranza dei voti ai fini delle deliberazioni relative alle materie di cui agli artt. 2364 e 2364-bis c.c.; c) il possesso di partecipazioni idonee a consentire la nomina o la revoca della maggioranza dei componenti dell’organo che svolge funzioni di amministrazione o del consiglio di sorveglianza; d) la sussistenza di rapporti, anche tra soci, di carattere assicurativo, riassicurativo, finanziario ed organizzativo atti a produrre uno degli effetti indicati all’art. 72, co. 2, lett. c) c.a.p.; ed infine, d) l’assoggettamento a direzione comune, in base alla composizione degli organi amministrativi o per altri concordanti elementi quali, esemplificativamente, legami importanti e durevoli di riassicurazione 13. Altra importante definizione è quella di partecipazioni indirette e per esse si devono intendere, ai sensi dell’art. 73 c.a.p., le partecipazioni acquisite o comunque possedute: a) per il tramite di società controllate, società fiduciarie o per interposta persona; b) a titolo di deposito, garanzia pignoratizia o usufrutto, qualora il depositario, il creditore pignoratizio o l’usufruttuario possa esercitare discrezionalmente i diritti di voto ad esse inerenti; c) oggetto di contratto di riporto o di contratti derivati, sotto determinate condizioni. Per quanto riguarda il calcolo delle partecipazioni rilevanti nelle imprese di assicurazione e di riassicurazione, l’art. 1, co. 2, lett. g) direttiva 92/49/CEE, l’art. 1, co. 2, lett. j) direttiva 2002/83/CE e l’art. 2, co. 3, paragrafo 2, direttiva 2005/68/CE, come modificati dalla direttiva 2007/44/

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In senso conforme cfr. Troiano, Commento sub artt. 68-69, cit., p. 106. Sulla definizione di controllo v. Giampaolino, Gli assetti, cit., p. 212 s.; Regoli, Commento sub art. 72, in Commentario al codice delle assicurazioni private, cit., p. 158 ss.; Maugeri, Commento sub art. 72, in Il codice delle assicurazioni private diretto da Capriglione, Padova, 2007, I, 2, p. 147 ss.; Farsaci, Il “rapporto di controllo” nel diritto delle assicurazioni, in Assicurazioni, 2006, I, p. 197 ss. e, da ultimo, Brestolli, Commento sub art. 72, in Commentario breve, a cura di Volpe Putzolu, cit., p. 374. 13

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CE, prevedono che i diritti di voto rilevanti per individuare le partecipazioni soggette agli obblighi autorizzativi e le condizioni di aggregazione sono quelli previsti dagli articoli 9 e 10 nonché 12, paragrafi 4 e 5, della direttiva 2004/109/CE (Direttiva trasparency). Pertanto, ai fini dell’autorizzazione, si prevede innanzitutto che i diritti di voto devono essere calcolati con riferimento a tutte le azioni che conferiscono diritti di voto, anche se il loro esercizio è sospeso. In presenza di azioni con diritti di voto appartenenti a diverse categorie, il calcolo deve essere effettuato con riferimento a ciascuna categoria: al numeratore vanno poste le azioni possedute e da acquisire appartenenti ad una stessa categoria e, al denominatore, tutte le azioni emesse dall’impresa di assicurazione appartenenti a quella categoria. Non sono presi in considerazione i diritti di voto: a) detenuti da imprese di investimento o banche nell’ambito del servizio di sottoscrizione e/o collocamento con assunzione a fermo ovvero con assunzione di garanzia nei confronti dell’emittente, di cui all’art 1, co. 5, lett. c), purché i diritti di voto connessi alla partecipazione non siano esercitati o altrimenti utilizzati per intervenire nella gestione dell’emittente e detti diritti siano ceduti entro un anno dall’acquisizione; b) inerenti alle azioni acquisite da parte di una banca o di una impresa di investimento, autorizzate a svolgere il servizio di negoziazione in conto proprio, quando agiscono in qualità di market maker, purché non intervengano nella gestione dell’impresa di assicurazione interessata né esercitino alcuna influenza su quest’ultima al fine dell’acquisizione delle azioni o del sostegno del prezzo di esse; c) inerenti alle azioni acquisite esclusivamente a fini di operazioni di compensazione e regolamento nel consueto ciclo di regolamento a breve (regolate nei tre giorni di negoziazione successivi all’operazione), né quelli detenuti da coloro che prestano il servizio di custodia, in quanto tali, di azioni purché costoro possano soltanto esercitare diritti di voto inerenti a dette azioni secondo istruzioni fornite per iscritto o con mezzi elettronici. Inoltre è previsto che i diritti di voto nella impresa di assicurazione detenuti da una società di gestione o da un’impresa di investimento nell’ambito della prestazione dei servizi di gestione collettiva del risparmio o di gestione di portafogli sono computati separatamente dai diritti di voto nella stessa impresa di assicurazione detenuti dalla società che controlla tali intermediari, a condizione che: 1) la società di gestione o l’impresa di investimento eserciti i diritti di voto inerenti alla partecipazione nella impresa di assicurazione in modo indipendente rispetto al soggetto controllante e ai soggetti appartenenti al suo gruppo; o

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2) i diritti di voto detenuti nell’ambito della gestione di portafogli siano esercitati dagli intermediari secondo le istruzioni impartite per iscritto o mediante mezzi elettronici dai clienti del servizio di gestione di portafogli. Infine, se il soggetto controllante o un soggetto facente parte del suo gruppo detengono una partecipazione nella impresa di assicurazione avvalendosi dei servizi di gestione collettiva del risparmio o di portafogli prestati da una società di gestione o da un intermediario del suo gruppo, il soggetto controllante non tiene conto dei relativi diritti di voto se gli intermediari esercitano tali diritti in modo indipendente e il relativo mandato di gestione non prevede clausole che consentano al soggetto controllante o a un soggetto del suo gruppo di interferire con il potere degli intermediari di assumere in modo indipendente le decisioni relative all’esercizio dei diritti di voto. Per quanto concerne la procedura di autorizzazione, la specificazione dei criteri cui l’Ivass deve attenersi è prevista dall’art. 68, co. 5 c.a.p. come modificato dall’art. 4, co. 1, lett. h), d.lgs. n. 21/2010 e dalla circolare Isvap n. 3/2009. L’Ivass valuta, al fine di garantire la sana e prudente gestione dell’impresa di assicurazione cui si riferisce il progetto di acquisizione e in modo proporzionale alla probabile influenza del potenziale acquirente sull’impresa medesima, la qualità del potenziale acquirente e la solidità finanziaria della prevista acquisizione avuto riguardo anche ai possibili effetti dell’operazione sulla protezione degli assicurati dell’impresa interessata. Nella Relazione al d.lgs. n. 21/2010 si legge che è stato necessario «mantenere il riferimento alla protezione degli assicurati che in ambito assicurativo qualifica gli obiettivi di vigilanza come previsto dall’art. 27 della proposta di direttiva (ora direttiva, ndr) Solvency II». La valutazione viene condotta sulla base dei seguenti criteri 14:

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Nel regolamento Isvap n. 10 del 2 gennaio 2008 avente ad oggetto la procedura di accesso all’attività assicurativa e l’albo delle imprese di assicurazione di cui al Titolo II c.a.p. era, fra l’altro, previsto che, in materia di autorizzazione all’acquisto di partecipazioni nelle imprese di assicurazione, i soggetti che detenevano il controllo dell’impresa o una partecipazione superiore al cinque per cento del capitale della stessa, rappresentato da azioni con diritto di voto, dovevano dimostrare di poter garantire la sana e prudente gestione dell’impresa secondo quanto stabilito dall’art. 4, d.m. (industria) n. 186/1997. Secondo l’art. 4 cit. «1. I soggetti che assumono o detengono una partecipazione di controllo o qualificata in una impresa assicuratrice, oltre a possedere il requisito di onorabilità di cui all’articolo 2, debbono garantire una sana e prudente gestione. La sussistenza di tale requisito deve essere valutata in considerazione della situazione complessiva del soggetto e dell’impresa di assicurazione, con particolare riferimento: a)

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a) la reputazione e la solidità finanziaria del potenziale acquirente (v. art. 77 c.a.p.), in particolare in considerazione del tipo di attività esercitata o prevista dall’impresa di assicurazione cui si riferisce il progetto di acquisizione; b) la reputazione e l’esperienza di coloro che, in esito alla prevista acquisizione, svolgeranno funzioni di amministrazione, direzione e controllo nell’impresa di assicurazione ai sensi dell’art. 76 c.a.p. 15; c) la capacità dell’impresa di assicurazione di rispettare e continuare a rispettare le disposizioni normative e regolamentari di vigilanza. In particolare, il gruppo di cui diventerà parte deve disporre di una struttura che permetta di esercitare una vigilanza efficace, di scambiare effettivamente informazioni tra le autorità competenti e di determinare la ripartizione delle responsabilità tra le autorità competenti; d) l’esistenza di motivi ragionevoli per sospettare che, in relazione alla prevista acquisizione, sia in corso o abbia avuto luogo un’operazione o un tentativo di riciclaggio di proventi di attività illecite o di finanziamento del terrorismo ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2005/60/CE o che la prevista acquisizione potrebbe aumentarne il rischio. Ed anche per questo profilo l’art. 59 della Direttiva Solvency II non aggiunge altro così come l’art. 58 (periodo di valutazione) per il profilo successivo. Circa la procedura di valutazione l’art. 68, co. 9 c.a.p. conferisce all’Ivass la potestà regolamentare di stabilire le disposizioni di attuazione. Anche per questa materia, occorre riferirsi alla comunicazione dell’Isvap n. 3/2009 che all’Allegato 1 dispone l’immediata applicazione alle imprese di assicurazione e di riassicurazione degli artt. 15 bis della direttiva 92/49/CEE, 15 bis della direttiva 2002/83/CE e 19 della direttiva 2005/68/CE, introdotti dalla direttiva 2007/44/CE i quali disciplinano i

alla capacità finanziaria, valutata in relazione alla necessità di dare attuazione a piani di risanamento o di finanziamento e, comunque, agli impegni finanziari volti ad assicurare l’esecuzione del programma di attività ovvero ad esigenze di gestione ed eventualmente di capitalizzazione dell’impresa stessa; b) alla sussistenza di eventuali collegamenti di carattere partecipativo, tecnico, organizzativo, finanziario, convenzionale nonché familiare con altri soggetti che non devono comportare ipotesi di influenza pregiudizievoli per l’autonomia gestionale e devono essere tali da non ostacolare l’effettivo esercizio delle funzioni di vigilanza». Sulla “sana e prudente gestione” delle imprese di assicurazione v. Desiderio, La sana e prudente gestione nella disciplina dei controlli assicurativi, in Dir. economia e assicuraz., 2010, p. 309 ss. 15 Sul punto mi permetto di rinviare al mio Assetti proprietari e gruppo nel diritto delle assicurazioni: alcuni spunti di riflessione, in Assicurazioni, 2008, I, p. 572 ss.

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termini per la valutazione delle istanze di acquisizione di partecipazioni da autorizzare. Nella citata comunicazione si legge che la disciplina comunitaria supera le previsioni procedimentali di cui all’articolo 10 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, nonché quelle di cui all’articolo 68, co. 5, c.a.p. (in relazione al termine massimo di conclusione del procedimento di 120 giorni) e relative disposizioni di attuazione. Secondo la disciplina comunitaria (confermata anche dalla direttiva Solvency II nell’art. 58), l’Ivass nel termine di sessanta giorni (non c’è più la possibilità di arrivare fino a centoventi giorni) dalla data di invio (e non più di ricezione) della comunicazione può vietare l’acquisizione della partecipazione. Viene applicata la regola del silenzio-assenso, ma il termine indicato può essere sospeso (non si parla più di interruzione) solo nel caso di richiesta di ulteriori informazioni e la sospensione non può eccedere i venti giorni lavorativi, trenta giorni se il soggetto oblato è extracomunitario. Con riferimento a quest’ultima ipotesi, eventuali ulteriori richieste di completamento o chiarimento delle informazioni ricevute non comportano una nuova sospensione dei termini. Nel corso del procedimento, l’Ivass può effettuare approfondimenti istruttori tramite accertamenti ispettivi o acquisire pareri, anche non obbligatori, di altre amministrazioni o autorità nazionali ed estere. In tali casi, i termini di conclusione del procedimento non sono sospesi. Tuttavia, la mancata tempestiva ricezione di informazioni o pareri che l’Ivass abbia richiesto ad altre amministrazioni o autorità e che essa ritenga necessari per il rilascio dell’autorizzazione può costituire motivo per vietare l’acquisizione della partecipazione. Nell’ipotesi in cui l’Ivass vieti l’acquisizione della partecipazione, una copia del relativo provvedimento deve essere inviata anche alla società interessata con l’espressa indicazione delle ragioni della decisione entro due giorni lavorativi dalla decisione e, in ogni caso, entro la scadenza del termine di conclusione del contratto. Nell’ambito del procedimento di autorizzazione, notevole rilevanza assumono nell’assunzione di interessenze in imprese di assicurazione e di riassicurazione i protocolli di autonomia disciplinati dall’art. 75 c.a.p., norma che riprende, in parte, il contenuto dell’art. 12, l. n. 20/91. Il procedimento si conclude positivamente non solo per il ricorrere dei requisiti appena visti, ma anche e soprattutto per il soddisfacimento di determinate condizioni che assicurino sia il sostegno finanziario per la stabilità dell’impresa assicurativa sia l’autonomia di gestione 16. Il protocollo

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Utile indicazione per il contenuto del protocollo era fornita dal decreto del

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di autonomia si sostanzia in una responsabile dichiarazione che consiste non tanto nella specifica assunzione di un impegno comportamentale verso l’impresa partecipata, quanto nella attestazione delle informazioni rese alla Vigilanza, con particolare riferimento ai collegamenti finanziari dell’azionista rilevante ed allo specifico impegno di costui diretto, da un lato, ad assicurare la correttezza e professionalità della gestione dell’azienda assicurativa, dall’altro, a garantire alla stessa gestione autonomia di azione e di iniziativa. Altro profilo regolato ex novo dal d.lgs. n. 21/2010 riguarda l’ipotesi in cui il potenziale acquirente sia un altro intermediario finanziario (medesima previsione è anche presente nella direttiva Solvency II all’art. 60). Prima dell’emanazione del d.lgs. n. 21/2010 di attuazione della direttiva 2007/44/CE non esisteva alcuna norma che regolasse in modo specifico la procedura da seguire nell’ipotesi in cui una particolare acquisizione di partecipazione necessitasse di una duplice autorizzazione (si pensi, ad esempio alle partecipazioni di banche nel capitale delle imprese di assicurazione) 17. Ora l’art. 68, co. 5-bis, c.a.p. introdotto dall’art. 4, co.

Ministro dell’Industria 24 aprile 1997, n. 186 recante il “regolamento concernente la determinazione dei requisiti di onorabilità e professionalità ai fini del rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività assicurativa, nonché la determinazione dei criteri per la concessione, la sospensione e la revoca delle autorizzazioni all’assunzione di una partecipazione qualificata o di controllo in imprese assicuratrici” ed è pubblicato in Gazz. uff., 28 giugno 1997, n. 149. L’art. 5 di tale provvedimento stabiliva le modalità di presentazione della domanda di autorizzazione, prescrivendo l’allegazione, unitamente ad altri documenti ed attestazioni, di una specifica attestazione con la quale l’azionista si doveva impegnare a: 1) non porre in essere atti o comportamenti contrari all’autonomia gestionale dell’impresa assicuratrice nonché agli interessi degli assicurati e, in generale, a far conoscere gli strumenti e le cautele che si intendono adottare per assicurare l’autonomia della gestione dell’impresa assicuratrice; 2) non imporre all’impresa controllata eventuali condizioni che rechino pregiudizio a quest’ultima nell’ipotesi di instaurazione di rapporti contrattuali con la stessa; 3) comunicare tempestivamente all’Isvap ogni successivo atto o fatto che modifichi le informazioni rese, nonché ogni ulteriore circostanza significativa riguardante la propria partecipazione nell’impresa assicuratrice; 4) fornire all’Isvap ogni ulteriore documentazione richiesta ai fini di legge e ad adeguarsi alle indicazioni prescritte dallo stesso Istituto con riferimento all’autonomia gestionale, alla stabilità dell’impresa assicuratrice ed alla sana e prudente gestione. Sul punto v. ora Parrella Commento sub art. 75, in Il codice delle assicurazioni private diretto da Capriglione, cit., p. 182 ss. 17 Per i problemi connessi alla necessità di collaborazione fra le autorità di vigilanza rinvio al mio La disciplina giuridica dei rapporti partecipativi tra banche ed imprese di assicurazione, Siena, 1994, p. 84 ss. e più recentemente I rapporti partecipativi fra banche e assicurazioni alla luce delle più recenti novità normative, in Dir. banc., 2010, I, p. 417 ss.

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1, lett. i) d.lgs. n. 21/2010 prevede espressamente che l’Ivass opera in piena consultazione – che sembra, almeno sulla carta, cosa diversa della collaborazione fra le Autorità di vigilanza di cui v’è traccia nel t.u.b., nel t.u.f. e nel c.a.p. – con le altre Autorità competenti, nei casi in cui il potenziale acquirente sia una banca, un’impresa di investimento, una sgr o una sicav. Lo stesso strumento di collaborazione, ossia la “piena consultazione”, deve essere attuata nell’ipotesi in cui la procedura di autorizzazione dovesse riguardare una delle imprese indicate all’art. 204, comma 1, lett. b) o c) 18. L’articolo appena citato – dedicato all’autorizzazione relativa all’assunzione del controllo di imprese di assicurazione e riassicurazione comunitarie – è stato modificato dall’art. 4, co. 1, lett. bb) d.lgs. n. 21/2010 che modifica l’unico comma della disposizione in parola e dall’art. 4, co. 1, lett. cc) del d.lgs. citato che aggiunge due nuovi commi all’art. 204 c.a.p. ossia, testualmente, i co. 1-bis e 2-bis 19. Oltre alla non corretta numerazione, visto che dopo l’1-bis c’è l’1-ter e non il 2-bis, c’è un’ulteriore errore posto nell’art. 68, co. 5-bis cit., dove alla fine c’è scritto che nell’ipotesi contemplate dall’art. 204, co. 1, lett. b) e c) trovano applicazione

18 V. Persano Adorno, Commento sub art. 204 c.a.p., in Commentario breve, a cura di Volpe Putzolu, cit., p. 688. 19 L’art. 4, co. 1 modifica così l’art. 204 c.a.p.: “aa) la rubrica dell’articolo 204 è sostituita dalla seguente: «(Autorizzazione relativa all’assunzione di partecipazioni in imprese di assicurazione o di riassicurazione)»; bb) all’articolo 204 il comma 1 è sostituito dal seguente: «1. L’ISVAP, nei casi in cui è previsto il rilascio dell’autorizzazione di cui all’articolo 68, opera in piena consultazione con le Autorità competenti degli altri Stati membri allorché l’acquisizione o la sottoscrizione di azioni sia effettuata da un acquirente che sia: a) una banca, un’impresa di assicurazione, un’impresa di riassicurazione, un’impresa di investimento o una società di gestione ai sensi dell’articolo 1-bis, punto 2, della direttiva 85/611/CEE autorizzati in un altro Stato membro; b) un’impresa madre, come definita secondo le rilevanti disposizioni dell’ordinamento comunitario sulla vigilanza supplementare delle imprese appartenenti ad un conglomerato finanziario, delle imprese di cui alla lettera a); c) una persona, fisica o giuridica, che controlla una delle imprese di cui alla lettera a); cc) all’articolo 204, dopo il comma 1, sono aggiunti, in fine, i seguenti: «1-bis. L’ISVAP scambia con le Autorità competenti tempestivamente tutte le informazioni essenziali o pertinenti per la valutazione. A tale riguardo, comunica su richiesta tutte le informazioni pertinenti e, di propria iniziativa, tutte le informazioni essenziali. 2-bis. L’ISVAP nel provvedimento di autorizzazione indica eventuali pareri o riserve espressi dall’Autorità competente a vigilare sul potenziale acquirente”.

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“le disposizioni di cui all’art. 204, commi 2 e 3”. È così che i commi 1-bis e 2-bis (rectius 1-ter) diventano “commi 2 e 3”. Ciò detto, cerchiamo di individuare concretamente l’ipotesi nella quale opera la piena consultazione fra l’Ivass e le Autorità competenti degli altri Stati membri. Ai sensi del primo comma dell’art. 204 c.a.p., nei casi in cui è previsto il rilascio dell’autorizzazione prevista dall’art. 68 c.a.p., l’Ivass opera in piena consultazione con le corrispondenti Autorità degli Stati membri quando l’autorizzazione è richiesta da: 1) un’impresa madre di una banca, di un’impresa di assicurazione, di una impresa di investimento, di una sgr ovvero di una sicav dove la definizione di impresa madre è tratta dalle disposizioni comunitarie in materia di vigilanza supplementare delle imprese appartenenti ad un conglomerato finanziario; 2) una persona sia fisica che giuridica controllante uno degli intermediari finanziari sopra citati. Il contenuto della “piena consultazione” è rinvenibile nei nuovi co. 1-bis e 2-bis (rectius 1-ter). In primo luogo, l’Ivass scambia con le Autorità competenti tempestivamente tutte le informazioni essenziali o pertinenti per la valutazione (co.1-bis). A tale riguardo, comunica su richiesta tutte le informazioni pertinenti e, di propria iniziativa, tutte le informazioni essenziali. In secondo luogo, l’Ivass nel provvedimento di autorizzazione indica eventuali pareri o riserve espressi dall’Autorità competente a vigilare sul potenziale acquirente (co. 2-bis).

4. (Segue) Gli obblighi di disclosure. Con riferimento agli obblighi di comunicazione, riteniamo opportuno distinguere: a) i soggetti tenuti alla comunicazione; b) le partecipazioni oggetto della comunicazione e c) i soggetti destinatari della comunicazione. Per quanto concerne il primo punto, l’obbligo di comunicazione ricade su chiunque 20 intende divenire titolare di una partecipazione come

20 Il termine chiunque era stato introdotto per la prima volta con la l. n. 281/1985, modificativa della l. n. 216/1974, e, dunque, l’obbligo di comunicazione “viene imposto a tutti indistintamente: non solo dunque, come era nella previsione originaria della norma, alle “società azionarie o a responsabilità limitata”, bensì anche alle società di

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definita all’art. 68, co. 1 c.a.p. in un’impresa di assicurazione o di riassicurazione (art. 69, co. 1, c.a.p. come modificato dall’art. 4, co. 1, lett. m), d.lgs. n. 21/2010). L’obbligo di comunicazione deve essere rispettato anche per tutte le variazioni in aumento o in diminuzione quando la variazione rientra nei limiti indicati con regolamento adottato dall’Ivass. All’Istituto spetta il compito di fissare presupposti, modalità, termini e contenuto delle comunicazioni anche con riguardo alle ipotesi nelle quali il diritto di voto spetta o è attribuito ad un soggetto diverso dal titolare della partecipazione. Nella comunicazione Isvap n. 3/2009 – che, si ricorda, è stata emanata nelle more dell’attuazione della direttiva 2007/44/CE – si legge che la percentuale del 5 per cento, eliminata a seguito della citata attuazione, rimane ai fini della comunicazione all’Ivass ai sensi degli artt. 9, l. n. 20/1991 21 e 69, co. 1 c.a.p. (par. 1).

5. (Segue) I poteri dell’Ivass: i poteri sanzionatori e la richiesta di informazioni. Infine, una delle più importanti novità di questa disciplina risiede nel potere sanzionatorio attribuito all’Ivass in caso di ritardo, incompletezza o omissioni delle comunicazioni o nel caso di comunicazioni che contengono indicazioni non veritiere. Per quanto attiene alla sanzione derivante dalla omissione delle comunicazioni o dalla omissione di richiesta di autorizzazione ovvero ancora nell’ipotesi in cui l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata, essa consiste nel congelamento del diritto di voto (art. 74, co. 1 c.a.p.) e, in caso di inosservanza, la deliberazione dell’assemblea è impugnabile a norma dell’art. 2377 c.c. solo se, senza il voto dei soci che avrebbero dovuto aste-

altro tipo, agli enti collettivi diversi dalle società, forniti o meno di personalità giuridica, agli enti pubblici, alle persone fisiche” (così Scognamiglio, Partecipazioni rilevanti e partecipazioni reciproche dopo la legge 281/1985, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Torino, 1991, p. 511). 21 La norma citata nel testo disciplinava gli obblighi di comunicazione delle partecipazioni nelle imprese di assicurazione ed in merito cfr. Cavallo Borgia, La comunicazione delle partecipazioni rilevanti in imprese assicurative, in Diritto ed economia dell’assicuraz., 1991, p. 357 ss.

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nersi dalla votazione, non si fosse raggiunta la necessaria maggioranza 22. Fatto importante è che anche l’Ivass è legittimato a proporre impugnazione entro sei mesi dalla deliberazione ovvero, se questa è soggetta ad iscrizione, entro sei mesi dall’iscrizione (art. 74, co. 2 c.a.p.) 23. A completamento della disciplina del controllo sulle partecipazioni azionarie, l’art. 71 c.a.p., individua in capo all’Ivass il potere di richiedere alle imprese di assicurazione e di riassicurazione e ai soggetti partecipanti al capitale di tali imprese, l’indicazione nominativa dei soci secondo quanto risulta dal libro dei soci, dalle comunicazioni ricevute e da altri dati a loro disposizione. L’Ivass può inoltre richiedere agli amministratori delle società e degli enti partecipanti al capitale delle imprese di assicurazione e di riassicurazione l’indicazione dei soggetti controllanti. È fatto obbligo, infine, alle società fiduciarie e alle sim informazioni sulle operazioni di assunzione di partecipazioni in imprese di assicurazione e riassicurazione 24. Che tale potere sia in stretta correlazione con la disciplina dell’obbligo di comunicazione delle partecipazioni è fin troppo evidente, posto che altrimenti il legislatore avrebbe potuto semplicemente fare rinvio al generale potere di richiedere informazioni attribuito all’Ivass dall’art. 190 c.a.p., che si occupa, appunto, della vigilanza informativa 25. Il potere di richiedere le informazioni indicate ha la funzione principale di verificare se sono stati rispettati gli obblighi di comunicazione di cui all’art. 69 c.a.p.. Una potestà così strutturata (richiesta di informazioni legata all’obbligo di comunicazione di partecipazioni rilevanti) non rappresenta una novità per l’ordinamento degli intermediari finanziari ed è attribuita sia alla Consob dall’art. 115, co. 2, relativamente alle società con azioni quotate, sia alla Banca d’Italia,

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V., sul punto, Brestolli, Commento sub art. 74, cit., p. 376. Secondo alcuni dalla previsione dell’art. 74 c.a.p. discende che “il provvedimento di autorizzazione non incide né sul perfezionamento né sulla efficacia della acquisizione” (così Troiano, Commento sub artt. 68-69, cit., p. 118). 24 Sul punto cfr. Ranucci, Commento sub art. 71, in Il codice delle assicurazioni private diretto da Capriglione, cit., p. 135 ss. e Brestolli, Commento sub art. 71 c.a.p., cit., p. 373 s.; per la disciplina dei mercati finanziari, v. Leboromi Pierozzi, Commento sub art. 17 t.u.f., in Commentario al testo unico delle disposizioni in materia finanziaria, a cura di Alpa e Capriglione, t. I, Padova, 1998, p.188 ss. 25 V. Corvese, Commento sub art. 190 c.a.p., in Commentario breve, a cura di Volpe Putzolu, cit., p. 662 ss. 23

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ai sensi dell’art. 21 t.u.b., per quanto riguarda le società bancarie 26 e sia, infine, a Banca d’Italia e Consob come previsto dall’art. 17 t.u.f. Nonostante la stretta correlazione fra l’art. 71 c.a.p. e il precedente art. 69 c.a.p., vi sono alcune differenze che vanno opportunamente sottolineate. Innanzitutto, il potere di richiedere informazioni da parte dell’Ivass ha un ambito soggettivo di applicazione molto più ampio e comunque diverso rispetto a quello previsto per gli obblighi di comunicazione delle partecipazioni al capitale delle imprese di assicurazione e di riassicurazione. Infatti, la richiesta di informazioni ha come oggetto l’indicazione nominativa di tutti i partecipanti al capitale degli intermediari finanziari citati e, quindi, non solo di quelli che possiedono una determinata partecipazione capace di influenzare la gestione societaria. Inoltre, al fine di conoscere gli effettivi titolari della partecipazione è previsto che le imprese di assicurazione e di riassicurazione nonché le società e gli enti che partecipano al capitale di queste, non possono limitarsi a comunicare quanto risulta dal libro dei soci, ma devono tenere in considerazione anche le comunicazioni ricevute e gli altri dati che sono in loro possesso (art. 71, co. 1 c.a.p.). Inoltre il potere di richiedere agli amministratori delle società e degli enti che partecipano al capitale delle imprese di assicurazione e di riassicurazione l’indicazione dei soggetti controllanti (art. 71, co. 2 c.a.p.) serve a risalire la catena partecipativa fino a giungere alla individuazione dei soggetti che realmente sono in grado di influenzare la gestione degli intermediari. In questo modo la sfera soggettiva di applicazione della richiesta di informazione si allarga anche a soggetti che non sono sottoposti alla vigilanza dell’Ivass così come accade nella vigilanza sul gruppo e, più in generale, nella vigilanza su base consolidata 27.

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Cfr. i commenti all’articolo citato nel testo di Tidu, Commento sub art. 21 t.u.b., in Commentario al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Capriglione, Padova, 1993, p. 132 ss. e, da ultimo, di Motti, Commento sub art. 20-21 Tub, in Commentario al T.U. delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Belli ed altri, Bologna, 2003, p. 325 e di Benocci, Commento sub art. 21 Tub, in Testo unico bancario – Commentario, a cura di Porzio ed altri, Milano, 2010, p. 217 ss. 27 Cfr. Corvese, La disciplina del gruppo assicurativo: struttura, indicazioni statutarie e adempimenti in caso di operazioni di ristrutturazione, in La regolazione assicurativa, a cura di Marano e Siri, Torino, 2009, p. 377 ss.

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6. I requisiti degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale. Premessa. Agli artt. 76, 77 e 78 c.a.p., riprendendo il contenuto di norme presenti in altri settori del mercato finanziario 28, il legislatore affida il compito di uniformare la disciplina assicurativa a quella degli altri settori del mercato finanziario per ciò che concerne, da un lato, i requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza degli esponenti aziendali (artt. 76 e 79 citt.) e, dall’altro, i requisiti di onorabilità dei titolari di partecipazioni rilevanti (art. 78, cit.). Prima dell’emanazione del d.m. (sviluppo) n. 220/2011, l’Isvap aveva dettato una disciplina transitoria nel regolamento n. 10 del 2 gennaio 2008 recante la procedura di accesso all’attività assicurativa e l’albo delle imprese di assicurazione di cui al Titolo II c.a.p. In particolare l’art. 45 del citato regolamento – a cui rinvia l’art. 9, co. 2 del medesimo provvedimento – prevedeva che fino all’emanazione del regolamento del Ministro dello sviluppo economico di cui all’art. 76 c.a.p., da adottare sentito l’Ivass, con il quale sarebbero stati fissati i requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza degli esponenti aziendali delle imprese, tali esponenti dovessero risultare in possesso dei requisiti di onorabilità e professionalità stabiliti dal decreto del ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato 24 aprile 1997, n. 186 29 e, nel caso di soggetti che svolgevano funzioni di controllo, anche

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Si intende far riferimento all’art. 26 t.u.b. per le banche, all’art. 209 t.u.b. per gli altri intermediari finanziari, all’art. 13 t.u.f. per le imprese di investimento, srg e sicav. 29 Per un commento al decreto citato nel testo si rinvia a Morvillo, Onorabilità, professionalità e sana e prudente gestione: il decreto n. 186 del 24 febbraio 1997, in Assicurazioni, 1997, I, p. 696 ss. e si veda altresì Martina, Commento sub art. 9, in La nuova disciplina dell’impresa di assicurazione sulla vita in attuazione della terza direttiva, commentario a cura di Partesotti e Ricolfi, Padova, 2000, p. 104 ss. Tale decreto sarà seguito da altri emanati dal ministro del tesoro per le banche, gli altri intermediari finanziari, le società di gestione del mercato e le società di gestione accentrata e, per una disamina a tutto tondo dei requisiti in tutte le discipline del mercato finanziario si rinvia, da ultimo, a De Lillo, I controlli sull’integrità degli esponenti: una rivoluzione silenziosa per il governo delle imprese vigilate, in Scritti in onore di Capriglione, a cura di Alpa ed altri, Padova, 2010, t. I, p. 477 ss. Si deve ricordare che prima dell’emanazione del decreto ministeriale citato nel testo, la materia dei requisiti degli esponenti aziendali era disciplinata, per le imprese di assicurazione sulla vita, dall’art. 115, d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174 e, per le imprese di assicurazione contro i danni, dall’art. 129, d.lgs. 17 marzo 1995, n. 175. Per un commento a questa disciplina transitoria si rinvia a Meo, Esponenti di società assicurative e requisiti

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dei requisiti stabiliti dal decreto del ministro della giustizia 30 marzo 2000, n. 162 30. Relativamente ai soggetti detentori del controllo dell’impresa da autorizzare o di una partecipazione superiore al cinque per cento del capitale dell’impresa, rappresentato da azioni con diritto di voto, si prevedeva che, fino all’emanazione del regolamento del Ministro dello sviluppo economico da adottare sentito l’Ivass ai sensi dell’art. 77 c.a.p., trovassero applicazione i requisiti di onorabilità stabiliti dall’art. 2, d.m. (industria) n. 186/1997. Analogamente si prevedeva che fino all’emanazione del regolamento Ivass di cui all’articolo 68 c.a.p. in materia di autorizzazione all’acquisto di partecipazioni nelle imprese di assicurazione, i soggetti detentori del il controllo dell’impresa o di una partecipazione superiore al cinque per cento del capitale della stessa, rappresentato da azioni con diritto di voto, dovevano dimostrare di poter garantire la sana e prudente gestione dell’impresa secondo quanto stabilito dall’art. 4, d.m. (industria) n. 186/1997. In questa sede non è possibile neppure accennare alle questioni connesse ai rinvii operati dalla disciplina transitoria 31, basti qui osservare che i provvedimenti citati, in quanto emanati prima della riforma del diritto societario, risultavano carenti soprattutto per ciò che concerneva il requisito della indipendenza e, pertanto, è senz’altro da considerare favorevolmente il recentissimo intervento del ministro dello sviluppo economico che ha finalmente ricoperto il vuoto normativo in quanto il ricorso generalizzato, da un lato, alle norme in tema di società quotate (art. 147-ter ss. t.u.f. e le disposizioni contenute nel Titolo V-bis del Regolamento emittenti adottato dalla Consob con delibera n. 11971 del 14

di professionalità, in Assicurazioni, 1996, I, p. 370. 30 Il d.m. (giustizia) n. 162/2000 contiene il regolamento recante norme per la fissazione dei requisiti di professionalità e onorabilità dei membri del collegio sindacale delle società quotate da emanare in base all’articolo 148 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 ed è pubblicato in Gazz. uff., 19 giugno 2000, n. 141. 31 Per un tentativo di ricostruzione della disciplina dei requisiti degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale di imprese di assicurazione dopo l’entrata in vigore del testo unico della finanza cfr. Corvese, Commento sub art. 4 d.lgs. 4 agosto 1999, n. 343, in Il rafforzamento della vigilanza prudenziale nel settore assicurativo, commentario a cura di Partesotti, Padova, 2002, p. 96 ss. e, dopo l’entrata in vigore del c.a.p., Valensise, Commento sub artt. 76-78, in Il codice delle assicurazioni private, cit., p. 190 ss. e Russo, Commento sub artt. 76-78 c.a.p., in Commentario breve, a cura di Volpe Putzolu, cit., p. 378 ss.

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maggio 1999 e più volte modificato e, dall’altro, ai Codici di autodisciplina previsti per le medesime società, cui la dottrina maggioritaria ha attinto per delineare i confini del requisito dell’indipendenza, lasciava comunque insoddisfatti 32. L’importanza assunta dal vuoto normativo in materia di requisiti degli esponenti aziendali aveva spinto nel 2010 alcuni senatori a presentare un apposito disegno di legge al fine di, si legge nella relazione al disegno, «stabilire tassativamente (il sottolineato è nostro) i requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione e di controllo nelle imprese di assicurazione» e ciò soprattutto «in relazione alla rilevanza che continua ad assumere, in termini di fatturato il settore assicurativo» (sic!). E per raggiungere tale fine veniva proposto, nell’unico articolo componente il disegno di legge, l’estensione agli esponenti delle imprese di assicurazione delle disposizioni dettate in materia di requisiti degli intermediari finanziari di cui all’art. 109 t.u.b. 33. Infine, la disciplina regolamentare non si compone solo delle norme presenti nel d.m. (sviluppo) n. 220/2011 ma anche, relativamente alle imprese di assicurazione e di riassicurazione con sede legale in Italia aventi titoli quotati nei mercati regolamentati italiani o di altri paesi dell’Unione Europea e con specifico riferimento all’organo di controllo, dell’ulteriore disciplina prevista per tali società (v. art. 2, co. 1, d.m. (sviluppo), n. 220/2011). Per “ulteriore disciplina” si deve intendere non solo quella primaria, dettata dal codice civile e dal t.u.f., ma anche quella secondaria dettata dal d.m. (giustizia) 30 marzo 2000, n. 162 (v. art. 2, co. 1, d.m. (sviluppo), n. 220/2011). Tale ultimo provvedimento, per espressa previsione del suo art. 4, prevede che esso trova applicazione anche ai sindaci delle società quotate che operano in settori sottoposti a

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Sul punto cfr. le importanti osservazioni di Santoro, Il coordinamento del testo unico bancario con la riforma delle società – Due profili problematici: gli assetti proprietari e l’indipendenza degli esponenti aziendali, in Dir. banc., 2005, I, p. 3 ss.; Ferro-Luzzi, Indipendente…da chi; da cosa?, in Riv. soc., 2008, p. 204 ss.; Rordorf, Gli amministratori indipendenti, in Tutela del risparmio, authorities, governo societario a cura di Bilancia e Rivolta, Milano, 2008, p. 169 ss. e, con specifico riferimento alle imprese di assicurazione v. Valensise, Commento sub artt. 76-78, cit., p. 200 ss. 33 Si tratta del ddl n. 2053 d’iniziativa dei senatori Lanutti e altri comunicato alla Presidenza il 3 marzo 2010 contenente la “Disciplina dei requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza degli esponenti aziendali operanti nel campo delle assicurazioni private” scaricabile in formato pdf in http://www.senato.it/service/PDF/ PDFServer/-BGT/00472186.pdf.

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vigilanza unitamente alle disposizioni di settore che prevedono ulteriori condizioni per la sussistenza dei requisiti di professionalità e onorabilità dei sindaci.

7. I requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza degli esponenti: l’ambito soggettivo di applicazione. Passando al profilo dei requisiti richiesti per gli esponenti aziendali, occorre premettere, prima di esaminare la disciplina in vigore, che la materia è stata oggetto di attenzione dalla Direttiva Solvency II e più recentemente anche dagli orientamenti Eiopa del 2013 (orientamenti 11-14). Ad una prima ed approssimativa lettura sia delle norme comunitarie che dei suddetti orientamenti l’attuazione della citata direttiva non comporterà grandi stravolgimenti all’attuale disciplina. L’art. 76 c.a.p. prevede che gli esponenti aziendali (rectius «i soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, di direzione e di controllo») devono possedere i requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza così come indicati nel regolamento adottato dal Ministro dello sviluppo economico, sentito l’Ivass. Posto che anche le imprese di assicurazione e di riassicurazione possono adottare modelli alternativi di governance rispetto al modello tradizionale, per esponenti aziendali devono intendersi tanti gli amministratori quanto il consiglio di gestione ed i suoi membri e per soggetti che svolgono la funzione di controllo i sindaci, i componenti del consiglio di sorveglianza e del comitato per il controllo interno della gestione (art. 78 c.a.p. e art. 8, d.m. (sviluppo) n. 220/2011). Sempre con riferimento all’ambito soggettivo, è inoltre espressamente ribadito che al rappresentante generale delle sedi secondarie all’estero di imprese nazionali e a quello delle sedi secondarie in Italia di imprese aventi sede legale in uno Stato terzo non si applicano, ai sensi del c.a.p. (art. 16 e 28 c.a.p.), le norme sui requisiti di indipendenza (art. 2, co. 2, d.m. (sviluppo) n. 220/2011). 7.1. La professionalità. Iniziamo dal primo requisito: la professionalità. Se i requisiti di onorabilità, che analizzeremo in seguito, servono a garantire una gestione sana e corretta sotto il profilo della correttezza e della autonomia gestionale, i requisiti di professionalità mirano a raggiungere il medesi-

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mo obiettivo sotto il profilo tecnico e amministrativo della gestione: gli esponenti aziendali delle imprese di assicurazione e di riassicurazione devono possedere non solo le qualità morali ma anche le necessarie competenze professionali. Queste ultime sono ora indicate nell’art. 3, d.m. (sviluppo) n. 220/2011 il quale prevede che gli amministratori ed i sindaci debbono essere scelti secondo criteri di professionalità e competenza fra persone che abbiano maturato una esperienza complessiva per almeno un triennio attraverso l’esercizio di una o più delle seguenti attività: a) attività di amministrazione, direzione o controllo presso società ed enti del settore assicurativo, creditizio o finanziario; b) attività di amministrazione, direzione o controllo in enti pubblici o pubbliche amministrazioni aventi attinenza con il settore assicurativo, creditizio o finanziario ovvero anche con altri settori se le funzioni svolte abbiano comportato la gestione o il controllo della gestione di risorse economiche finanziarie; c) attività di amministrazione, direzione o controllo in imprese pubbliche e private aventi dimensioni adeguate a quelle dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione presso la quale la carica deve essere ricoperta; d) attività professionali in materie attinenti al settore assicurativo, creditizio o finanziario, o attività di insegnamento universitario di ruolo in materie giuridiche, economiche o attuariali aventi rilievo per il settore assicurativo (art. 3, co. 1, d.m. sviluppo). Come si legge nella Relazione al regolamento l’art. 3 riproduce «in gran parte, con gli opportuni aggiornamenti (...) ed integrazioni (...), le disposizioni dell’articolo 3, commi 1, 2 e 3 del (...) decreto ministeriale n. 186/1997»; e si specifica, ma forse è pleonastico, che «le precisazioni introdotte relativamente ai requisiti maturati in attività presso amministrazioni ed enti pubblici, tengono conto di analoghe disposizioni presenti nell’ordinamento bancario e finanziario». Mettendo a confronto l’art. 3 citato con l’art. 3 d.m. (industria) n. 186/1997, si deve notare innanzitutto un ampliamento delle imprese in cui è possibile che il futuro amministratore o sindaco abbia svolto attività di amministrazione e controllo, infatti la lett. a) parla di «società ed enti del settore assicurativo, creditizio o finanziario» non correlando più tale termine all’esistenza di un capitale minimo che era fissato in 500 milioni di lire (v. art. 3, co. 1, lett. a), d.m. n. 186/1997). In secondo luogo, è stata aggiunta ex novo, la lett. b) che è stata ripresa da analoghe disposizioni presenti nell’ordinamento bancario, finanziario e del mercato mobiliare (v. art. 1, lett. d) d.m. (tesoro) n. 468/1998).

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Da sottolineare un’importante differenza con le analoghe disposizioni previste nell’ordinamento bancario/finanziario e nell’ordinamento del mercato mobiliare: in questi ultimi ordinamenti il riferimento alle imprese nelle quali l’esponente aziendale deve aver svolto la sua attività è generico mentre nell’ordinamento assicurativo è richiesto che l’attività di amministrazione, direzione o controllo sia stata svolta in società o enti del settore assicurativo, creditizio o finanziario. La specificazione è forse necessitata dalla particolarità della gestione dell’impresa di assicurazione e di riassicurazione che richiede una specifica professionalità raggiunta nel settore assicurativo e non in un settore qualsiasi ed in tale ottica è anche ascrivibile l’inciso «aventi rilievo per il settore assicurativo» per le attività di insegnamento universitario (art. 3, co. 1, lett. d), d.m. (sviluppo) n. 220/2011). Il d.m. (sviluppo) n. 220/2011 detta, all’art. 3, co. 2, disposizioni speciali per il presidente del consiglio di amministrazione, per i membri dei comitati esecutivi, per gli amministratori delegati e per un terzo dei sindaci effettivi e di quelli supplenti (per gli altri intermediari è richiesto solo per il presidente del consiglio di amministrazione come ad esempio nell’art. 3, co. 2, d.m. (tesoro), n. 468/1998 34), i quali devono essere scelti tra persone che abbiano maturato un’esperienza complessiva di almeno un quinquennio con riferimento esclusivo alle attività di cui alle lett. a), c) e d) dell’art. 3, co. 1. Diversi requisiti sono previsti, infine, per la carica di direttore generale o per quella che comporti l’esercizio di funzione equivalente, richiedendosi una specifica competenza professionale in materia assicurativa, creditizia o finanziaria, maturata attraverso esperienze di lavoro con funzioni dirigenziali di adeguata responsabilità per un periodo non inferiore ad un quinquennio (art. 1, co. 3, d.m. (sviluppo) n. 220/2011). Per ciò che riguarda i sindaci, l’ultimo comma dell’art. 3, d.m. (sviluppo) n. 220/2011 prevede che essi devono rispondere, oltre ai requisiti previsti al comma 1 del medesimo articolo, anche «al requisito di iscrizione nel registro dei revisori contabili». Premesso che dal gennaio del 2010 si parla di “revisione legale dei conti” e non più di “revisione contabile”, la disposizione appena citata sembra voler estendere a tutti i sindaci il citato requisito. In realtà, nonostante nella Relazione al regolamento si legge che

34 Sul punto v. Corvese, La disciplina degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale delle Sicav, delle Sim e delle Sgr, in Intermediari finanziari mercati e società quotate, a cura di Patroni Griffi, Sandulli e Santoro Torino, 1999, p. 197 ss.

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le integrazioni circa i requisiti dei sindaci sono state realizzate in coerenza con l’art. 76 c.a.p., tale norma nulla dice al riguardo e pertanto, poiché è da ritenersi illegittimo l’inserimento di una deroga al codice civile con una norma regolamentare, e, posto che la quasi totalità delle imprese di assicurazione devono essere costituite nella forma di società per azioni, a coloro i quali assumono la carica di sindaco in uno di questi intermediari si applicano oltre ai requisiti previsti dal regolamento anche la norma dettata dall’art. 2397 c.c. Quest’ultima norma prevede, in seguito alle modifiche apportate prima dalla riforma del diritto societario del 2003 (d.lgs. n. 6/2003) e poi dalla riforma della revisione legale (v. art. 37, co. 5, d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 39), che almeno un membro effettivo ed almeno un membro supplente devono essere scelti tra i revisori legali iscritti nell’apposito registro. Gli altri devono essere scelti fra gli iscritti negli albi professionali individuati con decreto del Ministro della giustizia, o fra i professori universitari di ruolo, in materie economiche o giuridiche. Sempre per la carica di sindaco si ricorda che nell’ipotesi in cui le imprese di assicurazione o di riassicurazione siano quotate per i requisiti di professionalità occorre far riferimento al d.m. (giustizia) 30 marzo 2000, n. 162 dettato ai sensi dell’art. 148, co. 4 35, come espres-

35 Ai sensi dell’art. 1, d.m. (giusitizia) n. 162/2000 «1. Le società italiane con azioni quotate nei mercati regolamentati italiani o di altri Paesi dell’Unione europea scelgono tra gli iscritti nel registro dei revisori contabili che abbiano esercitato l’attività di controllo legale dei conti per un periodo non inferiore a tre anni, almeno uno dei sindaci effettivi, se questi sono in numero di tre, almeno due dei sindaci effettivi, se questi sono in numero superiore a tre e, in entrambi i casi, almeno uno dei sindaci supplenti. 2. I sindaci che non sono in possesso del requisito previsto dal comma 1 sono scelti tra coloro che abbiano maturato un’esperienza complessiva di almeno un triennio nell’esercizio di: a) attività di amministrazione o di controllo ovvero compiti direttivi presso società di capitali che abbiano un capitale sociale non inferiore a due milioni di euro, ovvero b) attività professionali o di insegnamento universitario di ruolo in materie giuridiche, economiche, finanziarie e tecnico-scientifiche, strettamente attinenti all’attività dell’impresa, ovvero c) funzioni dirigenziali presso enti pubblici o pubbliche amministrazioni operanti nei settori creditizio, finanziario e assicurativo o comunque in settori strettamente attinenti a quello di attività dell’impresa. 3. Ai fini di quanto previsto dal comma 2, lettere b), e c), gli statuti specificano le materie e i settori di attività strettamente attinenti a quello dell’impresa. Gli statuti possono prevedere ulteriori condizioni aggiuntive per la sussistenza dei requisiti di professionalità previsti dai commi precedenti. 4. Non possono ricoprire la carica di sindaco coloro che, per almeno diciotto mesi, nel periodo ricompreso fra i due esercizi precedenti l’adozione dei relativi provvedimenti

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samente previsto dall’art. 2, co. 1, secondo periodo, d.m. (sviluppo) n. 220/2011. 7.2. Le situazioni impeditive: il ritorno. L’art. 3, co. 4 d.m. (industria) n. 186/1997 disciplinava anche le situazioni impeditive come fattispecie diversa dal requisito della professionalità, seppure presente all’interno della stessa norma regolante tale requisito, e da quello della onorabilità ed inibiva l’assunzione delle cariche di amministratore, direttore generale, liquidatore e sindaco, a coloro che, nei tre esercizi precedenti l’adozione dei relativi provvedimenti, avessero svolto attività di amministrazione, direzione, controllo o liquidazione in imprese assicuratrici, creditizie o finanziarie sottoposte a procedure di amministrazione straordinaria, fallimento o liquidazione coatta amministrativa. Si trattava, tuttavia, di un impedimento a tempo in quanto trascorsi tre anni dall’adozione di tali provvedimenti il divieto perdeva la sua efficacia. Dette ipotesi erano state anche correttamente definite di “inidoneità professionale presunta” in quanto configuravano «un’incapacità, seppure limitata nel tempo, sulla base della presunzione di un difetto di professionalità (competenza professionale), assumendo la sussistenza di un nesso causale fra la permanenza nella cariche di vertice e il verificarsi degli eventi che hanno provocato. Poi, l’adozione dei provvedimenti citati» 36.

e quello in corso hanno svolto funzioni di amministrazione, direzione o controllo in imprese: a) sottoposte a fallimento, a liquidazione coatta amministrativa o a procedure equiparate; b) operanti nel settore creditizio, finanziario, mobiliare e assicurativo sottoposte a procedure di amministrazione straordinaria. 5. Non possono inoltre ricoprire la carica di sindaco i soggetti nei cui confronti sia stato adottato il provvedimento di cancellazione dal ruolo unico nazionale degli agenti di cambio previsto dall’articolo 201, comma 15, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e gli agenti di cambio che si trovano in stato di esclusione dalle negoziazioni in un mercato regolamentato. 6. Il divieto di cui ai commi 4 e 5 ha la durata di tre anni dall’adozione dei relativi provvedimenti. Il periodo è ridotto ad un anno nelle ipotesi in cui il provvedimento è stato adottato su istanza dell’imprenditore, degli organi amministrativi dell’impresa o dell’agente di cambio». 36 Così Mazzini, Commento sub art. 26 t.u.b., in Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Belli ed altri, cit., p. 407 cui adde Desiderio, Le norme di recepimento della Direttiva comunitaria 77/780 in materia creditizia, in Banca d’Italia,

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La disposizione in commento non è più in vigore ma merita ricordare che disposizioni analoghe presenti nei regolamenti che disciplinano i requisiti degli esponenti aziendali di altri intermediari finanziari (come, solo per citarne una, l’art. 2, d.m. (tesoro) n. 468/1998 relativamente a sim, sgr e sicav), è stata dichiarata illegittima dal TAR Lazio, sez. I, 7 aprile 2000, n. 2907 37, secondo il quale dalla specifica previsione delle situazioni impeditive deriva una «limitazione – sia pure temporanea – all’esercizio dell’attività professionale dei soggetti interessati e all’autonomia dell’impresa in ordine alla scelta dei propri amministratori – interessi (…) costituzionalmente garantiti – prescindendo dell’accertata esistenza di effettive carenze di professionalità e di onorabilità (…) tali da compromettere la sana e prudente gestione dell’impresa e quindi gli interessi, parimenti garantiti dalla Costituzione, dei risparmiatori». L’art. 4, d.m. (sviluppo) n. 220/2011 ripropone le situazioni impeditive per l’attribuzione delle cariche di amministratore, direttore generale, sindaco o liquidatore in imprese di assicurazione e di riassicurazione, ovvero di cariche che comportino l’esercizio di funzioni equivalenti ed introduce un correttivo alla precedente disciplina onde evitare di cadere nella illegittimità rilevata dal TAR. In particolare il co. 1 corrisponde, con integrazioni ed aggiornamenti, al vigente art. 3, co. 4, d.m. (industria) n. 186/1997, e prevede l’impedimento per un triennio ai fini dell’assunzione delle cariche oggetto del presente regolamento per coloro che siano stati amministratori, direttori generali, sindaci o liquidatori di imprese che siano state sottoposte a procedure di amministrazione straordinaria, fallimento o liquidazione coatta amministrativa o procedure equiparate nei tre anni precedenti all’adozione dei relativi provvedimenti. Tale periodo di impedimento, in conformità alle analoghe disposizioni del settore bancario e finanziario, è ridotto ad un anno nell’ipotesi in cui il provvedimento relativo alla crisi aziendale sia stato adottato su segnalazione dell’interessato o su istanza dell’organo amministrativo competente dell’impresa. Il comma 2 riprende disposizioni relative all’impedimento triennale per i soggetti cancellati dal ruolo unico nazionale degli agenti di cam-

Quaderni di ricerca giuridica della consulenza legale, Roma, 1986, p. 37. 37 La sentenza è pubblicata in Dir. banc., 2000, I, 491 su cui v. Montonese, Sulle “situazioni impeditive” per l’assunzione dell’incarico di amministratore e sindaco nelle SIM, nelle SICAV e nelle SGR, in Impresa, 2000, p. 1533 ss. e TAR Lazio, 28 agosto 2001, n. 706, in TAR, 2001, I, 3159.

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bio (art. 201, co. 5, t.u.f.), già presenti nella normativa relativa ai sindaci delle società quotate e anche agli altri esponenti aziendali delle imprese del settore bancario e finanziario. I co. 3, 4 e 5 dell’articolo in commento rappresentano la vera novità non solo rispetto al d.m. (industria) n. 186/1997 ma anche con riferimento alla normativa vigente in materia di banche ed altri intermediari finanziari. La norma contenuta nel co. 3 prevede che le situazioni impeditive di cui al comma 1 non operano nel caso in cui l’organo sociale competente valuta, sulla base di adeguati elementi e secondo un criterio di ragionevolezza e proporzionalità, l’estraneità dell’interessato ai fatti che hanno determinato la crisi dell’impresa. A tal fine rilevano, fra gli altri, quali elementi probatori: 1) la durata del periodo di svolgimento delle funzioni dell’interessato presso l’impresa stessa e 2) l’assenza: a) di provvedimenti sanzionatori connessi; b) di condanne con sentenza anche provvisoriamente esecutiva al risarcimento dei danni in esito all’esercizio dell’azione di responsabilità ai sensi del codice civile e c) di delibere di sostituzione da parte dell’organo competente e di altri provvedimenti attinenti. Tale disposizione è finalizzata ad escludere, anche in relazione a quanto previsto dalla citata sentenza del TAR, che le situazioni impeditive di cui al co. 1 valgano anche per coloro che possono dimostrare di non essere stati direttamente o concretamente coinvolti nelle crisi aziendali. Nell’ipotesi in cui si verifichino le situazioni impeditive, i soggetti interessati sono obbligati a darne comunicazione all’impresa presso la quale svolgono le funzioni di amministrazione, direzione o controllo, eventualmente evidenziando con idonei elementi, ai fini della valutazione di cui al co. 3, la propria estraneità ai fatti che hanno determinato la crisi dell’impresa. All’obbligo della comunicazione è legata la facoltà (“eventualmente”) di presentare da parte del soggetto interessate gli elementi probatori delle situazioni sopra indicate. Ricevuta la comunicazione, l’organo competente assume le relative determinazioni in ordine alla sussistenza delle situazioni impeditive di cui al presente articolo entro e non oltre trenta giorni dalla comunicazione degli elementi da parte dell’interessato, dando comunicazione allo stesso ed all’IVASS della propria motivata decisione. La valutazione deve essere ripetuta se sopravvengono nuovi fatti o provvedimenti che possono avere rilievo a tal fine e che l’interessato è tenuto a comunicare tempestivamente. Anche nel caso di situazioni impeditive, il verificarsi di una di esse è causa di decadenza ai sensi dell’art. 7, d.m. (sviluppo) n. 220/2011.

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7.3. L’onorabilità. Per coloro che intendono ricoprire le cariche di amministratore, sindaco o direttore generale nelle imprese di assicurazione e di riassicurazione, i requisiti di «onorabilità» 38 si concretizzano nella insussistenza di situazioni impeditive tassativamente previste dal d.m. (sviluppo) 220/2011. Ai sensi dell’art. 5, co. 1, di detto regolamento tali situazioni sono le seguenti: 1) stato di interdizione legale ovvero interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e, comunque, tutte le situazioni previste dall’art. 2382 c.c.; 2) l’essere stato sottoposto a misura di prevenzione disposte ai sensi della l. 27 dicembre 1956, n. 1423 o della l. 31 maggio 1965, n. 575 e della l. 13 settembre 1982, n. 646 come successivamente modificate e integrate, salvi gli effetti della riabilitazione; 3) l’essere stato condannato con sentenza irrevocabile, salvi gli effetti della riabilitazione: a) a pena detentiva per uno dei reati previsti dalle norme che disciplinano l’attività bancaria, finanziaria, mobiliare, assicurativa e dalle norme in materia di mercati e valori mobiliari, di strumenti di pagamento nonché dal d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 e successive modificazioni ed integrazioni; b) alla reclusione per delitti societari o fallimentari; c) alla reclusione per un tempo non inferiore ad un anno per un delitto contro la pubblica amministrazione, contro la fede pubblica, contro il patrimonio, contro l’ordine pubblico, contro l’economia pubblica ovvero per un delitto in materia tributaria; d) alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni per un qualunque delitto non colposo. Come si legge nella Relazione al regolamento, l’art. 5 riproduce «in gran parte, con gli opportuni aggiornamenti ed integrazioni, le disposizioni dell’articolo 2 del (…) decreto ministeriale n. 186/1997 (…)» te-

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Il termine «onorabilità» è stato usato per la prima volta nella l. 5 marzo 1985, n. 74 con la quale veniva attribuito al Governo la delega per l’attuazione della direttiva CEE 77/780 (prima direttiva di coordinamento in materia bancaria). Il termine citato serviva ad indicare «specifici requisiti di onorabilità che (dessero) affidamento per una corretta gestione dell’attività bancaria in base al comportamento professionale delle persone stesse e ai loro precedenti penali». La medesima legge parlava, poi, di «requisiti di esperienza adeguati alla carica da rivestire, alle dimensioni ed all’ambito operativo dell’ente» ed entrambi tali requisiti dovevano essere richiesti per i soggetti che determinassero effettivamente l’orientamento dell’ente creditizio.

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nendo conto «in particolare delle più recenti analoghe disposizioni del settore finanziario». Vediamo quali sono le novità rispetto a quanto previsto nell’art. 2, d.m. (industria) n. 186/1997. In primo luogo, nel requisito sub 1) è stata mantenuta la lett. a) dell’art. 2 cit. con l’aggiunta del richiamo ai requisiti di cui all’art. 2382 c.c., norma che, negli altri ordinamenti è richiamata in via esclusiva senza, ovviamente, alcuna aggiunta. L’inserimento dei reati in materia bancaria e finanziaria, di cui al requisito sub 3, lett. a) rappresenta un’importante novità già presente in altri ordinamenti come quello dei mercati mobiliari dove il legislatore ha accolto le considerazioni svolte a suo tempo da parte della dottrina secondo la quale «nella disciplina speciale delle Sim i valori presi in considerazione dalle norme appaiono rovesciati», poiché «mentre si dà rilievo ad alcune ipotesi di reato preordinate alla tutela di beni-interessi di carattere più generale (es. reati contro il patrimonio o contro la fede pubblica), a prescindere dall’entità della pena inflitta, si trascurano del tutto (...) alcune ipotesi di reato (es. reati in materia bancaria e finanziaria, riciclaggio, ecc.) che presentano una più stretta attinenza con gli interessi coinvolti nell’attività di intermediazione mobiliare» 39. Inoltre il d.m. (sviluppo) n. 220/2011 ha riprodotto la soluzione presente in altri ordinamenti ad una delle più importanti questioni sorte nel vigore della disciplina previgente, ossia se la perdita dell’onorabilità si verifica anche in seguito alla sentenza che applica la pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 c.p.p. (c.d. patteggiamento) 40. Il problema viene risolto ora positivamente dall’art. 3, co. 2 del d.m. citato, dove si stabilisce che anche le sentenze penali emesse a seguito di patteggiamenti per i reati indicati sub 3, lett. a) e b), rilevano ai fini della sussistenza dell’onorabilità sempreché le pene non siano inferiori ad un anno 41.

39 Cfr. Freni, Commento sub artt. 7 e 8, d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415, in Capriglione (a cura di), La disciplina degli intermediari e dei mercati finanziari, Padova, 1997, p. 55. 40 In tema cfr. Mazzini, Commento sub art. 26, cit., p. 409, spec. note 37 ss. ed anche Marafioti, La condanna a pena concordata e l’onorabilità dei dirigenti bancari, in Dir. pen e proc., 1999, p. 227 ss.. 41 Per i sindaci di intermediari quotati l’art. 2, d.m. (giustizia) n. 162/2000 prevede che «1. La carica di sindaco delle società indicate dall’articolo 1, comma 1, non può essere ricoperta da coloro che: a) sono stati sottoposti a misure di prevenzione disposte dall’autorità giudiziaria ai sensi della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, o della legge 31 maggio 1965, n. 575, e

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Infine, con riferimento alle fattispecie disciplinate in tutto o in parte da ordinamenti stranieri, l’art. 5, ultimo comma del regolamento ministeriale prevede che la verifica dell’insussistenza delle condizioni suddette sia effettuata dall’Ivass sulla base di una valutazione di equivalenza sostanziale. 7.4. L’indipendenza. Il d.m. (sviluppo) n. 220/2011 è il primo dei decreti ministeriali aventi ad oggetto i requisiti degli esponenti aziendali degli intermediari finanziari a disciplinare il requisito dell’indipendenza. Come si legge nella Relazione al decreto detto requisito è individuato «in termini relativamente elastici, da un lato riprendendo, con esclusivo riferimento alle altre società di assicurazione e, quindi, alle esigenze di indipendenza rispetto ai concorrenti, il requisito dell’indipendenza tipico degli amministratori indipendenti veri e propri delle società quotate (comma 1), dall’altro rimettendo agli organi aziendali competenti (in caso di inerzia di tali organi rimane fermo il generale potere di intervento dell’ISVAP) la concreta valutazione di tale incompatibilità in termini correlati e proporzionali alla rilevanza e tipologia delle funzioni effettivamente conferite al singolo esponente aziendale (comma 3 e primo periodo del comma 2)» 42.

successive modificazioni e integrazioni, salvi gli effetti della riabilitazione; b) sono stati condannati con sentenza irrevocabile, salvi gli effetti della riabilitazione: 1) a pena detentiva per uno dei reati previsti dalle norme che disciplinano l’attività bancaria, finanziaria e assicurativa e dalle norme in materia di mercati e strumenti finanziari, in materia tributaria e di strumenti di pagamento; 2) alla reclusione per uno dei delitti previsti nel titolo XI del libro V del codice civile e nel regio decreto 16 marzo 1942, n. 267; 3) alla reclusione per un tempo non inferiore a sei mesi per un delitto contro la pubblica amministrazione la fede pubblica, il patrimonio, l’ordine pubblico e l’economia pubblica; 4) alla reclusione per un tempo non inferiore ad un anno per un qualunque delitto non colposo. 2. La carica di sindaco nelle società di cui all’articolo 1, comma 1, non può essere ricoperta da coloro ai quali sia stata applicata su richiesta delle parti una delle pene previste dal comma 1, lettera b), salvo il caso dell’estinzione del reati». 42 In realtà il primo regolamento a disciplinare il requisito dell’indipendenza è stato il d.m. (economia) 24 dicembre 2008, n. 206 recante “il regolamento di disciplina dei requisiti di professionalità, onorabilità ed indipendenza e patrimoniali per l’iscrizione all’albo delle persone fisiche consulenti finanziari”, pubblicato in G.U., n. 303 del 30

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Prima di analizzare compiutamente l’art. 6 cit., ritengo opportuno svolgere alcune considerazioni sul requisito dell’indipendenza così come emerge dalla disciplina codicistica e dalla disciplina speciale delle società quotate. Al fine di delineare i contorni del requisito in parola, occorre, innanzitutto, ricordare che il requisito dell’indipendenza è stato introdotto nella legislazione speciale ad opera del d.lgs. n. 37/2004 con il fine precipuo di coordinare il diritto del mercato finanziario con il diritto societario riformato. Pertanto è dal diritto comune che bisogna partire distinguendo le norme dettate per i componenti dell’organo esecutivo da quelle previste per l’organo di controllo interno ed effettuando, in particolare per il secondo organo, all’interno dei due gruppi di norme un’ulteriore differenziazione fra le regole poste per le società non quotate e quelle, speciali, previste per le società quotate. Partendo dall’organo esecutivo, la norma base per il requisito di indipendenza degli amministratori nel sistema tradizionale di amministrazione e controllo è l’art. 2387 c.c. il quale indica alle società la possibilità di subordinare statutariamente «l’assunzione della carica di amministratore al possesso di speciali requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, anche con riferimento ai requisiti al riguardo previsti dai codici di comportamento redatti da associazioni di categoria o da società di gestione dei mercati». La norma trova applicazione anche per i membri del consiglio di gestione (previsto nel c.d. modello dualistico) per il rinvio operato dall’art. 2409-undecies c.c. ed anche per il consiglio di amministrazione nel modello monistico per il rinvio operato dall’art. 2409-noviesdecies c.c. Tale norma non specifica cosa debba intendersi per amministratore indipendente ma indica alle società dove poter attingere le norme, ossia i codici di comportamento redatti dalle associazioni di categoria ovvero dalla società di gestione del mercato. Allo stato attuale una definizione di indipendenza è stata fornita dall’art. 3 del codice di autodisciplina per la corporate governance delle società quotate 43 (versione dicembre 2011) nel quale «un amministrato-

dicembre 2008. 43 V. Santoro, Il coordinamento, cit., p. 3; Maggi, Commento sub art. 26 t.u.b., in Il coordinamento della riforma del diritto societario con i testi unici della banca e della finanza, a cura di Maimeri, Milano, 2006, p. 131; Lener, Gli amministratori indipendenti, in Profili e problemi dell’amministrazione nella riforma delle società, a cura di Scognamiglio, Milano, 2003, p. 116 ss.; Denozza, L’“amministratore di minoranza” e i

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re non appare, di norma, indipendente nelle seguenti ipotesi, da considerarsi come non tassative: a) se,direttamente o indirettamente, anche attraverso società controllate, fiduciari o interposta persona, controlla l’emittente o è in grado di esercitare su di esso un’influenza notevole, o partecipa a un patto parasociale attraverso il quale uno o più soggetti possono esercitare il controllo o un’influenza notevole sull’emittente; b) se è, o è stato nei precedenti tre esercizi, un esponente di rilievo dell’emittente, di una sua controllata avente rilevanza strategica o di una società sottoposta a comune controllo con l’emittente, ovvero di una società o di un ente che, anche insieme con altri attraverso un patto parasociale, controlla l’emittente o è in grado di esercitare sullo stesso un’influenza notevole; c) se, direttamente o indirettamente (ad esempio attraverso società controllate o delle quali sia esponente di rilievo, ovvero in qualità di partner di uno studio professionale o di una società di consulenza), ha, o ha avuto nell’esercizio precedente, una significativa relazione commerciale, finanziaria o professionale: - con l’emittente, una sua controllata, o con alcuno dei relativi esponenti di rilievo; - con un soggetto che, anche insieme con altri attraverso un patto parasociale, controlla l’emittente, ovvero – trattandosi di società o ente – con i relativi esponenti di rilievo; ovvero è, o è stato nei precedenti tre esercizi, lavoratore dipendente di uno dei predetti soggetti; d) se riceve, o ha ricevuto nei precedenti tre esercizi, dall’emittente o da una società controllata o controllante una significativa remunerazione aggiuntiva (rispetto all’emolumento “fisso” di amministratore non

suoi critici, in Giur. comm., 2005, I, p. 767 ss.; Stella Richter, Gli amministratori non esecutivi nell’esperienza italiana, in Banca, impresa, soc., 2005, p. 163 ss.; Olivieri, Amministratori indipendenti e di minoranza nella legge sulla tutela del risparmio, in A.G.E., 2006, p. 23 ss.; Regoli, Gli amministratori indipendenti in Il nuovo diritto delle società. Liber amicorum Gian Franco Campobasso, 2, Torino, 2006, p. 383 ss.; Perassi, Consiglieri indipendenti e di minoranza, in Banche e sistema dualistico – Forme, Funzioni, Finzioni, a cura di Cera e Presti, in A.G.E., n. 2, 2007, p. 343 ss.; Mazzini, Commento sub art. 26 t.u.b., in Testo unico bancario – Commentario, a cura di Porzio ed altri, Milano, 2010, p. 256 ss.; Abbadessa, Nuove regole di governance nel progetto di legge sulla tutela del risparmio, in Nuove prospettive della tutela del risparmio (Atti del Convegno, Napoli, 27-28 maggio 2005), Milano, 2006, p. 58 ss.; Ventoruzzo, La composizione del consiglio di amministrazione delle società quotate dopo il d.lgs. n. 303 del 2006: prime osservazioni, in Riv. soc., 2007, p. 235 ss. e Salanitro, Nozione e disciplina degli amministratori indipendenti, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, p. 1 ss.

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esecutivo dell’emittente, ivi inclusa e al compenso per la partecipazione ai comitati raccomandati dal presente Codice) anche sotto forma di partecipazione a piani di incentivazione legati alla performance aziendale, anche a base azionaria; e) se è stato amministratore dell’emittente per più di nove anni negli ultimi dodici anni; f) se riveste la carica di amministratore esecutivo in un’altra società nella quale un amministratore esecutivo dell’emittente abbia un incarico di amministratore; g) se è socio o amministratore di una società o di un’entità appartenente alla rete della società incaricata della revisione legale dell’emittente; h) se è uno stretto familiare di una persona che si trovi in una delle situazioni di cui ai precedenti punti» 44. Al momento non sembra che vi siano ostacoli a che le imprese di assicurazione e di riassicurazione prevedano nei loro statuti requisiti di indipendenza per i loro esponenti aziendali così delineati tenendo presente che: 1) nel settore assicurativo, al pari di quanto accade in quello bancario e in quello del mercato mobiliare, il rispetto dell’indipendenza, al pari degli altri requisiti, non è rimessa all’autonomia statutaria ma è obbligatoria e 2) il contenuto dell’indipendenza deve essere stabilito dall’autorità competente e non già dalle associazioni di categoria 45. Passando all’organo di controllo 46 si deve notare che, a differenza di quanto visto per l’organo esecutivo, le norme del codice civile configurano come obbligatorio il requisito dell’indipendenza individuandone le specifiche caratteristiche. L’art. 2399 c.c. dispone che «non possono essere eletti alla carica di sindaco (...) b) il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado degli amministratori delle società da queste controllate, delle società che la controllano e di queste sottoposte a comune controllo; c) coloro che sono legati alla società o alle società che la controllano o a quelle sottoposte a comune controllo da un rapporto di lavoro continuativo di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero da altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettano l’indipendenza». Nel sistema dualistico analoga disposizione della citata lett. c) è prevista per i membri

44 Borsa Italiana s.p.a., Codice di Autodisciplina, dicembre 2011, in www.borsaitaliana. it. e v. anche, seppure con riferimento ad una precedente versione (2006) del Codice Baglioni e Grasso, Nuovo Codice di autodisciplina delle società quotate, in Le società, 2006, p. 1065 ss. e Presti, Tutela del risparmio e Codice di Autodisciplina delle società quotate, in A.G.E., 2007, p. 47 ss. 45 In senso conforme Santoro, Il coordinamento, cit., p. 8 ss. 46 V. Tantini, L’indipendenza dei sindaci, Padova, 2010, passim.

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del consiglio di sorveglianza all’art. 2409-duodecies, co. 10, lett. c) 47. Nel sistema monistico almeno un terzo degli amministratori deve possedere gli stessi requisiti di indipendenza previsti per i sindaci e, se previsti dallo statuto, i requisiti previsti dai codici di comportamento o da società di gestione del mercato (art. 2409-septiesdecies, co. 2); e gli stessi requisiti devono essere posseduti dai membri del comitato per il controllo interno sulla gestione (art. 2409-octiesdecies, co. 2, c.c.) 48. Come è stato correttamente osservato (seppure con riferimento ai requisiti degli esponenti delle banche ma il discorso non cambia), «la logica di maggiore rigore inerente alle figure alle quali sono rimesse funzioni di controllo risponde all’esigenza di assicurare la prevenzione di qualsivoglia forma di collusione fra funzione amministrativa e funzione di controllo» 49. Tuttavia alla regolamentazione secondaria del mercato assicurativo spetta indicare con maggiore rigore il requisito dell’indipendenza dell’organo di controllo interno posto che ad esso è attribuito l’importante compito di raccordo fra la società e l’Autorità di vigilanza 50. Per le società quotate la disciplina dell’indipendenza dell’organo di controllo, posto che il d.m. (giustizia) n. 162/2000 non regola (per ragioni temporali) tale requisito, si compone degli artt. 147-ter ss. t.u.f. e delle disposizioni contenute nel Titolo V-bis del Regolamento emittenti della Consob adottato con delibera n. 11971 del 14 maggio 1999 e più volte modificato 51 disciplina che in questa sede possiamo solo richiamare.

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Cfr. Cariello, Numero minimo di consiglieri di sorveglianza di società quotate in possesso di requisiti di professionalità, in Riv. soc., 2009, p. 767 ss. 48 Sul punto v. Santoro, Il coordinamento, cit., p. 10 ss. e Maggi, Commento sub art. 26, cit., p. 137 ss. In merito al requisito di indipendenza dei sindaci di società per azioni cfr. Libertini, Sui requisiti di indipendenza del sindaco di società per azioni, in Giur. comm., 2005, I, p. 237 ss. 49 Santoro, Il coordinamento, cit., p. 11. 50 V. art. 190, co. 3 c.a.p. ed il commento di Corvese, Commento sub art. 190, cit., p. 663. Si veda in particolare il regolamento Isvap n. 20 del 26 marzo 2008 avente ad oggetto i controlli interni all’impresa di assicurazione e, sul punto, cfr. D’Angelo, Controlli interni, compliance e gestione del rischio: quis custodiet ipsos custodet?, in La regolazione assicurativa, a cura di Marano e Siri, cit., p. 345 ss e, da ultimo, Montalenti, Il sistema dei controlli interni nel settore assicurativo, in Assicurazioni, 2013, I, p. 193. 51 Cfr. Olivieri, I controlli interni nelle società quotate dopo la legge sulla tutela del risparmio, in Giur. comm., 2007, p. 409 ss.; Vattermoli, Commento sub art. 2 l. risp., in La tutela del risparmio, a cura di A. Nigro e Santoro, Torino, 2007, p. 54 ss. ed ivi ampie indicazioni bibliografiche e Blandini, La nomina dei componenti gli organi di controllo interno nelle società quotate, in La tutela del risparmio nella riforma dell’ordinamento finanziario, a cura di De Angelis e Rondinone, Torino, 2008, p. 71 ss.

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La complessa disciplina dell’indipendenza fin qui ricostruita deve ora essere integrata con la disciplina speciale di secondo grado dettata dall’art. 6, d.m. (sviluppo) n. 220/2011 il quale individua sia la fattispecie che la disciplina connessa al requisito di cui si sta discutendo. Infatti, per quanto concerne la fattispecie, tre sono gli aspetti essenziali. In primo luogo, l’art. 6 cit. fa coincidere il requisito dell’indipendenza con l’insussistenza di situazioni di incompatibilità così genericamente individuate: lo svolgimento di analoga funzione, la sussistenza di rapporti di lavoro, di rapporti continuativi di consulenza o di prestazione d’opera retribuita o di altri rapporti di natura patrimoniale presso altre società di assicurazione o di riassicurazione, loro controllate o controllanti, tale che ne possono comprometterne l’indipendenza (co. 1). In secondo luogo, il regolamento precisa che le predette ipotesi non necessariamente configurano una incompatibilità incidente sul requisito dell’indipendenza ma occorre far riferimento ad alcuni criteri rilevanti ai fini della valutazione di compatibilità per la sussistenza del requisito di indipendenza ed anche per essi il regolamento predilige la genericità in quanto prevede che occorre tener conto della “diversa rilevanza delle funzioni” e del “diverso ruolo” esercitato dai soggetti interessati. In terzo luogo, l’art. 6 cit. introduce un’ipotesi nella quale non v’è ex lege incompatibilità: gli incarichi ed i rapporti con imprese appartenenti al medesimo gruppo assicurativo non si considerano tali da compromettere l’indipendenza. Fin qui i confini dell’indipendenza, per quanto concerne, dall’altro lato, la disciplina, il co. 3 dell’art. 6 cit. prevede due diversi obblighi, uno a carico degli esponenti aziendali e l’altro a carico degli organi aziendali cui spetta la valutazione del requisito di indipendenza. Relativamente al primo obbligo, è previsto che gli esponenti aziendali informano gli organi aziendali competenti degli incarichi e rapporti prima indicati, dichiarando se essi sono tali da incidere negativamente sulla loro indipendenza nei termini specificati nel presente articolo. Circa il secondo obbligo, gli organi aziendali competenti valutano le suddette dichiarazioni nonché le eventuali segnalazioni o informazioni autonomamente e legittimamente acquisite in merito, tenendo conto dei criteri sopraccitati ossia la “diversa rilevanza delle funzioni” e/o “diverso ruolo esercitato”. È chiara la volontà del regolatore di non voler disciplinare in modo compiuto il requisito dell’indipendenza ma di limitarsi a semplificare la fattispecie riassumendo la lunga elencazione già presente nel codice di comportamento redatto da Borsa italiana al quale occorre ancora far

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riferimento ed a dettare una disciplina concentrata nell’obbligo di autocertificazione e nel successivo controllo da parte degli organi competenti dell’autocertificazione. Particolare attenzione merita l’ipotesi di esclusione di configurazione dell’incompatibilità qualora l’esponente aziendale assuma analoga funzione e/o svolga uno dei rapporti elencati in un’impresa di riassicurazione o di riassicurazione appartenente allo stesso gruppo assicurativo. Se non si va errati, le regole poste dall’art. 6 in commento dovrebbero, al contrario, essere applicate qualora la funzione o il ruolo siano assunte in un’impresa non appartenente al medesimo gruppo assicurativo ossia ad un gruppo concorrente. Ma se così è all’esponente aziendale dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione dovrà applicarsi anche l’art. 36, d.l. 6 dicembre 2011, n. 201 52, coordinato con la legge di conversione 22 dicembre 2011, n. 214, recante: «disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici» 53. L’art. 36 reca nella rubrica “Tutela della concorrenza e partecipazioni personali incrociate nei mercati del credito e finanziari” ed introduce altre ipotesi di incompatibilità che si applicano agli esponenti aziendali di tutti gli intermediari finanziari ivi compresi quelli che qui interessano. Nella specie è fatto divieto ai titolari di cariche negli organi gestionali, di sorveglianza e di controllo e ai funzionari di vertice di imprese o gruppi di imprese operanti nei mercati del credito, assicurativi e finanziari di assumere o esercitare analoghe cariche in imprese o gruppi di imprese concorrenti (co. 1). Ai fini dell’individuazione dell’ambito soggettivo di applicazione del divieto, si intendono concorrenti le imprese o i gruppi di imprese tra i quali non vi sono rapporti di controllo ai sensi dell’art. 7, l. 10 ottobre 1990, n. 287 (nota come legge antitrust) e che operano nei medesimi mercati del prodotto e geografici (co. 2) 54.

52 Il d.l. è pubblicato in G.U. - Serie generale - n. 284 del 6 dicembre 2011 - Suppl. ord. n. 251. 53 La l. è pubblicata in G.U. - Serie generale - n. 300 del 27 dicembre 2011 - Suppl. ord. n. 251. 54 Sul punto v. Corapi, In tema di interpretazione delle nozioni di concentrazioni e di controllo nella legge 10 ottobre 1990, n. 287, in Riv. dir. civ., 1992, p. 525 ss.; Lamandini, Il controllo – nozioni e tipo nella legislazione economica, Milano, 1995, p. 57 s.; Marchetti, Note sulla nozione di controllo nella legislazione speciale, in Riv. soc., 1992, p. 1 ss.; Notari, La nozione di controllo nella disciplina antitrust, Milano, 1996; Belli, Santoro, Il titolo V della legge antitrust: «Norme in materia di partecipazione al capitale di enti

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I titolari di cariche incompatibili possono optare nel termine di 90 giorni dalla nomina. Decorso inutilmente tale termine, decadono da entrambe le cariche e la decadenza è dichiarata dagli organi competenti degli organismi interessati nei trenta giorni successivi alla scadenza del termine o alla conoscenza dell’inosservanza del divieto. In caso di inerzia, la decadenza è dichiarata dall’Autorità di vigilanza di settore competente (co. 2 bis); nel nostro caso l’Ivass. Infine, è previsto che in sede di prima applicazione, il termine per esercitare l’opzione di 90 giorni è di 120 giorni decorrenti dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del citato decreto (co. 2-ter) 55. 7.5. La decadenza. La mancanza originaria dei requisiti appena visti rappresenta una causa di ineleggibilità che si aggiunge a quelle indicate dall’art. 2382

creditizi», in Dir. banc., 1992, I, p. 279 ss., Patroni Griffi, Nuove norme in materia di partecipazione al capitale di enti creditizi, Appendice di aggiornamento, in Diritto antitrust italiano, a cura di Frignani ed altri, vol. II, Bologna, 1993, p. 1375 ss.; Spolidoro, Il concetto di controllo nel codice civile e nella legge antitrust, in Riv. soc., 1995, p. 457 e, da ultimo, Donato-Seminara, La speciale disciplina delle banche popolari cooperative, Torino, 2011, p. 59 ss. ed ivi ampie indicazioni di bibliografia. 55 In un’indagine conoscitiva realizzata dall’Antitrust nel 2009, l’Autorità prende in considerazione il problema del cumulo degli incarichi prendendo le mosse dall’art. 2390 c.c., relativo alla disciplina delle s.p.a.,in base al quale «gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un’attività in concorrenza per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo l’autorizzazione dell’assemblea». Secondo l’Antitrust, «questa disposizione costituisce una delle poche, se non l’unica, disposizione che tratta direttamente del cumulo di incarichi tra organi di governance tra concorrenti, vietando che un membro del CdA svolga analogo incarico in concorrenti” ed osserva che “il limite all’efficacia di questa disposizione, che peraltro non persegue evidentemente l’interesse pubblico della tutela della concorrenza, è dovuto alla circostanza che per derogare al divieto è sufficiente l’autorizzazione dell’assemblea, autorizzazione che può essere data anche in via generale e preventiva, ad esempio inserendo apposite clausole statutarie» (Autorità garante della concorrenza e del mercato, La corporate governance di banche e compagnie di assicurazione; Indagine conoscitiva n. 36, Roma, marzo 2009).

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c.c.56 per gli amministratori, e dagli artt. 2397 e 2399 c.c. per i sindaci 57, anche se le disposizioni dettate per le imprese di assicurazione non sono esplicite in questo senso. Ma qual è la procedura che deve essere seguita per le verifica dei suddetti requisiti e cosa accade in caso di sopravvenuto verificarsi del difetto dei requisiti medesimi? Per rispondere a queste domande bisogna procedere per gradi ricordando, innanzitutto, che la professionalità, l’onorabilità e l’indipendenza rappresentano alcune delle condizioni sulla base delle quali l’Ivass autorizza la costituzione delle imprese di assicurazione 58. Detto ciò ci aspetteremmo che la mancanza dei requisiti degli esponenti, in quanto condizione per il rilascio dell’autorizzazione, produca effetti sull’impresa di assicurazione e di riassicurazione in quanto tale (ad esempio, la revoca dell’autorizzazione) ed invece comporta esclusivamente la decadenza dall’ufficio dei soggetti che svolgono funzioni di amministrazione, direzione e controllo (art. 7, co. 1, d.m. n. 220/2011). La verifica della sussistenza dei requisiti di professionalità, onorabilità, indipendenza e delle situazioni impeditive è rimessa, ai sensi dell’art. 76, co. 2 c.a.p., al consiglio di amministrazione 59 o, se il modello di

56 In questo senso cfr. Ceci Japichino, Commento sub art. 6 d.P.R. 27 giungo 1985, n. 350, in Codice commentato della banca, a cura di Capriglione e Mezzacapo, vol. II, Milano, 1990, p. 1479 dove l’a. afferma che «quando i requisiti di professionalità e di onorabilità difettano già al momento della nomina delle persone ai vertici dell’istituzione creditizia dovrebbe piuttosto trattarsi di invalidità dell’atto di nomina, anziché di decadenza dall’ufficio. La mancanza delle capacità professionali e della correttezza richieste dagli esponenti bancari per l’assolvimento dell’incarico costituirebbe, in effetti, una causa di ineleggibilità al pari di quelle previste dall’art. 2382 c.c. per gli amministratori e dagli artt. 2397 e 2399 c.c. per i sindaci delle società per azioni; cause che rendono, appunto, nulla la nomina o l’elezione di persone che si trovino in una delle situazioni contemplate da quelle norme (...) e che se, invece, si verificano successivamente all’assunzione della carica provocano la decadenza (...)». Nello stesso senso Freni, Requisiti di onorabilità e di professionalità, in La nuova legge bancaria, a cura di Ferro Luzzi e Castaldi, t. 1, Milano, 1996, p. 425; Mosco, I requisiti di professionalità dei soci e degli esponenti bancari, in La nuova disciplina dell’impresa bancaria, a cura di Morera e Nuzzo, vol. I, Milano, 1996, p. 104 e Pisani, Commento sub art. 13 t.u.f., in Testo unico della finanza, a cura di Campobasso, Torino, 2002, p. 110 s.. Nello stesso senso ma con riferimento alla disciplina delle sim cfr. Freni, Commento sub artt. 7 e 8, cit., 60 e Pisani, Commento sub art. 7 d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415, in L’Eurosim, a cura di Campobasso, Milano, 1997, p. 61. 57 Sul punto v. Pastori, Decadenza del sindaco ed illegittimità della deliberazione del collegio sindacale, in Giur. comm., 2009, p. 1113 ss. 58 Sul punto v. Martina, L’accesso all’attività assicurativa, in La regolazione assicurativa, a cura di Marano e Siri, cit., p. 336 s. 59 Sul punto v. Sasso, La “dichiarazione” di decadenza dei membri degli organi di

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amministrazione e controllo adottato è quello dualistico, al consiglio di sorveglianza o al consiglio di gestione che deve dichiarare la decadenza trascorsi trenta giorni dalla nomina o dalla conoscenza del difetto sopravvenuto. Tre sono le questioni più rilevanti legate alla procedura appena indicata. Innanzitutto, relativamente all’organo competente a dichiarare la decadenza v’è da notare lo scostamento con le norme di diritto comune nelle quali è previsto che le decisioni relative alla composizione degli organi societari sono rimesse all’assemblea degli azionisti. Si tratta di un vero e proprio scostamento che non rientra, come taluno ha invece osservato, in quelle ipotesi previste dal diritto societario in cui «l’organo amministrativo può assumere decisioni al fine di garantire il proprio regolare funzionamento (art. 2383 c.c.)» 60, ma che fa parte di quella tendenza, oramai consolidata, inaugurata dal legislatore speciale, di attribuire all’organo esecutivo funzioni che il codice civile fa proprie dell’organo deliberativo. Scostamento che assume ancora più significatività se si pensa che il consiglio di amministrazione può pronunciarsi in merito alla decadenza di membri del collegio sindacale. Fintantoché ai sindaci era richiesta solamente l’iscrizione al registro dei revisori contabili (ora legali) ovvero la doppia iscrizione in tale registro e in un albo professionale, la discrezionalità del consiglio di amministrazione nel controllo dei requisiti risultava inesistente e, quindi, non si presentava come realistico il pericolo di alterazione dei rapporti fra i due organi societari. La circostanza che ai sindaci delle imprese di assicurazione e di riassicurazione sia stata applicata la medesima disciplina degli amministratori non ha come conseguenza l’accresciuta discrezionalità nella verifica rimessa al consiglio di amministrazione, poiché quest’ultimo deve valutare la professionalità, l’onorabilità e l’indipendenza avendo presente, come abbiamo visto, talune situazioni oggettive. Si ricorda, inoltre, che l’organo amministrativo è sempre sotto il controllo dell’Ivass che in caso di inerzia può dichiarare la decadenza 61.

controllo, in La tutela del risparmio, a cura di De Angelis e Rondinone, cit., p., 102 ss., spec. p. 103 ss. 60 V. Freni, Commento sub artt. 7 e 8, cit., p. 60. 61 Come è stato giustamente osservato, anche se con riferimento ad analoga disposizione presente in altra legislazione di settore, «perché possa sussistere la situazione di conoscenza della mancanza dei requisiti, che la norma individua come necessario

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La seconda questione riguarda l’individuazione dell’organo competente a dichiarare la decadenza nell’ipotesi in cui l’intermediario abbia optato per il modello dualistico di amministrazione e controllo perché per tale ipotesi il legislatore (v. art. 76, co. 2 c.a.p.) offre un’alternativa fra consiglio di sorveglianza o consiglio di gestione senza specificare quando compete all’uno e quando, invece, compete all’altro. Come bisogna interpretare la disgiuntiva? E perché è stata prevista la competenza anche del consiglio di sorveglianza? La spiegazione della doppia competenza è da ricercare, ad avviso di chi scrive, nella specificità del modello dualistico soprattutto per la circostanza che solo il consiglio di sorveglianza è eletto dall’assemblea mentre i membri del consiglio di gestione sono eletti dal consiglio di sorveglianza 62. Pertanto si tratterebbe di una competenza concorrente che però contrasta con l’esigenza del legislatore sia speciale che del codice civile riformato di individuare esattamente le competenze e le connesse responsabilità degli esponenti. La terza questione consiste nello stabilire qual è la procedura che deve essere seguita dal consiglio di amministrazione per la verifica dei requisiti sulla base della quale dichiarare la decadenza. Senza dubbio, la disposizione di cui all’art. 76, comma 2 c.a.p. citata si riferisce all’ipotesi in cui la società sia già operante, mentre sarà di competenza dell’Ivass la verifica dei requisiti di cui sopra al momento del rilascio dell’autorizzazione alle società assicurative. La quarta ed ultima questione, riguarda la sanzione in caso di mancato rispetto del requisito dell’indipendenza perché anche questa ipotesi, come espressamente previsto dall’art. 76, co. 3 c.a.p., determina la decadenza mentre la dottrina ritiene che la soluzione risieda nell’art. 2391 c.c. e, quindi, nella sanzione della responsabilità e delle sorti delle delibere eventualmente adottate 63. Per risolvere la questione, si deve in-

presupposto per il sorgere dell’obbligo e della responsabilità, e per il decorso del termine di adempimento dell’obbligo, è necessario che l’organo responsabile abbia conoscenza ufficiale e formale del venir meno del requisito di onorabilità e professionalità, poiché soltanto sulla base dell’accertamento certo del fatto può ritenersi sussistere l’obbligo. Tale conoscenza può ben acquisirla di propria iniziativa, assumendo informazioni nelle sedi competenti, ove abbia notizia informale del possibile venir meno dei predetti requisiti» (v. Palombi, Piga, Diritto penale dell’economia e dell’impresa, Mercato finanziario, vol. II, Torino, 1996, p. 1012). 62 Sulle specificità del modello dualistico e sulle problematiche connesse alla sua applicazione alle banche cfr., per tutti, Cera e Presti, Banche e sistema dualistico – Forme, Funzioni, Finzioni, in A.G.E., 2007, n. 2. 63 Cfr. Regoli, Commento sub art. 76, cit., p. 173 s.

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nanzitutto partire dalla considerazione che l’art. 76, co. 3 c.a.p. “ricopia” le disposizioni gemelle contenute nell’art. 26, co. 2-bis, t.u.b. e nell’art. 13, co. 3-bis t.uf entrambe introdotte successivamente alla riforma del diritto societario del 2003 con il d.lgs. n. 37/2004 che aveva il precipuo compito di coordinare i due Testi Unici con le norme codicistiche riformate. È evidente che il legislatore della riforma ben conosceva il novellato contenuto dell’art. 2391 c.c. ma ha voluto appositamente introdurre una norma, definita giustamente “apparentemente pleonastica” che derogasse alla norma codicistica in modo che la mancanza del requisito di indipendenza anche dell’amministratore avesse come conseguenza la decadenza come accade per i requisiti di professionalità e di onorabilità. Passando ora alla verifica da parte del consiglio di amministrazione, essa deve essere effettuata in due momenti distinti: 1) quando l’esponente è stato eletto o nominato e 2) in caso di sopravvenuto verificarsi della perdita dei requisiti. La responsabilità della verifica, ai sensi dell’art. 76 c.a.p., del possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità, indipendenza e delle situazioni impeditive degli esponenti aziendali, ivi compresi i sindaci supplenti, è rimessa ai sensi dell’art. 10, co. 2 d.m. (sviluppo) n. 220/2011 agli «organi aziendali competenti» che, pertanto saranno: l’organo di amministrazione o, in caso di amministratore unico, l’organo di controllo della società. Si specifica poi semplicemente che le determinazioni assunte dagli stessi organi devono essere debitamente motivate e trasmesse all’Ivass. S’è già accennato che in caso di inerzia del consiglio di amministrazione, la decadenza è pronunciata dall’Ivass 64. Si tratta di un potere sostitutivo ed il suo esercizio è, senza dubbio, discrezionale in quanto, come è stato giustamente affermato – con riferimento alla disciplina di altri intermediari finanziari ma le considerazioni svolte possono essere valide anche per le imprese di assicurazione – «l’autorità è tenuta non solo a compiere un riesame della documentazione di supporto, ma anche delle stesse valutazioni effettuate dal consiglio di amministrazione (e) nel caso queste dovessero risultare insufficienti o irragionevoli si ritiene che , al fine di tutelare la sana e prudente gestione della sim, la Consob (o

64 La pronuncia della decadenza da parte dell’Autorità citata nel testo piuttosto che dall’organo amministrativo ha come conseguenza che «per la tutela giurisdizionale delle proprie posizioni soggettive gli interessati potranno proporre, avverso il provvedimento dell’organo di vigilanza, ricorso amministrativo al CICR e giurisdizionale al Tar, mentre dovranno adire l’autorità giudiziaria ordinaria se la decadenza è stata dichiarata dal consiglio di amministrazione». Così Ceci Japichino, Commento sub art. 6, cit., p. 1481.

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la Banca d’Italia) possa comunque intervenire» 65 e lo stesso si può dire per l’Ivass nei confronti di imprese di assicurazione e di riassicurazione. Le conseguenze derivanti dalla decadenza sono quelle previste dal codice civile per gli amministratori (art. 2386 c.c.) e per i sindaci (art. 2401 c.c.). 7.6. La sospensione. Accanto alla decadenza il c.a.p. (v. art. 76, comma 4) prevede la sospensione dalla carica 66, misura interdittiva temporanea che «consente di estromettere dai centri decisionali dell’impresa, per il tempo necessario a chiarirne la posizione, i soggetti che in forza di un provvedimento provvisorio offrono ridotte garanzie sul piano dell’integrità morale e la cui permanenza ai vertici aziendali potrebbe, comunque, pregiudicare l’immagine esterna dell’intermediario» 67. Anche questo strumento si inserisce nell’ottica di garantire la sana e prudente gestione dell’intermediario. L’art. 7, co. 2, d.m. (sviluppo) n. 220/2011 indica come cause di sospensione dalle funzioni di amministratore, sindaco e direttore generale: 1) la condanna con sentenza non definitiva per quegli stessi reati che, se accertati con sentenza irrevocabile, impediscono di ricoprire le cariche suddette per mancanza del requisito di onorabilità (v. art. 5, co. 1, lett. c), d.m. (sviluppo) n. 220/2011); 2) l’applicazione su richiesta delle parti di una delle pene per i reati sopra specificati con sentenza non definitiva (art. 5, co. 2 d.m. (sviluppo) n. 220/2011); 3) l’applicazione provvisoria di una delle misure previste dall’art. 10, co. 3, l. n. 675/1965, come sostituito da ultimo dall’art. 3, l. n. 55/1990 e successive modificazioni o integrazioni (si tratta del divieto di ottenere iscrizioni, contributi, concessioni, finanziamenti, autorizzazioni ecc.);

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V. Freni, Commento sub artt. 7 e 8, cit., p. 61. La figura della sospensione viene ripresa dal diritto pubblico, in particolare dal diritto pubblico del lavoro, per ovviare ai troppo lunghi tempi tecnici necessari per far dichiarare al consiglio di amministrazione la decadenza dalle funzioni di un soggetto che si fosse trovato in una delle condizioni indicate dalla legge. Sulla sospensione di esponenti aziendali di società v. Di Pace, Nomina e revoca degli organi sociali: quando è possibile la sospensione?, in Cooperative e consorzi, 2009, fasc. 1, p. 32 ss. e Fotticchia, Su revoca e sospensione del sindaco di spa, in Giur. comm., 2010, II, p. 151 ss. 67 Cfr. Freni, Commento sub artt. 7 e 8, cit., p. 61. 66

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4) l’applicazione di una misura cautelare di tipo personale, che rappresenta una novità. Per quanto concerne la durata della sospensione, il regolamento prevede che nelle ipotesi sub 3 e 4 la sospensione si applica in ogni caso per l’intera durata delle misure ivi previste; la locuzione «in ogni caso» sta ad indicare, ad avviso di chi scrive, chiunque sia il soggetto sospeso e, quindi, viene attratto nella disciplina anche il direttore generale nominato dagli amministratori per cui di regola la sospensione non può durare oltre quarantacinque giorni (art. 7, co. 4, d.m. (tesoro) n. 468/1998). Nel caso la sospensione colpisca un direttore generale bisogna distinguere se esso sia stato nominato dal consiglio di amministrazione o dall’assemblea: nel primo caso, sarà lo stesso organo amministrativo a sostituire il dirigente, nel secondo caso, invece, gli amministratori dovranno rimettere all’assemblea la nomina del sostituto (art. 7, co. 4, d.m. 220/2011). Inoltre, ai sensi dell’art. 76, co. 4 c.a.p. la sospensione, al pari della decadenza, deve essere dichiarata dal consiglio di amministrazione, dal consiglio di sorveglianza o dal consiglio di gestione secondo le modalità che abbiamo già in precedenza indicato. Il d.m. n. 220/2011 non risolve, tuttavia, i molti dubbi evidenziati dalla dottrina con riferimento a norma analoghe inserite nei regolamenti concernenti la sospensione di esponenti aziendali di altri intermediari finanziari. Innanzitutto non vengono individuate le conseguenze della sospensione sulla composizione del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale. Tali conseguenze erano state prese in considerazione in passato solo dall’art. 1, co. 7, l. n. 77/1983 68, nella parte in cui affermava che «limitatamente al periodo in cui sono sospesi, i sindaci effettivi sono sostituiti dai supplenti e gli amministratori sono sostituiti ai sensi dell’art. 2386 c.c.». Si tratta di norma speciale ed ora anche abrogata ma, ad avviso di chi scrive, proprio prendendo spunto da siffatta norma è forse possibile che sia adottata una soluzione di questo tipo. Per gli amministratori si

68 Ci riferiamo all’art. 1, co. 7, l. n. 77/1983 come modificato dall’art. 1, d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 83 di attuazione delle direttiva n. 85/611/CEE e n. 88/220/CEE relative a taluni organismi di investimento collettivo in valori mobiliari, con modifiche alla l. 23 marzo 1983, n. 77, operanti come fondi comuni aperti di diritto nazionale e per l’emanazione di disposizioni sulla commercializzazione in Italia di quote di organismi situati in altri paesi della Comunità europea (in G.U. n. 27, suppl. ord., del 14 febbraio 1992).

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potrebbe quindi far ricorso al sistema della cooptazione, nel caso ne rimanga in vita la maggioranza ovvero alla nomina da parte dell’organo assembleare qualora la maggioranza sia venuta meno o siano stati sospesi tutti gli amministratori 69 o l’amministratore unico. In questa seconda ipotesi, l’assemblea sarebbe libera di decidere di mantenere il consiglio di amministrazione con un numero ridotto di membri qualora lo statuto ne prevedesse un numero minimo ed un numero massimo 70. Con tale soluzione non solo «si realizzerebbe una sintonia con le norme sulle società per azioni, essendo assicurata la completezza dell’organo amministrativo e di controllo, attraverso procedimenti propri del diritto societario» 71. La soluzione appena proposta, tuttavia, non risolve altre questioni di compatibilità del diritto speciale con il diritto comune 72. Così, la dottrina maggioritaria ritiene che le cause che hanno condotto alla sospensione, finendo con ledere il rapporto fiduciario tra l’esponente e la società ovvero compromettendo l’immagine della società e l’interesse alla funzionalità dell’organo amministrativo, costituiscono giusta causa di revoca, senza che l’amministratore possa richiedere alcun risarcimento del danno 73. A tal proposito, l’art. 7, co. 4, d.m. (sviluppo) n. 220/2011 stabilisce che il consiglio di amministrazione iscrive l’eventuale revoca dei soggetti, dei quali ha dichiarato la sospensione, fra le materie da trattare nella prima assemblea successiva al verificarsi di una delle cause previste. La sospensione del direttore generale nominato dagli amministratori, come abbiamo già accennato, può durare di regola solo quarantacinque giorni, trascorsi i quali il consiglio di amministrazione deve deliberare se procedere alla revoca. La norma citata conclude affermando che «l’esponente non revocato

69 V. Portale, «Sospensione delle funzioni» di amministratore di società bancaria e disciplina societaria, in Banca, borsa, tit. cred., 1994, I, p. 379 e, da ultimo, Russo, Commento sub art. 76 c.a.p., Commentario breve, a cura di Volpe Putzolu, cit., p. 379. 70 V. in tal senso Portale, «Sospensione delle funzioni», cit., p. 379. 71 V. Cabras, Sospensione ed autosospensione di amministratori e sindaci nelle società esercenti il credito, in Banca, borsa, tit. cred., 1995, I, p. 689. 72 Sul punto cfr. Ferro-Luzzi, Onorabilità, professionalità e indipendenza degli esponenti, in Sistema dualistico e governance bancaria, a cura di Abbadessa e Cesarini, Torino, 2009, p. 148 ss. 73 In tal senso cfr. Ferro-Luzzi, Sulla sospensione, cit., 1229; Portale, «Sospensione delle funzioni», cit., p. 225; Weigmann, Commento sub art. 9, cit., p. 1082; Cabras, Sospensione ed autosospensione di amministratori e sindaci delle banche, in La nuova disciplina dell’impresa bancaria, a cura di Morera e Nuzzo, cit., Milano, 1996, p. 117.

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è reintegrato nel pieno delle funzioni»; ciò vuol dire che l’esponente sospeso per il quale l’assemblea – nel caso di amministratori, sindaci o direttore generale da essa nominato – ovvero il consiglio di amministrazione – nel caso di direttore generale nominato dal consiglio – non abbia disposto la revoca deve essere riammesso alla carica che ricopriva in precedenza, non prima però che il periodo di sospensione sia scaduto e sempre che siano venuti meno i presupposti della sospensione e che il mandato non sia nel frattempo scaduto 74. Il rimedio della sostituzione rimane valido (la norma parla semplicemente di «esponente») per i sindaci, anche se l’art. 2401 c.c. disciplina le ipotesi di cessazione definitiva dalla carica solo per rinuncia, decadenza o morte. Posto il carattere di non definitività della sospensione, il sindaco dichiarato sospeso verrà sostituito ai sensi dell’art. 2401 c.c. ma verrà reintegrato nelle proprie funzioni qualora sussistano i presupposti suddetti 75.

8. I requisiti di onorabilità dei titolari di partecipazioni: premessa. Se per raggiungere la sana e prudente gestione dell’impressa di assicurazione e di riassicurazione è necessario che chi ricopre cariche di vertice abbia determinati requisiti di idoneità morale e competenza professionale, nondimeno è opportuno che i soci rilevanti degli intermediari finanziari abbiano specifici requisiti di onorabilità e rispettino taluni obblighi di trasparenza. Si tratta del c.d. «aspetto qualitativo» del capitale che nel mercato finanziario assume un rilievo particolare in ragione «del carattere fiduciario su cui riposa l’attività degli intermediari e della rilevanza che acquista la garanzia di un efficiente allocazione delle risorse nel sistema economico» 76. Per un verso, l’imposizione di requisiti di onorabilità dei soci rilevanti dovrebbero evitare l’ingresso nella società di persone socialmente pericolose (è tristemente noto il fenomeno delle società finanziarie costituite

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«Se le cause di sospensione vengono meno prima della scadenza del mandato, l’amministrazione sospeso dovrà essere riammesso all’esercizio delle funzioni. La riammissione, però, non potrà protrarsi oltre all’originaria scadenza del mandato; si esclude cioè che l’interessato possa beneficiare di un periodo di proroga corrispondente alla durata della sospensione» (Freni, Commento sub artt. 7 e 8, cit., p. 62). 75 In senso conforme Ferro-Luzzi, Sulla sospensione, cit., p. 1229. 76 Cfr. Troiano, Commento sub artt. 10-12 d.lgs. 23 luglio 1996, n. 415, in La disciplina degli intermediari e dei mercati finanziari, a cura di Capriglione, Padova, 1997, p. 74.

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da organizzazioni mafiose per riciclare il denaro sporco) che non danno idonea garanzia della correttezza della gestione; per altro verso, la previsione di obblighi di comunicazione consente non solo di «fotografare l’assetto e la distribuzione dei pacchetti azionari o delle quote “rilevanti” di una determinata società in un determinato momento, ma di conoscere e registrare altresì tutte le variazioni e oscillazioni in più o in meno che si verificano successivamente a quel momento» 77. Operando in questo modo, si dovrebbe evitare che i soci che detengono una determinata porzione del capitale, considerata rilevante, e che, presuntivamente, siano in grado di influenzare le decisioni della società, rimangano nell’anonimato e ciò è importante anche per salvaguardare il rapporto fiduciario esistente tra il pubblico dei risparmiatori e l’intermediario finanziario. La disciplina dei requisiti di onorabilità è contenuta nell’art. 77 c.a.p. rimaneggiato ad opera dell’art. 4, lett. q) ed r), d.lgs. n. 21/2010 con il quale viene sottratta alla competenza del Ministro dello sviluppo economico la determinazione delle partecipazioni rilevanti al fine dell’applicazione della norma in oggetto e viene fatto esplicito rinvio alle soglie partecipative indicate normativamente dall’art. 68 c.a.p. Come chiarito nella Relazione al decreto citato, la potestà regolamentare risulta «incompatibile con l’armonizzazione massima realizzata dalla direttiva e, in particolare, con le previsioni che collegano l’obbligo di possedere i requisiti di onorabilità al possesso di partecipazioni qualificate». Pertanto la potestà regolamentare del Ministro dello sviluppo economico è relegata alla sola determinazione dei requisiti di onorabilità. La disciplina relativa ai requisiti di onorabilità dei partecipanti poi si completa con l’art. 2, co. 5 e l’art. 5 d.m. (sviluppo) n. 220/2011.

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V., nel senso indicato nel testo, Scognamiglio, Partecipazioni rilevanti e partecipazioni reciproche dopo la legge 281/85, in Tratt. dir. priv., a cura di Rescigno, vol. V, Torino, 1991, p. 509 ss. L’a. afferma che «l’esigenza di disclosure - particolarmente avvertita nella fase attuale del diritto societario non solo con riferimento all’assetto della proprietà, ma anche e forse soprattutto con riferimento all’assetto del potere nell’ambito delle società appartenenti a determinate categorie - viene allora soddisfatta attraverso il meccanismo dell’imposizione dell’obbligo di comunicazione delle partecipazioni superiori ad un certo limite (...)» e che «la l. n. 281 non solo ha rafforzato il ruolo e la portata della norma sugli obblighi di comunicazione, attribuendole una propria, autonoma funzione, che non si esaurisce, come poteva apparire un tempo, nella «profilassi» degli incroci azionari, ma ha altresì inserito nel corpo della l. n. 216 nuove disposizioni, che dovrebbero consentire alla CONSOB la creazione di una sorte di «anagrafe del potere economico» (p. 511 s.).

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8.1. L’ambito soggettivo. I soggetti sui quali ricade l’obbligo del rispetto del requisito di onorabilità non devono essere più individuati in via regolamentare ma sono normativamente individuati dal precedente art. 68, co. 1 c.a.p.. Tale norma, come abbiamo visto, si occupa di individuare i soggetti sui quali ricade l’obbligo di comunicazione delle partecipazioni delle imprese di assicurazione e di riassicurazione. Il rinvio all’art. 68 c.a.p., operato dall’art. 77 c.a.p., ha la ratio di saldare le soglie necessarie per il rispetto dei requisiti di onorabilità con le soglie oltre le quali scatta l’obbligo di comunicazione 78. Rinviando a quanto detto in precedenza circa le regole connesse alla determinazione delle singole fattispecie di partecipazioni basta qui ricordare che il partecipante soggetto al rispetto dei requisiti di onorabilità è chiunque detiene una partecipazione che: 1) comporta il controllo come individuato dall’art. 23 t.u.b.; 2) da la possibilità di esercitare un’influenza notevole sulla società e 3) attribuisce una quota dei diritti di voto o del capitale pari al 10 per cento. Alcune osservazioni. Innanzitutto, la partecipazione minima non è più il 5% come indicato ma il 10% a meno che la partecipazione più bassa rispetto a quest’ultima non sia tale da configurare il controllo (ipotesi sub 1) ovvero un’influenza notevole (ipotesi sub 2). In secondo luogo, la disciplina secondaria non scioglie il dubbio se l’obbligo del requisito di onorabilità deve essere rispettato anche dai possessori di strumenti finanziari diversi dalle azioni come espressamente previsto in norme relative ad altri intermediari finanziari 79. Ritengo che, posta la nuova definizione di partecipazioni fornita dall’art. 1, lett. nn) c.a.p. alla quale occorre far riferimento in questa sede e che include il possesso di detti strumenti fra le “partecipazioni”, non possa che darsi risposta affermativa alla questione. E a proposito dell’influenza si può presumere che essa si

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La saldatura citata nel testo era stata realizzata già nel previgente quadro normativo con l’introduzione della partecipazione del 5 per cento, la soglia di applicazione dei requisiti di onorabilità rilevanti per il rilascio dell’autorizzazione veniva equiparata a quella rilevante per la disciplina degli obblighi di comunicazione come indicati dal regolamento Banca d’Italia in vigore all’epoca (sul punto rinvio al mio La disciplina degli esponenti aziendali e dei partecipanti al capitale delle Sicav, delle Sim e delle Sgr, cit., p. 210). 79 V., in particolare, il provvedimento Banca d’Italia dell’8 maggio 2012 contenente il regolamento sulla gestione collettiva del risparmio.

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concretizzi nella nomina dei componenti gli organi di amministrazione o di controllo o nei diritti di voto su scelte strategiche per la società. In terzo luogo, l’art. 2, co. 3, secondo periodo, d.m. (sviluppo) n. 220/2011 prevede che qualora il partecipante sia una persona giuridica, i requisiti di onorabilità devono essere posseduti dagli amministratori e dal direttore generale o dai soggetti che ricoprono cariche equivalenti, quali l’amministratore unico e l’amministratore delegato. Ma in questa ipotesi a chi spetta effettuare la verifica dei requisiti? Nei provvedimenti della Banca d’Italia del 14 aprile 2005 sulla gestione collettiva si specifica che nell’ipotesi in parola le verifica dei requisiti è effettuata dall’organo amministrativo della persona giuridica che intende assumere la partecipazione; in caso di amministratore unico la verifica dei requisiti è effettuata dal collegio sindacale o dall’organo con funzioni equivalenti. Nel silenzio della disciplina assicurativa si deve concludere che la verifica deve essere sempre effettuata dall’Ivass sia in fase di autorizzazione che in fase di acquisizione della partecipazione. In quarto luogo, a differenza della disciplina prevista per l’onorabilità dei partecipanti di altri intermediari finanziari, nelle norme assicurative non esiste nessun caso di esenzione e, pertanto, sono tenuti a comprovare il possesso di detti requisiti anche, a mo’ di esempio, i soggetti che svolgono funzione di amministrazione, direzione e controllo in enti e società sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia ma solo con una particolarità. La particolarità è prevista nell’Allegato B.1. al regolamento Isvap n. 10 del 2 gennaio 2008 concernente la procedura di accesso all’attività assicurativa e l’albo delle imprese di assicurazione di cui al Titolo II c.a.p. modificato ed integrato dal regolamento Isvap n. 33 del 10 marzo 2010. Nell’Allegato si legge che se la persona giuridica è una banca autorizzata ai sensi dell’art. 14 t.u.b., in luogo dell’autocertificazione, può essere inviata copia dei verbali delle adunanze dell’organo amministrativo della banca, nel corso delle quali è stata accertata la sussistenza dei requisiti di onorabilità dei membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale. E questo avvalora anche la considerazione svolta in precedenza che, al di fuori del caso appena esaminato, la verifica dei requisiti di onorabilità nel caso di partecipante persona giuridica deve essere sempre svolto dall’Ivass. 8.2. Individuazione dei requisiti e procedura di valutazione. Venendo ora ai requisiti, si osserva che il d.m. (sviluppo) n. 220/2011 attua una quasi piena equiparazione fra la posizione dei soci, come su

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indicati, e quella degli esponenti aziendali, prescrivendo per i primi gli stessi requisiti di onorabilità che lo stesso regolamento ha previsto per i secondi [v. art. 2, co. 3 d.m. (sviluppo) n. 220/2011]. Così, i soggetti che detengono le partecipazioni di cui all’art. 68 c.a.p., rispettano il requisito di onorabilità se: 1) non sia stato sottoposto a misura di prevenzione disposte ai sensi della legge 27 dicembre 1991, n. 1423 o della legge 31 maggio 1965, n. 575, come successivamente modificate e integrate, salvi gli effetti della riabilitazione; 2) non sia stato condannato con sentenza irrevocabile, salvi gli effetti della riabilitazione: a) a pena detentiva per un tempo non inferiore a sei mesi per uno dei reati previsti dalle norme che disciplinano l’attività bancaria, finanziaria, mobiliare, assicurativa e dalle norme in materia di mercati e valori mobiliari, di strumenti di pagamento; b) alla reclusione per un tempo non inferiore a sei mesi per delitti societari o fallimentari; c) alla reclusione per un tempo non inferiore ad un anno per un delitto contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica, il patrimonio, l’ordine pubblico, l’economia pubblica ovvero per un delitto in materia tributaria; d) alla reclusione per un tempo non inferiore a due anni per un qualunque delitto non colposo; 3) non sia stato condannato con sentenza penale emessa a seguito di patteggiamenti per i reati indicati sopra al punto 2, sempreché le pene non siano inferiori ad un anno 80. Il controllo di detti requisiti spetta sempre all’Ivass sia in sede di rilascio dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività assicurativa sia nell’ambito della verifica dell’idoneità dei soggetti che intendono assumere una partecipazione nelle imprese di assicurazione. 8.3. Il divieto di esercizio del diritto di voto in mancanza dei requisiti, le conseguenze in caso di esercizio del diritto di voto e l’alienazione coattiva delle partecipazioni eccedenti le soglie. Anche se i requisiti di onorabilità dei soci rilevanti sono una delle condizioni per il rilascio dell’autorizzazione – v. art. 14, co. 1, lett. e) c.a.p. – la sanzione in caso del loro mancato rispetto consiste esclusivamente nella sospensione del diritto di voto inerente alle partecipazioni

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Marafioti, La condanna, cit., p. 227 ss.

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eccedenti il limite che deve essere fissato con il suddetto regolamento. Il socio, quindi, «non viene privato della facoltà di essere titolare di una posizione giuridica ma solo della possibilità di esercitare parte dei diritti a essa inerenti» e ciò è «più coerente con le finalità della normativa, che non si propone di infliggere al soggetto una sanzione accessoria rispetto alle condanne e ai provvedimenti che determinano il venir meno dell’onorabilità» 81, quanto piuttosto di evitare che persone disonorevoli possano influenzare la gestione 82. L’art. 77, co. 3, ultimo periodo c.a.p. distingue fra quorum costitutivo e quorum deliberativo, prevedendo che le azioni per le quali è sospeso il diritto di voto sono comunque computate al fine della regolare costituzione dell’assemblea. Spetta al presidente dell’assemblea dei soci, in relazione ai suoi compiti di verifica della regolare costituzione dell’assemblea e della legittimazione dei soci, ammettere o non ammettere al voto i soggetti che, sulla base delle informazioni disponibili, sono tenuti a comprovare il possesso del requisito di onorabilità. Nel caso in cui i soggetti di cui sopra esercitino il diritto di voto, nonostante il divieto, la deliberazione è impugnabile, secondo le regole del diritto comune (ex art. 2377 ss. c.c.), dagli amministratori, dai sindaci e dai soci assenti e dissenzienti entro tre mesi dalla data di assunzione o di iscrizione nel registro delle imprese, sempre che la deliberazione sia stata assunta con il voto determinante dei soci che si sarebbero dovuti astenere (ossia se la delibera non supera la c.d. prova di resistenza). Ai sensi dell’art. 77, co. 3, terzo periodo, c.a.p. l’impugnazione può essere proposta anche dall’Ivass entro sei mesi dalla data della deliberazione ovvero, se questa è soggetta a iscrizione nel registro delle imprese, entro sei mesi dall’iscrizione.

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V. Freni, Commento sub artt. 7 e 8, cit., p. 65. In merito è stato giustamente osservato che «se uno sbarramento nei confronti di coloro che gestiscono attività economiche di rilievo sociale ed economico è ragionevolmente ipotizzabile a garanzia della corretta gestione (laddove alla «sana e prudente gestione» dovrebbe maggiormente presiedere la categoria della professionalità), allorché lo sbarramento lo si estende alla mera partecipazione economica alla società, entrano in gioco principi di libertà economica e sociale, che possono risultare gravemente lesi o compromessi». Occorre ricordare inoltre che «con i tempi oggi ordinari della giustizia penale, si perviene all’accertamento definitivo del fatto ed alla eventuale statuizione del precedente, ben oltre dopo la commissione del fatto, laddove potrebbe già essere fruttuosamente iniziata una fase di reinserimento sociale del reo. Tali tempi provocano un notevole slittamento in avanti sia della possibile riabilitazione, il che può segnare negativamente, ed a volte anche irreparabilmente, la vita dell’individuo» (così Palombi, Piga, Diritto penale, cit. p. 1053 ss.). 82

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Infine, l’ultimo comma dell’art. 77 c.a.p. prevede che le partecipazioni eccedenti le soglie di rilevanza più volte citate possedute dai soggetti privi dei requisiti di onorabilità devono essere alienate entro i termini stabiliti dall’Ivass.

9. Gli investimenti in partecipazioni realizzati dalle imprese di assicurazione e l’esclusività dell’oggetto sociale. Come accennato in premessa, la disciplina delle partecipazioni delle imprese di assicurazione è stata introdotta per la prima volta con la l. n. 20/1991 dove il legislatore prendeva in considerazione tutte le possibili situazioni derivanti dall’acquisizione di partecipazioni e a ciascuna di esse faceva corrispondere degli obblighi specifici per i partecipanti e determinati poteri delle autorità di vigilanza del settore. Attualmente la disciplina è contenuta negli artt. 79-81 c.a.p. e nel regolamento Isvap n. 26 del 4 agosto 2008 recante, appunto, disposizioni in materia di partecipazioni assunte dalle imprese di assicurazione e di riassicurazione come modificato dal provvedimento Ivass n. 5 del 4 giugno 2013. Il Codice innova profondamente la disciplina in esame. Troviamo la prima novità nella definizione dell’ambito oggettivo: le imprese di assicurazione e di riassicurazione possono assumere, con l’utilizzo del patrimonio libero, partecipazioni di controllo non solo, com’era in passato, in imprese che svolgono la medesima attività ma anche, ed è questa la novità, in imprese che svolgono attività diverse da quelle consentite alle imprese di assicurazione e di riassicurazione (art. 79, co. 1 c.a.p.). La norma mantiene la differenza di disciplina fra le partecipazioni di controllo acquisite nel capitale di imprese che svolgono attività assicurativa come definita ora dall’art. 11 c.a.p. – ivi comprese, quindi, non solo l’attività assicurativa e riassicurativa tradizionalmente intesa, ma anche le operazioni connesse o strumentali all’esercizio delle suddette attività (v. art. 11, co. 4 c.a.p.) – e le partecipazioni di controllo assunte in imprese che svolgono attività “diverse”. Orbene, posto che solo le partecipazioni del secondo tipo richiedono un’autorizzazione preventiva (v. art. 79, co. 3 c.a.p.), rimane ancora sul campo il problema di trovare una categoria di attività che, sotto determinate condizioni, possano essere riconosciute come connesse a quella assicurativa. La questione era già stata presa in considerazione dalle autorità di controllo del settore quando, nel 1987, il Ministro dell’industria costituì

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due comitati «per lo studio dei problemi concernenti l’oggetto sociale, le attività connesse e la partecipazione in altre imprese delle compagnie di assicurazione» 83. Anche se l’occasio per studiare i problemi suindicati era stata fornita dalla acquisizione, da parte dell’INA, di una partecipazione di controllo nel capitale della Banca di Marino, le conclusioni a cui erano pervenuti i due Comitati avevano assunto portata generale. Per quanto concerne più strettamente la definizione di connessione, a parere del primo comitato, tale temine “sembra ammettere un ampio intervallo di interpretazioni, che vanno da quella più restrittiva che si basa sull’esistenza del rapporto di strumentalità a quella che fa riferimento ad una relazione di accessorietà, per arrivare ad un’accezione in cui rileva l’esistenza (ovvero l’individuazione) di un lato nesso di funzionalità tra attività assicurative ed altre” e alla fine includeva nelle attività connesse anche l’attività bancaria 84. Nella circolare n. 150/1991, l’Isvap aveva accettato tale definizione di connessione, ma ciò non escludeva comunque la possibilità che venisse preclusa l’acquisizione di partecipazioni di controllo anche, ad esempio, in imprese bancarie in quanto, come si poteva leggere nella circolare, «in via generale la connessione va valutata con riferimento alla clausola statutaria dell’oggetto sociale della società controllata» e, continuava l’Isvap, «in ogni caso si sottolinea che occorre dimostrare l’esistenza di una connessione in concreto, non già in via meramente ipotetica ed astratta, e che tale connessione potrà emergere dalla documentazione che la società ha facoltà di trasmettere e, comunque, l’Isvap di richiedere».

83 Sul punto v. Castellano, Indicazioni per una regolazione dei rapporti tra banche, Compagnie di assicurazione ed imprese industriali in Italia, in Giur. comm., 1987, I, pp. 809 ss.; Fanelli, Sulla legittimità dell’acquisto da parte di imprese di assicurazione della partecipazione di imprese con diverso soggetto sociale, in Giur. comm., 1987, I, pp. 817 ss.; G. Guarino, Banca di Marino, art. 4, n. 2, l. 22 ottobre 1986, n. 742. Legittimità dell’acquisto, in Giur. comm., 1987, pp. 827 ss. e i pareri pro-veritate di Irti, Schlesinger, Libonati e Jaeger, ibidem, pp. 833 ss. Da ultimo v. Capriglione, Commento sub art. 79, in Il codice delle assicurazioni private, Padova, 2007, I, 2, p. 238 s. 84 A favore della connessione fra attività bancaria ed attività assicurativa, è stato affermato che l’espressione “operazioni connesse” «non equivale ad “operazioni necessarie” poiché esiste connessione tutte le volte che l’operazione risulta, appunto, collegata con l’esercizio della particolare industria assicurativa con un rapporto funzionale (...), nel senso cioè che l’azione dell’impresa sul mercato assicurativo possa trarne ragionevolmente, a breve od a lunga scadenza, un beneficio che valga il suo costo» (così Fanelli, Sulla legittimità, cit., p. 821. Sui problemi concernenti i rapporti fra attività assicurativa ed attività affini v., da ultimo, Volpe Putzolu, Le assicurazioni. Produzione e distribuzione, Bologna, 1992, p. 21 ss.

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Nel regolamento Isvap n. 26/2008 non viene riproposta tale conclusione ed anzi, in sede di consultazione del citato regolamento, l’Isvap non ha accolto un’osservazione svolta dall’Ania – nella quale l’Associazione proponeva di limitare l’obbligo di autorizzazione preventiva ai soli casi di acquisizione del controllo di società che svolgono attività non esercitabili dall’impresa di assicurazione e quindi non comprese tra quelle indicate nel co. 4 dell’art. 11, cit. – chiarendo che l’autorizzazione è richiesta per qualsiasi assunzione di partecipazioni di controllo ad eccezione di quelle in imprese di assicurazione e di riassicurazione italiane (cui già si applica la disciplina della proprietà azionaria delle imprese di assicurazione). E ciò in virtù della circostanza che l’art. 11 cit. parla di “operazioni” e non di “attività” 85 ma anche della considerazione che

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I problemi sono identici a quelli posti dalla previgente disciplina e cioè: 1) che cosa si deve intendere per “operazioni” e 2) qual è il significato da attribuire alla “connessione”. Innanzitutto, deve essere ricordato che il termine operazioni, mutuato dall’art. 8, n. 1, lett. b) della direttiva 73/239/CEE (I direttiva danni), non sta ad indicare “singoli atti”, escludendo così la continuazione ma con tale termine, usato al plurale, il legislatore si è voluto riferire all’attività. Come è stato correttamente affermato «il termine “operazioni”, proprio soprattutto dalla scienza e dalla pratica economica, se pure comunemente è usato ad indicare singoli atti, assai spesso è usato altresì in senso, per così dire, collettivo, e cioè per indicare l’attività economica (nel suo complesso) in uno o più campi» (così Pratis, In tema di divieto di operazioni estranee all’esercizio dell’industria assicurativa, in Assicurazioni, 1962, I, p. 512 nota 4 e cfr. anche Auletta, voce Attività (dir. priv.), in Enc. dir., III, Milano, 1958, pp. 981 ss., in particolare p. 982). La “connessione”, invece, può essere considerata come “formulazione giuridica dei concetti economici di strumentalità e complementarità e copre sia gli atti che si pongono in un rapporto di mezzo a fine rispetto a quelli che li agevolano e così «ne realizzano una funzione concorrente e integrativa»” (così Partesotti, Commento agli artt. 1-5, sez. II, in Commento alla legge 10 giugno 1978 n. 295 (Nuove norme per l’esercizio delle assicurazioni private contro i danni, a cura di Partesotti e Bottiglieri in Nuove leggi civ. comm., 1979, p. 1101). Il tema è stato trattato di recente, seppure per operazioni diverse dalle acquisizioni di interessenze realizzate dalle imprese di assicurazioni, da Cass., S.U., 30 dicembre 2011, n. 30174, in Giur. it., 2012, p. 2019 con nota di Bottoni, Attività assicurativa, transazione e solidarietà nella recente prospettiva delle Sezioni unite, ed in Società, 2013, p. 292 con nota di Marano, Oggetto sociale esclusivo delle imprese di assicurazione e «atti connessi». Secondo il Supremo collegio la limitazione dell’oggetto sociale all’esercizio dell’attività assicurativa, riassicurativa e di capitalizzazione e delle operazioni connesse a tali attività, sancita dall’abrogato art. 5 l. n. 295/1978, non impedisce che le imprese assicuratrici prestino garanzia per i debiti di società immobiliari da loro controllate. La Cassazione specifica che non è anomalo, in via di principio, che la società capogruppo si renda garante per le esposizioni debitorie di una o più delle sue controllate, nella misura in cui vi possa corrispondere un interesse del gruppo nel suo insieme e, di riflesso, un interesse della stessa controllante. Il prestare garanzia, in sé considerato, lungi dall’integrare gli

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l’Isvap aveva già fornito un’interpretazione restrittiva nelle Disposizioni del codice immediatamente applicabili aggiornato al 30 marzo 2006 86. Procedendo con l’esame della normativa, l’art. 79, co. 2 c.a.p., riproducendo il disposto dell’art. 4, co. 2, l. n. 20/1991, dispone che quando la partecipazione in una società controllata ha carattere di strumentalità o di connessione con l’attività assicurativa o riassicurativa, l’Ivass può chiedere che i citati caratteri risultino da un programma di attività. L’articolo in esame si chiude con una norma di non facile comprensione. Il comma 4, primo periodo, prevede che “le disposizioni di cui al presente capo si applicano per ogni altra assunzione di partecipazioni che non avvenga con patrimonio libero o che riguardi partecipazioni in imprese di assicurazione o di riassicurazione estere”. Data la complessità della disciplina, la norma avrebbe dovuto chiarire quale regime, autorizzazione o preventiva comunicazione (v. art. 80 c.a.p.), si applica al suddetto tipo di partecipazione. Si può presumere che, trattandosi di fattispecie pericolose di partecipazione, troverà applicazione il regime autorizzativo. Gli articoli successivi si preoccupano di disciplinare gli obblighi di comunicazione (art. 80 c.a.p.) e i poteri dell’Ivass (art. 81 c.a.p.). Per quanto riguarda l’obbligo di comunicazione, la novità rilevante è che la comunicazione da successiva diventa preventiva e ciò al fine di raggiungere l’obiettivo del levelling the playing field fra tutti i settori che compongono il sistema finanziario 87. In base all’art. 80, comma 1 c.a.p.

estremi di un’attività commerciale incoerente ed incompatibile con l’oggetto sociale della garante, ben può configurarsi come un atto strumentale alla conservazione del valore della partecipazione azionaria di cui la stessa garante è titolare, e quindi condividere la medesima finalità cui è ispirata la detenzione della partecipazione. 86 Nella circolare interpretativa citata nel testo, in corrispondenza dell’art. 79 c.a.p. si legge: «La preventiva autorizzazione di cui all’art. 79, comma 3 deve intendersi riferita a tutte le acquisizioni che comportino il controllo di società esercenti attività diversa da quella assicurativa e riassicurativa». 87 In base all’art. 5, co. 1, l. n. 20/1991 la partecipante doveva comunicare all’Isvap, entro trenta giorni (il termine previsto nella precedente normativa era di quarantotto ore) dalla data di stipulazione, l’avvenuta assunzione di partecipazioni, assunte direttamente o per il tramite di società controllata o fiduciaria o per interposta persona, quando la partecipazione da sola o unitamente ad altra già posseduta direttamente o indirettamente, comportasse il controllo della società partecipata. Veniva specificato che ai fini del controllo si teneva conto anche delle partecipazioni a titolo di pegno, usufrutto o deposito quando la detenzione inerisse all’esercizio del diritto di voto. Il comma successivo prevedeva l’obbligo di comunicare ogni altra partecipazione assunta con l’impiego del patrimonio libero, quando la stessa da sola o unitamente ad

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la partecipante deve comunicare all’Ivass, tempestivamente l’intenzione di assumere una partecipazione in società quando la partecipazione, da sola o unitamente ad altra già posseduta direttamente o indirettamente, comporti il controllo della società partecipata. Il comma successivo prevede che deve essere comunicata l’intenzione di assumere ogni altra partecipazione, quando la stessa da sola o unitamente ad altra posseduta (è stata eliminata la specificazione “direttamente”), risulti consistente (prima era specificatamente fissata nel 5%) in base al patrimonio netto o al totale degli investimenti dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione o rispetto all’entità dei diritti di voto o alla rilevanza degli altri diritti che consentono di influire sulla società partecipata. L’ultimo comma attribuisce all’Ivass il potere di disciplinare, con regolamento, i presupposti, le modalità e i termini connessi all’obbligo di comunicazione; nell’esercizio di tale facoltà l’Istituto deve tenere conto dell’esigenza di verificare la concentrazione degli investimenti e la loro influenza sulla struttura patrimoniale dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione. Anche in questa materia la regolamentazione secondaria integra il disposto contenuto nel Codice con riferimento a due profili: 1) l’ambito oggettivo di applicazione dell’obbligo di comunicazione preventiva e 2) la previsione dell’obbligo di comunicazione successiva. Con riferimento al primo profilo, l’art. 14 del regolamento Isvap n. 26/2008 prevede che l’obbligo in parola si applica alle partecipazioni consistenti come definite dall’art. 7 del medesimo regolamento, ossia quelle partecipazioni che “da sole o unitamente ad altre già detenute, direttamente o indirettamente, dall’impresa partecipante risultano pari o superiori al cinque per cento del capitale sociale della società partecipata oppure al cinque per cento del patrimonio netto dell’impresa partecipante”. E fin qui nulla di nuovo, poi aggiunge due specificazioni che riguardano il calcolo della partecipazione consistente in due ipotesi particolari: 1) “nel caso di partecipazione detenuta tramite società

altra posseduta direttamente (questa specificazione è stata aggiunta solo con l’ultima modifica), superasse la soglia del 5%, del capitale sociale dell’impresa ovvero del capitale della società partecipata. L’obbligo di comunicazione sussisteva altresì per le variazioni in aumento della partecipazione già comunicata che avessero comportato nuovamente il superamento dei suddetti limiti.

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controllata”, e 2) “per le imprese partecipanti che redigono un bilancio consolidato” 88. Circa l’obbligo di comunicazione successiva, l’art. 17 del regolamento Isvap n. 26/2008 prevede che la comunicazione deve avvenire trimestralmente e deve contenere l’elenco delle partecipazioni di controllo e consistenti con opportuna distinzione della parte assegnata alle riserve tecniche e di quella detenuta con patrimonio libero. Per quanto concerne i poteri dell’Ivass, essi hanno ad oggetto tutti i tipi di partecipazioni. In primo luogo, l’art. 81, comma 1 c.a.p. attribuisce all’Istituto un generico potere di richiesta di informazioni ai soggetti comunque interessati al fine di verificare l’osservanza degli obblighi di autorizzazione e di comunicazione. Il controllo dell’Ivass si estende anche alla gestione della partecipazione assicurativa ed ha come parametri: 1) la natura e l’andamento dell’attività svolta dalla società partecipata; 2) la dimensione dell’investimento in relazione al patrimonio libero dell’impresa. Se dall’analisi di questi elementi l’Istituto ritiene che dalla partecipazione possa derivare un pericolo alla stabilità dell’impresa, l’Ivass ordina che la partecipazione sia alienata o sia opportunamente ridotta, anche al di sotto del controllo, assegnando a tal fine un termine compatibile con l’esigenza che l’operazione sia realizzata senza alcun pregiudizio per l’impresa partecipante (v. anche l’art. 5 del regolamento Isvap n. 26/2008) 89. L’inosservanza di tali obblighi provoca gravi conseguenze che si presentano come alternative. L’Ivass può: 1) nominare un commissario con i compiti previsti dall’art. 229 c.a.p. (commissario per singoli affari); 2) o, se ricorrono i presupposti di cui all’art. 230 c.a.p. (cioè i presupposti dell’amministrazione straordinaria unitamente a motivi di assoluta urgenza), nominare un commissario per la gestione provvisoria col compito di provvedere ai suddetti adempimenti;

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Nel primo caso, “il valore della partecipazione da rapportare al patrimonio netto dell’impresa partecipante è ponderato per l’interessenza complessiva del partecipante indiretto nel partecipante diretto”, mentre nel secondo, “il valore della partecipazione si rapporta al patrimonio netto di pertinenza del gruppo, come risultante dall’ultimo bilancio approvato”. 89 Per un commento sistematico degli artt. 80 e 81 Cap si rinvia a Giampaolino, Assetti proprietari, cit., p. 224 ss.; Portolano, Commento sub artt. 80-81, in Il codice delle assicurazioni private, diretto da Capriglione, cit., p. 245 ss.; Regoli, Commento sub artt. 79-81, in Commentario al Codice delle Assicurazioni, cit., p. 186 ss.

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3) o, infine, proporre al Ministro dello sviluppo economico l’adozione del provvedimento di amministrazione straordinaria o la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività assicurativa. È chiaro che la scelta dipende da una valutazione del tutto discrezionale operata dall’Ivass in merito alla situazione sottoposta a controllo. Infine, in ogni caso la mancata ottemperanza degli obblighi di alienazione o riduzione della partecipazione comporta l’esclusione dell’investimento dagli elementi costitutivi del margine di solvibilità dell’impresa di assicurazione o di riassicurazione.

10. Brevi osservazioni conclusive. La materia degli assetti proprietari delle imprese di assicurazioni è in continuo movimento. Prova ne è che mentre questo lavoro stava per essere consegnato per la stampa l’Ivass ha emanato due importanti documenti di consultazione che una volta definitivi andranno ad incidere sulla disciplina prima esaminata. Il primo documento è stato emanato il 6 agosto 2014 e reca modifiche ai seguenti regolamenti: 1) n. 15/2008 concernente il gruppo assicurativo; 2) concernente la verifica della solvibilità corretta e di adeguatezza patrimoniale a livello di conglomerato finanziario; 3) n. 7/2007 concernente gli schemi per il bilancio delle imprese di assicurazione e di riassicurazione; 4) n. 26/2008 concernente le partecipazioni assunte dalle imprese di assicurazione e di riassicurazione, conseguenti al d.lgs. 53/2014 di recepimento della direttiva 2011/89, in tema di conglomerati finanziari. Come si legge nella Relazione di presentazione del documento tali modifiche sono state dettate soprattutto dalla necessità di adeguare la disciplina domestica a quella comunitaria in materia di conglomerati finanziari. Il secondo documento di consultazione è stato emanato il 24 settembre 2014 ed incide sulla disciplina concernente la procedura di accesso all’attività assicurativa con particolare attenzione ai requisiti degli esponenti aziendali e degli azionisti al fine di “aggiornare” le regole dettate dal regolamento Isvap n. 10/2008 alle norme dettate in materia dal d.m. (sviluppo economico) n. 201/2011 prima analizzato. L’obiettivo principale di questi interventi, come quelli che abbiamo esaminato nel presente scritto, è ancora una volta quello di livellare il piano di gioco fra le imprese di assicurazione e gli altri intermediari. Proprio con riferimento al citato obiettivo occorre domandarsi se, limitatamente alla materia trattata ossia degli assetti proprietari delle im-

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prese di assicurazione, il legislatore sia pervenuto, tenuto conto – appunto – del livellamento del piano di gioco, ad un risultato più soddisfacente dal punto di vista della trasparenza, della garanzia di un assetto ordinato ed efficiente del settore rispetto ai risultati raggiunti con regole analoghe previste per altri intermediari. L’indagine relativa alla verifica di un risultato, eventualmente diverso, raggiunto dal legislatore nel campo delle assicurazioni non può limitarsi, ad avviso di chi scrive, a considerare la disciplina specifica degli assetti proprietari, posta la sostanziale ancorché non integrale omogeneità delle regole fra tutti gli attori del mercato finanziario, ma deve prendere le mosse dalla specificità dell’attività esercitata dall’intermediario e, nell’ipotesi che qui interessa, dell’attività assicurativa. Per tentare di fornire una qualche soluzione al problema, si deve tener conto, innanzitutto, che particolarità di tale attività è la c.d. inversione del ciclo produttivo che ha indotto il legislatore ad introdurre un vincolo stringente nell’operatività delle imprese di assicurazione e cioè l’esclusività dell’oggetto sociale al fine di evitare che le somme raccolte dagli assicurati possano essere utilizzate per attività diverse da quella assicurativa. Ed è proprio dalla previsione della esclusività dell’oggetto sociale per le imprese di assicurazione che discende, ad avviso di chi scrive, la diversa efficacia delle regole relative agli assetti proprietari (e non solo di queste) previste per dette imprese e ciò per due ordini di motivi: – in primo luogo, posto che l’oggetto sociale rappresenta un limite all’attività degli amministratori, questi ultimi, in caso di esclusività dell’oggetto sociale, vedono di molto limitati i loro margini di operatività a differenza di ciò che accade per gli amministratori di altri intermediari; – in secondo luogo, anche nella sfera di azione di operatività ammessa le regole relative agli investimenti a copertura delle riserve tecniche ed anche quelli realizzabili con il patrimonio libero (ad esempio, l’acquisizione di partecipazioni nel capitale di altre società) soggiacciono a regole molto più stringenti di quelle previste in altri ordinamenti proprio in ragione della specificità dell’attività assicurativa. In sintesi, l’efficienza e l’efficacia delle norme previste per la proprietà azionaria, i requisiti degli esponenti aziendali e le partecipazioni detenibili che costituiscono il cuore della disciplina degli assetti proprietari non possono essere valutate senza tener conto della specificità dell’attività esercitata dall’intermediario e delle modalità con la quale essa può essere esercitata ed altresì dell’eventuale ampiezza o meno dell’oggetto sociale o, come nel caso delle imprese di assicurazione, all’esistenza di un principio sancito dalla legge di esclusività dell’oggetto sociale.

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Le cose potrebbero, anche nel brevissimo tempo, cambiare in virtù di una nuovissima previsione normativa (art. 114, co. 2-bis t.u.b. come introdotto dall’art. 22, co. 3, d.l. n. 91/2014 convertito in l. n. 116/2014) che assegna alle imprese di assicurazione la facoltà di effettuare finanziamenti a favore delle imprese e tale previsione avrà indubbie ripercussioni, fra le altre, sulla esclusività dell’oggetto sociale. Ma questo fa parte del futuro o meglio, per dirla con le parole del mio Maestro Franco Belli, del “futuribile”. Ciro G. Corvese

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La potestà sanzionatoria amministrativa a presidio della disciplina dell’abbinamento di mutui immobiliari o contratti di credito al consumo a polizze vita (art. 28, d. l. 24 gennaio 2012, n. 1). Condotte punibili e modalità d’esercizio dell’azione pubblica Sommario: 1. – L’azione delle autorità di vigilanza e la funzione sanzionatoria. – 2. Limiti alla sanzionabilità da parte di Ivass della violazione delle prescrizioni dell’art. 28 d.l. 1/2012 e delle norme d’attuazione. – 3. Un possibile recupero dello spazio sanzionatorio attraverso l’art. 48, co. 1-bis, reg. Ivass n. 6/2006. – 4. Esclusione dei destinatari della disciplina dell’abbinamento di cui all’art. 28 d.l. 1/2012 dall’ambito d’applicazione dell’art. 21, co. 3-bis, cod. cons. – 5. Una parentesi sulla natura discrezionale del potere sanzionatorio di Ivass. – 6. Rilevanza delle regole sul procedimento sanzionatorio e loro compatibilità con le indicazioni dell’art. 6 Cedu. – 7. Revisione dell’impostazione tradizionale del procedimento alla luce dei principi dell’equo processo e sua riconsiderazione come “luogo” di confronto paritario tra interessi contrapposti riferibili, rispettivamente, alla parte pubblica e quella privata. – 8. Continua. Alcuni parametri di conformazione dei procedimenti amministrativi sanzionatori ritraibili dall’art. 6 Cedu. – 9. Tendenziale difformità dai parametri dell’art. 6 Cedu dei regolamenti sanzionatori delle amministrazioni indipendenti; alcuni dubbi di conformità del regolamento Ivass n. 1/2013.

1. L’azione delle autorità di vigilanza e la funzione sanzionatoria. Da tempo risalente importanti settori dell’economia sono sottoposti alla vigilanza di autorità amministrative indipendenti 1, munite di un’ampia potestà regolatoria 2 nel cui ambito vi si comprende anche quella sanzionatoria.

1 D’Alberti, Il valore dell’indipendenza, in Arbitri e mercati, a cura di D’Alberti e Pajno, Bologna, p. 11 ss. 2 Cons. St., sez. II, 25 febbraio 2011, n. 827, in www.giustizia-amministrativa.it.

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A quei soggetti investiti di estesi poteri conformativi relativi ad ambiti complessi 3, s’affida, dunque, l’intero ciclo dell’attività di regolazione, attesa la stretta relazione di complementarietà corrente tra le diverse funzioni 4. E proprio la presa d’atto di quel reciproco completamento tra poteri, ragionevolmente, ha portato alla concentrazione di tutte le prerogative conformative in capo alle autorità di vigilanza finanziaria a lungo soggette ad un regime particolare che prevedeva un procedimento sanzionatorio diviso in due fasi. Infatti, sino al 2005 la normativa assicurativa, bancaria e finanziaria affidava la fase istruttoria, terminante con la proposta del provvedimento, all’amministrazione di settore mentre riservava la fase decisoria al ministro competente, cui s’imputava l’atto finale d’archiviazione o d’applicazione della pena. La concentrazione formale di tutto il procedimento punitivo in capo alle amministrazioni specialistiche – realizzata da un’iniziativa legislativa razionalizzatrice 5 (art. 26, l. 28 dicembre 2005, n. 262) 6 – permette, dunque, di riconoscere alla potestà che vi si esprime la valenza di elemento “di chiusura” 7 rispetto a tutte le altre che, in vario

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Per una sintesi delle ragioni e dei problemi sollevati dall’istituzione delle amministrazioni di settore si vedano, per tutti, Cirillo, Chieppa, Introduzione, in Le autorità amministrative indipendenti, a cura di Cirillo e Chieppa, Padova, 2010, p. 3 ss. Per un’ulteriore rassegna degli aspetti d’interesse si veda anche la Relazione conclusiva dell’indagine conoscitiva sulle autorità amministrative indipendenti della Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, del 16 febbraio 2012, svoltasi nel corso della XVI legislatura, in www.parlamento.it. 4 Sottolineano, con specifico riferimento all’autorità di vigilanza assicurativa, questo rapporto di complementarietà, Scalise, Mariano, L’Istituto di vigilanza sulle assicurazioni private e sociali (Isvap), in Le autorità amministrative indipendenti, cit., pp. 892-893. 5 Cfr. Bani, Le sanzioni amministrative, in La nuova legge sul risparmio, a cura di Capriglione, Padova, 2006, p. 406. 6 La stessa relazione introduttiva al disegno di legge che ha costituito la base d’elaborazione della legge sul risparmio, individuava la ratio della specifica previsione “nella ritenuta opportunità di ricondurre all’autorità di vigilanza attribuzioni considerate omogenee rispetto a quelle già da esse esercitate”, superando, così, anche con specifico riferimento ai provvedimenti di applicazione delle sanzioni amministrative previste da t.u.f. e t.u.b., con scelta coerentemente estesa a Isvap e Covip – una separazione tra autorità e ministro competente che appariva “un aggravio procedurale di modesta utilità”. Concentrazione tanto più opportuna se si considera che il secondo, pur godendo d’una autonomia decisionale – Cons. St., sez. V, 29 marzo 2011, n. 1900, in www.giustizia-amministrativa.it – nella prassi appariva “appiattito” sulle proposte dell’autorità di vigilanza tanto da far concludere che quella spartizione non garantiva agli indagati “il diritto ad un equo esame delle proprie ragioni”, innanzi all’organo investito del potere di definire il procedimento, Bani, Le sanzioni, cit., p. 406. 7 Clarich, Manuale di diritto amministrativo, Bologna, 2013, p. 172; Titomanlio,

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modo, definiscono o chiariscono le regole di comportamento 8, per il suo porsi come presidio d’effettività delle seconde 9, disincentivando dalla violazione dei precetti, appunto, con la prospettazione d’una sanzione 10 che si presenta quale forma di reazione alla loro trasgressione 11. La potestà sanzionatoria delle autorità amministrative finanziarie, peraltro, per la sua stretta complementarietà con le altre funzioni di regolazione poste a tutela degli interessi generali del mercato e delle categorie

Funzione di regolazione e potestà sanzionatoria, Milano, 2007, p. 475, cui adde, Trimarchi, Funzione di regolazione e potere sanzionatorio delle Autorità indipendenti, in Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, a cura di Allena e Cimini, 2014 (www.giustamm.it), p. 85 e p. 86. 8 Orientamento, condiviso dalla giurisprudenza – Cons. St., sez. VI, 30 gennaio 2007, n. 341, in www.giustizia-amministrativa.it – che dalla complementarietà delle funzioni, nel silenzio del legislatore, ricavava il corollario della spettanza di quella sanzionatoria al soggetto pubblico “nella cui competenza rientra la materia alla quale si riferisce la violazione”. 9 L’evidenziazione della duplice funzione della potestà sanzionatoria e della previsione della reazione amministrativa è sottolineata dalla più attenta dottrina che ha analizzato le prerogative punitive attribuite alle diverse autorità di vigilanza. Tra i diversi studi si segnala, Troise Mangoni, Il potere sanzionatorio della Consob, Milano, 2012, p. 21, che evidenzia la doppia ed ineliminabile finalità della prerogativa e, quindi, anche la sua immanente carica discrezionale che ne impedisce la riconduzione nella categoria del c.d. potere vincolato (p. 208). Sulla stessa linea si esprime, Goisis, Discrezionalità ed autoritatività nelle sanzioni amministrative pecuniarie, tra tradizionali preoccupazioni di sistema e nuove prospettive del diritto europeo, in Riv. dir. pubbl., 2013, p. 100 ss. e spec. 115 e 138, che dall’esame di alcune disposizioni relative ai poteri di Agcm trae conferma dell’inesistenza di un rapporto necessario tra rilevazione d’una violazione amministrativa ed applicazione della pena, poiché l’avvio dell’iniziativa punitiva presuppone una complessa comparazione d’interessi diversi. 10 Sulle cui caratteristiche, per tutti, si vedano, Casetta, voce Sanzione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., VII, Torino, 1993, p. 589 e 602; A.M. Sandulli, voce Sanzioni amministrative, in Enc. giur., XXVIII, 1992, p. 2 ss. e di recente, Leonardi, I caratteri del potere sanzionatorio, in Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative, cit., p. 22. 11 Nel tracciare i profili caratterizzanti il “sistema” delle sanzioni delle autorità amministrative indipendenti, si fa strada l’idea di chi – Chieli, Osservazioni in ordine al potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, in Giur. comm., 2013, I, p. 330 – muovendo dal tipo di valori generali dalle stesse attuati e tutelati con la loro opera, ritiene debba privilegiarsi la finalità di prevenzione. Si dovrebbe, dunque, almeno a fronte delle violazioni più gravi, valorizzare la loro forza dissuasiva, rispetto a quella retributiva, attesa la loro capacità di produrre effetti indiretti destinati a prolungarsi del tempo. Negli stessi termini, si vedano, Bruzzone, Boccaccio, Saija, Le sanzioni delle Autorità indipendenti nella prospettiva europea, in Giur. comm., 2013, I, p. 401, che ritengono che dalla lettura dei documenti normativi dell’Unione si possa inferire che “l’obbiettivo primario dell’enforcement non è sanzionare ma evitare che sorgano i presupposti della sanzione”.

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di utenti deboli (risparmiatori, assicurati, investitori), sembra evidenziare un’accentuata problematicità. Come si può trarre proprio anche dalle vicende della disciplina dell’abbinamento dei mutui alle polizze vita, l’avvertita necessità di garantire una vigorosa azione amministrativa in settori delicati, in cui una moltitudine di soggetti riversano i loro risparmi, porta a guardare con una certa indulgenza all’esercizio della potestà punitiva, consentendola anche in assenza di un conforto legislativo espresso; accettandosi – come una sorta di sacrificio necessario – che si possa prescindere dalla inequivoca individuazione di una norma primaria, a priori conoscibile, che espone una certa condotta ad un intervento pubblico afflittivo 12.

2. Limiti alla sanzionabilità da parte di Ivass della violazione delle prescrizioni dell’art. 28 d.l. 1/2012 e delle norme d’attuazione. Se si scorre il testo dell’art. 28 d.l. 1/2012, si è portati ad individuare in Ivass, il soggetto pubblico che, in forza del principio di competenza per finalità (art. 3, 5, co. 1, e 6, cod. ass.), è investito d’un ampio potere di vigilanza regolamentare ed – anticipo – d’una limitata prerogativa di punitiva. La disposizione richiamata, per ovviare ad alcuni non encomiabili comportamenti degli operatori del “mercato dei mutui abbinati alle polizze vita” 13, ha posto alcune regole che “arricchiscono” gli obblighi verso i clienti e che, in specie, devono essere osservati dalle banche e dagli altri soggetti che intermediano contemporaneamente sia i loro prodotti specifici che quelli assicurativi 14.

12

Vedi parr. 3-4. Per una un esame della problematica, si veda il documento contenente gli esiti della pubblica consultazione relativi al provvedimento Ivass n. 2946/2011 del 6 dicembre 2011 (spec. pp. 2-3, in www.ivass.it) ove si evidenzia come questo “fenomeno negoziale” si caratterizzava per l’opacità dell’offerta, accompagnata dal riconoscimento alla banca erogatrice e, contemporaneamente, intermediatrice della stessa polizza di provvigioni sensibilmente più alte rispetto a quelle di mercato, spiegate sostanzialmente, come una conseguenza dell’imposizione da parte dell’impresa di un contratto d’assicurazione da lei scelto. Per un caso di abbinamento oggetto di verifica amministrativa e poi sanzionato da Agcm per violazione della disciplina delle pratiche commerciali scorrette, si veda il provvedimento n. 23764 del 25 luglio 2012, in www.agcm.it. 14 Per un esame della disciplina sostanziale, tra i primi commentatori si vedano, Riva, Polizze connesse ai mutui tra regolazione Ivass e “legislazione Monti”, in Assicurazioni, 13

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A completamento della propria previsione, la disposizione d’interesse, per favorire la concorrenza tra operatori finanziari di settore, affida al regolamento Ivass il compito di delineare la struttura d’un contratto tipo, reputandolo strumento utile per facilitare il confronto tra la polizza proposta dal candidato finanziatore e le altre eventuali alternative 15. Limitatamente ai nostri fini, si deve sottolineare come il testo della disposizione circoscrive il suo raggio d’applicazione ai quei soggetti che assumono, contemporaneamente, rispetto al loro interlocutore, sia la posizione di erogatore di credito che di intermediario assicurativo. L’art. 28, comma 1, l. 1/2012, infatti, dispone che “fermo restando quanto previsto dal art. 183 del codice delle assicurazioni private (…) e delle delibere d’Ivass, d’attuazione in materia di interesse degli intermediari assicurativi, le banche, gli istituti di credito e gli intermediari finanziari, se condizionano l’erogazione del mutuo immobiliare o del credito al consumo alla stipula di un contratto di assicurazione sulla vita, sono tenuti a sottoporre al cliente almeno due preventivi di due differenti gruppi assicurativi non riconducibili alle banche, istituti di credito e agli intermediari finanziari stessi”. Ulteriormente, il legislatore nel presupposto di quella coincidenza di posizioni, prima, esclude che le prescrizioni del 2012 incidano sulla portata di quelle del codice delle assicurazioni e, poi, precisa che le une e le altre devono essere osservate quando l’erogatore del finanziamento subordina la propria “dazione di scopo” alla sottoscrizione di una polizza vita 16. Una conferma dell’applicabilità della normativa “supplementare” ai soli soggetti che rivestono il doppio ruolo si ricava anche dal regolamento attuativo adottato da Ivass (art. 28, co. 2, d.l., 1/2012). Tra le

2012, p. 277 ss.; Caleo, Polizze assicurative connesse ai mutui a garanzia del credito, in Contr., 2012, p. 767 ss.; Id, Polizze assicurative connesse ai mutui tra regolazione e mercato, ivi, 2012, p. 906 ss. 15 La relazione, al reg. Ivass, 3 maggio 2012, n. 40, p.1, precisa che l’atto normativo “(…) individua i contenuti minimi (…)” del contratto “(…) di assicurazione sulla vita con l’obiettivo di agevolare il consumatore nel confronto tra le offerte e nella ricerca della polizza più conveniente. I contenuti minimi rappresentano l’offerta contrattuale di base e sono strumentali al confronto tra i diversi preventivi sottoposti al cliente, che potrà scegliere di stipulare una polizza con condizioni di assicurazione di maggiore favore e più rispondenti alle proprie esigenze”. 16 Frignani, Paschetta, Le polizze vita abbinate ai mutui immobiliari ed al credito al consumo (provvedimento Isvap n. 2944 del 6 febbraio 2011 e l’art. 28 del d.l. 1/2012, convertito con legge 24 marzo 2012, n. 27), in Diritto e fisc. dell’ass., 2012 (3), p. 413 ss.

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clausole che devono caratterizzare il contratto tipo previsto dall’art. 28, d.l. 1/2012 ve ne è una che indubbiamente si riferisce al doppio ruolo attivo del finanziatore. Espressamente si prevede, infatti, che la banca o l’intermediario finanziario possono essere designati beneficiari o vincolatari delle prestazioni della polizza solo se questa non è “intermediata dalla banca o dall’intermediario finanziario stesso o da soggetti ad essi legati da rapporti di gruppo o da rapporti d’affari propri o di società del gruppo” (art. 1, co. 1, lett. i, reg. Ivass, 3 maggio 2012, n. 40) 17. Ora, se si passa all’esame dei profili sanzionatori, subito ci si deve confrontare con la tesi che tende ad affermare comunque l’esistenza d’uno spazio per un potere punitivo. Muovendo dal presupposto dell’applicazione della normativa d’interesse agli intermediari assicurativi, taluno 18, infatti, ha inferito che il trasgressore delle prescrizioni dell’art. 28 e/o del regolamento Ivass, è sottoposto al potere sanzionatorio dell’amministrazione di settore (art. 325, co. 1, cod. ass.), rinvenendo la norma incriminatrice nella previsione dell’art. 324 co. 1, cod. ass. che fissa le sanzioni pecuniarie da applicare a chi si interpone nella circolazione e “collocamento” di polizze. Per, l’opinione riferita, dunque, la violazione dell’obbligo di “informazione aggravata” (ex art. 28, d.l. 1/2012) esporrebbe l’intermediario all’applicazione della sanzione pecuniaria dell’art. 324, comma 1, cod. ass., prevista per il caso di violazione delle disposizioni dell’art. 183, cod. ass. e delle relative norme d’attuazione. Quella, in altri termini, giunge ad una conclusione che poggia sul postulato dell’integrazione da parte dell’art. 28 d.l. 1/2012, degli obblighi di comportamento degli intermediari iscritti al registro dell’art. 109, cod. ass. e, quindi, che le prescrizioni del decreto legge siano, sostanzialmente, riconducibili a quelle codicistiche in forza della medesima finalità di protezione del cliente. L’identità di ratio – intesa quale tensione a trasparenza, correttezza nell’interesse del contraente non professionale – permetterebbe, dunque, di superare il limite testuale ed, in specie, la mancata espressa volontà legislativa d’arricchire l’art. 183, cod. ass., cui si riferisce l’art. 324, co. 1, cod. ass. L’impostazione riferita non è condivisibile e si presta a facile critica poiché collide con il principio di tassatività e specialità delle pene,

17

Cfr relazione al regolamento Ivass n. 40/2012 (p. 2), in www.ivasss.it. Così, Frignani, Paschetta, Le polizze, cit., p. 413, secondo i quali, dalla posizione intermediaria assicurativa della banca ne deriverebbe la sua soggezione alle prescrizioni Ivass, sin dal avvio della trattativa con il cliente (art. 2, reg. Ivass. 40/2012). 18

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espressamente riaffermato per le sanzioni amministrative dall’art. 1, co. 1, l, 24 novembre 1981, n. 689 19. Se è vero che anche le misure afflittive d’interesse sono applicabili solo nei casi e nei tempi stabiliti dalla legge 20, risulta precluso ogni spazio per un’interpretazione estensiva qual è quella criticata. Perciò la mancata integrazione da parte dell’art. 28 d.l. 1/2012 delle prescrizioni dell’art. 183 cod. ass. impedisce di prospettare qualunque reazione afflittiva per il caso d’inosservanza proprio per il difetto d’una disposizione incriminatrice, poiché la violazione non è presa in considerazione dall’art. 324 co. 1, cod. ass. In conclusione la lettura lineare e garantistica dei documenti normativi richiamati porta a negare l’attribuzione ad Ivass d’un’ampia prerogativa punitiva, pur rimanendo, ad un primo esame, il dubbio che un minimo spazio possa sussistere nel caso della violazione del divieto per l’intermediario di assumere la contemporanea posizione di assicurato o vincolatario delle prestazioni derivanti da polizze concluse grazie alla sua opera (art. 48, co. 1-bis, reg. Ivass, 20 ottobre 2006 n. 6).

3. Un possibile recupero dello spazio sanzionatorio attraverso l’art. 48, co. 1-bis, reg. Ivass n. 6/2006. Come si trae dai documenti di consultazione, l’autorità di vigilanza, per porre un argine alle discutibili condotte di talune imprese che simultaneamente offrivano finanziamenti ed intermediavano contratti assicurativi, ha posto un divieto assoluto per le prime d’avvalersi dei benefici delle polizze, quando queste sono collocate dalle stesse (art. 48, co. 1-bis, reg. Ivass, 6/2006). Dunque, risulta preclusa al soggetto vigilato l’assunzione della contemporanea posizione di erogatore del credito, “distributore” del contratto “complementare” e di suo beneficiario. Nel registrare la scelta draconiana di Ivass si deve, però, subito os-

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Per una riaffermazione del principio di legalità e tipicità si veda, TAR Lazio, 16 gennaio 2013, n. 401, in www.giustizia-amministrativa.it, che ha annullato un provvedimento sanzionatorio di Ivass emesso nei confronti di un attuario per una condotta non prevista da alcuna norma “incriminatrice”. In termini analoghi, afferma l’insuperabilità del dato testuale, Cass., 7 agosto 2013, n. 14209, in www.giustizia.it, escludendo che la sanzionabilità dei componenti degli organi di controllo di una banca in forza di una previsione diretta a punire quei soggetti facenti parte dell’organo di gestione della stessa. 20 Sandulli, voce Sanzioni, cit., p. 7.

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servare come proprio l’estremo rigore induce a dubitare della sua legittimità anche se la previsione è posta all’interno del regolamento intermediari, cioè nel corpo di un provvedimento attuativo dell’art. 183, cod. ass. e, dunque, riconducibile alle fattispecie dell’art. 324, co. 1, cod. ass. La collocazione topografica – ragionevolmente – non è elemento sufficiente per dimostrare la correttezza della scelta dell’amministrazione. La prescrizione regolamentare non appare conciliabile, in primo luogo, con le indicazioni della norma codicistica che fissa i principi di comportamento oggetto di concretizzazione amministrativa; in secondo luogo, quella non risulta rispettosa del principio di proporzionalità inteso – tanto dal codice delle assicurazioni (art. 191, co. 2), quanto dalla legge sul risparmio (art. 23, co. 2, l. 262/2005) – “come criterio di esercizio del potere adeguato al raggiungimento del fine con il minor sacrificio per gli interessi dei destinatari”. Da qui, dunque, la prospettiva d’invalidità d’un eventuale provvedimento sanzionatorio e la possibilità per chi lo contesta in sede giurisdizionale di far valere anche l’illegittimità della norma subprimaria che delinea l’obbligo non osservato 21. Come è noto, le autorità indipendenti, anche quando godono d’ampia autonomia nel delineare fattispecie rimesse alla loro determinazione – e poi presidiate da sanzioni – non sono completamente libere nelle loro scelte. Queste, infatti, devono essere compiute avendo riguardo alle coordinate offerte dalla legge attributiva del potere normativo subprimario nonché considerando sia le regole generali che i principi posti dalla disciplina oggetto d’integrazione da parte della “fonte delegata”. Anche l’amministrazione di settore, in altre parole, deve operare rispettando una serie di coordinate o parametri misuratori di legalità che sono coessenziali alla potestà regolamentare, per definirne l’ambito; elementi il cui rilievo non è comprimibile o svalutabile richiamando quella diffusa opinione secondo cui per le sanzioni amministrative non opererebbe il principio costituzionale della riserva di legge posta per quelle penali (art. 25 Cost.) 22.

21

Come rileva Troise Mangoni, Potere sanzionatorio, cit., p. 87 ss., analizzando la potestà sanzionatoria di Consob – che si caratterizza per profili assoluta identità con quella di Ivass – il potere normativo integrativo dell’autorità, in ordine a taluni profili dell’attività regolata, assume specifica rilevanza rispetto alla funzione punitiva poiché l’amministrazione contribuisce alla definizione del precetto in relazione alla cui violazione la normativa primaria commina una specifica sanzione. 22 Sul rapporto tra fonte primaria e regolamento delle autorità di vigilanza ai fini della configurazione della fattispecie sanzionatoria si veda, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, Troise Mangoni, Potere sanzionatorio, cit., p. 93 ss.

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Infatti, non è dato prescindere dal ruolo di orientamento e limite della legge rispetto agli interventi attuativi 23 anche se – evidenziando la natura eminentemente patrimoniale delle sanzioni amministrative – si reputa di trovare in altra disposizione della carta fondamentale (art. 23, Cost.) la copertura del fenomeno “dell’integrazione legge regolamento”. Se, invero, si vuole conservare un qualche significato all’indicazione costituzionale – per cui anche le pene amministrative possono essere imposte solo in base alla legge – si deve concludere necessariamente che norme regolamentari devono rispettare fedelmente le indicazioni poste dalle “fonti deleganti”. Si riesce a conservare una funzione garantistica all’istituto della riserva relativa di legge, infatti, solo se si pretende, ai fini della validità del prodotto, una rigorosa coerenza con le disposizioni abilitanti 24. Se ora si passa alla specifica considerazione delle indicazioni dell’art. 183, cod. ass., – in tesi – base legislativa dell’art. 48 co. 1-bis, reg. Ivass 6/2006, si può rilevare l’immediata “distanza” tra prodotto normativo e la disposizione abilitativa, la quale non prevede limitazioni o preclusioni totali da circostanziare o l’eventualità d’una loro introduzione per via regolamentare. Come ha rilevato la giurisprudenza 25, il legislatore nell’affidare all’autorità il compito d’attuare la disciplina del conflitto d’interessi, non ha contemplato la possibilità d’introduzione di divieti sostanziali assoluti, indicando solo una serie d’obblighi informativi e gravando il loro de-

23

Cfr Nicodemo, Gli atti normativi delle autorità amministrative indipendenti, Padova, 2002, p. 233 e spec. 245 ss. Per l’affermazione di un rigorosissimo rapporto di succedaneità o di accessorietà sostanziale tra legge e regolamento delle autorità indipendenti si veda, De Minico, Regole, comando e consenso, Torino, 2004, p. 18 e spec. 24 ss. 24 Si deve ricordare, però, come in giurisprudenza prevalga un diverso orientamento, che tende a contenere la portata garantistica del limite – Cass., 23 marzo 2004, n. 5743, in www.giustizia.it. – ammettendo che la legge istitutiva di misure afflittive amministrative possa lasciare margini d’integrazione alla potestà regolamentare, per l’inoperatività del principio di stretta legalità di cui all’art. 25, co. 2, Cost. In tal senso si veda, Cass., 20 novembre 2003, n. 17602, in www.giustizia.it, secondo cui “l’art. 1, l. 24 novembre 1981 n. 689, nel sancire per le sanzioni amministrative una riserva di legge analoga, ma non del tutto corrispondente, a quella di cui all’art. 25 Cost., impedisce che tali sanzioni siano comminate direttamente mediante disposizioni di fonti normative secondarie ma non esclude, viceversa, che i precetti sufficientemente individuati dalla legge siano eterointegrati da norme regolamentari delegate, in virtù del particolare tecnicismo della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare”. Per una considerazione critica di tale giurisprudenza, si veda anche Costi, Le sanzioni amministrative nel mercato finanziario, in Giur. comm., 2013, I, p. 332 ss. 25 TAR Lazio, 3 agosto 2012, n.7229, in www.giustizia-amministrativa.it.

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stinatario d’una valutazione caso per caso della condotta più idonea per assolvere il dovere di soddisfare al meglio l’interesse del cliente 26. Peraltro, la distanza della scelta di Ivass dalle “intenzioni del legislatore” risulta confermata non solo dalla circostanza che non si rinviene nell’art. 28 d.l. 1/2012 alcun accenno alla soluzione regolamentare ma anche dal fatto che quello prevede degli adempimenti supplementari, neutri, rispetto agli equilibri dell’art. 183, co. 1, cod. ass., su cui, peraltro, espressamente dichiara di non incidere. Ancora, non pare persuasivo il modo con cui l’autorità cerca di giustificare la limitazione assoluta richiamandosi alla disposizione codicistica e, dunque, presentandola come una sua esplicitazione. Per l’amministrazione, la propria scelta sarebbe supportata dal fatto che l’art. 183, cod. ass., quando affronta il tema “dell’imparzialità” dell’intermediario, darebbe la possibilità di concludere contratti in conflitto d’interesse, previo adempimento di “oneri informativi aggiuntivi”, solo se la situazione considerata non deriva da una scelta dell’impresa. Viceversa se quella deriva da una scelta che “rientra nella sfera di dominio” della vigilata – come nell’ipotesi di cumulo di posizione di intermediaria e beneficiaria/vincolataria della polizza – l’impresa può sempre evitare di incorrervi optando per l’una o per l’altra posizione e, quindi, nella diversa ipotesi di coincidenza, risulterebbe giustificato l’obbligo di “straneazione” 27. La soluzione sostanziatasi nell’art. 48, co. 1-bis, come anticipato, non sembra, rispettosa di quel generale principio di proporzionalità che deve essere osservato da chi esercita poteri amministrativi non vincolati e, quindi, di quell’imprescindibile parametro d’orientamento – e poi di valutazione – della correttezza del prodotto della potestà normativa espressamente menzionato dall’art. 23, l. 262/2005 28. È, infatti, pacifico

26 Seguendo, dunque, una linea che caratterizza la moderna legislazione economica che rifugge, a fronte di situazioni conflittuali, dall’imporre divieti secchi, optando per una rimodulazione degli obblighi di correttezza informativa, come accade per la disciplina degli intermediari finanziari del t.u.f., su cui, per tutti, si vedano, Annunziata, La disciplina del mercato mobiliare7 , Torino, 2014, p. 133 ss.; Lener, Sub art. 21, in Il testo unico della finanza, I, a cura di Fratini e Gasparri, II, Torino, 2012, p. 390 ss. 27 Cfr. documento contenente gli esiti della pubblica consultazione relativi al provvedimento Ivass n. 2946/2011, cit., p. 7. 28 Cintioli, Potere regolamentare e sindacato giurisdizionale2, Torino, 2007, p. 129. Il criterio della minor incidenza negativa per i vigilati, nel contesto d’interesse, poi, assume una rilevanza particolare, se si condivide quell’autorevole opinione – Merusi, I sentieri interrotti della legalità, Bologna, 2007, p. 67 – secondo cui l’attività delle autorità indipendenti dei mercati è “strumento di garanzia delle libertà riconosciute sia dalla

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che la normativa attuativa non solo deve risultare compatibile e sintonica con la legge attributiva del potere ma anche essere lo strumento che consente il conseguimento di un risultato con la minima compressione della libertà dei soggetti passivi, anche per la chiara indicazione dell’art. 23, co. 2, l. 262/2005. La normativa economica subprimaria, dunque, necessariamente, si caratterizza per una sua tendenziale minima intrusività, di cui deve essere data ragione nella motivazione dell’atto anche rapportando la soluzione adottata alle “scelte di fondo della disciplina di settore”. In altri termini, il prodotto più recente deve risultare “normalizzato” rispetto agli altri precedenti, con conseguente messa al bando di quelle determinazioni urgenti od a carattere contingente, giustificate sostanzialmente dall’esigenza di dare un segnale di rassicurazione al mercato con la previsione di provvedimenti “esemplari” 29. Nulla di tutto quello pare riscontrarsi, invece, nella disposizione criticata. Questa oltre che stentorea ed eccentrica rispetto al panorama normativo, appare assolutamente ingiustificata in termini di motivazione. L’autorità, infatti, richiamandosi ai risultati della propria indagine conoscitiva, si limita ad esplicitare l’inesistenza d’alcuna soluzione alternativa meno “compressiva” ed il marginale impatto della leva informativa, motivando, contrariamente alle indicazioni del legislatore, il proprio intervento con la necessità d’una risposta esemplare ad una situazione, a suo dire, di un diffuso malcostume di banche ed altri intermediari finanziari iscritti al Rui.

4. Esclusione dei destinatari della disciplina dell’abbinamento di cui all’art. 28 d.l. 1/2012 dall’ambito d’applicazione dell’art. 21, co. 3-bis, cod. cons. Escluso che la sanzionabilità della violazione della disciplina dell’abbinamento si fondi sulle disposizioni del codice delle assicurazioni, ci

carta fondamentale che dai trattati europei”. Libertà, appunto, che, in principio, deve essere assicurata, se necessario, da interventi conformativi a carattere correttivo, che pur devono attestarsi sui minimi livelli di “intrusività”, tal per cui il loro contenuto risulti l’unico strumento in grado di assicurare le condizioni d’un equilibrato funzionamento o sviluppo del mercato di riferimento, indipendentemente dal fatto che si debbano recepire indicazioni europee o ci si prefigga di riempire un vuoto di tutela delle parti deboli, Romagnoli, Consob. Profili e attività, Torino, 2012, pp. 97-98. 29 Cfr Romagnoli, Consob. cit., p. 97.

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si può chiedere se quella possa poggiare sul codice del consumo che “stigmatizza” una specifica ipotesi di collegamento negoziale tra contratti di finanziamento e polizze assicurative (art. 21, co. 3-bis, cod. cons.) 30 ed affida all’Autorità garante per la concorrenza la relativa funzione punitiva (art. 27 cod. cons.). Se non ci si inganna, anche la risposta a questo quesito deve essere negativa, poiché la fattispecie delineata dal codice del consumo è assolutamente diversa da quella descritta dai primi due commi dell’art. 28. Quindi si deve escludere che quanto non sanzionato dalla normativa settoriale possa esserlo da Agcm. Diversamente da quanto da altri ipotizzato, non può sostenersi che la fattispecie delineata dall’art. 21, co. 3-bis, cod. ass. è in grado di ricomprendere tutte quelle condotte con cui le banche legano la propria prestazione alla sottoscrizione di un contratto collegato 31. È, infatti, ragionevole ritenere sussistere solo uno spazio residuale per la competenza di Agcm, immaginando che a questa spetti l’intervento di repressione delle pratiche poste in essere da soggetti che non rivestono la qualifica di intermediari assicurativi e come tali non tenuti a prestare al cliente un’attività di consulenza. In altri termini, la si può ammettere nei confronti di operatori non gravati da obblighi d’attenzione particolari per gli interessi della controparte che, cioè, si limitano ad imporre una polizza da loro scelta, senza riconoscere alla seconda la possibilità di ricercare un’alternativa. Per quanto riguarda l’aspetto sostanziale, l’argomento dirimente ai fini dell’affermazione del diverso raggio d’azione delle due disposizioni non è tanto dato dai distinti tipi di polizza considerati dall’una e dall’altra, quanto dalla circostanza che solo l’art. 28, d.l. 1/2012 presuppone il ruolo di intermediario assicurativo della banca. Il verbo atecnico “eroga” impiegato dal codice del consumo, invece, evoca il mero fatto della sottoposizione al cliente non professionale d’una particolare polizza, a prescindere da qualunque specifica regola di presentazione del prodotto, e trova la sua giustificazione in quanto tende a “moralizzare” un ambito

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L’art. 23, co. 2-bis, cod. cons., considera “scorretta la pratica commerciale di una banca, istituto di credito o di un intermediario finanziario che, ai fini della stipula di un contratto di mutuo, obbliga il cliente alla sottoscrizione di una polizza assicurativa erogata dalla medesima banca, istituto di credito o intermediario (…)”. 31 Come sostengono, Frignani, Paschetta, Le polizze, cit., per i quali il fatto che la pratica oggetto d’interesse “sia inserita nel novero delle pratiche commerciali scorrette comporta necessariamente l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dal codice del consumo per queste ultime e la cui applicazione, come è noto, è demandata ad Agcm”.

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altrimenti non disciplinato. Tempera, dunque, quella possibilità, che – nel silenzio della legge – ha una parte di far valere la propria posizione di forza come consentitole dalla regola della necessaria corrispondenza tra proposta ed accettazione (art. 1326 c.c.); dunque, limita l’autonomia privata del professionista che altrimenti potrebbe configurare operazioni che non lasciano alcun margine d’apprezzamento a chi subisce l’azione stigmatizzata. Come si vede, la fattispecie delineata dal codice del consumo colpisce l’intenzionale e volontaria coartazione del cliente interessato ad un finanziamento, costretto alla sottoscrizione di una qualunque polizza – anche diversa da quella vita – individuata unilateralmente dall’erogatore del credito. Mira, cioè, a sanzionare chi, forte della sua posizione, priva immotivatamente di ogni margine di scelta la propria controparte non professionale, dirigendosi a reprimere condotte assolutamente bandite dalla disciplina assicurativa 32, che è fonte di particolari doveri a carico degli intermediari. Questi, infatti, hanno l’obbligo di conoscere il cliente ed assecondare nel modo più appropriato le sue necessità (art. 47, co. 1, lett. c-d, reg. Ivass 6/2006), accompagnandolo verso la conclusione del contratto a lui più congeniale. In conclusione, seguendo quella che può reputarsi una linea generale di sistema, solo quando non v’è spazio per l’applicazione diretta al finanziatore della disciplina dell’intermediazione assicurativa è possibile prospettare una scorrettezza del tipo individuato dalla fattispecie delineata dal codice del consumo 33. È, peraltro, da segnalare come la preclusione dell’applicazione della disciplina sostanziale consumeristica e l’esclusione della competen-

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Oggetto di specifica sanzione da parte dell’art. 324, co. 1, cod. ass. Per una diversa “lettura accrescitiva” della portata della fattispecie si vedano Frignani, Paschetta, Le polizze, cit., secondo i quali il divieto d’erogazione di polizze si riferisce a quelle emesse “necessariamente dalle compagnie assicurative che fanno parte del medesimo gruppo cui appartiene la banca, intermediario od istituto di credito che eroga il mutuo”. Se non erro, questa interpretazione del termine atecnico erogazione non persuade. È dubbio che la pratica possa dirsi integrata quando un soggetto, al di fuori di un rapporto di intermediazione assicurativa, offra una polizza emessa da una società di gruppo, stante l’indeterminatezza della fattispecie che non può essere integrata da una lettura complessiva del documento normativo. Nell’ordinamento non è dato rinvenire una nozione generale di gruppo che renda riconducibile ad un soggetto che ne è parte l’attività o gli interessi riferibili agli altri appartenenti alla medesima “aggregazione”. Dunque, la fattispecie non è idonea a comprendere situazioni in cui il finanziatore è legato, ad esempio, da rapporti partecipativi, all’intermediario che distribuisce i contratti d’assicurazione. 33

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za sanzionatoria di Agcm è stata definitivamente confermata dal nuovo testo dell’art. 47, co. 1, lett., c) e dell’art. 66, co. 2, cod. cons., come modificati dall’art. 1, d.lgs. 21 febbraio 2014 n. 21. Il legislatore, coerentemente con principio di corrispondenza tra potere di regolazione e quello di sanzione nonché con quello del “rapporto di specialità tra plessi normativi” 34 – già affermato dal giudice della nomofilachia amministrativa 35 – ha precisato che non si applica la disciplina delle pratiche commerciali scorrette 36 ai servizi finanziari, nel cui ambito la specifica definizione dell’art. 45, co. 1, lett. n, cod. cons., include “qualsiasi servizio di natura bancaria, creditizia, assicurativa, servizi pensionistici individuali, di investimento o di pagamento”. L’atto avente forza di legge 37,

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Per una rassegna critica di opinioni favorevoli alla competenza generalista di Agcm, mi sia consentito rinviare a Romagnoli, La repressione delle pratiche commerciali scorrette tra poteri dell’Autorità garante per la concorrenza e del mercato e competenze di Isvap, in La tutela del consumatore contro le pratiche commerciali scorrette nei mercati del credito e delle assicurazioni, a cura di Meli e Marano, Torino, 2011., p. 195 ss., mentre per l’adesione al principio di specialità, con conseguente radicamento in capo a Consob delle funzioni spettanti, altrimenti, al garante della concorrenza si segnala, Tola, Pratiche commerciali scorrette e prodotti finanziari, ivi, p. 105 ss. Per tutti, per una critica alla soluzione fatta propria dal giudice amministrativo si segnala, invece, Meli, Il Consiglio di Stato e l’applicabilità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette al settore del credito, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, II, p. 576 ss. 35 L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 11 maggio 2012, nn. 12, 13, 15 e 16, in www. giustizia-amministrativa.it – ha, infatti, negato la valenza generalista “transettoriale” della potestà sanzionatoria di Agcm in tema di repressione delle pratiche commerciali scorrette, indicando nel criterio della specialità l’elemento discriminante ai fini della spartizione della competenza in materia tra la prima e le altre amministrazioni di settore. Per un commento adesivo si veda, Torchia, Una questione di competenza: la tutela del consumatore fra disciplina generale e disciplina di settore, in Giorn. dir. amm., 2012, p. 953 ss. 36 Con conseguente esclusione dell’azione del Garante della concorrenza. 37 La recente modifica del codice del consumo, ancora, elimina quei dubbi in merito alla competenza generalista di Agcm sollevati dal art. 23, comma 12- quindecies, d.l., 6 luglio 2012, n. 95, che rideterminato l’importo delle sanzioni pecuniarie per le pratiche commerciali scorrette, affermava che “la competenza ad accertare e sanzionare le quali è dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, escluso unicamente il caso in cui esista una regolazione di derivazione comunitaria, con finalità di tutela del consumatore, affidata ad altra autorità munita di poteri inibitori e sanzionatori e limitatamente agli aspetti regolati”. Opportunamente il legislatore esclude la capacità riallocativa delle competenze d’una disposizione ambigua, reputata anche dalla dottrina favorevole alla funzione generalista di Agcm – Meli, Il Consiglio di Stato, cit., p. 588, nota 31 – inidonea a sortire l’effetto forse accarezzato dal legislatore storico. Per una critica, alla disposizione, fondata sulla necessità d’una assoluta coerenza della disciplina regolatoria e l’azione di vigilanza di settore si rinvia alle ponderate riflessioni di Troise Mangoni, Il riparto di

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dunque, recepisce quell’orientamento dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato – ma non della prassi di Agcm 38 – secondo cui la vigilanza sulla correttezza delle condotte delle imprese svolta dalla prima non può estendersi a quei settori in cui lo stesso compito è affidato ad altre autorità munite di idonei poteri di intervento a presidio del rispetto della disciplina sostanziale specifica 39.

competenze in materia di pratiche commerciali scorrette tra l’Agcm e le altre autorità indipendenti poste alla vigilanza di specifici settori, di prossima pubblicazione negli Atti del convegno tenutosi presso l’Università degli Studi di Padova il 16 novembre 2012. 38 Come sembra ricavarsi dal provvedimento n. 23764 del 25 luglio 2012, cit., con cui Agcm ha sanzionato sia la condotta della banca che ha preteso la sottoscrizione della polizza per la conclusione del contratto di mutuo, sia l’impresa che aveva confezionato, in termini opachi, il contratto d’assicurazione intermediato dalla prima. Determinazione sanzionatoria, si sottolinea, che si pone ulteriormente in contrasto con la giurisprudenza successiva alle pronuncie nn. 11- 16 del 2012 dell’Adunanza plenaria. Infatti il TAR Lazio, 17 gennaio 2013, n. 535, in www.giustizia-amministrativa.it, nel ripercorrere le principali disposizioni del codice delle assicurazioni (artt. 3, 5, 182, 183), ha individuato nella disciplina specifica la normativa che ordina la correttezza delle condotte delle imprese di settore – anche in ossequio all’art. 19 cod. cons. – ed in Ivass l’amministrazione competente alla repressione della pratiche commerciali scorrette. 39 Nell’esaminare le disposizioni contenute nel Codice del consumo, al fine d’individuare l’autorità competente, l’Adunanza plenaria n. 11/2012, cit., ha precisato che il primo “detta una disciplina articolata proprio al fine di tutelare le esigenze e le aspettative del consumatore/utente in tutti i campi del commercio, senza prendere in considerazione le specificità di singoli settori quale, relativamente alla fattispecie in esame, quello delle comunicazioni elettroniche. A tal fine sovviene l’art. 19, comma 3, del Codice del consumo, ai sensi del quale, in caso di contrasto, prevalgono le norme che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette. In sostanza, la norma in esame si iscrive nell’ambito del principio di specialità (principio immanente e di portata generale sul piano sanzionatorio nel nostro ordinamento, come si evince dall’art. 15 del cod. pen. e dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981), ai sensi del quale non si può fare contemporanea applicazione di due differenti disposizioni normative che disciplinano la stessa fattispecie, ove una delle due disposizioni presenti tutti gli elementi dell’altra e aggiunga un ulteriore elemento di specificità (o per aggiunta o per qualificazione). In altre parole, le due norme astrattamente applicabili potrebbero essere raffigurate come cerchi concentrici, di cui quello più grande è quello caratterizzato dalla specificità. Né all’applicazione del principio di specialità può opporsi che debba esistere una situazione di contrasto tra i due plessi normativi: difatti, ad una lettura più meditata, occorre ritenere che tale presupposto consista in una difformità di disciplina tale da rendere illogica la sovrapposizione delle due regole. Ed invero, al riguardo può concretamente soccorrere quanto previsto dal considerando 10 della direttiva 2005/29/CE (testo normativo recepito nel nostro ordinamento nel d.lgs. n. 206 del 2005, ossia nel Codice del consumo), secondo cui la disciplina di carattere generale si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali; in pratica, essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una

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5. Una parentesi sulla natura discrezionale del potere sanzionatorio di Ivass. Chiarita l’estensione della competenza sanzionatoria di Ivass, ci si può chiedere se l’Istituto, nell’esercizio della funzione punitiva, goda d’una discrezionalità comparabile per ampiezza a quella che si ritiene spettare ad Agcm in sede di repressione delle pratiche commerciali scorrette. Dunque, ci si può domandare se alla diversità dei soggetti posti a “guardia” della correttezza degli operatori professionali possa corrispondere una diversità dei margini di scelta, in termini d’apprezzamento dei comportamenti e di opportunità dell’intervento sanzionatorio. In particolare, ci si può interrogare sul significato, rispettivamente, d’un indice normativo e della prassi delle due diverse autorità. Quanto al primo, si può notare che la previsione del potere di concludere un procedimento con impegni, attribuito ad Agcm (art. 27, co. 7, cod. cons.), non trova una corrispondenza nel codice delle assicurazioni. Quanto al secondo, si può evidenziare il diverso modo d’intendere la propria azione sanzionatoria, rispettivamente, da parte di Ivass ed Agcm. L’una percepisce le proprie specifiche iniziative come esecuzione d’un’attività obbligata/vincolata conseguente all’accertamento d’una infrazione 40. L’altra, invece, reputa i propri interventi non quali indefettibili reazioni alla rilevazione di un illecito ma quale frutto una scelta di fondo ampiamente discrezionale, compiuta in esito di una valutazione comparata tra costi, benefici

legislazione di settore. Alla luce di questa impostazione occorre leggere, pertanto, quanto previsto all’art. 3, comma 4, della medesima direttiva, trasfuso nell’art. 19, comma 3, del Codice del consumo, secondo cui prevale la disciplina specifica in caso di contrasto con quella generale: il presupposto dell’applicabilità della norma di settore non può essere individuato solo in una situazione di vera e propria antinomia normativa tra disciplina generale e speciale, poiché tale interpretazione in pratica vanificherebbe la portata del principio affermato nel considerando 10, confinandolo a situazioni eccezionali di incompatibilità tra discipline concorrenti. Occorre, invece, leggere il termine conflict (o conflit), usato nella direttiva nelle versioni in inglese (e francese) e tradotto nel testo italiano come contrasto, come diversità di disciplina, poiché la voluntas legis appare essere quella di evitare una sovrapposizione di discipline di diversa fonte e portata, a favore della disciplina che più presenti elementi di specificità rispetto alla fattispecie concreta. In altre parole, la disciplina generale va considerata quale livello minimo essenziale di tutela, cui la disciplina speciale offre elementi aggiuntivi e di specificazione”. 40 Coerentemente con l’impostazione tradizionale – A.M. Sandulli, voce Sanzioni, cit., p. 15 – che reputa dovuto l’esercizio dell’azione sanzionatoria, derivandone l’obbligatorietà dall principio di buon andamento dell’amministrazione previsto dall’art. 97 comma 1, Cost.

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e possibili risultati. In tema di pratiche commerciali scorrette, l’Autorità garante spiega, nelle sue relazioni annuali, le proprie iniziative sanzionatorie in termini di congrua risposta alla necessità d’ottimizzazione di risorse e mezzi necessariamente limitati, il cui corretto impiego rende indispensabile una selezione e, dunque, impone di soprassedere dal reagire a quelle notizie d’illecito che, per le loro caratteristiche, possono apparire minimali, ora per la contenuta capacità offensiva, ora per la limitatissima cerchia dei possibili danneggiati 41. Agcm, dunque, ritiene di godere di quella discrezionalità che, in principio, è insita in ogni ipotesi di attribuzione d’un potere ad un’amministrazione, implicante una più o meno estesa facoltà d’apprezzamento e valutazione della situazione concreta ai fini dell’assunzione della più appropriata determinazione nel caso specifico 42. Profondamente diversa, invece, potrebbe essere la conclusione in merito agli spazi di discrezionalità spettanti ad Ivass, sia per il silenzio della normativa relativamente alla possibilità della conclusione del procedimento con impegni 43, sia per il tenore letterale, rispettivamente, degli art.

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Agcm, nell’illustrare le linee del proprio operato in materia – Relazione sull’attività svolta nel 2012, p. 172, in www.agcm.it – confrontando quello del 2012 con quello dell’anno precedente, conferma, invero, come quanto svolto deriva da una precisa scelta di politica di fondo, dichiarando d’aver preferito “concentrare le risorse su un numero complessivo di procedimenti inferiore rispetto a quello dell’anno precedente ma di più significativo impatto in termini di gravità delle diverse pratiche commerciali, con riferimento al maggior pregiudizio arrecato al comportamento economico del consumatore, nonché al corretto funzionamento dei mercati, in termini di capacità della pratica di perturbare gli operatori e di determinare un forte discredito sul buon funzionamento del mercato o su forme più evolute di transazioni commerciali (come, ad esempio, nel caso del commercio elettronico)”. 42 Discrezionalità, si sottolinea, confermata anche dalla normativa europea delle pratiche commerciali scorrette. Questa, infatti, non impegna gli stati membri in una lotta contro ogni singola condotta non conforme ai parametri della direttiva ma solo nei confronti di quelle pratiche idonee a “falsare in misura rilevante il comportamento economico” in ragione o della loro capacità di condizionamento od in funzione delle caratteristiche del consumatore medio o del membro medio del gruppo che può subirla (art. 5, par. 1, lett. b, art. 2, lett. c), art. 5, par. 1, lett. b), Dir/2005/29/CE). 43 Si deve segnalare, peraltro, come altre autorità hanno ricavato dal silenzio del legislatore une indicatore preclusivo della possibilità di concludere i procedimenti sanzionatori da loro avviati con l’accettazione d’impegni e, dunque, con una determinazione alternativa tanto all’applicazione della pena quanto a quella d’archiviazione. In tal senso si veda il Documento contenente gli esiti della consultazione del 20 dicembre 2013 relativo al nuovo regolamento sanzionatorio di Consob, p. 14, in www.consob.it, ove vengono respinte alcune richieste di sua integrazione evidenziando

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326 e 327 cod. ass. Il primo articolo, infatti, sembrerebbe comprimere i margini di valutazione dell’amministrazione, legando l’avvio dell’azione sanzionatoria all’emersione di elementi che portano a propendere per il compimento d’un’azione vietata 44. Il secondo documento normativo, se pur concepito per regolare un caso particolare, poi apparentemente limita il potere d’apprezzamento dell’amministrazione rispetto alle condotte del candidato responsabile. Quello, infatti, contempla una pena, nel caso di emersione di c.d. “illeciti seriali”, anche a fronte dell’assunzione da parte del privato dell’impegno all’eliminazione delle cause che hanno provocato i fatti oggetto di contestazione degli addebiti. In tale ultima ipotesi, dunque, il legislatore pone come alternativa al cumulo materiale delle sanzioni, in caso di attivazione collaborativa dell’indagato 45, l’applicazione di una sanzione pecuniaria autonoma (art. 327, co. 4, cod. ass.). Nella sostanza, la scelta del soggetto passivo d’avvalersi della possibilità d’eliminare, nel termine fissato dall’autorità, le disfunzioni organizzative da cui è dipesa una pluralità di violazioni della stessa norma del codice o delle sue disposizioni d’attuazione, si tradurrebbe in un beneficio a contenuto necessario solo rispetto al momento “liquidativo” della pena. L’impresa con la sua cooperazione, infatti, conquisterebbe unicamente il diritto e non essere esposta al rischio dell’applicazione di tante sanzioni quanti sono i fatti storici derivanti dalla medesima causa 46. Una pacata considerazione dei documenti normativi segnalati porta, se ben ci si avvede, a ridimensionare fortemente la loro capacità di

come, l’istituto degli impegni, al pari di quanto avviene per Agcm, è ammissibile nella misura in cui è oggetto di una positiva valutazione legislativa espressa. Conclusione che, alla Commissione parrebbe tanto più vera se si considera che una delega legislativa non attuata (art. 6, co. 1, lett. f, n. 3, l. 15 dicembre 2011, n. 217) abilitava il governo ad apportare modifiche al regime sanzionatorio del t.u.f. introducendo, con gli opportuni adattamenti, l’istituto previsto dall’art. 14-ter, l. 10 dicembre 1990, n. 287. 44 L’art. 326, co. 1, cod. ass., dispone che l’azione sanzionatoria di Ivass viene avviata in caso di accertamento di condotte non conformi a legge e regolamenti d’attuazione, ad eccezione dei casi di “assoluta mancanza di pregiudizio (…) per gli interessi degli assicurati e degli altri aventi diritto alla prestazione”. 45 Cfr. Clarich, Zanettin, Le garanzie del contraddittorio nei procedimenti sanzionatori dinnanzi alle autorità indipendenti, in Giur. comm., 2013, I, p. 361. 46 La lettura coordinata dell’art. 326 e 327, cod. ass. potrebbe, ulteriormente, essere impiegata come argomento confermativo dell’assenza di margini di discrezionalità in merito od all’avvio od all’esito del procedimento sanzionatorio, intendo il secondo come specificativo del primo. Intravvedendo nella previsione dell’illecito seriale una fattispecie astratta che individua un caso tipico di ricorrenza dell’interesse dell’amministrazione all’azione punitiva, in quanto la reiterazione darebbe luogo ad un fatto per definizione rilevante.

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comprimere la discrezionalità di Ivass. Infatti, in primo luogo, si deve ricordare come la norma d’apertura è costruita attraverso l’impiego di “concetti giuridici indeterminati” 47 o “clausole generali”, il cui significato è determinato dalle scelte dell’autorità, non meno di quanto accade per la disciplina delle pratiche commerciali scorrette. È l’amministrazione ad essere investita del potere di misurare la capacità lesiva della condotta e, cioè, della prerogativa di ponderare se il comportamento non rispettoso della disciplina positiva pregiudica, prima facie, le ragioni della vigilanza o gli interessi di assicurati o degli altri aventi diritto alle prestazioni 48. Non preclusivo, poi, d’una definizione del procedimento con impegni, senza l’applicazione di sanzioni e, dunque, del riconoscimento d’un’ampia discrezionalità, sembra l’art. 327 cod. ass. Questo, invero, delinea una fattispecie peculiare, affatto diversa dalla iniziativa dell’inquisito che – autonomamente – propone le misure utili per eliminare le disfunzioni, poiché “incentrata” sull’adesione del destinatario alle indicazioni contenute nell’atto di contestazione 49. Il regolamento Ivass (art. 11, reg. Ivass, 8 ottobre 2013, n. 1) 50 affida, infatti, all’amministrazione tanto il compito d’individuazione della “diagnosi” quanto quello della definizione della “cura” che l’impresa deve autosomministrarsi. Dunque, poggia su d’una determinazione unilaterale della parte pubblica, suscettibile essa stessa di censura, e dunque fa emergere la sussistenza d’un interesse della stessa P.A. ad eliminare lo stato d’incertezza ad esso connesso, aderendo ad una proposta del privato. Proposta, si deve evidenziare, che potrebbe contenere soluzioni ben più efficaci ed efficienti di quelle delineate dall’amministrazione, che, comunque, in qualunque momento, potrebbe procedere, in via di autotutela, alla revoca dell’atto di contestazione degli addebiti, per cui la legge non esclude tale eventualità.

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Il cui impiego, come evidenzia la dottrina – Clarich, Manuale, cit., p. 111 – è elemento indicativo della spettanza di un potere discrezionale in capo all’autorità chiamata a concretizzarne il contenuto, componendo con al sua determinazione un conflitto o comparazione di posizioni non risolto dalla legge. 48 Per una evidenziazione della natura discrezionale del potere sanzionatorio dell’amministrazione di del settore assicurativo, si veda anche, Brocca, Il procedimento sanzionatorio dell’Isvap (ora Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni – Ivass), in Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative, cit., p. 333. 49 Cfr. Fratini, Le sanzioni dell’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e sociali (Isvap), in Le sanzioni delle autorità amministrative indipendenti, a cura di Fratini, Padova, 2011, p. 691. 50 Reperibile in www.ivass.it.

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6. Rilevanza delle regole sul procedimento sanzionatorio e loro compatibilità con le indicazioni dell’art. 6 Cedu. Esaminati i possibili spazi sanzionatori posti a presidio della disciplina sostanziale, si deve volgere l’attenzione alle regole che ordinano il procedimento di “produzione” dell’atto applicativo della pena poiché il secondo è il prodotto del primo, dalla cui disciplina ne è condizionato in quanto risultato di una funzione regolatoria 51. È necessario, dunque, non solo riflettere su cosa l’amministrazione può fare ma anche su come può o deve agire perché il procedimento è la forma della funzione o percorso attraverso cui il potere amministrativo si trasforma in atto 52, garanzia, sotto diversi profili, della legittimità della concreta determinazione, che deve essere raggiunta rispettando prescrizioni predefinite 53. Una corretta comprensione della funzione, in altri termini, impone non solo di delineare le fattispecie punitive ma anche di considerare le caratteristiche della disciplina regolamentare datasi da Ivass, in attuazione e nel rispetto dei principi posti dalla norma abilitativa della legge sul risparmio (art. 24, l. 262/2005). Prodotto regolamentare la cui legittimità, poi, deve essere saggiata verificandone la coerenza e compatibilità tanto rispetto alle prescrizioni poste dalla legge attributiva del potere normativo quanto avendo riguardo agli altri principi o precetti di rango “superiore” – nazionali o sovranazionali – che ne definiscono “il livello minimo di qualità”. In altre parole, la validità del provvedimento finale dipende sia dalla conformità dell’azione amministrativa alle regole sul procedimento sia dalla capacità di quelle di superare una verifica articolata e complessa idealmente scomponibile in tre fasi: una prima, in cui si svolge un esame di conformità dell’azione concreta e del suo prodotto alle disposizioni subprimarie; una seconda, in cui si confrontano quelle con le norme sulla normazione domestica; una terza, in cui si esamina la conformità di quanto emerso nella prima e seconda fase rispetto ai principi e regole di carattere superiore ricavabili dalla carta fondamentale, dai trattati europei, dalle fonti di c.d. diritto derivato nonché da accordi internazionali.

51 Cfr. Valentini, La regolazione e le sue istituzioni, in A.a. V.v., Diritto e istituzioni della regolazione, a cura di S. Valentini, Milano, 2005, p. 48. 52 Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento e processo, in Riv. dir. pubbl., 1952, p. 118 ss. 53 Sala, Potere amministrativo e principi dell’ordinamento giuridico, Milano, 1993, pp. 3-4. Per una sintesi delle teorie e delle funzioni del procedimento amministrativo, per tutti, si veda, Clarich, Manuale, cit., p. 225 ss.

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Tra i diversi parametri valutativi una particolare attenzione merita l’art. 6 della “Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, rubricato “diritto ad un equo processo”, cui è ispirato l’art. 24, l. 262/2005 54. Quel documento normativo – la cui rilevanza non è ostacolata dal suo riferimento al processo – porta ad una radicale riconsiderazione dei principi che la giurisprudenza domestica ritiene ordinino il procedimento sanzionatorio argomentando dalle differente sostanza dell’uno e dell’altro. Quindi permette di superare quel radicato convincimento secondo cui la diversa funzione di procedimento e processo consente un’attenuazione delle tutele riconoscibili al privato nei cui confronti sia stato avviato il primo. Per quanto concerne il raggio d’applicazione dell’art. 6 Cedu, si deve ricordare come la Corte europea dei diritti del uomo – depositaria dell’esegesi della convenzione 55 – interpreta in modo peculiare sia il termine tribunale che l’espressione “accusa penale”, al fine di evitare che l’effettivo riconoscimento delle garanzie previste dalla disciplina dell’equo processo risulti condizionato da qualificazioni formali o scelte organizzative degli stati firmatari 56. Dunque, alla luce di quella impostazione interpretativa cade la distinzione tra procedimento e processo che è posta a base della lettura riduttiva delle garanzie procedimentali, imponendosene, così, la loro rigorosa osservanza ogni qual volta ci si trovi innanzi ad un primo esercizio del potere punitivo 57. Per la corte Edu, innanzitutto, è pacifico che una pubblica amministrazione quando esercita poteri repressivi, comminando sanzioni anche pecuniarie 58, è assimilabile ad un tribunale. È, poi, certo che la contestazione da parte di una pubblica autorità d’un infrazione, che espone il destinatario al rischio di una misura afflittiva, rientra nel concetto di accusa penale, con tutte le conseguenze sul piano procedurale 59. La Corte

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Villata, Goisis, Procedimenti per l’adozione di provvedimenti individuali, in La tutela del risparmio nella riforma dell’ordinamento finanziario, a cura di De Angelis, Rondinone, Torino, 2008, p. 543. 55 Cort. cost., 24 ottobre 2007, nn. 348-349, in Foro it., 2008, I, c. 40 ss. 56 Allena, Art. 6 Cedu. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012, p. 36 ss. 57 Allena, Art. 6 Cedu., cit., p. 167. 58 Cort. Edu, 15 agosto 2008, C. 7460/03, Nadtochy c. Ucraina, par. 20-21; Cort. Edu, 23 novembre 2006, C. 7305/01, Jussila c. Fillandia, par. 38, entrambe in www.echr.coe.int. 59 Per una recentissima riaffermazione di tale posizione rispetto ai procedimenti sanzionatori di Consob, si veda, Cort. Edu, 4 marzo 2014, C. 18640/10, Grande Stevens c. Italia, par. 94, in www.echr.coe.int.

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di Strasburgo, in altri termini, attribuisce alle nozioni di “tribunale” e di “accusa penale” dell’art. 6 Cedu un significato proprio e diverso rispetto a quello riconosciuto nei diversi paesi, al dichiarato fine di assicurare un’applicazione sostanziale della disciplina dell’equo processo, nei singoli stati membri del consiglio d’Europa 60. In particolare, il giudice della convenzione, in sintonia con l’indicata prospettiva funzionale, non considera determinante, ai fini dell’applicazione dell’art. 6 Cedu, la qualificazione in termini di illecito penale od amministrativo compiuta dal diritto interno del singolo Stato aderente. Si reputano, invero, penali non solo le sanzioni così espressamente considerate da ciascun diritto domestico bensì anche quelle previste per la violazione di norme dirette alla generalità dei consociati 61, quando esse risultano caratterizzate da una finalità punitiva 62. Ancora, si considerano penali tanto le sanzioni obiettivamente gravi quanto quelle che – in astratto – non si palesano tali, esponendo l’indagato al rischio della condanna al pagamento di una somma di danaro “relativamente tenue” 63, poiché ciò che rileva, in ultima analisi, è la loro – anche non esclusiva – funzione afflittiva/deterrente 64.

60 Cort. Edu, 8 giugno 1976, C. 5101/71, Engel c. Olanda, par. 81-82, in www.echr. coe.int. 61 L’art. 6 Cedu, per la costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, risulta anche applicabile ai procedimenti disciplinari, categoria di procedimenti punitivi avviabili nei confronti di cerchie limitate di soggetti, cioè verso chi è legato da un vincolo particolare all’amministrazione od opera in “settori ad accesso riservato” su cui la prima vigila. La limitazione – diretta od indiretta – alla libertà d’azione derivante dall’applicazione della pena amministrativa porta, infatti, a ricondurre tale procedimento nell’ambito di quelli in cui si “controverte di diritti o doveri di carattere civile”, cui la norma convenzionale estende le proprie prescrizioni procedurali, Allena, Art. 6 Cedu, cit., p. 194 ss. Dunque, le considerazioni svolte nel testo si possono pianamente riproporre anche per il reg. Ivass 8 ottobre 2013, n. 2, “concernente la procedura d’applicazione delle sanzioni disciplinari nei confronti degli intermediari e le norme di funzionamento del collegio di garanzia”. 62 Cort. Edu, 27 settembre 2011, C. 43509/08, Menarini Diagnostic s.r.l. c. Italia, par. 43 in www.echr.coe.int. 63 Cort. Edu, 2 settembre 1998, C. 26138/95, Lauko c. Slovakia, par. 58, in www.echr. coe.int. 64 Con specifico riguardo alle scelte italiane, si deve ricordare che la Corte di Strasburgo ha ritenuto penali le sanzioni pecuniarie comminate in applicazione del procedimento previsto dalla l. 689/1981 sulla depenalizzazione per la loro formale caratterizzazione deterrente punitiva e, quindi, ha reputato tale l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria di 62.000,00 lire contestata per eccesso di velocità (Cort. Edu, 9 novembre 1999, C. 35260/97, Veruzza c. Italia). Dunque, il costante – più o meno ampio richiamo alla legge sulla depenalizzazione, operata dalle norme sulle

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7. Revisione dell’impostazione tradizionale del procedimento alla luce dei principi dell’equo processo e sua riconsiderazione come “luogo” di confronto paritario tra interessi contrapposti riferibili, rispettivamente, alla parte pubblica e quella privata. Come anticipato, l’art. 6 Cedu offre una serie di indicazioni fondamentali ai fini della riconsiderazione degli equilibri ed interessi che devono trovare riconoscimento e tutela nel procedimento sanzionatorio, implicando una rivalutazione delle fasi e dei momenti di quest’ultimo sino ad ora trascurati per il prevalere d’una convinzione che ne ha minimizzato la dimensione e funzione garantistica. Gli apporti della disposizione convenzionale si prestano, in una prospettiva del diritto interno, a fondare una lettura evolutiva dell’art. 24, l. 262/2005 che, cioè, pone in primo piano diversi fattori che condizionano legittimità del provvedimento punitivo ma che, sino ad oggi, sono stati “trascurati” per il concorrere di due diversi regimi; le potenzialità del documento normativo, se non ci si inganna, sono state compresse non solo per la costante differenziazione tra procedimento e processo ma anche per il prevalere della concezione della natura di obbligazione pubblica ex lege della condanna al pagamento della sanzione pecuniaria, con conseguente “riduzione” del giudizio di impugnazione a momento di sola verifica della sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi dell’applicazione della pena 65. L’art. 24, co. 1, l. 262/2005, richiamando espressamente i principi della piena conoscenza degli atti istruttori e del contraddittorio pone, cioè,

sanzioni delle autorità indipendenti – e tra queste quelle di Ivass, induce a qualificarle penali ai sensi della convenzione a prescindere dal fatto che sia contestata un’infrazione sanzionata, magari di poche migliaia di euro, ad un “conglomerato finanziario”. La Corte, da tempo, esclude, in principio, la possibilità di negare la natura penale di una sanzione in ragione della sua lieve entità pecuniaria – Cort. Edu, 21 febbraio 1984, C. 8544/79, Ozturk c. Turchia, par. 41, in www.echr.coe.int – o per il limitato tipo di privazione afflittiva che prevede; pertanto ha ritenuto applicabili le garanzie procedurali al procedimento che può portare, ad esempio, al ritiro di punti dalla patente di guida – Cort. Edu, 23 settembre 1988, C. 27812/95, Malge c. Francia, par. 39, in www.echr. coe.int. È, ancora da evidenziare, poi, come il giudice di Strasburgo, recentemente, ha ritenuto di trarre argomento di conferma della natura penale della sanzione, oltre che dai tradizionali elementi sintomatici, anche dalla posizione costante della giurisprudenza dello stato aderente che, in più occasioni, aveva evidenziato la funzione retributiva punitiva della sanzione applicata con il provvedimento posto in contestazione, Cort. Edu, 11 settembre 2011, C. 43509/08, cit. par. 41. 65 Clarich, Manuale, cit., p. 264.

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l’accento su alcune garanzie procedurali il cui rilievo ed importanza possono essere reinterpretate – estensivamente – attraverso l’art. 6 Cedu che equipara il procedimento al processo. La parziale corrispondenza letterale tra disposizione interna e quella convenzionale, dunque, consente di avviare una revisione critica – indipendentemente dal compimento del processo di adesione alla Cedu da parte dell’Unione europea – o dal modo con cui si ritiene che la disposizione convenzionale possa sortire effetti nell’ordinamento interno. Dunque, tanto se si reputa che quella, in quanto parte di un trattato internazionale, in forza dell’art. 117, co. 2, Cost., si ponga quale norma di diritto c.d. interposto, come tale in grado di orientare l’interpretazione di quello interno 66, sia se la si ritiene norma d’applicazione diretta 67 in forza dell’operare di una serie di indici nor-

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Cort. cost., 4 giugno 2010, n. 196, in Foro it., 2010, I, c. 2306 ss. In tal senso si vedano, Goisis, Un’analisi critica delle tutele procedimentali e giurisdizionali avverso la potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, alla luce dei principi dell’art. 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il caso delle sanzioni per pratiche commerciali scorrette, in Dir. proc. amm., 2013, p. 670 ss.; Mozzati, La conformità europea dei procedimenti Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012, p. 31 ss. e, diffusamente, Allena, Art. 6 Cedu., cit., p. 75 ss. Quest’opinione fonda la propria tesi su d’una serie di indici normativi tanto di carattere peculiare che generale. Quanto ai primi, si rileva come innanzitutto, molte direttive economiche vi fanno riferimento quando, come nel caso di quella sulle pratiche commerciali scorrette (venticinquesimo considerando), prevedono che il provvedimento d’armonizzazione “rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti in particolare dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Quanto ai secondi, si evidenzia come ai principi della disposizione convenzionale sono ispirati o fanno rinvio alcuni articoli della Carta fondamentale dei diritti dell’Unione europea, cui l’art. 6 par. 1, del Trattato Ue, riconosce lo stesso valore giuridico dei trattati e dunque efficacia diretta negli stati membri. In specie, si nota come l’art. 47, co. 2, della Carta riproduce sostanzialmente il contenuto dell’art. 6 Cedu. A quello poi fanno seguito gli art. 53 e 51 della stessa che confermano la piena sintonia della disciplina dell’Unione con quella della convenzione, intesa come fonte di un livello minimo di garanzie procedurali. In particolare l’art. 53 precisa che in caso di corrispondenza tra diritti riconosciuti dalla Carta e quelli conferiti dalla Cedu i significati e la portata da attribuirsi ai primi sono uguali a quelli derivanti dall’ultima; estensione e consistenza che si puntualizza, comunque, non possono mai essere compromesse o limitate dall’applicazione di atti dell’Unione. L’art. 51, poi, prevede che quella omogeneità di trattamento o di situazioni giuridiche deve essere osservata e garantita non solo dalle “istruzioni, organi e organismi dell’Unione” ma anche dagli Stati membri chiamati ad attuare il diritto europeo e, dunque, in ogni campo interessato dal diritto Ue. Da quel complesso di indici, quindi, si dovrebbe ricavare che nel settore, d’interesse, oggetto di una fitta normazione Ue, l’art. 6 Cedu, orienta e condiziona l’operato delle autorità di vigilanza domestiche – Mozzati, La conformità europea, p. 50 – ed, in specie, quella di Ivass. 67

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mativi europei che fanno rinvio alla Cedu 68. Nel caso d’interesse, infatti, a fronte del silenzio del legislatore primario, non si pone il problema del limite oltre cui l’adeguamento interpretativo operato dall’amministrazione o dal giudice si può spingere perché la lettura del documento normativo interno si presta ad essere integrata dai principi Cedu, sintesi di valori condivisi dagli stati aderenti alla Cedu, comunque, non contrastanti con la nostra Costituzione. La rilevata forza garantistica e capacità d’imprimere una radicale riconsiderazione di convinzioni consolidate non dovrebbe peraltro stupire se solo si considera che, in nome della tutela effettiva del individuo, l’art. 6 Cedu ha portato al superamento di molte limitazioni basate su distinzioni di tipo formale “stipulativo” tipiche degli ordinamenti degli stati contemporanei 69, cui non si può sottrarre, per ragioni di opportunità, quella tra procedimento e processo, con quanto ne consegue ai fini della disciplina. Perciò, nello specifico, la disposizione convenzionale consente di superare quel orientamento – radicato soprattutto in giurisprudenza – che nega che il procedimento sanzionatorio possa costituire luogo di un confronto paritetico, per il prevalere dell’interesse dell’amministrazione al contrasto dell’illegalità, con conseguente sacrificio di quello difensivo dell’indagato 70. L’equiparazione di posizioni di partenza tra parte pubblica e privata che si ricava dall’art. 6 Cedu, ulteriormente, rende manifesta l’insostenibilità d’una indimostrata superiorità degli interessi della seconda rispetto a quelli della prima ed improponibile la conclusione relativa alla possibilità di differenziare la qualità delle garanzie su cui può contare il sanzionando, rispettivamente, nel procedimento e nel processo 71.

68 Per l’esclusione dell’efficacia diretta delle disposizioni Cedu per l’operare di rinvii da parte della normativa europea, si veda, Cannizzzaro, Diritti “diretti” e “indiretti”: i diritti fondamentali tra Unione, Cedu e Costituzione italiana, in Il diritto dell’Unione europea, 1/2012, p. 24 ss. 69 Sul punto, per tutti, si veda, anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici, Ruggeri, Ragionando sui possibili sviluppi dei rapporti tra le corti europee ed i giudici nazionali (con specifico riguardo all’adesione dell’Unione alla Cedu e all’entrata in vigore del prot. 16), 2013, spec., p. 4, in www.aic.it. 70 Tra le tante pronunzie relative ai procedimenti sanzionatori di Consob si veda, per tutte, Cass., 20 gennaio 2014, n. 1065, in www.consob.it; Cass., S.U., 30 settembre 2009, n. 20935, in Foro it., 2010, I, c. 3128 ss., mentre per quanto concerne quelli di Agcm, si segnala, Cons. St., sez. VI, 20 luglio 2011, n. 4392, in www.giustizia-amministrativa.it. 71 In tali termini si veda, Rordorf, Sanzioni amministrative e tutela dei diritti nei mercati finanziari, in Le società, 2010, p. 986, secondo cui è da escludere, anche in con-

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Ancora, poi, impedisce che quella distinzione consenta di giustificare una “dimidiazione” dei diritti “partecipativi” dell’indagato in quanto non concepiti come necessari strumenti di un pieno contraddittorio ma quali semplici occasioni utili per far acquisire all’amministrazione elementi conoscitivi 72, nel corso d’un’istruttoria la cui valutazione di compiutezza è rimessa all’autorità procedente 73, poiché nel solo processo le parti potrebbero aspirare e pretendere una effettiva parità di trattamento 74. Co-

siderazione della posizione istituzionale delle autorità amministrative indipendenti, che i loro procedimenti debbano essere improntati ai principi processuali poiché la garanzia del ricorso all’autorità giudiziaria ordinaria risulterebbe di per sé sufficiente ad assicurare il rispetto dell’art. 6 Cedu “indipendentemente dal modo con cui sia destinata a svolgersi la precedente fase del procedimento amministrativo”. 72 Rordorf, Sanzioni, cit., p. 987. 73 Se si vuole, coerentemente con una impostazione seguita nella ricostruzione delle prerogative del soggetto passivo di un qualunque procedimento sanzionatorio, come si può trarre dal principio di diritto posto da Cass., 2 ottobre 2009, n. 21114, in www.giustizia.it, secondo cui “L’art. 18, l. 4 dicembre 1981 n. 689 impone all’autorità amministrativa competente a ricevere il rapporto dell’infrazione l’obbligo di sentire gli interessati che ne abbiano fatto richiesta, nonché di tenere conto dei documenti dagli stessi inviati e degli argomenti esposti negli scritti difensivi, ma non attribuisce al presunto responsabile il diritto a pretendere una vera e propria istruttoria ed una sorta di anticipazione del processo, rientrando nell’ambito delle facoltà discrezionali dell’autorità amministrativa quella di assumere ulteriori informazioni sui fatti (anche tramite l’audizione di testimoni), il cui esame e controllo sono consentiti agli interessati nel corso del giudizio di opposizione all’ordinanza-ingiunzione e restano soggetti alla valutazione da parte del giudice”. 74 L’asserita necessità di una sollecita repressione accentua, nell’ambito d’interesse, quel normale sospetto nei confronti di prescrizioni che possono tradursi in un potenziale fattore di rallentamento dell’azione amministrativa e che – come ricorda Satta, Contradittorio e partecipazione nel procedimento amministrativo, in Giust. amm., 2010, p. 305 – accompagnarono anche l’approvazione della l. 241/1990. L’aspirazione alla massima concentrazione dei tempi, peraltro, porta la giurisprudenza sensibile a quest’esigenza – spec. Cass., S.U., 30935/2010 – a confondere il fenomeno della partecipazione al procedimento con quello del contraddittorio, che deve essere garantito nel caso di quelli sanzionatori, caratterizzati dal radicalmente diverso rapporto in cui si pongono l’interesse privato e quello della pubblica amministrazione. Infatti, la l. 241/1990 considera, procedimenti in cui non vi è una contrapposizione necessaria di posizioni di partenza, nei quali il privato, con il suo apporto, mira all’adozione da parte della P.A. d’una determinazione quanto più equilibrata e maggiormente satisfattiva del proprio interesse, al termine d’un’istruttoria la cui completezza e sufficienza è valutata dalla stessa autorità procedente. Nel caso del procedimento sanzionatorio, invece, la partecipazione, per la conflittualità delle posizioni, assume una connotazione assolutamente difensiva e proprio perciò deve consentirsi all’indagato di prendere posizione e contraddire pienamente ogni affermazione o fatto probatorio che l’amministrazione potrebbe porre a

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me si vede, una lettura dell’art. 24, co. 1, l. 262/2005 orientata dall’art. 6 Cedu porta alla rivalutazione dei diversi momenti del procedimento ed ad affermarne la loro insopprimibilità e, di conseguenza, a respingere l’idea secondo cui il “confronto amministrativo” deve offrire un minor livello di garanzie difensive poiché la necessità di una quanto più rapida repressione degli illeciti 75 consentirebbe il differimento d’un completo e paritario contraddittorio nella successiva fase processuale 76. La lettura integrata, in altre parole, porta ad affermare la necessità del riconoscimento delle più intense garanzie procedurali sin dall’avvio di un’attività amministrativa e – evidenziando la forza afflittiva del provvedimento applicativo finale – si presta ad ulteriori sviluppi. Quella notazione, infatti, consente di sottolineare l’insostenibilità, per la sua scorrettezza di fondo, della posizione di una parte della giurisprudenza che – ambiguamente – avvicina l’atto conclusivo d’applicazione della sanzione ad una determinazione “endoprocedimentale”, alludendo a due fasi di un unico percorso. Ad un fenomeno “unitario” – ma a composizione “eterogenea” – caratterizzato da una prima “sede ideale” di confronto celere e snello, asimmetrico, ad estensione variabile, cui segue una seconda, eventuale, avviabile con il ricorso del sanzionato, ove gli è riconosciuta la possibilità di confrontarsi con la P.A., innanzi ad un giudice investito di una cognizione piena tanto sull’atto quanto sul rapporto, come tale, in grado di

fondamento della propria decisione finale. Dunque – come condivisibilmente evidenziato da Satta, Contradittorio e partecipazione, cit., pp. 307- 308 – è la funzione difensiva dell’interlocuzione dialettica che impone d’assicurarne lo svolgimento secondo uno schema predeterminato e rigido ed a fortiori osta a che l’amministrazione possa vedersi riconoscere la prerogativa di valutare l’opportunità – alla luce delle circostanze del caso concreto – di diversificare, di volta in volta, le modalità dell’istruttoria ed i termini del confronto con l’indagato. 75 Allena, Art. 6 Cedu., cit., p. 168. Negli stessi termini si veda anche, Tuccari, I principi del procedimento nell’esercizio del potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti. Profili e problemi nel prisma del contraddittorio, in Il potere sanzionatorio delle Autorità amministrative indipendenti, cit., pp. 165-166. 76 Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8-bis, l. 15 dicembre 1990, n. 386, relativa alla disciplina sanzionatoria degli assegni bancari – C. Cost., 26 febbraio 2010, n. 368, in Giur. cost., 2010, p. 5152 – richiamando la propria precedente giurisprudenza ha affermato che l’art. 24 Cost. non può essere proposto come parametro di correttezza “ove la disposizione censurata abbia oggetto non già un procedimento di natura giurisdizionale ma (…) esclusivamente una procedura di carattere amministrativo”, dunque confermando quella differenziazione di tutela conseguente al diverso luogo in cui il privato fa valere le proprie ragioni.

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sostituire in tutto od in parte il provvedimento avversato 77. Per quanto riguarda i profili di invalidità del provvedimento sanzionatorio, l’attitudine garantistica dell’art. 6 Cedu, come “svelata” dalla giurisprudenza della Corte europea, porta a respingere i corollari che si prendono di trarre dalle ricordate ragioni efficientistiche, dirette a limitare la forza viziante di qualunque forma, anche grave 78, di inosservanza o violazione del diritto di difesa 79. L’affermata inderogabilità delle garanzie procedimentali consente, in specie, di superare quell’ulteriore svalutazione che ne è stata compiuta dalla giurisprudenza attraverso una loro lettura con la “lente” della legge sulla trasparenza che la ha condotta a ricavare dall’art. 21-octies, co. 2, l. 241/1990 una generale irrilevanza delle violazioni delle regole che ordinano i procedimenti sanzionatori 80.

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Cass., S.U., 30 settembre 2009, n. 20929, in Foro it., 2010, I, 3129 ss. Per una critica alla quale, si vedano, Allena, Art. 6 Cedu., cit., p. 142 e Satta, Contradittorio, cit., pp. 309; Troise Mangoni, Il potere sanzionatorio, cit., p. 178 ss.. 79 Tanto da giungersi ad affermare – Cass., S.U., 28 gennaio 2010, n. 1786, in www. giustizia.it – l’assoluta irrilevanza, ai fini della verifica di validità del provvedimento finale, della mancata audizione del ricorrente che, ne aveva fatto formale richiesta e che, dunque, manifestava l’intenzione di avvalersi di una forma di interlocuzione prevista espressamente dalla legge, poiché, comunque, quello ha la possibilità di sottoporre il provvedimento alla successiva revisione giudiziale. 80 Così, Cass., 30 settembre 2009, n. 20935, cit., per la quale, “gli eventuali vizi del provvedimento riferibili a vizi del procedimento non sono, a giudizio di questa Corte, nella specie rilevanti” stanti le indicazioni dell’art. 21 octies, co. 2, l. 214/1990 “a mente del quale il provvedimento non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, e la cui ratio (sulla quale, funditus e condivisibilmente, Cons. di Stato 5419/06) risulta indiscutibilmente caratterizzata dall’intento di sanare, con efficacia retroattiva, tutti gli eventuali vizi procedimentali non influenti sul diritto di difesa in relazione a provvedimenti vincolati adottata in una materia l’intermediazione finanziaria – in cui il bilanciamento, anche costituzionale, dei valori individuali e collettivi destinati a tutela consente al legislatore ordinario interventi che privilegino la tutela del risparmio e della trasparenza e buon andamento dei mercati e delle operazioni finanziarie”. La combinazione del principio enunciato con la struttura del processo di opposizione, quindi, portava a rigettare il reclamo per essersi il ricorrente limitato a contestare in astratto il difetto di contraddittorio senza indicare concretamente quale tipo di pregiudizio avrebbe comportato la compressione lamentata. Infatti se da un lato l’amministrazione intimata assume la posizione di “attore sostanziale” si deve ricordare come grava sul ricorrente “convenuto sostanziale” la dimostrazione di tutti quegli elementi che escludono l’applicazione della sanzione; quindi, stante l’allargamento del tema del contendere, anche di quelle privazioni che gli sono state causate dalla compressione delle prerogative difensive derivanti dalla disposizione regolamentare con la conseguenza che, in difetto d’indi78

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Conclusione, questa, che si pone in palese contrasto con le prescrizioni convenzionali che intendono proteggere l’indagato fissando precisi punti fermi che devono essere rispettati dalla P.A. e che, come tali, non sono superabili da una regola di diritto interno che si dirige, in senso opposto, a limitare la annullabilità di provvedimenti autoritativi in ipotesi di emersione di vizi relativi alla violazione della disciplina procedimentale.

8. Continua. Alcuni parametri di conformazione dei procedimenti amministrativi sanzionatori ritraibili dall’art. 6 Cedu. L’interpretazione dell’art. 24 l. 262/2005 orientata dall’art. 6 Cedu consente d’includere tra i parametri di legittimità dei provvedimenti amministrativi interni ulteriori e più intensi principi rispetto a quelli ricavabili dalla lettura del testo del documento normativo domestico 81. L’equiparazione sul piano delle garanzie minime tra procedimento e processo, nella prospettiva sostanziale – funzionale della Convenzione, porta ad imporre l’effettiva osservanza di talune regole organizzative ed operative. In particolare, un primo gruppo di indicazioni prescrive che la decisione deve essere presa da un organo terzo, obiettivamente imparziale, anche, rispetto all’altro della P.A. che ha azionato la pretesa punitiva. Mentre un secondo gruppo di indicazioni richiede che il confronto – che precede la deliberazione finale – tra parte privata e quella pubblica procedente – deve svolgersi in modo completo, paritario ed esaustivo ed in un tempo quanto più prossimo all’emersione dei fatti posti a base dell’iniziativa della P.A. Dunque, per l’operare dell’art. 6 Cedu, salvo eccezioni, l’equo procedimento sanzionatorio, al pari del processo, deve essere tempestivo e strutturato in maniera tale per cui contendenti godano costantemente delle medesime prerogative, agiscano in modo informato e la posizione dell’una e dell’altra e non vengano incise da misure, anche normative, tali da alterare la loro parità di posizione. Tanto si trae dalla lettura della disposizione convenzionale e da alcune tra le più significative pronunce che hanno preso posizione sulle caratteristiche dei procedimenti amministrativi. Il primo comma del documento normativo esordisce affermando che

cazione di quelle e dei fatti ostativi alla sanzione, non si reputa superata la presunzione di correttezza dell’atto amministrativo. 81 Mozzati, La conformità, cit., p. 52.

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“ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. La sentenza deve essere resa pubblicamente (…)”. Il secondo comma, quindi, prevede che “ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. In fine, il terzo comma, individua alcuni corollari o specificazioni del principio del contraddittorio che caratterizza, nella logica della convenzione, l’intera dinamica procedimentale 82. In particolare, nel fissare la consistenza del c.d. principio di parità delle armi, si prevede che all’indagato: deve essere garantita un’informazione completa, assolutamente sollecita e comprensibile “della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico” (lett. a); si deve garantirgli di “disporre di tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa” (lett. b); deve essergli data la possibilità di “esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico” (lett. d). Nel concretizzare i precetti il giudice di Strasburgo ha precisato che l’accusa è tenuta, prima di tutto, a predisporre e notificare un atto di contestazione assolutamente dettagliato e quanto più prossimo all’accertamento, consentendo alla difesa di avere accesso a tutte le prove anche a discarico 83. Le prove a carico dell’indagato, peraltro, non sono suscettibili di considerazione ai fini della decisione se non vengono acquisite dall’amministrazione procedente tramite assunzione in pubblica udienza o confermate nel corso di questa, onde consentire al sanzionando un esame diretto e completo degli elementi raccolti a sostegno della sua colpevolezza 84. Il privato, dunque, non solo deve poter contare sulla ga-

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Allena, Art. 6 Cedu., cit., p. 17. Cort. Edu, 11 luglio 2002, C. 4577/11, C. Goc c. Turchia, par. 57; Cort. Edu, 25 luglio 2000, C. 23969, Matoccia c. Italia, par. 65, entrambe in, www.echr.coe.int. 84 Cort. Edu, 20 gennaio 2011, C. 25041/07, Verners c. Francia, par. 52, in www.echr.coe. int. Nello stesso senso, con riferimento ai procedimenti sanzionatori di Consob, che non riconoscono parità di posizioni tra accusa e difesa e negano la garanzia di un confronto in un’udienza pubblica, si veda, Cort. Edu, 4 marzo 2014, C. 18640, cit., par. 122 -123, che ha anche ricordato come la soppressione del confronto orale può essere giustificato solo in casi assolutamente eccezionali. Richiamando la propria costante giurisprudenza il giudice di Strasburgo ha ribadito che tale fase può ammettere deroghe, in ipotesi limite, di cause semplici, che non sollevano questioni di attendibilità delle prove e dunque la decisione finale può essere presa “in maniera equa e ragionevole sulla base delle 83

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ranzia offertagli dall’immediatezza del contraddittorio orale ma anche su quella complementare rappresentata dal controllo svolto dalla generalità dei consociati sull’agire della pubblica amministrazione 85. Ancora, per il giudice di Strasburgo, non è sufficiente che la regola procedimentale preveda la possibilità di un accesso ai documenti, se quello è sottoposto ad una preventiva verifica d’ammissibilità da parte dell’amministrazione procedente o di un suo organo. Infatti, il principio di parità delle armi consente all’autorità solamente in casi predeterminati e tassativi, per ragioni di tutela dell’interesse pubblico generale, la limitazione dell’accesso al materiale raccolto, dando luogo ad un’attenuazione di quello che, altrimenti, si sostanzia in un suo vero ed ampio obbligo di attivazione. La P.A., invero, è in principio tenuta a facilitare l’indagato nella sua opera d’acquisizione completa del materiale che lo riguarda, indipendentemente dalla valenza sfavorevole o favorevole di alcune sue parti. Obbligo d’attivazione e collaborazione, peraltro, inteso in modo particolarmente rigoroso tanto da ritenersi che pure l’eventuale omessa ostensione di un documento – anche neutro rispetto al fondamento della contestazione – integra quella lesione del contraddittorio che inficia inesorabilmente la validità del provvedimento, risultando indifferente che quella – od altra violazione procedimentale – non abbia avuto alcuna incidenza sulla decisione finale 86. Non meno rilevante, da ultimo, è il principio di presunzione di innocenza (art 6, co. 3, Cedu) sia per quanto riguarda all’addossamento alla p.a. procedente dell’onere della prova 87 sia per quanto concerne la concreta applicazione della pena 88. Per il giudice di Strasburgo le sanzioni amministrative determinate con un procedimento non rispettoso dei principi del giusto processo, non sono eseguibili prima della scadenza

conclusioni scritte delle parti e degli altri documenti contenuti nel fascicolo”. 85 Cort. Edu, 30 giugno 2011, C 25041/07, Messier c. Francia, par. 52, in www.echr. coe.int. 86 Cort. Edu, 15 gennaio 2009, C. 8927/02, Sharomov c. Russia, par. 47, in www.echr. coe.int. 87 Oggetto, come sottolinea, Costi, Le sanzioni, cit., p. 337, di una sostanziale inversione per quanto concerne le sanzioni irrogate dall’autorità di vigilanza quando contestano agli operatori la scorrettezza di comportamenti che devono essere orientati e rispettosi di principi o clausole generali. 88 Con conseguente superamento dell’opinione tradizionale – A.M. Sandulli, voce Sanzioni, cit., p. 13 – che esclude l’estensione della presunzione di innocenza, prevista per la responsabilità penale, all’ambito d’interesse in ragione delle diversa natura e conseguenze dell’applicazione della punizione amministrativa..

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dei termini d’impugnazione giurisdizionale o prima che quella revisione si sia conclusa. Si reputa, infatti, che anche l’esecuzione di una pena inflitta, in attesa che le garanzie convenzionali trovino applicazione, collide con il principio di presunzione di innocenza, superabile, appunto, solo al termine di un “equo procedimento” od, in difetto, attraverso un successivo giusto processo, celebrato da un giudice munito di un potere di revisione piena estesa al merito 89. In conclusione, per la giurisprudenza Cedu, il procedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie deve “ricalcare” quanto più possibile gli schemi giurisdizionali. Infatti, quell’equiparazione funzionale tra l’uno e l’altro porta ad ammettere una deroga eccezionale all’osservanza più rigorosa dei principi convenzionali – compensabile in un successivo processo innanzi ad un giudice munito di full jurisdiction – solo quando si faccia questione di illeciti minori, oggetto di lievissime sanzioni, il cui accertamento possa compiersi sulla base di attendibili elementi di prova documentale 90. In altre parole, v’è spazio per un contemperamento tra salvaguardia della posizione dell’indagato ed efficienza dello strumento sanzionatorio 91, con rinvio del confronto pieno alla fase contenziosa giurisdizionale, unicamente quando si ha riguardo all’applicazione – fondata su prove obbiettivamente attendibili – di previsioni “minimamente afflittive”, la cui tenue forza punitiva è però da verificare di volta in volta.

9. Tendenziale difformità dai parametri dell’art. 6 Cedu dei regolamenti sanzionatori delle amministrazioni indipendenti; alcuni dubbi sulla conformità del regolamento Ivass n. 1/2013. Terminata la sommaria ricognizione dei principi dell’art. 6 Cedu, ci si può volgere alla lettura del regolamento Ivass, 1/2013, “concernente la

89 Cort. Edu, 17 gennaio 2008, C. 44298/02, Synnelius and Edseberg Taxi Ab c. Svezia, par. 1-2, Cort. Edu, 27 gennaio 2000, C. 9631/04, Calberg c. Svezia, par. 50, entrambe, in www.echr.coe.int. 90 Cort. Edu, 29 settembre 2011, C. 3127/09, Fliser c. Slovenia, par. 38, in www.echr. coe.int, ribadisce il principio della rigorosa osservanza di tutte le garanzie procedimentali, anche in caso di sanzioni di lievissima entità, quando non vi sia certezza in merito all’attendibilità del materiale probatorio, escludendo che possa attribuirsi certezza alle affermazioni contenute in un verbale redatto dagli agenti accertatori della sanzione perché quanto dichiarato dagli stessi non era supportato da strumenti di rilevazione obbiettiva. 91 Cort. Edu, 23 novembre 2006, C. 73053/01, Jussila c. Fillandia, cit., par. 40.

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procedura di irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie” che ordina l’iniziativa punitiva dell’autorità. Anche questo prodotto normativo, allineato alle indicazioni della giurisprudenza domestica, appare disallineato rispetto alla convenzione Cedu. Quello, come altri omologhi delle amministrazioni indipendenti 92, non assicura una parità sostanziale tra parte pubblica e privata, riservando loro un trattamento eterogeneo, come sempre, giustificato sulla differenza formale tra procedimento e processo 93 e su una postulata prevalenza dell’interesse pubblico punitivo 94. La ricognizione del documento normativo di Ivass, se non ci si inganna, solleva peraltro una serie di perplessità che potrebbero generare una conseguenza paradossale. La massima o, quanto meno, tendenziale compressione delle prerogative difensive del privato – che si vorrebbero giustificate dall’esigenza di una pronta reazione a presidio dell’effettività delle regole – rischia di compromettere la forza di chiusura o “complementare” della funzione sanzionatoria, poiché possono portare all’adozione di determinazioni afflittive annullabili, viziate perché non rispettose dell’art. 6 Cedu. Se si passa all’esame degli aspetti specifici, una prima ombra sembra avvolgere la disciplina relativa al termine per la contestazione degli addebiti, che pare allontanarsi dall’indicazione dell’art. 6 Cedu che ne impone la quanto più sollecita trasmissione al suo destinatario. La normativa Ivass relativa all’atto d’avvio del procedimento non pare in grado di soddisfare pienamente quell’esigenza difensiva della tempestiva conoscenza “dell’oggetto del contendere”; il regolamento fissa, invero, un momento certo a partire dal quale scatta quel obbligo di comunicazione solo nel caso delle rilevazione di violazioni in sede ispettiva, individuandolo in quello coincidente con la “data di sottoscrizione del verbale” conclusivo di questa verifica amministrativa.

92

Per una panoramica delle distinte autorità si rinvia a Clarich, Zanettin, Le garanzie, cit. p. 363 ss. 93 Secondo alcuni – Goisis, Un’analisi, cit., pp. 731-732 – l’atteggiamento domestico è in parte spiegabile non solo alla luce d’un’esigenza “efficientistica” ma anche per un ritardo culturale dei nostri operatori giuridici, tendenti a negare rilievo ai principi ed ad una giurisprudenza Cedu da tempo consolidata. Nella sostanza i più sarebbero orientati da una negazione di fondo della rilevanza del processo di produzione del diritto attuato dai sistemi extrastatuali e dalle loro “corti di riferimento”, impegnate nella continua individuazione e creazione di principi fondati sulla base di valori di indole etica e poi di nuovi diritti fondamentali, cfr Grossi, Il messaggio giuridico dell’Europa e la sua vitalità: ieri, oggi, domani, in Contr. e imp. Europa, 2013, spec. pp. 687-689. 94 In senso critico si esprime anche Brocca, Il procedimento, cit. p. 332 ss.

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Altrettanto non accade nelle altre due ipotesi testualmente considerate quali, rispettivamente, in quella delle “verifiche presso soggetti diversi dagli intermediari” e delle “c.d. verifiche a distanza”. Nel primo caso s’individua il momento di riferimento in quello della “data di apposizione agli atti del visto del capo del servizio ispettorato”; nel secondo, invece, più genericamente, in quello “in cui è completata la valutazione degli elementi oggettivi e soggettivi costitutivi della fattispecie suscettibile di dar luogo all’applicazione di una sanzione”, coincidente con la data indicata nell’atto di contestazione degli addebiti, che individua il momento di conclusione della ponderazione degli elementi raccolti nella c.d. preistruttoria (art. 4, comma 4, reg. Ivass n. 1/2013). Nella sostanza la valutazione della tempestività della contestazione continua a dipendere da una considerazione “in concreto” dei tempi di valutazione dell’’amministrazione, non costretta ad attivarsi in un periodo determinato a priori 95. Dunque, l’interesse dell’indagato alla quanto più sollecita informazione può trovare soddisfazione solo successivamente ed indirettamente quando, previo esame della situazione di fatto, il giudice dell’impugnazione del provvedimento afflittivo, concluda per la sopravvenuta decadenza del potere punitivo per il superamento del termine ultimo fissato per la notifica dell’atto d’avviso d’avvio dell’iniziativa punitiva (art. 326, co. 1, cod. ass.) 96. Una seconda ombra incombe poi sulla disciplina dell’istruttoria poiché il regolatore non pare averla intesa, ai sensi dell’art. 6 Cedu, quale fase in cui si consente si realizzi un confronto pieno, paritario e simmetrico tra parte privata e parte pubblica. E ciò a tacere il fatto che, l’autorità – in sintonia con l’impostazione criticata 97 – sembrerebbe coltivare la pretesa di funzionalizzare, ai propri fini, l’intero apporto dell’indagato, comprimendogli così i margini di manovra. L’art. 8, comma 3, reg. Ivass 1/2013 dispone, infatti, che “ferma restando la pienezza del diritto alla

95 Cfr. Documento contenente gli esiti della pubblica consultazione del 8 ottobre 2013 sul regolamento concernente l’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie di Ivass, p. 9, in www.ivass.it. In conformi, si veda l’analogo Documento Consob, cit., spec. p. 5, che nega che il momento d’accertamento della sanzione e, quindi, l’obbligo di tempestiva contestazione – conformemente alla costante giurisprudenza – possa ritenersi decorrere da un preciso momento quale, ad esempio, quello in cui l’organo che ha concluso le indagini preistruttorie ne trasmette il risultato a quello che ha il potere di disporre l’atto di contestazione degli addebiti. 96 Cfr. TAR Lazio, 5 marzo 2014, n. 2544, in www.giustizia-amministrativa.it. 97 Vedi par. 8-9.

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difesa, l’attività difensiva si deve svolgere nel rispetto del principio della leale collaborazione delle parti nel procedimento amministrativo. In tale ottica, tenuto conto dell’esigenza di assicurare l’economicità dell’azione amministrativa, le deduzioni devono essere svolte, (…), in modo essenziale e pertinente, rispettando l’ordine delle contestazioni (…). La documentazione allegata deve essere pertinente ai fatti contestati e alle argomentazioni difensive”. Come si vede il documento normativo individua due principi di riferimento quali, rispettivamente, quello di leale collaborazione e quello d’economicità dell’azione amministrativa, alla luce dei quali pretenderebbe ordinare l’attività difensiva. Il regolamento pone in risalto, invero, due parametri la cui considerazione espressa si spiega muovendo dal assioma secondo cui la partecipazione oggetto d’attenzione ha la stessa sostanza di quella considerata dall’art. 10, co. 10, l. 241/1990; dunque, esaurisce la sua funzione nell’essere canale d’acquisizione d’informazioni utili all’amministrazione che si attiva per reagire all’ordine violato. V’è dunque l’adesione ad un’impostazione che è confermata dalla stesso testo della disposizione subprimaria, chiaramente ispirato alla legge sulla trasparenza amministrativa, che lega il dovere d’esame da parte della P.A. dei documenti e degli scritti presentati dal privato alla loro pertinenza “all’oggetto del procedimento amministrativo”. Non diversa considerazione sembra ricevere la previsione della possibilità per l’indagato di ottenere, a propria richiesta, l’audizione, opportunità comunque non prevista dalla l. 241/1990 che privilegia l’istruttoria documentale 98. Infatti, anche questa eventualità viene ridotta ad occasione facoltativa d’informazione. Occasione, si sottolinea, il cui significato e portata è ulteriormente sminuito dalla prassi di molte autorità di vigilanza che la riducono a mera opportunità per l’indagato di illustrazione orale od integrazione di scritti precedentemente presentati, lontana, come tale, dall’essere occasione d’incontro dialettico sulle rispettive posizioni. Lo stesso vincolo d’essenzialità e di pertinenza, anche riferito all’ordine delle contestazioni (art. 8, co. 3, reg. Ivass 1/2013), si spiega in un’ottica di funzionalizzazione della partecipazione privata alla soddisfazione dell’esigenza di celerità propria dell’amministrazione procedente. Interesse che il regolatore reputa potersi soddisfare attraverso la previsione d’un ordine che deve essere rispettato da ciò in cui si sostanzia l’attività difensiva e che, se ben ci si avvede, si traduce in un alleggerimen-

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Cfr. Clarich, Zanettin, Le garanzie, cit., p. 361.

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to dell’onere dimostrativo sia della parte procedente che dell’obbligo dell’organo deliberante. Il mancato rispetto dell’ordine delle contestazioni o la non pertinenza delle osservazioni difensive, invero, si presta a giustificare la non specifica considerazione delle argomentazioni del privato; così, infatti, si amplifica la forza conservativa di quella massima costante in giurisprudenza secondo cui la P.A., nel suo provvedimento sanzionatorio, non è tenuta a contestare puntualmente e prendere posizione su ogni deduzione proposta dall’indagato 99. Una terza ombra incombente sul regolamento riguarda la sua coerenza con il c.d. principio di parità delle armi, che si ricava dall’art. 6 Cedu. Si può, infatti, dubitare che quello consenta la previsione d’un termine fisso oltre cui scatta un divieto assoluto per il solo privato di procedere all’integrazione delle proprie argomentazioni. Per la normativa Ivass gli indagati “possono esercitare il diritto di difesa attraverso la partecipazione al procedimento sanzionatorio, presentando scritti difensivi ed altri documenti in ordine ai fatti addebitati nonché richiedere, ove lo ritengano necessario, di essere sentiti” nei sessanta giorni dalla contestazione degli addebiti (art. 8, co. 1, reg. Ivass 1/2013). Spirato tale termine la loro posizione risulta cristallizzata, poiché i primi non possono modificare o correggere le loro “controdeduzioni” neppure nel caso in cui l’amministrazione procedente disponga il rinvio della data per cui è stata fissata l’audizione dell’indagato (art. 8, co. 4, reg. Ivass 1/2013). Ancora una volta, per ragioni di efficienza, si introduce una barriera assoluta che non trova un corrispondente in un’altrettanto rigorosa preclusione a carico dell’amministrazione. Infatti, secondo un’interpretazione diffusa e non smentita dal regolamento 100, il servizio che cura la fase della contestazione e dell’audizione può effettuare approfondimenti

99 Richiamandosi, anche nel caso di procedimenti sanzionatori, alla prescrizione dell’art. 10, l., 241/1990, la giurisprudenza amministrativa – Cons. St., sez. VI, 7 gennaio 2008, n. 17; sez. VI, 11 aprile 2006, n. 1999, tutte in www.giustizia-amministrativa. it – esclude che sussista in capo all’autorità un obbligo di analitica confutazione degli argomenti difensivi delle parti, indicati nei loro scritti difensivi o ricavabili dagli eventuali documenti depositati, ritenendo “sufficiente uno svolgimento motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione della p.a. alle deduzioni difensive dei privati”. 100 Conclusione, peraltro, coerente con la dequotazione della funzione garantistica dell’atto di contestazione degli addebiti che – a pena di invalidità del provvedimento finale – non dovrebbe indicare ogni elemento fondante la colpevolezza dell’indagato, poiché altre prove a carico potrebbero essere rinvenute nel corso dello stesso procedimento, Cons. St., sez., VI, 9 giugno 2011, n. 3511, in www.giustizia-amministrativa.it.

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anche in caso di rinvio o dopo che si sia tenuto l’incontro. Tanto sembra trarsi dalla disciplina subrpimaria che, in linea con l’impostazione tradizionale 101, presuppone la possibilità di una riconsiderazione ed arricchimento degli elementi probatori rispetto a ciò che è stato raccolto nella fase preistruttoria e reso noto all’inquisito. La normativa, invero, dispone che, espletati gli adempimenti descritti, l’unità procedente trasmette all’ufficio sanzioni una relazione motivata in cui da ragione degli “elementi aggiuntivi disponibili di cui tener conto anche ai fini della graduazione della sanzione ovvero dell’archiviazione del procedimento” (art. 10, co. 4, reg. Ivass 1/2013). Nella sostanza, quindi, s’ammette la possibilità che la decisione venga assunta sulla base di eventuali elementi ignoti all’indagato, rispetto cui questo non può far valere il proprio punto di vista. Sempre nella prospettiva del privato, vista attraverso la lente della convenzione, si può dubitare della correttezza della compressione della sua facoltà di presentare difese scritte a fronte della previsione di un termine di durata massima del procedimento fissato in due anni dalla notifica della contestazione degli addebiti (art. 12, co. 4, reg. Ivass 1/2013). Quella prescrizione appare assolutamente discriminatoria se si considera che non è giustificata da un’esigenza acceleratoria di cui sono fatte partecipe le parti in modo uguale, restringendosi solo gli spazi difensivi lasciati all’indagato. Questi, infatti, ha sessanta giorni, decorrenti dalla contestazione degli addebiti, per depositare scritti e documenti difensivi e per chiedere l’audizione (art. 8, co. 1, reg. Ivass 1/2013) che l’istituto terrà indicativamente nei centoventi giorni successivi (art. 8, co. 4). Alla parte pubblica, invece, sembra consentirsi un più pacato esame di quanto raccolto; invero l’unico limite temporale che le si assegna sembra ricavarsi dalla necessità, a carico dell’ufficio sanzioni, di trasmettere la propria relazione motivata al direttorio in un tempo utile tale da consentirgli, eventualmente di acquisire – nei casi di particolare complessità – il parere dell’ufficio consulenza legale (art. 12, comma 2, reg. Ivass. n. 1/2013) e di deliberare prima dello spirare del biennio decorrente dalla contestazione degli addebiti. Venendo ad un altro profilo di criticità si osserva come né il regolamento né altra norma di Ivass – difformemente dall’art. art. 6, co. 3, lett. b, Cedu – prevede alcuna facilitazione a favore dell’indagato per quanto riguarda l’acquisizione della documentazione raccolta dall’amministra-

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A.M. Sandulli, voce Sanzioni, cit., p. 16.

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zione procedente. L’unico strumento d’informazione del privato rimane l’atto di costituzione degli addebiti che segna l’avvio del procedimento mentre la stessa posizione di soggetto passivo dell’azione punitiva non è di per sé sufficiente per visionare ed estrarre copia del materiale allo scopo raccolto dalla parte pubblica. Il bisogno strumentale di conoscenza è, infatti, subordinato ad una condizione formale e sostanziale: la richiesta deve essere indirizzata all’Istituto in forma scritta 102 e la sua soddisfazione è condizionata al contemperamento con l’interesse altrui alla riservatezza, la cui ponderazione è di spettanza degli uffici della stessa amministrazione (art. 18, co. 1, reg. Ivass n. 1/2013). Ulteriore ombra sul regolamento riguarda la disciplina del momento decisorio che non prevede un confronto anche pubblico ed orale sul risultato finale dell’istruttoria, innanzi all’organo munito del potere deliberativo, venendo così a collidere con il principio del pieno contraddittorio 103. La relazione dell’ufficio sanzioni – contente la proposta motivata di provvedimento dallo stesso elaborata – viene indirizzata unicamente al direttorio integrato (art. 12, co. 1, reg. Ivass, n. 1/2013) e, dunque, rimane ignota all’indagato che, privato così di qualunque possibilità di controdeduzione, ne conoscerà l’esito solo con la lettura della decisione finale 104. Come si vede il regolamento conserva una preclusione totale e constante al confronto completo ed immediato tra privato e P.A., prima, rispetto al momento della c.d. assunzione della prova e, poi, rispetto alla valutazione finale che l’amministrazione requirente compie a sintesi dell’esame di quanto raccolto. Come è evidente, si assiste ad una radicale privazione di quelle garanzie fondamentali che la convenzione (art. art. 6, co. 3, lett. d, Cedu) reputa possano soffrire solo di minime ed eccezionali deroghe.

102 Il regolamento, sembra poi non favorire la più semplice acquisizione del materiale, sol si considera che ammette solo il c.d. accesso formale, escludendo quello informale che si sostanzia in una richiesta verbale oggetto d’accoglimento senza l’adozione d’alcun particolare atto, Clarich, Manuale, cit., p. 269. 103 Al pari di quanto veniva previsto dalla precedente disciplina sanzionatoria, per un esame della quale si vedano, Agus, Il procedimento sanzionatorio dell’Isvap (commento a regolamento Isvap 15 marzo 2006 n.1), in Giornale dir. amm., 2006, p. 901 ss. e Fratini, Le sanzioni, cit., p. 701 ss. 104 Violazione del contraddittorio – in termini di denegata possibilità astratta di influire sull’esito della decisione – che si riscontra, poi, pure rispetto al parere che il direttorio integrato può chiedere al proprio ufficio consulenza legale (art. 12, co. 2, reg. Ivass 1/2013). Anche questo apprezzamento tecnico, che può incidere sulla direzione della determinazione finale, rimane infatti ignoto al soggetto passivo del procedimento.

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Da ultimo, è da sottolineare come il regolamento non consenta di superare i propri difetti strutturali, rinviando il contraddittorio pieno alla fase, eventuale e successiva, del confronto giurisdizionale, precisando che “la proposizione del ricorso non sospende il pagamento della sanzione” (art. 17, co. reg. Ivass. n. 1/2013), con conseguente violazione del fondamentale principio di presunzione di innocenza, operante sin quando l’indagato non abbia visto vagliare le sue ragioni nel corso di un procedimento o prima della successiva revisione del suo risultato nel corso in un “equo processo”. Gianluca Romagnoli

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Nuove responsabilità amministrative nel governo dei rischi dell’impresa di assicurazione: brevi riflessioni a margine del recente aggiornamento della disciplina sul sistema dei controlli interni* Sommario: 1. Premessa. – 2. Oggetto dell’intervento regolamentare: centralità delle mansioni di supervisione strategica e necessità di un loro rafforzamento. – 3. Segue. Formalizzazione delle politiche di rischio. – 4. Una considerazione conclusiva, ragionando sui flussi informativi.

1. Premessa. Con il provvedimento n. 17 del 15 aprile 2014 l’Ivass ha rinnovato la disciplina contenuta nel Regolamento Isvap n. 20 del 26 marzo 2008 in materia di sistema dei controlli interni delle imprese di assicurazione1. L’intervento si pone sulla scia di un più ampio processo di riforma delle regole di governo societario, il quale, pur muovendosi trasversalmente, sta tuttavia selezionando di sviluppare alcuni ambiti più di altri, qual è il caso di specie, appunto, del presidio dei rischi aziendali2.

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Il presente scritto è altresì destinato agli Atti del Convegno Impresa e società, assicurazioni e titoli di credito dedicato alla memoria del Professor Giulio Partesotti, organizzato dall’Università Ca’ Foscari Venezia, Dipartimento di Economia, il 9 e 10 maggio 2014. 1 La normativa secondaria sul sistema dei controlli interni delle imprese di assicurazioni ha già subìto in verità un primo aggiornamento in virtù del provvedimento Isvap n. 3020 del 2012. 2 Per tutti, v. Montalenti, Il sistema dei controlli interni: profili critici e prospettive, in Riv. dir. comm., 2010, I, pp. 935 ss.; Id., Amministrazione e controllo nella società per azioni: riflessioni sistematiche e proposte di riforma, in Riv. soc., 2013, pp. 64 ss.

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D’altro canto, anche nel settore bancario la vigilanza regolamentare ha di recente espresso la medesima necessità di ritornare sull’argomento dei controlli interni, con il 15° aggiornamento del 1° luglio 2013 delle Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche3. Naturalmente, il rapido evolvere negli ultimi tempi della normativa italiana sul sistema dei controlli interni è giustificato, a monte, da iniziative europee (segnatamente, riconducibili alle raccomandazioni provenienti dalle rispettive Autorità di vigilanza, EBA ed EIOPA) promosse anche in una logica propedeutica ai futuri assetti di vigilanza unica che oramai stanno progressivamente entrando a regime (si pensi ad esempio alle regole contenute, per le banche, nella Direttiva 2013/36/UE – c.d. CRD IV4 – e, per le imprese di assicurazione, nella Direttiva 2009/138/CE, nota come “Solvency II”5). I provvedimenti emanati nell’ultimo anno da Banca d’Italia ed Ivass sul sistema dei controlli interni rispondono alla stessa esigenza di riordino della disciplina preesistente e sono dunque mossi da finalità pressoché identiche6. Ciò nonostante, gli interventi di “lifting” presentano

3 Segnatamente, cfr. il rinnovato Tit. V, Cap. 7 della Circolare n. 263 del 27 dicembre 2006. 4 Con particolare riferimento alle misure su doveri e responsabilità degli amministratori contenute in questa direttiva, v. Enriques, Zetzsche, Quack Corporate Governance, Round III? Bank Board Regulation Under the New European Capital Requirement Directive, in ECGI Law Working Paper, 2014, n. 249, partic. pp. 12 ss.; con riguardo all’importanza che il Single Supervisor Mechanism si occupi anche delle questioni di governo societario connesse alla crisi dell’azione amministrativa, soprattutto per superare i conflitti di interesse che potrebbero invece prestarsi a costituire un freno all’azione delle Autorità nazionali, cfr. Ferrarini, Chiarella, Common Banking Supervision in the Eurozone: Strenghts and Weaknesses, in ECGI Law Working Paper, 2013, n. 223, pp. 6 ss. 5 Cfr., tra i molti, Martin, Schmeiser, Schmit, The Solvency II Process: Overview and Critical Analysis, in Risk Management & Insurance Review, 2007, 10, 1, pp. 69 ss.; Candian, Tita, La compliance delle imprese assicurative nel quadro europeo, tra Solvency II, EIOPA, e direttiva Omnibus II, in Dir. econ. ass., 2011, pp. 3 ss.; Vicari, Il sistema dei controlli interni nelle imprese di assicurazione, in Dir. econ. ass., 2011, pp. 31 ss.; Pesic, Governance e controlli interni delle compagnie di assicurazione, in Manuale di gestione assicurativa. Profili economici, finanziari e di governance, a cura di Santoboni, Padova, 2012, pp. 51 ss.; Frigessi di Rattalma, Controlli e Solvency II: il rischio forede assicurativa tra disciplina nazionale ed europea, in Resp. civ. prev., 2013, pp. 746 s., il quale rileva come il Regolamento originario del 2008 già anticipasse molte delle opzioni successivamente adottate dalla Direttiva Solvency II. 6 Basti pensare, tra tutti, al principio cardine della proporzionalità che sorregge entrambe i corpi disciplinari fin dalla loro iniziale versione. Sulla centralità di questo principio negli ordinamenti dei mercati finanziari cfr., tra gli altri, Mosco, Funzioni aziendali di controllo, principio di proporzionalità e ruolo degli organi aziendali

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differenti gradi di incisività, in ragione dell’età anagrafica che distanzia i corpi disciplinari rispettivamente oggetto di rivisitazione: quasi dieci anni separano infatti le Istruzioni di vigilanza del 1999 (fonte regolamentare in precedenza disciplinante il sistema dei controlli interni) dalle prime regole dettate al riguardo per le imprese di assicurazione nel 2008. In questo intervallo, l’esperienza dei noti scandali finanziari di inizio millennio7, prima, e l’insorgere della crisi, poi, hanno inevitabilmente avuto delle ricadute sul diritto positivo, non potendo esimersi la potestà regolamentare all’epoca esercitata dall’Isvap dal reagire con misure vòlte a scongiurare il ripetersi dei fenomeni di mala gestio alla base dei dissesti intervenuti medio tempore. Di conseguenza, l’intervento sulla regolamentazione assicurativa concernente il sistema dei controlli interni non si è spinto fino a rivedere l’impianto di fondo8, limitandosi piuttosto ad affinare ed implementare il testo di partenza, già a suo tempo concepito prestando attenzione, come appena osservato, ai segnali di “fallimento” delle regole di governance fin lì adottate.

2. Oggetto dell’intervento regolamentare: centralità delle mansioni di supervisione strategica e necessità di un loro rafforzamento. Nonostante sia stata quindi confermata la validità di molte scelte compiute nel 2008, l’Ivass ha comunque introdotto nel recente provvedimento degli elementi di novità che hanno un sicuro impatto di ordine

nella Mifid, in La nuova disciplina degli intermediari dopo le direttive MiFID: prime valutazioni e tendenze applicative, a cura di De Mari, Padova, 2009, p. 33; Mazzini, Nota alla Sentenza Cass. s.u. 19.12.2007 n. 26724, in Dir. banc., 2008, I, p. 726; Maugeri, Esternalizzazione di funzioni aziendali e “integrità” organizzativa delle imprese di investimento, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, pp. 439 ss., partic. pp. 446 s.; Maimeri, Criterio di proporzionalità ed efficacia dei modelli di risk management, in Banche e banc., 2011, n. 1, p. 41; Callegaro, Funzione di compliance e principio di proporzionalità nell’adempimento degli obblighi organizzativi degli intermediari finanziari (parte prima), in Banche e banc., 2012, n. 4, pp. 88 ss. 7 Per un’analisi degli scandali Enron e WorldCom alla luce dei cambiamenti oggi interessanti le regole di corporate governance, cfr., da ultimo, Cheffins, The Corporate Governance Movement, Banks and the Financial Crisis, in ECGI Law Working Paper, 2014, n. 232, p. 18. 8 Differente è invece il caso del settore creditizio, dove la potestà regolamentare si è spinta fino ad incidere sull’impianto generale della disciplina.

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sistematico sugli scenari evolutivi delle regole organizzative interne delle imprese di assicurazione. Di fronte alla novella in esame, l’impressione generale che si avverte già a prima vista è quella di un’opera di riassestamento dei pesi attribuiti alle diverse componenti del sistema dei controlli interni, soprattutto con riguardo all’ordine di importanza delle funzioni e dei ruoli che i vari soggetti coinvolti sono chiamati a svolgere. Sùbito si può notare, difatti, che l’Ivass non ha optato per un intervento di tipo generalizzato, avente cioè lo scopo di migliorare la preesistente disciplina nel suo complesso, bensì si è preoccupata di implementare solamente gli aspetti che si sono rivelati più deboli alla prova dei fatti e che necessitavano perciò di tornare ad essere sottoposti all’attenzione dell’autorità di vigilanza. A tal proposito, soprattutto con riguardo alla sezione del Regolamento dedicata al ruolo degli organi sociali, è interessante osservare che l’intervento dell’Ivass di aprile 2014 si focalizza quasi unicamente sull’organo amministrativo, al quale l’attuale art. 5 dedica ora un novero di prescrizioni ben più ampio e dettagliato di quanto non fosse in precedenza, mentre l’art. 7, sul ruolo dell’alta direzione, e l’art. 8, avente a oggetto i compiti dell’organo di controllo, sono al contrario rimasti pressoché invariati rispetto alla precedente versione9. L’azione mirata della Vigilanza regolamentare risponde dunque all’esigenza di rafforzare nello specifico la funzione assegnata all’organo amministrativo e vale altresì a confermare, una volta di più, che il malfunzionamento dell’attività di supervisione strategica che i deleganti sono chiamati ad esercitare sull’operato dei delegati si è rivelato di fatto l’anello debole lungo la complessiva catena del comando, essendo il più critico tra i mali riscontrati anche in considerazione delle altre, e complementari, funzioni di gestione (di spettanza dell’alta direzione) e di controllo (in capo all’organo sociale a ciò deputato). Già all’indomani delle prime manifestazioni “reali” della crisi tra 20072008, infatti, voci autorevoli addebitavano buona parte della responsabilità del dissesto anche all’incapacità dell’organo amministrativo di espletare il proprio dovere di vigilanza sull’operato del management, omettendo dunque di verificare se gli atti di gestione compiuti dalle fi-

9 Reboa, Il monitoring board e gli amministratori indipendenti, in Giur. comm, 2010, I, pp. 663 ss. critica il proliferare caotico, negli ultimi anni, degli adempimenti in materia di controllo che gravano sui consigli di amministrazione e che ne hanno incrementato considerevolmente le sfere delle responsabilità civile e penale.

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gure esecutive rispondessero alle linee strategiche dallo stesso impresse o comunque rimanessero, al di là del controllo di merito, per lo meno conformi ai dettami della legge e dello statuto oltre che a quelli desumibili dai principi di corretta amministrazione10. Non a caso, l’interesse dei regolatori di tutto il mondo – e dunque anche delle nostre Autorità di supervisione – si va sempre più concentrando sulla responsabilizzazione dell’organo amministrativo nell’esercizio delle sue funzioni di monitoraggio11 e, contestualmente, sull’idoneità della struttura organizzativa ad aiutare chi guida l’impresa ad eseguire correttamente i compiti di propria spettanza12.

10 V., ex multis, Mülbert, Corporate Governance of Banks after the Financial Crisis – Theory, Evidence, Reforms, in ECGI Law Working Paper, 2009, n. 130; Kirkpatrick, The Corporate Governance Lessons from the Financial Crisis, in Financial Market Trends, OECD, 2009, n. 1, pp. 1 ss.; Presti, Mezzi e fini nella nuova regolazione finanziaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2010, I, pp. 209 ss.; Mülbert, Citlau, The Uncertain Role of Banks’ Corporate Governance in Systemic Risk Regulation, in ECGI Law Working Paper, 2011, n. 179; Collazos, The Big Financial Crisis, in Basel III and Beyond, a cura di Cannata, Quagliarello, Londra, 2011, pp. 3 ss.; Montalenti, I controlli societari: recenti riforme, antichi problemi, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, I, pp. 535 ss.; De Poli, Crisi finanziaria globale e fattori comportamentali, in Analisi giur. econ., 2012, p. 51; Berger, Imbierowicz, Rauch, The role of corporate governance in bank failures during the recent financial crisis, in European Banking Center Discussion Paper, 2012, n. 23, pp. 1 ss. Particolarmente interessanti sono in tal senso le analisi compiute dalle maggiori istituzioni europee: Financial Stability Forum, Report of the Financial Stability Forum on Enhancing Market and Institutional Resilience, 7 aprile 2008, in www.financialstabilityboard.org/ publications/ r_0804.pdf; International Monetary Fund, The Recent Financial Turmoil – Initial assessment, Policy Lessons and Implications for Fund Surveillance, 9 aprile 2008, in www.imf.org/external/np/pp/eng/2008/040908.pdf; G20, Declaration summit on financial markets and the world economy, 15 novembre 2008; G30, Financial Reform a Framework for Financial Stability, gennaio, 2009; European Commission, Corporate Governance in Financial Institutions: Lessons to be drawn from the current financial crisis, best practices, 2 giugno 2010, dove si afferma che «Although corporate governance did not directly cause the crisis, the lack of effective control mechanisms contributed significantly to excessive risk-taking on the part of financial institutions»; European Banking Authority, Guidelines on Internal Governance, Londra, settembre 2011, la quale sottolinea come the «lack of oversight [by the management body] was one of the most significant weaknesses identified in the financial crisis». 11 Sul monitoring board, v., tra gli altri, Eisenberg, The Board of Directors and Internal Control, in Cardozo Law Review, 1997, 19, p. 237 ss.; Barachini, La gestione delegata nella società per azioni, Torino, 2008, pp. 60 ss. e Reboa, Il monitoring board, cit., pp. 657 ss. 12 Cfr. Van Der Elst, The Risk Management Duties of the Board of Directors, in Financial Law Institute Working Paper, Gent University, 2013; in proposito, v. altresì Financial Reporting Council, UK Corporate Governance Code, Section C.2, 2012, dove si stabilisce che «The board is responsible for determining the nature and extent of the

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Si tratta d’altronde di un’attenzione figlia di un diritto che è sempre più proiettato al futuro, «non già nel senso classico per cui la regola iuris disciplina i comportamenti futuri dei soggetti giuridici, ma nel senso che essa tende a imporre comportamenti “come se” il futuro fosse già attuale»13. Nell’ambito dei mercati finanziari particolarmente avvertita è l’istanza di individuare la soglia di tollerabilità dell’evento aleatorio, e dunque del grado di rischio sopportabile, al di sopra della quale il legislatore deve giocare il proprio ruolo e sotto la quale è invece pienamente sovrana la libertà privata14. In questa prospettiva, le regole giuridiche sono sempre più spesso fautrici di una “certezza” indotta dalle tecniche di procedimentalizzazione d’impresa, in particolare agendo sul fronte del decisionmaking process così da rendere controllato e controllabile il percorso attraverso il quale si giunge al compimento di una certa decisione e all’esecuzione del successivo atto15. Negli ultimi tempi, in maniera via via crescente, gli interventi disciplinari in ambito di governo societario si sono mossi lungo questo orizzonte, accentuando la politica di regolazione votata ad implementare – ope legis – mezzi a supporto diretto di coloro che determinano il grado di esposizione al rischio della società16.

significant risks it is willing to take in achieving its strategic objectives. The board should maintain sound risk management and internal control systems». 13 Sono le parole di Fortunato, Il controllo dei rischi: informativa del mercato e controllo contabile, in Riv. soc., 2009, p. 1113. 14 Sul filone del diritto del rischio, cfr. Giddens, Risk and Responsibility, in The Modern Law Review, 1999, 62, 1, pp. 1 ss.; Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, 2000; Fioritto, L’amministrazione dell’emergenza tra autorità e garanzie, Bologna, 2009; Savona, Dal pericolo al rischio: l’anticipazione dell’intervento pubblico, in Dir. amm., 2010, pp. 355 ss.; Majone, Strategic Issues in Risk Regulation and Risk Management, in Risk and Regulatory Policy. Improving the Governance of Risk, OECD, 2010, pp. 93 ss.; Beck, Conditio umana. Il rischio nell’età globale, Bari-Roma, 2011; Ragone, Il contributo delle scienze cognitive alla qualità delle regole, in Mercato, concorrenza, regole, 2012, n. 1, pp. 151 ss.; Black, The role of risk in regulatory processes, in The Oxford handbook of regulation, a cura di Baldwin, Cave, Lodge, New York, 2012, pp. 302 ss.; Passalacqua, Diritto del rischio nei mercati finanziari: prevenzione, precauzione ed emergenza, Padova, 2012, passim. 15 V. Amorosino, L’«amministrativizzazione» del diritto delle imprese, in Dir. amm., 2011, p. 620; Merusi, La crisi ed il diritto amministrativo, in Il diritto dell’economia, 2012, pp. 483 ss., partic. p. 488; Ammannati, Mercati finanziari, società di rating, autorità ed organismi di certificazione, in Amministrazione in cammino, 2012, par. 1. 16 Sulle tecniche di regolazione adottate in reazione alla crisi economico-finanziaria, cfr., per tutti, il saggio di Dalla Pellegrina, Masciandaro, Good Bye Light Touch? Macroeconomic Resilience, Banking Regulation and Institution, in Journal of Risk

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Soprattutto il sistema dei controlli interni, inteso come insieme di regole, procedure, processi ed uffici aziendali posti a staff dei centri decisionali, mira ad incarnare tale ruolo d’ausilio, fungendo da apparato organizzativo chiamato a migliorare, a vario modo, la capacità conoscitiva del board e perciò, da ultimo, la consapevole assunzione e gestione dei rischi imputati alla società17. In quest’ottica, pare assolutamente condivisibile il parere di chi ritiene che l’esercizio proattivo della primaria funzione di monitoring da parte del consiglio di amministrazione sia ampiamente agevolato dalla presenza, a monte, di un’espressa e formalizzata politica di valutazione e gestione del rischio18, senza la quale risulterebbe al contrario difficile immaginare che l’organo amministrativo delegante possa davvero essere in grado di relazionarsi dialetticamente al top management. Da un punto di vista sistematico, occorre rimarcare che l’obbligo per gli amministratori delle società operanti nel settore lato sensu finanziario di allestire un sistema dei controlli interni trova il proprio fondamento nella natura dell’attività d’impresa: questa difatti soggiace a rischi del tutto particolari19, aventi tratti di complessità tecnica maggiormente accentuati rispetto a quelli fronteggiati di norma dalle attività industriali e la cui manifestazione è idonea a colpire non soltanto i soggetti che abbiano apportato il proprio capitale (“di rischio”, appunto), ma una ben più vasta cerchia i cui contorni tendono a sfumare allorquando si considerino gli effetti sistemici connessi alle forme più acute di manifestazione di alcuni fenomeni di rischio20. Tali caratteristiche fanno sì che gli amministratori, nel farsi carico con le proprie determinazioni del grado di esposizione al rischio, debbano essere coadiuvati da una struttura organizzativa dotata di risorse (ossia, soprattutto quelle costitutive il sistema dei controlli interni) poste a

Governance and Control, vol. 3, n. 1, 2013, pp. 18 ss. 17 Sul punto, v. Scotti Camuzzi, Le nuove disposizioni di vigilanza sul sistema dei controlli interni nelle banche. Un commento introduttivo, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, I, pp. 147 ss. 18 In proposito, v. Reboa, Il monitoring board, cit., p. 666. 19 Sulla rilevanza giuridica della natura dell’attività e dei rischi a questa associati sia consentito rinviare a Minto, Assetti organizzativi adeguati e governo del rischio nell’impresa bancaria: suggestioni sul sistema dei controlli interni, in Giur. comm., 2014, I, pp. 1165 ss. 20 Aebi, Sabato, Schmid, Risk management, corporate governance and bank performance in the financial crisis, in Journal of Banking and Finance, 2012, 36, pp. 3213 ss.

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presidio delle diverse aree nelle quali, a seconda del caso concreto, il rischio stesso si declini e si possa manifestare21. Pertanto, il sistema dei controlli interni è prima di tutto l’armamentario a diretto servizio dell’organo amministrativo per consentirgli di svolgere i propri lavori avendo le informazioni necessarie ad assumere le prudenti e avvedute politiche di risk appetite con cognizione di causa e a verificare, successivamente, se gli atti esecutivi svolti dalle figure delegate per dare materiale applicazione ai disegni strategici garantiscano il livello di tolleranza al rischio prescelto22. A fondamento di tutto ciò si pone indubbiamente il generale dovere di istituire un assetto organizzativo adeguato alla natura ed alle dimensioni dell’impresa (valevole per l’appunto per tutte le società: cfr. art. 2381 c.c.), il quale mira a predisporre i mezzi necessari agli amministratori per “fare bene il proprio mestiere” ed è quindi funzionale a consentire che essi adempiano alle loro obbligazioni diligentemente ed in ossequio ai canoni di corretta amministrazione23. Sotto questa luce, però, è di tutta evidenza che la natura dell’incarico amministrativo nelle socie-

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Cfr., con sguardo lungimirante e ragionando sulle soluzioni precorritrici della disciplina del mercato finanziario, Magnani, Commento sub art. 149, in La disciplina delle società quotate, a cura di Marchetti e. Bianchi Milano, 1999, p. 1710. 22 Con riferimento alla possibilità per il consiglio di amministrazione di monitorare il rispetto dei piani strategici ed ai mezzi utili a questo scopo, mette conto osservare che la disciplina bancaria sul sistema dei controlli interni impone di formalizzare il Risk Appetite Framework, il quale costituisce il quadro di riferimento per la determinazione della propensione e degli obiettivi di rischio che la banca si prefigge di raggiungere. Esso deve fornire il preciso quadro dei compiti degli organi e di tutte le funzioni aziendali coinvolte nella definizione del processo di gestione del rischio, così da identificare in modo chiaro il ruolo che ciascuno è chiamato a ricoprire (cfr. Tit. V, Cap. 7, Sez. I, Par. 3, Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche, cit.); per maggiori approfondimenti sul Risk Appetite Framework, cfr. Scotti Camuzzi, Le nuove disposizioni di vigilanza sul sistema dei controlli interni, cit., pp. 142 ss. e Minto, La speciale natura dell’incarico amministrativo in banca tra limitazioni alla discrezionalità organizzativa e vincoli sull’agire in modo informato, in Giur. comm., 2015, II, par. 5, in corso di pubblicazione. 23 In arg., tra gli altri, Rabitti, Rischio organizzativo e responsabilità degli amministratori, Milano, 2004, p. 80; Buonocore, Adeguatezza, precauzione, gestione, responsabilità: chiose sull’art. 2381, commi terzo e quinto, del codice civile, in Giur. comm., 2006, I, p. 16; Irrera, Profili di corporate governance della società per azioni tra responsabilità, controlli e bilancio, Milano, 2009, p. 22; De Mari, Autorità e libertà nella disciplina dell’intermediazione mobiliare, Roma, 2010, p. 151; Meruzzi, L’informativa endosocietaria nella società per azioni, in Contr. e impr., 2010, p. 763; Montagnani, Disciplina della riduzione del capitale: impresa o legislatore in crisi?, in Giur. comm., 2013, I, p. 762.

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tà di assicurazione rifletta la specialità della loro attività imprenditoriale, plasmando di conseguenza il metro della diligenza richiesta – naturalmente poi graduata a seconda del tipo di ruolo ricoperto nonché delle specifiche competenze possedute24 – così come, del pari, i contenuti in concreto dei principi di corretta amministrazione. Il che implica, da un lato, una declinazione peculiare della condotta compendiata nella formula generale espressa dall’art. 2392, co. 1, c.c. e, dall’altro, specularmente, l’esigenza di strumenti organizzativi funzionali alle specificità delle competenze richieste agli amministratori di un’impresa di assicurazione25. Di tali istanze si fa carico la regolamentazione di settore, che precisa essa stessa in termini sempre più precisi quanto richiesto per un’amministrazione corretta di una compagnia assicurativa, finendo in questo modo per assumere scelte di ordine organizzativo che il diritto comune rimette invece alla discrezionalità e responsabilità degli amministratori26.

24 Si ricordi tuttavia che gli ordinamenti dei settori della finanza sono intervenuti a richiedere il possesso di specifici requisiti di professionalità, i quali, entro naturalmente certi limiti, potrebbero forse rendere meno rilevanti le specifiche competenze quali parametro di graduazione della diligenza. In generale, sui requisiti di professionalità degli esponenti aziendali delle imprese di assicurazione, alla luce delle nuove regole in proposito introdotte dal d.m. n. 220/2011, cfr., da ultimo, Corvese, Le nuove regole sull’acquisizione di partecipazioni e sui requisiti degli esponenti aziendali e dei titolari di partecipazioni delle imprese di assicurazione e di riassicurazione, in Assicurazioni, 2012, pp. 205 ss., part. pp. 226 s. D’altro canto, quello della adeguatezza professionale dei membri dell’organo amministrativo sta divenendo uno dei temi maggiormente attuali: in ambito assicurativo, v. l’art. 42 della Direttiva “Solvency II”; per il settore bancario, cfr. considerando 59 e art. 91 della Direttiva “CRD IV”, dove si specifica tra l’altro, al par. 7, che «The management body shall possess adequate collective knowledge, skills and experience to be able to understand the institution’s activities, including the main risks». 25 Cfr., ex multis, D’Angelo, Controlli interni, compliance e gestione del rischio: quis custodiet ipsos custodes?, in La regolazione assicurativa dal codice ai provvedimenti di attuazione, a cura di Marano e Siri, Torino, 2009, p. 346, nt. 2, il quale sottolinea come «la crescente complessità, organizzativa ed operativa, delle imprese bancarie ed assicurative, ha spostato sul piano dei controlli il cuore delle responsabilità degli organi sociali, chiamati con sempre maggiore insistenza ad assicurare il corretto funzionamento del sistema dei controlli interni». 26 Cfr. Montalenti, Il sistema dei controlli interni nel settore assicurativo, in Assicurazioni, 2013, p. 209, il quale sottolinea che pure «disposizioni apparentemente descrittive di strutture e processi trasposte in norme […] assumono connotati di doverosità cogente che specificano e concretizzano il paradigma generale della diligenza professionale degli amministratori».

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3. Segue. Formalizzazione delle politiche di rischio. Il legislatore di settore ha quindi ritenuto la disciplina riveniente dal diritto comune inidonea a tutelare i particolari interessi in gioco e di conseguenza è legittimamente intervenuto a precisare previsioni di carattere generale27, decidendo di entrare nel merito del dovere organizzativo incombente sugli amministratori così da predeterminare il contenuto minimo dello strumentario a loro disposizione: nella prospettiva degli interessi pubblici sottesi all’impresa assicurativa, pertanto, l’ordinamento istituzionalizza l’assetto dei controlli interni per la sana e prudente gestione dei rischi di assunzione, di riservazione, di mercato, di credito, di liquidità, e così via, tipici di questa attività28. In tale quadro, la novella regolamentare dell’Ivass rende conto della centralità che sta acquisendo il tema del governo del rischio e si pone sulla scia di una tendenza regolamentare che si dimostra attenta a mantenere separate le regole di organizzazione corporativa (corporate governance) da quelle disciplinanti l’organizzazione dei processi decisionali interni (internal governance29), ossia l’insieme delle regole organizzative rimesso alle cure degli amministratori e che ricomprende

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Sul punto, con riferimento più in generale al tema della governance della banche ed alle misure derogatorie rispetto al diritto societario comune v. Costi, Governo delle banche e potere normativo della Banca d’Italia, in Banche, governo societario e funzioni di vigilanza, a cura di Costi, Vella, Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza Legale della Banca d’Italia, n. 62, Roma, 2008, pp. 7 ss., part. pp. 11 ss. 28 Per una “tassonomia” dei rischi derivanti dall’esercizio dell’impresa assicurativa, cfr., di recente, Selleri, L’impatto di Solvency II sull’organizzazione dell’impresa di assicurazione: verso l’organizzazione per processi?, in Dir. econ. ass., 2010, p. 607. 29 «Internal governance aims at ensuring that an institution’s management body (both the supervisory and management function) is explicitly and transparently responsible for its business strategy, organisation and internal control. Internal governance is the responsibility of the management body (both the supervisory and management function). It is concerned mainly with setting the institution is organised, how responsibilities and authority are allocated, how reporting lines are set up and what information they convey, and how internal control (including risk control, compliance, and internal audit) is organised» (così, Committee of European Banking Supervisors, Guidelines on the Application of the Supervisory Review Process under Pillar 2, 2006). In proposito, si tenga altresì presente che l’European Banking Authority tiene concettualmente distinte «corporate governance» e «internal governance», fornendo due autonome definizioni: v. Executive summary, Guidelines on Internal Governance, Londra, 2011.

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quanto necessario ai diversi organi sociali per svolgere efficacemente il proprio ruolo30. Sulla traccia di questa distinzione, il sistema dei controlli interni appartiene di certo all’assetto organizzativo allestito dagli stessi amministratori, frutto del dovere di predisporre una struttura adeguata alla natura ed alle dimensioni dell’impresa, e dunque strumentale innanzitutto al corretto agere amministrativo (v. art. 2381 c.c.). In merito, il Regolamento assicurativo sottolinea tale profilo e stabilisce in apertura dell’art. 5 che «l’organo amministrativo ha la responsabilità ultima dei sistemi di controllo interno e di gestione dei rischi, dei quali assicura la costante completezza, funzionalità ed efficacia». Coerentemente, in virtù della novella, l’Autorità di vigilanza è intervenuta a indicare nel dettaglio quello che deve fare «l’organo amministrativo nell’ambito dei compiti di indirizzo strategico ed organizzativo di cui all’art. 2381 del codice civile», fissando un preciso e puntuale elenco di compiti che, rispetto alle nove enucleate nella originaria versione del provvedimento in esame, divengono ora diciassette, con molte innovative misure dedicate nello specifico al governo del rischio. Su quest’ultimo profilo, in effetti, in precedenza si prescriveva sinteticamente che l’organo definisse e, almeno una volta l’anno, valutasse «ai fini dell’eventuale revisione le strategie e le politiche di assunzione, valutazione e gestione dei rischi maggiormente significativi, in coerenza con il livello di adeguatezza patrimoniale dell’impresa» (v. previgente art. 5, lett. e)). Con l’aggiornamento del 2014, il contenuto di questa stessa incombenza è ora divenuta assai più dettagliata, con un notevole incremento del grado di procedimentalizzazione di tutte le fasi decisionali coinvolte. Ne risulta che l’organo amministrativo è chiamato ad approvare «la politica di valutazione attuale e prospettica dei rischi, i criteri e le metodologie seguite per le valutazioni», a determinare «la propensione al rischio» e a fissare di conseguenza «i livelli di tolleranza», da rivedersi almeno una volta l’anno (cfr. novellato art. 5, lett. e) ed f)). Successivamente, esso deve approvare «la politica di gestione del rischio e le strategie anche in un’ottica di medio-lungo periodo» (lett. g)), avvalendosi all’uopo dell’ausilio della funzione di risk management31.

30 Sull’attualità di questi profili v., da ultimo, il corposo saggio di Stulz, Governance, Risk Management, and Risk-Taking in Banks, in ECGI Law Working Paper, 2014, n. 427. 31 In proposito, v. altresì l’allegato A al Provvedimento Ivass n. 17 del 15 aprile 2014,

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L’enforcement dell’attività programmatica e di pianificazione in capo all’organo amministrativo appena vista è strettamente dipendente dalla messa a punto del «sistema di gestione dei rischi», il quale costituisce l’apparato organizzativo necessario per «individuare, misurare, valutare, monitorare, gestire e segnalare su base continuativa i rischi attuali e prospettici» (v. art. 18). Al pari della normativa bancaria, dove questo stesso insieme di regole, procedure e strutture interne prende però il nome di «processo di gestione dei rischi», si impone dunque di formalizzare quello che può propriamente dirsi l’ordine di funzionamento del sistema dei controlli interni, dato che vale a regolare l’organizzazione dei lavori delle varie figure coinvolte e quindi ne consente il corretto operare. Di conseguenza, il sistema di gestione dei rischi nelle imprese di assicurazione rappresenta uno degli elementi fondamentali, se non proprio l’architrave, del sistema dei controlli interni, il quale, nel perseguire il fine ultimo della gestione improntata ai canoni di legalità e di corretta amministrazione, passa inevitabilmente per il prudente governo dei rischi per come disciplinato nel «sistema di gestione dei rischi». Ciò peraltro conferma l’affermarsi di un approccio c.d. “olistico” al rischio, che sia cioè capace non soltanto di tenere in considerazione l’entità di ciascun singolo rischio al quale sia sottoposto il business, ma altresì di apprezzare le potenziali interrelazioni tra rischi aventi diversa natura32. Tuttavia, si tenga anche presente che il sistema di gestione dei rischi sembra un elemento organizzativo concepito nella circoscritta prospettiva della «salvaguardia del patrimonio»33, mentre il sistema dei controlli interni nel suo complesso, oltre al presidio del patrimonio – atteso che il sistema di gestione dei rischi ne è parte integrante e sostanziale –, si pone l’obiettivo più ampio di migliorare il generale governo dell’impresa, garantendo l’efficacia della gestione e l’efficienza del controllo. Un ulteriore aspetto meritevole di considerazione è l’obbligo di formalizzare le modalità di raccordo – come si esprime significativamente lo stesso Regolamento in un altro passaggio – tra «tutti i centri titolari di funzioni di controllo interno», producendo un documento dal quale risultino pure «i compiti e le responsabilità degli organi sociali, dei comi-

dove viene offerta una “traccia” (ovverosia il «contenuto minimale») da seguire per la definizione della politica di gestione del rischio. 32 Sul punto, cfr. le lucide considerazioni di Hopt, Better Governance of Financial Institutions, in ECGI Law Working Paper, 2013, n. 207, part. p. 45. 33 Cfr. anche quanto prescritto con riferimento al sistema di gestione dei rischi dall’art. 45 della Direttiva “Solvency II”.

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tati consiliari e delle funzioni di risk management, di compliance e di revisione interna», nonché le modalità di circolazione dei flussi informativi tra queste varie figure coinvolte. Si tratta di una prescrizione che completa quanto già stabilito dalla previgente versione del provvedimento, dove si stabiliva – e continua tutt’ora a stabilirsi, sempre all’art. 17 – che «l’organo amministrativo definisce e formalizza i collegamenti tra le varie funzioni a cui sono attribuiti compiti di controllo»34. In aggiunta, però, le ultime modifiche impongono all’organo amministrativo di individuare altresì le «aree di potenziale sovrapposizione» delle molteplici attività di controllo espletate e di stabilire le risolutive «modalità di coordinamento e di collaborazione» tra tutti coloro che a vario titolo siano coinvolti (cfr. art. 5, lett. j)). Nella prospettiva del coordinamento tra le diverse funzioni va senz’altro il dovere dell’organo amministrativo di promuovere e diffondere la cultura del controllo all’interno dell’azienda, il quale risponde all’obiettivo di sensibilizzare l’intero personale sull’importanza strategica di un efficiente sistema dei controlli (cfr. art. 10). L’opera di coinvolgimento generalizzato è assai rilevante, soprattutto ove si consideri che l’architettura dei controlli interni si configura come una «piramide rovesciata»35, poggiante cioè sui c.d. controlli di linea incardinati nelle unità operative: questi ultimi, in effetti, sono gli unici ad avere natura “diretta”, dato che i lavori dei livelli successivi sono concepiti per attivarsi sulla base delle risultanze dei livelli che li precedono, con la (paradossale) conseguenza che il più delle volte i controlli di terzo livello verificano gli esiti dei controlli di secondo livello e questi, a loro volta, si fondano sull’operato delle misure di primo livello, le quali divengono dunque uno tra gli elementi critici di tenuta dell’intero assetto. Al fine di incrementare l’efficacia dei segnali di alert lanciati dalle “sentinelle” di primo livello, occorre educare al controllo anche chi si occupi di mansioni apparentemente del tutto estranee ad esso, quasi a creare una sorta di “sentimento” di collaborazione verso la correttezza della gestione imprenditoriale che coinvolga ciascuno come parte essen-

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Sull’importanza del coordinamento le diverse figure di controllo interno presenti nelle imprese di assicurazione, v. Montalenti, Il sistema, cit., p. 208. 35 Questa la felice ed espressiva immagine di Montalenti Il sistema, cit., p. 202, al quale si rinvia anche in merito alle riflessioni sul netto prevalere di fatto dei controlli di tipo indiretto su quelli di natura diretta (ivi, pp. 201 s.).

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ziale ed attiva di un sistema integrato ed integrante, quale dovrebbe in effetti essere il sistema dei controlli interni. Al riguardo, il provvedimento prevede l’elaborazione da parte dell’organo amministrativo di un codice etico che formalizzi i valori della «correttezza operativa» e che assurga a “decalogo” nel quale siano contenute le regole di comportamento da tenersi in diverse circostanze, soprattutto quelle di emergenza. Nel favorire la cultura del controllo, il codice etico svolge dunque pure un ruolo di potenziale attenuazione del rischio operativo così come di quello reputazionale, soprattutto allorquando si colga, con esso, l’opportunità di sviluppare e diffondere dei veri e propri paradigmi o protocolli comportamentali36. Grazie al ricorso a schemi di condotta predeterminati, infatti, ciascuno, a seconda dela propria posizione e dell’evento che si presenti, è in grado di agire con modalità che razionalizzino e facilitino le interazioni e le sinergie tra le diverse figure chiamate ad attivarsi37. A titolo di esempio, si pensi al ruolo essenziale che la cultura del controllo si presta a ricoprire nel concorrere alla corretta ed efficace attuazione del sistema di gestione dei rischi: l’utilizzo di linguaggi comunicativi ed operativi omogenei tra tutti i livelli dell’impresa assicurativa comporta indubbi benefici in una logica integrata di rilevazione e valutazione del rischio.

4. Una considerazione conclusiva, ragionando sui flussi informativi. Il recente intervento dell’Ivass testimonia dunque la decisa tendenza alla valorizzazione del ruolo dell’organo amministrativo, con un insieme di regole che ne fanno il vero regista del sistema dei controlli interni, sistema ineludibile giacché – come più volte ricordato – posto al servizio

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Sul valore strategico dei codici etici cfr., ex multis, Covaleski, Dirsmith, Rittenberg, Jurisdictional disputes over professional work: the institutionalization of the global knowledge expert, in Accounting, Organizations and Society, 2003, 28, 4, pp. 323 ss.; Ramalingam, Rauh, The Firm as a Socialization Device, in Management Science, 2010, 56, 12, pp. 2191 ss.; Madrigal, Requena, Corporate governance and family business performance, in Journal of Business Research, 2011, 64, 3, pp. 280 ss. 37 Cfr. European Banking Authority, Guidelines on Internal Governance, Londra, settembre 2011, Paragraph B.3, la quale esplicitamente sottolinea che «implementing appropriate standard (e.g. a code of conduct) for professional and responsible behaviour throughout an institution should help reduce risk to which is exposed. In particular, operational and reputational risk will be redeuced if these standards are given high priority and implemented soundly».

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dell’organo amministrativo medesimo per governare i rischi che l’impresa di assicurazione assume nello svolgimento della sua attività. Nelle scelte regolamentari si scorge dunque il chiaro intento di risolvere e superare le anomalie che hanno afflitto i rapporti tra organo amministrativo ed alta direzione, soprattutto in punto di quantità e qualità dell’informazione necessaria a valutare l’operato delle figure esecutive. L’esistenza di un apparato organizzativo sempre più organico e strutturato, formalizzato secondo gli ordini di funzionamento impressi dal consiglio di amministrazione, ovviamente produce rilevanti riflessi sui canoni di condotta degli amministratori, in particolar modo con riferimento al loro dovere di agire in modo informato38. In proposito, è sempre più netta l’impressione che nelle imprese di assicurazione l’agire informato dell’organo amministrativo non può essere limitato alle modalità prescritte in termini generali dall’art. 2381 c.c.: in aggiunta alle relazioni che almeno due volte l’anno gli esecutivi devono rendere in consiglio all’organo delegante, sembrano infatti doversi ammettere pure ulteriori fonti, occasioni e tecniche di acquisizione dei dati informativi necessari39. In tal senso, lo stesso Regolamento Ivass dispone che l’organo «richiede di essere periodicamente informato sulla efficacia e sull’adeguatezza del sistema di controllo interno e di gestione dei rischi e che gli siano riferite con tempestività le criticità più significative, siano esse individuate dall’alta direzione, dalla funzione di revisione interna, dalle funzioni di risk management e di compliance, dal personale, impartendo con tempestività le direttive per l’adozione di misure correttive, di cui successivamente valuta l’efficacia» (cfr. art. 5, lett. o)). D’altronde, in merito esistono importanti indicazioni provenienti dalle stesse regole europee, le quali paiono anzi insistere più di quanto non facciano le menzionate regole sul dovere dell’organo amministrativo di informarsi: l’autorità di vigilanza europea, infatti, impone che l’organo in questione «abbia un’idonea interazione con tutti i comitati che istituisce nonché con il livello più elevato dell’amministrazione e con altre funzioni fondamentali dell’impresa, chiedendo loro informazioni in maniera proattiva e, se del caso, mettendo in discussione le

38 Cfr. con riferimento alla contigua materia bancaria, da ultimo, Barbagallo, Doveri e responsabilità degli amministratori delle banche: il punto di vista della Banca d’Italia, intervento al Convegno ABI L’impresa bancaria: i doveri e le responsabilità degli amministratori, Roma, 26 marzo 2014, in www.bancaditalia.it. 39 Sul punto, cfr. Vicari, Il sistema, cit., p. 35 e, anche se in maniera più sfumata, Reboa, Il monitoring board, cit., p. 670.

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informazioni ricevute»40. D’altro canto, ulteriori elementi conferenti in tal senso provengono pure da altri recenti ed importanti interventi normativi sempre afferenti al mondo della finanza in senso lato. In particolare, nella direttiva 2014/65/UE del 15 maggio 2014 (meglio nota con la sigla “MiFID II”) non può mancarsi di cogliere il forte segnale lanciato e la netta presa di posizione sul tema dal disposto disciplinante, nell’ambito delle misure di governance41, i doveri dell’organo di amministrazione, lì dove si scolpisce che «Members of the management body shall have adequate access to information and documents which are needed to oversee and monitor management decision-making» (cfr. art. 9, par. 3). Al di là del peculiare e rilevante potere-dovere dei componenti non esecutivi di interrogare la struttura organizzativa se ed in quanto necessario per fare consapevolmente la propria parte in consiglio, la corretta circolazione delle informazioni si fonda innanzitutto sull’inverso flusso bottom-up, vero indice di efficienza del sistema dei controlli interni. Un assetto che sia allestito in modo coerente e adeguato al tipo di operatività esercitata ed ai rischi che ne derivano, infatti, si attiverà esso stesso, se del caso, per trasmettere le informazioni che – per quantità ma soprattutto per qualità – servono ai membri dell’organo esercente la funzione di supervisione strategica42, senza che siano questi a doversi invece mobilitare in un secondo momento – per forza di cose, tendenzialmente già in ritardo – per attingere alle informazioni necessarie a compiere le loro mansioni in modo consapevole. Anche di quest’ultima considerazione si può trovare conferma nel contesto dell’aggiornamento dell’Ivass, in particolare lì dove esso è intervenuto ad incrementare il novero di obiettivi perseguiti dal sistema dei

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Cfr. EIOPA, Guidelines on System of Governance, 2013, guideline 3. Per un primo commento, ancora però con riferimento alla proposta di revisione della Commissione europea, v. Pezzuto, Il processo di revisione della normativa MiFID, in Mondo banc., 2014, pp. 32 ss., part. p. 35; Clausen, Sørensen, Reforming the Regulation of Trading Venues in the EU under the Proposed MiFID II – Levelling the Playing Field and Overcoming Market Fragmentation?, in European Company and Financial Law Review, 2012, 9, 3, pp. 275 ss.; Vandenbroucke, (Non-)complexity through the eyes of MiFID, in European Journal of Law and Economics, 2014, 37, 3, pp. 477 ss. 42 D’altro canto, come noto, il Secondo Pilastro della Direttiva Solvency II prevede che l’impresa di assicurazione determini e implementi strategie e processi efficaci per valutare i rischi ai quali essa è esposta e per valutare e mantenere un capitale di solvibilità di entità adeguata per farvi fronte, nonché idonee procedure di reporting: in proposito, v. Selleri, L’impatto I, cit., p. 607. 41

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controlli interni aggiungendo l’ulteriore e significativo fine di garantire «la tempestività del reporting delle informazioni aziendali» (cfr. art. 4, lett. b-bis)), quasi a voler così (riba)dire che le funzioni aziendali di controllo, gerarchicamente posizionate a riporto diretto dell’organo amministrativo, sono collocate proprio lì nell’organigramma per stare pronte a segnalare qualsiasi situazione di cui debba essere messo a conoscenza il proprio interlocutore privilegiato43.

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43 L’attenzione che l’Autorità di vigilanza sta ponendo sui flussi informativi è confermata anche dall’introduzione di un nuovo obbligo di istituire un «Sistema di gestione dei dati» (cfr. l’art. 12-bis del Regolamento), per avere a disposizione informazioni complete e aggiornate sugli elementi che possono incidere sul profilo di rischio dell’impresa e sulla sua situazione di solvibilità. Tale sistema consentirà inoltre la ricostruzione dell’attività svolta da ciascuno e dunque «l’individuazione dei relativi responsabili».

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Interessi e commissioni nei rapporti bancari Il 25 giugno 2014, presso la Facoltà di Economia della Sapienza, Università di Roma, si è tenuto un incontro di studio, organizzato dalla rivista, dal Cedib e dal Master in diritto commerciale internazionale, sul tema “Interessi e commissioni nei rapporti bancari”. All’incontro, presieduto dal prof. Vittorio Santoro, dell’Università di Siena, sono intervenuti il prof. Sido Bonfatti, dell’Università di Modena e Reggio Emilia, il prof. Ernesto Capobianco, dell’Università del Salento, l’avv. Vincenzo Caridi, l’avv. Giuseppe Carriero, della Banca d’Italia, il prof. Fabrizio Maimeri, dell’Università G. Marconi di Roma, il prof. Enrico Minervini, della II Università di Napoli, il prof. Alessandro Nigro, già dell’Università La Sapienza di Roma, il prof. Daniele Vattermoli, dell’Università La Sapienza di Roma. Il prof. Aldo A. Dolmetta, dell’Università Cattolica di Milano, ha trasmesso una relazione scritta. Ne pubblichiamo gli atti.

Introduzione Alessandro Nigro Questo è il quinto incontro di studio promosso dal Diritto della banca e del mercato finanziario: i primi due si sono svolti a Firenze; e questo è il terzo organizzato qui a Roma. Personalmente sono molto soddisfatto dell’andamento di questa iniziativa, che ha assunto quella serialità, quella cadenza periodica che ci si prefiggeva, ma che sembrava un obiettivo molto difficile da raggiungere. Preliminarmente debbo, come al solito, ringraziare – anche a nome della Rivista e del Centro Studi – tutti coloro che hanno reso possibile, anche quest’anno, realizzare l’iniziativa. Innanzi tutto, la Casa Editrice Pacini, il cui apporto è stato fondamentale; poi, il Dipartimento, che ci ospita in questa magnifica sala; ancora, gli amici che hanno aiuta-

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to nell’organizzazione. Ringraziamenti vanno ovviamente ai colleghi e amici che hanno accettato di intervenire come relatori, a cominciare dal prof. Santoro, divenuto ormai componente fisso della “squadra”. Ringraziamenti, infine, debbono andare a chi è presente all’incontro, che, data la qualità dei relatori, certamente non deluderà le aspettative. Com’è ormai d’uso in questi incontri, io farò una brevissima introduzione e non una relazione nel vero senso della parola. Del resto, oggetto del nostro incontro di oggi è un tema che ritengo non necessiti di particolare illustrazione. Ricordo che l’interesse è centrale nella problematica delle operazioni creditizie, rappresentando il corrispettivo che viene dato dall’uno o dall’altro contraente a fronte dell’uso o della disponibilità del denaro. È centrale ed è materia che ha sempre prospettato molti nodi critici. Mi basterà rammentare che nel regime della legge bancaria del ‘36-’38 numerose erano le questioni dibattute in materia di interessi: quella del significato e della portata dell’articolo 32 lett. b) di quella legge, il quale consentiva alle autorità creditizie di intervenire sui limiti dei tassi attivi e passivi; quella della validità della clausola “interessi uso piazza”, clausola diffusissima, anzi potrei dire utilizzata in maniera universale nel mondo bancario, che sostanzialmente rimetteva alla discrezionalità della banca medesima la individuazione appunto del tasso di interesse da applicare momento per momento; quelle relative agli interessi ultralegali, anch’essi tipici nella prassi bancaria, almeno nel caso degli interessi attivi; ancora, le questioni relative all’anatocismo, che già in tempi passati sollecitava particolare attenzione. Ricordo, ancora, che l’emersione della problematica della “trasparenza” nei rapporti bancari – per “trasparenza” dovendosi intendere sia una informazione piena e adeguata e sia un riequilibrio delle posizioni delle parti – si ebbe proprio con riferimento al tema degli interessi; e mi fa molto piacere rammentare qui che il primo intervento normativo nel campo della trasparenza intesa anche come riequilibrio, fu rappresentato dall’articolo 8 della legge sul Mezzogiorno del 1986, disposizione dovuta all’illustre genitore del qui presente professor Enrico Minervini, il professor Gustavo Minervini, maestro di noi tutti. Questo art. 8 stabiliva infatti – cito testualmente – «Le aziende e gli istituti di credito…debbono praticare, in tutte le proprie sedi principali e secondarie, filiali, agenzie e dipendenze, per ciascun tipo di operazione bancaria, principale o accessoria, tassi e condizioni uniformi, assicurando integrale parità di trattamento nei confronti dei clienti della stessa azienda o istituto, a parità di condizioni soggettive dei clienti, ma esclusa, in ogni caso, la rilevanza della loro località di insediamento o della loro sfera di operatività territoriale». La norma, che muoveva dall’esigen-

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za di porre rimedio alla disuguaglianza che si era venuta a determinare fra i trattamenti praticati ai clienti delle banche rispettivamente nel Nord e nel Sud d’Italia, è rimasta, come è noto, sostanzialmente inapplicata, per la difficoltà, fra l’altro, di darne una plausibile traduzione operativa. Ha avuto, però, un’importanza fondamentale, avendo rappresentato la prima spinta sul piano normativo per un intervento in termini di riequilibrio della posizione dei clienti delle banche, operato proprio in relazione a problemi che si ponevano in riferimento al tasso degli interessi. Mi piace ricordare, incidentalmente, che l’articolo mio di apertura del primo fascicolo della rivista che ha organizzato quest’incontro, intitolato “Operazioni bancarie e parità di trattamento”, riguardava appunto l’articolo 8 della legge sul Mezzogiorno. Con l’evoluzione successiva della disciplina delle condizioni dei contratti bancari – le leggi sulla trasparenza, prima, e il testo unico bancario, poi – molte cose sono cambiate e alcuni nodi critici sono stati eliminati, per esempio quello relativo alla clausola “interessi uso piazza”, ormai preclusa da un’apposita disposizione della legge sulla trasparenza e poi del testo unico bancario. Altri nodi critici, invece, sono rimasti e altri ancora se ne sono aggiunti. È rimasto il nodo dell’anatocismo c.d. “bancario”, quel meccanismo di produzione di interessi su interessi tipico della prassi appunto bancaria, che ha dato vita ad una sorta di “storia infinita” nella quale tutti quelli che potevano intervenire sono intervenuti: è intervenuto, più volte, il legislatore; è intervenuta la Cassazione con pronunzie, nel tempo, di vario segno; è intervenuta la Corte costituzionale; è intervenuta l’autorità creditizia. Una “storia infinita” che avrebbe dovuto trovare la sua soluzione finale, in senso “gordiano”, con il nuovo testo del secondo comma dell’art. 120 t.u.b. come modificato dall’art. 1, co. 629, della l. n. 147 del 2013, per il quale «Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale». L’intenzione del legislatore è stata chiaramente quella di eliminare il meccanismo stesso della produzione di interessi su interessi (la disposizione è stata del resto il frutto di un emendamento intitolato “Abolizione

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dell’anatocismo bancario”); ma, personalmente, non sono ancora riuscito a capire come potrà funzionare il congegno descritto nella lett. b). Sono ansiosissimo di sentire quello che ci dirà sul punto il prof. Maimeri. Vi sono, poi, nodi nuovi, sopravvenuti rispetto al passato. Mi riferisco, anzi tutto, al tema degli interessi usurari, che ha visto anch’esso interventi di tutti i possibili protagonisti: il legislatore, la Corte costituzionale, la Cassazione; e in ordine al quale la situazione continua ad essere confusissima da tutti i punti di vista. La disciplina attuale è imperniata sui cosiddetti tassi soglia: gli interessi che superano i tassi soglia sono usurari, quelli che non li superano non sono usurari. Il meccanismo è semplice nella sua enunciazione; il problema è che cosa si include nel tasso soglia, cioè quali elementi vengono chiamati a contribuire all’individuazione del tasso soglia; ed è poi e soprattutto l’ambito di applicazione di queste regole, perché si è arrivati a ritenere – la giurisprudenza qui ha adottato un atteggiamento a dir poco ondivago – che esse si applichino anche in relazione a periodi anteriori alla loro stessa introduzione nel nostro ordinamento. Con tutti i problemi relativi: perché la retroattività delle leggi non è un qualcosa che si possa sempre accettare e perché con riferimento a periodi in cui non esistevano i tassi soglia non si saprebbe quali parametri assumere. Nodi critici possono prospettare, poi, gli interessi calati all’interno delle procedure concorsuali. Qui capita di assistere talvolta a delle cose veramente curiose. Come voi sapete, esiste una normativa, di fonte comunitaria, sui ritardi nei pagamenti delle transazioni commerciali: la legge, il d.lgs. n. 231 del 2002, in particolare prevede un meccanismo automatico di addebito degli interessi di mora solo che si verifichino certe condizioni di carattere oggettivo. Qualche sentenza è arrivata ad affermare che gli interessi di mora che vengano a maturazione a carico del debitore prima del suo fallimento, sulla base di questa normativa, non potrebbero essere ammessi al passivo del fallimento: e ciò per la ragione che, secondo l’espressa previsione del co. 2 dell’art. 1 del decreto, la disciplina in questione non trova applicazione ai «debiti oggetto di procedure concorsuali». Si tratta di una linea basata su di un colossale fraintendimento: perché la norma intende riferirsi alla maturazione d’interessi da ritardo nell’ambito della procedura concorsuale, nel senso di escludere che il pagamento in ritardo dei crediti per effetto dei tempi tecnici delle procedure concorsuali possa fondare una pretesa agli interessi automatici di cui alla legge in questione. Anche il tema delle commissioni – è l’altro elemento preso in considerazione nel titolo dell’incontro – presenta dei profili di criticità. E li presenta, tra l’altro, proprio in connessione con il tema degli interessi: in qualche momento, infatti, il meccanismo della commissione, che do-

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vrebbe costituire la remunerazione di una particolare prestazione della banca, in realtà è servito a camuffare interessi; e quindi da questo punto di vista si pone anche il problema d’individuare che cosa sia da ritenere esattamente commissione e cosa invece non lo sia. A tutte le problematiche che ho sommariamente delineato aspireremmo a dare, con questo incontro, un contributo di chiarezza. Ovviamente, non c’è alcuna presunzione di arrivare a soluzioni definitive, ma ci sembra importante in ogni caso che si faccia uno sforzo di pervenire se non altro a indicare delle prospettive di soluzione. Data la qualità dei partecipanti credo che non ci siano dubbi sui risultati. Io finisco qui e ringrazio voi tutti.

La normativa di trasparenza in materia di interessi e commissioni Enrico Minervini 1. Delimitazione dell’indagine. Procedo alla delimitazione del mio intervento, alla luce della polisemia del termine trasparenza (ed io ho cercato di fare una sorta di inventario dei significati attribuiti a tale termine nella voce dedicata al principio di trasparenza che ho scritto per i Dizionari del Diritto Privato promossi da Natalino Irti): poiché il titolo assegnato al mio intervento fa riferimento alla «normativa di trasparenza in materia di interessi e commissioni», tratterò della disciplina contenuta nel titolo VI del t.u.b. e nelle disposizioni della Banca d’Italia sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari e sulla correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti del 2009, più volte rimaneggiate. All’interno di questa disciplina, farò prevalente riferimento alla normativa per così dire generale delle operazioni bancarie, e non alle normative del credito ai consumatori e dei servizi di pagamento, anche alla luce dei titoli assegnati agli altri interventi, che mi sembrano avere a oggetto profili della normativa generale di trasparenza. Con l’avvertenza che, come avrò modo di sottolineare, nei luoghi testé menzionati a fianco di norme che mirano alla trasparenza vi sono norme che mirano in realtà direttamente all’equilibrio del rapporto contrattuale, senza passare per la trasparenza. Con l’ulteriore avvertenza che a mio avviso la disciplina della trasparenza ha ad oggetto sia le condizioni economiche sia quelle normative, a parte la difficoltà di distinguere le une dalle altre: ma io tratterò delle sole condizioni economiche in ossequio al titolo assegnato al mio intervento, che menziona interessi e commissioni, e quindi clausole a contenuto economico.

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2. Evoluzione del principio di trasparenza. Il principio di trasparenza delle operazioni bancarie, pur di recente affermatosi nell’ordinamento italiano, mostra dei rilevanti segni di evoluzione, che vorrei sinteticamente individuare. La trasparenza si sgancia dalla buona fede oggettiva o correttezza, e assume il rango di una autonoma nuova clausola generale con efficacia rafforzata. So bene che questa affermazione può sembrare iconoclastica in un ambiente culturale, quale quello italiano, abituato a collegare trasparenza e buona fede oggettiva (in quanto la prima sarebbe applicazione, articolazione, espressione, concretizzazione, portato della seconda), e può apparire in contrasto con il tenore letterale dell’art. 127 del t.u.b. (che fa riferimento alla trasparenza delle condizioni contrattuali ed alla correttezza dei rapporti con la clientela) e delle citate disposizioni della Banca d’Italia (che del pari fanno riferimento alla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari ed alla correttezza delle relazioni tra intermediari e clienti): ma a me sembra che la trasparenza non abbia ormai più niente, o almeno abbia ben poco, in comune con la buona fede oggettiva. Vorrei sottolineare ad esempio che gli obblighi di correttezza non ricomprendono mai l’obbligo di delucidare la controparte sull’adeguatezza del contratto o della prestazione, rispetto alla soddisfazione dei propri bisogni e necessità. Invece, in dottrina si parla ormai comunemente dell’allargamento o dell’ampliamento del principio di trasparenza, che arriva a comprendere obblighi di assistenza o di consulenza, sia pure diversamente modulati nelle varie ipotesi (penso alla disciplina del credito ai consumatori, ad esempio art. 124 co. 5 del t.u.b., e a talune disposizioni della Banca d’Italia sulla trasparenza, ad es. in tema di procedure interne che dovrebbero scongiurare il rischio che il cliente “sia indirizzato verso prodotti evidentemente inadatti rispetto alle proprie esigenze finanziarie”). E io non credo che per colmare lo iato sia sufficiente affermare, come taluno invece fa, che la buona fede oggettiva può includere obblighi di protezione della controparte, quali quelli di assistenza e consulenza: a parte che la categoria degli obblighi di protezione non merita a mio avviso cittadinanza nell’ordinamento italiano, nonostante gli sforzi di una significativa ed autorevole parte della dottrina, non penso che nella stessa categoria, come elaborata dagli studiosi italiani sulle orme di quelli tedeschi, possa rientrare l’obbligo di consulenza. Ritengo invece che la trasparenza assurga al rango di una autonoma nuova clausola generale, con efficacia rafforzata: in quanto idonea ad esempio ad incidere sulla struttura organizzativa interna e sul modello di governance dell’impresa bancaria (cfr. art. 127 del t.u.b., nella parte in cui prevede che la Banca d’Italia possa dettare disposizioni in materia di organizzazione e di controlli interni,

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avendo riguardo alla trasparenza delle condizioni contrattuali), facendo così assumere agli obblighi organizzativi interni rilevanza esterna, come si sottolinea in dottrina; in quanto dotata ad esempio di un autonomo sistema di sanzioni amministrative, che vanno ben oltre quelle per così dire tradizionali (si pensi alle misure inibitorie di cui all’art. 128-ter del t.u.b., ed in particolare all’ordine di restituzione delle somme indebitamente percepite e di altri comportamenti conseguenti; e non è dato intendere come questa norma si concilii con l’affermazione, contenuta nelle disposizioni della Banca d’Italia sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, secondo cui «le questioni relative all’interpretazione ed alla validità dei contratti o di singole clausole sono rimesse ai rapporti tra banca e cliente e, in ultima analisi, alle valutazioni dell’autorità giudiziaria»), e di un autonomo sistema giustiziale (l’A.B.F., di cui all’art. 128-bis del t.u.b.; e si pensi anche alla possibilità di far valere in sede di inibitoria la mera non trasparenza delle clausole contrattuali, ai sensi degli articoli 2 co. 2 e 139 co. 1 c. cons.). Sarà pur vero, come qualcuno sostiene in dottrina, che la buona fede è la madre della trasparenza: ma è del pari vero che la figlia, e cioè la trasparenza, cammina ormai spigliatamente sulle proprie gambe, e percorre strade assolutamente ignote alla madre. 3. Inosservanza degli obblighi di trasparenza. Ho fatto cenno al sistema delle sanzioni amministrative. Almeno qualche considerazione meritano i rimedi c.d. civilistici per l’inosservanza degli obblighi di trasparenza, che sono molti, anzi troppi, e quanto mai disordinati, anche alla luce dell’ormai prossimo tramonto della classica distinzione tra regole di validità e regole di comportamento (distinzione, è appena il caso di sottolinearlo, ignota al legislatore comunitario). Infatti, il legislatore, nella maggioranza dei casi, non si occupa della sorte dei contratti conclusi in violazione dei precetti di trasparenza, sicché il tema viene affidato agli strumenti tradizionali del codice civile, con risultati non sempre convincenti (basti pensare all’annoso e per certi versi stucchevole dibattito dottrinale, seguito alle sentenze “gemelle” delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione del 19 febbraio 2007, n. 26724 e 26725). Anche quando il legislatore si occupa del trattamento dei contratti conclusi in violazione dei precetti di trasparenza (ad es., nell’art. 117 del t.u.b.), il risultato non è sovente soddisfacente, per l’inadeguatezza dei meccanismi di integrazione e/o sostituzione delle clausole nulle previsti dalla legge (così, ad es., il ricorso al tasso nominale minimo e quello massimo dei B.O.T. emessi nei dodici mesi precedenti la conclusione del contratto, rispettivamente per le operazioni attive e

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passive, pone il problema, variamente risolto in dottrina ed in giurisprudenza, dell’individuazione di tali operazioni, e cioè se si tratti delle operazioni attive e passive per la banca, oppure per il cliente). 4. Trasparenza come valore fine. La trasparenza diventa, o si accinge a diventare, un valore fine, e non è più un valore mezzo strumentale ad altri valori, quali la concorrenzialità del mercato e l’equilibrio delle posizioni contrattuali. In ordine al rapporto tra trasparenza e concorrenzialità del mercato, basti ricordare l’art. 127 del t.u.b., nella parte in cui prevede che le autorità creditizie esercitano i poteri previsti dal titolo VI avendo riguardo, oltre che alle finalità indicate nell’art. 5 (sana e prudente gestione, stabilità complessiva, efficienza e competitività del sistema finanziario, osservanza delle disposizioni in materia creditizia), alla trasparenza delle condizioni contrattuali e alla correttezza dei rapporti con la clientela. L’aver collocato la tutela della trasparenza in posizione distinta e autonoma rispetto alla tutela dell’efficienza e della competitività del mercato rappresenta la spia dello “sganciamento” della trasparenza dall’esigenza di garantire la concorrenzialità del mercato bancario. 5. Trasparenza ed equilibrio delle posizione contrattuali. Più delicato appare il problema del rapporto tra la trasparenza e l’equilibrio delle posizioni contrattuali, e cioè tra la trasparenza e la tutela del cliente quale contraente debole. In altri rami del diritto – ad esempio, il diritto dei consumi – non vi è dubbio che tra la trasparenza e l’equilibrio abbia avuto luogo il “divorzio”: la trasparenza non è più un valore servente rispetto all’equilibrio delle posizioni contrattuali, un mero strumento per pervenire a relazioni contrattuali più equilibrate. Basti pensare che in sede di inibitoria è possibile, come si è accennato in precedenza, far valere la mera non trasparenza di clausole non vessatorie, e cioè equilibrate, ai sensi degli articoli 2 co. 2 e 139 co. 1 c. cons. Per quanto concerne la trasparenza bancaria, occorre rilevare che non tutte le norme contenute nel titolo VI del t.u.b. mirano alla trasparenza: alcune tendono sicuramente all’equilibrio del rapporto, e non per il tramite della trasparenza, ma in via diretta ed immediata. Lasciando da parte le disposizioni che disciplinano il credito ai consumatori le quali, essendo di derivazione comunitaria, risentono chiaramente di questa anima equilibratrice delle posizioni dei contraenti, ed esaminando solo le norme dedicate alle operazioni bancarie in generale, vi è innanzi tutto una norma, trascurata in dottrina, che concerne l’equilibrio economico, e non normativo: è l’art. 116 co. 2, che prevede il potere del Ministro dell’economia, sentite

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Consob e Banca d’Italia, di stabilire criteri e parametri per la determinazione delle eventuali commissioni massime addebitabili alla clientela in occasione del collocamento di titoli di Stato. Una nutrita serie di norme, inserite di recente nel titolo VI del t.u.b., mirano del pari all’equilibrio economico del rapporto: si pensi ad es. all’art. 117-bis sulla remunerazione degli affidamenti e degli sconfinamenti, che giunge finanche a determinare l’ammontare massimo della commissione nello 0,5% per trimestre della somma messa a disposizione del cliente; all’art. 120-ter, sull’estinzione anticipata dei mutui immobiliari, che esclude il pagamento di ogni compenso, penale o prestazione; all’art. 120-quater, sulla surrogazione nei contratti di finanziamento, che esclude il pagamento di penali e oneri, spese e commissioni, costi, ecc. Vi sono poi norme che mirano all’equilibrio normativo, e cioè dei diritti e degli obblighi, del rapporto contrattuale: si pensi all’art. 120, sulla decorrenza delle valute e sul calcolo degli interessi, nonché sulla produzione di interessi. La disciplina di trasparenza del titolo VI del t.u.b., con le addizioni normative che ho testé ricordato, aumenta di estensione, ma perde di compattezza, di coerenza interna: a fianco di norme che mirano alla trasparenza, e per il tramite di questa all’equilibrio, vi sono norme che mirano direttamente all’equilibrio, economico o normativo (ammesso e non concesso che si possa distinguere sempre, nettamente, l’equilibrio economico da quello normativo: ma il legislatore comunitario, e sulle sue orme quello italiano, a questa distinzione mostra di credere, com’è testimoniato dall’art. 34 co. 2 c. cons., secondo cui la mancanza di trasparenza delle clausole attinenti alla determinazione dell’oggetto del contratto e all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, pur non integrando di per sé un’ipotesi di vessatorietà, costituisce però un elemento rilevante per il giudizio di vessatorietà, in quanto consente che questo verta anche sulla determinazione dell’oggetto del contratto e sull’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, e quindi su clausole normalmente sottratte al giudizio di vessatorietà). Piuttosto che sottolineare il nesso di strumentalità tra trasparenza ed equilibrio, ritengo che si debba riconoscere che nella disciplina del t.u.b. vi è una sorta di “contaminazione” (non so se fisiologica o patologica) tra i due principii, per cui convivono variamente intrecciate tra loro norme che mirano ad equilibrare direttamente, in senso economico o normativo, il rapporto contrattuale, e norme che lo fanno in via mediata, favorendo la trasparenza, e cioè il regolare afflusso di informazioni chiare, precise e complete per il cliente. Da questo punto di vista, non condivido l’assunto di quegli scrittori che, in un noto convegno tenutosi a San Miniato alcuni anni or sono, hanno sostenuto che oltre la trasparenza vi sia l’equilibrio: trasparenza ed equilibrio convivono l’una vicina all’altro all’interno del titolo VI del t.u.b.

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6. Trasparenza ed eccesso di informazioni. Vorrei segnalare anche un altro profilo della trasparenza bancaria, che a me pare importante. Anche per effetto della c.d. amministrativizzazione o delegificazione della trasparenza, alla quale io sono contrario (in quanto ritengo che la legge sia perfettamente in grado di disciplinare compiutamente la trasparenza, sia attraverso norme analitiche, dettagliate, casistiche, sia attraverso il ricorso a clausole generali), si pone il problema dell’eccesso di informazioni, e dell’eccessivo dettaglio delle stesse: eccesso di informazioni che comporta anche un eccesso di costi, che vengono ribaltati sul cliente. Per giunta, il cliente, e ancor più il consumatore, è un uomo che ha fretta, ed è interessato alla sola clausola concernente la prestazione e la controprestazione in denaro. L’eccesso di informazioni lascia insoluto il problema di come selezionare le informazioni davvero importanti per il cliente, problema che già il legislatore si poneva con il vituperato art. 1341 co. 2 c.c. L’informazione deve essere completa, ma non sovrabbondante, anche se non è sempre semplice tracciare la linea di confine tra completezza e sovrabbondanza: altrimenti, nell’impossibilità di scegliere tra ciò che è importante e ciò che non lo è, il cliente non legge nulla, e si affida speranzoso nelle mani del buon Dio. Orbene, il problema dell’eccesso di informazioni è presente alla Banca d’Italia, che nelle disposizioni sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari offre delle risposte, a mio parere peraltro non risolutive (si pensi ad es. al documento di sintesi o all’indicatore sintetico di costo, I.S.C.). Il problema stesso è noto anche al legislatore, che offre delle risposte del tutto insoddisfacenti, quando non è vincolato dalla necessità di recepire direttive comunitarie, come nel caso del credito ai consumatori. Ne segnalo due: l’art. 119 del t.u.b., dedicato alle comunicazioni periodiche alla clientela, parla non più di comunicazione completa e chiara in merito allo svolgimento del rapporto, ma di sola comunicazione chiara, confondendo così completezza e sovrabbondanza, come se le stesse rappresentassero due sinonimi. Ancora, il legislatore per selezionare le informazioni riscopre il vituperato art. 1341 co. 2 c.c., e cioè la figura dell’approvazione specifica per iscritto. E infatti, di clausola approvata specificamente dal cliente e di clausola approvata espressamente dal cliente si parla nell’art. 118, rispettivamente co. 1 e 2-bis, del t.u.b., in tema di modifica unilaterale delle condizioni contrattuali, ponendo così all’interprete il problema dell’identità concettuale, oppur no, dell’approvazione specifica e dell’approvazione espressa. Per giunta, poiché il t.u.b. non distingue tra contratti standard e contratti negoziati dalle parti (distinzione invece presente alla Banca d’Italia, che nelle disposizioni sulla trasparenza delle operazioni bancarie e finanziarie prevede ad es. che le disposizioni

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sulla pubblicità e sull’informazione precontrattuale non si applicano ai contratti unilateralmente predisposti dal cliente, ipotesi più unica che rara, e ai contratti oggetto di trattativa individuale), le norme in tema di approvazione specifica o espressa si applicano finanche a contratti negoziati tra le parti, o meglio a clausole concernenti il c.d. ius variandi negoziate tra le parti. E così, la specifica approvazione per iscritto, che sembrava destinata all’oblio per la sua inidoneità a proteggere in maniera efficace il contraente debole, riacquista un ruolo ed una funzione: multa renascentur! 7. Conclusioni. Il tempo è tiranno, e mi vedo costretto ad accantonare molti altri profili del principio di trasparenza, che avrei voluto trattare: penso ad es. al tema della c.d. segmentazione o personalizzazione della trasparenza, in relazione al tipo di cliente, ed ai suoi rapporti con il principio di proporzionalità. E in forza della c.d. segmentazione o personalizzazione la trasparenza diventa, o si accinge a diventare, un istituto che si declina al plurale.

Problemi dell’usura: sul perimetro del carico economico rilevante Aldo A. Dolmetta 1. Usura e compensi «accessori». Nella fattispecie portata all’esame dell’ABF Roma, 16 maggio 2014, n. 3260, la banca applica una commissione – contrattualmente determinata nella misura fissa di 100 € a volta – per ogni prelievo scoperto, e cioè oltre il fido in concreto fermato sul limite dei 3.000 €: nell’arco di tre trimestri consecutivi, il fatto viene a ripetersi per complessive 52 occasioni (più di una la settimana, dunque). Nella sede delle chiusure trimestrali del conto, la banca si accorge che in tal modo supera largamente la soglia dell’usura e procede allora ad «abbattere» sua sponte [recte, rinuncia a (cfr. appresso, nota 53)] gli altri oneri economici contrattualmente previsti, «a partire dagli interessi passivi (entro-fido ed ultra-fido)», sino al «azzerarli» del tutto. Tuttavia, non basta. Sicché la banca, per rientrare dentro la soglia, elimina anche 32 delle commissioni che aveva applicato1.

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La fattispecie riguarda una commissione di istruttoria veloce. Nel merito l’Arbitro ha stabilito il dovere della banca di ritornare al cliente anche i montanti relativi alle

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Come è facile intendere, in questo caso parte sostantiva, se non proprio preponderante, del peso economico dell’operazione, che grava sul cliente, si intitola in un compenso meramente «accessorio», nel senso di ulteriore rispetto a quello rappresentato dagli interessi compensativi. Sembra chiaro, perciò, che in casi di tale genere fermare la normativa sull’usura sul punto del compenso principale significherebbe rendere affatto inutile la legge sull’usura e quindi la protezione che questa intende portare al cliente. Né il caso in discorso viene a presentare profili di particolarità o di extravaganza: all’opposto, le somme in gioco restano ancora modeste, l’operazione è retail; il metodo, di riflesso, risulta spalmabile su un numero di fattispecie enorme. E il pensiero subito si estende alla pratica, sintomatica pure per la dimensione delle commissioni accessorie e/o finanziarie, della cessione del quinto2. E si spinge, il pensiero, sino a mettere in dubbio che in certi casi abbia davvero senso reale definire «principale» il compenso portato dai compensativi e «accessorio» quello delle commissioni; se non si debba, casomai, invertire i termini (ovvero rinunciare a simile genere di qualificazioni). Insomma, l’esempio è tutto meno che piccolo. E comunque è senz’altro sufficiente a mostrare quanto sia stata profondamente errata3 la scelta di base della Banca d’Italia di tenere fuori dalla disciplina dell’usura la commissione di massimo scoperto, che ben può essere considerata, per la materia bancaria, la madre dei compensi «accessori». Scelta, del resto, indubbiamente pervicace, visto che è occorsa addirittura una legge nuova – e con espressione formale di accenti – per far mutare opinione all’Autorità (art. 2-bis, co. 2, legge n. 2/2009)4. Per la legge n. 108/1996, in effetti, è

commissioni subusurarie, in quanto la stessa non aveva fornito la prova dell’effettivo espletamento di istruttorie e a nulla giovandole la predisposizione di clausole contrattuali intese a collegare la commissione al mero fatto dello sconfinamento: secondo la decisione, tale clausola non fa che camuffare da CIV la realtà di una commissione di massimo scoperto. A quanto parrebbe, l’attuale operatività bancaria tende a indulgere in pratiche di questo genere: cfr. ABF Roma, 16 maggio 2014, n. 3170. 2 Non è infrequente, nella prassi della cessione del quinto, che la commissione accessoria e/o quella finanziaria – in somma tra loro (inspiegabile, in ogni caso, questa “doppia denominazione” distinta) o addirittura uti singulae – superino di parecchio il carico degli interessi compensativi. 3 Oltre che contra legem (cfr. la norma dell’art. 1, co. 4, l. n. 10/1996, su cui v. pure infra). 4 Supine, le decisioni dell’ABF continuano a ripetere che, per il periodo precedente alla l. n. 2/2009, la commissione di massimo scoperto resta fuori dall’arco di rilevanza dell’usura (dal conto del TAEG).

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sempre stato un problema avere – quale suo principale strumento esecutivo – un soggetto che (più o meno) apertamente le rema contro5. 2. Usura e spese. Nel caso giudicato dall’ABF Roma, 23 maggio 2014, n. 3417, la banca non considera nel costo dell’operazione – un «finanziamento finalizzato a lavori di ristrutturazione della prima casa» – talune polizze assicurative, che pure fa sottoscrivere al cliente. Contando anche queste ultime, il carico complessivo per il cliente cresce in realtà di tre punti percentuali – che poca cosa sicuramente non è – e viene a oltrepassare di parecchio il tasso soglia di periodo, secondo quanto la decisione medesima passa a riscontrare. Nella fattispecie considerata dall’ABF Roma, 22 aprile 2014, n. 2481, le polizze assicurative connesse a un finanziamento per acquisto autovettura (una polizza «vita» e una polizza furto e danni) fanno addirittura esplodere il TAEG, che passa da 12,22% a 23,28%. Che le spese ben possano incidere in modo pesante assai, quando non determinante, sul peso economico dell’operazione è, del resto, notazione praticamente scontata. Basta pensare al fatto che molte spese, tali nel finanziamento, sono corrispettivi nel rapporto diretto col diverso soggetto (spesso dello stesso gruppo del finanziatore) cui pertengono, secondo il caso appunto emblematico delle polizze assicurative a servizio o secondo quello, certo non meno importante, delle commissioni intermediarie nella

5 Pure per le battute successive del discorso, è importante anche registrare quanto emerge da ABF Napoli, 10 marzo 2014, n. 1377 e da ABF Roma, 16 maggio 2014, n. 3197, entrambe relative a casi in cui la banca dichiarava espressamente al cliente di applicare la commissione di istruttoria veloce ed entrambe testimonianze evidenti di dove sta andando la prassi (o meglio una certa, non commendevole, prassi). Avverte la prima decisione: «gli è che se si seguisse il modus operandi utilizzato nel caso concreto dalla banca – che dall’esame dei prospetti versati in atti risulta aver applicato la CIV anche quando lo sconfinamento risultava essere invariato, ovvero quando era ridotto rispetto al giorno precedente… – ne deriverebbe un vero e proprio cambiamento della funzione della CIV», che diventerebbe una «vera e propria penale applicabile giornalmente in ragione del mero fatto oggettivo del permanere dello sconfinamento» (per un’altra fattispecie concreta in cui la commissione è stata addirittura applicata a casi di «riduzione dello sconfinamento» v. ABF Milano, 14 maggio 2014, n. 3016). Sottolinea la seconda pronuncia: «ove si consideri che nel solo IV trimestre del 2012 la CIV è stata applicata per ben 26 volte, appare del tutto verosimile che la stessa sia stata erroneamente considerata dalla banca quale indennità avente funzione risarcitoria analoga ad una penale predeterminata».

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cessione del quinto6; al fatto che il nostro vivente diritto bancario tende ancora oggi a non distinguere tra spese utili e spese superflue e congrue ed eccessive; al fatto, altresì, dell’uso disinvolto del concetto di spese à forfait, che la pratica non manca talvolta di mostrare7. Lasciare fuori dal rilevante per l’usura frazioni più o meno corpose di spese significherebbe quindi, come in effetti significa, venire a ridurre progressivamente – sin verso la compiuta vanificazione – il senso della relativa normativa e il suo spessore protettivo per il cliente. Il testo della legge n. 108/1996, d’altra parte, è chiaro in proposito (per determinare l’usura, occorre tenere «conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito»), così pure confermando in modo espresso, tra l’altro, che lo stesso intende occuparsi e focalizzarsi sul complessivo dell’onere economico che l’operazione carica sul cliente; che è cosa ben diversa, questa, da quella del peso delle singole, diverse voci che tale carico complessivo risultano formare. Se l’indicazione è quella del complessivo carico economico, non ha comunque senso andare per pezzi sparsi del medesimo (andare per “pezzi e bocconi”, si potrebbe anche dire). E anche qui appare non conforme alla legge e davvero sbagliata la scelta della Vigilanza di tenere fuori dall’arco dell’usura le «spese di assicurazione… fino al 31 dicembre 2009»8. Così come pure appare censurabile che la revisione del 2009 delle Istruzioni ancora oggi lasci fuori dal conteggio non poca misura di spese: tipo le spese notarili, a compenso dell’attività svolta da questo professionista; tipo le spese assicurative, che non siano «contestuali all’ottenimento del finanziamento» o non «obbligatorie per ottenere il credito o per non ottenerlo alle condizioni contrattuali offerte»9.

6 Nella fattispecie sottoposta al vaglio di ABF Milano, 25 giugno 2014, n. 3987 – una fattispecie del tutto ordinaria – sono previsti «€ 5.766,24 per interessi; € 4.004.21 per “commissioni intermediario incaricato”; € 1.716,92 “per spese fisse”; € 2.381,36 a titolo di polizza assicurativa». 7 In effetti, la coincidenza (o identificazione) delle spese con i costi effettivi (cfr. il mio Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, pp. 159 ss.) sembrerebbe appartenere più alla sfera del dover essere che a quella dell’essere. 8 Cfr., di recente, ancora in questo senso ABF Roma, 6 giugno 2014, n. 3630. 9 Per quanto, a dire la verità, il tenore delle riportate Istruzioni lasci spazio, nell’ambiguità della sua formulazione, alla possibilità di letture che si manifestino coerenti con la ratio oggettiva della legge (oltre che col suo testo). In effetti, se l’«obbligatorietà» ben può essere intesa come condizione di proposizione del prodotto (: se non firmi la polizza, non ti concedo il finanziamento o lo concedo a condizioni economiche diverse e più onerose), la

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3. Usura e clausole penali (il tormentone dei moratori). Un’esposizione più diffusa occorre per l’altra categoria delle voci che compongono il quadro complessivo degli oneri economici gravanti sul cliente. In effetti, questo è il tempo della stagione problematica dei moratori: la questione sulla loro rilevanza per la sede usuraria (an e quomodo) ben può anche essere bollata – per quanto si tratti di tema ricorrente (e affrontato dalla giurisprudenza già prima dell’emanazione della legge n. 108/1996) – il tormentone del periodo. Nel merito, la questione spacca oggi il diritto vivente. Una prima fascia del dibattito è rappresentata dalle posizioni di frangia esterna. Per taluno, la stessa idea (pur solo a livello “platonico”, verrebbe da pensare) di ricomprendere i moratori nel conto dell’usura si manifesta «assunto platealmente erroneo» e produttrice di «follia di conseguenze»10; per altri, all’opposto, la partecipazione dei moratori al conteggio avviene nel senso che il tasso contrattualmente previsto per loro, come calcolato per l’intero, si somma addirittura a quello previsto per i compensativi. Di questo genere di posizioni, peraltro, ci si può sbarazzare agevolmente: si tratta di tesi un po’ preconcette, per la verità. La prima è espressione, più che altro, di un grido isterico; la seconda sembra colorata da lati di opportunismo11.

«contestualità» ben può essere apprezzata come espressiva di un fenomeno anche solo di occasione (: il finanziamento è l’occasione per piazzare la polizza). Orientata nella direzione di leggere il «collegato» di cui all’art. 1, co. 4, della legge n. 108/1996 nel significato di «occasionato» è l’importante decisione di ABF Roma, 27 giugno 2013, n. 4183). 10 Le formule appena trascritte nel testo si leggono in Tavormina, Banche e tassi usurari: il diritto rovesciato, in Contr., 2014, p. 90. Per la critica radicale alla concezione di «liberismo assoluto», che sta dietro a tale idea, rimando al mio Trasparenza, cit., spec. cap. 6. 11 Per sua natura, il tasso moratorio sostituisce, nel caso di inadempimento del debitore, quello compensativo, come del resto si ricava senza grande fatica dal secondo periodo del co. 1 dell’art. 1224 c.c.: sì che la tesi richiamata nel testo viene a cadere da sola. Come già avvertivo nello scritto Sugli effetti civilistici dell’usura sopravvenuta, in IlCaso, II, 9 febbraio 2014, nt. 7, tuttavia, resta pur sempre da verificare l’effettiva applicazione del punto, che nel concreto venga fatta dall’intermediario. Se nel più frequente caso in cui il tasso moratorio sia conformato come maggiorazione di quello compensativo, l’ipotesi fattuale di contemporanea applicazione dei due tassi appare davvero improbabile, meno potrebbe esserlo in quello in cui il tasso moratorio sia forgiato in modo autonomo (tasso compensativo fermato a misura fissa, ad esempio, e tasso moratorio calcolato in x punti percentuali più di quello euribor a x mesi). Ed è evidente, a me sembra, che – nel riscontro effettivo di una simile evenienza fattuale – il conto viene a comporsi di tutte le voci applicate nel periodo.

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Tagliate queste frange estreme, i poli reali del diritto applicato sono rappresentati, da un lato, dall’indirizzo della Corte di Cassazione; dall’altro, da quello della Banca d’Italia, giurisprudenza dell’Arbitro compresa12. Per il primo, i moratori contano già a livello di verifica contrattuale, ma nella sola misura della maggiorazione che la clausola porta rispetto al tasso compensativo13. Per il secondo, invece, i moratori non vanno mai tenuti nel conto, neppure nell’ipotesi di inadempimento del debitore; e tuttavia gli stessi rimangono «soggetti alla normativa anti-usura»: al punto che – continua l’Autorità14 – «per evitare il confronto tra tassi disomogenei» i decreti trimestrali di rilevazione «riportano i risultati di un’indagine per cui “la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali”»15.

Nel caso esaminato dall’ABF Napoli, 15 aprile 2014, n. 2400, il compensativo viaggiava sul 4,60%, con un TAEG dell’11,82% e un tasso di mora pari all’euribor a tre mesi (all’epoca 0,75%) maggiorato di 8 punti. Il TEGM dell’epoca si fermava – per l’interessata categoria della cessione del quinto – sul 12,58% per le operazioni fino a 5.000 € e sul 9,21% per quelle oltre. L’Arbitro ha liquidato ogni questione rilevando che la domanda del ricorrente sommava i tassi. 12 Per una diffusa analisi di questi orientamenti di fondo, mi permetto di rinviare al mio Su usura e interessi di mora: questioni attuali, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, p. 501 ss., nonché all’“aggiornamento” dato nella nt. 7 del citato Sugli effetti civilistici dell’usura sopravvenuta. Nel primo degli scritti indicati, si trova anche una più ampia (e “dommatica”) elaborazione della tesi che vengo a ribadire nel testo. 13 Non pare che la Cassazione abbia affrontato casi in cui il tasso moratorio era stato conformato in termini autonomi (v. sopra, la nota 11). Non sembra dubitabile, peraltro, che l’adozione della sola verifica a livello di testo contrattuale comporti più di un imbarazzo in proposito. La tesi della rilevanza usuraria dei moratori solo nel caso di loro applicazione effettiva, per avvenuto inadempimento – che qui viene sostenuta – si dipana, invece, in un doppio controllo (il primo sui compensativi, il secondo sui moratori) che dovrebbe evitare ogni ambascia. 14 L’intervento della Banca d’Italia, cui si allude nel testo (Comunicazione 3 luglio 2013) si conclude con una doppia indicazione: l’Autorità considererà rilevante per l’usura anche il tasso moratorio con riferimento ai «controlli sulle procedure degli intermediari» (i servizi di compliance sono avvertiti); e ciò per la detta misura del 2,1%. 15 Quanto all’ABF, le decisioni dei Collegi di coordinamento 28 marzo 2014, n. 1875, 30 aprile 2014, n. 2666 (in seguito riordinato come 23 maggio 2014, n. 3412) affermano che la pattuizione di «interessi moratori elevati e oltre la soglia» si pone come parte di un assetto negoziale destinato ad aggirare le disposizione in tema di contrasto all’usura e integra i presupposti della frode alla legge, con la conseguente applicazione del regime di cui all’art. 1815, co. 2, c.c. (cfr. in proposito anche il cenno di cui alla successiva nota 18). Al di là della detta enunciazione di principio, le decisioni dell’ABF sono, alla conta delle decisioni effettive (e per quanto risulta, naturalmente), tutte contrarie a dare ai moratori rilevanza rispetto alle prescrizioni della legge n. 108/1996. In astratto, peraltro, qualche

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Ciò posto, a me pare che la soluzione corretta vada a collocarsi un poco nel mezzo tra questi due orientamenti. Nel senso che i moratori – come pure le altre clausole penali da ritardo16 – vengono a far parte del conto relativo al carico complessivo dell’operazione economica per il debitore se e quando si verifica un inadempimento del medesimo, sì da importare la loro effettiva applicazione (si tratta, dunque, di usura sopravvenuta; v. infra)17; in tal caso, essi vanno contati in luogo, per sé (ma con la riserva formulata nell’ambito della nota 11 che precede), dei compensativi18. La coerenza della loro rilevanza (solo) eventuale con il testo della legge n. 108/1996 a me pare evidente. Nel tessuto contrattuale il patto sui moratori – la promessa di farsi dare vantaggi usurari, cioè, secondo quanto recita l’art. 1 della legge – è propriamente orientato verso l’inadempimento: il patto è destinato a produrre effetti solo per il caso di inadempimento, se e quando un inadempimento vi sarà. Non fuori da ciò. Non meno chiara sembra, poi, l’effettività della loro rilevanza, quando l’inadempimento si verifica. Nel caso di applicazione, i moratori diventano parte fondante – ingombrante, anzi19 – del carico economico. Ed è escluso a priori (v. nei prece-

rara decisione sembra “interessata” a una considerazione usuraria dei moratori per il caso di loro effettiva applicazione: così il Coordinamento n. 2666/2014, che parla di «… possibilità – ovviamente, ove se ne ipotizzi l’ammissibilità – di una valutazione del tasso degli interessi moratori ai fini del giudizio di usurarietà solo se effettivamente applicati»; così pure, in termini più marcati, la decisione Napoli, 28 aprile 2014, n. 2577. 16 Che le vigenti Istruzioni di Banca d’Italia pure escludono dal conteggio. 17 Di clausole «potenzialmente usurarie» discorre Lupoi, La «cartolarizzazione» dell’usura, spunti, in dirittobancario.it, febbraio 2014. 18 Nel lavoro Su usura e interessi di mora, cit., p. 510 s., ho anche proposto – per la verifica e sanzione dei contratti con eccessivo carico negoziale, in ragione della considerazione anche dei moratori – la strada della valutazione di meritevolezza degli interessi perseguiti ex art. 1322 c.c. Come è agevole constatare, quest’idea del riscontro alla luce della causa concreta non è per nulla lontana, concettualmente, da quella del negozio in frode alla legge che è stata poi affacciata dai Collegi di coordinamento (cfr. sopra, nella nota 15). In tale ambito (di giudizio negativo in punto di meritevolezza) va senz’altro inquadrato, tra l’altro, il caso (che si trova spesso riferito in letteratura) di prestito di durata assai breve e congegnato in modo da rendere al debitore praticamente molto difficile l’esatto adempimento, con conseguente applicazione di tassi moratori alquanto elevati (seppur inferiori alla soglia). 19 Nel caso esaminato da ABF Napoli, 6 agosto 2014, n. 5143, il contratto di prestito personale stabiliva che «per i ritardi di pagamento potranno essere addebitati al consumatore interessi di mora pari all’1,5% mensile sull’importo dovuto alla scadenza di ciascuna rata, oltre alle seguenti spese: Spesa per eventuali solleciti postali o telefonici: € 15,49 per ogni intervento; Spesa per eventuali interventi domiciliari: € 50,00 per € 500,00 o frazione di € 500,00 di importo dovuto; Commissione insoluto presentazione

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denti nn. 1 e 2) che la legge n. 108/1996 si occupi solo di “qualche pezzo” del carico economico: cosa che, tra l’altro, sarebbe priva di senso compiuto. L’“onnicomprensività” dell’orizzonte economico della legge, del resto, è cosa da stimare di per sé “indubbia”20. Come in buona sostanza conferma pure la norma (transitoria o meno che sia) dell’art. 1 d.l. n. 394/2000. Secondo quanto a livello sistematico anche conforta, volendo, la disposizione del co. 4 dell’art. 117 t.u.b.: laddove a rilevare sono le varie voci del carico economico dell’operazione, i moratori sono dentro. Non basta. Da taluno si parla – a mo’ di indicazione contraria alla loro rilevanza usuraria – di neutrità degli interessi moratori21. L’osservazione, tuttavia, non solo dimentica i tratti dell’operatività bancaria anche attuale (per un micro riscontro, v. sopra, nella nota 5), ma soprattutto trascura la pur ovvia constatazione che i patti sui moratori hanno natura di clausola penale. Ed è ben noto e risaputo in letteratura – oltre che rilevato dal codice (art. 1224, co. 1 e 1382, co. 2, c.c.) – che le clausole penali rientrano nel genere delle c.d. pene private, dove alla misura risarcitoria (di cui all’affermata neutrità) si affianca, quando non predomina, la misura afflittiva. Del resto, se i moratori si limitassero a elidere il danno arrecato, avrebbero misura uguale per tutte le banche o mostrerebbero scarti infinitesimali tra loro: il che non è. Nemmeno merita credito, a mio avviso, l’osservazione sponsorizzata dalla Banca d’Italia, per cui la mancata inclusione dei moratori nel conteggio dell’usura è scelta che tiene basso il livello dei tassi. In realtà, la previsione dei moratori c’è comunque, non meno che la loro applicazio-

RID: € 5,16; Spesa di costituzione in mora: € 12,91; Spesa di decadenza dal beneficio del termine: € 20,66; Spese legali eventualmente sostenute». Anche queste somme – mi pare chiaro – debbono far parte del conto usurario, in quanto effettivamente richieste dall’intermediario: al di là del fatto che quest’ultimo abbia davvero titolo per ribaltarle sul cliente (non poco inquietante tra l’altro appare, per la verità, la minaccia delle «visite domiciliari») o comunque per ribaltarle nella misura pretesa (più di 15 € per l’invio di una lettera?). Posta se non altro la regola della operatività a vantaggio esclusivo del cliente delle nullità di protezione di cui all’art. 127 co. 2 t.u.b. (al cui novero appartiene senz’altro pure quella da usura), infatti, il relativo giudizio sta avanti di quello su debenza e congruità delle singole voci richieste dall’intermediario (cfr., sul punto, il mio «Scoperti senza affidamento» e usura, in Studi in onore di Pietro Abbadessa, 3, Torino, 2014, p. 2218). 20 Così, la perspicua sentenza di App. Cagliari, 31 marzo 2014, in IlCaso, 10269. V. altresì, tra le altre, App. Venezia, 18 febbraio 2013, ivi, 9920. 21 Così, di recente, Semeraro, Interessi moratori e usura, in dirittobancario.it, febbraio 2014. A parte gli assorbenti rilievi svolti nel testo, è pure da ricordare che la dimensione della neutrità verrebbe a valere (già) per le spese (sopra, nt. 7), che sono esplicitamente prese in considerazione dalla legge n. 108/1996.

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ne. Non pare verosimile, d’altra parte, che – ove il TEGM contasse pure i moratori – la prassi bancaria si orienterebbe nel senso di azzerare, o quasi, la misura convenzionale di tali interessi. E comunque rimedio tombale per un simile rischio è quello di dare a questa voce un’evidenza contabile propria, separata dalle altre voci economiche (come senz’altro è opportuno)22: cosa che del resto – a guardare le cose da un certo angolo di prospettiva, almeno – già avviene nel nostro diritto vivente, posta la già ricordata indicazione del tasso moratorio medio del 2,1% con cui, dagli inizi del 2003, l’Autorità accompagna i dati forniti delle rilevazioni trimestrali. Secondo una certa opinione, d’altra parte, il punto relativo all’oggetto della verifica usuraria delle operazioni fatte e quello della costruzione del TEGM possono (e/o debbono) rimanere distinti (v. nel prossimo n. 5.). 4. (Segue): il frequente richiamo alla norma dell’art. 1384 c.c. Molti degli interventi contrari all’inclusione dei moratori nel conto usurario richiamano la norma dell’art. 1384 c.c., che stabilisce la riduzione della penale eccessiva: il richiamo appare diretto a far vedere che, infine, la materia comunque non resta sguarnita23. È ragionevole chiedersi, tuttavia, cosa c’entri con l’usura un simile richiamo. Un conto è il peso dei moratori in quanto tali; un conto è il loro peso come componenti del carico complessivo di un’operazione, come parte di un tutto. L’usura parla di altro rispetto alla norma del codice (che, per il suo ambito specifico, appare per sé ben efficiente); né le due cose si equivalgono; né sono comparabili. Il richiamo in discorso si manifesta di pura suggestione, in ultima analisi. In realtà, il punto delicato dell’inclusione nel conto usurario delle clausole moratorie è dato dal fatto che – se l’usura scatta in sede di inadempimento – l’applicazione della struttura rimediale dell’art. 1815 co. 2

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E secondo quanto ho suggerito ad esempio, in Dolmetta, Trasparenza, cit., p. 153. Del resto, sarebbe molto utile, a mio avviso, che le rilevazioni trimestrali contenessero l’indicazione disaggregata di ogni singola voce. Nella prospettiva – tradizionalmente fatta propria, tra l’altro, dai giudici della Cassazione – per la cui la legge sull’usura intende «fotografare» l’esistente, d’altro canto, non si tratta d’altro che di mettere in azione lo zoom. 23 Cfr., per tutti, la decisione del Collegio di coordinamento n. 2666/2014, nonché, per la dottrina in modo sintomatico, Volpe, Usura e interessi moratori nel linguaggio dell’Arbitro Bancario Finanziario, in Nuova giur. civ. comm., 2014, I, p. 504

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c.c.24, che converte il contratto usurario in contratto gratuito, finisce per premiare l’inadempimento e quindi agevolarne, per sé, il verificarsi. Che è cosa non concepibile. Oggi, tuttavia, il diritto vivente riconosce la rilevanza dell’usura sopravvenuta, come pure riconosce che la stessa non comporta la conversione di gratuità prescritta dalla ridetta norma del codice25; com’è sicuramente corretto: e l’usura, che scatta a seguito dell’applicazione dei moratori, per l’appunto rientra nell’ambito dell’usura sopravvenuta26. In altre parole, il riconoscimento usurario dei moratori nei termini detti non sembra destinato a produrre conseguenze devastanti o drammatiche. Piuttosto (ma sul punto si tornerà melius nel prossimo § 7), il rapporto, che così viene a superare la soglia dello squilibrio economico rilevante, è destinato a venire ridotto a termini di equità: secondo un’indicazione sistematica di fondo che proprio la citata norma dell’art. 1384 c.c. viene a fare emergere (e che non dovrebbe essere trascurata dal milieu). 5. Voci del carico economico e verifica concreta del TAEG27. 5.1. Rimane un altro aspetto importante da considerare in materia. Nei fatti della realtà attuale, il TEGM non considera in alcun modo il profilo dei moratori; delle clausole penali in genere, anzi. Di conseguenza, come ci si deve comportare? Il punto è delicato assai. Negli interventi del Collegio di coordinamento, la circostanza viene assunta come ragione (e come ragione per sé autonoma) per escludere la rilevanza usuraria della componente moratoria del carico economico. Si invoca, in proposito, un c.d. «principio di simmetria» logica, corrente «tra i calcoli eseguiti per stabilire le soglie massime rilevate ai fini

24 Nota il Collegio di coordinamento n. 2666/2014 che quello di cui all’art. 1815, co. 2, «è rimedio scopertamente e marcatamente sanzionatorio», per cui «la sua applicazione [deve] avvenire sulla base di una interpretazione particolarmente rigorosa»; cioè restrittiva. 25 Sull’usura sopravvenuta v. pure i cenni svolti nei prossimi nn. 6 e 7, anche con riferimento alla struttura rimediale da applicare per verificarsi di questa. 26 Precisamente: posto che nei contratti di credito una prestazione di restituzione non ha senso sia fissata in termini contestuali alla dazione delle somme, per sé l’usura prodottasi a seguito dell’effettiva applicazione dei moratori è senz’altro sopravvenuta. Certo, una situazione di inadempimento può verificarsi già nell’arco del trimestre di costituzione del rapporto, ma questo infine è un discorso diverso. 27 Con TAEG qui si intende, breviter, il complessivo carico economico presentato dalle singole fattispecie concrete.

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delle disposizioni di contrasto del fenomeno dell’usura e quelli che debbono eseguirsi per verificare che tali limiti non siano superati in concreto». Se la Banca d’Italia non li conteggia nel TEGM, ne segue – così tira le fila l’ABF – che la parte moratoria non viene a contare per il riscontro di (non) usurarietà delle fattispecie concrete. Ora, molto vi sarebbe da discutere su un simile modo di argomentare. Anche perché è davvero trasparente la petizione di principio che lo attraversa. La Banca d’Italia non è la legge; vi è soggetta, piuttosto. Né comunque si vede perché il lato “zoppo” di questo principio di simmetria dovrebbe essere quello dato dalla legge e non quello rappresentato dall’Autorità amministrativa28. A parte ciò, e facendo scendere adesso il discorso verso altro livello – quale propriamente costituito dal diritto in oggi vivente – v’è da rilevare che, per la verità, gli interventi della Banca d’Italia contengono un’indicazione (sì esterna al TEGM, ma) sostitutiva di tale aspetto: quella per l’appunto relativa al tasso moratorio medio di 2,1% punti percentuali. Alcune decisioni dell’Arbitro enfatizzano la possibilità di utilizzare l’indicazione del tasso medio moratorio per altri versi: ai fini della valutazione di eccessività della mora ex art. 1384 c.c.29. Il fatto è, però, che la Banca d’Italia non lo ha per nulla richiamato ai fini della eccessività della clausola penale in quanto tale, bensì proprio in funzione del giudizio complessivo di usura: «per evitare il confronto tra tassi disomogenei» (cfr. già sopra, nel n. 3). Quindi come “indicazione sostitutiva”, in via di aggiunta del TEGM. Con soluzione che è stata ritenuta credibile30 e che in sé non appare incredibile. Certo, il metodo adottato in proposito dall’Autorità non è corretto, né conforme alle prescrizioni della legge n. 108/199631. Ma questo è, all’evidenza, una questione di taglio diverso: che nulla ha a che fare con il diritto vivente delle operazioni; e tanto meno con l’invocazione di questo «principio di simmetria» che viene fatta dal Collegio di coordinamento. Né potrebbe imputarsi alla legge la circostanza che l’Autorità ometta di regolarizzare la definizione del tasso moratorio medio.

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Cfr. amplius in Trasparenza, p.154, nota 34. La frase trascritta nel capoverso precedente è tratta, nello specifico, da ABF Milano, 13 maggio 2014, n. 2963. Per la utilizzabilità del criterio del tasso moratorio medio segnalato dalla Banca d’Italia ai fini del riscontro di cui all’art. 1384 c.c. v., tra le altre, la decisione di ABF Milano, 3 giugno 2014, n. 3578. 30 Catania, Usura: profili civili e penali, Torino, 2006, pp. 42 s.; Bonora, L’usura, Padova, 2007, p. 110. 31 V. Su usura e interessi di mora, p. 506. V. pure infra, nt. 35. 29

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5.2. Una diversa opinione, che pure viene rappresentata in letteratura, afferma che per la verifica in concreto dei TAEG praticati, come comprensivi della componente moratoria, occorre rifarsi senz’altro e senza addizioni di sorta al TEGM. Si afferma in particolare, a conforto di tale soluzione, che non è «prevista in alcun punto dalla legge… un’imprescindibile esigenza di omogeneità di confronto»; che, «se il tasso praticato dall’intermediario si colloca nell’intorno del valore medio di mercato, vi sono ampi margini per una maggiorazione della mora. Se, invece, il taso praticato si colloca a ridosso, già sconta il rischio di insoluto alla scadenza»; che, operando in tal modo, la legge n. 108/1996 «assume una significativa funzione surrogatoria di un’efficiente concorrenza»32. La tesi è sicuramente seria, occorre subito rilevare. In effetti, non compare nessun bisogno logico di “simmetria” – o di compiuta sovrapposizione – tra l’onere massimo consentito ex lege e il carico effettivamente praticato33. Nel senso, soprattutto, della possibilità di scostamenti relativi e oggettivamente motivati34. Non v’è dubbio, d’altra parte, che tale soluzione tenda oggettivamente a portare verso il basso il costo connesso ai contratti di credito (per il margine appunto lasciato al caso di inadempimento): cosa che, per la verità, mi sembrerebbe difficile trovare negativa. Rimangono, tuttavia, dei margini di perplessità. La filosofia della legge n. 108/1996 – lo si è accennato già nelle pagine precedenti – è quella di “fotografare” l’esistente: con riferimento al complessivo del carico economico dei contratti di credito presenti sul mercato. Se si leva dall’obiettivo della macchina le clausole moratorie, la fotografia appare ovviamente incompleta ovvero pure, se si preferisce, “mossa” (per l’effetto della spinta concorrenziale così data)35.

32 Cfr., specialmente, Marcelli, L’usura della legge e l’usura della Banca d’Italia: nella mora riemerge il simulacro dell’omogeneità, in Assoctu, agosto, 2014 (le citazioni sono risp. a pp. 30, 41 e 72). Nella medesima direzione v. Mizzau, Interessi moratori e relativo tasso soglia: la vexata quaestio alla luce della disciplina sull’usura, in I contratti bancari a cura di Bianca, Roma, 2013, spec. p. 257. Sul tema v. anche nel prossimo n. 5.3., all’inizio. 33 Salvo, mi pare, lo scontatissimo rilievo che – se si lascia fuori dal TAEG una voce (così, i moratori prima di eventuali inadempimenti del debitore) – la stessa non può non restare fuori pure dal TEGM. 34 In astratto, peraltro, una legge di equilibrio economico ben potrebbe conformarsi nella pura e semplice predisposizione di un limite massimo: generale sì, ma non a sommatoria di voci (e, volendo, neanche tratto dal mercato). 35 Dall’altra parte, non si può dimenticare che il tasso moratorio medio segnalato dalla Banca d’Italia è frutto di un’indagine solo a campione e pure parecchio risalente nel tempo.

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5.3. Naturalmente, il problema dei rapporti tra TEGM e verifica concreta del TAEG si pone per tutte le voci del carico economico che non risultano far parte del primo. E se nei casi in cui si dispone di un’«indicazione sostitutiva», com’è per i moratori36, ci si può mettere a discutere intorno a più soluzioni, negli altri casi, l’alternativa è netta, radicale37: o non si conta la voce nella verifica oppure si prende a riferimento il TEGM così com’è. D’altro canto, va altresì preso atto – sul piano del diritto vivente – che la Cassazione non ha mai preso in considerazione, finora, la “proposta” del tasso moratorio medio della Banca d’Italia o di altre indicazioni sostitutive38. Eliminare la voce – dunque sedersi su un evitabile principio di simmetria39 – significa, nella realtà, costringersi obtorto collo ad accettare una soluzione che si ritiene oggettivamente errata e contra legem. Ancora una volta significa, in buona sostanza, mettere le rilevazioni trimestrali sopra il livello della legge. Occorre dunque volgersi nell’opposta direzione. E viene a soccorrere, in proposito, un importante rilievo della sentenza di App. Torino, 5 febbraio 201440, resa a proposito del carico di una spesa assicurativa: non ha «alcun rilievo quanto sostenuto dall’appellante [la banca] circa il fatto che anche il TEGM per il periodo indicato dovrebbe essere innalzato, non contenendo l’inclusione del costo della polizza, per valutare la effettiva usurarietà o meno del tasso praticato; il TEGM, per il periodo interessato era noto all’operatore finanziario perché pubblicato anticipatamente sulla G.U. e così pure il tasso

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Sullo «specioso algoritmo di calcolo suggerito dalla banca d’Italia per la CMS nella Circolare del 2/12/2005» v. Marcelli, L’usura, cit., p. 31. 37 Lo stesso tipo di problema si pone, per sé, in relazione ai metodi di calcolo utilizzati per «pesare» le varie voci del complessivo carico economico. Tuttavia, occorre evidenziare che a questo proposito si potrebbe facilmente sconfinare nell’ambito della c.d. discrezionalità amministrativa. 38 Motivazioni esplicite in proposito non ne ho viste. La sensazione è quasi che la Cassazione prenda il dato numerico portato dalle rilevazioni trimestrali come dato in sé, senza carico di problemi: meglio, come cosa esterna alla sua «competenza». 39 Ripeto, per la maggiore chiarezza: tale principio è inesistente nel senso che la verifica di usurarietà della fattispecie concreta debba corrispondere ai criteri stabiliti dalla Banca d’Italia (che, si ricordi, pone in essere semplici provvedimenti amministrativi); e non è del tutto insuperabile nel senso della corrispondenza tra i criteri di verifica della fattispecie concreta, come stabiliti dalla legge, e quelli di corretta costruzione del TEGM. Resta salvo, poi, quanto precisato nella precedente nota 33. 40 La sentenza è pubblicata in diritto bancario.it. (il corsivo è aggiunto). Ma cfr. pure Trib. Padova, 14 marzo 2014, sempre in dirittobancario.it, 6 maggio 2014 e pure relativa a una polizza assicurativa.

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soglia: all’operatore era noto che il superamento di tale tasso soglia era comunque vietato». Non si può dimenticare, in effetti, che le banche sono dei professionisti; e che devono comportarsi in maniera professionale. I loro servizi di compliance non possono non tenere conto, pertanto, degli orientamenti della letteratura (giurisprudenza e dottrina) intesi a riconoscere reale onnicomprensività alla rilevanza usuraria del carico economico. Nel caso di superamento del TEGM (comunque determinato e comunque originatosi) le banche non possono, insomma, non prevedere gli effetti che ne conseguono; e quindi li accettano ovvero predispongono, in alternativa, degli adeguati sistemi di «algoritmi di cimatura che automaticamente riportano entro il tasso soglia gli importi addebitati»41 (secondo un metodo che, come impostazione di principio almeno – e a prescindere dalle voci che vi vengono calcolate –, la pratica attesta correre effettivamente; cfr. sopra, nel n. 1). È noto, d’altra parte, che le banche sono soggette alla clausola generale di «sana e prudente gestione» ex artt. 5 e 127 t.u.b. e quindi debbono operare con particolare prudenza: il fatto di superare comunque la soglia usuraria (senza automatico ritorno entro il limite) viene per ciò stesso a importare violazione di tale regola42. 6. Dalla linea orizzontale alla linea verticale del carico economico: l’usura sopravvenuta. Fatta oggetto di vivace dibattito nei primi tempi di applicazione della legge n. 108/1996 (nell’immediato, con riguardo diretto al diritto intertemporale), l’usura sopravvenuta è poi rimasta per un lungo periodo relegata tra le cose dimenticate, se non proprio perdute. Da un paio di anni (poco più, poco meno), tuttavia, il tema è tornato alla ribalta. Per venire a raccogliere – in punto di rilevanza usuraria in quanto tale del fenomeno (anche se il discorso va di necessità completato con le osservazioni di cui al prossimo n. 7) – consensi cospicui: a livello di giurisprudenza (Cassazione compresa); di Autorità amministrativa (che peraltro sembra riconoscerla solo per i finanziamenti «a utilizzo flessi-

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La frase trascritta è di Marcelli, L’usura, cit., p. 83. Che tale superamento sia consentito o meno dall’Autorità amministrativa (secondo quanto avviene per i moratori: sopra, nota 14). Sui criteri che in generale debbono guidare l’azione del servizio di compliance v. il mio La funzione di compliance nella vigilanza bancaria, in Banca, borsa, tit. cred., 2012, I, pp. 125 ss., nonché, con riferimento al punto specifico dell’usura, Su usura, cit., p. 507, nota 16. 42

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bile», come l’apertura di credito); di ABF (che ne riferisce la rilevanza anche alle varie forme operative del mutuo); e di dottrina43. Nell’oggi, insomma, la rilevanza (anche) di questa situazione di usura può ben dirsi faccia parte stabile del diritto vivente44. Si è trattato di un passaggio di importanza forte, a me pare. In effetti, che le condizioni economiche di un’operazione rilevino non solo lungo l’asse delle ordinate (: del fatto del contratto, in sé e per sé considerato), ma pure lungo quello delle ascisse (: dello svolgimento effettuale del rapporto), rappresenta una condizione di quadratura della regolamentazione legislativa anti usura45. Nei contratti di credito, diretto punto di riferimento della legge n. 108/1996, l’accordo contrattuale proietta propriamente i suoi contenuti tempo per tempo, in relazione ai singoli momenti della relativa applicazione: la definizione del compenso che grava su chi gode il denaro preso a prestito, così, segue la linea delle singole frazioni temporali («giorno per giorno», per la norma dell’art. 821 c.c., che poi diventa «trimestre per trimestre» per la vigente normativa dell’usura)46. Il contratto chiuso oggi, di conseguenza, non viene a rimanere estraneo al mercato

43 Amplius a proposito di questi aspetti Sugli effetti civilistici dell’usura sopravvenuta, cit., passim, e, prima, Trasparenza, cit., pp. 163 ss. Da ultimo, per il riscontro di rilevanza dell’usura sopravvenuta v. ABF Napoli, 29 aprile 2014, n. 2602 (ma v. pure la Relazione sull’attività dell’ABF, 4, Roma, 2014, p. 39). 44 Si dichiara contrario alla figura Mucciarone, Usura sopravvenuta e interessi moratori usurari tra Cassazione, ABF e Banca d’Italia, in Banca, borsa, tit. cred., 2014, I, p. 441, sulla base dell’affermazione che, «quando si stipula un contratto i soli dati relativamente certi con cui le parti possono confrontarsi sono quelli presenti: il futuro resta incerto». Resistenze sono palesate anche da Lupoi, La «cartolarizzazione», cit., a giudizio del quale il fatto è che «la banca anni addietro ha speso un certa provvista finanziaria per ottenere il denaro poi erogato» [ma, a parte ogni altra pur agevole censura (tra l’altro, sui costi del mercato all’ingrosso), non risulta che, in caso di salita dei tassi, le banche trasferiscano il “surplus” nei conti della clientela]. 45 Rileva correttamente Ferroni, Jus superveniens, rapporti in corso e usura sopravvenuta, in Rass. dir. civ., 1999, pp. 511 ss., che «circoscrivere la rilevanza e l’applicabilità della … disciplina al fenomeno usurario al momento costitutivo dei rapporti di … credito significa contraddire e vanificare gli scopi della stessa legge». 46 Giampiccolo, Comodato e mutuo, in Tratt. dir. civ. diretto da Grosso e SantoroPassarelli, Milano, 1972, pp. 85 s.: la «normale onerosità del contratto [di mutuo] non deve necessariamente esprimersi nella tipica obbligazione degli interessi, poiché, se le parti vogliono, il corrispettivo del mutuo oneroso potrà ben essere costituito anche da una prestazione diversa… Quel che semmai occorre avere presente è che qualunque corrispettivo, quando pur fosse conglobato in un’unica prestazione, dovrà intendersi sempre commisurato alla prevista durata del prestito».

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che andrà a svolgersi nel futuro (nei vari segmenti temporali in cui il relativo rapporto è, nel concreto, destinato a durare). Di sicuro, non va “fuori mercato” alla chiusura del trimestre47. Come pure, del resto, i TEGM di un trimestre (recte, la “fotocopia” del carico economico che è riportata dai TEGM) fungono senz’altro da sponda di riferimento per quelli del trimestre successivo. È di tutta evidenza, poi, che il mercato dei contratti di credito non è un lago ghiacciato: se si concede un mutuo a trent’anni, o anche a tre mesi, non si può ragionevolmente prevedere situazioni di immotilità o accampare pretese ed idee di fissità; chi entra nel mercato – e tanto più se è creditore professionale –, non può non accettare i rischi che ne derivano. La sicura rilevanza usuraria di talune voci del carico economico esclude subito, d’altra parte, l’eventualità di poter dar peso solo al frammento della stipula del contratto: il peso effettivo di una commissione di istruttoria veloce, così, risulta conoscibile unicamente a fine trimestre (cfr. sopra, nel n. 1)48. Senza contare, ancora, che la “patente d’immunità”, conseguente alla negazione di rilevanza dell’usura sopravvenuta, tenderebbe a favorire – in una situazione di concorrenza debole – la crescita dei tassi, per l’esonero da qualunque previsione sul futuro che essa produce. 7. (Segue): il punto della struttura rimediale. 7.1. Sotto il profilo della normativa di legge, l’acquisizione della rilevanza dell’usura sopravvenuta passa, per la verità, attraverso il riconoscimento di una premessa logica necessaria: quella per cui la norma dell’art. 2 legge n. 24/2001 – che, per sciogliere il dibattito intertemporale scatenatosi all’entrata in vigore la legge n. 108/1996, ha stabilito che «ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815, comma 2, c.c. si intendono usurari gli interessi che superano il limite nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti» – si limita ad escludere

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Già Oppo, Lo «squilibrio» contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Riv. dir. civ., 1999, I, p. 536 rilevava puntualmente che «il riferimento alla sola stipulazione… può risolversi in una clamorosa disparità di trattamento». Pensare diversamente significa, in buona sostanza, non percepire esistenza e conformazione del mercato. 48 Né è realmente prevedibile – nel momento in cui viene stipulato il contratto di c/c con adietta e apposita convenzione delle condizioni economiche dello sconfinamento – il numero degli utilizzi appunto scoperti che avverrà in un dato periodo; e tanto meno il numero delle volte in cui si renderà oggettivamente necessario, per la relativa concessione, l’espletamento di una istruttoria.

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l’applicazione di tali norme, sproporzionate per tale fenomeno49, ma non intende negare la rilevanza civilistica del medesimo. Ora, non v’è dubbio come una simile acquisizione – che oggi può stimarsi sicura – venga subito a proporre il problema del «quomodo» della rilevanza di questo fenomeno usurario, di individuare il tipo di rimedio civilistico destinato ad accompagnare l’effettivo riscontro in concreto di un’usura civilistica50. Che è problema molto grave, com’è ugualmente sicuro: anche perché le alternative disponibili per la soluzione del quesito rispondono a filosofie non poco differenti tra loro. Quella di riportare il carico al limite massimo della soglia consentita, che è accolta dall’orientamento maggioritario51, si inspira all’evidenza all’idea di conservare – o recuperare – quanto più possibile la volontà storica dei contraenti. Quella di riportare il carico economico al tasso globale medio relativo all’operazione persegue invece la strada del ri-

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In realtà, la sanzione punitiva di cui all’attuale norma dell’art. 1815, co. 2, c.c. (appunto, una conversione ex lege che porta alla gratuità del patto) appare – specie nel contesto complessivo del sistema vigente – struttura rimediale in sé stessa discutibile (v. pure la nota 50, che segue, a proposito di distinzione tra usura originaria e sopravvenuta); e costituisce, anzi, uno dei principali aspetti che andrebbero modificati in sede di revisione legislativa della normativa antiusura (su questi punti v. anche il mio Trasparenza, cit. pp. 166 ss.). L’eliminazione della previsione sanzionatoria in discorso (a favore di strutture rimediali comunque improntate al segno dell’equità) consentirebbe, tra l’altro, di fermare alla sola materia penale la discussione – che tanto si agita in questi tempi – sull’opportunità o meno di venire a distinguere, nel revisionare la detta legge, la c.d. «usura bancaria» dal fenomeno della c.d. «usura di strada» (ma gli operatori bancari che ricevono – per il pagamento del debito bancario – danari presi a prestito da uno strozzino sarebbero partecipi del reato di «usura di strada»?). 50 Un altro problema importante attiene alla definizione precisa del perimetro dell’usura sopravvenuta. La questione si pone, per la verità, non solo e tanto nei confronti di ciò che usura non è, quanto piuttosto rispetto a ciò che va considerato come fenomeno ab origine usurario (e rispetto al quale sono pertanto destinate a trovare applicazione le sanzioni di cui all’art. 644 c.p. e all’art. 1815, co. 2, c.c.). In effetti, l’usura sopravvenuta è situazione che – assunta sul piano della rilevazione materiale – può venire a presentarsi per più ragioni e diverse tra loro, discontinue (cfr. al riguardo Sugli effetti civilistici dell’usura, cit.). Ed è problema non sempre di agevole soluzione. Anche perché, se la distinzione tra usura originaria e usura sopravvenuta non è per diritto vigente evitabile in ragione del loro diverso trattamento disciplinare (v. appena sopra), non è che la stessa abbia gran ragion d’essere sotto il profilo della regolamentazione civile: lo stesso motivo, che in oggi regge la più grave sanzione dell’usura originaria (: il rapporto già parte come peggio non si potrebbe), presenta, com’evidente, notevoli margini di genericità. 51 Per gli opportuni riferimenti in proposito rinvio allo scritto Sugli effetti civilistici dell’usura, cit. Non constano prese di posizione della Corte di Cassazione in materia.

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medio equitativo. Quella di utilizzare in via di analogia i meccanismi sostitutivi stabiliti dall’art. 117, co. 7, t.u.b. per i contratti bancari privi della necessaria forma scritta, poi, viene a presentare accenti di taglio sanzionatorio (cfr. l’ultimo periodo della lett. b. dell’art. 117). Dico subito che, a mio avviso, la soluzione corretta si orienta diretta verso il ceppo delle soluzioni di ordine equitativo52. Sia perché essa risponde, si è già accennato sopra, al principio sistematico della materia, come espresso dalla norma dell’art. 1384 c.c. Sia perché si tratta di scelta coerente con il canone fondamentale della buona fede oggettiva. Cosa che non può dirsi, invece, per l’opzione che richiama la struttura delineata dal co. 7 dell’art. 117 t.u.b., posto che il profilo sanzionatorio, che la attraversa, la rende propriamente estranea ai profili contenutistici di tale canone (per l’appunto privo di qualunque connotazione punitiva). E nemmeno potrebbe dirsi, per la verità, per l’idea maggioritaria secondo cui il carico economico andrebbe ridotto entro il limite della misura massima consentita. Questa enfatizza tantissimo la volontà storica delle parti, mentre la buona fede è, all’opposto, canone per eccellenza eteronomo. E pure perché coerente con il criterio della buona fede è un carico economico che si attesti sulla linea di normalità del mercato. Sul medio corrente, insomma: non certo verso le zone di confine estremo di quest’ultimo, là dove il discrimine tra l’“esoso” e il “tollerato” viene a confondersi. Ciò posto, anche per meglio avvalorare la soluzione equitativa, qui accolta, non sembra peraltro inopportuno passare a un esame critico (più) ravvicinato di quest’ultima, maggioritaria tesi. 7.2. Sul piano strutturale è da notare, in specie, l’assenza di una norma positiva che venga a consentire, e a tratteggiare, il transito della decisione di autonomia dal livello vietato (che è quello proprio del contratto preso in considerazione) a quello del limite ammesso. A confrontarsi con lo schema degli artt. 1339 e 1419 co. 2 c.c., subito emerge in particolare la mancanza – nel caso che qui interessa – di una norma che possa

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Nel cui contesto si colloca, naturalmente, anche quella rappresentata dall’applicazione del tasso legale. Peraltro, quella di cui all’applicazione del TEGM può sembrare preferibile, specie perché considerabile, a guardare la sostanza delle cose, come soluzione evolutiva – o se si preferisce aggiornata – di quella del tasso legale: in quanto criterio (sopravvenuto con la legge n. 108/1996) che nell’attuale viene a esprimere quell’idea di normalità che appare insita nel concetto di determinazione equitativa, mentre il tasso legale appare misura nell’oggi un po’ ai margini della realtà delle cose (secondo il testo vigente dell’art. 1284, co. 1, c.c.).

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fare da ponte: che provveda, insomma, alla «sostituzione di diritto» della decisione usuraria. Come pur sarebbe, all’evidenza, necessario. Nemmeno appare possibile recuperare, in fattispecie, una volontà ipotetica sostitutiva dei contraenti: tale da potere far ipotizzare un fenomeno grosso modo assimilabile al taglio della conversione. Al di là di ogni osservazione relativa alla posizione di debitore – per definizione imbarazzante, dato che è la posizione di chi sta subendo l’usura –, sta in fatto che una simile volontà ipotetica manca proprio nel creditore, che dell’usura si avvantaggia. Il creditore sa – se è professionista del credito, comunque non può non sapere – che il rapporto è venuto, in un certo momento, a oltrepassare la soglia vietata: se non interviene spontaneamente in funzione rimediale, significa che intende (provare a) lasciare le cose come stanno. Ciò che viene a introdurre un ulteriore, ma non meno decisivo, rilievo critico nei confronti della tesi in esame. Un conto è il comportamento dell’intermediario che – preso atto del superamento della soglia – ferma subito, sua sponte la propria pretesa sul limite massimo del consentito53. Un altro conto è il comportamento dell’intermediario che, sopravvenuta tale circostanza, si mostra indifferente e mantiene inalterata la propria richiesta davanti al cliente. Un simile comportamento non sfugge – se si intende chiamare le cose con il loro nome – alla qualifica di opportunista. E come tale va trattato. E non v’è davvero dubbio che – sul piano funzionale – portare la struttura rimediale del contratto colpito da usura sopravvenuta al limite consentito dalla soglia significa, oggettivamente, rendere per l’intermediario inutile (e inopportuno, anzi, sotto il profilo dell’agire d’impresa) la scelta di tenere un comportamento virtuoso nei confronti del contratto medesimo. Per quello che rischia. Adottare la struttura rimediale del massimo consentito significa, nella sostanza ultima delle cose, incentivare l’opportunismo del creditore che dell’usura viene ad avvantaggiarsi. 8. Usura e «contraenti dispari» (vicinanza della prova per il carico economico). 8.1. Nella fattispecie considerata dall’ABF Milano, 13 maggio 2014 n. 2963, tra le altre cose la banca osserva – con non celato sarcasmo –

53 Per la ricostruzione dell’adeguamento spontaneo dell’intermediario in termini di remissione parziale, e sui problemi che al punto vengono a riconnettersi, v. già il mio Le prime sentenze della Cassazione civile in materia di usura ex lege 108/1996, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, pp. 637 s.

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che, «qualora si volesse dar credito alle comparazione elaborate da controparte»54, «il superamento del tasso soglia da parte del TAEG del mutuo, indicato nella misura del 6,774%, nel periodo in questione [andrebbe] da un massimo di “ben” 0,15 punti percentuali a un minimo di 0,09, oscillando il tasso soglia tra il 6,63% e il 6,69%». D’acchito, viene da pensare che l’agire di un simile cliente sia attraversato da una considerevole dose di piccineria. Al che, peraltro, rimbalza subito l’impressione che pure calcare la mano nel farlo notare è comportamento non poco meschino. Un pareggio tra nani, dunque? In realtà, le cose non stanno proprio così. Le posizioni della banca e del cliente non stanno in equilibrio sui piatti della bilancia. Se non altro, per due ragioni di fondo. Anzitutto, perché si sta discutendo di un prodotto che è proprio della banca, che cioè esprime l’attività di impresa specificamente caratteristica della medesima. Comunque, pertanto, la professionalità tipica e specifica che viene in gioco è quella della banca: non del cliente, che, quand’anche imprenditore, non fa il mestiere del banchiere. Non meno “definitoria”, per dire, è l’altra ragione: quello che per il cliente è “il rapporto”, per la banca è solo una frazione – più o meno infinitesima – dell’attività specificamente esercitata e condotta a mezzo di un dato prodotto. La moltiplicazione indotta dalla serialità facilmente conduce l’“irrisorio” al livello della somma “strabiliante”: in effetti, si tratta di replicare 0,15% (ma, volendo, anche 0,09%) per n55. Per quanto oggettivamente manifeste (o, almeno, così a me pare), tali ragioni solo raramente vengono percepite dal milieu della letteratura attuale; e più difficilmente ancora risultano essere assunte nel set delle linee-guida della lettura dei rapporti tra l’impresa bancaria (e/o finanziaria; ovvero pure, a volere dare al raggio un arco ancora maggiore, l’impresa tout court56) e i relativi clienti. Nei fatti, mediamente la letteratura tende piuttosto – ancora oggi e pur nella fase di economia matura che stiamo vivendo – a considerare le parti (del contratto, del rapporto, del giudizio) come fossero maschere vuote, con la risonanza

54 Nei fatti, la perizia prodotta al cliente utilizzava un metodo di calcolo del carico economico non coincidente con quello deciso dalla Banca d’Italia. Su questo profilo problematico v. il cenno portato sopra, nota 37, nel contesto del più ampio discorso svolto nel n. 5.3. 55 Su gli aspetti qui appena abbozzati v. ampiamente il mio Trasparenza, cit., passim. 56 Sempre nel limite dell’attività caratteristica della stessa, di immissione e gestione dei relativi prodotti nel mercato, non è forse inutile puntualizzare.

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di un troco cavo. Così facendo si finisce – sembra sicuro – per “perdere” il mondo reale57. 8.2. Molte volte compare – tra i rilievi svolti dalle banche in sede di contenzioso ABF relativo all’usura (o anche ad altro) – la constatazione difensiva che il cliente «non ha documentato… l’andamento del rapporto» (cfr., ad esempio, Collegio Napoli, 15 aprile 2014, n. 2395) ovvero pure quella della «genericità/fumosità della pretesa» che ha fatto valere (Collegio Milano, 30 aprile 2014, n. 2638). E di frequente si trovano decisioni che rilevano «che non è possibile valutare la corretta applicazione» degli oneri economici, per via della “mancata produzione” degli opportuni documenti» (Collegio Milano, 2 maggio 2014, n. 2704); che, se la «ricostruzione dei dati numerici operata nella perizia non fornisce un quadro chiaro della situazione», «per altro verso, gli estratti conto scalari trimestrali prodotti dalla banca non riportano voci distinte…, ma le indicano promiscuamente»: insomma, «i dati forniti dalle parti non sono sufficienti». In questi casi, la soluzione dell’Arbitro segue, per solito, in via automatica: «pertanto, la domanda sul punto non può essere accolta, perché sfornita di prova» (le ultime frasi sono tratte dal Collegio Roma, 18 luglio 2014, n. 4619). Si avverte come l’impressione, in definitiva, che conveniente comportamento processuale delle banche sia, in materia di usura (e non solo), quello di produrre il minore numero possibile di carte, se non quello di non produrne proprio. Al limite di non costituirsi nemmeno nella procedura (cfr. pure, però, nel prossimo n. 8.3)58.

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Sintomatico del metodo ricostruttivo censurato nel testo (nonché dell’ideologia politica, che naturaliter vi sta dietro) è il ricorrente – e invero “odioso” – indirizzo interpretativo dell’ABF per cui la pretesa «irrisoria», «priva di reale posta in gioco» va respinta per il solo fatto di essere tale, a priori: cfr., da ultimo, Collegio Napoli, 26 novembre 2013, n. 6051. In realtà, l’effettiva «posta in gioco» è altissima anche in quelle fattispecie (a tacere di tutti gli altri rilievi critici di tale orientamento, per i quali rinvio senz’altro al mio Trasparenza, cit., p. 26, testo e nota 38). 58 La mancata costituzione nel procedimento ABF torna a sicuro vantaggio dell’intermediario, ad esempio, nel caso di cui alla citata decisione del Collegio Napoli, n. 2395/2014. Ma davvero espressiva di una data impostazione si manifesta, in particolare, la recentissima decisione del Collegio Napoli, 7 agosto 2014, n. 5155 – relativa a una ipotesi di cessione del quinto, senza contatti (pare) col tema dell’usura – in cui l’intermediario, oltre a non essersi costituito, non aveva nemmeno corrisposto alla richiesta di documentazione ex art. 119, co. 4, t.u.b. in precedenza avanzata dal cliente. Posto che non sono «disponibili agli atti evidenze documentali», va senz’altro respinta la domanda del cliente, «che non ha

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D’altra parte, è ben noto che mediamente il cliente trova forti difficoltà nel provare la ricorrenza, in fattispecie, dell’usura: al di là di ogni vicenda di disponibilità documentale, a costruire e leggere i dati rilevanti. Basta pensare, se non altro, al punto delle cognizioni tecniche. Posta un simile situazione, la rilevanza della disciplina usuraria di cui alla legge n. 108/1996 rischia – al di là di tutti i ragionamenti sostanziali che si possono svolgere – di “affogarsi da sola” nella pozza d’acqua della prova del peso economico caricato sul cliente59. 8.3. Da qui l’esigenza, per dare credito reale alla normativa della legge n. 108/1996, di colmare (in parte sostantiva) il gap corrente sul piano probatorio tra banca e cliente: di alleggerire la posizione di quest’ultimo rispetto all’onere della prova ex art. 2697 c.c., che – posta una domanda giudiziale di accertamento dell’usura – verrebbe a incombergli. Com’è evidente, il tema richiama – e richiede – l’applicazione in proposito della regola di vicinanza della prova, quale criterio (non sostitutivo, ma) correttivo del principio dell’onere, sì da poter rimediare alle gravi storture e ingiustizie (come definite, ante omnia, dai precetti costituzionali) che quest’ultimo per sua struttura intrinseca è idoneo, come appunto avviene nella specie in questione, a recare.

assolto all’onere probatorio sullo stesso gravante ex art. 2697 c.c.». Per tracce di un atteggiamento un po’ meno chiuso dell’Arbitro v. nella prossima nota 64. 59 La difficoltà per il cliente di riconoscere e provare la ricorrenza dell’usura – congiunta alla facilità di constatare, per contro, la pesantezza economica del debito concretamente in essere – può facilmente comportare la presenza di lati di esploratività nelle domande di accertamento dell’usura. L’esasperazione di questa (appunto, del momento esplorativo) può a sua volta alimentare senza difficoltà – o comunque incoraggiare – atteggiamenti di preconcetta chiusura nei confronti di tali richieste. È forse questa la spiegazione della posizione assunta da qualche provvedimento giudiziale, secondo il quale il cliente ha persino l’onere di “provare” esistenza e contenuto delle rilevazioni trimestrali (così l’ordinanza del Trib. Roma, 10 gennaio 2014, in Expartecreditoris). Di per sé, in effetti, una simile posizione oltrepassa i confini dell’assurdo. Essa vorrebbe reggersi sull’assunto che il principio iura novit curia non vale per gli atti amministrativi; ma non si rende conto che le rilevazioni sono atti generali e, soprattutto, che fanno sicura parte, in sé stesse (cioè come dato di rilevazione astratto), del “notorio”. Non credo, d’altro canto, che simile posizione divenga più attendibile ove la si voglia intendere nel senso di “nascondere” una richiesta di indicazione precisa, formale ed esclusiva dei trimestri interessati dalla domanda di usura: ché una simile pretesa oltrepassa senz’altro i confini di determinatezza della domanda giudiziale (al di là, di ogni discorso di vicinanza e di gratuita penalizzazione del cliente).

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In effetti, con specifico riferimento alla materia usuraria non si può davvero trascurare60 – nella segnata linea di un’applicazione seria, effettiva della detta regola – che qui la vicinanza della banca risulta essere “istituzionale” (i.e.: appartiene, prima di tutto, alla sfera del dover essere), non foss’altro perché il “momento economico” è profilo di primissimo, basico livello della concreta conformazione dei prodotti inerenti all’attività d’impresa della medesima. Ma anche perché la materia dell’usura presenta, per sua natura, rischi “reputazionali” e “legali” (per la tipologia di sanzioni connesse al superamento della soglia) di fascia avanzata. Pure va sottolineato, sul piano del fatto, che la prassi bancaria attuale palesa – secondo quanto si è già ampiamente testimoniato nelle pagine precedenti – segni di significativa e duratura attenzione al riscontro di eventuale usure: predisponendo, così, strumenti e criteri di rilevazione e rimedio appositi; dalle clausole contrattuali di salvaguardia agli algoritmi di cimatura (e altro ancora). Tutto ciò suppone la tenuta di un’opportuna documentazione di controllo continuativa61. Un “dover essere” particolarmente forte e un “essere” molto presente, insomma. Ciò posto, nel chiudere le presenti note, vale ancora la pena di segnalare due peculiari profili che si inscrivono nella tematica in discorso, pur nella sottolineatura che la vicinanza è figura che può venire ad articolarsi in svariati modi di intervento (si pensi, ad esempio, alle presunzioni hominis), oltre che secondo più gradi. Il primo attiene per sé alla fase precontenziosa e si sostanzia nel richiamo della norma dell’art. 119, co. 4, c.c.62. Non v’è ragione, a me

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Al di là di tutti i rilievi di ordine generale che militano a favore di un’effettiva applicazione della regola di vicinanza, cioè. Sul tema della vicinanza v. adesso Dolmetta e Malvagna, Vicinanza della prova e prodotti di’impresa del comparto finanziario, di prossima pubblicazione in Banca, borsa, tit. cred., ove pure una prima panoramica di profili specificamente bancari della materia. 61 Che dovrebbe tenere conto – in ragione delle osservazioni svolte nel precedente n. 5.3. – di tutte le voci componenti del carico economico (ma questo è, per l’appunto, un rilievo attinente alla sfera del “dover essere”). 62 Che è norma davvero importante, posto che persegue la funzione di consentire al cliente di recuperare – con «relativa facilità – quanto (per trascuratezza, negligenza, disinteresse, disordine o altro) egli abbia perduto» (Cfr. Dolmetta, Trasparenza, cit., pp. 108 s., da cui pure i successivi virgolettati). Più precisamente: la norma assume a proprio presupposto una peculiare vicinanza della banca a certi documenti (e dunque a certe prove documentali), secondo quanto è dato di realtà; e intende portare, nei suoi svolgimenti effettuali, il cliente vicino ai documenti (ai detti documenti, meglio): avvicinarlo alle prova rientra pertanto nel

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pare, che nell’ambito della «documentazione inerente a singole operazioni» – che il cliente ha libero potere di richiedere alla banca ai sensi di tale disposizione – non rientri anche quella che quest’ultima tiene specificamente per la materia dell’usura. Né v’è bisogno di illustrare

focus del suo obiettivo. Sotto il profilo strutturale, la detta norma consegna alla banca un «dovere di protezione consistente nel dare supporto documentale al cliente». Ed è supporto di particolare spessore, dato che il «diritto del cliente non ha bisogno di “titolare” in alcun modo la propria richiesta, quand’anche reiterata (pur se, ovviamente, la stessa incontrerà il limite dell’abuso e dell’emulazione); e visto pure che la banca non potrà respingere la richiesta con esimenti di sorta; nella specie non viene a valere, cioè, il brocardo per cui nemo tenetur edere contra se». Se la banca non ottempera alla richiesta, viola un obbligo ex lege. Dal punto di vista del valore processuale del comportamento, che qui in specie interessa, la banca – che non risponde affatto alla richiesta del cliente o che gli consegna solo una sezione incompleta di estratti – esprime significatività di univoca direzione: di violazione degli obblighi di legge ex art. 2220 c.c. o (di nascondere presso di sé documenti che in giudizio potrebbero nuocerle e quindi) di diretta violazione della norma dell’art. 119, co. 4 t.u.b. In ogni caso, tale comportamento non può non dare luogo, a me pare, a una solida presunzione hominis: per rintuzzare e superare la quale essendo la banca onerata, in effetti, del non facile compito di individuare una ragione giustificativa efficiente per la linea del proprio comportamento («spetta al giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., determinare se e in quale senso possa essere valutata la condotta della parte che ha enunciato di aver proceduto alla distruzione dei documenti necessari alla decisione»; va «infatti affermato che la parte è tenuta a conservare la documentazione richiesta finché il giudice non abbia definitivamente e negativamente provveduto sull’istanza stessa e che, a tal fine, nessuna rilevanza può assumere la maturazione, medio tempore, del temine decennale dell’obbligo di conservazione»: Cass., 7 marzo 1997, n. 2086). Né va trascurato, poi, che il comportamento tenuto dalla banca in sede di risposta alla richiesta del cliente ex art. 119, co. 4, t.u.b. finisce per vincolare i successivi svolgimenti dell’agire di questa. Data una risposta, un atteggiamento difforme tenuto in sede giudiziale dalla banca contraddice proprio l’affidamento che la risposta aveva creato: «è un venire contra factum proprium, non sembra discutibile». Ciò posto, è ancora da osservare che – nella corretta collocazione che gli dà la normativa del t.u.b. – il dovere di protezione documentale della banca occupa uno spazio propriamente sostanziale; o, se si preferisce, pre-processuale o precontenzioso. Nulla vieta, tuttavia, che il potere del cliente si esplichi – o anche si reiteri – durante il tempo del processo. E nulla vieta, altresì, che la richiesta stessa venga formulata nel contesto specifico dei relativi atti processuali. Posti questi dati, sembrerebbe assumere rilevanza marginale il quesito se, durante il processo, la richiesta ex art. 119 co. 4 t.u.b. possa assumere le vesti della richiesta di ordine di esibizione. Per “obbligare” la banca, la richiesta ex testo unico non ha bisogno di passare per il medio del giudice; comunque, la prova da esibizione non vincola il giudice (ex art. 116, co. 2, c.p.c.), al pari di quanto tipicamente avviene nella prova da vicinanza (fuori dai casi, naturalmente, in cui la stessa si trova “legalizzata” in una disposizione specifica; cfr. sopra, all’interno della nota 3). Diverso potrebbe essere, in definitiva, solo il regime delle spese, dato che la norma dell’art. 210 comma 3 c.p.c. si limita ad “anticiparne” il carico sul richiedente, mentre nel contesto dell’art. 119 l’addossamento avviene in via definitiva.

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le utilità che simile documentazione può portare al cliente in punto di prova63. L’altro profilo, che va richiamato, attiene alla valutazione del comportamento – collaborativo, intermittente, assente, opportunista – che la banca venga in concreto ad assumere nella sede contenziosa (naturalmente, anche nel riflesso di quello serbato nelle fasi precedenti del rapporto). Non si può non ricordare, in proposito, non solo la disposizione dell’art. 116 c.p.c., ma pure – soprattutto anzi, visto che si sta parlando di vicinanza probatoria – il punto dato dal dovere processuale di comportamento «leale e probo», che in modo speciale incombe sulla banca ai sensi dell’art. 88 c.p.c. E il conseguente rilievo che la violazione del dovere medesimo può assumere nel quadro della decisione del giudice sul concreto raggiungimento della prova: secondo una linea che – timida e decisamente estranea alla materia dei giudizi usurari – sembra cominciare a farsi vedere nel contesto delle decisioni dell’ABF64.

63 Come controllo, in specie, di quanto fatto (e/o non fatto) dalla banca nel rapporto e pure verifica delle voci del carico economico che la banca ha effettivamente incluso nel conto di rilevanza usuraria. 64 La già citata Relazione sull’attività dell’ABF, 4, afferma (p. 46) che l’«Arbitro ha sottolineato come la mancata cooperazione dell’intermediario non prenda parte al procedimento genera conseguenza sul piano probatorio: l’assenza di contraddittorio costituisce elemento a favore della parte ricorrente». In realtà, è molto più facile trovare – nel contesto dell’attività dell’Arbitro – decisioni che non danno rilievo di sostanza al comportamento della banca, come si osserva nel precedente n. 8.2. (testo e nota 58): tanto con riferimento al caso di mancata partecipazione, quanto in quello di partecipazione ostruzionistica (che è cosa equivalente). Per questo si è parlato nel testo di «timido orientamento» (nella direzione segnalata dalla Relazione v. Collegio Milano, 12 marzo 2014, in tema di restituzione di quote di leasing riferibile al premio assicurativo). A parte questo, va segnalato che il sistema normativo di regolamentazione dell’ABF «non si limita a riconoscere la facoltà di rispondere alla pretese del ricorrente», ma «trasforma… il “diritto al contraddittorio” in una sorta di “obbligo di cooperazione”, la cui violazione può comportare anche un effetto sanzionatorio (pubblicità del comportamento non collaborativo)» (così, sempre la Relazione, ivi). Non sembra azzardato ritenere, a me pare, che questa connotazione venga pure di riflesso ad innervare di un ulteriore e peculiare significato, per i relativi intermediari, la prescrizione del dovere legale di comportamento processuale «leale e probo», di cui all’art. 88 c.p.c. (a rafforzamento, cioè, dell’intensità del dovere che discende dall’essere sul tavolo della controversia punti attinenti alla materia del “prodotto bancario”).

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Il nuovo art. 120 t.u.b. Fabrizio Maimeri 1. Il motivo per il quale sono qui oggi, oltre che per il piacere di incontrare amici e colleghi, è quello di cercare di chiarire una recente disposizione in tema di anatocismo che ha riscritto l’art. 120, co. 2 del t.u.b. Detto così, qualcuno di voi penserà che si tratta della consueta esegesi cui ogni studioso e operatore deve procedere in presenza di una norma che ne modifica un’altra. E come dargli torto. La specificità però sta nella circostanza che la norma sostituta è a dir poco oscura, tanto che, come cercherò di spiegare, coloro che dovrebbero applicarla (cioè le banche), nonostante la modifica faccia tempo dal 1° gennaio 2014, ancora non la applicano. Prima però che questa affermazione faccia scattare il consueto tifo da stadio contro il sistema bancario, conviene entrare nel merito per spiegare anzitutto la difficoltà del mio intervento e poi il motivo della disapplicazione della disposizione innovata. Facciamo un rapidissimo riassunto delle (molte) puntate precedenti e limitiamoci e dire che quando nel 1999 il revirement della Cassazione tolse all’uso richiamato dall’incipit dell’art. 1283 c.c. la funzione di fondamento della deroga al divieto dell’anatocismo per le banche, facendo crollare, ora per allora (perché la Cassazione si muove in chiave interpretativa) questa pratica fino a quel momento ritenuta legittima, il legislatore corse ai ripari sostituendo all’uso una delibera del CICR. Fu così che nel t.u.b. venne introdotto un co. 2 all’art. 120 che attribuiva appunto al predetto Comitato questo compito, assolto con la delibera del 9 febbraio 2000. Probabilmente si trattò di una soluzione di emergenza mai fino in fondo chiarita (cosa c’entra con l’anatocismo un comitato di ministri cui spetta di presidiare l’“alta vigilanza” [di indirizzo politico] sul credito e il risparmio non si è ancora ben compreso) e tuttavia consentì di assicurare, almeno per il futuro (cioè dopo la data di entrata in vigore della predetta delibera) una base affidabile all’anatocismo. Non così accadde per la capitalizzazione effettuata prima di tale data e quindi lo scatenarsi di un contrasto fra sistema e correntisti affidati che per un decennio ha gonfiato i ruoli delle corti. Ma, come si dice, non si può avere tutto nella vita. Il trascorrere degli anni sembrava quindi aver sedimentato almeno la soluzione al problema di fondo: l’anatocismo è consentito in virtù del disposto dell’art. 120 t.u.b., lasciando sullo sfondo tutti gli altri aspetti problematici legati alla capitalizzazione che conosciamo e che non voglio qui neppur richiamare.

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2. Senonché, in modo non facilmente prevedibile (nel senso che mancavano indici, tanto giuridici tanto sociali, da cui desumere un revirement per di più legislativo, questa volta: sancita la pari periodicità, sembrava che tutto dovesse considerarsi risolto), l’art. 120, co. 2 viene, come detto, cambiato. E viene cambiato con un’azione un po’ sotterranea (peraltro non nuova né particolarmente sorprendente, purtroppo), cioè inserendo la novella in una legge che non c’entra nulla con l’argomento, ma che ha il pregio di essere forse l’unica in Italia ad ottenere obbligatoriamente l’approvazione entro tempi certi: la legge finanziaria di una volta, oggi denominata “legge di stabilità”. Questa legge (compressa, come talora capita a leggi della specie, in pochi articoli e numerosissimi commi per favorirne l’approvazione col voto di fiducia articolo per articolo) è ascritta al n. 147 del 27 dicembre 2013 e contiene fin dalla presentazione del progetto due disposizioni di stampo bancario: art 1, co. 584-585 sulla portabilità (dopo i telefonini e i mutui) dei servizi di pagamento da un conto a un altro, e art. 1, co. 630, che stabilisce l’obbligatorietà dell’adesione delle banche di credito cooperativo al loro sistema di garanzia dei depositanti. Tra questi due commi, nel corso della discussione, viene inserito il comma 629 che sostituisce il co. 2 dell’art. 120 del t.u.b. nel senso che vedremo; la legge viene approvata ed entra in vigore, come di consueto, dall’anno successivo, cioè, nel caso che interessa, dal 1° gennaio 2014. Proseguendo l’esposizione degli accadimenti e riservandomi tra breve un tentativo di esegesi della disposizione oggi in vigore, dirò – e qui per un attimo datemi credito sulla fiducia – che la disposizione introdotta con la legge di stabilità era di difficile comprensione, per usare un eufemismo e che quindi la correlata delibera del CICR che avrebbe dovuto completarla era di pressoché impossibile confezionamento. Era insomma verosimile ipotizzare che il Comitato sarebbe intervenuto solo di fronte a un testo di legge più leggibile, tanto è vero che il Comitato non avvia i lavori e la situazione rimane in stand-by. In questo contesto, nel quale dunque le banche seguitano ad applicare la capitalizzazione trimestrale perché la disposizione contenuta nella legge di stabilità non è ancora efficace mancando la delibera del CICR1, il Gover-

1 «Da ultimo il Cicr, per non far danno alle banche, ha indugiato per quasi sei mesi nell’applicazione dell’art. 120 t.u.b., come modificato dalla c.d. legge di stabilità, attendendo la norma salva banche. Anche la Banca d’Italia fece passare più di un anno per l’applicazione della legge 108 del 7 marzo 1996, entrata di fatto in vigore il 1° aprile 1997, guadagnandosi dalla Cassazione Penale la definizione di ente che ha aggirato la norma sull’usura»: così Tanza, Trasparenza bancaria: nuove confusioni sul calcolo degli

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no, cogliendo l’occasione, ancora una volta, di un decreto-legge di tutt’altro contenuto2, sostituisce di nuovo il co. 2 dell’art. 120 t.u.b. (con l’art. 31, co. 1 del d.l. n. 91/2014, recante “Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea”) e inserisce di nuovo nell’ordinamento la capitalizzazione, sia pure diversamente modulata. Tuttavia questa norma è caratterizzata da due elementi che vale la pena sottolineare. Il primo è che il Governo, che l’ha inserita nel d.l., stenta a riconoscerne la paternità: il decreto è sulla competitività e quindi di competenza del Ministro dello Sviluppo economico, che però ne disconosce l’iniziativa3, imputandola al collega dell’economia4; “fonti” di quest’ultimo dicastero avrebbero sottolineato la natura “mostruosa” di simili decreti, affermando che la norma in questione «viene da Bankitalia e Dipartimento del Tesoro, [ed è] un favore clamoroso su pressione delle banche»5. Il secondo elemento, lo si è già accennato, è la percezione del provvedimento in esame come un “regalo” alle banche (appunto come una norma “salva banche”, secondo uno slogan evergreen), che avrebbe vanificato, ribaltandola, una conquista della clientela, qual era l’abolizione della capitalizzazione avvenuta con la legge di stabilità6. Il rappresentante della

interessi, in www.ilfattoquotidiano.it del 30 giugno 2014. 2 Di parte sembra perciò l’osservazione di De Vincenzo («Attenzione il d.l. 91 del 24/6/14, il cui oggetto è completamente diverso, all’interno è stato reintrodotto l’Anatocismo bancario! [sic]», in www.usurabancaria.com), il quale osserva che «in questo decreto [competitività] d’urgenza avente per oggetto tutt’altro, è stato reintrodotto l’anatocismo!!!», omettendo però di ricordare che è accaduta la stessa cosa con la disposizione che intendeva eliminarlo. Quando lo si elimina il luogo non conta, quando lo si reinserisce invece rileva, tanto che, prosegue De Vincenzo, «facciamo appello in primis, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e poi ai Presidenti delle Camere e Presidente del Consiglio, unitamente a tutte le forze politiche» affinché l’art. 31 sia eliminato. 3 Anatocismo bancario: ma non era finito nel cassetto?, in www.ilmessaggero.it del 1° luglio 2014. 4 Anatocismo bancario: ma non era finito nel cassetto?, cit. 5 Di Foggia, Interessi sugli interessi, lo scaricabarile del regalo alle banche, in www. ilfattoquotidiano.it del 2 luglio 2014, dove è attribuita al presidente della Commissione Bilancio della Camera l’affermazione per cui si tratterebbe di «una polpetta avvelenata della burocrazia», affermazione peraltro ripresa e confermata da Anatocismo, presentati diversi emendamenti. Boccia (Pd): “una beffa”, in www.repubblica.it/economia del 10 luglio 2014. 6 Di regalo alle banche si parla in www.articolotre.com e di “sbalordimento” dei consumatori www.ilsalvagente.it del 2 luglio 2014.

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Banca d’Italia, a latere dell’audizione innanzi alle competenti Commissioni del Senato sulla conversione in legge del d.l. n. 91/2014 del 9 luglio 2014, avrebbe affermato7 che «qualsiasi paese che non abbia una legislazione islamica accetta l’applicazione degli interessi composti, nessuna economia di mercato può funzionare senza questo meccanismo»8, affermazioni che, al di là del tenore letterale riportato e non documentato agli atti del Senato, vogliono soltanto ribadire quanto dal 1999 si va dicendo, cioè che l’anatocismo è prassi in tutti i paesi industrializzati e quindi è forse opportuno che l’Italia non si distacchi da essi, creando uno ius singulare foriero solo di difficoltà di mercato. Così, qualche commentatore ha raccolto, tra chi grida le ragioni di ostilità al provvedimento, anche il sussurro di chi ricorda che la norma sull’anatocismo «prevede il pagamento degli interessi sugli interessi, sia attivi che passivi. In sostanza, non si tratterebbe di una prassi da considerarsi esclusivamente “a vantaggio” degli istituti di credito, che vi sono parimenti sottoposti quando si tratta di spesare, ad esempio, depositi o emissioni obbligazionarie. Il provvedimento potrebbe così subire degli “aggiustamenti” nei dettagli tecnici, ma restare in vigore durante il passaggio in Commissione»9. Lo “scaricabarile” sulla stessa paternità della disposizione10 e la convinzione che si tratti di un “regalo” alle banche, cioè ancora una volta di una vittoria delle lobby corporative sull’interesse generale11, rendono particolarmente complicato già il semplice mantenimento della disposizione nel corso dei lavori di conversione12, tanto che essa è stata boccia-

7 Il condizionale è d’obbligo, perché nel testo depositato dell’audizione e disponibile sul sito www.bancaditalia.it, non v’è alcun cenno al tema dell’anatocismo. 8 Parole riportate in Balestrieri, Anatocismo, l’ora della verità. Assist di Bankitalia a Renzi: “Solo nei Paesi islamici non esiste”, in www.repubblica.it/economia del 9 luglio 2014. 9 Balestrieri, Anatocismo, cit. 10 Secondo Balestrieri, Anatocismo, cit., l’Adusbef avrebbe sottolineato che il governo, non solo ha reintrodotto l’anatocismo, «ma si è anche permesso di giocare allo scaricabarile sulla pelle di utenti, consumatori, piccole e medie imprese e delle famiglie, già strozzate ed asfissiate da tassi di interesse molto elevati e ben superiori alla media Ue». 11 «Ancora una volta, la legge dimostra da quale parte preferisce stare…» chiosa ironico Il governo reintroduce l’anatocismo con decreto legge: sostegno alle banche, in www.laleggepertutti.it del 26 giugno 2014. 12 Informa Ricciardi, Bond e scaglioni per salvare il fotovoltaico. Anatocismo, valanga di richieste di stop, in www.repubblica.it/economia del 14 luglio 2014 che «sono molti gli emendamenti che puntano alla soppressione dell’articolo. Vengono firmati praticamente da tutte le forse politiche». Quello del M5S lo si ritrova in www.beppegrillo.it, 10 luglio 2014.

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ta in Commissione bilancio13 e definitivamente espunta in sede di legge di conversione 11 agosto 2014, 116. Residua solo, come esito della battaglia parlamentare, l’approvazione, nella seduta della Camera del 6 agosto 2014, dell’ordine del giorno n. 9/2568-AR/13 che impegna il Governo «ad adottare le opportune iniziative legislative in materia di calcolo degli interessi sugli interessi, in modo tale da allineare l’Italia alle prassi internazionali, correggere le incertezze operative e i vuoti di disciplina dovuti alla vigente normativa e aumentare la trasparenza dei tassi per i clienti, prevedendo che la produzione degli interessi sugli interessi nelle operazioni in conto corrente o in conto di pagamento (nei limitati casi ammessi dal CICR) non possa avvenire con periodicità inferiore all’anno». A mo’ di suggello di questa schizofrenica dinamica legislativa, penso sia utile riassumere in una tabella le varie formulazioni che nel 2014 ha ricevuto l’art. 120, co. 2, avvertendo, ovviamente, che quella in vigore è riportata nella colonna centrale:

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«La Commissione Bilancio del Senato boccia la reintroduzione dell’anatocismo, il pagamento degli interessi sugli interessi, previsto dal decreto legge sulla competitività: Non risulta scongiurato il rischio di effetti finanziari negativi per le Pa, in relazione a contratti da queste stipulati, derivanti dall’articolo 31, che introduce un nuovo meccanismo di decorrenza degli interessi sugli interessi maturati (cosiddetto “anatocismo”)»: così Dl competitività, la Commissione Bilancio boccia l’anatocismo, in www.repubblica.it/ economia del 16 luglio 2014 . E comunque, quand’anche la disposizione resistesse e la capitalizzazione fosse ripristinata, «con gli strumenti usuali del diritto e della legalità sanciti dalla Costituzione, calpestati dai Governi di turno, che sembrano anche perseguitati da avverse fortune [nell’articolo sono ricordati i provvedimenti “salva banche” approvati dai Governi e bocciati dalla Consulta] quando, per favorire gli esclusivi interessi dei banchieri premiano le stesse banche per aver strozzato e saccheggiato ogni giorno famiglie ed imprese, anche stavolta Adusbef ritiene di avere ottime ragioni giuridiche e morali, per smontare i sofismi giuridici che reintroducono l’anatocismo usurario nei contratti bancari, per stringere ancora di più il cappio al collo delle famiglie e piccole imprese già strangolate ed asfissiate»: così Lannutti, Adusbef: “Con Renzi torna l’anatocismo bancario”, in www. ilcittadinoonline.it, 26 giugno 2014. Incalza www.helpconsumatori.it puntualizzando che l’Adusbef, «che usa parole molto critiche nei confronti del provvedimento – “come tutti i governi che lo hanno preceduto dal 1999, il Governo di Matteo Renzi non poteva sottrarsi al ruolo di fedele cameriere dei banchieri” – ha già annunciato che impugnerà il decreto per illegittimità costituzionale».

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Art. 120 T.U.B.

Art. 1, comma 629, legge n. 147/2013 (legge di stabilità 2014)

Art. 31, d.l. 24 giugno 2014, n. 91 (espunto dalla legge di conversione n. 116/2014)

2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori.

629. All’articolo 120 del testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993. n. 385, il comma 2 è sostituito dal seguente: “2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che: a) nelle operazioni in conto corrente sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori; b) gli interessi periodicamente capitalizzati non possono produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale.”

1. Il comma 2 dell’art. 120 del decreto legislativo 1°settembre 1993, n. 385, è sostituito dal seguente: “2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione, con periodicità non inferiore a un anno, di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni disciplinate ai sensi del presente Titolo. Nei contratti regolati in conto corrente o in conto di pagamento è assicurata, nei confronti della clientela, la stessa periodicità nell’addebito e nell’accredito degli interessi, che sono conteggiati il 31 dicembre di ciascun anno e, comunque, al termine del rapporto per cui sono dovuti interessi; per i contratti conclusi nel corso dell’anno il conteggio degli interessi è comunque effettuato il 31 dicembre.” 2. Fino all’entrata in vigore della delibera del CICR prevista dal comma 2 dell’art. 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, continua ad applicarsi la delibera del CICR del 9 febbraio 2000, recante “Modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria (art. 120, comma 2 del Testo Unico bancario, come modificato dall’art. 25 del d.lgs. 342/99)”, fermo restando quanto stabilito dal comma 3 del presente articolo. 3. La periodicità di cui al comma 2 dell’art. 120 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, si applica comunque ai contratti conclusi dopo che sono decorsi due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge (rectius d.l.) e quelli conclusi nei due mesi successivi sono adeguati entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, con l’introduzione di clausole conformi alla predetta periodicità, ai sensi dell’articolo 118 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385.

3. Ora, avendo riguardo alla formulazione della legge di stabilità, la ratio di quest’ultima sembra essere quella di eliminare dall’ordinamento l’anatocismo e ciò lo si dedurrebbe proprio dalla modifica dell’incipit del nuovo co. 2, là dove si incarica il CICR di stabilire modalità e criteri non più per la «produzione di interessi sugli interessi», bensì per la «produzione di interessi»: al di là della difficoltà di immaginare cosa dirà il CICR, questa pare essere la manifestazione più evidente della volontà

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legislativa di abrogare. Questo elemento costituisce verosimilmente il fondamento dell’affermazione, presente nel dossier della Camera dei Deputati14, nel quale, descrivendo i contenuti della legge di stabilità, si dice, a proposito del comma 629, che «la nuova formulazione mira a introdurre il divieto di anatocismo nell’ordinamento bancario». Ho utilizzato un linguaggio cauto nell’affermare quanto ora detto perché qualcosa non quadra con la volontà di eliminare l’anatocismo. In primo luogo, è davvero singolare che il legislatore affidi al CICR il compito di regolare un istituto che non c’è più: al massimo, avrebbe potuto incaricarlo di stabilire le modalità di eliminazione dell’istituto anatocistico, stabilendo tempi e modalità. Ma così non è stato, perché la “delega” ricalca quella del testo previgente. E allora nella presunta nuova logica, non ha senso lasciare il disposto della lett. a), che però viene in ogni caso mantenuto; se l’intendimento fosse stato quello che appare così scontato per certa dottrina, non sarebbe stata soluzione più efficace semplicemente eliminare il co. 2 dell’art. 120 t.u.b.? Come si concilia l’incipit del co. 2 con la successiva lett. b) che parla di “interessi [ancora] periodicamente capitalizzati”, quasi che la capitalizzazione, almeno per una volta possa costituire una pratica legittima? È vero che si è cercato di fornirne interpretazioni rassicuranti (non “capitalizzati” ma “annotati” o “registrati” voleva intendere il legislatore), che non appaiono risolutive sia perché il tenore letterale delle disposizioni deve pure valere qualcosa, sia perché non si possono risolvere le questioni dando per scontato che il legislatore sbagli o confonda termini giuridici (“capitalizzato” invece di “contabilizzato”; inutilità della lett. a, che però viene mantenuta). C’è poi il prosieguo della storia, e cioè l’ulteriore tentativo di modifica della disposizione in esame, il suo insuccesso e il conseguente ordine del giorno che impegna il Governo a: a) «correggere le incertezze operative e i vuoti della disciplina dovuti alla vigente normativa»: viene riconosciuto quanto meno che il presunto divieto di anatocismo per come si configura nel suo complesso (cioè nella totalità del co. 2 e non nella formulazione del solo incipit) è fonte di incertezze e quindi non è esso stesso sicuro, proprio per le questioni interpretative che lascia aperte (in ciò dovrebbero consistere «i vuoti della disciplina»); b) prevedere la produzione degli interessi sugli interessi e, nelle ope-

14 Camera dei Deputati, XVII Legislatura, Documentazione per l’esame di progetti di legge, A.C. 1865-A, Dossier n. 95/2 del 19/12/2013. Meno puntuale il commento posto alla seduta del 31 gennaio 2014, che si limita a una parafrasi della norma approvata.

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razioni in conto corrente, con una specifica periodicità: l’ordine del giorno approvato impegna il Governo a un indirizzo che è opposto a quello che si vorrebbe vedere nel disposto del vigente art. 120 t.u.b. che dall’ordine del giorno medesimo riceve quanto meno una patente valutazione di inadeguatezza, di incompiutezza, di scarsa chiarezza. Insomma, l’intrinseca opacità del complesso dell’art. 120, co. 2, t.u.b., l’evoluzione del percorso parlamentare con l’o.d.g. vincolante per il Governo e votato dalla Camera, l’opinabilità delle argomentazioni avanzate per sostenere la tesi dell’immediato e radicale vigore del divieto sono motivi sufficienti a revocare in dubbio la certezza granitica dell’esistenza stessa del divieto di anatocismo. La soluzione di continuità è data proprio dal decreto competitività, che per due mesi ha cancellato l’attualmente vigente art. 120, co. 2, t.u.b. con una norma di contenuto opposto e, a seguire, dal legislatore che ha impegnato il Governo a perseguire una soluzione che è, ancora una volta, di contenuto opposto al testo vigente del ripetuto art. 120. 4. Diamo comunque per scontato che il vigente disposto dell’art. 120, co. 2, t.u.b. manifesti la volontà di eliminare «l’odioso fenomeno dell’anatocismo bancario»15, la cui abolizione è stata alla base dei molti segnali di soddisfazione che hanno seguito l’apparizione della disposizione in esame, anche se questi “festeggiamenti” non sono stati disgiunti da perplessità applicative16. E andiamo dunque alla lett. b) del co. 2 dell’art. 120 t.u.b. che sembra, come detto, mantenere in vita, sia pure per una sola volta, la capitalizzazione, dal momento che testualmente si riferisce a interessi «capitalizzati», cioè che si sono trasformati in capitale. Sembrerebbe infatti che nel rapporto di conto si sia verificata una capitalizzazione, ma che, successivamente a quella, vale a dire «nelle successive operazioni di capitalizzazione» (quelle dei trimestri successivi, sembra doversi intendere), non può più ripetersi. Ammesso che

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Anatocismo vittoria per AssoTutela, in www.ventonuovo.eu. Negli stessi termini Anatocismo bancario, finalmente non si può più generare, in www.consumerismo.it. 16 Di «linguaggio involuto» parla Interessi maturati senza frutti. Azzerato l’anatocismo bancario, in www.notiziariofinanziario.com; «la penna del legislatore, come sovente accade, non è stata particolarmente pulita», scrive Mazzola, La nuova disciplina dell’anatocismo bancario nella legge di stabilità: prime note, in www.dirittobancario.it; di «incertezza del linguaggio» si parla in Banca, abolito l’anatocismo: niente più interessi su interessi, in www.laleggepertutti.it.

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sia questa l’interpretazione di un così criptico passaggio normativo17, ne sfugge il senso (perché una volta sola e non mai?), mentre ne è di immediata comprensione la complessità contabile18. Occorre infatti affiancare al conto capitale un conto interessi, al fine di tenere separati nel tempo i due saldi e ciò, ovviamente, sia per i rapporti a credito sia per quelli a debito per la banca. Una conseguenza certa è quindi la profonda modifica del sistema contabile e di software delle banche, con costi che non è difficile prevedere su quali soggetti vengano a scaricarsi. Si immagini un deposito: chi impedisce al depositante, all’indomani della contabilizzazione separata, di trasferire gli interessi sul conto capitale, in modo che essi, di fatto, tornino a divenire capitale? (a meno di non ritenere vietato perché illegittimo un simile

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Sembrerebbe muoversi sulla stessa lunghezza d’onda esposta nel testo, ma forse con un rigore ancora maggiore (neppure la prima capitalizzazione dovrebbe essere ammessa?) chi osserva: «secondo il dato letterale, nel momento in cui l’interesse viene capitalizzato (secondo quanto si legge nella prima parte del periodo), quelle che originariamente sono due poste distinte – interesse da un lato e capitale dall’altro – diventano un’unica posta, ossia capitale. All’esito di tale fusione la quota parte di interesse trasformata in capitale non deve produrre interessi. La quota parte di capitale (anch’essa fusa con gli interessi) è invece produttiva di interessi. È evidente che, nella pratica, il contenuto della norma non è attuabile, è come dire che dopo avere fatto il pane si possa ancora distinguere l’acqua dalla farina, alla fine si avrà solo un gran pasticcio!»: così Leo, Annunciato emendamento sullo stop all’anatocismo degli interessi bancari; perplessità sulla formulazione della modifica all’art. 120 t.u.b., in www.kipling90.com. Negli stessi termini si esprimono Novità in tema di anatocismo: modificato l’art. 120 t.u.b., in www.studiodipietro.eu. e Corigliano, Gli interessi periodicamente capitalizzati non possono più produrre ulteriori interessi, in www.expartecreditoris.it. «Risulta difficile (…) comprendere come una volta che gli interessi siano stati capitalizzati, il calcolo della sorte capitale possa prescindere da questi ultimi, sterilizzandoli in modo da renderli infruttuosi»: così Mazzola, La nuova disciplina, cit. «Si crea, in buona sostanza, un “monte interessi” da liquidazione periodica di interessi che non si capitalizza e che, dunque, non va assolutamente mescolato con il capitale principale, il quale ha la sua sola origine nel prestito della banca legittimamente produttivo di frutti, liquidabili periodicamente, una sola volta. Ovviamente il saldo del conto viene dato dalla somma del capitale con il monte interessi»: Legge di stabilità 2014: tutte le novità in fatto di anatocismo, in http://sistemapartners.wordpress.com. Nello stesso senso Tanza, Anatocismo bancario: le novità introdotte dalla Legge di Stabilità 2014, in www.altalex.com. 18 «Va tuttavia rilevato che l’effettiva attuazione della norma pone delle difficoltà per gli operatori, i quali dovranno tenere distinti due fattori – interesse da un lato e capitale dall’altro – che prima diventano un’unica posta (il capitale), per poi poter essere separati e costituire due autonome basi per il calcolo degli interessi per il periodo successivo»: Prencipe, Nuova formulazione dell’art. 120 t.u.b.: interessi calcolati sulla sola quota capitale, in http://iusletter.com.

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passaggio di somme da un conto all’altro). E per contro: in un’operazione di fido in conto corrente, avendo due saldi da farsi rimborsare, che sorte darà la banca alla rimessa che perviene sul conto? L’imputerà prima al capitale e poi agli interessi, come consente l’art. 1194 c.c.? e se la rimessa è superiore agli interessi addebitati, darà due imputazioni contabili a un’unica rimessa? Un aspetto che non si ritiene debba revocarsi in dubbio ma che vale la pena sottolineare è che quanto si sta fin qui esponendo ha riguardo esclusivamente agli interessi, debitori o creditori, calcolati sul conto corrente. Ciò vuol dire che l’addebito delle competenze, delle commissioni e quant’altro, finora causalmente, per comodità e in omaggio a nessuna prescrizione vincolante, coincidente con il momento di liquidazione e registrazione degli interessi, seguirà, potrà seguire, dopo l’eliminazione dell’anatocismo, una periodicità concordata fra le parti ma ovviamente in sé autonoma. 5. Queste osservazioni, in primo luogo, lasciano aperto il problema dell’applicabilità del divieto anche ai mutui. A dire il vero, almeno secondo una tesi, non vi sarebbe nulla da capitalizzare nel mutuo, a meno di non estendere tecnicamente il termine alle ipotesi di rate scadute e non pagate sulle quali si formano interessi che attengono però non alle rate (composte di capitale e interessi) bensì al debito globale che incombe sul mutuatario e che è un mero debito pecuniario, ormai distaccato dall’obbligazione che l’ha generato. Ciò del resto è comprovato anche dall’art. 3 della delibera CICR del 2000, laddove dispone che, in caso di inadempimento all’obbligo da pagare le rate alle scadenze temporali predefinite, sono dovuti, se contrattualmente convenuto, gli interessi a decorrere dalla scadenza sull’importo «complessivamente dovuto» (e, dunque, anche sulla rata o parte di rata che comprende interessi corrispettivi); su tali interessi invece non è consentita la capitalizzazione periodica19. Occorre però ricordare che con l’avvento del testo unico bancario è stata abrogata e non riproposta la disposizione – contenuta nel r.d. n. 646/1905 (art. 38 t.u. sul credito fondiario) ed analogamente ripresa all’art. 14, co. 2, del d.P.R. n. 7/1976 – per cui continuavano a maturare

19 «È nulla, in quanto viola il divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c., la clausola di un contratto di mutuo che preveda la capitalizzazione degli interessi di mora»: così Trib. Milano, 17 febbraio 2007, in Rep. Foro it., 2009, voce Mutuo, n. 26.

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interessi sulle rate insolute20, disposizione che fondava positivamente la valutazione del debito di rata come unicum21. In relazione a questa evoluzione legislativa, si perviene alla decisione, un po’ apodittica per la verità quanto a motivazione, per cui «il divieto di anatocismo si applica anche ai contratti di mutuo, a nulla rilevando che, in base al piano di ammortamento, le singole rate di rimborso del prestito comprendano capitale e interessi»22. In questo rinnovato contesto, al di là della delibera del CICR e dell’utilizzo dei termini «interessi periodicamente capitalizzati», non è escluso che la nuova disposizione in commento possa trovare applicazione anche per i mutui, con la conseguenza che gli interessi di mora che maturano sulle rate scadute, possano essere applicati solo alla quota capitale delle singole rate e, come ora, non sono suscettibili di alcuna forma di capitalizzazione. Non è escluso, ma non è neppure sicuro, atteso che il legislatore parla di interessi «capitalizzati», formulazione che tecnicamente può accordarsi esclusivamente con un rapporto di conto corrente, dove solo gli interessi applicati si capitalizzano. Nell’imminenza dell’uscita della disposizione, si era diffuso l’orientamento di una immediata applicabilità del divieto, dal momento che essa,

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Proprio questo principio positivo era stato richiamato per giustificare l’applicazione di interessi sull’intero e complessivo debito rappresentato dalle rate scadute e non pagate: «In caso di ritardato pagamento di una rata di mutuo, gli interessi moratori vanno calcolati sull’intera rata, inclusa la parte di essa che costituisce interesse corrispettivo, senza che con ciò possa ritenersi violato il divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c., attesa la natura fondiaria del credito e il disposto dell’art. 38 r.d. n. 646/1905»: Trib. Napoli, 8 giugno 2001, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, II, 90. 21 Tardivo, Il credito fondiario nella nuova legge bancaria5, Milano, 2003, pp. 220221. 22 Cass., 11 gennaio 2013, n. 603, in Foro it., 2014, I, 128. Afferma in motivazione: «la corte d’appello esclude, nella specie, l’esistenza di anatocismo: non vi sarebbero illegittime forme di capitalizzazione degli interessi, trattandosi di contratto di finanziamento, nel quale la restituzione di singole rate di mutuo costituirebbe l’adempimento di un’unica obbligazione, determinata fin dall’inizio sia nel capitale che negli interessi, secondo il piano di ammortamento contrattualmente stabilito. L’argomentazione non ha pregio: a nulla rileva l’eventuale “ammortamento” comprendente capitale ed interessi. In qualsiasi contratto di mutuo o finanziamento, è sempre possibile distinguere capitale ed interessi corrispettivi. Il divieto di produzione di interessi su interessi è fissato dall’art. 1283 c.c., ai sensi del quale è ammesso soltanto dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla scadenza degli interessi stessi (sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi) salvo usi contrari (ma dovrà trattarsi di usi normativi, e non negoziali o interpretativi)». Come si vede, alcun riferimento alla delibera CICR sopra richiamata.

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trattandosi di norma imperativa, «prevale – sia perché posteriore, sia perché contenuta in una fonte gerarchicamente sovraordinata – su quella attualmente dettata dalla deliberazione del C.I.C.R. in data 9 febbraio 2000. (…) Tutte queste disposizioni devono ritenersi tacitamente abrogate a decorrere dal 1° gennaio 2014, anche prima quindi che venga emanata la nuova deliberazione del C.I.C.R. cui fa riferimento il novellato art. 120, comma 2, t.u.b. (deliberazione il cui rilievo si esaurisce nel profilo della “trasparenza”, cui è intitolato l’intero titolo VI del testo unico bancario, in cui è inserito l’art. 120 in commento; ma la cui mancata emanazione non può in ogni caso pregiudicare l’applicazione di una norma imperativa come quella in esame). (…) I contratti di finanziamento bancario devono essere quindi tempestivamente adeguati, a partire dal 1° gennaio 2014, affinché risulti chiaro che in nessun caso gli interessi dovuti in base alle previsioni contrattuali o per legge possono produrre ulteriori interessi (con conseguente prevalenza sulle diverse previsioni eventualmente contenute nei capitolati e condizioni generali di contratto)»23. 6. Il limite di questa tesi – a parte la necessità di adeguare «tempestivamente» i contratti a far data dal 1° gennaio 2014, cosa manifestamente impossibile, visti i tempi disponibili – è, come accennato, quello di estrapolare l’incipit del comma 2 dell’art. 120 t.u.b. dal contesto dell’intero comma, far finta che il resto della disposizioni non esista e presumere che il CICR in ogni caso nulla possa dire in ordine al divieto di anatocismo. In realtà, volendosi rifare a esperienze passate prima di passare a considerazioni più sistematiche, non v’era dubbio che la versione iniziale del co. 2 dell’art. 120 t.u.b. ammettesse l’anatocismo: ma si attese che il Comitato indicasse a quali operazioni, con quali modalità e con quali presupposti ciò fosse consentito. Non credo che il semplice disposto della norma primaria sarebbe stato sufficiente a fondare quel sistema di anatocismo che ha poi governato l’istituto. Né mi pare che abbia pregio l’osservazione che in contrario taluno fa affermando che nel 2000 si poteva anche attendere il CICR perché si sarebbe trattato di una disciplina peggiorativa degli interessi del cliente (a cui favore volgeva quindi il trascorrere del tempo dell’attesa), mentre ora, trattandosi della eliminazione dell’anatocismo e quindi di una posizione favorevole al cliente, non si può ritenere legittimo che una norma regolamentare possa protrarne

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Questo il pensiero del notaio Petrelli, Rassegna delle recenti novità normative di interesse notarile, secondo semestre 2013, pp. 32-33, nel sito www.gaetanopetrelli.it.

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nel tempo l’entrata in vigore, a danno del correntista nel cui interesse la norma di legge è stata emanata. Insomma il CICR va atteso o pretermesso in funzione della circostanza che il suo intervento possa riuscire dannoso o meno nei riguardi di una parte dei destinatari dell’intervento: un’argomentazione francamente inaccettabile, perché delle due l’una: o l’intervento del CICR è necessario perché previsto dalla legge e quindi ex se indispensabile al completamento e all’efficacia del disposto normativo pur entrato in vigore, oppure non lo è, a prescindere dalla categoria di soggetti a vantaggio della quale si presume che l’intervento medesimo si diriga. E torna quindi l’argomentazione svolta già più sopra e cioè che, a parte l’inaccettabile differenza a seconda che il “beneficiato” dal ritardo del CICR sia la banca o il cliente, non vi è alcun motivo per distaccarsi, ora, da quanto osservato dall’intero sistema nel 2000, perché la struttura e l’andamento precettivo delle due disposizioni sono assolutamente identiche, senza che possa intravedersi una differenza significativa. La tesi contraria all’inutilità della delibera del Comitato è stata fatta propria da chi ha ritenuto che «la nuova disposizione presenti un contenuto imperativo non sufficientemente delineato dal legislatore primario, con la conseguenza di riconoscere alla delibera del CICR un ruolo non secondario nel completamento del precetto normativo. In sostanza il legislatore, utilizzando uno dei modelli di delegificazione previsti dall’art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, avrebbe affidato al CICR – come si evince dalla norma – il compito di dettare regole che completano il precetto legislativo contenuto nella legge delegante. Si sarebbe in presenza, in altri termini, di quella “legislazione integrata”, in cui la legge affida a fonti diverse il compito di completare l’innovazione da essa prodotta, rinviando a una normativa in assenza della quale la legge è, oltre che inapplicabile, incompleta, quanto meno nel senso che gli istituti in essa disciplinati mancano di elementi essenziali per la definizione di alcune delle loro caratteristiche più rilevanti»24. Del resto, quella ora tracciata è la via “integrativa” del t.u.b. (e di tante altre norme primarie) che ha caratterizzato la redazione del testo unico bancario, cioè quella di “delegificare” (o forse, meglio, di “amministrativizzare”) le disposizioni facendo ricorso all’opera integratrice delle Autorità di vigilanza (CICR, Ministro dell’economia, Banca d’Italia), che completa la disposizione primaria, con la conseguenza, logica prima che

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Consiglio Nazionale del Notariato, Quesito n. 80-2014/C, pp. 4-5.


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giuridica, che fin quando il completamente non si è verificato, quella disposizione, ancorché primaria e ancorché entrata in vigore, non può trovare applicazione. È stato un principio fondato sulle ragioni ora espresse e pacificamente accettato almeno, per rimanere nell’ambito bancario, da quando esiste il t.u.b., sul quale non si è mai registrata opinione contraria; tutto ciò fino a quando il principio stesso non si è trovato a fare i conti con l’anatocismo, materia evidentemente in grado di ribaltare interpretazioni e prassi consolidate. Il tutto però senza argomenti validi. Nello stesso senso sembra del resto essersi orientata la Banca d’Italia nel rispondere in data 17 ottobre 2014 a un esposto della clientela nel quale, a chi lamentava l’applicazione in conto corrente di interessi usurari e anatocistici, ha osservato – secondo quanto testualmente riporta Marcelli25 – che «la verifica dell’usurarietà dei tassi applicati e le conseguenti valutazioni di carattere civile e/o penale [sono] rimesse esclusivamente al vaglio dell’Autorità giudiziaria», confermando, con riguardo all’applicazione degli interessi anatocistici, «che l’art. 120 del t.u.b. ammette la produzione di interessi su interessi a condizione che le banche rispettino i criteri di trasparenza e correttezza fissati nella delibera CICR del 9 febbraio 2000 e che sia prevista la stessa periodicità nella capitalizzazione degli interessi debitori e creditori. Pertanto, a partire dall’entrata in vigore della citata delibera, è legittima la produzione di interessi su interessi qualora, fermi restando i predetti organi di trasparenza e pari periodicità, la relativa clausola sia espressamente pattuita nel contratto di conto corrente e specificatamente approvata per iscritto dal cliente. Peraltro, poiché la legge 27 dicembre 2013, n. 147 ha riformulato parzialmente il predetto art. 120 t.u.b. – come da Lei precisato – le modalità e i criteri di attuazione del nuovo quadro normativo sono attualmente in via di definizione». A riprova della difficoltà oggettiva di considerare immediatamente efficace il divieto di anatocismo prima dell’emanazione della delibera del CICR, si pensi al complesso disposto del comma in questione. Mi limito a porre alcune domande, la cui risposta spetta al CICR, almeno in prima battuta e salvi ulteriori interventi di legislazione primaria: a) il divieto da quando si applica (dall’entrata in vigore della norma primaria o da quella della delibera del CICR): la delibera del 2000 lo precisò; b) il divieto si applica a tutte le operazioni bancarie o solo alle aper-

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Marcelli, L’anatocismo e le vicissitudini della delibera CICR 9/2/00, in disponibile sul sito www.assoctu.it, p. 31.

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ture di credito per le quali soltanto ha senso parlare di «interessi periodicamente capitalizzati»; c) per i mutui trova applicazione il divieto e, se sì, con quali modalità; d) per i rapporti di deposito gli interessi devono del pari essere mantenuti distinti dal capitale e corrisposti a fine contratto; e) quest’ultima prassi come si sposa con le obbligazioni, i titoli di Stato e tutti gli altri strumenti finanziari che riconoscono al sottoscrittore interessi capitalizzati; f) d’accordo che gli interessi sono semplici e quindi si “pagano” solo al termine del rapporto, ma deve pure essere stabilita una periodizzazione entro la quale procedere ai pagamenti: è evidente che gli interessi debbono poter essere pagati e riscossi prima della chiusura del conto, secondo una periodicità che va precisata; g) se non c’è capitalizzazione (rectius: per quelle operazioni per le quali non c’è capitalizzazione) la lett. a) del co. 2 dell’art. 120 t.u.b. deve ritenersi abrogata; h) una volta individuato l’ambito di applicazione della lett. b), come la si deve praticamente attuare; i) ammesso che siano da porre in essere due conti (uno per il capitale e uno per gli interessi) sono consentiti, da parte del cliente, ordini di giro conto del saldo del secondo sul primo, almeno laddove si tratti di conti correnti non assistiti da apertura di credito. Senza contare poi che la non chiara situazione venutasi a creare a livello legislativo con la mancata conversione della norma inserita nel d.l. e il successivo ordine del giorno che impegna il Governo a «correggere le incertezze operative e i vuoti della disciplina dovuti alla vigente normativa» e a seguire una soluzione normativa contraria a quella recata dalla norma primaria vigente, potrebbero anche condurre a esiti ancora più distanti dalla disciplina in vigore. Mi pare che il rilievo delle domande irrisolte (qui enunciate in un elenco tutt’altro che esaustivo) renda un po’ semplicistica la soluzione avanzata da Marcelli, il quale semplifica il tutto affermando che, «a partire dal 1 gennaio ‘14, gli interessi addebitati e accreditati dovranno essere tenuti separati e distinti dal capitale per evitare ogni forma di produzione di interessi su interessi e relativa capitalizzazione»26. Fa eco a questa impostazione un obiter dictum di una sentenza del Tribunale

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Marcelli, L’anatocismo, cit., p. 29.


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di Genova27, assai poco decisiva a mio avviso per l’assenza di qualsiasi motivazione. In un’ordinanza di scioglimento di una riserva, la Corte ritiene di poter rigettare l’eccezione di inammissibilità dell’appello contro una decisione di prime cure in tema di anatocismo e usura, affermando tra l’altro che «attualmente l’anatocismo bancario risulterebbe del tutto eliminato dalla L. 27/12/2013, n. 147, che ha ulteriormente modificato il testo dell’art. 120 t.u.b. nel senso di consentire solo la contabilizzazione e non più la capitalizzazione degli interessi». Mi pare una notizia piuttosto che un’argomentazione in qualunque senso si voglia intendere. 7. La pur opinabile tesi dottrinaria ora riportata è utile tuttavia a porre in luce una questione significativa e accennata in apertura: di fronte al nuovo testo dell’art 120, co. 2, t.u.b., entrato in vigore ma non ancora efficace, quale atteggiamento doveva tenere il sistema bancario? Ovviamente la dottrina sopra citata è per la separazione degli interessi dal capitale sin dal 1° gennaio 2014, attesa l’immediata imperatività della norma, nel presupposto che la delibera del CICR del 2000 sia stata travolta dalla modifica dell’art. 120 sul quale essa si fondava: «venendo meno dal 1/1/14 il precedente testo dell’art. 120 t.u.b. che consentiva al CICR la regolamentazione della produzione di interessi su interessi, in attesa della nuova delibera, permane comunque il divieto dell’art. 1283 c.c. (…) A partire dal 1 gennaio ‘14, gli interessi addebitati e accreditati dovevano essere tenuti separati e distinti dal capitale per evitare ogni forma di produzione di interessi su interessi e relativa capitalizzazione. Il ritardo della nuova Delibera CICR prevista dal novellato 2° comma dell’art. 120 t.u.b. ha offerto il pretesto per comportamenti, diffusi a tutto il sistema bancario, che perseverano nell’applicazione dell’anatocismo previsto nella Delibera CICR del 9/2/00 ormai priva di efficacia»28. Senonché, ancora una volta, l’affermazione riportata rappresenta la conclusione affrettata tratta da un presupposto opinabile per non dire errato e cioè che il nuovo art. 120, co. 2, t.u.b. sia non solo in vigore ma anche efficace. Infatti, se questo presupposto fosse vero, il revirement legislativo avrebbe travolto la delibera del CICR che si fondava sulla norma previgente, ma poiché l’art. 120, co. 2, t.u.b. ora vigente non può considerarsi efficace per mancanza dell’obbligatoria delibera del CICR, rimane efficace il testo precedente e, con esso, la delibera del febbraio

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App. Genova, 17 marzo 2014, in www.dirittobancario.it. Marcelli, L’anatocismo, cit., ibidem.

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2000, sicché appare lecito il comportamento del sistema che ha seguitato a comportarsi secondo il precedente regime, in attesa che divenga efficace il nuovo testo della norma di legge e, allora sì, venga meno la menzionata delibera del febbraio 2000, sostituita dalla nuova (che potrebbe anche essere una profonda modifica della precedente) che stabilirà come le banche debbono agire in questa materia. Cerchiamo del resto di ricostruire la scansione temporale della disciplina succedutasi dell’anno 2014 in tema di anatocismo. Il 1° gennaio entra in vigore il nuovo testo dell’art. 120, co. 2, t.u.b. che, da un lato, trova applicazione solo per l’anno in corso (e non per la chiusura del 31 dicembre 2013) e, dall’altro, secondo il modo con il quale la norma primaria era stata applicata, ha bisogno della delibera del CICR; a giugno, sia pure per circa sessanta giorni, la disposizione di legge viene sostituita con una di segno opposto, cioè che restaura l’anatocismo, sia pure con cadenza annuale e ripete l’esigenza di una delibera del CICR; a fine agosto le banche sono informate che la disposizione non è stata oggetto di conversione in legge, ma che il Parlamento ha votato un ordine del giorno che impone al Governo di introdurre l’anatocismo. Mi pare ragionevole, in una tempistica così inaffidabile degli interventi normativi, mantenere le cose come stanno e vedere che fine farà la versione dell’art. 120, co. 2, t.u.b., entrata in vigore il 1° gennaio 2014, ma priva della necessaria delibera del Comitato. Mi parrebbe invece sconsiderato e, al di là degli evidenti interessi dei consumatori, difficilmente giustificabile da parte del consiglio di amministrazione di una banca rispetto ai propri soci – tant’ che non vi è stata una banca che abbia agito così – approntare le non piccole spese necessarie per intervenire sui programmi informatici e “sdoppiare” tutti i conti, cessare la capitalizzazione degli interessi riconosciuti sui depositi e sui conti correnti, il tutto senza sapere se questo sarebbe stato sufficiente alla luce dell’attesa delibera del CICR. E il CICR, l’abbiamo visto, sia pure con esemplificazione per difetto, non avrebbe dovuto decidere su cose marginali. Questo sì che sarebbe apparso un comportamento assai rischioso e foriero di responsabilità negative da parte delle banche. A ciò si aggiunga il fatto che, pur non essendo un obbligo, molte banche hanno nel corso dell’anno reso edotta la clientela della situazione, informandola della mancata emanazione della delibera del CICR e della loro intenzione di seguirne i contenuti non appena essa fosse stata resa nota. Non mi pare quindi questa la situazione alla quale possa attagliarsi quanto scritto da Marcelli quando afferma che «non è la prima volta che l’operatore bancario, cogliendo opportunisticamente improprietà e perplessità insite nel testo letterale, disattende la norma di legge sulla

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base di un calcolo di convenienza economica. In una stretta visione aziendalistica, la mera valutazione dei costi/benefici induce a sospingere i rischi legali e reputazionali sino a quando i riflessi economici delle vertenze giudiziarie e dei danni di immagine non sopravanzano i benefici economici che gli intermediari traggono dalle aggressive strategie di comportamento»29. Fra l’altro, mi paiono da stigmatizzare quelle affermazioni più o meno chiaramente poste in evidenza ma piuttosto lasciate passare come se fossero una verità sulla quale non vale la pena discutere, secondo le quali una norma primaria come l’art. 120, co. 2, t.u.b. non potrebbe vedersi completata o perfezionata da una disposizione emanata ai sensi della trasparenza, materia subordinata rispetto alla imperatività della predetta norma primaria. È appena il caso di osservare, da un lato, che l’art. 120 t.u.b. è norma di trasparenza (inserita nel titolo VI del t.u.b.) e, dall’altro, che la trasparenza è norma imperativa, tanto che essa (insieme ad altre materie quali la disciplina antiriciclaggio) è sottratta al principio dell’home country control. Quindi la disposizione primaria e quelle che la corredano, sia pure nel rispetto della gerarchia delle fonti, costituiscono entità omogenee sotto il profilo della tipologia legislativa, trattandosi in ogni caso di disposizioni di carattere imperativo. Non vi è quindi alcuna preclusione a che il co. 2 dell’art. 120 t.u.b. riceva contenuto e precisazioni ulteriori dalle disposizioni di trasparenza emanate dalle autorità di vigilanza, CICR in testa. 8. Rigettata la tesi che vuol attribuire valenza giuridica alla circostanza che l’intervento sia o meno favorevole a certe categorie di soggetti, occorre farsi carico del rischio di un ritardo da parte dell’Autorità preposta all’integrazione della norma primaria, ritardo che allontanerebbe nel tempo l’efficacia della norma. Posso anche immaginare che si tratti di un timore ragionevole perché l’ordinamento non conosce un meccanismo per “attivare coattivamente” o “velocizzare” l’attività del Comitato. È però una situazione – ahimè non nuova in un meccanismo di produzione normativa talora carente – che non può essere risolta prendendo scorciatoie di dubbia validità o decidendo di poter fare a meno di ciò che non arriva tempestivamente, perseguendo comportamenti di dubbia costituzionalità (non si capisce come giustificare la circostanza per cui qui dovrebbe valere una regola

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Marcelli, L’anatocismo, cit., p. 30.

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opposta a quella seguita in sede di applicazione originaria del meccanismo previsto dall’art. 120, co. 2, t.u.b.). Non giova rovesciare le regole per far fronte a una scarsa tempestività dell’organismo amministrativopolitico che deve assumere le proprie deliberazioni. Un ultimo argomento potrebbe essere richiamato a sostegno della tesi sostenuta dalla Relazione, vale a dire quello di origine comunitaria, secondo il quale le direttive di cui sia spirato invano il termine di recepimento possono essere invocate direttamente dai cittadini dello Stato inadempiente per quelle norme self executing, rispetto alle quali cioè il legislatore nazionale non ha altre alternative che ripeterle pedissequamente30. Senonché, a consentire una siffatta giustificazione della tesi criticata ostano un paio si elementi non secondari: il primo consistente nel fatto che qui il legislatore non ha posto un limite temporale per l’intervento del CICR, sicché è per definizione incerto e indefinibile il momento nel quale il Comitato può dirsi inadempiente a quanto gli è stato richiesto. In secondo luogo, la disposizione non è chiara e precisa né espressa in termini non equivoci, come la giurisprudenza della Corte di giustizia pretende: e del resto non potrebbe essere diversamente, dopo le riflessioni che abbiamo illustrato in ordine alla norma in esame che, lo ripeto, si limita a imporre al CICR un certo compito, dalla cui esecuzione deriverà una norma complessiva ed efficace, a completamento della disposizione primaria, in sé sola non efficace. Neanche quindi una giustificazione in chiave comunitaria serve a dare sostegno alla tesi qui criticata. 9. Che dire a conclusione di questo tentativo di analisi? La prima cosa è che il problema nasce anzitutto dalla oscurità della vigente versione del co. 2 dell’art. 120 t.u.b. e poi dalla mancanza della delibera del CICR. Ma è verosimile che la mancata delibera derivi dalla difficoltà di scrivere la disposizione attuativa di una norma primaria oscura, sulla quale pende un’o.d.g. della Camera che impegna il Governo a muoversi in una direzione opposta a quella seguita dalla medesima norma primaria. Insomma, un’altra situazione di ordinaria follia legislativa dalla quale, a me sembra, deriva un’unica prospettiva verosimile: il sorgere di un

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Da ultimo cfr. Lorenzon, Teoria degli effetti diretti e applicazione del diritto, 2009, in eprints.unife.it/152/1/Tesi_segreteria.pdf; Petteruti, La prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno e l’efficacia diretta delle norme comunitarie sulla tassazione dei prodotti energetici, in Dir. pubbl. comparato ed europeo, 2008, p. 2003; App. Ancona, 7 febbraio 2011, in Riv. pen., 2011, p. 425.

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nuovo contenzioso con la clientela (che chiede l’immediata abolizione della capitalizzazione), di cui non si sentiva affatto il bisogno. A meno di interventi legislativi che, in questi tempi parlamentari, non sembrano essere alle viste.

Elementi di costo nei rapporti bancari: l’estinzione anticipata dei finanziamenti Giuseppe Carriero 1. Le tutele assicurate dall’Arbitro Bancario Finanziario. Molto in breve: istituito dalla legge sulla tutela del risparmio (art. 29 l. 28 dicembre 2005, n. 262 che ha introdotto nel t.u.b., l’art. 128-bis, oggetto di diverse successive modificazioni) l’Arbitro Bancario Finanziario ha iniziato a operare agli inizi del 2010. È strutturato (in base alla disciplina sub primaria che ne regola il procedimento, emanata dal comitato del credito con la deliberazione n. 275 del 2008 e dalla Banca d’Italia con il regolamento del giugno 2009 e successive modificazioni e integrazioni) in tre collegi (Milano, Roma e Napoli) competenti per le corrispondenti aree territoriali. È abilitato a conoscere (e a decidere) controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari (scilicet, creditizi) nonché (dal febbraio 2010) di servizi di pagamento (in attuazione dell’art. 40 d.lgs. n. 11 del 2010) per l’accertamento dei relativi diritti (competenza per materia) e per il risarcimento del danno fino a 100 mila euro (competenza per valore). Può, a tal fine (quale a.d.r. “decisoria/aggiudicativa”), adottare pronunce di accertamento e di condanna (non quindi pronunce costitutive, es. di annullamento del contratto) e opera come organismo “di secondo grado” dopo il previo reclamo (con esito negativo o in assenza di esito) all’intermediario, che ne costituisce condizione di procedibilità oltre che prodromica fase di negoziazione tesa alla conciliazione tra le parti. La sua adizione è riservata alla clientela bancaria e finanziaria, oltre che agli utilizzatori degli strumenti di pagamento (trattasi di diritto irrinunciabile); non prevede un’assistenza legale obbligatoria e sconta un basso costo d’accesso (economicità). La partecipazione delle diverse categorie d’intermediari al sistema (resa obbligatoria dal presente imperativo “aderiscono” di cui agli artt. 128–bis t.u.b., e 40 d.lgs. n. 11 del 2010) costituisce una condizione per l’esercizio dell’attività riservata (perciò un onere). La mancata adesione rappresenta peraltro fonte della sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 144, co. 4, t.u.b.

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Le sue specifiche attribuzioni rilevano perché l’enforcement dei contratti bancari, creditizi e di pagamento è essenziale al fine di rendere effettive le tutele garantite da leggi recenti, segnatamente per ripristinare (a fronte della grave crisi economica che interessa oggi l’intera società civile) condizioni di fiducia nei mercati e negli intermediari della finanza; perché riscontra un gradimento crescente con percentuali di accoglimento della domanda superiori al 70 per cento dei ricorsi; per i tempi contenuti della decisione, che realizzano l’obiettivo della rapidità (max 105 gg. dal ricorso, ma la durata media è stata, nel 2013, di 215 gg.); perché l’unica (ancorché significativa) sanzione (di shame culture) conseguente all’inosservanza della decisione (la pubblicazione della stessa) fa registrare casi marginali (effettività della tutela, solo 27 casi di inadempimento dalla sua istituzione). Le pronunce dei diversi collegi, indipendentemente da “variazioni sul tema” (peraltro rappresentative dell’indipendenza di giudizio e dell’imparzialità dell’organismo) su questioni di dettaglio, costituiscono spesso – in punto di politica del diritto – avanzate tutele della clientela con effetti conformativi di rilievo per la comune dei destinatari. Né va sottaciuto che l’istituzione di un apposito collegio di coordinamento assicura coerenza e uniformità di indirizzi a controversie di particolare importanza che abbiano generato o possano generare orientamenti contrapposti. La decisione di questo collegio, oltre a definire il ricorso rimessogli, stabilisce il principio di diritto che i collegi territoriali dovranno applicare nei casi futuri. È fatta salva la possibilità di disattendere l’orientamento espresso dal collegio di coordinamento nei soli casi caratterizzati da specificità evidenti e con espressa motivazione. Nel corso del 2013 si è pronunciato su 24 ricorsi su questioni di particolare rilievo, prime fra tutte quelle in materia di fattispecie e disciplina delle conseguenze civilistiche dell’usura. Sul più generale versante culturale e istituzionale, si consolida una crescente attenzione per le decisioni dell’arbitro da parte di riviste giuridiche (elettroniche e tradizionali), dei mass media, nonché da parte della dottrina (saggi, libri, convegni). Lo stesso legislatore lo contempla espressamente (art. 5 d.lgs n. 28 del 2010 e successive modificazioni) tra gli organismi atti a soddisfare l’esperimento della condizione di procedibilità nella materia in oggetto, così validando a livello primario le regole del relativo procedimento. Sul versante della giurisdizione, una nota ordinanza della Corte costituzionale (n. 218/2011) dichiara l’inammissibilità della legittimazione dell’arbitro alla proposizione di questioni di legittimità costituzionale: a) perché ne viene esclusa la natura giurisdizionale; b) perché la sua pronuncia non è autenticamente decisoria, non incidendo sulla situazione

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giuridica delle parti (è un “responso”, nel lessico della Corte); c) perché il decidere “secondo diritto” è proprio anche di qualsiasi organismo della pubblica amministrazione. Nel menzionarla al solo scopo di ribadire la progressiva centralità dell’arbitro nel diritto vivente, mette peraltro conto fugacemente osservare: a) che non pare dubbio che l’arbitro non svolga funzioni giurisdizionali (lo preclude l’art. 102 cost.), ma l’ordinanza di rimessione del collegio di Napoli insisteva (più che su questo profilo) sul possibile allargamento del giudizio della Corte ad atti (es.: il parere del Consiglio di Stato nell’àmbito del ricorso straordinario al Capo dello Stato) ai quali la decisione dell’arbitro potrebbe essere assimilata; b) che altro sono gli effetti della decisione dell’arbitro (certo non esecutiva né esecutoria), altro il negare che di decisione concettualmente si tratti; c) che la pubblica amministrazione certo adotta le proprie determinazioni “secondo diritto”, ma al diverso fine dell’adozione di un provvedimento amministrativo e non di una decisione relativa a una controversia in atto. In ogni caso, il gradimento crescente all’interno della società civile di tale organismo è testimoniato da fatti “veri e non stupidi” quali il crescente incremento dei ricorsi che, nel corso del 2013, sono stati pari a 7.862, con una crescita del 39 per cento rispetto all’anno precedente. Nell’anno sono stati decisi più di 6.300 ricorsi, con un incremento di ca. 2.000 sul precedente. Il trend 2014 fa prevedere il superamento dei 10 mila ricorsi, con incrementi significativi soprattutto al sud (95 per cento di ricorsi in più rispetto al 2013). 2. Le fonti. I ricorsi relativi all’estinzione anticipata del finanziamento (di norma, dietro cessione del quinto della retribuzione o dietro delegazione di pagamento) hanno fatto registrare, nel corso del 2013, consistenti incrementi. Nella graduatoria delle questioni maggiormente ricorrenti, si collocano a ridosso di quelle relative ai servizi di pagamento (che generano il maggior numero di controversie) e sono pari al 19,4 per cento del totale (questi dati, come quelli precedentemente riportati, sono tratti dalla Relazione della Banca d’Italia relativa al 2013). Hanno fondamentalmente a oggetto la retrocessione della quota parte di costi anticipatamente versati dal sovvenuto per l’intera durata del rapporto a titolo di commissioni e di premio assicurativo. Le fonti primarie della relativa disciplina sono rappresentate dall’art. 125-sexies del t.u.b. nella parte in cui prevede, al primo comma, che, in caso di estinzione anticipata, il consumatore ha diritto a «una riduzione del costo totale del credito, pari all’importo degli interessi e dei costi dovuti per la vita residua

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del contratto» e dal d.l. n. 179/2012 (convertito dalla l. n. 221/2012), il cui art. 22 (co. 15-quater) dispone che «nei contratti di assicurazione connessi a mutui e ad altri contratti di finanziamento, per i quali sia stato corrisposto un premio unico il cui onere è sostenuto dal debitore/assicurato, le imprese, nel caso di estinzione anticipata o di trasferimento del mutuo o del finanziamento, restituiscono al debitore/assicurato la parte di premio pagato relativo al periodo residuo rispetto alla scadenza originaria, calcolata per il premio puro in funzione degli anni e della frazione di anno mancanti alla scadenza della copertura nonché del capitale assicurato residuo». Poiché peraltro già prima della richiamata norma del t.u.b. portata dal d.lgs. n. 141/2010, il previgente art. 125 prevedeva il diritto del cliente a una «equa riduzione del costo complessivo del credito», la Banca d’Italia (con la Comunicazione del 10 novembre 2009), l’Isvap (con il regolamento n. 35/2010) e, in sede di autodisciplina, lo stesso accordo ABI – ANIA del 22 ottobre 2008, contemplavano (seppure a titolo diverso e con modalità non sempre univoche) la retrocessione delle diverse voci di costo remunerative di attività inerenti all’intera durata del rapporto, la cui permanenza nel patrimonio del finanziatore (o dell’impresa di assicurazioni) ben avrebbe potuto altrimenti prefigurare una fattispecie di sostanziale arricchimento privo di causa. Non tutte le commissioni sono tuttavia volte a remunerare attività destinate a svolgersi nel tempo. Una parte di esse (c.d. quota up front) si riferisce infatti a prestazioni non rimborsabili in quanto interamente compiute (es., le spese d’istruttoria o di stipula del contratto); altra parte (c.d. quota recurring) è invece volta a coprire rischi (di credito o di liquidità) connessi con le garanzie prestate (quali quello del “non riscosso per riscosso”) o gli oneri la cui maturazione è connessa con la durata del finanziamento (es. la gestione degli incassi). Ulteriori voci di costo possono invece riferirsi ad attività svolte dal procacciatore del finanziamento (agente in attività finanziaria o mediatore creditizio), non sempre univocamente riferibili ad attività che abbiano ad esaurirsi con la stipula del negozio. Le questioni poste all’attenzione dei singoli Collegi hanno prevalentemente a oggetto la natura di queste diverse tipologie di commissioni e il conseguente accertamento del diritto alla restituzione per il periodo residuo. Ma, prima ancora, la corposa serie di eccezioni pregiudiziali (di rito e di merito) sollevate dagli intermediari resistenti. 3. I principali indirizzi sulle questioni pregiudiziali. Muovendo da queste, viene spesso sollevata l’incompetenza ratione temporis del Collegio adìto in casi nei quali il rapporto abbia avuto ori-

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gine prima del 1° gennaio 2009 (termine questo che, a norma di regolamento, segna il limite della competenza temporale dell’arbitro bancario). Con l’avvertenza che verranno nel seguito menzionate per comodità espositiva le sole decisioni del Collegio partenopeo (di appartenenza di chi scrive), l’univoco orientamento del giudicante è nel senso dell’infondatezza dell’eccezione in parola laddove vengano in considerazione rapporti di durata che, sebbene sorti prima del 2009, producono i contestati effetti per via dell’estinzione anticipata (e i conseguenti diritti del cliente) in un tempo successivo, ricadente nella sfera di cognizione dell’organismo (v., fra le tante, le decisioni del Collegio di Napoli nn. 2057/2012 e 54/2013). Altra ricorrente eccezione pregiudiziale attiene alla supposta carenza di legittimazione passiva del finanziatore (o, in subordine, al riconoscimento del diritto di rivalsa) in casi nei quali, concluso il contratto per il tramite di società mandataria di questi, venga chiesta la retrocessione della quota parte di commissione recurring tesa a remunerare l’attività svolta dal mandatario. Anche in questo caso la questione pregiudiziale è destinata al rigetto in quanto la conclusione del rapporto di finanziamento per il tramite di società mandataria del finanziatore impone una considerazione unitaria dell’assetto degli interessi globalmente perseguito dalle parti, di guisa che la mandante, proprio in forza del contratto che la lega alla mandataria, non può certamente essere considerata estranea al rapporto o mera custode di quest’ultima. Né si ritiene di poter accogliere la domanda subordinata di rivalsa nei confronti dei soggetti che il resistente ritiene legittimati al rimborso delle pertinenti voci, ostando a ciò l’elementare rilievo della inammissibilità nel procedimento di fronte all’ABF della proposizione di domande riconvenzionali nei confronti di altri intermediari, per essere lo stesso concepito a legittimazione “disuguale” quale strumento di tutela del solo cliente nei confronti di questi (tra le tante, v. le decisioni nn. 5389/2013 e 1975/2014). Ancora, nei casi di successione nel rapporto, viene riconosciuta la legittimazione passiva del convenuto quando siano incontestati il titolo che ha generato la successione dell’avente causa e, soprattutto, la gestione del rapporto da parte del convenuto nella sua fase estintiva (decisione n. 7414/2014). Analoga è l’eccezione di difetto di legittimazione passiva per avvenuta cessione del credito, giudicata priva di fondamento. In questi casi si precisa che già l’art. 125 co. 3 t.u.b. (ora sostituito dall’art. 125-septies) prevedeva che «in caso di cessione dei crediti nascenti da un contratto di credito al consumo, il consumatore può sempre opporre al cessionario tutte le eccezioni che poteva far valere nei confronti del cedente, ivi compresa la compensazione, anche in deroga

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all’art. 1248 del codice civile». Di guisa che, la conseguenza (confermata anche dalle disposizioni sulla trasparenza della Banca d’Italia) è che la modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio dal lato attivo non impedisce al debitore ceduto di sollevare, nei confronti del creditore cessionario, le eccezioni che avrebbe potuto sollevare nei confronti del cedente (v., tra le tante, la decisione n. 2387/2013). Meritevole di accoglimento è invece l’eccepito difetto di legittimazione passiva nei casi in cui l’estinzione del finanziamento sia avvenuto in epoca successiva all’iscrizione nel registro delle imprese della cessione del ramo aziendale comprensiva del rapporto dedotto in giudizio e delle relative controversie (decisioni nn. 951, 1636 e 3202/2013). Quanto al premio assicurativo, le eccezioni riguardano, per un verso, la sottrazione del finanziatore a obblighi restitutori in ragione della sopravvenienza del già ricordato art. 22 l. n. 221/2012 e, per altro verso, il rapporto sostanziale. L’orientamento del Collegio di Napoli è nel senso di ritenere che la recente disciplina, nell’introdurre obblighi specifici in capo all’assicuratore, non sembra incidere sul profilo della legittimazione (non sottraendo il finanziatore alla concorrente responsabilità per la restituzione del dovuto a fronte di negozi collegati) quanto piuttosto sull’esercizio dell’eventuale azione di regresso. Precisato questo, si ribadisce la particolare tipologia dei rapporti oggetto della controversia, i quali si compongono, sul piano atomistico, di due (apparentemente) distinti contratti conclusi con una medesima controparte: mutuo da un lato; polizza assicurativa dall’altro. Tali due negozi risultano peraltro tra loro avvinti da un evidente e incontestabile legame: quello di sincronicamente e contemporaneamente concorrere e cooperare al medesimo risultato economico-sociale consistente nell’assicurare al sovvenuto il finanziamento richiesto. Prevalente dottrina e giurisprudenza largamente maggioritaria precisano, perché si dia la fattispecie del collegamento, che debbono ricorrere due elementi: uno obiettivo, consistente nel nesso economico o teleologico tra i vari negozi e uno subiettivo, consistente nella intenzione di coordinare i vari negozi verso uno scopo comune, ossia nell’intento di collegare i due negozi. Il collegamento negoziale incide direttamente sulla causa dell’operazione contrattuale che viene posta in essere «risolvendosi in una interdipendenza funzionale dei diversi atti negoziali rivolta a realizzare una finalità pratica unitaria» (Cass., 16 febbraio 2007, n. 3645; ibid., 10 luglio 2008, n. 18884). Il nesso fra più negozi fa sì che l’esistenza, la validità, l’efficacia, l’esecuzione di un negozio influiscano sulla validità o efficacia o esecuzione di un altro negozio, oppure che il requisito di un negozio si comunichi all’altro, o ancora che il contenuto di un negozio sia determinato dal contenuto

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dell’altro, e così via. In relazione a ciò, si conclude che i contratti in rassegna siano caratterizzati da collegamento negoziale per la ricorrenza dei richiamati elementi obiettivo e subiettivo. E infatti, dottrina e giurisprudenza impongono riguardo a siffatte fattispecie una considerazione unitaria dell’assetto degli interessi globalmente perseguito dalle parti in termini di validità, efficacia, complessiva utilità delle prestazioni dedotte nei contratti. In particolare, le evoluzioni del rapporto principale (il finanziamento) non possono non riflettersi su quello accessorio (l’assicurazione) poiché, venuto meno il primo, la persistenza del rapporto assicurativo si rivelerebbe di fatto priva di causa. Non è, in siffatta guisa, casuale che le riportate conclusioni rinvengano (in sede autopoietica) puntuale riscontro nell’accordo ABI – Ania del 22 ottobre 2008, rubricato alle «linee guida per le polizze assicurative connesse a mutui e altri contratti di finanziamento». 4. (Segue) e su quelle di merito. Venendo al merito, in casi nei quali le commissioni (come contrattualmente descritte) comprendano costi destinati a remunerare attività non totalmente riconducibili alla sola fase propedeutica alla conclusione del rapporto, da tale opacità si fa discendere il diritto del ricorrente alla restituzione della quota parte residua alla durata del finanziamento calcolata sull’intero importo anticipatamente versato (v., ad es., la decisione n. 1975/2014). Quanto ai criteri di calcolo, muovendo dall’assenza tanto in sede di disciplina primaria quanto in sede di disciplina secondaria di precise e vincolanti regole in punto di metodologie di calcolo delle quote di premio assicurativo accessorio al contratto di finanziamento (o anche di commissioni relative al periodo residuo), i consolidati indirizzi del Collegio di Napoli sono stati nel senso di ritenere che quello proporzionale è un mero criterio di default (scilicet, suppletivo) al quale fare riferimento in assenza di diversa metodologia adottata dall’intermediario che, quando esente da vizi logici e/o da manifesta irragionevolezza, appare concretamente insindacabile da parte dell’arbitro bancario finanziario. Ciò anche avendo presente che, se nella prassi esistono diversi metodi e l’adozione di uno di questi non viola palesemente una diversa pattuizione contrattuale, si deve ritenere legittimo e corretto il metodo di ricalcolo adottato dall’intermediario, almeno laddove compreso tra quelli più ampiamente diffusi (v. le decisioni nn. 3354/2013; 3053/2012; 1038/2012) come, ad esempio, quello fondato su meccanismi di ammortamento omologhi al calcolo degli interessi.

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Tale orientamento è stato tuttavia censurato dalla recente pronuncia n. 6167/2014 del Collegio di coordinamento la quale stabilisce che l’indicato criterio di rimborso in funzione degli interessi «non appare conforme a ragionevolezza» e «non si giustifica in riferimento ai costi recurring». Analoga conclusione il Collegio di coordinamento ha tratto anche con riguardo alle voci di costo riversate dall’intermediario a mediatori creditizi e/o agenti in attività finanziaria intervenuti per procacciare il finanziamento laddove l’opacità della relativa clausola contrattuale (o, a fortiori, l’assenza di puntuali indicazioni), «impedisce al cliente stipulante di comprendere quale sia l’esatta attività svolta dall’agente-mediatore e se essa abbia carattere esclusivamente preliminare o se essa si svolga continuativamente» e al premio assicurativo, anche a fronte della retrocessione della relativa quota parte da parte dell’impresa di assicurazioni attraverso un criterio di calcolo diverso da quello proporzionale, che è legittima a condizione che il criterio di calcolo sia chiarito ex ante, imponendosi – in difetto – il criterio di rimborso pro rata temporis. E dunque «nell’ipotesi di parziale restituzione del premio non goduto effettuata direttamente dall’assicuratore rimane la responsabilità dell’intermediario per la parte residua… in ordine all’integrale adempimento del debito altrui». Resta da ultimo da dire, in questa fugace carrellata delle principali questioni sull’estinzione anticipata del finanziamento, del caso in cui nessuna delle parti costituite abbia versato in atti il contratto o diversa documentazione dalla quale possa evincersi la descrizione e la natura delle voci di costo oggetto di contestazione. L’onere di allegazione incombe (ex art. 2697 c.c.) sull’attore. Ma, laddove il resistente abbia accettato il contraddittorio, puntualmente controdeducendo alla prospettazione offerta dal ricorrente in ordine alle singole voci di costo e riconoscendo l’avvenuto versamento anticipato degli importi che compongono le stesse in ragione delle prestazioni offerte, i fatti costitutivi del diritto del quale si invoca tutela appaiono sostanzialmente incontestati al pari della fonte negoziale dai quali derivano. È d’altronde noto che, in tema di responsabilità contrattuale per inadempimento (o per non esatto adempimento), «al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando… sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento» (Cass., SS. UU., 30 ottobre 2001, n. 13533; in termini, ibid., 25 ottobre 2007, n. 22361; 3 luglio 2009, n. 15677).

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Interessi e concorso tra creditori Daniele Vattermoli - Vincenzo Caridi 1. Premessa. Il tema che ci è stato assegnato, ovvero quello della sorte degli interessi in caso di apertura di una procedura concorsuale nei confronti del debitore, non è un tema “specifico” dei rapporti bancari: non v’è, cioè, una disciplina ad hoc, né esistono orientamenti giurisprudenziali – il c.d. diritto vivente – che interpretano in un modo differente il dato normativo esistente per il fatto che il creditore del soggetto insolvente sia una banca (precisiamo subito che non ci occuperemo dell’ipotesi, speculare, della banca insolvente). Tuttavia, è appena il caso di sottolineare, il tema è particolarmente rilevante – dal punto di vista sia teorico sia, soprattutto, pratico – proprio se “calato” nell’ambito dei rapporti bancari, nei quali gli interessi (e le commissioni) rappresentano, per le operazioni bancarie c.d. attive, il corrispettivo della prestazione effettuata dall’ente creditizio, consistente nella dazione o nella messa a disposizione di una certa somma di danaro. 2. La disciplina degli interessi endoconcorsuali: prima approssimazione. La disciplina degli interessi endoconcorsuali, per tali intendendosi quelli maturati durante lo svolgimento delle procedure concorsuali, crediamo sia sufficientemente nota da poter essere, in questa sede, semplicemente richiamata. A. La regola generale è la sospensione del corso degli interessi agli effetti del concorso: gli stessi, cioè, non possono essere riconosciuti all’interno della procedura, non potendo quindi né essere insinuati al passivo né beneficiare dei riparti endoconcorsuali; gli stessi, per contro, continuano a decorrere tra le parti, tanto da poter essere richiesti al debitore alla chiusura della procedura (salvi gli effetti legati alla falcidia concordataria o all’esdebitazione, di cui tratteremo più avanti: art. 120, co. 3); oppure, durante la procedura, agli eventuali fideiussori, coobbligati o obbligati in via di regresso del debitore. Tale regola è funzionale alla migliore realizzazione del concorso sostanziale tra i creditori ed alla più puntuale applicazione del principio della par condicio creditorum, consentendo, unitamente alla regola della scadenza anticipata e a quella della trasformazione di tutti i crediti in crediti pecuniari, di cristallizzare e standardizzare il passivo concorsuale,

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come questo si presentava al momento dell’apertura della procedura1. Si tratta di una regola talmente inscindibilmente connessa all’esistenza di un concorso in atto tra i creditori che si riscontra in tutte le procedure collettive – e non è un caso, quindi, che non operi negli accordi di ristrutturazione dei debiti – e così: –– per il fallimento, art. 55 l.fall.; –– per il concordato preventivo, art. 169 l.fall., che richiama l’art. 55; –– per la l.c.a., art. 201 l.fall., che richiama in blocco la sezione dedicata agli effetti del fallimento per i creditori; –– per l’amministrazione straordinaria “comune”, art. 18 d.lgs. n. 270/1999, che richiama l’art. 169, per quel che concerne gli effetti determinati dalla sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza, e art. 36 d.lgs. n. 270/1999, dopo l’apertura della procedura, che richiama le norme sulla l.c.a. e dunque anche l’art. 201 l.fall.; –– per l’amministrazione straordinaria “speciale”, art. 8 d.l. n. 347/2003, che richiama le norme sull’amministrazione straordinaria comune e, dunque, anche l’art. 36 d.lgs. n. 270/1999 che, come visto, richiama l’art. 201 l.fall., che a sua volta rinvia all’art. 55; –– per l’accordo e il piano del consumatore, art. 9, co. 3-quater, l. n. 3/2012; –– per la liquidazione del patrimonio del debitore non fallibile, art. 14ter, co. 7, l. n. 3/2012. B. Ugualmente nota è l’eccezione a tale regola – che di nuovo ritroviamo in tutte le procedure collettive – rappresentata dagli interessi che maturano su crediti concorrenti che godono di cause legittime di prelazione. a) Con riferimento ai creditori ipotecari, il co. 3 dell’art. 54 richiama l’art. 2855, co. 2-3, c.c. da cui si ricava che per gli interessi maturati in corso di fallimento – quelli che qui interessano – essi sono collocati al privilegio nella misura legale e sino alla data della vendita. Per l’eventuale differenza tra interesse legale ed interessi convenzionali in corso di fallimento varrà la regola della sospensione degli interessi. La normativa, che deve ritenersi applicabile anche ai crediti fondiari, riguarda solo gli interessi corrispettivi, e non quelli moratori, che non possono essere tenuti in considerazione.

1 A. Nigro e Vattermoli, Diritto della crisi delle imprese. Le procedure concorsuali3, Bologna, 2014, pp. 144-145; Bonsignori, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da Galgano, vol. IX, Padova, 1986.

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b) Con riferimento ai creditori pignoratizi, il co. 3 dell’art. 54 richiama l’art. 2788 c.c. che, per quel che concerne gli interessi maturati dopo la dichiarazione di fallimento, contiene una disciplina identica a quella stabilita per gli ipotecari. c) Con riferimento, infine, ai creditori privilegiati, il co. 3 dell’art. 54 richiama l’art. 2749 c.c., secondo il quale, per gli interessi maturati in corso di fallimento, essi sono collocati al privilegio nella misura legale e sino alla data della vendita, tranne che per i crediti assistiti da privilegio generale, per i quali il decorso degli interessi cessa alla data del deposito del primo progetto di riparto nel quale gli stessi vengono soddisfatti, seppure parzialmente. L’eccezione – è bene sottolinearlo – opera solo se il bene o i beni sui quali insiste la prelazione siano presenti nell’attivo, come indirettamente confermano le citate norme codicistiche che fissano il dies ad quem del corso degli interessi alla data della vendita, e – si deve ritenere – nei limiti in cui tali beni siano capienti, atteso che non è possibile riservare agli interessi (siano essi maturati prima o dopo la dichiarazione di fallimento) un trattamento preferenziale rispetto a crediti che, per la quota non coperta dal ricavato dei beni oggetto di garanzia, sono dalla legge trattati come chirografari (art. 54 l.fall.), pena un’inammissibile violazione della par condicio creditorum, al rispetto della quale la disciplina degli interessi endoconcorsuali – come si è detto – è invece strumentale. Del resto, una tale conclusione sembrerebbe confortata tanto, sul piano del diritto positivo, dall’art. 111-quater l.fall., nel quale la prelazione per interessi (così come quella per capitale e spese) è riconosciuta, nei limiti segnati dagli artt. 54 e 55, (solo) sul ricavato dalla liquidazione dei beni oggetto di garanzia, quanto, sul piano storico, dall’art. 700 cod. comm. 1882, che, dopo aver enunciato la regola generale della sospensione degli interessi sui crediti chirografari, per gli interessi sui crediti assistiti da cause legittime di prelazione maturati dopo la sentenza di fallimento espressamente prevedeva che il soddisfacimento potesse avvenire solo nei limiti del ricavato della vendita dei beni gravati dalla garanzia. Dal che, peraltro, discende, in un certo senso, anche una conferma alla tesi, altrove – e, in particolare, negli USA – comunemente accolta2, secondo la quale le procedure collettive hanno come destinatari, in realtà, i soli creditori chirografari ed i privilegiati incapienti: come dimo-

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Sul punto cfr., per tutti, Jackson e Kronman, Secured Financing and Priorities among Creditors, in 88 Yale L. J., 1979, pp. 1143 ss.

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strerebbe, sotto un altro punto di vista, la norma che pospone, nella ripartizione delle somme rivenienti dalla vendita dei beni oggetto della garanzia, i prededucibili ai creditori che vantano garanzie reali sui beni del debitore (art. 111-bis, co. 3). C. Proprio la norma da ultimo menzionata chiude, in un certo senso, la disciplina degli interessi endoconcorsuali, stabilendo, per un verso e in generale, che i crediti prededucibili vengono soddisfatti per il capitale, le spese e gli interessi con il ricavato della liquidazione del patrimonio mobiliare e immobiliare e, per altro verso, che il corso degli interessi cessa soltanto al momento del pagamento. Norma che conferma, di nuovo, la stretta corrispondenza esistente tra la regola della sospensione degli interessi ed il concorso in atto tra i creditori, se è vero che i creditori prededucibili si caratterizzano per ciò che, almeno in via di principio (e sul punto si tornerà subito appresso), essi sono sottratti, appunto, al concorso sostanziale, al quale invece debbono sottostare tutte le altre componenti della massa passiva. Per i prededucibili, il problema si pone nell’ipotesi in cui l’attivo risulti insufficiente al loro integrale soddisfacimento: in tal caso pare di poter sostenere che la regola della sospensione dovrebbe riprendere vigore, instaurandosi tra i prededucibili il concorso sostanziale (come dimostra il riferimento al rango degli stessi, contenuto nell’art. 111-bis, ult. co.), fatta eccezione per i prededucibili che vantano cause legittime di prelazione, nel quale caso ad essi si applicherà – deve ritenersi – la disciplina di cui all’art. 54 l.fall. 3. Interessi endoconcorsuali e consecuzione tra procedure. Lo stretto collegamento, che può definirsi funzionale, tra le regola della sospensione degli interessi ed il concorso in atto tra i creditori consente di dare risposta ad alcuni interrogativi che la disciplina positiva, in precedenza sinteticamente richiamata, fa sorgere, in particolare in ipotesi di consecuzione (ma anche, di conversione) di procedure. È noto come l’art. 69-bis, co. 2, che, nell’ipotesi di consecuzione tra concordato preventivo e fallimento, fa decorrere i termini di retrodatazione legale dello stato di insolvenza per l’esercizio delle azioni revocatorie dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese, abbia in un certo senso “consacrato” la teoria della consecuzione, in virtù della quale le due procedure sarebbero da considerare,

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in realtà, come due fasi di un’unica procedura3. Si tratta di una tesi che, in linea generale, chi scrive non condivideva prima dell’introduzione (a opera del d.l. n. 83/2012) di questo nuovo co. 2 dell’art. 69-bis e che continua a non condividere ora, nel nuovo assetto risultante dalla riforma “organica” del 2005-2007, essendo la saldatura tra le due procedure meramente eventuale, data, da un lato, la non necessaria coincidenza tra i presupposti oggettivi delle stesse e, dall’altro, l’impossibilità di una dichiarazione di fallimento di ufficio 4. Ora, se è vero che la sospensione degli interessi è funzionale alla migliore realizzazione del concorso sostanziale tra i creditori, gli interessi maturati (e non computati) nel corso del concordato non andato a buon fine non dovrebbero essere ammessi nel successivo fallimento, solo qualora tra le due procedure non vi sia soluzione di continuità: quando, cioè, vi sia contestualità tra decreto di revoca (art. 173) o di mancato raggiungimento delle maggioranze richieste (art. 179, co. 1) o di rigetto del concordato (art. 180, co. 7) e sentenza dichiarativa di fallimento. Diverso invece è il discorso in caso di contestualità tra decreto di non ammissione (art. 162, co. 2) e sentenza dichiarativa di fallimento, perché se è vero che l’effetto della sospensione degli interessi si verifica alla data di presentazione della domanda di ammissione, è anche vero che si tratta di effetto risolutivamente condizionato all’ammissione stessa. È cioè un effetto dettato nell’ottica dell’ammissione al concordato e funzionale, proprio, a tale ammissione: qualora tale ammissione non si verificasse, quell’effetto verrebbe travolto ex tunc, non potendosi nella specie, a nostro avviso, neanche invocare la teoria della consecuzione tra procedure, mancando il presupposto di fatto di tale teoria, ossia la pluralità di procedure. Più complicato è rispondere al quesito della sorte degli interessi maturati durante la procedura di concordato qualora lo stesso, dopo essere stato omologato, venisse, in fase di esecuzione, risolto o annullato. Si ritiene, in generale, che la risoluzione (come l’annullamento) del concordato operi retroattivamente, facendo venir meno gli effetti modificativo-esdebitatori dell’accordo5; se così è, sembra di poter sostenere che nel successivo, eventuale, fallimento, il creditore potrà chiedere l’insinuazione anche del

3 Inzitari, Gli effetti del fallimento per i creditori, in Commentario alla legge fallimentare Scialoja – Branca, a cura di Bricola, Galgano e Santini, Bologna, Bologna-Roma, 1988, p. 159; S. Satta, Diritto fallimentare3, Padova, 1996, p. 515, nt. 57 4 A. Nigro e Vattermoli, Diritto, cit., p. 402. 5 Guerrera, Risoluzione e annullamento dei concordati, in Abriani ed altri, Diritto fallimentare. Manuale breve2, Milano, 2013, pp. 186-187.

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credito per gli interessi maturati nel corso della procedura concordataria, non potendo in tal caso invocarsi la teoria della consecuzione tra le procedure, essendo la fase di esecuzione “esterna” alla procedura di concordato [esiste(rebbe), cioè, soluzione di continuità tra le due procedure]. 4. Interessi endoconcorsuali e chiusura della procedura. A. Come anticipato, chiusa la procedura e terminato, dunque, il concorso tra i creditori, gli interessi endoconcorsuali possono essere richiesti al debitore, insieme alla parte del credito concorrente non soddisfatta dai riparti: ciò vale, in particolare, per il fallimento6; per la l.c.a. (almeno per chi, come chi scrive, non assegna a tale procedura una valenza necessariamente estintiva del debitore che vi è sottoposto); per l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, versione comune e versione speciale; e, deve ritenersi, per la procedura di liquidazione del patrimonio del debitore. Il creditore, peraltro, potrà richiedere soltanto gli interessi compensativi (art. 1282 c.c.) calcolati al tasso legale – che, pur se inesigibili durante il fallimento, continuano a maturare nel rapporto tra singolo creditore e debitore – e non, evidentemente, quelli moratori (art. 1224 c.c.), attesa la non imputabilità del ritardo nell’adempimento per il tempo in cui dura la procedura. Quanto sostenuto non vale, invece, per le c.d. soluzioni “negoziali” della crisi, nelle quali le obbligazioni del debitore vengono rimodulate secondo le previsioni contenute (ed accettate) nella proposta fatta ai creditori concorrenti: non vale, quindi, in caso di concordato preventivo; di piano del consumatore e di accordo; e non vale neanche per le procedure menzionate in precedenza, in via di principio non negoziali, quando si chiudono però con un concordato (fallimentare; nella l.c.a.; nell’amministrazione straordinaria). B. Peraltro, la possibilità di richiedere, chiusa la procedura, il pagamento degli interessi endoconcorsuali potrebbe essere preclusa anche

6 G.U. Tedeschi, Della chiusura del fallimento, in G.U. Tedeschi, Bonsignori e Santarelli, Della cessazione della procedura fallimentare. Della riabilitazione, in Commentario alla legge fallimentare Scialoja – Branca, a cura di Bricola, Galgano e Santini, BolognaRoma, 1977, p. 68; Inzitari, Interessi postfallimentari ed endofallimentari: responsabilità del debitore, imputazione dei pagamenti ricevuti dai creditori concorsuali, in il diritto degli affari.it, 13 maggio 2013, accessibile su www.ildirittodegliaffari.it

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dall’esdebitazione7, com’è noto invocabile dal debitore-persona fisica – sussistendo le condizioni stabilite dalla legge – in caso di fallimento o di liquidazione del patrimonio, ex l. n. 3/2012. L’esdebitazione, al pari della falcidia concordataria, libera il debitore dai debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali non soddisfatti, rendendo inesigibili i crediti – ivi compresi, deve ritenersi, quelli per interessi maturati durante la procedura8 – da questi ultimi ancora vantati. Ci si potrebbe chiedere, con riferimento proprio al credito per interessi endoconcorsuali, se l’esdebitazione possa essere richiesta ed ottenuta dal debitore qualora la procedura si sia chiusa per completo soddisfacimento di tutti i creditori. A nostro parere, l’esdebitazione ha un senso soltanto se opera come limitazione (oggettiva) della responsabilità del debitore, con specifico riferimento ai beni futuri – rispetto alla chiusura della procedura – che dovessero entrare nel suo patrimonio: nessun senso, invece, avrebbe qualora potesse operare anche con riferimento alla porzione di patrimonio attualmente a sua disposizione. Perché mai, invero, dovrebbe in questo caso operare questo spostamento di valore a danno dei creditori e a vantaggio del debitore? Il fresh start assicurato dalla liberazione dei debiti residui ha senso, si ribadisce, solo se in tal modo si permette al debitore di non destinare le risorse future al soddisfacimento dei debiti pregressi, non già per consentire al debitore di sottrarre parte del patrimonio attualmente a sua disposizione all’adempimento delle obbligazioni che sullo stesso gravano. D’altra parte, come si è avuto modo di segnalare sin dall’inizio, la regola della sospensione degli interessi ha la funzione di agevolare il concorso sostanziale e, in ultima analisi, di assicurare il rispetto della par condicio creditorum; e, dunque, non può essere piegata per raggiungere il fine – opposto, si direbbe – di consentire un ingiusto arricchimento del debitore a scapito dei creditori concorrenti. C. In dottrina si è di recente sostenuto che i creditori per poter richiedere, al termine della procedura, il pagamento degli interessi endoconcorsuali dovrebbero altresì procedere – ove richiesto dalla durata della

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Guizzi, Sub art. 55, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, Milano, 2010. 8 Lamanna, Sub art. 55, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, I, Bologna, 2006, p. 800; Ghia, L’esdebitazione, Milano, 2008, pp. 183 ss.

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procedura – alla messa in mora del debitore, al fine di interrompere la prescrizione quinquennale del relativo diritto (art. 2948, n. 4 c.c.)9. Secondo tale dottrina, in particolare, premessa la natura tassativa delle cause che possono portare alla sospensione o all’interruzione del diritto che si intende far valere, la semplice pendenza del fallimento (ma il discorso, in realtà, può essere esteso a tutte le procedure collettive) non potrebbe esser fatta rientrare in nessuna di tali cause; con la conseguenza, appunto, che il debitore tornato in bonis ben potrebbe eccepire al creditore che, in ipotesi, fosse rimasto inerte per più di cinque anni, l’avvenuta prescrizione del diritto al pagamento degli interessi. La tesi non convince. Pur convenendo sulla natura tassativa delle cause che possono condurre alla sospensione o all’interruzione del termine prescrizionale, il problema del computo di tale termine nel periodo di pendenza della procedura è, se si vuole, “a monte”, rispetto a quello relativo alla sospensione o all’interruzione della prescrizione: qui, infatti, il termine prescrizionale non è mai iniziato a decorrere, posto che, secondo il principio generalissimo sancito dall’art. 2935 c.c., la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (e nel caso degli interessi endoconcorsuali tale giorno coincide con la chiusura del concorso sul patrimonio del debitore). D. La stessa dottrina ha infine evidenziato come anche ai pagamenti effettuati attraverso i riparti fallimentari si applichi la regola di diritto comune contenuta nell’art. 1194 c.c. – e richiamata dalla stessa legge fallimentare (art. 54, co. 2) – in ordine all’imputazione dei pagamenti, secondo cui gli stessi andrebbero imputati, appunto, dapprima agli interessi (ed alle spese) e poi alla sorte capitale (salvo diverso accordo tra debitore e creditore)10. Secondo tale dottrina, quindi, venuta meno la sospensione degli interessi per chiusura della procedura, i riparti ottenuti dal creditore andrebbero (ri)valutati alla luce di tale regola, con la possibilità, dunque, di imputarli, in primis, proprio agli interessi maturati durante la procedura. Anche questa tesi non convince appieno. Pur riconoscendo che la regola sull’imputazione dei pagamenti operi anche rispetto a quelli eseguiti in ambito concorsuale, sembra tuttavia corretto ritenere che, in tale ambito, essa possa trovare applicazione solo con riguardo agli interessi maturati prima della dichiarazione di fallimento o a quelli successivi che accedono a crediti che vantano cause legittime di prelazione, rimanendo invece escluso che il

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Inzitari, Interessi, cit., pp. 5-6. Inzitari, Interessi, cit., p. 7.

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riparto possa imputarsi ad interessi che, al momento del pagamento, non erano esigibili e che, dunque, non contribuivano a costituire la base creditizia rispetto alla quale la regola sull’imputazione consente di “distribuire” il pagamento tra le sue varie componenti (capitale, interessi, spese). 5. La disciplina degli interessi endoconcorsuali: prospettive de jure condendo. Un sistema così congegnato è efficiente? È efficiente, cioè, un sistema che consente che la procedura possa chiudersi, per effetto del pagamento integrale di tutti i crediti ammessi e le spese di procedura (ex art. 118, co. 1, n. 2 l.fall.), con restituzione del surplus al debitore nonostante vi siano obbligazioni dello stesso ancora non soddisfatte (i crediti per interessi, appunto)? Chi scrive ritiene che questa sia un’anomalia da eliminare e che lo strumento giuridico per raggiungere tale obiettivo, senza ostacolare il concorso sostanziale e salvaguardando il rispetto della par condicio creditorum, sia la subordinazione legale (o involontaria) assoluta. A. Il dato comparatistico fornisce indicazioni pressoché univoche in tal senso. Ed invero, in molti altri ordinamenti il credito per interessi endoconcorsuali viene classificato, appunto, come credito postergato. a) In Germania, ad esempio, il § 39.1 InsO contiene l’elenco dei crediti legalmente postergati: tra questi, il primo posto è assegnato, proprio, ai crediti per interessi maturati dopo l’apertura del procedimento (§ 39.1.1); mentre il § 39.3 regola la sorte degli interessi generati dai crediti postergati e delle spese sostenute dai loro titolari per la partecipazione alla procedura, stabilendo che gli stessi sono collocati nello stesso grado del credito principale11. La ratio della norma risiede nella volontà di non far gravare sulla massa concorsuale i crediti, maturati successivamente all’apertura dell’Insolvenzverfahren, non funzionali allo svolgimento della procedura. La norma si ritiene valga sia per gli interessi convenzionali (verträgliche) sia per quelli legali (gesetzliche)12, ma non per quelli relativi ai crediti che vantano un diritto di preferenza ed ai crediti verso la massa13.

11 Schulz, in Wimmer (ed.), Frankfurter Kommentar zur Insolvenzordnung, Neuwied, 1999, p. 425. 12 Ehricke, in Kirchhof, Lwowsky e Stürner (ed.), Münchener Kommentar zur Insolvenzordnung, Münich, 2001, p. 823. 13 Eickmann, in Eickmann (ed.), Heidelberger Kommentar zur Insolvenzordnung, Heidelberg, 2003, p. 241.

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b) Del tutto analoga è la norma contenuta nell’art. 48, lett. b) CIRE portoghese, ai sensi del quale debbono essere soddisfatti, dopo i chirografari ed i crediti vantati dalle persone specialmente relazionate con il debitore, «Os juros de créditos não subordinados constituídos após a declaraçáo da insolvência, com excepção dos abrangidos por garantia real e por privilégios creditórios gerais, até ao valor dos bens respectivos»14. In argomento, va poi aggiunto che i crediti per interessi prodotti, durante il corso della procedura, dai crediti subordinati possono essere soddisfatti solo successivamente al pagamento integrale di tutti i crediti concorrenti (compresi quelli subordinati, tra i quali figurano quelli per interessi su crediti chirografari), ma prima dei crediti per suprimentos (che sono i crediti dei soci per finanziamenti erogati in ipotesi di sottocapitalizzazione della società). c) Discorso più articolato deve essere svolto con riferimento all’ordinamento spagnolo. Al terzo gradino della scala dei subordinati la Ley Concursal colloca quelli «por recargos e intereses de cualquier clase, incluidos los moratorios, salvo los correspondientes a créditos con garantía real hasta donde alcance la respectiva garantía» (art. 92.3º, come modificato dall’art. 63, Ley n. 38/2011). Il primo problema che pone la disposizione testé riportata concerne l’ambito oggettivo di applicazione della stessa, ossia a quale credito per interessi essa si riferisca. Per rispondere al quesito è necessario considerare quanto disposto dall’art. 59.1 LC, ai sensi del quale dall’apertura del concurso si produce la sospensione del corso degli interessi, eccezion fatta per quelli corrispondenti ai crediti assistiti da garanzia reale (che continuano a decorrere fino al valore del bene oggetto della garanzia) e per quelli maturati sui crediti da lavoro dipendente (che vengono calcolati al tasso legale). Lo stesso art. 59.1, conclude precisando che «Los créditos derivados de los intereses tendrán la consideración de subordinados a los efectos de lo previsto en el articulo 92.3º de esta Ley»; a sua volta, l’art. 59.2, dopo aver stabilito che nel concordato è possibile prevedere anche il soddisfacimento dei crediti per interessi sospesi ai fini del concorso, afferma che «En caso de liquidación, si resultara remanente después del pago de la totalidad de los créditos concursales, se satisfarán los referidos intereses calculados al tipo convencional».

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Carvalho Fernandes e Labareda, Código da insolvência e da recuperação de empresa anotado, Lisboa, 2008, pp. 229-230.

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Orbene, nonostante parte della dottrina abbia tentato di interpretare tali disposizioni nel senso che ad essere relegati al rango di subordinati siano soltanto i crediti per interessi maturati nel corso della procedura, mantenendo viceversa al rango originario quelli prodottisi in epoca anteriore15, il tenore letterale delle stesse – che certo non brillano per chiarezza – sembra non lasciare dubbi al riguardo: per quanto ingiusto possa apparire il sistema così congegnato, che “sottrae” valore a crediti sorti anteriormente all’apertura della procedura collettiva per ridistribuirlo a favore degli altri creditori concorrenti, deve infatti ritenersi che l’art. 92.3º si riferisca esclusivamente ai crediti per interessi maturati prima dell’apertura del concorso (e a quelli, successivi, che accedono ai crediti garantiti e a quelli salariali); per quelli successivi (diversi dagli ultimi menzionati) non v’è posto nella massa passiva, come dimostra il fatto che possono essere soddisfatti all’interno della procedura soltanto una volta pagati per intero i crediti concorsuali (nei quali vanno ricompresi anche i subordinati, ivi inclusi quelli per interessi ex art. 92.3º)16. Inoltre, la subordinazione coinvolge i crediti per interessi, di qualunque natura essi siano (legali, convenzionali, di mora, ecc.). d) In Uruguay, pur non essendo contemplati espressamente tra le categorie di crediti subordinati, gli interessi maturati durante il concorso subiscono, in virtù del combinato disposto degli artt. 64 e 188 della Ley n. 18.387/2008, la postergazione ex lege. Invero, ai sensi dell’art. 64.1, «Desde la declaración de concurso, se suspenderán el devengamiento de los intereses salvo los créditos prendarios e hipotecarios hasta el límite de su respectiva garantía, y los créditos laborales», precisandosi, tuttavia, che «La suspensión del devengamiento de intereses se establece sin perjuicio de lo que resulte pactado en el

15 Bermejo Gutiérrez, El crédito por intereses en el concurso de acreedores, in RDCP, n. 2/2005, p. 235; Carrasco Perera A., Los derechos de garantía en la Ley Concursal2, Madrid, 2008, p. 70. 16 Così, tra gli altri, Montés V., El régimen de los créditos subordinados en la Ley Concursal, in ADCo, 1/2004, p. 71, il quale giustamente evidenzia come il credito per interessi maturati dopo l’apertura del concurso sia un “potenziale” credito subordinato, che diventa attuale e può essere soddisfatto solo nel caso di concordato meramente dilatorio (quando la proposta così preveda) o quando siano stati soddisfatti per completo tutti i crediti concorsuali; Blasco Gascó, Prelación y pago a los acreedores concursales, Cizur Menor, 2004, p. 156; Vázquez Cueto, El régimen de los intereses devengados por créditos concursales tras la declaración de concurso, Cizur Menor, 2009, passim. In giurisprudenza, per tutte, SJMer Las Palmas de Gran Canaria, 1 febbraio 2011, in ADCo, n. 25/2012, p. 577.

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convenio o acuerdo privado de reorganización entre el deudor y sus acreedores y de la compensación establecida por el artículo 188 en caso de resultar un remanente luego de la liquidación del patrimonio del deudor» (64.2); a sua volta, l’art. 188.1 (rubricato “Remanente de la liquidación”) stabilisce che «Si una vez pagados los créditos subordinados quedara un remanente, el síndico lo distribuirá entre los acreedores con privilegio general y quirografarios, a prorrata de sus respectivos créditos, con un monto máximo equivalente a la tasa media de interés del sistema bancario para familias, por plazos mayores a un año, que publique el Banco Central del Uruguay para créditos en unidades indexadas o, en su defecto, al interés legal computado sobre sus respectivos créditos, por el plazo que medió entre la declaración judicial de concurso y el pago de los mismos». e) Negli USA, all’ultimo gradino della scala di priorità nel soddisfacimento all’interno del procedimento di liquidazione viene posto il pagamento degli interessi «at the legal rate from the date of the filing of the petition, on any claim paid under paragraph (1), (2), (3) e (4) of this subsection» [§ 726(a)(5)]. Nonostante la norma si riferisca soltanto agli interessi – maturati dopo l’apertura della procedura – calcolati al tasso legale, la dottrina che si è occupata dell’argomento è orientata a estendere l’applicazione di essa anche agli interessi calcolati al tasso convenzionale17. La ratio è da rinvenire, di nuovo, nell’esigenza di evitare che i crediti (non funzionali allo svolgimento della procedura) sorti successivamente al filing of the petition, concorrano sullo stesso piano dei crediti anteriori, riducendone le possibilità di soddisfacimento. f-g) Anche in Australia, il Corporations Act (2001) prevede, alla Sec. 563B(2), che «payment of the interest is to be postponed until all other debts and claims in the winding up have been satisfied, other than debts owed to members of the company as members of the company (whether by way of dividends, profits or otherwise)»; analogamente a quanto stabilito in Inghilterra, nella Sec. 328 (4) Insolvency Act (1986), ai sensi della quale «Any surplus remaining after the payment of the debts that are preferential or rank equally under subsection (3) [i.e., i crediti chirografari] shall be applied in repaying interest on those debts in respect of the periods during which they have been outstanding since the com-

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Baird e Jackson, Cases, Problems, and Materials on Bankruptcy, Boston, 1990, p. 725.

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mencement of the bankruptcy; and interest on preferential debts ranks equally with interest on debts other than preferential debts». h) Da ultimo, infine, anche l’ordinamento cileno ha imboccato la strada della postergazione del credito per interessi endoconcorsuali: ai sensi dell’art. 139.5, Ley n. 20.720 del 2014, infatti, «los intereses que se devenguen con posterioridad a la dictación de la Resolución de Liquidación quedarán pospuestos para su pago hasta que se pague el capital de los demás créditos en el Procedimiento Concursal de Liquidación». B. Sembra dunque opportuno prendere spunto dalle esperienze maturate in altri ordinamenti e coniugare la regola della sospensione degli interessi endoconcorsuali con quella della subordinazione assoluta del credito per gli stessi; regola, quest’ultima, attivabile solo nella remota ipotesi in cui la massa attiva risultasse sufficiente a soddisfare tutti i restanti crediti concorrenti. In tal modo: nessun ostacolo verrebbe frapposto al concorso sostanziale; non si determinerebbe alcuna alterazione del principio cardine della par condicio e, soprattutto, verrebbe correttamente attuata la responsabilità patrimoniale del debitore, impedendo a quest’ultimo di rientrare nella disponibilità, giuridica e materiale, di parte del suo patrimonio in presenza di obbligazioni comunque connesse a crediti concorrenti (quelle per gli interessi endoconcorsuali, appunto) ancora non estinte.

Intervento Sido Bonfatti Il mio contributo alla discussione è, purtroppo, tendenzialmente generico, perché con i temi trattati non ho più la consuetudine di qualche tempo fa. Mi pare però di possedere sufficienti elementi di valutazione per sottoporre al Vostro esame alcuni spunti di riflessione. Il tema dell’usura si sta oggi sviluppando su numerosi fronti, alcuni dei quali francamente inaspettati, e che a me suscitano notevoli perplessità. Faccio riferimento, in prima battuta, alla c.d. “usura sopravvenuta”, che si avrebbe quando, cambiate le condizioni dei mercati finanziari, un tasso di interesse originariamente “regolare” e lecito, si trovasse ad oltrepassare le “soglie” usurarie successivamente determinatesi in conseguenza di una (non prevista) diminuzione dei tassi di interesse. Ma faccio anche riferimento alla tesi secondo la quale il reato di usura si commetterebbe non solo al momento della conclusione di un contrat-

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to di finanziamento caratterizzato da un tasso usurario – nel qual caso, almeno, è possibile individuare chi abbia commesso il fatto penalmente rilevante di concordare con il soggetto finanziato un tasso illecito –, ma anche (o solo, in caso di usura sopravvenuta?) nel momento della percezione del tasso usurario – nel qual caso, mi pare difficile individuare il “riscossore” perseguibile in sede penale –. La c.d. “usura originaria” è contrattualmente e giuridicamente comprensibile e concepibile: data una disciplina legale calmieratrice del tasso di interesse, lo “sforamento” della “soglia”, comportante un aggravio economico sul soggetto finanziato giudicato abnorme, espone il soggetto che aspira ad un arricchimento eccessivo a responsabilità, anche penale. Il banchiere lo sa, ed è in condizione di evitare comportamenti penalmente rilevanti. La c.d. “usura sopravvenuta” aspira invece a punire il soggetto che, senza sua colpa, si sia trovato a godere di un cambiamento delle condizioni dei mercati finanziari (non previsto), in una direzione (anch’essa non prevista) orientata alla diminuzione dei tassi di interesse, che rende il tasso stipulato (in misura fissa) più elevato di quelli successivamente formatisi sui mercati. A parte la considerazione (“economica”) che ad un fenomeno come quello descritto (la riduzione al “tasso-soglia” tempo per tempo rilevabile del tasso contrattuale divenuto usurario per il mutamento – al ribasso – delle condizioni mercato) non corrisponde un fenomeno uguale e contrario di adeguamento del tasso contrattuale originario (fisso) all’eventuale fenomeno di aumento dei tassi di interesse sui mercati finanziari (per cui, se i mercati flettono, il tasso si riduce; se i mercati “schizzano”, il tasso non aumenta contemporaneamente); a parte questo, dicevo, c’è da segnalare che attribuire rilevanza al mutamento del rapporto tra tasso contrattuale e “tasso-soglia”, originariamente allineato con le disposizioni di settore, e successivamente alterato dalla diminuzione dei tassi di interesse sui mercati; e rendere rilevante ai fini della consumazione del reato di usura (anche) il percepimento dell’interesse pattuito, perché “divenuto” usurario (e non solo la pattuizione di un interesse originariamente usurario); conduce a considerare responsabili del reato soggetti (quelli che percepiscono il tasso divenuto usurario) diversi da quelli che ebbero a pattuire il tasso contrattuale con il cliente. Di qui l’accorgimento, utilizzato da talune banche, di auto-ridurre l’entità degli interessi richiesti in sede giudiziale al cliente inadempiente (poniamo, attraverso il deposito di un ricorso per decreto ingiuntivo), a livelli tali da risultare rispettosi dei “tassi-soglia” tempo per tempo vigenti, durante la gestione del contratto, e non soltanto del “tasso-soglia” origi-

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nario: senza però che la Banca possa adottare lo stesso metodo sull’opposto versante della “raccolta”, cioè con riguardo ai tassi di interesse dei rapporti di deposito dei Clienti, ai quali deve riconoscere lo (intero) interesse pattuito, nonostante l’eventuale “crollo” dei tassi di interesse sui mercati. Ciò detto dei profili più strettamente attinenti all’argomento dell’usura e dell’anatocismo, voglio soffermarmi brevemente su un ulteriore aspetto toccato dalla relazione del prof. Vattermoli, rappresentato dal regime degli interessi nelle procedure concorsuali. Oggi tale disciplina è declinata nel diritto positivo (gli artt. 54 e 55 l.fall., richiamati per il Concordato dall’art. 169 l.fall.), per ciò che concerne le procedure concorsuali “di diritto comune” (fallimento e concordato preventivo). Ma non è stato sempre così. Nel passato, la sospensione degli interessi sui crediti chirografari, e la limitazione della produzione degli interessi sui crediti privilegiati alla porzione destinata a essere collocata nello stesso grado del capitale, tipica del fallimento, era stata estesa alla procedura di concordato preventivo, ma non all’Amministrazione controllata: nel senso, che nell’Amministrazione controllata la esigibilità degli interessi sui crediti privilegiati era bensì sospesa per la durata della procedura, ma la loro produzione non era sospesa, tanto da consentire la immediata ed integrale esigibilità al termine di chiusura della Procedura. La riforma della legge fallimentare avviata nel 2005-2006 ha comportato la unificazione dell’Amministrazione controllata e del concordato preventivo, e la conseguente omogeneizzazione delle relative discipline, ispirate principalmente alle norme già dettate per il concordato preventivo. Tra queste, la norma della sospensione (ai fini del concordato) degli interessi sui crediti chirografari, e la limitazione del riconoscimento degli interessi sui crediti privilegiati alla sola porzione collocata nello stesso grado del capitale. Nel corso del tempo, tuttavia, la procedura di “crisi” unica, rappresentata dal “nuovo” Concordato preventivo, ha iniziato ad articolarsi in due diversi generi di subprocedura, costituiti l’uno dal concordato c.d. liquidativo; e l’altro dal concordato c.d. “in continuità aziendale”, che finisce con l’assolvere quella funzione (di “risanamento”) già perseguita dall’Amministrazione controllata. L’imprenditore, infatti, mantiene la titolarità dell’impresa (e del patrimonio che ne consente l’esercizio), soddisfacendo le passività con altro che non sia la liquidazione delle attività (i proventi della gestione, o i canoni dell’affitto d’azienda). In tale contesto, risulterebbe forse più coerente prevedere l’obbligo del pagamento ai creditori anche degli interessi, come sarebbe avvenuto se il tentativo di risanamento fosse

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stato perseguito con l’ammissione all’Amministrazione controllata. L’argomento peraltro si inserisce in un dibattito più ampio, che comprende anche l’interrogativo nell’ammissibilità di una proposta concordataria che mantenga all’imprenditore una porzione del suo patrimonio (come avviene nel Concordato “in continuità aziendale”, dove l’azienda viene mantenuta all’imprenditore per la continuazione dell’attività d’impresa) – così disattendendo il principio della responsabilità del debitore, per le obbligazioni assunte, con tutto il suo patrimonio: art. 2740 c.c. –, purché prospetti un soddisfacimento dei creditori migliore rispetto a quello presumibilmente conseguibile dalla liquidazione fallimentare. Si sono infatti verificate numerose ipotesi – tipicamente: di immobiliaristi – nelle quali la proposta concordataria prevedeva il pagamento integrale delle passività pregresse per capitale, ma con la “falcidia” per gli interessi conseguente all’applicazione degli artt. 54 e 55 l.fall. (resi applicabili dall’art. 169), con il mantenimento all’imprenditore di una porzione del patrimonio (la cui liquidazione successiva avrebbe consentito anche il pagamento degli interessi, o di una parte degli stessi). La risposta al quesito della “negoziabilità” o meno del principio della responsabilità del debitore, per le obbligazioni assunte, con tutto il suo patrimonio, è difficile e incerta di per sé, e forse si gioverebbe del ritorno alla distinzione tra procedure concorsuali cc.dd. “liquidative” e procedure concorsuali cc.dd. “di risanamento”. Tale distinzione potrebbe anche aiutare a gestire in modo più preciso (e più corretto) un altro dei profili problematici individuati dalla Relazione del Prof. Vattermoli, rappresentato dalla disciplina degli interessi dei crediti privilegiati nel Concordato preventivo. A tale proposito occorre tenere presente il principio, introdotto dalla riforma delle legge fallimentare nell’attuale art. 160, co. 2, secondo il quale la proposta concordataria può prevedere anche il pagamento soltanto parziale dei crediti privilegiati, se tale pagamento risulta non inferiore al soddisfacimento che tali crediti riceverebbero in una diversa sede liquidativa (tipicamente: quella fallimentare), secondo la stima giurata di un esperto attestatore. A tale stregua, mi parrebbe che detta “stima” debba anche attestare quale (eventuale) porzione di interesse sul credito privilegiato troverebbe collocazione (ai sensi degli artt. 54 e 55 l fall.) sul presumibile ricavato dal bene oggetto del privilegio, perché la restante porzione di credito, per gli interessi non capienti, dovrebbe seguire la sorte dei crediti (per interessi) chirografari. Sono questi tutti temi, che oltretutto assumono declinazioni diverse nei due tipi (o sottotipi) di concordato. Nel concordato “in continuità aziendale” il presumibile soddisfacimento del credito privilegiato, che costituisce

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il limite alla proposta di coinvolgerlo nell’eventuale “stralcio” concordatario, rimane definitivamente ancorato al valore espresso dalla stima giurata, perché il bene, in quanto funzionale alla prosecuzione dell’esercizio dell’attività di impresa, non verrà mai liquidato (o lo sarà in un momento molto remoto), e non darà mai luogo ad un concreto realizzo. Nel Concordato Preventivo c.d. “liquidativo”, invece, il bene oggetto di privilegio è destinato all’immediata liquidazione, la quale presumibilmente produrrà un ricavato diverso (di poco o di tanto) dal valore espresso dalla “stima” giurata. Il ché genera due questioni sulle quali è ancora necessario un approfondimento: (i) se in caso di ricavato inferiore al valore di “stima”, esso debba essere comunque integrato (con prelievo dal ricavato dalla liquidazione degli altri beni), per garantire al creditore privilegiato il pagamento integrale di quanto prospettato nella proposta concordataria (dove a me pare che il quesito dovrebbe ricevere risposta positiva); e (ii) se in caso di ricavato superiore al valore di “stima”, l’eccedenza debba essere comunque riconosciuta al creditore privilegiato (dove a me pare che la soluzione passi attraverso la affermazione che la proposta concordataria debba per lo meno precisare se in tale ipotesi si preveda, oppure no, un “diritto di accrescimento” in favore del creditore privilegiato).

Considerazioni conclusive. Il diritto bancario tra spinte alla disgregazione e unità interpretativa nel caso concreto: il punto di vista del civilista. Ernesto Capobianco 1. Interdisciplinarietà e complessità quali caratteri fondanti l’attuale diritto bancario. Il tema dell’odierno convegno impone una riflessione orientata alla interdisciplinarietà, coinvolgendo studiosi di diritto civile, di diritto commerciale e di diritto bancario, e richiamando altresì lo stesso punto di vista degli economisti. Le diverse relazioni che si sono susseguite hanno posto l’accento sulla complessità del sistema normativo1, complessità di tipo non soltanto

1 Il dato della complessità accomuna la riflessione degli odierni interpreti anche in ambito civilistico: v., tra le voci più autorevoli, Perlingieri, Il diritto civile e la complessità del sistema, in Corti Bari, Lecce, Potenza, 2003, pp. 10 ss., spec. p. 13, profilo da ultimo ripreso in Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-

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quantitativo – perché correlata evidentemente a norme che spaziano dal diritto comunitario alle fonti di secondo livello (inclusa la regolamentazione di Banca d’Italia) – ma anche e soprattutto di tipo qualitativo: molti dei relatori hanno fatto riferimento, a tale proposito, alle inefficienze del sistema, ai ‘rebus normativi’ posti dall’art. 120 t.u.b., alla difficoltà di coordinare la ratio delle varie norme di settore con la posizione assunta di volta in volta non soltanto dai creditori professionali ma dalla stessa clientela comune (con conseguente aumento del tasso di litigiosità). Tutto ciò si staglia invero dietro il lodevole proposito del legislatore di dare ordine al sistema attraverso il costante riferimento alla trasparenza bancaria intesa sia in senso stretto, quale mera informazione, sia in senso più ampio, quale correttezza: accezioni queste tutte confluite nell’art. 127 t.u.b. che si riferisce al rapporto (non più solo al contratto) tra banca e cliente2. Inevitabilmente le nuove disposizioni di incidenza bancaria – in un’ottica sistematica sempre più auspicata dai diversi relatori – dovranno leggersi alla luce dei princípi classici (di diritto contrattuale) della buona fede e della correttezza, dei quali le regole di trasparenza e di equilibrio rappresentano un’evidente concretizzazione. La stessa trasparenza bancaria è figlia della buona fede intesa come correttezza nell’attività. Di tanto si trae oggi conferma sia dall’art. 39 c. cons., il cui ambito applicativo non riguarda soltanto il contratto ma le attività commerciali in genere, sia dalla normativa sulle pratiche commerciali che oggi si estende anche alle c.dd. micro-imprese. La correttezza – nella sua veste prettamente civilistica – involge quindi, non solo il contratto e il precontratto, ma l’attività, i rapporti, i diversi contatti.

comunitario delle fonti3, Napoli, 2006, spec. pp. 180 ss.; Irti, L’età della decodificazione2, Milano, 1986, pp. 25 ss.; recentemente – con particolare riferimento alla connessione del problema delle categorie con la crisi del sistema delle fonti – Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, pp. 34 ss. 2 Per un’ampia disamina delle accezioni e delle implicazioni della trasparenza bancaria anche alla luce delle nuove Istruzioni di Banca D’Italia del 2009 e succ. mod., cfr. Aa. Vv., Nuove regole per le relazioni tra banche e clienti. Oltre la trasparenza?, Torino, 2011; Capobianco e Longobucco, La nuova disciplina della trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, in Contr. impr., 2011, pp. 1142 ss.; Id. e Id., voce Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari, in Dig. disc. priv., sez. comm., Agg., 2012, pp. 713 ss.; Mirone, La trasparenza bancaria, Padova, 2012; Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013; da ultimo Mucciarone, La trasparenza bancaria, in Trattato dei singoli contratti, V, Mercati regolati, a cura di Roppo, Milano, 2014, pp. 663 ss., ove ulteriori riferimenti.

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Lo scenario del diritto bancario attuale muta dunque considerevolmente. Lo stesso diritto bancario diventa permeabile a questioni tradizionalmente connesse al diritto civile odierno, quali quella dell’equilibrio normativo e della giustizia contrattuale (dunque dello stesso equilibrio economico)3: se in passato le banche riuscivano ad imporre il loro potere contrattuale (con il solo limite dei tassi di interesse attivi e passivi: art. 32, lett. b, legge bancaria del 1936), oggi la minor “forza” delle n.b.u., che devono porsi in linea con la nostra legislazione antitrust e consumeristica4, come pure la dichiarata illegittimità di alcuni usi e prassi già consolidate5, aprono la via ad una maggiore tutela del cliente (controparte contrattuale) e ad una più penetrante ‘giustizia’ del diritto bancario. 2. La deriva della disgregazione: proliferazione dei regimi normativi a livello settoriale (il caso della trasparenza bancaria) e sul piano soggettivo (la classificazione secondo ‘numeri’ dei contratti). Indubbiamente la situazione non è così semplice. Il dato della complessità sopra richiamato ingenera notevoli difficoltà di coordinamento e operative che devono responsabilizzare il ruolo dell’interprete. Si pensi, in primo luogo, alla possibilità di frastagliare il regime della trasparenza a livello settoriale e dunque in ragione dei diversi ambiti di interesse e delle diverse operazioni economiche che si concludono. In tale prospettiva, come peraltro è ben emerso nell’incontro odierno, esiste una trasparenza generale dei contratti bancari compendiata nel t.u.b. (Titolo VI), una tra-

3 Taluni spunti sono sviluppati da Capriglione, Dalla trasparenza alla «best execution»: il difficile percorso verso il giusto prezzo, in Banca, borsa, tit. cred., 2009, pp. 475 ss. 4 Si pensi al caso verificatosi nel 1998 concernente l’adozione da parte di aziende ed istituti di credito, aderenti all’ABI, di norme bancarie uniformi (n.b.u.) fissate da quest’ultima – sanzionate dalla competente Banca d’Italia per contrasto con l’art. 2 l. n. 287 del 1990 – e alla conseguente attività negoziale. Il provvedimento della Banca d’Italia del 12 dicembre 1994, n. 12 può leggersi in Banca, borsa, tit. cred., 1995, II, p. 393. La tematica è stata affrontata, in Capobianco, Contrattazione bancaria e tutela del consumatore, Napoli, 2000, pp. 66 ss. al quale sia consentito rinviare e, con particolare riguardo alle intersezioni tra contrattazione bancaria e normativa antitrust da L.C. Ubertazzi, Banche e concorrenza. Scritti, Milano, 2007, pp. 121 ss. 5 Non può non farsi un riferimento – in questa prospettiva – alla annosa questione della nullità della clausola contrattuale che, per la determinazione del tasso di interesse ultralegale, rinvia alle condizioni praticate usualmente dalle aziende di credito su piazza: cfr. Cass., 20 agosto 2003, n. 12222, in Foro it., 2004, I, c. 110; Cass., 25 febbraio 2005, n. 4095, ivi, 2006, I, c. 1762 ss.; Trib. Palermo, 5 ottobre 2010, in Rep. Foro it., 2010, voce Merito extra, n. 2010.532.1.

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sparenza nel credito al consumo (art. 121 ss.), una trasparenza nei servizi di pagamento (art. 126 bis ss.), una trasparenza finanziaria disciplinata dal t.u.f. Tutto ciò acuisce il disordine e aumenta il rischio del contenzioso soprattutto in presenza di quei prodotti misti o complessi, ai quali si è fatto cenno, che richiedono l’applicazione – in combinato disposto tra di loro – di più normative e che, peraltro, pongono altresì problemi di gestione della competenza tra i diversi organi deputati alla soluzione extragiudiziale delle controversie (si pensi ai delicati rapporti tra Camera di Conciliazione e Arbitrato e ABF che sono rimessi a un Protocollo d’intesa in base al Regolamento Consob del 29 dicembre 2008). Ma la complessità normativa sfocia oggi anche nella proliferazione continua di statuti regolamentari diversificati a parte subiecti, essendo mutevoli le norme in ragione dei diversi soggetti che accedono alla contrattazione bancaria e finanziaria6. Di tale tendenza è espressione la civilistica attuale protesa in uno sforzo (non si sa quanto utile) di catalogare i contratti secondo ‘numeri’: esisterebbe così un ‘primo contratto’ (il contratto di diritto comune), disciplinato dal codice civile e concluso tra soggetti muniti di pari potere contrattuale; un ‘secondo contratto’ – il contratto c.d. del consumatore – stipulato tra un professionista e un consumatore (b2c); un ‘terzo contratto’ – caratterizzato anch’esso da asimmetria di potere – concluso tra un’impresa dominante e un’impresa più debole (b2b)7; più di recente, si è configurato un ‘quarto contratto’ che potrebbe, meglio degli altri, attagliarsi proprio al caso dei contratti bancari – c.d. supplier to costumer (s2c) – in relazione al quale l’asimmetria insiste nel rapporto tra un professionista particolarmente qualificato sul mercato (fornitore di beni e servizi il quale detiene la prestazione caratteristica) e un più indistinto cliente (‘senza aggettivi’) che

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Stigmatizza la tendenza alla classificazione e alla correlata creazione di una ‘parte astratta’ del contratto, Perlingieri, L’informazione e il contratto, in Id., Il diritto dei contratti fra persona e mercato, Napoli, 2003, spec. p. 371, ove l’a. nota incisivamente che «[…] poco utile appare discorrere ancora, in modo generico, di “parte” del contratto: la parte va vista nel concreto rapporto collegato alla regolamentazione del mercato e, più esattamente, ai beni regolati da quel mercato. Occorre, in altri termini, un ridimensionamento della parte generale del contratto disciplinata nel nostro codice, ispirata ad una “parte” astratta, dato che nel concreto si riscontrano determinati soggetti con peculiarità molto forti. Ciò non significa auspicare alla creazione di una categoria delle parti, come taluno sostiene […]» (sottolineatura aggiunta). 7 Si vedano al riguardo i contributi racchiusi nel volume a cura di Gitti e Villa, Il terzo contratto. L’abuso di potere contrattuale nei rapporti tra imprese, Bologna, 2008.

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non coincide tuttavia con il consumatore in senso classico8. Si potrebbe ancora proseguire nell’elencazione e immaginare un ‘quinto contratto’ – argomentando dalla disciplina in tema di pratiche commerciali scorrette (art. 19 c. cons.) e di ius variandi (art. 118 t.u.b.) – concluso tra un professionista e una micro-impresa. E così via fino a un ‘sesto contratto’ che coinvolgerebbe la persona fisica non consumatore (arg. ex art. 120 ter t.u.b. in tema di estinzione anticipata dei mutui immobiliari), o ad un ‘settimo contratto’ che riguarderebbe le famiglie consumatrici (arg. ex d.l. n. 29/2012 e l. n. 62/2012)9. Ponendo mente al t.u.f., l’elencazione potrebbe probabilmente ancora continuare. Dinanzi ad una tale scomposizione di regimi normativi è compito dell’interprete valutare di volta in volta la concreta operazione da assoggettare a disciplina10. I diversi sub-regimi potranno anche applicarsi simultaneamente e compatibilmente al contratto, sconfessando così la classificazione: un contratto concluso tra la banca e un consumatore è anzitutto un contratto cui si applicherà la disciplina del codice civile (in tema di oggetto, causa, nullità o risoluzione, vizi del consenso, ecc.), ma è altresì un contratto bancario (s2c). Allo stesso – ove ne ricorrano i presupposti – potrà applicarsi la norma generale di cui all’art. 9 l. n. 192/1998 in tema di abuso di dipendenza economica (propria del regime b2b) sull’assunto che essa si estenda ai contratti bancari11, in modo tale da sanzionare anche

8 Roppo, Ancora sul contratto asimmetrico e terzo contratto. Le coordinate del dibattito, con qualche elemento di novità, in Alpa e Roppo, La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a Stefano Rodotà, Roma-Bari, 2013, p. 186 ss. al quale si deve una proposta ricostruttiva che pone al centro la più generale categoria del contratto “asimmetrico”. 9 In prospettiva critica sull’utilità di queste partizioni Perlingieri, La contrattazione tra imprese, in Rass. dir. civ., 2006, pp. 323 ss; Minervini, Il «terzo contratto», in Contr., 2009, pp. 493 ss.; Vettori, Il contratto senza numeri e aggettivi. Oltre il consumatore e l’impresa debole, in Contr. impr., 2012, pp. 1190 ss.; Capobianco, Lezioni sul contratto, Torino, 2014, pp. 26 ss. 10 Occorre dunque affrontare la questione «in funzione della rilevanza che essa riveste nel caso concreto: tenendo conto, ad esempio, dei soggetti che hanno contrattato o della materia particolarmente delicata nella quale è posta la contrattazione» (così Perlingieri, L’informazione, cit., p. 370). 11 Tale convincimento ho già espresso in Capobianco, Contrattazione, cit., pp. 58 ss. nonché, più di recente in Id., L’abuso di dipendenza economica. Oltre la subfornitura, in Conc. merc., 2012, pp. 619 ss. [e in Contratti tra imprese e tutela dell’imprenditore debole, a cura di Ruscello, Atti del Convegno “Contratti tra imprese e tutela dell’imprenditore debole” tenutosi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Verona il 16 e 17 settembre 2011, pp. 221 ss.], ove notavo che «non è escluso, peraltro, che sotto la lente dell’abuso di dipendenza economica possano, in concreto, essere riguardati altri

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quei contratti i quali, pur essendo stati oggetto di trattativa individuale tra banca e ‘cliente debole’, siano ciò nondimeno connotati da un marcato squilibrio economico (in entrambi questi ultimi casi non troverebbe infatti applicazione la disciplina posta a tutela del consumatore). 3. Il ruolo responsabile dell’interprete tra standardizzazione dei contratti bancari e relatività del processo di individuazione normativa. La complessità del sistema normativo non deve tradursi dunque in una sconfitta per l’interprete che è chiamato ad applicare variegate normative. Se per un verso la semplificazione, auspicata da molti dei relatori, potrebbe seriamente contribuire a porre un argine a quella sovrabbondanza di norme che – insieme allo stesso eccesso informativo al quale pure si è fatto cenno nelle diverse relazioni – crea indubbie inefficienze nel mercato bancario e non rende certo agevole le scelte della clientela, per altro verso l’attuale coacervo di norme comunitarie, interne, regolamentari impone uno sforzo di coordinamento e di sistemazione non indifferente. Tale sforzo non può che mirare alla valorizzazione dei singoli casi concreti e delle relative esigenze di tutela di volta in volta emergenti. Tutto ciò rende inutile ogni classificazione (tra primo, secondo, terzo contratto, ecc.) e ogni tipizzazione dell’esistente12. In questa prospettiva diventa invece condivisibile il tentativo di accostare i vari sub-regimi normativi per verificare se talune regole o princípi

comportamenti delle imprese bancarie, beninteso quando si tratti di comportamenti iscrivibili nei presupposti della norma e, in particolare, nel riscontro del requisito della “mancanza sul mercato di alternative soddisfacenti”, a superare il quale non sembrano risolutivi gli inviti diretti dall’Organo antitrust alle banche di non considerare gli schemi contrattuali raccomandati in sede ABI quali “mera traccia priva di ogni valore vincolante”, potendo l’osservanza di tale invito dar luogo all’esclusione delle sanzioni in sede antitrust ma non delle tutele rilevanti nei rapporti contrattuali tra banca e cliente e, tra queste l’art. 9 l. n. 192 del 1998». Analogamente v. L.C. Ubertazzi, Concorrenza e contratti bancari: vent’anni dopo, in Dir. banc., 2003, p. 370. 12 In simile prospettiva v. già prima i convincenti rilievi di Perlingieri, In tema di tipicità e atipicità nei contratti, in Id., Il diritto, cit., p. 408, il quale evidenzia il carattere «desueto» della distinzione tra contratto tipico e contratto atipico, in quanto «la funzione realizzata non si può identificare con le singole funzioni degli atti, ma con la funzione complessiva». Ne discende la possibilità che il singolo atto, pur potendo superare, preso in sé, il vaglio di meritevolezza, sia finalizzato invece, unito ad altri, al perseguimento di un interesse non meritevole. Nella stessa direzione, altresì, Id., Il diritto, cit., pp. 341 ss. Analogamente, da ultimo, Pennasilico, Metodo e valori nell’interpretazione dei contratti, Napoli, 2011, spec. pp. 173 ss.

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a vocazione più generale possano trasmigrare da un regime all’altro. È per esempio il caso del principio dell’abuso del diritto che alimenta il divieto di dipendenza economica applicabile – come credo – sia ai contratti b2b sia ai contratti diversi da quelli d’impresa13. Si pensi ancora alla norma contenuta nell’art. 35 c. cons. in tema di dovere di chiarezza e comprensibilità delle clausole contrattuali14: tale norma non riguarda soltanto i contratti del consumatore, come potrebbe evincersi da una superficiale analisi della sua collocazione topografica, ma è suscettibile di estendersi anche ad ogni altro contratto. La portata generale del dovere di chiarezza e comprensibilità del testo contrattuale – recentemente ribadita anche dalle Istruzioni di Banca d’Italia in tema di trasparenza15 – è stata avallata poi dalla stessa Corte di giustizia

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Sia ancora consentito il rinvio a Capobianco, Contrattazione, cit., p. 58. Per un’accurata e convincente analisi in merito alla portata estensiva nel sistema contrattuale della norma in discorso v., altresì, Longobucco, Art. 9, l. 18 giugno 1998, n. 192: oltre la subfornitura industriale? (Trib. Trieste, ord. 21 settembre 2006; Trib. Isernia, 12 aprile 2006), in L’«interpretazione secondo Costituzione» nella giurisprudenza. Crestomazia di decisioni giuridiche, II, a cura di Perlingieri e Carapezza Figlia, Napoli, 2012, pp. 465 ss. 14 Il citato obbligo di chiarezza e comprensibilità del testo si correla, in senso lato, al tema della correttezza e trasparenza nei rapporti contrattuali [art. 2, co. 2, lett. c) ed e), c. cons.] [sul tema v. diffusamente V. Rizzo, Trasparenza e «contratti del consumatore». (La novella al codice civile), Napoli, 1997; Di Giovanni, La regola di trasparenza nei contratti del consumatore, Torino, 1998; Capo, Attività di impresa e formazione del contratto, Milano, 2001, pp. 205 ss.; Capobianco, Contrattazione, cit., spec. pp. 112 ss.; Id. Diritto comunitario e trasformazioni del contratto, Napoli, 2003, pp. 23 ss.; Id., Il contratto dal testo alla regola, Napoli, 2006, p. 79; Longobucco, La regola contrattuale tra testo e controllo, in Sulle tecniche di redazione normativa nel sistema democratico, a cura di Perlingieri, Napoli, 2010, pp. 225 ss.]. Il collegamento, opportunamente sottolineato in dottrina, dell’art. 35 c. cons. con la clausola generale ex art. 1337 c.c. lascia propendere, in base all’interpretazione sistematica, per il convincimento che l’obbligo di chiarezza e comprensibilità nella formazione, rectius redazione del testo, costituisca «un principio che potrebbe manifestare una vis espansiva» (V. Rizzo, Trasparenza, cit., p. 33 s.), investendo la disciplina del contratto comune e non soltanto di quello stipulato tra professionisti e consumatori. Allo stesso modo, il riferimento all’art. 1337 c.c. sembra poter guidare l’interprete nella risoluzione dei problemi connessi alla ricostruzione dei rimedi praticabili in caso di violazione (da parte del professionista o, più in generale, delle parti) del richiamato obbligo ex art. 35, co. 1, c. cons., che potrebbero spaziare da quello risarcitorio, all’annullabilità per errore o dolo, inclusa, se del caso, la possibile applicazione dello statuto della nullità protettiva (V. Scalisi, Dovere di informazione e attività di intermediazione mobiliare, in Riv. dir. civ., 1994, pp. 174 ss.; Di Giovanni, La regola, cit., p. 42; Capobianco, Diritto, cit., p. 29, nota 52). 15 Il vero punto cardine della trasparenza bancaria attiene infatti all’individuazione di un nucleo forte di princípi dettati per la redazione e illustrazione dei documenti,

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europea, la quale, in una recentissima pronuncia16, ha rimarcato l’obbligo del professionista non soltanto di rispettare il canone della chiarezza grammaticale, ma anche di rendere intellegibile al consumatore i termini giuridici ed economici del regolamento contrattuale. In definitiva, sembra che l’art. 35 c. cons. sia non soltanto norma da confinarsi entro lo stretto ambito consumeristico, ma sia estensibile altresì al settore dei contratti conclusi tra banca e clienti, in quanto norma che costituisce diretta emanazione della buona fede, della correttezza, della trasparenza contrattuale. Merita dunque condivisione l’assunto suggerito nell’incontro che la norma in discorso introduce un vero e proprio dovere di consulenza della banca verso il proprio cliente17, certo graduato sulla base del grado di alfabetizzazione finanziaria del singolo interlocutore, ed altresì estensibile anche al di fuori del settore disciplinato dalla Direttiva mutui e credito ai consumatori18 ove un tale obbligo è stato recentemente direttamente codificato.

a testimonianza della rilevanza del consenso informato e della clausola generale di buona fede, dalla quale origina l’obbligo del clare loqui e di chiarezza e comprensibilità del testo contrattuale. Banca d’Italia ha proposto, pertanto, l’adozione di standards minimi e generali di redazione relativi all’impaginazione e alla struttura dei documenti, nonché alle scelte sintattiche e lessicali (utilizzo di frasi semplici e brevi, preferenza per le forme attive rispetto a quelle passive, espressione del soggetto, ricorso al modo indicativo invece che al congiuntivo, indicazione dei riferimenti normativi a fine frase e tra parentesi, utilizzo di parole di uso comune, ecc.), sull’assunto che il rispetto di tali criteri minimi costituirà oggetto di particolare attenzione nell’ambito dei controlli. I documenti di trasparenza, i quali appaiono volutamente ‘indeterminati’, devono pertanto uniformarsi a criteri di impaginazione che assicurino elevati livelli di leggibilità; devono possedere una struttura idonea a presentare le informazioni in un ordine logico e di priorità che assecondi le necessità informative del cliente e faciliti la comprensione e il confronto delle caratteristiche dei prodotti; essi, ancora, devono presentare: semplicità sintattica e chiarezza lessicale calibrate sul livello di alfabetizzazione finanziaria della clientela – il che dà contenuto, evidentemente, allo stesso obbligo di correttezza degli operatori – alla quale il prodotto è destinato, anche in relazione alle caratteristiche di quest’ultima. I termini tecnici più importanti e ricorrenti, le sigle e le abbreviazioni sono spiegati, con un linguaggio preciso e semplice, in un glossario o in una legenda; infine, vi deve essere coerenza tra presentazione delle informazioni e canale comunicativo, che tenga conto di criticità e vantaggi dei diversi canali (sia consentito, sul punto, ancora il rinvio a Capobianco e Longobucco, La nuova disciplina, cit., pp. 1141 ss.). 16 Cfr. Corte giust., 30 aprile 2014, c. 26/13, Árpád Kásler e Hajnalka Káslerné Rábai / OTP Jelzálogbank Zrt, reperibile sul sito internet http://curia.europa.ue. 17 In questo senso di recente A. Nigro, Linee di tendenza delle nuove discipline di trasparenza. Dalla trasparenza alla “consulenza” nell’erogazione del credito?, in Aa.Vv., Nuove regole per le relazioni tra banche e clienti. Oltre la trasparenza?, cit., pp. 29 ss. 18 Cfr., segnatamente, gli artt. 22 ss. (servizi di consulenza) della Direttiva CE 2014/17/ UE del 4 febbraio 2014 in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni

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Interessi e commissioni nei rapporti bancari

Lo stesso discorso può svolgersi in merito alla portata dell’art. 67-septiesdecies c. cons. relativo ai contratti a distanza aventi ad oggetto i servizi finanziari. In particolare, a fronte del classico principio di non interferenza tra regole di validità e regole di responsabilità, il comma 4 dell’articolo in esame introduce invece una particolare ipotesi di nullità per violazione di regole precontrattuali di comportamento19. Orbene, tale ipotesi potrebbe trovare applicazione anche al di là dell’ambito nel quale essa è stata codificata. Non è detto, cioè, che si tratti di disposizione di carattere eccezionale se essa è grado di soccorrere anche in altri contesti concreti ove emergano le medesime esigenze di tutela (del contraente debole) che quella norma intende realizzare20.

immobili residenziali e recante modifica delle Direttive 2008/48/CE e 2013/36/UE e del Regolamento UE n. 1093/2010. 19 La questione richiama, come si diceva nel testo, il dibattito dottrinale in merito alla persistente dicotomia tra regole di validità e regole di responsabilità [su cui mi limito a segnalare – anche per ulteriori riferimenti bibliografici – il più recente lavoro di Perlingieri, L’inesistenza della distinzione tra regole di regole di comportamento e di validità nel diritto italo-europeo, Napoli, 2013, pp. 84 ss. (con recensione di Polidori, in Rass. dir. civ., 2014, pp. 648 ss.)]. È particolarmente significativo che l’art. 67-septiesdecies, co. 4, c. cons., richiamato nel testo, sancisca la nullità (di protezione) del contratto qualora il fornitore violi “gli obblighi di informativa precontrattuale in modo da alterare in modo significativo la rappresentazione delle sue caratteristiche”, norma questa che, lungi dall’apparire espressione di una regola ‘speciale’, ben potrebbe ricondursi a un principio più generale in base al quale dovrebbe potersi verificare, sul piano concreto, se il mancato rispetto delle norme di condotta abbia inciso negativamente sulla costruzione della regola negoziale. Il rimedio della nullità protettiva può allora coesistere sempre più spesso con quello risarcitorio nel comune obiettivo di perequare i rapporti contrattuali squilibrati e di garantire la salvezza del regolamento e delle funzioni perseguite. Andrebbe quindi suggerita, al fine di risolvere il dilemma dell’interferenza o non interferenza tra regole di condotta e regole di responsabilità, una ponderazione caso per caso del ruolo che, di volta in volta la violazione della buona fede nella formazione del contratto può assumere. Laddove questa incida sul regolamento contrattuale, trasmettendogli un forte disvalore, la conseguenza potrebbe essere la nullità: è quanto già osservo in E. Capobianco, La buona fede e le sue declinazioni nell’attuale diritto dei contratti, scritto destinato agli Studi in onore di Giovanni Tatarano, Napoli (in corso di pubblicazione). 20 V., convincentemente sul punto, Perlingieri, Il diritto, cit., pp. 252 ss.; Id. e Femia, a cura di, Nozioni introduttive e principi fondamentali del diritto civile2, con la collaborazione di Tullio, Napoli, 2004, pp. 18 ss.: «la norma eccezionale, in quanto singolare relazione tra regola e princípi, è applicabile anche analogica­mente all’interno del proprio contesto giustificativo» (così anche Perlingieri, Il diritto, cit., p. 253); in senso conforme, già, Betti, Sugli effetti del giuramento decisorio in un caso di litisconsorzio fra condomini, in Riv. dir. proc. civ., 1925, II, p. 39; Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino, 1938, pp. 168 ss.; Giannini, L’analogia giuridica, in Jus, 1941-1942, pp. 65

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Così ancora nell’ottica dell’attenzione al caso concreto vanno rimeditati gli eccessi cui giunge l’esasperazione della standardizzazione dei contratti bancari21. In tale contesto la teoria normativa, sorta in Germania, che tende a spiegare il fenomeno delle condizioni generali di contratto con l’esercizio del potere normativo d’impresa22 non sembra convincente là dove ipotizza la non applicabilità dell’art. 1362 c.c. ai contratti standard e dunque attribuisce rilevanza esclusivamente alla volontà del predisponente. Viceversa non può escludersi che uno stesso contratto (bancario), benché ontologicamente standardizzato, può essere interpretato differentemente e reclamare l’applicazione di diverse discipline a seconda dei differenti contesti nel quale esso è concluso: per esempio, facendo leva proprio sugli indici fissati dagli artt. 1362 e 1366 c.c., avendo riguardo cioè alle circostanze, all’ambiente, ai comportamenti23, non da ultimo al grado di alfabetizzazione del singolo cliente24. Pertanto, ogni contratto bancario è unico e relativo e non massificato è il processo di interpretazione e di individuazione normativa che lo riguarda25.

ss. 21

Diffusamente, in argomento, Capobianco, Diritto, cit., spec. cap. III, passim. V. sul relativo dibattito si diffonde ampiamente Rizzo, Condizioni generali del contratto e predisposizione normativa, Camerino-Napoli, 1983, pp. 22 ss. 23 Sia consentito in argomento il rinvio alla mia più ampia analisi contenuta in Capobianco, Il contratto, cit., pp. 83 ss., spec. pp. 115 ss. 24 Significative in merito appaiono le osservazioni di Lupoi, Trasparenza e correttezza delle operazioni bancarie e di investimento (note alle Nuove Istruzioni di Banca d’Italia sulla trasparenza), in Contr. impr., 2009, pp. 1244 ss., e spec. pp. 1246 ss. ove l’a. richiama il significativo esempio giurisprudenziale contenuto in Trib. Firenze, 19 aprile 2005, in Contratti, 2005, pp. 1010 ss.: nell’esaminare un documento sottoscritto dal cliente della banca, il giudice di merito rileva, apertamente, come «il semplice esame del testo contrattuale evidenzia, al contrario, l’oscurità, la scarsa comprensibilità e la non chiarezza della disciplina pattizia». E proprio nel documento di consultazione antecedente alle nuove Istruzioni, a p. 18, si legge, nella stessa prospettiva, che il disagio è sicuramente dovuto a contenuti per loro natura complessi e tecnici, ma viene aggravato da un linguaggio e da una formulazione sovente oscuri per il consumatore» (sottolineatura aggiunta). 25 La conseguenza di ciò è il superamento del metodo ermeneutico classico della sussunzione: v. Perlingieri, Interpretazione e qualificazione: profili dell’individuazione normativa, in Id., Il diritto, cit., pp. 6 ss.; Id., In tema di tipicità, cit., p. 392. 22

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Interessi e commissioni nei rapporti bancari

4. Il profilo funzionale e rimediale: la rilevanza della causa concreta nel controllo del contratto, dell’attività e del mercato. La ‘giurisprudenza’ dell’A.B.F. come apprezzabile esempio di ‘giustizia del caso singolo’: verso un diritto ‘mite’ nel settore bancario e finanziario? Veicolo atto a valorizzare le peculiarità del caso singolo è infine quella nozione di causa concreta26 che anche la giurisprudenza di merito ha iniziato ad impiegare convincentemente nella sua argomentazione. In tale prospettiva, proprio nel campo del diritto bancario e finanziario, si è inaugurata la tendenza apprezzabile di considerare attentamente – ai fini di ammetterne non soltanto la liceità ma altresì la stessa meritevolezza – ogni singola convenzione negoziale. Così, per esempio, si è ritenuto nullo – per fondamentale assenza di causa – il contratto di swap ove incapace – per come congegnato dalle parti – di realizzare la funzione di copertura del rischio connaturata al proprio tipo sociale27 o quando, del pari, il contratto sia strutturato in guisa da garantire comunque un beneficio alla banca e una notevole esposizione al rischio del cliente (in una fattispecie in cui normalmente il rischio deve essere a carico di entrambi28). Lo stesso concetto di causa concreta ha indotto recentemente la giurisprudenza di merito ad associare il caso peculiare sotto indagine al grado di cultura finanziaria di quello specifico cliente29, soprattutto in presenza di prodotti di «elevata sofisticazione e complessità»30. È probabile dunque che la nozione in esame – volta a esaltare il regolamento di interessi perseguito dalle parti – possa penetrare in maniera massiccia nella giurisprudenza dell’Arbitro Bancario Finanziario, protesa, com’essa è, e non necessariamente nell’ottica di tutela del cliente, a garantire una giusta decisione per i problemi dei casi singoli e ad evitare ingiustificati arricchimenti31.

26 Per una recente analisi del tema v. Roppo, Causa concreta: una storia di successo? Dialogo (non reticente, né compiacente) con la giurisprudenza di legittimità e di merito, in Riv. dir. civ., 2013, pp. 957 ss; Bianca, Causa concreta del contratto e diritto effettivo, in Riv. dir. civ., 2014, pp. 254 ss. 27 Trib. Bari, 15 luglio 2010, reperibile sul sito internet www.ilcaso.it. Analogamente Trib. Milano, 14 aprile 2011, n. 5118, reperibile sul sito internet www.almaiura.it e citato in dottrina, ancora, da Capobianco e Longobucco, La nuova disciplina, cit., pp. 1141 ss. 28 Trib. Modena, 23 dicembre 2011, reperibile sul sito internet www.tidona.it. 29 Trib. Cosenza, 18 giugno 2014, reperibile sul sito internet www.ilcaso.it. 30 In tali termini Trib. Cosenza, 18 giugno 2014, cit. 31 Cfr., per esempio, le seguenti decisioni reperibili sul sito www. arbitrobancariofinanziario.it: Collegio Roma, decisione n. 3936 del 23 novembre 2012 in tema di apertura di credito e trasparenza bancaria; Collegio Roma n. 449 del

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Un ultimo profilo di estremo rilievo è poi quello c.d. rimediale pure esso evocato nel corso del convegno. I vari rimedi – volti a tutelare i concreti interessi di volta in volta perseguiti e tutelati dal legislatore – si ispirano a princípi cardine del sistema – quali quello di stabilità, di equità, di trasparenza, di correttezza, di proporzionalità32 – tesi a conformare non soltanto la singola contrattazione bensì l’intera attività economica e lo stesso mercato tout court nella prospettiva di garantirne il corretto funzionamento pro-concorrenziale. Il diritto bancario conosce un ampio ventaglio di tutele, dai rimedi individuali a quelli collettivi a quelli amministrativi (si pensi, da ultimo, all’art. 37-bis c. cons.), tutti posti a presidio e controllo non soltanto della contrattazione ma della stessa attività: si tratta di nuove o rimodellate forme di invalidità e di risarcimento, di sostituzione, di integrazione, di correzione, di rinegoziazione, di scioglimento e recesso, di inibitoria. Tali rimedi, azionati separatamente o variamente combinati tra loro33, identificano un piano flessibile di tutele che trova la sua modulazione in funzione della più efficiente realizzazione degli interessi considerati nella fattispecie concreta alla luce dei princípi di adeguatezza e di proporzionalità. In questa direzione si inscrive una recente pronuncia della Corte di giustizia europea che ha posto in luce – proprio in diretta applicazione del principio di adeguatezza della tutela – l’incoerenza di fondo del sistema rimediale francese. Tale sistema introduce in particolare, quale specifica sanzione per la violazione delle regole in tema di valutazione del merito creditizio, la decadenza del creditore dal suo diritto di domandare gli interessi convenzionali, potendo tuttavia lo stesso

22 gennaio 2013 in tema di collegamento negoziale tra contratto di mutuo e polizza assicurativa; Collegio Roma n. 4574 del 6 settembre 2013 in materia di interessi su rate sospese di un contratto di mutuo. Per una lettura complessiva dellle linee di tendenza della giurisprudenza dell’ABF cfr. diffusamente Dolmetta, Trasparenza, cit. 32 V., in tale prospettiva, proprio la recente ricostruzione ‘rimediale’ di Longobucco, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Napoli, spec. p. 60. 33 Si rinvia, sul punto, alle incisive notazioni di Perlingieri, L’informazione, cit., p. 370, secondo il quale «la pluralità [dei rimedi] fa sì che un rimedio non escluda l’altro, ma […] che si pongano a disposizione dell’interprete – e quindi del giudice – al quale spetta individuare la soluzione più adeguata alla situazione concreta. Tale pluralità di rimedi, in questa accezione di tipo continentale, finisce con l’essere uno strumento utile per realizzare il diritto di difesa ex art. 24 cost.». Da ultimo v., altresì, Id., Il “giusto rimedio” nel diritto civile, in Giust. proc. civ., 2011, pp. 1 ss. Con riferimento al contratto sia consentito il rinvio a Capobianco, Lezioni, cit., pp. 194 ss.

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Interessi e commissioni nei rapporti bancari

creditore pretendere in ogni caso gli interessi al tasso legale; era accaduto però che nell’ordinamento francese il tasso legale riusciva comunque a ‘premiare’ la banca, rendendo pertanto di fatto inefficace la sanzione da applicarsi. Dinanzi a questo quadro contraddittorio la Corte europea ha richiamato – a ragione – nel suo decisum la necessità di conformare i rimedi alla proporzionalità e alla adeguatezza nel caso concreto34. Lo stessa adeguatezza oggi caratterizza pure le “decisioni” c.dd. ‘miti’, ovvero frutto di mediazione obbligatoria e di composizione collettiva delle controversie. In tale contesto l’intervento dell’ABF – sebbene le sue decisioni appaiono riconducibili non già al piano della obbligatorietà in senso stretto, bensì a quello della sanzione meramente reputazionale – risulta alquanto significativo nel coniugare il caso concreto con il rigore dello strictum ius. Infatti la pronuncia dell’ABF, pur decidendo secondo diritto in quanto assunta sulla base «delle previsioni di legge e regolamentari in materia, nonché dei codici di condotta cui l’intermediario aderisca» (art. 6, co. 5, delibera CICR n. 275/2008), può «contenere indicazioni volte a favorire le relazioni tra intermediari e clienti». In altri termini, le decisioni dell’ABF, sebbene non vincolanti, vivono una dimensione che, nel sistema rimediale, è insieme individuale e collettiva. Infatti, lungi dal legittimare unicamente – come peraltro da taluni sostenuto35 – un’occasione per formulare mere raccomandazioni di carattere generale, la norma poc’anzi richiamata sembrerebbe non escludere la possibilità che la decisione dell’ABF, la quale riguarda innanzitutto «le parti» prima ancora che la generalità dei clienti e degli intermediari, possa altresì (non necessariamente debba) porsi in una prospettiva di attenta rilevazione degli interessi in gioco nella controversia da comporre attraverso il costante richiamo alla buona fede, all’equità, alla causa concreta36. Essa norma sembrerebbe alimentare del pari una possibile ricostruzione della relazione tra le parti in vista dell’applicazione di un diritto ‘mite’

34 Cfr. Corte giust., 27 marzo 2014, c. 565/12, LCL Le Crédit Lyonnais SA / Fesih Kalhan, (C. 565/12), reperibile sul sito internet http://curia.europa.ue. 35 V., da ultimo e più recentemente, Minervini, L’arbitro bancario finanziario, Napoli, 2014, pp. 75 ss. 36 Per una più ampia disamina di tali profili, oltre che per maggiori indicazioni bibliografiche, sia consentito il rinvio ai miei contributi in materia: Capobianco, La risoluzione stragiudiziale delle controversie tra mediazione e procedura dinanzi all’Arbitro Bancario e Finanziario, in Obbl. contr., 2012, pp. 571 ss.; Id., Mediazione obbligatoria e Arbitro Bancario Finanziario, in Contr. impr./Europa, 2011, pp. 134 ss.; Id., voce Arbitro Bancario, cit., pp. 35 ss.

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Dibattiti

al fine di evitare possibile soluzioni ingiuste nel caso concreto pur se adottate secondo diritto. Scelta questa apprezzabile – in ragione proprio del richiamato carattere non vincolante delle decisioni dell’ABF – in un momento storico nel quale, come si osservava in apertura, l’aumento del tasso di litigiosità nel settore bancario e finanziario non reca certo apprezzabili benefici ai privati e agli intermediari ma genera di fatto inefficienze nel sistema complessivamente considerato.

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MITI E REALTÀ

Le leggi di Murphy Principio della salciccia La gente a cui piace la salciccia e rispetta la legge non dovrebbe mai guardare come entrambe vengono fatte (L’agenda di Murphy 2015, 9 aprile) Principio di Oaks sulla legislazione Una legge civile non può abrogare una legge fisica (Id., 11 aprile) I legge di Marshall sulla legislatura Non lasciare che i fatti cambino una decisione sbagliata attentamente studiata (Id., 13 aprile) Freddura di Cabtree Non c’è corpus di leggi reciprocamente incoerenti nel quale un intelletto umano non saprà trovare una logica, per quanto complessa (Id., 24 aprile) Legge di Cade sui fondi Più grande è il budget, peggio verranno gestiti gli investimenti (Id., 7 maggio)

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Miti e realtà

Regola della legge Mai proporre il voto segreto per approvare una riforma importante (Id., 14 maggio) Legge di Parson In una città dove un avvocato non ha abbastanza lavoro, due ne avranno troppo (Id., 2 settembre) Legge dell’avvocato Mendelson Il dieci per cento dei clienti ti dà il novanta per cento delle seccature (Id., 3 settembre) Regola di Kline sulla legge contrattuale L’unico documento mancante conterrà le informazioni da cui dipendono tutti gli altri documenti (Id., 10 settembre) Legge di Lucas sulla negoziazione Una negoziazione sarà considerata un successo se tutte le parti se ne andranno sentendosi fregate (Id., 11 settembre) Regola di Andrew Young Nulla è illegale se cento uomini d’affari decidono di farlo (Id., 12 settembre) Osservazione di Hongren Tra gli economisti, la realtà è spesso un caso particolare (Id., 14 settembre)

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Leggi di Murphy

Legge di Miller Le eccezioni confermano le regole; e rovinano il bilancio (Id., 16 settembre) Regola di Sprecht sulla legge In ogni condizione, in qualsiasi luogo, qualunque cosa tu stia facendo, c’è qualche legge che stai infrangendo (Id., 17 settembre) Legge di Buchwald Quando l’economia si risana, tutto il resto si ammala (Id., 18 settembre) Soluzione di Salomone Fornisci sempre al tuo avversario due opzioni, una delle quali è molto peggio di quella a cui punti (Id., 19 settembre) Legge dell’ubi maior In Tribunale, la legge di Murphy prevale sulle leggi provinciali, regionali e statali (Id., 24 settembre) I legge sul commercio Qualsiasi cosa ti manca sarà richiestissima Corollari 1. Non appena ti arriva, la richiesta cessa 2. Non appena hai finito di venderla sottocosto, la richiesta ricomincia (Id., 11 ottobre)

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AUTORI

Soraya Barati, dottoressa in Economia (Università La Sapienza di Roma) Giovanni B. Barillà, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Bologna (Scienze Giuridiche) Sido Bonfatti, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Modena e Reggio Emilia (Giurisprudenza) Vincenzo Caridi, prof. a contratto di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Ernesto Capobianco, prof. ord. di Diritto civile nell’Università del Salento (Giurisprudenza) Giuseppe Leonardo Carriero, primo avvocato cassazionista presso la Banca d’Italia Francesco Ciraolo, prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Messina (Economia) Marco Conforto, dottore in Economia, Master in diritto della crisi delle imprese (Università La Sapienza di Roma) Ciro G. Corvese, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università di Siena (Economia) Paolo Cuomo, prof. a contratto di Diritto commerciale nell’Università del Salento (Scienze giuridiche) Aldo Angelo Dolmetta, prof. ord. di Diritto privato nell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano (Giurisprudenza) Clarisa L. Ganigian, dottoranda di ricerca (Università La Sapienza di Roma) Gian Luca Greco, prof. a contratto di Diritto commerciale nell’Università di Brescia Aldo Laudonio, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Catanzaro (Scienze giuridiche) Gianfranco Liace, dottore di ricerca (Università Luiss – Guido Carli di Roma) Fabrizio Maimeri, prof. ord. di Diritto del mercato finanziario nell’Università telematica Guglielmo Marconi di Roma (Economia) Enrico Minervini, prof. ord. di Diritto civile nella II Università di Napoli (Giurisprudenza) Andrea Minto, dottore di ricerca (Università Ca’ Foscari di Venezia)


Michele Miraglia, dottore di ricerca (Università La Sapienza di Roma) Alessandro Nigro, già prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Andrea Ottolia, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Genova (Giurisprudenza) Gianluca Romagnoli, avvocato in Padova Maria Elena Salerno, ricercatore di Diritto dell’economia nell’Università di Siena (Economia) Patrizia Santangelo, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Luigi Scipione, prof. a contratto di Diritto commerciale nell’Università Federico II di Napoli (Giurispudrenza) Andreina Scognamiglio, prof. ass. di Diritto amministrativo nell’Università del Molise (Giurisprudenza) Danile Vattermoli, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia)


INDICI DELL’ANNATA PARTE PRIMA SAGGI Ciraolo Francesco, I poteri delle autorità di vigilanza in situazioni di crisi degli intermediari finanziari non bancari pag. Corvese Ciro G., Gli assetti proprietari delle imprese di assicurazione fra diritto comune e diritto speciale » Cuomo Paolo, Controllo societario da credito e diritto della crisi: il problema del Sanierungsprivileg » Greco Gian Luca, La vigilanza sulle remunerazioni dei banchieri » Laudonio Aldo, La folla e l’impresa: prime riflessioni sul crowdfunding » Minto Andrea, Nuove responsabilità amministrative nel governo dei rischi dell’impresa di assicurazione: brevi riflessioni a margine del recente aggiornamento della disciplina sul sistema dei controlli interni » Miraglia Michele, L’Unione bancaria: una nuova architettura nella governance del credito in Europa » Nigro Alessandro, Note minime sulla nuova disciplina delle obbligazioni degli esponenti bancari » Nigro Alessandro, Il nuovo concordato preventivo (natura, funzioni, interessi) » Ottolia Andrea, L’equity crowdfunding tra incentivi al reperimento di capitale di rischio per start up innovative e responsabilità » Romagnoli Gianluca, La potestà sanzionatoria amministrativa a presidio della disciplina dell’abbinamento di mutui immobiliari o contratti di credito al consumo a polizze vita (art. 28, d.l. 24 gennaio 2012, n. 1). Condotte punibili e modalità d’esercizio dell’azione pubblica » Salerno Maria Elena, Le recenti modifiche alla disciplina di vigilanza in materia di partecipazioni detenibili dalle banche e dai gruppi bancari: un passo indietro nel processo di liberalizzazione delle regole » Scipione Luigi, Prime riflessioni sulla legittimità delle OMT e sul ruolo della BCE alla luce di una recente sentenza della Corte costituzionale tedesca »

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Indici dell’annata

Scognamiglio Andreina, La ristrutturazione del debito degli enti pubblici e il problema dei derivati Vattermoli Daniele, L’insolvenza delle società cooperative, tra codice civile e legge fallimentare

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COMMENTI Barillà Giovanni, Rifiuto del credito e obbligo di informazione in capo all’intermediario: il collegio di coordinamento ABF fa chiarezza Caridi Vincenzo, Anticipazione su crediti, concordato preventivo e art. 169-bis l. fall. Redazionale, Revocatoria fallimentare delle rimesse in contro corrente Redazionale, Sanzioni della Banca d’Italia e giurisdizione Santangelo Patrizia, La vendita di aziende “in esercizio” nell’amministrazione straordinaria, tra tutela dei creditori e salvaguardia dei complessi produttivi

FATTI E PROBLEMI DELLA PRATICA Liace Gianfranco, Il diritto di recesso nei contratti di intermediazione finanziaria nella giurisprudenza e nei recenti interventi legislativi

DIBATTITI Interessi e commissioni nei rapporti bancari – Incontro di studio del 20 giugno 2013, con interventi di Sido Bonfatti, Ernesto Capobianco, Vincenzo Caridi, Giuseppe Carriero, Aldo A. Dolmetta, Fabrizio Maimeri, Enrico Minervini, Alessandro Nigro, Daniele Vattermoli

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MITI E REALTÀ Le leggi di Murphy

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Indici dell’annata

INDICE ANALITICO DELLE DECISIONI Amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi Amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi – Vendita di azienda “in esercizio” – Ritenuta violazione dei criteri di stima dei complessi produttivi trasferiti – Lesione di diritti soggettivi dei creditori ipotecari – Giurisdizione del giudice ordinario – Sussiste Amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi – Vendita di azienda “in esercizio” – Inderogabilità dei criteri di stima dei complessi produttivi trasferiti – Violazione – Conseguenze – Nullità dell’operazione di cessione – Disapplicazione delle autorizzazioni amministrative alla cessione Amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi – Vendita di azienda “in esercizio” – Criteri di stima dei complessi produttivi trasferiti – Derogabilità sulla base delle modifiche intervenute con la l. n. 9/2014 – Esclusione

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Concordato preventivo Concordato preventivo – Contratti in corso di esecuzione – Nozione Concordato preventivo – Contratti in corso di esecuzione – Anticipazione su crediti con mandato all’incasso e patto di compensazione – Autorizzazione alla sospensione del mandato all’incasso non ancora eseguito – Possibilità Concordato preventivo – Contratti in corso di esecuzione – Anticipazione su crediti con mandato all’incasso e patto di compensazione – Autorizzazione allo scioglimento – Possibilità Concordato preventivo – Contratti in corso di esecuzione – Anticipazione su crediti con mandato all’incasso e patto di compensazione – Prosecuzione del rapporto durante la procedura – Riscossione dei crediti – Diritto della banca di procedere alla compensazione – Sussiste Concordato preventivo – Contratti in corso di esecuzione – Scioglimento – Autorizzazione – Decorrenza degli effetti Concordato preventivo – Domanda di concordato “in bianco” – Contratti bancari in corso di esecuzione – Istanza di autorizzazione dello scioglimento – Inammissibilità – Istanza di autorizzazione della sospensione – Ammissibilità Concordato preventivo – Domanda di concordato “in bianco” – Contratti bancari in corso di esecuzione – Istanza di autorizzazione allo scioglimento – Ammissibilità Concordato preventivo – Domanda di concordato “in bianco” Contratti bancari in corso di esecuzione – Istanza di autorizzazione della sospensione – Inammissibilità

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Indici dell’annata

Fallimento Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Rimesse su conto scoperto – Necessità Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Versamenti derivanti da anticipazioni concesse dalla banca – Atti solutori anormali – Esclusione Fallimento – Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Riduzione durevole dell’esposizione debitoria – Estremi – Fattispecie Fallimento Revocatoria fallimentare – Rimesse in conto corrente bancario – Revocabilità – Presupposti – Riduzione consistente dell’esposizione della banca – Estremi – Fattispecie

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Finanziamento Finanziamento – Mancata erogazione – Valutazione del merito creditizio – Diritto alla motivazione del diniego – Sussistenza Sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia Sanzioni amministrative irrogate dalla Banca d’Italia – Opposizione – Artt. 133, co. 1, lett. l), 134, co. 1, lett. c) e 135, co. 1, lett. c) d.lgs. n. 104 del 2010 che attribuiscono la giurisdizione in materia al giudice amministrativo – Art. 4, co. 1, n. 17 e 19, allegato n. 4 al d.lgs. n. 104 del 2010 – Illegittimità costituzionale

INDICE CRONOLOGICO DELLE DECISIONI 2013 App. Brescia, 19 giugno 2013 Trib. Ancona, 25 luglio 2013 Arb. Banc. finanz., 29 novembre 2013, n. 6182

2014 C. Cost., 5 aprile 2014, n. 94 App. Genova, 10 febbraio 2014 App. Ancona, 28 aprile 2014 Trib. Bergano, 28 aprile 2014 Trib. Milano, 18 maggio 2014

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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni



LEGISLAZIONE

Obblighi e responsabilità degli amministratori nella “twilight zone”: le nuove Raccomandazioni UNCITRAL Il 18 luglio 2013, la Commissione delle Nazioni Unite per la legislazione sul Commercio Internazionale (d’ora in avanti: UNCITRAL) ha adottato la Parte quarta della Guida legislativa sull’insolvenza, che appresso si pubblica, in cui sono confluite le nuove Raccomandazioni (255-266) in punto di obblighi degli amministratori di società che si trovino in una situazione prossima all’insolvenza. Come noto, la Guida legislativa sull’insolvenza, pubblicata nel novembre del 2004, rappresenta uno dei due strumenti, accanto alla Legge Modello in materia di insolvenza transazionale del 1997, con cui l’UNCITRAL ha tentato (e tenta) di armonizzare, dal punto di vista sostanziale, le discipline della crisi delle imprese dei vari ordinamenti. In particolare, tramite la Legge Modello la Commissione ha inteso fornire un modello cui il legislatore nazionale può fare riferimento per regolare il fenomeno dell’insolvenza transnazionale, potendo i diversi Stati decidere se adottarlo, con o senza modifiche, o meno all’interno dell’ordinamento domestico. La Guida legislativa sull’insolvenza, invece, ha lo scopo, appunto, di “guidare” i legislatori nazionali nell’implementazione di un sistema di governo dell’insolvenza il più possibile efficiente ed efficace, indicando gli obiettivi cui tale sistema deve tendere, nonché i mezzi per raggiungerli. Il documento si compone di Raccomandazioni, accompagnate da parti informative e descrittive, volte a offrire ai regulators una raccolta di “best practices” sulla scorta delle evidenze empiriche registrate nei vari ordinamenti e a supportarli, dunque, nella scelta dell’approccio che meglio si adatta al contesto nazionale. Secondo quanto riportato nella prima parte della Guida legislativa, tra gli obiettivi cui una buona legge sull’insolvenza deve tendere – che qui non possono, ovviamente, essere analizzati – vanno evidenziati quello: di promuovere stabilità e crescita del mercato, così da agevolare il reperimento di capitale sia di rischio sia di credito in favore delle imprese in crisi; di massimizzare il valore degli assets del debitore, a beneficio, in primis, dei creditori; di provvedere ad una tempestiva, efficiente ed imparziale soluzione dell’insolvenza, consentendo, tra l’altro, facili e veloci accessi alla procedura concorsuale. *** Sulla base di tali premesse e, nell’ottica di favore l’implementazione di un quadro legislativo che rifletta gli sviluppi moderni dell’insolvenza, la Guida UNCI-

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Legislazione

TRAL, originariamente composta da due parti – aventi ad oggetto, la prima, gli obiettivi e la struttura di una buona legge sull’insolvenza; la seconda, gli elementi chiave per un’efficiente ed efficace legge concorsuale –, si è arricchita, nel 2010, di una terza parte dedicata al trattamento dei gruppi di imprese insolventi, per poi giungere, nel 2013, all’adozione della parte quarta che qui si pubblica. Quest’ultima affronta il delicato tema degli obblighi che dovrebbero gravare sugli amministratori “in prossimità” dell’insolvenza della società – nella Guida si parla di “twilight zone”, di “zone of insolvency”, di “vicinity of insolvency”, per identificare quella particolare fase in cui vi è un deterioramento tale della stabilità finanziaria dell’impresa da rendere l’insolvenza inevitabile –, il mancato rispetto dei quali potrebbe fondare, in ipotesi di assoggettamento della società a procedura concorsuale, un’azione di responsabilità nei loro confronti. E lo affronta, in particolare, dettando dei criteri guida che i legislatori nazionali potranno utilizzare come punto di riferimento nell’inserire, all’interno della disciplina domestica, delle disposizioni che prescrivano tali “obligations”. La previsione di adeguati obblighi in capo agli amministratori nella fase c.d. di preinsolvenza ha come obiettivo quello di incentivare un’azione tempestiva, così da minimizzare gli effetti del dissesto finanziario in cui si trova l’impresa e, sempre in tale ottica, prevenire comportamenti opportunistici che vadano a danno dei creditori. In una situazione di crisi, difatti, occorre tutelare la posizione dei creditori da possibili “abusi” da parte dei soci, i quali, nei casi più estremi di erosione totale del patrimonio – ove, dunque, essi non avrebbero più nulla da perdere –, potrebbero essere indotti ad intraprendere azioni altamente rischiose, in quanto tali potenzialmente idonee ad aggravare la già precaria situazione patrimoniale della società. Non stupisce, allora, che da più parti si ritenga che in questa particolare fase “di transizione” – in cui l’impresa, da un lato, non può dirsi in bonis e, dall’altro, non è ancora assoggettata a procedura concorsuale – avvenga un vero e proprio “cambio” dei soggetti nei confronti dei quali gli amministratori assumono doveri fiduciari, il focus spostandosi dagli interessi dei soci a quelli dei creditori. Ciò non implica, naturalmente, che l’interesse dei soci divenga giuridicamente irrilevante; e non lo è, in particolare, qualora il patrimonio della società debitrice non sia stato del tutto eroso (sul punto, è stato giustamente affermato che i creditori all’aumentare del livello dell’indebitamento diventano progressivamente i proprietari in senso economico dell’impresa: cfr. Mazzoni, La responsabilità gestoria per scorretto esercizio dell’impresa priva della prospettiva di continuità aziendale, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società – Liber amicorum Antonio Piras, Torino, 2010, pp. 813 ss.). La Parte quarta della Guida legislativa sull’insolvenza può essere suddivisa idealmente in due parti. La prima, che ricomprende le Raccomandazioni 255258, ha ad oggetto la natura degli obblighi che dovrebbero imporsi agli amministratori in prossimità dell’insolvenza della società; il momento in cui tali obblighi sorgono; i soggetti su cui gli obblighi ricadono. La seconda, in cui confluiscono le Raccomandazioni 259-266, concerne l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, trattando, in particolare, dei “remedies” che è possibile adot-

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tare nei confronti degli amministratori identificati come responsabili; dei soggetti legittimati a esperire l’azione di responsabilità e del danno risarcibile. *** A. a) La prima parte del documento pone in evidenza la diversità degli approcci utilizzati dai vari ordinamenti nell’individuare gli obblighi da imporre in capo agli amministratori in prossimità dell’insolvenza. Da un lato, si assiste all’imposizione di regole rigide, qual è, ad esempio, l’obbligo in capo al debitore (che, in caso di società, si identifica con l’amministratore) di chiedere l’apertura della procedura concorsuale. Esempi in tal senso provengono dall’ordinamento francese, ove il debitore deve chiedere l’apertura della procedura di insolvenza entro 15 giorni dalla cessazione dei pagamenti; da quello spagnolo, in cui si impone al debitore di chiedere il proprio concurso entro due mesi dal momento in cui ha conosciuto o avrebbe dovuto conoscere il proprio stato di insolvenza; da quello tedesco, in cui si distingue tra l’ipotesi in cui si siano verificati i presupposti oggettivi di apertura della procedura concorsuale, situazione che comporta il sorgere di un vero e proprio obbligo, per gli amministratori, di presentare la richiesta di fallimento e quella in cui, invece, ricorra una mera minaccia di insolvenza, nel qual caso tale richiesta rientra nella loro discrezionalità. In altri casi, invece, la responsabilità degli amministratori è correlata non alla violazione di una rule, quanto di uno standard. Costituisce perfetta espressione di tale approccio la responsabilità per wrongful trading cui sono sottoposti gli amministratori nell’ordinamento inglese qualora, una volta aperta la procedura liquidatoria, risulti che questi ultimi conoscessero o avrebbero dovuto conoscere che non sussisteva alcuna prospettiva per la società di evitare la procedura concorsuale e, nonostante ciò, hanno proseguito nell’attività d’impresa senza adottare quelle misure necessarie per minimizzare il danno per i creditori. In tal caso, dunque, la responsabilità degli amministratori non deriva dalla violazione di specifici doveri cui essi sono obbligati, bensì dal non aver assunto quelle precauzioni che un soggetto con la medesima capacità ed esperienza avrebbe ragionevolmente preso in quella situazione. In altri casi ancora, la disciplina in materia concorsuale non prescrive alcun obbligo in capo agli amministratori nella c.d. twilight zone, cosicché sono destinati a rimanere validi, anche in questa fase, i medesimi obblighi che gravano sugli amministratori nelle situazioni “normali” (prescindendo dalla fase di crisi in cui versa l’impresa). È quanto si verifica, del resto, nel nostro ordinamento, ove gli amministratori sono tenuti al dovere generale di amministrare con la diligenza loro imposta dall’art. 2392 c.c., nonché osservando una serie di specifici obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale che del primo costituiscono esplicazione. Anche nel nostro ordinamento, così come si potrebbe dire per il wrongful trading, l’amministratore ha come unico obbligo quello di adottare tutte quelle misure che consentono di conformare le proprie condotte al parametro generale della ragionevolezza (sul punto, vedi A. Nigro, “Principio” di ragionevolezza e regime degli obblighi e della responsabilità degli amministratori di s.p.a., in Giur. comm., 2013, I, 457 ss).

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Le Raccomandazioni UNCITRAL sembrano essere largamente ispirate al modello di responsabilità gestoria del wrongful trading. La Guida, in particolare, specifica che i legislatori nazionali, nel prescriverele norme di condotta degli amministratori, devono, per un verso, incentivare questi ultimi a minimizzare gli effetti del dissesto ma, per altro verso e al contempo, evitare che le stesse regole comportamentali possano “discourageparticipation in the management of companies” e, soprattutto, “prevent the excercise of reasonable business judgement or the taking of reasonable commercial risk” (cfr., Purpose of legislative provisions: Recommendations 255-256). A tal fine, la Raccomandazione 256 indica una serie di reasonable steps – i quali, appunto, non si configurano come rigidi obblighi – che gli amministratori dovrebbero adottare in prossimità dell’insolvenza al fine di evitare l’insorgere di quest’ultima o, comunque, limitarne gli effetti. Tra le precauzioni indicate vi è, ad esempio, quella di monitorare costantemente la situazione finanziaria dell’impresa, così da assicurare una pronta informazione nei confronti sia degli altri amministratori sia dei soci; massimizzare il valore degli assets patrimoniali proteggendoli da azioni rischiose; valutare la possibilità di ricorrere a soluzioni concordate della crisi; e così via. L’adozione di tali misure viene individuata dalla Raccomandazione 261 come possibile defence, per gli amministratori, da opporre nell’ambito dell’eventuale azione di responsabilità esercitata nei loro confronti una volta aperta la procedura concorsuale. Tali misure, dunque, costituiscono, per un verso, un limite ex ante alla discrezionalità degli amministratori e, per altro verso, un criterio di controllo ex post nel valutare la ragionevolezza con cui gli amministratori hanno agito in questa fase (tale valutazione non si tradurrà in un controllo di merito delle scelte compiute degli amministratori – delle quali, in accordo con la nota business judgement rule, non è concesso sindacare l’opportunità e la convenienza –, bensì avrà ad oggetto esclusivamente il modo in cui gli amministratori siano pervenuti a tali scelte). b) Questione piuttosto delicata, per gli amministratori, è l’individuazione dell’esatto momento in cui sorgono i c.d. fiduciary duties nei confronti dei creditori. La Guida, anche per questo problema, pone a confronto le diverse soluzioni adottate nei vari ordinamenti. Nel caso dell’ordinamento tedesco, la twilight zone scatta non appena si verificano i presupposti di apertura della procedura concorsuale, dato, appunto, il tipo di obbligo che agli amministratori viene imposto. L’ordinamento inglese, al contrario, non identifica tale momento con l’insolvenza attuale, bensì con il suo probabile manifestarsi. In particolare, come già accennato, il modello del wrongful trading utilizza come criterio di riferimento per l’azione di responsabilità l’elemento soggettivo della consapevolezza dell’amministratore, nel senso che i doveri in questione sorgono quando la situazione della società sia tale che un amministratore diligente possa ragionevolmente aspettarsi che l’insolvenza sia imminente. Sul punto, la Raccomandazione 257 dispone che i reasonable steps di cui alla Raccomandazione 256 dovrebbero essere adottati dagli amministratori nel

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momento in cui essi “knew, or ought reasonably to have known, that insolvency was imminent or unavoidable”, suggerendo, pertanto, l’adozione del criterio proprio del wrongful trading. c) Secondo l’orientamento generale della Guida UNCITRAL, gli obblighi in esame dovrebbero ricadere non solo su coloro che sono “formalmente” qualificati come amministratori, ma anche su tutti quei soggetti che, in concreto, abbiano comunque svolto funzioni gestorie. In particolare, nella definizione di directors, la Guida include anche i c.d. “de facto directors”, ovvero coloro che, sebbene non investiti di una carica formale, ricoprono quelle mansioni tipiche di un organo gestorio e i c.d. “shadow directors”, volendo così intendere quei soggetti che hanno il potere di esercitare un’influenza notevole sugli amministratori dell’impresa. È quanto avviene, del resto, nell’ordinamento inglese, ove anche gli “shadow directors” sono sottoposti all’azione di responsabilità per wrongful trading; ed è quanto la giurisprudenza ritiene possibile anche nel nostro ordinamento, estendendo la responsabilità ex artt. 2392-2394 c.c. anche agli amministratori di fatto. B. Nell’ultima parte del documento, dedicata all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, la Guida pone l’attenzione, in particolare, sui soggetti che possono esperire tale azione una volta aperta la procedura concorsuale, nonché sulle conseguenze che da tale azione derivano in capo agli amministratori. a) Adottando ancora una volta un approccio comparatistico, la Guida pone in evidenza come in alcuni ordinamenti (tra cui, com’è ben noto, quello italiano) l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, in quanto volta a reintegrare il patrimonio sociale, possa essere esperita solamente dall’organo della procedura (e, in caso di inerzia di questo, dai creditori); in altri ordinamenti (come, ad esempio, quelli tedesco e colombiano), invece, i creditori possono agire direttamente, a proprio vantaggio, per ottenere il risarcimento del danno subito, indipendentemente dall’azione sociale di responsabilità. La Raccomandazione 263 della Guida UNCITRAL sembra “schierarsi” dalla parte del primo approccio, specificando che l’azione di responsabilità contro gli amministratori per l’inadempimento degli obblighi sorti nella c.d. twilight zone deve essere volta a reintegrare la massa attiva – e ciò in virtù del fatto, come si legge nella Guida (punto 32), che: “the principal justification for pursuing directors is to recover some of the value lost as a result of the directors’ actions in the form of compensation for the estate. It is thus for the benefit of all, rather than individual, creditors” – e che, pertanto, “the insolvency representative has the principal responsibility for pursuing an action for breach of those obligations”. Si riconosce, tuttavia, la possibilità che tale azione sia esercitata dai creditori sulla base di un accordo con gli organi della procedura o, in difetto di accordo, previa autorizzazione del tribunale. b) Una certa diversità di approcci si riscontra, infine, nelle modalità di individuazione del danno che gli amministratori sono chiamati a risarcire. Nell’ordinamento tedesco, ove i creditori possono esperire nei confronti degli amministratori un’azione diretta e autonoma rispetto a quella della società, si

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prende come riferimento il pregiudizio subito individualmente dagli stessi creditori per effetto della prosecuzione dell’attività da parte della società in crisi. Nell’ordinamento italiano, gli amministratori sono chiamati, invece, a risarcire il danno subito dalla società, di cui il pregiudizio per i creditori costituisce solo un riflesso. Ai fini della quantificazione del danno si è spesso fatto ricorso, in passato, al criterio del deficit fallimentare, in virtù del quale il danno andrebbe determinato in base alla mera differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare. Tale criterio, tuttavia, non permetterebbe di distinguere tra il decremento patrimoniale direttamente causato dagli amministratori e quello, invece, imputabile a cause esterne, venendo così meno il nesso di causalità che deve rigorosamente sussistere tra l’illecito dell’amministratore e il danno che quest’ultimo è chiamato a risarcire. Nell’ordinamento inglese, infine, gli amministratori, ove ritenuti responsabili, sono chiamati a versare una “contribution” per la reintegrazione del patrimonio sociale, fissata discrezionalmente dai giudici sulla base del pregiudizio arrecato ai creditori. La Raccomandazione 260 della Guida sembra, sul punto, maggiormente conforme ai principi che dovrebbero governare la quantificazione del danno risarcibile nel nostro ordinamento, affermando che: “the law relating to insolvency should provide that the liability arising from breach of the obligations in recommendation 255 is limited to the extent to which the breach caused loss or damage”. [Soraya Barati]

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Commissione delle Nazioni Unite per la legislazione sul Commercio Internazionale (UNCITRAL) – Parte quarta della Guida legislativa sull’insolvenza, 18 luglio 2013 Part four Director’s obbligations in the period approaching insolvency 1. Part four focuses on the obligations that might be imposed upon those responsible for making decisions with respect to the management of an enterprise when that enterprise faces imminent insolvency or insolvency becomes unavoidable. The aim of imposing such obligations, which are enforceable once insolvency proceedings commence, is to protect the legitimate interests of creditors and other stakeholders and to provide incentives for timely action to minimize the effects of financial distress experienced by the enterprise. 2. The key elements of provisions imposing such obligations are addressed; including (a) the nature and extent of the obligations; (b) the time at which the obligations arise; (c) the persons to whom the obligations would attach; d) liability for breach of the obligations; (e) enforcement of the obligations; (f) applicable defences; (g) remedies; (h) the persons who may bring an action to enforce the obligations; and (i) how those actions might be funded. 3. This part uses terminology common to other parts of the Legislative Guide and other insolvency texts prepared by UNCITRAL. To provide orientation to the reader, this part should be read in conjunction with terms and explanations included in the glossary contained in the introduction to the Guide 1. I. Background 1. Corporate governance frameworks regulate a set of relationships between a company’s management, its board, its shareholders and other stakeholders and provide not only the structure through which the objectives of the company are established and attained, but also the standards against which performance can be monitored. Good corporate governance should provide incentives for the board and management to pursue objectives that are in the interests of the company and its shareholders, as well as fostering the confidence necessary for promoting business investment and development. Much has been done at the international level to develop widely adopted principles of corporate governance 2 that include the obligations of those persons responsible for making

1. United Nations publication, Sales no. E.05.V.10, available from http://www.uncitral. org/uncitral/ uncitral_texts/insolvency.html 2 See for example the OECD Principles of Corporate Governance, 2004.

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decisions concerning the management of an enterprise (in this part referred to as “directors” 3) when it is solvent. 2. Once insolvency proceedings commence, many insolvency laws recognize that the obligations of directors will differ both in substance and focus from those applicable prior to the commencement of those proceedings, with the emphasis on prioritizing maximization of value and preservation of the estate for distribution to creditors. Often directors will be displaced from ongoing involvement in the company’s affairs by an insolvency representative, although under some insolvency laws they may still have an ongoing role, particularly in reorganization. Part two, chapter III of the Guide addresses several possibilities for the role the debtor may play in the continuing operation of the business, including retention of full control, limited displacement, and total displacement (recommendation 112, and paragraphs 10-18). The chapter also addresses the obligations of the directors once insolvency proceedings commence (recommendations 108-114 and paragraphs 22-34). Recommendation 110 specifies in some detail the obligations that should arise under the insolvency law on commencement of insolvency proceedings and continue throughout those proceedings, including obligations to cooperate with and assist the insolvency representative to perform its duties; to provide accurate, reliable and complete information relating to the financial position of the company and its business affairs; and to cooperate with and assist the insolvency representative in taking effective control of the estate and facilitating recovery of assets and business records. The imposition of sanctions where the debtor fails to comply with those obligations is also addressed (recommendation 114 and paragraphs 32-33). 3. Effective insolvency laws, in addition to providing a predictable legal process for addressing the financial difficulties of troubled enterprises and the necessary framework for their efficient reorganization or orderly liquidation, should also permit an examination to be made of the circumstances giving rise to insolvency and in particular the conduct of directors of such an enterprise in the period before insolvency proceedings commence. However, little has been done internationally to harmonize the various approaches of national law that might facilitate examination of that conduct and significant divergences remain. The nature and extent of the obligations directors might have in that period when the business might be experiencing financial distress but is not yet insolvent or subject to insolvency proceedings are not well established, but they are increasingly the subject of extensive debate, particularly in view of widespread failures following the global financial crisis of 2008.

3. The question of who may be considered a director for the purposes of this part is discussed below in chapter II, paragraphs 13-16. Although there is no universally accepted definition of the term, this part refers generally to “directors” for ease of reference.

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4. A business facing an actual or imminent inability to meet its obligations as they fall due needs robust management, as often there are difficult decisions and judgements to be made that will be critical to the company’s survival, with corresponding benefits to its owners, creditors, customers, employees and others. Competent directors should understand the company’s financial situation and possess all reasonably available information necessary to enable them to take appropriate steps to address financial distress and avoid further decline. At such times, they are faced with choosing the course of action that best serves the interests of the enterprise as a whole, having weighed the interests of the relevant stakeholders in the circumstances of the specific case. Under some laws, those stakeholders will be the corporation itself and its shareholders. Under other laws, it may involve a broader community of interests that includes creditors. Directors concerned with personal liability and the possible financial repercussions of making difficult decisions in those circumstances may prematurely close down a business rather than seek to trade out of the problems, they may engage in inappropriate behaviour, including unfairly disposing of assets or property or they may also be tempted to resign, often adding to the difficulties that the company is facing. 5. The different interests and motivations of stakeholders are not easy for directors and managers to balance and provide a potential source of conflict. For example, shareholders of an enterprise, who typically are unlikely to share in any distribution in insolvency proceedings, are interested in maximizing their own position by seeking to trade out of insolvency or to hold out on any potential sale in the hope of a better return, especially where the sale price would cover only creditor claims and leave nothing for shareholders. Such courses of action may involve adopting high-risk strategies to save or increase value for shareholders, at the same time putting creditors’ interests at risk. Those actions may also reflect limited concern for the chances of success because of the protection of limited liability or director liability insurance if the course of action adopted fails. 6. Despite the potential difficulties associated with taking appropriate business decisions, when a company faces financial difficulties it is essential that early action be taken. Financial decline typically occurs more rapidly than many parties would believe and as the financial position of an enterprise worsens, the options available for achieving a viable solution also rapidly diminish. That early action must be facilitated by ease of access to relevant procedures; there is little to be gained by urging directors to take early action if that action cannot be directed towards relevant and effective procedures 4. Moreover, those laws that expose directors to liability for trading during the conduct of informal procedures such

4. It has been suggested that the dearth of cases under insolvent trading legislation in one State is because of the relative ease of access to voluntary procedures and only those companies that are hopelessly insolvent are ultimately liquidated.

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as restructuring negotiations (discussed in part one, chapter II, paragraphs 2-18) may operate to deter early action. While there has been an appropriate refocusing of insolvency laws in many countries to increase the options for early action to facilitate rescue and reorganization of enterprises, there has been little focus on creating appropriate incentives for directors to use those options. Often, it is left to creditors to pursue those options or commence formal insolvency proceedings because the directors have failed to act in a timely manner. 7. A number of jurisdictions address the issue of encouraging early action by imposing an obligation on a debtor to apply for commencement of formal insolvency proceedings within a specified period of time after insolvency occurs in order to avoid trading whilst insolvent. Other laws address the issue by focusing on the obligations of directors in the period before the commencement of insolvency proceedings and imposing liability for the harm caused by continuing to trade when it was clear or should have been foreseen that insolvency could not be avoided. The rationale of such provisions is to create appropriate incentives for early action through the use of restructuring negotiations or reorganization and to stop directors from externalizing the costs of the company’s financial difficulties and placing all the risks of further trading on creditors. 8. The imposition of such obligations has been the subject of continuing debate. Those who acknowledge that such an approach has advantages 5 point out that the obligations may operate to encourage directors to act prudently and take early steps to stop the company’s decline with a view to protecting existing creditors from even greater losses and incoming creditors from becoming entangled in the company’s financial difficulties. Put another way, the obligations may also have the effect of controlling and disciplining directors, dissuading them from embracing excessively risky courses of action or passively acquiescing to excessively risky actions proposed by other directors because of the sanctions attached to the failure to perform the obligations. An associated advantage may be that they provide an incentive to directors to obtain competent professional advice when financial difficulties loom. 9. Those commentators who suggest that there are significant disadvantages cite the following examples. A rule that presumes mismanagement based solely on the fact of financial distress often causes otherwise knowledgeable and competent directors to leave a company, and the opportunity to reorganize that company and return it to profitability is missed. There is a possibility that directors seeking to avoid liability will prematurely close a viable business which otherwise could have survived, instead of attempting to trade out of the company’s difficulties. Properly drafted provisions would discourage overly hasty closure of businesses and encourage directors to continue trading where that

5.

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E.g. Directors in the Twilight Zone IV (2013), INSOL International, Overview, p. vi.


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is the most appropriate way of minimizing loss to creditors and are more likely to balance the rights and legitimate expectations of all stakeholders, distinguishing cases of bad conduct from those involving market conditions or other exogenous factors. A further disadvantage cited is that the obligations may be regarded as an erosion of the legal status brought by incorporation, although it can be argued that limited liability should be seen as a privilege and courts have been alive to the potential for abuse of limited liability where it is to the detriment of creditors. Such obligations might also be regarded as a weakening of enterprise incentives on the basis that too much risk may discourage directors. Properly drafted provisions, however, would focus not so much on the causes of distress, but rather on the directors’ acts (or omissions) subsequent to that point. Examples from jurisdictions that include such obligations in their laws suggest that only the most clearly irresponsible directors are found liable. 10. It is also said that such obligations may increase unpredictability, because liability depends on the particular circumstances of each case and also on the future attitudes of the courts. It is suggested that many courts lack the experience to examine commercial behaviour after the event and may be inclined to second guess the decisions that directors took in the period in question. However, in jurisdictions with experience of enforcing such obligations, courts have tended to defer to directors’ actions, especially when those directors have acted on independent advice. A further suggestion is that there is an increased risk of unexpected liabilities for banks and others who might be deemed to be directors by reason of their involvement with the company, particularly at the time of the insolvency. It is desirable that relevant legislation provide due protection for such parties when they are acting in good faith, at arm’s length to the debtor and in a commercially reasonable manner 6. It is also argued that imposing such obligations overcompensates creditors who are able to protect themselves through their contracts, making regulation superfluous. However, this approach presupposes that, for example, all creditors have a contract with the debtor, that they are able to negotiate appropriate protections to cover a wide range of contingencies and that they have the resources, and are willing and able, to monitor the affairs of the company. Not all creditors are in this position. 11. Director obligations and liabilities are specified in different laws in different States, including company law, civil law, criminal law and insolvency law and in some instances, they may be included in more than one of those laws or be split between those laws. In common law systems, the obligations may apply by virtue of common law, as well as pursuant to relevant legislation. Moreover, different views exist as to whether the obligations and liabilities of directors are properly the subject of insolvency law or company law. These views

6

See chapter II, paragraph 14 below.

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revolve around the status of the company as either solvent, which is typically covered by laws such as company law, or subject to insolvency proceedings, which is addressed by insolvency law (although there are examples where no such clear distinction can be drawn) 7. A period before the commencement of insolvency proceedings, when a debtor may be factually insolvent, raises concerns that currently may not be adequately addressed by either company law or insolvency law. However, the imposition of obligations enforceable retroactively after commencement of insolvency proceedings may lead to an overlap between the obligations applicable under different laws and it is desirable that, in order to ensure transparency and clarity and avoid potential conflicts, they be reconciled. 12. Not only do the laws in which the obligations are to be found vary, but the obligations themselves vary: as noted above, those applicable before the commencement of insolvency proceedings typically differ from those applicable once those proceedings commence (see part two, chapter III, paragraphs 22-33). The standards to be observed by directors in performing their functions also tend to vary according to the nature and type of the business entity e.g. a public company as distinct from a limited, closely held or private company or family business, and the jurisdiction(s) in which the entity operates and may also depend upon whether the director is an independent outsider or an inside director. 13. The application of laws addressing directors’ obligations and liabilities are closely related to and interact with other legal rules and statutory provisions on corporate governance. In some jurisdictions, they form a key part of policy frameworks, such as those protecting depositors in financial institutions, facilitating revenue collection, addressing priorities for certain categories of creditors over others (such as employees), as well as relevant legal, business and cultural frameworks in the local context. 14. Effective regulation in this area should seek to balance the often competing goals and interests of different stakeholders: preserving the freedom of directors to discharge their obligations and exercise their judgement appropriately, encouraging responsible behaviour, discouraging wrongful conduct and excessive risktaking, promoting entrepreneurial activity, and encouraging, at an early stage, the refinancing or reorganization of enterprises facing financial distress or insolvency. Such regulation could enhance both creditors’ confidence and their willingness to do business with companies, encourage the participation of more experienced managers, who otherwise may be reluctant due to the risks related to failure, promote good corporate governance, leading to a more predictable legal position for directors and limiting the risks that insolvency

7.

Recognizing this issue, the recommendations in this part adopt the flexible approach of referring to “the law relating to insolvency”.

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practitioners will litigate against them once insolvency proceedings commence. Inefficient, unclear, antiquated and inconsistent guidelines on the obligations of those responsible for making decisions with respect to management of an enterprise as it approaches insolvency have the potential to undermine the benefits that an effective and efficient insolvency law is intended to produce and exacerbate the financial difficulty they are intended to address. 15. The purpose of this part is to identify basic principles to be reflected in the law concerning directors’ obligations when a company faces imminent insolvency or insolvency becomes unavoidable. Those principles may serve as a reference point and can be used by policymakers as they examine and develop appropriate legal and regulatory frameworks. Whilst recognizing the desirability of achieving the goals of the insolvency law (outlined in part one, chapter I, paragraphs 1-14 and recommendation 1) through early action and appropriate behaviour by directors, it is also acknowledged that there are threats and pitfalls to entrepreneurship that may result from overly draconian rules. This part does not deal with the obligations of directors that may apply under criminal law, company law or tort law, focussing only on those obligations that may be included in the law relating to insolvency and become enforceable once insolvency proceedings commence. II. Elements of directors’ obligations in the period approaching insolvency A. THE NATURE OF THE OBLIGATIONS 1. While the underlying rationale for considering directors’ obligations in the vicinity of insolvency may be similar in different jurisdictions, different approaches are taken to formulating those obligations and determining the standard to be met. In general, however, laws tend to focus upon two aspects – first, imposing civil liability on directors for causing insolvency or failing to take appropriate action in the vicinity of insolvency (which under some laws might include commencing insolvency proceedings pursuant to an obligation under national law to do so – see paragraph 2 below) and second, once insolvency proceedings have commenced, avoiding actions taken by directors, including transactions that may have been entered into, in the vicinity of insolvency. 1. Obligation to commence insolvency proceedings 2. As noted above, some national laws impose on directors an obligation to apply for commencement of insolvency proceedings, which would include reorganization or liquidation, within a specified period of time (usually fairly short, such as three weeks) after the date on which the company became factually insolvent. Failure to do so may lead to personal liability, in full or in part, for any resulting losses incurred by the company and its creditors, and in some cases criminal liability, if the company continues to trade. This obligation is discussed in more detail in part two, chapter I, paragraphs 35-36.

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2. Civil liability 3. Civil liability imposed on a director in the vicinity of insolvency is typically based on responsibility for causing insolvency or failing to take appropriate action to monitor the financial situation of the company, avoid or ameliorate financial difficulty, minimize potential losses to creditors and avoid insolvency. Liability may arise when directors enter into transactions with a purpose other than ameliorating financial difficulty and preserving the value of the company (such as high-risk transactions or transactions that dispose of assets from the company’s estate that may result in a material increase in the creditors’ exposure without justification). It may also arise when the directors knew that insolvency could not be avoided or that the company could not meet its obligations as they fell due, but nonetheless continued to carry on business that involved, for example, obtaining goods and services on credit, without any prospect of payment and without disclosing the company’s financial situation to those creditors. Under some laws, liability may arise when directors fail to meet various obligations, for example reporting inability to make certain payments, such as tax and social security premiums, or making a formal declaration of insolvency. 4. Directors generally might be expected in the circumstances outlined above to act reasonably and take adequate and appropriate steps to monitor the situation so as to remain informed and thus be able to act to minimize losses to creditors and to the company (including to its shareholders), to avoid actions that would aggravate the situation, and to take appropriate action to avoid the company sliding into insolvency. 5. Adequate and appropriate steps might include, depending on the factual situation, some or all of the following: (a) Directors could ensure proper accounts are being maintained and that they are up to date. If not, they should ensure the situation is remedied; (b) Directors could ensure that they obtain accurate, relevant and timely information, in particular by informing themselves independently (and not relying solely on management advice) of the financial situation of the company, the extent of creditor pressure and any court or recovery actions taken by creditors or disputes with creditors. Directors may need to devote more time and attention to the company’s affairs at such a time than is required when the company is healthy; (c) Regular board meetings could be convened to monitor the situation, with comprehensive minutes being kept of commercial decisions (including dissent) and the reasons for them, including, when relevant, the reasons for permitting the company to continue trading and why it is considered there is a reasonable prospect of avoiding insolvent liquidation. The steps to be taken might involve continuing to trade, as there may be circumstances in which it will be appropriate to do so even after the conclusion has been formed that liquidation cannot be avoided because, for example, the company owns assets that will achieve a much

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higher value if sold on a going concern basis. When the continuation of trading requires further or new borrowing (when permitted under the law), the justification for obtaining it and thus incurring further liabilities should be recorded to ensure there is a paper trail justifying directors’ actions if later required; (d) Specialist advice or assistance, including specialist insolvency advice could be sought. While legal advice may be important for directors at this time, key questions relating to the financial position of the company are typically commercial rather than legal in nature. It is desirable that directors examine the company’s financial position and assess the likely outcomes themselves, but also seek advice to ensure that any decisions taken could withstand objective and independent scrutiny. In this instance, the directors, either collectively, as inside directors or as independent directors, may retain independent accountants, restructuring experts, or counsel to provide separate advice as to the options available to the board to determine the viability of any proposals made by management; (e) Early discussions with auditors could be held and, if necessary, an external audit prepared; (f) Directors could consider the structure and functions of the business with a view to examining viability and reducing expenditure. The possibility of holding restructuring negotiations or commencing reorganization could be examined and a report prepared. Directors may also consider the capacity of current management, with a view to determining whether it should be retained or replaced; (g) Directors could ensure that they modify management practices to focus on a range of interested parties, which might include creditors, employees, suppliers, customers, governments, shareholders, as well as, in some circumstances, environmental concerns, in order to determine the appropriate action to take. In the period when insolvency becomes imminent or unavoidable, shifting the focus from maximizing value for shareholders to also take account of the interests of creditors provides an incentive for directors to minimize the harm to creditors (who will be the key stakeholders once insolvency proceedings commence), that might be the result of excessively risky, reckless or grossly negligent conduct. Holding meetings with relevant groups of creditors might be an appropriate mechanism for assessing those interests; (h) Directors could ensure that the assets of the company are protected 8 and that the company does not take actions that would result in the loss of key employees or enter into transactions of the kind referred to in recom-

8. Not all assets will necessarily require protection in all circumstances. Examples of the types of asset that might not require protection in all circumstances might be those that are worth less than the amount for which they are secured, are burdensome, of no value or hard to realize (this is discussed in more detail in part two, chapter II, paragraph 88).

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mendation 87 that might later be avoided, such as transferring assets out of the company at an undervalue. Not all payments or transactions entered into at this time are necessarily suspect; payments to ensure the continuance of key supplies or services, for example, may not constitute a preference if the objective of the payment was the survival of the business. It is desirable that the reasons for making the payment be clearly recorded in case the transaction should later be questioned. Directors with substantial stockholdings or who represent major shareholders may not be considered disinterested or objective and might need to take especial care when voting on transactions in the vicinity of insolvency; (i) A shareholders’ meeting could be called, in the best interests of the company and without undue delay, if it appears from the balance sheet that a stipulated proportion of the share capital has eroded (generally applicable where the law includes capital maintenance requirements); (j) The composition of the board could be reviewed to determine whether an adequate number of independent directors are included. 3. Avoidance of transactions 6. Recommendations 87 to 99 deal with the avoidance of transactions at an undervalue, transactions conferring a preference and transactions intended to defeat, delay or hinder creditors (see part two, chapter II, paragraphs 170- 185). Those recommendations would apply to the avoidance of transactions entered into by a company in the vicinity of insolvency. The avoidability of a transaction does not, on its own, serve as the basis for imposing personal liability on directors. 7. However, certain avoidable transactions may also have other consequences. Some laws render certain actions of directors unlawful under, for example, wrongful or fraudulent trading provisions, or as acts having worsened the economic situation of the company or having led to insolvency, such as entering into new borrowing or providing new guarantees without sufficient business justification. In addition to the avoidance of such transactions, under some laws a director may be found personally liable for permitting the company to enter into such fraudulent or otherwise improper transactions. Liability under those provisions would typically apply only in relation to directors who agreed to the transaction; those who expressly dissented and whose dissent was duly noted are likely to avoid responsibility. Recommendations 255-256 Purpose of legislative provisions The purpose of provisions addressing the obligations of those responsible for making decisions concerning the management of a company that arise when insolvency is imminent or unavoidable is: (a) To protect the legitimate interests of creditors and other stakeholders;

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(b) To ensure that those responsible for making decisions concerning the management of a company are informed of their roles and responsibilities in those circumstances; and (c) To provide appropriate remedies for breach of those obligations, which may be enforced after insolvency proceedings have commenced. Paragraphs (a)-(c) should be implemented in a way that does not: (a) Adversely affect successful business reorganization; (b) Discourage participation in the management of companies, particularly those experiencing financial difficulties; or (c) Prevent the exercise of reasonable business judgement or the taking of reasonable commercial risk. Contents of legislative provisions The obligations 255. The law relating to insolvency should specify that from the point in time referred to in recommendation 257, the persons specified in accordance with recommendation 258 will have the obligations to have due regard to the interests of creditors and other stakeholders and to take reasonable steps: (a) To avoid insolvency; and (b) Where it is unavoidable, to minimize the extent of insolvency. 256. For the purposes of recommendation 255, reasonable steps might include: Evaluating the current financial situation of the company and ensuring proper accounts are being maintained and that they are up-to-date; being independently informed as to the current and ongoing financial situation of the company; holding regular board meetings to monitor the situation; seeking professional advice, including insolvency or legal advice; holding discussions with auditors; calling a shareholder meeting; modifying management practices to take account of the interests of creditors and other stakeholders; protecting the assets of the company so as to maximize value and avoid loss of key assets; considering the structure and functions of the business to examine viability and reduce expenditure; not committing the company to the types of transaction that might be subject to avoidance unless there is an appropriate business justification; continuing to trade in circumstances where it is appropriate to do so to maximize going concern value; holding negotiations with creditors or commencing other informal procedures, such as voluntary restructuring negotiations9; (b) Commencing or requesting the commencement of formal reorganization or liquidation proceedings.

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See UNCITRAL Legislative Guide, part one, chapter II, paragraphs 2-18.

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B. WHEN THE OBLIGATIONS ARISE: THE PERIOD APPROACHING INSOLVENCY 8. The point at which the obligations discussed above might arise has been variously described as the “twilight zone”, the “zone of insolvency” or the “vicinity of insolvency”. Although a potentially imprecise concept, it is intended to describe a period in which there is a deterioration of the company’s financial stability to the extent that insolvency has become imminent (i.e. where the company will generally be unable to pay its debts as they mature (recommendation 15 (a)) or unavoidable. Determining exactly when the obligations arise is a critical issue for directors seeking to make decisions in a timely manner consistent with those obligations. Moreover, without a clear reference point, it would be difficult for directors to predict with confidence the point in time in the period before insolvency proceedings commence to which a court would have reference in considering an action for breach of those obligations. 9. There are various possibilities for determining the time at which directors’ obligations might arise in the period before commencement of insolvency proceedings and different approaches are taken. One possibility may be the point at which an application for commencement of insolvency proceedings is made, arguably the possibility that delivers the most certainty. If, however, the insolvency law provides for automatic commencement of proceedings following an application or the gap between application and commencement is very short (see recommendation 18), this option will have little effect in terms of encouraging directors to take early action. 10. Another possibility focuses on the obligations arising when a company is factually insolvent, which application for commencement of insolvency proceedings is made. Taking the general approach of the Guide, insolvency might be said to have occurred in fact when a company becomes unable to pay its debts as and when they fall due, or when a company’s liabilities exceed the value of its assets (recommendation 15). A further possibility is when insolvency is imminent, i.e. where the company will generally be unable to pay its debts as they mature (recommendation 15 (a)). These tests, however, are increasingly used in insolvency laws as commencement standards and in some States form the basis for imposing an obligation on directors to apply for commencement of insolvency proceedings within a specified period of time, usually rather short, after a company becomes insolvent. Accordingly, these tests are also unlikely to encourage appropriate steps to be taken at a sufficiently early time. 11. A somewhat different approach examines the knowledge of a director at a point before commencement of insolvency proceedings when, for example, the director knew, or ought to have known, that the company was insolvent or that insolvency was imminent and there was no reasonable prospect that the company could avoid having to commence insolvency proceedings or that the continuity of the business was threatened. The rationale of this approach is to catch directors who are unreasonable in their running of a company that is experiencing financial difficulty and to provide incentives to take appropriate

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action at an optimal time. Although a concern with that type of standard might be the difficulty of determining with certainty the exact point at which the requisite knowledge could be imputed, provided a company’s accounts have been properly kept and are accurate, a director should be able to deduce when the company is in difficulty and when it might be in danger of satisfying these insolvency tests. Alternatively, the director can be assumed to have known the information that would have been revealed had the company complied with its obligations to maintain proper books of account and to prepare annual accounts. Essentially, the standard requires a director’s judgement to be assessed against the knowledge that a reasonably competent director should or ought to have had in the circumstances. Such a standard would require a wider consideration of circumstances and context, including, for example, examining the books of the company and its financial position in its entirety. It could involve looking at revenue flows and debts incurred and contingencies, including the ability to raise funds. Generally speaking, evidence of a temporary lack of liquidity would not be sufficient. 12. The recommendations do not preclude States from imposing liabilities on directors that might be enforceable outside insolvency proceedings when, due to the lack of assets to cover the costs of the proceedings, the commencement of insolvency proceedings is denied. Recommendation 257 Purpose of legislative provisions The purpose of provisions relating to timing is to identify when, in the period before the commencement of insolvency proceedings, the obligations arise. Contents of legislative provisions The time at which the obligation arises 257. The law relating to insolvency should specify that the obligations in recommendation 255 arise at the point in time when the person specified in accordance with recommendation 258 knew, or ought reasonably to have known, that insolvency was imminent or unavoidable. C. IDENTIFYING THE PARTIES WHO OWE THE OBLIGATIONS 13. In most States, a number of different persons associated with a company have obligations with respect to management and oversight of the company’s operations. They may be the owners of a company, formally appointed directors, (who may be independent outsiders or officers or managers of a company serving as executive directors, referred to as “inside directors”) and nonappointed individuals and entities, including third parties acting as de facto 10

10.

A de facto director is generally considered to be a person who acts as a director,

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or “shadow” directors 11, as well as persons to whom the powers or duties of a director may have been delegated by the directors. 14. A broad definition may also include special advisers and in some circumstances, banks and other lenders, when they are advising a company on how to address its financial difficulties. In some cases, that “advice” may amount to determining the exact course of action to be taken by the company and making the adoption of a particular course of action a condition of extending credit. Nevertheless, provided the directors of the company retain their discretion to refuse that course of action, even if in reality they may be regarded as having little option because it will result in liquidation, and provided the outside advisers are acting at arm’s length, in good faith and in a commercially appropriate manner, it is desirable that such advisers not be considered as falling within the class of person subject to the obligations. 15. There is no universally accepted definition of what constitutes a “director”. As a general guide, however, a person might be regarded as a director when they are charged with making or do in fact make or ought to make key decisions with respect to the management of a company, including functions such as the following 12: determining corporate strategy, risk policy, annual budgets and business plans; monitoring corporate performance; overseeing ma-

but is not formally appointed as such or there is a technical defect in their appointment. A person may be found to be a de facto director irrespective of the formal title assigned to them if they perform the relevant functions. It may include anyone who at some stage takes part in the formation, promotion or management of the company. In small familyowned companies, that might include family members, former directors, consultants and even senior employees. Typically, to be considered a de facto director would require more than simply involvement in the management of the company and may be determined by a combination of acts, such as the signing of cheques; signing of company correspondence as “director”; allowing customers, creditors, suppliers and employees to perceive a person as a director or “decision maker”; and making financial decisions about the company’s future with the company’s bankers and accountants. 11. A shadow director may be a person, although not formally appointed as a director, in accordance with whose instructions the directors of a company are accustomed to act. Generally, shadow directors would not include professional advisers acting in that capacity. To be considered a shadow director may require the capacity to influence the whole or a majority of the board, to make financial and commercial decisions which bind the company and, in some cases, that the company have ceded to the shadow director some or all of its management authority. In an enterprise group context, one group member may be a shadow director of another group member. In considering the conduct that might qualify a person to be a shadow director, it may be necessary to take into account the frequency of the conduct and whether or not the influence was actually exercised. 12. These examples are provided for information and are not listed in any particular order ofimportance.

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jor capital expenditure; monitoring corporate governance practices; selecting, appointing, and supporting the performance of the chief executive; ensuring the availability of adequate financial resources; addressing potential conflicts of interest; ensuring integrity of accounting and financial reporting systems; and accounting to the stakeholders for the organization’s performance. 16. The obligations discussed above would attach to any person who was a director at the time the business was facing actual or imminent insolvency, and may include directors who subsequently resigned (see paragraph 27 below). It would not include a director appointed after the commencement of insolvency proceedings. Recommendation 258 Purpose of legislative provisions The purpose of the provisions is to identify the persons owing the obligations in recommendation 255. Contents of legislative provisions Persons owing the obligations 258. The law relating to insolvency should specify the person owing the obligations in recommendation 255, which may include any person formally appointed as a director and any other person exercising factual control and performing the functions of a director. D. LIABILITY 1. The standard to be met 17. Laws dealing with the obligations of directors in the vicinity of insolvency judge the behaviour of directors in that period against a variety of standards to determine whether or not they have failed to meet these obligations. Typically those obligations only become enforceable once insolvency proceedings commence and as a consequence of that commencement, apply retroactively in much the same way as avoidance provisions (see discussion in part two, chapter II, paragrahs 148-150 and 152). 18. Under some laws, the question of when a director or officer knew, or ought to have known, that the company was insolvent or was likely to become insolvent is judged against the general knowledge, skill and experience that may reasonably be expected of a person carrying out the same functions as are carried out by that director in relation to the company. More may be expected of a director of a large company with sophisticated accounting systems and procedures. If the director’s skills and experience exceed those required for the job, the judgement may be made against the skills and experience actually possessed, instead of against those required for the job. In contrast, inadequate skill and experience for the job may not excuse a director and they could be judged against the skill and experience required for the job.

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19. Another approach requires there to be reasonable grounds for suspecting the company was insolvent or would become insolvent at the time of incurring the debt or entering into the transaction leading to insolvency. Reasonable grounds for suspecting insolvency would require more than mere speculation and the director must have an actual apprehension that the company is insolvent. This is a lower threshold than expecting or knowing the company is insolvent. Under this approach, the standard is that of a director of ordinary competence who is capable of having a basic understanding of the company’s financial status and the assessment is made on the basis of knowledge such a director could have had and not on information that might later become apparent. Empirical evidence from jurisdictions with such provisions suggests that when reviewing what occurred, often some time before the review takes place, courts have demonstrated a good deal of understanding of the position in which directors find themselves, carefully analysing the situation they confronted and demonstrating appreciation for the business issues encountered. 20. Some laws provide a safe harbour for directors, such as by way of a business judgement rule that establishes a presumption that directors have, for example, acted in good faith and had a rational belief that they acted in the best interests of the company, that they have had no material personal interest, and that they have properly informed themselves. Provided the actions of the director were taken in good faith, with due care and within the director’s authority, they will be shielded from liability. To rely upon the rule, directors must inform themselves with respect to the matters to be decided by acquiring, studying and relying upon information that a reasonable person in similar circumstances would find persuasive and be free from any conflict of interest with respect to those matters. 21. Other laws may require a causal link between the act of mismanagement and the debts arising from it or that the mismanagement is an important cause of the company’s insolvency. This approach requires that a director be guilty of a fault in management when judged against the standards of a normally well-advised director. Examples of behaviour or actions that might give rise to liability under those laws include imprudence, incompetence, lack of attention, failure to act, engaging in transactions that were not at arm’s length or of a commercial nature and improperly extending credit beyond the company’s means, while the most common failures have involved directors permitting the company to trade while manifestly insolvent and to have embarked on projects beyond its financial capacity and that were not in its best interests. Other examples of mismanagement include where directors have failed to undertake sufficient research into the financial soundness of business partners or other important factors before entering into contracts; where directors fail to provide sufficient information to enable a supervisory board to exercise supervision over management; where directors fail to obtain or to study management accounts; where directors neglect the proper financial administration of the company; where they neglect to take preventative measures against clearly foreseeable risks; or where bad personnel management by the directors leads

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to unrest and strikes. Under some laws that adopt this approach, a finding of mismanagement does not require that a director have actively engaged in the management of the company; passive acquiescence may be sufficient. 2. The nature of the liability 22. Determining whether a particular director has breached their obligations involves consideration of the facts regarding the conduct of that director leading up to the commencement of insolvency proceedings with respect to the debtor. Once a breach of the obligations has been determined under the relevant standard of proof, liability can be apportioned in several ways. Under one approach, liability will be apportioned to individual directors in proportion to their specific involvement in the decisions or behaviour under examination, requiring consideration of that involvement in the totality of the circumstances. The constitution of a board of directors is an important factor in addressing these issues. Where a company has independent directors, who do not own a significant proportion of the equity and who do not represent equity-owners, such directors may not have access to information to the same extent that it is known or available to inside directors. Liability may vary between inside and independent directors depending on the factual situation. 23. A number of other laws establish the general rule that directors will be held jointly and severally liable for their failure to meet such obligations. This may be the case even if each director is not responsible for the performance of all relevant obligations. Some of these laws provide, however, that the court may still have the discretion to allocate contributions as between directors taking into account the facts of the case, including different levels of culpability. The court may, for example, order one of a number of directors to bear the whole burden of liability (where, for example, that director had been personally assigned specific obligations that relate to the damage under examination) or order one director to contribute more when, for example, it is found that culpability for the damage caused is not equal. Under one law, directors may be jointly and severally liable only if it is established that they knowingly engaged in fraud or dishonesty; in all other cases, liability is proportionate to the extent a director’s actions contributed to the loss to the company. Another law adopts a slightly different approach in which the court determines whether a person found liable must pay damages to the company, based upon the seriousness of the fault and the strength of the causal link, but the assessment of damages is not necessarily proportionate to the level of responsibility or fault. Under some laws, the issue of whether liability is joint or allocated specifically to those directors responsible for the conduct in question (which may include failure to act or to ensure that other directors meet their own obligations) depends upon the action giving rise to liability. 3. Defences 24. Under some laws, where directors do have obligations in the vicinity of insolvency, they may nevertheless rely on certain defences, such as the business

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judgement rule, to show that they have behaved reasonably. A slightly different approach gives directors the benefit of the doubt on the assumption that business risks are an unavoidable and incidental part of management. Courts are reluctant to second guess a director who has satisfied the duties of care and loyalty, or to make decisions with the benefit of hindsight. It may also be the case that the business judgement rule provides a defence to some, but not all, of the obligations specified under the law. 25. Under some laws, directors would need to show that they had taken appropriate steps to minimize any potential loss to the company’s creditors once they had concluded that the company would have difficulty avoiding liquidation. Provided they can show that they took reasonable and objective business decisions based on accurate financial information and appropriate professional advice, they are likely to be able to rely on this as a defence even if those decisions turn out to have been commercially wrong. 26. Some laws also provide for directors to take certain procedural or formal steps to avoid or reduce their liability for decisions or actions that are subsequently called into question, such as entering a dissent in the minutes of a meeting; delivering a written dissent to the secretary of a meeting before its adjournment; or delivering or sending a written dissent promptly after the adjournment of a meeting to the registered office of the corporation or other authority as provided under national law. Directors who are absent from a meeting at which such decisions were taken may be deemed to have consented unless they follow applicable procedures, such as taking steps to record their dissent within certain specified periods of time after becoming aware of the relevant decision. 27. The fact that a director has no knowledge of the company’s affairs would generally not excuse failure to meet the obligations. Moreover, resignation in the vicinity of insolvency will not necessarily render a director immune from liability, as under some laws directors may leave themselves open to the suggestion that the resignation was connected to the insolvency, that they had become aware or ought to have been aware of the impending insolvency and that they had failed to take reasonable steps to minimize losses to creditors and ameliorate the situation. Where a director has dissented to a decision that is subsequently being examined, that dissent typically would need to have been recorded in order for the director to rely on it. Where a director is at odds with fellow directors over the action to be taken, and despite taking reasonable steps to persuade them has failed to do so, it may be appropriate for the director to resign, provided his or her efforts and advice are recorded. 28. Liability may be minimized through specific insurance, which may be purchased by the company for its directors, or by the use of indemnities. Where insurance is available, the principal limits are typically deliberate fraud and self-dealing, leaving directors generally covered for breach of the obligations discussed here unless the insurance coverage is inadequate, as may occur in

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insolvency. Once a claim has been made against a director, it may be possible under some laws to reach a settlement through negotiation with the insolvency representative; in some jurisdictions that is the usual approach. 4. Remedies 29. Different remedies and combinations of remedies for breach of a director’s obligations are provided under civil law. The remedies focus on the provision of compensation for breach of the obligation and the damage caused, although the manner of measuring quantum varies. Typically, there is no punitive damages element. A number of laws also provide for disqualification of a director from acting as a director or taking part in the running and management of a company. (a) Damages and compensation 30. Where directors are found liable for actions or omissions in the vicinity of insolvency, the extent of the liability varies. Under some laws, directors may be liable for loss or damage suffered by individual creditors and employees, as well as the company itself, where the loss is a direct result of their acts or omissions. They may also be liable for payments that result in a reduction of the insolvency estate or that have resulted in the diminution of the company’s assets. Some laws permit the court to adjust the level of liability to match the nature and seriousness of the mismanagement or other act leading to liability. Some laws provide that a director can be found liable for the difference between the value of the company’s assets at the time it should have ceased trading and the time it actually ceased trading. An alternative formulation is the difference between the position of creditors and the company after the breach and their position if the breach had not taken place. 31. Some laws that include an obligation to apply for commencement of insolvency proceedings or to hold a shareholder meeting where there is a loss of capital also make provision for the award of damages. 32. Where directors are found liable, the amount recovered may be specified as being for the benefit of the insolvency estate, on the basis that the principal justification for pursuing directors is to recover some of the value lost as a result of the directors’ actions in the form of compensation for the estate. It is thus for the benefit of all, rather than individual, creditors. Some laws provide that where the company has an all-enterprise mortgage, any damages recovered are for the benefit of unsecured creditors. It may be argued in support of that approach that compensation should not go to secured creditors as the cause of action does not arise until the commencement of insolvency proceedings and thus cannot be subject to a security interest created by the company prior to that point. Moreover, what is being sought is not the recovery of assets of the company, in contrast to an avoidance proceeding, but rather a contribution from directors to remedy the damage suffered by creditors. Where, however, the insolvency law permits creditors to pursue directors (see paragraphs 36-42

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below), there may be grounds for suggesting that any compensation to be paid might be applied, in the first instance, to cover the costs of the creditor or creditors commencing the action. 33. In addition to the above remedies, debts or obligations due from the company to directors may be deferred or subordinated and directors may be required to account for any property acquired or appropriated from the company or for any benefit obtained in the breach of the obligations. (b) Disqualification 34. A consequence provided for under a number of laws when insolvency proceedings commence is disqualification of a director from being a director or from taking part in the running and management of a company. Such measures are typically regarded as protective measures designed to remove those directors from a position where they can cause further harm by continuing to perform management and director functions in the same or a different company. Under one law, disqualifications of between two and 15 years may be ordered where the individual is found to be “unfit” to act as a director. Factors relevant to that determination include: breach of a fiduciary duty; misapplication of moneys; making misleading financial and non-financial statements; and failure to keep proper accounts and make returns. It may also include acts relevant to the company’s insolvency, such as the person’s responsibility for the company entering into transactions liable to avoidance on grounds similar to those in recommendation 87 or the company continuing to trade when the director knew or should have known that it was insolvent. The various factors are generally considered cumulatively in determining unfitness in a specific case. In jurisdictions providing for disqualification, those persons found to be unfit often, though not always, have displayed a lack of commercial probity, gross negligence or serious incompetence. 35. Disqualification may sit alongside other remedies and sanctions as described above, or may be sought independently where the overall conduct of the individual as a director merits such a sanction. Where disqualification is available, the persons who may seek it may be limited to specified agencies or officials, the insolvency representative and, in some cases, creditors. Recommendations 259-261 Purpose of legislative provisions The purpose of provisions on liability is: (a) To provide rules for the circumstances in which the actions of a person subject to the obligations in recommendation 255 that occur prior to the commencement of insolvency proceedings may be considered injurious and therefore a breach of those obligations; (b) To identify defences to an allegation of breach of the obligations and (c) To identify the consequences of that breach.

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Contents of legislative provisions Liability 259. The law relating to insolvency should specify that where creditors have suffered loss or damage as a consequence of the breach of the obligations in recommendation 255 the person owing the obligations may be liable. 260. The law relating to insolvency should provide that the liability arising from breach of the obligations in recommendation 255 is limited to the extent to which the breach caused loss or damage. Elements of liability and defences 261. The law relating to insolvency should specify the elements to be proved in order to establish a breach of the obligations in recommendation 255 and that, as a consequence, creditors have suffered loss or damage; the party responsible for proving those elements; and specific defences to an allegation of breach of the obligations. Those defences may include that the person owing the obligations took reasonable steps of the kind referred to in recommendation 256. E. ENFORCEMENT OF THE DIRECTORS LIABILITY 1. Persons who may bring an action 36. A number of laws limit the right to bring an action against a director for breach of the obligations discussed above by reference to the nature of the action and the person with the power to pursue it. Considerations similar to those applicable to the exercise of avoidance powers, addressed under recommendation 87 (see part two, chapter II, paragraphs 192-195) may apply. 37 A number of laws provide that when insolvency proceedings have commenced, it is only the insolvency representative who, having reviewed a director’s actions prior to insolvency, has the right to proceed against the director to recover compensation for the benefit of creditors in respect of any loss caused to the company. Wrongful trading laws, for example, may permit the insolvency representative to pursue directors for contributions to the insolvency estate where their behaviour has contributed to their company’s insolvency or constitutes an act of mismanagement. Some laws also permit such action to be brought by the public prosecutor or the court acting on its own motion. 38. Although a major justification for imposing obligations on directors in the vicinity of insolvency is the protection of creditor interests, not all laws permit creditors to pursue a director for breach of those obligations. Under some laws where the insolvency representative takes no action, creditors, and sometimes shareholders, may have a derivative right to bring an action (see part two, chapter II, paragraphs 192-195). Where the benefit of any damages assessed will accrue to the insolvency estate for the benefit of creditors, there may be little incentive for shareholders to pursue such an action. Other laws only allow creditors to pursue certain types of actions or transactions, such as misfeasance

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Legislazione

or transactions at an undervalue. Under other laws, where creditors have no independent right to pursue a claim, a single creditor can pursue a director only with the consent of the majority of creditors or the creditor committee or creditors can request the creditors’ representative or committee or the court to undertake any such action. 39. Where it is deemed appropriate for the law to permit creditors to pursue directors, a distinction might be drawn between creditors whose debt arose in the period approaching insolvency as a direct result of the conduct being examined and creditors whose debt predated that period. Depending upon the applicable law relating to insolvency, an action against a director, if authorized, may be brought by the insolvency representative for the benefit of the insolvency estate. If permitted by the law relating to insolvency, an action against a director may be brought by a creditor for the benefit of the insolvency estate if the action is not brought by the insolvency representative. In some States and subject to the law relating to insolvency, an action against a director may be brought by a creditor for its own benefit. All such actions will be on the basis that the conduct being examined occurred in the vicinity of insolvency. Under some laws, that individual right of a creditor is limited to situations where the egregious behaviour in question has been directed at a particular creditor. Should it be regarded as desirable to permit creditors to pursue a director, the insolvency law as it applies to avoidance proceedings might provide a useful example of the procedure to be followed (see part two, chapter II, paragraphs 192-195). The law might require, for example, the prior consent of the insolvency representative to ensure that they are informed as to what creditors propose and have the opportunity to refuse permission, thus avoiding any negative impact those actions may have on administration of the estate. 40. Where the consent of the insolvency representative or creditors is required, but not obtained or is refused, the insolvency law might permit a creditor to seek court approval to pursue a director. The insolvency representative should have a right to be heard in any resulting court hearing to explain why it believes the action should not go ahead. At such a hearing, the court might give leave for the action to be commenced or may decide to hear the case on its own merits. Such an approach may work to reduce the likelihood of any deal making between the various parties. Where creditor initiated actions are permitted with respect to avoidance, some laws require creditors to pay the costs of those actions or allow sanctions to be imposed on creditors to discourage potential abuse of those actions; the same approach might be adopted with respect to actions brought by creditors against directors. 41. Under those laws imposing an obligation on directors to commence insolvency proceedings, the company itself, its shareholders and creditors may have a claim for damages in the event of a breach of that obligation. Where payments have been made by directors contrary to a moratorium that accompanies the obligation to commence insolvency proceedings, the company itself may have a claim for damages. The company may also have a claim under laws that

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Raccomandazioni UNCITRAL

impose an obligation to hold a shareholder meeting if there is a loss of capital. It is desirable that the insolvency law ensure coordination of any actions that might potentially be commenced by these different parties. 42. An action against the directors for breach of their obligations can be a significant asset of the insolvency estate and increase returns to creditors. However, in many jurisdictions, the pendency of such an action prevents the closure of an insolvency proceeding and the final distribution of proceeds. Therefore, it is desirable that before commencing an action against a director, the insolvency representative considers the likelihood of success of that proceeding as well as other circumstances such as the ability of the director to respond to an award of damages, the scope of insurance coverage available to the director, and the effect of the litigation on the duration of the insolvency proceedings. 2. Funding of actions 43. A potential difficulty arising in those jurisdictions that permit an insolvency representative to bring an action for breach of these obligations relates to payment of their costs in the event that it is unsuccessful. The lack of available funding is often cited as a key reason for the relative paucity of cases pursuing the breach of such obligations. While funding might be made available from the insolvency estate when there are sufficient assets to do so, as is often the case with avoidance proceedings insolvency representatives may be unwilling to expend those assets to pursue litigation unless there is a very good chance of success (see part two, chapter II, paragraph 196). In many cases, however, there will be insufficient funds available in the insolvency estate to pursue a director, even if there is a strong likelihood that the litigation will be successful. 44. Devising alternative approaches to funding in such circumstances may offer, in appropriate situations, an effective means of restoring to the estate value lost through the actions of directors, addressing abuse, investigating unfair conduct and furthering good governance. Obtaining such alternative funding would be assisted by including appropriate authorization in any law relating to insolvency in much the same way as is provided by recommendation 95 with respect to the funding of avoidance proceedings. The right to commence such a proceeding, or the expected proceeds of the proceeding if successful, might be assigned for value to a third party, including creditors or a lender might be approached to provide funds. Where the cause of action is pursued by a party other than the insolvency representative in the collective interests of creditors, the costs of commencing such a proceeding might be recovered from any compensation paid. Under some laws, claims against directors might be settled through negotiation with insolvency representatives, avoiding the need to find funding. In some jurisdictions this occurs infrequently, while in others it is usual practice and insolvency representatives typically “invite� contributions from directors. As an additional issue, it may be appropriate to consider the court in which such proceedings could be commenced; this issue is discussed in part two, chapter I, paragraph 19.

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Legislazione

Recommendations 262-266 Purpose of legislative provisions The purpose of provisions on enforcement of directors’ liabilities is to establish appropriate remedies for breach of the obligations and facilitate the commencement and conduct of actions to recover compensation for that breach. Contents of legislative provisions Remedies 262. The law relating to insolvency should specify that the remedies for liability found by the court to arise from a breach of the obligations in recommendation 255 should include payment in full to the insolvency estate of any damages assessed by the court. Conduct of actions for breach of the obligation 263. The law relating to insolvency should specify that the cause of action for loss or damage suffered as a result of the breach of the obligations in recommendation 255 belongs to the insolvency estate and the insolvency representative has the principal responsibility for pursuing an action for breach of those obligations. The law relating to insolvency may also permit a creditor or any other party in interest with the agreement of the insolvency representative to commence such an action. Where the insolvency representative does not agree, the creditor or other party in interest may seek leave of the court to commence such an action. Funding of actions for breach of the obligation 264. The law relating to insolvency should specify that the costs of an action against the person owing the obligations be paid as administrative expenses13. 265. The law relating to insolvency may provide alternative approaches to address the pursuit and funding of such actions. Additional measures 266. In order to deter behaviour of the kind leading to liability under recommendation 259, the law relating to insolvency may include remedies additional14 to the payment of compensation provided in recommendation 262.

13 For an explanation of “administrative expenses” see the glossary in the Introduction to the UNCITRAL Legislative Guide, para. 12(a). 14 The additional remedies that may be available will depend upon the types of remedies available in a particular jurisdiction and what, in addition to the payment of compensation, might be proportionate to the behaviour in question and appropriate in the circumstances of the particular case. Examples of such remedies are discussed in parag. 33-35.

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INDICI DELL’ANNATA PARTE SECONDA LEGISLAZIONE L’adozione “anticipata” del modello comunitario in materia di crisi bancarie: la nuova disciplina spagnola – Ley 9/2012, de 14 noviembre, de restructuración y resoluciòn de entitades de crédito, con osservazioni di Clarisa L. Ganigian pag.

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La Raccomandazione della Commissione sul “nuovo” approccio al fallimento – Raccomandazione della Commissione europea del 12 marzo 2014 su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e dell’insolvenza (2014/135/EU), con osservazioni di Marco Conforto

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Obblighi e responsabilità degli amministratori nella “twilight zone: le nuove Raccomandazioni UNCITRAL – Commissione delle Nazioni Unite per la legislazione sul Commercio Internazionale (UNCITARL) – Parte quarta della Guida legislativa sull’insolvenza del 18 luglio 2013, con osservazioni di Soraya Barati

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Un nuovo passo verso l’Unione bancaria europea: la Direttiva 2014/49/UE relativa ai sistemi di garanzia dei depositi – Direttiva 16 aprile 2014, n. 490, del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai sistemi di garanzia dei depositi, con osservazioni di Clarisa L. Ganigian

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NORME REDAZIONALI

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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Norme redazionali

4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.

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Norme redazionali

legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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Norme redazionali

Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm. Rivista della cooperazione Riv. coop. Rivista delle società Riv. soc. Rivista del diritto commerciale Riv. dir. comm. Rivista del notariato Riv. not. Rivista di diritto civile Riv. dir. civ. Rivista di diritto internazionale Riv. dir. internaz. Rivista di diritto privato Riv. dir. priv. Rivista di diritto processuale Riv. dir. proc. Rivista di diritto pubblico Riv. dir. pubbl. Rivista di diritto societario RDS Rivista giuridica sarda Riv. giur. sarda Rivista italiana del leasing Riv. it. leasing Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Riv. trim. dir. proc. civ. Vita notarile Vita not.

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Norme redazionali

4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria Cedola di sottoscrizione - Abbonamento 2014 (4 fascicoli): € 110,00 Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 35,00 Modalità di Pagamento ☐ assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA ☐ versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Spa - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 G 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) ☐ carta di credito ☐ MasterCard ☐ VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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