Diritto della banca e del mercato finanziario 4/2015

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ISSN 1722-8360

di particolare interesse in questo fascicolo Periodico Trimestrale - POSTE ITALIANE SPA - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 Conv. il L. 27/02/2004 - n. 46 art.1, comma 1, DCB PISA - Aut. Trib. di Pisa n. 9/2009 del 8/5/2009

Diritto della banca e del mercato finanziario

4/2015

Diritto della banca e del mercato finanziario

• Crisi bancarie e informazione • Usura • Mediazione creditizia • Concordato preventivo e proposte concorrenti

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Avvertenza A partire dal gennaio 2011, la pubblicazione di scritti sulla Rivista è subordinata alla valutazione di blind referees. Il sistema dei referees è coordinato dal prof. Vittorio Santoro. Nell’anno 2014, hanno fornito le loro valutazioni ai fini della pubblicazione i prof. Laura Ammannati, Concetta Brescia Morra, Oreste Cagnasso, Marcello Clarich, Antonia Irace, Marco Miletti, Stefano Pagliantini, Antonio Piras, Andrea Pisaneschi, Vincent Ribas, Marilena Rispoli, Antonella Sciarrone Alibrandi, Maurizio Sciuto, Andrea Tina, Francesco Vella.


Diritto della banca e del mercato finanziario Rivista trimestrale del Ce.Di.B. Centro studi di diritto e legislazione bancaria

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SOMMARIO 4/2015

PARTE PRIMA Saggi Crisi bancarie, ruolo dell’informazione e protezione del cliente, di Vittorio Santoro Usura bancaria e tutela del creditore, di Lorena Ambrosini L’usura della legge e l’usura della Banca d’Italia; nella mora riemerge il simulacro dell’omogeneità. La rilevazione statistica e la verifica dell’art. 644 c.p.; finalità accostate ma non identiche, di Roberto Marcelli

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» 581

Commenti La mediazione creditizia – Cass., 20 settembre 2013, n. 24118 I limiti dell’attività di mediazione creditizia ed il rapporto con la consulenza finalizzata alla concessione di finanziamenti nella recente giurisprudenza della Cassazione, di Francesco Ciraolo

» 671

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Casi e soluzioni Consorzi e associazioni. Intorno a riconoscimento della personalità giuridica e responsabilità patrimoniale, di Giuseppina Capaldo

» 709

Autori

» 723

Indici dell’annata - Parte prima

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PARTE SECONDA Legislazione Concordato preventivo e proposte concorrenti – R.d. 16 marzo 1942 n. 267 – Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa (come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132) Le proposte concorrenti nel concordato preventivo, di Alessandro Nigro e Daniele Vattermoli

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Indici dell’annata - Parte seconda

» 111

Norme

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redazionali


PARTE PRIMA Saggi, commenti, fatti e problemi della pratica, casi e soluzioni, dibattiti, rassegne, miti e realtĂ



SAGGI

Crisi bancarie, ruolo dell’informazione e protezione del cliente * Sommario: 1. L’impatto del bail-in sui sistemi di tutela degli investitori. – 2. Dalla trasparenza all’accudimento dell’investitore? – 3. Le obbligazioni bancarie sono strumenti finanziari preassemblati?

1. L’impatto del bail-in sui sistemi di tutela degli investitori. Riguardo alla tutela del risparmio è maturato uno sconvolgimento delle priorità nell’assetto degli interessi tradizionalmente protetti nell’ordinamento italiano. Tale sconvolgimento deriva dalle nuove scelte di finanza internazionale filtrate dall’ordinamento europeo. Il legislatore italiano aveva abituato il risparmiatore a considerare il denaro, affidato alle banche, quale sacro1, ciò almeno a far data dagli anni ’30 del secolo scorso. In altri termini, nella storia italiana degli ultimi ottant’anni, il risparmiatore poteva fare sicuro affidamento sulla restituzione del capitale quale che fosse l’andamento economico del sistema bancario, nel suo complesso, ovvero quello della singola banca a cui avesse affidato i propri risparmi. La certezza che ciò avvenisse era riposta nei meccanismi di solidarietà tra le banche per lo più “sollecitati” dalla moral suasion della Banca centrale e, in ultima istanza, nell’inter-

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Tale articolo è stato elaborato nell’ambito del Progetto Prin 2010/2011 20107°8N8C_003, diretto dal prof. Santoro ed è stato presentato all’VIII Incontro ItaloSpagnolo di Diritto commerciale, Napoli 25 settembre 2015, “Crisi dell’impresa e ruolo dell’informazione”. 1 Analogamente è accaduto in alcuni altri paesi europei sia pure con intensità e durata solitamente minore che in Italia. Un panorama sufficientemente completo si può vedere in La tutela del risparmio bancario, Bologna, 1979, ove merita particolare attenzione, per la prossimità al caso italiano, il riferimento alla Germania, v. l’intervento di Hein, p. 60 ss.; per la Spagna cfr. Vicent Chulià e Cerdà Albero, l’ordinamento bancario spagnolo, in La Spagna, 3, Legislazioni bancarie dei paesi della Comunità europea, Roma, 1993, p. 113 ss.

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vento di rifinanziamento dello Stato ancora una volta attraverso la Banca d’Italia2. Questo sistema è rimasto, nelle linee essenziali, immutato nel tempo, pur subendo modificazioni significative: ad esempio riguardo all’introduzione del fondo di garanzia dei depositi e all’abbandono del cosiddetto decreto Sindona3. Ancora recentemente, a seguito della crisi finanziaria degli ultimi anni, lo Stato italiano è intervenuto nel salvataggio delle banche attraverso i cosiddetti Tremonti bonds4. Il quadro internazionale ha costretto i paesi europei, compresa dunque l’Italia, a mutare atteggiamento. Si è detto che non è socialmente accettabile chiamare i contribuenti a sostenere i costi dei risanamenti bancari5: è un modo edulcorato per dire che le casse degli Stati sono ormai vuote, anzi, sono ancora impegnate a ripagare i debiti (in ciò consiste il bail-out)6 creati dal risanamento delle banche seguito alla crisi finanziaria del 20087. Solo in Europa fra il 2008 e il 2013 l’intervento pubblico è costato 1.500 miliardi di euro, pari al 12% del prodotto interno lordo dei paesi europei. Dunque, un altro risanamento a carico della finanza pubblica non è sopportabile, occorre prelevare i soldi dove ancora ci sono: nelle tasche dei risparmiatori. Ecco la ragione fondante del passaggio dal bail-out al c.d. bail-in, strumento (disciplinato dalla direttiva 2014/59/UE) attraverso

2 Si tratta del meccanismo (disciplinato dal d.m. Tesoro 27 settembre 1974, cosiddetto Sindona) di rifinanziamento a favore delle banche che si surrogavano ai depositanti di altre aziende di credito in liquidazione coatta amministrativa e che beneficiavano di un rifinanziamento a carico della Banca d’Italia (e quindi della finanza pubblica) a un tasso di favore: v. per tutti Minervini, Il “ristoro” ex d.m. 27 settembre 1974 e il fondo interbancario di tutela dei depositi, in Giur. Comm., 1990, I, p. 5 ss. 3 V. nota precedente. 4 Cfr. gli scritti raccolti nel volume Rispoli Farina e Rotondo, La crisi dei mercati finanziari, Milano, 2009 e Santoro, Un tentativo di funzionalizzazione dell’impresa bancaria, in Banca, impr., soc., 2010, p. 5 ss. ove altri riferimenti. 5 Cfr. Hadjiemmanuil, Bank Resolution Financing in the Banking Union, in SSRNid2575372, p. 21. 6 Si ritiene che il nuovo corso si fondi sull’art. 125 TFUE che conterrebbe una clausola di “non bail-out”, cfr. Smits, The Crisis Response in Europe’s Economic and Monetary Union: overview of legal developments, Working Paper submitted for publication in Fordham Journal of International Law, p. 29 ss. L’art. 125 recita: “L’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali (…) da altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato membro, fatte salve garanzie reciproche per la realizzazione in comune di un progetto economico specifico…”. 7 Nella letteratura economica si riscontrano posizioni critiche, v. ad es. Avgouleas, Goodhart, Critical Reflections on Bank Bail-in, in J. of Finan. Reg., 2015, 1, p. 3 ss.; Persaud, Why Bail-In Securities are Fool’s Gold, in Peterson Institute for International Economics, n. PB14-23, p. 1 ss.

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il quale ci si propone, appunto, l’obiettivo di fare sopportare agli azionisti e ad alcune categorie di creditori dell’ente in dissesto perdite adeguate e, comunque, fare loro carico di una quota congrua dei costi del dissesto. A tal fine, le nuove autorità di risoluzione (preposte dall’art. 3, § 1, della direttiva ad applicare gli strumenti e a esercitare i poteri di risoluzione, per risolvere le crisi delle banche) dispongono, fra l’altro, del potere di svalutare, anche azzerandolo, il valore degli strumenti di capitale, nonché del potere di ridurre il valore dei crediti o, addirittura, convertirli in strumenti di capitale (art. 63 della direttiva 2014/59/UE). In conseguenza l’ente sottoposto a risoluzione dovrebbe essere completamente risanato e rispondere ai requisiti per ricevere un’autorizzazione a operare. Si legge (nel considerando 67) della direttiva 2014/59 che “lo strumento del bail-in darà agli azionisti e ai creditori degli enti un maggiore incentivo a vigilare sul buon funzionamento dell’ente in circostanze normali ed è conforme alla raccomandazione del Consiglio per la stabilità finanziaria in base alla quale i poteri di svalutazione del debito e di conversione previsti per legge sono inclusi in un quadro di risoluzione come opzione aggiuntiva, unitamente ad altri strumenti di risoluzione”8. Tale affermazione corrisponde a verità per ciò che concerne gli azionisti, mentre credo sia discutibile per i creditori non garantiti, i quali non hanno, almeno per il momento, un efficace sistema di allarme che li metta in guardia dalla rischiosità del loro investimento. Dopo il salvataggio delle banche cipriote9, il bail-in è alla seconda prova generale con il salvataggio delle banche greche10: si dice che a differen-

8 Cfr. Stanghellini, La disciplina delle crisi bancarie: la prospettiva europea, in Dal Testo unico bancario all’Unione bancaria: tecniche normative e allocazione di poteri, Atti del convegno tenutosi a Roma il 16 settembre 2013, Quaderni di Ricerca Giuridica della Banca d’Italia, Roma, n. 75, marzo 2014, p. 169 ss.; Joosen, Regulatory Capital Requiremens and Bail in Mechanism, in Research Handbook on Crisis Management in the Banking Sector, a cura di Haentjens e Wessels, Cheltenham, in corso di pubblicazione. Si profilano, per altro, nuovi meccanismi atti ad aggirare gli obblighi di protezione ancor prima che siano messi in opera: ad es., su alcuni mercati, sono comparsi i c.d. brokered deposit, vale a dire depositi offerti alla clientela attraverso un broker in grado di ricercare il più alto tasso di interesse che si possa spuntare sul mercato, ma questo filtro altro non è che un nuovo disincentivo a monitorare le condizioni economico-finanziarie della banca che riceve i depositi: cfr. Howden, Rethinking Deposit Insurance on Brokered Depostis, in Business Law J., 2015, p. 190 ss. 9 Cfr. Donato, The Cyprus crisis and the legal protection of foreign investors, in SSRNid25575372. 10 Tuttavia, il bail-in è stato utilizzato anche in alcuni altri paesi europei per risolvere la crisi di singole banche sulla base della rispettiva legislazione nazionale, in partico-

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za del primo caso, questa volta saranno esclusi completamente i depositi a vista, anche oltre l’importo garantito dei 100 mila euro e ciò con l’intento di non colpire i depositi liquidi delle imprese al fine, dunque, di agevolare una ripartenza dell’economia greca11. Al contrario, oltre agli azionisti delle banche, saranno colpiti i sottoscrittori delle obbligazioni bancarie. Nella scala delle tutele, dunque, i risparmiatori sono posposti agli imprenditori. Dall’esperienza si trae l’insegnamento che la regola del bail-in può essere applicata con un certo grado di discrezionalità riguardo alle passività sottoponibili alla diluizione o alla conversione con un effetto di ulteriore spiazzamento dei creditori delle banche. Se ne comprende il motivo, esclusa la garanzia dello Stato, le azioni di salvataggio delle banche saranno efficaci solo a condizione che gli investitori non conoscano a priori la strategia che le autorità preposte giocheranno a ogni partita che si presenterà. È importante, e proprio per questo non è detto esplicitamente, che i sottoscrittori di obbligazioni bancarie non siano avvertiti dei rischi che in precedenza non avevano considerato, proprio per evitare che essi fuggano da tale investimento innescando per ciò stesso un nuovo elemento di crisi sistemica. È, invece, molto chiaro che i creditori (i titolari delle c.d passività ammissibili al bail-in) saranno pregiudicati solo dopo i titolari di capitale di rischio, nonché delle obbligazioni subordinate. Infatti, la sequenza con la quale le autorità di risoluzione dovranno eseguire la svalutazione è puntigliosamente stabilita dall’art. 48 della direttiva12, procedendo dagli elementi di capitale primario di classe 1 fino ad arrivare, appunto, alle c.d. passività ammissibili: tra queste vi sono le obbligazioni bancarie, escluse si badi le obbligazioni garantite. A questo punto, però, suona “incerta” l’affermazione (che si ripete in ogni documento, in ogni direttiva, in ogni regolamento, in ogni raccomandazione delle autorità europee e di riflesso dei paesi dell’Unione)

lare in Danimarca e in Slovenia. Oltre a questi, altri paesi europei già ne prevedevano l’applicazione: fra questi il Regno Unito e la Spagna. Cfr. Kerlin, Maksymiuk, Comparative analysis of the bail-in tool, in Copernican J. of Fin. & Account., 2015, 4 (1), p. 97 ss. 11 Tale esclusione probabilmente trova fondamento nell’art. 44, § 3, lett. c) della direttiva 2014/59, secondo cui è giustificata l’esclusione che sia “strettamente necessaria e proporzionata per evitare di provocare un ampio contagio, in particolare per quanto riguarda depositi ammissibili detenuti da persone fisiche e da micro, piccole e medie imprese, che perturberebbe gravemente il funzionamento dei mercati finanziari, incluse le infrastrutture di tali mercati, in un modo che potrebbe determinare una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro o dell’Unione”. 12 Cfr. Hadjiemmanuil, Bank Resolution, cit., p. 25 ss.; Joosen, Regulatory Capital Requiremens, cit., p. 57 ss.

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che fra gli scopi degli interventi della Commissione europea vi sia quello di garantire l’integrità del mercato e la fiducia nel sistema finanziario europeo attraverso la protezione dei consumatori e degli investitori. Certo l’investitore deve essere avveduto, non può più permettersi, come in passato, di ignorare completamente i meccanismi del mercato creditizio e finanziario, ciò spiega l’ampio intervento predisposto per l’educazione finanziaria da diffondere a partire dalle scuole. L’ignoranza è tollerata per depositi fino a 100 mila euro che, per altro, non sono sostanzialmente remunerati e subiscono la costante erosione dell’inflazione e delle spese. Sopra tale cifra, l’investitore non può contare che sull’informazione e sulla trasparenza e, comunque, su una protezione ridotta consistente nel fatto che sopra la ricordata somma i loro depositi saranno falcidiati per ultimi dal bail-in: dopo tutte le altre passività ammissibili (art. 108 direttiva 2014/59) e prima solo delle c.d. passività escluse elencate nell’art. 44 della direttiva. Proprio qui si nascondono le maggiori insidie; ma facciamo un passo indietro e consideriamo alcune novità della legislazione europea: quelle che contribuiscono a giustificare il convincimento di una maggiore protezione degli investitori al fine di ripristinarne la fiducia nel sistema finanziario.

2. Dalla trasparenza all’accudimento dell’investitore? È vero anche che il quadro dell’ordinamento finanziario europeo si muove verso una maggiore attenzione per l’investitore; in tale direzione gli interventi del legislatore europeo sono così variegati e complessi che qui non c’è neanche spazio per un’elencazione completa13; in questo paragrafo focalizzerò l’attenzione sugli artt. 24 e 25 della MIFID II14. Le novità, in essi contenute, fanno compiere alla tutela dell’investitore l’accennato e consistente salto di qualità, per dirla con uno slogan, sembra si passi dalla trasparenza all’accudimento15. In verità non è cosa

13 Si rinvia, comunque, per il quadro complessivo, alla Financial Regulation Agenda, v. il Memorandum della Commissione europea del 15 maggio 2014 intitolato “Economic review of the financial regulation agenda: Frequently asked questions”. 14 Si tratta, più precisamente, della Direttiva 2014/65/UE del 15 maggio 2014, relativa ai mercati degli strumenti finanziari, che modifica la direttiva 2002/92/CE e la direttiva 2011/61/UE (rifusione). 15 Cfr. Perrone (Servizi di investimento e regole di comportamento dalla trasparenza

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nuova che l’intermediario debba “servire al meglio gli interessi dei clienti” agendo in modo “onesto, equo e professionale” (art. 19, § 1, vecchio testo MIFID, e art. 24, § 1, nuovo testo MIFID II), ma tale principio è ora declinato in modo più accurato e attento alle esigenze degli investitori. In primo luogo, si è prestata particolare attenzione alle c.d. misure di product governance16; infatti, le imprese d’investimento, che realizzano strumenti finanziari per venderli alla clientela, hanno l’obbligo di realizzare tali prodotti al fine di “soddisfare le esigenze di un determinato mercato di riferimento di clienti finali” accuratamente classificati. In secondo luogo, sotto il profilo organizzativo, l’impresa d’investimento deve sviluppare una “strategia di distribuzione degli strumenti finanziari” compatibile con il profilo del cliente anticipatamente individuato e assicurare la distribuzione all’interno del mercato di riferimento. Ciò per quanto riguarda le imprese d’investimento che creano il prodotto. Per quanto riguarda le imprese che distribuiscono il prodotto, l’art. 24, § 2, dispone l’obbligo di valutarne la “compatibilità con le esigenze della clientela” fino al punto di offrirlo e raccomandarlo “solo quando ciò sia nell’interesse del cliente”. Il successivo art. 25, § 3, co. 2, prevede, poi, una più accurata profilatura del cliente e giunge a stabilire che, qualora l’impresa ritenga che un prodotto o un servizio non sia appropriato per il cliente, “avverte questo ultimo di tale situazione”. Queste regole offrono una protezione di base, concernente il prodotto, in parte nuova e più ampia che nel passato; esse si applicano a tutte le imprese d’investimento, ivi incluse ovviamente le banche, che progettino, oppure commercializzino strumenti finanziari, tra cui (per quello che qui interessa) obbligazioni e altre forme di debito cartolarizzate17.

alla fiducia, in Banca, borsa, tit. cred., 2015, I, 31 ss.) preferisce parlare di fiducia. In precedenza, le scelte del legislatore erano orientate in senso per c.d. non paternalistico, sul punto si rinvia a Brescia Morra, Adeguatezza, appropriatezza e mera esecuzione di ordini, in L’attuazione delle MiFID in Italia, a cura di D’Apice, Bologna, 2010, p. 517 ss. 16 Per le premesse teoriche, cfr. Moloney, How to Protect Investors, Cambridge, 2010, p. 134 ss. 17 Per ciò che concerne l’ordinamento italiano, già l’art. 25-bis, co. 1, t.u.f., aveva attratto la disciplina del collocamento “di prodotti finanziari emessi da banche” nell’ambito del testo unico della finanza, v. Capriglione, I “prodotti” di un sistema finanziario evoluto. Quali regole per le banche, in La distribuzione dei prodotti finanziari, bancari e assicurativi a cura di Antonucci e Paracampo, Bari, 2008, p. 35 ss.; M. Siri, La commercializzazione di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di assicurazione, in Società, banche e crisi d’impresa, 3, diretto da Campobasso, Cariello, Di Cataldo, Guerrera, Sciarrone Alibrandi, Milano Torino, 2014, p. 575 ss.; Sciarrone Alibrandi, Prodotti misti

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Ciò dovrebbe comportare la conseguenza che le banche, ormai consapevoli del rischio di bail-in incorporato nei valori mobiliari da esse stesse emesse: 1) non solo debbano fornire, come già in passato (art. 19, § 3, vecchio testo, trasfuso con modificazioni nell’art. 24, § 4 della MIFID II), informazioni corrette e non fuorvianti riguardo ai bond emessi e collocati e, pertanto, anche l’informazione che non è garantita la restituzione del capitale in caso di crisi e apertura del procedimento di risoluzione della banca; 2) ma dovrebbero anche sconsigliare l’acquisto di tali titoli qualora non siano “compatibili” con le esigenze e con gli interessi della clientela come in precedenza profilata (art. 24, § 2, ultima parte)18. Tuttavia, ferme restando le regole sopra citate relative alla confezione e distribuzione del prodotto finanziario, le banche (al pari di qualsiasi altro intermediario) possono disattendere l’obbligo di avvertire il cliente circa l’adeguatezza e l’appropriatezza del prodotto che si vende, nella c.d. ipotesi di execution only. Infatti, l’art. 25, § 4, stabilisce che “le imprese di investimento, quando prestano servizi di investimento che consistono unicamente nell’esecuzione o nella ricezione e trasmissione degli ordini del cliente” possono prestare servizi ai loro clienti senza che sia necessario ottenere le informazioni in ordine all’adeguatezza (vale a dire si esclude l’applicazione dell’art. 25, § 2) dagli stessi e senza che sia necessario procedere alla valutazione dell’appropriatezza del prodotto riguardo al cliente (vale a dire si esclude l’applicazione dell’art. 25, § 3). Tal eccezione riguarda tra l’altro, proprio le obbligazioni e le altre forme di debito cartolarizzato, a condizione appunto che l’acquisto sia stato richiesto dallo stesso cliente (art. 25, § 4, lett. b). L’esenzione è data alle successive condizioni che: 1) il cliente sia stato informato del fatto che la banca non è tenuta a valutare l’appropriatezza dello strumento finanziario collocato o proposto (art. 25, § 4, lett. c); 2) i valori mobiliari siano ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato o in un sistema multilaterale di negoziazione (art. 25, § 4, lett. a, punto i). La prima condizione è un adempimento di routine che, come insegna l’esperienza, non assicura che il cliente abbia compreso la gravità di

e norme a tutela del cliente, ibidem, p. 2423 ss., ove ulteriori riferimenti. 18 Su altro piano operano le disposizioni del regolamento c.d. MIFIR, che attribuiscono alle autorità nazionali la facoltà di proibire la diffusione di prodotti finanziari ritenuti pregiudizievoli per la tutela degli investitori, v. art. 42 del reg. n. 600/2014/UE. Ai sensi dell’art. 40 del regolamento, anche l’ESMA è dotato di un potere di divieto temporaneo nei casi più gravi.

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quanto gli è comunicato19; riguardo alla seconda, al di là della discutibile linea di confine tra valori mobiliari ammessi alla negoziazione20 e quelli non ammessi21, il legislatore europeo sembra suggerire l’equivalenza tra l’informazione diretta alla clientela nel caso di valori mobiliari non ammessi alla negoziazione e l’informazione che offre il mercato attraverso indicatori di prezzo. In altri termini e ancora discutibilmente chi acquista valori negoziati si arrangia da sé seguendo i listini. Si può essere soddisfatti di tali tutele? Non del tutto. Non si può tacere che permane una tensione, una divergenza tra l’obiettivo di ripristinare la fiducia dell’investitore nel sistema finanziario, attraverso un’accresciuta protezione, e la regola di bail-in con riguardo alla posizione dei sottoscrittori di bond delle banche. L’inversione di tendenza nel grado di protezione offerta ai sottoscrittori di bond bancari è così repentina e radicale che la fiducia degli investitori (circa il fatto di correre il rischio di non essere ripagati dalla banca cui hanno fatto credito) non può essere sradicata, dopo quasi un secolo, con la semplice informazione; neanche quando questa informazione comprenda, come si è detto che deve comprendere, l’avvertenza che il prodotto non è appropriato a questo o quel cliente. Per rimediare occorrerebbe una vasta campagna pubblicitaria con la quale si propagandi che le banche non assicurano più la restituzione del capitale. Tale campagna sarebbe tanto più efficace se non affidata al singolo intermediario ma proprio alle autorità preposte; invece, queste ultime si guardano bene dal fare e dal richiedere tanto, perché con tale pubblicità minerebbero immediatamente la fiducia nel sistema. Ma vi è di più, il rafforzamento delle tutele di cui sopra si è fatto cenno vale per il futuro, per le nuove emissioni e per i nuovi collocamenti di obbligazioni e di altre forme di debito cartolarizzato. Lo strumento del

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Per considerazioni generali sul punto, cfr. Denozza, Mercato, razionalità degli agenti e disciplina dei contratti, in I contratti per l’impresa. I. Produzione, circolazione, gestione, garanzia, a cura di Gitti, Maugeri, Notari, Bologna, 2012, p. 85 ss. 20 Sull’importanza del requisito di negoziazione c’è ampia letteratura, mi sia consentito rinviare al mio Il rapporto tra il concetto di valore mobiliare e quello di strumento finanziario nella rinnovata classificazione del decreto legislativo 2007/164, in Studi in onore di Remo Martini, Milano, 2010, p. 483 ss. V. anche le considerazioni critiche di Masera, Il rischio e le banche, Milano, 2001, p. 9 ss. 21 Le banche che collocano propri valori mobiliari presso la clientela non mancano di offrire alla stessa almeno la possibilità di rivendere i titoli prima della scadenza offrendosi esse stesse di ricercare una controparte per l’acquisto.

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bail-in, invece, ha efficacia retroattiva nel senso che si applicherà anche agli stock di bond già nei portafogli degli investitori, lo sanno bene i risparmiatori ciprioti e, di qui a poco, se ne renderanno ben conto anche quelli greci. Per paesi come l’Italia questo è un problema gravissimo, basta considerare i numeri: secondo i dati di Banca d’Italia, la consistenza di obbligazioni bancarie italiane, detenute dalle famiglie, è pari – per il 2014 – a oltre 237 miliardi di euro, più della ricchezza investita in debito pubblico italiano (pari a oltre 173 miliardi), e rappresenta il 6% dell’attivo totale delle famiglie. Il dato è in diminuzione rispetto al 2013 (quando è stato pari all’8,5%)22. La diminuzione non è, tuttavia, da mettere in correlazione con la regola del bail-in, disposta solo nel corso del 2014, ma è dovuta a un ritorno agli investimenti in fondi comuni e agli investimenti assicurativi del ramo vita.

3. Le obbligazioni bancarie sono strumenti finanziari preassemblati? Mi sia consentito sviluppare una breve considerazione finale relativa ai c.d. prodotti preassemblati, quali disciplinati dal Reg. n. 1286/2014/ UE del 26 novembre 2014, relativo ai documenti contenenti informazioni chiave per i prodotti d’investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati, in sigla PRIIPs23. Si tratta dell’esito di alcune opinion espresse dall’ESMA riguardo ai rischi inerenti a prodotti a elevata complessità, in relazione alle loro caratteristiche non facilmente comprensibili da parte degli investitori al dettaglio. È bene chiarire che è possibile che nel mercato siano commercializzati prodotti complessi con bassa rischiosità o prodotti semplici a rischiosità elevata, ma il legislatore europeo, partendo dalla considera-

22 Banca d’Italia, Relazione annuale per il 2014, Roma, 2015, tavola 7.4, p. 68. Si consideri anche che la ricchezza delle famiglie italiane, sempre nel 2014, era investita, per poco meno del 30%, in depositi bancari. 23 Alcuni autori ne hanno scritto, già prima dell’emanazione del Reg. 1286/2014; v., fra gli altri, Cherednychenko, The Regulation of Retail Investment Services in the EU: Towards the Improvement of Investor Rights?, in J. Of Consumer Policy, 2010, p. 403 ss.; Sciarrone Alibrandi, Prodotti misti, cit., p. 2441 ss. Ora cfr. Schaeken Willemaers, Client protection on European financial markets – from inform your client to know your product and beyond: an assessment of the PRIIPs Regulation, MiFID II/MiFIR and IMD, in SSRN-id2494842, 2014, p. 2 ss.

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zione che la trasparenza da sola non può ovviare al difetto di divario cognitivo tra intermediario e investitori con riguardo ai prodotti complessi, ha ritenuto di sviluppare regole di maggiore tutela per i PRIIPs. In primo luogo, intendiamoci sui termini: un prodotto finanziario è semplice quando rappresenta direttamente gli asset sottostanti, ad es. le azioni rappresentano i diritti sulle quote di capitale sociale, le obbligazioni rappresentano i diritti dei creditori per quote. Un prodotto finanziario è complesso quando tale relazione è indiretta, tanto che l’investitore potrebbe non conoscere, o almeno non comprendere, quali siano gli asset sottostanti. L’art. 4 del Reg. 1286/2014 dà una definizione precisa di “prodotto d’investimento al dettaglio preassemblato o PRIP”, quale un investimento nel quale “indipendentemente dalla forma giuridica dell’investimento stesso, l’importo dovuto all’investitore al dettaglio è soggetto a fluttuazioni a causa dell’esposizione ai valori di riferimento oppure soggetto al rendimento di una o più attività che non sono acquistate direttamente dall’investitore al dettaglio”. In ragione della loro complessità, tali prodotti sono ritenuti di più difficile comprensione per l’investitore e, pertanto, maggiore deve essere l’impegno dell’intermediario (ideatore, consulente e collocatore del prodotto – art. 2, § 1, Reg. –) di essere più chiaro, accurato e comprensibile. Infatti, per superare le asimmetrie informative tra intermediari (ideatori, consulenti o collocatori che siano) e investitori al dettaglio, il legislatore ha stabilito che i primi redigano un documento contenente informazioni chiare, da mettere a disposizione dell’altra parte, già nella fase precontrattuale. Tale documento deve essere di facilissima lettura anche per l’investitore più sprovveduto. Infatti, deve essere in primo luogo breve, non più di tre facciate in formato A4, scritto in caratteri leggibili, focalizzato solo sulle principali informazioni, redatto in un linguaggio chiaro sintetico e comprensibile (art. 6, § 4). Quali siano le informazioni chiave, poi, non è lasciato alla discrezionalità dell’intermediario ma è fissato direttamente dal legislatore nel successivo art. 8, § 3. A tutto ciò è obbligatorio premettere una formula standard di allarme dettata dallo stesso legislatore (art.8, § 2, reg. 1286/2014) che suona esattamente come segue: “il presente documento contiene informazioni chiave relative a questo prodotto di investimento. Non si tratta di un documento promozionale. Le informazioni, prescritte per legge, hanno lo scopo di aiutarvi a capire le caratteristiche, I rischi, e costi, i guadagni e le perdite potenziali di questo prodotto e di aiutarvi a fare un raffronto con altri prodotti d’investimento.”. In altri termini il legislatore pretende che il prodotto finanziario preassemblato sia dotato di una sorta di eti-

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chetta, alla stessa stregua di qualsiasi altro prodotto pericoloso, quale un veleno, un esplosivo, un pacchetto di sigarette. Svolte tali premesse, ci si può chiedere, se la tutela offerta ai sottoscrittori di bond bancari debba essere inferiore a quella concessa agli investitori in prodotti complessi (preassemblati). Non vi è dubbio che le obbligazioni siano prodotti semplici, anzi, insieme alle azioni, sono il tipo più ovvio di prodotto semplice; dunque, in prima approssimazione, sembra che non meritino l’accresciuta attenzione e il potenziamento della tutela dell’investitore attribuita ai prodotti preassemblati. Tuttavia, qui ci si occupa più specificamente delle obbligazioni bancarie, vale a dire di quei valori mobiliari che contengono il rischio, come lo contengono in ragione della possibilità di bail-in, di conversione in azioni della banca, cosicché il valore di tali azioni, proprio allo stesso modo di un prodotto preassamblato, è soggetto a fluttuazioni del rendimento delle azioni della banca, che sono appunto strumenti finanziari non acquistati direttamente dall’investitore al dettaglio che abbia comprato le dette obbligazioni. In verità lo stesso Regolamento si preoccupa di precisare quali siano strumenti finanziari esclusi dal proprio ambito di applicazione. Non è necessario fornire l’elenco completo, basta soffermarsi sull’art. 2, § 2, lett. d), che ne esclude l’applicazione agli strumenti finanziari indicati nell’art. 1, § 2, lett. da b) a g), i) e j) della direttiva 2003/71/CE. Orbene la lett. f), del citato articolo, si riferisce agli strumenti finanziari diversi dai titoli di capitale emessi in modo continuo o ripetuto da banche. Dunque, la disciplina in discorso non sembrerebbe riguardare le nostre obbligazioni; ma non è finita qui, la citata lett. f), infatti, a sua volta esclude dall’esclusione i valori mobiliari che: 1) siano subordinati, convertibili o scambiabili; 2) conferiscano il diritto di sottoscrivere o acquisire altri tipi di strumenti finanziari e siano collegati ad uno strumento derivato; 3) non diano veste materiale al ricevimento di depositi rimborsabili; 4) non siano coperti da un sistema di garanzia dei depositi a norma della direttiva 94/19/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 maggio 1994, relativa ai sistemi di garanzia dei depositi. Sicuramente le obbligazioni bancarie sono valori mobiliari non coperti da un sistema di garanzia dei depositi. Il legislatore europeo non avrebbe potuto creare maggiore confusione, ma alla fine credo si possa concludere che l’ideazione, la consulenza, la vendita di obbligazioni bancarie e di altri prodotti bancari cartolarizzati debba essere commercializzato con le più rigorose regole di un PRIP. A ogni buon conto, sarebbe bene che i legislatori nazionali, per evitare ogni possibile fraintendimento, fossero più chiari utilizzando l’ampia

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facoltà che lo stesso regolamento concede. Si legge, infatti, nel considerando 8), che “il presente regolamento non pregiudica il diritto degli Stati membri a disciplinare la comunicazione di informazioni chiave su prodotti che esulano dal suo ambito di applicazione”. Nota di aggiornamento Nelle more della pubblicazione del presente articolo si è manifestata la crisi di quattro banche italiane: Banca Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara, CarChieti (v. d.l. 22 novembre 2015, n. 183). In relazione a tale crisi, anche l’Italia sperimenterà per la prima volta il meccanismo del bail-in, con l’azzeramento del valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate delle banche citate. Gli effetti sociali, già paventati nelle pagine che precedono, sono sulle prime pagine dei giornali e sotto gli occhi di tutti; tanto che si prospetta un nuovo intervento del Governo a parziale sollievo dei sottoscrittori delle obbligazioni subordinate, probabilmente con modalità simili a quelle adoperate in Spagna, negli anni scorsi, per sovvenire i risparmiatori “ignari” dei rischi. Mentre si scrive le modalità di tale intervento non sono state ancora precisate.

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Usura bancaria e tutela del creditore Sommario: 1. Premessa. Interessi corrispettivi e moratori: funzione e natura. – 2. Tutela del debitore e valutazione dell’usurarietà: attuale posizione della giurisprudenza. – 3. La tutela del creditore pecuniario. – 4. Coordinamento fra le normative ed ipotesi di soluzione.

1. Premessa. Interessi corrispettivi e moratori: funzione e natura. La maggior parte delle considerazioni riportate nel presente scritto sono applicabili ai rapporti aventi ad oggetto le obbligazioni pecuniarie, a prescindere dalla qualifica dei soggetti (salvo quando si richiamano discipline specifiche, come il t.u.b.): ecco perché, nonostante ci si voglia riferire, in modo più specifico, all’usura bancaria, si è optato, nel testo, per l’uso generico dei termini debitore, creditore, operazione economica, finanziamento. Il tema della diversa natura e rilevanza degli interessi con funzione remunerativa rispetto a quelli con funzione risarcitoria è ampiamente rappresentato; si ritiene tuttavia utile, in questa sede, un limitato richiamo alla questione, anche al fine di delineare eventuali contraddizioni presenti nelle disposizioni legislative e tentare di operare in seguito il loro coordinamento. Come noto, gli interessi con funzione remunerativa rappresentano un compenso (percentuale e periodico) dovuto dal debitore al creditore in cambio della disponibilità di una somma di denaro; essi vengono generalmente distinti in interessi corrispettivi e compensativi, attribuendo ai primi la specifica valenza di remunerare il godimento della somma, ed individuando nei secondi un fondamento equitativo1.

1 In quest’ultima categoria sono normalmente ricompresi gli interessi sul prezzo, non ancora esigibile, derivante dalla vendita di cosa fruttifera già consegnata all’acquirente (art. 1499 c.c.), nonché gli interessi che sono dovuti sulle somme liquidate a titolo risarcitorio.

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Occorre rilevare che il termine “corrispettivi” non è utilizzato dal nostro legislatore, ma il suo uso è uniforme e consolidato, forse anche grazie all’idea evocativa del “prezzo” per il vantaggio derivante dalla possibilità di utilizzazione del denaro; la loro fonte può essere negoziale (per esempio, interessi stabiliti convenzionalmente sulle somme date a mutuo) ovvero legale, posto che l’art. 1282 c.c. dispone che sui crediti liquidi ed esigibili decorrono “interessi di pieno diritto”2. Agli interessi compensativi, nonostante il riferito fondamento equitativo, viene ugualmente riconosciuta funzione remunerativa, ed anzi una parte della dottrina sottolinea che occorrerebbe utilizzare solo tale locuzione per indicare la natura di compenso per il godimento del denaro3. Tralasciando le questioni terminologiche, è usuale che agli interessi con funzione remunerativa vengano contrapposti quelli con funzione

Sul punto può brevemente riferirsi che mentre gli interessi di cui all’art. 1499 c.c. sono espressamente definiti “compensativi” dallo stesso legislatore, appare dubbia l’attribuzione di funzione equitativa (o comunque remuneratoria) agli interessi da corrispondere sulle somme dovute in caso di risarcimento del danno, ovvero nei c.d. debiti di valore. In merito, la pronuncia delle SS.UU. 17 febbraio 1995 n. 1712 aveva stabilito che sulla somma liquidata per equivalente era altresì dovuto il danno da ritardo, riconoscibile anche mediante l’attribuzione degli interessi (escludendone tuttavia la mera applicazione sulla somma rivalutata a far data dall’illecito, ma disponendo l’adozione di un calcolo che si riferisse ai singoli momenti di rivalutazione, ovvero ad un indice di incremento medio); successivamente, le stesse SS.UU., con pronuncia del 30 ottobre 2008 n. 26008, hanno escluso del tutto l’applicazione degli interessi di mora sulla somma rivalutata prima del momento della liquidazione. Le pronunce successive, tuttavia, sono tornate ad ammettere la possibilità di riconoscere gli interessi sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno richiamando l’orientamento delle riferite SS.UU. del 1995 (Cass. 3 agosto 2010 n. 18028; Cass. 28 aprile 2010 n. 10193, che qualifica tali interessi come “compensativi”; Cass. 5 dicembre 2014 n. 25729), mentre altre, ribadendo l’incompatibilità degli interessi moratori con i debiti di valore, hanno affermato che in tale ipotesi gli interessi sono compensativi del danno da ritardo (lucro cessante) nella corresponsione dell’equivalente monetario del danno provocato (cfr. Cass. 21 luglio 2009 n. 16963). 2 La norma, prima presente solo nel codice del commercio, viene generalmente indicata come espressione del principio di naturale fecondità del denaro; essa risponde alla stessa logica degli interessi sul capitale (mutuo, deposito irregolare, conto corrente) ossia alla regola secondo cui chi riceve una somma di denaro per disporne nel suo interesse, con obbligo di restituzione, deve corrispondere gli interessi in favore del creditore. In merito, si veda tuttavia oltre, nota n. 6 e testo corrispondente. 3 Cfr. Bianca, Diritto Civile, 4, L’obbligazione, Milano, 1990, p. 178 e s., che sostiene come la locuzione “compensativi” sia idonea ad indicare unitariamente gli interessi dovuti a fronte dell’obiettivo vantaggio economico derivante dall’utilizzazione del denaro altrui, nonché a differenziare tale ipotesi da quella del ritardo.

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moratoria, ossia gli interessi che rappresentano la liquidazione forfettaria minima del danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie. La norma di riferimento è ovviamente l’art. 1224 c.c., ove si dispone che dal giorno della mora sono dovuti gli interessi legali anche se non erano dovuti precedentemente ed anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno; la previsione rappresenta evidente eccezione al principio secondo cui, per accedere al risarcimento, il creditore deve provare l’an ed il quantum del danno4, rendendone ovvio l’accostamento con la clausola penale (art. 1382 c.c.), che ha appunto la funzione di liquidare in via preventiva e forfettaria il risarcimento del danno che deriva dal ritardo o dall’inadempimento dell’obbligazione5.

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Si ricorda che tuttavia, ai sensi del co. 2 del medesimo art. 1224 c.c., qualora il creditore voglia ottenere un danno maggiore, si torna ai principi generali in materia di oneri probatori. 5 Nonostante il dettato legislativo sembri chiaramente orientato nei termini di una funzione risarcitoria, la dottrina ha spesso sottolineato che, essendo la penale comunque dovuta a prescindere non solo dall’entità (quantum) del danno ma dalla sua stessa esistenza (an), non si può disconoscerle funzione punitiva. Senza alcuna pretesa di completezza e limitandosi ad una rapida ricognizione, può segnalarsi che gli autori si muovono su due direttive diverse: l’orientamento tradizionale individua nella clausola penale uno strumento giuridico di (mera) liquidazione forfettaria e preventiva del danno (cfr., tra gli altri, Messineo, Il contratto in generale, in Tratt. dir. civ. comm. diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1973; De Cupis, Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1979; Gerbo, Clausola penale e danno, in Riv. dir. civ. 1983, II, p. 206 e ss.; Bianca, Diritto Civile, 5, La responsabilità, Milano, 2012) mentre la dottrina c.d. “sanzionatoria” individua la funzione unica o prevalente della clausola nel profilo punitivo (tra gli altri, Zoppini, La pena contrattuale, Milano, 1991; Marini, La clausola penale, Napoli, 1984; Moscati, voce Pena (diritto privato), in Enc. dir. XXXII, Milano, 1982, p. 770; Magazzù, voce Clausola penale in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 186; Trimarchi, La clausola penale, Milano, 1954). Naturalmente in merito non sono mancate opinioni che hanno affermato come la funzione della penale possa considerarsi mista (Cfr. De Nova, voce Clausola penale, in Dig. disc. priv., sez. civile, II, Torino 1988, p. 379: «La clausola penale può esercitare volta a volta funzioni diverse, sì che pare vano sforzo quella di individuare la funzione tipica»; in senso conforme Calvo, Il controllo della penale eccessiva tra autonomia privata e paternalismo giudiziale, in Riv. dir. proc. civ. 2002, I, p. 315) mentre altri autori ne hanno sottolineato l’aspetto di coazione all’adempimento. Tale effetto di coazione non è peraltro idoneo ad incidere sulla ipotetica funzione della penale, per cui viene segnalato sia dalla dottrina che aderisce alla visione risarcitoria che dagli autori che accolgono l’orientamento sanzionatorio. Si vedano infatti i rilievi di Mirabelli, Dei contratti in generale, in Commentario del codice civile, Torino, 1980, p. 332 (secondo cui l’unitario istituto della clausola penale ha due funzioni, entrambe essenziali: coercitiva e risarcitoria); Scuto, Teoria generale delle obbligazioni, I,

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La distinzione fra interessi remunerativi e risarcitori si riverbera nella altrettanto usuale individuazione nel rapporto obbligatorio della c.d. fase fisiologica (ove il debitore trattiene legittimamente le somme poiché non è ancora attuale l’obbligazione restitutoria, per cui sono dovuti gli interessi corrispettivi) nonché della c.d. fase patologica (ove il debitore è in ritardo nella restituzione del denaro e sono quindi dovuti gli interessi moratori). La netta contrapposizione viene tuttavia attenuata da chi rileva che anche gli interessi dovuti ex art. 1282 c.c. rispondono alla logica di risarcire il creditore per il pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità della somma di denaro6, giungendosi ad affermare che non è riscontrabile una diversità di funzioni in quanto il legislatore, sia negli interessi moratori che in quelli “di pieno diritto”, ha tenuto conto sia del profilo del danno subito dal creditore che del vantaggio conseguito dal debitore, escludendo peraltro la necessità di prova per entrambi i profili che dunque non possono essere ritenuti determinanti per individuare una diversa ratio delle norme7. Ulteriori dubbi potrebbero derivare dalla circostanza che nella determinazione del saggio legale degli interessi ex art. 1284 c.c. – da corrispondere sia in caso di crediti liquidi ed esigibili che in caso di mora, salva diversa e/o più onerosa pattuizione – si tenga conto (oltre che del rendimento medio annuo lordo dei titoli di Stato di durata non superiore a 12 mesi) del tasso di inflazione registrato nell’anno. A tal proposito, infatti, se si conviene sul punto che l’inflazione deve

Napoli, 1953, p. 385 (per il quale alla funzione liquidativa del danno si unisce lo stimolo all’adempimento, dato il pericolo di incorrere in una prestazione di solito più gravosa di quella oggetto dell’obbligazione principale) e Trimarchi, La clausola, cit., p. 55 (che, pur distinguendo tra clausola penale pura e non pura – a seconda che manchi o meno la considerazione al risarcimento del danno – individua la medesima funzione punitiva anche nella penale non pura, poiché diretta a sanzionare la mancata osservanza del comportamento dovuto). La presente sede non consente ulteriori riferimenti, ma sembra importante sottolineare che la funzione di deterrenza all’inadempimento presente nella clausola penale appare indiscussa, e tale profilo costituisce un dato importante per quanto si esporrà oltre, nel paragrafo 3 (spec. nt. 40). 6 Sul punto, Giorgianni, L’inadempimento, Milano 1975, p. 159 e ss., ove si sottolinea che il requisito della esigibilità, nonché la ricostruzione del fondamento della liquidazione forfettaria del danno, fanno propendere per l’idea che ci si muova in un terreno assai vicino a quello degli interessi moratori (cfr. spec. p. 161). 7 Cfr. Libertini, voce Interessi, in Enc. dir., XII, Milano, 1972, p. 101 e ss., spec. p. 103.

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essere considerata, nella fase fisiologica del rapporto, un “rischio” che grava sul creditore in virtù del principio nominalistico, mentre rappresenta un danno nella fase patologica connessa al ritardo nel pagamento, il fatto che essa rilevi in ogni caso potrebbe snaturare il profilo della differenza fra interessi corrispettivi e moratori; invero, poiché i primi sono deputati a compensare la temporanea mancanza del potere di godimento e disposizione del denaro, non dovrebbe esserci spazio per considerazioni del fenomeno inflattivo se non attraverso meccanismi di indicizzazione che trasferiscono il summenzionato “rischio” in capo al debitore, mentre solo per gli interessi moratori, che hanno come fondamento il risarcimento del danno, sarebbe pienamente comprensibile la preventiva considerazione della svalutazione effettuata già in sede ministeriale8. Con riferimento, dunque, al pagamento di interessi legali, può effettivamente riscontrarsi la contemporanea presenza di elementi corrispettivi e risarcitori; tale aspetto, tuttavia, non sembra aver condotto ad una visione unitaria, risultando allo stato ancora abbastanza pacifica la netta distinzione (e contrapposizione) fra funzione remunerativa e risarcitoria nonché fra interessi corrispettivi e moratori.

2. Tutela del debitore e valutazione dell’usurarietà: attuale posizione della giurisprudenza. Altrettanto noto e ampiamente esplorato è il tema della disciplina dell’usura – delineata nell’art. 644 c.p. dal legislatore del 1996 – e delle sue ricadute civilistiche, per cui ci si limita a ricordare che in presenza di

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In merito, può altresì riferirsi che parte della dottrina ha sostenuto che la modifica legislativa (effettuata, lo si ricorda, nel 1990) in ordine alla sostituzione della previgente fissità del saggio legale con determinazioni annuali che tengano conto anche del tasso di inflazione, comporta che l’interesse deve essere inteso come l’unico strumento che pone rimedio all’inflazione stessa, con conseguente scomparsa del credito di valore e della possibilità di operare calcoli aggiuntivi dell’interesse compensativo: cfr. Valcavi, Il problema dei crediti di valuta, dei crediti di valore e degli interessi monetari all’avvento dell’euro, in Riv. dir. civ., 1999, II, p. 469 e ss., spec. p. 480. Le conclusioni che precedono (contenute anche in altri scritti dello stesso autore) non sembrano essere state accolte da dottrina e giurisprudenza, ma sono utili a fornire un’idea delle ricadute – probabilmente non del tutto consapevoli – di carattere dogmatico e di inquadramento degli istituti che sono connesse alla riferita scelta del legislatore.

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interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi (art. 1815, co. 2, c.c.), con la conseguenza che il contratto da oneroso diviene gratuito, legittimando altresì la richiesta di restituzione degli interessi (indebiti) già corrisposti. Sotto l’apparente linearità della normativa si nascondono problematiche ampie e tuttora irrisolte, nonostante lo stesso legislatore sia già intervenuto con l. n. 24/2001 per stabilire che “si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”. Tale interpretazione autentica era dettata dall’intento di superare le questioni relative ai rapporti in essere nel 1996 e dunque di disciplinare la c.d. “usura sopravvenuta”; essa, tuttavia, non solo non sembra aver risolto definitivamente tale profilo9, ma ha reso ancor più difficile la so-

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Con la locuzione usura sopravvenuta si intende l’ipotesi in cui il contratto preveda un tasso di interesse non usurario al momento della stipula, ma che nel corso di rapporto si trovi a superare il tasso soglia per i motivi più diversi (ad esempio, perché aumentano le spese, per variazione unilaterale ex art. 118 t.u.b. dei tassi applicati, per il conteggio degli interessi moratori, per variazioni in basso del TEGM: sul punto, Dolmetta, Sugli effetti civilistici dell’usura sopravvenuta, in Il Caso.it, 9 febbraio 2014, p. 4). La questione era fortemente avvertita nei tempi di prima applicazione della l. 108/1996 (si vedano i riferimenti in Dagna, Profili civilistici dell’usura, Padova, 2008, p. 33 ss. e p. 53 ss.) tanto da provocare l’intervento legislativo indicato nel testo; quest’ultimo, tuttavia, pur apparendo chiaro nel riferirsi ad una valutazione di usurarietà “cristallizzata” al momento della stipulazione del contratto, è stato ritenuto normativa con carattere “intertemporale”, destinata ad escludere la sanzione della nullità ex art. 1815 c.c., co. 2, alle ipotesi di usura sopravvenuta, ma non già a negare ogni rilevanza alla medesima (così Dolmetta, La Cass. 602/2013 e l’usurarietà sopravvenuta, in Il Caso.it, 11 gennaio 2013, pp. 4 -5). Nel gennaio del 2013 tre decisioni della Cassazione, rompendo quello che appariva un orientamento consolidato, hanno riammesso la rilevanza dell’usura sopravvenuta (sul punto, Mucciarone, Usura sopravvenuta e interessi moratori usurari tra Cassazione, ABF e Banca d’Italia, in Banca, borsa, tit. cred. 2014, p. 438), riportando in vita una questione che sembrava archiviata. Una delle tre decisioni indicate è la pronuncia della Cassazione n. 350 del 2013, a cui si fa ampiamente riferimento oltre, nel testo e nelle note: in essa, per la verità, non si cita espressamente l’usura sopravvenuta, ma se ne evince la sussistenza in forza di considerazioni che attengono al superamento del tasso soglia in corso di rapporto (il contratto era stato stipulato il 19.9.1996, poco dopo l’entrata in vigore della riforma, ma si lamentava che il tasso applicato risultava superiore a quello fissato con d.m. 27 marzo 1998). La presente sede non permette di sviluppare la questione, specie con riferimento alle conseguenze ed alla struttura rimediale; richiamando per le soluzioni dottrinarie gli autori già indicati nella presente nota, può aggiungersi che una recente pronuncia

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luzione dello spinoso problema relativo alla necessità di computare i soli interessi corrispettivi ovvero anche quelli moratori ai fini di determinare il costo dell’operazione finanziaria e dunque verificare l’eventuale superamento del tasso-soglia rilevante ai fini dell’usura. La questione ha visto da sempre la contrapposizione fra coloro che equiparano interessi corrispettivi e moratori ai fini dell’applicabilità della disciplina dell’usura10 e quanti invece ritengono che non si possa in alcun modo accomunare tali diverse categorie di interessi né applicare la medesima conseguenza (gratuità del contratto) quando il superamento del tasso avviene con riferimento ai soli interessi moratori11. Volendo dare brevemente conto delle ragioni del dibattito12, l’orientamento favorevole all’equiparazione13 verte, oltre che sulla già rappresentata contiguità e specularità fra i profili del vantaggio del debitore e del danno del creditore, sulla riferita interpretazione autentica che letteralmente qualifica usurari gli interessi promessi o convenuti “a qualunque titolo”14; la soluzione negativa, al contrario, oltre che ribadire la diversità

di merito (Trib. Pescara, ord. 27 gennaio 2015 - Giudice De Ninis - inedita) ha ritenuto che, nei contratti successivi alla l. 108/96, la verifica della liceità iniziale della pattuizione esclude ogni successivo controllo sull’equilibrio contrattuale: la soluzione è giustificata in base alla considerazione che la scelta delle parti in ordine alle condizioni del mutuo è rimessa a valutazioni che includono il rischio della futura evoluzione dei tassi, per cui ammettere una valutazione di usurarietà in contratti in cui è presente una quota di alea non eliminabile determinerebbe un’interferenza sul sinallagma contrattuale non giustificata dalla ratio della disciplina sull’usura. 10 Così Teti, Profili civilistici della nuova legge sull’usura, in Riv. dir. priv. 1997, pp. 482-483. Cfr. anche Rondinelli, Appunti e spunti in tema di usura contrattualizzata nei contratti di mutuo (e non solo) a margine dell’Ordinanza del Tribunale di Milano del 28/01/2014, in Riv. dir. banc., 2014, fasc. 3, p. 1 e ss. Tale autore, peraltro, ipotizza che, ai fini della verifica di pattuizioni usurarie, sia ammessa la sommatoria fra interessi corrispettivi e moratori: sul punto si veda oltre, nel testo. 11 Cfr., in particolare, Dolmetta, Le prime sentenze della Cassazione in materia di usura ex lege n. 108/1996, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, p. 627 e ss.; più recentemente Id., Su usura e interessi di mora: questioni attuali, ivi, 2013, fasc. 5, p. 501 e ss. 12 Per un’esposizione si rimanda a Nivarra, Il mutuo civile e l’usura, in I contratti per l’impresa, a cura di Gitti, Maugeri e Notari, II, Bologna, 2012, p. 29 e ss. 13 Cfr., tra gli altri, Avagliano, Profili problematici in tema di usura: interessi di mora e ius superveniens, in Riv. dir. priv., 2001, p. 399 ss.; Fausti, Il mutuo, in Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del Notariato diretto da Perlingieri, Napoli, 2004, p. 168 ss., che ritiene come il risarcimento del danno possa rientrare tra i generici vantaggi conseguiti dal mutuante (p. 170); Gioia, Difesa dell’usura, in Corr. giur., 1998, p. 504 ss.; Id., La disciplina degli interessi usurari, ivi, 2000, p. 878 ss. 14 Sul punto, Mucciarone, Usura, cit., p. 438 ss., ha al contrario rilevato che l’inciso “a

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ontologica fra funzione remunerativa e risarcitoria, sottolinea come la liceità degli interessi corrispettivi porrebbe un limite all’applicabilità della sanzione prevista dell’art. 1815, co.2, c.c.15. L’orientamento negativo, peraltro, è suffragato da valutazioni ulteriori che pongono l’accento sulla necessità di evitare comportamenti opportunistici da parte del debitore: questi, infatti, a fronte della riscontrata usurarietà dei (soli) interessi moratori potrebbe deliberatamente decidere di far “saltare il banco” non pagando alla scadenza, ottenendo dunque un mutuo gratuito con un meccanismo che viene accostato ad una sorta di condizione sospensiva meramente potestativa, vietata ai sensi dell’art. 1355 c.c.16. In tale ambito si inserisce la nota pronuncia di legittimità del 2013 che aderisce (o sembra aderire) alla prima soluzione in modo quasi perentorio, semplicemente operando il richiamo a precedenti decisioni17. La stringatezza della motivazione ha portato alcuni operatori del diritto a ritenere che la Cassazione avesse addirittura autorizzato la som-

qualunque titolo” potrebbe riferirsi, invece che alla natura degli interessi, al tipo di finanziamento, considerata la collocazione della norma dell’art. 1815, co. 2, c.c. all’interno del prototipo dei finanziamenti. 15 In merito, oltre agli scritti di Dolmetta già richiamati in nota 11, si vedano le indicazioni di Fauceglia, Del mutuo, in Commentario del codice civile diretto da Gabrielli, Dei singoli contratti, a cura di Valentino, III, sub art. 1815, Torino, 2011, p. 200 ss. nonché quelle di Colombo, Danni nelle obbligazioni pecuniarie, in Commentario del codice civile diretto da Gabrielli, Delle obbligazioni, a cura di Cuffaro, Artt. 1218-1276, sub art. 1224, Torino, 2013, p. 210 e s., che rileva come la natura risarcitoria sia difficilmente compatibile con la disciplina antiusura, salvo che non si sia in presenza di ipotesi di vera e propria frode alla legge. 16 Così Dolmetta, Su usura, cit., nt. 24. 17 Cfr. Cass., 9 gennaio 2013, n. 350, in Foro it., 2014, 1, 128, s.m., e per esteso in banca dati DeJure, secondo cui «ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 c.c., co. 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito nella legge al momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti a qualunque titolo, quindi anche a titolo d’interessi moratori». In particolare, si richiamano: la pronuncia della C. Cost., 25 febbraio 2002, n. 29 (in Foro it., 2002, I, 934) secondo cui «il riferimento, contenuto nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, agli interessi “a qualunque titolo convenuti” rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto (…) secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori»; la sentenza Cass., 4 aprile 2003, n. 5324 (in Mass. Giust. civ. 2003, 4 e, per esteso, in banca dati DeJure) ove si dispone che «l’art. 1 della legge n. 108 del 1996, che prevede la fissazione di un tasso soglia al di là del quale gli interessi pattuiti debbono essere considerati usurari, riguarda sia gli interessi corrispettivi che gli interessi moratori».

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matoria degli interessi corrispettivi e di quelli moratori ai fini dell’individuazione del tasso rilevante per la verifica dell’eventuale superamento della soglia dell’usura, interpretazione suggerita da un passaggio della decisione ove si censura la determinazione del tasso avvenuta senza tenere conto della “maggiorazione” di tre punti a titolo di mora. Parte della dottrina ha peraltro avallato tale interpretazione, sostenendo che per la valutazione di usurarietà dell’operazione creditizia non si possa prescindere dalla sommatoria fra interessi moratori e compensativi, con la precisazione che fra gli addendi vanno ricompresi – oltre a tali voci – anche le commissioni e le spese, ad eccezione di imposte e tasse18. Tale impostazione è stata disattesa dalla giurisprudenza di merito che, ribadendo la diversa natura degli interessi corrispettivi e moratori nonché la loro autonomia, ha chiarito come la “maggiorazione” a titolo di mora non si riferisca ad altro che ad una modalità di pattuizione del tasso di mora contrattuale19, posto che l’interesse moratorio viene spesso convenzionalmente commisurato come percentuale in aumento – c.d. spread – rispetto alla misura degli interessi corrispettivi. Un’ipotesi di sommatoria sembra apparentemente contemplata da altro giudicante che ammette una sorta di “cumulo usurario” qualora, applicandosi l’interesse moratorio sulla rata già comprensiva di interessi corrispettivi, si determinasse un conteggio complessivo di interessi superiore al tasso soglia20; in realtà, nel caso di specie sembra verificarsi

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Così Rondinelli, Appunti, cit., p. 11. Così Trib. Napoli, 14 aprile 2014, reperibile in http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/ Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Correlati/Documenti/Finanza%20e%20Mercati/2014/05/TRI-NAPOLI-ORD-15-04-2014.pdf. Più recentemente, escludono la sommatoria fra interessi corrispettivi e moratori ai fini della verifica dell’usura oggettiva: Trib. Padova, 27 gennaio 2015 (reperibile in http:// www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12011.pdf) e Trib. Reggio Emilia, 24 febbraio 2015 (reperibile in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12244.pdf). 20 Così Trib. Milano, ord. 28 gennaio 2014, reperibile in http://www.expartecreditoris. it/images/joomd/13935185661392744067trib.milano.dott.ssa.cosentini.usura.pdf. L’ipotesi riportata nel testo viene tuttavia ritenuta dallo stesso Tribunale: in primo luogo improbabile se riferita all’epoca della pattuizione (poiché sarebbe possibile solo se i due tassi fossero poco differenziati e poco al di sotto del tasso soglia); in secondo luogo di difficile realizzazione nel prosieguo del rapporto (poiché si verificherebbe solo con il protrarsi dell’inadempimento per un numero elevato di rate, ipotesi teorica da ritenere incompatibile con il permanere del rapporto); infine non percorribile nel caso concreto in quanto risultava non soddisfatto l’onere quanto meno di allegazione – se non di prova – della questione da parte del mutuatario. Può peraltro aggiungersi che la già riferita opinione di Rondinelli si basa in gran parte 19

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– più che un cumulo usurario – un “effetto anatocistico”, che è dunque soggetto ad altra disciplina imperativa. Sul punto, è bene sottolineare che, ove la rata di rimborso sia formata da quote predeterminate di capitale ed interessi corrispettivi, tali quote si riferiscono a due distinte obbligazioni poste a carico del debitore (ossia la restituzione della somma presa in prestito e la corresponsione degli interessi relativi al suo godimento), obbligazioni ontologicamente distinte e che non perdono la loro individualità nel momento in cui si verifica il ritardo; ne deriva che, di regola, in applicazione del divieto di anatocismo posto dall’art. 1283 c.c., al creditore sarà consentito pretendere il pagamento degli interessi moratori esclusivamente sulla quota capitale e non sul credito relativo agli interessi corrispettivi21, a meno che non vi siano deroghe espressamente autorizzate dallo stesso legislatore22.

sull’asserita criticità di tali passaggi del provvedimento del Tribunale di Milano: l’autore, in breve, afferma che per la verifica dell’usurarietà deve guardarsi all’ipotesi estrema, ossia a quella in cui il mutuatario paga ogni rata con il ritardo di un anno, ipotesi che – a suo parere – corrisponde (ed avvalora) la sommatoria dei tassi ai fini della valutazione dell’usurarietà (cfr. Appunti, cit., pp. 10-11). Per la soluzione della questione si veda subito oltre, nel testo e nelle note. 21 Cfr. Cass., 22 maggio 2014, n. 11400, in Dir. & Giust. 2014, 23 maggio (s.m. e, per esteso, in banca dati DeJure): «Nei mutui ad ammortamento, la formazione delle rate di rimborso, nella misura composita predeterminata di capitale ed interessi, attiene alle mere modalità di adempimento di due obbligazioni poste a carico del mutuatario, aventi ad oggetto l’una la restituzione della somma ricevuta in prestito e l’altra la corresponsione degli interessi per il suo godimento, che sono ontologicamente distinte e rispondono a diverse finalità; di conseguenza, il fatto che nella rata esse concorrano, allo scopo di consentire all’obbligato di adempiervi in via differita nel tempo, non è dunque sufficiente a mutare la natura né ad eliminarne l’autonomia. In forza delle limitazioni previste, quindi, dall’art. 1283 c.c., la banca mutuataria non può pretendere il pagamento degli interessi moratori sul credito scaduto per interessi corrispettivi». Nella motivazione, peraltro, la Cassazione esclude qualunque differenza di disciplina fra mutuo bancario ordinario e mutuo fondiario, dovendosi in entrambi i casi applicare le limitazioni previste dall’art 1283 c.c. e le eventuali deroghe consentite dalle deliberazioni del CICR (sul punto, si veda la nota successiva). 22 L’ultimo riferimento apre altra questione attuale e in evoluzione, di cui si ritiene di dover dare cenno. Com’è noto, a seguito della modifica all’art. 120 del t.u.b. introdotta dall’art. 25, co. 1 e 2 del d.lgs. n. 342 del 4 agosto 1999, il Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio (CICR) era stato incaricato di stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria. In attuazione di tale delega, il CICR, con delibera del 9 febbraio 2000, stabiliva che nelle operazioni di finanziamento per le quali è previsto che il rimborso avvenga mediante il pagamento di rate, in caso di inadempimento del debitore l’importo dovuto

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Nell’ipotesi presa in considerazione, quindi, siamo al di fuori di qualunque “sommatoria”, poiché quest’ultima sarebbe riscontrabile solo ove si ritenesse che l’inadempimento della rata trasforma le due obbligazioni in un unico debito sul quale calcolare gli interessi di mora - presupposto ritenuto non condivisibile - con ulteriore esclusione della rilevanza di profili di usura derivanti da tale supposto cumulo23.

per ciascuna rata (per capitale ed interessi) può produrre interessi qualora ciò sia espressamente stabilito nel contratto di finanziamento (art. 3 della Delibera CICR). La legge n. 147 del 27 dicembre 2013 (Legge di Stabilità 2014), modificando il secondo comma dell’art. 120 del t.u.b., ha conferito al CICR il compito di stabilire le modalità e i criteri per la produzione di interessi nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria, prevedendo in ogni caso che «gli interessi periodicamente capitalizzati non possano produrre interessi ulteriori che, nelle successive operazioni di capitalizzazione, sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale». L’intervento del legislatore è quindi espressamente finalizzato a introdurre il divieto della capitalizzazione degli interessi nell’ambito delle operazioni bancarie, cui non è tuttavia ancora seguita alcuna deliberazione conformativa del CICR. A fronte di tale situazione ci si è chiesti se, essendo ancora formalmente in vigore la precedente Delibera CICR che ammette pratiche anatocistiche seppur entro determinati limiti, l’anatocismo debba ritenersi ancora consentito nelle operazioni bancarie fino alla data di emissione della nuova delibera attuativa ai sensi dell’art. 120 t.u.b. come modificato dalla Legge di Stabilità 2014, ovvero debba ritenersi illegittimo alla luce dell’attuale formulazione di tale articolo. Al riguardo, le prime pronunce di merito (Trib. Milano, ord. 3 aprile 2015, reperibile in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12597.pdf, di cui si è altresì disposta la pubblicazione del dispositivo in tre principali quotidiani nazionali; App. Genova, ord. 11 marzo 2014 reperibile in http://ariannaweb.edilab.it/doc_pdf/17_03_14.pdf) hanno dato seguito a tale ultima tesi, ritenendo che le banche sono tenute a disapplicare le clausole anatocistiche a far data dal 1 gennaio 2014, indipendentemente quindi dall’emanazione della disciplina secondaria da parte del CICR. Aderendo a tale orientamento è quindi evidente che non può ritenersi oggi consentito, in alcun modo, operare il calcolo degli interessi moratori sulla quota della rata di rimborso riferita agli interessi corrispettivi. 23 Per completezza deve rappresentarsi che il profilo è invece rilevante con riferimento alle situazioni maturate precedentemente al 2014, poiché la Delibera CICR, come riportato alla nota precedente, ammette che l’importo dovuto per ciascuna rata (per capitale ed interessi corrispettivi) possa produrre interessi moratori qualora ciò sia espressamente stabilito nel contratto di finanziamento. Sul punto si osserva che il Tribunale di Pescara, con ordinanza 27 gennaio 2015 (cit. in nota 9), dopo aver correttamente individuato la questione nell’“effetto anatocistico” e nelle sue ricadute in tema di superamento del tasso soglia dell’usura, ha ritenuto che trattasi di un “falso problema” poiché tale effetto è solo la conseguenza automatica ed inevitabile del ritardo e dell’applicazione degli interessi moratori – peraltro non misurabile preventivamente poiché connesso alle caratteristiche del piano di ammortamento ed alla concrete durata e modalità dell’inadempimento – concludendo quindi che il ripetuto

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Può ancora riferirsi che la tesi del cumulo fra interessi corrispettivi e moratori ai fini della verifica dell’usura oggettiva è stata ritenuta talmente “assurda” e “mostruosa” da provocare una pesante condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. a carico del debitore che ne sosteneva l’applicazione24, per cui la questione sembra presumibilmente archiviata. A prescindere dal rifiutato profilo della “sommatoria”, occorre ribadire che la citata pronuncia della Cassazione n. 350 del 2013 ha comunque ritenuto che, ai fini della valutazione dell’usurarietà legata al superamento del tasso soglia, vadano considerati sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori, lasciando tuttavia irrisolti tutti i conseguenti nodi problematici che si tenterà di sciogliere nel prosieguo. Il primo aspetto da esaminare riguarda l’individuazione del tasso soglia per gli interessi moratori. Com’è infatti noto, ai sensi dell’art. 2 della l. 108/96, l’individuazione del tasso soglia è connesso al superamento, per un differenziale ritenuto eccessivo ex lege, dei tassi effettivi globali medi (TEGM) praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari; tali tassi medi sono determinati con Decreto Ministeriale per ciascuna categoria di operazione finanziaria, e la loro rilevazione trimestrale è affidata alla Banca d’Italia che tuttavia – come espressamente statuito nelle Istruzioni applicative pubblicate nella Gazzetta Ufficiale n. 200 del 29 agosto 2009 – esclude dal calcolo gli interessi di mora.

effetto anatocistico è elemento estraneo alla valutazione concernente il carattere usurario della pattuizione (p. 12 del provvedimento). La soluzione va condivisa ma con qualche puntualizzazione. Invero, in via generale non può escludersi a priori che pratiche anatocistiche siano altresì idonee a generare il superamento del tasso soglia previsto per l’usura (i due problemi, com’è noto, sono distinti ma connessi), né – in linea di massima – può sostenersi che le caratteristiche del piano di ammortamento siano un ostacolo in tal senso (con il pericolo di legittimare artifici contabili); potrebbe invece ritenersi che laddove l’anatocismo sia (o, meglio, era) consentito in deroga alla disciplina generale, è la stessa legittimazione legislativa ad escludere la valutazione del carattere usurario derivante dal calcolo degli interessi moratori su quelli corrispettivi. 24 Cfr. Trib. Padova, 10 marzo 2015, reperibile in http://www.expartecreditoris.it/images/joomd/1426005767padova.10.3.15.pdf. La pronuncia si segnala non solo per le conclusioni ma per le motivazioni che il giudicante assume a loro sostegno: si parla di «fantasiose deduzioni» sintomo di ignoranza inescusabile ovvero di dolo processuale, denotanti «la volontà di creare un contenzioso seriale in una materia che invece è estremamente tecnica e complessa e che, colpa anche la gravissima congiuntura economica che ha colpito famiglie ed imprese, meriterebbe di essere trattata con diverso approccio processuale».

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Di conseguenza, appare evidente che utilizzare i medesimi tassi soglia per valutare l’usurarietà tanto degli interessi corrispettivi che di quelli moratori risulta inappropriato ed illogico: inappropriato, poiché si impiegherebbe lo stesso criterio per entità disomogenee, ontologicamente distinte e rispondenti – come già visto – a funzioni diverse; illogico, in quanto se per la rilevazione è addirittura espressamente esclusa la considerazione di qualunque “onere previsto per l’inadempimento di un obbligo” non si può certo pensare che la stessa rilevazione possa costituire la base per valutare l’eccessività dell’onere medesimo. A fronte di tale situazione parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto di poter comunque individuare un referente normativo: poiché i DD.MM. determinativi del TEGM indicano che, da un’indagine statistica condotta nel 2002 a fini conoscitivi, è emerso che la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali25, può allora operarsi il calcolo del tasso soglia per gli interessi moratori ponendo alla loro base i tassi medi rilevati aumentati della suddetta percentuale26. Sul punto, se la base logica delle decisioni appare ineccepibile, la soluzione desta qualche perplessità, anche in considerazione del fatto che si inserisce in una fattispecie che potrebbe avere (ma che in questo caso certamente non ha…) rilevanza penale. D’altro canto, stante la mancanza di qualsivoglia criterio alternativo, o si ritorna all’illogica applicazione del TEGM rilevato anche ai fini

25 Si veda, ad esempio, il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 30 settembre 2014 (in Gazz. Uff., 1° ottobre 2014, n. 228), il cui art. 3, comma 4, dispone: “I tassi effettivi globali medi di cui all’articolo 1, comma 1, del presente decreto non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento. L’indagine statistica condotta nel 2002 a fini conoscitivi dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio italiano dei cambi ha rilevato che, con riferimento al complesso delle operazioni facenti capo al campione di intermediari considerato, la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali.” 26 Cfr. Trib. Cremona, 30 ottobre 2014, reperibile in http://www.dirittobancario.it/ sites/default/files/allegati/tribunale_di_cremona_30_ottobre_2014.pdf, che ha altresì sottolineato come non si debbano confondere la fase fisiologica e quella patologica del rapporto, sicché gli interessi corrispettivi vanno rapportati al finanziamento erogato mentre quelli di mora all’inadempimento; Trib. Padova, 27 gennaio 2015, reperibile in http:// www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12011.pdf; Trib. Pescara, 30 aprile 2015, reperibile in http://news.ilcaso.it/libreriaFile/ordinanza%20del%2030.4.2015%20Dott.ssa%20 Capezzera.pdf; Trib. Pescara, 27 gennaio 2015, citato nelle note 9 e 23.

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dell’individuazione della tasso soglia per gli interessi moratori, ovvero si attende un intervento legislativo che risolva la questione. A questo proposito, si vuole tuttavia far notare che l’unico provvedimento possibile dovrebbe consistere in una rilevazione separata dei tassi di mora, poiché se – per ipotesi – si arrivasse ad immaginare “commistioni” fra rilevazioni di interessi corrispettivi e moratori, non solo si finirebbe – nuovamente – per accostare grandezze disomogenee, ma ciò porterebbe ad un innalzamento del TEGM che consentirebbe alle banche di aumentare il costo del finanziamento con riferimento agli stessi interessi corrispettivi27. I problemi connessi all’accoglimento dell’impostazione fornita dalla Cassazione n. 350/2013 non sono tuttavia esauriti: un secondo aspetto da esaminare riguarda le stesse conseguenze connesse all’eventuale verifica positiva in ordine al superamento del tasso soglia – a prescindere dal criterio adottato – degli interessi moratori. Una parte della giurisprudenza, fondandosi sull’onnicomprensività della formula contenuta nell’art. 1815, co. 2, c.c., ha ritenuto che la pattuizione di interessi moratori usurari finisca per estendere la sanzione di nullità anche agli interessi corrispettivi, rendendo dunque gratuito il contratto28. Altri giudicanti hanno invece statuito che, travolta da nullità la sola clausola relativa agli interessi moratori, “restano” (o “ritornano”) applica-

27 Il tema è noto con riferimento alla diversa ipotesi dell’inclusione delle commissioni di affidamento ovvero di massimo scoperto all’interno del calcolo del TEGM, ove si è rilevato che ciò comporta «la conseguenza che il tasso soglia effettivo si innalzerebbe per tutti i contratti, rendendo leciti in contratti non bancari, dove non viene fissata la c.m.s., anche tassi che, esclusa la c.m.s. dal TEG, invece, sarebbero stati usurari»: cfr. Serrao d’Aquino, Questioni attuali in materia di anatocismo bancario, commissione di massimo scoperto ed usura, in Giur. merito, 2011, 5, p. 1172. La questione è stata tuttavia risolta in sede legislativa poiché l’art. 2 bis, co. 2, della l. 2/2009 ha stabilito che «Gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art. 1815 c.c., dell’art. 644 c.p. e degli artt. 2 e 3 l. 7 marzo 1996, n. 108». Sul punto, e per la soluzione in ordine alle problematiche connesse alla disciplina transitoria, si veda Trib. Verona, 19 novembre 2012, reperibile in http:// www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/8144.pdf. 28 Cfr. Trib. Padova 8 maggio 2014, reperibile in http://www.sdlcentrostudi.it/wp-content/uploads/2015/02/Tribunale-di-Padova-2014.pdf; Trib. Udine, 26 settembre 2014, reperibile in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/11867.pdf; Trib. Parma, 25 luglio 2014, reperibile in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/11136.pdf.

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bili anche nella fase della mora gli interessi corrispettivi validamente pattuiti: l’assunto viene giustificato in base al rilievo che mentre gli interessi corrispettivi sono dovuti per il godimento della somma, quelli moratori sono destinati a risarcire il “danno ulteriore” rispetto a quello derivante dalla perdita di godimento, per cui la nullità di questi ultimi lascia intatta la funzione remunerativa svolta dai primi29; si sottolinea inoltre come tale interpretazione sia l’unica compatibile con il disposto dell’art. 1224 c.c., ove si prevede che anche in mancanza della previsione di interessi moratori sono comunque dovuti quelli legali (ossia gli interessi “di pieno diritto” previsti dall’art. 1282 c.c., ordinariamente ritenuti – come indicato nel primo paragrafo – “corrispettivi”)30. Il primo orientamento non sembra aver tenuto conto né di non tralasciabili profili giuridici (la diversità di funzione e natura degli interessi, i meccanismi connessi alla nullità parziale ex art. 1419 c.c., la differente rilevanza degli interessi nella fase fisiologica ovvero in quella patologica del rapporto) né dell’argomento “prosaico” relativo al fatto che le sue conclusioni finiscono per “premiare” l’inadempimento del debitore; il secondo orientamento, peraltro, pur applicando correttamente gli istituti, sembra muoversi con fatica, oberato dalla necessità di giustificare ogni singolo passaggio per poter escludere la sanzione posta dall’art. 1815, co. 2, c.c. I rilievi che precedono conducono allora a dubitare della stessa correttezza dell’interpretazione fornita dalla ripetuta sentenza della Cassazione n. 350 del 2013, ma per sciogliere le perplessità occorre accedere ad altro genere di considerazioni.

29 Così, espressamente, Trib. Pescara, 27 gennaio 2015, citato nelle precedenti note 9, 23 e 26, nonché Trib. Pescara 30 aprile 2015, citato in nota 26. In tali provvedimenti peraltro si specifica che alle stesse conseguenze si giunge sia quando le modalità di pattuizione prevedano la sostituzione degli interessi moratori a quelli corrispettivi (e dunque si individuino due entità diverse a cui riferirsi per la fase fisiologica ovvero per quella patologica), sia quando invece si abbia un “cumulo” dei due (ossia, l’interesse moratorio sia individuato come percentuale in aumento di quello corrispettivo): nel primo caso la nullità degli interessi moratori ne impedisce la sostituzione, nel secondo caso la medesima nullità lascia in essere gli interessi corrispettivi. Pur nutrendo qualche perplessità (di tipo dogmatico) su tali passaggi – altresì espressi dai termini “restano” o “ritornano” già riportati nel testo – si ritiene tuttavia che essi siano utili ad evitare di incorrere nell’errore di ritenere che la nullità dell’interesse moratorio possa travolgere anche gli interessi corrispettivi, con conseguente gratuità dell’operazione di finanziamento. 30 Oltre alle pronunce riportate nella nota che precede, si vedano altresì Trib. Reggio Emilia 24 febbraio 2015, richiamato in nota 19, nonché Trib. Chieti, 22 aprile 2015, reperibile in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12511.pdf.

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3. La tutela del creditore pecuniario. Il panorama giuridico conosce numerose ipotesi di tutela del creditore pecuniario. Senza indugiare su esempi più risalenti o apparentemente meno stringenti31, basti qui ricordare che uno specifico strumento di deterrenza

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Sia tuttavia consentita qualche breve considerazione. Innanzitutto si può ricordare che le previsioni contenute nell’art. 429, co. 3, c.p.c., disponendo (per interpretazione pacifica e confermata in sede costituzionale) il cumulo fra rivalutazione ed interessi per i crediti di lavoro, si configurano come evidente deroga alla regola generale di cui all’art. 1224 c.c., a norma del quale nei debiti di valuta – ed in applicazione del principio nominalistico – ciò non è consentito, poiché gli interessi moratori rappresentano la liquidazione legale del danno da ritardo, che può essere incrementata solo con apposita prova del danno ulteriore, ai sensi del secondo comma. Altro esempio può essere rinvenuto nella pronuncia della C. Cost. 2 novembre 2000, n. 459 con la quale si è dichiarata, con riferimento tuttavia ai soli lavoratori privati, l’illegittimità costituzionale della norma (nello specifico, art. 22, co. 36 della l. 724/1994) che riportava – in buona sostanza – la disciplina dei crediti di lavoro nelle maglie dell’art. 1224 c.c., consentendo al lavoratore di ottenere solo la maggior somma fra interessi legali e svalutazione monetaria. Entrambe le situazioni vengono generalmente giustificate con il riferimento alla particolare natura del credito, che trova peraltro copertura nell’art. 36 della Costituzione, ma ciò è solo parzialmente vero. In effetti, già nello scrutinio di costituzionalità dell’art 429 c.p.c. era contenuta la motivazione secondo cui la norma mira «ad eliminare il vantaggio che (in precedenza) conseguiva il datore di lavoro col ritardato adempimento, il quale lo poneva, a fronte del solo rischio del pagamento degli interessi legali, in condizioni di lucrare gli effetti della svalutazione monetaria e di disporre delle somme di spettanza del lavoratore» (Cfr. C. Cost., 14 gennaio 1997, n. 13); a sua volta, la richiamata pronuncia n. 459/2000 espressamente riteneva che «la regola introdotta rende nuovamente conveniente per il debitore, da un punto di vista economico, dirottare verso investimenti finanziari pur privi di rischio (quali, ad esempio, i titoli di Stato) le somme destinate al pagamento delle retribuzioni e degli altri crediti di lavoro, lucrando in tal modo l’eventuale differenziale tra il rendimento dell’investimento ed il tasso della svalutazione, con evidente vanificazione di quella funzione di remora all’inadempimento richiamata dalla giurisprudenza di questa Corte». Se l’attuale congiuntura economica rende anacronistici i riferimenti alla possibilità di conseguire un lucro mediante gli effetti della svalutazione ovvero investendo in titoli di Stato, il principio espresso dal Giudice delle leggi mantiene intatta la sua valenza: occorre evitare qualunque meccanismo che consenta di trarre vantaggio dall’inadempimento. Identico fondamento è alla base della sentenza di Cass., SS.UU., 16 luglio 2008, n. 19499 in tema di debiti di valuta, con la quale si è ritenuto che «il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, c.c. (rispetto a quello già coperto dagli interessi legali moratori non convenzionali che siano comunque dovuti) è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento, nella eventuale

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all’inadempimento è stato approntato con il d.lgs. n. 231 del 23 ottobre 2002, relativo alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ove si prevede l’applicazione di interessi moratori (senza necessità di costituzione in mora) pari al tasso di interesse applicato dalla Banca Centrale Europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento, maggiorato di otto punti percentuali32. La disciplina, com’è noto, deriva dal recepimento di una direttiva comunitaria orientata a promuovere l’uniformità dei termini di pagamento tra operatori commerciali all’interno del mercato europeo, evitando che le operazioni transfrontaliere fossero più rischiose di quelle interne33; alla medesima potrebbe essere peraltro riconosciuto un profilo protezionistico, derivante dalla contiguità con la normativa relativa alla subfornitura34, il cui accostamento è reso più evidente dal fatto che il

differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi dell’art. 1284, comma 1, c.c.». Si tratta, com’è noto, della pronuncia con la quale viene superato il pregresso sistema delle “presunzioni personalizzate” per la prova del maggior danno da svalutazione, pronuncia nella quale si verifica altresì come negli anni che vanno dal 1993 al 2008 (con l’unica eccezione relativa al 1994) il rendimento dei titoli di Stato – considerati la più prudente e comune forma di investimento – era apprezzabilmente più alto rispetto agli interessi legali, mentre la svalutazione restava completamente assorbita da questi ultimi. La S.C. rileva quindi che per il debitore di un’obbligazione pecuniaria potrebbe essere economicamente conveniente non adempiere tempestivamente, così lucrando la differenza tra quello che è agevolmente in grado di ricavare dal denaro non versato al creditore durante la mora debendi e quello che dovrà al creditore quando adempirà la propria obbligazione: il che è contrario tanto all’intenzione del legislatore quanto all’esigenza dell’ordinato svolgimento dei rapporti economici fra i consociati, che costituisce un beneficio per la collettività. 32 Per dare un’idea delle grandezze entro le quali ci si muove, si consideri che per il primo semestre del 2015 il saggio dell’interesse da applicare ai sensi del d.lgs. 231/2002 è pari all’8,05 %, mentre l’interesse legale, rideterminato con d.m. 11 dicembre 2014, è fissato per il 2015 allo 0,5 %. 33 Con d.lgs. del 9 novembre 2012 n. 192 l’intera normativa è stata sottoposta a revisione; sul punto, si vedano i rilievi di Spoto, I ritardi nei pagamenti commerciali. Commento al d.lgs. n. 231 del 2002 come modificato dal d.lgs. n. 192 del 2012, in Giust. civ., 2013, fasc. 7-8, p. 305; ulteriori modifiche sono state introdotte con l. 30 ottobre 2014 n. 161. 34 La disciplina della subfornitura, contenuta nella l. 18 giugno 1998 n. 192, è pacificamente considerata normativa “protezionistica” a tutela del contraente debole, in presenza di squilibrio strutturale fra la posizione del committente e quella del subfornitore; anch’essa ha subito varie modifiche, con sostanziale avvicinamento alle previsioni dettate in tema di transazioni commerciali.

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medesimo legislatore del 2002 abbia modificato la norma in tema di termini di pagamento per il subfornitore, con sostanziale allineamento delle previsioni35. Anche prescindendo dall’aspetto di “protezione” creditoria, è evidente che le disposizioni in materia di transazioni commerciali hanno un carattere latamente “sanzionatorio”, tanto da far riemergere il ben noto tema dell’ammissibilità dei c.d. “danni punitivi” nel nostro ordinamento. Sul punto, è nota la ferma posizione negativa della nostra giurisprudenza36, recentemente ribadita in una sentenza che, pronunciandosi in

In particolare, era originariamente previsto che in caso di ritardo nei pagamenti il committente dovesse al fornitore interessi (automatici) di mora corrispondenti al tasso ufficiale di sconto maggiorato di 5 punti percentuali, salva la pattuizione di interessi moratori in misura maggiore o la prova del danno ulteriore; inoltre, in caso di ritardo eccedente i 30 gg., il committente era (ed è) tenuto ad una penale pari al 5% dell’importo in relazione al quale non ha rispettato i termini. Con il d.lgs. 231/2002 si è sostituito il criterio del tasso ufficiale di sconto con il medesimo criterio previsto per il ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali (tasso di interesse applicato dalla Banca Centrale Europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento) rendendone altresì omogenea la maggiorazione (7 punti percentuale nel 2002, 8 punti percentuale dal 2012, a norma dell’art. 2 del d.lgs. 192/2012). 35 In realtà, nonostante quanto riferito nel testo e nella nota che precede, una parte della dottrina sembra incline ad escludere che possa rinvenirsi una matrice protezionistica nella disciplina delle transazioni commerciali: si rileva in proposito che in base alla normativa vigente fino al 2012 poteva forse leggersi un’esigenza di tutela del contraente (creditore) debole nel potere attribuito al giudice di intervenire nel contratto riconducendolo ad equità (v. art. 6, comma 3, vecchia formulazione); tuttavia, con la riforma attuata dal d.lgs. 192/2012, si è esclusa tale etero regolamentazione dell’accordo introducendo una nullità (non già virtuale e di mera protezione ma) testuale e parziale, con inserzione automatica di clausole ex lege (v. art. 7, attuale formulazione), inducendo dunque la rimeditazione della questione (così Spoto, I ritardi, cit., p. 305). La consistenza delle modifiche introdotte, tuttavia, non sembrano esaustive nel senso di escludere la nullità di protezione, intesa come strumento idoneo a far convivere «la protezione dell’interesse particolare del contraente e la salvaguardia dell’interesse generale all’imposizione di un certo assetto di mercato» (cfr. Mazzamuto, Il contratto di diritto europeo, Torino, 2012, p. 231, ed ivi, p. 228 e ss. per numerosi riferimenti in tema). 36 Cfr. Cass., 19.1.2007 n. 1183, in: Resp. civ. e prev. 2007, 9, p. 1890 con nota di Ciaroni; Resp. civ. e prev. 2007, 10, p. 2100, con nota di De Pauli; Foro it., 2007, 5, I, p. 1460, con nota di Ponzanelli; Europa e dir. priv. 2007, 4, p. 1129 con nota di Spoto. La S.C. ha ribadito che, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, anche mediante l’attribuzione al danneggiato di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno subito; rimane invece estranea al sistema l’idea della punizione o della sanzione del responsabile civile, ed è indifferente a tal fine la valutazione della sua condotta.

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materia di “penali giudiziarie”, ne ha sancito la loro compatibilità con l’ordinamento italiano e la diversità di funzione e natura rispetto alla pena privata37. Tale orientamento è condivisibile, pur essendo stato sottoposto a critica dalla dottrina che ha evidenziato come siano presenti nel nostro sistema numerose ipotesi di “prestazioni sanzionatorie” ovvero “prestazioni preventivo-deterrenti”38; peraltro, che la funzione strettamente “punitiva” possa ritenersi esclusa nel caso di specie potrebbe derivare dalla statuizione contenuta nell’art. 3 del medesimo d.lgs. 231/2002, ove si dispone che gli interessi moratori non sono dovuti ove il debitore dimostri che il ritardo nel pagamento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile39.

Nello stesso senso, più recentemente, si veda anche Cass., 8 febbraio 2012 n. 1781, in Mass. Giust. civ., 2012, 2, p. 139 (e, per esteso, in banca dati DeJure). 37 Cfr. Cass., 15 aprile 2015 n. 7613, in Dir. & Giust., 2015, 16 aprile (s.m. e, per esteso, in banca dati DeJure): dopo aver constatato che «Anche l’ordinamento italiano conosce, a fronte dell’inadempimento di obblighi non coercibili in forma specifica, misure generali e speciali volte ad ottenerne l’adempimento mediante la pressione esercitata sulla volontà dell’inadempiente a mezzo della minaccia di una sanzione pecuniaria», si aggiunge: «E’ noto come allo strumento del risarcimento del danno, cui resta affidato il fine primario di riparare il pregiudizio patito dal danneggiato, vengano ricondotti altri fini con questo eterogenei, quali la deterrenza o prevenzione generale dei fatti illeciti e la sanzione. Risarcimento del danno ed astreinte costituiscono misure fra loro diverse, con funzione l’uno reintegrativa e l’altra coercitiva al di fuori del processo esecutivo, volta a propiziare l’induzione all’adempimento». Si specifica, tuttavia, che «il danno punitivo ha struttura e funzione non coincidenti con l’astreinte» poiché quest’ultima «non ripara il danno in favore di chi l’ha subito, ma minaccia un danno nei confronti di chi si comporterà nel modo indesiderato (…) e si allontana dalla liquidazione del danno punitivo, presentando i caratteri di una tecnica di tutela di altro tipo, ossia d’induzione all’adempimento». 38 Così Granelli, In tema di “danni punitivi”, in Resp. civ. e prev. 2014, fasc. 6, 1760 ss. L’autore qualifica quali “prestazioni sanzionatorie” proprio le conseguenze previste in caso di ritardo dei pagamenti nella subfornitura e nelle transazioni commerciali, accomunandole all’ipotesi di corresponsione di interessi moratori ex art. 1224, co. 1, c.c.; identica natura viene peraltro riconosciuta alla clausola penale, mentre la funzione “preventivo-deterrente” si rinviene nello strumento generale di cui all’art. 614 bis c.p.c. (ove si rimette al giudice, in caso di attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare, la possibilità di fissare una prestazione pecuniaria dovuta in caso di inosservanza della pronuncia). 39 Secondo una parte della dottrina, la previsione costituisce un elemento di assoluta novità in relazione alle obbligazioni pecuniarie e alle caratteristiche connesse agli adempimenti in denaro (cfr. Spoto, I ritardi, 305 ss.); altri autori, al contrario, sottolineano come anche in materia di obbligazioni pecuniarie valga il principio generale della

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La ratio della normativa, invero, va ricercata non nella natura sanzionatoria di tali interessi legali di mora, bensì nella ben nota funzione di deterrenza all’inadempimento che è presente nella stessa clausola penale40 e che rappresenta, allo stesso tempo, uno strumento di tutela creditoria. Se si conviene sul punto, appaiono chiare le ragioni che hanno portato recentemente il legislatore a stabilire, aggiungendo i commi 4 e 5 all’art. 1284 c.c., che dal momento in cui è promossa domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, estendendo tale disposizione all’atto con cui si promuove il procedimento arbitrale41.

responsabilità debitoria fondata sul dolo o sulla colpa (peraltro solo ridimensionato dalla disciplina degli interessi di pieno diritto dovuti ex art. 1282 c.c.), traendo anzi dalla disciplina in tema di transazioni commerciali la conferma legislativa dell’assunto: cfr. Bianca, La responsabilità, cit., pp. 28-29. 40 Riprendendo e richiamando quanto già esposto nella precedente nota 5, può brevemente sostenersi la funzione risarcitoria della clausola penale per i motivi che seguono. In primo luogo, va considerato l’orientamento che esclude la sua applicazione in caso di impossibilità sopravvenuta non imputabile della prestazione (si veda, da ultimo, Cass., 10 maggio 2012, n. 7180, in Mass Giust. civ. 2012, 5, p. 583 e, per esteso, in banca dati DeJure): il riferimento è evidentemente rivolto all’affermazione di operatività dell’art. 1218 c.c., ossia alla responsabilità del debitore ed al conseguente risarcimento del danno, per cui se la penale non è dovuta in caso di inadempimento incolpevole ne risulta chiara la matrice risarcitoria. Nello stesso senso depongono la ritenuta possibilità di sottoporre una clausola penale irrisoria al vaglio di nullità per contrarietà con il disposto dell’art. 1229 c.c. (cfr. Cass., 3 dicembre 1993 n. 12013, in Giust. civ., 1994, I, 1247; Cass., 10 luglio 1996, n. 6298, in Giur. it., 1997, I,1, p. 1257) mentre nel caso di penale eccessiva opererà la regola dell’art. 1384 c.c. che demanda al giudice la sua equa riduzione: entrambe le ipotesi fanno perno sulla necessità di commisurare l’entità del dovuto alla compromissione dell’interesse creditorio (rispetto al quale dovrà valutarsi l’irrisorietà o l’eccessività del quantum previsto dalla stessa clausola), risultando indici di configurazione risarcitoria legata all’inadempimento del debitore. Quanto detto non vale a revocare in dubbio il profilo, certamente presente, di coazione all’adempimento: nella medesima sentenza che ha stabilito come l’idea della punizione sia estranea al nostro sistema della responsabilità civile (Cass.1183/2007, riportata alla precedente nota 36) si è altresì affermato: «La clausola penale non ha natura e finalità sanzionatoria o punitiva, ma assolve alla funzione di rafforzare il vincolo contrattuale». 41 Le previsioni sono contenute nell’art. 17 del d.l. 12.09.2014 n. 132, convertito, con modificazioni, dalla l. 10 novembre 2014 n. 162.

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Ad una prima lettura, la ratio di tali previsioni potrebbe rinvenirsi nel contrasto dei procedimenti giudiziali inappropriati, ovvero promossi con meri intenti dilatori; tuttavia, la previgenza di uno strumento deflattivo del contenzioso – peraltro specifico e attivabile d’ufficio – contenuto nell’art. 96, co. 3, c.p.c., che consente la condanna della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata42, induce a ritenere che la disciplina sia indirizzata (anche) ad altri fini. Invero, se non può negarsi che le nuove disposizioni introdotte nell’art. 1284 c.c. possano altresì “sanzionare” le situazioni di abuso processuale, la loro funzione precipua può essere individuata nella deterrenza verso l’inadempimento, con conseguente natura di strumento di tutela creditoria. L’ipotesi acquista maggior vigore se si riflette sul fatto che la speciale disciplina del ritardo dei pagamenti, tanto nelle transazioni commerciali quanto nelle ipotesi di procedimenti giudiziali, è legata alla medesima esigenza da tempo segnalata dalla giurisprudenza, ossia “l’ordinato svolgimento dei rapporti economici fra i consociati, che costituisce un beneficio per la collettività”43. In considerazione di tale aspetto, non è difficile comprendere il diverso momento di operatività e di debenza degli interessi, che nelle transazioni commerciali è legato semplicemente alla scadenza del termine per il pagamento (art. 4 d.lgs. 231/2002) mentre negli altri casi è collegato alla domanda giudiziale: si tratta, a ben vedere, di valutazioni legislative in ordine alla tolleranza del ritardo da parte del creditore, che si presume non sussistere nel caso di transazioni commerciali44, mentre

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La dottrina civilistica ha affermato che l’ipotesi risponde agli stessi principi che regolano la responsabilità civile, escludendo la natura di “pena pecuniaria” o di sanzione punitiva, che renderebbe la disposizione costituzionalmente illegittima; piuttosto, l’illiceità del fatto deve essere riscontrata nella turbativa processuale (rivelandosi, peraltro, un’ipotesi di responsabilità “attenuata”, poiché può essere fatta valere solo in caso di dolo o colpa grave) , mentre il criterio equitativo che deve presiedere alla determinazione lascia intendere che si tratta di liquidare il danno non patrimoniale (così Bianca, La responsabilità, cit., p. 73 e ss., spec. pp. 780-781). 43 Sono le parole delle SS.UU. 16 luglio 2008 n. 19499, già riportate in nota 31. 44 Con riferimento alla vigente formulazione del d.lgs. 231/2002, può anzi specificarsi che l’art. 7 dispone che si considera gravemente iniqua, e conseguentemente nulla, la clausola che esclude l’applicazione degli interessi di mora, non ammettendosi prova contraria; l’art. 7 bis (aggiunto dalla l. 161/2014) sancisce altresì l’iniquità della prassi che esclude l’applicazione degli interessi di mora, attribuendo al creditore il diritto al risarcimento del danno.

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deve essere esclusa mediante proposizione del giudizio negli altri casi. Se si conviene sui punti che precedono, è possibile sostenere che nelle previsioni legislative in questione, così come nell’ipotesi – diversa ma contigua – della clausola penale, la base delle disposizioni è identica e va ricercata nella tutela del creditore; quest’ultima si presenta non già quale evento occasionale e limitato, ma appare strutturata in un sistema complesso ricavabile dalla presenza di numerosi strumenti ostativi all’inadempimento: e di tale sistema dovrà certamente tenersi conto nella soluzione delle già rappresentate questioni in tema di usura.

4. Coordinamento fra le normative ed ipotesi di soluzione. La prosecuzione dell’indagine si fonda, con ogni evidenza, sul riconoscimento della presenza nell’ordinamento di due “sistemi” di tutela, uno indirizzato al debitore e l’altro al creditore, che hanno ratio e funzioni diverse; essi non possono essere esaminati singolarmente, ma vanno coordinati nella ricerca di un equilibrio che assicuri la soddisfazione di tutte le esigenze e le istanze coinvolte. A tal proposito, può essere opportuno segnalare che le incertezze che si agitano sul tema hanno condotto di recente alcuni istituti bancari ad introdurre nel contratto la c.d. “clausola di salvaguardia”, ossia una determinazione pattizia con la quale si stabilisce che la misura degli interessi «non potrà mai essere superiore al limite fissato ai sensi dell’art. 2, comma 4, l. 108/96, dovendosi intendere, in caso di teorico superamento di detto limite, che la loro misura sia pari al limite medesimo». Le prime pronunce sul tema hanno aderito all’idea che tale convenzione impedisca il superamento del tasso soglia45, mentre più di un dubbio in ordine alla sua legittimità potrebbe già derivare dal fatto – di ordine economico – che l’uso di tale previsione produrrebbe certamente, fin dal breve periodo, un innalzamento del tassi applicati dalle ban-

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Trib. Napoli, ordinanza 28 gennaio 2014, reperibile in http://www.expartecreditoris.it/images/joomd/1389981694Trib.Napolidott.ssacacace.rigettosospensivatimbro.08.01.2014.pdf, opinione confermata dallo stesso Tribunale con provvedimento del 27 maggio 2014, in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/10593.pdf . Più recentemente, sempre nel senso di validità della clausola di salvaguardia, come «meccanismo di contenimento, dotato del carattere di automaticità, che previene la contrarietà alla legge della clausola in questione», Trib. Rimini 14 marzo 2015, reperibile in http://news.ilcaso.it/libreriaFile/Trib_Rimini_14mar2015.pdf .

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che: queste ultime, infatti, “protette” dalla suddetta clausola, potrebbero stabilire interessi – anche corrispettivi – sempre più alti senza temere di superare la soglia dell’usurarietà, cosa che si tradurrebbe, nella rilevazione successiva, nell’innalzamento del TEGM, con esponenziale aggravamento, nel tempo, delle condizioni di onerosità dei finanziamenti. Dal punto di vista giuridico, peraltro, occorrerebbe distinguere il caso in cui il contratto non contenga determinazioni puntuali del tasso ma solo il riferimento ad una misura inferiore o pari al tasso soglia (nel qual caso vi sarebbe un problema di indeterminatezza già ai sensi della disciplina generale, con conseguente nullità della clausola relativa agli interessi46), dalla diversa ipotesi in cui il tasso sia determinato con riferimento a parametri estrinseci, con ulteriore previsione della clausola di salvaguardia. Anche in tale ultimo caso, l’accoglimento della piena validità della pattuizione renderebbe possibile la “disapplicazione” della sanzione della nullità stabilita dall’art 1815, co. 2, c.c. sostituendola con la riduzione alla soglia (o poco sotto) dell’usura, conclusione che non appare condivisibile poiché non può ritenersi che attraverso un meccanismo – neppure tanto sofisticato – si possano aggirare disposizioni imperative47. Il problema, tuttavia, non può ritenersi definitivamente risolto con l’affermazione della nullità della clausola di salvaguardia, perché bisogna sciogliere – molto più a monte – il problema delle conseguenze che derivano dal superamento del tasso soglia con riferimento ai soli interessi moratori. Richiamando quanto già esposto in ordine alla diversa natura degli interessi remunerativi rispetto a quelli con funzione risarcitoria, nonché dell’orientamento giurisprudenziale che ritiene che la nullità degli interessi moratori non possa travolgere anche i corrispettivi48, occorre altresì

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In merito, si potrebbe rilevare che la questione sembra accostabile al – diverso, ma contiguo – profilo relativo alla determinazione degli interessi mediante rinvio agli usi, problema che trova espressa soluzione nell’art. 117, co. 6, t.u.b. ove si dispone: «Sono nulle e si considerano non apposte le clausole contrattuali di rinvio agli usi per la determinazione dei tassi di interesse e di ogni altro prezzo e condizione praticati nonché quelle che prevedono tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati». 47 Il richiamo è indirizzato all’art. 1344 c.c., a norma del quale le disposizioni pattizie sono in frode alla legge quando costituiscono il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa. 48 Cfr. sopra, par. 2, note 29 e 30 e testo corrispondente.

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riferire che la dottrina (e, in parte, la giurisprudenza) ha avanzato dubbi in ordine a tale ultima soluzione; in merito, si è rilevato come la sanzione della nullità (definita “punitiva”) si profili inadeguata a fronte di una situazione che comunque configura l’inadempimento del debitore, sostenendo che in caso di interessi moratori usurari debba applicarsi la disciplina della riduzione della penale eccessiva (art. 1384 c.c.)49. L’opinione che precede è certamente suffragata dal già riferito e consolidato orientamento che individua negli interessi moratori una penale legale nella quale convivono la natura risarcitoria e la funzione di deterrenza all’inadempimento; quest’ultima, peraltro, assume spiccato rilievo quando la misura degli interessi è particolarmente alta, in virtù di convenzione pattizia ovvero di apposita disposizione legislativa. Proprio con riferimento a tale ultimo aspetto, è opportuno allora sviluppare ulteriormente la questione. Le nuove previsioni contenute nell’art. 1284 c.c., di cui si è trattato nel precedente paragrafo, danno nuova linfa al tentativo di individuare una linea di condotta che tenga conto di tutte le disposizioni, evitando l’idea di un legislatore “schizofrenico”, che per un verso vieta l’usura mentre per altra via prevede l’applicazione di interessi legali di mora che non solo sono molto vicini alla soglia ma che, in alcuni momenti, sarebbero senza dubbio in grado di superarla50. Peraltro, è ovvio che laddove una disposizione legislativa preveda la tutela del creditore a fronte dell’inadempimento, essa certamente non può essere revocata in dubbio da una – contraria ma coordinabile –

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Cfr., in particolare, Dolmetta, Su usura, cit., p. 511. La questione è avvertita e riferita anche da Trib. Chieti, 22 aprile 2015, cit. in nota 30, che ribadisce la serietà della tesi proposta ma preferisce «la diversa costruzione che ritiene configurabile l’usura anche con riferimento agli interessi moratori». Invero, ipotizzare la riduzione della misura degli interessi moratori non significa affatto negare la loro configurazione nel senso dell’eccessività della misura rispetto a quanto può ritenersi lecito, ma, al contrario, presupporla; si veda anche oltre, nel testo. Sul punto, può aggiungersi che il Trib. Rimini, con pronuncia del 6 febbraio 2015 (reperibile in http://www.ilcaso.it/giurisprudenza/archivio/12710.pdf), ha ribadito che l’art. 644 c.p. si riferisce espressamente a interessi posti “in corrispettivo” di una prestazione di denaro, al pari dell’art. 2 della l. 108/1996, che parla di “remunerazioni”, escludendo la rilevanza degli interessi moratori ai fini dell’applicazione di tali discipline ed aderendo all’idea di controllo giudiziale previsto dall’art. 1384 c.c. 50 A titolo esemplificativo, si riferisce che il TEGM rilevato nel primo trimestre 2015 individua, per i mutui a tasso variabile una soglia su base annua pari a 8,3375 %, quindi quasi coincidente con l’interesse legale di mora stabilito in caso di transazioni commerciali nel primo semestre 2015 che – come visto – è pari a 8,05 %.

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disposizione di tutela del debitore51: il che impone di ripensare tutto il sistema, e di disattendere la stessa impostazione della ripetuta sentenza della Cassazione n. 350 del 2013. Una prima, illuminata pronuncia afferma che «o il legislatore è usuraio (…) o i tassi di mora non entrano nel calcolo dell’usura» immaginando altresì che «il legislatore abbia, anche inconsciamente, dato un’interpretazione autentica dell’art. 644 c.p.» escludendo dunque dal suddetto calcolo quanto non costituisce un corrispettivo, ossia un costo del finanziamento52. L’ipotesi di un’interpretazione autentica (oltretutto inconscia…) è affascinante ma non percorribile, se solo si rammenta che, al contrario, la già menzionata l. 24/2001, espressamente indirizzata a tale fine, prevedendo che siano usurari gli interessi convenuti “a qualunque titolo”, è stata considerata il referente per ritenere che il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori53; tuttavia, l’esattezza dei rilievi formulati è verificabile anche seguendo altre vie. Preliminarmente può osservarsi che le nuove disposizioni contenute nell’art. 1284 c.c. sono state introdotte in un momento di particolare congiuntura economica: con gli interessi legali che hanno raggiunto il minimo storico (fissati per il 2015 – lo si ricorda – nella misura dello 0,5 punti percentuale in ragione dell’anno) è stato necessario intervenire con uno strumento che rispondesse all’esigenza di tutela creditoria e deterrenza all’inadempimento54. In altre parole, a fronte di interessi su crediti liquidi ed esigibili che di norma sono divenuti bassissimi, si è voluto evitare che potesse diventare

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Vale anche qui quanto già sostenuto in tema di calcolo di interessi moratori sulla rata comprensiva di interessi corrispettivi: se c’è la legittimazione legislativa a farlo, è proprio questo che esclude la valutazione di usurarietà; cfr. sopra, nota 23. 52 Così Trib. Cremona, 9 gennaio 2015, reperibile in http://www.expartecreditoris.it/ images/joomd/1422293937cremona.9.1.15.pdf. 53 Cfr. sopra, nota 17. 54 Illuminanti, in tal senso, sono i contenuti dei lavori preparatori, ove si motiva l’intervento con l’esigenza di «evitare che i tempi del processo civile diventino una forma di finanziamento al ribasso (in ragione dell’applicazione del tasso legale d’interesse) e dunque che il processo stesso venga a tal fine strumentalizzato»: cfr. la Relazione illustrativa del disegno di legge di conversione dell’A.S. 1612, 22 (http://www.senato.it/service/PDF/ PDFServer/BGT/00801694.pdf); peraltro, tutti i dossier reperibili sui siti di Camera e Senato fanno riferimento, nelle schede di lettura ovvero nell’esposizione dei contenuti, alla “tutela del credito” cfr., ad esempio, la scheda di lettura n. 235 della Camera dei Deputati, 37 (http://documenti.camera.it/Leg17/Dossier/Pdf/D14132.Pdf ).

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“conveniente” non adempiere, ipotesi tutt’altro che remota in assenza di disposizioni specifiche a tutela del creditore, nonché in mancanza di interessi moratori convenzionali. La disciplina ha dunque la stessa base e le funzioni proprie della penale, di cui rappresenta il precipitato legislativo di sanzione avverso l’inadempimento; procedendo su questa strada interpretativa, acquista maggiore rilievo il profilo della tolleranza già accennato nel precedente paragrafo: laddove il creditore sia disposto a tollerare il ritardo si accontenterà di interessi al saggio legale, mentre in caso contrario proporrà domanda giudiziale ed avrà diritto a interessi corrispondenti a quelli legali di mora disposti in caso di ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali55. L’esigenza di coordinare le normative porta allora a pensare che, se prima della vigente formulazione dell’art. 1284 c.c. potevano esserci dubbi sull’inquadramento degli interessi moratori nell’alveo della clausola penale con applicazione conseguenziale del rimedio della riduzione, oggi l’ipotesi assume vigore e rilevanza difficilmente contrastabili. Invero, ritenere che il superamento del tasso-soglia (ma quale…?) con riferimento agli interessi moratori conduca alla loro nullità, implicherebbe la legittimazione di azioni giudiziarie promosse dal creditore al primo accenno di ritardo, con effetti non già deflattivi ma, al contrario, inflattivi, del contenzioso… che è esattamente l’ipotesi che la disciplina – tra le altre cose – mirerebbe a scongiurare. L’ipotesi della riduzione degli interessi moratori usurari, oltre ad apparire l’unica soluzione possibile nella ricerca di un equilibrio del sistema, appare peraltro perfettamente coerente con la ricostruzione dogmatica della riduzione della clausola penale eccessiva, che si spiega in funzione dell’eliminazione della iniquità della disposizione, ed interviene nei limiti necessari a ricondurre ad equilibrio la posizione del contraente vessato; in tale ottica, è stato rilevato che il regime della riducibilità opera sul presupposto della nullità della clausola iniqua, giacché se il patto fosse valido non vi sarebbe ragione di postulare l’abusività dell’esercizio del diritto da cui il medesimo origina56.

55 In dottrina si rileva che la che la domanda giudiziale, avendo valenza di richiesta di adempimento, costituisca altresì in mora il debitore: cfr. Bianca, La responsabilità, cit., p. 306; in giurisprudenza, sia pure con riferimento alla domanda di risoluzione del contratto per inadempimento, cfr. Cass., 26 marzo 1980 n. 2013, in Mass. Giust. civ., 1980, fasc. 3. 56 Cfr. Russo, Il patto penale fra funzione novativa e principio di equità, Napoli,

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Convenendo con quanto esposto, può altresì sostenersi che le nuove previsioni contenute nell’art. 1284 c.c. disegnino il limite di liceità per gli interessi connessi al ritardo, ossia il confine legislativo al di sotto del quale nessun interesse può essere ritenuto usurario, con l’ulteriore precisazione che tale limite potrebbe assumere valenza anche al di fuori del contenzioso. Sembra infatti difficilmente contestabile che eventuali interessi moratori convenuti in misura pari o inferiore a quelli legali di mora previsti nella disciplina delle transazioni commerciali dovranno considerarsi leciti anche se, per avventura, dovessero superare il TEGM, auspicandosi, in ogni caso, che il legislatore disponga una rilevazione separata per i medesimi interessi di mora superando i dubbi già esposti in merito all’individuazione di una soglia diversa mediante la maggiorazione del medesimo TAEG di 2,1 punti percentuale. Partendo quindi dal rilievo che, ove le parti (a prescindere dalla qualifica dei soggetti, e facendo salve ulteriori disposizioni speciali57) abbiano pattuito interessi moratori può ritenersi esclusa la tolleranza del creditore in ordine al ritardo del pagamento, in tale ipotesi potrebbe altresì non essere necessaria la domanda giudiziale per far ritenere dovuti gli interessi nella misura che sarebbe comunque accordata in caso di giudizio. Le conclusioni che precedono implicano il superamento dell’irrilevanza, ai fini della valutazione dell’usurarietà, della distinzione fra in-

2010, p. 179 ss. (specialmente pp. 202 - 203). L’autore avverte che l’autonomia contrattuale non è libertà incondizionata ma è potere che si misura nel sistema giuridico, risolvendo il suo conflitto con altri valori e libertà in ragione della maggiore o minore meritevolezza degli interessi sottesi alla vicenda concreta; l’equità della clausola penale diventa dunque un requisito di liceità e la sua mancanza produce un vizio del contenuto del patto, patto che può essere salvato solo dall’intervento giudiziale che ne elimina l’iniquità, specificandosi altresì che la riducibilità ope judicis della penale eccessiva (sancita da Cass. SS.UU., 13 settembre 2005, n. 18128) altro non sia se non il corollario della sua riconosciuta nullità (verticale, di protezione, e quantitativamente parziale) (cfr. specialmente pp. 214 e 216 ss.). 57 Non sembra peraltro sostenibile che la disciplina disegnata dalle previsioni contenute nel quarto e quinto comma dell’art. 1284 c.c. sia inapplicabile ai contratti di mutuo ovvero ad altri rapporti soggetti alla disciplina antiusura, o ancora che di essa non possano giovarsi i soggetti la cui attività è regolata dal t.u.b.: la formulazione generica delle disposizioni esclude tale ipotesi, in particolar modo ove si consideri che la specialità della normativa, idonea a derogare la disciplina generale, dovrebbe essere chiaramente esplicitata (come avvenuto, si noti, con la recente riformulazione dell’art. 120 t.u.b. in relazione all’anatocismo, le cui attuali prescrizioni risultano perfino più restrittive di quelle contenute nell’art. 1283 c.c.).

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teressi corrispettivi e moratori, nonchĂŠ la riaffermazione della diversitĂ di funzioni che si traduce anche nella differente applicazione rimediale (nullitĂ per i primi, riduzione per i secondi); esse, peraltro, sembrano le uniche idonee a riequilibrare il complesso sistema delle diverse discipline in tema di tutela debitoria e creditoria, coordinando ed integrando norme (solo) apparentemente contrapposte.

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L’usura della legge e l’usura della Banca d’Italia: nella mora riemerge il simulacro dell’omogeneità. La rilevazione statistica e la verifica dell’art. 644 c.p.; finalità accostate ma non identiche. Sommario: 1. Introduzione: gli interessi di mora e la soglia d’usura. – 2. Arbitro bancario finanziario e Banca d’Italia: allineati nelle modalità, discosti nei risultati. – 3. La verifica ex art. 644 c.p. e la rilevazione statistica del TEGM: il simulacro dell’omogeneità. – 4. La mora e il rischio di credito. – 5. Le soglie d’usura e l’échelle de perroquet. – 6. La soglia della mora nei conti correnti: lo scoperto di conto. – 7. Il credito in extra-fido: un’ulteriore criticità per la verifica dell’usura. – 8. La rimozione delle soglie d’usura: aspettando che la banca d’Italia favorisca la concorrenza. – 9. Considerazioni finali.

1. Introduzione: gli interessi di mora e la soglia d’usura. È ormai da tempo assodato che anche gli interessi di mora, ancorché non concorrano a determinare il TEGM, sono soggetti al rispetto delle soglie d’usura1.

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«Non v’è ragione per escluderne l’applicabilità anche nell’ipotesi di assunzione dell’obbligazione di corrispondere interessi moratori risultati di gran lunga eccedenti lo stesso tasso soglia: va rilevato, infatti, che la legge 108 del 1996 ha individuato un unico criterio ai fini dell’accertamento del carattere usurario degli interessi (la formulazione dell’art. 1, 3° comma, ha valore assoluto in tal senso) e che nel sistema era già presente un principio di omogeneità di trattamento degli interessi, pur nella diversità di funzione, come emerge anche dall’art. 1224, 1° comma, del codice civile, nella parte in cui prevede che se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale «gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Il ritardo colpevole, poi, non giustifica di per sé il permanere della validità di un’obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge» (Cass., 22 aprile 2000, n. 5286). L’art. 1, co. 1, d.l. 394/00, di interpretazione autentica dell’art. 644 c.p., riconduce alla

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Il principio è stato più recentemente ribadito dalla Cassazione (Cass., 9 gennaio 2013, n. 350) che ha precisato che «ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815 c.c. comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalle legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori». La sentenza della Cassazione 350/13 non prende in considerazione alcuna la rilevazione campionaria sul tasso mora effettuata dalla Banca d’Italia nel ‘01, né il diverso criterio di valutazione della mora indicato dalla stessa, trattandosi di un mutuo concesso in epoca precedente la menzionata rilevazione. La verifica dell’usura è stata accertata facendo esclusivo riferimento alla soglia riveniente dal TEGM pubblicato dal d.m. del Tesoro relativo al II trimestre ‘98: con il criterio successivamente suggerito dalla Banca d’Italia, a seguito della rilevazione campionaria del ‘01, l’usura non sarebbe emersa. Ma questa circostanza non sarebbe del tutto trascurabile se si ritenesse che la maggiorazione di 2,1 punti della mora rilevata nella menzionata indagine non è un prezzo di mercato che muta nel tempo, ma una penale suscettibile di un’apprezzabile stabilità nel tempo, applicata sia precedentemente che successivamente alla rilevazione2.

nozione di interessi usurari quelli convenuti ‘a qualsiasi titolo’ e la relazione governativa che accompagna il decreto fa esplicito riferimento a ogni tipologia di interesse, ‘sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio’. La Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi nei giudizi di legittimità costituzionale sollevati dalla legge n. 24/01 (interpretazione autentica della legge 108/96), ha precisato, in un obiter dictum, che: «Va in ogni caso osservato – ed il rilievo appare in sé decisivo – che il riferimento, contenuto nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, agli interessi “a qualunque titolo convenuti” rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori.» (C. Cost., 25 febbraio 2002, n. 29). Da ultimo, anche l’art. 2 bis del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla l. 28 gennaio 2009, n. 2, non opera alcuna distinzione con riferimento alla natura degli interessi quando, al co. 2, prevede: «gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente, dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono comunque rilevanti ai fini dell’applicazione dell’articolo 1815 del codice civile, dell’articolo 644 del codice penale e degli articoli 2 e 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108». 2 Il caso esaminato dalla Cassazione riguardava un mutuo concesso ad un tasso corrispettivo del 10,50% ed un tasso di mora maggiorato di 3 punti (13,50%): il tasso medio di

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Per gli interessi di mora si è creata una situazione simile a quella delle CMS prima del ‘10, escluse dal TEG e menzionate a parte nei decreti ministeriali3. Nell’ambito della rilevazione del tasso medio di mercato, ai fini dell’individuazione delle soglie d’usura, il tasso di mora non viene ricompreso nel calcolo, né costituisce una Categoria a sé, distinta dalle altre che caratterizzano il panorama del credito: la legge consente la distinzione in categorie per le operazioni di credito, non per la natura degli interessi, e la rilevazione del TEGM è rivolta a cogliere la fisiologia, non la patologia del fenomeno. Tuttavia da oltre un decennio i decreti ministeriali, nella medesima opacità che ha contraddistinto l’evidenza a latere delle CMS4, continuano a menzionare l’indagine campionaria5,

mercato, previsto dal D.M. 23/2/98, era pari all’8,29% (soglia d’usura 12,435%). La Corte d’Appello aveva ritenuto che «la maggiorazione del 3% prevista per il caso di mora non poteva essere presa in considerazione, data la sua diversa natura, nella determinazione del tasso usurario». Parte ricorrente aveva dedotto il contrasto con quanto previsto dal d.m. 27/3/98 in quanto doveva tenersi conto della prevista maggiorazione di 3 punti in caso di mora. Al riguardo la Suprema Corte ha stabilito: «La stessa censura (sub b), invece, è fondata in relazione al tasso usurario perché dalla trascrizione dell’atto di appello risulta che parte ricorrente aveva specificamente censurato il calcolo del tasso pattuito in raffronto con il tasso soglia senza tenere conto della maggiorazione di tre punti a titolo di mora, laddove, invece, ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p., e dell’art. 1815 c.c., comma 2, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi anche a titolo di interessi moratori» (Cass., 9 gennaio 2013, n. 350; Cfr. anche Cass., 11 gennaio 2013, nn. 602 e 603). Come si può desumere dalle circostanze rappresentate, il tasso corrispettivo risulta inferiore al tasso soglia vigente e la maggiorazione della mora, pari a 3 punti, risulterebbe inferiore al valore di 3,15 punti che si otterrebbe – seguendo il criterio suggerito dall’ABI e fatto proprio dalla Banca d’Italia – considerando la maggiorazione di 2,1 punti rilevata nell’indagine campionaria del 2001/02, aumentata del 50%. 3 Pur nella sostanziale differenza riconducibile alla circostanza che le CMS avrebbero dovuto essere ricomprese nel calcolo del TEG risultando oneri ricorrenti che si aggiungono ordinariamente agli interessi, mentre la mora, facendo riferimento ad una fase patologica del rapporto, non può essere ricompresa nel calcolo del TEG funzionale alla rilevazione del tasso medio fisiologico di mercato. 4 La giustificazione a suo tempo espressa dalla Banca d’Italia nella Circolare n. 47429 del 1/10/96 appare alquanto anodina: «analogamente a quanto avviene in Francia, ove vige una normativa sull’usura che ha ispirato la legge 108/96, la commissione di massimo scoperto è oggetto di autonoma rilevazione». 5 Il Decreto ministeriale del 25 marzo 2003 riporta nella Nota Metodologica: «Rilevazione degli interessi di mora. La Banca d’Italia e l’Ufficio italiano dei cambi hanno proceduto a una rilevazione statistica riguardante la misura media degli interessi di mora stabiliti contrattualmente.

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curata dalla Banca d’Italia nel 2001, che aveva accertato per la mora un tasso collocato 2,1 punti al di sopra del tasso medio corrispettivo rilevato per il complesso del campione esaminato6. Sin dalla prima comparsa nel decreto ministeriale del marzo ‘03, ad oltre sei anni dalla legge, il richiamo alla rilevazione campionaria ha determinato confusione e scetticismo, apparendo come un tardo rimedio alla discrasia insorta fra la norma di legge, che assume una portata assoluta, indifferente alla natura dell’interesse percetto, e le ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia, che dovendo perseguire la rilevazione statistica di un dato fisiologico di mercato, escludono espressamente la mora. Le ‘Istruzioni’ sono tuttavia nel contempo gravate dall’art. 3 co. 2 dei decreti ministeriali di pubblicazione del TEGM, che dispone che gli intermediari, al fine di verificare il rispetto del limite d’usura, «si attengono ai criteri di calcolo delle ‘istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura emanate dalla Banca d’Italia». Nella circostanza, non potendo gli intermediari seguire pedissequamente il dettato ministeriale, la Banca d’Italia ha creduto opportuno, analogamente alla CMS, integrare la norma predisponendo, con l’indagine campionaria del 2001, uno specifico riferimento per la mora7. D’altra

Alla rilevazione è stato interessato un campione di banche e di società finanziarie individuato sulla base della distribuzione territoriale e della ripartizione tra le categorie istituzionali. In relazione ai contratti accesi nel terzo trimestre del 2001 sono state verificate le condizioni previste contrattualmente; per le aperture di credito in conto corrente sono state rilevate le condizioni previste nei casi di revoca del fido per tutte le operazioni in essere. In relazione al complesso delle operazioni, il valore della maggiorazione percentuale media è stato posto a confronto con il tasso medio rilevato». Esigenze di trasparenza avrebbero richiesto maggiori informazioni sul campionamento effettuato dalla Banca d’Italia. 6 Art. 3, co. 4: «I tassi effettivi globali medi di cui all’art. 1, comma 1, del presente decreto non sono comprensivi degli interessi di mora contrattualmente previsti per i casi di ritardato pagamento. L’indagine statistica condotta nel 2001 ai fini conoscitivi dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio italiano dei cambi ha rilevato che, con riferimento al complesso delle operazioni facenti capo al campione di intermediari considerato, la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali». 7 Il campionamento curato dalla Banca d’Italia ha evidenziato un tasso medio di mora del 2,1%. La rilevazione - : riferita al III trimestre ‘01, curata nel corso del ‘02 e comunicata nel II trimestre ‘03 – presenta una marcata opacità: non si dispone infatti di alcuna informazione di dettaglio sulle modalità e criteri di rilevazione ed elaborazione dei dati. Il campionamento presenterebbe la stessa incongruenza che ha caratterizzato la rilevazione della CMS la cui media (semplice) era rilevata esclusivamente sulle operazione che

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parte il MEF, più che sentire – come dispone la legge – è apparso aderire alle indicazioni della Banca d’Italia riportando in decreto la risultanza del campionamento sulla mora senza null’altro aggiungere, rimettendo in tal modo alla valutazione degli intermediari l’uso che a tale dato poteva darsi. Il singolare riferimento nei decreti ministeriali alla rilevazione campionaria dei tassi di mora del 2001 ha creato il destro per un diverso trattamento degli stessi rispetto ai tassi corrispettivi. L’ABI, dopo l’indagine sui tassi mora richiamata dal decreto ministeriale, in una lettera circolare indirizzata alle associate (n. 4681/2003), sulla base di «prime autorevoli interpretazioni della dottrina»8, aveva suggerito, per la mora, l’adozione di un sofisticato criterio, successivamente mutuato dalla Banca d’Italia per la CMS con la Circolare del 2/12/05: soglia per la mora pari alla somma del tasso medio di mercato, individuato dalla Banca d’Italia per gli interessi corrispettivi, e della maggiorazione di 2,1 punti percentuali, il tutto aumentato del 50% (ora 25% + 4 punti). Questo criterio ha ora incontrato l’avallo della Banca d’Italia, la quale solo nella recente comunicazione del 3 luglio 2013 ha espresso chiaramente le finalità implicite della rilevazione campionaria della mora, riportata sistematicamente, negli ultimi dieci anni, in tutti i decreti ministeriali di pubblicazione delle soglie d’usura. L’indicazione dell’ABI, accolta all’unisono dalla Banca d’Italia, non

prevedevano tale onere e non sull’intero universo campionato (cfr. nota 39). 8 Il riferimento è al parere della prof.ssa Severino di Benedetto che non ha incontrato alcun seguito in dottrina. In tale parere viene affrontata anche l’eventualità che la maggiorazione della mora superi il valore di 2,1 punti maggiorato del 50%, cioè 3,15 punti, e si sostiene che la circostanza non è sufficiente a configurare l’usura se l’interesse corrispettivo, incrementato del maggior margine di mora, rimane comunque inferiore alla soglia d’usura maggiorata di 3,15 punti. Tale costrutto verrà integralmente ripreso e proposto dalla Banca d’Italia per le CMS nella Circolare 2/12/05, svelando lo spirito con il quale vengono gestite le ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia: «L’atteggiamento manifestato appare conforme alla tradizionale propensione della Banca d’Italia a trovare elementi di giustificazione ed eventualmente di razionalizzazione delle prassi – troppo spesso unilateralmente applicate dagli istituti di credito – piuttosto che a contrastare pratiche contrattuali talora dissonanti con la disciplina dei contratti bancari. E per la verità è singolare che la Banca d’Italia nell’affrontare in modo diretto la questione della CMS, non prenda posizione, nemmeno di sfuggita, sul primo problema che la legge n. 108/96 (alla quale costantemente si richiama alla lettera) pone quale profilo prioritario, e cioè che questa commissione di massimo scoperto costituisce, in realtà, una remunerazione del credito concesso al cliente della banca» (Dagna, Profili civilistici dell’usura, Padova, 2008, p. 403).

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risulta essere stata adottata dagli intermediari più prudenti, che hanno prestato maggiore attenzione alle pronunce nel frattempo espresse dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale. Valutando opportunamente il rischio legale che ne può derivare, gli intermediari, per lo più, mantengono la mora entro la soglie pubblicate dal MEF per le distinte Categorie di credito, senza alcuna maggiorazione9. D’altra parte non è questa la sola circostanza nella quale le banche si sono discostate cautelativamente dalle indicazioni della Banca d’Italia10, per non incorrere in «quell’aggiramento della norma penale che impone alla legge – e non alla Banca d’Italia – di stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari», sancito Cass. pen., 19 dicembre 2011, n. 46669. Il rilievo appare quasi naíf: l’art. 2 co. 4 della legge 108/96 prevede che

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Nel prevedere tassi di mora compresi entro i limiti d’usura pubblicati per la Categoria di appartenenza, vengono altresì incluse, in particolare per i mutui, clausole di salvaguardia che mantengono comunque la misura degli interessi di mora entro i limiti fissati dalla legge 108/96. «Né appare fondata la richiesta di sospensione, per quanto concerne il dedotto superamento del tasso soglia, atteso che il contratto di mutuo che disciplina il rapporto tra le parti esplicitamente, sul punto, all’art. 4 contiene che ‘ la misura di tali interessi non potrà mai essere superiore al limite fissato ai sensi dell’art. 2 co. 4 della l. 7/3/96 n. 108, dovendosi intendere, in caso di teorico superamento di detto limite, che la loro misura sia pari al limite medesimo» (Trib. Napoli, 8 gennaio 2014, M. Cacace). Un atteggiamento analogo tengono le banche, nel richiedere un tasso di mora non superiore alla soglia pubblicata, nella precisazione del credito delle procedure esecutive e concorsuali. 10 In sede di applicazione delle nuove ‘Istruzioni’ ‘09 della Banca d’Italia, con riferimento al periodo transitorio, buona parte delle banche ha dimostrato una maggiore avvedutezza e cautela di quanto suggerito dalla Banca d’Itala. Nel passaggio dalle CMS alle commissioni sostitutive di affidamento e di scoperto, le ‘Istruzioni’ del ‘09, in maniera alquanto incauta, riportano: «Si ritiene opportuno precisare che le nuove istruzioni prevedono che fino al 31.12.09 (periodo transitorio) restano pertanto esclusi dal calcolo del TEG per la verifica del limite di cui al punto precedente (ma vanno inclusi nel TEG per l’invio delle segnalazioni alla Banca d’Italia): a) la CMS e gli oneri applicati in sostituzione della stessa, come previsto dalla legge 2 del 2009; b) gli oneri applicati alla clientela per i passaggi a debito di conti non affidati, fino a concorrenza delle spese addebitate ai clienti per la liquidazione trimestrale dei conti affidati; c) gli oneri assicurativi imposti per legge direttamente a carico del cliente (anche per il tramite dell’intermediario)». Tale opinione appare confliggere, oltre che con la ratio della legge usura (l. 108/1996), con l’art 2 bis della stessa l. 28 gennaio 2009, n. 2, che prevede che «il limite previsto dal terzo comma dell’art. 644 del codice penale, oltre il quale gli interessi sono usurari, resta regolato dalla disciplina vigente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto fino a che la rilevazione del tasso effettivo globale medio non verrà effettuata tenendo conto delle nuove disposizioni» e quindi gli oneri applicati in sostituzione delle CMS non potevano che essere ricompresi nel calcolo del TEG.

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il limite «… oltre il quale gli interessi sono sempre usurari è stabilito nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale …» non nel tasso riveniente dalla maggiorazione che autonomamente la Banca d’Italia ha voluto rilevare, in termini campionari, sulla base di criteri che non si conoscono, dopo oltre cinque anni dal varo della legge. Non vi sono altri tassi medi pubblicati in Gazzetta oltre ai valori del TEGM, non è pubblicato un tasso medio per la mora, non è stato mai esplicitato in Gazzetta o nei Decreti del MEF che per la mora dovesse essere considerata la maggiorazione di 2,1 punti, aggiungendola al tasso medio di rilevazione e maggiorando il tutto del 50%. Né tanto meno con il provvedimento legislativo del ‘11, che ha sostanzialmente ampliato lo spread dal 50% al 25% più quattro punti, si è fatto menzione ad alcuna soglia per la mora11: prima della recente comunicazione del 3 luglio 2013 della Banca d’Italia, solo le ‘autorevoli interpretazioni’ dell’ABI avevano dato un’indicazione similare (non del tutto identica). Se questa ‘balzana’ lettura avesse acquisito in dottrina e in giurisprudenza una qualche forma di credito, si sarebbe reiterato sulla mora quanto accaduto per la CMS. Non si vede come possa prevedersi una specifica soglia per gli interessi di mora senza porsi in contrasto con il dettato normativo che dispone la soglia per il tasso di interesse, a qualunque titolo convenuto, sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio: come detto, la diversificazione del tasso soglia, prevista dalla legge per le differenti categorie, è riferita alla natura del credito, non dell’interesse, e alla fisiologia, non alla patologia, del fenomeno. Creando – con il riferimento ad una generica rilevazione campionaria, non prevista da alcuna norma di legge – un ulteriore spread di penalizzazione entro una diversa e più elevata soglia, ancor prima di ravvisare la ricorrenza dell’usura concreta12, si verrebbe a contraddire la logica

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Vista la difficile situazione economica, nella quale si registra un più elevato tasso di morosità, il legislatore avrebbe dovuto manifestare una più attenta sensibilità al riguardo, quanto meno lasciando invariata la maggiorazione che, invece, risulterebbe ridotta (dal 50% al 25%) nel criterio indicato dalla Banca d’Italia. 12 Nella fattispecie considerata il maggior tasso risulterebbe di fatto subito: la situazione di difficoltà economica che si configura nella circostanza, incide sulla libera determinazione a contrarre e condiziona l’accettazione della sproporzione delle prestazioni del cliente: «Per quel che concerne la tutela penale, la pattuizione strumentale di interessi moratori di importo elevato può rientrare nell’ambito della fattispecie di usura prevista dal 3° comma dell’art. 644 c.p. (la c.d. «usura residuale) che in questo caso potrebbe trovare applicazione molto più frequentemente di quanto si è ipotizzato all’atto della sua introduzione (…) l’interpretazione logica conduce a ritenere che la norma debba

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della rilevazione del valore medio fisiologico del credito come punto di riferimento al quale ancorare lo spread di variazione consentito dalla legge stessa. Se si inseguono i diversi gradi di patologia con differenti tassi soglia si innesca un’ascesa che vanifica lo spirito stesso della legge. Il rafforzativo ‘sono sempre usurari’, riportato nel menzionato passaggio dell’art. 2, co. 4, della legge 108/96, non sembra ammettere deroghe: ogni patologia deve essere comunque ricompresa nello spread fissato dalla legge rispetto al tasso medio di mercato, inteso quest’ultimo come un tasso ordinario, fisiologico. Se si crea una Categoria per la patologia con una propria specifica soglia, viene meno il riferimento al tasso ordinario e si vanifica lo spirito della legge, privandola dell’inderogabilità implicita nella formulazione ‘sono sempre usurari’. La Banca d’Italia con le sue indicazioni, che esondano l’ambito proprio della funzione che solo indirettamente le viene assegnata, e che vengono passivamente recepite nei decreti del MEF, presta forme di soccorso agli intermediari che si pongono in contraddizione con la legge 108/96 e le pronunce della Suprema Corte, contribuendo a creare quelle zone grigie che, prima della sentenza della Cassazione pen. n. 46669/11, hanno seriamente pregiudicato la determinatezza e tassatività della norma13.

applicarsi anche ad ipotesi in cui il tasso fissato dai contraenti è superiore al limite di legge. Il caso degli interessi moratori pattuiti ad un tasso eccessivo ed altresì superiori ad un determinato tasso-soglia si attaglia perfettamente a questa eventualità, proprio perché si è visto come gli interessi moratori esulino tendenzialmente dal sistema delle rilevazioni trimestrali» (giudice Vanorio della Procura della Repubblica di Palermo, Atti della relazione, I reati dell’usura: la struttura della fattispecie, le tecniche d’indagine ed i rapporti fra autorità inquirenti e le banche, tenuto al Seminario organizzato da ABI e Consiglio Superiore della Magistratura in Roma nei giorni 1-2 marzo 2005). D’altra parte la norma non esprime un principio dicotomico assoluto condizionato al TEGM di rilevazione. «Di suo, il TEGM propone un alto grado di rigidità: come ha rilevato dottrina autorevole, ‘non può approvarsi che, se … il tasso c.d. soglia è del 20%, chi ha pattuito un interesse del 20,01% perde tutto e chi ha pattuito un interesse del 19,90% possa conservalo tutto’. Da quest’angolo visuale, l’articolazione complessiva del sistema vigente si preoccupa di colmare il gap: più il carico economico si avvicina alla linea di confine e meno occorrono ulteriori elementi di fattispecie perché la sproporzione risulti in concreto rilevante. In un certo senso, il nostro sistema attuale propone un continuum: la prossimità alla soglia propone il rischio dell’operazione» (Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013). 13 Per fatti risalenti agli anni precedenti, il g.i.p. del Tribunale di Caltagirone (dott. M. Gennaro, sentenza 21 giugno 2012), non ha ritenuto di procedere non ‘perché il fatto non costituisce reato’, bensì ‘per insussistenza dei fatti’. Nella circostanza, il g.i.p. – nel

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Gli stessi controlli di vigilanza risultano di fatto edulcorati, risultando informati alle indicazioni dell’Istituto in luogo di quelle rivenienti dalla Suprema Corte. Con l’inusuale chiarimento del 3 luglio 2013, la Banca d’Italia appare voler interpretare e integrare la Sentenza ultima della Superiore Corte n. 350/13 in tema di mora. Nel chiarimento si puntualizza: i).i tassi soglia non sono fissati dalla Banca d’Italia ma determinati da un automatismo stabilito dalla legge, a partire dai tassi medi di mercato rilevati trimestralmente dalla Banca d’Italia e pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze; ii).la verifica dell’usurarietà dei tassi applicati ai singoli contratti e le conseguenti valutazioni, sotto l’aspetto civile e penale, sono rimesse all’Autorità giudiziaria; iii).la Banca d’Italia, attraverso le ‘Istruzioni per la rilevazione dei tassi effettivi globali medi ai sensi della legge sull’usura’ e i connessi chiarimenti pubblicati sul sito, fornisce agli intermediari i criteri tecnici da seguire per segnalare in modo corretto e omogeneo i TEG applicati, utilizzati per l’individuazione delle soglie trimestrali. I Decreti ministeriali che aggiornano i tassi soglia dispongono che gli intermediari verifichino l’usurarietà dei tassi applicati sui singoli contratti sulla base degli stessi criteri tecnici; iv).le ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia sono costantemente aggiornate per tener conto dell’evoluzione della normativa in tema di contratti bancari e dell’innovazione finanziaria. Tali Istruzioni possono costituire una metodologia di riferimento per la valutazione dei casi concreti condotta dalla magistratura ma non ne vincolano le decisioni. L’Istituto Centrale appare voler ricondurre ad un automatismo di legge quella gestione dei tassi d’usura esercitata attraverso le categorie di credito, le FAQ e, non da ultimo, questa nuova comunicazione a chiarimento. Le ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia, si ribadisce, vengono costantemente aggiornate per tener conto dell’evoluzione del mercato creditizio; vengono all’uopo richiamati, accanto alle ‘Istruzioni’, ‘i connessi chiarimenti pubblicati sul sito’ i quali hanno assunto la singolare funzione di

considerare le incertezze e le diverse metodologie di inserimento delle CMS – ha ritenuto che «non si vede in quale modo sia possibile, in un sistema siffatto, tener conto ‘a posteriori’ della CMS nel calcolo del tasso usurario senza violare irrimediabilmente il principio di tassatività dell’illecito penale, principio com’è noto direttamente ritraibile dall’art. 25 Cost.».

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modifica interpretativa delle ‘Istruzioni’14. Con buona pace della riserva di legge, se tali ‘Istruzioni’ e i connessi chiarimenti – a norma dell’art. 3, co. 2 dei decreti ministeriali – oltre che per la rilevazione del TEGM, dovessero essere impiegati per la verifica del limite d’usura. Dopo la pronuncia espressa dalla Cassazione pen. n. 46669/11, ancor più stridente appare la circostanza che prima vengano richiamati i decreti ministeriali che dispongono la verifica dell’usura con gli stessi criteri tecnici riportati nelle ‘Istruzioni’ per la rilevazione del TEGM, per poi dover rilevare che tali criteri non vincolano le decisioni della magistratura. Per attenuare questa discrasia la Banca d’Italia dovrebbe osservare una stretta aderenza all’art. 644 c.p. per non incorrere nuovamente nella censura della Cassazione, evitando, tra l’altro, interventi ‘creativi’ di campionatura non specificatamente previsti dalla norma. Con il menzionato disposto ministeriale – per nulla ricompreso nei margini delegati dalla legge 108/96, che assegna al MEF, sentita la Banca d’Italia, esclusivamente il compito di rilevare il tasso medio di mercato – si continua, con caparbietà, a voler riportare i criteri e il tasso da impiegare per il rispetto dell’art. 644 c.p. ai criteri e al tasso appositamente ideati dalla Banca d’Italia per la rilevazione del tasso medio di mercato (TEGM): risultando le finalità diverse seppur accostate, si viene a perpetrare l’ambigua incongruenza nella quale si è già incorsi con la CMS, esclusa nella rilevazione del TEGM e ricompresa nella verifica del rispetto della soglia d’usura. Colmando l’incongruenza della mora con una ‘posticcia’ rilevazione campionaria, priva di alcun supporto normativo. Per la mora – come per altre fattispecie che vengono escluse dalla rilevazione del TEGM, quali crediti in sofferenza, revocati, ecc. (cfr. paragrafo B2 delle ‘Istruzioni) – il disposto dell’art. 3, comma 2 dei menzionati decreti ministeriali si pone in palese contraddizione con il dettato dell’art. 644 c.p. Questa circostanza non può sfuggire ai vertici bancari che, depositari del presidio della norma penale, sono chiamati, nella loro peculiare diligenza professionale, a cogliere la priorità della legge e comunque adottare comportamenti di cautela quand’anche esistesse un mero dubbio. Nei principi stabiliti dalla seconda sez. pen. della Suprema Corte

14 In maniera alquanto impropria e singolare, con le FAQ del 1° dicembre ’10 si è modificato, con decorrenza dal trimestre di rilevazione ottobre-dicembre 2010, il criterio di annualizzazione previsto dalle ‘Istruzioni’. La modifica, rimuovendo in parte l’annualizzazione, ha risvolti economici apprezzabili, risulta priva di fondamento logico- finanziario e si pone in contrasto con il dettato dell’art. 644 c.p. che, ancorché interessi, oneri e spese siano calcolati trimestralmente, pone il riferimento al ‘tasso effettivo annuo’.

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(sentenze n. 12028/10, n. 28743/10, n. 46669/11), sia per i criteri di aggregazione sia per i criteri di inclusione, il TEG indicato dalla Banca d’Italia per la rilevazione statistica del tasso medio di mercato costituisce un punto di riferimento solo nella misura in cui risulti coerente e congruente con il dettato dell’art. 644 c.p. La ‘copertura’ del menzionato decreto ministeriale è stata ridimensionata dalla Cassazione pen. n. 46669/11 che ha ricondotto le indicazioni della Banca d’Italia e, di riflesso, il disposto ministeriale, in un alveo propriamente subordinato alla norma di legge; la pronuncia della Cassazione è perentoria, ponendo un solido presidio alla tassatività della norma: «Le circolari o direttive, ove illegittime e in violazione di legge, non hanno efficacia vincolante per gli istituti bancari sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia, neppure quale mezzo di interpretazione». Il principio fissato dalla Cassazione viene trovando immediato riscontro nella giurisprudenza ordinaria: «È evidente pertanto che le suddette Istruzioni della Banca d’Italia non abbiano alcuna efficacia precettiva nei confronti del Giudice nell’ambito del suo accertamento del TEG applicato alla singola operazione, né debbano essere osservate dagli operatori finanziari allorquando stabiliscono il tasso di interesse di un determinato rapporto, e ciò sia perché non sono appunto finalizzate a stabilire il TEG del singolo caso, ma a richiedere agli intermediari dati da fornire al Ministero del Tesoro per stabilire il TEGM da osservarsi per il trimestre successivo, sia perché disposizioni certo non suscettibili di derogare alla legge ed in particolare la prescrizione di cui all’art. 644 c.p. in materia di componenti da considerarsi al fine della determinazione del tasso effettivo globale praticato. Il TEG applicato alla singola operazione va accertato dal Giudice unicamente sulla base dell’art. 644 c.p. che prevede che ‘per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito’ e, ove presenti, di eventuali disposizioni di legge aventi pari forza; non hanno alcuna efficacia a tale fine le istruzioni impartite dalla Banca d’Italia per rilevare il TEGM, sia perché non rivolte, come si è detto, a stabilire il tasso globale effettivo di una certa singola operazione, sia perché non aventi comunque, neppure in astratto, portata derogatoria né integratrice della norma di cui sopra, nella parte in cui indica come calcolare il tasso effettivo globale. (App. Torino, 20 dicembre 2013, rel.: La Marca, Pres.: Grimaldi)15.

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Cfr. anche App. Cagliari, 26 marzo 2014; Trib. Roma, 23 gennaio 2014; App. Milano,

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Dopo le ‘difformi’ indicazioni della Banca d’Italia in tema di CMS, che hanno per lungo tempo seriamente pregiudicato l’applicazione dei limiti d’usura, la Cassazione, con il perentorio disvalore espresso per le circolari e direttive della Banca d’Italia, ha voluto riaffermare la gerarchia delle fonti normative, onde evitare il ripetersi di ‘difformi’ interventi e/o interpretazioni, che possano pregiudicare la determinatezza e tassatività della norma. Si può ritenere che, con le precisazioni in tema di responsabilità e professionalità dell’operatore bancario fornite dalla Cassazione, in presenza dell’elemento oggettivo non rimangano spazi di copertura alle indicazioni della Banca d’Italia che possano far escludere l’elemento soggettivo. Il precedente della CMS non si può replicare: la Cassazione ha stabilito principi che escludono un ulteriore scollamento dell’usura oggettiva da quella soggettiva; con la diligenza e professionalità richiesta ai vertici bancari non si può trascurare il principio di determinatezza e tassatività della norma penale ricondotto esclusivamente all’art. 644 c.p., che non può essere pregiudicato dalle ‘interpretazioni’ normative offerte dalla Banca d’Italia. Quali che siano le ‘Istruzioni’, e ancor più le modifiche apportate dalle FAQ, la trasposizione delle indicazioni della Banca d’Italia, dalla rilevazione del tasso medio di mercato alla verifica del rispetto delle soglie d’usura, rimane subordinata alla prescrizione dell’art. 644 c.p. Con questa incontrovertibile evidenza si scontrano quei comportamenti opportunistici degli intermediari, che ricercano ‘copertura’ nelle ambiguità insite nella norma amministrativa.

2. Arbitro bancario finanziario e Banca d’Italia: allineati nelle modalità, discosti nei risultati. Nell’ambito delle precisazioni di contorno al chiarimento del 3/7/13 la Banca d’Italia assume una propria posizione in merito agli interessi di mora: «In ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti-usura. Per evitare il confronto tra tassi disomogenei (TEG applicato al singolo cliente, comprensivo della mora effettivamente pagata, e

22 agosto 2013; Trib. Brindisi 9 agosto 2012; Trib. Pordenone 7 marzo 2012; Trib. Alba 18 dicembre 2010. In senso contrario Trib. Torino, 17 febbraio 2013, n. 1244; Trib. Ferrara, 21 maggio 2014, n. 592.

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tasso soglia che esclude la mora), i Decreti trimestrali riportano i risultati di un’indagine per cui ‘la maggiorazione stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento è mediamente pari a 2,1 punti percentuali’. In assenza di una previsione legislativa che determini una specifica soglia in presenza di interessi moratori, la Banca d’Italia adotta, nei suoi controlli sulle procedure degli intermediari, il criterio in base al quale i TEG medi pubblicati sono aumentati di 2,1 punti per poi determinare la soglia su tale importo»16. La Banca d’Italia, nella rilevazione campionaria curata con riferimento al III trimestre ‘01, non ha rilevato la media del tasso di mora, bensì la maggiorazione media del tasso di mora rispetto al tasso corrispettivo: solo con la recente comunicazione del 3 luglio 2013 si è esplicitamente indicato il riferimento alla soglia per la mora, reiterando il medesimo criterio della CMS soglia. Ma né al MEF, né tanto meno alla Banca d’Italia è consentita dal disposto penale una discrezionalità di tale portata. Né la funzione di presidio al corretto svolgimento del rapporto di credito, assegnata alla mora, può giustificare una specifica soglia d’usura, distinta da quella rilevata per la Categoria del credito di riferimento. Nel menzionato chiarimento, si prospetta un’imprescindibile esigenza di omogeneità di confronto per ricondurre le modalità di calcolo e i criteri di inclusione previsti dall’art. 644 c.p. alle modalità e criteri adottati dalla Banca d’Italia nella rilevazione statistica del TEGM e alle integrazioni operate per un verso con le CMS, per l’altro con la mora17. Con questo passaggio logico si è realizzata, per lungo tempo sino alla nota pronuncia della Cassazione pen. n. 46669/11, un’indebita gestione amministrativa del presidio penale. Si mira a fondere il criterio di verifica dell’art. 644 c.p. al criterio di rilevazione del valore medio di mercato, rimettendolo alle scelte della Banca d’Italia che, ispirate da una marcata connotazione soggettiva, hanno subordinato e condizionato alla più generale politica del credito la

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Aumentando i TEG medi di 2,1 punti, l’effetto della penale sulla soglia si commisura a 3,15 punti (con lo spread del 50%). In considerazione della natura di penale della maggiorazione, si poteva, secondo taluni, applicarla direttamente alla soglia, senza alcun incremento del 50% (ora 25%). 17 La sentenza della Cassazione pen. n. 46669/11 ha ritenuto, nelle circostanze esaminate, incensurabile il riferimento dei giudici di merito alla CMS soglia nella verifica dell’usura, ma nelle due precedenti sentenze della Cassazione pen. n. 12028/10 e n. 28743/10, il giudice di merito aveva fatto riferimento, per la metodologia di verifica dell’usura, alla usuale formula del TAEG.

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gestione delle soglie d’usura, attraverso l’individuazione delle categorie di credito, le scelte della formula di calcolo e i criteri di inclusione delle commissioni, oneri e spese. La Banca d’Italia sembra restia ad uniformarsi al disposto di legge se, dopo la ‘creazione’ della ‘CMS soglia’, nonostante il richiamo della Cassazione pen. n. 46669/11, torna a proporre una ‘Mora soglia’, determinata attraverso un’identica metodologia. La posizione sull’omogeneità di confronto è ripresa e sostenuta dall’ABF: «Tornando alla fisiologia dei mercati concorrenziali è da osservare che il criterio della soglia individuata di tempo in tempo mediante rilevazioni di mercato esige che i metodi di calcolo degli interessi convenzionali effettivi ed i metodi di rilevazione della media di mercato siano perfettamente coincidenti. Ogni anche piccola discrasia infatti si pone in contraddizione logica con la ratio della disciplina dell’usura. Del resto, la Banca d’Italia ha da tempo colto questo aspetto e perciò rende pubblici e quindi trasparenti i metodi mediante i quali perviene a calcolare i tassi medi rispetto alle diverse tipologie di credito, consentendo quindi di svolgere confronti perfettamente simmetrici con i tassi convenzionali effettivi previsti dai singoli contratti». (decisione n. 77/14 del Collegio di Coordinamento). Più recentemente il Collegio di Coordinamento dell’Arbitro bancario e finanziario (ABF 19 marzo 2014), sulla base della carenza di omogeneità del confronto, perviene alla radicale soluzione di escludere gli interessi di mora dal rispetto del tasso soglia: non essendo i tassi di mora oggetto di rilevazione, si esclude l’ipotesi che i tassi soglia rilevati con riferimento al TEGM possano costituire un limite anche all’esigibilità di interessi moratori. Nella decisione dell’ABF si disconosce la possibilità di impiegare la rilevazione campionaria del 2001 curata dalla Banca d’Italia ai fini della verifica dell’usura, ma si riconosce l’esigenza della perfetta simmetria tra i costi che intervengono nel rapporto creditizio e quelli censiti nella rilevazione statistica impiegata per l’individuazione del tasso soglia: «Così come sarebbe palesemente scorretto confrontare gli interessi pattiziamente convenuti per una data operazione di credito con i tassi soglia di una diversa tipologia di operazione creditizia, così come sarebbe palesemente scorretto calcolare nel costo del credito convenzionalmente pattuito gli addebiti a titolo di imposte, altrettanto scorretto risulta calcolare nel costo del credito pattuito i tassi moratori che non sono presi in considerazione ai fini della individuazione dei tassi soglia, perché in tutti i casi si tratta di fare applicazione del medesimo principio di simmetria». «Conclusivamente – afferma il Collegio – si deve ribadire che non possono essere assoggettati alla disciplina relativa agli interessi usurari

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elementi di costo del credito che non siano contemplati nel calcolo dei tassi soglia»18. Con l’omogeneità del confronto si mira a presidiare le scelte adottate dalla Banca d’Italia. Dalla mancata inclusione della mora nella rilevazione del TEGM l’ABF fa discendere l’inapplicabilità alla stessa dell’art. 644 c.p. Si riconosce nel contempo all’art. 1384 c.c. il presidio all’eventuale riduzione di penali eccessive, non escludendo l’applicazione dell’art. 1344 c.c. nel caso si configuri l’aggiramento delle disposizioni delle soglie d’usura19. Non si può trascurare la funzione anche remunerativa che accosta gli interessi di mora agli interessi corrispettivi. L’art. 1224 c.c., nel consentire gli interessi moratori anche nel caso in cui il creditore non ha subito al-

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A sostegno della tesi sopra riportata, il Collegio di Roma, in una successiva decisione dell’11/4/14, richiama anche l’art. 19, 2° e 3° paragrafo, della direttiva 2008/48/ CE che stabilisce: «2. Al fine di calcolare il tasso annuo effettivo globale, si determina il costo totale del credito al consumatore, ad eccezione di eventuali penali che il consumatore sia tenuto a pagare per la mancata esecuzione di uno qualsiasi degli obblighi stabiliti nel contratto di credito e delle spese, diverse dal prezzo d’acquisto, che competono al consumatore all’atto dell’acquisto, in contanti o a credito, di merci o di servizi’.’ 3. Il calcolo del tasso annuo effettivo globale è fondato sull’ipotesi che il contratto di credito rimarrà valido per il periodo di tempo convenuto e che il creditore e il consumatore adempiranno ai loro obblighi nei termini ed entro le date convenuti nel contratto di credito». Da questo il Collegio fa discendere la negazione in linea di principio che il tasso degli interessi moratori sia suscettibile di determinare il superamento del limite imperativamente posto dall’art. 644, 3° comma c.p. e dell’art. 4, 2° comma, della legge 108/96. La Direttiva relativa ai contratti di credito ai consumatori riferisce il TAEG agli aspetti informativi che devono essere riportati in contratto e correttamente indica il costo del credito (TAEG) – comprensivo per altro delle imposte – che ordinariamente verrà posto a carico del consumatore e, distintamente, il tasso degli interessi in caso di ritardi di pagamento e le eventuali penali. La Direttiva regola circostanze e finalità diverse, rivolte a fornire ex ante una corretta rappresentazione dei costi: appare del tutto inconferente far discendere dalla Direttiva il principio che per il tasso di mora non si possa determinare il superamento della soglia. La normativa sull’usura risponde a principi più stringenti: non ammette deroghe che possano, come in passato, costituire canali di elusione. 19 «La riduzione equitativa ai sensi dell’art. 1384 c.c. risulta più confacente alle sole singole ipotesi di clausola penale inserita consensualmente dalle parti contrattuali che li legano, mentre mal si concilia con l’enorme mole di contratti negoziati nel mercato del credito, ma in realtà predisposti unilateralmente dalle banche e dagli intermediari autorizzati. Tali rapporti contrattuali, invero, necessitano di paletti certi, predeterminati e quindi facilmente conoscibili da tutti i contraenti, al fine di evitare effetti di distorsione al regolare andamento del mercato del credito». (Mizzau, Interessi moratori e relativo tasso soglia, in I contratti bancari, a cura di Bianca, Roma, 2013).

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cun danno, valorizza negli stessi il vantaggio derivante al debitore dalla disponibilità della somma finanziata. D’altra parte la distinzione fra interessi corrispettivi e moratori risulta attenuata nelle stesse pronunce della giurisprudenza: «gli interessi corrispettivi su di una somma di denaro decorrono dalla data in cui il relativo credito abbia acquistato carattere di liquidità ed esigibilità, a nulla rilevando ogni eventuale indagine sulla colpevolezza del ritardo nell’inadempimento da parte del debitore, e senza che il creditore sia tenuto ad alcun atto di costituzione in mora, trovando l’obbligazione da interessi corrispettivi il proprio giuridico fondamento nella sola esigibilità della somma, e rappresentando la relativa decorrenza una conseguenza automatica del ritardo subito dal creditore nel godimento di quanto dovutogli»20. L’istituto della mora, nell’evoluzione del mercato creditizio, è stato affiancato da strumenti di più marcata deterrenza al corretto rispetto degli impegni finanziari assunti. Per l’operatore economico il pagamento della mora comporta riflessi assai più modesti di quelli rivenienti dalla segnalazione alla Centrale dei Rischi. I presidi all’insolvenza hanno subito nel tempo una diversa evoluzione. A differenza delle transazioni commerciali, nel mercato creditizio un significativo ruolo di presidio ad un più stringente rispetto degli impegni assunti nei confronti dell’intermediario bancario è assunto oggi dalla Centrale dei Rischi. Le peculiari e dettagliate informazioni contenute in quest’ultima, nel loro costante e tempestivo aggiornamento, offrono diverse e più pregnanti opportunità di prevenzione e di tempestiva reazione allo stato di crisi finanziaria. La segnalazione di morosità espressa dalla Centrale dei Rischi, alla quale gli operatori economici vengono mostrando una crescente attenzione per le ripercussioni immediate sulle loro disponibilità di credito, costituisce un presidio molto più stringente e selettivo di un aumento del costo del credito. L’operatore economico, che si trova già in fase di decozione, viene presidiato già in sede di erogazione del credito. Ancorché agli interessi di mora – tramite una maggiorazione sul tasso corrispettivo, spesso distintamente esplicitata in contratto – venga dall’ordinamento assegnata anche una funzione sanzionatoria all’inadempimento del debitore, ciò non di meno, come stabilisce la Cassazione n. 5286/00, il ritardo colpevole non può giustificare un’obbligazione eccessivamente onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge. Proprio la combinazione, negli interessi di mora, di una componente

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Cass., 18 luglio 2002, n. 10428; Cfr. anche Cass., 16 aprile 1991, n. 4035.


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remunerativa e una componente sanzionatoria e le agevoli circostanze di elusione che si creerebbero in contratti predisposti unilateralmente dall’intermediario, hanno sospinto l’assimilazione degli interessi di mora ai corrispettivi, nel rispetto dei limiti di soglia. D’altra parte non si può trascurare che storicamente gli interessi di mora hanno costituito il canale privilegiato nella pratica dell’usura. Non appare giustificata una deroga ai limiti d’usura, specifica per gli interessi di mora, giustificata dalla presenza dei presidi posti dall’art. 1384 c.c. e 1344 c.c. Né questa può essere dedotta dalla circostanza che gli interessi di mora non sono ricompresi nei costi rilevati per la determinazione del TEGM. Con lo stesso principio di omogeneità di confronto, senza che possa intervenire alcun altro presidio, risulterebbero esclusi dall’applicazione del 644 c.p. i crediti revocati, i crediti in sofferenza e le altre forme creditizie previste al punto B2 delle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia, che non vengono ricompresi nella determinazione del TEGM21. Ancor più, verrebbe vanificato il portato della legge 108/96 e l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 1815 c.c. 2° comma, per il periodo dal 1997 al 2010, per tutti i rapporti di credito concessi in conto, in cui l’applicazione della Commissione di Massimo Scoperto, non ricompresa nel TEGM, abbia condotto a debordi delle soglie. E infatti, l’ABF, con precedente pronuncia, aveva già escluso la CMS dalla verifica dell’usura, motivando: «è da rilevare che il Collegio non può condividere l’assunto che nel calcolo del tasso soglia rilevante ai

21 «Dalla rilevazione ministeriale del TEGM restano escluse tredici tipologie di operazioni (Sezione I – B2. Operazioni escluse): per es., posizioni classificate in sofferenza, operazioni a tasso agevolato, ecc.). Benché riconducibili alle categorie omogenee individuate negli appositi decreti annuali, esse sono escluse per ragioni facilmente intuibili (e giustificate) alla stregua della ratio sottesa a una soglia di usurarietà legata alle condizioni di mercato: come spiega la nota metodologica dei decreti ministeriali, ‘non sono incluse nella rilevazione alcune fattispecie di operazioni condotte a tassi che non riflettono le condizioni del mercato (ad es. operazioni a tassi agevolati in virtù di provvedimenti legislativi)’. A tali operazioni non potranno allora applicarsi le soglie dedotte dai decreti trimestrali per le diverse categorie cui sono riconducibili: lo preclude la logica prima ancora della legalità. Né le medesime soglie potranno essere utilizzate analogicamente, in quanto – a parte il divieto previsto dall’art. 14 disp. prel. C.c. (e 25, co. 2, Cost.) – proprio le ragioni che ne hanno determinato l’esclusione dalle relative categorie non consentono certo un’assimilazione a queste ultime ai fini dell’individuazione di una soglia (Cfr. anche Bellacosa, voce Usura, in Dig. disc. pen. vol. XV, Torino, 1999, p. 156)» (Capoti, Usura presunta nel credito bancario e usura della legalità penale, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2007, p. 631 ss.; Il delitto di usura ‘bancaria’, Università degli Studi di Padova, 2009).

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fini della normativa sull’usura si debbano includere anche gli oneri commissionali anche anteriormente alla entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 29 novembre 2008, n. 185. Sotto questo profilo il richiamo alla sentenza della Corte di Cassazione n. 12028/10 non appare pertinente atteso l’inequivoco tenore letterale della disposizione contenuta nell’art. 2- bis, comma 2, l. n. 2/2009, il quale fa decorrere tale inclusione dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.l. 29 novembre 2008, n. 185. Prima di allora, dunque, il calcolo dei tassi soglia non comprendeva quanto corrisposto a titolo di commissione di massimo scoperto»22. L’ABF nella decisione assunta si discosta significativamente dalle pronunce espresse dalla Cassazione pen. n. 12028/10 e n. 46669/11. Nella suddette sentenza n. 46669/11 si precisa: «La Banca d’Italia solo dall’agosto 2009, in applicazione di tale nuova normativa (d.l. 29/11/08, n. 185, art. 2 bis, co. 1, convertito dalla l. 28/1/09, n. 2) ha emanato le nuove istruzioni per la rilevazione dei tassi globali medi ai sensi della legge sull’usura, ricomprendendo nel calcolo delle varie voci la commissione di massimo scoperto, correggendo una prassi amministrativa difforme». Con ciò la Cassazione non intendeva certo disapplicare le soglie d’usura al periodo precedente il 2010. L’algoritmo impiegato nella valutazione del Tribunale di Palmi, riesaminata dalla Cassazione pen. 46669/11, utilizzava il criterio della CMS soglia, mentre l’algoritmo fatto proprio dal Gup di Ascoli Piceno nella sentenza esaminata dalla Cassazione pen. n. 12028/10 faceva riferimento alla ordinaria formula del TAEG, ricomprendendo nella stessa le CMS. In entrambe le sentenze non si è ritenuta inapplicabile alla fattispecie esaminata la soglia d’usura, né si è esclusa la CMS dalla verifica. La sentenza della Cassazione n. 46669/11 precisa: «anche la CMS deve essere tenuta in considerazione quale fattore potenzialmente produttivo di usura, essendo rilevanti ai fini della determinazione del tasso usurario, tutti gli oneri che l’utente sopporta in relazione all’utilizzo del credito, indipendentemente dalle istruzioni o direttive della Banca d’Italia». Il termine ‘indipendentemente’ lascia trasparire chiaramente la distinzione e separazione della ‘verifica’ dell’usura dalla ‘rilevazione’ statistica del tasso medio di mercato. Lo stesso principio di omogeneità potrebbe sostenersi per le spese di assicurazione e/o per gli altri oneri, prima esclusi e solo da ultimo

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Decisione n. 6111 del 27 novembre 2013, Collegio di Milano.


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ricompresi nel calcolo del TEGM con le ‘Istruzioni’ ’09, con un’indubbia vanificazione del presidio d’usura per il periodo sino a tutto il ‘09. Si disapplica l’art. 644 c.p., non perché manchi l’atto amministrativo di completamento della norma penale, ma perché il criterio di rilevazione del tasso medio di mercato, posto a base dello stesso atto amministrativo si discosta dal criterio di verifica dell’usura dell’art. 644 c.p.. Con questo principio la tassatività e determinatezza della norma viene ricondotta alle scelte discrezionali effettuate dalla Banca d’Italia con le ‘Istruzioni’ per la rilevazione del TEGM, con le FAQ di chiarimento e con la rilevazione a latere della mora. Fuori dai criteri di inclusione del calcolo del TEGM fissati dalla Banca d’Italia non vi sarebbe soglia, la norma risulterebbe inapplicabile per indeterminatezza del confronto. Il principio di omogeneità nei termini esposti condurrebbe a smantellare significativamente il presidio all’usura posto dalla legge: le vicende della CMS ne forniscono un’evidenza. Lo stesso principio di aderenza alle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia, per la verifica dell’usura, condurrebbe ad impiegare diversi metodi di calcolo del tasso, annualizzando gli oneri solo dal ‘10, disattendendo per i tredici anni precedenti il concetto di tasso effettivo, sancito dalla legge 108/96 e definito univocamente – dai Babilonesi ai giorni nostri – in ogni manuale di matematica23. Aspetto ancor più rilevante, una stretta applicazione del principio fissato dall’ABF lascerebbe inapplicabili le soglie d’usura alle diverse forme di finanziamento nelle quali non interviene l’intermediario bancario, ivi comprese quelle previste dalla legge 231/02: anche le forme criminali di usura, impiegando di norma modalità discoste dalle ordinarie categorie bancarie, risulterebbero prive della stretta simmetria con le soglie rivenienti dalla rilevazione della Banca d’Italia24.

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Nessuna edulcorazione del TEG è prevista dalla normativa francese alla quale si è ispirata la legge 108/96, risultando il calcolo effettuato con l’ordinaria formula del tasso effettivo di interesse, nel quale sono ricompresi tutti i costi relativi al credito, applicato all’importo effettivamente utilizzato e non a quello accordato inizialmente. Nella tabella dei tassi soglia, pubblicata dalla Banca di Francia si riporta espressamente: «Pour apprécier le caractère usuraire du taux effectiv global (TEG) d’un découvert en compte ou d’un pret permanent, le montant à prendre en considération est celui du crédit effectivement utilisé». 24 Per tali forme di finanziamento si fa, di regola, riferimento alla Categoria residuale degli ‘altri finanziamenti». In merito agli interessi di mora previsti dalla legge 231/02 per le transazioni commerciali, questi vengono parametrati al saggio di interesse del principale strumento di finanziamento della BCE, maggiorato di otto punti. La legge lascia altresì nella disponibilità delle parti di convenire un tasso di mora superiore. Per i limiti

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Assai labili appaiono le argomentazioni del Collegio a sostegno della stretta omogeneità fra criteri di rilevazione statistica ai fini del TEGM e criteri di verifica delle soglie d’usura. In una precedente decisione (n. 77/2014) il Collegio di Coordinamento aveva osservato che: «Rilevare periodicamente il livello medio dei tassi significa non solo ammettere che il tasso di interesse possa variare nel tempo, ma significa anche che il livello dei tassi di mercato non è mai predicabile come eccessivo, ingiusto o altro; in quanto viene assunto come il punto di equilibrio tra i prenditori e i prestatori di denaro quando operano in un mercato regolamentato ed in situazione di concorrenza.» (…) «Si deve quindi assumere che la finalità perseguita dalla normativa che considera l’usura un illecito – sia civile che penale – ma considera usurari solo i tassi che superano una data soglia variabile nel tempo e basata su rilevazioni di mercato, sia quella di evitare discriminazioni mediante le quali alcuni individui, o gruppi, accedono al credito a condizioni fortemente deteriori rispetto ad una media di mercato.» (…) «per arrivare al principio: «il criterio della soglia individuata di tempo in tempo mediante rilevazioni di mercato esige che i metodi di calcolo degli interessi convenzionali effettivi ed i metodi di rilevazione della media di mercato siano perfettamente coincidenti». Di riflesso, secondo il Collegio di Coordinamento dell’ABF, o vengono impiegati per la verifica del rispetto delle soglie d’usura i criteri che la Banca d’Italia ha discrezionalmente adottato per la rilevazione del valore medio di mercato, o rimane inapplicato il presidio all’usura. La specifica ed esclusiva argomentazione prospettata dal Collegio non appare reggere per la mora un vaglio di concretezza. Non risulta affatto dicotomica la distinzione fra interessi corrispettivi e interessi di mora. La Cassazione non ha previsto, come fatto per le CMS (Cass., n. 12028/10),

d’usura, facendo riferimento alla Categoria residuale degli ‘Altri finanziamenti’ alla quale tale tasso può essere raffrontato, il parametro di riferimento fissato dalla legge risulterà di regola inferiore e l’eventuale diversa pattuizione delle parti dovrà necessariamente rispettare i limiti dell’art. 644 c.p.. In presenza di un difetto di coordinamento fra le due norme, autorevole dottrina ritiene che: «in considerazione della natura imperativa delle norme in tema di usura, qualora il tasso di interesse stabilito dalle parti, in misura pari o addirittura inferiore a quello di cui all’art. 5 del D. Lgs. 231/02 fosse contrastante con la disciplina di cui alla legge n. 108 del 1996, non potrebbe non essere considerato illecito, sia sotto il profilo penalistico che sotto quello civilistico» (Pandolfini, Il nuovo tasso di interesse legale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (art. 5 d.lgs. n. 231/2002), in Giur. it., 2003).

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l’inclusione della mora nel TEG di rilevazione (Cass., n. 350/13), ma ne ha stabilito l’assoggettamento alle soglie ed ha precisato «che la legge n. 108 del 1996 ha individuato un unico criterio ai fini dell’accertamento del carattere usurario degli interessi (la formulazione dell’art. 1, 3° comma, ha valore assoluto in tal senso) e che nel sistema era già presente un principio di omogeneità di trattamento degli interessi, pur nella diversità di funzione, come emerge anche dall’art. 1224, 1° comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura». Per le finalità di presidio dell’usura, non ha alcun senso prevedere una specifica soglia d’usura per il costo del credito in una fase di patologia: non è questo lo spirito della legge che ha voluto ancorare all’ordinario tasso di mercato il margine entro il quale ricomprendere ogni forma di patologia; il costo di quest’ultima, nella sua ricorrenza eventuale, è già compreso, come rischio, nel diverso tasso corrispettivo richiesto dall’intermediario sulla base del merito di credito del prenditore. La presenza di una circostanza di patologia, alla quale è associato un incremento del rischio, viene riconosciuta anche dall’ABF (Collegio di coordinamento 19/3/14) che ricomprende nella maggiorazione del tasso di mora la funzione di copertura del maggior rischio in cui incorre il rapporto: «È anche da considerare la diversa intensità del rischio creditorio sottesa alla determinazione della misura degli interessi corrispettivi da un lato e degli interessi moratori dall’altro. Infatti la prima misura incorpora il presupposto della puntualità nei pagamenti dovuti, mentre la seconda incorpora l’incertezza relativa al momento della solutio, posto che il soddisfacimento delle ragioni creditorie non è più affidato alla fisiologica esecuzione del contratto, ma ai rimedi che assistono il creditore deluso, il quale può anche rimanere tale per sempre. Da ciò deriva la necessità logica di differenziare la misura dei due tipi di interessi». Anche in questa lettura tuttavia non si giustifica che, in caso di inadempimento, per il tasso preconcordato, remunerativo del maggior rischio di insolvenza, debba prevedersi una diversa e più elevata soglia d’usura. La legge prevede la rilevazione di un dato fisiologico di mercato: i costi che si discostano dall’ordinario sono da ricomprendere nello spread previsto dalla legge25.

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Mentre non appare conforme alla legge prevedere una soglia per l’eventualità estrema della mora, tanto più riferita ad un campionamento una tantum non contem-

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3. La verifica ex art. 644 c.p. e la rilevazione statistica del TEGM: il simulacro dell’omogeneità. L’art. 644 c.p. individua con precisione cosa ricomprendere nel valore dell’interesse da raffrontare con il limite di usura. Ai fini dell’usurarietà, il concetto di interesse si discosta dal senso ordinario e civilistico del termine, risultando assimilato al costo, onnicomprensivo di ogni forma di onere e spesa, a qualsiasi titolo, che accompagna l’erogazione del credito: l’unica eccezione prevista è data dalle imposte e tasse, da riversare all’Amministrazione finanziaria. La Banca d’Italia non può intervenire in alcun modo nella determinazione del tasso da porre in confronto con la soglia d’usura, non avendone la funzione, né le è stato attribuito alcunché dalla legge 108/96 che, anche per la rilevazione, demanda questo compito al MEF. Le legge dispone un procedimento per pervenire alla fissazione del tasso soglia che non prevede neanche l’automatica assunzione dei dati rilevati dalla Banca d’Italia: quest’ultima assolve una funzione semplicemente consultiva ed è previsto altresì anche un eventuale correttivo, riferito al tasso ufficiale di sconto, per pervenire all’indicazione del tasso soglia. Anche al MEF la legge n. 108/96 demanda esclusivamente la rilevazione trimestrale del tasso effettivo globale medio (TEGM) – comprensivo di commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse – riferito ad anno, degli interessi praticati

plato dalla norma, la Banca d’Italia potrebbe valorizzare la condizione di mora riportata frequentemente nei contratti. L’art. 644 c.p. prevede che «Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito». La presenza di una condizione sospensiva rappresenta un onere per il cliente che è valorizzabile alla stregua di un’opzione. Come per i finanziamenti in presenza di un cap o un floor la relativa valorizzazione entra nella determinazione del rendimento effettivo, così una valorizzazione della condizione di mora potrebbe essere ricompresa nel calcolo del TEGM, considerando la probabilità di insolvenza alla scadenza posta in rapporto alla penalizzazione che tale condizione comporta. Tale operazione presenta qualche complessità ma risulterebbe coerente con il disposto di legge risultando la mora una condizione frequente nei contratti bancari, la presenza della quale risulta a tutti gli effetti un onere. In tal modo tecnicamente la maggiorazione di mora entrerebbe nel calcolo del TEGM solo per la percentuale di ricorrenza statistica. In altri termini, se la probabilità di insolvenza alla scadenza, per una determinata classe di rischio, è pari al 10%, il valore della maggiorazione del 2,1 punti rilevata dalla Banca d’Italia nella rilevazione campionaria verrebbe ricompresa nel TEGM per 0,21 punti (rapportato al periodo del finanziamento).

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dalle banche e dagli intermediari. Nello spirito della legge si persegue l’individuazione del tasso fisiologico di mercato, costituito dalla media dei tassi ordinariamente impiegati dagli intermediari finanziari. Il legislatore ha ritenuto opportuno adottare un parametro di riferimento flessibile, sinergico ed endogeno al mercato degli stessi operatori tenuti al rispetto della soglia. Alla determinazione di tale valore sintetico di riferimento (TEGM) non possono concorrere tipologie di crediti e elementi di costo che, discostandosi dall’ordinario per motivi particolari o di patologia, altererebbero il «normale prezzo» del credito applicato alla clientela26. Per altro il concetto di ‘fotografia’, più volte richiamato dalla Cassazione, impone una metodologia di calcolo informata ad una chiara e trasparente oggettività. Dal tasso medio di mercato si diparte poi lo spread (25% più quattro punti, 50% prima del d.l. 70/11) entro il quale ricomprendere la remunerazione per i peculiari aspetti di patologia e rischio insiti nello specifico finanziamento: oltre la soglia si ritiene la criticità eccessiva e l’erogazione del credito inefficiente e usuraria27. Nella misura in cui il TEGM incorporasse elementi di patologia, diversi dall’ordinario margine di rischio di credito, indurrebbe una falsa rappresentazione del mercato e un’indebita lievitazione del tasso di riferimento. La patologia si differenzia dalla norma per il venir meno del carattere di ordinarietà: lo spread dal tasso medio di mercato praticato dall’intermediario esprime la misura del livello di maggior rischio assumibile. Nella fattispecie patologica entrano elementi ulteriori, non compresi nell’ordinario margine fisiologico: proprio la misura economica del maggior rischio, che nella verifica deve trovare spazio nello spread, consente di apprezzare lo scostamento dall’ordinario e la presenza o meno dell’usura. Ponendo all’interno del tasso medio di riferimento elementi di patologia, che fuoriescono dall’ordinario, si vanificherebbe il presidio all’usura, in quanto, anziché contenere i tassi anomali, limitandoli e tenendoli accostati a quelli ordinari di mercato, si verrebbe ad indurre un accostamento del tasso fisiologico a quello patologico.

26 In analogia a quando, ad esempio, per rilevare il colesterolo fisiologicamente presente nel sangue di una data popolazione, si escludono i soggetti affetti da particolare patologie, che possono alterare l’indicazione del valore medio fisiologico. 27 Anche entro la soglia, nel caso di abuso delle condizioni di difficoltà economica o finanziaria, ricorrendo le condizioni previste nella seconda parte del comma 3 dell’art. 644 c.p., si ha usura (concreta).

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Assai articolate risultano le Istruzioni, adottate dalla Banca d’Italia, per la rilevazione e calcolo dei tassi medi di mercato, rappresentativi delle condizioni vigenti nel trimestre di riferimento. La rilevazione circoscrive l’ambito di osservazione, per ciascuna Categoria, alle operazioni ordinarie e correnti del trimestre. Per gli oneri e le spese, il criterio adottato è quello di ricomprendere le spese ordinariamente ricorrenti nell’operazione e di escludere le spese e gli oneri connessi ad eventi di patologia del credito28. Taluni oneri (CMS, mora, spese di assicurazione ecc..) non sono stati inizialmente compresi nella rilevazione del TEGM in quanto sono stati ritenuti non ricorrenti ordinariamente nella formazione del prezzo del credito, ma questo non significa che non debbano essere ricompresi nella verifica del rispetto della soglia d’usura: detti oneri non sono avulsi dal credito e proprio su di essi si appunta spesso il debordo della soglia d’usura. Con le ‘Istruzioni’ del ‘09, la Banca d’Italia, oltre alla CMS, ha ricompreso nel calcolo del TEGM anche altre spese prima escluse: si può presumibilmente ritenere che tali spese prima applicate occasionalmente, sono divenute negli anni ‘00, come le CMS29, ricorrenti ordinariamente nelle operazioni di credito. La rilevazione del TEGM ha una finalità statistica sua propria, volta a cogliere un dato medio di mercato: le stesse ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia parlano di ‘obbligo di segnalazione per la rilevazione ai fini statistici’. I valori del TEG segnalati dalle banche che, adeguatamente aggregati, vanno a comporre il TEGM pubblicato trimestralmente dal MEF,

28 «Gli interessi di mora sono esclusi dalla rilevazione del TEG in quanto riferiti a situazioni di deterioramento del rapporto e a casi di inadempimento, che normalmente determinano un inasprimento delle condizioni economiche inizialmente applicate. L’eventuale inclusione degli interessi di mora nel TEG andrebbe ad innalzare le soglie applicabili ai rapporti «normali», lasciando margini per ingiustificati incrementi nell’onerosità del finanziamento» (Resoconto della consultazione sulla disciplina in materia di usura, Banca d’Italia, 2009). 29 Inizialmente l’incidenza dei costi indotti dalla CMS, limitata alla Categoria delle Aperture di credito, era modesta. Il dato censito dalla Banca d’Italia, nella rilevazione dei tassi ai fini della determinazione del TEGM rileva solo la lievitazione intervenuta nell’aliquota, non il livello di diffusione della sua applicazione: dalla Categoria delle Aperture di credito, si è estesa successivamente alle Categorie delle Anticipazioni e del Factoring. Dal ’96, anno per il quale non è noto il dato statistico, la CMS si è estesa sino all’84% dei rapporti di conto corrente nel dicembre ’08 (Banca d’Italia, Risultati della rilevazione sulle commissioni applicate dalle banche su affidamenti e scoperti di conto, 13 febbraio 2010).

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devono rispettare criteri e modalità di calcolo coerenti con tale finalità. La verifica del rispetto della soglia d’usura concerne una diversa finalità e un distinto processo di calcolo. La rilevazione statistica ricomprende l’operatività ordinaria, la verifica dell’usura ricomprende tutto, ordinario e patologico. I criteri di rilevazione statistica sono fissati dalla Banca d’Italia, quello di verifica è unico ed è fissato dalla legge. Sul piano tecnico-scientifico si possono elaborare più metodologie ed algoritmi per conseguire una corretta rilevazione del valore medio di mercato, in funzione dello scopo che la media stessa deve assolvere nel tempo, coerentemente con l’evoluzione del mercato30. Al contrario la rilevazione del costo del credito, nel chiaro ambito normativo disposto dall’art. 644 c.p., non lascia spazio a formule e criteri diversi da quelli indicati dalla norma. Vanno tenute distinte le finalità e i criteri indicati dal co. 4 dell’art. 644 c.p., dalle finalità e criteri metodologici indicati dalla Banca d’Italia nelle Istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo medio globale. D’altra parte il criterio stabilito dall’art. 644 c.p. non può essere soggetto alle modifiche e deroghe riportate nelle ‘Istruzioni’, date dalla Banca d’Italia agli intermediari finanziari per le segnalazioni statistiche dei TEG impiegati per la determinazione del tasso medio di mercato (TEGM). La Banca d’Italia, in più edizioni successive, ha rivisitato le ‘Istruzioni’, modificando le poste rientranti nel TEG impiegato nella determinazione del TEGM e aggiustando la formula di calcolo impiegata nella rilevazione, accompagnando in tal modo i mutamenti intervenuti nel tempo nella fisiologia del mercato31. Oltre all’ultimo intervento che, cogliendo lo spunto dalle indicazioni della legge n. 2/09, ha modificato sostanzialmente sia i criteri di inclusione che la metodologia di calcolo

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La Banca d’Italia, ad esempio, nell’aggregare i dati statistici rilevati presso gli intermediari finanziari, ha ritenuto di impiegare la media aritmetica semplice. La media aritmetica ponderata poteva costituire una corretta metodologia alternativa, che avrebbe maggiormente valorizzato l’importo relativo a ciascun credito, fornendo un valore medio di mercato tendenzialmente più basso, che avrebbe portato a calmierare in termini più incidenti gli importi di credito più bassi. 31 Dal ’96 ad oggi si sono succedute 9 versioni delle «Istruzioni per la rilevazione dei tassi di interesse ai fini della determinazione delle soglie d’usura», dal ’98 pubblicate anche nella Gazzetta Ufficiale: 30 settembre 1996, 1 luglio 1997, 21 aprile 1998, 1 ottobre 1998 (G.U. n. 228 del 30/9/98), 2 agosto 1999 (G.U. n. 196 del 21/8/99), 30 luglio 2001 (G.U. n. 195 del 23/8/01), 23 dicembre 2002 (G.U. n. 5 dell’8/1/03), 17 marzo 2006 (G.U. n. 74 del 29/3/06), 12 agosto 2009 (G.U. n. 200 del 29/8/09).

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del TEG32, nelle otto versioni precedenti sono state apportate variazioni e precisazioni agli oneri da considerare nel calcolo del TEG. La determinazione del valore medio fisiologico di mercato può ben comportare nel tempo delle modifiche nei criteri di rilevazione statistica per cogliere i mutamenti che intervengono nelle condizioni ordinariamente praticate dagli intermediari. Tali aggiustamenti non possono comportare modifica alcuna nei criteri di calcolo e di inclusione dei costi nel tasso impiegato per la verifica dell’usura: quest’ultimo, determinato dal principio disposto dall’art. 644 c.p., rimane immutato nel tempo, né tanto meno, essendo rimasto immutato il portato dell’art. 644 c.p., potrebbero rimanere altrettanto immutate le ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia. Non è trascurabile la circostanza che la rilevazione del TEG disposta dalle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia è rivolta sostanzialmente ad individuare il tasso medio praticato dal mercato, non necessariamente quello pattuito contrattualmente: «La rilevazione svolta dalla Banca d’Italia sui tassi effettivi globali medi distingue due tipologie di crediti: – per i finanziamenti a utilizzo flessibile sono rilevati i TEG praticati nel trimestre per tutti i conti in essere anche se si tratta di contratti stipulati in precedenza. Le forme tecniche che ricadono in questa fattispecie sono le aperture di credito in conto corrente, gli anticipi su crediti e sconto di portafoglio commerciale, il factoring e il credito revolving. – per i finanziamenti con un piano di ammortamento predefinito (credito personale, credito finalizzato, leasing, mutui, prestiti contro cessione del quinto e della pensione, altri finanziamenti) viene rilevato il TEG relativo ai nuovi contratti stipulati nel trimestre. Per questa tipologia di crediti la verifica sul rispetto delle soglie è compiuta solo al momento della stipula del contratto, in cui la misura degli interessi è stabilita»33. I due valori – tasso medio di mercato e tasso contrattualmente pattuito in contratto da sottoporre a verifica – ancora una volta, sono accostati, non coincidenti34. La verifica dell’usura riguarda sostanzialmente,

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Nelle ‘Istruzioni’ del ’09, oltre ad estendere le spese da includere nel TEG, la Banca d’Italia ha modificato anche la formula di calcolo, annualizzando anche le commissioni, oneri e spese, rimuovendo la vistosa anomalia della precedente formula, che aveva dato la stura, negli anni ‘00, ad una proliferazione di oneri e spese: addebiti per € 100, se imputati trimestralmente a titolo di oneri e spese incidevano nella formula per € 100, se imputati a titolo di interessi incidevano per € 400. 33 Comunicazione della Banca d’Italia 3 luglio 2013. 34 Per i finanziamenti ad utilizzo flessibile può, con l’esercizio dello ius variandi (art. 118 t.u.b.), al momento della comunicazione unilaterale, configurarsi una pattuizio-

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ancorché non esclusivamente, le condizioni pattuite contrattualmente35. L’offerta, per un’apertura di credito, di un tasso debordante la soglia d’usura non rientra nella segnalazione prevista dalle ‘Istruzioni’, che censisce i tassi praticati, non quelli offerti; se tale offerta trovasse applicazione nelle condizioni praticate non potrebbe rientrare nella (successiva) segnalazione per la determinazione della media di mercato: il sistema informatico dovrebbe rifiutare il dato, segnalando la distonia; se invece fosse, in fase applicativa, sottoposta a cimatura, la segnalazione risulterebbe regolare, ma si configurerebbe egualmente usura, in quanto riportata in contratto. L’apparente distonia fra quanto indicato nelle Istruzioni e quanto inequivocabilmente disposto dal 4° co. dell’art. 644 c.p. trova spiegazione nel diverso ruolo svolto dalla rilevazione statistica del tasso effettivo globale medio e dalla verifica del rispetto della soglia d’usura. Si possono condividere o non condividere la formula e i criteri che, nella funzione rimessale dalla legge 108/96, attraverso il MEF, sono stati impiegati dalla Banca d’Italia per la rilevazione del tasso effettivo medio globale di mercato (TEGM), ma non si possono confondere con questi i perentori, inequivocabili e assai più semplici termini di determinazione del tasso effettivo globale stabiliti dall’art. 644 c.p. La Banca d’Italia, nella discrezionalità tecnica che le deriva, attraverso il MEF, dalla legge 108/96, deve impiegare il modello di rilevazione statistica che meglio accosti la rilevazione del tasso medio di mercato al tasso previsto dall’art. 644 c.p. I criteri di rilevazione dovrebbero essere informati a principi di estrema oggettività e trasparenza per non inficiare il compito affidatole, tramite il MEF, dalla legge. Le scelte tecniche opera-

ne originaria che, a pena di nullità, soggiace al rispetto delle soglie d’usura. Ma l’esercizio dello ius variandi, anche se frequente, non è sistematico: i criteri che presiedono la rilevazione della Banca d’Italia si accostano ma non si sovrappongono ai criteri di verifica del rispetto della soglia d’usura. 35 «Perciò, il Ministero del Tesoro (ed ora dell’Economia e delle Finanze), incaricato dalla legge di ‘rilevare trimestralmente il tasso effettivo globale medio…, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche’ (art. 2, comma 1 l. n. 108/96), e per esso la Banca d’Italia, che si fa inviare i flussi elettronici dei dati delle banche operanti in Italia, avrebbe dovuto farsi inviare da queste ultime i tassi praticati in ogni trimestre soltanto per i rapporti di nuova accensione o per cui fosse intervenuta modifica contrattuale del tasso, perché – come già detto – non avrebbero dovuto rivestire importanza i tassi a loro tempo convenuti sui rapporti vecchi che, per definizione, non sono quelli ‘praticati nel trimestre’ di riferimento, ma quelli praticati in epoca antecedente.» (Tavormina, Banche e tassi usurari: il diritto rovesciato, in Contr., n. 1, 2014)

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te dalla Banca d’Italia appaiono, invece, pervase da significative carenze di oggettività, che, nell’equivoco fra rilevazione statistica e verifica, sono state rivolte a condizionare la rilevazione del TEGM ad esigenze di salvaguardia dei comportamenti degli intermediari, in una prospettiva più generale di gestione del credito. Ben si comprende che la Banca d’Italia sia protesa a rafforzare la stabilità dell’intermediario, oltre che a favorire il più ampio afflusso di credito all’impresa e al consumatore: quest’ultimo, tuttavia, potrebbe trovare limitazioni e razionamenti in situazioni e circostanze nelle quali le soglie d’usura impedissero un’adeguata copertura dei rischi assunti dall’intermediario. Rimane concettualmente distinta l’operazione di verifica del rispetto della soglia che ciascuna banca effettua sui tassi attivi applicati alla clientela, dall’operazione di rilevazione del TEG che la banca segnala trimestralmente alla Banca d’Italia, sulla base delle ‘Istruzioni’ da questa impartite per la rilevazione del TEGM. La prima non può che rimanere immutata, nelle modalità e poste da considerare, rimanendo vincolata al dettato dell’art. 644 c.p., la seconda deve necessariamente seguire i dettami della Banca d’Italia; quanto previsto dall’art. 3, co. 2, dei d.m. del MEF non può certo sovrapporsi e sostituirsi all’art. 644 c.p. I criteri di formazione dei due tassi risultano accostati, ma rimangono distinti e separati: non è stabilito dalla legge alcun criterio di omogeneità, né questa può semplicisticamente essere dedotta dalla circostanza che la legge 108/96 indica, per la rilevazione del TEGM, la stessa terminologia ‘commissioni, remunerazione a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse’, utilizzata per l’accertamento del tasso usurario. L’art. 1, co. 1, della legge 108/96 afferma: «Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito». L’art. 2 co. 1, afferma poi: «Il Ministro del Tesoro, sentiti la Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano dei Cambi, rileva trimestralmente il tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazione a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse». Il primo aggregato è riferito alla pattuizione contrattuale, il secondo aggregato è riferito all’ordinario uso di mercato. Le due distinte prospettazioni presentano notevoli ambiti di prossimità, che tuttavia non si risolvono in una piena identità. Non si può trascurare questa sostanziale differenza ed escludere, con l’ABF, ogni ‘piccola discrasia’ nei criteri di inclusione e di calcolo, per assicurare una ‘perfetta coincidenza’ con i criteri di rilevazione: questo assunto, quando non è un irriflesso pregiudizio, appare un’improponibile lettura che sottrae alla norma penale il

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presidio oggettivo per rimetterlo alla discrezionalità dell’Organo Amministrativo: «(…) il procedimento per la determinazione dei tassi soglia analiticamente descritto dal legislatore della riforma, esclude, per puntualità di riferimenti, qualsiasi elusione del principio di riserva di legge in materia penale, nulla essendo lasciato a scelte di opportunità o a valutazioni non fondate su rigorosi criteri tecnici: al contrario, è proprio la linea di ‘obiettivizzazione’ del fatto tipico che ora caratterizza la figura descritta dall’art. 644 cod. pen. a rendere la fattispecie senz’altro esente da quelle perplessità di insufficiente determinatezza che, in passato, erano state adombrate al suo riguardo»36. La formula e i criteri di inclusione forniti dalla Banca d’Italia nelle «Istruzioni» per la rilevazione del TEGM, congiuntamente alla presenza, a latere nei decreti ministeriali, di indicazioni per le CMS e per gli interessi di mora, hanno determinato confusione ed ambiguità, inducendo comportamenti non pienamente uniformi e coerenti con il dettato normativo. L’equivocità e confusione è stata sostanzialmente determinata dalla circostanza che i decreti del MEF – discostandosi dalla funzione loro assegnata dalla legge – hanno accostato i due concetti di tasso sopra esposti, riportando all’art. 3, co. 2: «Le banche e gli intermediari finanziari, al fine di verificare il rispetto del limite di cui all’art. 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996, n. 108, si attengono ai criteri di calcolo delle istruzioni per la rilevazione del tasso effettivo globale medio ai sensi della legge sull’usura emanate dalla Banca d’Italia». Con ciò prefigurando, per il principio di incorporazione della norma extra-penale nel precetto, un’apprezzabile discrasia: i menzionati ‘criteri di calcolo’, estesi ai ‘criteri di inclusione’ e trasposti dal processo di rilevazione statistica al processo di verifica, appaiono, per più aspetti, in conflitto con il dettato letterale dell’art. 644 c.p. L’art. 644 c.p. non può subire nove letture diverse a seconda dei cambiamenti disposti dalla Banca d’Italia per la rilevazione del tasso medio di mercato, che per altro risultano discostarsi apprezzabilmente dai termini ‘oggettivi’ assegnati dalla legge. Questo ha colto la Cassazione pen. n. 46669/11, che ha inviato un primo fermo segnale di ‘difformità’ riferito alle CMS, che potrebbe non rimanere isolato, risultando perpetrarsi interventi che esulano dagli stretti compiti oggettivi assegnati dalla legge 108/96 all’Organo Amministrativo.

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Cass. pen., 18 marzo 2003, n. 20148.

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La circostanza che i decreti del MEF, nel demandare alla Banca d’Italia la rilevazione del TEGM, prevedano all’art. 3 che le banche impieghino i criteri di calcolo del TEG, oltre che per la segnalazione ai fini del TEGM, anche per la propria verifica di rispetto della soglia d’usura – esteso dall’algoritmo di calcolo ai costi da ricomprendere nello stesso – viola il principio della riserva di legge in materia penale, esondando dagli aspetti compiutamente definiti nell’articolata struttura della legge 108/96. Costituisce una mirata e preordinata forzatura il passaggio logico, diffusamente sostenuto dalle parti interessate, di ritenere che, non essendo la mora compresa nella determinazione del TEGM, non debba neanche essere compresa nel calcolo del tasso per la verifica dell’usura, né si può richiamare a giustificazione un’imprescindibile esigenza di omogeneità di confronto, non prevista in alcun punto dalla legge. Il legislatore poteva, come in ordinamenti di altri paesi, riferire la soglia ad un parametro fisso, o all’Euribor o altro parametro del mercato finanziario: ha privilegiato un più stretto riferimento endogeno alle specifiche categorie di credito. Da qui far discendere che, così come la Banca d’Italia, nella discrezionalità tecnica che le compete, determina il parametro di riferimento (TEGM), nei medesimi termini vada curata altresì la verifica dell’usura, appare contraddire il principio di tassatività e determinatezza che l’ordinamento riconduce alla norma penale, la quale, nella sua formulazione, è chiara ed inequivocabile, sia nella modalità di calcolo (TAEG), sia nei criteri di inclusione37. La norma di cui all’art. 644 c.p. è una norma parzialmente in bianco in quanto per determinare il contenuto del precetto ha bisogno di un valore, la determinazione del TEGM, non certo i criteri di calcolo e di inclusione stabiliti dalla Banca d’Italia. Rilevato il TEGM e pubblicate le soglie, appaiono inconferenti le modalità di rilevazione: la norma penale è completata. Né tanto più si può riproporre per la mora l’analogo e specioso algoritmo di calcolo suggerito dalla Banca d’Italia per la CMS nella Circolare del 2/12/05, otto anni dopo il varo della legge, travisando sostanzialmente il portato dell’art. 644 c.p.38.

37 La legge 108/96 fa espresso riferimento al «tasso effettivo globale …. riferito ad anno» e la sua determinazione non è dissimile da quella prevista dall’art. 121 del t.u.b., che alla lettera m) prevede «tasso annuo effettivo globale o “TAEG” indica il costo totale del credito per il consumatore espresso in percentuale annua dell’importo totale del credito» (in quest’ultimo vengono ricomprese anche imposte e tasse, espressamente escluse dall’art. 644 c.p. 38 Da un’interrogazione del 20 dicembre 2006 (5-00529 Amendola e Fluvi), presso la

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Secondo lo schema suggerito dalla Banca d’Italia per le CMS, si veniva ad introdurre surrettiziamente, per una medesima operazione, oltre ad un tasso soglia, distinto per classi di importo e per Categoria, una Commissione soglia (valore medio indicato in decreto + 50%), rilevata con una metodologia del tutto singolare e senza distinzione alcuna di Categoria (importo, durata, rischio e garanzia)39.

VI Commissione permanente, si evince che la menzionata Circolare fu disposta a seguito di una richiesta del MEF – sollecitata a questo dall’ABI – di precisare, in una Circolare della Banca d’Italia, la metodologia di calcolo utilizzata per determinare la commissione di massimo scoperto soglia. Le indicazioni riportate nella Circolare, tuttavia, non sono state riprese in alcun decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze. «Appare assai singolare che, dopo otto anni dalla legge, palesandosi sempre più il rischio penale della precaria interpretazione escludente le CMS dal TEG, sia stata la Banca d’Italia ad essere invitata a fornire un’’interpretazione’ ad un precetto penale, coniugando impropriamente la parziale delega in bianco rimessa dalla legge all’organo amministrativo con il prestigio e la moral suasion che storicamente caratterizza l’Istituto Centrale. Con tali aspetti di contorno la Circolare prestava il fianco ad una solida protezione dal reato d’usura: pur riportando la CMS nell’alveo della verifica dell’usura – mutuando lo schema tecnico già proposto dall’ABI per la mora – ne edulcorava apprezzabilmente la portata, con la previsione della distinta soglia e del sistema di compensazione fra il margine di esubero della Commissione e il margine disponibile di interesse entro il limite di soglia. Risultando l’intervento del tutto estraneo al proprio ambito funzionale e non potendo assumere una veste dispositiva, veniva espresso come un’’indicazione’ dettata dall’esigenza di fornire una possibile soluzione interpretativa ai dubbi espressi dall’autorità giudiziaria e da altri organismi ma che tuttavia non era in ogni caso vincolante ai fini dell’interpretazione della legge 108/96. All’’indicazione’ dell’Istituto Centrale è seguita una generale acquiescenza da parte del sistema bancario che si è, per lo più, prontamente adeguato ai criteri suggeriti. Un analogo e sollecito adeguamento non si è riscontrato successivamente, quando il Governatore Draghi, nella Relazione annuale, ha espresso l’avviso: «Abbiamo già in passato richiamato l’attenzione sulla commissione di massimo scoperto, un istituto poco difendibile sul piano della trasparenza. Va sostituita, dove la natura del rapporto di credito lo richieda, con una commissione commisurata alla dimensione del fido accordato, come avviene in altri paesi. Una simile innovazione richiede un complesso adattamento della prassi delle banche. Essa però dovrebbe essere avviata con decisione, proponendo il cambiamento ai nuovi clienti, anche per evitare il rischio che la questione sia risolta con gli strumenti imperativi della legge.» (Cfr. Marcelli, Criteri e modalità di determinazione del tasso d’usura: ambiguità e contraddizioni, in assoctu.it). Non sono valse le ‘grida’ del Governatore: si è reso necessario il provvedimento legislativo n. 2/09 e quello successivo n. 214/11, per ricondurre ‘a regola’ comportamenti per lungo tempo difformi da fondamentali principi di trasparenza e causalità sanciti dall’ordinamento giuridico. 39 Le Istruzioni della Banca d’Italia prevedevano, sino al ‘09, che fosse «calcolata la media aritmetica semplice della percentuale della commissione di massimo scoperto, da

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Si è reso necessario attendere tredici anni prima che, con un intervento legislativo a chiarimento e tre successive sentenze della Suprema Corte (II Sez. Pen. n. 12028/10, II Sez. Pen. n. 28743/10, II Sez. Pen. n. 46669/11), si pervenisse a includere la CMS nel corretto rispetto dell’art. 644 c.p.40. Un’analoga intrusione surrettizia – connotata dalle

calcolare, con le modalità indicate al punto C5 (sul massimo scoperto), nei casi in cui essa è stata effettivamente applicata». In altri termini il valore della CMS – rilevato in un unico valore per le Categorie Apertura di credito, Anticipazione e Factoring – si riferiva ad un aggregato di operazioni diverso da quello impiegato per i rispettivi interessi, in quanto dal calcolo della media dell’aliquota delle Commissioni venivano escluse le operazioni della Categoria alle quali non era applicata la CMS. Se la CMS avesse assunto già nel ‘96 una veste fisiologica – ricorrente più diffusamente nelle operazioni di credito delle Categorie interessate – si sarebbe dovuto più correttamente ricomprendere nella media delle CMS tutte le operazioni, comprese quelle con CMS nulla, per non distorcere la finalità di rilevare il costo medio del credito. La media impiegata, invece, non indica il costo mediamente applicato alle Categorie interessate, bensì rileva un aspetto più particolare, cioè la CMS mediamente applicata alla sotto-Categoria delle operazioni alle quali è stata applicata la CMS, un indicatore di scarsa utilità pratica ed informativa nell’ambito della rilevazione del TEGM. Così rilevata, l’aliquota media della CMS può risultare apprezzabilmente più alta dell’effettiva incidenza media sul credito compreso nelle Categorie interessate, soprattutto se l’applicazione della CMS non è estesa ad un’ampia compagine di operazioni. Escludere dal calcolo della media le operazioni nelle quali la Commissione non viene addebitata risulta matematicamente del tutto equivalente a comprenderle con CMS pari alla media stessa. Di conseguenza, rispetto all’intera Categoria, la media così rilevata viene a sovrastimare l’incidenza della CMS. Per dirla con Trilussa: se su dieci soggetti, cinque mangiano un pollo e cinque non ne mangiano, per la statistica i soggetti censiti hanno mangiato mediamente mezzo pollo, per la Banca d’Italia hanno mangiato un pollo intero. La rilevazione del valore del TEGM sull’intero aggregato delle operazioni delle Categorie e la rilevazione, a parte, della CMS media, limitatamente al sotto-aggregato delle operazioni che presentano un valore positivo della CMS stessa, rende del tutto incoerente, dal punto di vista logico e tecnico, l’algoritmo di calcolo che verrà proposto successivamente con la Circolare del 2/12/05. Se la CMS e gli interessi non hanno la stessa base di riferimento, risultano prive di senso le forme di compensazione fra debordi della prima e margini dei secondi previste nella Circolare: avendo escluso le operazioni per le quali il costo della CMS è nullo, l’algoritmo proposto conduce ad un’impropria sopravvalutazione della soglia. 40 «Questa condotta equivoca e ingiustificata della Banca d’Italia e del Ministero del Tesoro, poi divenuto MEF, ha rappresentato per anni una palese violazione dell’art. 644 comma 4 c.p. e dell’art. 2 comma 1 della legge 108/96, leggi di rango primario, che non potevano essere derogate da atti amministrativi contenenti normativa di rango subordinato alla legge. Ha inoltre dato la stura a interpretazioni elusive del contenuto dispositivo del comma 3 dell’art. 644 c.p., oltre a giustificare in molti casi l’insussistenza del delitto di usura bancaria per mancanza dell’elemento psicologico del reato» (Cusani, La

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medesime incongruenze metodologiche – si vuole ora effettuare con la rilevazione campionaria della mora.

4. La mora e il rischio di credito. Appare opportuno approfondire le ragioni di coerenza logico-finanziaria che sottendono l’art. 644 c.p. e i principi di determinazione del tasso medio di mercato. La remunerazione del denaro assume, di regola, valori crescenti con il rischio dell’impiego41: l’intermediario interponendosi fra risparmiatore ed imprenditore si fa carico del rischio e della selezione delle imprese meritevoli di finanziamento. Risultando le risorse finanziarie limitate, queste vengono allocate privilegiando le iniziative più affidabili, suscettibili di conseguire risultati economici in grado di coprire compiutamente i fattori della produzione, ivi compresa la remunerazione del capitale impiegato. L’interesse percepito dall’intermediario, oltre ai costi del servizio, deve remunerare adeguatamente il risparmio raccolto e coprire i rischi assunti, così che i costi dei finanziamenti con esito negativo vengono di fatto spalmati proporzionalmente sui finanziamenti aventi un esito positivo42. La moderazione del costo è pertanto riposta in una corretta allo-

relazione Banca cliente, Roma, 2011). 41 Il rischio di credito è commisurato all’eventualità che la controparte contrattuale non onori gli obblighi di natura finanziaria causando una perdita per la controparte creditrice. Questa è l’eventualità estrema riferita al caso in cui il debitore si rende insolvente. Ma una perdita di valore della posizione creditoria può derivare anche da un deterioramento delle condizioni economico-finanziarie del debitore da cui dipende la capacità di far fronte agli impegni finanziari, pur non divenendo insolvente. In questo senso è ricompresa nel rischio di credito anche una variazione inattesa del valore del credito. Esistono quindi distinte gradualità del rischio di credito che ricomprendono sia l’eventualità in cui la perdita creditizia si manifesti con l’’insolvenza del debitore (default), sia il caso in cui la variazione del valore dell’esposizione derivi dal deterioramento del merito creditizio della controparte, rimanendo l’insolvenza un evento estremo. Il tasso di impiego, oltre ai costi del servizio comprensivi della remunerazione del capitale di vigilanza e del margine di profitto, è determinato secondo la nota formula: (1+i) = (1+r) x (1-PD) + PD x (1+r) x (1-LGD). Dove: i = tasso medio di raccolta; r = tasso di impiego; PD = probabilità di default; LGD= perdita in caso di default. 42 In generale una probabilità media di inadempienza intorno al 5% era ritenuta, prima dell’attuale crisi, alta: in tale circostanza, volendo assicurare il completo recupero di capitale, interessi e margine di intermediazione, si renderebbe opportuno un premio

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cazione del credito, in grado di discriminare efficientemente le iniziative economiche e massimizzare il rapporto rendimento/rischio. Si tende a privilegiare gli impieghi a minor rischio per i quali un minor interesse è sufficiente a coprire e stabilizzare i costi del servizio prestato. Nel mercato del credito i tassi praticati dagli intermediari si distribuiscono secondo il merito di credito assegnato al prenditore di fondi al momento dell’erogazione/rinnovo (finanziamenti a termine) o in via continuativa (finanziamenti a revoca). Al crescere del rischio del prenditore e/o dell’iniziativa finanziata crescerà il tasso richiesto. La legge pone un limite alla remunerazione del denaro, sia per evitare che il costo del denaro venga a comprimere eccessivamente la remunerazione degli altri fattori produttivi, sia per favorire l’allocazione delle risorse finanziarie verso impieghi meno rischiosi e più stabili, contemperando tuttavia l’esigenza di non precludere iniziative imprenditoriali che per la loro originalità ed innovazione comportano un rischio più alto del capitale impiegato nell’iniziativa stessa. In un libero mercato del credito limitazioni amministrative ai tassi del credito risulterebbero inefficienti e controproducenti sul piano del razionamento del credito43: le soglie d’usura risulterebbero ridondanti in quanto gli effetti virtuosi della concorrenza esplicherebbero autonomamente l’azione di calmierare il costo del credito, allineando efficientemente i tassi praticati ai costi e ai rischi stimati in una corretta classificazione del merito di credito, sospingendo ai margini gli intermediari meno efficienti.

al rischio di circa 5 – 6%. «Ma è soprattutto nei confronti dei clienti che, per l’assenza di fonti certe di reddito o di garanzie, presentano una più alta probabilità di non essere in grado di rimborsare il credito, che il meccanismo dei tassi soglia provoca effetti perversi. Quando la probabilità media di inadempienza di un portafoglio si colloca su livelli molto alti, ad esempio, del 5 per cento (un prestito ogni 20 non viene rimborsato), si è in presenza di un mercato che può funzionare in termini economici, ma che è di fatto messo al bando dalla legge 108. Il premio per il rischio che una banca dovrebbe applicare su 20 prestiti di durata annuale e di eguali dimensioni per recuperare la perdita totale del capitale e degli interessi su uno di essi è infatti di circa 6 punti percentuali; uno scostamento di 6 punti dalla media diventa illegittimo se il tasso medio scende sotto il 12 per cento» (Carosio, Vice direttore Generale della Banca d’Italia, intervento in Commissione permanente giustizia, sul tema Prevenzione dell’usura e evoluzione dei mercati creditizi, 27 marzo 2007). 43 Alternativamente e/o congiuntamente potrebbe risultare alterata la distribuzione dei tassi in funzione dell’affidabilità della clientela; i maggiori premi delle iniziative a più alto rischio, impediti dal vincolo della soglia, verrebbero ridistribuiti sui tassi delle rimanenti iniziative della classe.

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In presenza di vischiosità di mercato, forme di cartello e situazioni di oligopolio, che ostacolano la concorrenza, i tassi praticati dagli intermediari tendono a cogliere rendite di posizione, elevandosi oltre la copertura del rischio, sino ad erodere significativamente l’utilità marginale del prenditore di fondi. In assenza di una libera concorrenza, l’allocazione efficiente del credito viene significativamente compromessa. In tali circostanze la presenza di soglie d’usura limita l’aggressività opportunistica dell’intermediario che frequentemente è posto, nei confronti del prenditore dei fondi, in una posizione di dominanza. La soglia d’usura costituisce un valido presidio a tutela del consumatore e della miriade di micro- imprese per le quali il credito bancario costituisce l’unica alternativa di finanziamento. Per talune categorie di credito, meno esposte alla concorrenza, il tasso soglia rilevato trimestralmente – nella modalità endogena stabilita dalla legge 108/96 – può tuttavia assumere una funzione di riferimento per la fissazione dei tassi nel trimestre successivo, così da determinare una lievitazione del tasso soglia indotta unicamente dalla politica di accostamento dei tassi praticati a quelli soglia (échelle de perroquet)44. L’esperienza francese di rimozione parziale delle soglie non può essere sic et simpliciter trasposta in Italia: i margini di concorrenza presentano, in buona parte del mercato del credito nazionale, apprezzabili carenze. L’esperienza italiana mostra che, in assenza di un’efficiente concorrenza, la trasparenza e l’informazione rimangono armi spuntate: senza un rigido presidio normativo, si va incontro a fenomeni di abuso di posizione privilegiata e/o dominante. Per evitare un eccessivo effetto di razionamento del credito – derivante da una soglia che non consentirebbe una piena copertura delle iniziative più rischiose – a differenza della normativa francese, quella italiana ha previsto i limiti d’usura su un più ampio numero di categorie, prevedendo altresì uno spread più alto, al 50% del valore medio, innalzato ulteriormente nel maggio 2011 al 25% più quattro punti45 Ponendo

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Per contro, il sistema di parametrazione delle soglie ai valori di mercato ha in sé elementi di auto-equilibrio: un accumulo di operazioni accostate al limite di soglia – indicatore, in talune circostanze, di prossimità del razionamento del credito – più facilmente favorisce l’innalzamento della soglia stessa. L’effetto tuttavia risulta più modesto per tassi bassi e si attenua ulteriormente se la Categoria è meno omogenea e le differenze territoriali e settoriali disperdono i tassi all’interno della Categoria stessa. 45 Un tasso soglia unico per l’intero universo avrebbe richiesto uno spread sul tasso medio ben superiore, per non escludere forme diffuse di credito, inducendo un limite

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un limite alla remunerazione del denaro si vengono implicitamente ad escludere quelle iniziative il cui rischio, vuoi per la natura dell’impresa, vuoi per la precarietà dei fattori produttivi che intervengono, risulta eccessivo. L’intermediario potrà allocare le risorse raccolte selezionando le iniziative che gli consentono, entro il limite di remunerazione fissato dalla legge, di coprire adeguatamente costi, rischi e servizio prestato: lo spread sul tasso medio di mercato fissato dalle legge 108/96 rappresenta l’arco di maggior rischio assumibile rispetto ad un ordinario impiego della medesima Categoria di credito. La distribuzione dei tassi fra i vari prenditori assumerà forme diverse, in funzione della tipologia di credito, dell’eventuale presenza di garanzie, della fase ciclica del mercato, ecc. In un dato momento, per una determinata Categoria di credito, i prenditori di fondi si distribuiranno (numericamente) fra un valore minimo del tasso, collocato poco sopra l’Euribor/Eurirs (prossimo al costo della raccolta) ed un valore massimo del tasso, pari alla soglia d’usura. Il valore medio del tasso praticato suddivide i prenditori di fondi in due parti: una prima metà, alla quale viene concesso credito ad un tasso inferiore alla media ed una seconda metà alla quale viene concesso credito a tassi via via crescenti sopra il tasso medio sino al tasso soglia. Al valore medio del tasso corrisponde un merito di credito ordinario, il baricentro al quale fa riferimento la legge 108/96. Ciascuna classe di merito di credito dei prenditori di fondi viene dall’intermediario, per una medesima operazione, caricata di un tasso diverso, più alto o più basso del valore medio, in funzione del valore atteso degli insoluti della classe. Per i tassi superiori alla media, l’intermediario ha valutato una criticità del credito superiore, per la quale è necessario che il prenditore di fondi corrisponda una maggiorazione di interesse idonea a colmare le più frequenti ricorrenze di insolvenze che statisticamente presenta la classe di merito in cui è posto.

assai lasco per talune forme di credito e assai rigido per altre. La previsione di categorie (e classi di importo) omogenee, n. 25 al momento, ciascuna con un proprio tasso medio di riferimento, nel ridurre apprezzabilmente la dispersione intorno alla media, consente di comprendere entro lo spread disposto dalla legge 108/96 la fisiologica generalità delle operazioni della Categoria. Nel corso del 2010, prima dell’intervento modificativo operato dal legislatore con il d.l. n. 70/11, i tassi effettivi globali medi si distribuivano dal 2,68% per la Categoria dei mutui a tasso variabile, al 17,39% per le categorie del credito revolving, con un rapporto superiore a 1:6. Con l’allargamento dello spread, introdotto dal d.l. n. 70/11, i tassi più bassi sono lievitati sino ad oltre il doppio e il rapporto è sceso a 1:3.

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L’intermediario, all’atto dell’erogazione del credito, valuta il rischio che va ad assumere e questo rischio deve trovare completa copertura entro il margine di variazione, dal tasso di raccolta maggiorato dei costi, alla soglia prevista per la specifica Categoria di credito. I crediti con rischi implicanti un tasso superiore alla soglia risultano rigettati. Se poi il finanziamento concesso, successivamente all’erogazione, viene a deteriorarsi sino all’insolvenza, l’intermediario risulterà coperto dalla maggiorazione – applicata all’intero aggregato di creditori posti nella medesima classe – stimata congruente statisticamente con il rischio di insolvenza assegnato al prenditore di fondi. La legge 108/96, nel prevedere distinte soglie d’usura per categorie omogenee di credito, ha voluto prendere in considerazione il rischio oggettivamente presente in ciascuna tipologia di credito: nel mutuo ipotecario, ad esempio, il rischio si presenta assai inferiore alle aperture di credito e parallelamente la soglia d’usura risulta apprezzabilmente più bassa. Lo spread (25% + 4 punti) dal tasso ordinario è rivolto a coprire il maggior rischio che il cliente e/o l’iniziativa presenta rispetto al rischio di un’ordinaria operazione di credito della Categoria di riferimento. Risultano conseguentemente finanziabili le iniziative il cui rischio risulta coperto entro il limite del tasso soglia. Se, all’interno di ciascuna Categoria di credito si distinguesse la clientela e/o le iniziative nelle classi di rating A, B, C, prevedendo una specifica soglia d’usura per ciascuna classe, si aggirerebbe la norma alzando l’asticella dell’usura al crescere del rischio all’interno di una medesima categoria di credito. La distinzione di soglia può essere riferita alla natura oggettiva del rischio insito nella tipologia di credito, mai al rischio associato al cliente e/o all’iniziativa finanziata che, invece, deve essere compreso entro lo spread previsto dalla norma. È questo il fondamentale discrimine implicito nella ‘classificazione delle operazioni per categorie omogenee’, disposto dalla legge 108/96. La mora interviene in un momento successivo all’erogazione: a parte temporanei e modesti ritardi nei pagamenti, la mora è un significativo indicatore di deterioramento del credito. Porre la mora in una diversa Categoria, con limite di soglia più alto, equivale ad addossare, una seconda volta, sul prenditore di fondi le conseguenze di quel rischio che l’intermediario ha già valutato e spesato originariamente nel tasso corrispettivo richiesto. Separando dal credito ordinario il credito in mora e prevedendo per quest’ultimo un più alto tasso soglia si opera una distinzione che la legge non consente. Nel credito in mora non si configura una diversa Categoria di credito ma un credito che – salvo i casi di momentanee

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ed impreviste carenze di liquidità – si presenta deteriorato, in un momento successivo all’erogazione. Non si ravvisa alcuna natura oggettiva della tipologia di credito diversa dallo scadimento del merito di credito. L’obbligazione originatasi con il mutuo o con il finanziamento in conto è unica e alla stessa vanno congiuntamente riferiti i costi corrispettivi e moratori senza discriminazione alcuna fra la fase fisiologica e quella patologica. Alla mora non corrisponde alcuna erogazione, ma esclusivamente un cambiamento nel piano di rimborso, con un tasso diverso: si conviene, in altri termini, che il credito erogato possa seguire, entro i limiti e le modalità contrattualmente stabiliti, un piano di ammortamento più ampio nel tempo nel quale, per una parte o tutto il capitale erogato, ai tassi corrispettivi seguono i tassi di mora. La morosità alla scadenza non determina un nuovo credito, ma più semplicemente una modifica del piano di rientro, a condizioni modificate. Non è concepibile una soglia della mora distinta da quella del tasso corrispettivo: il credito è unico e, in caso di inadempimento, al tasso corrispettivo sul capitale ancora in scadenza si accompagna il tasso di mora sulle rate scadute il cui pagamento risulta differito nel tempo. Sotto questo aspetto, la penale insita nella maggiorazione del tasso di mora rispetto al tasso corrispettivo non è dissimile dalle spese di incasso e legali che vengono incluse nella verifica dell’usura. Per il limite d’usura la norma fa esplicito riferimento al tasso effettivo annuo (TAEG), riferito al credito erogato, riconoscendo implicitamente il computo di interessi su interessi nei finanziamenti al di sopra del breve termine, prassi ordinariamente impiegata sul mercato finanziario. È riconosciuto il computo, non il pagamento di interessi su interessi: nei mutui viene di regola indicato sia il tasso effettivo (TAEG), ricomprendente capitalizzazione, oneri e spese, sia il corrispondente tasso semplice (TAN), pagato alle singole scadenze, congiuntamente agli oneri e spese, ma è il tasso effettivo che deve essere comparato alla soglia d’usura. La legge non consente la previsione contrattuale di un tasso effettivo debordante la soglia, neanche in via eventuale; tutte le ipotesi contrattualmente previste devono soggiacere ai limiti di legge: diversamente si creerebbero agevoli canali di elusione. Non ha alcun senso il semplice confronto della mora con la soglia d’usura. Il tasso di mora costituisce un tasso semplice, riferito alla rata e/o al capitale scaduto, mentre quello che, al momento pattizio, occorre riferire alla soglia è il tasso effettivo annuo del credito erogato, sia nello scenario di pieno rispetto del piano di ammortamento convenuto, sia in ogni possibile scenario alternativo nel quale – a seguito dell’inadempimento ad una o più scadenze, con l’applicazione del maggiore interesse

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di mora e il mutamento nel piano di rimborso – si modifica conseguentemente il tasso effettivo annuo del credito erogato46. Nella circostanza indicata, il tasso effettivo annuo risultante dai ritardati pagamenti sarà la combinazione ponderata dei tassi corrispettivi e tassi di mora convenuti. Si può mostrare che la mora, che si cumula nel tempo in capitalizzazione semplice, entro margini dipendenti dal tasso corrispettivo, della durata del finanziamento e dalla modalità di ammortamento, può ben estendersi moderatamente oltre il tasso soglia senza pregiudicare il fermo presidio della soglia d’usura, posto al rendimento effettivo del credito concesso, comprensivo sia degli interessi corrispettivi sia degli eventuali interessi moratori nei quali può incorrere il mutuatario nel piano di rimborso del finanziamento ricevuto47. Nel contratto si prevede un tasso diverso e alternativo per differenti ipotesi, fissando una misura dell’interesse più elevata ove il rapporto entri in una condizione di patologia, cioè il mutuatario, non risultando in condizioni di rispettare i termini contrattuali, apporti implicitamente una modifica al piano di ammortamento, alla quale corrisponde un innalzamento del rendimento effettivo riconosciuto al mutuante sul credito originariamente erogato. Risulta incongruente prevedere, per il credito originariamente erogato, prima l’ordinaria soglia della Categoria di appartenenza del credito e successivamente una soglia più elevata al verificarsi della patologia, anziché ricomprendere quest’ultima nello spread connesso al valore medio relativo alla Categoria di riferimento: si pretenderebbe misurare un tasso medio della patologia sul quale stabilire un limite d’usura più elevato in un momento successivo all’erogazione. In presenza di morosità alla scadenza, di riflesso al maggior rischio emerso nel mancato pagamento verrebbe alzata l’asticella di riferimento e il tasso risulterebbe significativamente innalzato proprio quando il prenditore, in difficoltà economico-finanziarie, non dispone di liquidità né di finanziamenti alternativi. Lo spread dal tasso medio di mercato rilevato dalla Banca d’Italia,

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Considerato che nel tasso effettivo si vengono sostanzialmente a fondere sia il tasso corrispettivo che quello moratorio, non vi è dubbio alcuno che, più che l’ordinanza del Tribunale di Milano (Cosentini, 28 gennaio 2014, in Ex Parte Creditoris) che limita la nullità conseguente all’usura alla clausola moratoria, appare corretta la pronuncia di App. Venezia (sez. III civ., Pres. Silvestre, 18 febbraio 2013, n. 342) che fa discendere dall’usurarietà degli interessi la nullità e, tout court, la non debenza di alcun interesse, sia esso corrispettivo che moratorio. 47 Cfr. Marcelli, La mora e l’usura: criteri di calcolo, 2014, in www.assoctu.it.

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nello spirito della legge, è volto a coprire ogni componente di patologia del rapporto creditizio. L’intermediario bancario, con il tasso medio copre i costi di raccolta, struttura, organizzazione e il rischio ordinario del credito, oltre al margine di profitto; con il differenziale fra il valore medio del tasso fisiologico e il margine superiore della soglia d’usura può compiutamente ammortizzare i rischi eccedenti l’ordinario, le relative sofferenze, con i nocumenti che da queste statisticamente derivano, stimati all’atto dell’erogazione. Il legislatore, nel ricomprendere entro la soglia d’usura gli interessi, commissioni e spese inerenti al credito, a qualunque titolo percepiti, non ha necessariamente disconosciuto la diversa funzione degli interessi di mora e degli interessi corrispettivi, né ha inteso precludere una penale nel caso di mancato pagamento. Ha voluto invece porre, all’atto dell’erogazione, un limite superiore perentorio, entro il quale ricomprendere tutti i costi del credito, relativi ad ogni criticità e/o patologia presente e eventuale. In questo si qualifica il presidio all’usura. Se il tasso praticato dall’intermediario si colloca nell’intorno del valore medio di mercato, vi sono ampi margini per una maggiorazione della mora48. Se, invece, il tasso praticato si colloca a ridosso della soglia d’usura, già sconta il rischio di insoluto alla scadenza; l’intermediario non incontra ulteriori costi oltre quelli il cui rischio è già statisticamente coperto dal tasso corrispettivo più elevato. Nulla impedisce all’intermediario di limitare le iniziative finanziate entro un tasso corrispettivo che consenta altresì un’adeguata mora a presidio di comportamenti opportunistici di inadempimento alla scadenza. La soglia d’usura – ancor più nel valore ampliato dal d.l. 13 maggio 2011 n. 70, convertito nella legge 106/11 – si colloca su un limite apprezzabilmente discosto dal valore medio, che rappresenta appunto l’interesse usualmente richiesto dal mercato. Ricomprendendo la penale della mora nel limite di soglia, si rimette all’intermediario la gestione completa dello spread da aggiungere al valore medio rilevato, così che possa nella sua discrezionalità stabilire – con riferimento al margine necessario a coprire il maggior rischio di credito – quanto ricomprendere nel tasso corrispettivo e quanto porre a deterrente di facili comportamenti di inadempimento. Se sceglie di applicare un tasso corrispettivo a

48 È sempre più frequente nei contratti di finanziamento la previsione di un tasso mora pari alla soglia d’usura, che si pone a ben quattro punti più il 25% sopra il tasso medio di mercato.

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ridosso della soglia, già sconta la maggiore eventualità che alla scadenza il pagamento non venga onorato: il danno eventuale è già compreso statisticamente nel maggior tasso corrispettivo richiesto. D’altra parte l’evento di morosità, quando non è imputabile ad occasionalità a priori imprevedibili, è riconducibile ad una valutazione fallace dei flussi di cassa da parte del cliente ma deriva altresì da una concessione di credito basata su una fallace istruttoria dell’intermediario, che ha stimato attendibile e capiente il business plan del cliente. Se l’intermediario ha correttamente esperito la valutazione del merito di credito, il connesso rischio di insolvenza e il corrispondente tasso di copertura, la percentuale di inadempimenti a cui va incontro non apporta un danno ulteriore oltre quello previsto nel tasso corrispettivo. La mora ha una funzione di deterrenza e il beneficio economico che ne deriva all’intermediario – eventuale solo nel singolo caso, ma statisticamente stimabile nella globalità della clientela – integra la copertura del rischio precedentemente stabilito, facendo lievitare più rapidamente il costo del credito nel caso in cui l’insolvenza si protragga49. Salvo le occasionali e momentanee carenze di liquidità, la mora interviene più incisivamente in uno stato di patologia che, se protratto a lungo, pregiudica la stessa possibilità di recupero dell’equilibrio economico-finanziario. Prevedendo un’apposita Categoria per il credito in mora, con una soglia più alta, si tradisce lo spirito della norma alzando l’asticella del confronto e realizzando lo stesso effetto di un allargamento dello spread. Per altro, si favorirebbe un meccanismo di lievitazione del tasso oltre l’ordinaria soglia proprio quando, in presenza di uno stato di difficoltà finanziaria, la dominanza dell’intermediario diviene massima, non avendo l’operatore economico altra scelta che subire la condizione sospensiva prevista nel contratto di adesione sottoscritto inizialmente. Creando una Categoria surrettizia per la mora, risulterebbe agevolmente favorita, ancor più di quanto sperimentato con le CMS50, una serie di successivi rialzi del relativo tasso medio e di riflesso del tasso soglia (échelle de perroquet).

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Poiché la condizione contrattuale di mora è un onere, seppur eventuale, posto a carico del cliente, una sua valorizzazione potrebbe essere ricompresa nella rilevazione del TEGM (cfr. nota n. 23). 50 La CMS rilevata dalla Banca d’Italia, in presenza di tassi flettenti, è lievitata da un minimo di 0,615 del ’98 ad un massimo di 1,26 nel ’05.

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L’aggregato dei costi da inserire nella verifica dell’usura deve esaustivamente ricomprendere ogni onere sopportato per l’erogazione del credito, fisiologico e patologico, salvo le imposte e tasse. Va da sé che un rigido criterio di equiparazione, nella formula e nel contenuto, alla metodologia impiegata dalla Banca d’Italia per la rilevazione dei valori medi di mercato conduce inevitabilmente a travisare i dettami e le finalità perseguite dalla legge n. 108/9651

51 «Ovviamente, rilevato che l’individuazione di ciò che deve essere incluso nella determinazione del tasso soglia discende direttamente dalla legge (art. 644 c.p.), non può che rilevarsi l’irrilevanza – ai fini della decisione in merito al superamento del tasso soglia – del cambiamento delle istruzioni della Banca d’Italia, le quali – in effetti – devono essere considerate meramente esplicative del dettato normativo (che nel corso degli ultimi 3-4 anni non è minimamente cambiato), di tal che alle stesse non è certamente consentito di apporvi deroghe, ed analoghe considerazioni devono svolgersi con riferimento alle norme transitorie emanate. A voler intendere diversamente (e quindi a volere attribuire alla Banca d’Italia il potere discrezionale di decidere quale onere debba essere conteggiato e quale meno), infatti, si dovrebbe concludere che la Banca d’Italia svolge non un ruolo meramente tecnico nell’ausilio al Ministero del Tesoro nell’individuazione del tasso soglia come delineato dal legislatore, ma un ruolo in senso lato politico e prelegislativo, con annesso potere di determinare addirittura quando (con il mutamento delle istruzioni e con la disciplina transitoria introdotta) la stessa condotta possa essere considerata illecita, il che – anche in considerazione – del principio di legalità e di riserva di legge che informano la materia penalistica, non è ammissibile. Infatti, a tal riguardo era stato precedentemente detto che ‘in materia di usura, l’eccezione di incostituzionalità sollevata in relazione al combinato disposto dell’art. 644, comma 3, c.p. e dell’art. 2 della L. 7 marzo 1996, n. 108 per contrasto con l’art. 25 Cost., sotto il profilo che le predette norme, nel rimettere ad organi amministrativi la determinazione del ‘tasso soglia’, oltre il quale si configura uno degli elementi soggettivi del delitto di usura, violerebbe il principio della riserva di legge in materia penale, è manifestamente infondata (La Corte ha affermato che il principio della riserva di legge non viene violata dato che la citata legge indica in modo analitico il procedimento da seguire per determinare i tassi soglia, affidando al Ministero del Tesoro solo il limitato compito di ‘fotografare’ l’andamento dei tassi finanziari, secondo rigorosi criteri tecnici)’ (Cass. Pen. Sez. II, 18/3/03, n. 20148). Ne consegue, pertanto, che, almeno al fine dell’individuazione dell’elemento oggettivo del reato d’usura, le Istruzioni della Banca d’Italia non assumono carattere vincolante per il giudice, il quale conserva sempre il potere di sindacare la correttezza e la conformità delle predette istruzioni al dettato legislativo, istruzioni che del resto assolvono fondamentalmente alla più limitata funzione di fornire dei dati statistici al Ministero del Tesoro sulla base di comunicazioni omogenee ricevute dagli operatori creditizi, e nulla più». (Trib. Alba, sez. I, 15 dicembre 2010 n. 660, cons. Martinat). Ciò che discende dalla legge (art. 644 c.p.) è ciò che deve essere incluso nel tasso di interesse (per la verifica del rispetto), non ciò che deve essere incluso nel tasso soglia: il riferimento riportato in sentenza è presumibilmente dovuto ad un refuso.

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Le posizioni espresse dalla Banca d’Italia e dall’ABF in merito ad una imprescindibile omogeneità e simmetria fra i criteri di rilevazione e di verifica dell’usura palesano una rigida stereotipia52. Con la prospettata omogeneità dei diversi principi di calcolo e di inclusione, si verrebbe illegittimamente a traslare la tassatività dell’art. 644 c.p. nella tassatività delle ‘Istruzioni’ impiegate dalla Banca d’Italia per la rilevazione del tasso medio di mercato. La norma non riserva affatto «compiti ‘creativi’ alla pubblica amministrazione, affidando a questa margini di discrezionalità che invaderebbero direttamente l’area penale riservata alla legge ordinario»53; non lascia margini, né nei criteri di calcolo che non abbisognano di alcuna definizione in quanto di comune impiego in materia finanziaria, né nei criteri di inclusione per i quali il principio stabilito dall’art. 644 c.p. rimane chiaro ed ineludibile. Per altro – come rileva De Poli54 – il TEGM indicato dal MEF, una volta che sia fatto oggetto di pubblicazione nella G.U., costituisce pienamente ed esclusivamente il necessario ed unico tertium comparationis per il giudice, posto che, ai sensi della l. 108/96, art. 2 co. 4, «il limite previsto dal comma 3 dell’art. 644 c.p., oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, è stabilito nel tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella G.U. ai sensi del comma 1 relativamente alle categorie di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà» (ora aumentato di un quarto, cui si aggiunge un margine di ulteriori quattro punti percentuali). Di riflesso «il giudice deve considerare quale misura di riferimento al fine di valutare l’usurarietà dell’agire bancario solo il TEGM, non essendo autorizzato ad effettuare altri confronti».

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«Le decisioni dell’Arbitro hanno difeso l’orientamento assunto dalla Vigilanza in materia. Qualche volta anche a ‘oltranza’, se così si può dire. È il caso del Collegio Napoli, n. 1364/2010 (massimata in n. 1.10.20), la quale ha tenuto ad affermare, da un lato, che le imprese non possono non conformarsi alle indicazioni della Vigilanza; dall’altro, che occorre seguire le indicazioni della medesima perché, altrimenti, si finisce con il comparare dati non omogenei. Entrambi i rilievi si manifestano alquanto avventurosi. In effetti, la Banca d’Italia non potrebbe vietare alle banche di tenere comportamenti più prudenti delle sue indicazioni, né risulta, del resto, che lo abbia fatto. Quanto al confronto tra dati non omogenei, la petizione di principio del ragionamento della decisione si mostra evidente: in effetti, la decisione proprio non spiega la ragione per cui il dato ‘zoppo’ dovrebbe essere quello della legge e non già quello della Banca d’Italia.» (Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013). 53 Cass. pen., 18 marzo 2003, n. 20148. 54 Costo del denaro, commissioni di massimo scoperto ed usura, in Nuova giur. civ. comm., 2008, p. 53.

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I calcoli e i criteri di determinazione del TEGM rimangono fuori dalla pubblicazione delle soglie: il valore del TEGM, una volta pubblicato nel decreto ministeriale, acquisisce una sua autonomia, realizzando il completamento della norma penale. Tale aspetto viene ripreso e sviluppato in una recente sentenza della Corte d’Appello di Torino: «Per chiarezza, va innanzitutto evidenziato che le Istruzioni della Banca d’Italia, di cui si discute nella presente causa, non sono dettate al fine di indicare in generale come debba essere conteggiato il TEG, ossia il tasso effettivo globale applicato dalla banca sulla singola operazione con il cliente, ma sono rivolte alle banche e agli operatori finanziari per rilevare il TEGM, ossia il tasso effettivo globale medio applicato per operazioni omogenee in un determinato periodo, sulla base del quale il competente Ministero dell’Economia e delle Finanze emana trimestralmente un decreto nel quale indica appunto il TEGM e il conseguente tasso soglia ai fini dell’usura.». La Corte – che nella circostanza era stata chiamata a valutare l’inclusione della polizza assicurativa nel calcolo del TEG55, ritenuta non corretta in quanto elemento di disomogeneità con la determinazione del TEGM – ha osservato: «va rilevato che la usurarietà o meno di un TEG, da effettuarsi mediante il procedimento di comparazione con il tasso soglia di cui al D.M. relativo al periodo interessato, è strettamente ancorata ad un parametro di natura oggettiva, costituito appunto da quanto pubblicato con D.M. sulla Gazzetta Ufficiale; in altre parole la norma integratrice della fattispecie penale di cui all’art. 644 c.p., con riflessi anche civilistici, è costituita dall’art. 2 della L. 108/96 e quest’ultima

55 Anche per le spese relative a forme di assicurazione che accompagnano l’erogazione del credito, serie perplessità insorgono nel criterio di inclusione indicato dalla Banca d’Italia. Nelle Nota Metodologica di accompagno al d.m. 24 dicembre 2009 e nelle FAQ si indica un criterio di calcolo che appare finanziariamente scorretto. In particolare nella FAQ del novembre 2010 alla domanda: «Per i contratti di leasing, in considerazione della difficoltà di stima degli oneri assicurativi per furto ed incendio relativi all’intera durata del contratto, è stato stabilito che il calcolo del TEG debba tenere conto unicamente del premio assicurativo noto relativo al primo anno (cfr. Nota Metodologica allegata al DM del 24/12/09). Tale disposizione è applicabile anche a finanziamenti diversi dal leasing che prevedano il pagamento di premi assicurativi con cadenza periodica?» si è fornita la risposta: «Si, anche per le altre categorie di finanziamento va incluso nel TEG il premio assicurativo per furto e incendio relativo unicamente al primo anno (ad esempio in caso di polizza su auto acquistata tramite credito finalizzato o di polizza incendio per un immobile acquistato tramite mutuo)». Se l’impegno alla copertura assicurativa è esteso all’intero periodo del contratto di finanziamento, la difficoltà di stima dei futuri premi annuali di assicurazione non sembra una ragionevole motivazione per escluderli.

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fa esclusivo riferimento al dato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale per il periodo di riferimento a cura del Ministero. (…) il procedimento per pervenire alla fissazione del tasso soglia trimestrale con D.M. del Tesoro, non prevede l’automatica assunzione dei dati rilevati dalla Banca d’Italia, la quale ha funzione semplicemente consultiva al pari dell’U.I.C., ed inoltre stabilisce anche un correttivo, riferito al tasso ufficiale di sconto, per pervenire alla indicazione del tasso soglia. Non può dunque effettuarsi una automatica equiparazione fra le risultanze delle rilevazioni della Banca d’Italia e il TEGM, sia dal punto di vista formale, atteso che quest’ultimo è stabilito con D.M. del Tesoro solo ‘sentita la Banca d’Italia’, sia dal punto di vista sostanziale perché la norma prevede comunque ipotesi di correttivi da apportarsi dal ministero competente. Non può quindi ritenersi corretto il rilievo dell’appellante circa il fatto che la comparazione, ai fini dell’accertamento del superamento del tasso soglia, debba essere effettuata fra il TEG e il TEGM rilevato dalla Banca d’Italia; la comparazione va invece condotta fra il TEG e il tasso soglia fissato per il periodo indicato con D.M. pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, alla cui determinazione certo concorrono le rilevazioni della Banca d’Italia ma che non costituiscono esse stesse il ‘secondo termine di paragone’, con conseguente irrilevanza del loro eventuale illegittimo procedimento di formazione.» La sentenza conclude: «In ogni caso l’integrazione dell’art. 644 c.p. – norma penale in bianco – non viene effettuata certamente, ai sensi della L. 108/1996, dalle Istruzioni della Banca d’Italia via via emanate nel tempo ma, per il tramite dell’art. 2 della citata legge, dalla rilevazione pubblicata trimestralmente sulla Gazzetta Ufficiale con D.M. del Ministero del Tesoro56». Risulta pretestuoso sollevare un principio di non contraddizione per pretendere la perfetta omogeneità dei criteri di verifica con i criteri di rilevazione del TEGM. Le voci di costo non incluse nella rilevazione rimangono ‘spesate’ entro il margine consentito dalla legge (25% + 4 punti). In tal senso, entro tale margine vanno ricomprese le CMS sino al provvedimento legislativo che ne ha obbligato l’inclusione tra i costi oggetto della rilevazione della Banca d’Italia: in termini analoghi vanno intesi gli altri costi – in primis le spese di assicurazione – prima escluse e poi incluse nelle ultime ‘Istruzioni’ del 2009.

56 App. Torino, 20 dicembre 2013, Rel.: La Marca, Pres.: Grimaldi; Cfr. anche Trib. Pordenone, 7 marzo 2012, Toffolo, in il caso.it; Trib. Ferrara, 6 agosto 2012, n. 1040, Sangiuolo; Trib. Taranto, 25 ottobre 2012, Coccioli e da ultimo Trib. Padova, 14 marzo 2014, Bellavitis, in dirittobancario.it.

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Certamente motivi di equità e contiguità concettuale suggeriscono un accostamento del TEG impiegato per la rilevazione statistica del tasso medio di sistema (TEGM) al tasso impiegato per l’applicazione dell’art. 644 c.p., non certamente il viceversa. Non è previsto alcun criterio di omogeneità, che risulterebbe impraticabile oltre che illogico, non potendosi condizionare le finalità dell’art. 644 c.p. alle finalità di rilevazione del TEGM. Né la rilevazione campionaria del ’01 sugli interessi di mora può essere intesa come un’integrazione per ricondurre i criteri tecnici di verifica a quelli di rilevazione statistica, trascurando che i primi, quelli di verifica, ubbidiscono ai principi fissati dall’art. 644 c.p. e spetta eventualmente ai secondi omogenizzarsi ai primi: il viceversa configurerebbe un ulteriore aspetto di gestione dell’usura che la riserva di legge non consente57. Occorre tenere separati i due criteri, funzionali a obiettivi accostati ma non sovrapponibili, senza pretese di assoluta omogeneità che non trovano ragione nella natura delle diverse finalità perseguite; l’intermediario può darsi criteri funzionali e coerenti con l’art. 644 c.p. nel rispetto delle soglie vigenti, rimanendo al tempo stesso ligio alle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia nella segnalazione dei tassi per la rilevazione del valore medio di mercato (TEGM). È una falsa immagine il letto di Procuste che gli intermediari avanzano nel prospettare l’obbligo di soggiacere alle disposizioni impartite dall’Organo di Vigilanza. Non si tratta di discostarsi

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«Non sembra lecito desumere che debba essere esteso agli interessi moratori, per i quali è stata effettuata solo un’indagine ‘statistica’, lo stesso criterio stabilito per i corrispettivi dalla legge, che ha espressamente previsto di aumentare della metà i tassi medi risultanti dall’ultima rilevazione pubblicata nella gazzetta ufficiale. L’applicazione analogica, al di fuori di un’espressa statuizione di legge, farebbe si che l’individuazione del limite oltre il quale dovrebbe essere ritenuto sempre sussistere il reato, sarebbe rimessa a una semplice rilevazione, condotta per finalità dichiaratamente diverse e certo inidonee a riempire di contenuto la fattispecie delittuosa dell’usura riguardo agli interessi di mora. Infatti, le rilevazioni debbono avvenire con cadenza trimestrale per la conseguente pubblicazione nella gazzetta ufficiale, affinché ai contratti che saranno stipulati nel trimestre successivo siano applicati tassi d’interesse nel rispetto dei limiti vigenti. Tutto ciò non avviene per la rilevazione ‘una tantum’ effettuata per i moratori, che, dunque, non sono oggetto di adeguamento nel tempo. Inoltre, si ricorda che differente è il campione delle operazioni prese in esame: la base di calcolo dei dati da segnalare è costituita, infatti, da tutti i rapporti ‘intrattenuti’, riguardo alle aperture di credito in conto corrente, ai finanziamenti per anticipi su crediti, documenti e sconto di portafoglio commerciale, al credito revolving e al factoring; invece, per le altre operazioni – segnatamente per i mutui – si tiene conto solo dei nuovi rapporti ‘accesi’ nel trimestre di riferimento» (Cervini, Profili civilistici dell’usura e interessi di moratori, in I contratti bancari, a cura di Bianca, cit.).

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dalle direttive dell’Organo di Vigilanza, alle quali fa riferimento l’art. 3, co. 2 dei Decreti ministeriali di pubblicazione delle soglie d’usura. Nulla impedisce all’intermediario finanziario di adottare una politica dei prezzi del credito coerente con i limiti impliciti nelle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia che al tempo stesso rispetti il più stringente dettato dell’art. 644 c.p.. Non vi è chi non possa notare, nel chiarimento della Banca d’Italia in materia di tassi di mora, un’apprezzabile discrasia fra quanto riportato nello stesso e quanto stabilito dalla norma di legge e dalle pronunce in materia espresse dalla Cassazione58. Come già accennato anche l’ABF ha disconosciuto la validità dei criteri prospettati dalla Banca d’Italia59. La posizione assunta dalla Banca d’Italia

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«La sussistenza di una disparità di vedute tra la Cassazione e le Autorità di vigilanza non è certo una novità - né in sé, né tanto meno nel contesto normativo dell’usura - e sta, per così dire, nell’ordine delle cose che è connaturato al diritto vivente: in questa prospettiva, l’ultimo Comunicato della Banca d’Italia sembrerebbe potere anche suonare, forse, come una «sorta» di replica al più recente arresto del Supremo Collegio (350/13) (…) A me, per la verità, pare che a simile quesito possa darsi solo una risposta negativa. Nell’interpretare le leggi le Autorità amministrative – quand’anche di prestigio grande, com’è nel caso della Banca d’Italia – hanno per definizione un ruolo subalterno nei confronti dell’Autorità giudiziaria. Secondo i principi del sistema, inoltre, la funzione nomofilattica risulta affidata alla Corte di Cassazione. Senza riserve di materie: già per questo motivo, dunque, le rilevazioni trimestrali dell’usura devono mostrarsi specchio fedele degli orientamenti consolidati di quella. D’altro canto, nell’ambito della normativa sull’usura al Ministero dell’Economia e alla Banca d’Italia non risulta affidato nessun potere secondario di specificazione dei precetti primari di legge (secondo quanto capita talvolta nell’ambito della normativa di protezione del cliente; così, ad esempio, nel caso dell’art. 117, comma 2, TUB). Come puntualmente ha osservato proprio il Supremo Collegio, le rilevazioni trimestrali non hanno la funzione di produrre opinioni, bensì quella esclusiva di «fotografare» l’esistente. Di rilevare il fatto storico dei tassi applicati dall’operatività, così; come pure di dare fotocopia alle consolidate letture che del dato normativo esprima la Corte di Cassazione» (Dolmetta, Commento della Comunicazione Banca d’Italia 3/7/13: usura ed interessi moratori, in ilcaso.it, 8 luglio 2013). 59 «La Banca d’Italia ha peraltro di recente riconosciuto che ‘gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti-usura’, con la precisazione che, in relazione ad essi, l’usura andrebbe accertata sulla base di un tasso soglia diverso, risultante dalla maggiorazione di 2,1 punti percentuali dei tassi globali medi periodicamente rilevati e pubblicati con decreti del ministero del Tesoro (ora dell’Economia) ai sensi dell’art. 2, comma 1, n. 108 del 1996 (Chiarimenti in materia di applicazione della legge antiusura 3 luglio 2013); maggiorazione che – come si ricava in una nota illustrativa contenuta nei citati decreti – corrisponde a quella rilevata come ‘mediamente stabilita contrattualmente per i casi di ritardato pagamento’, a seguito di un’indagine statistica eseguita nel 2001 ‘ai fini conoscitivi’ dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio Italiano Cambi. La legittimità dell’introduzione di un tasso soglia diverso e più elevato per la rilevazione dell’usura, in presenza di inte-

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nella comunicazione del 3/7/13 in materia di tassi di mora appare stridente e fuorviante per i debiti riflessi di emulazione indotti nei comportamenti bancari, che contrastano altresì con i principi di ‘sana e prudente gestione’60. Poiché la previsione legislativa non ha ritenuto di contemplare una specifica soglia per i tassi di mora, considerandoli alla stregua dei tassi corrispettivi e compensativi, la Banca d’Italia, nell’esercizio del suoi controlli di Vigilanza61, avvalendosi di una rilevazione parziale e vetusta62,

ressi moratori, appare tuttavia dubbia, se si considera che le norme in tema di usura non contemplano alcuna deroga, né prevedono alcuna differenziazione del tasso soglia connessa alla funzione assolta dall’interesse. Sarebbe d’altro canto incongruo ritenere che l’usurarietà degli interessi moratori possa essere accertata sulla base di un tasso soglia stabilito senza tener conto dei maggiori costi indotti, per il creditore, dall’inadempimento del debitore» (ABF, Collegio di Roma, decisione n. 260/2014). «Neppure il dato del 2,1 punti percentuali sembra poter assumere utile rilievo ai fini della detta comparazione, non rivestendo i necessari requisiti tecnici e temporali posti dalla normativa sopra richiamata per le rilevazioni statistiche integrative del dettato dell’art. 644 c.p.» (ABF, Collegio di Coordinamento, 19 marzo 2014). 60 «Anche se è comunque evidente che il servizio di compliance , di cui oggi dispongono le imprese bancarie, non può non conoscere la sussistenza di un consolidato orientamento della Corte di Cassazione e che di tanto lo stesso deve fare conto necessario e adeguato. Salvo altrimenti accettare senza riserve il «rischio legale» e il «rischio reputazionale» che derivano dall’ignorarlo (consapevolmente o meno). Talvolta si legge – in funzione di legittimazione di comportamenti bancari sulla linea della Vigilanza, seppur contrari agli indirizzi della giurisprudenza, e proprio in materia di usura – che le banche ‘debbono strutturare la propria attività in osservazione delle disposizioni emanate dalle autorità di vigilanza’ (…) È sicuro, d’altronde, che la Banca d’Italia non ha vietato alle imprese bancarie la possibilità di tenere comportamenti più prudenti di quelli dalla stessa indicati; né, del resto, lo potrebbe mai fare vista se non altro la regola della ‘sana e prudente gestione’» (Dolmetta, Commento, cit.). 61 Non si dispone altresì di evidenza alcuna dei controlli esperiti sulla rispondenza alle ‘Istruzioni’ dei dati forniti dagli intermediari ai fini della rilevazione del TEGM: la delicatezza e rilevanza di un limite che si fonda sulla correttezza stessa delle segnalazioni dei soggetti che lo subiscono, esigerebbe, da un lato la previsione di specifiche sanzioni nel caso di omissione o alterazione della segnalazione, dall’altro una maggiore trasparenza e monitoraggio, a garanzia dell’affidabilità del presidio posto dalla legge 108/96. Nel contempo l’assenza di statistiche sui dati desunti dalla lunga serie di rilevazioni ai fini della determinazione del TEGM impedisce una corretta valutazione della dimensione ed evoluzione delle poste che intervengono nel calcolo del TEG. La Banca di Francia, per analoghe rilevazioni, ha predisposto studi ed analisi che consentono di valutare sul piano dinamico l’andamento dei tassi praticati dagli intermediari nelle categorie sottoposte a soglie d’usura. 62 È passato un quinquennio da quando nel Resoconto della consultazione sulla disciplina in materia di usura, Banca d’Italia 2009, si riportava: «È allo studio una rilevazione degli interessi di mora, separata dal TEG, che potrà fornire utili informazioni per le valu-

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elabora una soglia per la mora, in analogia alla CMS soglia della Circolare del 2/12/05, priva di alcun sostegno normativo, giurisprudenziale e dottrinale. Come già accaduto in altre circostanze – ancor più dopo le recenti statuizioni della Cassazione penale – gli operatori bancari più prudenti si vengono astenendo dall’accogliere le indicazioni fornite dalla Banca d’Italia, se non altro considerando opportunamente che «il ragionevole dubbio sulla liceità o meno deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, fino cioè, secondo quanto emerge dalla sentenza 364/1988 della Corte Costituzionale, all’astensione dall’azione se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga l’incertezza sulla liceità o meno dell’azione stessa, dato che il dubbio, non essendo equiparabile allo stato d’inevitabile ed invincibile ignoranza, è inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità (cfr. in tal senso Sez. 6, Sentenza n. 6175 del 27/03/1995 Ud. (dep. 27/05/1005) Rv. 201518)»63. Gli operatori bancari più prudenti sono stati ingiustificatamente penalizzati, sospinti ai margini del mercato da parte degli operatori bancari che opportunisticamente hanno acquisito maggiori margini di profitto, trascurando le indicazioni della suprema Corte, confidando nell’accondiscendenza dell’Organo di Controllo e valutando conveniente il trade off fra i maggiori margini percepiti e i costi reputazionali, legali e di ripetizione dell’indebito sopportati nei ricorsi giudiziari che inevitabilmente e copiosamente sono insorti con le scelte adottate. Con il chiarimento prospettato dalla Banca d’Italia, si crea un ulteriore varco interpretativo che tende a riproporre lo iato fra l’elemento oggettivo e soggettivo d’usura: tuttavia – dopo le menzionate valutazioni espresse dalla Cassazione sulle indicazioni e circolari della Banca d’Italia e sull’ineludibile responsabilità dei vertici bancari che non ammette circostanze scusanti l’ignoranza dell’effettivo limite d’usura (art. 5 c.p.) – non sembrano ravvisarsi margini che possano ledere il principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale.

tazioni sulla usurarietà dei tassi, anche nei casi di morosità del debitore». 63 Cass. pen., 19 dicembre 2011, n. 46669.

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5. Le soglie d’usura e l’echelle de perroquet. Più recentemente si assiste a una fenomenologia di comportamenti degli intermediari che, se diffusa a buona parte del sistema, può condurre a scardinare in prospettiva le soglie d’usura e nell’immediato ad eludere i presidi ad una corretta gestione dei tassi e condizioni praticati sul credito in conto corrente. Come detto in precedenza, sul piano tecnico-pratico l’intermediario, facendo riferimento al costo della provvista, stabilisce le condizioni di credito applicate in funzione dell’affidamento del cliente e del merito di credito dell’iniziativa che deve essere finanziata: i tassi praticati vengono così distribuiti in un arco di valori compresi fra un minimo prossimo all’Euribor ed un massimo pari alla soglia d’usura. Taluni intermediari hanno iniziato a prevedere, per il credito in conto corrente, sia esso apertura di credito, anticipazione o altro, un tasso variabile che, anziché essere collegato all’ordinario parametro di finanziamento praticato dal mercato, quale l’Euribor, viene riferito direttamente al tasso soglia, sottraendo a questo uno spread fisso in funzione del merito di credito del cliente. In altri termini, la tariffazione del credito in conto corrente di tali intermediari assume a riferimento base il tasso soglia, il valore massimo di tasso praticabile al cliente – variabile in funzione delle modifiche apportate trimestralmente dal MEF sulla base della rilevazione dei TEGM condotta dalla Banca d’Italia – per poi stabilire la decurtazione fissa, in rapporto al merito di credito del cliente stesso. Anziché aggiungere uno spread al costo della provvista, si impiega uno spread sottrattivo al valore massimo consentito dalla soglia d’usura. A questo tasso vengono poi affiancati gli altri oneri, commissioni e spese (CDF, CIV, spese chiusura, ecc.). La mora, per contro, viene sistematicamente posta eguale al tasso soglia. Tale sistema di tariffazione, per taluni aspetti è all’apparenza assimilabile ad una ordinaria parametrazione ai tassi di mercato, risultando il TEGM, sul quale è costruito il tasso soglia, funzione del valore medio del costo del credito espresso dal mercato. Ma la parametrazione è sul valore del tasso soglia, non su quello del TEGM: solo quest’ultimo è un parametro finanziario di mercato, per altro spurio ricomprendendo altre voci di costo. Ciò comporta una discrasia che induce un’artificiosa e perversa lievitazione dei tassi che viene a ledere significativamente il mercato del credito. Contiene infatti una super-indicizzazione al valore medio del mercato, in quanto ad ogni variazione di quest’ultimo fa corrispondere la variazione incrementata del 25%, incorporata nella soglia. Se poi il tasso

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dovesse scendere anziché salire, rimarrebbe pur sempre nella discrezionalità della banca di modificare, con ‘giustificato motivo’ le condizioni. A parità di altre condizioni, le variazioni del tasso di mercato possono giustificare un’analoga variazione del tasso praticato: priva di giustificazione appare una variazione maggiore. Inoltre l’effetto risulta ulteriormente distorto dalla circostanza che la variazione del tasso praticato al cliente viene implicitamente indicizzata anche a valori di costo che affiancano il tasso di interesse. Infatti, il valore medio del mercato (TEGM) è ricavato dal TEG segnalato dagli intermediari che si compone sia dell’interesse in senso stretto commisurato al credito concesso, sia delle commissioni, oneri e spese commisurate all’accordato. Così che anche un aumento delle commissioni, oneri e spese mediamente praticate dal mercato induce, attraverso la lievitazione del TEGM, un automatico aumento del tasso di interesse praticato al cliente, che si aggiunge, raddoppiando l’incidenza, se anche l’intermediario adegua le commissioni, oneri e spese ai nuovi livelli di mercato. Di fatto, una parte delle competenze trimestrali, cioè a dire gli interessi in senso stretto, viene indicizzato con un acceleratore del 25% alla variazione del TEGM che, come noto, si compone, oltre che degli interessi in senso stretto, di tutti quegli oneri (commissioni, spese, assicurazione, spese legali, ecc.) che accompagnano ed integrano sostanzialmente l’interesse nel comporre l’aggregato complessivo delle competenze. Risulta alquanto vessatorio ed ingiustificato ancorare le variazioni del tasso di interesse anche a parametri che con questo non hanno alcuna connessione: una variazione delle commissioni di istruttoria, o dei fidi accordati, determinerebbe una variazione dell’interesse praticato, anche laddove non vi sia fido, per di più con un fattore di accelerazione del 25%. Si configura nella circostanza descritta un’ingiustificata lievitazione dei costi del credito con aspetti impropri di duplicazione. Per fattispecie diverse, ma che presentavano analoghi aspetti di lucro ingiustificato o costi duplicati, l’ABF è intervenuto censurando il comportamento dell’intermediario64. Il menzionato sistema di tariffazione lascia trasparire la scarsa concorrenza del mercato del credito e la significativa dominanza dell’operatore bancario nei finanziamenti in conto: anziché partire dal costo della rac-

64 Cfr. Collegio Roma n. 267/11, n. 2853/12, n. 3936/12 (tasso extra-fido esteso all’apertura di credito); Collegio Roma n. 498/11, Collegio Milano 273/12, Collegio Napoli 361/13 (duplicazione costo del servizio).

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colta e dagli oneri di copertura dei costi, per stabilire il proprio margine di intermediazione, si parte dal margine massimo praticabile per sottrarre la minore copertura del rischio che il cliente presenta rispetto allo standard. Da un punto di vista sistemico si può ravvisare in tali comportamenti quella che Dolmetta configura come «una rendita da posizione (quale species facente parte del genus espressivo dell’approfittamento da posizione), le cui implicazioni reali vanno colte – pure questo è evidente – con riferimento non al singolo rapporto, bensì alla misura di serialità immessa col prodotto sul mercato»65. Si può cogliere in questo ‘perverso’ sistema di tariffazione taluni aspetti di clausola potestativa e di carenza di buona fede, che altresì contrastano con i principi ispiratori dell’art. 118 t.u.b. Se la banca alza le condizioni di conto alla nuova clientela, induce attraverso la segnalazione del proprio TEG alla Banca d’Italia, una lievitazione del TEGM rilevato sul mercato, realizzando per questa via, anche per la clientela precedente, una modifica in peius del tasso di interesse, senza che questa clientela possa esercitare alcun diritto di recesso ex art. 118 t.u.b. Anche l’introduzione di nuovi oneri avrebbe un effetto di lievitazione del TEGM e di riflesso dei tassi praticati. Se l’intermediario ha un rilievo nazionale e dimensionale, l’influenza sul TEGM è concreta, se invece ha un rilievo territoriale e circoscritto l’influenza risulterà assai marginale; ma questo aspetto non sembra particolarmente significativo, visto le cospicue fattezze di oligopolio che contraddistinguono i rapporti creditori. Un’analoga vessatoria incongruenza si riscontra per la mora quando questa viene posta pari al tasso soglia. La mora, come detto, si articola in una componente corrispettiva e in una componente prettamente penale: quest’ultima è spesso specificatamente individuata nello spread, in misura fissa, aggiunto al tasso corrispettivo. Per la componente più propriamente corrispettiva, la mora può ben accompagnare i mutamenti del tasso di interesse, mentre per la componente più propriamente penale assai labile appare la parametrazione a commissioni di istruttoria, spese di assicurazione ed altri oneri che intervengono nella determinazione del TEGM, per altro accelerate del 25%. Per altro porre direttamente in contrato la mora pari al tasso soglia pone altresì problemi di rispetto dell’art. 644 c.p. comma 3, secondo periodo (usura in concreto). In tali circostanze, infatti, soprattutto se il tasso corrispettivo risulta marcatamente discosto dal tasso di mora, si verrebbe

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a pattuire nel caso di una carenza, anche solo momentanea di liquidità, che non pregiudichi una sana condizione patrimoniale, condizioni sproporzionate rispetto al tasso medio praticato per operazioni di credito similari. Sull’usura in concreto, che non ha ricevuto sino ad oggi una particolare attenzione da parte degli intermediari, si è soffermata una recente sentenza della Cassazione (Cass. pen., 7 maggio 2014, n. 18778). Tale sentenza – nel puntualizzare come il legislatore abbia previsto, accanto all’usura presunta (pattuizione di un tasso di interesse eccedente il tasso soglia), una distinta ed autonoma fattispecie di cd. usura in concreto, collegata a quella presunta da un implicito nesso di sussidiarietà – ha espresso, per la prima volta, una serie di principi di diritto che non mancheranno di esplicare i loro effetti soprattutto in materia di scoperto e di mora66 Per la remunerazione del finanziamento è ordinario e risponden-

66 «Perché sia integrata la c.d. usura in concreto (ipotizzata dal P.M. territoriale ricorrente, alternativamente alla truffa, nell’ambito del presente procedimento, e relativamente alla quale non risultano decisioni edite di questa Corte Suprema, che, pertanto, sembrerebbe chiamata ad occuparsene per la prima volta), occorre che: - il soggetto passivo versi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria; - gli interessi pattuiti (pur se inferiori al tasso-soglia usurario ex lege) ed i vantaggi e i compensi risultino, avuto riguardo alle ‘concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari’, comunque ‘sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione’. Trattasi di elementi il cui accertamento in concreto (diversamente dai casi di usura cd. presunta) è rimesso alla discrezionalità del giudice. La condizione di ‘difficoltà economica’ si distingue da quella di ‘difficoltà finanziaria’ in quanto: - la prima consiste in una carenza, anche solo momentanea, di liquidità, a fronte di una condizione patrimoniale di base nel complesso sana; - la seconda investe, più in generale, l’insieme delle attività patrimoniali del soggetto passivo, ed è caratterizzata da una complessiva carenza di risorse e di beni. Pur essendo innegabile che le ‘difficoltà economiche o finanziarie’ costituiscano concetto affine allo ‘stato di bisogno’ (art. 644 c.p., comma 5, n. 3), nondimeno è evidente l’intenzione del legislatore di attribuire ad essi significati differenti: a ciò induce già il dato letterale, ovvero la diversa terminologia adoperata nel medesimo contesto (le distinte nozioni sono, infatti, evocate dalla stessa norma, l’art. 644 c.p.), che rivela, a parere del collegio, la trasparente intenzione del Legislatore di fare riferimento a situazioni diverse, poiché, in caso contrario, sarebbe davvero incomprensibile l’impiego, in una stessa norma, di distinti termini per indicare il medesimo concetto. Alle medesime conclusioni induce la considerazione della diversa natura giuridica a ciascuno riconosciuta (le ‘difficoltà economiche o finanziarie’ contribuiscono a integrare la materialità della c.d. usura in concreto; lo ‘stato di bisogno’ costituisce oggi mera circostanza aggravante). (…) Vanno, conclusivamente sul punto, affermati i seguenti principi di diritto: ‘Ai fini dell’integrazione dell’elemento materiale della c.d. usura in concreto (art. 644

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te ai canoni di mercato un riferimento variabile con i tassi di mercato. Assai meno giustificata appare la predeterminazione del danno implicita nella mora in funzione di una variabile che presenta una connessione scarsa, se non nulla, con il danno stesso. Non bisogna trascurare che si tratta di clausole inserite in ‘contratti di adesione’ dove frequentemente ricorre un’asimmetria informativa e dove l’intermediario assume una posizione dominante, con scarse alternative in un mercato del credito dove l’offerta risulta dispiegata su condizioni uniformi, scarsamente informate ai principi di concorrenza. Anche in tali circostanze si possono ravvisare aspetti di vessazione, di lucro ingiustificato, che appaiono in contrasto con i principi ispiratori dell’art. 118 t.u.b. In entrambe le circostanze illustrate non ricorrono le modifiche

c.p., commi 1 e 3, seconda parte) occorre che il soggetto passivo versi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria e che gli interessi (pur inferiori al tasso-soglia usurario ex lege) ed i vantaggi e i compensi pattuiti, risultino, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione’. ‘In tema di c.d. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1 e 3, seconda parte) la ‘condizione di difficoltà economica’ della vittima consiste in una carenza, anche solo momentanea, di liquidità, a fronte di una condizione patrimoniale di base nel complesso sana; la ‘condizione di difficoltà finanziaria’ investe, invece, più in generale l’insieme delle attività patrimoniali del soggetto passivo, ed è caratterizzata da una complessiva carenza di risorse e di beni’. ‘In tema di c.d. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1 e 3, seconda parte) le ‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’ della vittima (che integrano la materialità del reato) si distinguono dallo ‘stato di bisogno’ (che integra la circostanza aggravante di cui all’art. 644 c.p., comma 5, n. 3) perché le prime consistono in una situazione meno grave (tale da privare la vittima di una piena libertà contrattuale, ma in astratto reversibile) del secondo (al contrario, consistente in uno stato di necessità tendenzialmente irreversibile, non tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma che comunque, comportando un impellente assillo, compromette fortemente la libertà contrattuale del soggetto, inducendolo a ricorrere al credito a condizioni sfavorevoli)’. ‘In tema di c.d. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1 e 3, seconda parte) le ‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’ della vittima (che integrano la materialità del reato) vanno valutate in senso oggettivo, ovvero valorizzando parametri desunti dal mercato, e non meramente soggettivo, ovvero sulla base delle valutazioni personali della vittima, opinabili e di difficile accertamento ex post’. ‘In tema di cd. usura in concreto (art. 644 c.p., commi 1 e 3, seconda parte) il dolo generico, oltre alla coscienza e volontà di concludere un contratto sinallagmatico con interessi, vantaggi o compensi usurari, include anche la consapevolezza della condizione di difficoltà economica o finanziaria del soggetto passivo e la sproporzione degli interessi, vantaggi o compensi pattuiti rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione».

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unilaterali delle condizioni contrattuali disciplinate dall’art. 118 t.u.b., ma la parametrazione posta direttamente nel contratto originario, viene sostanzialmente a precostituire variazioni che eludono il disposto dell’art. 118 t.u.b. che, tra l’altro, prevede al 4° co.: «Le variazioni dei tassi di interesse adottate in previsione o in conseguenza di decisioni di politica monetaria, (…), si applicano con modalità tali da non recare pregiudizio al cliente». Nella tariffazione commisurata alla soglia d’usura, più che la variazione dei tassi, è la stessa originaria condizione contrattuale che reca pregiudizio al cliente. La circostanza che la banca, in un’apertura di credito, si riservi la possibilità di revocare il fido e conseguentemente applicare un tasso pari alla soglia d’usura, presenta aspetti di vessatorietà, per altro di misura indeterminata, non risultando la soglia propriamente un parametro di mercato. Il cliente non conosce il tasso e la penale di mora che andrà a subire nel caso di mancato rientro entro i brevi termini ordinariamente concessi: l’adesione al contratto lo impegna a pagare il tasso massimo consentito dalla legge. Un indistinto ed indifferenziato accostamento delle condizioni praticate alle soglie d’usura solleva un serio rischio di incorrere nelle circostanze di usura stigmatizzate da Cass., 7 maggio 2014, n. 18778. Su un piano sistemico, un significativo addossamento automatico alle soglie d’usura dei tassi praticati alla generalità della clientela ingenera il menzionato effetto dell’‘échelle de perroquet’, consistente in un processo che, prescindendo dal costo della raccolta e dalla copertura dei rischi assunti, innesca una successione di rialzi del tasso praticato alla clientela. Il riferimento endogeno ai tassi praticati dagli stessi intermediari sottoposti alle soglie, comporta, nel sistema di tariffazione descritto, che ad un rialzo del tasso soglia segue – attraverso l’automatico addossamento – un rialzo del tasso medio che provoca un ulteriore rialzo del tasso soglia e così via, in una spirale ascendente senza soluzione di continuità. Se la descritta architettura, riscontrata nei piani di tariffazione praticati da taluni operatori bancari, nell’indifferenza dell’Organo di Vigilanza, trovasse diffusione all’intero sistema bancario, verrebbe rapidamente scardinato ogni presidio all’usura disposto dal legge 108/96.

6. La soglia della mora nei conti correnti: lo scoperto di conto. La giurisprudenza si è sinora occupata principalmente della clausola di mora riportata nei finanziamenti per i quali è previsto il rimborso rateale. Tale clausola ricorre anche nei finanziamenti in conto, ma per

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tali forme di credito, con l’introduzione, a partire dal 2010, della nuova Categoria ‘Scoperti senza affidamento’ si è offerta una celata e più consistente forma di interessi moratori. Nella scarsa trasparenza delle ‘Istruzioni’ e soprattutto delle FAQ di delucidazione, gli intermediari, collocando i fidi revocati nella nuova Categoria degli ‘Scoperti senza affidamento’, possono maggiorare i tassi corrispettivi del 30% ed oltre, nel rispetto della più alta soglia prevista per questa nuova Categoria di credito. Gli interessi dovuti sul credito revocato si vengono a configurare, a tutti gli effetti, come interessi moratori e la creazione di una Categoria dove gli intermediari fanno confluire tale forma di patologia è un alternativo escamotage tecnico per introdurre una soglia più alta per gli interessi di mora nei rapporti di conto67. Si è assunta a ‘Categoria’ una forma di credito che dovrebbe ricoprire un ruolo marginale e che ha una scarsa connotazione fisiologica di ordinarietà68. Le Categorie di credito previste dalla legge 108/96 sono quelle usualmente previste in un ordinato mercato del credito. Lo ‘scoperto’ non è una tipologia di credito ordinario, è uno stato del rapporto che per altro dovrebbe avere una natura di occasionalità e temporaneità. La norma demanda al MEF il compito di rilevare il valore medio fisiologico del mercato per le ordinarie Categorie di credito, che funga da riferimento per stabilire il limite oltre il quale il tasso diviene usurario. Se si assurge a ‘Categoria’ uno stato del credito nella sua evoluzione patologica si scardina il fondamento stesso della norma. Innalzando l’asticella dal credito fisiologico a quello patologico, con un effetto del tutto analogo all’ampliamento dello spread di maggiorazione prevista dalla legge (25% + 4 punti), si innalza il punto di riferimento, riconducendo la patologia a valore medio di mercato.

67 Si realizza, per altra via, quel facile aggiramento della norma che: «ove gli interessi moratori venissero esclusi dal conteggio di quelli rilevanti ai fini usurari, verrebbe facilmente realizzato mediante la previsione (attraverso formule che non tarderebbero a divenire di stile) di termini di pagamento di improbabile rispetto, idonei a rendere ‘normale’ e legittima la corresponsione di interessi sostanzialmente usurari sotto forma di interessi moratori» (Trib. Roma 10 luglio 1998, in Foro it, 1999, I, 343; conf. Trib. Campobasso 3 ottobre 2000, in Foro it, 2001, I, 332; Trib. Bologna 19 giugno 2001, in Corr. giur., 2001, 1347). 68 Una posizione assai critica sull’introduzione della Categoria degli ‘Scoperti senza affidamento’ è riportata in due recenti lavori di Dolmetta: Scoperti senza affidamento e usura, in Società, banche e crisi d’impresa. Liber amicorum Pietro Abbadessa, diretto da Campobasso, Carriello, Di Cataldo, Guerrera, Sciarrone Alibrandi, Torino, 2014 p. 2203 e ss., e Alle soglie dell’usura: tra apertura, sconfinamento e Scoperti senza affidamento, in il caso.it.

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L’usura si radica nel momento del bisogno: nella circostanza dello scoperto – sia per ‘le concrete modalità del fatto’, sia per le ‘condizioni di difficoltà economica o finanziaria’ – appaiono altresì ricorrere le condizioni contemplate dall’art. 644 c.p. là dove stabilisce: «Sono altresì usurari gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria». Nello ‘Scoperto’ i tassi praticati risultano frequentemente inferiori alla soglia unicamente perché si è innalzata quest’ultima, creando una Categoria di credito per la patologia. Lo scoperto quando si protrae nel tempo con il consenso della banca viene a costituire un affidamento di fatto69. Rimane difficile riscontrare per tali forme di affidamento implicito una diversa natura che ne giustifichi un’apposita Categoria con soglie d’usura maggiorate di un terzo. Il mancato pagamento alla scadenza costituisce un consistente segnale di deterioramento del credito. Non si può fondere e confondere il deterioramento del merito di credito che accompagna il mancato pagamento con la penale posta a presidio della regolarità dei pagamenti alla scadenza. Allineando il tasso di mora, praticato nello scoperto, al tasso che l’intermediario valuterebbe necessario per coprire il rischio di insolvenza, che si è manifestato in un momento successivo all’erogazione, si perviene a tassi inusuali, fuori dall’ordinario. Già ora taluni intermediari pongono espressamente la mora pari al tasso soglia della Categoria degli ‘Scoperti senza affidamento’.

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«Un conto è che lo sconfinamento si protragga nonostante le intervenute richieste di pagamento (che per l’appunto risulta esatto dal creditore) e i solleciti che, reiterati, la banca manda al cliente (nel prosieguo del tempo, pure attivandosi per il recupero forzoso del dovuto): in un simile contesto, la forma tecnica dell’operazione rimane inalterata, per quanto il debito non trovi estinzione. Un altro conto, e ben diverso, è che invece non si muova per nulla, che neppure vada a chiedere al cliente il saldo scoperto: così mostrando di non avere – essa, prima di ogni altro soggetto – interesse a ricevere nell’immediato la prestazione dovutale e di tollerare, e anzi di favorire, la persistenza attuale e il protrarsi futuro del debito da sconfino dell’obbligato. Un comportamento di questo tipo viene di fatto a produrre una situazione di stabilità del rapporto che, sotto il profilo sostanziale, risulta equiparabile – mi sembra di poter rilevare – a quella caratteristica dell’apertura di credito In materia, insomma, si manifesta cosa determinante la ragione, come oggettivamente emergente dal comportamento tenuto dalla banca, per cui lo sconfinamento viene a prolungarsi, e a prolungarsi ancora, nel corso del tempo. In sostanza: un conto è che la situazione si imponga alla banca: un’altra è che sia proprio essa a deciderla». (Dolmetta, Scoperti, cit.).

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Se si ricomprendono nella determinazione del TEGM anche circostanze di patologia del credito, non avrebbe più senso il margine (25% + 4 punti) sul tasso medio di mercato. Questo serve a coprire i maggiori rischi rispetto al tasso medio, non ad offrire un ulteriore margine di variazione rispetto al maggior tasso necessario a coprire il rischio patologico. Per analogia, sarebbe come prevedere, in un contratto di assicurazione vita, un innalzamento del premio e/o una riduzione del capitale assicurato al verificarsi del primo infarto. Questo è quello che si è surrettiziamente introdotto nelle aperture di credito in conto corrente con l’enucleazione della nuova Categoria degli ‘Scoperti senza affidamento’. L’introduzione di tale Categoria di credito ha dato la stura ad un incremento di oltre il 30% del tasso praticato per i crediti revocati e posti nella nuova Categoria. I crediti in conto revocati, sulla base delle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia, vengono esclusi dalla rilevazione del TEGM. Ma se il credito non viene prontamente saldato, prima del giro a sofferenza, viene per lungo tempo mantenuto nella Categoria ‘Scoperti senza affidamento’ con una lievitazione del tasso ben superiore all’ordinario spread previsto per la mora. Se poi tali scoperti vengono altresì compresi nella segnalazione statistica alla Banca d’Italia, ne risulta compromesso lo stesso valore del TEGM, e quindi della soglia70. Quando si verifica l’evento di morosità, il tasso può ricomprendere la penale prevista contrattualmente a presidio del corretto rispetto delle scadenze, ma questo non può essere lo spunto per adeguare il tasso corrispettivo al deterioramento del credito. Tale fenomeno ha fatto presumibilmente lievitare il tasso della Categoria anche per gli ordinari, fisiologici, temporanei e modesti scoperti di conto. La Categoria ‘Scoperto senza affidamento’, introdotta dalla Banca d’Italia a partire dal 1° gennaio ‘10, fisiologicamente dovrebbe ricomprendere forme di credito di breve momento e di importo modesto, rispondenti ad esigenze occasionali ed impreviste: una modesta Categoria di credito, di scarsa dimensione economica. La nuova Categoria ha presentato, sin dalla sua introduzione, tassi che si collocano ai valori massimi delle 25 categorie censite, contendendo il primato alle carte revolving e divenendo in poco tempo una significativa fonte di profitto per gli intermediari. Prima del ’10 gli scoperti senza affidamento erano ricompresi nelle aper-

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Non si ha alcuna evidenza dei controlli, delle risultanze emerse e dei provvedimenti adottati nelle ispezioni condotte dalla Banca d’Italia.

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ture di credito con una soglia, nella fascia di importo più basso, del 17% circa: con le modifiche ai criteri di rilevazione del TEG e lo scorporo in due distinte categorie, la soglia degli ‘Scoperti senza affidamento’ è balzata sino al 29,9%, marcando un divario di oltre il 50% dalla soglia prevista per i conti affidati (19,28%)71. Nei trimestri successivi i tassi degli ‘Scoperti senza affidamento’ si sono solo in parte ridimensionati mantenendo, rispetto ai tassi sugli affidamenti, un marcato divario, nell’ordine del 30% ed oltre72. CONTI AFFIDATI E NON AFFIDATI: SOGLIE D’USURA C/c garantiti e non Scoperti senza affidaΔ% garantiti mento Trimestre di rilevazione A1 A2 B1 B2 B1/A1 B2/A2 sino a 5.000

I trimestre 2010 II trimestre 2010 III trimestre 2010 IV trimestre 2010 I trimestre 2011 II trimestre 2011 III trimestre 2011 IV trimestre 2011 I trimestre 2012 II trimestre 2012 III trimestre 2012 IV trimestre 2012 I trimestre 2013 II trimestre 2013 III trimestre 2013 IV trimestre 2013 I trimestre 2014 II trimestre 2014 III trimestre 2014

19,28% 18,72% 17,25% 17,07% 16,70% 16,65% 18,05% 17,84% 17,75% 17,59% 18,05% 17,85% 18,15% 18,24% 18,24% 18,23% 18,28% 18,35% 18,51%

oltre 5.000

14,39% 14,73% 13,71% 13,73% 13,53% 13,64% 15,59% 15,53% 15,64% 15,81% 16,41% 16,39% 16,68% 16,74% 16,70% 16,66% 16,58% 16,58% 16,75%

sino a 1.500

29,94% 27,74% 24,42% 24,71% 23,46% 22,49% 22,31% 22,23% 22,20% 21,91% 22,10% 22,43% 23,25% 23,85% 23,90% 24,22% 24,19% 24,25% 23,85%

oltre 1.500

19,68% 19,68% 19,82% 20,13% 20,31% 20,40% 21,43% 21,48% 21,46% 21,53% 21,88% 22,48% 22,94% 23,06% 23,01% 22,66% 23,11% 22,76% 22,86%

55% 48% 42% 45% 41% 35% 24% 25% 25% 25% 22% 26% 28% 31% 31% 33% 32% 32% 29%

36,8% 33,6% 44,5% 46,7% 50,1% 49,6% 37,4% 38,3% 37,2% 36,1% 33,3% 37,1% 37,6% 37,8% 37,8% 36,0% 39,4% 37,3% 36,5%

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La variazione è risultata particolarmente marcata soprattutto per la Categoria degli ‘Scoperti’ sino a € 1.500. L’aggregazione dei TEG segnalati dagli intermediari è curata dalla Banca d’Italia attraverso la media aritmetica semplice, non la media ponderata, e questo conduce ad una generale sopravvalutazione del TEGM: le classi di importo più basso presentano ordinariamente tassi più alti e una maggiore incidenza delle spese fisse 72 La soglia d’usura dello scoperto di conto si colloca in Italia – pur considerando la diversa base di riferimento – ben 10 punti sopra la soglia francese: 23,85% e 22,86% contro il 13,33% in Francia

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Anche in questa circostanza le ‘Istruzioni’, alle quali vengono accompagnate FAQ confuse e incongruenti, offrono una equivoca e opaca copertura e gli intermediari ne vengono cogliendo il lato opportunistico73. A fronte di tassi maggiorati di un terzo, estesi a tutti i crediti revocati o concessi in scoperto, i benefici che derivano al bilancio dell’intermediario sopravanzano di gran lunga i modesti rischi di usura che, per la determinatezza e tassatività della norma penale, vengono giudicati al più limitati all’usura civile. Del resto anche per l’ABF, secondo il principio stabilito per la mora, i fidi revocati, non compresi nella rilevazione del TEGM rimarrebbero esclusi dal rispetto delle soglie d’usura. Non si ritiene che un credito scaduto e non saldato possa essere automaticamente collocato in una Categoria con soglia d’usura più elevata, per le medesime riflessioni che si prospettano per il tasso di mora: non vi è alcuna nuova erogazione e la Categoria rimane quella inizialmente pattuita. Al manifestarsi della patologia e soprattutto a discrezionalità dell’intermediario, si alzerebbe l’asticella effettuando un cambio di soglia. Non sembra sia questo lo spirito che informa la legge 108/96. Con il medesimo principio si potrebbe disporre una progressione di ‘asticelle’ al rialzo, prevedendo il passaggio a categorie diverse, ad esempio, per scoperti oltre i 180 gg., per i crediti incagliati o in sofferenza. La regolamentazione del fido è pervasa da un’apprezzabile opacità: nelle FAQ e nelle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia si disciplina, il fido, il fido operativo nonché il ‘fido interno’ accordato al cliente, ma non formalizzato né comunicato: queste distinzioni sono pervase dalla più completa opacità. La confusione della regolamentazione della Banca d’Italia, unendosi all’asimmetria informativa e alla dominanza dei contratti di adesione, crea spazi discrezionali di ampio raggio rimessi all’intermediario. L’introduzione della Categoria degli ‘Scoperti senza affidamento’ appare preordinata a creare una differenziazione, non in funzione del ri-

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Le ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia distinguono i fidi revocati dai fidi scaduti. I primi, ancorché non saldati, sono esclusi dalla rilevazione, mentre i fidi scaduti e non saldati continuano, anche nei trimestri successivi, ad essere segnalati nella medesima Categoria, con riferimento all’ultimo fido accordato, sino all’estinzione e/o al giro a sofferenza. In entrambi i casi di estinzione del fido la verifica del rispetto della soglia dovrebbe essere effettuata con riferimento alla Categoria del credito affidato e con l’ultimo fido accordato. Ma non risulta che le procedure informatiche delle banche siano organizzate in questo senso, né che la Banca d’Italia sia intervenuta con un chiarimento volto a correggere tali comportamenti.

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schio associato alla natura del credito concesso, bensì in funzione del rischio di credito del cliente. Se si rimette alla discrezionalità dell’intermediario la concessione del credito nella Categoria degli affidamenti o degli scoperti, si vengono a depotenziare in larga misura i vincoli d’usura. L’esperienza passata delle CMS, poste al di fuori del TEG, ha mostrato che ogni ‘smagliatura’ offerta dalle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia, soprattutto nelle categorie più chiuse alla concorrenza, viene opportunisticamente colta per ampliare il costo del credito. Se si introduce nel comparto del credito rivolto all’impresa una Categoria marginale con tassi marcatamente elevati, è scontato il deflusso in tale Categoria dale altre forme di credito. In un mercato pressoché privo di concorrenza è l’intermediario che stabilisce la natura, le condizioni e la durata del credito. Sul piano contrattuale, risultando rimessa all’intermediario la discrezionalità di porre il medesimo credito nell’una o nell’altra Categoria, si rafforza la dominanza della banca sul cliente. In ogni momento la banca, con un brevissimo preavviso, può revocare il fido e, oltre a determinare una repentina criticità nella situazione di liquidità dell’operatore, può di fatto innalzare il tasso del 30%74. La Banca d’Italia sembra indifferente agli aspetti di problematicità che il fenomeno degli scoperti solleva; al contrario, nella Relazione sull’analisi d’impatto della Delibera CICR di attuazione dell’art. 117 bis, ha auspicato l’allargamento della Categoria riservata agli ‘Scoperti senza affidamento’ alla componente extra-fido del credito affidato75.

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Come detto, si ritiene che per un fido revocato l’applicazione del tasso maggiorato del 30% previsto per lo scoperto configura un esubero della soglia, in un’ortodossa applicazione della normativa dell’usura, dovendosi riferire la soglia alla Categoria dell’’Apertura di credito’ e non alla Categoria degli ‘Scoperti privi di fido’. 75 «Come possibile soluzione si potrebbe prevedere lo scorporo della componente extrafido e la classificazione della stessa nella Categoria attualmente riservata agli ‘scoperti senza affidamento’, per le analogie che contraddistinguono le due tipologie di operazioni. Tale Categoria presenta soglie strutturalmente più elevate (quelle attuali sono del 21,9% e del 21,5% per le due classi d’importo previste). Da un lato, tale innovazione consentirebbe agli intermediari di applicare tassi più elevati per le operazioni extra-fido, dall’altro, lo scorporo della componente extra-fido determinerebbe una riduzione delle soglie usura per la Categoria ‘aperture di credito in conto corrente’. Si dovrà inoltre valutare se l’accorpamento di extra-fido e scoperto senza affidamento comporterà una riduzione dei tassi anche in quest’ultima Categoria, nel caso in cui – come osservato in alcuni contratti – la prima tipologia sia caratterizzata da tassi meno penalizzanti».

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Con gli interventi operati, la Banca d’Italia esercita un ruolo attivo nel diritto, un compito ‘creativo’ che le risulta precluso. Appare orientato ad un senso di più ragionevole sintonia con il principio di legge separare le aperture di credito garantite da quelle non garantite, per l’elemento oggettivo della garanzia che modifica la natura e il rischio del credito, oltre che l’onere a carico del cliente. Le ‘Istruzioni’ prevedono nella rilevazione tale distinzione nella Categoria delle Aperture di credito, ma non una differente soglia, come effettuato per la sotto-Categoria degli Scoperti senza affidamento. Le garanzie reali e personali richieste spesso presentano una dimensione multipla del credito concesso. La garanzia richiesta dall’intermediario è una sorta di utilità che integra l’interesse richiesto: appare coerente con l’art. 644 c.p. una specifica distinzione ad essa riferita. Per altro ciò segnala uno scadimento dello stesso processo di selezione del credito, rimesso più alla garanzia prestata che alla qualità dell’iniziativa finanziata. L’intermediario non è un Monte dei Pegni, nel quale la garanzia esaurisce e assorbe completamente la scelta del finanziamento, senza alcuna condivisione delle sorti del prenditore. Nell’allocazione del credito l’intermediario, nei limiti propri al ruolo al quale è preposto, deve farsi carico della responsabilità e rischio dell’iniziativa imprenditoriale selezionata e finanziata: il piano industriale, il know how e la capacità imprenditoriale devono costituire le migliori condizioni di garanzia, di sviluppo e, conseguentemente, di ritorno economico. Appare per altro poco rispondente alle esigenze dell’operatore economico la concessione del credito sotto la forma del fido a revoca, che pone lo stesso in una condizione di estrema precarietà e dipendenza dall’intermediario: è questa una circostanza che assume in Italia una dimensione ragguardevole, maggiore di quanto si riscontra in altri Paesi. Lo scoperto di conto non dovrebbe costituire un’ordinaria forma di credito. Se si accompagna ad una criticità nella situazione di liquidità, incorpora una gradazione di patologia, non dissimile dal credito scaduto e non pagato. Non appare congruente con una corretta gestione del credito favorire erogazioni e situazioni oltre i limiti del fido o in assenza di fido, che possono protrarsi per lunghi periodi e/o per importi significativi a tassi marcatamente più elevati. Sia negli scoperti senza fido che nell’utilizzo del credito in extra-fido, per evitare anomalie e facili comportamenti opportunistici, si rende necessaria una regolamentazione più stringente: il fenomeno sembra aver già assunto una dimensione ragguardevole, più ampia di quella fisiologica. La legge prevede la classificazione delle operazioni per categorie omogenee, ‘tenuto conto della natura, dell’oggetto, dell’importo, della durata, dei rischi e delle garanzie’. La distinzione del rischio va riferita

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alla natura oggettiva della tipologia di credito, chiaramente definita e circostanziata, non all’elemento soggettivo del cliente che dovrebbe trovare copertura nello spread di legge. Creando, nella stessa tipologia di credito, soglie diversificate d’usura in funzione del rischio del cliente si introduce un elemento di discrezionalità che vanifica gli obiettivi della legge76: teoricamente, scalettando il rischio si perverrebbe facilmente a valori della soglia indefinitamente crescenti, che svilirebbero la funzione dello spread dal tasso medio di mercato disposto dalla legge. Introdurre, all’interno di una medesima tipologia di credito, un’ulteriore distinzione, oltre che per l’importo, anche per classi di rischio, è tecnicamente del tutto equivalente ad un ampliamento dello spread. Se per le aperture di credito si prevede la partizione nelle classi di rischio A (affidati) e B (non affidati), ipotizzando un tasso medio originario della Categoria pari al 6% al quale corrisponde un tasso medio del 4% per la partizione A e un tasso medio dell’8% per la partizione B, la soglia d’usura passerebbe dall’11,50% (6% + ¼ di 6% + 4 punti) al 14% (8% + ¼ di 8% + 4 punti), potendo l’intermediario bancario, nella sua discrezionalità, spostare agevolmente il credito dalla partizione A alla B. È quello che si è fatto con lo scorporo, dalla Categoria delle aperture di credito, di quelle prive di fido e quello che ulteriormente si prevede di introdurre con lo scorporo del credito extra-fido dal credito affidato per ricomprenderlo anch’esso nello ‘Scoperto senza fido’. Già ora gli ‘Scoperti senza fido’ vengono assumendo una dimensione che travalica i limiti fisiologici. Il fenomeno non sembra rimasto nei limiti di marginalità. Le statistiche sono al riguardo carenti: l’informazione rimane al momento ristretta negli ambiti riservati delle politiche aziendali degli intermediari e in quelli relativi alle rilevazioni della Banca d’Italia, che non vengono rese disponibili. La distinzione introdotta e quella che si vorrebbe introdurre all’interno delle aperture in conto corrente creano una distorsione nello stesso mercato del credito, con il prevedibile esito di favorire spinte opportunistiche degli intermediari, volte da un lato a condizionare maggiormente la concessione del fido alla presenza di garanzie e dall’altro ad espandere gli extra-fido e gli scoperti privi di fido.

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Cfr. anche Dolmetta, Alle soglie, cit. e Scoperti, cit.

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7. Il credito in extra fido: un’ulteriore criticità per la verifica dell’usura. Più recentemente si è diffusa la pratica di prevedere contrattualmente, accanto al tasso per il fido, un diverso tasso, più elevato, per l’extra-fido. L’extra-fido presenta concettualmente connotazioni che lo accostano al credito scaduto/revocato e in mora: in entrambe i casi si ha una forma di scoperto. Il prenditore di fondi dispone di un capitale non affidato: nel primo caso, con il consenso dell’intermediario, nel secondo caso, subito dall’intermediario77. A parte scoperti di modesto importo e di breve momento – che assumono, a livello di sistema una dimensione modesta – appare alquanto pregiudizievole e poco trasparente la circostanza nella quale la banca acconsente acché il fido concesso venga sistematicamente e costantemente sconfinato per importi di rilievo, applicando condizioni di tasso, commissioni e spese più esose78.

77 Lo sconfinamento dal fido è stato più recentemente definito dal D.lgs. 141/10, nell’ambito del credito al consumo, come «l’utilizzo da parte del consumatore di fondi concessi dal finanziatore in eccedenza rispetto al saldo del conto corrente in assenza di apertura di credito ovvero rispetto all’importo dell’apertura di credito concessa» e viene regolato nell’art. 125 octies. Lo sconfinamento si configura come una ‘tolleranza’ della banca che acconsente, in via temporanea e precaria, al di fuori dell’apertura di credito e per il quale permane il diritto di esigere l’immediato rimborso. Secondo la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, pur potendo stipularsi la convenzione di concessione di credito per facta concludentia (v. Cass., 01 luglio 2005 n. 14470; Cass., 15 settembre 2006, n. 19941), la tolleranza dell’intermediario che consenta ripetuti sconfinamenti del conto, ovvero il ripetuto utilizzo del credito in eccesso al fido accordato, non costituisce di per sé prova dell’avvenuta stipula di una convenzione di concessione di credito o di aumento del credito già accordato (così ABF Roma, n. 42/10), pur potendo tale reiterata condotta, nel concorrere di ulteriori requisiti, assumere rilievo a tal fine (in tema, si veda ad. es. Cass., 8 gennaio 2003, n. 58). Può pertanto ritenersi che, in difetto di una pluralità di indici di una diversa volontà delle parti, la concessione di sconfinamenti, ancorché ripetuti, non sia da ricondursi alla tipologia dei c.d. «fidi di fatto». «La tolleranza degli sconfinamenti da parte della banca non integra una manifestazione di volontà idonea a superare le clausole pattuite dalle parti perché l’aspettativa originaria del fatto che l’istituto di credito paghi assegni anche quando l’esposizione creditoria superi il limite di fido concesso non è di diritto, ma di fatto, priva di giuridica rilevanza; pertanto il mancato pagamento di assegni emessi da un correntista su un conto che presenta uno scoperto superiore a quello consentito e il conseguente protesto di tali titoli non costituisce lesione di interesse riconosciuto e garantito dall’ordinamento giuridico». (Cass., 10 febbraio 2004, n. 2477). 78 «Un sintomo di disfunzione è rappresentato dagli sconfinamenti sui fidi ban-

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Quando la banca prevede in contratto tassi e condizioni distinte per la parte compresa entro il fido e per l’eventuale extra-fido, non appare corretto, nella verifica d’usura, calcolare il complessivo costo del credito nel trimestre sommando gli interessi, spese ed oneri applicati entro il fido con quelli più elevati praticati per l’extra-fido. In generale, se, nel medesimo trimestre, sono convenute condizioni e tassi distinti, per separate linee di credito, ancorché relative alla medesima Categoria e insistenti sul medesimo conto, non appare rispondente al dettato normativo operare un’aggregazione degli interessi ed oneri trimestrali e determinare in tal modo un tasso unico, risultante dalla media dei valori applicati79. Analogamente, nel momento in cui l’intermediario acconsente a pagamenti oltre il fido concesso, sui quali di norma applica tassi e condizioni distinti, di fatto risulterebbe accordare un ulteriore finanziamento, seppur eventuale, momentaneo e condizionato all’assenso volta per volta dell’intermediario, giuridicamente distinto dal fido accordato. Non sembra configurarsi nella circostanza un’estensione del finanziamento in essere. Il criterio di considerare esclusivamente l’aggregazione degli interessi entro il fido ed oltre il fido risulterebbe disattendere lo spirito del-

cari, un fenomeno che si colloca su livelli particolarmente elevati in talune regioni meridionali. La prassi degli sconfinamenti può dipendere da carenze organizzative delle banche. Essa influisce pesantemente sul costo effettivo del denaro, per effetto delle maggiorazioni di tasso e delle commissioni di massimo scoperto. È indicativa di comportamenti non trasparenti: la banca accorda un fido inferiore a quello che serve al cliente, rendendosi peraltro disponibile a mantenerlo di fatto al di sopra dell’accordato; il cliente dal canto suo accetta questa impostazione, che lo pone in una situazione di debolezza nei rapporti quotidiani con la banca». (Berionne, Consiglio Superiore della Magistratura, incontro di studio sul tema: Usura e disciplina penale del credito, Frascati 1997). 79 La Cassazione penale, seppur in circostanze diverse, ha chiarito la necessità di riferire la verifica del rispetto della soglia d’usura ai distinti finanziamenti. In una prima occasione (Cass., 18 luglio 2005, n. 745) si afferma: «Non giova, perciò, richiamarsi al complesso dei rapporti economici esistenti tra l’imputato e la parte lesa per un conteggio globale degli interessi da quest’ultima dovuti, interessi che, in tal modo valutati e conteggiati, non supererebbero, a quanto si assume, la soglia legale. Quel che rileva è che in alcuni rapporti (quelli, appunto, per cui vi è contestazione), quella soglia è stata largamente superata, integrandosi in ciò il reato d’usura continuata addebitato». Più recentemente (Cass., 17 novembre 2009, n. 43840) viene ribadito: «per l’individuazione della natura usuraria degli interessi, nel caso in cui tra il soggetto agente e la vittima intercorra un complesso rapporto economico, occorre avere riguardo ai singoli episodi di finanziamento e quindi alle specifiche dazioni o promesse, non potendosi procedere al calcolo globale degli interessi dovuti in virtù della pluralità dei prestiti».

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la norma che espressamente punisce «chiunque si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari». Il disposto normativo non sanziona la previsione e l’applicazione di tassi mediamente usurari, ma più semplicemente la previsione e l’applicazione di tassi usurari80. Qualora la banca abbia praticato, anche per la sola parte di credito in extra- fido, condizioni di tasso, spese ed oneri superiori alla soglia d’usura, sembra corretto ritenere che questa non possa essere elusa con una metodologia di verifica che, fondendo tassi più alti con tassi più bassi, riconduca il valore medio al di sotto della soglia. Inoltre, non predeterminando un limite superiore all’esposizione in extra-fido, si può configurare un’estensione del credito (fido ed extra-fido), sino a superare la soglia nello stesso valore medio complessivo. In tal modo la pattuizione non esclude l’usurarietà e può ben

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Le ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia riportano: «Se si registrano utilizzi superiori al fido accordato la classe di importo rimane determinata in base all’ammontare del fido accordato». Nei chiarimenti forniti dalla Banca d’Italia, alla domanda: «In quale Categoria devono essere segnalati gli sconfinamenti rispetto al fido accordato sui conti correnti affidati?», viene fornita la risposta: «Gli sconfinamenti rispetto al fido accordato rientrano tra le aperture di credito in conto corrente (Cat. 1.a o 1.b) sia ai fini della segnalazione sia per la verifica dell’eventuale usurarietà delle condizioni applicate». Dalla domanda e dalla risposta si può evincere che lo sconfinamento sia oggetto di un’apposita segnalazione, distinta da quella relativa all’affidamento concesso. Questo sembrerebbe ulteriormente avvalorato dalla risposta fornita alla domanda successiva: «In un finanziamento revolving su carta di credito può verificarsi un’estensione del credito attraverso la concessione di ulteriori linee di finanziamento. È ammessa una segnalazione unica nella Categoria 9 (Credito revolving)?», alla quale viene fornita la risposta: «Sì, in caso di mera estensione del credito con le stesse caratteristiche del finanziamento revolving in essere può essere prodotta una segnalazione unitaria». Sembrerebbe evincersi che la condizione per un’unitaria segnalazione sia l’applicazione delle medesime condizioni, desumendo, a contrario e più in generale, che l’estensione di ogni finanziamento, intervenuta a condizioni e caratteristiche diverse, debba essere assoggettata a specifica e distinta segnalazione: nella circostanza tale estensione, non definita contrattualmente, andrebbe rapportata alla connessa massima variazione intervenuta nel trimestre. In altro punto delle risposte ai quesiti, tuttavia, in merito alla variazione in via temporanea dell’accordato, si precisa che, se formalizzata, vanno tenute distinte le segnalazioni dei due contratti, prima e dopo la variazione. Se non formalizzata, la segnalazione rimane unica, ma non si fa riferimento ad una uniformità di condizioni. Una situazione analoga si riscontra nella circostanza di fidi, scaduti ma non revocati, che, protraendosi nel tempo, con la lievitazione degli interessi, oneri e spese sconfinano e, con il riferimento all’ultimo fido accordato, vengono ad esorbitare le soglie d’usura.

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essere soggetta alla sanzione prevista dall’art. 1815, co. 2 c.c.81. La sentenza Cass., 19 dicembre 2012, n. 46669, in un passaggio per il vero poco chiaro, sembra confermare quanto esposto: «Né possono avere rilievo le differenziazioni del tasso operato in caso di conto corrente non affidato – in cui il credito erogato è superiore al fido concesso, rispetto al conto corrente affidato – in cui l’utilizzo avvenga regolarmente nei limiti del fido, dovendo, comunque, la banca non superare il tasso soglia normativamente previsto indipendentemente dalla circostanza che nel caso di conto corrente non affidato la banca debba fronteggiare un inatteso e irregolare utilizzo del credito da parte del cliente, che, pur rappresentando un costo per l’eventuale scorretto comportamento del cliente, non può comunque giustificare il superamento del tasso soglia». Oltre tutto sul piano contrattuale, se si pervenisse ad introdurre, come prospettato dalla Banca d’Italia, una confluenza nella Categoria degli ‘Scoperti senza affidamento’ dei crediti in extra-fido, risultando rimessa all’intermediario la discrezionalità di porre il medesimo credito nell’una o nell’altra Categoria, con un divario delle soglie di circa un terzo, si rafforzerebbe la dominanza della banca sul cliente. Con la ventilata modifica, prospettata dalla Banca d’Italia nella Relazione sull’analisi d’impatto della Delibera CICR di attuazione dell’art. 117 bis, si verrebbe ad ampliare apprezzabilmente la menzionata Categoria degli ‘Scoperti senza affidamento’, dando la stura a comportamenti opportunistici degli intermediari che, nelle loro valutazioni discrezionali, possono lesinare la concessione del fido e tollerare al contempo lo scoperto di conto e lo scoperto oltre il fido, anche continuativo e di importo significativo. Rimarrebbe nella completa discrezionalità dell’intermediario l’attribuzione del credito al fido, all’extra-fido o allo scoperto, stabilendo se concedere o meno il fido, la natura a revoca o a scadenza, l’ammontare eventualmente accordato al tasso ordinario e gestire poi l’extra-fido e lo scoperto con i più ampi margini di flessibilità e entro i limiti di soglia, maggiorati di un terzo, previsti dalla nuova Categoria82. Già

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Se, ad esempio, per una soglia d’usura dell’11%, viene previsto un tasso del 10% per il fido di € 100 e il 12% per l’extra-fido, la pattuizione non esclude la concessione di un credito superiore a € 200, che porterebbe il tasso praticato complessivamente al di sopra della soglia dell’11%. 82 Verrebbe altresì meno la remora ad un’estensione e durata dell’extra fido costituita dalla circostanza che le ‘Istruzioni’ prevedono nella formula di calcolo il rapporto degli oneri al fido accordato, per cui il debordo dal fido induce una limitazione maggiore nel TEG applicato.

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da tempo i nuovi contratti di conto corrente riportano, accanto al tasso previsto per il fido, un tasso più alto per l’eventuale extra-fido, oltre alle commissioni di istruttoria veloce introdotte con il d.l. 6/12/11 n. 201. Con l’inclusione nella Categoria ‘Scoperto senza fido’ del credito in extra-fido si verrebbe a tracimare ulteriormente ogni ragionevole limite di usura, in una delle più diffuse forme di credito. Se dalle aperture di credito si scorpora la parte non affidata, questa presenterà un tasso medio più alto al quale verrà applicato uno spread maggiorato per la determinazione della soglia: poiché la Categoria di attribuzione del credito non è oggettivamente insita nella natura del credito stesso ma è riposta nella discrezionalità dell’intermediario, si vanifica completamente il presidio della soglia d’usura.

8. La rimozione delle soglie d’usura: aspettando che la Banca d’Italia favorisca la concorrenza. La soglia d’usura, nell’evoluzione subita con la legge 108/96, si è ampliata verso finalità di protezione dell’operatore economico dall’eccessivo potere nella disponibilità dell’intermediario finanziario di fissare il prezzo del denaro. L’usura nella realtà moderna assume fattezze assai complesse, con risvolti peculiari, propri all’ambito e alle circostanze nelle quali si realizza. Non vi è dubbio che l’usura criminale presenti aspetti che si discostano profondamente dall’usura bancaria, se non altro per le connotazioni di ‘violenza’ fisica, oltre che psicologica, che la caratterizza. La legge 108/96, seppur concepita come presidio generale all’usura, è calata propriamente sulla realtà bancaria, elemento di congiunzione istituzionale fra i centri di formazione del risparmio e di impiego delle risorse finanziarie83.

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Gli interessi collettivi ad un corretto funzionamento del mercato del credito, che nella visione del legislatore sembrano accostare e travalicare quelli del singolo, ampliano la prospettiva nella quale si colloca il testo dell’art. 644 c.p. riformulato dalla legge 108/96. Il credito, sia esso rivolto agli investimenti che al consumo, costituisce il volano dello sviluppo economico: la regolarità del mercato e l’opera di calmiere dei tassi praticati alla generalità della clientela trovano fondamento e legittimità nell’art. 41 della Costituzione, ponendo un presidio agli indebiti riflessi che possono derivare da scelte degli intermediari eccessivamente protese al conseguimento di profitti economici. «Una scelta legislativa dunque dalla quale traspare l’evidente intento di delineare la disciplina

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La problematica assume aspetti e caratteristiche diverse per le operazioni di investimento e per i finanziamenti al consumo. Per questi ultimi, accanto a valutazioni economiche di impulso alla domanda, intervengono valutazioni umane e sociali, legate alla possibilità di ridurre il risparmio di precauzione e di anticipare l’utilizzo della futura crescita delle disponibilità di reddito. Al credito si riconosce un pregnante elemento di inserimento sociale e di dinamismo economico84. Sul fronte del credito al consumo le soglie d’usura presidiano fenomeni di sovra-indebitamento, indotti da allettanti proposte non compiutamente trasparenti che possono favorire un accesso poco responsabile al consumo immediato, senza una compiuta consapevolezza del costo del finanziamento e delle disponibilità future. D’altro canto le soglie d’usura possono indurre l’esclusione dal credito di imprenditori e famiglie che, pur presentando un merito di credito più basso (credito sub-prime), risultano comunque solvibili. Anche gli imprenditori che accedono al credito frequentemente non percepiscono compiutamente il costo del prestito: posti nell’immediata esigenza o in una visione ottimistica dei ricavi dell’investimento da

dell’usura in chiave tendenzialmente oggettiva, caratterizzando la fattispecie come una violazione del rapporto di adeguatezza delle prestazioni, secondo parametri predefiniti ed obiettivi che necessariamente non possono non tener conto delle leggi di mercato e del variabile andamento dei tassi che da esse conseguono. Attraverso l’abbandono del tradizionale requisito per così dire soggettivistico dell’abuso, e la sua sostituzione con il rilievo del tutto prevalente che nella struttura delle fattispecie finisce per assumere il requisito – tutto economico – della sproporzione tra la prestazione del mutuante e quella del mutuatario, la prospettiva della tutela sembra dunque essersi spostata dalla salvaguardia degli interessi patrimoniali del singolo e, se si vuole, dalla protezione della personalità del soggetto passivo, verso connotazioni di marcata plurioffensività, giacché accanto alla protezione del singolo, vengono senz’altro in gioco anche – e forse soprattutto – gli interessi collettivi al corretto funzionamento dei rapporti negoziali inerenti alla gestione del credito ed alla regolare gestione dei mercati finanziari. (…) dovendo l’iniziativa economica, in base allo stesso precetto costituzionale, non soltanto non porsi in contrasto con l’utilità sociale, ma addirittura ‘essere indirizzata e coordinata ai fini sociali’: il che evidentemente evoca – quale ulteriore parametro di riferimento che viene senz’altro in discorso, alla luce delle segnalate innovazioni che l’art. 644 c.p. presenta sul piano del relativo oggetto giuridico – anche la protezione offerta all’esercizio del credito dall’art. 47 della Carta fondamentale» (Cass. pen., 19 marzo 2003, n. 20148). 84 Il credito al consumo è divenuto uno strumento ampiamente utilizzato per fronteggiare i disallineamenti temporali fra le risorse disponibili e le esigenze che si presentano in maniera talvolta imprevista. L’accesso ai servizi bancari è ormai divenuto una necessità sociale, risultando il conto bancario il crocevia dei rapporti intrattenuti fra i componenti l’aggregato sociale.

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finanziare, trascurano le conseguenze di un costo elevato che, procrastinato nel tempo, si avvita in una spirale ascendente che pregiudica rapidamente ogni possibilità di rimborso85. Il dibattito in merito alla dimensione dei riflessi, positivi e negativi, sulla protezione dell’operatore economico, imprenditore e consumatore, sulle problematiche della limitazione all’accesso al credito, dei prezzi del credito, dei riflessi sulla concorrenza e del sovra-indebitamento rimane aperto, risultando ampi studi e ricerche che avvalorano ora un aspetto ora l’altro, senza pervenire a conclusioni dirimenti. Permane assai problematico valutare ed apprezzare la dimensione e rilevanza dei benefici economici e sociali indotti da una soglia d’usura in rapporto ai risvolti di limitazione allo sviluppo economico. Nel corso della storia la pratica di una soglia massima al tasso di interesse e il presidio a forme endemiche di anatocismo hanno spesso costituito una norma che ancora oggi risulta apprezzabilmente diffusa in numerosi paesi, soprattutto nel credito al consumo. Un libero e perfetto mercato del credito non abbisogna di limiti e controlli: il prezzo espresso dal mercato tende a commisurarsi al costo della provvista, della natura del credito e del rischio dell’iniziativa finanziata, senza oneri impropri. Un mercato del credito efficiente rende più onerosi e controproducenti i limiti amministrativi, potendo esprimere una flessibilità dei tassi

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In alcuni Stati americani, dove è consentito il prestito a giorni, il ‘pay-day loan’, con costi che ragguagliati ad anno si attestano su un tasso del 500%, si è riscontrata un’ampia diffusione di tale forma di credito, sospinta da offerte che fanno presa su debolezze culturali o necessità impellenti. Tale pratica, definita dalla Consumer Federation americana ‘strozzinaggio legale’ è ora vietata in numerosi Stati d’America. The Economist (3/6/99) riporta che i finanziatori dei ‘pay-day loan’ offrono un piccolo ammontare di denaro, da 100 a 300 dollari, per un breve periodo di tempo, in cambio di un assegno che non viene depositato ma restituito a fronte del pagamento in contanti dell’importo finanziato maggiorato del 20-25% o, alternativamente, rinnovato in un nuovo finanziamento contro assegno. Per questo tipo di finanziamento è unicamente richiesta la presenza di un conto bancario e la prova di un regolare stipendio. Quando il tasso di interesse per tali prestiti è ricondotto all’anno si perviene a tassi impressionanti. L’osservatorio del Chicago Sun Time dell’Illinois ha accertato un tasso medio annuo del 569%. Il Vittoria (16 novembre 2013) riporta che un certo numero di persone che lottano con i prestiti hanno disabilità intellettuali: pensano ai soldi facili, ma non capiscono le implicazioni di ciò che stanno facendo. Riforme nazionali mirano a proteggere i membri più vulnerabili dai prestiti predatori dei ‘pay-day loan’ e dalla spirale del debito che tali prestiti possono provocare. I problemi iniziano infatti quando si manca il pagamento e si incorre nelle penalità. Il passo successivo è un altro prestito e così la spirale comincia.

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che si adegua costantemente alla natura e rischio della domanda e al costo e disponibilità dell’offerta. Stringenti limitazioni ai tassi inducono da un lato una generale moderazione al costo del credito favorendo il consumo e le iniziative economiche, ma al tempo stesso possono determinare un più selettivo razionamento, impedendo l’accesso al credito a quelle iniziative che pur solvibili presentano un elevato rischio. Non si può trascurare che frequentemente le innovazioni comportano un maggior rischio che richiede un più alto interesse del capitale finanziato: limitazioni al costo del denaro possono pregiudicare il dispiegarsi di tali iniziative. Si ritengono funzionali limitazioni amministrative al costo del credito nella misura in cui risulta carente un’efficiente concorrenza del mercato che possa minimizzare il prezzo di equilibrio della domanda ed offerta di credito. Nel processo evolutivo di maturazione verso un efficiente mercato del credito, la presenza di limiti ai tassi tutela gli operatori economici più deboli, ma in uno stadio più maturo detti limiti, se eccessivamente restrittivi, possono divenire per contro fonte di distorsioni e pregiudizio per lo stesso funzionamento del mercato. Una diffusa letteratura in materia segnala i pregnanti rischi finanziari ed economici che possono derivare da eccessivi condizionamenti ai tassi del credito, che possono sopravanzare i benefici che con la normativa si intende perseguire86. La presenza di limitazioni ai tassi di interesse è una pratica assai diffusa, realizzata attraverso modalità ed intensità alquanto diversificate che rispecchiano dappresso la sensibilità e cultura, l’organizzazione e lo sviluppo del mercato del credito87.

86 Contrari ad una regolamentazione dell’usura che impedirebbe transazioni mutualmente vantaggiose: Baudassé e Levigne, Pourquoi et comment légiferer sul l’usure?, in Revue d’Economie Financière, n. 58, 2000; Blitz e Ling, The Economics of usury Regulation, in Journal of Political Economy, 1965. Favorevole per gli effetti sociali svolti da una regolamentazione: Avio, An Economic Rationale for Statutory Interest Rate Ceillings, in Review of Economics and business, 1973. 87 In uno studio curato nel 2010 presso i Paesi della Comunità Europea si riporta: «While modern interest rate ceilings are typically imposed administratively, courts in germany have transformed the ancient subjective principle of good morals into a modern objective interest rate ceiling, a process that would in principle be open to Member States with non interest rate ceiling; some initial forms of this may also be identified in Estonia, Spain and Sweden. - From the perspective of the contractual interest rate itself there are three countries

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Lo sviluppo economico del Paese può trovare un adeguato modello di sostegno e protezione in ‘calibrati’ vincoli amministrativi ai tassi fintanto che il mercato del credito non acquisisca un sufficiente grado di trasparenza e concorrenzialità88. Mano a mano che il mercato del credito evolve su superiori livelli di maturità ed efficienza, scemano i benefici apportati dai vincoli amministrativi e si palesano i costi ed inefficienze che ne derivano. L’articolazione dei parametri previsti a presidio dei tassi praticati nelle specifiche categorie di credito, se attentamente posti entro ampi limiti che consentano un corretto dispiegamento del mercato del credito, non configura una forma surrettizia di amministrazione dei tassi creditizi. Assume invece una significativa funzione surrogatoria di un’efficiente concorrenza, contrastando un drenaggio abusivo di risorse, non commisurato al costo del credito, che sortirebbe riflessi di significativa incidenza nello sviluppo produttivo e nell’equilibrio dei rapporti fra credito e consumo. Nei comparti del mercato creditizio calmierati da una proficua concorrenza, i limiti imposti divengono ininfluenti e laschi, più propri ad una funzione residuale, di presidio a forme patologiche del credito. Il mercato del credito risulta in Italia ancora in una fase iniziale. La

with an absolute ceiling in the tradition of usury, and this does not seem to have impact on the economy (Greece, Ireland and Malta). Countries which use relative interest rate ceilings based on an average market rate, multiplied by a quota such as that applied in France of one-third, or based on a money market rate multiplied by four, as in Poland, have developed fairly new systems with a high degree of effectiveness (Belgium, Estonia, France, Germany, Italy, the Netherlands, Poland, Portugal, Slovakia, Spain Slovenia)» (iff/ZEW (2010): Study on interest rate restrictions in the EU, Final Report for the EU Commission, DG Internal Market and Services, Project N. ETD/2009/IM/H3/87, Brussels/Hamburg/Mannheim; submitted by Prof. Dr. Udo Refner, Sebastien Clerc-Renaud, RA Michael Knobloch). 88 «Per quanto l’opinione sia diffusa in letteratura, la trasparenza non si esaurisce nell’informazione. Intere tematiche della vigente normativa di trasparenza bancaria non risultano oggettivamente raccordabili con l’idea di un semplice flusso di notizie, pur orientato, che dal produttore va verso il cliente. Né le vanno dati – o riconosciuti – compiti sostitutivi: per dirla in breve, sapere che le uova sono marce non le fa diventare fresche.Pensare che una riduzione delle asimmetrie informative conduca a riequilibri, o a parità di forza delle posizioni è una mistificazione. L’informazione non rende in specie un’operazione equilibrata, posto se non altro che l’equilibrio è misura di rapporto oggettiva. Tanto meno l’informazione potrebbe surrogare l’adeguatezza: in un’ora non si diventa professionisti. E meno ancora l’informazione del cliente viene da sé a rendere diligente l’agire dell’impresa» (Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013).

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concorrenza, con le riflesse sinergie di calmiere, è pressoché assente in buona parte delle categorie di credito. Il prezzo del credito si discosta significativamente dal costo della provvista, tendendo a schiacciarsi sull’utilità marginale del prenditore. La soglia d’usura dello ‘Scoperto senza affidamento’ si colloca ad oltre 100 volte l’Euribor a tre mesi89. Lungi dal porre problemi di razionamento del credito, le soglie, nei dilatati margini di operatività sopra indicati, sono parse assumere una forma di copertura a comportamenti opportunistici che hanno condotto il costo del credito su livelli tra i più alti in Europa: in tali circostanze il costo del credito presenta per l’impresa nazionale un sovraccarico economico, alla stregua di quello energetico e fiscale. La confusione e le incertezze che hanno accompagnato l’applicazione della normativa dell’usura ne hanno ostacolato un efficiente presidio, generando forme di opportunismo non tempestivamente controllate e rimosse. La presenza sul mercato di una diffusa schiera di intermediari non è in grado, da sola, di assicurare una situazione di concorrenza: vari vincoli ne impediscono una compiuta esplicazione. I costi relativi allo spostamento dei rapporti bancari, accresciuti dagli oneri informativi necessari a comparare le diverse offerte del mercato costituiscono seri ostacoli ad un libero mercato del credito. Non sembrano riscontrarsi le condizioni che possano giustificare una rimozione delle soglie d’usura, come sostenuto dalla Banca d’Italia90, mentre si avverte l’esigenza di una rivisitazione dei criteri, di maggio-

89 Cfr. Marcelli, La soglia d’usura ha raggiunto un livello pari a 100 volte l’Euribor: il presidio di legge è un argine o una copertura?, 2013, in www.assoctu.it. 90 «A oltre dieci anni dall’entrata in vigore della legge, e alla luce del mutato contesto in cui gli intermediari operano, appare necessario tornare a riflettere sul tema dell’opportunità della fissazione in via amministrativa di tassi bancari soglia (…) La riduzione dei tassi registrati nel periodo è stata molto significativa, per effetto dell’ingresso dell’Italia nell’Unione monetaria europea, dell’intonazione generale espansiva della politica monetaria e dell’aumento della concorrenza nel mercato bancario. In questo quadro generalmente positivo per la disponibilità di credito, il meccanismo dei tassi soglia previsto dalla l. 108 ha invece avuto effetti distorsivi» (Carosio, Intervento in Commissione permanente Giustizia del Senato del 27 marzo 2007). La menzionata flessione dei tassi non trova particolare riscontro nei valori del TEGM. Dalle considerazione del Vicedirettore della Banca d’Italia emerge che, o la flessione dei tassi è concreta e il TEGM rilevato dalla Banca d’Italia fornisce un’informazione distorta, o, più plausibilmente, quest’ultimo fornisce una stima, presumibilmente per difetto, del tasso medio praticato nel mercato del credito, e non vi è stato, almeno per talune categorie di credito, alcuna flessione dei tassi.

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re trasparenza e definizione dei ruoli e funzioni assegnati dalla legge 108/96 all’Organo Amministrativo, oltre che un esercizio più incisivo e pervasivo dei poteri di vigilanza, previsti dall’art. 5 del TUB, con riguardo all’osservanza delle disposizioni in materia creditizia. Una depenalizzazione dell’usura bancaria, così come insistentemente sostenuto dopo la rimozione di tale presidio in Francia, renderebbe oltremodo più aggressive le politiche di prezzo praticate dagli intermediari creditizi, informandole esclusivamente al trade-off costi benefici, senza alcuna remora di sostanziale rilievo. Un più pervasivo monitoraggio dell’Organo di Vigilanza e un apparato sanzionatorio più incisivo appare una condizione necessaria e propedeutica. Le soglie d’usura italiane, dopo il recente ampliamento dello spread sul tasso medio di mercato, si collocano su valori marcatamente discosti sia dai valori medi di mercato, sia soprattutto dai costi di raccolta degli intermediari finanziari. In tali circostanze appare poco plausibile ritenere che una rimozione (totale o parziale) delle soglie d’usura possa consentire un più ampio accesso al credito. Per le imprese francesi, dopo la parziale rimozione delle soglie d’usura, alcune indagini e analisi hanno evidenziato – pur nella difficoltà di trarre valutazioni certe ed incontrovertibili – indicatori che lasciano trasparire un miglior accesso al credito, ma le limitazioni in Francia erano ben più stringenti di quelle italiane. Non appaiono trasponibili alla situazione italiana le considerazioni e valutazioni che in Francia hanno seguito la riduzione dei limiti al costo del credito. Sussistono connotazioni peculiari al tessuto industriale, al mercato del credito e ai parametri di contorno dell’assetto normativo italiano: la dispersione dei tassi sul territorio nazionale è particolarmente estesa e la presenza di una soglia può risultare lasca e sostanzialmente inefficace per aree territoriali e comparti produttivi a minor rischio e più selettiva per aree e comparti produttivi a maggior rischio; tuttavia assai labili appaiono i margini di esclusione dal credito riconducibili alle soglie d’usura: con gli attuali valori appare modesta la fascia di clientela che, pur solvibile, presenta un rischio di credito richiedente un margine di copertura più ampio di quello consentito. D’altra parte, accanto al credito direttamente rivolto al consumo, la peculiare diffusioni di micro imprese pone una pregnante esigenza di tutela e protezione91.

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Mentre il mercato dei capitali offre alle grandi imprese apprezzabili opportunità per raccogliere risorse finanziarie, la gran parte delle piccole e medie imprese possono

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In Italia il credito bancario rimane prioritario coprendo il 91% dei finanziamenti totali (dati BCE). La quasi totalità delle imprese italiane sono PMI, distinte in PMI-retail (fatturato fino a 5 milioni e finanziamenti fino a 1 milione) e PMI-corporate (fatturato compreso tra 5 e 50 milioni e finanziamenti superiore a 1 milione). L’importanza della PMI è particolarmente accentuata in Italia dove assorbe l’81% della forza lavoro contro il 46% del Regno Unito e il 39% di Francia e Germania (dati Eurostat 2008). L’Eurobarometro 2009 segnala le maggiori difficoltà di accesso al credito delle PMI italiane a causa dei più elevati tassi di interesse, dei maggiori costi di finanziamento e soprattutto dell’aumento delle richieste di garanzie92. Da un’indagine condotta dal Financial Times e ripresa dal Sole 24 Ore, per un tipico finanziamento a medio termine le imprese italiane pagano un tasso medio del 6,24% contro il 4,1% dell’impresa francese e il 4,04% dell’impresa tedesca. La soglia d’usura deve essere posta su valori sufficientemente accostati ai valori espressi dal mercato per evitare l’acquisizione di rendite ‘abusive’ a carico di imprenditori e consumatori, ma al tempo stesso deve essere sufficientemente discosta per non condizionare il libero svolgimento del mercato del credito e consentirne l’accesso ad ogni iniziativa economicamente efficiente. Il mercato deve poter esprimere tassi che variano entro margini idonei ad allineare il costo del credito al rischio dell’iniziativa finanziata, sino a quel valore massimo tendenziale di rischio oltre il quale il costo stesso del finanziamento pregiudica l’in-

contare soltanto sul finanziamento bancario: per altro per queste ultime la misura del rischio è più complessa rispetto alle grandi imprese per le quali esiste una maggiore abbondanza di informazioni pubbliche; solo stabilendo rapporti prolungati nel tempo si pone in condizione la banca di apprezzare correttamente il rischio dei finanziamenti concessi. Anche per tali motivi le PMI italiane si caratterizzano per l’elevato indebitamento e la scarsa liquidità. I tassi applicati alle PMI risultano particolarmente elevati e non sempre rispecchiano il rischio di credito dell’impresa. 92 Poco più dell’85% delle imprese non ha obblighi contabili, in quanto non costituite nella forma di società di capitale e le esigenze di carattere informativo necessarie per l’applicazione delle regole prudenziale introdotte da Basilea non possono essere soddisfatte appieno. Il rapporto con l’intermediario assume peculiarità poco formali e strutturate e la conoscenza della realtà aziendale si fonda scarsamente su analisi puntuali dei vari indicatori reddituali, finanziari e patrimoniali: le analisi risultano per lo più sintetiche e il patrimonio ricopre un ruolo centralissimo, come dimostra la ormai consueta richiesta ai propri clienti da parte della banca di fornire garanzie personali.

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vestimento. «Sul piano della teoria economica, la correlazione tra rischio e rendimento non ha un andamento sempre crescente. Oltre un certo livello, nessun aumento di tasso può compensare l’aumento del rischio, anzi l’onerosità del tasso aggrava il rischio in una spirale perversa. La curva di offerta dei prestiti – che raffigura la quantità di credito offerta dagli intermediari in funzione del prezzo a cui il finanziamento viene erogato – diviene a quel punto anelastica, insensibile al tasso»93. La soglia d’usura pone pertanto un delicato equilibrio, dove gli effetti virtuosi e perversi sono connessi in un particolare rapporto di trade-off, reso complesso e multi- variegato in funzione della diversificazione geografica e di settore economico, oltre che dimensionale. Le soglie d’usura, nonostante le inefficienze applicative, hanno esercitato, negli ultimi diciotto anni, una forma di tutela a favore di imprenditori e consumatori, sopperendo alle marcate inefficienze del mercato del credito. Senza un corretto equilibrio, che contemperi la stabilità dell’intermediario alla concorrenza del mercato del credito, ogni forma di rimozione delle soglie d’usura sortirebbe unicamente un indebito travaso economico dalle classi economico-sociali più deboli.

9. Considerazioni finali La marcata tensione a cogliere le opportunità di un mercato del credito affetto da un’endemica carenza di concorrenza, dove il prezzo del denaro si forma più sull’utilità marginale del prenditore che sul costo del servizio del datore, sospinge gli intermediari ad utilizzare pieghe normative e risvolti elusivi per massimizzare i profitti, valutando, nel calcolo dei costi/benefici, di esiguo rilievo i riflessi reputazionali e giudiziari dei comportamenti opportunistici adottati94. Quella dei crediti revocati, posti nella Categoria degli ‘Scoperti senza affidamento’, congiuntamente ai tassi extra-fido in esubero delle soglie

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Berionne, Usura e Disciplina penale del credito, Frascati, 1997. Il Governatore Draghi, in un articolo pubblicato sull’Osservatore Romano, a commento dell’Enciclica Caritas in veritate, così si esprimeva: «Un modello in cui gli operatori considerano lecita ogni mossa, in cui si crede ciecamente nella capacità del mercato di autoregolamentarsi, in cui divengono comuni gravi malversazioni, in cui i regolatori dei mercati sono deboli o prede dei regolati, in cui i compensi degli alti dirigenti d’impresa sono ai più eticamente intollerabili, non può essere un modello per la crescita del mondo». 94

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d’usura, costituisce alcune delle più recenti ‘forzature’ messe in campo per eludere od edulcorare il presidio dell’usura. Criticità si riscontrano altresì nei criteri di annualizzazione, disapplicati in talune circostanze, nei finanziamenti ipotecari in conto corrente e nei mutui che, se erogati in due tranche, una prevalente iniziale e l’altra a ‘stato avanzamento lavori’, non rientrano nella Categoria dei ‘Mutui’ ma in quella residuale degli ‘Altri finanziamenti’, con una soglia marcatamente più elevata. Oltre allo Scoperto senza affidamento, enucleato dalla Categoria delle Aperture di credito, gli altri finanziamenti alle imprese sono stati spostati nella Categoria residuale, con evidenti riflessi di innalzamento della soglia. Non sono disponibili elementi statistici dimensionali delle categorie contemplate nelle ‘Istruzioni’ ma le modifiche e gli andamenti dei tassi più recenti sembrano segnalare un’estensione dimensionale della categoria residuale, alla quale non corrisponde affatto alcun criterio di omogeneità, come previsto dalla legge95. Il legislatore, nel fissare prima al 50%, poi al 25% più quattro punti, lo scarto massimo dal tasso medio espresso dal mercato, ha stabilito un limite assoluto di invalicabilità del costo del credito, quale che sia il titolo al quale viene esatto detto costo. Non ha tuttavia previsto un limite unico, ma ha inteso modellare la limitazione in funzione di caratteri di omogeneità connessi alla natura, oggetto, importo, durata, rischio e garanzia, rimettendo all’Organo Amministrativo il compito di individuare categorie di credito omogenee. Nel concetto di omogeneità, con le distinzioni indicate dalla legge, si è colta una flessibilità discrezionale per allentare il limite d’usura attraverso successivi frazionamenti del credito in categorie la cui omogeneità appare in taluni casi informata a speciosi criteri, con delimitazioni e dettagli – riportati nelle ‘Istruzioni’ e, più recentemente nelle FAQ – che assumono fattezze di scarsa oggettività. In

95 «Com’è intuitivo, inserire un’operazione in una categoria di carattere residuale – e in cui sono mescolati insieme, tra le altre cose, anche ‘credito su pegno’, ‘crediti connessi con delegazione di pagamento’, ‘mutui chirografari’ -, se può sollevare dubbi sulla portata dell’ampiezza, assicura che questa ‘categoria’ non ha nemmeno un minimo di omogeneità. D’altro canto, più si procede a distinzioni e frammentazioni, più si viene a complicare un meccanismo la cui ragione d’essere sta, all’opposto, nella semplificazione. È da chiedersi, a questo punto, se non sia senz’altro meglio risolvere il problema – più che con una categoria residuale priva di oggettivo significato o con un’insensata moltiplicazione di categorie – affidandosi a una valutazione costruita caso per caso (sulla base della sola indicazione di genere, cioè)» (Dolmetta, Trasparenza, cit.).

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diciotto anni di applicazione dei limiti d’usura, in plurimi interventi, è stato ampliato il numero di categorie e classi da 15 a 25, inducendo un allentamento dei limiti d’usura non certo inferiore a quanto disposto con il provvedimento legislativo (legge 106/11) che ha modificato lo spread, portandolo dal 50% al 25% più quattro punti96. Gli intermediari finanziari vanno cogliendo le smagliature delle Categorie previste nelle ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia distribuendo le erogazioni di credito prevalentemente nelle Categorie con soglie d’usura maggiori, piegando all’occorrenza le condizioni contrattuali ai laschi parametri di inclusione previsti nelle ‘Istruzioni’ stesse. Gli escamotage posti in campo sono i più vari, nella totale impotenza della clientela che subisce gli articolati costrutti contrattuali sui quali, nel formale rispetto della libertà contrattuale, la Banca d’Italia non ritiene di poter intervenire. Si assiste da lungo tempo ad una continua e pervicace tensione degli intermediari bancari a ricercare margini di profitto in forme contrattuali e comportamenti giuridicamente estremi, confidando nei tempi lunghi impiegati dalla giurisprudenza per dirimere dubbi, contraddizioni e discrasie. Le circostanze di scarsa chiarezza e definizione delle regole di condotta pregiudicano la stessa concorrenza nel mercato del credito, inducendo comportamenti ‘aggressivi’ volti ad acquisire margini di profitto, attraverso strategie di prezzo e condizioni di credito, collocate su posizioni border line, dove i limiti di demarcazione legale non trovano un’unanime e condivisa individuazione.

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«Più si segmenta il mercato del credito in distinte categorie più omogenee, più si riduce la variabilità all’interno della categoria e meno stringente risulta, per ciascuna categoria, lo spread posto pari al 25% più 4 punti percentuali. Da un punto di vista tecnico un allargamento del numero delle categorie risulta, in qualche misura, equivalente ad un ampliamento dello spread. (…) Se per le aperture di credito si prevede la partizione nelle classi di rischio A e B, ipotizzando un tasso medio originario della categoria pari al 6% al quale corrisponde un tasso medio del 4% per la partizione A e un tasso medio dell’8% per la partizione B, la soglia d’usura passerebbe dall’11,50% (6% + ¼ di 6% + 4 punti) al 14% (8% + ¼ di 8% + 4 punti), potendo l’intermediario bancario, nella sua discrezionalità, spostare agevolmente il credito dalla partizione A alla B. È quello che si è fatto con lo scorporo, dalla categoria delle aperture di credito, di quelle prive di fido e quello che si prevede di introdurre con lo scorporo del credito extra-fido dal credito affidato. Con questi interventi la Banca d’Italia esercita un ruolo attivo nel diritto, un compito ‘creativo’ che le risulterebbe precluso. Avrebbe più senso e ragionevole sintonia con il principio di legge separare le aperture di credito garantite da quelle non garantite, per l’elemento oggettivo della garanzia che modifica la natura e il rischio del credito, oltre che l’onere a carico del cliente» (Marcelli, La soglia d’usura ha raggiunto un livello pari a 100 volte l’Euribor: il presidio di legge è un argine o una copertura?, 2014, in www.assoctu.it).

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Le ristrettezze nell’offerta del credito e l’anomala dimensione che è venuto assumendo il credito a revoca e a breve termine – ampiamente scollegato dalle esigenze finanziarie dell’impresa – determinano una situazione di oligopolica dominanza. In questa cornice del mercato, l’ampio ricorso allo ius variandi per modificare le condizioni contrattuali, vanifica ogni spinta alla concorrenza: ogni ragionata selezione e comparazione degli intermediari creditizi, con gli apprezzabili costi di spostamento dei rapporti, si scontra con l’instabilità e la precarietà delle nuove condizioni economiche ricevute dall’intermediario. Ancorché la norma penale abbia accostato, in maniera poco consona con la diversa natura, l’usura bancaria all’usura criminale, ciò non è valso a moderare I comportamenti bancari97. Nelle pieghe della normativa secondaria si è trovato il pretesto di un’apparente discordanza per eludere la soglia d’usura, confidando, come ultima sponda, nella generale prudenza che, di regola, accompagna l’operato della Magistratura penale. Per contro viene riversato nelle aule dei Tribunali un marcato quantitativo di vertenze, per ricorrenti ed uniformi irregolarità, la cui patologica dimensione denuncia la confusione e opacità della regolamen-

97 «Si è osservato che si è trasfigurata l’usura da fattispecie di contrasto di condotte pericolose intrinsecamente illecite – quelle del ‘cravattaro’ e della criminalità organizzata – a fattispecie di regolamentazione di un’attività pericolosa lecita: l’attività bancaria o di intermediazione finanziaria, e, più in generale, di esercizio del credito. Che la direttrice della tutela (recte: dell’intervento) penale sia ormai vieppiù prevalentemente orientata verso il corretto funzionamento del mercato (ufficiale) del credito è confermato dal recente provvedimento legislativo – il d.l. 29 novembre ‘08, n. 185 conv. L. 28 gennaio ‘09, n. 29 – che, nel disciplinare finalmente la controversa «commissione di massimo scoperto», non ha mancato di considerarne la rilevanza ai fini dell’art. 644 c.p., così implicitamente riconoscendo alle banche il ruolo di attrici protagoniste del nuovo delitto di usura. L’usura bancaria palesa ontologica distanza, sul piano empirico e criminologico, con il corrispondente fenomeno attribuibile alla criminalità ‘comune’, specie organizzata. Sostenere che l’usura ‘comune’ e l’usura ‘bancaria’ sono fenomeni ontologicamente differenti (e che pertanto necessitano di una risposta differenziata), non significa in alcun modo escludere che l’esercente una legale attività di credito possa macchiarsi del reato d’usura: significa, semplicemente, che l’usura è altro dall’eccesso nelle condizioni di credito, il quale ultimo può ben assumere rilievo giuridico, ma non nell’ambito di una fattispecie penale di usura. Volendo ricorrere ad una semplificazione, ed esprimendosi un po’ brutalmente, si può dire: anche il banchiere può essere un cravattaio, ma affermare che il banchiere che eccede i tassi è sempre un cravattaio non è corretto, anzi è inaccettabile» (Cfr. Borsari, Il delitto di usura ‘bancaria’ come figura ‘grave’ esclusa da benefici indulgenziali. Profili critici, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2009).

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tazione, nonché la lacunosità e scarsa incidenza dei controlli dell’Organo di Vigilanza98. Una diffusa elusione delle soglie d’usura induce una lievitazione dei costi e dei rischi generali d’impresa, con conseguenti limitazioni all’espansione degli investimenti e tassi più elevati di default, con pregiudizio, in ultima istanza, dello stesso sviluppo economico. Per altro verso vengono oltremodo appesantite le condizioni economiche del settore Famiglie, risultano frenati i consumi ed esasperate le problematiche umane e sociali. Le soglie d’usura sembrano indurre, in una tacita collusione, un indebolimento della concorrenza, assumendo la veste di valori di riferimento nell’assunzione delle decisioni sul prezzo del credito. La modalità endogena di rilevazione del tasso soglia sortisce, fra un trimestre e il successivo, un effetto perverso di crescita (échelle de perroquet) nella misura in cui l’intermediario finanziario è sospinto a praticare tassi prossimi alla soglia. Non si dispone del dettaglio delle statistiche di rilevazione dei tassi curate dalla Banca d’Italia per la determinazione delle soglie d’usura, ma l’evoluzione dei tassi praticati dopo l’introduzione dell’Euro segnala, per talune categorie di credito, andamenti di crescita che potrebbero essere ricondotti al noto effetto dell’’échelle de perroquet’, che in Francia viene attentamente monitorato e presidiato. In particolari segmenti del credito al consumo e alle imprese – privi di concorrenza, caratterizzati da asimmetria informativa e vincolati da rapporti negoziali di maggiore dipendenza dal credito – l’effetto di trascinamento verso il tasso soglia del tasso medio sembra assumere una pregnante rilevanza. Per evitare l’effetto di trascinamento del tasso medio verso il tasso soglia, occorre sganciare il secondo dal primo, così che un accostamento al tasso soglia non venga ad alimentare un innalzamento del tasso medio, che poi viene impiegato per determinare un nuovo e più alto tasso soglia. Questo effetto distorsivo della lievitazione del tasso soglia può essere evitato assumendo a riferimento tassi esterni, correlati ma non direttamente dipendenti dai tassi di finanziamento. Una soluzione praticabile può essere individuata in un tasso che, anziché essere riferito al costo medio

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Secondo un sondaggio realizzato per Plus 24 da Ipr Marketing, il 68% degli italiani ritiene squilibrato il rapporto dei clienti con la banca e «quasi la metà degli italiani, ovvero il 45%, ritiene che non ci sia nessuno a sorvegliare le banche. Solo il 22% ritiene che questo sia un compito della Banca d’Italia» (Criscione, in Sole 24 Ore, Plus 24, 5 luglio 2014).

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rilevato sul mercato del credito, sia riferito al costo di approvvigionamento dell’intermediario. Si potrebbe assumere a riferimento il tasso Euribor o il tasso di rifinanziamento della BCE, per i finanziamenti legati ai tassi monetari e un benchmark di riferimento analogo – tassi Eurorirs o BTP decennali – per i finanziamenti a più lungo termine. Con riferimento a tali parametri potrebbe essere stabilito, Categoria per Categoria, un moltiplicatore e uno spread assoluto, che possono essere agevolmente stimati sulla base della lunga serie di statistiche che dal ’97 la Banca d’Italia rileva per la determinazione del tasso soglia. Un’attenta valutazione degli effettivi costi di intermediazione in ciascuna Categoria di credito può altresì consentire di individuare le correzioni al moltiplicatore che permettano di stemperare quelle divergenze con il prezzo del credito riconducibili alle scelte di opportunità dell’intermediario volte a condizionare le effettive esigenze dell’operatore economico99. Una scelta così orientata porrebbe per altro fine ad ogni forma di discrasia, opacità e indeterminatezza che ha accompagnato le rilevazioni trimestrali del TEGM, mantenendo la flessibilità e diversificazione delle soglie d’usura, ma restituendo una più cristallina trasparenza al parametro di completamento della norma penale. Le ‘Istruzioni’, chiarimenti ed indicazioni della Banca d’Italia, travalicando il ristretto ambito di competenza attribuitole dalla legge 108/96, hanno ampiamente condizionato l’applicazione delle soglie d’usura, inducendo criteri di verifica improntati a scarsa trasparenza e sospinta soggettività, più funzionali, in un’ottica di stabilità, a edulcorare i limiti di legge e coprire i rischi legali dell’operato degli intermediari, che a tutelare gli utilizzatori del credito.

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Le più recente riforma francese delle Categorie di credito sottoposte alle soglie d’usura è quasi esclusivamente rivolta a contrastare l’effetto dell’échelle de perroquet e a favorire un maggiore accostamento dell’offerta del credito alle effettive esigenze del consumatore. «Indépendamment des explications avancées sur le comportment des organismes prêteurs, le mécanisme même des taux d’usure comporte des effets se traduisant par une hausse des taux. L’application d’un coefficient à des observations sur les taux moyens pratiqués, a pour consequence d’entraîner le relèvement progressif des taux plafonds, dés lors que les étlablissements de credit ont tendance à tarifer des taux d’intérêt se rapprochant du niveau de l’usure (effet dit ‘d’échelle de perroquet’). De la même manière, le caractère endogène du mode de fixation de l’usure pourrait se traduire par un baisse des taux plafonds en cas de diminution des taux d’intérêts moyens effectivement pratiqués. (…) Les données issues des observations de la Banque de France en octobre 2008 confirment l’accumulation des taux d’intérêt des credits non échéancés (credits renouvelables et decouverts bancaires) au voisinage de l’usure» (Lépine e Laloue, Rapport sur les modalités de fixation du taux de l’usure, 2009).

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La Corte Costituzionale ha più volte precisato che il rinvio della norma penale alla fonte subordinata è legittimo in tanto in quanto la legge indichi con sufficiente puntualità i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti del provvedimento integratore del precetto. La Cassazione, anche recentemente, ha ribadito che la riserva di legge è rispettata, risultando affidato alla Banca d’Italia e al MEF solo il compito di fotografare i tassi di mercato100 La carenza non è nella legge, ma rimane nell’impiego ‘difforme’ della norma amministrativa. Gli interventi della Banca d’Italia appaiono andare ben oltre ‘l’atto meramente ricognitivo, destinato a ‘fotografare’ l’andamento dei tassi finanziari distinti per classi omogenee di operazioni, secondo parametri di certezza ed obiettività’. Le norme amministrative che fungono da determinazione del precetto penale sollevano delicati problemi di oggettività con i connessi riflessi sul principio di tassatività che presiede la norma penale. A fronte della ‘fotografia’ reiteratamente richiamata dalla Cassazione, traspaiono

100 «Proprio il rilievo che assume la procedura amministrativa per l’integrazione del reato ha fatto sorgere dei dubbi di costituzionalità della norma. Sul punto è intervenuta questa Sezione che ha statuito che: «In tema di usura è manifestamente infondata l’eccezione di incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 644, terzo comma cod. pen. e 2 della legge 7 marzo 1996 n. 108 per contrasto con l’art. 25 Cost., sotto il profilo che le predette norme, nel rimettere la determinazione del «tasso soglia», oltre il quale si configura uno degli elementi oggettivi del delitto di usura, ad organi amministrativi, determinerebbero una violazione del principio della riserva di legge in materia penale» (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20148 del 18/03/2003 Ud. Rv. 226037). Con tale pronunzia la Corte ha osservato che il principio della riserva di legge è rispettato in quanto la suddetta legge indica analiticamente il procedimento per la determinazione dei tassi soglia, affidando al Ministro del tesoro solo il limitato ruolo di «fotografare», secondo rigorosi criteri tecnici, l’andamento dei tassi finanziari. Non v’è dubbio che la legge abbia determinato con grande chiarezza il percorso che l’autorità amministrativa deve compiere per «fotografare» l’andamento dei tassi finanziari. Questo percorso postula l’intervento della Banca d’Italia che nella sua qualità di Organo di vigilanza deve fornire le dovute istruzioni alle banche ed agli operatori finanziari autorizzati per la rilevazione trimestrale dei tassi effettivi globali medi praticati dal sistema bancario e finanziario in relazione alle categorie omogenee di operazioni creditizie. E tuttavia questo intervento tecnico per «fotografare» l’andamento dei tassi finanziari postula comunque delle scelte interpretative da parte dell’Organo di vigilanza tanto in merito alla classificazione delle operazioni omogenee rispetto alle quali effettuare la rilevazione dei tassi medi effettivamente praticati nel trimestre, quanto in merito all’individuazione «delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese (…) collegate all’erogazione del credito», che devono essere incluse nelle rilevazioni statistiche, quanto delle voci che devono essere escluse, in quanto imposte o tasse, ovvero oneri non collegati all’erogazione del credito (Cass., 19 febbraio 2010, n. 12028).

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interventi dell’Organo Amministrativo che richiamano le pitture di Ferdinando Botero. Le criticità dell’intervento della Banca d’Italia si pongono sia sul lato della rilevazione dei tassi per la determinazione delle soglie d’usura, sia sul lato delle interferenze con la verifica dell’usura. La scelta del metodo di calcolo del tasso effettivo, dei criteri di raccolta dei dati statistici, dei criteri di individuazione delle categorie omogenee, incide significativamente sulla determinazione delle soglie e, se intesa in senso creativo, libera eccessivi margini ‘in bianco’ della norma penale: la discrezionalità amministrativa deve trovare contenimento e limiti invalicabili nell’oggettività dei criteri stessi. Le ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia per la rilevazione del tasso medio di mercato – anche dopo le correzioni apportate nel 2009 – in più aspetti si pongono in contraddizione con il criterio di verifica del rispetto del tasso soglia dettato dall’art. 644 c.p. In primis, la formula di calcolo del TEG, impiegata dalla Banca d’Italia per la determinazione del TEGM si discosta apprezzabilmente dal tasso annuo effettivo richiamato dalla norma di legge. La formula ideata dalla Banca d’Italia è del tutto sconosciuta alla matematica finanziaria. Con tale formula si realizza un improprio allentamento del vincolo disposto dall’art. 644 c.p. che prevede espressamente il riferimento al credito erogato: «Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito.». Introducendo una discriminazione fra interessi da un lato e commissioni, oneri e spese dall’altro, nel TEG indicato dalla Banca d’Italia101, ai primi si applica il previsto disposto normativo, riferendoli al credito erogato, mentre ai secondi si applica un diverso e più edulcorato vincolo, riferendoli al credito accordato o, al più, al massimo credito concesso nel trimestre. Tale anomalia è stata prontamente colta dagli intermediari finanziari, che hanno alimentato una rapida proliferazione di oneri e spese, solo da ultimo arginata dall’introduzione della commissione onnicomprensiva di affidamento e dalla commissione di istruttoria veloce102. Un’altra rilevante contraddizione è emersa nel cri-

101 La discriminazione in parola si riferisce esclusivamente alle Categorie: Apertura di credito in c/c; Scoperti senza affidamento; Finanziamenti per anticipi su crediti e documenti, sconto di portafoglio commerciale, factoring e credito revolving. 102 Un’ulteriore criticità viene sollevando la commissione di istruttoria veloce, per

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terio di annualizzazione delle commissioni, oneri e spese, introdotto nella formula di calcolo del TEG con le nuove ‘Istruzioni’ ’09, ma apprezzabilmente edulcorato con le successive modifiche apportate dalle FAQ. Così che uno stesso ammontare, che addebitato come interesse farebbe debordare la soglia, addebitato invece come onere o spesa, risulterebbe rispettoso della soglia. Ancorché la Cassazione ritenga che «non v’è dubbio che la legge abbia determinato con grande chiarezza il percorso che l’autorità amministrativa deve compiere per ‘fotografare’ l’andamento dei tassi finanziari» (Cass. pen., 19 febbraio 2010 n. 12028), si assiste ad un ingiustificato e reiterato interventismo che fa della ‘fotografia’ un simulacro. Dalla lettura delle FAQ, assurte ad integrazione delle ‘Istruzioni’, si colgono pregnanti elementi pervasi da un’accentuata discrezionalità, forse funzionali alla gestione del credito, ma che appaiono poco congruenti con il principio di oggettività che dovrebbe presiedere la definizione delle Categorie e dei TEG di rilevazione del TEGM. Con i recenti provvedimenti legislativi è stata soppressa l’iniqua CMS ed è stato posto fine ad un impiego ‘sconsiderato’ di oneri e spese, riconducendo ad un’unica voce, commisurata ai costi, le spese di istruttoria e di affidamento che accompagnano la concessione del fido e dello scoperto. Onde evitare che tali oneri, nell’evenienza di anomale sproporzioni con il credito erogato, conducano il TEG praticato oltre la soglia, gli operatori bancari si sono dotati di algoritmi di ‘cimatura’ che automaticamente riportano entro il tasso soglia gli importi addebitati. La formula della Banca d’Italia, con l’inclusione nel TEG di tali spese fisse, è divenuta anacronistica, essendo venuta meno la già labile motivazione della sua inedita formulazione. Le commissioni di istruttoria e affidamento – afferenti il servizio preliminare di messa a disposizione dei fondi, distinto dal credito utilizzato – sono ormai regolate da speci-

l’incidenza che talvolta viene assumendo in rapporto agli interessi e che «ingenera il sospetto che, in realtà, e contro lo spirito della legge, la banca non abbia mai effettuato l’istruttoria veloce, ed abbia invece nei fatti considerato la CIV una sorta di equipollente di altre commissioni, variamente denominate (indennità di sconfinamento, penale di sconfino, ecc..) invalse nella prassi bancaria in epoca antecedente all’introduzione dell’art. 117 bis t.u.b.» (ABF, Collegio di Roma, n. 3260/14). Nella circostanza rimane carente la trasparenza della parametrazione di tale commissione ai costi effettivamente sostenuti dall’intermediario, il cui controllo è rimesso esclusivamente all’Organo di Vigilanza.

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fiche norme e potrebbero anche essere escluse dalla verifica dell’usura, mentre le altre spese potrebbero ben rientrare, senza distinzione alcuna, nella tradizionale formula degli interessi (TAEG). Le frequenti modifiche e cambiamenti che intervengono nella classificazione e rilevazione statistica, non trovano spiegazione in alcuna analisi e documentazione resa disponibile dalla Banca d’Italia: gli stessi dati rilevati rimangono esclusi all’informazione. Gli andamenti storici dei TEG rilevati sollevano apprezzabili perplessità che andrebbero fugate ponendo a disposizione analisi e dati di dettaglio per comprenderne compiutamente l’evoluzione103. La ritrosia ad una maggiore informazione sembra voler escludere interferenze e critiche che imporrebbero una maggiore spiegazione e trasparenza delle scelte operate dalla Banca d’Italia. La delicata funzione di imparzialità, oggettività e professionalità rimessa all’Istituto Centrale richiederebbe una maggiore attenzione alle pronunce della Cassazione, a garanzia che i rapporti di coerenza della norma subordinata alla legge penale rimangano nei limiti previsti dall’art. 25 della Carta Costituzionale. Gli aspetti di conflitto d’interesse, rivenienti dalla circostanza che i dati sono forniti dagli stessi soggetti al cui controllo la norma è rivolta, dovrebbero altresì suggerire un fermo presidio sanzionatorio alla precisione e correttezza delle informazioni trasmesse e un utilizzo più incisivo dei poteri di Vigilanza rivenienti dall’art. 5 del t.u.b. per assicurare, anche sul fronte dell’applicazione dei tassi alla clientela, una corretta rispondenza dei comportamenti ai principi stabiliti dalla legge sull’usura. Nel rispetto della funzione assegnata al giudice, la Banca d’Italia potrebbe altresì esercitare la sua proverbiale moral suasion per indirizzare gli intermediari creditizi ad astenersi da comportamenti border line che potrebbero risultare illeciti. Le indicazioni, spesso parziali e di favore, prospettate dalla Banca d’Italia, appaiono più dirette ad amministrare la verifica dell’usura che a curare una corretta rilevazione statistica del tasso medio di mercato.

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I dati del TEGM rilevati dalla Banca d’Italia, nonostante l’impiego della formula del TEG che induce un’apprezzabile sottovalutazione del tasso effettivo, risultano marcatamente superiori a quelli di una diversa rilevazione, riportata nel Bollettino statistico, riferita al TAEG, l’effettivo costo del credito, anche se tale rilevazione esclude le esposizioni inferiori a € 30.000, il ventre ‘molle’ e ‘allargato’ del Paese dove si concentra numericamente la parte rilevante delle esposizioni creditizie più deboli. Sembra potersi dedurre che la flessione dei tassi, conseguente all’ingresso dell’Euro, abbia riguardato, quasi esclusivamente, i crediti di più elevato importo.

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Attraverso il disposto dell’art. 3 co. 2 dei decreti ministeriali, si vorrebbero trasporre i margini ‘accomodati’ della rilevazione statistica del TEGM alla verifica del rispetto della soglia d’usura. Sembrano perpetrarsi quegli spazi di scarsa trasparenza e di conflitto con la norma penale che hanno consentito in passato l’ampio ricorso al favor rei, in presenza di significative lesioni al rispetto della legge104. Seppur tendenzialmente accostati, se non si tengono distinti i criteri di rilevazione del tasso medio (TEGM) dai criteri di verifica del rispetto della soglia, continuano a permanere ampie zone di criticità dove la rilevazione del TEGM non fotografa l’effettivo tasso di mercato e la verifica dell’usura mutua dai criteri di rilevazione aspetti in aperto conflitto con i principi dell’art. 644 c.p. Comportamenti opportunistici degli intermediari, dietro la formale copertura dell’art. 3, comma 2 dei decreti ministeriali e le confuse indicazioni della Banca d’Italia, hanno per lungo tempo reiterato problemi di determinatezza e tassatività della norma, aprendo il varco a condotte che, pur oggettivamente illecite, non hanno integrato il reato penale per mancanza dell’elemento soggettivo. La norma che regola l’usura è chiara, semplice, di immediata comprensione ed applicazione. La norma amministrativa, rivolta alla rilevazione di un dato statistico, risulta al contrario articolata in dettagli e specificazioni necessari a cogliere compiutamente il dato fisiologico medio di mercato. Le perplessità ed incertezze insorgono quando i criteri di calcolo ed inclusione della rilevazione statistica vengono trasposti sulla norma di legge penale, po-

104 Come hanno evidenziato le vicende della CMS, le scelte della Banca d’Italia dispiegano frequentemente un velo di opacità sui contenuti operativi della norma penale, ponendo un ostacolo all’ineludibile presupposto della responsabilità penale, costituito, appunto, dalla chiarezza, riconoscibilità e tassatività dell’effettivo contenuto precettivo della norma penale: «Accade così che, nei processi per usura bancaria, là dove siano in discussione questioni tecnico-civilistiche (…) i consulenti ed i periti formulino ognuno, in un ideale contraddittorio con se stesso, più di un’ipotesi ricostruttiva, con esiti differenti quanto al superamento della soglia individuata; e capita di leggere, in tali casi, che il giudice dia atto della scientificità di tutti i pareri espressi dai consulenti di parte e d’ufficio, nonché dell’esistenza di una reale incertezza e lacunosità tecnica del settore, prima di giungere ciò nonostante alla pronuncia della sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, reputando corretto riferirsi all’una piuttosto che all’altra delle letture. La normale, quasi scontata assoluzione dell’imputato sul piano dell’elemento soggettivo, nei casi in esame, non fa che convincere ulteriormente del fatto che nella tassatività della norma si aprono talune falle, alla luce delle quali la condotta del singolo, pur ritenuta oggettivamente illecita, viene tuttavia, ritenuta non integrante il reato per mancanza dell’elemento soggettivo» (Boido, Usura e diritto penale, Padova, 2010).

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nendo una variegata casistica di fattispecie concrete nelle quali il TEG risulta entro la soglia, mentre il tasso annuo effettivo (TAEG) richiamato dalla norma si colloca, anche apprezzabilmente, al di sopra della soglia. Con i fermi principi di responsabilità e di stretto rispetto dell’art. 644 c.p. fissati dalla Cassazione Penale n. 46669/11 – senza alcun riconoscimento di delega al MEF e alla Banca d’Italia, salvo la ‘fotografia’ dei tassi di mercato – è stata ristabilita la determinatezza e tassatività della norma penale, ripristinando la dignità dell’art. 644 c.p.: dopo la menzionata pronuncia non sembra si possa escludere, anche sotto il profilo soggettivo, il reato d’usura, in quei comportamenti degli operatori bancari riferiti esclusivamente alle indicazioni e ‘Istruzioni’ della Banca d’Italia. Con la recente pronuncia della Cassazione n. 18778/14, anche all’usura concreta (co. 3, art. 644 c.p.) è stato restituito un definito ed oggettivo ambito di applicazione, al quale gli intermediari sono chiamati a prestare una pari attenzione. Se poi l’Organo di Vigilanza non esplica compiutamente i poteri che gli rivengono dall’art. 5, più recentemente rafforzati nell’art. 127 del t.u.b., il presidio della norma rimane affidato esclusivamente alla Magistratura. Nei tempi ritardati di quest’ultima, i fenomeni di reato, per la stessa dinamica del mercato105, si vengono diffondendo a buona parte degli intermediari finanziari determinando un continuo flusso seriale di ricorsi giudiziari. Si avverte l’esigenza di evitare discrasie, interpretazioni ed indicazioni che si frappongono ad una verifica dell’usura riferita esclusivamente al dettato letterale dell’art. 644 c.p106, rimuovendo la prescrizione che conti-

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«Le stesse regole di mercato inducono spinte al profitto che esasperano i comportamenti ‘aggressivi’ sino al limite di legge ed oltre: con l’indesiderato riflesso di sospingere ai margini del mercato proprio quegli intermediari più cauti che cogliendo la discrasia fra norma di legge e disposizione amministrativa vengono adottando comportamenti prudenziali a rispetto dell’una e dell’altra. È naturale e consequenziale che l’imprenditore bancario adotti strategie di mercato che massimizzino i profitti, nell’ambito delle regole definite dalle norme e dalle indicazione della Banca d’Italia: la patologica proliferazione di commissioni, oneri e spese, a cui si è assistito negli ultimi quindici anni, è tutta riconducibile alla discrasia insita nella norma amministrativa che ha prevalso sulla norma di legge, discriminando, nella formula del TEG, gli interessi dalle altre competenze. Motivi opportunistici di bilancio hanno suggerito agli operatori bancari di privilegiare le difformi indicazioni della Banca d’Italia rispetto alla incontrovertibile formulazione dell’art. 644 c.p., confidando nella generale moratoria che le recenti sentenze della Cassazione penale hanno dovuto riconoscere per il periodo precedente il 2010» (Marcelli, La soglia, cit.). 106 «La legge 108/96, imperniata sull’oggettivo squilibrio delle prestazioni dedotte in

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nua ad essere riportata nell’art. 3, comma 2 dei decreti del MEF di pubblicazione delle soglie d’usura, oltre al richiamo negli stessi all’indagine campionaria della Banca d’Italia del 2001: tali enunciati costituiscono lo sparuto velo al quale si appoggiano i più sospinti comportamenti opportunistici degli intermediari. La pronuncia della Cassazione è categorica: «La materia penale è dominata esclusivamente dalla legge e la legittimità si verifica solo mediante il confronto con la norma di legge (art. 644, co. 4, c.p.)», e precisa: «Le circolari e le istruzioni della Banca d’Italia non rappresentano una fonte di diritti ed obblighi» aggiungendo ulteriormente: «Le circolari o direttive, ove illegittime e in violazione di legge, non hanno efficacia vincolante per gli istituti bancari sottoposti alla vigilanza della Banca d’Italia, neppure quale mezzo di interpretazione, trattandosi di questione nota nell’ambiente del commercio che non presenta in se particolari difficoltà»107. Nell’attenzione alla verifica del rispetto dell’art. 644 c.p. occorre altresì non trascurare debordi occasionali e di scarso rilievo, se non riconducibili a casi isolati ed errori accidentali, non seriali. Con una platea estesa a milioni di correntisti, anche un modesto sforamento, se diffuso all’intera compagine, apporta al bilancio dell’intermediario importi significativi: in tali circostanze, l’elemento soggettivo, la volontà di praticare usura, trascende lo specifico rapporto di conto e va individuata nella ricorrenza ed estensione del fenomeno e nella sua incidenza e rilevanza nel bilancio dell’intermediario. Una maggiore trasparenza e chiarezza normativa si può conseguire recependo in radice lo spirito espresso nella menzionata Cassazione Penale riconoscendo, anche nelle disposizioni amministrative, la netta separazione fra i criteri di rilevazione del tasso medio di mercato ed i criteri di verifica della soglia d’usura. Seppur accostate le finalità riman-

contratto, rappresenta il punto di arrivo di una precisa tendenza – espressa già qualche anno prima dal legislatore in materia di credito al consumo, ove assume preminente rilievo la nozione di ‘tasso annuo effettivo globale’ (TAEG) /cfr. art. 122 TUB) – volta ad identificare il concetto di ‘interesse pecuniario’ con il ‘costo del denaro’. Va da sé che ciò comporta inevitabilmente una metamorfosi del bene giuridico protetto dalla norma penale (art. 644 c.p.), che non potrebbe essere più identificato – come la dottrina dominante era orientata a ritenere in passato – con il patrimonio individuale o con la libertà di autodeterminazione (negoziale) della vittima, ma va individuato nel corretto e razionale svolgimento delle relazioni di credito» (Maniaci, Le regole sugli interessi usurari, in Il Mutuo e le altre operazioni di finanziamento, in Il mutuo e le operazioni di finanziamento, diretto da Cuffaro, Bologna, 2005). 107 Cass. pen., 19 dicembre 2011, n. 46669.

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gono distinte e la ricerca di una inesistente omogeneità di calcolo finisce per condizionare da un lato la rilevazione statistica e distorcere dall’altro la verifica del rispetto dell’art. 644 c.p.. Nella definizione delle Categorie si rende opportuna una maggiore oggettività dei criteri di omogeneità che discriminano una Categoria dall’altra. Recuperando i margini decisionali che la legge gli affida, il MEF, in termini di maggiore trasparenza, potrebbe richiedere alla Banca d’Italia un’analisi dei dati di dettaglio provenienti dalla rilevazione statistica operata trimestralmente, onde monitorare l’omogeneità e la dinamica delle Categorie di credito, sottoponendo, nella trasparenza, a consultazione pubblica le modifiche che si intendono apportare alla classificazione del credito in Categorie, non trascurando per altro che ogni aumento del numero di Categorie – passate dalle 15 iniziali alle attuali 25 – induce un allentamento dei limiti d’usura. Lasciando impregiudicata la responsabilità del rispetto delle soglie all’intermediario bancario e circoscrivendo il giudizio di verifica al semplice e chiaro enunciato dell’art. 644 c.p., la Banca d’Italia potrebbe al più esprimere – all’unisono con la Corte Suprema e separatamente dai criteri statistici di rilevazione del valore medio del mercato (TEGM) – una propria autorevole valutazione sui principi di coerenza con il dettato dell’art. 644 c.p. e di cautela negli eventuali margini di dubbio che dovessero insorgere. Tali indicazioni, ove condivise, potrebbero guidare gli intermediari nella predisposizione dei piani tariffari del costo del credito e nei processi informatici di ‘cimatura’, già ampiamente impiegati nel calcolo e nell’addebito di interessi, oneri e spese. Chiariti i contorni normativi e riportati ad unità le espressioni di consenso alla corretta applicazione dell’art. 644 c.p. non rimarrebbero margini operativi a spinte opportunistiche che si alimentano e diffondono nelle zone grigie della normativa. Gli intermediari finanziari avvertono la confusione del coacervo di indicazioni che promanano dall’ABI, dalla Banca d’Italia, dall’ABF e dalla Cassazione, ben consapevoli che solo quest’ultima è istituzionalmente designata a fornire la corretta lettura ed indirizzo della norma; le altre indicazioni, pur provenienti da istituzioni di prestigio, si risolvono in autorevole ‘opinioni’, che tuttavia non possono pregiudicare la determinatezza e tassatività della norma108.

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Non si può trascurare che la ‘Babele’ giuridica che si è venuta a determinare, nonostante la posizione assunta dalla Cassazione, possa essere proprio la risultante di una

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In queste circostanze, valutata la generalità delle incertezze e incongruenze determinatesi, che pregiudicano significativamente i comportamenti degli intermediari – sospinti spesso dalle esigenze di bilancio e dai vincoli di mercato, a perpetrare condotte border line – si avverte anche da parte di questi ultimi uno stato di diffuso disagio e l’esigenza di un’urgente definizione e chiarificazione del quadro normativo, che contemperi altresì, nei comportamenti passati, le incertezze insorte con le rilevanti sanzioni previste dalla norma. In una prospettiva di più ampio periodo, alla rimozione delle smagliature e incongruenze insorte nel quadro normativo, deve accompagnarsi un’accelerazione del processo di revisione del quadro del credito che riconduca alla libera concorrenza le funzioni principe di calmiere dei tassi di interesse e di efficiente allocazione del credito.

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sostanziale carenza dei principi costituzionali che presiedono la portata applicativa della norma penale «non può sfuggire che la fonte primaria non determina i modelli matematici (la formula) da utilizzare per il computo della ‘media’ e che, ovviamente, a criteri di calcolo diversi corrispondono soluzioni diverse ovverosia ‘soglie’ differenti. (…) Inoltre la classificazione delle operazioni - adempimento annuale che consente l’operatività in concreto della fattispecie incriminatrice, dal momento che alla singola classe corrisponde un determinato tasso soglia – è demandata alla scelta del tutto discrezionale dell’autorità amministrativa; autorità alla quale viene, peraltro, riconosciuto il potere di procedere alla classificazione secondo criteri del tutto indeterminati e privi di reale contenuto, almeno fintanto che vengano apprezzati in linea teorico-astratta quali parametri ‘la natura’, ‘l’importo e la durata’ del finanziamento ovvero il beneficiario e le garanzie da questi prestate in ragione del ‘rischio’ dell’operazione, criteri che, al contempo, concorrono a formare i ‘dati’ sulla base dei quali vengono effettuate le rilevazioni che conducono alla individuazione del tasso effettivo medio globale. E, per giunta, la articolazione interna di simili classi (di operazioni) per ‘categorie omogenee’ non è minimamente pre-determinata, in modo che si finisce per affidare (addirittura) all’interprete-operatore giudiziario il compito di qualificare il negozio intercorso fra le parti e, quindi, collocare l’operazione in una, piuttosto che in altra, categoria tipologica; (…) Ora è a tutti nota la posizione da tempo assunta in materia da parte della Corte costituzionale: oltre la determinazione della pena va riservata alla legge ‘la sufficiente specificazione del fatto’ ovvero la determinazione del ‘contenuto politico essenziale’ del divieto. Il rinvio ad un atto sub-legislativo (peraltro, preesistente) risulta in tale ottica conforme ai principi di riserva di legge e di determinatezza nella misura in cui non ‘perduri la facoltà dell’amministrazione di mutare, sostituire o abrogare l’atto stesso’ e sempre che consista nella pura e semplice attività di specificazione di meri elementi tecnici da effettuare sulla scorta dei criteri indicati dalla legge in modo preciso, così da non creare inammissibili ‘incertezze sul contenuto essenziale dell’illecito penale» (Rampioni, La fattispecie di usura presunta nel crogiolo della pratica applicativa. Il ‘nodo’ della commissione di massimo scoperto mette a nudo il non sense della delega politica ad organi tecnici, in Cassazione penale, 2012).

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La mediazione creditizia Corte di Cassazione, sez. III, 20 settembre 2013, n. 24118; Pres. Petti, Rel. Rossetti; F.F. (avv. Valensise e Bertello) c. G.S. (avv. Iossa e De Guglielmi). Obbligazioni e contratti – Domanda di concessione di finanziamenti pubblici – Consulenza e assistenza nella preparazione e presentazione della domanda – Qualificazione – Prestazione d’opera professionale e non mediazione (Cod. Civ. art. 1754; l. 7 marzo 1996, n. 108, art. 16., co. 1)

L’attività di consulenza e assistenza finalizzata alla preparazione e alla presentazione di una domanda rivolta alla concessione di finanziamenti pubblici da presentare ad un organo predeterminato dalla legge costituisce prestazione d’opera professionale e non attività di mediazione né tipica né atipica, mancando l’elemento essenziale della “messa in relazione” dei contraenti. (1)

(Omissis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Nel 2003 il sig. F.F. convenne in giudizio la sig.a G.S., imprenditrice, allegando di avere con essa stipulato nel luglio e nel novembre del 2000 due contratti di prestazione d’opera professionale, aventi ad oggetto l’assistenza e la consulenza finalizzate alla redazione ed alla presentazione di due istanze di finanziamento dell’attività commerciale svolta dalla controparte,

istanze rivolte a pubbliche amministrazioni od organi di queste. Aggiungeva che, nonostante il puntuale adempimento a parte propria delle obbligazioni assunte con quei contratti, la convenuta non gli aveva pagato il corrispettivo promesso, e ne chiedeva pertanto la condanna all’adempimento. 2. La sig.a G.S. si costituì eccependo che l’attività per la quale l’attore aveva richiesto il pagamento del compenso era consistita in una mediazione creditizia, consen-

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tita soltanto ai soggetti iscritti nel ruolo dei mediatori previsto dalla L. 3 febbraio 1989, n. 39 e, in seguito, dal D.P.R. 28 luglio 2000, n. 287. E poiché l’attore non era iscritto, all’epoca dei fatti, in alcuno dei due suddetti albi o ruoli, i contratti con lui stipulati dovevano ritenersi nulli, ai sensi dell’art. 1418 c.c. 3. Il Tribunale di Pinerolo accolse la domanda con sentenza 4 maggio 2005 n. 279, ritenendo che l’attività svolta dall’attore fosse consistita in una consulenza, e non in una mediazione: di questa, secondo il Tribunale, sarebbe mancato infatti l’elemento principale, ravvisato nella “interposizione neutra ed imparziale” del mediatore. 4. La Corte d’appello di Torino, decidendo l’appello proposto dalla sig.a G.S., riformò tuttavia tale decisione, ritenendo che l’attività svolta dal sig. F.F. dovesse qualificarsi come “mediazione creditizia”, non consentita ai soggetti non iscritti all’apposito albo. Per pervenire a tale conclusione la Corte d’appello ha ritenuto che l’attività di mediazione non sia esclusa: - né dalla circostanza che una delle parti abbia conferito un apposito incarico al mediatore; - né dalla previsione che al mediatore sia dovuto un compenso in ogni caso, quand’anche l’affare non fosse concluso;

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- né dalla circostanza che il mediatore, dopo avere messo in contatto le parti, non si attivi per appianare eventuali divergenze tra esse. Elemento indefettibile della mediazione, secondo il giudice d’appello, è invece la messa in relazione delle parti: e poiché nel caso di specie era stato il sig. F.F. a mettere in contatto la sig.a G.S. con gli enti finanziatori, egli andava qualificato come mediatore. Così qualificata l’attività svolta dall’appellato, la Corte la ritenne a lui inibita: (a) all’epoca del primo contratto (luglio 2000) dalla L. n. 39 del 1989, cit., la quale imponeva anche ai mediatori creditizi l’iscrizione nel ruolo ivi previsto; (b) all’epoca del secondo contratto (novembre 2000) dal combinato disposto della L. 7 marzo 1996, n. 108 e del relativo regolamento di attuazione (D.P.R. 28 luglio 2000 n. 287), norme che, nel creare il nuovo albo dei mediatori creditizi, avevano sussunto nell’ambito di tale attività anche la mera consulenza finalizzata alla concessione di finanziamenti. 5. La decisione della Corte d’appello è stata impugnata per cassazione dal sig. F.F., sulla base di quattro motivi. La sig.a G.S. ha resistito con controricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso. 1.1. Col primo motivo di ri-


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corso il sig. F.F. lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza impugnata avrebbe violato gli artt. 1754 e ss. c.c.; gli artt. 1 e ss. della legge 3 febbraio 1989 n. 38, ed il relativo regolamento di attuazione, approvato con D.M. 21 dicembre 1990, n. 452. L’errore commesso dalla Corte d’appello, secondo il ricorrente, sarebbe consistito nel qualificare come “mediazione” il contratto stipulato tra le parti nel luglio 2000. Quel rapporto, invece, secondo il ricorrente non poteva essere ritenuto una mediazione, perché: (a) il sig. F.F. non aveva messo in contatto due parti che intendevano concludere un affare, ma aveva assistito la sig.a G.S. nella preparazione e nell’inoltro di una domanda di finanziamento indirizzata ad una società in mano pubblica, la Finpiemonte s.p.a.; (b) l’attività di finanziamento delle imprese, alle condizioni stabilite dalla legge, svolta dalla Finpiemonte s.p.a. non può essere assimilata ad un “affare” commerciale, sicché mancando la configurabilità di quest’ultimo, nemmeno poteva ritenersi sussistere un rapporto di mediazione; (c) l’attività di finanziamento svolta dalla Finpiemonte s.p.a. è resa pubblica attraverso forme di pubblicità legale, e dunque le persone interessate ad ottenere quei finanziamenti non hanno alcuna necessità di essere “messe in contatto” con la finanziaria pubblica,

ma solo quella di essere assistite per preparare istanze di finanziamento corrette ed ammissibili. 1.2. Gli elementi di fatto essenziali, posti dalla sentenza d’appello a fondamento della propria decisione, non sono in contestazione tra le parti. È pacifico, in particolare, che: (a) nel luglio 2000 il sig. F.F. e la sig.a G. S. hanno stipulato un contratto formalmente qualificato “lettera d’incarico professionale”; (b) tale contratto ha previsto l’obbligo del sig. F.F. di “[presentare] richiesta di finanziamento a valere sulla legge regionale 28/99 per un importo di lire 116.000.000”; (c) l’attività svolta dal sig. F.F. è stata qualificata dal giudice di primo grado e da quello d’appello, con accertamento in fatto ormai coperto da giudicato interno, in termini di “consulenza in materia di possibilità di accesso a pubbliche sovvenzioni e contributi” (così la sentenza di primo grado, pag. 7), ovvero di “predisposizione della domanda di finanziamento e presentazione alla Finpiemonte” (così la sentenza d’appello, pag. 12, § 2.2.2); (d) in cambio di tale prestazione, la sig.a G.S. si è obbligata a pagare al sig. F.F. una somma di denaro (definita “retribuzione professionale”) divisa in tre parti: la prima da pagarsi per il solo fatto di presentazione della domanda, le altre due da pagarsi quando l’istanza sarebbe stata accolta, ovve-

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ro quando il finanziamento sarebbe stato incassato; (e) il sig. F.F. non ha ricevuto alcun incarico dall’ente finanziatore, né ha percepito da questo provvigioni di sorta; (f) la domanda di finanziamento sottoscritta dalla sig.a G. S. è stata effettivamente presentata alla società Finpiemonte. Sulla base di questi elementi di fatto la Corte d’appello ha ritenuto di qualificare il contratto stipulato tra le parti come “mediazione”, e l’ha di conseguenza dichiarato nullo, per non essere il mediatore iscritto al ruolo previsto dalla L. n. 39 del 1989. Tale qualificazione non applica correttamente le previsioni di cui agli artt. 1754 c.c. e ss.: sia dal punto di vista letterale, sia dal punto di vista logico. 1.3. Sul piano dell’interpretazione letterale, sia la dottrina, sia la giurisprudenza di questa Corte hanno da tempo individuato gli elementi essenziali della attività di mediazione come delineata dal codice civile. Essi sono: (a) sul piano strutturale: l’onerosità, la subordinazione della provvigione alla conclusione dell’affare (art. 1755 c.c.); la libertà per il mediatore di attivarsi o meno; l’autonomia e l’indipendenza del mediatore (art. 1754 c.c.); (b) sul piano funzionale: lo svolgimento di un’attività mirante a mettere due o più parti in rela-

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zione, al fine di concludere un affare (art. 1754 c.c.). Il contratto stipulato tra le parti del presente giudizio è privo in parte di questi requisiti. 1.3.1. In primo luogo, il sig. F.F. aveva l’obbligo, e non la facoltà di prestare l’assistenza e la consulenza promesse alla controparte, e finalizzate alla presentazione della domanda di finanziamento. Mancava, dunque, il requisito della autonomia del mediatore. 1.3.2. In secondo luogo, il compenso promesso dalla sig.a G. S. alla controparte contrattuale era subordinato solo in parte alla effettiva erogazione del finanziamento, mentre per altra parte sarebbe stato comunque dovuto. Mancava, dunque, al rapporto in esame il requisito della subordinazione della provvigione alla conclusione dell’affare. 1.3.3. In terzo luogo, quel che maggiormente rileva, mancava nel caso di specie il più importante degli elementi caratterizzanti l’attività di mediazione: e cioè lo svolgimento di un’attività finalizzata alla messa in relazione delle parti interessate alla conclusione di un affare (ex permultis, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 1233 del 04/02/2000, Rv. 533465). La “messa in relazione” di cui all’art. 1754 c.c., infatti, pur potendo assumere in concreto le forme più disparate, concettualmente non può che ridursi a due attività principali: individuare o la perso-


Corte di Cassazione

na con cui contrattare, o l’oggetto della contrattazione. L’individuazione della persona con cui contrattare, a sua volta, è attività che può teoricamente avvenire con due modalità diverse: l’avvicinamento od il reperimento. Si ha la prima quando il mediatore favorisce la conoscenza di due persone che in precedenza erano ignote l’una all’altra; si ha la seconda quando il mediatore appiana le divergenze esistenti tra due intermediati che già si conoscevano, e che avevano fino ad allora impedito la conclusione dell’affare. 1.3.4. Nel nostro caso l’attività svolta dal sig. F.F. non è stata finalizzata né ad un reperimento della controparte, né ad un avvicinamento tra contraenti noti l’uno all’altro, ma in disaccordo. Non è stata finalizzata al primo, perché il contratto stipulato inter partes prevedeva espressamente che compito dell’odierno ricorrente fosse quello di “presentare una richiesta di finanziamento” ai sensi della L.R. Piemonte 12 novembre 1999, n. 28. L’art. 18 di questa legge – nel testo vigente ratione temporis – affidava alla regione il compito di agevolare “l’accesso al credito delle imprese operanti nel settore del commercio” ed i “programmi di sviluppo delle imprese inerenti l’innovazione gestionale e tecnologica”. La Regione Piemonte provvede all’attuazione del piano di svilup-

po economico regionale, ai sensi della L.R. Piemonte 26 gennaio 1976, n. 8, art. 2, attraverso l’Istituto Finanziario Regionale Piemontese - FINPIEMONTE s.p.a.; e comunque è incontroverso, nel caso di specie, che il finanziamento richiesto dalla sig.a G.S. non potesse che essere concesso previa approvazione da parte della suddetta società a partecipazione pubblica. Ora, se al momento della conclusione del contratto di cui è causa era già nota alle parti l’identità del soggetto cui indirizzare la richiesta di finanziamento, l’attività demandata al sig. F. F. non poteva essere qualificata come “mediazione” finalizzata al reperimento di un partner commerciale, per la ovvia ragione che questi era già ben noto ed individuato. 1.3.5. Nemmeno può dirsi che il contratto del luglio 2000 avesse per oggetto l’incarico di avvicinare le posizioni di due potenziali contraenti, che fossero in disaccordo tra loro su un qualche punto dell’affare da concludere. Non è stato infatti mai in discussione tra le parti che, per accedere ai finanziamenti previsti dalla L.R. Piemonte n. 28 del 1999, art. 18 l’istante dovesse rimuovere resistenze, ostacoli o diffidenze da parte dell’ente preposto ad autorizzarne l’erogazione. 1.3.6. In definitiva, poiché il contratto stipulato tra le parti non affidava all’odierno ricorrente alcun compito di “mettere in contat-

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to” l’imprenditore ed il potenziale finanziatore, ma solo quello di assistere il primo nella “predisposizione e presentazione” della domanda (così la sentenza impugnata, pag. 12), esso non poteva essere qualificato come “mediazione”, per la mancanza del primo e più importante elemento di questa. 1.4. Sul piano dell’interpretazione logico-sistematica, la sentenza impugnata incorre poi in un secondo errore: quello di dilatare a dismisura il concetto di “messa in relazione” di cui all’art. 1754 c.c., finendo così per applicare la norma a fattispecie concrete che le sono estranee. La Corte d’appello infatti, dopo avere accertato in facto che il sig. F.F. assunse l’obbligo contrattuale di assistere la sig. G.S. nella “predisposizione e presentazione” della domanda di finanziamento all’ente a ciò preposto dalla normativa regionale, ne ha tratto la conseguenza che in tal modo il ricorrente avesse “posto in contatto” la persona finanziata e l’ente finanziatore. In tal modo la Corte ha adottato una nozione amplissima di “messa in contatto”, che non trova riscontro nella lettera della legge. È insegnamento risalente e ricevuto, nella giurisprudenza di legittimità e nella dottrina unanime, che due parti possono dirsi “messe in contatto” dall’intervento del mediatore quando, senza l’opera di quest’ultimo, l’affare non si sarebbe concluso.

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L’attività del mediatore, dunque, deve essere “causa determinante” della conclusione dell’affare: se fosse mancata la prima, non vi sarebbe stata la seconda. È noto tuttavia che il concetto giuridico di causalità non coincide con quello naturalistico, e che la sua funzione è in primo luogo quella di delimitare l’ambito delle fattispecie giuridicamente rilevanti (funzione “strutturale”, secondo la definizione della recente sentenza pronunciata da Sez. 3, 17.9.2013 n. 21255). Pertanto dire che si ha attività di mediazione solo quando l’intervento del mediatore sia stato la causa della conclusione dell’affare non significa elevare al rango di attività mediatoria qualsiasi antecedente causale che ha condotto alla conclusione di quello. Se così non fosse, si dovrebbe pervenire all’irrazionale conclusione di qualificare come “mediatore” ex art. 1754 c.c. sinanche il tassista che accompagni il contraente nel luogo scelto per le trattative, o il cartolaio che fornisca ai contraenti i fogli per la stesura della minuta contrattuale. Questa evidente reductio ad absurdum dimostra l’erroneità della premessa, e cioè che qualunque collaborazione prestata ad uno dei potenziali contraenti possa essere qualificata come “causa” della conclusione dell’affare. Un affare può dirsi concluso “per effetto” dell’intervento del mediatore (secondo


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la previsione dell’art. 1755 c.c.) non quando questi abbia svolto un generico ruolo di assistenza, consiglio o consulenza di una delle parti, ma quando abbia svolto un’opera di reperimento od avvicinamento tra queste, nel senso sopra indicato. È necessario, quindi, che “tra l’attività del mediatore ed il negozio giuridico ai fini del quale egli ha prestato la sua opera vi sia un rapporto di causalità per cui il contratto principale, nel suo contenuto essenziale, appaia come il risultato utile dell’attività dell’intermediario, e che questa possa ritenersi conseguenza (...) dell’opera dell’intermediario (...), tale che senza di essa, secondo l’ordine normale delle cose, il contratto non si sarebbe concluso” (così Sez. 3, Sentenza n. 3071 del 26/10/1962, Rv. 254531). Tale conclusione, oltre che dalla lettera della legge e dalla dottrina prevalente, è corroborata dalla stessa Relazione ministeriale al progetto di libro delle obbligazioni del codice civile, la quale al Cap. 52, p. 193, espressamente nega la qualità di mediatore a chi abbia svolto l’attività di “locatore d’opere” (diremmo oggi: prestatore d’opera) a favore di uno dei contraenti. Da quanto esposto discende che la circostanza in fatto accertata dalla Corte d’appello, ovvero la presentazione all’ente regionale della domanda sottoscritta dalla sig.a G.S., non era di per sé idonea a qualificare il contratto come

mediazione, dovendosi piuttosto parificare tale attività a quella del prestatore d’opera, del mandatario o del nuncius. 1.5. Sulle conclusioni appena esposte non incide il tormentato tema concernente la possibilità che un rapporto di mediazione abbia fonte negoziale, né quello della ammissibilità di una mediazione svolta su incarico di uno solo dei potenziali contraenti (c.d. mediazione unilaterale). È noto infatti come sia la dottrina, sia – in misura minore – la giurisprudenza di legittimità non siano unanimi nell’ammettere l’esistenza della c.d. mediazione contrattuale. Taluni, infatti, muovendo dal rilievo che la legge accordi al mediatore il diritto alla provvigione per il solo fatto di avere messo in relazione le parti, ne traggono la conclusione che la mediazione sia un rapporto giuridico di fatto, scaturente dalla mera conclusione dell’affare per opera del mediatore, e non da un previo accordo tra le parti intermediate ed il mediatore. Secondo questo orientamento, pertanto, la mera circostanza che il mediatore abbia ricevuto incarico da una delle parti sarebbe di per sé sufficiente ad escludere la sussistenza d’una mediazione tipica (così si è espressa, isolatamente, Sez. 3, Sentenza n. 16382 del 14/07/2009, Rv. 609184). Altri, all’opposto, ritengono – ma con molte sfumature diver-

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se – che accanto alla mediazione non negoziale (od “anegoziale”) prevista dal codice civile, sia ammissibile e lecita una mediazione preceduta da un accordo tra il mediatore ed una o tutte le parti interessate all’affare: e tale è l’orientamento prevalente di questa Corte (ex plurimis, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 9547 del 22/04/2009 (Rv. 608335; Sez. 3, Sentenza n. 24333 del 30/09/2008, Rv. 604883; Sez. 3, Sentenza n. 19066 del 05/09/2006, Rv. 592043; Sez. 3, Sentenza n. 7252 del 07/04/2005, Rv. 581339; Sez. 3, Sentenza n. 7251 del 07/04/2005, Rv. 581454; Sez. 3, Sentenza n. 5952 del 18/03/2005, Rv. 580839; Sez. 2, Sentenza n. 9380 del 27/06/2002, Rv. 555412). Tali problemi tuttavia non vengono in rilievo nel presente giudizio: ed infatti, anche ove si volesse restare fedeli alla tesi maggioritaria che ammette la mediazione unilaterale e negoziale, comunque tale rapporto atipico, per essere soggetto alle norme sulle mediazione, dovrebbe presentare l’elemento tipico di questo, e cioè la “messa in contatto” nel senso sopra indicato. Elemento la cui sussistenza, per quanto già detto, doveva escludersi sulla base degli stessi accertamenti in fatto compiuti dal giudice di merito. 1.6. A conclusioni analoghe a quelle che precedono questa Corte è già pervenuta in passato.

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Fu dapprima Sez. 1, Sentenza n. 2721 del 25/06/1977, Rv. 386375, a qualificare come contratto d’opera, e non mediazione, quello con cui una persona si era obbligata, dietro compenso, ad assistere la controparte nella richiesta di un finanziamento. In seguito, chiamata a stabilire se potesse qualificarsi come “mediazione” l’attività di consulenza ed assistenza finalizzata all’individuazione di forme di investimento od al reperimento di soggetti cui domandare un finanziamento, la Corte l’ha ripetutamente negato: dapprima con la sentenza pronunciata da Sez. 1, Sentenza n. 6956 del 06/07/1999, Rv. 528303, e quindi con la decisione pronunciata da Sez. 3, Sentenza n. 15200 del 06/08/2004 (la cui massima non è del tutto corrispondente alla motivazione). In quest’ultima decisione la Corte, chiamata a qualificare un contratto in virtù del quale una società commerciale aveva assunto l’obbligo, dietro compenso, di prestare “consulenza e di assistenza” in favore di un imprenditore affinché questi ottenesse un contributo pubblico, ritenne “assolutamente pacifico” che quel contratto prevedesse una “prestazione d’opera professionale (attività di consulenza e assistenza), secondo lo schema di cui all’art. 2230 c.c.“ (Cass. 15200/04, cit., § 5.4 dei “Motivi della decisione”). 1.7. Il primo motivo di ricorso deve dunque essere accolto in base


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al seguente principio di diritto: “L’attività di mera assistenza e consulenza finalizzata alla preparazione ed alla presentazione di una domanda rivolta alla concessione di finanziamenti pubblici, da presentare ad un organo già determinato direttamente dalla legge, non costituisce mediazione tipica né atipica, ma va qualificata come prestazione d’opera professionale”. 2. Il secondo motivo di ricorso. 2.1. Col secondo motivo di ricorso il sig. F.F. lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, che la sentenza impugnata avrebbe violato gli artt. 16 della L. 7 marzo 1996, n. 108 (c.d. legge antiusura), e 2 del relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. 28 luglio 2000, n. 287). L’errore commesso dalla Corte d’appello, secondo il ricorrente, sarebbe consistito anche in questo caso nel qualificare come “mediazione” il secondo contratto stipulato tra le parti, quello del novembre 2000. Quel rapporto, invece, secondo il ricorrente non poteva essere ritenuto una mediazione, sia per le ragioni già indicate con riferimento al primo motivo di ricorso (l’attività del ricorrente essendo consistito nella mera assistenza e consulenza finalizzate alla presentazione di una domanda di finanziamento); sia perché in questo caso il finanziamento in questione era “a fondo perduto”. 2.2. Il contratto stipulato inter partes nel novembre 2000, secondo quanto accertato nella fase di

merito e non contestato in questa sede, aveva ad oggetto l’incarico di “eseguire la prestazione professionale consistente nella presentazione di richiesta di finanziamento a valere sulla L. D.M. sic n. 225 del 1998 per un importo di lire 104.215,70”. Anche in questo caso era previsto l’obbligo, e non la facoltà dell’incaricato (F.F.) di attivarsi per conseguire il risultato suddetto; e l’obbligo dell’incaricante (G.S.) di corrispondere un corrispettivo in parte fisso, e in parte subordinato alla effettiva concessione del finanziamento. Il Tribunale ha qualificato anche tale rapporto come “mediazione”, adottando le medesime ragioni riassunte nello “Svolgimento del processo” della presente motivazione, al § 4. Ha tuttavia soggiunto, con riferimento a questo secondo contratto, che all’epoca della conclusione di esso era già entrato in vigore il D.P.R. 28 luglio 2000, n. 287, ai sensi del quale nell’attività di mediazione “rientra anche la sola attività di consulenza”. Sicché – è la conclusione implicita, ma chiara della sentenza – anche a voler qualificare in termini di “consulenza” l’attività svolta dal ricorrente, essa comunque non poteva essere svolta se non previa iscrizione all’albo dei mediatori creditizi di cui al D.P.R. n. 287 del 2000, art. 2. 2.3. La motivazione della Corte d’appello, appena riassunta,

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non sembra conforme a diritto, in quanto: (a) il contratto stipulato tra le parti non presenta le caratteristiche d’una mediazione unilaterale, e dunque vi è stata violazione dell’art. 1754 c.c.; (b) l’attività di consulenza che non sia strumentale ad una attività mediatoria non richiedeva (all’epoca dei fatti) l’iscrizione all’albo dei mediatori creditizi, e dunque vi è stata violazione del D.P.R. n. 287 del 2000, art. 2. 2.4. Sotto il primo profilo, si è già visto supra, § 1.3.3. e ss., come l’assistenza nella preparazione di una domanda di finanziamento da indirizzarsi alla pubblica amministrazione non costituisca una “mediazione” ai sensi dell’art. 1754 c.c.: di essa manca infatti l’elemento centrale, ovvero il “reperimento” dell’altro contraente. Aggiungasi che il contratto stipulato a novembre del 2000, per quanto accertato in fatto dai giudici di merito, aveva ad oggetto l’assistenza nella presentazione d’una domanda di finanziamento ai sensi del D.M. 1 giugno 1998, n. 225. Tale decreto (conoscibile in questa sede in virtù del principio jura novit curia, trattandosi di atto normativo secondario, attuativo della delega contenuta nella L. 7 agosto 1997, n. 266, art. 14) prevedeva agli artt. 4 e 5 la possibilità per le piccole imprese che avessero formulato progetti di sviluppo in aree di degrado urbano di domandare

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l’erogazione di un finanziamento all’amministrazione comunale. Il regolamento stabiliva le competenze per l’erogazione, le valutazioni demandate al Comune ed i termini per la presentazione dei progetti. Anche sotto questo profilo deve pertanto escludersi che l’attività demandata al sig. F.F. sia consistita nel “reperimento” d’un contraente, in quanto l’ente erogatore del finanziamento era già individuato dalla legge e dal relativo regolamento di esecuzione nell’amministrazione comunale; né risulta che l’opera del sig. F.F. abbia avuto lo scopo o l’effetto di appianare divergenze tra la sig.a G.S. e l’amministrazione comunale. 2.5. Escluso dunque che il contratto del novembre 2000 potesse essere qualificato come “mediazione” ai sensi dell’art. 1754 c.c., resta da esaminare se esso ricadesse comunque nelle previsioni del blocco normativo composto dalla legge antiusura (L. n. 108 del 1996) e dal relativo regolamento di esecuzione (D.P.R. n. 287 del 2000), come ha ritenuto la Corte d’appello. A tale quesito deve darsi risposta negativa. 2.5.1. La L. n. 108 del 1996, art. 16 (oggi abrogato e rifluito nell’art. 128 sexies del Testo Unico Bancario, approvato con D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, a sua volta modificato dal D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, art. 11, comma 1), al fine di contenere il fenomeno dell’usura, istituì l’albo dei mediato-


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ri creditizi, al quale dovevano essere obbligatoriamente iscritti coloro che intendessero svolgere l’attività di “mediazione o di consulenza nella concessione di finanziamenti da parte di banche o di intermediari finanziari”. La legge tuttavia non definì la nozione di “mediazione creditizia”, delegandone espressamente la delimitazione ad un futuro regolamento d’esecuzione (L. n. 108 del 1996, art. 16, comma 2). Tale regolamento, emanato quattro anni dopo [D.P.R. n. 287 del 2000, oggi anch’esso abrogato per effetto del D.lgs. 13 agosto 2010, n. 141, art. 28, comma 1, lett. (b)], definì mediatore creditizio “colui che (...) mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza, banche o intermediari finanziari determinati con la potenziale clientela al fine della concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”. Questa previsione non ha equiparato affatto, nel settore del credito, l’attività di mediazione a quella di consulenza, come ha invece ritenuto la Corte d’appello. Ciò per quattro ragioni. 2.5.2. La prima ragione è l’interpretazione letterale. La chiara sintassi del D.P.R. n. 287 del 2000, art. 2 rende evidente che l’attività di mediazione creditizia consiste nel “mettere in relazione” finanziato e finanziatore. Questa “messa in relazione”, soggiunge la norma, può avvenire “anche” mediante una attività di consulenza.

Non, dunque, la consulenza tout court costituisce una mediazione creditizia ai sensi del D.P.R. n. 287 del 2000, ma solo quella consulenza che sia finalizzata alla messa in contatto delle parti: e dunque, per quanto detto sopra, la consulenza il cui scopo sia quello di reperire un partner contrattuale per l’avanti ignorato, ovvero di appianare divergenze con un partner contrattuale noto ma in disaccordo. Ma nel caso di specie né l’una né l’altra di tali condizioni si sono verificate: come già visto, infatti, la consulenza richiesta al sig. F.F. col contratto del novembre 2000 non aveva lo scopo di individuare un finanziatore (che era già individuato dalla legge nell’amministrazione comunale); né aveva lo scopo di appianare divergenze tra le parti o di comporre in un punto di equilibrio le contrapposte pretese (in quanto anche in questo caso era la legge a stabilire a quali condizioni e su quali presupposti gli imprenditori interessati potevano accedere al finanziamento pubblico). 2.5.3. La seconda ragione per la quale deve escludersi che l’attività di mera consulenza in materia creditizia fosse, all’epoca dei fatti, riservata agli iscritti all’albo dei mediatori creditizi è di ordine sistematico. L’attività finanziaria in senso lato è tradizionalmente divisa nei tre settori del credito, dell’intermediazione finanziaria e dell’assicurazione. Ciascuno di questi tre settori è disciplinato da un corpus organi-

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co di norme, rappresentato rispettivamente dal testo unico bancario (D.lgs. 1 settembre 1993, n. 385), da testo unico sull’intermediazione finanziaria (D.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58) e dal codice delle assicurazioni (D.lgs. 7 settembre 2005, n. 209). Anche il testo unico sull’intermediazione finanziaria (D.lgs. n. 58 del 1998) ed il codice delle assicurazioni (D.lgs. n. 209 del 2005) disciplinano la figura del mediatore nei rispettivi ambiti, e tanto l’una quanto l’altra fonte normativa distinguono anch’essi la consulenza meramente “illustrativa” od in senso stretto, volta a facilitare la parte nelle sue scelte, da quella “accessoria” o strumentale, e cioè resa nell’ambito di una attività di intermediazione. Così, il D.lgs. n. 58 del 1998, art. 18 bis consente l’attività di consulenza in materia di investimenti anche a persone diverse dai soggetti abilitati all’intermediazione finanziaria. Ancora più esplicitamente, ai fini che qui rilevano, l’art. 106 cod. ass. stabilisce che la consulenza in materia assicurativa rientra nel concetto di “intermediazione assicurativa” soltanto quando sia finalizzata alla “presentazione o proposta” di contratti assicurativi e riassicurativi. Orbene, evidenti ragioni di coerenza sistematica dell’ordinamento inducono ad escludere che in materia finanziaria ed assicurativa il legislatore abbia voluto distinguere la consulenza pura da quel-

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la finalizzata ad una mediazione, e soltanto in materia bancaria e creditizia le abbia volute assimilare. Tale conclusione è corroborata dal rilievo che anche nel regolamento emanato dall’autorità di vigilanza competente ratione temporis (Provvedimento Ufficio Italiano Cambi 29 aprile 2005, in Gazz. Uff., 20 maggio 2005, n. 116), nel dettare le “Istruzioni per i mediatori creditizi”, al § 4.2.1. stabilisce che costoro debbano informare la clientela che “l’attività di consulenza costituisce parte integrante del servizio di mediazione per la quale non può essere richiesto un autonomo compenso”. Da tanto si ricava la conferma che, sin anche per l’autorità di vigilanza, l’attività di consulenza in quanto tale non costituisce di per sé “mediazione creditizia”, ma lo diventa solo se si inserisce come attività accessoria del servizio di mediazione. 2.5.4. La terza ragione per la quale deve escludersi che l’attività di mera consulenza in materia creditizia fosse, all’epoca dei fatti, riservata agli iscritti all’albo dei mediatori creditizi discende dall’interpretazione finalistica. La L. n. 108 del 1996, come si ricava dai lavori parlamentari, venne promulgata al fine di contenere il fenomeno dell’usura. A tal fine il legislatore concepì un quadro organico di norme concernenti sia i contratti (fissazione del tasso soglia, previsione di nullità); sia l’attività d’impresa finalizzata alla concessione


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del credito. A questo secondo fine venne istituito l’albo dei mediatori creditizi, il cui scopo era garantire la professionalità e la correttezza di tale figura di mediatore. Se dunque l’istituzione dell’albo dei mediatori creditizi fu voluto nel quadro più generale di contrasto dell’usura, la L. n. 108 del 1996, art. 16 deve essere interpretato in coerenza con tale scopo: e dunque nel senso che la mera consulenza finalizzata alla concessione di un pubblico finanziamento non rientri tra le attività di mediazione creditizia, in quanto per definizione la concessione di un finanziamento prevista dalla legge (regionale o nazionale non rileva) non può esporre il beneficiario al rischio di pagare interessi usurari. 2.6. Deve pertanto accogliersi anche il secondo motivo di ricor-

so, in base ad un principio di diritto analogo a quello già esposto al p.1.7. 3. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso restano assorbiti. 4. La sentenza va dunque cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino la quale, sulla base dei principi che precedono, procederà ad una diversa qualificazione del contratto stipulato tra le parti. P.Q.M. la Corte di cassazione, visto l’art. 383 c.p.c., comma 1: - cassa con rinvio la sentenza impugnata; - visto l’art. 385 c.p.c., comma 3, rimette al giudice del rinvio la decisione sulle spese del giudizio di legittimità. (Omissis)

(1-2) I limiti dell’attività di mediazione creditizia ed il rapporto con la consulenza finalizzata alla concessione di finanziamenti nella recente giurisprudenza della Cassazione Sommario. 1. Il fatto. – 2. Le attività rientranti nella nozione di mediazione creditizia. L’ambiguo riferimento alle prestazioni di consulenza nella concessione di finanziamenti. – 3. La “messa in relazione” delle parti di un affare, quale elemento caratterizzante l’attività di mediazione. La posizione della S.C. nella sentenza n. 24118/13. – 3.1. La portata del concetto di “messa in relazione” nella specifica ipotesi della mediazione creditizia. Rilevanza delle attività di consulenza ai fini della correlazione fra le parti di un affare. – 3.2. L’inquadramento giuridico delle attività di assistenza e consulenza in materia di accesso ai finanziamenti. Le contrastanti posizioni della giurisprudenza. – 3.3. Consulenza tout court e consulenza-mediazione. Il criterio per l’identificazione della consulenza finalizzata alla messa in relazione delle parti di un contratto di finanziamento. – 4. Consu-

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lenza “autonoma” e consulenza “accessoria”. Presunta rilevanza della distinzione nell’ambito della mediazione creditizia. – 5. L’interpretazione finalistica della l. n. 108/96, operata dalla S.C. al fine di escludere l’attività di mera consulenza dal perimetro della mediazione creditizia. Critica. – 6. Necessità dei requisiti di autonomia e indipendenza del soggetto interposto, ai fini della qualificazione di un’attività come mediazione creditizia. Conclusioni.

1. Il fatto. La pronuncia in commento si distingue per l’approfondita disamina della tematica, poco frequentata in dottrina ed ancor più inusuale nella giurisprudenza, della mediazione creditizia, intesa – secondo la definizione introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 16, co. 1, l. 7 marzo 1996, n. 108 (c.d. legge antiusura), vigente all’epoca della vicenda dedotta in giudizio – come l’attività di “mediazione o di consulenza nella concessione di finanziamenti da parte di banche o di intermediari finanziari”. Più in dettaglio, la sentenza trae origine da una controversia giudiziaria volta a determinare se un’attività professionale consistente, secondo la pacifica rappresentazione delle parti, nell’assistenza e consulenza in materia di accesso a pubbliche sovvenzioni e contributi, finalizzata specificamente alla predisposizione e alla presentazione di due separate istanze di finanziamento alla Finpiemonte s.p.a. (società in mano pubblica), dovesse o meno considerarsi quale “mediazione creditizia”, come tale consentita ai soli soggetti iscritti al ruolo dei mediatori previsto dalla l. n. 39/89 e, successivamente, all’albo disciplinato dal d.p.r. 28 luglio 2000, n. 287, attuativo della l. n. 108/96. Ed invero, mentre il Tribunale di Pinerolo aveva inizialmente escluso che detta attività dovesse qualificarsi come mediazione (essendo priva, secondo il giudice di prime cure, dei necessari requisiti di neutralità ed imparzialità del soggetto interposto), la Corte d’Appello di Torino era giunta ad opposta conclusione, ravvisando nella fattispecie la presenza dell’elemento centrale ed indefettibile di ogni attività mediatizia, ossia la “messa in relazione” delle parti, ai fini della conclusione di un “affare” (art. 1754 c.c.)1.

1 In conseguenza di tale inquadramento, e stante la mancata iscrizione del professionista nell’albo dei mediatori, la Corte d’Appello aveva peraltro dichiarato la nullità ex art. 1418 c.c. dei due contratti stipulati tra i contendenti (per analoga soluzione, in dottrina, Marini, La mediazione, in Il Codice Civile. Commentario, diretto da Schlesinger,

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La S.C., dopo un’accurata ricostruzione della nozione civilistica di mediazione, cassa con rinvio la sentenza d’appello, sancendo il principio di diritto secondo cui “l’attività di mera assistenza e consulenza finalizzata alla preparazione ed alla presentazione di una domanda rivolta alla concessione di finanziamenti pubblici, da presentare ad un organo già determinato direttamente dalla legge, non costituisce mediazione tipica né atipica, ma va qualificata come prestazione d’opera professionale”. La Cassazione, in sostanza, propone un’interpretazione piuttosto rigorosa della figura della mediazione (in generale), che finisce per riflettersi nell’espunzione delle attività di consulenza sopra descritte dal perimetro della fattispecie (speciale) della mediazione creditizia (e ciò a dispetto di un dato legislativo di segno apparentemente contrario, sul quale avremo modo di soffermarci nel prosieguo). Anticipando le riflessioni conclusive di questo lavoro, si può tuttavia osservare come la pronuncia in esame si presti a contrastanti valutazioni. E difatti, sebbene le statuizioni del giudice di legittimità appaiano nella sostanza corrette, è pur vero che vi si giunge, a nostro avviso, attraverso un percorso argomentativo non del tutto lineare, rivelatore di una certa resistenza all’inquadramento offerta dalla fattispecie. L’analisi critica della decisione, pertanto, ci permetterà di sviluppare alcune considerazioni in merito ad un’attività che, malgrado i ripetuti interventi normativi in materia, continua a presentare aspetti di indiscutibile ambiguità.

2. Le attività rientranti nella nozione di mediazione creditizia. L’ambiguo riferimento alle prestazioni di consulenza nella concessione di finanziamenti. Come si è avuto modo di accennare, nell’ordinamento italiano la mediazione creditizia è stata assoggettata per la prima volta a disciplina in virtù di un provvedimento normativo, quale la legge n. 108/96,

Milano, 1992, p. 69; Gallo, La mediazione creditizia. Soggetti, attività controlli, Bari, 2006, p. 147). La giurisprudenza in materia, comunque, si dibatte tra l’affermazione della nullità del contratto di mediazione (Cass., 18 luglio 2003, n. 11247; Cass., 1 ottobre 2002, n. 14076) e la negazione del solo diritto al compenso da parte del mediatore non iscritto all’albo (Cass., 6 giugno 2014, n. 12829; Cass., 10 marzo 2008, n. 6292; Cass., 7 maggio 2007, n. 10290; Cass., 2 aprile 2002, n. 46350).

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mirante a dettare disposizioni di contrasto del dilagante fenomeno dell’usura. L’originario collocamento della fattispecie in esame nell’ambito della normativa antiusura trova spiegazione, secondo le unanimi ricostruzioni dottrinarie, nella volontà legislativa di sottoporre a controllo e disciplina – tramite l’imposizione di una riserva di attività in favore di soggetti professionalmente qualificati e di severe sanzioni, specie sul piano penale2 – una serie di attività collaterali/strumentali rispetto a quella di erogazione del credito, ma pur sempre atte a rappresentare l’humus per pratiche di riciclaggio, di usura o, più genericamente, per comportamenti lesivi degli interessi dei soggetti richiedenti un finanziamento3. Nella specie, l’attività che il legislatore del 1996 intendeva disciplinare era quella del soggetto che, interponendosi tra l’intermediario finanziario e colui che necessita di un finanziamento, procura credito, mettendo in contatto i potenziali contraenti, ma svolgendo anche una serie di prestazioni di assistenza e/o consulenza, che contemplano la selezione delle offerte di credito più vantaggiose sul mercato, la dazione di informazioni relative al finanziamento, il disbrigo di adempimenti di tipo burocratico, ecc. I contenuti della suddetta attività di “mediazione o consulenza nella concessione di finanziamenti”, che identificava l’agere tipico del mediatore creditizio, sono stati ulteriormente specificati dal citato d.p.r. 287/00, attuativo della legge n. 108/96, laddove, con disposizione tutt’altro che cristallina, si definiva mediatore creditizio il soggetto che «professionalmente, anche se non a titolo esclusivo, ovvero abitualmente, mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza, banche o intermediari finanziari determinati con la potenziale clientela al fine della concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma» (art. 2, co. 1)4.

2. L’art. 16, co. 7, l. n. 108/96, invero, sanzionava penalmente l’esercizio abusivo della mediazione creditizia, al pari dell’attuale art. 140-bis t.u.b. 3. In argomento v. Gallo, La mediazione creditizia, cit., p. 51 ss.; Morera, Sulla figura del “mediatore creditizio”, in Banca, borsa, tit. cred., 2003, I, p. 340 ss.; Capriglione, Evoluzione informatica e soggettività finanziaria nella definizione di alcune tipologie operative on line, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, p. 502 ss.; Meruzzi, Usura, in Contr. e impr., 1996, p. 759 ss. 4. Dalla lettura della sentenza in commento, non risulta posto in contestazione il carattere professionale (e non meramente occasionale) dell’attività di (presunta) mediazione esercitata dal ricorrente, che occorre dunque dare per dimostrato. Allo stesso modo, non emerge neanche che questi fosse iscritto a particolari albi o ruoli, elemento che avrebbe potuto acquisire rilevanza, ove si consideri che non costituiva mediazione creditizia la raccolta, nell’ambito della specifica attività svolta e strumentalmente ad essa, di richieste

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La materia ha trovato infine una più adeguata e razionale sistemazione in concomitanza con la riforma del Titolo V del t.u.b., operata dal d.lgs. n. 141/2010 (modificato con d.lgs. n. 218/2010 e d. lgs. n. 169/2012). Tale provvedimento, infatti, oltre a novellare la disciplina dei soggetti operanti nel settore finanziario, ha dettato nuove regole relative a specifiche figure professionali, quali i mediatori creditizi e gli agenti in attività finanziarie, i cui modelli organizzativi replicherebbero, nella sostanza, quello degli intermediari non bancari (cfr. art. 128-quater e ss. t.u.b.)5. L’obiettivo di fondo perseguito dal legislatore, ad ogni modo, era quello di introdurre una più efficace – e più stringente – regolamentazione dei canali di distribuzione dei prodotti bancari e creditizi (sia captive che indipendenti), in un’ottica di riordino e complessiva riqualificazione del settore, volta a superare alcune vistose criticità e ad assicurare anche in questo ambito quei valori di efficienza, stabilità e trasparenza verso i quali è protesa la regolamentazione finanziaria6. In atto, dunque, il mediatore creditizio è il soggetto – costituito necessariamente in forma di s.p.a., di s.a.p.a., di s.r.l. o di società cooperativa – cui è riservato, previa iscrizione in un elenco tenuto da apposito organismo, l’esercizio professionale (ed in via esclusiva) nei confronti del pubblico di un’attività che consiste nel mettere in relazione, anche attraverso la prestazione di consulenza, banche o intermediari finanziari previsti dal titolo V del t.u.b. con la potenziale clientela, per la conces-

di finanziamento, effettuata sulla base di specifiche convenzioni con banche e intermediari finanziari, da parte di soggetti iscritti in albi, ruoli o elenchi tenuti da pubbliche autorità, da ordini o da consigli professionali, o da parte di fornitori di beni e servizi (art. 2, co. 3, d.p.r. 287/2000; per i casi di esclusione v. ora art. 12 d.lgs. n. 141/2010). Sul punto v. Carbone, Responsabilità civile e mercato finanziario, in Danno e resp., 2002, n. 1, p. 103 ss., nonché le più approfondite riflessioni critiche di Morera, Sulla figura, cit., p. 343 ss. 5. Gallo, Art. 128-sexies, in AA.VV., Commentario al Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, diretto da Capriglione, Padova, 2012, IV, p. 2090. 6. Sulla ratio e sugli obiettivi delle nuove disposizioni v. Szego, Art. 128-quater-quaterdecies, Le ragioni della riforma dell’agenzia in attività finanziaria e della mediazione creditizia, in Commento al Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, a cura di Costa, Torino, 2013, t. II, p. 1551 ss.

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sione di finanziamenti sotto qualsiasi forma (art. 128-sexies t.u.b.)7-8. Tratto comune dei vari passaggi normativi in materia di mediazione creditizia è dunque il costante riferimento a generiche “attività di consulenza”, nelle quali potrebbe altresì sostanziarsi, secondo le definizioni succedutesi nel tempo, l’opera del mediatore creditizio. Ed è proprio dall’inclusione delle prestazioni consulenziali tra le possibili modalità di svolgimento della mediazione creditizia che è scaturita la vicenda decisa dalla S.C. con la sentenza n. 24118/13, posto che proprio in termini di assistenza e consulenza (per il buon fine di due distinte domande di finanziamento9) era stata concordata l’attività che il

7 Pur lasciando irrisolte alcune questioni, la norma ha provveduto a specificare in maniera più nitida i contenuti dell’attività di mediazione, nonché l’ambito di operatività della riserva in favore degli iscritti nell’elenco ex art. 128-undecies t.u.b. Sono stati semplificati, ad esempio, i problematici riferimenti alle condizioni di professionalità ovvero di abitualità nell’esercizio dell’attività di mediazione creditizia, così come, per altro verso, è stato chiarito che l’attività in esame postula l’avvicinamento tra i soggetti bisognosi di un finanziamento, da un lato, e le banche e gli intermediari finanziari di cui al Titolo V del t.u.b., dall’altro (di tal che l’attività svolta per operatori del microcredito o per Confidi minori deve in atto ritenersi libera, in linea con l’obiettivo legislativo di assoggettare tali enti ad una regolamentazione meno pervasiva, anche sotto il profilo dei canali distributivi: Capone, Art. 128-quater-quaterdecies, I contenuti della riserva di attività di agenzia in attività finanziaria e di mediazione creditizia, in Commento al Testo unico, a cura di Costa, cit., p. 1564). 8. Per completezza, rammentiamo altresì che il ventaglio delle attività esercitabili dal mediatore creditizio era stato ampliato, in un primo momento, dall’art. 17 della l. n. 262/2005, che autorizzava la figura in esame a svolgere anche l’attività di «mediazione e consulenza nella gestione del recupero crediti da parte di banche e intermediari iscritti all’albo di cui all’art. 107 t.u.b.». La norma, senza dubbio oscura – tanto nella ratio quanto nella portata applicativa – è stata tuttavia abrogata dal d.lgs. n. 141/2010, in virtù del quale l’attività di ristrutturazione dei crediti per conto di banche ed intermediari finanziari sembrerebbe divenuta appannaggio esclusivo degli agenti in attività finanziaria (cfr. art. 128-quaterdecies t.u.b.). In questo senso v., ad es., Capone, Art. 128, cit., p. 1565, nt. 12, che ritiene detta soluzione coerente con il nuovo riparto di competenze tra mediatori e agenti, evidenziando come un intervento del mediatore nella gestione o nel recupero di quegli stessi crediti che tale soggetto ha contribuito a far sorgere potrebbe comprometterne irrimediabilmente l’indipendenza (per un’opinione di segno contrario, riferita al controverso art. 17 l. n. 262/05, Sciarrone Alibrandi, Purpura, I mediatori creditizi, in Le nuove regole del mercato finanziario, a cura di Galgano, Roversi-Monaco, Padova, 2009, p. 344 ss.). Tra gli interpreti, tuttavia, non manca chi ritiene che anche nell’attuale regime normativo sussistano spazi per “un’attività di ristrutturazione dei debiti circoscritta nei confini di un’attività di consulenza e mediazione creditizia” (al riguardo v. la scrupolosa ricostruzione esegetica di Paracampo, Art. 128-quaterdecies, in Commentario al Testo Unico, diretto da Capriglione, cit., pp. 2157-8). 9. In questa sede considereremo unitariamente i due incarichi professionali di assi-

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ricorrente avrebbe dovuto espletare nei confronti della controparte. Ora, non v’è dubbio che, secondo la lettera dell’art. 16 della l. n. 108/96 (applicabile, ratione temporis, alla vicenda dedotta in giudizio), anche una mera attività di consulenza, se avente ad oggetto la materia dei finanziamenti, avrebbe potuto integrare gli estremi dell’attività di mediazione creditizia: così sembrava chiaramente denotare, del resto, l’uso della congiunzione “o”, in seno all’indicazione delle attività di competenza del mediatore creditizio (per quest’ultimo intendendosi, com’è utile ribadire, il soggetto che svolgeva professionalmente l’attività di mediazione o di consulenza nella concessione di finanziamenti). La S.C., tuttavia, osserva correttamente come, nel precisare i contorni dell’attività in esame, il regolamento d’esecuzione della l. n. 108/96, approvato con il citato d.p.r. 287/00, abbia puntualizzato che il mediatore creditizio è colui che mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza, l’intermediario finanziario con il potenziale cliente, con ciò significando, pertanto, che non ogni forma di consulenza è idonea a costituire, di per sé, mediazione creditizia, ma solo quella che sia finalizzata – per l’appunto – alla messa in relazione delle parti, in vista dell’erogazione di un finanziamento10. Si comprende, dunque, che per la soluzione del problema qui trattato è indispensabile chiarire significato e limiti del concetto di messa in relazione, quale elemento che, come può desumersi dall’art. 1754 c.c., individua lo scopo tipico di ogni forma di mediazione, connotando la relativa fattispecie sul piano funzionale11.

stenza e consulenza che la S.C. ha invece esaminato in modo separato (essendo stato il primo espletato antecedentemente all’adozione del d.p.r. 287/00, il secondo poco dopo), ritenendo che le argomentazioni esposte nella pronuncia in esame possano comunque riferirsi a ciascuno di essi. 10. Da ciò la ricorrente affermazione dottrinaria – sulla quale avremo modo di riflettere ulteriormente – secondo cui la consulenza rileva solo quale momento interno dell’attività di mediazione, traducendosi, in particolare, in quella funzione di selezione delle proposte di finanziamento reperibili sul mercato del credito, nonché di orientamento e di informazione della clientela, che possono ritenersi prodromiche e strumentali rispetto alla conclusione di una determinata operazione finanziaria (Sciarrone Alibrandi, Purpura, I mediatori, cit., p. 340, nt. 14; Gallo, La mediazione creditizia, cit., p. 121). 11. Sul piano strutturale, come specificato nella sentenza in commento, la mediazione si caratterizzerebbe invece per gli elementi, evincibili dagli artt. 1754-5 c.c., dell’onerosità, della subordinazione della provvigione alla conclusione dell’affare, della libertà del mediatore di attivarsi o meno, dell’autonomia e dell’indipendenza del mediatore. Nel caso in esame, fatto salvo quanto avremo modo di osservare in merito alla sussistenza del “mettere in relazione” le parti, risultavano comunque mancare sia il requisito della

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3. La “messa in relazione” delle parti di un affare, quale elemento caratterizzante l’attività di mediazione. La posizione della S.C. nella sentenza n. 24118/13. Orbene, a quest’ultimo proposito, è evidente che l’attività consistente nel “mettere in relazione” due o più parti di un determinato affare può declinarsi nelle più svariate forme ed essere condotta secondo molteplici modalità pratiche. La dottrina, invero, propende da sempre per un’interpretazione piuttosto lata della locuzione in oggetto, tendendo ad includervi sia la classica ipotesi dell’opera volta all’individuazione di una controparte contrattuale in precedenza ignota, sia i casi in cui le parti siano già in contatto tra loro, ed il mediatore intervenga al fine di comporre quei contrasti tra le medesime, che intralciano la conclusione di un determinato affare12. Muovendo da analoghe premesse, la Corte di Cassazione chiarisce tuttavia che, pur potendo rivestire in concreto le forme più disparate, l’espressione “mettere in relazione” non può che ridursi, essenzialmente, a due tipologie di attività, vale a dire l’individuazione della persona con cui contrattare, ovvero dell’oggetto della contrattazione. La prima, a sua volta, si articolerebbe nelle distinte modalità del reperimento della persona del contraente, che sussiste allorquando il mediatore favorisce il contatto fra due individui che in precedenza non si conoscevano, e dell’avvicinamento tra i contraenti, che si realizza, invece, quando il mediatore appiana le divergenze insorte durante le trattative tra soggetti che già si conoscono. Nessuna di tali attività, tuttavia, sarebbe stata posta in essere nel caso di specie, atteso che: a) l’identità del soggetto

subordinazione della provvigione alla conclusione dell’affare (posto che il compenso previsto per il professionista era dovuto, quanto meno in parte, a prescindere dall’erogazione del finanziamento), sia il requisito dell’autonomia del mediatore (posto che il consulente si era contrattualmente obbligato a prestare la propria attività a favore di una delle parti). Stante l’assenza dei vari caratteri propri della mediazione, resta solo sullo sfondo della pronuncia, siccome irrilevante ai fini del decidere, la risalente questione dell’ammissibilità di una mediazione atipica o contrattuale, sulla quale ci soffermeremo comunque nel prosieguo della trattazione (v. infra, par. 6). 12. Minasi, Mediazione (voce), in Enc. dir., XXVI, Milano, 1976, p. 35; Cataudella, Mediazione, in Enc. giur., Roma, 1990, vol. XIX, p. 3; Marini, La mediazione, cit., pp. 45-6; Luminoso, La mediazione, in Tratt. dir. civ. e comm., diretto da Cicu e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 2006, p. 21.

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finanziatore era nota e predeterminata ab origine (sicché il presunto mediatore non avrebbe in alcun modo individuato o reperito la controparte negoziale della propria cliente); b) non risultava sussistere alcun disaccordo tra le parti, che il professionista dovesse risolvere con il proprio intervento (posto che, trattandosi di finanziamenti da parte di enti pubblici, le condizioni di erogazione erano prefissate per legge e non negoziabili)13. Per di più, ai limiti sopra indicati (concernenti la definizione in positivo dei contenuti dell’attività di mediazione), se ne aggiungerebbe un altro, operante sul distinto piano della causalità giuridica: per acquisire rilevanza – precisa la S.C. – l’opera del mediatore deve atteggiarsi a causa determinante della conclusione dell’affare, dovendosi cioè ritenere che, senza l’intervento di quest’ultimo, l’affare medesimo non si sarebbe perfezionato. In altri termini, la mediazione postula che il contratto concluso debba apparire come il risultato utile e la conseguenza diretta di un’attività dell’intermediario avente efficienza causale determinante, quale quella ravvisabile – appunto – nel reperimento di una controparte contrattuale, o nella composizione di eventuali divergenze tra i contraenti. Viceversa, sono da ritenere prive di rilevanza giuridica, ai fini della mediazione, tutte quelle attività che costituiscono un antecedente causale remoto della conclusione dell’affare, quali – per citare i medesimi paradossali esempi enunciati nella pronuncia in commento – l’opera del tassista che abbia accompagnato il contraente nel luogo scelto per le trattative, o quella del cartolaio che abbia fornito alle parti i fogli utilizzati per stendere le bozze dell’accordo. Quanto osservato dimostrerebbe, secondo la S.C., che non ogni tipo di collaborazione nei confronti di una delle parti può assurgere a “causa” del contratto successivamente stipulato, dovendosi ritenere che un affare è stato concluso per effetto dell’intervento del mediatore non quando questi abbia svolto un generico ruolo di assistenza o di consiglio verso una di esse, ma solo quando abbia posto in essere un’opera di reperimento o di avvicinamento dei contraenti, nel senso sopra indicato.

Si rammenta, invero, che il ricorrente era stato incaricato di presentare una richiesta di finanziamento a valere sulla legge reg. Piemonte n. 28/99 e che, in base alla pertinente normativa (legge reg. Piemonte n. 8/76), il credito avrebbe dovuto essere concesso previa approvazione da parte dell’Istituto Finanziario Regionale Piemontese-Finpiemonte s.p.a., società a partecipazione pubblica. 13.

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3.1. La portata del concetto di “messa in relazione” nella specifica ipotesi della mediazione creditizia. Rilevanza delle attività di consulenza ai fini della correlazione fra le parti di un affare. Le considerazioni sopra svolte appaiono senz’altro meritevoli di apprezzamento, ove intese ad evitare che la nozione di “messa in relazione” di cui all’art. 1754 c.c. possa essere artificiosamente dilatata, sino al punto da ricomprendervi qualsiasi forma di assistenza o di collaborazione prestata in favore dei potenziali contraenti. Nondimeno, se rapportati al peculiare caso della mediazione creditizia, tali rilievi inducono a più attente riflessioni critiche. Se è vero, infatti, che la nozione (generale) di mediazione necessita di essere opportunamente circoscritta (onde non allargarne il raggio d’operatività oltre certi limiti di carattere logico, prima ancora che giuridico), è pur vero, per altro verso, che tale esigenza va contemperata con la ratio delle disposizioni specificamente dettate in materia creditizia. Non può ignorarsi, infatti, che l’indicazione delle attività riservate al mediatore creditizio, operata dalla l. n. 108/96 (ed in seguito, con dettato più preciso, dal regolamento attuativo del 2000), rispondeva all’obiettivo di assoggettare a specifiche forme di controllo (sia pure meno pervasive, rispetto a quelle oggi esistenti) e ad una disciplina più qualificante (sotto il profilo degli operatori abilitati) una serie di attività, parallele a quelle di concessione del credito, e ad esse strumentali, sino ad allora svolte in regime di sostanziale liberalizzazione14. Più in particolare, come già accennato, l’intento del legislatore era quello di portare ad emersione dal “sottobosco finanziario”15, di regolamentare in maniera compiuta, ed all’occorrenza sanzionare, alcuni comportamenti ritenuti pericolosi per il corretto funzionamento del mercato del credito e per la relativa utenza (si pensi alle attività di mediazione creditizia poste in essere, sfruttando le maglie larghe del sistema, da soggetti presumibilmente privi di una specifica ed adeguata preparazione in materia finanziaria, quali, ad es., gli agenti immobiliari16), in

14. Fatto salvo, nondimeno, il rispetto delle disposizioni generali in materia di mediazione, quali le norme codicistiche di cui agli artt. 1754 ss., o l’obbligo per il mediatore creditizio di iscriversi nel ruolo previsto dall’art. 9, co. 2, l. n. 39/89. 15 L’efficace espressione è tratta da Capriglione, Evoluzione, cit., p. 503. 16. È opportuno ricordare che nel regime delineato dalla l. n. 108/96 l’esercizio della mediazione creditizia era dichiarato compatibile con lo svolgimento di diverse attività (art. 16, co. 5). Il principale interesse del legislatore, invero, era quello di rendere visibile

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tal modo ostacolando ogni possibile sviluppo del mercato illegale del denaro. In quest’ottica, dunque, l’inclusione della consulenza tra le componenti dell’attività di mediazione creditizia (prevista, per inciso, anche nell’attuale normativa) appariva coerente con i suddetti obiettivi legislativi, non potendosi disconoscere la rilevanza, ai fini sopra esposti, di un’attività che, di fatto, può in vario modo contribuire ad indirizzare i soggetti bisognosi di un finanziamento verso gli intermediari operanti sul mercato del credito (in primis, attraverso l’opera di selezione delle tipologie di finanziamento più adeguate e delle offerte più convenienti rispetto alle esigenze dello specifico cliente)17. Da quanto osservato, discende che doveva (come deve ancor oggi) qualificarsi come mediatore creditizio quel soggetto che, in virtù di una specifica competenza professionale, comprovata dall’iscrizione all’apposito albo, svolgeva un’attività estesa ben oltre il mero reperimento di una controparte negoziale, la materiale presentazione di un contraente all’altro, o la ricerca di un’intesa fra soggetti in disaccordo (elementi sui quali insiste la S.C., reputandoli comunque necessari), potendo consistere anche nell’analisi del mercato del credito, nell’informazione al cliente in ordine ai vari aspetti di un finanziamento18, nell’illustrazione e nella spiegazione delle caratteristiche tecnico-giuridiche del medesimo, nella predisposizione, nell’acquisizione e nell’inoltro della documentazione richiesta per la valida conclusione dell’affare, e persino nello svolgimento di una prima istruttoria, preordinata a verificare la concreta praticabilità

e assoggettare a controllo, in funzione di lotta ai fenomeni usurari di ogni tipo, l’opera di mediazione svolta da particolari figure (ad es., avvocati o commercialisti) nel corso ed in occasione di altre attività professionali. Secondo la nuova disciplina, invece, il mediatore creditizio può svolgere esclusivamente l’attività riservata, nonché attività connesse e strumentali (art. 128-sexies, co. 3, t.u.b.; per l’indicazione delle attività compatibili/ incompatibili con la mediazione creditizia v. invece art. 17 d.lgs. n. 141/2010), con il rischio che ritornino nel sommerso, divenendo meno controllabili, tutte quelle forme di mediazione meno organizzate, collegate a diverse attività professionali, nelle quali possono ugualmente celarsi insidiosi fenomeni di usura (su questi profili v. Gallo, Art. 128-septies, cit., pp. 2096-7). 17. V. ancora Gallo, Art. 128-septies, cit., p. 2092, secondo il quale l’ampia formula usata dal legislatore del 1996 aspirava ad estendere quanto più possibile il raggio d’azione dei controlli, inglobando nell’area della riserva ogni possibile ipotesi di interposizione tra intermediario creditizio e cliente. Sul punto v. anche infra, nt. 20. 18. Si pensi, al riguardo, alle implicazioni nascenti dall’obbligo di rispettare le disposizioni in materia di trasparenza bancaria, posto a carico del mediatore già dall’art. 16, comma 4, l. n. 108/96 e, in atto, dall’art. 128-decies t.u.b.

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dell’operazione finanziaria19. In breve, le peculiarità del settore finanziario (particolare complessità tecnica della materia, unita alla presenza di ineludibili esigenze di tipo pubblicistico, quali il contrasto ad ogni possibile fenomeno di abusivismo e di criminalità economica, o la tutela dei soggetti coinvolti nella conclusione dei contratti di finanziamento), comportano che il collegamento tra chi offre e chi domanda credito, tipico della mediazione, possa di fatto realizzarsi anche tramite una qualificata attività di assistenza e consulenza – fermo restando che, per la configurazione della fattispecie mediatizia, dovranno sussistere tutti gli altri elementi tipici della medesima. La stessa prassi seguita in ambito creditizio, del resto, comprova che il mediatore assolve una naturale funzione di guida ed assistenza nei confronti degli aspiranti al finanziamento (sovente privi di qualsiasi competenza in materia, altre volte disorientati da un’offerta di prodotti particolarmente abbondante e variegata), che si pone, con ogni evidenza, come strumentale rispetto alla conclusione della designata operazione creditizia20.

3.2. L’inquadramento giuridico delle attività di assistenza e consulenza in materia di accesso ai finanziamenti. Le contrastanti posizioni della giurisprudenza. Alla luce di tali premesse, si intuisce che l’inquadramento giuridico di un’attività consistente in una consulenza in materia di accesso ai finanziamenti e nell’assistenza in sede di redazione e di presentazione della relativa istanza al soggetto erogatore del credito non risulta affatto agevole, neanche laddove si voglia – come appare corretto – circoscrivere i confini della nozione di mediazione creditizia, attraverso una lettura,

19. Si tratta, come vedremo più avanti, di compiti – oggi espressamente menzionati dall’art. 13 d.lgs. n. 141/2010 - che i mediatori creditizi svolgono per lo più in base ad apposite convenzioni con banche e intermediari finanziari (dei quali i primi sono, dunque, ausiliari esterni), ma senza che tale attività assuma caratteri promozionali tali da compromettere la posizione di indipendenza e di neutralità tipica del mediatore (Criscuolo, Collaboratori esterni all’attività finanziaria, in L’ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, II, Padova, 2010, p. 734, nt. 18). 20. In questi termini, Sciarrone Alibrandi, Purpura, I mediatori, cit., p. 340, che ravvisano nella suddetta funzione di orientamento svolta dal mediatore la ragione per cui la definizione di mediazione creditizia comprende anche l’attività di consulenza.

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come quella sopra proposta, che tenda a valorizzare il dato dell’efficienza causale della “messa in relazione”. Se, infatti, non pare ragionevole ricondurre nell’alveo della mediazione creditizia l’attività del soggetto che si limiti a consigliare ad un proprio cliente, in modo del tutto generico, di fare ricorso ad una particolare modalità di finanziamento (ad es. un leasing, in luogo di un mutuo ordinario)21, o a fornire la semplice e generica indicazione di un intermediario finanziario cui potersi rivolgere per richiedere un eventuale finanziamento22 (essendo arduo ravvisare, in tali comportamenti, il carattere della “essenzialità” rispetto alla futura operazione creditizia), non altrettanto può dirsi con riferimento allo svolgimento di qualificate prestazioni professionali (come quelle di cui qui si discute), erogate per agevolare in modo diretto e concreto la conclusione dell’affare (i.e., la concessione di un finanziamento); affare che, peraltro, è lecito presumere non avrebbe avuto con ogni probabilità luogo, in assenza di siffatte attività (stante la difficoltà, per uno dei contraenti, di orientarsi con le sole proprie conoscenze in un ambito connotato da aspetti di particolare complessità tecnica). Del resto, ad ulteriore riprova della problematicità che l’inquadramento della consulenza in materia di finanziamenti presenta, basta rilevare l’incerto andamento delle (rare) pronunce giurisprudenziali che si sono occupate dell’argomento. Nella sentenza in commento, ad esempio, si richiamano alcune decisioni nelle quali la stessa Corte di Cassazione avrebbe negato che il

21. Di contrario avviso sembra invece La Torre, Intermediari finanziari e soggetti operanti nel settore finanziario, in Tratt. dir. ec., diretto da Picozza e Gabrielli, VIII, Padova, 2010, p. 380, ove si osserva come il «mettere in relazione» possa avvenire «anche in base al semplice motivato consiglio di ricorrere ad una particolare forma tecnica di finanziamento anziché ad un’altra». 22. Cfr. Gallo, Art. 128-septies, cit., pp. 2093-4, il quale correttamente rileva come la tipica funzione di avvicinamento dei contraenti assuma, nel caso della mediazione creditizia, una peculiare configurazione: difatti, considerata la massiccia ed evidente presenza sul territorio di banche e intermediari finanziari, qualunque cittadino potrebbe, in piena autonomia, contattarne uno e avviare una trattativa per la concessione di un finanziamento, non essendo in questo senso necessario, ai fini dell’individuazione di una possibile controparte contrattuale, l’intervento di alcun mediatore. Secondo l’a., dunque, nell’ipotesi in esame la funzione di correlazione tra le parti acquisterebbe rilevanza in una diversa ottica, ossia non tanto in relazione al classico reperimento di un potenziale contraente, quanto per lo svolgimento di compiti ulteriori, consistenti nell’erogazione di eterogenei servizi di assistenza e di consulenza in favore degli aspiranti al credito (specie sotto l’aspetto della selezione delle diverse offerte di finanziamento).

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contratto con cui una parte si era obbligata, dietro compenso, ad assistere l’altra nella richiesta di un finanziamento, ovvero, in altro caso, a prestare consulenza ed assistenza ai fini dell’ottenimento di un contributo pubblico, fosse da ricondurre allo schema della mediazione, dovendosi invece qualificare, più correttamente, come prestazione d’opera ai sensi dell’art. 2230 c.c.23. In senso opposto, tuttavia, più di recente la S.C. ha statuito, con riferimento ad una fattispecie analoga a quella in esame (conferimento di un incarico finalizzato a seguire l’intero iter per l’erogazione di un mutuo a tasso agevolato e di un finanziamento a fondo perduto ex l. n. 64/86, comprendente, più in dettaglio, la cura e la trattazione della domanda, nonché la gestione del rapporto con l’ente finanziatore, sino all’ottenimento dei benefici), che la lata portata della locuzione “mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza, banche o intermediari finanziari determinati con la potenziale clientela al fine della concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma”, utilizzata dal d.p.r. 287/2000, risulta “di tale ampiezza da ricomprendere ogni fenomeno creditizio connesso con valori e disponibilità finanziarie e tale, quindi, da non lasciare spazio ad alcuna residua operazione o servizio avente finalità creditizia”. La Corte ha stabilito, pertanto, che l’espressa finalizzazione di un intervento di consulenza professionale all’erogazione di un finanziamento finisce per attrarre la fattispecie nell’orbita della mediazione creditizia (con conseguente obbligo per l’intermediario di iscrizione nell’apposito albo), anziché in quella del mandato24. In conclusione, a noi pare di potere affermare che, considerate le specificità e le esigenze di tutela del settore nel quale si radica la disciplina della mediazione creditizia, di cui già si è data diffusamente contezza nel precedente paragrafo, la nozione di “messa in relazione”, nell’ambito di

V., rispettivamente, Cass., 25 giugno 1977, n. 2721 e Cass., 6 agosto 2004, n. 15200. In quest’ultima pronuncia, tuttavia, la Corte oscilla tra la qualificazione della fattispecie in termini ora di prestazione d’opera professionale (attività di assistenza e consulenza), ora di mediazione finanziaria (donde, probabilmente, la discrasia tra massima e motivazione della sentenza). Infine, la S.C. richiama anche Cass., 6 luglio 1999, n. 6956, ove, pur senza addentrarsi in un approfondito esame della nozione di mediazione (della quale vengono solo enunciati, genericamente, gli elementi caratteristici), si esclude la sussistenza di tale fattispecie, in presenza di un complesso incarico professionale (di studio e consulenza) volto all’organizzazione di un pool di finanziatori ed alla realizzazione di un aumento di capitale di una nota s.p.a. italiana. 24 Cass., 9 giugno 2014, n. 12961. 23.

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tale figura, vada interpretata in modo estensivo, ossia ricomprendendovi tutte quelle forme di intervento, come la consulenza professionale, non necessariamente riconducibili entro i confini dell’attività di reperimento o di convincimento delle parti di un affare, come tradizionalmente intesa (v. supra, par. 3), ma pur sempre preordinate a procurare, grazie al qualificato apporto professionale di un terzo, la conclusione del contratto di credito (con il limite negativo dell’irrilevanza delle condotte prive di efficienza causale determinante). D’altro canto, tale lettura risulta coerente sia con l’orientamento secondo cui l’opera del mediatore può estrinsecarsi in qualunque attività “utile” alle parti ai fini della conclusione dell’affare (assumendo quindi il reperimento e l’indicazione dell’altro contraente, o la segnalazione dell’affare medesimo, un valore puramente esemplificativo)25, sia, come si è cercato di evidenziare, con lo spirito delle disposizioni normative in materia creditizia (pregresse come attuali), emanate con l’intento di approntare un peculiare regime giuridico per ogni tipo di attività che potesse considerarsi funzionale all’erogazione dei finanziamenti da parte di banche ed intermediari finanziari.

3.3. Consulenza tout court e consulenza-mediazione. Il criterio per l’identificazione della consulenza finalizzata alla messa in relazione delle parti di un contratto di finanziamento. Ferme restando le superiori considerazioni, a livello pratico si profila tuttavia l’esigenza di stabilire quando un’attività di consulenza possa ritenersi effettivamente finalizzata (ed al tempo stesso utile) ad instaurare un contatto tra le parti di un rapporto di finanziamento (sì da potersi inquadrare, in conformità al dettato legislativo, nella fattispecie della mediazione creditizia), e quando, invece, detta attività rimanga sul piano della semplice prestazione d’opera professionale (in quanto tale non as-

Tale interpretazione poggia sul disposto dell’art. 1755 c.c., che, nel riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione quando il contratto è concluso per effetto del suo “intervento”, conferisce rilevanza a qualsiasi attività svolta da quest’ultimo, anche se diversa dalla messa in relazione in senso stretto, purché abbia prodotto il risultato utile della conclusione dell’affare (come conferma l’art. 1758 c.c., nell’attribuire rilevanza giuridica anche all’intervento di un secondo mediatore) (Marini, La mediazione, cit., p. 45). In giurisprudenza, per una lettura estensiva della nozione di “messa in relazione”, Trib. Bari, 13 settembre 2011, n. 2850; Trib. Monza, 28 giugno 2007. 25.

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soggettabile, come puntualizzato anche dalla S.C., alla speciale disciplina di settore). Occorre, in altri termini, tracciare la linea di demarcazione tra la consulenza tout court (in materia di credito) e quella che, in ragione di una specifica configurazione finalistica, integra l’agere riservato al mediatore creditizio. La risposta al quesito non può che dipendere da un accertamento da condurre caso per caso, sulla scorta di un criterio che, pur riconoscendo l’ampiezza del concetto di messa in relazione delle parti, consenta di circoscrivere entro limiti ben precisi la figura della mediazione creditizia, in modo da evitare che il campo di applicazione delle relativa disciplina finisca per assumere contorni indefiniti, a discapito dell’esigenza di certezza del diritto. Orbene, a tale proposito, facendo seguito a quanto in precedenza osservato, riteniamo si possa affermare che esulino dalla fattispecie in esame tutte quelle forme di consulenza, cui già si è accennato (ad es., generica indicazione di un potenziale finanziatore, o di una astratta tipologia di finanziamento ritenuta appropriata), che, per il grado di genericità dei consigli forniti e/o per la loro limitata rilevanza causale rispetto alla conclusione dell’affare (ragionevolmente ipotizzabile anche in assenza di siffatte prestazioni), possano reputarsi inidonee a determinare il collegamento fra i contraenti. Viceversa, laddove l’interprete dovesse verificare che, per le sue concrete caratteristiche, un’attività di assistenza e consulenza in materia creditizia sia stata concepita allo scopo di addivenire, per il tramite della medesima, alla conclusione di un successivo contratto di finanziamento (come nel già menzionato caso in cui il professionista debba occuparsi di selezionare le diverse offerte di credito disponibili sulla piazza, o di curare, sotto vari aspetti, lo svolgimento del rapporto tra finanziato e finanziatore), e che la stessa sia risultata a tal fine determinante, si potrebbe legittimamente ravvisare, anche al di fuori delle consuete ipotesi contemplate dalla giurisprudenza (individuazione di una controparte in precedenza ignota, o convincimento dei contraenti), quella “messa in relazione” tra le parti di un affare, che è elemento indefettibile di ogni forma di mediazione.

4. Consulenza “autonoma” e consulenza “accessoria”. Presunta rilevanza della distinzione nell’ambito della mediazione creditizia. La Corte prosegue nel proprio ragionamento, aggiungendo che un’attività di consulenza non può essere di per sé equiparata alla mediazione

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creditizia (se non quando preordinata a mettere in relazione due o più contraenti, secondo le descritte modalità del reperimento e dell’avvicinamento), anche per ragioni di ordine sistematico. Si osserva, infatti, che negli altri due settori in cui è articolata l’intermediazione finanziaria (ossia quello dell’intermediazione mobiliare e quello dell’intermediazione assicurativa), il legislatore avrebbe distinto tra consulenza “illustrativa” o in senso stretto (intesa come servizio autonomo e a sé stante, volto a facilitare un soggetto nelle sue libere scelte di allocazione del risparmio) e consulenza “strumentale” o “accessoria”, resa nell’ambito di un’attività di intermediazione. Posto che solo quest’ultima fattispecie ricadrebbe tra le attività (mobiliare e assicurativa) riservate26, la S.C. conclude che, per evidenti ragioni di coerenza interna dell’ordinamento, anche nel settore del credito le attività di mera consulenza non costituiscono in quanto tali mediazione creditizia, ma lo diventano solo se si inseriscono nel servizio di mediazione come attività accessorie27.

26. La Corte richiama, a supporto di tale affermazione, le disposizioni (invero non ancora vigenti all’epoca dei fatti) dell’art. 18-bis t.u.f. (che consente la prestazione di consulenza in materia di investimenti anche da parte di soggetti diversi dai prestatori di servizi di investimento, cui detta attività è di norma riservata) e dell’art. 106 cod. ass. (dal quale si evincerebbe che la consulenza in materia assicurativa rientra nel concetto di “intermediazione assicurativa” soltanto se finalizzata alla “presentazione e proposta” di contratti assicurativi o riassicurativi). Sembra a chi scrive, tuttavia, che le norme dianzi citate, e la prima in particolar modo, orientino verso ben altra direzione. In primo luogo, infatti, è opportuno premettere che la consulenza finanziaria, se munita dei requisiti prescritti dal t.u.f., costituisce di per sé un servizio (riservato) di investimento, anche laddove svincolata dalla prestazione di altre forme di intermediazione mobiliare. Pertanto, la distinzione tra consulenza “illustrativa” (libera) e consulenza “accessoria” (riservata), così come proposta dalla S.C., finisce col perdere ogni rilevanza (potendosi avere un’attività consulenziale autonoma, ma non per questo liberalizzata). In secondo luogo, con più specifico riferimento all’art. 18-bis cit., a noi pare che la tendenza dell’ordinamento italiano non sia affatto quella di liberalizzare, in ambito finanziario, l’esercizio professionale della consulenza “in senso stretto” (ove per tale si intenda, secondo la criticata opinione della S.C., quella non “strumentale” ad altra attività di intermediazione, ovvero non resa nel contesto di quest’ultima), ma semmai, all’opposto, di ricondurla quanto più possibile nell’ambito di attività regolamentate, il cui svolgimento postula il possesso di peculiari requisiti (professionali, patrimoniali, ecc.) e l’assoggettamento a forme più o meno intense di controllo. In quest’ottica, è stato di recente osservato (Capone, Art. 128-quaterquaterdecies., cit., p. 1564) che, in base all’attuale normativa, anche la sola attività di consulenza configurerebbe mediazione creditizia (ed è dunque da ritenere riservata), in linea con l’importanza che la regolamentazione del settore finanziario attribuisce oggi alle varie figure di consulente (in primis, nel settore dei servizi di investimento). 27. Se ne troverebbe conferma, secondo la S.C., anche nel Provvedimento dell’UIC (autorità di vigilanza competente ratione temporis) del 29 aprile 2005, che prevedeva l’obbligo del mediatore di informare la clientela che l’attività di consulenza doveva ri-

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Orbene, anche a voler tralasciare ogni giudizio in merito alla correttezza di tale ricostruzione (fondata su una distinzione, sia terminologica che concettuale, dalle basi come minimo incerte28), le argomentazioni utilizzate dalla S.C. suscitano comunque, a nostro avviso, alcune riflessioni. Da un lato, infatti, va dato atto che la Corte ha saputo mettere in luce come l’opera di mediazione creditizia possa includere – ciò che di norma accade – anche un momento consulenziale, che ne costituisce una fase interna ed accessoria29.

tenersi parte integrante del servizio di mediazione, in quanto tale non autonomamente retribuibile. 28 Si rinvia, sul punto, alle nt. 26 e 29. 29. In questo senso, la ricostruzione della Corte evoca una serie di problematiche ampiamente affrontate in letteratura, con riferimento all’esperienza maturata nel campo dell’intermediazione sia mobiliare che assicurativa. Quanto al primo ambito, invero, le argomentazioni del S.C. richiamano alla memoria, anche per la terminologia utilizzata (sia pure in modo non del tutto appropriato, rispetto al consolidato lessico specialistico), il vivace dibattito dottrinario relativo alle differenze tra consulenza finanziaria “autonoma” e consulenza finanziaria “strumentale”, sorto con riferimento alle previgenti disposizioni del t.u.f. sui servizi di investimento (ed oggi sopito per effetto delle novità normative apportate in sede di recepimento della direttiva Mifid). Anche in quel caso, invero, si evidenziava come la prestazione dei servizi di investimento di tipo esecutivo inglobasse una forma di consulenza strumentale ad un più corretto svolgimento dei medesimi (erogata all’investitore sotto forma di informazioni, chiarimenti e valutazioni circa l’adeguatezza di un’operazione su strumenti finanziari), priva di autonoma disciplina e rilevante solo quale momento interno dell’attività principale (al cui regime normativo restava dunque assoggettata). Sulla differenza tra consulenza pura e consulenza strumentale, nel precedente contesto normativo, Parrella, Contratti di consulenza finanziaria, in I contratti del mercato finanziario, a cura di Gabrielli e Lener, II, Torino, 2004, p. 858 ss.; sull’attenuazione della rilevanza di tale distinzione, conseguente all’avvento della normativa MIFID, mi sia consentito rinviare a Ciraolo, I caratteri del servizio di consulenza in materia di investimenti, alla luce della normativa di recepimento della MiFID, in AA.VV., Scritti in onore di Francesco Capriglione, I, Padova, 2010, p. 653 ss., ove ulteriori riferimenti bibliografici. Con riguardo al settore assicurativo, invece, nasce spontaneo il riferimento alla controversa figura del mediatore (o broker) assicurativo (art. 109 cod. ass.), la cui attività, a dispetto della fuorviante denominazione impiegata dal legislatore, non si limita alla sola funzione, tipica della mediazione, di “collegamento” tra assicurando e compagnia assicuratrice, ai fini della stipula di un contratto di assicurazione, ma prevede, nella generalità dei casi, una serie di servizi ulteriori di collaborazione e consulenza in favore del cliente (esame del mercato assicurativo per il collocamento dei rischi alle condizioni più favorevoli, analisi dei testi contrattuali e assistenza in fase di stipula, gestione dei sinistri, ecc.), alla cui presenza si ricollegano le ben note difficoltà di riconduzione della fattispecie entro i confini di uno specifico tipo contrattuale (Donati, Volpe Putzolu, Manuale di diritto delle assicurazioni9, Milano, 2009, pp. 104-5; Baldassarre, Art. 1754 c.c., in Codice

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Dall’altro, però, va osservato che si rischia per tale via di legittimare uno svilimento del peso che le prestazioni di consulenza possono concretamente rivestire, nell’ambito della mediazione creditizia: non v’è dubbio, infatti, che in alcuni casi le attività di assistenza e consulenza costituiscano il fulcro della stessa opera mediatizia, purché dirette, come più volte specificato, ad instaurare un contatto fra le parti di un successivo contratto di finanziamento. Si può a nostro avviso affermare, in sostanza, che l’ampia definizione dell’attività di mediatore creditizio (colui che “mette in relazione, anche attraverso attività di consulenza…”), contenuta nel d.p.r. n. 287/2000 (ed in atto riprodotta dall’art. 128-sexies t.u.b.), consenta due distinte letture, entrambe lecite: secondo la prima, più riduttiva, la consulenza costituisce solo una fase interna dell’attività principale di mediazione, rispetto alla quale si pone in evidente rapporto di ancillarità (è il caso del soggetto che fornisce delucidazioni in merito al finanziatore che ha individuato e segnalato, nonché ai prodotti da questi offerti, in funzione di un più accurato svolgimento della classica attività mediatizia30); in base alla seconda, conforme peraltro ad una diffusa prassi operativa, la mediazione tende invece ad identificarsi maggiormente con l’attività di consulenza e assistenza, che rappresenta, come già detto, la prestazione mercé la quale si realizza essenzialmente il contatto fra le parti (è il caso, più volte menzionato, del professionista che si occupa di analizzare e selezionare per il proprio cliente le più convenienti tipologie di finanziamento disponibili sul mercato, o che, come nel caso di specie, assiste e consiglia il proprio cliente durante l’intero iter di erogazione del credito, gestendo nei suoi vari passaggi il rapporto con l’intermediario). In sintesi, dunque, si potrebbe asserire che, nel primo caso, la mediazione si svolge con l’ausilio di attività (incidentali) di tipo consulenziale; nel secondo, invece, la consulenza svolge un ruolo ben più significativo, rappresentando il modo attraverso il quale vengono sostanzialmente messe in relazione (nell’ampia accezione di cui al par. 3.1) le parti dell’affarefinanziamento (di tal che il contatto fra i contraenti appare come il risultato stesso dell’attività di consulenza)31.

civile commentato, a cura di Cendon, Milano, 2009, p. 1060 ss.). 30. Si noti, peraltro, che tale attività di assistenza e consulenza può per certi aspetti rivestire carattere di obbligatorietà, in virtù dell’applicazione della normativa sulla trasparenza bancaria (cfr. nt. 18). 31. In questa seconda ipotesi, dunque, appaiono maggiori punti di contatto con il servizio di brokeraggio assicurativo, laddove, come dapprima accennato, all’opera di

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Resta inteso che l’esercizio professionale delle attività sopra descritte richiede comunque l’iscrizione all’albo dei mediatori, dovendosi ritenere che solo al di fuori delle predette ipotesi esso sia liberamente consentito a chiunque. Come giustamente rilevato dalla S.C., infatti, l’attività di consulenza che non sia strumentale all’interposizione tra le parti di un contratto di finanziamento si colloca all’esterno della fattispecie della mediazione creditizia, qualificandosi in termini di mandato o di prestazione d’opera (cfr. amplius par. 3.2 e 3.3).

5. L’interpretazione finalistica della l. n. 108/96, operata dalla S.C. al fine di escludere l’attività di mera consulenza dal perimetro della mediazione creditizia. Critica. Infine, la Corte afferma che un’ulteriore ragione per la quale l’attività di mera consulenza in materia di finanziamenti non poteva ritenersi riservata ai mediatori creditizi, all’epoca dei fatti, discenderebbe da un’interpretazione finalistica dell’allora vigente normativa. L’art. 16 l. n. 108/96, istitutivo dell’albo dei mediatori creditizi, andrebbe infatti interpretato in coerenza con gli scopi della legge antiusura, «dunque nel senso che la mera consulenza finalizzata alla concessione di un pubblico finanziamento non rientri tra le attività di mediazione creditizia,

interposizione tra i contraenti si affiancano quasi sempre attività di consulenza e di assistenza nei confronti dell’assicurando (le quali, peraltro, nella dinamica del rapporto possono anche acquisire prevalente importanza rispetto alla prima), che rendono ardua la qualificazione giuridica del contratto (comunemente definito, invero, come contratto innominato misto, in virtù della compresenza di elementi di diverse figure contrattuali tipiche: cfr. gli aa. citati alla nt. 29). Anche il difficoltoso inquadramento giuridico dell’attività di mediazione creditizia, del resto, nasce dal fatto che essa contempla, al proprio interno, un quasi fisiologico svolgimento di prestazioni lato sensu consulenziali, che appaiono estranee allo schema civilistico dell’interposizione mediatizia pura. Ciò potrebbe indurre ad ipotizzare che, come nel caso del brokeraggio assicurativo, la denominazione utilizzata dal legislatore per identificare la figura in esame non denoti, in realtà, alcuna volontà di attribuire alla medesima una precisa qualificazione giuridica, quanto, semmai, l’intento di ricondurre nell’ambito di una fattispecie speciale, muovendo dal dato fenomenologico, una serie di attività che andrebbero più correttamente inquadrate in altri modelli contrattuali tipici (ad es. il mandato, o la locatio operis). Rispetto al caso della mediazione assicurativa, tuttavia, la funzionalizzazione di eventuali attività di consulenza alla “messa in relazione” delle parti, espressamente prevista dal legislatore, consente una più agevole riconduzione della figura in esame entro i confini di una vera e propria fattispecie mediatizia, sia pure caratterizzata dalla presenza di alcuni elementi di specialità.

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in quanto per definizione la concessione di un finanziamento prevista dalla legge (regionale o nazionale non rileva) non può esporre il beneficiario al rischio di pagare interessi usurari». Il rilievo non convince, per più d’una ragione. In primo luogo, il ragionamento seguito dal S.C. appare piuttosto nebuloso, già sul piano meramente logico: anche ipotizzando, infatti, che una consulenza erogata per agevolare la concessione di un finanziamento pubblico non comporti per definizione il rischio di usurarietà (e, quindi, che non richiedesse l’iscrizione all’albo dei mediatori, esorbitando dalla materia disciplinata dalla l. n. 108/96), tale argomento non autorizza comunque a desumere che le attività di semplice consulenza creditizia, nella loro generalità, non fossero riservate ai mediatori professionali. A tacer d’altro, infatti, così opinando si finirebbe col dover ammettere – in aperto contrasto con la lettera della legge – che neanche le attività di mediazione creditizia stricto sensu imponevano l’iscrizione all’albo, ogni qualvolta non sussistessero, in concreto, pericoli di corresponsione di interessi usurari. Conclusione che a noi sembra palesemente inaccettabile, dato che, nell’introdurre la riserva, la legge ha considerato astratte tipologie di attività, senza operare alcuna distinzione a seconda della concreta attitudine di una condotta ad esporre a pericolo gli interessi protetti dall’ordinamento32. Ciò nondimeno, pare comunque opportuno interrogarsi sulla congruenza di una soluzione interpretativa volta ad includere tra le attività riservate ai mediatori creditizi anche i comportamenti (contemplati dalla normativa, ma) inidonei, di fatto, a dare adito a quei fenomeni usurari che lo stesso provvedimento istitutivo della riserva mirava a prevenire. In simili circostanze, invero, la compressione dell’autonomia privata, della libertà di iniziativa economica e del grado di concorrenzialità del mercato, discendente dall’imposizione di una riserva di attività, troverebbe scarsa giustificazione, in quanto priva di rispondenza ad esigenze di carattere sostanziale. Al riguardo, tuttavia, non sembra peregrino affermare che la l. n. 108/96, pur avendo come scopo immediato e diretto quello di dettare

Vale la pena di rammentare, peraltro, che anche sotto il profilo penalistico l’esercizio abusivo delle attività finanziarie è in genere considerato come un reato di pericolo astratto, sul presupposto che una simile condotta costituisce di per sé un grave fattore di perturbazione della trasparenza del mercato finanziario (così, Sabbatelli, Art. 140-bis, in AA.VV., Commentario al Testo Unico, diretto da Capriglione, cit., p. 2336). 32.

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una serie di disposizioni di contrasto dell’illegalità, perseguiva altresì l’ulteriore e più ampio obiettivo di assoggettare a forme di controllo fino ad allora inesistenti una serie di comportamenti prodromici e funzionali all’erogazione del credito (tra i quali, appunto, le attività mediazione e consulenza), che, oltre a rappresentare il terreno fertile per eventuali pratiche usurarie, potevano ritenersi atti ad esporre a pericolo sia gli interessi dei soggetti richiedenti un finanziamento (in tal senso depone, ad es., la già rilevata applicazione all’operato dei mediatori creditizi, con il limite della compatibilità, delle intere norme in materia di trasparenza contrattuale, e non solo di quelle relative ai tassi di interesse), che, ancor più in generale, l’intero sistema creditizio e finanziario33. Pertanto, un’interpretazione finalisticamente orientata che, nell’individuare le condotte rilevanti ai sensi di legge, tenga conto del solo profilo del pagamento di interessi usurari, come quella proposta dalla S.C., rischia di apparire alquanto riduttiva, sussistendo comunque ulteriori esigenze, perlopiù di stampo pubblicistico, in grado di legittimare un’operazione esegetica maggiormente rigorosa34.

La Torre, Intermediari, cit., p. 371, il quale, oltre a leggere le disposizioni in materia di ausiliari esterni degli intermediari anche in chiave di tutela di questi ultimi (che, altrimenti, potrebbero trovarsi inconsapevolmente coinvolti in attività illecite, attraverso operazioni intermediate da soggetti di cui non si conosce il grado di onorabilità ed affidabilità, p. 360), ricorda come l’istituzione dell’albo dei mediatori e consulenti finanziari avesse già trovato anticipazione nella legge delega n. 52/96, che prevedeva l’estensione delle disposizioni antiriciclaggio (l. n. 197/91) a tutte quelle attività idonee a realizzare l’accumulazione o il trasferimento di ingenti disponibilità economiche o finanziarie, ovvero esposte al rischio di infiltrazioni da parte della criminalità organizzata. L’a. chiarisce quindi che la disciplina de qua mirava a «impedire che attraverso il ricorso alla rete dei mediatori non regolamentati si vengano a creare zone franche che consentano la elusione di norme di applicazione necessaria o di ordine pubblico», come quelle su antiriciclaggio e trasparenza dei rapporti. Nella stessa ottica, Criscuolo, Collaboratori, cit., pp. 728-9, il quale evidenzia come lo sviluppo dei nuovi canali distributivi dei prodotti bancari e finanziari comporti un aumento dei rischi sia per il singolo intermediario (con evidenti conseguenze sulla sana e prudente gestione) che, di riflesso, per il sistema nella sua interezza. Per ulteriori riferimenti bibliografici v. anche Sciarrone Alibrandi, Purpura, I mediatori, cit., p. 335, in part. nt. 5. 34. Conclusione che può ritenersi valida, a maggior ragione, nel regime derivante dalla nuova disciplina degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi, ispirata, rispetto alla pregressa regolamentazione, da finalità di più ampio respiro. In dottrina, a quest’ultimo riguardo, è stato infatti osservato come la legge di riforma del 2010 abbia superato l’impostazione emergente dalla legge n. 108/96 (prevalentemente orientata alla prevenzione e al contrasto della criminalità economica), aspirando a fornire un più completo disegno di regolamentazione sostanziale del settore parafinanziario (Sabbatelli, 33.

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Da ultimo, a riprova di quanto sin qui osservato, si rileva che la stessa giurisprudenza di legittimità è orientata a ritenere che un’opera di mediazione può lecitamente esplicarsi anche in caso di contratti con enti pubblici, nonché a riconoscere la validità delle obbligazioni di corrispondere compensi al mediatore per l’attività svolta presso enti pubblici al fine di agevolare la conclusione di contratti35. La natura pubblica di uno dei contraenti (nella specie, l’ente finanziatore), in altri termini, non sembra sufficiente ad escludere la configurabilità di una fattispecie mediatizia, che sussiste al ricorrere dei relativi elementi costitutivi, a prescindere dall’inesistenza, nello specifico caso concreto, del rischio di pagare interessi in misura superiore ai limiti di legge.

6. Necessità dei requisiti di autonomia e indipendenza del soggetto interposto, ai fini della qualificazione di un’attività come mediazione creditizia. Conclusioni. Le considerazioni fin qui svolte ci inducono a concludere che la mancata qualificazione in termini di mediazione creditizia di un’attività di assistenza e consulenza in materia di accesso a pubblici finanziamenti (tradottasi, nello specifico, nella preparazione e nella presentazione di apposita domanda all’ente finanziatore), non possa discendere dalla presunta carenza, nella condotta posta in essere dal professionista, dell’attitudine a mettere in contatto le parti del contratto di credito. Ed invero, indipendentemente dall’estensione che si voglia attribuire al fondamentale elemento della “messa in relazione”, se si muove dal presupposto che la mediazione creditizia costituisce una speciale figura

Art. 140-bis, cit., p. 2334), all’interno del quale il profilo della lotta al crimine costituisce solo uno specifico aspetto del fine perseguito, ossia il controllo sulle attività finanziarie (Gallo, Art. 128-sexies, cit., p. 2096). 35. Cass., 6 agosto 2004, n. 15200, ove si richiamano Cass., 28 agosto 1978, n. 4013 e Cass., 20 luglio 1972, n. 2483 (riferite ad attività di mediazione relative a contratti con enti pubblici stipulati a licitazione privata), nonché Cass., 20 settembre 1980, n. 5326 (relativa ad attività di mediazione svolta per agevolare la conclusione di contratti con enti pubblici). Contra, App. Torino, 8 marzo 2001, in Assicurazioni, 2001, II, 179, con nota di Boglione, ove si afferma che l’attività mediatizia sarebbe incompatibile con le procedure di evidenza pubblica, nelle quali la messa in contatto fra le parti avviene non per intervento del mediatore, bensì per effetto dell’invito rivolto con il bando e della richiesta di partecipazione alla gara.

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della comune mediazione civilistica, è indubbio che essa debba presentare anche gli ulteriori caratteri propri di quest’ultima (laddove non derogati, ovviamente, dalla normativa di settore)36. In particolare, tra questi spicca, oltre al requisito della subordinazione della provvigione alla conclusione dell’affare (presente, nel caso di specie, solo in parte), l’indefettibile elemento dell’indipendenza (e dell’autonomia) del mediatore rispetto ai soggetti intermediati, che si concretizza, come più volte affermato sia in dottrina che in giurisprudenza, non tanto nella necessità di un’assoluta “imparzialità” del mediatore (elemento generico e di equivoca interpretazione37), quanto nella sua necessaria terzietà rispetto alle parti dell’affare e nella sua libertà di agire in assenza di vincoli o obblighi giuridici di sorta (cfr. art. 1754 c.c.)38. Il mediatore, in altri termini, è colui che opera senza vincoli di subordinazione o collaborazione con alcuna delle parti, ma attivandosi in piena libertà ed autonomia per la conclusione di un affare rispetto al quale si mantiene in posizione di assoluta estraneità. Il tema si ricollega, con ogni evidenza, alla vexata quaestio dell’ammissibilità di una mediazione atipica o contrattuale, ossia di una mediazione

36. Sulle fattispecie speciali di mediazione (come quella creditizia o assicurativa), quali figure disciplinate da autonome fonti normative che ammettono uno scostamento dal paradigma tipizzato dal codice civile, giustificato dalle specificità del settore in cui si colloca la relativa disciplina e dalla peculiare natura del contratto intermediato, La Torre, Intermediari, cit., pp. 368 ss. 37. Il carattere dell’imparzialità, sovente richiamato dalla giurisprudenza (v., ad es., Cass., 30 novembre 1970, n. 2449; Cass., 1 luglio 1997, n. 5845), atterrebbe, invero, più alle modalità di espletamento dell’attività mediatizia, che non alla struttura della fattispecie. Invero, il mediatore creditizio che risulti “collegato” ad un intermediario attraverso la stipula di una convenzione, o che presti al soggetto finanziato un’attività di assistenza e consulenza, non è per ciò solo esonerato dal dovere di comportarsi in modo “imparziale”, ossia nel rispetto dei propri obblighi professionali e dei principi generali di correttezza e buona fede. Altri sottolineano, invece, come un’astratta ed assoluta “imparzialità” del mediatore sia di impossibile verificazione, specie nella mediazione creditizia, dove la fisiologica funzione del mediatore di prestare assistenza e consulenza alla parte richiedente il finanziamento finisce per spostare il baricentro dell’attenzione del mediatore verso quest’ultima (Sciarrone Alibrandi, Purpura, I mediatori, cit., p. 345 ss., nt. 31 in particolare). Sull’imparzialità del mediatore, quale mero elemento naturale del contratto di mediazione, v. già Minasi, Mediazione, cit., p. 35. 38. Il principio dell’indipendenza (o imparzialità, secondo il discutibile orientamento sopra menzionato) del mediatore, affermato già dall’art. 2 d.p.r. 287/00, è oggi ribadito dall’art. 128-sexies, co. 4, t.u.b., ove si afferma che il mediatore creditizio svolge la propria attività senza essere legato ad alcuna delle parti da rapporti che ne possano compromettere l’indipendenza.

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che non integri un mero rapporto giuridico di fatto, ma trovi piuttosto la propria fonte in un preventivo accordo tra le parti (o tra una sola delle parti, in caso di c.d. mediazione unilaterale) ed il mediatore. È palese, infatti, che il conferimento di un incarico professionale a quest’ultimo, anche se proveniente da una sola delle parti del futuro contratto, sembri sacrificare irrimediabilmente i requisiti di autonomia e di neutralità che devono contraddistinguere l’agere di qualunque mediatore. Sennonché, com’è noto, dottrina e giurisprudenza maggioritarie convergono ormai nel riconoscere che la mediazione possa avere anche un fondamento contrattuale, ammettendo una mediazione negoziale atipica, fondata su un contratto a prestazioni corrispettive con riguardo anche ad una soltanto delle parti interessate (ciò che di frequente si verifica, peraltro, proprio nella prassi dell’intermediazione bancaria e assicurativa, ove è comune la stipula di convenzioni-quadro tra intermediari e mediatori)39. Invero, la presenza di siffatti incarichi, che pur creano una sorta di legame tra il mediatore e una delle parti, non è ritenuta inconciliabile con il requisito oggettivo dell’indipendenza del primo40. Come giustamente rilevato in dottrina, infatti, il problema non è tanto quello dell’inesistenza di qualsivoglia vincolo in assoluto, quanto quello dell’assenza di legami che possano integrare un rapporto (di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza) strutturato in modo tale da far venire meno il requisito di autonomia e di neutralità che deve sempre caratterizzare l’opera del mediatore41. Occorre, in altri termini, che dal contratto che istituisce il rapporto di mediazione non scaturisca per il soggetto interposto alcun obbligo, esplicito o implicito, di svolgere la propria attività a favore di una delle parti, giacché in tal modo si comprometterebbero quella libertà di attivarsi e quell’indipendenza che devono immancabilmente connotare l’attività di mediazione42.

Per tutte, Cass., 5 settembre 2006, n. 19066; Cass., 9 giugno 2014, n. 12961. V. ad es. Cass., 7 aprile 2005, n. 7251; Cass., 27 giugno 2002, n. 9380. 41 La Torre, Intermediari, cit., p. 375. 42. Il discorso assume maggiore chiarezza, peraltro, se rapportato agli intermediari finanziari, più che ai clienti: come anticipato nel testo, infatti, le banche e le assicurazioni usano sottoscrivere con i mediatori delle convenzioni-quadro dalle quali non scaturisce, né deve scaturire, alcun obbligo per questi ultimi di promuovere l’attività o i prodotti dell’intermediario (ciò che, di contro, ricondurrebbe l’attività svolta in una fattispecie diversa dalla mediazione, quale ad es. l’agenzia). Si configura, piuttosto, una sorta di contratto normativo, che, salvaguardando la libertà operativa del mediatore, si limita a 39. 40

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In conclusione, non sussiste mediazione, secondo il più accreditato orientamento dottrinario, allorquando l’attività volta alla conclusione di un affare risulti giuridicamente dovuta nei confronti di una delle parti, in esecuzione di un obbligo discendente da altro, diverso e preesistente rapporto di dipendenza o collaborazione, non potendosi del resto concepire il contemporaneo inquadramento della medesima attività nel rapporto di mediazione e in altro rapporto giuridico diversamente disciplinato43. Tornando quindi al caso in esame, non può non evidenziarsi come una delle parti fosse contrattualmente obbligata a prestare la propria attività di assistenza e consulenza nei confronti dell’altra, per di più dietro compenso da corrispondere indipendentemente dall’erogazione del finanziamento. A nostro avviso, pertanto, il mancato inquadramento di tale attività entro lo schema della mediazione creditizia, sancito dalla sentenza in commento, non avrebbe dovuto essere incentrato sulla pretesa inidoneità di tale condotta ad assicurare la messa in relazione delle parti, quanto, piuttosto, sull’assenza – riconosciuta, per la verità, dalla stessa S.C. – degli altri elementi caratteristici della mediazione, ed in particolare di quei requisiti di autonomia e indipendenza del soggetto interposto, cui la normativa creditizia non ha inteso comunque derogare.

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determinare il contenuto (specie sotto il profilo economico) dei futuri rapporti che le stesse parti sono libere di concludere tra di loro (v. ancora La Torre, Intermediari, cit,, p. 376, cui adde Sciarrone Alibrandi, Purpura, I mediatori, cit., p. 348, nt. 36). 43 In questi termini, Luminoso, La mediazione, cit., p. 72 ss.

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CASI E SOLUZIONI

Consorzi e associazioni. Intorno a riconoscimento della personalità giuridica e responsabilità patrimoniale* La questione della riconoscibilità del “Consorzio ***”, come persona giuridica di diritto privato, impone di dirimere una pluralità di interrogativi. In primo luogo, indagare a quale tra i molteplici modelli organizzativi tipizzati dal legislatore, sia riconducibile il “Consorzio ***”, valutandone altresì lo scopo perseguito e l’idoneità a soddisfare i principi in materia di riconoscimento degli enti. In secondo luogo, ricostruire le fattispecie di responsabilità patrimoniale in capo al consorzio, ai singoli consorziati e a coloro che agiscono in nome del consorzio. Infine, delineare l’iter procedurale per il riconoscimento, anche verificando l’eventuale ricorrere di una delle fattispecie di trasformazione eterogenea ex art. 2500-octies c.c. Va da sé che da quest’analisi dovranno emergere anche le ragioni di opportunità ed efficienza che dovrebbero orientare l’ente “Consorzio ***” nella scelta del modello giuridico organizzativo da adottare. 1. Al fine di ricondurre l’ente “Consorzio ***” nel più idoneo schema organizzativo tipico occorre far riferimento ad alcune sue caratteristiche peculiari: il nomen “consorzio”; lo scopo principale (ancorché non esclusivo, così come enunciato all’art. 3 dello Statuto); l’oggetto dell’attività e la peculiarità di talune disposizioni. Quanto al nomen, è noto che il codice civile disciplina alcune specifiche fattispecie di consorzio, che si connotano per la natura dello scopo e per la qualità soggettiva dei contraenti: i consorzi ex artt. 862 e 863 c.c. (consorzi di bonifica e di miglioramento fondiario) e i consorzi tra imprese (art. 2602 ss. c.c.)1.

*

Parere pro-veritate.

1

In generale, sui consorzi si veda Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni im-

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Il “Consorzio ***” non appare qualificabile né come consorzio di bonifica, né di miglioramento fondiario, in quanto non ricorrono gli elementi dettati dalle norme; d’altra parte il “Consorzio ***” non è neanche qualificabile come un’associazione tra imprese, presupposto soggettivo essenziale per il ricorrere della fattispecie di consorzio ex art. 2602 ss. c.c. Ciò non esclude che, in qualche caso, sia possibile configurare l’applicabilità, in via analogica, di talune norme. Nell’ipotesi del “Consorzio ***” il nomen consorzio, quindi, non è usato in senso tecnico e positivo; l’ente non rientra in alcuna delle fattispecie sopra menzionate, vuoi per la mancanza del requisito soggettivo, vuoi per la diversità dell’attività e dello scopo. È chiaro, e non mette conto qui ricordarlo, che in questa materia i modelli organizzativi dettati dal legislatore sono tipici e tassativamente individuati; ma, d’altra parte sono delineati in modo da adattarsi con estrema flessibilità alle più diverse finalità2. E se negli enti con scopo di

materiali, Milano, 1962, p. 128; Concorrenza e consorzi, in Tratt. dir. civ2., diretto da Grosso e Santoro Passarelli, vol. VI, fasc. 7, Milano, 1965; Guglielmetti, La concorrenza e i consorzi, in Tratt. dir. civ., diretto da Vassalli, vol X, Torino, 1970, p. 386 ss.; Franceschelli, Consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca (artt. 2602-2620), Bologna-Roma, 1970, p. 129 ss.; Volpe Putzolu, I consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi, in Tratt. dir. comm. e dir. pubbl. dell’ec. diretto da Galgano, IV, Milano, 1981, p. 333 ss.; Id., Società consortili fra non imprenditori, in Riv. dir. impr., 1989, p. 75 ss.; Frignani, Le nuove norme sui consorzi, in Giur. comm., 1976, I, p. 588 ss.; Mosco, I consorzi tra imprenditori, Milano, 1988, p. 187 ss.; Galgano, Le “fasi dell’impresa” nei consorzi fra imprenditori, in Contr. e impr., 1986, p. 1 ss.; Corapi, Amministrazione e rappresentanza nei consorzi senza attività esterna, nelle associazioni temporanee di imprese e nel GEIE, in Riv. dir. civ., 1990, I, p. 67 ss.; Id., Consorzi e società consortili: trasformabilità e partecipazione alle gare per pubblici appalti, in Riv. dir. comm., 1993, p. 605 ss.; Barcellona, La costituzione di consorzi misti, in Società, 1991, p. 23 ss.; Paolucci, Consorzi e società consortili nel diritto commerciale, in Dig. disc. priv., sez. comm., III, Torino, 1988, p. 433 ss.; Id., Problemi attuali della disciplina dei consorzi, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Appendice, XXII, Torino, 1991, p. 579 ss.; Di Sabato, Consorzi e società consortili, in Rass. dir. civ., 1988, p. 680 ss.; Volpe Putzolu, Consorzi fra imprenditori, in Enc. giur., Roma, 1989; Marasà, Consorzi e società consortili, Torino, 1990; Ricciuto, Struttura e funzione del fenomeno consortile, Padova, 1992; Gambino, Geie e consorzi, in Giur. comm., 1990, I, p. 592 ss.; Rordorf, Società consortili, di professionisti, finanziarie e Sim, in Società, 1992, p. 1333 ss.; 2 Sul problema delle definizioni diffusamente Belvedere, Il problema delle definizioni nel codice civile, Milano, 1977, passim, ma spec. p. 43 ss., il quale op. ult. cit., pp. 169 ss., spec. 170, nota n. 27, evoca, nel senso di una incompatibilità tra metodo tipologico e uso di definizioni, il problema della classificazione per tipi su cui De Nova, Il tipo contrattuale, Padova, 1974, spec. p. 126 ss.; per gli sviluppi del dibattito sul metodo tipologico nella

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lucro (art. 2247 c.c.) – indipendentemente da quale sia l’oggetto sociale della singola società – il fine di lucro rimane idoneo a qualificare il modello, la situazione negli enti con scopo non di lucro è radicalmente diversa. La disciplina del singolo ente –oltre che dal tipo adottato – si declina attraverso la valutazione degli scopi che – in concreto – quel soggetto è volto a realizzare. I privati, infatti, non pongono in essere un’organizzazione soltanto per mirare a un fine non di lucro; tale fine non lucrativo è – piuttosto – strumentale alla realizzazione di un altro e ben distinto obiettivo. Questo è il presupposto in ragione del quale la singola organizzazione (sia essa associazione, comitato, fondazione) è regolata anche sulla base dello scopo specifico perseguito. Pertanto, la struttura dell’ente rimane immutata, mentre lo scopo può essere oggetto di una disciplina ad hoc (basti soltanto richiamare le norme in materia di organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, onlus). È chiaro che, in punto di qualificazione di un ente, l’interprete dovrà individuare i profili peculiari della disciplina applicabile, come qui sopra indicata, e valutarne la conformità e la compatibilità con i diversi modelli legislativi3. Orbene, l’analisi della figura del consorzio non può che ricondurlo nell’ambito della cd. causa associativa; la dottrina maggioritaria, sulla circostanza che la fonte del consorzio ex art. 2602 c.c. è in un contratto tra più parti con comunione di scopo4, definisce il consorzio come un’associazio-

dottrina tedesca Larenz, Methodenlehre der Rechtswissenshaft6, Berlin, 1991, p. 301 ss.; e per una diversa impostazione Kuhlen, Typuskonzeptionen in der Rechtstheorie, Berlin, 1977, p. 23 ss. Sul carattere stipulativo o reale delle definizioni legislative Belvedere, Il problema, cit., p. 63 ss.; Giuliani, Logica (teoria dell’argomentazione), in Enc. dir., XXV, Milano 1975, p. 13 ss., spec. p. 31 ss. Per il peculiare profilo delle classificazioni ex lege delle categorie contrattuali Gabrielli, Il contratto e le sue classificazioni, in Riv. dir. civ., 1997, I, p. 705 ss. 3 «Il diritto è parola. Che è il modo di farsi e manifestarsi della legge. La quale si disvela a pieno solo di fronte al caso della vita. Cioè con l’interpretazione e dunque attraverso la sua essenziale linguisticità»: così, sia pure nel diverso e più ampio orizzonte della filosofia ermeneutica Benedetti, Diritto e linguaggio. Variazioni sul «diritto muto», in Eur. dir. priv., 1999, p. 137 ss., spec. p. 140 ss. Intorno all’evolversi del metodo e del linguaggio giuridico Id., Appunti storiografici sul metodo dei privatisti e figure di giuristi, in Prelazione e retratto, Seminario coordinato da Benedetti e Moscarini, Milano 1988; e in Raccolta di scritti in memoria di Angelo Lener, Napoli 1988, p. 241 ss. 4 I consorzi sono ricondotti alla categoria dei contratti plurilaterali con comunione di scopo e, eminentemente ai contratti associativi, sul punto, diffusamente, Marasà, Consorzi, cit., p. 22 ss.

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ne di persone fisiche o giuridiche volta a realizzare un interesse proprio. La struttura del “Consorzio ***” risponde – essa stessa – al modello tipizzato “associazione” e in particolare, dell’associazione non riconosciuta, in quanto senza scopo di lucro e – nel caso che qui ricorre - non dotata di personalità giuridica. Tra causa associativa in generale e consorzio (si veda art. 3 dello Statuto dell’ente) non si configura incompatibilità, ma piuttosto rapporto di genere a specie. Tant’è che l’art. 21 dello Statuto sancisce l’applicabilità - per quanto non espressamente regolato - della disciplina delle associazioni non riconosciute; tale disposizione risponde alla prassi comune legittimata e condivisa da giurisprudenza e dottrina. Perciò, se il “Consorzio ***” sia suscettibile di acquisire la personalità giuridica è questione che rientra nell’alveo di quella della riconoscibilità di un’associazione. D’altra parte, anche ove non si condividesse la qualificazione dell’ente “Consorzio ***” come associazione non riconosciuta, si segnala che gli artt. 862 e 863 c.c. qualificano consorzi di bonifica e per il miglioramento fondiario come persone giuridiche pubbliche o private. Statuita, da un lato, la riconoscibilità dei consorzi come persone giuridiche (artt. 862, 863, 2500-octies c.c.) e stante, dall’altro, la riconoscibilità delle associazioni – anche nell’ipotesi in cui non si ritenesse condivisibile l’argomentare sul medio logico dell’associazione – in punto di diritto non emerge alcun ostacolo all’acquisto della personalità giuridica da parte del “Consorzio ***” (naturalmente purché dotato dei requisiti normativi di struttura e patrimonio). 2. Fugare i dubbi in tema di qualificazione o meno del “Consorzio ***” come un’associazione – oltre alla valutazione, già positivamente compiuta, in ordine alla possibilità di acquistare la personalità giuridica – rimane necessaria al fine i) di ricostruire la disciplina applicabile; ii) di stabilire se lo Statuto sia già conforme alle regole di organizzazione cui sono soggette le persone giuridiche; iii) di ponderare i profili – rilevanti

Di nessun rilievo invece, rispetto alla nostra questione, il carattere obbligatorio (per i consorzi coattivi art. 2616 c.c.) o volontario del consorzio. In quelli obbligatori – categoria dai più distinta da quella dei consorzi coattivi - emerge un obbligo a contrarre in capo ai consorziati. Si tratta di valutare se un consorzio sia obbligatorio quando la fonte dell’obbligo è nella legge, o anche nella volontà dei privati. In questo secondo caso credo si possa comunque discorrere di consorzio volontario che assume, stante l’oggetto dell’attività, carattere obbligatorio per i consorziati (ma la fonte rimane in un atto negoziale e non in una norma).

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– in materia di responsabilità patrimoniale nei confronti dei terzi e, in conseguenza di ciò, individuare il modello organizzativo più efficiente per l’ente. Il “Consorzio ***” a cagione del fine perseguito è ritenuto - per qualche aspetto - assimilabile ai consorzi cosiddetti di urbanizzazione, generandosi così una sovrapposizione tra la figura del consorzio in senso proprio e dell’associazione5. Tra i diversi tipi di scopo che un ente (non modelli giuridici, non tipi legali, ma scopi dell’attività) si propone, quelli di manutenzione, costituzione, gestione di opere di urbanizzazione sono ricondotti ai cd. consorzi di urbanizzazione (anche il “Consorzio ***” originerebbe da Convenzione di lottizzazione del 1968). All’art. 3 dello Statuto si dichiara «scopo del Consorzio è quello di curare la manutenzione e l’esercizio degli impianti esistenti e da realizzare nell’ambito del “Comprensorio privato” e dei suoi accessi nonché gli altri compiti ritenuti atti a rendere più agevole e più confortevole la residenza nel comprensorio stesso. Rientrano nello scopo del Consorzio, tra l’altro, anche in ottemperanza agli impegni previsti nel citato atto di convenzione con il Comune di ***, le seguenti attività: a) manutenzione ordinaria e straordinaria della rete stradale principale, delle strade di lottizzazione e delle opere particolari per l’ingresso al “Comprensorio privato” nonché delle opere di fognatura, con relativo impianto di depurazione biologica, anche se realizzate al di fuori della detta rete stradale, principale e delle strade di lottizzazione; b) esercizio e manutenzione degli impianti di acqua potabile (con relativi impianti di antincendio) e di innaffiamento, della rete di distribuzione dell’energia elettrica per uso privato e dell’impianto di illuminazione della rete stradale, secondo i termini delle convenzioni con l’ *** previsto nella convenzione urbanistica;

5 Secondo l’orientamento di Cass., 14 maggio 2012, n. 7427, in Giust. civ., Mass., 2012, 5, 602 «I consorzi di urbanizzazione — consistenti in aggregazioni di persone fisiche o giuridiche, preordinate alla sistemazione o al miglior godimento di uno specifico comprensorio mediante la realizzazione e la fornitura di opere e servizi — sono figure atipiche, nelle quali i connotati delle associazioni non riconosciute si coniugano con un forte profilo di realità, sicché il giudice, nell’individuare la disciplina applicabile, deve avere riguardo, in primo luogo, alla volontà manifestata nello statuto e, solo ove questo non disponga, alla normativa delle associazioni o della comunione…» (così anche Cass., 1 giugno 2010, n. 13417, in Giust. civ., Mass., 2010, 6, 860, e in Riv. dir. ind., 2010, 6, II, 482 (s.m.); Cass., 28 aprile 10220, in Giust. civ., 2011, 3, 718.

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c) servizio di pulizia delle strade e degli spazi destinati ad uso comune. In caso di inadempimento agli obblighi di cui sopra, il Consorzio, previa messa in mora da parte del Comune, sarà tenuto a rifondere al Comune stesso l’importo delle spese sostenute per la esecuzione in danno conseguente alla inadempienza. Per le opere ed impianti per i quali è prevista, a norma dalla citata convenzione, la consegna al Comune, i compiti di cui sopra saranno svolti dal Consorzio fino al giorno di tale consegna. Per tutte le altre opere ed impianti il Consorzio svolgerà i suoi compiti per il tempo della sua durata. Per quanto riguarda i compiti nell’interesse della generalità dei Consorziati, si precisa che gli stessi attengono in particolare: d) vigilanza degli accessi al comprensorio; e) manutenzione, della recinzione del comprensorio privato: f) governo dei boschi del comprensorio ove di uso comune h) sistematica disinfestazione dei boschi del comprensorio, ove di uso comune; i) manutenzione delle aree a verde privato inedificabile ove di uso comune l) vigilanza diurna e notturna del comprensorio, sia agli effetti del traffico che a tutela delle proprietà e a difesa del buon uso delle cose comuni; m) asporto delle immondizie: n) servizio di primo intervento in casi di emergenza quali, a mero titolo esemplificativo, incendi, eventi naturali, incidenti, ecc.; ogni altra attività senza fine di lucro, che risulti funzionale al perseguimento dello scopo associativo». Sulla qualificazione dei consorzi di urbanizzazione (cui peraltro sarebbe riduttivo ricondurre il “Consorzio ***”) sia in giurisprudenza che in dottrina, pur nella diversità delle ricostruzioni, emerge, un orientamento comune: si tratta di un’associazione atipica la cui organizzazione deriva dall’atto costitutivo e dallo Statuto, (con frequenti sovrapposizioni tra disciplina dei diritti reali, di obligatio propter rem, regole specifiche in materia di diritto di voto etc.). Infatti, il singolo associato «assume una serie di obblighi (…) con riferimento non solo alla gestione delle cose e dei servizi consortili, ma anche alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria - sicché, insoddisfacenti risultando tanto le teorie che propugnano l’applicazione generalizzata delle norme sulle associazioni, quanto quelle che propendono per il ricorso alle sole disposizioni in tema di comunione e condominio, è d’uopo rivolgere l’attenzione, in primo luogo, alla volontà manifestata nello statuto e, soltanto ove questo nulla disponga al riguardo, passare all’individuazio-

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ne della normativa più confacente alla regolamentazione degli interessi implicati dalla controversia»6. Nell’ambito del funzionamento interno le regole sono analoghe a quelle delle associazioni, solo che in questo caso il potere di incidere sulle scelte dell’ente è graduato in proporzione all’onere di ciascuno, che a sua volta è fondato sull’oggetto del diritto di proprietà. Per esempio, è proprio l’attività del consorzio che richiede che il peso sia per carati e non per teste, sul fondamento del fatto che l’utilizzo dei servizi sia in proporzione alle unità immobiliari detenute; ne consegue che per l’approvazione delle delibere sembra esserci una deroga all’art. 21 c.c. Questo a mio avviso non è in contrasto con i criteri organizzativi dello schema “associazione”, con i quali anzi trova un punto di contatto, nell’equilibrato ed egualitario trattamento degli associati, proprio in ragione della peculiarità dello scopo e dell’attività che l’Ente svolge, prestando servizi in favore dei consorziati e – inoltre – del dato che l’ammontare della quota associativa muta in dipendenza dei carati di proprietà�. 3. In materia di responsabilità patrimoniale verso i terzi devono svolgersi alcune considerazioni particolarmente delicate7, che non posso-

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Così Cass., 22 dicembre 2005, n. 28492, in Vita not., 2006, 1, 257 ss. Sul tema della personalità giuridica in generale e sulle regole di responsabilità patrimoniale si vedano, tra gli altri, Ferrara, Le persone giuridiche, in Tratt. Vassalli2, Torino, 1958; Rubino, Le associazioni non riconosciute2, Milano, 1952; Auricchio, Associazioni riconosciute (voce), in Enc. dir., III, Milano, 1958, p. 908; ì Rescigno, Fondazione (voce), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, Galgano, Persona giuridica, in Dig. disc. priv., sez. civ., XIII, Torino, 1995; Id., Associazioni non riconosciute e comitati, in Comm. cod. civ2., a cura di Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1976; Del Prato, I regolamenti privati, Milano, 1988; Ponzanelli, Gli enti senza scopo di lucro, in Dig. disc. priv., sez. civ, VIII, Torino, 1992; De Giorgi, Ponzanelli, Zoppini, Il riconoscimento delle persone giuridiche, Milano, 2001. In generale sulla responsabilità patrimoniale del patrimonio di scopo, Barbiera, Responsabilità patrimoniale, in Il codice civile. Comm. diretto da Schlesinger, sub art. 2740, Milano 1991, p. 24; Donadio, I patrimoni separati, Bari 1940; Pino, Il patrimonio separato, Padova 1950; Raynaud, La nature juridique de la dot. Essai de contribution à la théorie générale du patrimoine, Paris, 1934; Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano 1968; Mignoli, Idee e problemi nell’evoluzione della «company» inglese, in Riv. soc., 1960, p. 633 ss.; Rascio, Destinazione di beni senza personalità giuridica, Napoli, 1971; Guinchard, L’affectation des biens en droit privé français, Paris, 1976; Jackson, Kronman, Secured Financing and Priorities among Creditors, 88 Yale L. J. 1105 (1979); Schwartz, Security Interests and Bankruptcy Priorities: a Review of Current Theories, 10 J. Leg. St. 1 (1981); Roppo, Par condicio creditorum sulla posizione e sul ruolo del principio di cui all’art. 2741 c.c., in Riv. dir. comm., 1981, I, p. 305; Bigliazzi Geri, Patrimonio autonomo e separato, in Enc. dir., XXXII, Milano 1982, p. 280 ss.; Id., A proposito di 7

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no superficialmente ridursi al mero interesse ad evitare l’applicabilità dell’art. 38 c.c. «Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l’associazione i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione». Ove riconosciuta, è chiaro, l’associazione risponderebbe con il suo patrimonio (fondo comune), salvaguardando il patrimonio di coloro che hanno agito in nome e per conto dell’ente dalla responsabilità solidale e personale. Posta la riconducibilità del “Consorzio ***” alla categoria delle associazioni (e in questo caso delle associazioni non riconosciute), ritengo comunque di svolgere alcune ulteriori considerazioni in tema di responsabilità patrimoniale verso i terzi, le cui regole – non essendo nella disponibilità dei privati – rendono sempre opportuno confrontarsi con le ipotesi più gravose8. Si provi a rappresentarsi la situazione nella quale o un interprete non accolga tale qualificazione, oppure, pur condividendola – stante la specialità della disciplina del consorzio rispetto a quella delle associazioni

patrimonio autonomo e separato, in Studi in onore di Pietro Rescigno, II.1, Milano 1998, p. 105; Palermo, Contributo allo studio del trust e dei negozi di destinazione disciplinati in diritto italiano, in Riv. dir. comm., 2001, I, p. 391; Roppo, Le limitazioni della responsabilità patrimoniale, in Tratt. dir. priv. diretto da Rescigno, 19, Torino 1997, p. 509; Id., Responsabilità patrimoniale, in Enc. dir., XXXIX, Milano 1988, p. 1041; Spada, Persona giuridica e articolazione del patrimonio: spunti legislativi per un recente dibattito, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 837; Zoppini, Autonomia e separazione del patrimonio nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 545 ss.; Messinetti, Il concetto di patrimonio separato e la cd. «cartolarizzazione» dei crediti, in Riv. dir. civ., 2003, I, p. 101 ss, spec. p. 102; Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova 1996, p. 115; Iamiceli, Unità e separazione dei patrimoni, Padova 2003; Salamone, Gestione e separazione, Padova 2001. 8 In generale sul tema si vedano Ferro-Luzzi, La disciplina dei patrimoni separati, in Riv. soc., 2002, p. 121 ss.; Inzitari, I patrimoni destinati ad uno specifico affare, in Riv. soc., 2003, pp. 295 ss.; De Angelis, Dal capitale “leggero” al capitale “sottile”: si abbassa il livello di tutela dei creditori, ivi, 2002, p. 456 ss. Rabitti Bedogni, Patrimoni dedicati, in Riv. not., 2002, I, p. 1121 ss.; Becchetti, Riforma del diritto societario. Patrimoni separati, dedicati e vincolati, ivi, 2003, I, p. 49 ss.; Lamandini, Società di capitali e struttura finanziaria: spunti per la riforma, in Riv. soc., 2002, p. 139 ss.; Capaldo, I patrimoni separati nella struttura delle operazioni finanziarie, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, p. 201 ss.; Fimmanò, Patrimoni destinati e tutela dei creditori nella società per azioni, Milano 2008; Niutta, Patrimoni e finanziamenti destinati, Milano, 2006; Zoppini, Autonomia e separazione del patrimonio nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 545 ss.

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– opti comunque per l’applicazione di una norma speciale. Orbene, il “Consorzio ***” dispone di un Fondo Consortile9. In questo caso, in capo al Consorzio vi è la titolarità dei beni comuni che devono essere gestiti nell’interesse di tutti i consorziati e al servizio delle unità immobiliari (secondo le regole di Statuto e di Regolamento interno). Il Fondo Consortile è composto di beni che sono al servizio di tutti a fronte dei quali esiste un diritto/dovere dei singoli consorziati10. Per quanto riguarda il singolo sussiste una relazione inscindibile tra diritto di proprietà e quota associativa (una sorta di obligatio propter rem)11. Esiste pertanto una specifica situazione giuridica soggettiva sulla base della quale il consorziato è obbligato in ragione del suo diritto di proprietà. E tanto rileva questo profilo, che le quote versate sono commisurate ai carati. Le opzioni di responsabilità patrimoniale sono le seguenti: A) L’ipotesi in cui, contrariamente a quanto fin qui sostenuto, l’ente sia qualificato come consorzio in senso proprio (a solo titolo di esempio riprendendo le norme del libro terzo o applicando analogicamente le norme sui consorzi tra imprese); oppure è qualificato come associa-

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In generale sui vincoli di destinazione Confortini, Vincoli di destinazione, in Dizionario di diritto privato, a cura di Irti, Milano 1980, p. 871 ss.; Fusaro, Destinazione (vincoli di), in Dig. disc. priv., sez. civ., V, Torino 1989, p. 321 ss.; Id., Vincoli temporanei di destinazione e pubblicità immobiliare, in Contr. impr., 1993, p. 820; Id. “Affectation”, “Destination” e vincoli di destinazione, in Scritti in onore di R. Sacco, II, Milano, 1994, p. 455 ss.; Id., I vincoli contrattuali di destinazione degli immobili, in I contratti del commercio, dell’industria e del mercato finanziario, Trattato diretto da Galgano, III, Torino 1995, p. 2229 ss.; De Nova, Il principio di unità della successione e la destinazione dei beni alla produzione agricola, in Riv. dir. agr., 1979, p. 550 ss.; Alpa., Proprietà-potere di destinazione e vincoli di destinazione, in Dizionario di diritto privato, Torino 1985, p. 322; Id., Destinazione dei beni e struttura della proprietà, in Riv. not., 1983, I, p. 6; Id., Funzione sociale della proprietà e potere di destinazione dei beni, in Quad. reg., I, 1988, p. 37 ss., spec. p. 51; Tamponi, Una proprietà speciale (Lo statuto dei beni forestali), Padova 1983; Chianale, Vincoli negoziali di indisponibilità, in Scritti in onore di R. Sacco, II, Milano 1994, p. 1999 ss.; Aa. Vv., Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, Milano 2003. 10 Secondo Galgano, Associazioni, cit., p. 207, il fondo comune delle associazioni non riconosciute (i.e. allora per il fondo consortile del Consorzio ***) è della stessa natura del patrimonio delle associazioni riconosciute. 11 Cass., 14 mggio 2012, n. 7427, loc. ult. cit., «qualora lo statuto preveda la cessazione dell’appartenenza al consorzio per l’intervenuta alienazione del diritto reale e il subingresso dell’acquirente nei diritti e negli obblighi dell’alienante, il nuovo proprietario subentra nel debito per le quote consortili, che è obbligazione propter rem, senza necessità della dichiarazione di recesso o della delibera di esclusione prescritte dall’art. 24 c.c. in materia di associazioni».

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zione, ma applicando la disciplina – ritenuta – speciale. L’art. 2615 c.c. stabilisce che «Per le obbligazioni assunte in nome del consorzio, da coloro che ne hanno la rappresentanza, i terzi possono far valere i loro diritti esclusivamente sul fondo consortile. Per le obbligazioni assunte dagli organi del consorzio per conto dei singoli consorziati rispondono questi ultimi solidalmente con il fondo consortile. In caso di insolvenza nei rapporti tra i consorziati, il debito dell’insolvente si ripartisce tra tutti in proporzione delle quote». Da tale norma discenderebbe che: a) gli amministratori del consorzio non rispondono per le obbligazioni assunte in nome dell’ente; b) i consorziati rispondono solidalmente con il fondo consortile (non è specificato se con prioritaria escussione del fondo consortile, ma apparirebbe ragionevole) per le obbligazioni assunte dagli organi per conto dei singoli consorziati12. La locuzione «per conto dei singoli consorziati» non esclude che – in specifiche ipotesi – si possa trattare di tutti i consorziati, perché si dà rilievo alla pluralità delle singole situazioni giuridico-soggettive. Orbene, il “Consorzio ***” svolge un’attività che prevalentemente può essere ritenuta nell’interesse dei consorziati e non dell’ente di per sé; in questa ipotesi il singolo consorziato potrebbe essere effettivamente chiamato a rispondere. Inoltre, la norma di Statuto all’art. 2, co. 3, richiamando la convenzione con il Comune, statuisce un obbligo di analogo contenuto: concorso del patrimonio del consorzio e dei consorziati. «In particolare i consorziati assumono in solido con il Consorzio, ma nei limiti della propria quota, tutti gli obblighi del Consorzio stesso verso il Comune di ***». Tale norma – da sola – potrebbe essere l’impulso ad estendere ai consorziati nella responsabilità patrimoniale verso i terzi per gli atti compiuti dall’ente “Consorzio ***”, indipendentemente dalla qualificazione che se ne voglia dare. Con il riconoscimento si eviterebbe non solo la responsabilità degli amministratori (per la verità già esclusa ex art. 2615, co. 1), ma di tutti i consorziati. B) L’altra ricostruzione – qui ritenuta fondata – qualifica il “Consorzio ***” come un’associazione non riconosciuta. Si applicherebbe perciò l’art. 38 del codice civile. La soluzione in tema di responsabilità patrimoniale nei confronti dei terzi, nondimeno, non è né semplice, né univoca. In dottrina e in giurisprudenza ci si interroga su molti e diversi aspetti. In

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Agrusti, Il regime della responsabilità degli amministratori del consorzio con attività esterna, in Giur. comm., fasc. 5, 2012, p. 965, in nota a Cass., 3 giugno 2010, n. 13465.

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primo luogo, quali effettivamente siano i soggetti responsabili verso i terzi: chi materialmente ha sottoscritto l’atto, in esecuzione di delibere assunte da altri? O chi ha deliberato? Quindi il Consiglio? e finanche, al limite, l’Assemblea e perciò tutti gli associati13? La questione si intreccia con quella relativa alla qualificazione dell’atto compiuto da coloro che hanno agito: essi hanno agito per fatto proprio o altrui, con evidente diversa fattispecie di responsabilità patrimoniale. Se per fatto altrui, prevale il tema della tutela dei terzi che fanno legittimo affidamento sui soggetti con i quali essi hanno contrattato – appunto “coloro che hanno agito” – dando rilevanza esterna all’associazione; ciò indipendentemente dal fatto che stessero eseguendo decisioni di altri. Se per fatto proprio, allora risponderanno tutti coloro che hanno deliberato e, quindi, anche eventualmente gli associati in assemblea, laddove abbiano conferito un mandato agli organi ad agire14. In questo secondo caso, l’assenza di personalità giuridica crea un coinvolgimento anche dei consorziati. Alcuna dottrina poi fissa regole di responsabilità patrimoniale graduate, in ragione dell’oggetto degli atti stipulati15. E, infine, permane il diritto di regresso di coloro che hanno agito per la associazione. Infatti coloro che agiscano in nome e per conto dell’ente benché risponderanno verso i terzi solidalmente e personalmente saranno, all’interno, titolari di diritto di regresso sul fondo comune e sugli altri associati. Per gli associati, quindi, l’esito in termini patrimoniali sarà il medesimo. O soddisferanno direttamente le ragioni dei terzi creditori o rimborseranno coloro che hanno agito, sulla base del loro diritto di regresso. 4. Un’ulteriore profilo è l’individuazione dell’iter procedurale più idoneo e celere per ottenere il riconoscimento. Per dare impulso al procedimento è necessaria un’istanza da parte del rappresentante legale dell’ente, con allegato deposito di statuto, atto costitutivo, bilanci preventivo e consuntivo e di tutta quella documentazione che consenta di

13

Così Galgano, Associazioni, cit., p. 223. Secondo la posizione, per la verità isolata, di Galgano, Associazioni, cit., p. 223, ricorrerebbe l’ipotesi di responsabilità per fatto proprio. In generale si ritiene invece che gli amministratori siano responsabili per un debito altrui e che l’art. 38 c.c. statuisca una sorta di fideiussione ex lege a favore del creditore, così, Rubino, Le associazioni, cit., p. 255. 15 Volpe-Putzolu, La tutela dell’associato in un sistema pluralistico, Milano, 1977, p. 121. 14

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Casi e soluzioni

valutare se l’organizzazione interna e il patrimonio dell’ente siano adeguati rispetto allo scopo. Nel caso del “Consorzio ***” non si realizza né un mutamento di scopo, né di oggetto, né di natura giuridica, né del modello organizzativo dettato dal legislatore. In astratto, potrebbe non essere necessaria alcuna modifica statutaria, perché questa fattispecie, – non essendo soggetta all’applicazione delle norme in materia di trasformazione degli enti – non incide sulle posizioni giuridico-soggettive dei consorziati. Ciò naturalmente a condizione che il detto Statuto non richieda qualche modificazione di carattere organizzativo o definitorio. Infatti, la trasformazione da associazione non riconosciuta a riconosciuta non è riconducibile alla figura della trasformazione eterogenea ex art. 2500-octies c.c. – che regola i consorzi tra imprese disciplinati nel libro V – e nulla è statuito, in generale, per le associazioni non riconosciute che si trasformano in persone giuridiche16. D’altra parte associazione riconosciuta e non riconosciuta hanno la medesima struttura e il medesimo fine (non di lucro, in generale, cui si aggiunge quello perseguito dalle parti così come dichiarato nell’atto costitutivo e statuto)17. L’unica diversità – positiva – è che l’associazione riconosciuta gode di un controllo governativo sulla sua organizzazione interna, il che offre maggiori tutele agli associati/ consorziati18. L’agilità dell’iter procedimentale è fondata anche sulla circostanza che la posizione patrimoniale degli associati sul patrimonio dell’ente non

16

Secondo Carraro, In tema di trasformazioni eterogenee innominate, in Giur. Comm., 2012, fasc. 5, p. 1043. A seguito della novella del diritto societario, «nel sistema, appunto, interno al codice civile l’elenco delle operazioni trasformative ricavabile dagli art. 2500-septies e 2500-octies non può che essere considerato tassativo, nel senso che le mancate inclusioni (segnatamente: le società di persone, l’associazione riconosciuta tra le trasformazioni c.d. regressive, l’associazione non riconosciuta tra le progressive) – al di là del consenso o dissenso sulle ragioni che possono averle ispirate –, sono esclusioni deliberate e consapevoli del legislatore e corrispondono perciò a divieti espliciti, non superabili per mezzo dell’analogia». Sul punto De Angelis, La trasformazione eterogenea a dieci anni dalla riforma del diritto societario, in Giur. Comm., 2014, fasc. 3, p. 473 ss. 17 Cagnasso, Trasformazione di consorzi in società consortili, in Cons. impresa, 1991, p. 1218 ss.; per specifici profili si veda Tantini, Società consortile e abbandono della causa consortile: “trasformazione” o cambiamento dell’oggetto sociale con deliberazione a maggioranza?, in Riv. dir. impr., 1989, p. 481 ss. 18 Galletti, Contributo allo studio delle trasformazioni “regressive”, in Giur. comm., fasc. 5, 1996, p. 614 ss., Nota a Cass., 16 marzo 1996, n. 2226.

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Giuseppina Capaldo

si deteriora nel caso di riconoscimento. Infatti, nell’associazione non riconosciuta, nei confronti dei terzi, risponderà prima il fondo comune e soltanto a seguire gli associati che hanno agito. Pertanto, nell’ipotesi di azioni esecutive da parte di creditori, il patrimonio dell’associazione non riconosciuta si depaupererebbe nella stessa misura del patrimonio di un’associazione persona giuridica. L’eventuale responsabilità patrimoniale di coloro che hanno agito, in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta, sarebbe ulteriore e successiva; quindi non migliorerebbe in alcun modo la posizione degli associati, ma semmai solo quella dei creditori. Cioè, che coloro che hanno agito siano o meno responsabili delle obbligazioni nei confronti dei terzi, non ha nessun rilievo rispetto ai singoli associati perché comunque non incide sulla riduzione del fondo comune (del consorzio). Piuttosto, semmai – in assenza di riconoscimento – l’ente e i consorziati saranno essi stessi esposti all’esercizio del diritto di regresso da parte degli amministratori. 5. Appare quindi opportuno, benché esuli dall’oggetto di queste note, che l’ente adotti la forma giuridica più idonea all’attività che svolge, in ragione di un principio di efficienza e idoneità dei modelli organizzativi alla realizzazione degli scopi loro propri. Per un organismo di considerevoli dimensioni, con scopo circoscritto e puntualmente definito, evitare il riconoscimento pur di conservare una maggiore flessibilità interna non appare la scelta più razionale. Anzi, come sin qui osservato, è assolutamente opportuno l’acquisto della personalità giuridica per individuare con certezza la disciplina applicabile e per dotare di adeguata tutela patrimoniale i) il “Consorzio ***”, ii) gli associati/consorziati e iii) coloro che agiscono per l’ente. A ciò si aggiunge che, nel caso del “Consorzio ***”, non è necessario intervento alcuno né su struttura, né su organizzazione, né su fondo consortile al fine di soddisfare i requisiti dettati dal d.P.R. 361/2000 in materia di riconoscimento della personalità giuridica.

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AUTORI

Lorena Ambrosini, prof. ass. di Diritto privato nell’Università di Teramo (Giurisprudenza) Sandro Amorosino, prof. ord. di Diritto dell’economia nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Valentina Amorosino, avvocato in Roma Gaetano Armao, ricercatore di Diritto amministrativo nell’Università di Palermo (Scienze Giuridiche) Giovanni B. Barillà, ricercatore di Diritto commerciale nell’Università di Bologna (Scienze Giuridiche) Riccardo Bencini, avvocato in Roma Luca Bonzanini, responsabile affari legali e contenzioso UBI Banca Giuseppina Capaldo, prof. ord. di Diritto privato nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Vincenzo Caridi, prof. a contratto di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Francesco Ciraolo, prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Messina (Economia) Filippo Fiordiponti, ricercatore di Diritto privato nell’Università politecnica delle Marche Salvatore Maccarone, già prof. ass. di Diritto del mercato finanziario nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Eugenia Macchiavello, prof. a contratto di Diritto bancario nell’università di Genova (Economia) Roberto Marcelli, consulente in materia bancaria e finanziaria, presidente Assoctu Giuliana Martina, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università Ca’Foscari di Venezia (Economia) Francesco Mazzini, già prof. ass. di Diritto dell’economia nell’Università di Siena (Economia) Umberto Morera, prof. ord. di Diritto dell’economia nell’Università Tor Vergata di Roma (Economia)

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Alessandro Nigro, già prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia) Maurizio Pipitone, dottore in giurisprudenza Gennaro Rotondo, ricercatore di Diritto dell’economia nella II Università di Napoli (Scienze politiche) Maria Elena Salerno, ricercatore di Diritto dell’economia nell’Università di Siena (Economia) Vittorio Santoro, prof. ord. di Diritto commerciale nell’Università di Siena (Giurisprudenza) Danile Vattermoli, prof. ass. di Diritto commerciale nell’Università La Sapienza di Roma (Economia)

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INDICI DELL’ANNATA PARTE PRIMA SAGGI Ambrosini Lorena, Usura bancaria e tutela del creditore pag. Amorosino Sandro, La conformazione regolatoria della governance delle società bancarie da parte della Banca d’Italia » Armao Gaetano, Le nuove norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana in materia di credito e di risparmio » Bonzanini Luca, Trasparenza bancaria: dal bisogno di protezione al bisogno di efficienza » Ciraolo Francesco, Il Single Resolution Mechanism (Regolamento UE n. 806/2014). Lineamenti generali e problemi di fondo » Fiordiponti Filippo, Lo scopo mutualistico: un’assenza certificata » Maccarone Salvatore, Il ruolo e l’ambito dei DGS e dei fondi di risoluzione nelle crisi bancarie » Macchiavello Eugenia, Peer to peer lending ed informazione: la tutela dell’utente online tra innovazione finanziaria, disintermediazione e limiti cognitivi » Marcelli Roberto, L’usura della legge e l’usura della Banca d’Italia: nella mora riemerge il simulacro dell’omogeneità. La rilevazione statistica e la verifica dell’art. 644 c.p.; finalità accostate ma non identiche » Martina Giuliana, Il contratto di assicurazione sulla vita finalizzato all’erogazione di un mutuo immobiliare tra misure legislative urgenti, regolamentazione dell’Autorità di vertice del settore assicurativo e prospettive de jure condendo » Nigro Alessandro, Dalla banca alla banca » Pipitone Maurizio, La Cassa rurale cattolica in un dibattito congressuale di fine Ottocento » Rotondo Gennaro, Il recepimento del Sistema europeo di vigilanza finanziaria nell’ordinamento italiano: l’impatto sull’architettura della vigilanza bancaria » Salerno Maria Elena, The objectives and the future of financial regulation in a worldwide context » Santoro Vittorio, Crisi bancarie, ruolo dell’informazione e protezione del cliente » Vattermoli Daniele, Il creditore-banca nelle soluzioni negoziate della crisi »

553 209 21 107 357 417 177

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295 11 389

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Indici dell’annata

COMMENTI Amorosino Valentina, I principi del giusto procedimento ed i provvedimenti “di rigore” delle Autorità di vigilanza sui mercati finanziari Caridi Vincenzo, Le obbligazioni degli esponenti bancari Ciraolo Francesco, I limiti dell’attività di mediazione creditizia ed il rapporto con la consulenza finalizzata alla concessione di finanziamenti nella recente giurisprudenza Vattermoli Daniele, Questioni vecchie e nuove in tema di sovraindebitamento Nota redazionale, Sanzioni amministrative e principi del “giusto procedimento”

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CASI E SOLUZIONI Capaldo Giuseppina, Consorzi e associazioni. Intorno a riconoscimento della personalità giuridica e responsabilità patrimoniale

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RASSEGNE Morera Umberto e Bencini Riccardo, I contratti derivati nella giurisprudenza

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Indici dell’annata

INDICE ANALITICO DELLE DECISIONI Banche Banche – Amministrazione straordinaria – Proposta della Banca d’Italia – Facoltà del Ministro dell’Economia di disattenderla – Sussiste Banche – Amministrazione straordinaria – Provvedimento del Ministro dell’Economia – Preventiva istruttoria autonoma – Necessità Banche – Amministrazione straordinaria – Provvedimento del Ministro dell’Economia – Motivazione per relationem – Legittimità – Condizioni Banche – Amministrazione straordinaria – Proposta della Banca d’Italia – Provvedimento del Ministro dell’Economia – Discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica – Sindacato del giudice amministrativo – Ampiezza – Limiti Banche – Esponenti bancari – Obbligazioni – Fattispecie della stipulazione “indiretta” – Interposizione reale o fittizia – Nozione Banche – Esponenti bancari – Obbligazioni – Amministratore “interessato” – Obblighi di cui all’art. 2391 cod. civ. – Mancato rispetto – Violazione dell’art. 136 t.u.b. – Esclusione

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Mercato finanziario Mercato finanziario – Manipolazioni – Sanzioni amministrative – Natura penale Mercato finanziario – Manipolazioni – Procedimento sanzionatorio avanti la Consob – Difetto di imparzialità – Assenza di contraddittorio sulla proposta di sanzione – Mancanza di udienza pubblica – Successivo giudizio di opposizione avanti la Corte d’appello – Mancanza di udienza pubblica – Violazioni art. 6 C.E.D.U. – Sussistono Mercato finanziario – Manipolazioni – Doppia previsione di illecito amministrativo e penale – Definizione del procedimento sanzionatorio – Apertura di procedimento penale per gli stessi fatti – Violazione del principio del ne bis in idem – Sussiste Obbligazioni e contratti Obbligazioni e contratti – Domanda di concessione di finanziamenti pubblici – Consulenza e assistenza nella preparazione e presentazione della domanda – Qualificazione – Prestazione d’opera professionale e non mediazione

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Indici dell’annata

Procedure di sovraindebitamento Procedure di sovraindebitamento – Accordo di composizione della crisi – Collegamento con altra procedura concorsuale – Fattispecie Procedura di sovraindebitamento – Accordo di composizione della crisi – Società con soci illimitatamente responsabili – Proposta congiunta della società e dei soci – Contenuto – Mancata distinzione delle masse attive e passive dei diversi debitori – Ammissibilità – Fattispecie Procedure di sovraindebitamento – Accordo di composizione della crisi – Distinzione dei creditori in classi – Creditori destinati ad essere integralmente pagati in altra procedura – Inserimento in una classe distinta non destinataria di pagamenti e priva del diritto di voto – Ammissibilità – Fattispecie Procedure di sovraindebitamento – Accordo di composizione della crisi – Attivo messo a disposizione dei creditori – Esclusione di una parte dei beni del debitore – Ammissibilità della proposta Procedure di sovraindebitamento – Accordo di composizione della crisi – Crediti ipotecari – Previsione del pagamento non integrale e non immediato – Inammissibilità della proposta – Fattispecie

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INDICE CRONOLOGICO DELLE DECISIONI 2013 Cass., 20 settembre 2013, n. 24118

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2014 Corte Europea dei diritti dell’Uomo, 4 marzo 2014 Cons. St, sez. V, 9 febbraio 2015, n. 657 Trib. Forlì, 9 gennaio 2014 Trib. Asti, 18 novembre 2014 Trib. Pistoia, 29 novembre 2014

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PARTE SECONDA Legislazione, documenti e informazioni



LEGISLAZIONE

Concordato preventivo e proposte concorrenti R.d. 16 marzo 1942, n. 267 – Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa (come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132)1

Art. 163 Ammissione alla procedura e proposte concorrenti Il tribunale, ove non abbia provveduto a norma dell’articolo 162, commi primo e secondo, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo; ove siano previste diverse classi di creditori, il tribunale provvede analogamente previa valutazione della correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi. Con il provvedimento di cui al primo comma, il tribunale: 1) delega un giudice alla procedura di concordato; 2) ordina la convocazione dei creditori non oltre centoventi giorni dalla data del provvedimento e stabilisce il termine per la comunicazione di questo ai creditori; 3) nomina il commissario giudiziale osservate le disposizioni degli articoli 28 e 29; 4) stabilisce il termine non superiore a quindici giorni entro il quale il ricorrente deve depositare nella cancelleria del tribunale la somma pari al 50 per cento delle spese che si presumono necessarie per l’intera procedura, ovvero la diversa minor somma, non inferiore al 20 per cento di tali spese, che sia determinata dal giudice. Su proposta del commissario

1.

Le modifiche apportate dal d.l. 83/2015, convertito con modificazioni dalla l. 132/2015, sono evidenziate in neretto.

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Legislazione

giudiziale, il giudice delegato può disporre che le somme riscosse vengano investite secondo quanto previsto dall’articolo 34, primo comma; 4-bis) ordina al ricorrente di consegnare al commissario giudiziale entro sette giorni copia informatica o su supporto analogico delle scritture contabili e fiscali obbligatorie. Qualora non sia eseguito il deposito prescritto, il commissario giudiziale provvede a norma dell’articolo 173, primo comma. Uno o più creditori che, anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda di cui all’articolo 161, rappresentano almeno il dieci per cento dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale depositata ai sensi dell’articolo 161, secondo comma, lettera a), possono presentare una proposta concorrente di concordato preventivo e il relativo piano non oltre trenta giorni prima dell’adunanza dei creditori. Ai fini del computo della percentuale del dieci per cento, non si considerano i crediti della società che controlla la società debitrice, delle società da questa controllate e di quelle sottoposte a comune controllo. La relazione di cui al comma terzo dell’articolo 161 può essere limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano già oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale, e può essere omessa qualora non ve ne siano. Le proposte di concordato concorrenti non sono ammissibili se nella relazione di cui all’articolo 161, terzo comma, il professionista attesta che la proposta di concordato del debitore assicura il pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o, nel caso di concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis, di almeno il trenta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari. La proposta può prevedere l’intervento di terzi e, se il debitore ha la forma di società per azioni o a responsabilità limitata, può prevedere un aumento di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto d’opzione. I creditori che presentano una proposta di concordato concorrente hanno diritto di voto sulla medesima solo se collocati in una autonoma classe. Qualora la proposta concorrente preveda diverse classi di creditori essa, prima di essere comunicata ai creditori ai sensi del secondo comma dell’articolo 171, deve essere sottoposta al giudizio del tribunale che verifica la correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi.

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R.d. 16 marzo 1942, n. 267

(Omissis) Art. 165 Commissario giudiziale. Il commissario giudiziale è, per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni, pubblico ufficiale. Si applicano al commissario giudiziale gli articoli 36, 37, 38 e 39. Il commissario giudiziale fornisce ai creditori che ne fanno richiesta, valutata la congruità della richiesta medesima e previa assunzione di opportuni obblighi di riservatezza, le informazioni utili per la presentazione di proposte concorrenti, sulla base delle scritture contabili e fiscali obbligatorie del debitore, nonché ogni altra informazione rilevante in suo possesso. In ogni caso si applica il divieto di cui all’articolo 124, comma primo, ultimo periodo. La disciplina di cui al terzo comma si applica anche in caso di richieste, da parte di creditori o di terzi, di informazioni utili per la presentazione di offerte ai sensi dell’articolo 163-bis. Il commissario giudiziale comunica senza ritardo al pubblico ministero i fatti che possono interessare ai fini delle indagini preliminari in sede penale e dei quali viene a conoscenza nello svolgimento delle sue funzioni. (Omissis) Art. 172 Operazioni e relazione del commissario Il commissario giudiziale redige l’inventario del patrimonio del debitore e una relazione particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore, sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte ai creditori, e la deposita in cancelleria almeno quarantacinque giorni prima dell’adunanza dei creditori. Nella relazione il commissario deve illustrare le utilità che, in caso di fallimento, possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero essere promosse nei confronti di terzi. Nello stesso termine la comunica a mezzo posta elettronica certificata a norma dell’articolo 171, secondo comma. Qualora nel termine di cui al quarto comma dell’articolo 163 siano depositate proposte concorrenti, il commissario giudiziale

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Legislazione

riferisce in merito ad esse con relazione integrativa da depositare in cancelleria e comunicare ai creditori, con le modalità di cui all’articolo 171, secondo comma, almeno dieci giorni prima dell’adunanza dei creditori. La relazione integrativa contiene, di regola, una particolareggiata comparazione tra tutte le proposte depositate. Le proposte di concordato, ivi compresa quella presentata dal debitore, possono essere modificate fino a quindici giorni prima dell’adunanza dei creditori. Analoga relazione integrativa viene redatta qualora emergano informazioni che i creditori devono conoscere ai fini dell’espressione del voto. Su richiesta del commissario il giudice può nominare uno stimatore che lo assista nella valutazione dei beni. (Omissis) Art. 175 Discussione della proposta di concordato Nell’adunanza dei creditori il commissario giudiziale illustra la sua relazione e le proposte definitive del debitore e quelle eventualmente presentate dai creditori ai sensi dell’articolo 163, comma quarto. Ciascun creditore può esporre le ragioni per le quali non ritiene ammissibili o convenienti le proposte di concordato e sollevare contestazioni sui crediti concorrenti. Il debitore può esporre le ragioni per le quali non ritiene ammissibili o fattibili le eventuali proposte concorrenti. Il debitore ha facoltà di rispondere e contestare a sua volta i crediti, e ha il dovere di fornire al giudice gli opportuni chiarimenti. Sono sottoposte alla votazione dei creditori tutte le proposte presentate dal debitore e dai creditori, seguendo, per queste ultime, l’ordine temporale del loro deposito. (Omissis) Art. 177 Maggioranza per l’approvazione del concordato. Il concordato è approvato dai creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Ove siano previste diverse classi di creditori, il concordato è approvato se tale maggioranza si verifica inoltre nel maggior numero di classi. Quando sono poste al voto più

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R.d. 16 marzo 1942, n. 267

proposte di concordato ai sensi dell’articolo 175, quinto comma, si considera approvata la proposta che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto; in caso di parità, prevale quella del debitore o, in caso di parità fra proposte di creditori, quella presentata per prima. Quando nessuna delle proposte concorrenti poste al voto sia stata approvata con le maggioranze di cui al primo e secondo periodo del presente comma, il giudice delegato, con decreto da adottare entro trenta giorni dal termine di cui al quarto comma dell’articolo 178, rimette al voto la sola proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto, fissando il termine per la comunicazione ai creditori e il termine a partire dal quale i creditori, nei venti giorni successivi, possono far pervenire il proprio voto con le modalità previste dal predetto articolo. In ogni caso si applicano il primo e secondo periodo del presente comma. I creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, ancorché la garanzia sia contestata, dei quali la proposta di concordato prevede l’integrale pagamento, non hanno diritto al voto se non rinunciano in tutto od in parte al diritto di prelazione. Qualora i creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca rinuncino in tutto o in parte alla prelazione, per la parte del credito non coperta dalla garanzia sono equiparati ai creditori chirografari; la rinuncia ha effetto ai soli fini del concordato. I creditori muniti di diritto di prelazione di cui la proposta di concordato prevede, ai sensi dell’articolo 160, la soddisfazione non integrale, sono equiparati ai chirografari per la parte residua del credito. Sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze il coniuge del debitore, i suoi parenti e affini fino al quarto grado, la società che controlla la società debitrice, le società da questa controllate e quelle sottoposte a comune controllo, nonché i cessionari o aggiudicatari dei loro crediti da meno di un anno prima della proposta di concordato. (Omissis) Art. 185 Esecuzione del concordato Dopo l’omologazione del concordato, il commissario giudiziale ne sorveglia l’adempimento, secondo le modalità stabilite nella sentenza di omologazione. Egli deve riferire al giudice ogni fatto dal quale possa derivare pregiudizio ai creditori. Si applica il secondo comma dell’art. 136.

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Legislazione

Il debitore è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato presentata da uno o più creditori, qualora sia stata approvata e omologata. Nel caso in cui il commissario giudiziale rilevi che il debitore non sta provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla suddetta proposta o ne sta ritardando il compimento, deve senza indugio riferirne al tribunale. Il tribunale, sentito il debitore, può attribuire al commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al compimento degli atti a questo richiesti. Il soggetto che ha presentato la proposta di concordato approvata e omologata dai creditori può denunziare al tribunale i ritardi o le omissioni da parte del debitore, mediante ricorso al tribunale notificato al debitore e al commissario giudiziale, con il quale può chiedere al tribunale di attribuire al commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al compimento degli atti a questo richiesti. Fermo restando il disposto dell’articolo 173, il tribunale, sentiti in camera di consiglio il debitore e il commissario giudiziale, può revocare l’organo amministrativo, se si tratta di società, e nominare un amministratore giudiziario stabilendo la durata del suo incarico e attribuendogli il potere di compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla suddetta proposta, ivi inclusi, qualora tale proposta preveda un aumento del capitale sociale del debitore, la convocazione dell’assemblea straordinaria dei soci avente ad oggetto la delibera di tale aumento di capitale e l’esercizio del voto nella stessa. Quando è stato nominato il liquidatore a norma dell’articolo 182, i compiti di amministratore giudiziario possono essere a lui attribuiti.

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Le proposte concorrenti nel concordato preventivo Sommario: 1. Premessa – 2. Proposte concorrenti: legittimazione; presupposti. – 3. Segue: contenuto; relazione di attestazione; modifiche. – 4. Segue: termini di presentazione. – 5. Segue: controllo di ammissibilità. – 6. Segue: comunicazione ai creditori. – 7. Segue: rinunzia del debitore alla domanda; revoca dell’ammissione. – 8. L’intervento del commissario giudiziale. – 9. Discussione e votazione. – 10. Omologazione e relativi effetti. – 11. Esecuzione della proposta concorrente approvata ed omologata. – 12. Risoluzione e annullamento del concordato.

1. Premessa Una delle più rilevanti novità portate dalla “miniriforma” del 2015 è costituita dalla previsione della possibilità per soggetti diversi dal debitore di presentare proposte di concordato preventivo concorrenti, nel senso di alternative, a quella presentata dal debitore. Parte della dottrina da tempo mostrava insoddisfazione e insofferenza rispetto al “monopolio” dell’iniziativa che, in materia di concordato preventivo, la legge ha finora assicurato al debitore: il legislatore ha raccolto queste “doglianze”, riducendo drasticamente (ma non eliminando in toto) quel “monopolio”. E ciò nel quadro di un disegno complessivo di “apertura al mercato” delle procedure concorsuali, volto a favorire la “contendibilità” delle imprese in crisi ed avente - come si precisa nella relazione al disegno di legge di conversione del decreto n. 83 - la duplice finalità di «massimizzare la recovery dei creditori concordatari e di mettere a disposizione dei creditori concordatari una possibilità ulteriore rispetto a quella di accettare o rifiutare in blocco la proposta del debitore». Quel che nella relazione si omette di considerare, peraltro, è che la esistenza stessa, nel sistema, della possibilità di proposte concorrenti, non avanzabili in via autonoma ma “innescate” dalla presentazione di una proposta di concordato da parte del debitore, può costituire, in assoluto, un potente disincentivo alla stessa presentazione, appunto, di proposte di concordato da parte dei debitori in crisi.

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La disciplina della inedita figura della “proposta concorrente” è assai articolata, essendo “spalmata” su di una nutrita serie di disposizioni: la norma cardine è l’art. 163, nuovi co. 4-7; ma della figura trattano anche gli art. 165, 172, 175, 177, 185, tutti in vario modo ritoccati. Prima di affrontare l’analisi di tale complessa disciplina si impongono alcune considerazioni di ordine generale. La prima considerazione. L’introduzione della nuova figura ha un rilevante impatto sistematico: essa impone di ritenere che anche il concordato preventivo – come già il concordato fallimentare – non sia (più) necessariamente riconducibile ad un accordo fra il debitore ed i suoi creditori, potendo invece conformarsi come un accordo fra creditori, al quale il debitore resti estraneo. La seconda considerazione. Il fondamento della possibilità per i creditori di presentare proposte di concordato preventivo alternative a quella del debitore viene talvolta rintracciato nella nota costruzione concettuale per la quale quando l’impresa diviene insolvente “proprietari” in senso economico della medesima debbono ritenersi i creditori: la legittimazione dei medesimi a presentare proposte concorrenti sarebbe dunque da ravvisare nella loro sostanziale qualità di “proprietari” del patrimonio del debitore. Ad avviso di chi scrive – a parte i dubbi sulla “tenuta” e sulla rilevanza, in assoluto, di quella costruzione – si dovrebbe seguire, sul tema che qui interessa, un itinerario diverso. Con la domanda di concordato preventivo il debitore pone il suo intero patrimonio a disposizione dei creditori per il loro soddisfacimento in termini concorsuali: ed è in questo vincolo (giuridico) che trova fondamento la possibilità di ingresso nella vicenda di ipotesi di soddisfacimento dei creditori differenti da quella proposta dal debitore. È in questa chiave che trovano giustificazione, per un verso, la limitazione ai soli creditori della legittimazione a presentare proposte concorrenti e, dall’altro e soprattutto, la “dipendenza” genetica delle proposte concorrenti dalla domanda del debitore. Così come è in questa chiave che debbono ritenersi infondati i dubbi di costituzionalità del meccanismo: tale meccanismo non comporta alcun illegittimo esproprio del debitore, traducendosi anch’esso in una modalità di realizzazione della responsabilità patrimoniale del debitore. Peraltro, se è nell’ottica della massimizzazione della recovery dei creditori concorsuali – e, dunque, sul terreno dell’efficienza – che si colloca la proponibilità stessa delle proposte concorrenti, ben avrebbe potuto il legislatore “aprire” la legittimazione anche ai terzi non creditori (come del resto già accade nell’ambito del concordato fallimentare). La terza considerazione. Il legislatore ha chiaramente mostrato di voler costruire la proposta concorrente come, in principio, analoga, sul

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piano strutturale, ed equipollente, sul piano degli effetti, a quella del debitore (se così non fosse, del resto, non vi sarebbe reale concorrenza fra i due generi di proposte). Questo significa che alla proposta concorrente sono destinate ad applicarsi, sempre in principio, tutte le regole in punto di forma ed in punto di sostanza che governano la proposta del debitore, con eccezione, ovviamente, dei profili specificamente disciplinati dalla nuova normativa. E così per esempio, dal punto di vista formale, la proposta concorrente deve essere avanzata con ricorso, ai sensi dell’art. 161; e, dal punto di vista sostanziale, deve avere il contenuto delineato dall’art. 160, deve «indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore» (secondo la nuova formulazione della lett.e) del co. 2 dell’art. 161), e così via.

2. Proposte concorrenti: legittimazione; presupposti. a. Ai sensi dell’art. 163, co. 4, una proposta concorrente, con il relativo piano, può essere presentata (solo) da uno o più creditori che, anche per effetto di acquisti successivi alla presentazione della domanda del debitore, rappresentano almeno il 10% dei crediti risultanti dalla situazione patrimoniale depositata (dal debitore) ai sensi dell’art. 161 (in realtà, più propriamente il riferimento avrebbe dovuto essere all’elenco nominativo dei creditori ugualmente depositato ai sensi dello stesso art. 161). Stando alla formulazione della norma, la legittimazione sembrerebbe essere attribuita ai soli creditori concorsuali, cioè anteriori alla domanda di concordato, dovendosi allora escludere i soggetti che diventino creditori per effetto di acquisti di crediti successivamente alla presentazione della domanda del debitore. Ragioni di efficienza, di cui si è dato conto nel paragrafo precedente, in uno con la possibilità, espressamente contemplata nel co. 5 dello stesso art. 163, di prevedere l’intervento di terzi, sembrerebbero peraltro poter consentire di ritenere legittimato anche il creditore che è divenuto tale successivamente alla presentazione della domanda del debitore Per espressa previsione della norma, poi, non si possono computare ai fini della percentuale del 10% i crediti della società che controlla la società debitrice, delle società da questa controllate e di quelle sottoposte a comune controllo; dal che sembrerebbe doversi derivare che quei creditori non possano presentare proposte concorrenti. b. In funzione dell’esigenza di ridurre la dissimmetria informativa fra debitore e creditori che potrebbe scoraggiare la presentazione di proposte concorrenti, il legislatore ha avuto cura di introdurre precisi

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obblighi, appunto, informativi a carico del commissario giudiziale. Il nuovo art. 165, co. 2, stabilisce infatti che «Il commissario giudiziale fornisce ai creditori che ne fanno richiesta, valutata la congruità della richiesta medesima e previa assunzione di opportuni obblighi di riservatezza, le informazioni utili per la presentazione di proposte concorrenti, sulla base delle scritture contabili e fiscali obbligatorie del debitore, nonché ogni altra informazione rilevante in suo possesso». Al fine di evitare che la richiesta dei creditori possa essere ispirata dall’intento di acquisire informazioni utili per la presentazione, in futuro, di una proposta di concordato fallimentare, la disposizione precisa che a quei creditori «In ogni caso si applica il divieto di cui all’articolo 124, comma primo, ultimo periodo» (cioè il divieto di presentare una proposta di concordato fallimentare se non dopo un anno dalla dichiarazione di fallimento). Sempre in funzione di consentire ai creditori interessati a presentare proposte concorrenti di acquisire la maggiore quantità possibile di informazioni, è stato modificato, nell’art. 172, il termine per il deposito e la comunicazione, da parte del commissario giudiziale, della relazione particolareggiata sulle cause del dissesto, sulla condotta del debitore, sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte: non più almeno 10 giorni, bensì almeno 45 giorni prima dell’adunanza. c. La legge prevede una peculiare condizione di inammissibilità delle proposte concorrenti (tutte), data da ciò che nella relazione ex art. 161 co. 3 che deve accompagnare la proposta del debitore il professionista abbia attestato, specificamente, che la suddetta proposta «assicura il pagamento di almeno il quaranta per cento dell’ammontare dei crediti chirografari o, nel caso di concordato con continuità aziendale di cui all’articolo 186-bis, di almeno il trenta per cento dei crediti chirografari» (art. 163, co. 5). La previsione di una soglia di soddisfacimento che preclude in partenza la presentazione di proposte concorrenti dovrebbe costituire un incentivo per il debitore a cercare di raggiungere nella sua proposta tale soglia, che il legislatore ha evidentemente valutato (anche sulla scorta del passato) come adeguatamente satisfattiva per i creditori. Sul punto v. anche infra, sub § 5.

3. Segue: contenuto; relazione di attestazione; modifiche. a. In ordine al contenuto della proposta concorrente si è già detto che trova tranquilla applicazione ad essa l’art. 160, co. 1, il quale va ovviamente integrato da quanto precisato dal co. 5, ult. periodo, dell’art. 163, in ordine alla possibilità di prevedere in tale proposta, da un lato, l’intervento di terzi (e se ne è già parlato) e, dall’altro, «se il debitore ha la

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forma di società per azioni o a responsabilità limitata,…un aumento di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto di opzione» (si tornerà sul punto: v. infra, sub § ). Detto questo, e detto anche che la proposta concorrente, ai fini della sua ammissibilità né deve essere necessariamente omogenea a quella del debitore (quindi a fronte di una proposta del debitore di concordato in continuità ben può essere ammessa una proposta concorrente di concordato liquidatorio) né deve essere necessariamente migliorativa rispetto a quella del debitore (saranno i creditori in sede di votazione a scegliere la proposta per loro più conveniente), si pone però, in tema di contenuto della proposta concorrente, un problema di fondo: tale proposta ha (deve avere) ad oggetto comportamenti e impegni del creditore proponente o, invece, comportamenti e impegni del debitore? Per una parte della dottrina appunto in questo secondo senso si dovrebbe ricostruire la nuova figura, come dimostrerebbero, in particolare, le previsioni dei nuovi co. 3-6 dell’art. 185 e specificamente quella contenuta nel co. 3 (per il quale «Il debitore è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla proposta di concordato presentata da uno o più creditori, qualora sia stata approvata e omologata»), da cui risulterebbe che soggetto obbligato ad eseguire la proposta concorrente è (esclusivamente) il debitore. Ad avviso di chi scrive, questa linea ricostruttiva non può essere condivisa e per molteplici ragioni. Innanzi tutto, non si vede quale debba considerarsi la base normativa che consenta ad un creditore di assumere impegni vincolanti per il debitore. In secondo luogo, il nostro sistema conosce già ipotesi, nell’ambito delle soluzioni compositive giudiziali delle crisi di imprese, di concorrenza di proposte, del debitore e dei creditori: basta pensare al concordato fallimentare; e nessuno ha mai dubitato che, in quei contesti, ciascuna proposta, del debitore o del creditore o di un terzo che sia, può avere ad oggetto solo comportamenti e impegni del proponente, e non di altri. In terzo luogo, c’è una disposizione che elimina ogni possibile dubbio al riguardo. Si tratta del già citato ultimo periodo della lett. e) del co. 2 dell’art. 161, per il quale – ripetiamo – la proposta, qualsiasi proposta, deve «indicare l’utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile che il proponente si obbliga ad assicurare a ciascun creditore», da cui appare chiaramente che il proponente, qualsiasi proponente, è tenuto, a pena ovviamente di inammissibilità, ad assumere in proprio l’impegno oggetto della proposta. Dunque, la proposta concorrente del creditore deve avere ad oggetto comportamenti e impegni del medesimo creditore. Naturalmente si tratta di comportamenti ed impegni che riguardano e coinvolgono il patrimonio del debitore, da cui normalmente verranno tratti i mezzi per

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adempiere agli obblighi concordatari. Questo significa, pur nel silenzio della legge, che la proposta concorrente implicherà necessariamente la cessione al proponente, o quanto meno la messa a disposizione del medesimo, di quel patrimonio: secondo il meccanismo già noto e praticato nell’ipotesi di concordato con assunzione. È in relazione a tutto ciò che va individuata la portata dei nuovi co. 3-6 dell’art. 185: con essi – almeno in linea generale: discorso a parte va fatto, e lo si farà nel punto seguente, per il caso che la proposta preveda un aumento di capitale della società con esclusione o limitazione del diritto di opzione - non si è inteso addossare al debitore l’adempimento degli obblighi scaturenti dal concordato proposto dal creditore ed omologato dal tribunale; si è inteso invece imporre al debitore di compiere tutti gli atti necessari affinché il creditore proponente possa adempiere ai propri obblighi. b. Nel quadro generale delineato nel punto che precede la specifica ipotesi in cui tale proposta preveda un aumento di capitale della società debitrice con l’esclusione o la limitazione del diritto di opzione richiede qualche non irrilevante puntualizzazione. Innanzi tutto. La fattispecie è assai più articolata di quanto non appaia dalla scarna descrizione contenuta nell’art. 163, co. 5: essa comprende anche, necessariamente, la sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte del creditore proponente o di un terzo da questo indicato (sottoscrizione resa possibile dalla esclusione o limitazione del diritto di opzione spettante ai vecchi soci, che deve accompagnare l’aumento); l’acquisizione, attraverso tale strada, del controllo della società debitrice; e il soddisfacimento dei creditori per effetto diretto o indiretto dell’immissione di nuovi mezzi finanziari. Il che consente di individuare gli impegni che, in relazione a questo tipo di proposta, il creditore proponente (e l’eventuale terzo interveniente) deve assumere ai sensi della più volte ricordata lett. e) del co. 2 dell’art. 161: l’impegno a sottoscrivere l’aumento di capitale; l’impegno a fare in modo, una volta assunto il controllo della società debitrice, che quest’ultima soddisfi in una certa determinata misura i creditori. E consente di ricondurre anche questa ipotesi nel quadro delineato nel punto che precede: infatti l’obbligo (coercibile) della società debitrice di deliberare l’aumento viene a configurarsi propriamente non come adempimento del concordato, ma come realizzazione del presupposto per l’adempimento, che sarà dato invece dalla sottoscrizione dell’aumento da parte del creditore proponente, con quel che ne segue. In secondo luogo. Le previsioni di cui stiamo trattando vengono talvolta riguardate come “consacrazione” a livello normativo di quelle opi-

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nioni dottrinali secondo le quali sarebbe possibile deliberare l’azzeramento per perdite del capitale sociale e la ricostituzione del medesimo con esclusione del diritto di opzione. Ad avviso di chi scrive, il discorso va esattamente rovesciato: le suddette previsioni vanno interpretate ed applicate tenendo per fermo il principio della indisponibilità della qualità di socio da parte dell’assemblea: questo significa che ove si prevedesse l’azzeramento del capitale si potrebbe contemplare, per la connessa ricapitalizzazione, solo la limitazione del diritto di opzione (ad una quota minoritaria del nuovo capitale) e non invece l’esclusione. In terzo luogo. Nell’assetto disegnato dalle disposizioni che stiamo esaminando l’organizzazione societaria in quanto tale viene chiaramente a configurarsi come un asset contendibile, dotato di un proprio valore: del resto solo in questi termini si può comprendere perché un terzo possa preferire “acquisire” il controllo della società debitrice anziché acquistare direttamente il complesso aziendale. Anche di tale valore si dovrebbe tener conto quanto meno in sede di valutazione della convenienza della proposta. c. La proposta concorrente può prevedere diverse classi di creditori. In tale caso però la proposta – stabilisce il nuovo co. 7 dell’art. 163 - «prima di essere comunicata ai creditori ai sensi del secondo comma dell’articolo 171, deve essere sottoposta al giudizio del tribunale che verifica la correttezza dei criteri di formazione delle diverse classi» (in coerenza con quanto stabilito in generale dal co. 1 dello stesso art. 163). d. La proposta concorrente deve essere accompagnata dal relativo piano ed essere corredata della relazione di attestazione di cui al co. 3 dell’art. 161. Tale relazione peraltro, ai sensi del co. 4, ultimo periodo, dell’art. 163, «può essere limitata alla fattibilità del piano per gli aspetti che non siano già stati oggetto di verifica da parte del commissario giudiziale e può essere omessa qualora non ve ne siano». e. Anche le proposte concorrenti – così come quella del debitore – possono essere modificate, solo però fino a 15 giorni prima dell’adunanza dei creditori: così l’art. 172, co. 2. C’è da ritenere, a questo riguardo, che debba valere anche per le proposte concorrenti il disposto dell’art. 161, co. 3, ult. periodo e che quindi, nell’ipotesi di modifiche sostanziali di tali proposte o dei relativi piani, debba essere depositata una nuova relazione di attestazione.

4. Segue: termini di presentazione. La proposta concorrente deve essere presentata dopo il decreto con cui il tribunale abbia ammesso il debitore alla procedura di concorda-

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to preventivo (la legge non lo dice esplicitamente, ma si evince dalla stessa collocazione “topografica” delle disposizioni di cui stiamo parlando, oltre che dal contenuto delle medesime) e non oltre trenta giorni prima dell’adunanza dei creditori. Va sottolineato, a questo riguardo, che il secondo co. dello stesso art. 163 è stato riformulato portando il termine entro cui l’adunanza va tenuta da 30 a 120 giorni dalla data del provvedimento di ammissione: e ciò anche e proprio per consentire la presentazione e la comunicazione ai creditori delle (eventuali) proposte concorrenti.

5. Segue: controllo di ammissibilità. La legge non prevede, in via generale, un controllo del tribunale in ordine alla ammissibilità delle singole proposte concorrenti analogo a quello espressamente contemplato per la proposta del debitore. Che, tuttavia, un simile controllo debba esservi sembra sicuro: e non solo perché, come si è sottolineato prima, la proposta concorrente è equiparata in toto alla proposta del debitore, ma anche perché un simile controllo è espressamente contemplato con riferimento alla suddivisione in classi ed è implicitamente evocato dalla previsione della particolare condizione di inammissibilità delle proposte concorrenti di cui si è detto prima (§ 2, c). Inevitabilmente, l’ampiezza ed i limiti del controllo di ammissibilità sulle proposte concorrenti (da effettuarsi ovviamente prima della comunicazione delle medesime ai creditori) saranno, in generale, gli stessi del controllo di ammissibilità sulla proposta del debitore.

6. Segue: comunicazione ai creditori. La legge non stabilisce espressamente ed in generale che le proposte concorrenti debbano essere comunicate ai creditori. Che una apposita comunicazione debba esservi risulta comunque dalla contorta formulazione del già menzionato co. 7 dell’art. 163, ai sensi del quale la proposta concorrente che preveda diverse classi deve essere sottoposta al giudizio del tribunale «prima di essere comunicata ai creditori ai sensi del secondo comma dell’articolo 171». Il commissario giudiziale, dunque, ha l’onere di comunicare le proposte concorrenti, man mano che vengano presentate, con un avviso integrativo di quello previsto dall’art. 171.

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7. Segue: rinunzia del debitore alla domanda; revoca dell’ammissione. Problemi delicati e di non agevole soluzione sorgono nel caso di rinunzia del debitore alla domanda di concordato o in quello in cui, dopo il decreto ex art. 163 e prima dell’adunanza, intervenga la revoca dell’ammissione del debitore al concordato. Ci si deve chiedere, infatti, se in tali casi il procedimento debba avere termine con la “caducazione” delle proposte concorrenti oppure debba proseguire con riguardo ormai soltanto a tali proposte. Ad avviso di chi scrive la soluzione preferibile non può essere univoca, occorrendo distinguere tra rinunzia, appunto, e revoca dell’ammissione. i) Nel primo caso, sembrerebbe doversi ritenere – pur con tutti i dubbi legati all’assenza del benché minimo addentellato normativo – che la proposta concorrente del creditore sopravviva. Se è vero, infatti, che solo il debitore è legittimato a presentare la domanda e la proposta, mentre i creditori possono presentare solo una proposta concorrente, non anche una domanda concorrente; sembra tuttavia corretto ritenere che, una volta ammesso il debitore alla procedura di concordato, il creditore che abbia legittimamente presentato una proposta alternativa, abbia anche implicitamente fatto propria l’istanza dell’imprenditore in crisi. In tal modo, quest’ultimo potrà rinunciare soltanto alla proposta originariamente presentata, non già alla procedura concordataria tout court. D’altra parte, sarebbe quanto meno criticabile un sistema che, per un verso, “spingesse” verso un modello efficientista, basato – giova ripeterlo – sulla massima recovery per i creditori concorrenti; e, per altro verso, consentisse al debitore di tornare volontariamente sui suoi passi, travolgendo, di fatto, l’efficacia di quei comportamenti (la presentazione delle proposte concorrenti), che nell’ottica del legislatore assicurano il raggiungimento di quell’obiettivo. Certo è, comunque, che anche tale soluzione non è per nulla tranquillizzante, innescando una serie di complicazioni in punto di adattamento di una normativa pensata in funzione della presenza del debitore proponente ad un procedimento che tale presenza potrebbe ancora vedere, ma in posizione assolutamente marginale (un esempio per tutti: l‘amministrazione del patrimonio resta in capo al debitore rinunziante, o deve essere nominato un “gestore” ad hoc?). ii) Quanto al secondo caso, resta il fatto che l’art. 173 non è stato modificato dalla novella, dovendosi dunque ritenere applicabile anche

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in presenza di proposte concorrenti. La revoca dell’ammissione al concordato, soprattutto ove conduca alla dichiarazione di fallimento del debitore, sembrerebbe inevitabilmente rendere di fatto improseguibile la proposta concorrente eventualmente avanzata dal creditore. In tale caso, si pone il dubbio circa la possibilità, per il creditore che abbia sopportato i costi legati alla presentazione della proposta concorrente, di chiedere, nel fallimento successivo, il risarcimento dei danni qualora la revoca sia dipesa da comportamenti contra legem del debitore.

8. L’intervento del commissario giudiziale. Con riguardo alle proposte concorrenti il commissario giudiziale giuoca un ruolo fondamentale. Si è già parlato, nel § 2, dell’obbligo del commissario sia di fornire ai creditori tutte le informazioni utili alla predisposizione di proposte concorrenti sia di comunicare ai creditori le proposte concorrenti effettivamente presentate. Ora va detto che il commissario: - ai sensi dell’art. 172, co. 2, deve riferire in merito alla proposte concorrenti con una apposita relazione integrativa (di quella particolareggiata di cui al primo co. dello stesso art. 172), da depositare in cancelleria e comunicare ai creditori per p.e.c. almeno 10 giorni prima dell’adunanza dei creditori; relazione che «contiene, di regola, una particolareggiata comparazione di tutte le proposte presentate»; - ai sensi dell’art. 175, co. 1, deve in sede di adunanza illustrare le sue relazioni nonché le proposte definitive del debitore e quelle concorrenti dei creditori.

9. Discussione e votazione. a. In sede di adunanza debbono ovviamente essere discusse tutte le proposte presentate e quindi anche quelle concorrenti. Specificamente, ai sensi del nuovo co.3 dell’art. 175, da un lato, «Ciascun creditore può esporre le ragioni per le quali non ritiene ammissibili o convenienti le proposte di concordato» e, dall’altro, «Il debitore può esporre le ragioni per le quali non ritiene ammissibili o fattibili le eventuali proposte concorrenti». b. Non vi è alcuna disciplina particolare per ciò che riguarda l’ammissione al voto sulle proposte concorrenti. È solo previsto, dal nuovo co. 6 dell’art. 163, che «I creditori che presentano una proposta di concordato concorrente hanno diritto di voto sulla medesima solo se collocati in una autonoma classe»: tale previsione viene spiegata, nella relazione al

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disegno di legge di conversione del decreto n. 83, anche con il «fine di consentire ai creditori esterni la possibilità di contestare la convenienza del concordato ex art. 180, quarto comma» (spiegazione, per la verità, decisamente criptica). Nel silenzio della legge devono ritenersi non operanti, con riferimento alle proposte concorrenti, le cause di esclusione dal voto previste, relativamente alla proposta del debitore, dall’art. 177, ult. co. Se rispetto allo stesso creditore proponente la legge ha ritenuto, come abbiamo appena visto, di escludere la sussistenza o comunque la rilevanza del conflitto di interessi, a maggior ragione tale esclusione deve affermarsi con riguardo ai creditori “particolarmente relazionati” con il creditore proponente. c. Ai sensi dell’art. 175, co. 5, «Sono sottoposte alla votazione dei creditori tutte le proposte presentate dal debitore e dai creditori, seguendo, per queste ultime, l’ordine temporale del loro deposito». Da questa disposizione appare chiaro che ciascuna proposta è sottoposta distintamente alla votazione e che la prima proposta messa in votazione è quella del debitore. Stabilisce poi la nuova seconda parte dell’art. 177, co. 1, che, quando siano poste al voto più proposte di concordato, «si considera approvata la proposta che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto; in caso di parità, prevale quella del debitore o, in caso di parità fra proposte di creditori, quella presentata per prima. Quando nessuna delle proposte concorrenti poste al voto sia stata approvata con le maggioranze di cui al primo e secondo periodo del presente comma, il giudice delegato, con decreto da adottare entro trenta giorni dal termine di cui al quarto comma dell’articolo 178, rimette al voto la sola proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto, fissando il termine per la comunicazione ai creditori e il termine a partire dal quale i creditori, nei venti giorni successivi, possono far pervenire il proprio voto con le modalità previste dal predetto articolo. In ogni caso si applicano il primo e secondo periodo del presente comma». La formulazione è abbastanza contorta e in qualche passaggio può apparire contraddittoria. Il senso sembra comunque da ricostruire in questo modo: - si verifica se e quali proposte siano state approvate con le maggioranze previste dai primi due periodi del comma 1 (maggioranza dei crediti ammessi al voto; maggioranza nel maggior numero di classi); - nell’ipotesi che solo una delle diverse proposte sia stata approvata con le suddette maggioranze, il discorso si chiude; - nell’ipotesi che siano state approvate con quelle maggioranze due

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o più proposte, prevale quella che ha conseguito la maggioranza più elevata dei crediti ammessi al voto; in caso di parità prevale quella del debitore o, se la parità concerne solo proposte di creditori, quella presentata prima; - se nessuna delle proposte consegue le maggioranze previste dai primi due periodi del primo comma, il giudice delegato rimette al voto solo la proposta che ha conseguito la maggioranza relativa dei crediti ammessi al voto; - tale proposta dovrà ancora una volta essere approvata con le maggioranze previste dai primi due periodi del primo comma. Resta qualche dubbio. In particolare: che succede se due delle proposte abbiano conseguito la stessa maggioranza relativa? Si rimettono entrambe al voto o si adottano i criteri di scelta previsti per l’ipotesi di parità di proposte approvate?

10. Omologazione e relativi effetti. a. Nulla ha stabilito il legislatore del 2015 con riguardo alla fase successiva alla votazione nell’ipotesi che a tale votazione siano state presentate anche proposte concorrenti: un silenzio – può notarsi – espressione ancora una volta dell’approssimazione con cui quel legislatore ha proceduto nel disciplinare le nuove figure o i nuovi istituti che ha ritenuto di introdurre. È quindi alle sole disposizioni generali che si deve far riferimento. Nessun particolare problema dovrebbe sorgere nel caso in cui nessuna delle proposte, né quella del debitore né una di quelle concorrenti, venga approvata. Non potrebbe infatti che trovare applicazione l’art. 179, co. 1: il giudice delegato dovrà informarne immediatamente il tribunale, che dovrà dichiarare l’inammissibilità, è da ritenere, di tutte le proposte, con la possibilità – sussistendone i presupposti – di dichiarare il fallimento del debitore. Nel caso in cui dovesse essere approvata la proposta del debitore, nulla quaestio: si applicherebbe tranquillamente l’art. 180. Qualche complicazione sembrerebbe potersi determinare, invece, nell’ipotesi che sia approvata una proposta concorrente: si può, nell’applicare l’art. 180, sostituire il creditore proponente al debitore e, quindi, addossare a quello l’obbligo di notificare il decreto di fissazione dell’udienza di omologazione e di costituirsi almeno dieci giorni prima? Probabilmente sì. Resterebbe però, in tale caso, il problema di stabilire se comunque anche il debitore debba essere (rimanere) parte di questa fase procedimentale. Quel che appare sicuro è che al debitore debba riconoscersi il potere di proporre opposizione all’omologazione.

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b. La legge tace completamente anche sugli effetti della omologazione nell’ipotesi in cui ad essere approvata e omologata è non la proposta del debitore ma quella concorrente di un creditore. I più rilevanti punti critici sono tre: - se nel caso (normale) in cui la proposta concorrente abbia trovato la propria base nell’utilizzo dei beni del debitore, l’omologazione comporti il trasferimento del patrimonio al proponente; - se si produca a favore del debitore medesimo l’esdebitazione conseguente all’art. 184 per il quale «Il concordato omologato è obbligatorio per tutti i creditori anteriori alla pubblicazione nel registro delle imprese del ricorso di cui all’art. 161»; - se l’omologazione determini la liberazione immediata del debitore. Con riguardo al primo punto, sembra doversi applicare la regola elaborata per l’ipotesi di concordato con assunzione, e cioè che il trasferimento segua alla definitività del decreto di omologazione, salvo che la proposta o il piano concordatario preveda il trasferimento solo quando gli obblighi concordatari siano stati integralmente adempiuti. Con riguardo al secondo punto, la risposta sembra dover essere affermativa, anche alla luce di quanto rilevato in premessa (retro, § 1), e cioè che il legislatore ha mostrato di voler costruire la proposta concorrente come, in principio, equipollente, sul piano degli effetti, a quella del debitore. Del resto, come è stato giustamente rilevato da taluni commentatori, avendo la proposta concorrente a propria base, direttamente o indirettamente, l’utilizzo dei beni del debitore, questo comunque perderà tali beni a beneficio dei creditori, realizzandosi allora l’ordinario “scambio” che giustifica l’esdebitazione. Quanto al terzo punto. Secondo parte della dottrina, la liberazione immediata del debitore sarebbe indispensabile, per evitare conseguenze inique a danno del medesimo. In realtà, il silenzio della legge sembra imporre sul punto una risposta negativa (salvo che le condizioni del concordato prevedano espressamente quella liberazione: ma è, questa, evenienza assolutamente teorica), con tutto ciò che allora può derivarne (v. infra, § 12).

11. Esecuzione della proposta concorrente approvata ed omologata. a. Si è già accennato, in precedenza, alla particolare disciplina dettata dalla nuova legge in ordine all’esecuzione di una proposta di concordato preventivo presentata da uno o più creditori che sia stata approvata e omologata (retro, § 3). Si sono menzionate le disposizioni, recate dai nuovi co. 3-6 dell’art. 185 e si è precisato quale debba in generale essere

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– ad avviso di chi scrive - la portata da assegnare a quelle disposizioni: con esse, non si è inteso addossare al debitore l’adempimento degli obblighi scaturenti dal concordato proposto dal creditore e omologato dal tribunale; si è inteso invece imporre al debitore di compiere tutto quanto la situazione richiede affinché il creditore proponente possa adempiere ai propri obblighi. Qui resta da chiarire più compiutamente il funzionamento dei meccanismi previsti dalle norme in esame. b. A norma del co. 3, dunque, «il debitore è tenuto a compiere ogni atto necessario a dare esecuzione» alla proposta concorrente: si tratterà essenzialmente – è da ritenere – di atti e attività di ordine materiale, come, per esempio, la messa a disposizione del patrimonio o di singoli beni. Il rispetto di questo obbligo è presidiato da un articolato (e chiaramente sovrabbondante) ventaglio di misure “correttive” e precisamente: - il commissario giudiziale, nel caso «in cui rilevi che il debitore non sta provvedendo al compimento degli atti necessari a dare esecuzione alla suddetta proposta o ne sta ritardando il compimento, deve senza indugio riferirne al tribunale. Il tribunale, sentito il debitore, può attribuire al commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al compimento degli atti a questo richiesti» (co. 4); - «il soggetto che ha presentato la proposta di concordato approvata e omologata dai creditori può denunziare al tribunale i ritardi o le omissioni da parte del debitore, mediante ricorso al tribunale notificato al debitore e al commissario giudiziale, con il quale può chiedere al tribunale di attribuire al commissario giudiziale i poteri necessari a provvedere in luogo del debitore al compimento degli atti a questo richiesti» (co.5); - se si tratta di società «fermo restando il disposto dell’art. 173, il tribunale, sentiti in camera di consiglio il debitore e il commissario giudiziale, può revocare l’organo amministrativo… e nominare un amministratore giudiziario stabilendo la durata del suo incarico e attribuendogli il potere di compiere ogni atto necessario a dare esecuzione alla suddetta proposta» (co. 6). Chiaro essendo – in sé considerato ed in linea generale – il meccanismo sostitutivo previsto nelle tre ipotesi (il commissario giudiziale o l’amministratore giudiziario si sostituisce appunto al debitore nel compiere quanto necessario a consentire al creditore che ha presentato la proposta concorrente approvata e omologata di adempiere agli obblighi assunti), non è chiaro il senso di questa “moltiplicazione” di figure: le prime due sono pressoché identiche differendo solo sul piano dell’iniziativa (nell’un caso si attiva il commissario giudiziale, nell’altro è il creditore proponente che chiede di disporre la sostituzione); quanto alla terza, non si capisce perché nel caso di società il tribunale, avendo già a

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disposizione lo strumento, appunto, della sostituzione del debitore con il commissario giudiziale dovrebbe preferire addirittura la misura molto più drastica (perché incide sull’organizzazione stessa della società e sull’intera sua attività) della revoca degli amministratori e della loro sostituzione con un amministratore giudiziario. Questa misura, in realtà, può (forse) avere una qualche giustificazione solo con riguardo al caso specifico e specificamente menzionato in cui la proposta concorrente preveda un aumento di capitale (e ne parleremo fra poco), certamente non nella generalità dei casi di inosservanza degli obblighi posti dal co.3 dell’art. 185. Decisamente criptico (per non dire espressione di autentica non conoscenza delle norme previgenti) è il riferimento del co. 6 al disposto dell’art. 173, dal momento che, per un verso, l’ambito di operatività di tale norma non può essere esteso alla fase successiva all’omologazione e, per altro verso, l’inosservanza degli obblighi posti dal co. 3 dell’art. 185 nulla ha a che vedere con i comportamenti nella medesima norma contemplati e, per altro verso ancora, non si comprende come essa norma dovrebbe nella specie operare. c. Sempre nel co. 6 si precisa che, qualora la proposta abbia previsto un aumento del capitale sociale del debitore, il potere conferito all’amministratore giudiziario include «la convocazione dell’assemblea straordinaria dei soci avente ad oggetto la delibera di tale aumento di capitale e l’esercizio del voto nella stessa». È appena il caso di sottolineare che questa misura – che si traduce in una disattivazione delle regole di funzionamento dell’organizzazione societaria - costituisce un unicum nel nostro sistema delle procedure concorsuali, nell’ambito delle quali le competenze degli organi delle società ad esse assoggettate non vengono di regola minimamente toccate. Nella relazione al disegno di legge di conversione del d.l. n. 83 l’introduzione di questa misura viene, da un lato, collegata ad «un’esigenza sempre più avvertita sul piano internazionale» (come dimostrerebbero recenti sviluppi normativi di portata analoga in alcuni paesi comunitari) e, dall’altro, giustificata con la necessità di «evitare che i soci esercitino il loro potere di veto sulle operazioni societarie straordinarie al fine di estrarre valore a scapito dei creditori sociali». Al riguardo va osservato, innanzi tutto, che, se è vero che taluni ordinamenti a noi vicini da tempo conoscono misure “espropriative” dei poteri degli azionisti di società in crisi (la Francia, per esempio, le conosce fin dalla legge del 1985), non è meno vero che l’importazione episodica di “brandelli” di sistemi normativi altrui può non essere una buona soluzione (tanto più quando, come nel nostro caso, l’importazione sia anche maldestra, come dimostra l’utilizzazione della figura dell’amministratore giudiziario, certamente sproporzionata rispetto

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alle esigenze da soddisfare: non a caso, nell’ordinamento francese, si utilizza la figura del mandatario ad hoc). E va osservato, in secondo luogo, che il meccanismo coattivo escogitato può tradursi nella sostituzione del creditore proponente agli azionisti, nell’estrazione di valore dalla società in crisi in danno della generalità dei creditori. Detto questo, deve rilevarsi che, con l’attribuzione all’amministratore giudiziario del potere non solo di convocare l’assemblea ma anche di esercitare in essa il voto, si ricade nella previsione dell’art. 92, ult. co., cod. civ., ai sensi del quale «all’amministratore giudiziario possono essere attribuiti per determinati atti i poteri dell’assemblea» (ed è probabilmente in relazione a ciò che si è ritenuto di scegliere questa figura): ma se ciò è vero, ne deriva che la deliberazione (relativa all’aumento di capitale) assunta dall’amministratore giudiziario, per essere efficace, dovrà essere approvata dal tribunale ai sensi dell’ultima parte del citato art. 92 disp. att. d. La “confusione” che sembra aver appannato il nostro legislatore ha raggiunto l’acme con la previsione dell’ultimo periodo del co.6 ove si stabilisce che «Quando è stato nominato il liquidatore a norma dell’articolo 182, i compiti di amministratore giudiziario possono essere a lui attribuiti». Se la ragione della scelta della nomina dell’amministratore giudiziario sta nelle particolari esigenze scaturenti dalla previsione nella proposta concorrente di un aumento di capitale della società debitrice con esclusione o limitazione del diritto di opzione, sembra chiaro che tale figura, che è quella di un “organo straordinario” della società, non dovrebbe poter essere sovrapposta alla figura del liquidatore ex art. 182, che è da riguardare sostanzialmente come un vero e proprio organo della procedura di concordato. e. La legge tace completamente sui possibili rimedi contro gli atti compiuti dal commissario giudiziale o dall’amministratore giudiziario nell’espletamento dei compiti di cui stiamo trattando. Comunque, per quanto riguarda gli atti del commissario sarà proponibile, giusta il disposto dell’art. 165, co. 2, il reclamo ai sensi dell’art. 36; per quanto riguarda gli atti dell’amministratore giudiziario devono invece ritenersi utilizzabili solo i normali strumenti di tutela previsti dal diritto comune.

12. Risoluzione e annullamento del concordato. È tutt’altro che chiaro – al solito: per il silenzio della legge – il modo in cui debba trovare applicazione, nell’ipotesi in cui sia stata approvata ed omologata una proposta concorrente, la disciplina dettata dalla legge fallimentare in materia di risoluzione e di annullamento del concordato.

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Comunque, ad avviso di chi scrive, essendosi escluso che in quella ipotesi vi sia liberazione immediata del debitore (retro, § 10) , l’inadempimento ai propri obblighi da parte del proponente, ove di non scarsa importanza, determinerà la risoluzione del concordato, con tutte le conseguenze che potranno derivarne a carico del debitore. Del pari, sempre ad avviso di chi scrive, la sussistenza delle circostanze di cui all’art. 138 (dolosa esagerazione del passivo, ecc.), pur essendo esse imputabili al debitore determinerà, in relazione all’idoneità di tali circostanze a falsare le basi stesse del concordato, l’annullamento del medesimo.

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INDICI DELL’ANNATA PARTE SECONDA DOCUMENTI E INFORMAZIONI Gli organismi di composizione delle crisi da sovraindebitamento – D.M. 24 settembre 2014 n. 202 – Regolamento recante i requisiti di iscrizione nel registro degli organismi di composizione delle crisi da sovraindebitamento, con osservazioni di Alessandro Nigro pag.

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LEGISLAZIONE Accordi di ristrutturazione e convenzioni di moratoria –R.d. 16 marzo 1942, n. 267 – Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa (come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132); Relazione governativa al disegno di legge di conversione in legge del d.l. 27 giugno 2015, n. 83 presentata alal Camera dei Deputati – Misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria Accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria, di Daniele Vattermoli Concordato preventivo e proposte concorrenti – R.d. 16 marzo 1942 n. 267 – Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa (come modificato dal d.l. 27 giugno 2015, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 6 agosto 2015, n. 132) Le proposte concorrenti nel concordato preventivo, di Alessandro Nigro e Daniele Vattermoli La riforma delle banche popolari – D.l. 24 gennaio 2015, n, 3, convertito con modificazioni dalla l. 24 marzo 2015, n. 33 – Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, con osservazioni di Francesco Mazzini

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NORME REDAZIONALI

I. Note 1. Le note debbono essere collocate a pie’ di pagina con numerazione continua e progressiva. 2. La numerazione delle note non deve mai iniziare dal titolo (se necessario, può apporsi un asterisco al titolo, per qualche specificazione particolare; per esempio: “testo della relazione presentata…”)

II. Criteri di citazione 1. Gli articoli di legge vanno citati come segue: - art. 2221 c.c. - art. 2332, co. 1, c.c. 2. I libri vanno citati nel seguente modo: Belli, Legislazione bancaria italiana (1861-2003), Torino, 2004, p. … - Nel caso di più autori, vanno adottati i seguenti modelli: Maimeri, A. Nigro e Santoro, Contratti bancari. 1. Le operazioni bancarie in conto corrente, Milano, 1991, p. …; Allegri ed altri, Diritto commerciale4 , Bologna, 2004, p. … - Nel caso di opere con uno o più curatori, va adottato il seguente modello: Belli e Santoro, a cura di, La banca centrale europea, Milano, 2003, p. … - L’iniziale del nome di battesimo va inserita solo in caso di omonimia. Per esempio: M. Sandulli, Le attività di investimento delle Fondazioni bancarie, in Dir. banc., 2004, I, p. … - Nel caso di pluralità di edizioni, il numero dell’edizione va sempre indicato come segue: Costi, L’ordinamento bancario3, Bologna, 2001. 3. Le voci di enciclopedie vanno citate nel seguente modo: Angelici, Società per azioni e in accomandita per azioni, in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, p. …

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Norme redazionali

4. Gli articoli vanno citati nel seguente modo: Santoro, Garanzia della solvenza della società a responsabilità limitata in caso di circolazione dei titoli di debito, in Dir. banc., 2004, I, p. … 5. I saggi o commenti inseriti in opere collettanee vanno citati nel seguente modo: A. Nigro, Imprese commerciali e imprese soggette a registrazione2, in Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, 15**, Torino, 2001, p. … 6. Le citazioni successive alla prima vanno fatte nel seguente modo: Belli, Legislazione, cit., p. …; Costi, L’ordinamento, cit., p. … 7. Le sentenze vanno citate nel seguente modo: - Cass., 8 aprile 2004, n. 6943, in Foro it., 2004, I, 1713 - App. Milano, 6 aprile 2004, in Il fallimento, 2005, 768 - Trib. Mantova, 24 marzo 2004, in Il fallimento, 2004, 1161. N.B.: occorre attenersi scrupolosamente alle abbreviazioni di cui all’elenco che segue e va omessa l’indicazione p. (pagina) o c. (colonna).

III. Abbreviazioni 1. Fonti normative codice civile c.c. codice di commercio c.comm. Costituzione Cost. codice di procedura civile c.p.c. codice penale c.p. codice di procedura penale c.p.p. decreto d. decreto legislativo d.lgs. decreto legge d.l. decreto legge luogotenenziale d.l. luog. decreto ministeriale d.m. decreto del Presidente della Repubblica d.P.R. disposizioni sulla legge in generale d.prel. disposizioni di attuazione disp.att. disposizioni transitorie disp.trans. legge fallimentare l.fall.

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Norme redazionali

legge cambiaria testo unico testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1-9-1993, n. 583) testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria (d.lgs. 24-2-1998. n. 58)

l.camb. t.u. t.u.b. t.u.f.

2. Autorità giudiziarie Corte Costituzionale C. Cost. Corte di Cassazione Cass. Sezioni unite S. U. Consiglio di Stato Cons. St. Corte d’Appello App. Tribunale Trib. Tribunale amministrativo regionale TAR 3. Riviste; enciclopedie. Archivio civile Arch. civ. Banca, borsa e titoli di credito Banca, borsa, tit. cred. Banca, impresa e società Banca, impresa, soc. Bancaria Banc. Banche e banchieri Banche e banc. Contratto e impresa Contr. e impr. Contratti Contr. Corriere giuridico Corr. giur. Digesto IV ed. Dig. disc. priv., sez. comm. Dig. disc. priv., sez. civ. Dig. disc. pen. Dig. disc. pubbl. Diritto amministrativo Dir. amm. Diritto della banca e dei mercati finanziari Dir. banc. Diritto del commercio internazionale Dir. comm. int. Diritto dell’economia Dir. econ. Diritto e pratica nell’assicurazione Dir. e prat. assic. Diritto fallimentare (e delle società commerciali) Dir. fall. Diritto e giurisprudenza Dir. e giur.

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Diritto industriale Dir. ind. Diritto dell’informazione e dell’informatica Dir. inform. Economia e credito Econ. e cred. Enciclopedia del diritto Enc. dir. Enciclopedia giuridica Treccani Enc. giur. Europa e diritto privato Europa e dir. priv. Foro italiano (il) Foro it. Foro napoletano (il) Foro nap. Foro padano (il) Foro pad. Giurisprudenza commerciale Giur. comm. Giurisprudenza costituzionale Giur. cost. Giurisprudenza italiana Giur. it. Giurisprudenza di merito Giur. merito Giustizia civile Giust. civ. Il fallimento Il fallimento Jus Jus Le società Le società Notariato (11) Notariato Novissimo Digesto italiano Noviss. Dig. it. Nuova giurisprudenza civile commentata Nuova giur. civ. comm. Nuove leggi civili commentate (le) Nuove leggi civ. Quadrimestre Quadr. Rassegna di diritto civile Rass. dir. civ. Rassegna di diritto pubblico Rass. dir. pubbl. Rivista bancaria Riv. banc. Rivista critica di diritto privato Riv. crit. dir. priv. Rivista dei dottori commercialisti Riv. dott. comm. Rivista della cooperazione Riv. coop. Rivista delle società Riv. soc. Rivista del diritto commerciale Riv. dir. comm. Rivista del notariato Riv. not. Rivista di diritto civile Riv. dir. civ. Rivista di diritto internazionale Riv. dir. internaz. Rivista di diritto privato Riv. dir. priv. Rivista di diritto processuale Riv. dir. proc. Rivista di diritto pubblico Riv. dir. pubbl. Rivista di diritto societario RDS Rivista giuridica sarda Riv. giur. sarda Rivista italiana del leasing Riv. it. leasing Rivista trimestrale di diritto e procedura civile Riv. trim. dir. proc. civ. Vita notarile Vita not.

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4. Commentari, trattati Il codice civile. Comm., diretto da Schlesin­ger, e diretto da Busnelli, Milano, Comm. cod. civ., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, Comm. Scialoja-Branca. Legge fall. a cu­ra di Bricola, Galgano, Santini, Bologna-Roma, Tratt. dir. civ., diretto da Sacco, Torino, Tratt. dir. civ., fondato da Vassalli, Torino, Tratt. dir. civ. comm., già diretto da Cicu, Messineo, Mengoni e continuato da Schlesinger, Milano, Tratt. dir. comm., diretto da Buonocore, To­rino, Tratt. dir. comm., diretto da Cottino, Padova, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., diretto da Galgano, Padova, Tratt. dir. priv., diretto da M. Bessone, Torino, Tratt. dir. priv., a cura di ludica e Zatti, Milano, Tratt. dir. priv., diretto da Rescigno, Tori­no, Tratt. soc. per az., diretto da Co­lombo e Portale, Torino, Va sempre indicato l’anno di pubblicazione del volume

IV. Gli scritti, su dischetto e su carta, vanno inviati alla Direzione della rivista (prof. Alessandro Nigro, viale Regina Margherita 290, 00198 Roma). È indispensabile l’indicazione nella prima pagina dello scritto (in alto a destra, prima del titolo) dell’indirizzo al quale andranno inviate le bozze.

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Rivista trimestrale del Ce.Di.B. - Centro studi di Diritto e legislazione Bancaria Cedola di sottoscrizione - Abbonamento 2016 (4 fascicoli): € 110,00 Il prezzo dei singoli fascicoli è di € 35,00 Modalità di Pagamento ☐ assegno bancario (non trasferibile) intestato a PACINI EDITORE Srl - PISA ☐ versamento su conto corrente postale n. 10370567 intestato a PACINI EDITORE Srl - PISA (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ bonifico bancario sul c.c. n. IBAN IT 67 G 01030 14010 000000561171 Banca Monte dei Paschi di Siena (per accelerare le pratiche si prega di inviare via fax la ricevuta dell’avvenuto pagamento al numero 050 3130301) ☐ a ricevimento fattura (secondo modalità indicate in fattura) (opzione valida solo per librerie, commissionarie librarie, case editrici e istituti/enti) ☐ carta di credito ☐ MasterCard ☐ VISA Carta n. ...................... Data di scadenza ....................... Nome, Cognome o Ragione Sociale: ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... P. Iva (se in possesso) e C. Fiscale (obbligatorio per tutti): ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Indirizzo ........................................................................................................................................................................... ........................................................................................................................................................................... Firma.................................................................

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